ANNO LXV - N. 2 APRILE - GIUGNO 2013 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D�Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Marina Russo - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Alessandra Bruni, Antonio Vincenzo Castorina, Enrico De Giovanni, Gianna Maria De Socio, Ettore Figliolia, Fabrizio Gallo, Giuliano Gambardella, Michele Gerardo, Federico Maria Giuliani, Nicol� Guasconi, Francesco Mataluni, Adolfo Mutarelli, Glauco Nori, Giustina Noviello, Vincenzo Nunziata, Carmela Pluchino, Diana Ranucci. Valeria Romano, Massimo Salvatorelli, Agnese Soldani, Francesco Spada, Fabio Tortora, Cesare Trecroci, Sabrina Trivelloni, Fabrizio Urbani Neri. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829562 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................� 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. � 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Protocollo d�intesa tra Avvocatura dello Stato ed Agenzia delle Entrate Gianna Maria De Socio, Gestione del contenzioso relativo a strutture commissariali cessate dopo la chiusura dello stato di emergenza. Art. 3 D.L. n. 59/2012. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Stefano Varone, Corte di Giustizia UE 4 luglio 2013 causa C-100/2012: note minime sui rapporti fra ricorso principale e ricorso incidentale �escludente�. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sabrina Trivelloni, Attivit� di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house, accordi fra pubbliche amministrazioni, e alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia dell�Unione Europea e della giurisprudenza nazionale. Interpretazione della sentenza CGUE 19 dicembre 2012, C-159/11 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Glauco Nori, Una questione di principio sulla sentenza FIOM (C. cost., sent. 23 luglio 2013 n. 213) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Indennizzo di danni da emotrasfusione anche per contagio da emodialisi (Cass. civ., Sez. III, sent. 16 aprile 2013 n. 9148) . . . . . . . Maurizio Borgo, Competenza del giudice ordinario sui respingimenti di- feriti dello straniero (Cass. civ., Sez. Un., sent. 17 giugno 2013 n. 15115) Fabrizio Gallo, La protezione umanitaria nell�interpretazione delle corti territoriali calabresi e delle giurisdizioni superiori. . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, Confermata in appello l�accertamento della demanialit� �sopravvenuta� delle acque del lago Lucrino (Trib. sup. acque, sent. 4 dicembre 2012 n. 164). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Valeria Romano, Potere amministrativo implicito e atto amministrativo implicito: ammissibilit� e condizioni di legittimit� dell�uno e dell�altro (Cons. St., Sez. VI, sent. 2 maggio 2012 n. 2521). . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Vincenzo Castorina, L�onere della prova in tema di illegittima aggiudicazione di appalti pubblici e il recente orientamento della Corte di Giustizia (Cons. St., Sez. V, sent. 8 novembre 2012 n. 5686) . . . . . . . Giustina Noviello, Provvedimento disciplinare inflitto a magistrato ordinario (Tar Lazio, Sez. I quater, sent. 23 maggio 2013 n. 4064) . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Enrico De Giovanni, Appalto di opere pubbliche: modalit� di cessione del credito vantato verso una P.A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 �� 10 �� 37 �� 50 �� 67 �� 78 �� 85 �� 90 �� 99 �� 106 �� 128 �� 146 �� 153 Agnese Soldani, Prevalenza del criterio di specialit� per le assunzioni a tempo indeterminato presso l�AGCM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 155 Ettore Figliolia, Interpretazione art. 1, co. 19 e segg., L. 190/2012 in materia di arbitrato dei lavori pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 157 Carmela Pluchino, Spese di giustizia: oneri del contributo unificato anche in caso di �soccombenza virtuale� . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 161 Fabrizio Urbani Neri, Risarcimento per �danno all�immagine di una P.A.� a seguito di reati perpetrati da pubblico ufficiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 �� Agnese Soldani, Spese di giustizia: oneri del contributo unificato in caso di soccombenza reciproca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 165 Ettore Figliolia, Sulla giustiziabilit� immediata delle riserve iscritte dal contraente generale ante collaudo delle opere in appalto . . . . . . . . . . . . �� 166 Massimo Santoro, Rimborso spese legali ex art. 32 l. n. 152/1975: procedimenti conclusi con sentenza di prescrizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169 �� Giuseppe Albenzio, Applicabilit� del termine, previsto dall�art. 2 l. n. 241/1990 e s.m.i. per la conclusione del procedimento amministrativo, all�autotutela in materia tributaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 174 Marina Russo, Sull�affidamento della gestione del Fondo per i l sostegno finanziario dell�internalizzazione del sistema produttivo (Fondo Pubblico di Venture Capital - FVC). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 180 Fabio Tortora, Accise: sanzioni per la tutela del bene giuridico sostanziale (evasione/tentata evasione di imposta) e sanzioni per la tutela del bene giuridico formale (mancata/non corretta dichiarazione in via telematica) �� 185 Vincenzo Nunziata, Criteri interpretativi delle ordinanze cautelari in materia di appalti pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 �� Massimo Salvatorelli, Domanda di accesso al Fondo di rotazione per la solidariet� alle vittime dei reati di tipo mafioso. Legge 22 dicembre 1999, n. 512 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 192 Diana Ranucci, Utilizzazione del R.D. 14 aprile 1910 n. 639 nelle procedure di rimborso a favore della P.A.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 194 LEGISLAZIONE ED ATTUALIT� Alessandra Bruni, Nicol� Guasconi, Lo Stato ferito: con la sentenza in commento un contributo sui reati compiuti nel corso delle manifestazioni (nota a Trib. Roma, Sez. VII, sent. 30 novembre 2012 n. 16442) . . . . . . �� 199 Michele Gerardo, Adolfo Mutarelli, Il pubblico impiego dinanzi alla Riforma Fornero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 219 Federico Maria Giuliani, Finanziameti bancari rogati all�estero tra regime civilistico e imposta sostitutiva del registro (Nota a Risoluzione n. 20/E in data 28 marzo 2013 della Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 231 Francesco Mataluni, Sulla azione per l�efficienza amministrativa introdotta con il D. lgs. 198/2009 con riferimento ai primi orientamenti giurisprudenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 239 Francesco Spada, Le disposizioni in materia di inconferibilit� e incompatibiulit� di incarichi di cui al d.lgs. n. 39/2013 . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 261 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Lorenzo D�Ascia, L�atto presupposto nel diritto tributario. . . . . . . . . . . �� 271 Giuliano Gambardella, Osservazioni sul libro III, titolo I del codice del processo amministrativo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 289 Cesare Trecroci, Il risarcimento del danno per equivalente da aggiudicazione illegittima. Alcune osservazioni in materia di decadenza dell�azione di condanna, prescrizione e quantum risarcibile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . �� 334 temi istituzionali TEMI ISTITUZIONALI PROTOCOLLO D�INTESA TRA AVVOCATURA DELLO STATO ED AGENZIA DELLE ENTRATE Considerato che, ai sensi dell�art. 72 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, l�Agenzia delle Entrate (di seguito denominata anche solo Agenzia) pu� avvalersi del patrocinio dell�Avvocatura dello Stato (di seguito denominata anche solo Avvocatura) ai sensi dell�art. 43 del testo unico approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e che, in base a tale ultima disposizione, l�Avvocatura � autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa del- l�Agenzia, salve le ipotesi di conflitto ed i casi speciali ivi previsti; Ritenuta l�opportunit� di disciplinare, sulla base della distinzione dei ruoli e delle competenze e del riconoscimento delle rispettive responsabilit�, le modalit� di cooperazione tra l�Agenzia e l�Avvocatura, al fine di assicurare nel modo migliore la piena tutela degli interessi pubblici coinvolti, prevedendo anche forme snelle e semplificate di relazioni, tali da rafforzare l�efficienza e l�efficacia dell�azione amministrativa e l�ottimale funzionalit� delle strutture; Ravvisata, in particolare, l�opportunit� di prevedere modalit� operative volte a garantire un efficiente ed incisivo apporto consultivo dell�Avvocatura, nonch� lo svolgimento del patrocinio dell�Agenzia affidato alla stessa Avvocatura nei giudizi attivi promossi o proseguiti in gradi ulteriori dall�Agenzia e nei giudizi passivi instaurati o coltivati da terzi nei confronti della medesima; Considerata, per effetto delle disposizioni di cui all�articolo 23-quater del de- creto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, la successione dell�Agenzia delle Entrate nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, dell�Agenzia del Territorio, in materia di catasto, di registri immobiliari, di servizi geotopocartografici e di servizi di valutazione immobiliare e tecnico-estimativi (di seguito, settore Territorio); Tra il Direttore dell�Agenzia delle Entrate, Dott. Attilio Befera, come da delibera del Comitato di gestione del 23 luglio 2013, n. 31/2013 (allegato sub A) e l�Avvocato Generale dello Stato, Avv. Michele Giuseppe Dipace si conviene quanto segue. 1. ATTIVIT� CONSULTIVA 1.1 Allo scopo di razionalizzare gli interventi, l�Agenzia, tramite le competenti Direzioni centrali, provvede a coordinare la proposizione di quesiti e richieste di pareri che involgono questioni interpretative di carattere generale o di particolare rilevanza, evitando l�inoltro di specifiche richieste tramite proprie strutture periferiche. 1.2 Considerato che l�efficacia dell�attivit� consultiva � direttamente correlata alla tempestiva acquisizione dei richiesti pareri, l�Avvocatura provvede a corrispondere con tempestivit� alle relative richieste, comunque nei termini imposti dai procedimenti amministrativi o, in mancanza, entro 60 giorni dalla richiesta (eventualmente anticipando il parere per posta elettronica o fax), segnalando i casi in cui ci� non sia possibile. 1.3 L�Agenzia - ove ritenuto necessario - informa l�Avvocatura generale dei principali orientamenti dalla stessa assunti, in particolare in ordine all�interpretazione di normativa di prima applicazione, al fine di acquisire eventuali suggerimenti e/o pareri, particolarmente nella prospettiva dei riflessi sulla gestione del relativo contenzioso, potenziale o in atto. 1.4 L�Avvocatura, su richiesta dell�Agenzia, esprime parere sugli atti di transazione redatti dalle strutture centrali o periferiche interessate e, nei limiti della propria disponibilit�, assicura l�assistenza nel luogo ove si svolge l�attivit� transattiva. 2. ASSISTENZA E RAPPRESENTANZA IN GIUDIZIO 2.1 Disposizioni generali 2.1.1 Al fine di consentire all�Avvocatura il regolare svolgimento delle proprie funzioni, l�Agenzia, attraverso le proprie strutture centrali o territoriali, provvede ad investire l�Avvocatura delle richieste di patrocinio con il pi� ampio margine rispetto alle scadenze, fornendo tutti gli opportuni elementi istruttori. In sede di richiesta verr� precisato il nominativo del funzionario incaricato dell�istruttoria, con le modalit� per la sua immediata reperibilit� (telefono, fax, posta elettronica); analogamente l�Avvocatura provvede a segnalare alla struttura richiedente dell�Agenzia il nominativo dell�Avvocato incaricato dell�affare e le medesime modalit� di immediata reperibilit� (telefono, fax, posta elettronica). Ogni eventuale modifica dei predetti recapiti va tempestivamente comunicata. 2.1.2 Al fine di assicurare nel modo pi� sollecito ed efficace lo svolgimento delle rispettive attivit� istituzionali, � assicurato all�Avvocatura l�accesso ai dati relativi ai fascicoli di causa delle controversie pendenti presso le Commissioni tributarie. 2.1.3 Ove l�Avvocatura ritenga di non convenire, per singole controversie, sulle richieste avanzate dall�Agenzia, provvede, se del caso previa acquisizione di elementi istruttori, a darne tempestiva e motivata comunicazione alla struttura richiedente, al fine di pervenire ad una definitiva determinazione. Le divergenze che insorgono tra l�Avvocatura e l�Agenzia, circa l�instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo, sono risolte dal Direttore dell�Agenzia, ai sensi dell�art. 12, secondo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103. 2.1.4 Qualora gli atti introduttivi del giudizio o di un grado di giudizio e qualunque altro atto o documento vengano notificati all�Agenzia presso una sede dell�Avvocatura, non ancora investita della difesa, sono dalla stessa inviati senza indugio alla competente struttura dell�Agenzia, utilizzando gli strumenti in concreto pi� rapidi. 2.1.5 L�Avvocatura provvede a tenere informata la competente struttura del- l�Agenzia dei significativi sviluppi delle controversie dalla stessa curate, assicurando, laddove l�Agenzia ne faccia motivata richiesta, il tempestivo invio degli atti difensivi propri (in formato editabile onde agevolarne l�utilizzo in casi analoghi) e delle controparti, dando comunque pronta comunicazione dell�esito del giudizio con la trasmissione di copia della decisione. Ove si tratti di pronuncia sfavorevole all�Agenzia suscettibile di gravame, l�Avvocatura formula il proprio parere in ordine all�impugnabilit� della decisione, di norma contestualmente all�inoltro della stessa all�Agenzia. Le pronunce che investano questioni di carattere generale sono dall�Avvocatura segnalate alla Direzione centrale competente (ivi compresa la Direzione centrale pubblicit� immobiliare e affari legali per i contenziosi che interessano il settore Territorio). 2.1.6. Per le cause che si svolgono davanti ad autorit� giudiziaria avente sede diversa da quella della competente Avvocatura, quest�ultima si avvale per le funzioni procuratorie di funzionari dell�Agenzia ai sensi dell�art. 2 del R.D. n. 1611 del 1933; in tal caso, l�Avvocatura trasmette l�atto di delega alla competente struttura territoriale dell�Agenzia. In casi eccezionali e a seguito di una preventiva intesa con l�Agenzia, l�atto di delega pu� essere conferito ad avvocato del libero foro. 2.1.7 Per le notificazioni degli atti, l�Avvocatura si avvale della collaborazione dell�Agenzia nei casi in cui risulti opportuno (qualora, ad esempio, sia dubbia l�individuazione del luogo ove effettuarle). In tali casi, se la notifica va eseguita nel capoluogo di regione, l�Avvocatura trasmette l�atto alla Direzione regionale competente, mentre, se la notifica va eseguita fuori del capoluogo di regione, trasmette l�atto alla Direzione provinciale o alla sua articolazione territoriale del luogo di esecuzione della notifica, sempre che nella citt� ove ha sede tale articolazione sia presente l�Ufficio notificazioni esecuzioni e protesti. Ai fini della notifica, l�Avvocatura fa pervenire l�atto entro tre giorni lavorativi liberi prima della scadenza del termine di impugnazione; si considera non lavorativo anche il sabato. La struttura dell�Agenzia invia l�atto all�Avvocatura, subito dopo la notifica, tramite modalit� che ne assicurino comunque il tempestivo ricevimento da parte dell�Organo legale. Per gli atti del settore Territorio le notificazioni sono eseguite sempre a cura dell�Avvocatura. 2.1.8 A richiesta del Direttore dell�Agenzia, l�Avvocatura pu� assumere, ai sensi dell�art. 44 del R.D. n. 1611 del 1933, la rappresentanza e la difesa di dipendenti dell�Agenzia nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio. 2.1.9 L�Avvocatura segnala tempestivamente i casi in cui non pu� assumere il patrocinio potendosi configurare un conflitto di interessi con altra amministrazione. Con provvedimento motivato del Direttore, l�Agenzia segnala all�Avvocatura generale eventuali casi di possibile conflitto con altra amministrazione parimenti assistita dall�Avvocatura, per le relative determinazioni. 2.2 Controversie in cui l�Agenzia pu� stare in giudizio direttamente 2.2.1 L�Agenzia sta in giudizio direttamente nei casi in cui la legge lo consente, salvo diverse intese a livello locale. L�Avvocatura assicura comunque, d�intesa con l�Agenzia, il patrocinio nelle controversie in cui vengono in rilievo questioni di massima o particolarmente rilevanti in considerazione del valore economico o dei principi di diritto in discussione. 2.2.2 Le sentenze pronunciate in grado di appello relativamente a controversie di lavoro, notificate presso l�Avvocatura distrettuale dello Stato, sono da quest�ultima trasmesse contemporaneamente, oltre che all�Avvocatura generale dello Stato, alla struttura dell�Agenzia parte del giudizio di appello, unitamente agli atti essenziali di cui l�Agenzia stessa non sia in possesso. 2.3 Giudizi davanti alle Commissioni tributarie Davanti alle Commissioni tributarie regionali, anche a seguito di rinvio della Corte di cassazione, d�intesa con la competente Direzione regionale, ovvero Direzione regionale-Territorio (di seguito, Direzione regionale competente), l�Avvocatura assicura il patrocinio nelle controversie particolarmente rilevanti, in particolare nei casi di complessa applicazione del principio di diritto affermato dalla Cassazione ovvero in considerazione del valore economico o dei principi di diritto in discussione. Su richiesta dell�Agenzia, l�Avvocatura assicura altres� un supporto legale per l�elaborazione di strategie difensive nelle controversie tributarie nei gradi di merito. 2.4 Giudizi penali 2.4.1 L�Avvocatura, d�intesa con l�Agenzia, trasmette gli atti dei procedimenti penali, irritualmente comunicati o notificati presso l�Organo legale, esclusivamente: - alla Direzione provinciale, ovvero all�Ufficio provinciale-Territorio (di seguito, Direzione provinciale competente), o alla Direzione regionale competente che ha presentato la denuncia o, se la denuncia non � dell�Agenzia, alla Direzione provinciale o regionale competente a fornire le valutazioni funzionali alla costituzione di parte civile; -nel caso in cui siano coinvolte pi� Direzioni provinciali competenti aventi sede nella stessa regione, alla Direzione regionale competente nel cui ambito hanno sede le predette Direzioni provinciali; -nel caso in cui siano coinvolte pi� Direzioni provinciali competenti aventi sede in regioni diverse, a tutte le Direzioni regionali competenti nel cui ambito le Direzioni provinciali competenti hanno sede o, in subordine, qualora tale ricerca possa risultare difficoltosa, alla Direzione regionale competente nel cui ambito si svolge il procedimento/processo penale, la quale provvede al necessario coordinamento con le altre Direzioni regionali competenti interessate. 2.4.2 L�Avvocatura, a seguito di documentata richiesta della Direzione regionale competente, invia tempestivamente e comunque almeno dieci giorni prima dell�udienza il proprio parere sull�opportunit� della costituzione di parte civile dell�Agenzia nel processo penale, semprech� la predetta richiesta le sia pervenuta almeno venti giorni prima dell�udienza stessa. 2.4.3 L�Avvocatura informa la Direzione regionale competente in ordine agli esiti dei procedimenti penali in cui l�Agenzia si � costituita parte civile. 2.5 Ricorsi per cassazione 2.5.1 Le richieste di ricorso per cassazione concernenti giudizi tributari devono pervenire all�Avvocatura generale, integrate con tutta la necessaria documentazione, compresi la copia degli scritti difensivi dell�Agenzia e della controparte e dei documenti prodotti in giudizio, dalla competente struttura territoriale dell�Agenzia, entro: a trenta giorni dalla notifica della sentenza all�Agenzia o all�Avvocatura. In caso di notifica presso pi� sedi, occorre fare riferimento alla prima notifica ricevuta; b quattro mesi dalla data di deposito della sentenza non notificata. Tale termine � aumentato a dieci mesi per i giudizi instaurati fino al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha ridotto il �termine lungo� di impugnazione da un anno a sei mesi. Ai predetti termini si aggiungono la sospensione feriale di cui all�art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, nonch� altre eventuali proroghe o sospensioni dei termini, ove applicabili. In considerazione delle esigenze di organizzazione e pianificazione del lavoro dell�Avvocatura, l�Agenzia si impegna ad attivarsi affinch�, con effetto dalla data del prossimo protocollo d�intesa, le richieste di ricorso per cassazione pervengano all�Avvocatura entro tre mesi (o nove mesi per i giudizi instaurati fino al 4 luglio 2009) dal deposito della sentenza. Le richieste di ricorso per cassazione sono integrate dalla documentazione necessaria per consentire all�Avvocatura la compiuta delibazione delle stesse anche sotto il profilo della concreta ed effettiva possibilit� di recupero del credito erariale. A tale fine la documentazione di supporto relativa al ricorso dovr� comprendere, nel caso di societ�, visure camerali aggiornate, nonch�, per le ipotesi di avvenuta estinzione, l�elenco dei soci e il bilancio di liquidazione con allegato il piano di riparto. Resta inteso che eventuali variazioni successive alla data dei documenti allegati alla richiesta saranno verificate dall�Avvocatura. 2.5.2 In ogni caso la richiesta di ricorso per cassazione, in formato editabile, con allegati gli atti e i documenti disponibili in formato elettronico oppure agevolmente convertibili, � anticipata all�indirizzo di posta elettronica della sezione dell�Avvocatura competente per ciascuna Direzione regionale competente. 2.5.3 L�Avvocatura d� tempestiva informazione alla Direzione regionale competente della avvenuta proposizione del ricorso anche attraverso l�invio dell�istanza di cui all�art. 369, terzo comma, c.p.c.. 2.5.4 L�Avvocatura, nei casi in cui non condivida la richiesta di ricorso per cassazione, d� tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo, senza restituire il relativo fascicolo, alla Direzione regionale competente, tramite posta elettronica o fax e, se del caso, dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta di ricorso. In ogni caso, tale parere � inviato alla Direzione regionale competente, salvo obiettive circostanze impedienti, almeno dodici giorni prima della scadenza del termine di impugnazione. 2.5.5 La Direzione regionale competente, qualora non condivida il parere negativo dell�Avvocatura, entro due giorni lavorativi dalla ricezione dello stesso, invia per posta elettronica la reiterata richiesta di ricorso, con puntuali repliche al predetto parere, alla Direzione centrale competente e, per conoscenza, all�Avvocatura. 2.5.6 Entro quattro giorni lavorativi dalla reiterata richiesta, la Direzione cen trale competente comunica, preferibilmente per posta elettronica, all�Avvocatura il proprio parere in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti della reiterata richiesta di ricorso. 2.5.7 Qualora l�Avvocatura non condivida la reiterata richiesta di ricorso cui abbia aderito la Direzione centrale competente, comunica con la necessaria urgenza il proprio definitivo parere alla Direzione centrale e alla Direzione regionale competente mediante posta elettronica o fax. 2.5.8 Nel caso in cui la Direzione centrale competente non condivida quest�ultimo parere dell�Avvocatura, per la risoluzione della divergenza si applica il secondo periodo del punto 2.1.3. 2.5.9 In mancanza di formale e tempestiva conferma del parere negativo espresso dall�Avvocatura, quest�ultima provvede, in modo da evitare decadenze, alla proposizione del ricorso per cassazione, salvo eventuale successiva rinuncia. 2.5.10 L�Avvocatura si pu� avvalere della collaborazione delle strutture del- l�Agenzia per la richiesta di trasmissione del fascicolo d�ufficio, ai sensi dell�art. 369, terzo comma, c.p.c.. In tal caso, l�Avvocatura invia la predetta richiesta alla Direzione regionale competente; se la sentenza impugnata � stata emessa da una sezione staccata della Commissione tributaria regionale, alla Direzione provinciale competente del luogo in cui ha sede la stessa sezione staccata. 2.5.11 La richiesta di cui al punto precedente, dopo gli adempimenti di rito, � immediatamente restituita con modalit� che assicurino comunque il tempestivo ricevimento da parte dell�Avvocatura. 2.5.12 Nel caso di notifica da parte del contribuente di ricorso per cassazione concernente un giudizio tributario, la Direzione provinciale competente fa pervenire entro venti giorni l�originale notificato del ricorso completo di relata di notifica, gli elementi istruttori per il controricorso e per l�eventuale ricorso incidentale, con tutti gli atti di causa (atto impugnato, ricorso, controdeduzioni e ogni altro atto o documento depositato), all�Avvocatura generale e, per conoscenza, alla Direzione regionale competente. Per il computo dei termini si tiene conto della sospensione di cui al punto 2.5.1. La richiesta di controricorso e del- l�eventuale ricorso incidentale, con i relativi allegati, � anticipata con le modalit� di cui al punto 2.5.2. 2.5.13 Qualora un ricorso per cassazione sia notificato presso la sede della Direzione centrale competente, questa trasmette direttamente all�Avvocatura l�originale del ricorso notificato e, contestualmente, ne invia copia alla Direzione provinciale competente, che provvede ad inoltrare all�Organo legale gli elementi istruttori per il controricorso e per l�eventuale ricorso incidentale, con la tempistica e le modalit� di cui sopra. 2.5.14 L�Avvocatura, qualora ritenga che non sia opportuna la proposizione del ricorso incidentale, d� tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo alla Direzione regionale competente, almeno sette giorni prima della scadenza del termine per la notifica del ricorso incidentale, tramite posta elettronica o fax e se del caso dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta. 2.5.15 La Direzione regionale competente, qualora non condivida il parere negativo, formula, entro due giorni lavorativi, le proprie osservazioni alla Direzione centrale competente. Per la risoluzione della eventuale divergenza, si applicano, in quanto compatibili, i punti da 2.5.5 a 2.5.9. 2.5.16 La Direzione centrale competente pu� segnalare i giudizi in Cassazione relativi a una questione controversa caratterizzata da ampia diffusione o comunque di particolare rilevanza per il principio di diritto in contestazione, affinch� l�Avvocatura solleciti alla Cassazione la decisione della causa, facendo presente il significativo effetto deflattivo che conseguirebbe dal tempestivo consolidarsi, sul punto, dell�orientamento della Cassazione. 2.5.17 L�Avvocatura, qualora ravvisi che in un giudizio pendente la posizione dell�Agenzia � in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, procede, d�accordo con la Direzione regionale competente, all�abbandono della lite. In questi casi spetta all�Avvocatura, senza preventiva comunicazione alla Direzione regionale competente, verificare la possibilit� di addivenire ad un preventivo accordo con la controparte sulle spese di giudizio. Nell�impossibilit� di tale accordo, la Direzione regionale competente evidenzia all�Avvocatura gli eventuali elementi da sottoporre al giudice che possano giustificare la compensazione delle spese. 2.6 Recupero spese di giudizio L�Avvocatura, in quanto distrattaria ex art. 21 del R.D. n. 1611 del 1933, provvede al diretto recupero nei confronti delle controparti delle spese di giudizio, poste a loro carico per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione. In caso di giudizio conclusosi con esito favorevole per l�Agenzia ma con disposta compensazione, totale o parziale, delle spese di giudizio, cos� come in caso di transazione dopo sentenza favorevole, trova applicazione il disposto dell�art. 21, commi terzo, quarto e quinto del R.D. n. 1611 del 1933, avendo riguardo alla complessit� e all�impegno processuale della controversia, sulla base delle tariffe professionali applicabili. In ogni caso, ai fini suddetti, l�Agenzia invier� all�Avvocatura copia autentica della sentenza che conclude il giudizio in sede di rinvio con esito favorevole ad essa. 3. NOTIFICA DEGLI ATTI L�Avvocatura presta la propria collaborazione all�Agenzia per le noti ficazioni degli atti diversi da quelli processuali, ove questa non possa provvedervi direttamente. 4. INCONTRI PERIODICI Tra l�Avvocatura generale e ciascuna Direzione centrale competente � fissato un calendario di incontri periodici, di regola a cadenza quadrimestrale, per l�esame dell�evoluzione del contenzioso concernente le pi� significative e rilevanti problematiche in discussione, al fine di definire congiuntamente e uniformemente le linee di condotta delle controversie in corso e l�interesse alla prosecuzione delle stesse. Negli incontri sono esaminate congiuntamente anche le tematiche di particolare rilevanza generale che possono avere un impatto sulla conduzione e sulla soluzione del contenzioso potenziale o in atto. Analoghi incontri, di regola a cadenza annuale, si svolgono tra le Direzioni regionali competenti dell�Agenzia e le Avvocature distrettuali. Per ciascuna sede distrettuale l�Avvocatura indica un proprio avvocato con funzioni di referente. 5. COOPERAZIONE APPLICATIVA Al fine di favorire l�interoperabilit� e la cooperazione applicativa dei sistemi informatici e dei flussi informativi, l�Avvocatura e l�Agenzia s�impegnano a proseguire ed intensificare le attivit� volte alla realizzazione di servizi attraverso i quali potranno procedere allo scambio in via automatica delle informazioni e dei documenti necessari per lo svolgimento delle rispettive attivit�. 6. DISPOSIZIONE FINALE L�Avvocatura e l�Agenzia si impegnano a segnalare reciprocamente tutte le difficolt� operative eventualmente insorte nella gestione dei rapporti oggetto del presente protocollo, allo scopo di provvedere, nello spirito della pi� piena collaborazione, al superamento delle stesse ed eventualmente alla modifica delle modalit� di cooperazione. Roma, 10 settembre 2013 DIRETTORE DELL�AGENZIA AVVOCATO GENERALE Dott. Attilio Befera Avv. Michele Giuseppe Dipace Gestione del contenzioso relativo a strutture commissariali cessate dopo la chiusura dello stato di emergenza. Art. 3 D.L. n. 59/2012(*) (Parere prot. 314924 del 20 luglio 2013, AL 2974/13, avv. GIANNA MARIA DE SOCIO) Oggetto del parere. Con la nota indicata a margine codesto Dipartimento chiede il parere della Scrivente in ordine a varie questioni che nascono dalla applicazione della L. 100/2012 (che ha modificato l'ordinamento della protezione civile) e in specie della disciplina transitoria racchiusa nell'art. 3 del D.L. 59/2012, che ha previsto la cessazione al 31 dicembre 2012 di tutte le gestioni commissariali in corso alla data della sua entrata in vigore. In particolare codesto Dipartimento evidenzia che la normativa sopra menzionata pone il problema di stabilire in capo a quale ente, a seguito della cessazione delle gestioni commissariali, e dunque dopo l'estinzione dell'organo straordinario costituto dal Commissario delegato, si trasferiscano i rapporti giuridici pendenti, e quali ripercussioni abbia tale successione in relazione ai processi in corso. Si evidenziano inoltre le implicazioni di carattere processuale di tale problematica, ponendosi il dubbio se il ritrasferimento alle amministrazioni ordinariamente competenti del munus esercitato dal Commissario delegato, dia luogo ad una ipotesi di successione a titolo universale ovvero a titolo particolare, con la conseguente applicabilit� dell'art. 110 o dell'art. 111 c.p.c. Premesso quanto sopra si chiede di valutare quale condotta processuale (*) Il presente parere, reso, secondo la tradizionale prassi dell�Avvocatura, �sentito l�avviso del Comitato Consultivo�, presenta importanti aspetti di rilevanza istituzionale che ne consigliano la pubblicazione in questa sezione della Rassegna. Con l�occasione la Direzione formula due osservazioni: La prima � che, al fondo, la vecchia dottrina della �delegazione intersoggettiva� tra enti e soggetti pubblici, ancorch� superata dalla successiva giurisprudenza amministrativa e costituzionale, aveva una sua logica e semplicit�. Il valore del parere sta tutto nell�essere giunto alle stesse condivisibili conclusioni di merito per una via un po� pi� complicata� Il secondo aspetto riguarda la prosecuzione dei processi ai sensi dell�art. 111 c.p.c. e l�affermazione un po� drastica che non sussiste una norma che legittimi l�Avvocatura dello Stato a proseguire il giudizio �anche nell�interesse dell�ente subentrato� alla gestione commissariale. La tesi, indubbiamente fondata sul dato testuale normativo (o meglio, sull�assenza di un dato testuale normativo) sembra non tener conto dell�unit� della Repubblica e della circostanza che il modello organizzativo degli ultimi anni, soprattutto dopo le modifiche costituzionali del Titolo V, tende a muoversi dalle regole del- l�autonomia amministrativa (il cosiddetto doppio binario) a quelle dell�autogoverno e della sussidiariet�. Il �pubblico� resta pubblico ovunque sia allocato (si argomenta anche dal vecchio dpr n. 616/77) ed un�intesa con l�ente subentrante, che eviti conflitti d�interessi ed assicuri continuit� nella difesa giudiziale, potrebbe essere utile. GF assumere, anche prudenzialmente, per evitare qualunque tipo di pregiudizio per gli interessi erariali, in particolare ponendo in evidenza che per le numerose sentenze, sfavorevoli ai Commissari, emesse recentemente si pone il problema di valutare se, e nell'interesse di quale soggetto, debba essere proposto l'eventuale gravame. Per rispondere alla suddette questioni si ritiene di dover trattare i seguenti profili: 1. Natura dei poteri emergenziali dello Stato; 2. I poteri emergenziali dello Stato nei confronti degli enti competenti in via ordinaria; 3. La figura del Commissario delegato di protezione civile e rapporti con l'autorit� Governativa; 4. La struttura commissariale quale eventuale autonomo centro di imputazione di effetti giuridici; 5. Cessazione delle funzioni del Commissario delegato; 6. Funzioni e procedimento amministrativo: riespansione delle attribuzioni degli enti competenti in via ordinaria; 7. La successione nei rapporti privatistici; 8. La successione nei rapporti processuali; 9. Il patrocinio dell�Avvocatura dello Stato; 10. Condotta processuale in ordine alle impugnazioni. 1. Natura dei poteri emergenziali dello Stato. Le attribuzioni e i poteri esercitati dallo Stato in sede emergenziale non sono considerati poteri appartenenti agli enti ordinariamente competenti e in qualche modo �trasferiti� allo Stato stesso, ma poteri �propri� dello Stato. Tale assunto trova avallo in molteplici decisioni della Corte Costituzionale, che ha affrontato la questione in sede di conflitto di attribuzione Stato-Regioni. La Consulta ha chiarito che con la legge n. 225/1992 il legislatore statale �ha rinunciato ad un modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico� (sentenze n. 129/2006 e n. 327/2003), chiarendo che in tale prospettiva, le competenze e le relative responsabilit� sono state ripartite tra i diversi livelli istituzionali di governo in relazione alle seguenti tipologie di eventi che possono venire in rilievo: -eventi da fronteggiare mediante interventi attuabili dagli enti e dalle amministrazioni competenti in via ordinaria (art. 2, comma 1, lettera a); -eventi che impongono l'intervento coordinato di pi� enti o amministrazioni competenti in via ordinaria (art. 2, comma 1, lettera b); -calamit� naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensit� o estensione, richiedono mezzi e poteri straordinari (art. 2, comma 1, lettera c). Nella decisione n. 284/2006, � stato poi chiarito che �lo Stato, sulla base di quanto previsto dall'art. 5 della legge n. 225 del 1992, ha una specifica competenza a disciplinare gli eventi di natura straordinaria di cui al citato art. 2, comma 1, lettera c)�. La ratio della disciplina � stata chiarita dalla Corte con il richiamo �alla necessit� di evitare il disordine, l'accavallamento e la dispersione degli interventi che spesso hanno ridotto l'efficacia dell'opera di soccorso, pur quando si sia svolta in modo pronto e generoso. L'esperienza ha insegnato - come rilevava gi� nel 1965 la commissione parlamentare d'inchiesta sul disastro del Vajont che nelle improvvise e gravi emergenze � indispensabile una direzione unitaria, che possa agire immediatamente, in un quadro di chiarezza e di certezza per quanto attiene alle competenze e ai poteri�, sicch� �tenuto conto della rilevanza nazionale delle attivit� di tutela nel loro complesso, e dell'ampio coinvolgimento in esse dell'Amministrazione statale, i poteri di promozione e coordinamento non possono che essere conferiti al Governo� (Corte cost., n. 418/1992). Richiamando l'art. 107, comma 1, lettere b) e c), del d.lgs. n. 112/1998 e il rilievo nazionale delle funzioni di coordinamento e direzione, la Corte ha infine escluso che il riconoscimento di poteri straordinari e derogatori della legislazione vigente possa avvenire da parte della legge regionale (sentenza n. 82/2006). Alla luce di quanto esposto, per quanto occorre al fine del presente parere, si pu� concludere sul punto che: Le attribuzioni e i poteri esercitati dallo Stato in sede emergenziale non sono poteri appartenenti agli enti ordinariamente competenti e in qualche modo�trasferiti� allo Stato stesso, ma sono poteri �propri� dello Stato. 2. I poteri emergenziali dello Stato nei confronti degli enti competenti in via ordinaria. 2.1-L'esercizio dei poteri emergenziali �propri� dello Stato deve avvenire d'intesa con le Regioni interessate, sulla base di quanto disposto dall'art. 107 del D.Lgs. n. 112/1998 (�Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59�), nonch� dall'art. 5, comma 4-bis, del D.L. n. 343/2001 (�Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attivit� di protezione civile (e per migliorare le strutture logistiche nel settore della difesa civile) convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge n. 401/2001�). 2.2-Pronunciandosi in vari casi di conflitto Stato-Regioni sorti in relazione all�esercizio dei rispettivi poteri in presenza di situazioni emergenziali, la Corte Costituzionale si � espressa in termini di �compressione� delle attribuzioni degli enti competenti in via ordinaria, ovvero di �sacrificio� delle stesse. In particolare � stato precisato che �situazioni di emergenza, specialmente connesse a calamit� naturali, che reclamano la massima concentrazione di energie umane e di mezzi materiali, possono anche giustificare, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, interventi statali straordinari suscettibili di arrecare compressioni alla sfera di autonomia regionale� (Corte Cost. n. 39/2003). Correlativamente la potest� dei predetti enti locali viene ad essere temporaneamente �sacrificata� quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l'intervento unitario del legislatore statale - gli eventi di natura straordinaria di cui all'art. 2, comma 1, lettera c), della stessa legge n. 225 del 1992...� (Corte Cost., n. 286/2006, che richiama le sentenze n. 327/2003 e n. 127/1995). D�altra parte, fino a quando dura lo stato di emergenza, le Regioni neppure possono sospendere l�efficacia dei provvedimenti di necessit� ed urgenza disposti dallo Stato, provvedimenti coperti dalla competenza concorrente dello Stato in materia di protezione civile (Corte Cost. n. 284/2006). La Corte ha peraltro anche chiarito che �l'"emergenza" non legittima il sacrificio illimitato dell'autonomia regionale, e il richiamo a una finalit� di interesse generale "pur di precipuo e stringente rilievo" - non d� fondamento, di per s�, a misure che vulnerino tale sfera di interessi, garantita a livello costituzionale (sent. n. 307 del 1983, considerato in diritto, n. 3)�, il che comporta che deve �sussistere un nesso di congruit� e proporzione fra le misure adottate e la "qualit� e natura degli eventi", secondo quanto precisato dall'art. 5, comma 1; ci� che questa Corte ha sottolineato, richiedendo che le misure siano proporzionate alla concreta situazione da fronteggiare (v. ancora le sent. n. 201 del 1987, sent. n. 100 del 1987, e sent. n. 4 del 1977)� (Corte Cost., n. 129/2006). 2.3-Il potere statale in materia emergenziale viene comunemente inquadrato nell�ambito del potere sostitutivo c.d. ordinario dello Stato, che trova il suo fondamento implicito negli artt. 117 e 118 Cost. e si colloca accanto al potere sostitutivo c.d. straordinario del Governo ex art. 120 comma 2 Cost. (Corte Cost. n. 43/2004). Secondo la dottrina si verifica �sostituzione� quando, in presenza di determinati presupposti, una figura giuridica soggettiva opera in luogo di un'altra, che � titolare di una situazione giuridica di diritto o di obbligo ma che non ha ancora operato per produrre gli effetti connessi a quella situazione, compiendo l�attivit� giuridica necessaria e producendo effetti che ricadono in via diretta o indiretta nella sfera della figura titolare. Con riferimento alle ordinanze emesse dallo Stato in sede emergenziale, la peculiarit� del potere sostitutivo � dato dal fatto che il potere di ordinanza non richiede necessariamente un inadempimento o un inesatto adempimento da parte degli enti ordinariamente competenti, ma presuppone invece il verificarsi di una situazione di emergenza che richieda una direzione unitaria e coordinata. 2.4-La giurisprudenza amministrativa conosce ed applica i principi sopra esposti. Si trovano infatti precedenti secondo cui gli atti posti in essere dal Commissario delegato nell'ambito delle funzioni amministrative esercitate in via emergenziale, sono suscettibili di incidere direttamente nella sfera dell'ente locale proprio in forza dei poteri �sostitutivi� derivanti dalla dichiarazione di emergenza. In una controversia in cui la Regione Calabria rivendicava la propria estraneit� agli atti (di gestione di una gara e relativo atto d�obbligo) emanati dal Commissario, il Consiglio di Stato ha precisato che �la controversia si inserisce nell'ambito della normativa emergenziale e dei poteri sostitutivi del commissario delegato all'emergenza rifiuti con imputazione dei relativi effetti nella sfera giuridica dell'ente sostituito, sicch� non ha alcun pregio rivendicare una posizione di terziet� rispetto all'attivit� del Commissario Delegato. Il Commissario delegato all'emergenza rifiuti � soggetto investito di pubbliche funzioni, temporalmente investito di una serie di poteri pubblicistici al fine di concentrare le funzioni ripartite in via ordinaria tra pi� Uffici per risolvere attraverso detta concentrazione e unicit� della funzione con rapidit� le questioni legate ad uno stato di emergenza ... Inquadrata la controversia nell'ambito della normativa emergenziale e dei poteri sostitutivi del Commissario delegato, � necessitata l'imputazione all'ente sostituito degli effetti dell'attivit� svolta dal Commissario delegato� (C.d.S. sentenza n. 5412/2012). Alla luce di quanto esposto, sul punto si pu� concludere che: Le attribuzioni e i poteri esercitati dallo Stato in sede emergenziale operano invia sostitutiva degli enti competenti in via ordinaria, le cui attribuzioni sono dunque �compresse� temporaneamente nei limiti di un doveroso nesso di congruit� e proporzione: agli enti sostituiti sono comunque necessariamente imputati gli effetti dell�attivit� e degli atti posti in essere dallo Stato e dai suoi organi preposti alla gestione dell�emergenza. 3. Il Commissario delegato di protezione civile. Rapporto con l'autorit� delegante. 3.1-L'art. 5, comma 4, della L. 225/1992 prevede che gli organi centrali possano avvalersi di commissari delegati. La nomina dei commissari delegati � consentita nelle ipotesi indicate dal- l'art. 2, lett. c), cio� quando si verifichino eventi calamitosi che, per intensit� ed estensione, devono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari. In tali casi � lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri che, oltre a deliberare lo stato di emergenza (art. 5, comma 1), direttamente o a mezzo di un suo delegato, pu� a sua volta emanare ordinanze dirette ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose. Al proposito la Corte Costituzionale ha precisato che �nel ricorrere di cos� gravi emergenze, quando l'ambiente, i beni e la stessa vita delle popolazioni sono in pericolo e si richiede un'attivit� di soccorso straordinaria ed urgente, risulta giustificato che si adottino misure eccezionali, quale pu� essere la nomina di commissari delegati (per i quali peraltro la norma impugnata prevede che vengano determinati col provvedimento di delega contenuto, tempi e modalit� di esercizio dell'incarico)� (Corte Cost., n. 418/1992). I Commissari sono nominati con ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri o suo delegato. 3.2-La prassi, com'� noto, sovente ha visto cadere la scelta per la nomina dei Commissari sugli organi esponenziali degli enti locali competenti in via ordinaria (ad esempio il Presidente della Regione, ovvero il sindaco del Comune interessato agli eventi emergenziali). I tratti comuni delle gestioni commissariali, come regolamentate dalle varie ordinanze emesse ai sensi dell�art. 5 L. 225/1992, sono riconducibili ai seguenti: - i commissari (come si � detto, spesso organi esponenziali di enti locali competenti in via ordinaria, ad esempio il Presidente della Regione, ovvero il sindaco del Comune interessato agli eventi emergenziali), sono per lo pi� abilitati ad avvalersi di personale proprio dell'ente in cui � incardinato il Commissario delegato (es. personale del Comune), ma anche a conferire incarichi a personale esterno; sicch� in alcuni casi si � creata una vera e propria �struttura commissariale�; -per quanto riguarda gli oneri di funzionamento della struttura, � spesso previsto che quelli relativi al personale interno ricadano (per lo pi�) nel bilancio dell'ente di appartenenza, ivi compreso quanto riguarda il lavoro straordinario, mentre quelli relativi al personale esterno siano a carico del bilancio dello Stato (nelle ultime ordinanze sono stati previsti limiti di impegno per l�erario statale); - per quanto gli oneri derivanti dalla esecuzione degli interventi di emergenza, essi sono coperti con risorse statali trasferite al Commissario delegato per lo pi� prelevate dallo stato di previsione della Presidenza del Consiglio ovvero del Ministero dell�Economia e Finanze; -nelle ultime ordinanze si � precisato che il Dipartimento della Protezione civile rimane estraneo ai rapporti comunque nascenti in dipendenza del compimento delle attivit� del Commissario delegato. 3.3-In tale contesto si � posto il problema di definire il rapporto tra Stato e organo esponenziale di enti locali nominato quale Commissario delegato. In sede di prima interpretazione della norma, si � ritenuto di poter inquadrare la fattispecie nella figura della delega intersoggettiva, ossia l'istituto in base al quale il soggetto delegante, derogando al principio costituzionale del- l�immodificabilit� dell�ordine delle competenze (art. 97 Cost.), attribuisce al delegato l�esercizio di una funzione propria del delegante (Giampaolino, Costa)(1). Tale impostazione ha trovato iniziale s�guito nella giurisprudenza ammi (1) Tale soluzione sembrava avallata dalla circostanza che nel progetto di legge definitivo era stato soppresso il riferimento all�art. 11 della legge n. 400/1988 (che disciplina i �commissari straordinari del Governo�) nistrativa soprattutto meno recente (in particolare si ricorda la sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV, n. 52/1999, secondo cui �per le situazioni di emergenza, � comunque certo che la l. 24 febbraio 1992, n. 225 � considera tale figura � come soggetto delegato, nei cui confronti si opera un trasferimento di poteri gestionali. Nella specie, infatti, si versa in materia di delega�; negli stessi termini anche alcune coeve decisioni di TAR (2)). Detto inquadramento non � stato per� confermato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ormai definitivamente escluso l'inquadrabilit� della figura del Commissario di protezione civile nell'istituto della delega intersoggettiva. La Corte ha infatti avuto modo di chiarire che �i provvedimenti posti in essere dai commissari delegati sono atti dell�amministrazione centrale dello Stato (in quanto emessi da organi che operano come longa manus del Governo) finalizzati a soddisfare interessi che trascendono quelli delle comunit� locali coinvolte dalle singole situazioni di emergenza, e ci� in ragione tanto della rilevanza delle stesse, quanto della straordinariet� dei poteri necessari per farvi fronte� (Corte Cost. n. 237/2007, v. anche negli stessi termini Corte Cost. ord. n. 92/2008). In definitiva deve ritenersi che la figura del Commissario delegato ai sensi della L. 225/1992 opera su un piano di immedesimazione organica nell'amministrazione centrale. Proprio sulla base della natura �governativa� degli atti posti in essere dal Commissario, la Consulta ha ritenuto giustificata anche la competenza esclusiva del T.A.R. del Lazio su tutte le situazioni di emergenza e sui relativi provvedimenti commissariali (3). Infatti la legittimit� costituzionale della norma che prevede la predetta (2) Secondo il T.A.R. Lombardia, ad esempio, �il Presidente della Regione [Commissario delegato -N.d.A.], pur avendo agito per delega del Presidente del Consiglio, non per questo pu� essere considerato organo governativo. Ci� considerato � sufficiente richiamare il principio secondo cui la rappresentanza in giudizio dell�Avvocatura dello Stato va riferita alle sole amministrazioni statali in senso proprio, ossia agli organi dello Stato-apparato da cui promanano gli atti sottoposti al giudizio� (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 27 gennaio 1998, n. 96). Nello stesso senso il T.A.R. Calabria ha affermato che �la delega conferita al Presidente della Regione Calabria per la predisposizione di un piano di interventi di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilabili, integra un�ipotesi di delega intersoggettiva, comportante spostamento di competenze tra soggetti diversi, ossia tra vari centri di competenze entificati (nella specie: Ministro del- l�interno, Presidente della Giunta regionale; Stato, Ente Regione), con la conseguenza che gli effetti dei provvedimenti adottati per delega vanno imputati al delegato il quale opera, pur sempre, nell�ambito di una propria sfera di autonomia amministrativa ...� (T.A.R. Calabria, Catanzaro, 17 maggio 1999, n. 701). (3) La competenza esclusiva del TAR Lazio � ora prevista dal combinato disposto degli artt. 135 e 133 lett. p) del D.lgs. 104/2010, con riferimento alle �controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'art. 5 co. 1 della Legge 24 febbraio 1992 n. 225 e le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti ...�. competenza del T.A.R. Lazio � stata confermata proprio in ragione del fatto che i provvedimenti posti in essere dai commissari delegati �sono atti del- l�amministrazione centrale dello Stato� (Corte Cost. ord. n. 92/2008). Secondo una parte della dottrina la posizione del Commissario delegato potrebbe essere inquadrata nell'ambito del c.d. avvalimento, figura organizzativa secondo la quale un�amministrazione pubblica, anzich� dotarsi di propri Uffici, si avvale degli uffici (del personale e delle attrezzature) di una diversa figura soggettiva per lo svolgimento dei suoi poteri e delle sue funzioni. Detto modello organizzativo (attualmente codificato dall'art. 3 comma 1 lett. f) della L. 59/1997 - c.d. legge Bassanini - che prevede la regolamentazione delle �modalit� e delle condizioni con le quali l'Amministrazione dello Stato, pu� avvalersi per la cura di interessi nazionali di uffici regionali e locali...�), mira ad evitare l'inutile proliferazione di strutture ed assetti organizzativi favorendo l'utilizzazione di quelle esistenti. Il conseguente modello organizzatorio viene definito in dottrina amministrazione indiretta ovvero impropria (in particolare si parla di amministrazione indiretta per alludere agli organi amministrativi e agli atti amministrativi di competenza statale ma posti in essere da soggetti diversi dallo Stato). In ogni caso, a prescindere dalla correttezza dell'inquadramento nella formula organizzatoria dell'avvalimento ovvero in altro modello di amministrazione c.d. indiretta, ci� che rileva - ai fini del presente parere - � di affermare che il Commissario non possa essere configurato quale destinatario di una delega intersoggettiva. Ci� infatti consente di giungere ad una conclusione certa in ordine alla inapplicabilit� dei principi relativi a tale istituto (ivi compreso quello secondo cui, nella delega intersoggettiva, l'ente delegato agisce in nome proprio e sono ad esso imputabili gli effetti giuridici e le responsabilit� connessi alla sua attivit� (4)), imponendo di applicare invece i principi propri dell'esercizio indiretto di funzioni centrali dello Stato. In definitiva gli atti del Commissario delegato sono �atti dell�Amministrazione centrale dello Stato� che producono i loro effetti direttamente nella sfera dell�ente competente in via ordinaria in virt� del potere sostitutivo connesso alla situazione emergenziale (v. sopra par. 2). Per quanto occorre ai fini del presente parere, sul punto si pu� concludere che: (4) Secondo pacifica giurisprudenza della Cassazione, comՏ noto, �la delega (cd. intersoggettiva) comporta che l'ente delegato agisce, nei rapporti esterni ... in nome proprio e non come rappresentante del delegante; per cui sono ad esso imputabili gli effetti giuridici e le responsabilit� connessi alla sua attivit�, senza che, in contrario, abbiano rilievo le ripercussioni dell'attivit� stessa nei rapporti interni tra ente delegante ed ente delegato ...� (Cass. civ. Sez. I, n. 17199/2012 che richiama Cass. 16470/2009; 12345/1992). Il Commissario straordinario di cui all'art. 5 co. 4 L. 225/1992 (ancorch�per tale carica possa essere nominato l'organo esponenziale di un ente competente in via ordinaria) non va considerato quale destinatario di una delega intersoggettiva di funzioni, ma quale organo del Governo (�longa manus� del Governo stesso) del quale esercita le funzioni emergenziali ad esso proprie, sicch� i provvedimenti posti in essere dai commissari delegati �sono atti dell�amministrazione centrale dello Stato�. 4. La struttura commissariale quale eventuale autonomo centro di imputazione di effetti giuridici. Una volta chiarito che il Commissario delegato di protezione civile � longa manus del Governo, e che gli atti del Commissario sono �atti dell�Amministrazione centrale dello Stato� (ancorch� produttivi di effetti nella sfera dell�ente sostituito), per ci� che concerne il presente parere si pone il successivo problema di chiarire se l'attivit� compiuta debba essere imputata alla medesima struttura commissariale, in virt� della autonomia di cui gode, o debba essere imputata allo Stato. In proposito si rinvengono vari precedenti della giurisprudenza amministrativa (soprattutto dei TAR ma anche del Consiglio di Stato) in base ai quali sembra potersi escludere che il Commissario operi quale autonomo centro di imputazione di interessi, affermandosi per converso - in modo pi� o meno esplicito - la diretta imputazione allo Stato dell'attivit� svolta dal Commissario. Il Consiglio di Stato, rigettando la domanda della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativa alla propria estromissione da una causa concernente una gara indetta dal Commissario per l'emergenza rifiuti in Sicilia, ha affermato che �l'Ufficio del Commissario delegato per l'emergenza rifiuti in Sicilia � un ufficio che, sebbene autonomo, fa capo appunto alla Presidenza del Consiglio dei ministri, per cui � evidente che gli atti assunti da tale organo sono riferibili alla stessa Presidenza del Consiglio dei ministri, che ha nei confronti del Commissario delegato suddetto un carattere di supervisione e di indirizzo� (C.d.S. Sez. IV n. 2576/2004). Anche la giurisprudenza dei Tribunali Amministrativi si � conformata a tale indirizzo. Significativa sul punto appare la recente decisione del T.A.R. Lazio di cui di seguito si riporta stralcio: �il Commissario delegato, bench� come sopra costituito nell�ambito del Comune interessato dall�iniziativa, ha veste di organo straordinario, di cui il competente apparato statale, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della protezione civile, si avvale per lo svolgimento dei compiti di cui alla legge 24 febbraio 1992, n. 225 in materia di protezione civile. Ne consegue che il Sindaco del Comune di Messina, nella qualit� di Commissario delegato, e nell�assunzione degli atti connessi alla funzione, fa capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri, che, per l�effetto, non pu� ritenersi estranea alla materia dell�odierno contendere. E nulla muta considerando che il Commissario delegato � dotato, rispetto al delegante, di indubbia autonomia amministrativa: essa, invero, unitamente alla possibilit� di essere destinatario, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, di poteri derogatori ad ogni disposizione vigente (art. 5, comma 2, l. 225/92), � finalizzata strettamente ed esclusivamente al raggiungimento degli obiettivi assegnatigli per il superamento dello stato emergenziale alle condizioni e nei termini, anche temporali, previsti ai sensi dell�art. 5, commi 1 e 2, della l. 225/92. Gli atti assunti nell�esercizio delle funzioni delegate sono, pertanto, riferibili alla stessa Presidenza del Consiglio dei ministri, autorit� che esercita nei confronti del Commissario delegato attivit� di supervisione e di indirizzo (in termini, tra altre, Tar Lazio, I, 9 agosto 2010, n. 30424; C. Stato, sez. IV, 28 aprile 2004 , n. 2576)� (T.A.R. Lazio n. 8598/2012). In termini pressoch� analoghi, T.A.R. Lazio Sez. I, Sent., n. 1398/2012, T.A.R. Sicilia Palermo Sez. III, Sent., n. 1241/2009, T.A.R. Lazio Sez. I, n. 4467/2008 (5). Sul punto si � anche espressa la scrivente nel parere 12 gennaio 2009 prot. 8937 P Cs. 41713/08 di cui alla successiva nota 7. Quindi, per quanto occorre ai fini del presente parere, sul punto si pu� concludere che: Il Commissario straordinario di cui all'art. 5 co. 4 L. 225/1992, ancorch�dotato di indubbia autonomia amministrativa, non va considerato quale autonomo centro di imputazione degli effetti giuridici dell'attivit� svolta quale delegato del Governo; gli atti assunti nell�esercizio delle funzioni delegatesono infatti sempre riferibili alla stessa Presidenza del Consiglio che esercita�attivit� di supervisione e di indirizzo�. 5. La cessazione delle funzioni del Commissario delegato. ComՏ noto, la cessazione dello stato di emergenza e delle gestioni commissariali � stata ridisciplinata per effetto delle modifiche introdotte nell'art. 5 L. 225/1992 dal citato D.L. n. 59/2012. Per quanto interessa ai fini del presente parere giova ricordare che: A regime con la modifica normativa introdotta nell�art. 5 L. 225/1992 � stato previsto, tra l�altro, che �La durata della dichiarazione dello stato di (5) La sentenza da ultimo citata appare significativa in quanto si trova ivi affermato che �la competenza funzionale� del TAR Lazio, giustificata proprio dal fatto che i provvedimenti commissariali sono atti dell'amministrazione centrale dello Stato, �si estende, nel caso oggi in rilievo, anche alla delibera adottata dalla Giunta regionale pugliese dopo "il rientro nell'ordinariet�" ... in quanto... essa rappresenta non gi� una determinazione autonoma bens� una sorta di appendice della fase emergenziale, in quanto adottata in dichiarata esecuzione delle precedenti statuizioni del Commissario delegato� (T.A.R. Lazio Sez. I, n. 4467/2008). emergenza non pu�, di regola, superare i novanta giorni�, prorogabile ovvero rinnovabile, di regola, per non pi� di sessanta giorni (comma 1-bis), e che �Le funzioni del Commissario delegato cessano con la scadenza dello stato di emergenza� (comma 4). I commi successivi regolano il subentro dell�Amministrazione pubblica competente in via ordinaria (comma 4 ter) e l�eventuale intestazione delle contabilit� speciali alla stessa Amministrazione, la quale � tenuta a coordinare gli interventi per un periodo di tempo determinato ai fini del loro completamento (comma 4 quater). In particolare: -comma 4 ter: �Almeno dieci giorni prima della scadenza del termine di cui al comma 1-bis, il Capo del Dipartimento della protezione civile emana, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, apposita ordinanza volta a favorire e regolare il subentro dell'amministrazione pubblica competente in via ordinaria a coordinare gli interventi, conseguenti all'evento, che si rendono necessari successivamente alla scadenza del termine di durata dello stato di emergenza�. -comma 4 quater: �Con l'ordinanza di cui al comma 4-ter pu� essere individuato, nell'ambito dell'amministrazione pubblica competente a coordinare gli interventi, il soggetto cui viene intestata la contabilit� speciale appositamente aperta per l'emergenza in questione, per la prosecuzione della gestione operativa della stessa, per un periodo di tempo determinato ai fini del completamento degli interventi previsti dalle ordinanze adottate ai sensi dei commi 2 e 4-ter. Per gli ulteriori interventi da realizzare secondo le ordinarie procedure di spesa con le disponibilit� che residuano alla chiusura della contabilit� speciale, le risorse ivi giacenti sono trasferite alla regione o all'ente locale ordinariamente competente ovvero, ove si tratti di altra amministrazione, sono versate all'entrata del bilancio dello Stato per la successiva riassegnazione�. In via transitoria l'art. 3 del D.L. n. 59/2012 (Disposizioni transitorie e finali), ha invece disposto, al comma 2, la cessazione delle gestioni commissariali in corso, prevedendo che: �Le gestioni commissariali che operano, ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni, alla data di entrata in vigore del presente decreto, non sono suscettibili di proroga o rinnovo, se non una sola volta e comunque non oltre il 31 dicembre 2012; per la prosecuzione dei relativi interventi trova applicazione l'articolo 5, commi 4-ter e 4-quater, della predetta legge n. 225 del 1992, sentite le amministrazioni locali interessate�. Per completezza occorre altres� soggiungere che per effetto del recente D.L. n. 1/2013 (Disposizioni urgenti per il superamento di situazioni di criticit� nella gestione dei rifiuti e di taluni fenomeni di inquinamento ambientale) convertito, con modificazioni, dall'art. 1 L. n. 11/2013, alcune specifiche gestioni commissariali sono state prorogate fino al 31 dicembre 2013. Quindi, per quanto occorre ai fini del presente parere, sul punto si pu� concludere che: La cessazione dello stato di emergenza comporta la cessazione delle funzionidei Commissari delegati e il �subentro� degli enti ordinariamente competentinella posizione dei Commissari cessati. 6. Funzioni amministrative e procedimenti in corso: �riespansione� delle attribuzioni degli enti competenti in via ordinaria. Come si � visto al par. 2, lo stato emergenziale comporta la necessit� di attribuire allo Stato la direzione unitaria degli interventi necessari nell'interesse della comunit� colpita dall'evento calamitoso; ci� comporta la �compressione� e il �sacrificio� temporaneo delle attribuzioni degli enti competenti in via ordinaria. Correlativamente, dunque, la cessazione dell'emergenza comporta la �riespansione� dei poteri degli enti competenti in via ordinaria e, conseguentemente, la loro successione nei procedimenti in corso. Dal momento in cui � cessata l�emergenza le funzioni amministrative non possano pi� essere esercitate dai Commissari (infatti in base all'art. 5 co. 4 L. 225/1992 �le funzioni del Commissario delegato cessano con la scadenza dello stato di emergenza�), ma dovranno essere esercitate dagli enti competenti in via ordinaria, ai quali spetter� di avviare i nuovi procedimenti nel rispetto delle proprie competenze e dei principi legislativi ordinari. A tal proposito si ritiene utile puntualizzare quanto segue: a) la �successione� nelle funzioni amministrative in favore degli enti competenti in via ordinaria si verifica non gi� in quanto vi sia un �ritrasferimento� di funzioni dall�organo emergenziale statale ai predetti enti, ma in quanto la cessazione dello stato di emergenza fa �riespandere� le competenze e potest� ordinarie dell�ente locale, in precedenza �sacrificate� in sede di emergenza; b) all�amministrazione competente in via ordinaria dovrebbe, dunque, spettare sia l'avvio di nuovi procedimenti amministrativi e sia la prosecuzione dell'iter amministrativo dei procedimenti pendenti; c) a tali compiti pu� essere deputato anche un soggetto (competente in via ordinaria) con funzione di coordinamento (ci� si deduce dagli artt. 5 comma 4 ter e 4 quater della L. 225/1992 che fa riferimento ad un'amministrazione, competente in via ordinaria, �per coordinare gli interventi� necessari successivamente alla scadenza dello stato di emergenza). Tanto si giustifica in quanto il ritorno alla normalit� fa venire meno la necessit� dell'intervento sostitutivo statale, ma non la necessit� del coordinamento; d) eventuali atti della P.C.M. (e, tanto pi�, del Commissario ormai cessato) dopo la chiusura dello stato di emergenza, rischierebbero di essere dichiarati nulli perch� emessi in carenza (in astratto) di potere. N�, a parere della Scrivente, potrebbe operare nel caso in esame l'istituto della prorogatio (di cui al D.L. 293/1994, conv. in L. 444/1994), da ritenere inapplicabile ad organi (come il Commissario delegato) che solo per un periodo di tempo determinato sono attributari di poteri sostitutivi straordinari, tanto pi� in un contesto normativo (come quello previsto dall'art. 5 co. 4 ter L. 225/1992) che prevede �il subentro dell'amministrazione pubblica competente in via ordinaria ...� sicch� sul piano astratto non si configura alcuna discontinuit� nell'azione amministrativa (6); e) gli effetti dell'attivit� fino a quel momento svolta dal Commissario si sono prodotti comunque direttamente nella sfera dell'ente locale, ci� in forza dei poteri sostitutivi esercitati (a mezzo del Commissario delegato) in via emergenziale dallo Stato (v. par. 2.4). Pertanto, salvo l�eventuale esercizio della potest� di autotutela da parte del- l'ente locale tornato competente, questi non potr� dichiararsi estraneo al procedimento gi� avviato dal Commissario (C.d.S. n. 5412/2012, richiamata al par. 2.4). Quindi, per quanto occorre ai fini del presente parere, si pu� concludere sul punto che: La cessazione dell'emergenza comporta la �riespansione� dei poteri degli enti competenti in via ordinaria, ai quali spetter� di avviare i nuovi procedimenti nel rispetto delle proprie competenze e dei principi ordinari; -per quanto concerne i procedimenti pendenti, la cessazione dell�emergenza determina la �successione�, nella fase in corso, degli enti ordinariamentecompetenti; - eventuali atti della P.C.M. (e, tanto pi�, del Commissario ormai cessato e non procrastinabile neppure in via di prorogatio) dopo la chiusura dellostato di emergenza, rischierebbero di essere dichiarati nulli perch� emessiin carenza (in astratto) di potere- difetto di attribuzione ex art. 21-septies l. n. 241/1990. - gli effetti dell'attivit� fino a quel momento svolta dal Commissario si sonoprodotti comunque direttamente nella sfera dell'ente locale, che - salvo l�eventuale esercizio della potest� di autotutela - non potr� dichiararsi estraneo al procedimento gi� avviato dal Commissario. 7. La successione degli enti competenti in via ordinaria nei rapporti privatistici. 7.1 L�attivit� privatistica posta in essere dal Commissario delegato. I Commissari delegati, in stretta connessione con l'esercizio del munus pubblico derivante dall'emergenza, hanno posto in essere una serie di rapporti di natura privatistica caratterizzati da elementi comuni: (6) In tal senso risulta si sia espresso anche codesto Dipartimento (es. nota 14 gennaio 2013 prot. CG/0001800 diretta al Commissario Delegato ex ord. 3983/2011 Calabria). -tutti appaiono connessi alle pubbliche funzioni esercitate in via temporanea e straordinaria dai Commissari; -tutti sono funzionali ad una determinata necessit� emergenziale, sicch� si pu� dire che siano caratterizzati da una causa comune rappresentata dalla necessit� di gestione di una certa emergenza, la quale si pone come elemento teleologico e finalistico dei rapporti contrattuali instaurati dal Commissario delegato; -tutti sono accomunati dall�essere riferiti ad una situazione riguardante una parte del territorio nazionale. In un certo senso si pu� dunque dire, in via di larga approssimazione, che in relazione ad ogni gestione commissariale si crea un �fascio di rapporti giuridici�, rispetto ai quali l�emergenza costituisce titolo di legittimazione e causa accomunante, delimitata territorialmente. La questione che si pone � se, con la cessazione dei poteri commissariali, si realizzi o meno una sorta di successione in universum jus, con conseguente subingresso dell�ente competente in via ordinaria in tutte le posizioni (attive e passive) facenti capo al Commissario ormai cessato. Applicando le categorie giuridiche tradizionali la risposta potrebbe essere negativa in quanto la cessazione del Commissario non pu� essere assimilata alla estinzione e/o soppressione di un autonomo soggetto giuridico, trattandosi non di un autonomo centro di imputazione di interessi, ma di organo (straordinario) della Presidenza del Consiglio (v . sopra par. 4) (7). Tuttavia tale conclusione non appare appagante alla luce della evoluzione della normativa in materia di protezione civile e dei pi� recenti approfondimenti in tema di successione tra soggetti pubblici. 7.2 L�attuale modello organizzativo della protezione civile. Per effetto delle modifiche introdotte nell'art. 5 L. 225/1992 dalla novella del 2012, lo �stato emergenziale�, con il conseguente avvicendamento di competenze tra enti locali e Stato, viene configurato come un fenomeno in cui la �sostituzione� statale � destinata ad essere circoscritta ad un tempo rigorosamente determinato dal legislatore. Infatti, come si � visto al par. 5, con la modifica normativa introdotta nell�art. 5 L. 225/1992 � stato previsto, tra l�altro, che �La durata della dichiarazione dello stato di emergenza non pu�, di regola, superare i novanta giorni�, prorogabile ovvero rinnovabile, di regola, per non pi� di sessanta giorni (comma 1-bis), e che �Le funzioni del Commissario delegato cessano (7) In tale senso si � espressa in passato anche la Scrivente affermando la responsabilit� della Presidenza del Consiglio con riferimento i danni conseguenti alle attivit� compiute dal Commissario delegato (v. parere 12 gennaio 2009 prot. 8937P Cs. 41713/08 ove si � affermato che �l�estraneit� formale� della P.C.M. ai rapporti posti in essere dal Commissario �non potrebbe comportare una esclusione di responsabilit� patrimoniale della stessa P.C.M. per i debiti nascenti dal proprio organo straordinario (il che, tra l�altro risulta di tutta evidenza allorch� l�organo straordinario sia cessato)�). con la scadenza dello stato di emergenza� (comma 4). Attraverso la fissazione �presuntiva� della fine dell�emergenza (operata mediante la determinazione rigida della sua durata), con la quale si � inteso anche contrastare il diffuso fenomeno delle gestioni commissariali perpetuate �sine die�, il legislatore ha inteso ribadire con fermezza la temporaneit� dello stato emergenziale e, di conseguenza, della funzione �sostitutiva� statale rispetto alle competenze ordinarie (8). Analoga ratio appare sottesa anche alla norma transitoria di cui all'art. 3 del D.L. 59/2012 che, con riferimento alle gestioni commissariali in corso, ha stabilito la cessazione dell�emergenza al 31 dicembre 2012. Questa precisa delimitazione temporale dell�emergenza, disposta per la prima volta con la novella del 2012 e diversamente dal passato, non � senza peso nella connotazione del ruolo dello Stato (e del Commissario che � sua �longa manus�). In effetti la gestione commissariale - ormai circoscritta in termini di rigorosa temporaneit� - si connota come una �parentesi� di breve durata (complessivamente non superiore a 5 mesi) nell�esercizio delle funzioni da parte dei soggetti ordinariamente competenti. In definitiva le richiamate disposizioni normative delineano un vero e proprio modello organizzativo a fasi multiple, in cui � fisiologico che gli interventi necessari a far fronte all'emergenza vengano solo �avviati� dal commissario in via straordinaria e, senza soluzione di continuit�, �proseguiti� dagli enti ordinariamente competenti (9). Il �subingresso� degli enti ordinariamente competenti appare dunque come un effetto connaturale alla particolare modalit� organizzativa prevista dal legislatore in presenza di situazioni emergenziali. D'altra parte il subingresso degli enti ordinariamente competenti viene supportato con il trasferimento in loro favore delle risorse finanziarie necessarie per il completamento degli interventi identificati nell�ordinanza di rientro e degli altri interventi conseguenti all�evento calamitoso. La definizione di tale modello organizzativo si ritrova nel tenore letterale dell'art. 5 L. 225/1992 (come mod. dal citato D.L. n. 59/2012); detta norma infatti: -espressamente qualifica in termini di �subentro� l�avvicendamento tra (8) Al proposito si sottolinea che, nel disposto normativo, il subentro degli enti ordinariamente competenti appare collegato direttamente alla scadenza dell'emergenza, a prescindere dall'ordinanza �di rientro� di cui al comma 4 ter dell'art. 5 L. 225/1992; questa ordinanza, infatti, secondo il disposto della norma ha solo la funzione di �favorire e regolare� il subentro, che appare un effetto prodotto direttamente dalla cessazione dello stato di emergenza. (9) La Corte Costituzionale ha chiarito che con la legge n. 225/1992 il legislatore statale �ha rinunciato ad un modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico� (sentenze n. 129/2006 e n. 327/2003), v. sul punto par. 1 del presente parere. Commissario e amministrazione pubblica competente in via ordinaria a coordinare gli interventi (co. 4 ter); -prevede il correlativo trasferimento delle risorse finanziarie, stabilendo che la contabilit� speciale aperta per l'emergenza: -in prima battuta, e �per un periodo di tempo determinato�, possa essere intestata ad un soggetto dell�Amministrazione competente in via ordinaria a coordinare gli interventi �ai fini del completamento degli interventi previsti dalle ordinanze� di rientro; -poi, che la contabilit� speciale venga chiusa e che le �disponibilit� che residuano alla chiusura� vengano trasferite �alla regione o all'ente locale ordinariamente competente� (ovvero, ove si tratti di altra amministrazione, sono versate all'entrata del bilancio dello Stato per la successiva riassegnazione) �per gli ulteriori interventi da realizzare secondo le ordinarie procedure di spesa�. Tali disposizioni autorizzano a ritenere che per effetto della riespansione delle potest� ordinarie si attua una sorta di �reinvestitura� degli enti ordinariamente competenti nella stessa posizione gi� facente capo al commissario (ora cessato). Tale �reinvestitura� (gi� esaminata con riferimento ai poteri amministrativi che si sono �riespansi� al termine dell�emergenza, v. sopra par. 6) non pu� non avvenire anche con riferimento al complesso dell�attivit� �privatistica� avviata dal Commissario, naturalmente nella misura in cui tale attivit� sia connessa e strumentale all�esercizio delle pubbliche funzioni ormai tornate nelle competenze ordinarie. Alla riespansione dei poteri ordinari si accompagna la cessazione dei poteri straordinari esercitati dal Commissario (cessazione che appare effetto, e non causa, della riespansione dei poteri ordinari). Il punto essenziale � che, cessando i poteri straordinari del suo organo, lo Stato risulta ormai �spogliato� non solo delle funzioni amministrative, ma anche della facolt� di gestire i rapporti privatistici sorti per effetto dell�esercizio di tali poteri. Diversamente ritenendo, infatti, la gestione dei rapporti di natura privatistica verrebbe ad essere svincolata dall�esercizio della pubblica funzione e ci� appare irragionevole in quanto l�asservimento alla pubblica funzione costituisce proprio l�elemento teleologico dei rapporti �privatistici� instaurati dal Commissario. In base a tali premesse si arriva alla conclusione che, con la cessazione dell'emergenza, si deve ritenere realizzata una sorta di successione dell�ente �ordinario� in universum jus della gestione commissariale cessata, con conseguente subingresso del successore in tutte le posizioni (attive e passive) facenti capo al Commissario ormai cessato. 7.3 � ammissibile una successione in universum jus senza estinzione? Occorre valutare se osti a tale conclusione il fatto che la cessazione del Commissario delegato non possa essere qualificata tecnicamente come estinzione in quanto riguarda solo un organo (straordinario) della Presidenza del Consiglio (v . sopra par. 4) e questa non si estingue. Al proposito si deve far presente che la dottrina, studiando i fenomeni di successione tra enti pubblici, gi� da tempo ha sganciato la nozione di successione �universale� da quella dell�estinzione dell�ente �predecessore� (legata ad una concezione antropomorfa degli enti giuridici) (10). Il fondamento caratterizzante della successione universale � stato ravvisato, piuttosto, nella circostanza che il nuovo ente, oltre a subentrare in diritti e rapporti, abbia l�attitudine a svolgere la �stessa� attivit� dell�ente estinto continuandola giuridicamente (M. Nigro). Con ragionamento affine altra autorevole dottrina (Giannini) ha rilevato che il dato tipico della successione universale consiste nella �sopravvivenza dello scopo�: se il munus dell�ente a quo viene espunto dall�ordinamento, quella che segue sar� una mera attivit� liquidatoria (quindi la successione non potr� che essere a titolo particolare), mentre se il munus permane (attraverso la sua trasmissione ad un diverso soggetto), la successione di altro soggetto pubblico sar� a titolo universale, ove ricorrano altri indici rivelatori di tale tipo di successione (es. trapasso, sia pure parziale, delle strutture organizzative; passaggio delle situazioni patrimoniali ecc.). La giurisprudenza della Suprema Corte, pur rimanendo per lo pi� ancorata a posizioni tradizionali (collegando la successione universale all��estinzione�), � peraltro pervenuta in qualche caso a riconoscere che il fenomeno successorio si attua diversamente a seconda che dalla legge sia previsto �il permanere delle finalit� dell'ente soppresso ed il loro trasferimento ad altro ente, unitamente al passaggio sia pure parziale delle strutture e del complesso delle posizioni giuridiche gi� facenti capo al primo ente, ovvero abbia disposto la soppressione; nel primo caso deve ritenersi che la successione si attui in universum ius, con la conseguenza che tutti i rapporti giuridici che facevano capo all'ente soppresso passano all'ente sottentrante, mentre nel secondo caso, difettando la contemplazione del permanere degli scopi dell'ente soppresso, non avrebbe senso una successione a titolo universale nelle strutture organizzatorie che fosse attuata ai soli fini del loro dissolvimento, e deve ritenersi che la successione avvenga a titolo particolare, limitata ai soli beni che residuino alla procedura di liquidazione, con la conseguenza che l'ente liquidatore non solo non si sostituisce nella titolarit� della sfera giuridica originaria, ma non assume neppure alcuna diretta responsabilit� patrimoniale per le obbligazioni contratte dall'ente (10) Infatti sono state ritenute possibili sia ipotesi di estinzione di enti non segu�ta da successione a titolo universale (tale � stata considerata la soppressione delle Usl cui ha fatto seguito una successione a titolo particolare delle Regioni cui sono state attribuite funzioni liquidatorie), e sia ipotesi di successione universale senza �estinzione� (M. Nigro). estinto e che gi� risultavano all'atto della liquidazione� (Cass. n. 5971/1983, confermata da Cass. n. 535/2002; il perseguimento degli stessi fini quale indice della �successione� viene valorizzato anche da Cass. n. 2660/1995). In applicazione di tale principio, pertanto, � stato affermato (a proposito della nazionalizzazione delle imprese elettriche) che si tratterebbe di �un caso di successione universale senza estinzione delle societ� cedenti� (cos� Cass. civ. n. 11979/2003 che richiama Cass., sez. un., n. 1173/1970; Cass., n. 1045/1974, n. 599/1978, n. 3527/1979); in particolare il fenomeno � stato spiegato in termini di �successione in una vastissima serie unificata di rapporti giuridici attivi e passivi� - cfr. Cass. S.U. 2988/1968, cui ha fatto s�guito la �conseguente automatica e totale liberazione dei precedenti datori di lavoro da tutte le obbligazioni relative ai rapporti di lavoro del personale trasferito, comprese quelle anteriori al trasferimento� (Cass. 7096/1983). 7.4 Il �subentro� degli enti competenti in via ordinaria. Applicando tali principi alla cessazione delle gestioni commissariali, si pu� affermare che mentre il fine �emergenziale� (che ha occasionato il potere straordinario dei Commissari) deve considerarsi ex lege esaurito con la cessazione dell�emergenza, non cos� � per le finalit� di volta in volta perseguite mediante gli interventi avviati dal Commissario (es. realizzazione di una discarica, ricostruzione dopo una calamit�, misure di contenimento del traffico ecc.). Infatti le finalit� sottese a tali interventi, avviati dal Commissario, certamente sopravvivono e proseguono in capo agli enti ordinariamente competenti incaricati del relativo completamento (e per tal fine attributari anche delle relative risorse finanziarie). Tale permanenza della finalit� pubblicistica, che sopravvive alla cessazione dell�organo straordinario, � confermata dalla lettera dell�art. 5 co. 4 ter e 4 quater L. 225/1992 che, infatti, si esprime in termini di �subentro dell'amministrazione pubblica competente in via ordinaria� e di �prosecuzione� della gestione operativa. Deve altres� sottolinearsi che tale �subentro� non ha affatto valenza liquidatoria (aspetto ritenuto rilevante dalla Cassazione, ad esempio, con riferimento alla soppressione delle USL, cfr. Cass. S.U. n. 1989/1997), ma ha valenza gestionale, rispondendo ad un modello organizzativo a pi� fasi, in cui � fisiologico che gli interventi �avviati� dai Commissari in via straordinaria vengano poi �proseguiti� dagli enti ordinariamente competenti (v. par.7.2). D�altro canto occorre anche rilevare che nel caso in esame manca una norma che (diversamente da quanto avvenuto ad esempio nel caso delle USL) escluda espressamente il trasferimento delle passivit� e che, dunque, valga a manifestare la volont� del legislatore di escludere la natura universale del �subentro� degli enti ordinariamente competenti. In definitiva, dunque, la �reinvestitura� degli enti ordinariamente com petenti si caratterizza per i seguenti elementi: -�sopravvivenza dello scopo� attestata dalla lettera della legge che si esprime in termini di �subentro� degli enti ordinari; - ricorrenza di vari indici per affermare la successione in universum jus (prosecuzione della gestione operativa, trasferimento delle risorse finanziarie); -assenza di una norma che espressamente escluda la successione nelle passivit�. In tale contesto sembra dunque potersi affermare che il �subentro� degli enti ordinariamente competenti (ovvero dell�amministrazione pubblica competente in via ordinaria a coordinare gli interventi) si verifichi nella totalit� dei rapporti gi� facenti capo al Commissario cessato in base al principio della �continuit� economica�. Tale soluzione appare sostenibile -sia con riferimento alle obbligazioni nascenti da contratti la cui controprestazione � stata gi� eseguita (atteso che dette controprestazioni gi� eseguite rientrano appunto nel novero di quegli effetti trasferiti al soggetto ordinariamente competente); -e sia con riferimento alle obbligazioni extracontrattuali nascenti da fatto illecito non doloso (vale a dire se le circostanze dell'illecito non abbiano determinato l'interruzione del nesso organico). Infatti tanto le une quanto le altre obbligazioni sono sorte non solo �in occasione� ma anche �in funzione� della realizzazione della finalit� pubblicistica (es. realizzazione di una discarica, misura di disinquinamento) ora trasferita alla cura dell'ente ordinariamente competente che subentra nelle attivit� gi� compiute e ne persegue il completamento. Ed invero appare coerente anche da un punto di vista sistematico - oltre che rispondente a criteri di giustizia sostanziale: ubi commoda ibi et incommoda - che il soggetto che viene a giovarsi degli effetti �favorevoli� dell'attivit� svolta dal Commissario, correlativamente si faccia carico anche degli eventuali effetti �sfavorevoli�. In tale ottica � coerente la conclusione che i �costi� ancora da pagare vengano sostenuti dal soggetto al quale, unitamente alle opere e alle attivit� fino a quel momento realizzate, sono trasferite anche le risorse finanziarie residue finalizzate - al pari e nel concorso di quelle ordinariamente assegnate all�ente - a consentirne la prosecuzione della gestione (11). (11) Al proposito si pu� richiamare la giurisprudenza di merito formatasi nelle controversie risarcitorie per danni da fumo in cui veniva in discussione la �successione� dell'Ente Tabacchi Italiani al- l�Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato. La Corte di appello di Roma (Sez. I, sentenze 15 maggio 2006, e 7 marzo 2005) ha condannato al risarcimento dei danni da fumo l'Ente Tabacchi Italiani - divenuto in seguito British American Tobacco B.A.T. Italia s.p.a. - che era succeduto all�Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato. Sulla questione non si � pronunciata la Cassazione in quanto tra ETI e Monopoli intervenne una transazione che determin� la cessazione della materia del contendere (Cass. n. 22884/2007). Naturalmente la �successione� avviene esclusivamente con riferimento a quei rapporti privatistici posti in essere dal Commissario in diretta connessione con l�esercizio del munus pubblico e svolto in via emergenziale (e ora tornato nelle competenze ordinarie). Nessuna successione, per converso, si pu� ritenere attuata nei rapporti privatistici non strettamente connessi alla pubblica funzione. Sul punto si pu� dunque concludere come segue: Il subentro degli enti ordinariamente competenti (ovvero dell�amministrazione pubblica competente in via ordinaria a coordinare gli interventi) si verifica nella totalit� dei rapporti privatistici posti in essere dal Commissario(ivi comprese le obbligazioni extracontrattuali nascenti da fatto illecito non doloso e a quelle nascenti da contratti la cui controprestazione sia stata gi�eseguita), naturalmente nella misura in cui detti rapporti siano sorti in connessione con l�esercizio delle pubbliche funzioni ormai tornate nelle competenze ordinarie. 8. La successione degli enti competenti in via ordinaria nei rapporti processuali. Se la successione degli enti ordinariamente competenti � �universale� (v. sopra par. 7.4), va anche ribadito che la cessazione del Commissario non pu� essere assimilata alla estinzione e/o soppressione di un autonomo soggetto giuridico, trattandosi a di organo (straordinario) della Presidenza del Consiglio (v. sopra par. 4). In tale contesto occorre dunque valutare se la regola da applicare nel processo, con riferimento ai giudizi che vedono parte un Commissario ormai cessato, sia quella dell'art. 110 c.p.c. ovvero quella dell'art. 111 c.p.c. Com'� noto la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono soliti ancorare la distinzione tra l'una e l'altra ipotesi normativa al �venir meno� del soggetto titolare della posizione soggettiva trasferita. La scriminante � ravvisata nel fatto che, nel contesto dell�art. 111 c.p.c., il soggetto continua ad esistere e pertanto il processo pu� proseguire tra le parti originarie (si pone solo il problema di estendere l'ambito soggettivo di efficacia della pronuncia nei confronti del successore); invece nel contesto dell�art. 110 c.p.c. la cessazione dell'esistenza del soggetto giuridico pone il problema di ripristinare la necessaria bilateralit� processuale venuta meno a seguito dell'estinzione di una parte (ed � a tale funzione che risponde l�interruzione del processo). La giurisprudenza della Cassazione � per lo pi� incline ad applicare - come regola generale - quella della perpetuatio del processo, ossia la prosecuzione del giudizio (art. 111 c.p.c.), mentre alla interruzione (art. 110 c.p.c.) fa seguito solo quando il processo non possa proseguire per il �venir meno� della parte. Quanto poi a tale situazione, essa viene intesa non in senso parziale, ma in senso �assoluto�, nel senso che la soppressione deve riguardare l�ente stesso e non una sua parte (Cass civ. Sez. n. 11045/2002, che richiama Cass. n. 7258/2001 con riferimento alla costituzione di una nuova provincia attuata mediante distacco di alcuni comuni da una provincia preesistente). D'altra parte la Cassazione tende anche ad affermare che quando la parte non viene meno (e dunque il processo pu� proseguire ai sensi dell'art. 111 c.p.c.) la successione � sempre a titolo particolare, ossia limitata a �singoli� rapporti: a) ad esempio con riferimento alle Agenzie Fiscali, subentrate al Ministero delle Finanze, la Corte ha giustificato l�applicabilit� dell�art. 111 c.p.c. facendo leva, non solo sulla considerazione che �l'ente "cedente" (il Ministero) non � "venuto meno"�, ma anche con la considerazione che �le Agenzie sono destinatarie di posizioni attive e passive �specificamente determinate��, e ci� anche se il trasferimento riguardava intere "materie" ed "aree funzionali" gi� esercitate dal Ministero delle Finanze (con esclusione delle sole �funzioni statali") (cfr. Corte cass. SS.UU. 14 febbraio 2006 n. 3116 e 3118, nonch� Cass. n. 1054/2006); b) anche nel caso del subingresso dell'Ente Poste nei rapporti attivi e passivi gi� facenti capo alla Amministrazione PP.TT, la successione nel processo � stata ritenuta rientrante nell'art. 111 c.p.c., in quanto il trasferimento "ex lege" era �solo di una parte di beni e rapporti ad uno o pi� soggetti senza estinzione dell'ente i cui beni e rapporti sono in parte trasferiti� (Cass. n. 6521/2007), e ci� ancorch� il subingresso dell'Ente Poste avesse riguardato tutti i rapporti attivi e passivi, i diritti personali e i beni gi� facenti capo alla soppressa Amministrazione delle PP.TT. (con eccezione solo di quelli da destinare a sedi ed uffici del - non soppresso - Ministero delle Poste e Telecomunicazioni - D.L. n. 487/1993, art. 6); c) con riferimento al caso della trasformazione dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato nell'Ente tabacchi italiani (art. 1.1. D.Lgs. 9 luglio 1998, n. 283), la Corte ha affermato che �il fenomeno successorio, nei suoi riflessi processuali, si inquadra nell'art. 111 c.p.c.� (ci� in quanto �l'Amministrazione dei monopoli non � stata soppressa�) (Cass. civ. Sez. Unite, n. 7945/2003), ma anche in tal caso il nuovo ente era �subentrato nei rapporti attivi e passivi afferenti a tali attivit� (art. 3)�, quindi il subentro riguardava senz�altro una universitas. Come si vede, dunque, in tali decisioni sembra emergere la preoccupazione della Corte di associare al concetto del �venir meno� della parte, quello di �universalit�� della successione. Ci� porta ad affermare il postulato che, per converso, tutte le successioni di cui all�art. 111 c.p.c. (ossia senza �estinzione�) sono �a titolo particolare�. Ora, tale postulato tende a forzare la realt� dei fenomeni giuridici che si verificano nel caso di successione tra soggetti pubblici; infatti mentre tra persone fisiche � vero che il �venir meno� della parte tendenzialmente si accom pagna al fenomeno della successione in universum jus (ma non nel caso del legato, disciplinato dal secondo comma dell�art. 111 c.p.c.), non cos� � nel caso di enti pubblici, ove, come si � visto, la successione pu� essere di portata �universale� anche senza estinzione (12). In tale ordine logico, occorre segnalare alcune (non diffuse ma significative) pronunce giurisprudenziali che, facendosi carico di tali fenomeni, sono pervenute a scindere i due presupposti affermando che per uscire dall�ambito di applicabilit� dell�art. 110 c.p.c. non � necessario che la successione sia �particolare�, ma � sufficiente che la parte non sia �venuta meno�. Tale condizione basterebbe per rientrare nell�ambito dell�art. 111 c.p.c. anche se la successione � in universum jus. Quindi vi sarebbero ipotesi di successione �universale�, ma regolate dall�art. 111 c.p.c. in quanto non vi � estinzione della parte. Infatti � stato affermato che �allorch� non vi sia estinzione dell'ente cedente, si verifica un'ipotesi particolare di successione nel diritto controverso, ai sensi dell'art. 111 c.p.c.: ci�, si noti, anche quando si abbia una successione "per universitatem" nel diritto dedotto in giudizio (purch�, ripetesi, non sia venuta meno la parte). In tali casi �� il processo prosegue tra le parti originarie� (Cass. civ. Sez. V, n. 11979/2003). La medesima Cassazione segnala il caso della �nazionalizzazione delle imprese elettriche (ritenuto un caso di successione universale senza estinzione delle societ� cedenti) per la �sostanziale applicabilit� (in via diretta od analogica od estensiva) dell'art. 111 c.p.c� (Cass. n. 11979/2003). La dottrina, d'altra parte, (Dalfino) ha gi� da tempo chiarito che si ha successione nel processo ai sensi dell�art. 110 c.p.c. solo nei casi in cui ricorrano entrambe le condizioni di applicabilit� di tale istituto (cio� sia il �venir meno� della parte e sia la successione in �universum jus�); quando ci� non avviene, in quanto una delle due condizioni non si verifica, la regola della successione � quella di cui all�art. 111 c.p.c. 8.2-In applicazione di tali principi si dovrebbe dunque affermare che a seguito della cessazione dei Commissari delegati di protezione civile di cui alla L. 225/1992, il conseguente subentro degli enti competenti in via ordinaria -non ricorrendo il �venir meno� dello Stato (di cui il Commissario era longa manus) - integra un'ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso ai sensi dell'art. 111 c.p.c., ancorch� la successione degli enti ordinariamente competenti possa essere qualificata come �universale�. Trattandosi peraltro di successione a titolo particolare nel processo, in applicazione dell'art. 111 co. 1 c.p.c., il giudizio prosegue tra le parti originarie, quindi nei confronti della P.C.M. (gi� costituita in causa ovvero entrata formal (12) Al proposito in dottrina si � parlato di �successione parziale�: parziale perch� non legata al- l�estinzione dell�ente predecessore, ma universale per la struttura del trapasso (M. Nigro). mente in causa con comparsa di costituzione in prosecuzione -ex art. 302 cod. proc. civ. - o in riassunzione - ex art. 303 cod. proc. civ. - in seguito alla cessazione del Commissario delegato), che agirebbe di fatto come un sostituto processuale ex art. 81 cod. proc. civ.. 8.3-Adempimenti suggeriti: - si suggerisce, ove possibile nello stato del giudizio, di effettuare la chiamata in causa dell'ente locale competente in via ordinaria ai sensi dell'art. 111 co. 3 c.p.c.; -potrebbe essere richiesta in tal caso l�estromissione dal giudizio (che, comՏ noto, pu� essere disposta solo con l�adesione delle parti); - in ogni caso, ai sensi del 4� co. dell'art. 111 c.p.c., la sentenza pronunciata nei confronti della P.C.M. spiega i suoi effetti anche contro l'ente competente in via ordinaria (o ente di coordinamento). Concludendo sul punto si pu� dire che: La cessazione delle funzioni commissariali comporta che il giudizio prosegue nei confronti della P.C.M. ai sensi dell'art. 111 c.p.c. , ancorch� la successione degli enti ordinariamente competenti si possa considerare �universale�. 9. Il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato. Inquadrando la fattispecie successoria in esame nell�art. 111 c.p.c. il giudizio, come si � visto, prosegue fisiologicamente nei confronti dell�Amministrazione statale, che altrettanto fisiologicamente mantiene il patrocinio dell�Avvocatura dello Stato. In ogni caso va del tutto escluso che l'Avvocatura dello Stato possa proseguire le proprie attivit� processuali anche nell'interesse dell'ente locale competente in via ordinaria in mancanza di una norma che lo consenta. Ci� appare particolarmente significativo se si considera che, invece, nel caso della cessazione del Funzionario Delegato del CIPE per il sisma del 1981, fu espressamente disposto dall'art. 22 co. 9-bis del D.L. n. 244/1995 che �Le controversie derivanti dai rapporti posti in essere ai sensi del titolo VIII della L. 14 maggio 1981, n. 219 �restano nella competenza dell'Avvocatura dello Stato che agisce in difesa degli enti proprietari [successori a titolo particolare]�. Pertanto il patrocinio dell'Avvocatura continua ad essere esercitato esclusivamente in favore dell'Amministrazione dello Stato (o altri enti gi� difesi in via ordinaria). In relazione a quanto sopra si pu� dunque concludere che: Va del tutto escluso che l'Avvocatura dello Stato possa proseguire le proprieattivit� processuali anche nell'interesse dell'ente locale competente in viaordinaria; manca infatti una norma che lo consenta. 10. Condotta processuale in ordine alle impugnazioni. Nella nota indicata a margine codesto Dipartimento chiedeva, tra l'altro, di valutare quale condotta processuale assumere, anche prudenzialmente, per evitare qualunque tipo di pregiudizio per gli interessi erariali, in particolare ponendo in evidenza che per le numerose sentenze, sfavorevoli ai Commissari, emesse recentemente si pone il problema di valutare se, e nell'interesse di quale soggetto, debba essere proposto l'eventuale gravame. La questione va risolta tenendo conto che l'Amministrazione statale (nei cui confronti, come si � visto al par. 8, il giudizio prosegue ai sensi dell'art. 111 c.p.c.), ha sempre l'onere di proporre il gravame avverso la sentenza sfavorevole. Nei soli casi in cui l'ente locale subentrato impugni a sua volta la sentenza che fa stato anche nei suoi confronti ai sensi dell'art. 111 co. 4 c.p.c., tale impugnazione potr�, se del caso, essere superflua (al proposito giova ricordare che, con riferimento alle Agenzie fiscali, la Cassazione ha affermato la �implicita estromissione della Amministrazione statale ex art. 111 c.p.c., comma 3 ove costituita in primo grado� nei casi in cui l'Amministrazione statale non aveva assunto la posizione di parte processuale nel giudizio di appello introdotto dall�Agenzia - cfr. Cass. civ. S.U. n. 3116/2006, ripresa da Cass. n. 9562/2013)(13). Naturalmente, come gi� rilevato al par. 8, il gravame dovr� essere proposto per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In relazione a quanto sopra si pu� dunque concludere che: L'Avvocatura dello Stato ha sempre l'onere di proporre gravame avverso lesentenze eventualmente sfavorevoli nell'interesse dell'Amministrazione statale (nei cui confronti il giudizio prosegue ai sensi dell'art. 111 c.p.c.). In singole ipotesi l�impugnazione potr� non essere indispensabile nei casiin cui l'ente locale competente in via ordinaria (unico interessato alla controversia) impugni a sua volta la sentenza ai sensi dell'art. 111 co. 4 c.p.c. Conclusioni. Tanto considerato si sintetizzano le conclusioni su cui � pervenuta la Scrivente come segue: 1. Le attribuzioni e i poteri esercitati dai Commissari delegati sono poteri �propri� dello Stato. (13) Occorre precisare che in tali casi l�estromissione �implicita� � stata ammessa dalla Cassazione in quanto �L'attribuzione al nuovo soggetto, in via esclusiva, della gestione del contenzioso, �comporta che, pur mantenendo l'Amministrazione finanziaria la qualit� d� parte, la concreta strategia processuale (e quindi il mantenimento di tale qualit�) spetta all'Agenzia ... Quindi, la proposizione dell'appello esclusivamente da parte dell'Agenzia, senza esplicita menzione dell'ufficio finanziario periferico che era parte originaria, ha comportato la conseguente estromissione di quest'ultimo� (Cass. civ. S.U. n. 3116/2006). 2. Le attribuzioni e i poteri esercitati dallo Stato in sede emergenziale operano in via sostitutiva degli enti competenti in via ordinaria, le cui attribuzioni sono dunque �compresse� temporaneamente nei limiti di un doveroso nesso di congruit� e proporzione. Gli effetti delle funzioni amministrative svolte dal Commissario delegato si attuano direttamente nella sfera dell�ente competente in via ordinaria (sostituito). 3. Il Commissario straordinario di cui all'art. 5 co. 4 L. 225/1992 non va considerato quale destinatario di una delega intersoggettiva di funzioni, ma quale organo del Governo (�longa manus� del Governo stesso) del quale esercita le funzioni emergenziali ad esso proprie, sicch� i provvedimenti posti in essere dai commissari delegati �sono atti dell�amministrazione centrale dello Stato�. 4. Il Commissario straordinario di cui all'art. 5 co. 4 L. 225/1992 non va considerato quale autonomo centro di imputazione degli effetti giuridici dell'attivit� svolta quale delegato del Governo; 5. La cessazione dello stato di emergenza comporta il �subentro� degli enti ordinariamente competenti nella posizione dei Commissari cessati. 6. La cessazione dell'emergenza comporta la �riespansione� dei poteri degli enti competenti in via ordinaria, ai quali spetter� di avviare i nuovi procedimenti nel rispetto delle proprie competenze e dei principi ordinari; - per quanto concerne i procedimenti pendenti, la cessazione dell�emergenza determina la �successione�, nella fase in corso, degli enti ordinariamente competenti; -eventuali atti della P.C.M. (e, tanto pi�, del Commissario ormai cessato e non procrastinabile neppure in via di prorogatio) dopo la chiusura dello stato di emergenza, rischierebbero di essere dichiarati nulli perch� emessi in carenza (in astratto) di potere; - gli effetti dell'attivit� fino a quel momento svolta dal Commissario si sono prodotti comunque direttamente nella sfera dell'ente competente in via ordinaria, che - salvo l�eventuale esercizio della potest� di autotutela - non potr� dichiararsi estraneo al procedimento gi� avviato dal Commissario. 7. Il subentro degli enti ordinariamente competenti (ovvero dell�amministrazione pubblica competente in via ordinaria a coordinare gli interventi) si verifica nella totalit� dei rapporti privatistici posti in essere dal Commissario (ivi comprese le obbligazioni extracontrattuali nascenti da fatto illecito colposo e a quelle nascenti da contratti la cui controprestazione sia stata gi� eseguita), naturalmente nella misura in cui essi siano sorti in connessione con l�esercizio delle pubbliche funzioni ormai tornate nell�alveo delle competenze ordinarie. 8. La cessazione delle funzioni commissariali comporta che il giudizio prosegue nei confronti della P.C.M. ai sensi dell'art. 111 c.p.c., ancorch� la successione degli enti ordinariamente competenti si possa considerare �universale�. 9. Va del tutto escluso che l'Avvocatura dello Stato possa proseguire le proprie attivit� processuali anche nell'interesse dell'ente locale competente in via ordinaria, mancando, tra l�altro, una norma che lo consenta. 10. L'Avvocatura dello Stato ha sempre l'onere di proporre gravame avverso le sentenze eventualmente sfavorevoli nell'interesse dell'Amministrazione statale. *** Si rimane a disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti. Sul presente parere � stato sentito il Comitato Consultivo di cui all�art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si � espresso in conformit�. L�AVVOCATO INCARICATO L�AVVOCATO GENERALE Gianna Maria De Socio Michele DIPACE . contenzioso comunitario e internazionale CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Corte di Giustizia UE 4 luglio 2013 causa C-100/2012: note minime sui rapporti fra ricorso principale e ricorso incidentale �escludente� Stefano Varone* La Corte di Giustizia si � pronunciata sull�annosa questione dell�ordine di esame delle questioni in ipotesi di ricorso incidentale volto a contestare la legittimazione del ricorrente principale che abbia partecipato ad una procedura ad evidenza pubblica. L�incerto panorama giurisprudenziale � stato caratterizzato, sul piano interno, dall�importante arresto del Consiglio di Stato il quale, con decisione dell�Adunanza Plenaria 7 aprile 2011 n. 4, aveva ritenuto che l�esame del ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale attraverso l'impugnazione della sua ammissione alla procedura di gara deve comunque precedere quello del ricorso principale. L�importanza della decisione derivava dal fatto che in precedenza la medesima Adunanza Plenaria con sentenza n. 11/2008 aveva affermato la sussistenza di un�eccezione generale alla regola della precedenza nei confronti del ricorso incidentale, in applicazione della quale il Giudice aveva l�onere di esaminare anche il merito del ricorso principale qualora fosse fatto valere dal ricorrente principale un interesse strumentale alla ripetizione della procedura di gara. Per contro l�Adunanza Plenaria n. 4/2011 ha affermato che: a) la parit� delle parti e l�imparzialit� del giudice non intaccano le regole sull�ordine di esame di questioni di rito e di merito, che anzi ne sono espressione e applicazione; il codice del processo amministrativo ha fissato l�ordine di esame delle questioni, con portata ricognitiva della disciplina previgente, (*) Avvocato dello Stato. prima le questioni di rito, poi quelle di merito. In particolare, l�art. 76, IV. co. del c.p.a., nel disciplinare le modalit� di votazione delle decisioni nei giudizi amministrativi rinvia al II comma dell�art. 276 c.p.c., secondo cui il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa (par. 28-30 della sentenza). b) la questione della legittimazione al ricorso principale � prioritaria rispetto al merito: detta questione � rilevabile d�ufficio e va introdotta mediante ricorso incidentale (par. 31-32); c) L�art. 42, I comma, del c.p.a., nel disciplinare il ricorso incidentale e la domanda riconvenzionale, prevede che �le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale�. Pertanto, il ricorso incidentale nel c.p.a. serve a introdurre non solo eccezioni, ma anche domande, e domande di accertamento pregiudiziale e, perci�, non necessariamente deve essere esaminato dopo il ricorso principale; va esaminato prima se introduce una questione di legittimazione del ricorrente principale (� 33); d) la legittimazione � un prius rispetto all��interesse strumentale�: la nozione di �interesse strumentale�, infatti, non identifica un�autonoma posizione giuridica soggettiva, ma indica il rapporto di utilit� tra l�accertata legittimazione al ricorso e la domanda formulata dall�attore (�� 34-36); e) salve puntuali eccezioni, individuate in coerenza con il diritto comunitario, la legittimazione al ricorso, in materia di affidamento di contratti pubblici, spetta solo al soggetto che ha legittimamente partecipato alla procedura selettiva (�� 36-40). Alla luce delle suesposte argomentazioni, l�Adunanza Plenaria ha sancito il seguente principio di diritto: �il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara, deve essere sempre esaminato prioritariamente, anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l�interesse strumentale alla rinnovazione dell�intera procedura. Detta priorit� logica sussiste indipendentemente dal numero dei partecipanti alla procedura selettiva, dal tipo di censura prospettata dal ricorrente incidentale e dalle richieste formulate dall�amministrazione resistente�. La netta inversione di tendenza che caratterizzava la pronuncia della plenaria del 2011, oltre a trovare opinioni dissenzienti in alcune decisioni dei TAR, era stata fortemente criticata dalla Cassazione che, con la pronuncia a Sez. Unite, 21 giugno 2012, n. 10294, aveva censurato - sia pure in obiter - la posizione del Consiglio di Stato. Infatti secondo le Sezioni Unite il principio di diritto affermato dalla plenaria �non � condivisibile, in quanto, al cospetto di due imprese che sollevano a vicenda la medesima questione, ne sanziona una con l'inammissibilit� del ricorso e ne favorisce l'altra con il mantenimento di un'aggiudicazione (in tesi) illegittima, denotando una crisi del sistema che, al contrario, proclama di assicurare a tutti la possibilit� di provocare l'intervento del giudice per ripristinare la legalit� e dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dalla normativa di riferimento, tanto pi� che l'aggiudicazione pu� dare vita ad una posizione preferenziale soltanto se acquisita in modo legittimo�. La pronuncia della Suprema Corte non si poneva tuttavia quale precedente effettivamente rilevante in quanto era la stessa decisione a chiarire che la questione dell�ordine di esame delle questioni si configurava come possibile errore di diritto e non gi� quale ipotesi di diniego di giustizia, escludendo pertanto l�ammissibilit� della cassazione per eccesso di potere giurisdizionale. Le perplessit� manifestate dalla Cassazione sono state tuttavia di recente condivise da due ordinanze dello stesso Consiglio di Stato che, antecedentemente alla pubblicazione della pronuncia della Corte di Giustizia, hanno nuovamente rimesso la questione all�adunanza plenaria. In particolare l�ordinanza 15 aprile 2013 n. 2059 ha rilevato che �anche se per un verso la Sezione condivide l�orientamento secondo il quale la giustizia amministrativa non ha il compito di ripristinare la legalit� in senso assoluto, ma quello di tutelare situazioni giuridiche soggettive qualificate, e pu� ricorrere al giudice amministrativo solo chi abbia una posizione giuridica legittimante (sicch� qualora il ricorso incidentale abbia lo scopo di promuovere la verifica della legittimazione del ricorrente principale, correttamente � il ricorso incidentale a dover essere esaminato per primo: v. anche C.d.S., Sez. III, 27 settembre 2012, n. 5111), per altro verso questa stessa Sezione osserva che in fattispecie come quella in esame il ricorso incidentale porta preliminarmente in giudizio, con la verifica della legittimazione, una parte cospicua del merito della controversia, nonch� il sindacato sui criteri di valutazione delle offerte da parte della stazione appaltante. Sicch� l�esame delle sole prospettazioni dell�aggiudicatario sembrerebbe contrario al principio di parit� delle parti�. La successiva ordinanza 17 maggio 2013 n. 2681, all�esito di una accurata ricostruzione degli istituti processuali ha quindi evidenziato le criticit� conseguenti all�applicazione dei principi enunciati dalla sentenza n. 4 del 2011 ed in particolare ha sottolineato che: a) �l�esito del giudizio (e della gara) dipende da un atto dell�Amministrazione che - con la prospettiva di risultare insindacabile in sede giurisdizionale - pu� risultare la conseguenza di determinazioni arbitrarie e indebitamente sollecitate�; b) �quando risultino viziati gli atti di ammissione alla gara di entrambe le imprese partecipanti, pur a seguito della statuizione di inammissibilit� del ricorso principale, conserva rilievo sostanziale il vizio dell�atto che ha ammesso alla gara l�aggiudicatario, sicch� si � in presenza di un giudicato del tutto �cedevole�, poich� l�Amministrazione ispirandosi al principio di legalit� - al termine del giudizio pu� anche annullare in sede di autotutela l�atto di ammissione dell�aggiudicatario e della conse guente aggiudicazione (il che dovrebbe porsi anche in termini di doverosit�, quando il ricorrente principale ha fondatamente - ma inutilmente - dedotto che l�aggiudicatario � privo di uno o pi� requisiti sostanziali)�; c) �qualora in sede di giustizia amministrativa non sia presa in considerazione la domanda di annullamento della aggiudicazione, in conseguenza della declaratoria di inammissibilit� del ricorso principale, vi � la concreta possibilit� che il perdurante rilievo della illegittimit� (pi� o meno evidente) dell�atto di ammissione alla gara dell�aggiudicatario sia sottoposto all�esame di altri ordini giurisdizionali, che constatino un pregiudizio economico per la stessa Amministrazione aggiudicatrice e potrebbero giungere a conclusioni incongruenti con la conseguita inoppugnabilit� dell�aggiudicazione�. Nelle more, come noto, il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte con l�ordinanza n. 208/2012, aveva sollevato questione pregiudiziale rimettendo alla Corte di Giustizia il quesito �se i principi di parit� delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nei pubblici appalti, di cui alla direttiva n. 89/665/CEE, modificata con la direttiva n. 2007/66/CE, ostino al diritto vivente quale statuito nella decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2011, secondo il quale l'esame del ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale attraverso l'impugnazione della sua ammissione alla procedura di gara, deve necessariamente precedere quello del ricorso principale ed abbia portata pregiudiziale rispetto all'esame del ricorso principale, anche nel caso in cui il ricorrente principale abbia un interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura selettiva e indipendentemente dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, con particolare riferimento all'ipotesi in cui i concorrenti rimasti in gara siano soltanto due (e coincidano con il ricorrente principale e con l'aggiudicatario-ricorrente incidentale), ciascuno mirante ad escludere l'altro per mancanza, nelle rispettive offerte presentate, dei requisiti minimi di idoneit� dell'offerta�. La Corte di Giustizia, con sentenza 4 luglio 2013 causa C-100/2012, ha quindi ritenuto che la soluzione fornita dall�Adunanza Plenaria nel 2011 non fosse compatibile con la vigente normativa europea (art. 1, paragrafo 3, della dir. 89/665/CEE come modificata dalla dir. 2007/66/CE) esprimendo il seguente principio di diritto: �se, in un procedimento di ricorso, l'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto e proposto ricorso incidentale solleva un'eccezione di inammissibilit� fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell'offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l'offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall'autorit� aggiudicatrice per non conformit� alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell'esame preliminare di tale eccezione di inammissibilit� senza pronunciarsi sulla conformit� con le suddette specifiche tecniche sia dell'offerta dell'ag giudicatario che ha ottenuto l'appalto, sia di quella dell'offerente che ha proposto il ricorso principale�. A tale soluzione giunge sulla base di una sintetica motivazione, ove viene dapprima sostanzialmente richiamato il principio di effettivit� della tutela citando il precedente, Hackerm�ller, (C.249/01) quindi affermato che il ricorso incidentale dell�aggiudicatario �non pu� comportare il rigetto del ricorso di un offerente nell�ipotesi in cui la legittimit� dell�offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell�ambito del medesimo procedimento e per motivi identici. In una situazione del genere, infatti, ciascuno dei concorrenti pu� far valere un analogo interesse legittimo all�esclusione dell�offerta degli altri, che pu� indurre l�amministrazione aggiudicatrice a constatare l�impossibilit� di procedere alla scelta di un�offerta regolare�. Proprio tale passo della sentenza potrebbe essere letto quale indice della peculiarit� del caso esaminato: si ha infatti cura di precisare che la legittimit� dell�offerta di entrambi gli operatori era contestata nell�ambito del medesimo procedimento e per motivi identici; una situazione sostanzialmente speculare che potrebbe avere influito in maniera decisiva nella soluzione del caso, soprattutto a mente dell�ottica �sostanzialista� che � solita esprimere le decisioni della Corte di Giustizia. Si vuol cio� significare che dal tenore letterale della pronuncia si potrebbe ricavare una limitazione del principio all�ipotesi di vizi �speculari� ed �escludenti�, anche se a diverse conclusioni potrebbe condurre la circostanza che la Corte ha implicitamente disatteso uno degli argomenti cardine addotti dal governo italiano a suffragio della legittimit� della tesi sostenuta dall�adunanza plenaria, ovverosia la necessit� di rendere recessivo il mero interesse strumentale alla ripetizione della gara rispetto a quello all�aggiudicazione. Tale tesi era fondata sulla circostanza che i �considerando� della direttiva e alcune disposizioni della stessa potevano essere lette come indice che la tutela garantita a livello europeo era relativa alla sola la posizione di chi ha interesse a ottenere l�affidamento di un determinato appalto pubblico e non gi� l�interesse strumentale all�intero annullamento della gara e alla ripetizione della stessa da parte di un soggetto privo dei requisiti per l�aggiudicazione (1) (che a ben vedere � meramente eventuale, potendo l�amministrazione optare per la non riedizione della gara). In altre parole si era prospettato che �l�interesse all�affidamento� andava inteso come riferito a un �determinato appalto pubblico�, ossia allo specifico appalto alla cui gara ha partecipato il soggetto (1) Si era cio� rappresentato che applicando il principio di diritto posto dalla Plenaria n. 4/2011 non si precluderebbe la tutela giurisdizionale ad un concorrente, ma semplicemente non si ammette che il ricorso dallo stesso presentato sia da valutare nel merito in quanto, dall�esame del ricorso presentato dalla controparte, si evince in modo certo ed inconfutabile che lo stesso non era in possesso dei requisiti per aggiudicarsi la gara. che contesta l�operato della stazione appaltante. La carenza di requisiti per l�aggiudicazione avrebbe determinato il difetto di legittimazione a ricorrere in quanto mai avrebbe potuto conseguire quell�appalto. Come predetto tale tesi � stata tuttavia smentita dalla Corte di Giustizia, e di tale dato occorre prendere atto. La Corte infatti � addivenuta ad una ricostruzione che garantisce comunque l�interesse �strumentale� del partecipante a far cadere la gara per ottenere la riedizione della stessa. Al di l� di letture pi� o meno restrittive della portata del principio affermato dalla Corte di Giustizia resta il fatto che le peculiarit� del caso esaminato rendono di perdurante vitalit� la questione oggetto della remissione all�Adunanza plenaria di cui alle citate ordinanze del 2013. Di certo il punto fermo � che il mero aspetto �processuale� ovverosia la regola di esame delle questioni di cui agli artt. 76, IV comma, del d. lgs. n.104/2010 e 276, II co., del codice di procedura civile non pu� assumere rilievo per negare la possibilit� di tutela giurisdizionale al partecipante alla gara. In tal senso pare corretto ritenere che quello che dovr� essere principalmente oggetto di revisione da parte della Plenaria rispetto alla posizione del 2011 � il concetto stesso di legittimazione, che nell�ambito del giudizio amministrativo assume una connotazione peculiare ed in gran parte autonoma rispetto all�omologa nozione processual-civilsitica. Tale profilo � stato ben messo in luce dall�ordinanza n. 2684/2013 in quanto mentre nel processo civile la questione della legittimazione � principalmente legata alla prospettazione della parte (coincidenza tra il soggetto che propone la domanda e il soggetto che nella domanda si afferma titolare del diritto), nel processo amministrativo quella recepita � una nozione pi� marcatamente sostanziale: �non basta che il ricorrente si autodichiari titolare dell�interesse che fa valere, ma occorre andare a verificare se ne sia effettivamente titolare, se cio� egli sia realmente titolare di una posizione giuridica differenziata e normativamente qualificata�. Se ci� � vero, la verifica di merito richiesta per accertare la legittimazione esclude che il semplice ordine delle questioni possa assurgere a discrimine nella garanzia della tutela giurisdizionale effettiva. Corte di Giustizia dell�Unione Europea, Decima Sezione, sentenza del 4 luglio 2013 nella causa C-100/12 -Pres. A. Rosas, Rel. D. .v�by, Avv. Gen. J. Kokott - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte - Fastweb SpA contro Azienda Sanitaria Locale di Alessandria. �Appalti pubblici � Direttiva 89/665/CEE � Ricorso in materia di appalti pubblici � Ricorso proposto contro la decisione di aggiudicazione di un appalto da un offerente escluso � Ricorso fondato sulla motivazione che l�offerta prescelta non sarebbe conforme alle specifiche tecniche dell�appalto � Ricorso incidentale dell�aggiudicatario fondato sull�inosservanza di alcune specifiche tecniche dell�appalto nell�offerta presentata dall�offerente che ha proposto il ri CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INERNAZIONALE 43 corso principale � Offerte entrambe non conformi alle specifiche tecniche dell�appalto � Giurisprudenza nazionale che impone di esaminare in via preliminare il ricorso incidentale e, in caso di fondatezza di quest�ultimo, di dichiarare inammissibile il ricorso principale senza esaminarlo nel merito � Compatibilit� con il diritto dell�Unione� 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull�interpretazione della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all�applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33), come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell�11 dicembre 2007 (GU L 335, pag. 31; in prosieguo: la �direttiva 89/665�). 2 Tale domanda � stata presentata nell�ambito di una controversia tra Fastweb SpA (in prosieguo: �Fastweb�), da una parte, e l�Azienda Sanitaria Locale di Alessandria, nonch� Telecom Italia SpA (in prosieguo: �Telecom Italia�) ed una controllata di quest�ultima, Path-Net SpA (in prosieguo: �Path-Net�), dall�altra, a proposito dell�aggiudicazione di un appalto pubblico a tale controllata. Contesto normativo 3 Il secondo ed il terzo considerando della direttiva 89/665 sono formulati come segue: �[C]onsiderando che i meccanismi attualmente esistenti, sia sul piano nazionale sia sul piano comunitario, per garantire [l�]applicazione [effettiva delle direttive in materia di appalti pubblici] non sempre permettono di garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette; considerando che l�apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un aumento notevole delle garanzie di trasparenza e di non discriminazione e che occorre, affinch� essa sia seguita da effetti concreti, che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscano tale diritto�. 4 Il considerando 3 della direttiva 2007/66 cos� recita: �[�] le garanzie di trasparenza e di non discriminazione che costituiscono l�obiettivo [in particolare della direttiva 89/665] dovrebbero essere rafforzate per garantire che la Comunit� nel suo complesso benefici pienamente degli effetti positivi dovuti alla modernizzazione e alla semplificazione delle norme sull�aggiudicazione degli appalti pubblici, operate [in particolare dalla direttiva 2004/18/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114)] (...)�. 5 Ai sensi dell�articolo 1 della direttiva 89/665, rubricato �Ambito di applicazione e accessibilit� delle procedure di ricorso�: �1. La presente direttiva si applica agli appalti di cui alla direttiva [2004/18], a meno che tali appalti siano esclusi a norma degli articoli da 10 a 18 di tale direttiva. Gli appalti di cui alla presente direttiva comprendono gli appalti pubblici, gli accordi quadro, le concessioni di lavori pubblici e i sistemi dinamici di acquisizione. Gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalla direttiva [2004/18], le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto pi� rapido possibile, secondo le condizioni previste negli articoli da 2 a 2 septies della presente direttiva, sulla base del fatto che hanno violato il diritto comunitario in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici o le norme nazionali che lo recepiscono. (...) 3. Gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalit� dettagliate che gli Stati membri possono determinare, [per lo meno] a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l�aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione. (...)�. 6 L�articolo 2, paragrafo 1, della citata direttiva stabilisce quanto segue: �Gli Stati membri provvedono affinch� i provvedimenti presi in merito alle procedure di ricorso di cui all�articolo 1 prevedano i poteri che consentono di: (...) b) annullare o far annullare le decisioni illegittime (�); (...)�. 7 Il considerando 2 della direttiva 2004/18 � formulato come segue: �L�aggiudicazione degli appalti negli Stati membri per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico � subordinata al rispetto dei principi del trattato [FUE] ed in particolare ai principi della libera circolazione delle merci, della libert� di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonch� ai principi che ne derivano, quali i principi di parit� di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalit� e di trasparenza. Tuttavia, per gli appalti pubblici con valore superiore ad una certa soglia � opportuno elaborare disposizioni di coordinamento comunitario delle procedure nazionali di aggiudicazione di tali appalti fondate su tali principi, in modo da garantirne gli effetti ed assicurare l�apertura degli appalti pubblici alla concorrenza. Di conseguenza, tali disposizioni di coordinamento dovrebbero essere interpretate conformemente alle norme ed ai principi citati, nonch� alle altre disposizioni del trattato�. 8 Ai sensi dell�articolo 2 della direttiva: �Le amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parit�, in modo non discriminatorio e agiscono con trasparenza�. 9 L�articolo 32 della direttiva in questione cos� dispone: �(...) 2. Ai fini della conclusione di un accordo quadro, le amministrazioni aggiudicatrici seguono le regole di procedura previste dalla presente direttiva in tutte le fasi fino all�aggiudicazione degli appalti basati su tale accordo quadro. (...) Gli appalti basati su un accordo quadro sono aggiudicati secondo le procedure previste ai paragrafi 3 e 4. (...) (...) 4. (...) Gli apalti basati su accordi quadro conclusi con pi� operatori economici possono essere aggiudicati: (...) � qualora l�accordo quadro non fissi tutte le condizioni, dopo aver rilanciato il confronto competitivo fra le parti in base alle medesime condizioni, se necessario precisandole, e, se del caso, ad altre condizioni indicate nel capitolato d�oneri dell�accordo quadro, secondo la seguente procedura: CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INERNAZIONALE 45 a) per ogni appalto da aggiudicare le amministrazioni aggiudicatrici consultano per iscritto gli operatori economici che sono in grado di realizzare l�oggetto dell�appalto; (...) d) le amministrazioni aggiudicatrici aggiudicano ogni appalto all�offerente che ha presentato l�offerta migliore sulla base dei criteri di aggiudicazione fissati nel capitolato d�oneri dell�accordo quadro�. Procedimento principale e questione pregiudiziale 10 Conformemente al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, �Codice dell�amministrazione digitale� (supplemento ordinario alla GURI n. 112 del 16 maggio 2005), il Centro Nazionale per l�Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA) � abilitato a concludere contratti quadro con operatori economici da esso individuati. Le amministrazioni non statali hanno facolt� di attribuire appalti fondati su tali contratti quadro, sulla base delle proprie esigenze di servizio. 11 Il CNIPA ha concluso un contratto quadro di questo tipo, in particolare, con Fastweb e Telecom Italia. Il 18 giugno 2010, l�Azienda Sanitaria Locale di Alessandria ha indirizzato a tali societ� una richiesta di progetto riguardante �linee dati/fonia� sulla base di un �piano di fabbisogni�. Con delibera del 15 settembre 2010, essa ha scelto il progetto presentato da Telecom Italia, concludendo un contratto con una controllata di quest�ultima, Path-Net, il 27 dello stesso mese. 12 Fastweb ha proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione dell�appalto dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte. Telecom Italia e Path-Net sono intervenute nel procedimento, proponendo ricorso incidentale. La legittimit� dell�offerta di ciascuno degli operatori viene contestata dal suo unico concorrente a causa del mancato rispetto di alcune specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni. 13 In esito alla verificazione dell�idoneit� delle offerte presentate dalle due societ� rispetto al piano di fabbisogni, disposta dal giudice del rinvio, � stato constatato che nessuna delle due offerte risultava conforme all�insieme delle specifiche tecniche imposte dal piano. Secondo tale giudice, una simile constatazione dovrebbe logicamente condurre all�accoglimento dei due ricorsi e, di conseguenza, ad annullare la procedura di aggiudicazione dell�appalto pubblico in questione, dal momento che nessun offerente ha presentato un�offerta idonea a dar luogo ad aggiudicazione. Tale soluzione soddisferebbe l�interesse del ricorrente principale, in quanto la rinnovazione della procedura di aggiudicazione gli procurerebbe una nuova chance di ottenere l�appalto. 14 Il giudice del rinvio rileva tuttavia che, con decisione del 7 aprile 2011, resa in adunanza plenaria, il Consiglio di Stato, a proposito dei ricorsi in materia di appalti pubblici, ha enunciato un principio di diritto secondo il quale l�esame di un ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, in quanto illegittimamente ammesso a partecipare alla procedura di aggiudicazione controversa, deve precedere l�esame del ricorso principale, anche nel caso in cui il ricorrente principale abbia un interesse strumentale alla rinnovazione dell�intera procedura di aggiudicazione e indipendentemente sia dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, sia dal tipo di censura prospettata con il ricorso incidentale, sia infine dalle richieste dell�amministrazione interessata. 15 Il Consiglio di Stato ritiene infatti che la legittimazione a ricorrere contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico spetti soltanto al soggetto che abbia legittimamente partecipato alla procedura di aggiudicazione. Secondo tale giudice, l�accertamento dell�illegittimit� dell�ammissione del ricorrente principale alla procedura avrebbe una portata retroattiva e l�esclusione definitiva di quest�ultimo dalla suddetta procedura comporterebbe che esso si trovi in una situazione che non gli permette di contestare l�esito della procedura stessa. 16 Secondo questa giurisprudenza del Consiglio di Stato, l�interesse pratico alla rinnovazione della procedura di aggiudicazione invocato dalla parte che abbia proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico non attribuisce a quest�ultima una posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso. Tale interesse non si distinguerebbe infatti da quello di qualsiasi altro operatore economico del settore che aspiri a partecipare ad una futura procedura di aggiudicazione. Pertanto, il ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale dovrebbe essere sempre esaminato per primo, anche quando gli offerenti siano solo due, ossia il ricorrente principale, cio� l�offerente escluso e il ricorrente incidentale, cio� l�aggiudicatario. 17 Il giudice del rinvio esprime dubbi sulla compatibilit� di tale giurisprudenza, in particolare nella misura in cui essa afferma incondizionatamente la prevalenza del ricorso incidentale su quello principale, con i principi di parit� di trattamento, non discriminazione, libera concorrenza e tutela giurisdizionale effettiva, quali recepiti negli articoli 1, paragrafo 1, e 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 89/665. Secondo tale giudice, infatti, l�esame in via preliminare � ed eventualmente assorbente � del ricorso incidentale attribuisce all�aggiudicatario un vantaggio ingiustificato rispetto a tutti gli altri operatori economici che hanno partecipato alla procedura di aggiudicazione, qualora risulti che l�appalto gli � stato aggiudicato illegittimamente. 18 Alla luce di quanto sopra, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: �Se i principi di parit� delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nei pubblici appalti, di cui alla Direttiva [89/665], ostino al diritto vivente quale statuito nella decisione dell�Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2011, secondo il quale l�esame del ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale attraverso l�impugnazione della sua ammissione alla procedura di gara, deve necessariamente precedere quello del ricorso principale ed abbia portata pregiudiziale rispetto all�esame del ricorso principale, anche nel caso in cui il ricorrente principale abbia un interesse strumentale alla rinnovazione dell�intera procedura selettiva e indipendentemente dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, con particolare riferimento all�ipotesi in cui i concorrenti rimasti in gara siano soltanto due (e coincidano con il ricorrente principale e con l�aggiudicatario-ricorrente incidentale), ciascuno mirante ad escludere l�altro per mancanza, nelle rispettive offerte presentate, dei requisiti minimi di idoneit� dell�offerta�. Sulla ricevibilit� della domanda di pronuncia pregiudiziale 19 Telecom Italia, Path-Net e il governo italiano contestano la ricevibilit� della domanda di pronuncia pregiudiziale per diversi motivi. Tuttavia, le quattro eccezioni di irricevibilit� sollevate al riguardo non possono essere accolte. 20 In primo luogo, infatti, il presente rinvio pregiudiziale � avvenuto in un caso che rientra perfettamente nella previsione dell�articolo 267 TFUE. Ai sensi del primo e del secondo comma di tale articolo, un giudice di uno Stato membro pu� domandare alla Corte di pronunciarsi su qualsiasi questione relativa all�interpretazione dei trattati e degli atti di CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INERNAZIONALE 47 diritto derivato, qualora reputi una decisione su questo punto necessaria per emanare la sua sentenza nella controversia di cui � investito. Orbene, nel caso di specie, dalla decisione di rinvio emerge che il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte esprime dei dubbi in merito alle implicazioni della direttiva 89/665 nel contesto fattuale e processuale della controversia di cui al procedimento principale, prospettando due possibili risposte dalle quali discenderebbero soluzioni diverse di tale controversia. 21 In secondo luogo, la decisione del giudice del rinvio contiene una descrizione sufficientemente chiara del contesto giuridico nazionale, in quanto essa descrive e chiarisce la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale � fondata sull�interpretazione, fornita da quest�ultimo, dell�insieme delle norme e dei principi processuali di diritto nazionale rilevanti in una situazione come quella di cui al procedimento principale, nonch� delle conseguenze che ne derivano, secondo tale giudice, in merito all�ammissibilit� del ricorso principale dell�offerente escluso. 22 In terzo luogo, nonostante il giudice del rinvio non indichi la specifica disposizione di diritto dell�Unione della quale aspira ad ottenere l�interpretazione, esso si riferisce esplicitamente, gi� nella stessa questione pregiudiziale, alla direttiva 89/665, e la decisione di rinvio contiene un insieme di informazioni sufficientemente completo per permettere alla Corte di individuare gli elementi di tale diritto che richiedono un�interpretazione, tenuto conto dell�oggetto del procedimento principale (v., per analogia, sentenza del 9 novembre 2006, Chateignier, C.346/05, Racc. pag. I.10951, punto 19 e giurisprudenza citata). 23 Infine, in quarto luogo, non risulta che tale controversia riguardi un appalto pubblico rientrante in una delle eccezioni di cui all�articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 89/665. Pertanto, nella misura in cui l�importo di tale appalto raggiunga la soglia per l�applicazione della direttiva 2004/18 fissata all�articolo 7 di quest�ultima, cosa che spetta al giudice del rinvio accertare, ma di cui nulla al momento induce a dubitare, le due citate direttive sono applicabili ad un appalto come quello di cui al procedimento principale. Va ricordato, in proposito, che il fatto che una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico riguardi soltanto imprese nazionali � irrilevante ai fini dell�applicazione della direttiva 2004/18 (v., in tal senso, sentenza del 16 dicembre 2008, Michaniki, C.213/07, Racc. pag. I.9999, punto 29 e giurisprudenza citata). Sulla questione pregiudiziale 24 Con la sua questione, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se le disposizioni della direttiva 89/665, e in particolare i suoi articoli 1 e 2, debbano essere interpretate nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l�aggiudicatario solleva un�eccezione di inammissibilit� fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell�offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l�offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall�autorit� aggiudicatrice per non conformit� alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, il suddetto articolo 1, paragrafo 3, osta al fatto che tale ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell�esame preliminare di tale eccezione di inammissibilit�, quando il ricorrente contesta a sua volta la legittimit� del- l�offerta dell�aggiudicatario con identica motivazione e soltanto questi due operatori economici hanno presentato un�offerta. 25 Va rilevato che dall�articolo 1 della direttiva 89/665 deriva che quest�ultima mira a consentire la proposizione di ricorsi efficaci contro le decisioni delle autorit� aggiudicatrici contrarie al diritto dell�Unione. Secondo il paragrafo 3 del suddetto articolo, gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo le modalit� che gli Stati membri possono determinare, almeno a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l�aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione. 26 A questo proposito, una decisione con cui l�autorit� aggiudicatrice esclude un�offerta prima ancora di procedere alla selezione costituisce una decisione contro la quale dev�essere possibile ricorrere, ai sensi dell�articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 89/665, essendo tale disposizione applicabile a tutte le decisioni adottate dalle autorit� aggiudicatrici soggette alle norme di diritto dell�Unione in materia di appalti pubblici e non prevedendo essa alcuna limitazione relativa alla natura e al contenuto di dette decisioni (v., in particolare, sentenza del 19 giugno 2003, Hackerm�ller, C.249/01, Racc. pag. I.6319, punto 24, e giurisprudenza citata). 27 In tal senso, al punto 26 della citata sentenza Hackerm�ller, la Corte ha affermato che il fatto che l�autorit� dinanzi alla quale si svolge il procedimento di ricorso neghi la partecipazione a tale procedimento, per mancanza della legittimazione a ricorrere, ad un offerente escluso prima ancora di procedere a una selezione, avrebbe l�effetto di privare tale offerente non solo del suo diritto a ricorrere contro la decisione di cui egli afferma l�illegittimit�, ma altres� del diritto di contestare la fondatezza del motivo di esclusione allegato da detta autorit� per negargli la qualit� di persona che sia stata o rischi di essere lesa dall�asserita illegittimit�. 28 Certamente, quando, al fine di ovviare a tale situazione, viene riconosciuto all�offerente il diritto di contestare la fondatezza di detto motivo di esclusione nell�ambito del procedimento instaurato a seguito di un ricorso avviato da quest�ultimo per contestare la legittimit� della decisione con cui l�autorit� aggiudicatrice non ha ritenuto la sua offerta come la migliore, non si pu� escludere che, al termine di tale procedimento, l�autorit� adita pervenga alla conclusione che detta offerta avrebbe dovuto effettivamente essere esclusa in via preliminare e che il ricorso dell�offerente debba essere respinto in quanto, tenuto conto di tale circostanza, egli non � stato o non rischia di essere leso dalla violazione da lui denunciata (v. sentenza Hackerm�ller, cit., punto 27). 29 In una situazione del genere, all�offerente che ha proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico deve essere riconosciuto il diritto di contestare dinanzi a tale autorit�, nell�ambito di tale procedimento, la fondatezza delle ragioni in base alle quali la sua offerta avrebbe dovuto essere esclusa (v., in tal senso, sentenza Hackerm�ller, cit., punti 28 e 29). 30 Tale insegnamento � applicabile, in linea di principio, anche qualora l�eccezione di inammissibilit� non sia sollevata d�ufficio dall�autorit� investita del ricorso, ma in un ricorso incidentale proposto da una parte nel procedimento di ricorso, come l�aggiudicatario regolarmente intervenuto nello stesso. 31 Nel procedimento principale, il giudice del rinvio, all�esito della verifica dell�idoneit� delle offerte presentate dalle due societ� in questione, ha constatato che l�offerta presentata da Fastweb non era conforme all�insieme delle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni. Esso � giunto peraltro alla stessa conclusione in relazione all�offerta presentata dall�altro offerente, Telecom Italia. 32 Una situazione del genere si distingue da quella oggetto della citata sentenza Hackerm�ller, in particolare per essere risultato che, erroneamente, l�offerta prescelta non � stata esclusa al momento della verifica delle offerte, nonostante essa non rispettasse le specifiche tecniche del piano di fabbisogni. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INERNAZIONALE 49 33 Orbene, dinanzi ad una simile constatazione, il ricorso incidentale dell�aggiudicatario non pu� comportare il rigetto del ricorso di un offerente nell�ipotesi in cui la legittimit� dell�offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell�ambito del medesimo procedimento e per motivi identici. In una situazione del genere, infatti, ciascuno dei concorrenti pu� far valere un analogo interesse legittimo all�esclusione dell�offerta degli altri, che pu� indurre l�amministrazione aggiudicatrice a constatare l�impossibilit� di procedere alla scelta di un�offerta regolare. 34 Tenuto conto delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che l�articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l�aggiudicatario che ha ottenuto l�appalto e proposto ricorso incidentale solleva un�eccezione di inammissibilit� fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell�offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l�offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dal- l�autorit� aggiudicatrice per non conformit� alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell�esame preliminare di tale eccezione di inammissibilit� senza pronunciarsi sulla compatibilit� con le suddette specifiche tecniche sia dell�offerta dell�aggiudicatario che ha ottenuto l�appalto, sia di quella dell�offerente che ha proposto il ricorso principale. Sulle spese 35 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (decima sezione) dichiara: L�articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all�applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell�11 dicembre 2007, deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l�aggiudicatario che ha ottenuto l�appalto e proposto ricorso incidentale solleva un�eccezione di inammissibilit� fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell�offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l�offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall�autorit� aggiudicatrice per non conformit� alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell�esame preliminare di tale eccezione di inammissibilit� senza pronunciarsi sulla conformit� con le suddette specifiche tecniche sia dell�offerta dell�aggiudicatario che ha ottenuto l�appalto, sia di quella dell�offerente che ha proposto il ricorso principale. Attivit� di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house, accordi fra pubblice amministrazioni E alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia dell�Unione Europea e della giurisprudenza nazionale. Interpretazione della sentenza della CGUEdel 19 dicembre 2012, C-159/11 Sabrina Trivelloni* SOMMARIO: Premessa - 1. Onerosit� della prestazione di servizi - 2. Nozione di operatore economico - 3. Affidamento in house - 4. Servizi di cui all�Allegato II della direttiva 2004/18/CE. L�applicazione della deroga di cui all�art. 16, comma 1, lettera f) della direttiva 2004/18/CE (art. 19, comma 1, lettera f) del D. Lgs. 163/2006) - 5. Il diritto esclusivo. La deroga di cui all�art. 18 della direttiva 2004/18/CE (art. 19, comma 2, D. Lgs. 163/2006) - 6. La cooperazione tra soggetti pubblici. Premessa. Come noto, l�art. 1 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 istituisce il Servizio nazionale della Protezione civile, con lo scopo di tutelare �l�integrit� della vita, i beni, gli insediamenti e l�ambiente da danni o dal pericolo di danni derivanti da calamit� naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi�. Al fine di garantire il perseguimento del predetto scopo, l�art. 3 della medesima legge - come modificato dalla recente riforma attuata dal D.L. 15 maggio 2012, n. 59 convertito dalla legge 12 luglio 2012, n. 100 - individua le relative attivit� di protezione civile, consistenti nella previsione e prevenzione dei rischi, oltre che nel soccorso delle popolazioni sinistrate ed in ogni azione necessaria ed indifferibile diretta al superamento dell�emergenza ed alla mitigazione del rischio relativa ad eventi e calamit� naturali o connessi con l�attivit� dell�uomo. Ai sensi di quanto previsto dall�art. 6, comma 1, della legge de qua, al- l�attuazione dell�attivit� di protezione civile provvedono e vi concorrono, �secondo i rispettivi ordinamenti e competenze�, tutte le Componenti del Servizio nazionale della protezione civile, ovvero �le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunit� montane, gli enti pubblici, gli istituti ed i centri di ricerca scientifica con finalit� di protezione civile, nonch� ogni altra istituzione ed organizzazione anche privata�. La medesima disposizione conclude prevedendo che �a tal fine, le strutture nazionali e locali di protezione civile possono stipulare convenzioni con soggetti pubblici e privati�. (*) Dottore in Giurisprudenza, gi� praticante forense presso l�Avvocatura dello Stato. Sembrerebbe, pertanto, che il legislatore, attraverso il predetto art. 6, abbia voluto individuare nella convenzione lo strumento ideale per garantire l�espletamento delle attivit� di protezione civile. Tale affermazione, tuttavia, necessita di maggiore approfondimento nei termini di seguito indicati. Il richiamato art. 6, comma 1, della legge 225/92, nella parte in cui prevede la stipula di convenzioni con soggetti pubblici, pu� ragionevolmente interpretarsi quale norma speciale, in materia di protezione civile, rispetto all�art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che prevede generalmente la possibilit�, per le pubbliche amministrazioni, di concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attivit� di interesse comune. La medesima disposizione, invece, potrebbe presentare profili di illegittimit� costituzionale per violazione dell�art. 117, comma 1, Cost. - con riferimento al parametro interposto di cui alla direttive comunitarie in materia di appalti pubblici - nella parte in cui prevede la possibilit� di concludere convenzioni con soggetti privati, bench� Componenti del servizio nazionale di protezione civile, nei limiti in cui tali convenzioni abbiano ad oggetto attivit� che potrebbero rivestire le caratteristiche dei servizi di cui all�allegato II della direttiva 2004/18/CE. Le convenzioni stipulate con soggetti privati, infatti, bench� formalmente concluse ai sensi dell�art. 6 della legge 225/92, potrebbero integrare nella sostanza i requisiti di un appalto pubblico di servizi, come tale soggetto alla disciplina della direttiva 2004/18/CE. Il presente studio, pertanto, intende preliminarmente analizzare i requisiti in presenza dei quali una convenzione formalmente stipulata ai sensi dell�art. 6 della legge 225/92 configuri nella sostanza un appalto pubblico di servizi con conseguente assoggettamento alle procedure ad evidenza pubblica di cui alle direttive comunitarie - per poi verificare in che limiti le convenzioni ex art. 6 legge 225/92 possano integrare, invece, i presupposti di una cooperazione tra pubbliche amministrazioni ex art. 15 della legge 241/90 - secondo le indicazioni fornite da ultimo dalla recente pronuncia della Corte UE del 19 dicembre 2012, C-159/11 - o, invece, possano presentare le caratteristiche di un affidamento in house, ferma restando la verifica circa l�applicabilit� delle deroghe di cui all�art. 16, comma 1, lettera f) ed art. 18 della direttiva 2004/18/CE. Nella suddetta indagine, si far� riferimento alle convenzioni che il Dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri stipula con i Centri di Competenza - ovvero con le componenti del servizio nazionale di protezione civile titolari della funzione di fornire informazioni, dati, elaborazioni, e contributi tecnico scientifici, ognuno per definiti ambiti di specializzazione, in relazione alle diverse tipologie di rischio - individuati dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 settembre 2012, recante �Definizione dei principi per l'individuazione ed il funzionamento dei Centri di Competenza�, adottato in attuazione dell�art. 3 bis, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225. La scelta di far riferimento ai Centri di competenza � dettata dalla circostanza che la maggior parte delle convenzioni in materia di protezione civile sono stipulate proprio con tali soggetti; tuttavia le conclusioni a cui il presente studio perviene sono suscettibili di applicazione alla totalit� delle convenzioni stipulate con le Componenti del servizio nazionale di protezione civile. Esaurita tale doverosa premessa, al fine di verificare i presupposti in presenza dei quali una convenzione ex art. 6 della legge 225/92 rientri nel campo di applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici, deve analizzarsi l�art. 1 della direttiva 2004/18/CE che definisce gli appalti pubblici di servizi come contratti a titolo oneroso tra uno o pi� operatori economici e una o pi� amministrazioni aggiudicatrici, aventi per oggetto la prestazione di servizi di cui all�allegato II. 1. Onerosit� della prestazione di servizi. Il primo requisito richiesto dall�art. 1 della direttiva 2004/18/CE ai fini della qualificazione di un accordo come appalto pubblico, pertanto, � l�onerosit� della prestazione di servizi che, secondo l�interpretazione fornita dalla giurisprudenza comunitaria (sentenza del 12 luglio 2001, C-399/98, Ordine degli Architetti; sentenza 18 gennaio 2007, C-220/05, Auroux e.a.; sentenza 29 novembre 2007, C-119/06, Commissione/Italia), consiste in ogni vantaggio economicamente valutabile, ivi compresa l�ipotesi in cui il corrispettivo promesso a fronte del servizio sia limitato al rimborso delle spese sostenute per l�espletamento dello stesso (sentenza del 19 dicembre 2012, C-159/11, ASL Lecce e Universit� del Salento /Ordine degli Ingegneri di Lecce ed altri). La suddetta impostazione della giurisprudenza comunitaria � stata seguita anche dal Consiglio di Stato (Sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 30) il quale - con riferimento ad un contratto avente ad oggetto il servizio di erogazione di prestiti personali ai dipendenti di un ente pubblico affidato direttamente dall�ente medesimo a istituti bancari in assenza di procedura ad evidenza pubblica - ha ritenuto il carattere oneroso del richiamato contratto sul presupposto per cui �pur in assenza di un corrispettivo pecuniario a carico dell�ente pubblico, viene in rilievo un�utilit� contendibile sub specie di vantaggio pubblicitario e di avvicinamento ad una clientela di notevoli dimensioni che danno la stura ad un�ipotesi paradigmatica di rilevanza economica indiretta�. Deve segnalarsi, tuttavia, come il Consiglio di Stato, Sez. III, con recente ordinanza n. 1195 del 27 febbraio 2013, sembra discostarsi dal descritto concetto di onerosit�, rimettendo alla Corte di Giustizia dell�Unione Europea, ex art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell�Unione Europea, la questione circa l�onerosit� o meno di un contratto che preveda, all�interno del rimborso delle spese, anche il rimborso dei costi fissi e durevoli (�Dica la Corte di Giustizia se il diritto dell�Unione in materia di appalti pubblici osti ad una normativa nazionale che permetta l�affidamento diretto del servizio di trasporto sanitario, dovendo qualificarsi come oneroso un accordo quadro, quale quello in contestazione, che preveda il rimborso anche dei costi fissi e durevoli nel tempo�). Secondo la tesi seguita dalla sez. III del Consiglio di Stato, il mero rimborso delle spese non � sufficiente al fine di integrare il requisito dell�onerosit� della prestazione di servizi, dovendosi richiedere, invece, un ulteriore presupposto, ovvero che il rimborso non si limiti a coprire i soli costi diretti legati al servizio ma abbracci anche i costi indiretti e generali legati all�attivit� stabilmente svolta dal soggetto affidatario (utenze, canoni, spese condominiali, assicurazioni e comunque spese generali e di funzionamento), s� da far configurare il rimborso quale un vero e proprio corrispettivo per la prestazione svolta. Tale impostazione non appare in linea con il descritto orientamento della giurisprudenza comunitaria, seguita da quella nazionale, secondo cui il mero rimborso spese, a prescindere dalla copertura delle singole voci di costo, � di per s� suscettibile di integrare il requisito dell�onerosit� del contratto ogniqualvolta il prestatore ottenga dall�affidamento del servizio un vantaggio economicamente valutabile che non deve necessariamente consistere in un compenso di natura economica, ben potendo consistere anche in un�utilit� mediata. Ci� premesso, ai sensi del richiamato decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 settembre 2012, recante �Definizione dei principi per l'individuazione ed il funzionamento dei Centri di Competenza�, le convenzioni che il Dipartimento della Protezione civile stipula con i Centri di Competenza possono prevedere esclusivamente il riconoscimento delle �spese sostenute per la realizzazione delle attivit� richieste, senza la previsione di alcun utile o ulteriore spesa�. Conseguentemente, si ritiene che le suddette convenzioni integrino il requisito dell�onerosit�. 2. Nozione di operatore economico. Con riferimento al profilo soggettivo, la Corte di giustizia dell�UE (sentenza 23 dicembre 2009, C-305/08, CoNISMA) interpreta in maniera estensiva il concetto di operatore economico, includendovi �qualunque persona fisica o giuridica o un ente pubblico che offra sul mercato la realizzazione di servizi� a prescindere dalla struttura imprenditoriale, dallo scopo di lucro e dalla presenza continua sul mercato, cos� includendovi anche le Universit� che, ai sensi della normativa nazionale, sono autorizzate a fornire prestazioni di ricerca e consulenza ad enti pubblici o privati, purch� tale attivit� non comprometta la loro funzione didattica. Secondo la giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia, 29 novembre 2007, C-119/06, Commissione/Italia), anche le associazioni di volontariato devono essere ricomprese nella descritta nozione di operatore economico, in quanto l�assenza di fini di lucro non esclude di per s� che le stesse associazioni di volontariato - le quali, ad esempio, garantiscono servizi di trasporto d�urgenza e di trasporto malati - esercitino attivit� economiche in concorrenza con altri operatori (nello stesso senso, Cons. Stato Sez. VI, 23 gennaio 2013, n. 387; Cons. Stato Sez. III, 20 novembre 2012, n. 5882; Cons. Stato, Sez. III, ordinanza n. 1195 del 27 febbraio 2013). Ci� premesso, l�art. 2, comma 2, del citato DPCM del 14 settembre 2012 individua i centri di competenza: 1) nelle strutture operative di cui all�art. 11 della legge 225/1992 (Corpo nazionale dei vigili del fuoco, Forze di Polizia, Corpo Forestale dello Stato, Servizi tecnici nazionali, Gruppi nazionali di ricerca scientifica, l�Istituto nazionale di geofisica, Croce rossa Italiana, Strutture del Servizio sanitario nazionale, organizzazioni di volontariato e Corpo nazionale soccorso alpino); 2) nei soggetti pubblici di cui all�art. 1, comma 3, della legge 196/2009 deputati a svolgere attivit�, ricerche e studi in forza di leggi e provvedimenti per il perseguimento di fini istituzionali; 3) nei soggetti partecipati da componenti del Servizio nazionale di protezione civile, istituiti con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l�alta formazione, laddove il medesimo soggetto sia a totale partecipazione pubblica, svolga la propria attivit� prioritariamente in favore del Servizio nazionale di protezione civile e sia soggetto a vigilanza da parte del Dipartimento della protezione civile; 4) nelle Universit�, Dipartimenti universitari e Centri di ricerca. A prescindere dalle Universit� e dalle associazioni di volontariato, che la Corte di Giustizia dell�UE ha definito espressamente �operatori economici�, non pu� escludersi, in linea di principio, che anche gli altri soggetti pubblici e privati individuati dal suddetto D.P.C.M. possano essere inclusi nell�ampia nozione delineata dalla giurisprudenza comunitaria, laddove la normativa nazionale gli consenta di prestare servizi sul mercato. In particolare, con riferimento ai soggetti di cui al n. 3, deve verificarsi se sussistano i presupposti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria affinch� si configuri l�affidamento in house che esclude la sussistenza stessa dell�appalto di servizi, essendo il soggetto affidatario un�articolazione di quello affidante e non, invece, un soggetto distinto. 3. Affidamento in house. Secondo l�insegnamento della Corte di Giustizia dell�U.E., i requisiti richiesti affinch� si configuri un affidamento in house - che devono essere oggetto di interpretazione rigorosa e restrittiva - consistono nella circostanza che �l�autorit� pubblica eserciti sull�ente distinto un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi� e che �il soggetto affidatario realizzi la parte pi� importante della propria attivit� in favore dell�ente pubblico di appartenenza� (sentenza 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal). 3.1. Il requisito del controllo analogo presuppone la partecipazione pubblica totalitaria del soggetto a cui viene affidato il servizio, mentre deve escludersi in presenza di un soggetto partecipato anche da privati, in quanto in tal caso l�amministrazione non potrebbe esercitare lo stesso controllo che svolge sui propri servizi (sentenza 19 aprile 2007, C-295/05, Asociaci�n Nacional de Empresas Forestales c. Transformaci�n Agraria SA; 21 luglio 2005, C-231/03, Consorzio Coname; 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle). La giurisprudenza ha chiarito che, in astratto, � configurabile un �controllo analogo� anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall�ente pubblico, ma indirettamente mediante una societ� per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall�ente medesimo (sentenza 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo). La Corte (sentenza del 13 novembre 2008, C-324/07, Coditel Bradant Sa; sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord s.p.a.) ha ammesso, anche, la possibilit� che il soggetto affidatario sia partecipato da una pluralit� di enti pubblici, come nel caso di una societ� cooperativa intercomunale detenuta esclusivamente da autorit� pubbliche, quando il controllo sul- l�ente affidatario pu� essere esercitato congiuntamente (nello stesso senso, Cons. Stato Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1447). In tal caso, il requisito del controllo analogo deve essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, con la conseguenza � soddisfatto quando il controllo pubblico sull'ente affidatario, purch� effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalit�, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente (Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1447; Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092; Corte di Giustizia 13 novembre 2008, in causa C-324/07, Coditel Brabant Sa.). Tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza comunitaria, la partecipazione pubblica totalitaria, per quanto necessaria, non � da sola sufficiente ad integrare il requisito in esame, occorrendo anche un�influenza determinante da parte dell�ente pubblico, sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti del soggetto affidatario, da valutare caso per caso con riferimento alle disposizioni normative ed alle circostanze concrete (sentenza 11 maggio 2006, C-340/04, Carbotermo; sentenza 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen). Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza nazionale che accoglie la descritta nozione di controllo analogo elaborata dalla giurisprudenza comunitaria (da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 20 dicembre 2012, n. 6565), richiedendo �non solo che i soci pubblici detengano la totalit� delle azioni, ma anche che siano dotati di poteri decisionali (direttivi, ispettivi e di nomina) idonei a determinare un�influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della societ��. 3.2. In senso particolarmente restrittivo la giurisprudenza comunitaria ha inteso anche il secondo requisito della sentenza Teckal, quello dell�attivit� svolta prevalentemente a favore dell�ente affidante, ritenendo che tale condizione sia soddisfatta quando l�affidatario diretto non fornisca i suoi servizi a soggetti diversi dall�ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali (sentenza 17 luglio 2008, C-371/05, Commissione/Italia; sentenza 11 maggio 2006, C-340/04, Carbotermo Spa). La Corte (sentenza 17 luglio 2008, C-371/05, Commissione/Italia) afferma che un soggetto svolge la parte pi� importante della sua attivit� con l�ente che lo detiene se l�attivit� di impresa � �destinata principalmente al- l�ente ed ogni altra attivit� risulta avere solo carattere marginale� (nello stesso senso la giurisprudenza nazionale, Cons. Stato, sez. VI, 20 dicembre 2012, n. 6565; Cons. Stato, sez. V, 7 aprile 2011, n. 2151). Nell�ipotesi di enti partecipati da pi� soggetti pubblici, la Corte (sentenza 17 luglio 2008, C-371/05, Commissione/Italia) ha affermato che l�attivit� prevalente da prendere in considerazione, al fine di verificare la sussistenza del requisito, � quella realizzata dall�ente in house nei confronti di tutti i soggetti controllanti e non nei confronti di ciascuno di essi. 3.3. Alla luce di queste considerazioni, pertanto, deve valutarsi se i soggetti di cui all�art. 1, comma 2, lettera b) del D.P.C.M. del 14 settembre 2012 (soggetti partecipati da componenti del Servizio nazionale di protezione civile, istituiti con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l�alta formazione, laddove il medesimo soggetto sia a totale partecipazione pubblica, svolga la propria attivit� prioritariamente in favore del Servizio nazionale di protezione civile e sia soggetto a vigilanza da parte del Dipartimento della protezione civile) soddisfino i richiamati requisiti in materia di affidamento in house. Dal tenore letterale della disposizione (�soggetti partecipati da componenti del Servizio nazionale di protezione civile�) non � dato comprendere se essi siano partecipati anche dal Dipartimento della Protezione civile, che stipula con essi le convenzioni o comunque da soggetti a loro volta partecipati al 100% dal Dipartimento. Inoltre, sembra che la �vigilanza da parte del Dipartimento della protezione civile� sui suddetti soggetti non equivalga al concetto di controllo analogo delineato dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale tenuto conto che, come gi� riferito, tale requisito consiste nel �potere assoluto di direzione, coordinamento e supervisione dell�attivit� del soggetto partecipato, e riguarda l�insieme dei pi� importanti atti di gestione del medesimo� (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 11 febbraio 2013, n. 762). 3.3.1. Occorre poi rilevare e sottolineare che il Consiglio di Stato (Cons. stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514; Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5781), ha escluso la possibilit� di utilizzare il modello dell�in house in assenza di un�apposita disposizione normativa che lo preveda, sul presupposto che l�in house non costituisce un principio generale, prevalente sulla normativa interna, ma � un principio derogatorio di carattere eccezionale che consente e non obbliga i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento. Nella medesima pronuncia, il Consiglio di Stato ha ricordato come una norma di carattere generale sia stata proposta nel primo schema del codice degli appalti, per poi essere espunta dal testo finale del D. Lgs. n. 163/2006, a conferma della volont� del legislatore di non generalizzare il modello dell�in house a qualsiasi forma di affidamento di lavori, servizi e forniture. Nel caso di specie, occorre dunque verificare se possa configurarsi una disposizione espressa che riconosca la possibilit�, anche nell�ambito dell�attivit� statale di protezione civile, di affidamento diretto di un servizio ad un soggetto interamente partecipato dall�Amministrazione aggiudicante. Tale verifica potrebbe dar luogo a un esito positivo, facendo leva proprio sull�art. 6, legge n. 225/1992, nella parte in cui prevede che �le strutture nazionali e locali di protezione civile possono stipulare convenzioni con soggetti pubblici e privati�, cos� ammettendo anche l�istituto dell�in house in detto settore, pur omettendo il riferimento ai requisiti comunitari del controllo analogo ed all�attivit� svolta prevalentemente a favore dell�ente affidante. Potrebbe sostenersi che l�art. 6 della legge n. 225/1992, nel silenzio del legislatore, debba essere interpretato nel senso che siano ammesse convenzioni concluse senza procedura di evidenza pubblica con soggetti c.d. in house, ma con le limitazioni di una interpretazione �comunitariamente� orientata, ovvero sempre a condizione che sussistano i citati presupposti necessari per il configurarsi della fattispecie dell�in house. 3.4. Deve, infine, segnalarsi come l�art. 4, comma 6 del D.L. 95/2012, convertito con modificazioni nella legge di conversione 7 agosto 2012, n. 135, abbia previsto quanto segue: �A decorrere dal 1� gennaio 2013 le pubbliche amministrazioni di cui all�articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo, anche in base a convenzioni, da enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile esclusivamente in base a procedure previste dalla normativa nazionale in conformit� con la disciplina comunitaria. Gli enti di diritto privato di cui agli articoli da 13 a 42 del codice civile, che forniscono servizi a favore dell�amministra zione stessa, anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche. Sono escluse le fondazioni istituite con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l�alta formazione tecnologica e gli enti e le associazioni operanti nel campo dei servizi socio-assistenziali e dei beni ed attivit� culturali, dell�istruzione e della formazione, le associazioni di promozione sociale di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 383, gli enti di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, le organizzazioni non governative di cui alla legge 26 febbraio 1987, n. 49, le cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, le associazioni sportive dilettantistiche di cui all�articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nonch� le associazioni rappresentative, di coordinamento o di supporto degli enti territoriali e locali�. Come confermato dalla lettura della relazione illustrativa (acquisita dagli atti parlamentari), la suddetta norma vieta alle pubbliche amministrazioni, a partire dal 1� gennaio 2013, l�affidamento diretto in house agli enti privati di cui agli artt. da 13 a 42, c.c. (associazioni anche non riconosciute, fondazioni e comitati) di servizi a titolo oneroso, imponendo l�espletamento delle procedure di gara previste dalla normativa nazionale in conformit� con quella comunitaria. Fanno eccezione a questo divieto gli affidamenti a soggetti in house rientranti in categorie tassativamente elencate, tra cui le fondazioni di ricerca, ovvero istituite con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l�alta formazione tecnologica, e gli enti di volontariato. Con riferimento, pertanto, ai suddetti soggetti, pu� ancora prospettarsi la possibilit� di un affidamento in house dei servizi a titolo oneroso da parte delle amministrazioni di cui all�art. 1, comma 2, D.Lgs. 165/2001 - sempre che naturalmente ne ricorrano i descritti presupposti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale - mentre, per gli altri enti privati (associazioni anche non riconosciute, fondazioni e comitati), l�in house � precluso dalla citata disposizione a partire dal 1� gennaio 2013. 4. Servizi di cui all�Allegato II della direttiva 2004/18/CE. L�applicazione della deroga di cui all�art. 16, comma 1, lettera f) della direttiva 2004/18/CE (art. 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs. 163/2006). Con riferimento al requisito oggettivo, l�art. 1, comma 1 del D.P.C.M. del 14 settembre 2012 prevede che i centri di competenza �forniscono informazioni, dati, elaborazioni e contribuiti tecnico - scientifici, ognuno per i definiti ambiti di specializzazione di interesse del Servizio nazionale di protezione civile, in relazione alle diverse tipologie di rischio che interessano il territorio�. Tali servizi potrebbero rientrare tra i �servizi di ricerca e sviluppo� o tra i �servizi attinenti all�architettura e all�ingegneria, anche integrata; servizi affini di consulenza scientifica e tecnica; servizi di sperimentazione tecnica e analisi� elencati all�allegato II della direttiva 2004/18, e quindi soggetti alla relativa disciplina che impone la procedura di evidenza pubblica. Tuttavia, ai sensi dell�art. 16, comma 1, lettera f) della direttiva 2004/18/CE, la direttiva medesima �non si applica ai contratti pubblici concernenti servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli i cui risultati appartengono esclusivamente all�amministrazione aggiudicatrice perch� li usi nell�esercizio della sua attivit�, a condizione che la prestazione del servizio sia interamente retribuita da tale amministrazione�. Secondo il considerando n. 23 della stessa direttiva, �a norma dell�articolo 163 del trattato, la promozione della ricerca e dello sviluppo tecnologico costituisce uno dei mezzi per potenziare le basi scientifiche e tecnologiche dell�industria della Comunit� e l�apertura degli appalti pubblici di servizi contribuisce al conseguimento di questo obiettivo�. Sulla base del citato art. 16, comma 1, lettera f) della direttiva 2004/18/CE potrebbe sostenersi che ai servizi di ricerca e sviluppo prestati dai centri di competenza non si applichi la disciplina della direttiva 2004/18/CE, qualora tali servizi perseguano finalit� tecnico - scientifiche i cui risultati siano diretti a vantaggio dell�intera collettivit�, sempre a condizione che la prestazione degli stessi sia interamente retribuita dal Dipartimento della Protezione civile. Per orientare la verifica della sussistenza di questi requisiti, pu� essere utile richiamare le considerazioni che l�avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell�UE, nelle conclusioni relative alla citata Causa 159/11 (punto 56): questi ha manifestato i propri dubbi sull�applicazione di tale norma alla convenzione stipulata dalla Asl con l�Universit� tenuto conto che �sebbene, a termini del contratto di consulenza, tutti i risultati derivanti dall�attivit� sperimentale appartenessero alla ASL, quest�ultima era comunque tenuta, in caso di pubblicazione dei risultati in ambito tecnico - scientifico, a citare espressamente l�Universit�. Ci� solleva la questione della misura in cui la propriet� dei risultati della ricerca spettasse alla USL�. � evidente quindi che l�applicazione concreta di questa disciplina alla varia casistica che pu� offrirsi all�esame dell�operatore � quanto meno problematica. La disposizione di cui all�art. 16, comma 1, lettera f) della direttiva 2004/18/CE � stata recepita dal legislatore italiano nell�art. 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs. 163/2006, fra i contratti di servizi esclusi dall�applicazione del codice. Peraltro, deve attirarsi l�attenzione sull�art. 27 del D.Lgs. 163/2006, che stabilisce che l�affidamento dei contratti pubblici aventi per oggetto servizi esclusi dall�ambito di applicazione del codice deve avvenire nel rispetto dei principi di economicit�, parit� di trattamento, trasparenza, proporzionalit� e deve essere preceduto da un invito ad almeno cinque concorrenti (Cons. Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1). Secondo l�Autorit� per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Deliberazione n. 72 del 9 settembre 2009), i contratti di ricerca e sviluppo esclusi dall�ambito di applicazione del codice sono assoggettati non solo ai principi di cui all�art. 27, ma anche alla disciplina di cui all�art. 20, comma 1 dello stesso Codice che prevede, per i servizi elencati nell�allegato II B, l�applicazione dell�articolo 68 (specifiche tecniche), dell�articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento) e dell�articolo 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati). Alla luce delle suddette considerazioni, deve ritenersi che l�applicazione della suddetta disposizione non esclude la necessit� di rispettare i principi del Trattato di cui all�art. 27 che impongono, quantomeno, il previo invito ad almeno cinque concorrenti. 5. Il diritto esclusivo. La deroga di cui all�art. 18 della direttiva 2004/18/CE (art. 19, comma 2, D.Lgs. 163/2006). Ai sensi dell�art. 18 della direttiva 2004/18/CE, recepito fedelmente dal- l�art. 19, comma 2, D.Lgs. 163/2006, �la presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un�amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un�altra amministrazione aggiudicatrice o ad un�associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in base ad un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virt� di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purch� tali disposizioni siano compatibili con il trattato�. Il Consiglio di Stato, in una recente pronuncia (n. 4452 del 25 luglio 2011) ha escluso l�applicazione della suddetta disposizione al servizio di elaborazione informatica e di notificazione dei verbali relativi alle sanzioni amministrative affidato dal Comune di Casoria a Societ� Poste Italiane sul presupposto che se �non � contestato che alla Societ� Poste Italiane sia riservata ex lege la notificazione degli atti a mezzo del servizio postale in quanto concessionaria del servizio postale universale ai sensi dell�art. 23 del D.Lgs. 261/1999�, esorbitano, invece, �dal raggio di azione di tali diritti esclusivi i servizi, pure oggetto dell�affidamento, relativi alla fornitura di software e hardware e le attivit� di archiviazione�. In applicazione del richiamato art. 18 della direttiva 2004/18/CE, potrebbe in linea di principio sostenersi l�esistenza di un diritto esclusivo dei centri di competenza, previsto dall�art. 6 delle legge 225/92, ad espletare le attivit� oggetto di convenzione, ovvero le attivit� di protezione civile. Siffatta tesi, tuttavia, pare difficilmente percorribile, tenuto conto che l�eccesiva genericit� dell�art. 6 della legge 225/1992, che si riferisce ad una vasta platea di soggetti (�le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province, i comuni e le comunit� montane, gli enti pubblici, gli istituti ed i gruppi di ricerca scientifica con finalit� di protezione civile nonch� ogni altra istituzione ed organizzazione anche privata�), esclude di per s� la possibilit� di individuare un soggetto titolare del citato diritto esclusivo allo svolgimento del servizio. 6. La cooperazione tra soggetti pubblici. 6.1. Altra deroga elaborata dalla giurisprudenza all�applicazione della disciplina prevista dalla direttiva 2004/18/CE � costituita dagli accordi di cooperazione tra enti pubblici finalizzati a garantire l�adempimento di una funzione di servizio pubblico comune ad entrambi. Come riconosciuto dalla sentenza C-480/06, un�autorit� pubblica pu� adempiere i compiti di interesse pubblico ad essa incombenti in collaborazione con altre autorit� pubbliche. 6.2. La Corte di Giustizia UE nella citata sentenza del 19 dicembre 2012, C159/ 11 ha specificato i presupposti necessari affinch� si configuri una cooperazione tra enti pubblici: a) il contratto stipulato tra enti pubblici deve perseguire il fine di garantire l�adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, b) deve essere retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d�interesse generale, c) deve essere tale da non porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti. 6.3. Deve dunque, in via immediata, rilevarsi che - trattandosi di cooperazione tra pubbliche amministrazioni - la deroga in esame non sembra poter riguardare le convenzioni stipulate dal Dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri con soggetti privati (ancorch� centri di competenza ai sensi dell�art. 6, legge 225/92). Un�estensione delle possibilit� di affidamento diretto anche ai casi di accordo pubblico-privato, per il solo fatto che il privato sia un centro di competenza ai sensi dell�art. 6 cit., parrebbe in aperto contrasto con la menzionata giurisprudenza della Corte di Giustizia. Non si disconosce il fatto che nell�ordinamento nazionale, e in particolare con l�art. 6 cit., sia prevista la possibilit� di stipulare convenzioni anche con soggetti privati che siano inquadrabili tra i centri di competenza. Tale previsione, tuttavia, non pare pi� in linea con la recente giurisprudenza comunitaria, che ammette una deroga al principio della necessaria evidenza pubblica nei soli casi di accordi /convenzione tra enti pubblici. 6.4. Le convenzioni stipulate con i centri di competenza che hanno veste di soggetto pubblico potrebbero qualificarsi come accordi tra pubbliche amministrazioni e, quindi, potrebbero essere sottratte alla disciplina della gara. Le suddette convenzioni sono stipulate al solo fine di garantire l�adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti stipulanti, e sono rette unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d�interesse generale. Il Dipartimento e gli enti pubblici che siano centri di competenza sono titolari, ai sensi dell�art. 6, legge n. 225/1992, della funzione pubblica delle attivit� di protezione civile, ed � previsto lo strumento delle convenzioni come modulo organizzativo ideale per il coordinamento tra detti soggetti. Gli accordi tra enti pubblici sottoscritti ai sensi dell�art. 6, pertanto, sembrerebbero del tutto distinti e differenti da quello oggetto della decisione della Corte di Giustizia dell�UE nella citata sentenza di cui alla causa 159/11. La convenzione sottoposta all�esame della Corte nella pronuncia de qua aveva, infatti, ad oggetto un servizio di consulenza relativo allo studio ed alla valutazione della vulnerabilit� sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce che, pare correttamente, � stato ritenuto estraneo alla funzione di servizio pubblico svolta dall�Universit�, ovvero alla ricerca scientifica. La Corte di Giustizia ha ritenuto che il contratto di cooperazione non garantiva l�adempimento di una funzione di servizio pubblico comune all�ASL ed all�Universit� e, quindi, come tale doveva essere sottoposto alla gara. 6.5. Tanto premesso, considerata invece la peculiarit� delle funzioni dei centri di competenza come delineate dall�art. 6, legge n. 225/1992, e tenendo conto della nozione restrittiva di �funzione comune� adottata dalla Corte di Giustizia, deve ritenersi che la stipulazione delle convenzioni tra Pubbliche Amministrazioni ex art. 15, legge n. 241/1990 (e nell�ambito della protezione civile, ex art. 6, legge 225/1992) sia consentita quando il legislatore attribuisca alle amministrazioni che ne siano parte: a) funzioni di servizio pubblico identiche: ossia attribuiscano a detti enti, pur distinti, la medesima funzione, che pu� essere svolta individualmente da ciascuno di essi, ma anche, e per ovvie finalit� di maggiore efficienza, in coordinamento reciproco tra essi; b) o comunque funzioni che hanno, per espressa previsione normativa, una connotazione l�una strumentale rispetto alla funzione dell�altra Amministrazione stipulante la convenzione, anche, ma non necessariamente, in via reciproca: pu� cio� accadere che un�Amministrazione sia investita, per legge (e nell�ambito dei poteri che la Costituzione attribuisce al legislatore nell�organizzazione della Pubblica Amministrazione), di svolgere una funzione strumentale rispetto all�attivit� di un�altra Amministrazione, e che sia quindi opportuno regolare con convenzione il coordinamento tra le due (sotto questo profilo pu� evocarsi anche quanto sancito in tema di diritto esclusivo dall�art. 18 della direttiva 2004/18/CE, di cui si � detto nel � 5). Nel caso di specie, la legge n. 225/1992 prevede la stipula di convenzioni attraverso le quali il Dipartimento della Protezione civile e gli enti pubblici di cui all�art. 6, tra cui le Universit�, concorrono, cooperando tra loro, allo svolgimento di una funzione pubblica comune ad entrambe, ovvero all�attuazione delle attivit� di protezione civile. Sembra quindi configurarsi l�ipotesi di �funzioni di servizio pubblico comuni e identiche�. 6.6. Con riferimento all�ultimo presupposto necessario affinch� possa parlarsi di cooperazione fra enti pubblici - l�accordo non deve essere tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti deve rilevarsi che la Corte di Giustizia ha ritenuto l�insussistenza di tale requisito nel contratto concluso dall�ASL con l�Universit� in quanto esso consentiva all�Universit� di ricorrere, per la realizzazione di alcune prestazioni, a collaboratori esterni altamente qualificati tra cui prestatori privati. L�art. 3, comma 6, del richiamato D.P.C.M. del 14 settembre 2012 consente ai Centri di competenza di avvalersi, per l�espletamento delle attivit� ed essi affidate, di altri soggetti tecnico-scientifici, nel rispetto della normativa vigente in materia di acquisizione di beni e servizi. Deve ritenersi dunque che, ove sia assicurata una procedura di evidenza pubblica �a valle� da parte dei Centri di competenza per il reclutamento dei soggetti tecnico-scientifici di cui avvalersi, e ci� avvenga dopo la stipula della convenzione e con specifica finalizzazione alla sua esecuzione, sia scongiurato il rischio di realizzare un�indebita posizione di privilegio per un prestatore privato. Diversamente, le clausole che consentono ai Centri di competenza di avvalersi, per l�espletamento di parte delle attivit� oggetto della convenzione, di soggetti privati, seppur altamente specializzati, in assenza di una procedura di evidenza pubblica, appaiono evidentemente in contrasto con il citato presupposto richiesto dalla suddetta giurisprudenza comunitaria. 6.7. Deve segnalarsi come l�Autorit� per la vigilanza sui contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture, con la determinazione n. 7 del 21 ottobre 2010, abbia fornito indicazioni in merito ai requisiti richiesti ai fini della configurazione di una cooperazione pubblico - pubblico, affermando che 1. l�accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l�obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalit� istituzionali degli enti coinvolti; 2. alla base dell�accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilit�; 3. i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono l�accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno; 4. il ricorso all�accordo non pu� interferire con il perseguimento del- l�obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l�apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. Pertanto, la collaborazione tra amministrazioni non pu� trasformarsi in una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme menzionate e gli atti che approvano l�accordo, nella motivazione, devono dar conto di quanto su esposto. 6.8. Deve rilevarsi, peraltro, come nel 2011, la Commissione dell�Unione Europea abbia presentato una proposta di nuova direttiva europea sui contratti pubblici che, all�art. 11, comma 4, disciplina gli accordi tra pubbliche amministrazioni, delineandone i requisiti necessari al fine di sottrarli alla disciplina prevista per gli appalti pubblici. Secondo la richiamata disposizione, gli accordi stipulati tra pubbliche amministrazioni non si qualificano in termini di appalti pubblici quando soddisfano i seguenti requisiti: a) l�accordo stabilisce un�autentica cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, che mira a far s� che esse svolgano congiuntamente i loro compiti di servizio pubblico e che implica diritti ed obblighi reciproci delle parti; b) l�accordo � retto esclusivamente da considerazioni inerenti all�interesse pubblico; c) le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti non svolgono sul mercato aperto pi� del 10% - in termini di fatturato - delle attivit� pertinenti all�accordo; d) l�accordo non comporta trasferimenti finanziari tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti diversi da quelli corrispondenti al rimborso dei costi effettivi dei lavori, dei servizi o delle forniture; e) nelle amministrazioni aggiudicatrici non vi � alcuna amministrazione privata. Tale disposizione - bench� in linea con i principi espressi dalla citata giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia UE, sentenza 19 dicembre 2012, C-159/11) e con le indicazioni fornite dall�Autorit� per la vigilanza sui contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture, nella richiamata determinazione n. 7 del 21 ottobre 2010 - subordina la sussistenza degli accordi tra pubbliche amministrazioni ad un requisito ulteriore rispetto a quelli richiesti dalla Corte di Giustizia U.E., ovvero la circostanza che le amministrazioni stipulanti non espletino sul mercato aperto pi� del 10% - in termini di fatturato - delle attivit� pertinenti all�accordo. Tal requisito, siccome previsto allo stato da una mera proposta di direttiva ed in assenza di indicazioni contrarie da parte della giurisprudenza comunitaria, non sembra debba vincolare le amministrazioni nell�elaborazione degli accordi di cooperazione. *** In conclusione, l�art. 6, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, nella parte in cui consente la stipula di convenzioni con le Componenti del servizio nazionale di protezione civile che rivestono natura di soggetti pubblici, deve interpretarsi come norma speciale, applicabile alla sola materia di protezione civile, rispetto alla disciplina generale di cui all�art. 15 della legge n. 241 del 7 agosto 1990. La parte della norma de qua, invece, che prevede la conclusione delle medesime convenzioni con soggetti privati, necessita di un�interpretazione �comunitariamente orientata� con riferimento all�applicazione delle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, pena la sua declaratoria di illegittimit� costituzionale ex art. 117, comma 1, Cost.. La medesima disposizione, poi, alla luce del richiamato orientamento della giurisprudenza nazionale (Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1541, confermata da Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5781, cfr. � 3.3.1.), potrebbe rivestire particolare rilevanza nell�ipotesi in cui la Componente del servizio nazionale di protezione civile presenti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria per il configurarsi della fattispecie dell�affidamento in house. Potrebbe sostenersi, infatti, che l�art. 6, comma 1, della legge 225/92, debba essere interpretato come disposizione espressa che consente, anche nell�ambito dell�attivit� di protezione civile, il ricorso alla fattispecie dell�in house, ammettendo convenzioni concluse senza procedure ad evidenza pubblica con soggetti c.d. in house, sempre a condizione che sussistano i relativi presupposti del controllo analogo e dell�attivit� prevalentemente svolta a favore dell�ente controllante. contenzioso nazionale CONTENZIOSO NAZIONALE Una questione di principio sulla sentenza FIOM (Corte costituzionale, sentenza 23 luglio 2013 n. 213) Glauco Nori* La sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013, che ha richiamato l�attenzione per il rilevo dei giudizi di merito che l�hanno provocata, fa sorgere anche una questione di principio sulla quale la Corte non si � soffermata, almeno formalmente, alla quale � il caso di accennare: � stata dichiarata costituzionalmente illegittima una norma nel testo modificato attraverso un referendum, diventata illegittima proprio per le modifiche referendarie. Nel suo testo originario la disposizione legislativa non avrebbe fatto sorgere la questione di merito perch� l�associazione sindacale interessata, anche dopo il suo rifiuto di sottoscrivere il contratto aziendale, avrebbe partecipato ugualmente alla rappresentanza sindacale aziendale, in quanto aderente ad una delle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Una volta venuto meno questo titolo di legittimazione a seguito del referendum, � diventata attuale la questione sulla quale la Corte si � pronunciata dichiarando la illegittimit� costituzionale dell�art. 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 �nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell�ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati all�unit� produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavatori dell�azienda�. La Corte ha giudicato corretta la premessa formulata dal giudice remittente secondo il quale �la soluzione di una lettura estensiva della espressione �associazioni firmatarie�, nel senso della sua riferibilit� anche alle organiz (*) Avvocato dello Stato, Presidente emerito del Comitato scientifico di questa Rassegna. zazioni che abbiano comunque partecipato al processo contrattuale � cui, in analoghe circostanze, altri giudici di merito sono pervenuti, in funzione di una �interpretazione adeguatrice� al dettato costituzionale della disposizione in esame � non �, preliminarmente, ritenuta condivisibile dal Tribunale rimettente, per l�univocit� del dato testuale che inevitabilmente vi si opporrebbe�. Il referendum che ha modificato l�originaria disposizione oggi dichiarata illegittima, � stato dichiarato ammissibile dalla Corte con sentenza n. 1 del 1994 dopo aver rilevato che erano state rispettate le esigenze di chiarezza, univocit� ed omogeneit� del quesito e che la coesistenza di due quesiti referendari per l�art. 19 non dava luogo a inconvenienti applicativi della normativa di risulta. Di fronte a due sentenze, di cui la prima ha dichiarato ammissibile un referendum abrogativo e la seconda ha dichiarato illegittima costituzionalmente la norma nella formulazione risultante dal referendum, cՏ da domandarsi se e come vadano coordinate. La sentenza n. 213 ha evidentemente presupposto che sulla verifica della legittimit� costituzionale della norma non avesse nessun rilievo la sentenza sull�ammissibilit� del referendum. In mancanza di indicazioni sulla ragione si pu� tentare una ricostruzione. � stato l�art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953 che ha attribuito alla Corte costituzionale la competenza a giudicare dell�ammissibilit� delle richieste di referendum ai sensi del secondo comma dell�art. 75 Cost. Per questo la Corte costituzionale nella sua prima giurisprudenza si � limitata a verificare se le richieste riguardavano leggi per le quali appunto il secondo comma dell�art. 75 Cost. non consentiva il referendum. Quando le richieste di referendum sono diventate pi� impegnative e complicate la Corte ha esteso la sua indagine sulla norma di risulta perch� non si creassero vuoti normativi o si stravolgesse la disciplina precedente o si incontrassero difficolt� applicative. �Con la sentenza n. 16 del 1978 la Corte ha affermato che al di l� dei casi di ammissibilit� del referendum enunciati espressamente dall�art. 75, secondo comma, sono presenti nella Costituzione riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, valori che debbono essere tutelati escludendo i relativi referendum. Di qui l�elaborazione e la formale enunciazione, sempre in detta sentenza, di precise ragioni costituzionali di inammissibilit�, tra le quali si iscrive la non abrogabilit� delle �disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato��. � questa una delle premesse dalle quali � partita la Corte nella sentenza n. 35 del 1997 nella quale ha concluso per la non ammissibilit� del referendum abrogativo di parti della legge sul- l�aborto perch� �l�abrogazione � travolgerebbe ... disposizioni di contenuto normativo costituzionalmente vincolato sotto pi� aspetti, in quanto renderebbe nullo il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionalmente inviolabili ��. Oggi l�art. 19 � stato dichiarato illegittimo costituzionalmente perch� �in collisione con i precetti di cui agli art. 2, 3, e 39 Cost.�. In linea di principio quindi il referendum non sarebbe stato ammissibile perch� eliminava il contenuto normativo costituzionalmente vincolato provocando la �esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, s� da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative�. Il coordinamento tra le due sentenze, quella che ha dichiarato ammissibile il referendum e quella che ha dichiarato incostituzionale la norma di risulta, comporta qualche difficolt�. I criteri possono essere diversi, ognuno con dei pro e dei contro. Sembra difficile sostenere che, in sede di ammissibilit� del referendum, la Corte non debba domandarsi se gli effetti normativi dell�abrogazione risultino in contrasto con la Costituzione perch� sarebbe irragionevole che il Giudice di costituzionalit� possa consentire la formazione di norme incostituzionali e perch�, come si � visto, la Corte in varie occasioni lo ha fatto. Questa prima ipotesi sembra improbabile. Se nella sentenza non � detto nulla a proposito della legittimit� costituzionale della normazione di risulta, il silenzio sarebbe privo di effetti preclusivi e non porterebbe ad un giudicato implicito: significherebbe solo che l�indagine non � stata fatta e che quindi pu� essere fatta successivamente. In favore di questa seconda ipotesi potrebbe operare il principio secondo il quale la dichiarazione di legittimit� costituzionale di una norma non impedisce che sia dichiarata illegittima successivamente per motivi diversi. Come noto, la Corte ha chiarito da tempo che giudica solo sulle questioni sollevate con il ricorso o con l�ordinanza di rimessione. Si dovrebbe tenere conto, peraltro, della differenza delle situazioni: nel caso del referendum il giudizio � ufficioso e la Corte non interviene su sollecitazione del ricorrente o del giudice remittente, ma in un procedimento formalizzato. Se anche il silenzio nella sentenza di ammissibilit� portasse effetti preclusivi, questi sarebbero superati e il conflitto tra le due sentenze sarebbe solo apparente � � questa la terza ipotesi � perch� nel frattempo si sarebbe modificata la situazione di fatto facendo diventare illegittima una norma che all�inizio non lo era. In questo senso sembra il richiamo a quanto il Giudice remittente aver rilevato a proposito della sentenza n. 244 del 1996 e dell�ordinanza n. 345 del 1996, vale a dire che �quelle pronunzie � legate ad un diverso contesto, connotato dalla unitariet� di azione dei sindacati e dalla unitaria sottoscrizione dei contratti collettivi applicati all�azienda, nel quale �ragionevolmente quella sottoscrizione poteva essere assunta a criterio misuratore della forza del sindacato e della sua rappresentativit�� � vadano ora �ripensate alla luce dei mutamenti intercorsi nelle relazioni sindacali degli ultimi anni�, caratterizzate dalla rottura della unit� di azione delle organiz zazioni maggiormente rappresentative e alla conclusione di contratti collettivi separati�. Prendendo spunto da questa vicenda potrebbe essere utile che la Corte in sede di giudizio di ammissibilit� del referendum effettuasse espressamente una verifica della legittimit� costituzionale delle norme di risulta. Corte costituzionale, sentenza 23 luglio 2013 n. 231 -Pres. Gallo, Rel. Morelli - Giudizi di legittimit� costituzionale dell�art. 19, primo comma, lett. b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libert� e dignit� dei lavoratori, della libert� sindacale e dell�attivit� sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promossi dal Tribunale ordinario di Modena con ordinanza 4 giugno 2012, dal Tribunale ordinario di Vercelli con ordinanza 25 settembre 2012 e dal Tribunale ordinario di Torino con ordinanza 12 dicembre 2012 - (avv.ti V. Angiolini, P. Alleva e F. Focareta) per la FIOM - Federazione Impiegati Operai Metalmeccanici - Federazioni Provinciali di Modena, di Vercelli e Valsesia e di Torino, (avv.ti R. Nania, R. De Luca Tamajo e D. Dirutigliano) per Case New Holland Italia s.p.a., Maserati s.p.a. e Ferrari s.p.a., per Fiat Group Automobiles s.p.a. e per Abarth & C. Italia s.p.a., (avv. Stato Giustina Noviello) per il Presidente del Consiglio dei ministri. (Omissis) Considerato in diritto 1.� Il Tribunale ordinario di Modena ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione, questione di legittimit� costituzionale dell�articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libert� e dignit� dei lavoratori, della libert� sindacale e dell�attivit� sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel testo risultante dall�abrogazione parziale disposta � in esito al referendum indetto con decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 85 dell�11 aprile 1995 � dal d.P.R. 28 luglio 1995, n. 312 (Abrogazione, a seguito di referendum popolare, della lettera a e parzialmente della lettera b dell�art. 19, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, sulla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, nonch� differimento dell�entrata in vigore dell�abrogazione medesima), nella parte in cui consente la costituzione di rappresentanze aziendali alle sole �associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi applicati nell�unit� produttiva�, e non anche a quelle che abbiano comunque partecipato alla relativa negoziazione, pur non avendoli poi, per propria scelta, sottoscritti. 1.1.� La rilevanza della questione � motivata dal rimettente in ragione del fatto che, nei giudizi (riuniti) innanzi a lui pendenti, il sindacato ricorrente (FIOM) aveva denunciato il comportamento antisindacale delle controparti imprenditoriali (varie societ� del gruppo FIAT), le quali avevano disconosciuto la sua legittimazione a costituire rappresentanze sindacali, nelle rispettive unit� produttive, in conseguenza, appunto, della mancata sottoscrizione del contratto collettivo, ivi applicato, da parte di esso sindacato, che pure aveva attivamente partecipato alle trattative che ne avevano preceduto la conclusione. 1.2.� In punto di non manifesta infondatezza del cos� proposto quesito, il Tribunale a quo, muovendo dalla considerazione che la partecipazione al negoziato � un dato che evidenzia l�effettiva forza contrattuale e, di riflesso, la capacit� rappresentativa del sindacato, ne inferisce la �intrinseca irragionevolezza� del criterio selettivo della sottoscrizione del contratto, espresso dalla disposizione denunciata, �nel [l�attuale] momento in cui, applicato a fattispecie concrete, porta ad un risultato che contraddice il presupposto a dimostrazione del quale il criterio stesso era stato elaborato�. Risultato cui, appunto, si perverrebbe nei processi a quibus, nei quali, alla luce di quel criterio, �dovrebbe riconoscersi maggior forza rappresentativa alle associazioni firmatarie del contratto [�], anzich� alla FIOM [che non lo ha sottoscritto], laddove in fatto � incontestato il contrario�. 1.3.� La soluzione di una lettura estensiva della espressione �associazioni firmatarie�, nel senso della sua riferibilit� anche ad organizzazioni che abbiano comunque partecipato al processo contrattuale � cui, in analoghe controversie, altri giudici di merito sono pervenuti, in funzione di una �interpretazione adeguatrice� al dettato costituzionale della disposizione in esame � non �, preliminarmente, ritenuta condivisibile dal Tribunale rimettente, per l�univocit� del dato testuale che inevitabilmente vi si opporrebbe. Da qui la conclusione che la reductio ad legitimitatem della norma denunciata, in quella delineata direzione estensiva, non possa altrimenti avvenire che attraverso un intervento (evidentemente additivo) di questa Corte. 1.4.� Non ignora, peraltro, il rimettente la sentenza n. 244 del 1996, e la ordinanza n. 345 del 1996, di questa Corte, che hanno, rispettivamente, escluso la fondatezza, e dichiarato poi la manifesta infondatezza, di identiche questioni di legittimit� costituzionale dell�art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 39 Cost.) ora nuovamente evocati. Ma ritiene che quelle pronunzie � legate ad un diverso contesto, connotato dalla unitariet� di azione dei sindacati e dalla unitaria sottoscrizione dei contratti collettivi applicati in azienda, nel quale �ragionevolmente quella sottoscrizione poteva essere assunta a criterio misuratore della forza del sindacato e della sua rappresentativit�� � vadano ora �ripensate alla luce dei mutamenti intercorsi nelle relazioni sindacali degli ultimi anni�, caratterizzate dalla rottura della unit� di azione delle organizzazioni maggiormente rappresentative e dalla conclusione di contratti collettivi �separati�. Lo scenario delle attuali relazioni sindacali risulterebbe, inoltre, ulteriormente, e profondamente, alterato dal nuovo sistema contrattuale, definito �autoconcluso ed autosufficiente�, instaurato dalle societ� del Gruppo FIAT, le quali, uscite dal sistema confindustriale e recedute dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i metalmeccanici, hanno stipulato, nelle rispettive aziende, un separato contratto collettivo specifico di primo livello, sottoscritto appunto solo da associazioni sindacali diverse dalla ricorrente. Sarebbe mutato anche il quadro normativo di riferimento, in ragione della copiosa legislazione che ha elevato la contrattazione collettiva a fonte integrativa, suppletiva o derogatoria, della propria disciplina, in correlazione, sempre, ad un parametro di effettiva, e comparativamente maggiore, rappresentativit� dei sindacati stipulanti. Ed, appunto, alla luce di tali nuovi dati di sistema e di contesto, il criterio selettivo di cui alla lettera b) del primo comma del denunciato art. 19 verrebbe ora a �tradire la ratio stessa della disposizione dello Statuto, volta ad attribuire una finalit� promozionale e incentivante all�attivit� del sindacato quale portatore di interesse del maggior numero di lavoratori, che trova una diretta copertura costituzionale nel principio solidaristico espresso dall�art. 2 Cost., nonch� nello stesso principio di uguaglianza sostanziale, di cui al secondo comma dell�art. 3 della Costituzione�. Si porrebbe, inoltre, quel criterio, in insanabile contrasto con il precetto dell�art. 39 Cost., incidendo negativamente sulla libert� di azione del sindacato, la cui decisione di sottoscrivere o no un contratto collettivo ne risulterebbe inevitabilmente �condizionata non solo dalla fi nalit� di tutela degli interessi dei lavoratori, secondo la funzione regolativa propria della contrattazione collettiva, bens� anche dalla prospettiva di ottenere (firmando) o perdere (non firmando) i diritti del Titolo III, facenti capo direttamente all�associazione sindacale, potendo le due esigenze, come nella fattispecie in esame, entrare in conflitto, e dovendosi inoltre valutare la necessit�, ai fini della sottoscrizione, del consenso e della collaborazione di parte datoriale �. Con l�ulteriore conseguenza che, �in ipotesi estrema, ove la parte datoriale decidesse di non firmare alcun contratto collettivo, non vi sarebbe nell�unit� produttiva alcuna rappresentanza sindacale�. 2.� Sostanzialmente la stessa questione, con coincidenti argomentazioni, � stata sollevata anche dal Tribunale ordinario di Vercelli e dal Tribunale ordinario di Torino. 3.� I giudizi promossi da dette tre ordinanze, avendo il medesimo oggetto, vanno riuniti e decisi con unica sentenza. 4.� In via preliminare, deve essere confermata l�ordinanza adottata nel corso dell�udienza pubblica, ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi adesivi spiegati dalla CGIL, FILCAMS di Milano e Provincia e dalla Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI) nei giudizi di cui, rispettivamente, all�ordinanza del Tribunale ordinario di Modena ed a quella del Tribunale ordinario di Vercelli, nonch� l�intervento ad opponendum dell�Associazione Unione industriale della Provincia di Torino, nel giudizio relativo all�ordinanza del Tribunale di detta citt�. 5.� � ancora preliminare l�esame delle eccezioni di inammissibilit� della questione formulate da tutte le societ� resistenti nei giudizi a quibus e dal Presidente del Consiglio. 5.1.� Ad avviso delle predette resistenti, l�odierna questione sarebbe, infatti, inammissibile perch� identica a quella gi� decisa, nel senso della non fondatezza, con la sentenza di questa Corte n. 244 del 1996; ovvero per incertezza e perplessit� del petitum che comunque, se additivo, �omette[rebbe] di indicare in maniera sufficientemente circostanziata il �verso� della pretesa addizione� e, se demolitorio, renderebbe la questione stessa priva di rilevanza. Argomento, quest�ultimo, fatto valere anche dall�Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale �l�eventuale declaratoria di illegittimit� costituzionale dell�art. 19, lettera b), dello Statuto dei lavoratori determinerebbe il venir meno del criterio della sottoscrizione dei contratti quale criterio selettivo per l�accesso ai diritti di cui al Titolo III dello Statuto ma, in assenza di un diverso criterio selettivo, non darebbe titolo all�associazione sindacale di godere di quei diritti�. Con riguardo, poi, alle sole ordinanze dei Tribunali ordinari di Vercelli e di Torino, le societ� resistenti nei rispettivi processi promossi ai sensi dell�art. 28 della citata legge n. 300 del 1970 hanno ulteriormente eccepito il �difetto di motivazione in punto di (pretesa) non manifesta infondatezza della questione di legittimit� costituzionale sotto i profili enunciati�, per essersi detti giudici limitati a motivare per relationem all�ordinanza del Tribunale ordinario di Modena. 5.2.� Nessuna delle prospettate eccezioni pu� essere accolta. In primo luogo, non � esatto che l�esistenza di una precedente pronuncia di non fondatezza (ed anche di manifesta infondatezza) di una questione (ove pur) identica a quella riproposta dal giudice a quo sia, come si eccepisce, ostativa all�ammissibilit� di quest�ultima, potendo un tal precedente unicamente, invece, rilevare nella successiva fase di esame del merito della questione stessa, alla luce degli eventuali nuovi profili argomentativi a suo supporto offerti dal rimettente. Non � poi sostenibile che il petitum della odierna questione sia incerto o perplesso, poich� ci� che i giudici a quibus chiedono ora a questa Corte � in ragione della prospettata incostituzionalit� dell�art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970 � non � una decisione demolitoria, che effettivamente darebbe luogo ad un vuoto normativo colmabile solo dal legislatore, bens�, inequivocabilmente, una pronuncia additiva che consenta (ci� che, appunto, altri giudici di merito hanno ritenuto di poter direttamente desumere in via di interpretazione sistematica, evolutiva o, comunque, costituzionalmente adeguata della norma stessa) di estendere la legittimazione alla costituzione di rappresentanze aziendali anche ai sindacati che abbiano attivamente partecipato alle trattative per la stipula di contratti collettivi applicati nell�unit� produttiva, ancorch� non li abbiano poi sottoscritti (per ritenuta loro non idoneit� a soddisfare gli interessi dei lavoratori). E, in tal senso, il �verso� della addictio richiesta � e che, in relazione ai parametri evocati, si prospetta come obbligata � si sottrae, evidentemente, anche alla eccezione di non sufficientemente circostanziata sua indicazione. L�inammissibilit� non pu� essere, infine, riferita neppure alle sole ordinanze dei Tribunali di Vercelli e di Torino. Le quali, lungi dall�essere motivate solo per relationem alla precedente ordinanza del Tribunale di Modena, nel condividerne il petitum, richiamano puntualmente, e sviluppano anche ulteriormente, le argomentazioni che lo sorreggono. 6.� Nel merito, le questioni sono fondate. 6.1.� L�articolo 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori � stato ripetutamente sottoposto all�esame di questa Corte. Le prime pronunce hanno riguardato la versione originaria di detto articolo, anteriore al referendum del 1995, ossia quella per la quale �Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unit� produttiva, nell�ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell�unit� produttiva�. I dubbi di legittimit� costituzionale investivano, in quel contesto, la mancata attribuzione ad ogni associazione sindacale esistente nel luogo di lavoro della possibilit� di costituire rappresentanze sindacali aziendali. Nell�affermare la razionalit� del disegno statutario, con i due livelli di protezione accordata alle organizzazioni sindacali (libert� di associazione, da un lato, e selezione dei soggetti collettivi fondata sul principio della loro effettiva rappresentativit�, dall�altro), la Corte si � soffermata anche sul criterio della �maggiore rappresentativit��, che pur conducendo a privilegiare le confederazioni �storiche�, non precludeva rappresentanze aziendali nell�ambito delle associazioni sindacali non affiliate alle confederazioni maggiormente rappresentative, purch� si dimostrassero capaci di esprimere, attraverso la firma di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell�unit� produttiva, un grado di rappresentativit� idoneo a tradursi in effettivo potere contrattuale a livello extra-aziendale (sentenze n. 334 del 1988 e n. 54 del 1974). 6.2.� A partire dalla seconda met� degli anni ottanta si � sviluppato, per�, un dibattito critico in vista di una esigenza di revisione del meccanismo selettivo della �maggiore rappresentativit�� previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro. Ed � stata proprio questa Corte a segnalare, con un monito al legislatore, l�ormai ineludibile esigenza di elaborare nuove regole che conducessero a un ampliamento della cerchia dei soggetti chiamati ad avere accesso al sostegno privilegiato offerto dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, oltre ai sindacati maggiormente rappresentativi (sentenza n. 30 del 1990). L�invito al legislatore � stato ribadito nella sentenza n. 1 del 1994, che ha dato ingresso ai due quesiti referendari che in quell�occasione la Corte era chiamata ad esaminare: il primo, �massimalista�, volto ad ottenere �l�abrogazione di tutti i criteri di maggiore rappresentativit� adottati dall�art. 19, nelle lettere a e b�, e il secondo, �minimalista�, mirante all�abrogazione dell�indice presuntivo di rappresentativit� previsto dalla lettera a) e all�abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentativit� effettiva prevista dalla lettera b). In quella decisione, nella consapevolezza dei profili di criticit� che avrebbero potuto anni- darsi nel testo risultante dall�eventuale conformazione referendaria, nuovamente, questa Corte sottoline� che, comunque �il legislatore potr� intervenire dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, improntata a modelli di rappresentativit� sindacale compatibili con le norme costituzionali e in pari tempo consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo e alle nuove spinte aggregative degli interessi collettivi dei lavoratori�. 6.3.� Come � noto, in occasione del referendum indetto con decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995 e tenutosi l�11 giugno 1995, ottenne il quorum solo �il quesito minimalista�, dando luogo all�attuale art. 19, che attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell�unit� produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale. Nel commentare la normativa �di risulta�, non si manc� di sottolineare come questa � pur coerente con la ratio referendaria di allargare il pi� possibile le maglie dell�agere sindacale anche a soggetti nuovi che fossero realmente presenti ed attivi nel panorama sindacale � rischiasse, per�, nella sua accezione letterale, di prestare il fianco ad una applicazione sbilanciata: per un verso, in eccesso, ove l�espressione �associazioni firmatarie� fosse intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione, anche meramente adesiva, del contratto a fondare la titolarit� dei diritti sindacali in azienda (con virtuale apertura a sindacati di comodo); e, per altro verso, in difetto, ove interpretata, quella espressione, come ostativa al riconoscimento dei diritti in questione nei confronti delle associazioni che, pur connotate da una azione sindacale sorretta da ampio consenso dei lavoratori, avessero ritenuto di non sottoscrivere il contratto applicato in azienda. E ci� con il risultato, nell�un caso e nell�altro, di una alterazione assiologica e funzionale della norma stessa, quanto al profilo del collegamento, non certamente rescisso dall�intervento referendario, tra titolarit� dei diritti sindacali ed effettiva rappresentativit� del soggetto che ne pretende l�attribuzione. 6.4.� Le pronunzie di questa Corte, nel quinquennio successivo al referendum � sentenza n. 244 del 1996, ordinanze n. 345 del 1996, n. 148 del 1997 e n. 76 del 1998 � hanno fornito indicazioni, per quanto in concreto sottoposto al suo esame, solo con riguardo al primo dei due sottolineati punti critici. E, per questo aspetto, l�art. 19, �pur nella versione risultante dalla prova referendaria�, ha superato il vaglio di costituzionalit� sulla base di una esegesi costituzionalmente orientata, che ha condotto ad una sentenza interpretativa di rigetto. In virt� della quale, dalla premessa che �la rappresentativit� del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia�, bens� dalla �capacit� del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale�, la Corte ha inferito che �Non � perci� sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto�, e che �nemmeno � sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale o provinciale gi� applicato nella stessa unit� produttiva� (sentenza n. 244 del 1996). In questi termini, la Corte ha ritenuto che l�indice selettivo di cui alla lettera b), del primo comma, dell�art. 19 dello Statuto dei lavoratori �si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi di razionalit� pratica, per la corrispondenza di tale criterio allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, e, di riflesso, della sua rappresentativit�, tipicamente proprio del- l�ordinamento sindacale�. 6.5.� Nell�attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali, quale diffusamente descritto ed analizzato dai giudici a quibus, l�altro (speculare) profilo di contraddizione (per sbilanciamento in difetto) � teoricamente, per quanto detto, gi� presente nel sistema della lettera b) del primo comma, dell�art. 19, ma di fatto sin qui oscurato dalla esperienza pratica di una perdurante presenza in azienda dei sindacati confederali � viene invece ora compiutamente ad emersione. E si riflette nella concretezza di fattispecie in cui, come denunciato dai rimettenti, dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo � derivata la negazione di una rappresentativit� che esiste, invece, nei fatti e nel consenso dei lavoratori addetti all�unit� produttiva. In questa nuova prospettiva si richiede, appunto, una rilettura dell�art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende. 6.6.� L�aporia indotta dalla esclusione dal godimento dei diritti in azienda del sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell�effettivo consenso da parte dei lavoratori, che ne permette e al tempo stesso rende non eludibile l�accesso alle trattative, era gi� stata del resto rilevata; e dalle riflessioni svolte in proposito era scaturita anche la sollecitazione ad una interpretazione adeguatrice della norma in questione, alla stregua della quale, superandosi lo scoglio del suo tenore letterale, che fa espresso riferimento ai sindacati �firmatari�, si ritenesse condizione necessaria e sufficiente, per soddisfare il requisito previsto dall�art. 19, quella di aver effettivamente partecipato alle trattative, indipendentemente dalla sottoscrizione del contratto. Interpretazione di cui si � sostenuta la coerenza con la richiamata giurisprudenza costituzionale in materia di irrilevanza, ai fini dell�art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, della mera sottoscrizione del contratto collettivo non preceduta dalla effettiva partecipazione alle trattative. I Tribunali rimettenti, a differenza di quanto ritenuto da altri giudici di merito, hanno escluso, per�, la possibilit� della richiamata interpretazione adeguatrice, reputata incompatibile con il testo dell�art. 19, e perci� hanno sollevato le questioni di legittimit� costituzionale all�odierno esame, al fine di conseguire, attraverso una pronuncia additiva, quel medesimo risultato di estensione della titolarit� dei diritti sindacali, sulla base della nozione di �effettivit� dell�azione sindacale�, alle organizzazioni che abbiano partecipato alle trattative, ancorch� non firmatarie del contratto. 7.� La Corte giudica corretta questa opzione ermeneutica, risultando effettivamente univoco e non suscettibile di una diversa lettura l�art. 19, tale, dunque, da non consentire l�applicazione di criteri estranei alla sua formulazione letterale. Ma alla luce di una siffatta testuale interpretazione la disposizione in oggetto non sfugge alle censure sollevate dai rimettenti. Infatti, nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentativit� e, per una sorta di eterogenesi dei fini, si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, s� da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell�accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost. Risulta, in primo luogo, violato l�art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della irragionevolezza intrinseca di quel criterio, e della disparit� di trattamento che � suscettibile di ingenerare tra sindacati. Questi ultimi infatti nell�esercizio della loro funzione di autotutela dell�interesse collettivo � che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all�art. 2 Cost. � sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non gi� del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentativit� e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bens� del rapporto con l�azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa. E se, come appena dimostrato, il modello disegnato dall�art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l�impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all�art. 39, primo e quarto comma, Cost., per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libert� di azione della organizzazione sindacale. La quale, se trova, a monte, in ragione di una sua acquisita rappresentativit�, la tutela del- l�art. 28 dello Statuto nell�ipotesi di un eventuale, non giustificato, suo negato accesso al tavolo delle trattative, si scontra poi, a valle, con l�effetto legale di estromissione dalle prerogative sindacali che la disposizione denunciata automaticamente collega alla sua decisione di non sottoscrivere il contratto. Ci� che si traduce, per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libert� del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute pi� appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l�altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum. 8.� Va, pertanto, dichiarata l�illegittimit� costituzionale dell�art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell�ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell�unit� produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell�azienda. 9.� L�intervento additivo cos� operato dalla Corte, in coerenza con il petitum dei giudici a quibus e nei limiti di rilevanza della questione sollevata, non affronta il pi� generale problema della mancata attuazione complessiva dell�art. 39 Cost., n� individua � e non potrebbe farlo � un criterio selettivo della rappresentativit� sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori in azienda nel caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell�unit� produttiva per carenza di attivit� negoziale ovvero per impossibilit� di pervenire ad un accordo aziendale. Ad una tale evenienza pu� astrattamente darsi risposta attraverso una molteplicit� di soluzioni. Queste potrebbero consistere, tra l�altro, nella valorizzazione dell�indice di rappresentativit� costituito dal numero degli iscritti, o ancora nella introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, o nell�attribuzione al requisito previsto dall�art. 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell�unit� produttiva vigente, oppure al riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro. Compete al legislatore l�opzione tra queste od altre soluzioni. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l�illegittimit� costituzionale dell�articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libert� e dignit� dei lavoratori, della libert� sindacale e dell�attivit� sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell�ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell�unit� produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell�azienda. Cos� deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013. Indennizzo di danni da emotrasfusione anche per contagio da emodialisi (Cassazione civile, Sez. III, sentenza 16 aprile 2013 n. 9148) Marina Russo* Con l'unita sentenza, la Corte di Cassazione ha affermato che sono suscettibili di indennizzo ai sensi della legge 210/1992 i danni da contagio da emodialisi provocato dall'insufficiente pulizia del macchinario da residui ematici di un paziente precedente. La pronuncia si pone dichiaratamente in contrasto con l'opposto orientamento espresso dalla Sezione Lavoro in un precedente in termini, e giustifica il superamento degli argomenti fondanti detto precedente con il richiamo alla successiva sentenza della Corte Costituzionale n. 28/09: quest'ultima infatti nel dichiarare l'illegittimit� costituzionale dell'art. 3 l. 210/92 nella parte in cui non prevede che il diritto ai benefici competa anche ai soggetti che presentino danni irreversibili da epatite contratta a seguito di somministrazione di derivati del sangue - avrebbe, a giudizio della Suprema Corte, aperto la strada ad un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 3, "che prescinde dal concetto stesso di trasfusione" per estenderne la portata a fattispecie (come il contagio da emodialisi) contigue a (ma non perfettamente coincidenti con) quelle direttamente contemplate dalla norma. Cassazione civile, Sez. Terza, sentenza 16 aprile 2013 n. 9148 -Pres. G.M. Berruti, Rel. R. Frasca, P.M. T. Basile (difforme) - Ministero della salute (avv. Stato) c. C.E. (n.c.). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO �.1. Il Ministero della Salute ha proposto ricorso per cassazione contro C.E., nella qualit� di erede del defunto B.P., avverso la sentenza del 25 luglio 2006, con la quale la Corte d'Appello di Cagliari, in funzione di Giudice del Lavoro, in accoglimento dell'appello della C. ed in riforma della sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Cagliari in funzione di giudice del lavoro il 28 luglio 2004, ha accolto la domanda della medesima intesa ad ottenere nella detta qualit� l'assegno una tantum previsto dalla L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 2, comma 3, ed ha condannato il ricorrente alla sua corresponsione con gli interessi legali dal centoventunesimo giorno dalla presentazione dell'istanza in via amministrativa. �.2. Detta domanda era stata proposta dalla C. con ricorso al Tribunale del 1 agosto 2001, adducendosi: che il proprio coniuge B.P., affetto da insufficienza renale cronica trattata fin dal 1974 con dialisi, aveva contratto a causa di detta terapia dapprima l'epatite B e, quindi, una epatopatia cronica virale HVC, che ne aveva determinato il decesso il 17 ottobre 1996; (*) Avvocato dello Stato. che il Ministero aveva respinto la domanda amministrativa diretta ad ottenere la corresponsione dell'indennizzo ai sensi della detta normativa. �.3. Il Tribunale, sulla base della consulenza esperita, per quanto ancora interessa, aveva rigettato la domanda reputando che le patologie epatitiche contratte dal de cuius fossero state contratte verosimilmente per il tramite del trattamento dialitico, ma che il contagio avvenuto attraverso tale tipologia di trattamento non fosse riconducibile alla fattispecie legale giustificativa dell'indennizzo richiesto, relativa all'emotrasfusione. �.4. La Corte territoriale, sulla base delle risultanze dell'espletamento di una nuova consulenza tecnica d'ufficio, ha ribaltato l'esito del giudizio considerando invece il contagio da emodialisi ricompreso nella suddetta fattispecie. �.5. L'intimata non ha resistito al ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE �.1. Il Collegio, preliminarmente, rileva che, inerendo ad impugnazione di una sentenza resa dal giudice del lavoro e della previdenza ed assistenza, il ricorso avrebbe dovuto assegnarsi alla Sezione Lavoro di questa Corte. Tuttavia, la congiunta considerazione che una rimessione al Primo Presidente del ricorso perch� lo assegni a quella Sezione ritarderebbe, in conflitto con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, l'esame del ricorso, nonch� dell'assoluta ininfluenza dell'assegnazione alla Sezione Lavoro ai fini del rito processuale da seguirsi in questa sede di legittimit�, che non presenta scostamenti da quello da seguire dalle sezioni ordinarie soprattutto ai fini della decisione, induce a dar corso alla decisione. �.2. Con il primo motivo di ricorso si deduce "violazione di legge in relazione all'art. 7, commi 1 e 2, lett. a), nonch� D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, artt. 112 e 114; art. 360 c.p.c., n. 3". Sulla premessa che si tratterebbe di questione formulabile per la prima volta in questa sede di legittimit�, perch� si tratterebbe "di accertare non gi� l'effettiva titolarit� del rapporto sostanziale per cui � causa (questione, questa, che attiene al merito e sarebbe ormai preclusa dalla mancata tempestiva proposizione nei precedenti gradi di giudizio) bens� di accertare - ai fini della verifica della ritualit� dell'instaurazione del contraddittorio - l'astratta coincidenza fra le parti in causa (attore e convenuto) e coloro che secondo la legge regolatrice del rapporto controverso - sono destinatari della sentenza", vi si sostiene, con corredo di corrispondente quesito di diritto, che il Ministero non sarebbe stato legittimato passivo all'azione, perch� tale sarebbe stata la Regione Sardegna. Ci�, perch� in relazione ai giudizi, aventi ad oggetto istanze di riconoscimento dell'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, presentate in via amministrativa in data precedente il 1 gennaio 2001 ovvero il 21 febbraio 2001 e non ancora definite a quelle date, la legittimazione passiva alla successiva azione giudiziaria sarebbe stata delle Regioni. �.2.1. L'assunto � fondato innanzitutto sull'allegazione che nella fattispecie si tratterebbe di "un caso in cui - come si evince dal ricorso introduttivo - l'istanza � stata infruttuosamente presentata dall'interessato in sede amministrativa in epoca anteriore al 1.1.01 (data a decorrere dalla quale l'esercizio delle funzioni in materia transita alla regione), e non definita all'epoca del suddetto transito (pag. 2 del ricorso di primo grado, punti da 5 a 7)". La sua illustrazione prosegue, poi, con una serie di argomentazioni, che si sforzano di dimostrare l'assunto ripercorrendo la vicenda normativa in materia, a partire dalla L. n. 59 del 1997, e dal D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 114, nonch� dall'art. 7 di tale D.Lgs., e, quindi, evocando il D.P.C.M. 26 maggio 2000, quanto all'art. 3, comma 1, e art. 2, n. 4, l'Accordo Governo/ Regioni dell'8 agosto 2001 ed in fine il D.P.C.M. 8 gennaio 2001. �2.2. Il Collegio osserva che la questione posta nel motivo � ammissibile, ancorch� pro spettata per la prima volta in questa sede di legittimit�. Lo � sulla base del principio di diritto secondo cui "Il difetto di legittimazione attiva o passiva, da valutarsi in base allo schema normativo astratto al quale si riconduce il diritto fatto valere in giudizio, � questione che, pur risultando decisiva per l'esistenza della titolarit� di tale diritto (e, dunque, afferendo in senso lato al merito), � rilevabile anche in sede di legittimit� alla duplice condizione che non si sia formata sulla sua esistenza cosa giudicata interna (per essere stato il punto ad essa relativo oggetto di discussione e poi di decisione rimasta priva di impugnazione) e che la questione emerga sulla base dei fatti legittimamente prospettati davanti alla Corte di cassazione e, dunque, nel rispetto dei limiti entro i quali deve svolgersi l'attivit� deduttiva della parti negli atti introduttivi del giudizio di cassazione" (da ultimo cos� Cass. n. 23568 del 2011, dove si trova ampia analisi dello stato della giurisprudenza della Corte ed anche si rafforza l'argomentazione al lume di Cass. sez. un. n. 26019 del 2008, in punto di limiti del c.d. giudicato implicito dopo l'arresto di cui a Cass. Sez. Un. n. 24483 del 2008). �.2.3. Il motivo �, tuttavia, inammissibile, perch� si fonda su un atto processuale, il ricorso introduttivo della lite, riguardo al quale non si fornisce l'indicazione specifica nei termini di cui alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (inaugurata da Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e subito avallata da Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e di seguito da Cass. sez. un. n. 22726 del 2011 con specifico riferimento all'onere per gli atti processuali): infatti, pur indicando la parte del ricorso introduttivo della lite da cui risulterebbe quanto allegato, non assolve completamente a quanto richiesto dalla norma, in quanto non precisa se e dove sarebbe esaminabile l'atto di cui trattasi ed in particolare non dice se esso sia esaminabile, perch� prodotto, agli effetti dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nel fascicolo del ricorrente oppure se si sia inteso fare riferimento (come ammesso da Cass. sez. Un. n. 22726 cit.) alla sua presenza nel fascicolo d'ufficio del giudice d'appello (per il che si sarebbe dovuto fornire anche precisazione di dove in esso l'atto sarebbe stato rinvenibile, tenuto conto che esso sarebbe stato, in ipotesi, presente nel fascicolo d'ufficio di primo grado se acquisito dal giudice d'appello). �.2.4. Il motivo sarebbe stato, comunque, ove lo si fosse potuto esaminare, privo di fondamento, al lume del principio di diritto, enunciato a composizione del contrasto anzitempo esistente in seno alla Sezione Lavoro della Corte, da Cass. sez. un. n. 23358 del 2011 nel senso che "In tema di controversie relative all'indennizzo previsto dalla L. 25 febbraio 1992, n. 210, in favore di soggetti che hanno riportato danni irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati, e da questi ultimi proposte per l'accertamento del diritto al beneficio, sussiste la legittimazione passiva del Ministero della salute, in quanto soggetto pubblico che, analogamente, decide in sede amministrativa pronunciandosi sul ricorso di chi chiede la prestazione assistenziale". Alle motivazioni di questa decisione, che si fa ampio carico delle argomentazioni su cui si fonda il motivo - redatto prima di essa - � sufficiente far rinvio. �3. Con il secondo motivo si deduce "violazione di legge in relazione alla L. n. 210 del 1992, art. 1, commi 1 e 2", in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Il motivo � concluso dal un quesito di diritto che pone alla Corte la questione del se sia indennizzabile, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1, primo e secondo comma della L. n. 210 del 1992, il danno da epatite irreversibile cagionato da trattamento dialitico. �.3.1. Il motivo � infondato. Vi si censura la sentenza impugnata perch� avrebbe erroneamente ritenuto compresa la fattispecie nell'ambito della tutela di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 1, comma 3, sull'assunto che la previsione in esso contenuta, l� dove dispone che "i benefici di cui alla presente legge spettano altres� a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti postrasfusionali", ancorch� nella fattispecie, come sarebbe emerso dalla c.t.u. di appello, il contagio fosse derivato non da una trasfusione eterologa bens� dal reinserimento nel corpo del de cuius, come � tipico della pratica della emodialisi, del suo stesso sangue, che si sarebbe infettato per contatto con sangue eterologo nel c.d. "rene artificiale", prima della reimmissione. In pratica si sostiene che la norma dell'art. 1, comma 3, sarebbe applicabile solo nel caso di contagio determinato da trasfusioni di sangue eterologo. �.3.2. Ora, il Collegio non ignora che il motivo sarebbe fondato sulla base dell'unico precedente che risulta nella giurisprudenza di questa Corte e particolarmente della Sezione Lavoro, che, successivamente alla proposizione del ricorso, ha cos� statuito: "La L. n. 210 del 1992, art. 1, - che prevede l'erogazione di un indennizzo da parte dello Stato a favore di soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie o da trasfusioni di sangue - mira a tutelare il rischio che il donatore sia affetto da una infezione che venga trasmessa al donatario attraverso una trasfusione, nozione che, pertanto, non ricomprende la cosiddetta autotrasfusione ovvero la circolazione extracorporea del sangue, dovendosi escludere che il soggetto a cui venga iniettato il proprio sangue rischi di contrarre infezioni nuove rispetto a quelle di cui � portatore. N� pu� ritenersi ammissibile una interpretazione analogica della normativa - che si fonda su specifici presupposti e consente l'attribuzione di benefici economici con onere per le pubbliche risorse - non potendosi invocare, in senso contrario, l'orientamento espresso dalla Conferenza Stato-Regioni, le cui linee guida non costituiscono fonte normativa idonea a modificare la legge formale. (Nella specie, relativa ad un caso di contagio HCV da parte di paziente emodializzato, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha pure rilevato che, ove si ipotizzasse che una patologia fosse stata cagionata in ragione dell'insufficiente "pulizia" della macchina per emodialisi dalle sostanze lasciate da altro paziente, la fonte del risarcimento andrebbe individuata nella responsabilit� contrattuale che lega l'azienda ospedaliera al paziente e non nella L. n. 210 del 1992)" (Cass. n. 17975 del 2008). Tale principio di diritto � stato affermato dalla Sezione Lavoro sulla base della seguente motivazione: "La L. n. 210 del 1992, prevede la corresponsione di indennizzi a favore di soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie o da trasfusioni di sangue. Per trasfusione deve intendersi il passaggio di sangue da una ad altra persona, o direttamente o previa raccolta e conservazione del sangue e somministrazione dello stesso o di un suo derivato ad un utilizzatore. Non rientra nel concetto di trasfusione il prelevamento del sangue da un soggetto e l'iniezione dello stesso sangue nella stessa persona (autotrasfusione ovvero circolazione extracorporea). In questo caso, manca a tacer d'altro il rischio che la legge ha inteso tutelare, vale a dire il rischio che il donatore sia affetto da una infezione la quale viene trasmessa al donatario. Un soggetto che riceve il suo sangue non pu� essere soggetto a rischio di contrarre nuove infezioni rispetto a quelle di cui � portatore. Ove si ipotizzi che la macchina destinata a ripulire il sangue dell'emodializzato sia sporca per altre sostanze lasciate da altro paziente, la fonte del risarcimento del danno non sar� la L. n. 210 del 1992, ma la responsabilit� contrattuale per danni che lega l'azienda ospedaliera al paziente. 9. L'accoglimento della domanda attrice comporta una estensione della legge, secondo il tenore delle parole adoperate dal legislatore, oltre il contenuto della stessa e quindi una interpretazione analogica, che � inammissibile in quanto trattasi di normativa che attribuisce benefici a valere su risorse pubbliche e sulla base di determinati presupposti. 10. Le linee guida eventualmente approvate dalla conferenza Stato- Regioni non costituiscono fonte normativa atta a modificare la legge formale e pertanto di esse non pu� tenersi conto per estendere la portata della legge oltre il suo tenore letterale e ideologico. Trattasi di linee da utilizzare de iure condendo onde venire incontro ad aspettative, peraltro comprensibili, degli emodializzati. 11. Il ricorso, per i suesposti motivi, deve essere rigettato". Questo Collegio, peraltro, senza necessit� di prendere posizione sulla condivisibilit� dell'orientamento interpretativo espresso dalla Sezione Lavoro (che, per la verit�, sarebbe stata pi� che dubbia, atteso che esso omise di considerare le conseguenze sull'esegesi del comma 3, dell'art. 1, della pronuncia di cui a Corte Costituzionale n. 476 del 2002, che aveva dichiarato "l'illegittimit� costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 3, (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui non prevede che i benefici previsti dalla legge stessa spettino anche agli operatori sanitari che, in occasione del servizio e durante il medesimo, abbiano riportato danni permanenti alla integrit� psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da epatiti", e la lettura delle cui motivazioni avrebbe dovuto suggerire una diversa esegesi della norma o altrimenti di prospettare questione di costituzionalit� della stessa), ritiene, per�, esso sia stato superato proprio da sopravvenienze normative verificatesi successivamente alla pronuncia le 2008 per effetto di pronunce di incostituzionalit� di natura additiva della Corte Costituzionale, le quali hanno fatto assumere alla norma della L. n. 201 del 1992, art. 1, comma 3, un significato che ora, letto alla luce delle addizioni, consente all'interprete di pervenire ad una soluzione opposta a quella della Sezione Lavoro e ci� anche mantenendo la struttura motivazionale che Essa us� nell'affrontare il problema esegetico in allora. La circostanza che alla diversa interpretazione si pervenga ora sulla base delle sopravvenienze normative che si verranno esponendo esclude, d'altro canto, l'opportunit� di una rimessione alle Sezioni Unite, dato che non ci pone in contrasto con il suddetto precedente, ma in continuit� con esso. �3.3. Ci� premesso si osserva che Corte Costituzionale n. 28 del 2009 ha dichiarato "l'illegittimit� costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 3, (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni), nella parte in cui non prevede che i benefici riconosciuti dalla legge citata spettino anche ai soggetti che presentino danni irreversibili derivanti da epatite contratta a seguito di somministrazione di derivati del sangue". Il Giudice delle Leggi, per pervenire alla declaratoria di illegittimit�, della quale era investito sotto il riflesso che l'art. 1, comma 3, contrastava "con l'art. 3 Cost., per l'irragionevole disparit� di trattamento che essa determina tra i soggetti che abbiano contratto l'epatite a seguito di somministrazione di emoderivati, ai quali non � riconosciuto alcun indennizzo, e coloro che abbiano contratto l'infezione da HIV per la medesima ragione, ai quali la legge, invece, accorda il beneficio" nonch� per "la violazione degli artt. 2, 32 e 38 Cost., dal momento che non vi sarebbero ragioni per cui la tutela della salute e l'assistenza sociale correlata siano escluse per i soggetti che subiscano danni irreversibili derivanti da epatiti contratte a seguito di somministrazione di derivati del sangue", ha osservato quanto segue: "2. - La questione � fondata. La L. n. 210 del 1992, art. 1, commi 2 e 3, riconosce una misura di sostegno economico in favore dei soggetti che abbiano subito danni a seguito di taluni interventi terapeutici. In particolare, � previsto un indennizzo in favore di coloro che siano stati contagiati da infezioni da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, nonch� in favore degli operatori sanitari che a causa del contatto con sangue e derivati siano stati contagiati dalla medesima infezione. La L. n. 210 citata, art. 1, comma 3, riconosce, altres�, l'indennizzo in favore di coloro che abbiano subito danni irreversibili da epatite contratta a seguito di trasfusione. Con la sentenza n. 476 del 2002 questa Corte ha riconosciuto analogo beneficio anche in favore degli operatori sanitari che in occasione del servizio e durante il medesimo abbiano riportato danni permanenti conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da epatite. Dunque, dalla disciplina complessiva del 1992 emerge che, mentre l'indennizzo � sempre riconosciuto nel caso di soggetti che abbiano contratto infezioni da HIV, siano esse derivate dalla somministrazione di sangue ovvero di emoderivati, ai soggetti che abbiano contratto l'epatite il beneficio � concesso solo nel caso in cui la malattia sia conseguita a trasfusione, ovvero, se si tratta di operatori sanitari, nelle ipotesi di contatto con il sangue o suoi derivati. Resta priva di tutela, invece, l'ipotesi, oggetto del giudizio a quo, in cui l'infezione da epatite sia conseguita alla somministrazione di emoderivati. Dunque, con riguardo a tale caso, si interrompe il parallelismo con la disciplina prevista a favore dei soggetti affetti da infezione da HIV (sentenza n. 476 del 2002). Come gi� riconosciuto da questa Corte, il beneficio previsto della L. n. 210 del 1992, art. 1, commi 2 e 3, consiste in una misura di sostegno economico fondata sulla solidariet� collettiva garantita ai cittadini, alla stregua degli artt. 2 e 38 Cost., a fronte di eventi generanti una situazione di bisogno (sentenze n. 342 del 2006, n. 226 del 2000 e n. 118 del 1996). Esso trova il proprio fondamento nella insufficienza dei controlli sanitari fino ad allora predisposti in questo specifico settore (sentenza n. 476 del 2002), e come tale si impone anche a favore di coloro che, allo stato dell'attuale legislazione, ne siano irragionevolmente esclusi, nonostante che ricorra la medesima ratio ora indicata. Il mancato riconoscimento dell'indennizzo a favore di coloro che abbiano contratto l'epatite a seguito di somministrazione di emoderivati non trova alcuna ragionevole giustificazione, dal momento che, del tutto immotivatamente, tale fattispecie resta priva di tutela". Ebbene, la pronuncia di incostituzionalit� n. 28 del 2009 ha ormai fatto assumere alla norma della L. n. 210 del 1992, art., comma 3, un contenuto che, ammettendo la spettanza del beneficio nel caso di contagio da emoderivati e, quindi, con riguardo ad una fattispecie che prescinde dal concetto stesso di "trasfusione", rende pienamente possibile come interpretazione costituzionalmente orientata ed anzi doverosa sul piano costituzionale, senza bisogno di sollevare una nuova ennesima questione di costituzionalit� (tenuto conto che sovente la Consulta sanziona con l'inammissibilit� ordinanze di rimessione di questioni incidentali che non praticano l'interpretazione costituzionalmente orientata, se possibile), un'esegesi della norma nel senso di comprendere una fattispecie di contagio da emodialisi, che si presenta con elementi di molto maggiore contiguit� rispetto a quella originaria della norma, prima della declaratoria di incostituzionalit� e che anzi quella contiguit� presentava gi� con riferimento alla fattispecie introdotta in via additiva da Corte cost. n. 476 del 2002. Si aggiunga che indurrebbe alla stessa conclusione l'ulteriore intervento, sia pure mirato sull'art. 1, comma 1, di cui la Corte costituzionale n. 107 del 2012, che nel dichiarare "l'illegittimit� costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 1, (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui non prevede il diritto ad un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, nei confronti di coloro i quali abbiano subito le conseguenze previste dallo stesso art. 1, comma 1, a seguito di vaccinazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia", ha ulteriormente evi denziato che l'impianto generale della L. n. 210 del 1992, alla luce dev'essere letto alla luce dei principi costituzionali e, dunque, in modo da assegnare alle fattispecie astratte il massimo significato possibile. In base alle considerazioni svolte, il motivo risulta allora infondato sulla base del seguente principio di diritto: "La L. n. 210 del 1992, art. 1, comma 3, a seguito della declaratoria di incostituzionalit� di cui alla sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 28 del 2009, dev'essere interpretato, alla luce del complessivo significato che la norma ha assunto, anche per effetto della combinazione della nuova additiva con la precedente di cui a Corte Costituzionale n. 476 del 2002, ed alla stregua del criterio di esegesi che impone di intendere le norme in modo conforme a Costituzione, nel senso che il rischio per cui prevede l'indennizzo comprende anche l'ipotesi in cui il contagio sia derivato dalla contaminazione del sangue proprio del contagiato durante un'operazione di emodialisi, a causa di una insufficiente pulizia della macchina per emodialisi dalle sostanze ematiche lasciate da altro paziente, con la conseguenza che al contagiato compete l'indennizzo di cui alla norma". �4. Il ricorso � conclusivamente rigettato. �5. Non � luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione. Cos� deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 25 febbraio 2013. Competenza del giudice ordinario sui respingimenti differiti dello straniero (Cassazione civile, Sez. Un., sentenza 17 giugno 2013 n. 15115) Con la sentenza n.15115 del 17 giugno 2013, la Corte di Cassazione afferma che anche nel caso dei respingimenti �differiti�, disposti dal questore ex art. 10, comma 2, del T.U. 286 in materia di immigrazione, deve pronunciarsi il giudice ordinario e non quello amministrativo. La norma che prevede i respingimenti �immediati� e quelli �differiti� (articolo 10 comma 1 e 2 del Testo Unico sull�immigrazione n. 286 del 1998) appare assai lacunosa, e come osserva del resto la Corte di Cassazione, �la disciplina dei respingimenti risultante dagli articoli 10 e 19 del d.lgs. 286 del 1998 non individua il giudice davanti al quale lo straniero pu� invocare la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive�. Cosa � successo in questi anni ? Fino all�intervento della Corte di Cassazione rimaneva controverso, sia in dottrina che nella giurisprudenza, il riparto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e il giudice ordinario, e la Corte ricorda i termini della questione che poi risolve riconoscendo la giurisdizione del giudice ordinario. Ed infatti, secondo un primo orientamento, le controversie relative ai respingimenti con accompagnamento alla frontiera adottati dal questore ai sensi dell�art. 10 c. 2 del d.lgs. 286 del 1998 sono devolute al giudice ordinario avendo una omogeneit� "contenutistica e funzionale" con i provvedimenti di espulsione, rispetto ai quali si pongono in un rapporto di species a genus s� che dovrebbero ritenersi applicabili anche ai respingimenti l�art. 13 del T.U. sull�immigrazione (per la giurisprudenza amministrativa v. t.a.r Sicilia, 9 settembre 2010 n. 1036 - che trae argomento anche dal rapporto con la disciplina del diritto di asilo e, in generale, del diritto alla protezione umanitaria - e 17 marzo 2009, n. 510; t.a.r Campania, 3 luglio 2007, n. 6441; t.a.r. Calabria, 23 febbraio 2007, nn. 112 e 113; t.a.r. Sicilia, 7 novembre 2006, n. 2706; t.a.r. Calabria, 26 aprile 2006, n. 432; per la giurisprudenza ordinaria v. giud. pace Agrigento 8 luglio 2011, n. 478 e 26 settembre 2008, n. 555). Altro orientamento radica in capo al giudice amministrativo l�impugnazione dell�atto di respingimento adottato dal questore, in ragione della sua natura di atto autoritativo, che lo ricondurrebbe natura/iter nella giurisdizione generale di legittimit� ai sensi dell�art. 103 c. 1 Cost. (v. per la giurisprudenza amministrativa, Cons. Stato, parere 4 febbraio 2011, n. 571/11; t.a.r. Lombardia, 16 febbraio 2009, n. 1312; t.a.r. Friuli Venezia Giulia 29 gennaio 2007, n. 102; t.r.g.a. Bolzano, 23 settembre 2006, n. 119; t.a.r. Piemonte 19 luglio 2005, n. 2561; t.a.r. Lazio 28 maggio 2003, n. 4830; per la giurisprudenza ordinaria v. trib. Agrigento 26 marzo 2009; trib. Palermo 13 maggio 2005). Con la sentenza n. 11535 del 17 giugno 2013, la Corte di Cassazione detta un punto fermo sulla tutela giurisdizionale dell'immigrato sottoposto alla misura del respingimento �differito� disposto sulla base dell�art. 10 comma 2 del T.U. 286 del 1998. Secondo la Corte, �Deve dunque, in raccordo con le premesse esigenze di mantenere ferma una coerenza di "sistema", darsi atto che il provvedimento del questore diretto al respingimento incide su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo: l�atto � infatti correlato all�accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge (art. 10, c. 2 lett. a) e b) del d.lgs n. 286 del 1998) ed all�accertamento negativo della insussistenza dei presupposti per l�applicazione dalle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale nelle sue forme del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ovvero che impongono l�adozione di misure di protezione solo temporanea per motivi umanitari (art. 10, c. 2 e 19, c. 1 d.lgs. n. 286 del 1998). E pertanto, in mancanza di norma derogatrice che assegni al giudice amministrativo la cognizione della impugnazione dei respingimenti, deve trovare applicazione il criterio generale secondo cui la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, proprio in ragione della inesistenza di margini di ponderazione di interessi in gioco da parte della Amministrazione, spetta al giudice ordinario�. Secondo la Corte �Le ragioni appena illustrate trovano peraltro conferma nella recente sentenza 23 febbraio 2012 della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell�uomo (Hirsi Jamaa e altri c. Italia), che, nel dichiarare illegittimi i respingimenti, effettuati in mare, verso la Libia, per violazione, tra l�altro, dell�art. 3 CEDU, ha affermato che "Le difficolt� nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti da convenzioni". E, in particolare che "l�Italia non � dispensata dal dovere di rispettare i propri obblighi derivanti dall�articolo 3 della Convenzione per il fatto che i ricorrenti avrebbero omesso di chiedere asilo o di esporre i rischi cui andavano incontro". M.B. Corte di Cassazione. Sez. Unite, sentenza 17 giugno 2013 n. 15115 -Primo Pres. ff. Roberto Preden, Rel. Luigi Macione, P.M. Carlo Destro - D.B. (avv. Mario Mangino) c. Questura di Agrigento, Ministro Interno. Svolgimento del processo Il cittadino della (OMISSIS) D.B. giunse in Italia sulle coste dell'isola di (OMISSIS) e, dopo un periodo di accoglienza presso il centro dell'isola, con decreto 6.9.2011 adottato dal Questore di Agrigento D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 19, comma 2 venne respinto alla frontiera ed in terinalmente trattenuto presso il CIE Brunelleschi di Torino. D.B. con ricorso 5.11.2011 si oppose innanzi al Giudice di Pace di Agrigento a detto respingimento affermando, in via preliminare, la giurisdizione dell'adito Giudice di Pace e nel merito contestando la legittimit� del respingimento adottato dopo tredici giorni dalla identificazione dello straniero. Il Giudice di Pace di Agrigento con decreto 25.11.2011, preliminarmente rilevato che non potevano essere concessi rinvii dell'udienza al fine di proporre regolamento preventivo, richiamati alcuni precedenti del giudice amministrativo che avevano evidenziato la discrezionalit� della Amministrazione nell'adottare i decreti di respingimento, ha opinato in tal senso e pertanto declinato la propria giurisdizione. Per la cassazione di tale decreto D.B. ha proposto ricorso notificando l'atto al Ministero del- l'Interno il 23.1.2012; l'Amministrazione non ha svolto difese. Motivi della decisione Ritiene il Collegio che il ricorso contenga condivisibili censure alla declinatoria di giurisdizione adottata dal giudice del merito e che, pertanto, affermata la giurisdizione erroneamente negata, vada cassato il decreto e vada disposto rinvio innanzi allo stesso giudice per l'esame della proposta opposizione. Il ricorso, preso atto della assenza di una esplicita disciplina di impugnativa del decreto di respingimento ma della prevalente giurisprudenza che assegna al giudice ordinario tale cognizione, argomenta dalla lettura del T.U. approvato con D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10, commi 1, 2 e 4, in particolare dalla disciplina del respingimento "differito" e dalla sua incidenza sulla libert� personale del respingendo per affermare la piena attrazione della sua contestazione nell'ambito della giurisdizione generale dei diritti soggettivi. Osserva il Collegio che, come rilevato in ricorso, la disciplina dei respingimenti risultante dal D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 10 e 19 non individua il giudice davanti al quale lo straniero pu� invocare la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive. Diversamente, � noto, � stato ab origine operato per la individuazione nel Tribunale, poi nel Giudice di Pace, del giudice attributario della cognizione delle opposizioni ad espulsione dal- l'art. 13, comma 8 dello stesso T.U..Ci� ha ingenerato una diversit� di orientamenti tanto nella giurisprudenza amministrativa quanto in quella ordinaria. Ed infatti, secondo un primo orientamento, le controversie relative ai respingimenti con accompagnamento alla frontiera adottati dal questore ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10, comma 2 sono devolute al giudice ordinario avendo una omogeneit� "contenutistica e funzionale" con i provvedimenti di espulsione, rispetto ai quali si pongono in un rapporto di species a genus s� che dovrebbero ritenersi applicabili anche ai respingimenti l'art. 13 del T.U. sull'immigrazione (per la giurisprudenza amministrativa v. t.a.r Sicilia, 9 settembre 2010 n. 1036 - che trae argomento anche dal rapporto con la disciplina del diritto di asilo e, in generale, del diritto alla protezione umanitaria - e 17 marzo 2009, n. 510; t.a.r Campania, 3 luglio 2007, n. 6441; t.a.r. Calabria, 23 febbraio 2007, nn. 112 e 113; t.a.r. Sicilia, 7 novembre 2006, n. 2706; t.a.r. Calabria, 26 aprile 2006, n. 432; per la giurisprudenza ordinaria v. giud. pace Agrigento 8 luglio 2011, n. 478 e 26 settembre 2008, n. 555). Altro orientamento radica in capo al giudice amministrativo l'impugnazione dell'atto di respingimento adottato dal questore, in ragione della sua natura di atto autoritativo, che lo ricondurrebbe naturaliter nella giurisdizione generale di legittimit� ai sensi dell'art. 103 Cost., comma 1 (v. per la giurisprudenza amministrativa, Cons. Stato, parere 4 febbraio 2011, n. 571/11; t.a.r. Lombardia, 16 febbraio 2009, n. 1312; t.a.r. Friuli Venezia Giulia 29 gennaio 2007, n. 102; t.r.g.a. Bolzano, 23 settembre 2006, n. 119; t.a.r. Piemonte 19 luglio 2005, n. 2561; t.a.r. Lazio 28 maggio 2003, n. 4830; per la giurisprudenza ordinaria v. trib. Agrigento 26 marzo 2009; trib. Palermo 13 maggio 2005). Ad avviso del Collegio deve ritenersi pienamente condivisibile l'opinione, fatta propria dal ricorso in disamina, che conduce ad affermare la giurisdizione del giudice ordinario non per effetto dell'applicazione analogica delle cennate disposizioni sull'opposizione alla espulsione bens� alla stregua di considerazioni desumibili dal sistema. Non pu�, invero e certamente, farsi applicazione analogica del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 8, trattandosi di norma speciale che ha abrogato la previsione contenuta nel D.L. n. 416 del 1989, art. 5, comma 3, conv. in L. n. 39 del 1990: la norma abrogatrice, invero, superava la generale attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione sulle impugnazioni dei provvedimenti prefettizi di espulsione sulla base del rilievo, emergente dai lavori preparatori (in particolare dalla relazione al d.d.l. n. 3240) secondo cui la scelta a favore del giudice ordinario, veniva operata da un canto perch� "il giudice ordinario, per struttura ed organizzazione diffuse sul territorio, appare in grado di operare entro i brevi termini previsti dalla legge" e dall'altro canto perch� tale scelta non trovava "particolari ostacoli neppure dal punto di vista sistematico": e si faceva significativo riferimento al fatto che l'ordinamento gi� conosceva altre ipotesi di attribuzione della giurisdizione ordinaria dei ricorsi avverso provvedimenti della pubblica amministrazione, in specie nel caso delle opposizioni ai provvedimenti di irrogazione di sanzioni amministrative. Deve dunque, in raccordo con le premesse esigenze di mantenere ferma una coerenza di "sistema", darsi atto che il provvedimento del questore diretto al respingimento incide su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo: l'atto � infatti correlato all'accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10, comma 2, lett. a) e b)) ed all'accertamento negativo della insussistenza dei presupposti per l'applicazione dalle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale nelle sue forme del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ovvero che impongono l'adozione di misure di protezione solo temporanea per motivi umanitari (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10, comma 2 e art. 19, comma 1). E pertanto, in mancanza di norma derogatrice che assegni al giudice amministrativo la cognizione della impugnazione dei respingimenti, deve trovare applicazione il criterio generale secondo cui la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, proprio in ragione della inesistenza di margini di ponderazione di interessi in gioco da parte della Amministrazione, spetta al giudice ordinario. Pare poi necessario aggiungere che il predetto accertamento negativo che costituisce requisito di legittimit� del provvedimento di respingimento del questore, � diverso e indipendente dal procedimento di accertamento spettante alle commissioni territoriali: esso, perch� svolto per la verifica del requisito di legittimit� del provvedimento di respingimento del questore, non interferisce con le competenze demandate alle commissioni territoriali, alle quali, a seguito di presentazione dell'istanza dell'interessato spetta di accertare in via definitiva e previa adeguata istruttoria, anche officiosa, la sussistenza dei presupposti per la concessione dello status di rifugiato e delle altre misure di protezione internazionali. L'accertamento in discorso infatti si esprime in valutazioni necessariamente sommarie, stante l'intrinseca urgenza, e del tutto incidentali. La appena formulata statuizione � del resto coerente con quanto questa Corte ha gi� avuto modo di rilevare, sia con riferimento alla situazione normativa vigente prima del 20 aprile 2005 (Cass. S.U. n. 19393 del 2009) sia con riguardo alla disciplina successiva all'entrata in vigore del D.L. 30 n. 416 del 1989, art. 1 quater (convertito in legge n. 39 del 1990), introdotto dalla L. n. 189 del 2002, art. 32, comma 1, lett. b), (Cass. S.U. n. 11535 del 2009), e cio� l'appartenenza alla giurisdizione ordinaria di tutte le controversie in materia di protezione internazionale, che comprendono le domande di tutela del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, aventi identica natura riconducibile alla categoria dei diritti umani fondamentali, che debbono essere riconosciuti allo straniero "comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato" (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma 1). E tali situazioni protette, in quanto coperte dalla garanzia apprestata dall'art. 2 Cost., non possono essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, a tal potere potendo essere rimesso solo l'accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione, facendo uso di una mera discrezionalit� tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservate al legislatore, fermo il rispetto delle convenzioni vigenti, e in particolare dell'art. 3 CEDU (in tal senso anche Cass. n. 3898 del 2011, 10636 del 2010, 26253 del 2009). Le ragioni appena illustrate trovano peraltro conferma nella recente sentenza 23 febbraio 2012 della Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell'uomo (Hirsi Jamaa e altri c. Italia), che, nel dichiarare illegittimi i respingimenti, effettuati in mare, verso la Libia, per violazione, tra l'altro, dell'art. 3 CEDU, ha affermato che "le difficolt� nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti da convenzioni". E, in particolare che "l'Italia non � dispensata dal dovere di rispettare i propri obblighi derivanti dall'art. 3 della Convenzione per il fatto che i ricorrenti avrebbero omesso di chiedere asilo o di esporre i rischi cui andavano incontro...". Da quanto esposto discende, in conclusione, ed in totale coincidenza con il decisum e con gli argomenti della appena pubblicata ordinanza delle S.U n. 14502 del 2013, che debba essere cassato il decreto in accoglimento del ricorso e dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario: le parti dovrebbero essere rimesse davanti al tribunale territorialmente competente, non potendosi, come sopra detto, applicare analogicamente la speciale competenza del giudice di pace prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 8 per l'impugnazione dei provvedimenti di espulsione e dovendosi dare corso alla generale e residuale attribuzione di competenza di cui all'art. 9 c.p.c.. Ma a tale conclusione fa ostacolo la preclusione nella specie avveratasi - per la mancata denunzia impugnatoria e per il mancato rilievo officioso - con la conseguenza per la quale devesi rinviare al Giudice di Pace di Agrigento il cui decreto viene in questa sede cassato. La novit� della questione consiglia di dichiarare irripetibili le spese. P.Q.M. Accoglie il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, cassa il decreto impugnato contenente la declinatoria e rinvia innanzi al Giudice di Pace di Agrigento in persona di altro magistrato. Spese non ripetibili. Cos� deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 febbraio 2013. La protezione umanitaria nell�interpretazione delle corti territoriali calabresi e delle giurisdizioni superiori Fabrizio Gallo* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Questioni di giurisdizione - 3. Protezione sussidiaria e protezione umanitaria. Elementi per un actio finium regundorum - 4. I requisiti della protezione umanitaria - 5. Conclusioni. 1. Premessa. L�ambito operativo della protezione umanitaria, nel regime previgente all�entrata in vigore del D.L.vo 251/2007 e 25/2008, era ben definito e non dava luogo a particolari problemi applicativi. In effetti, l�esistenza, in quel quadro normativo, di due soli istituiti di protezione, lo status di rifugiato ed appunto la protezione umanitaria, consentiva di orientare l�attivit� decisoria in modo uniforme. In tal modo, si riconducevano ai motivi umanitari tutti quei casi di conflitto generalizzato o di particolare condizione di vulnerabilit� che, pur essendo apprezzabili, non integravano i precisi e stringenti presupposti di cui all�art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1957. L�articolata disciplina recata dai decreti legislativi 251/2007 e 25/2008, in applicazione delle direttive europee 2004/83/CE e 2005/85/CE, ha modificato il sistema normativo pregresso facendo sorgere alcuni nodi problematici relativi alla protezione umanitaria, prima non rilevanti sotto il profilo teorico o di ridotto impatto nella prassi applicativa. In particolare, si � posto, da principio, la questione sulla sopravvivenza della protezione umanitaria dopo l�introduzione nel sistema della protezione sussidiaria (istituto che, in qualche modo, assorbe uno degli ambiti operativi in precedenza oggetto d�azione della misura in esame) anche alla luce dell�art. 34 del D.L.vo 251/2007 che ha previsto la progressiva trasformazione dei permessi di soggiorno per protezione umanitaria, rilasciati prima dell�entrata in vigore del suddetto testo normativo, in permessi per protezione sussidiaria. Una volta appurata la persistenza dell�istituto nel diritto vigente, � stato esaminato il problema dei rapporti tra protezione sussidiaria e protezione umanitaria, al fine di individuare i campi d�azione reciproci. Infine, emerge il tema pi� generale dei presupposti legittimanti l�adozione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, non pi� rinviabile ai fini del- l�orientamento univoco della prassi decisionale, alla luce di un interpretazione costituzionalmente orientata della Corte di Cassazione per la quale l�attuale sistema in materia di diritto d�asilo e protezione internazionale � integralmente (*) Viceprefetto, Presidente della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Crotone. esaustivo del campo d�azione dell�art.10, comma 3 Cost. (1). Il presente scritto si propone, quindi, di delimitare, per quanto possibile, l�ambito applicativo dell�istituto in questione, recato dall�art. 5, comma 6 del D.L.vo 286/1998 (T.U. dell�immigrazione), partendo dall�analisi della giurisprudenza delle corti territoriali calabresi, che hanno cognizione sull�attivit� decisoria di una delle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale quantitativamente pi� impegnate sul territorio nazionale (2), e completando l�esame con le indicazioni della Corte di Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell�Uomo. 2. Questioni di giurisdizione. La questione dell�esatta qualificazione e della relativa delimitazione della protezione umanitaria nel nuovo sistema normativo � stata oggetto di attenzione a partire dalla proposizione di questioni di giurisdizione sull�argomento. In effetti, la Corte di Cassazione, investita del tema, ha iniziato ad operare una pi� approfondita ricognizione dell�argomento, allo scopo di determinare il tipo di posizione giuridica soggettiva sottesa all�istituto esaminato e, per questa via, determinare la giurisdizione competente. In una prima pronunzia (3), la Suprema Corte prende le mosse dalla precedente e non remota giurisprudenza dello stesso Giudice (4) che aveva affermato la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai ricorsi avverso il rifiuto del questore a concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Rispetto a quella decisione, la Cassazione evidenzia che la stessa operava con riguardo ad un quadro ordinamentale delineato dagli artt. 5, co. 6 e 19, co. 1, del D.L.vo 286/1998. Dall�ordito normativo in questione, emergeva la competenza della Commissione centrale alla verifica delle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie relative, mentre alcuna funzione si poteva individuare, per il medesimo organo centrale, in materia di protezione umanitaria. Detto ambito di valutazione, in quel sistema connotato da profili di apprezzamento politico- amministrativi, veniva, infatti, riservato al questore. Da tale ricostruzione esegetica e sistematica, si faceva derivare la competenza del giudice amministrativo a conoscere delle controversie relative ai provvedimenti questorili in argomento. Secondo la Corte di Cassazione, nella motivazione della predetta Ord. n. 11535/2009, il precedente orientamento espresso al massimo livello delle Se (1) V. par. 4. (2) A tale riguardo, si veda il �Quaderno statistico per gli anni 1999 � 2011�, in www.interno.it. (3) Cass. Ord. n. 11535/2009. (4) Cass., SS.UU., Ord. n. 7933/2008. zioni Unite non pu� pi� applicarsi, a partire dall�entrata in vigore delle norme che progressivamente hanno modificato il sistema organizzativo deputato a decidere in materia. In particolare, il punto di svolta viene individuato con l�entrata in vigore del combinato disposto della L. n. 189/2002 (che aveva introdotto modifiche determinati alla L. 39/1990) e del D.P.R. 303/2004. In tale nuovo contesto, l�art. 1 quater della L. 39/1990, prevedeva che le commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato (introdotte proprio con quel complesso normativo), nell�esaminare la domanda di asilo, avrebbero dovuto valutare le conseguenze di un rimpatrio, alla luce degli obblighi internazionali gravanti sull�Italia, per i provvedimenti di cui all�art. 5, co. 6 del D.L.vo 286/1998. Il sistema, secondo la Cassazione, � maggiormente chiarito, ma non modificato, nell�ulteriore riassetto della legislazione nazionale in materia di protezione internazionale, come noto costituita ora dal D.L.vo 251/2007 e dal D.L.vo 25/2008, in attuazione delle direttive comunitarie in materia. L�art. 32 del D.L.vo 25/2008, infatti, espressamente prevede che, nel caso in cui non ravvisi i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione internazionale e ritenga sussistenti gravi motivi di carattere umanitario, la commissione territoriale trasmetta gli atti al questore per l�eventuale rilascio del permesso di soggiorno di cui all�art. 5, co. 6 del D.L.vo 286/1998. Nell�interpretazione della Cassazione, dunque, si viene a delineare, gi� a partire dalla L.189/2002, un sistema nel quale ogni accertamento valutativo sui presupposti di ogni forma di protezione viene attribuito esclusivamente alla cognizione tecnica della commissione territoriale venendo meno ogni margine di apprezzamento politico sulle condizioni del paese di provenienza e residuando cos� al questore nulla pi� che il compito di �mera attuazione dei deliberati� assunti dalla commissione stessa e la verifica degli altri requisiti di legge che, per questa ragione, rendono eventuale il rilascio del permesso umanitario. Operata tale ricostruzione, la Cassazione, con l�ordinanza in esame, riconosceva la natura di diritto soggettivo alla posizione giuridica dello straniero che chiedeva il rilascio del permesso di soggiorno per protezione umanitaria e, pertanto, affermava la giurisdizione del giudice ordinario. La predetta conclusione sulla giurisdizione si consolida con una successiva pronunzia a Sezioni Unite (5) che, peraltro, articola la propria motivazione in senso pi� ampio della precedente e, in tal modo, promuove una riconsiderazione globale della materia e comincia a porre il problema della determinazione dei requisiti per il riconoscimento dei motivi umanitari. In primo luogo, detta decisione, nel riprendere l�analisi esegetica dell�art. 5, co. 6 del D.L.vo 286/1998, sottolinea come la norma non definisca i �seri motivi di carattere umanitario� posti a basamento della decisione di rilasciare (5) Cass., SS.UU., n. 19393. il relativo permesso di soggiorno, ma faccia un rinvio, definito generico, alla disciplina del diritto internazionale umanitario ovvero a quel compendio di fonti di diritto internazionale che, in caso di conflitti armati, proteggono le persone ed i beni coinvolti. Il riferimento mediato � dunque alle convenzioni operanti in materia che trovano un riflesso nell�art. 2 della Costituzione che contribuisce a chiarire e ad integrare le fattispecie di protezione in questione. L�inquadramento sistematico viene cos� operato con riguardo alla categoria dei diritti umani fondamentali, nei quali il diritto allo status di rifugiato, il diritto costituzionale all�asilo ed il diritto alla protezione umanitaria rivelano una medesima natura, sebbene con disciplina giuridica in parte differente. La nuova normativa recata dal compendio D.L.vo 251/2007 - D.Lvo 25/2008, dunque, nel recare le nuove competenze amministrative in materia, non fa altro che prendere atto di ci� assumendo, pertanto, pi� una funzione ricognitiva e chiarificatrice che innovativa. Conclusivamente e conseguentemente, quindi, le Sezioni Unite confermano la giurisdizione del giudice ordinario in materia rendendo una certezza in termini di inquadramento dogmatico della posizione giuridica soggettiva connessa ai motivi umanitari ma lasciando aperta (anzi, in qualche modo rilevando) la questione dei requisiti legittimanti. 3. Protezione sussidiaria e protezione umanitaria. Elementi per un actio finium regundorum. Venendo agli aspetti di merito della questione affrontata, vale a dire la perimetrazione dell�istituto della protezione umanitaria nel nuovo quadro ordinamentale, � opportuno partire dal confronto esterno tra tale misura tutoria e la protezione sussidiaria, introdotta nel nostro ordinamento con il D. L.vo 251/2007. Come detto in premessa, la protezione sussidiaria, cos� come disciplinata nella menzionata fonte normativa, assorbe al suo ambito applicativo numerose fattispecie che, nella precedente prassi operativa, venivano ricomprese nei motivi umanitari. Pare esemplare, al riguardo, il caso di persone potenzialmente coinvolte in conflitti generalizzati che, pur non possedendo i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, rimanevano destinatarie di permesso di soggiorno per motivi umanitari. Tale ipotesi � ora tipizzata nell�art. 14, lett. C), del D.L.vo 251/2007, come uno dei casi di riconoscimento della protezione sussidiaria. Il problema del rapporto tra protezione sussidiaria e protezione umanitaria viene inquadrato, in un primo tempo, nella logica di un superamento della protezione umanitaria con il nuovo istituto della sussidiaria. Infatti, la Corte di Cassazione (6) ha rilevato che l�istituto della protezione umanitaria, nel nuovo quadro normativo, verrebbe ad essere configurato come �istituto ad esaurimento� posto che, da un canto, i rinnovi di pregressi permessi umanitari portano alla loro sostituzione con i permessi per protezione sussidiaria e che, (6) Cass., Ord. n. 11535 del 19 maggio 2009. dall�altro canto, nella permanenza interinale dei primi, ai titolari viene riconosciuta un�entit� di diritti pari a quella garantita dalla nuova protezione. Una tale lettura dello sviluppo del sistema normativo doveva, per�, fare i conti, da un lato, con la persistenza nell�ordinamento dell�art. 5, comma 6 del D.L.vo 286/1998 e, dall�altro, con il contenuto dell�art. 32, D.L. vo 25/2008. Tale norma, nel determinare i possibili contenuti della decisione della commissione territoriale, prevede, oltre ai casi di rigetto, il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria nonch�, al comma 3, la trasmissione degli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per gravi motivi di carattere umanitario. Ed infatti, la stessa Suprema Corte, con una successiva pronuncia (7), ha superato la tesi della protezione umanitaria quale istituto ad esaurimento e, comparando la misura tutoria in discorso e la protezione sussidiaria, ha affermato che la pi� breve e tenue protezione (la protezione umanitaria) spetta quando le gravi ragioni di protezione accertate, aventi gravit� e precisione pari a quelle sottese alla tutela maggiore, siano solo temporalmente limitate (ad esempio per la speranza di una rapida evoluzione della situazione del paese di rimpatrio o per la stessa posizione personale del richiedente, suscettibile di un mutamento che faccia venir meno l�esigenza di protezione). In tale ottica, dunque, i presupposti per la concessione della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria sarebbero gli stessi, fatta salva la dimensione temporale che, nel caso della misura pi� tenue, sarebbe temporalmente limitata. Anche questa impostazione, tuttavia, veniva superata e, sempre in sede di legittimit� (8), si perveniva all�affermazione per la quale i requisiti della protezione sussidiaria non coincidono con quelli che consentono l�adozione di una misura atipica di protezione umanitaria che trova il suo fondamento nel principio di non refoulement di cui all�art. 19 del D. L. vo 286/1998. Secondo una ricostruzione logica, dunque, l�operatore, sia esso la commissione territoriale sia esso il giudice, deve verificare, in prima istanza, la presenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato per poi vagliare, in caso di risposta negativa al primo quesito, l�esistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. Solo in caso di esito negativo anche rispetto alla seconda operazione si dovr� verificare l�esistenza dei seri motivi umanitari che danno luogo alla terza misura tutoria, pi� tenue ed atipica. Un caso di contatto tra le due misure di protezione, meritevole di approfondimento, � quello relativo all�accertamento di una causa di esclusione della protezione sussidiaria. Come � noto, ai sensi dell�art. 16, D.L.vo 251/2007, lo status di protezione sussidiaria � escluso quando sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un (7) Cass., Ord. n. 24544 del 21 novembre 2011. (8) Cass., Ord. n. 4230/2013, anche per il richiamo di giurisprudenza conforme. crimine contro l�umanit�, un reato grave nel territorio nazionale o all�estero, si sia reso colpevole di atti contrari alle finalit� e ai principi delle Nazioni Unite, costituisca pericolo per la sicurezza dello Stato o per l�ordine e la sicurezza pubblica. Sulle conseguenze di tali previsioni, ha avuto modo di soffermarsi la Corte Europea dei Diritti dell�Uomo. In particolare, assume specifico significato, per l�analisi che ci occupa, il caso di Toumi Ali Ben Sassi (9). Il predetto, nel novembre del 2003 era destinatario di ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. distrettuale del Tribunale di Milano, per il reato di cui all�art. 270 bis c.p. (associazione con finalit� terroristiche o di eversione). Successivamente, il Toumi veniva condannato definitivamente alla pena di sei anni di reclusione per il medesimo delitto. Il 7 luglio 2009, il suddetto era destinatario di un provvedimento di diniego della Commissione territoriale per la protezione internazionale di Crotone. In linea con la sua consolidata giurisprudenza, la Corte europea, relativamente alla fattispecie esaminata, ha ribadito che gli stati, allorch� esercitano il diritto di espellere una persona devono osservare l�art. 3 C.E.D.U. che proibisce in termini assoluti la tortura, le pene e i trattamenti inumani o degradanti. In altri termini, la minaccia terroristica che una persona pu� rappresentare per lo stato ospitante non pu� attenuare la tutela apprestata dall�art. 3 C.E.D.U. che � pi� ampia rispetto a quella di altri strumenti internazionali, come la convenzione O.N.U. sui rifugiati del 1951, che attribuiscono rilevanza anche al- l�eventuale personalit� negativa del richiedente asilo (10). L�indirizzo giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell�uomo pone dunque il problema dell�apparente conflitto di norme interne e del- l�Unione Europea con quelle della C.E.D.U. e, per quello che qui interessa, dell�attuazione concreta nel diritto interno della suddetta decisione. Il Tribunale di Catanzaro (11), chiamato a decidere sulla fattispecie dopo la pronunzia del giudice europeo ha dunque acclarato che il Toumi, se fosse dovuto rientrare nel paese d�origine, avrebbe corso il pericolo di essere sottoposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti ed ha, pertanto, riconosciuto il diritto alla protezione sussidiaria ai sensi dell�art. 14, lett. B) del D.L.vo 251/2007, eludendo il problema del conflitto di norme sopra indicato e del- l�applicazione delle cause di esclusione. Sembrerebbe, tuttavia, preferibile quella tendenza interpretativa (12) per la quale in presenza dell�ipotesi prima descritta e cio� qualora, ricorrendo le cause di inclusione per il riconoscimento della protezione sussidiaria, si rinvengano anche cause di esclusione tipizzate e quindi ineludibili, si debba rigettare (9) Corte europea dei diritti dell�uomo, Toumi c. Italia, 5 aprile 2011. (10) V. anche Corte europea dei diritti dell�uomo, Saadi c. Italia, 28 febbraio 2008. (11) Trib. Catanzaro, Seconda Sezione, n. 221/12, 7 febbraio 2011. (12) P. GATTARI, Il giudizio di �impugnazione� davanti al tribunale del provvedimento sulla protezione internazionale dello straniero (art. 35 D. L.vo n. 25 del 2008), pp. 17 ss., www.meltingpot.org. l�istanza di protezione sussidiaria ma concedere al richiedente una protezione umanitaria qualora l�espulsione lo esporrebbe al concreto rischio di subire la tortura o un trattamento disumano o degradante nel paese in cui sarebbe espulso. 4. I requisiti della protezione umanitaria. Affrontati alcuni aspetti preliminari, occorre ora confrontarsi con il problema fondamentale: individuare i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria. La questione sussiste quasi per ontologica necessit� perch�, al contrario dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, i cui requisiti sono nominativamente indicati nelle norme di riferimento (13), la stessa cosa non avviene per la protezione umanitaria, di cui a ragione si pu� parlare di �misura atipica� (14), in qualche modo direttamente ricollegata all�art. 19, D.Lvo 286/1998, come attuazione del generale principio di �non refoulement� (15). Nell�operazione ermeneutica di individuazione degli ambiti della norma, procediamo, dunque, ad esaminare la giurisprudenza delle corti territoriali calabresi (Tribunale e Corte d�Appello di Catanzaro) che si trovano a dover giudicare i ricorsi avverso la Commissione territoriale di Crotone, come detto fra le pi� impegnate in Italia, da un punto di vista quantitativo, per una media di circa 1.000 processi annuali. Il Tribunale di Catanzaro (16), nell�individuare quale limite invalicabile l�ambito di operativit� proprio della protezione sussidiaria, con formula tralatiziamente riportata nel testo delle motivazioni decisorie, delinea con chiarezza ed originalit� i requisiti valutabili ai fini della protezione umanitaria, affermando che: �I presupposti per l�accesso alla protezione umanitaria possono essere individuati in situazioni soggettive del richiedente (quali gravi condizioni di salute incompatibili con il ritorno nel Paese d�origine) ovvero in situazioni generalizzate del Paese d�origine non di natura socio � politica (che integrano ipotesi di protezione sussidiaria) ma alimentare (quali situazioni di carestia o grave emergenza alimentare che rendano altamente probabile che il richiedente, tornato nel proprio Paese, muoia d�inedia) e/o sanitaria (quali la diffusione di epidemie non controllabili in un determinato Paese, cosicch� la semplice permanenza del richiedente nel suo Paese determinerebbe per lui il rischio di contrarre la malattia) e/o ambientale (ad esempio cataclismi naturali che abbiano sconvolto l�intero territorio statale e lasciato la popolazione senza abitazione e sostentamento alimentare)�. La Corte d�Appello di Catanzaro, invece, discostandosi dalla netta presa (13) Artt. 2, 7, 8 e 14, D. L.vo 251/2007. (14) Cass. Ord. n. 4230/2013. (15) Ibidem. (16) Giurisprudenza granitica. A solo titolo di esempio, si vedano Trib. Catanzaro, Ord. n. 694/2012, n. 641/2012, Ord. 31 maggio 2013, r.g. 3940/2011, Ord. 3 giugno 2013, r.g. 3772/2012. di posizione del Giudice di primo grado, si riporta nelle sue motivazioni (17) alla giurisprudenza di Cassazione che, in un primo tempo, come abbiamo notato in precedenza (18), ha qualificato l�istituto della protezione umanitaria ex art. 5, comma 6, D.L.vo 286/1998, come �istituto ad esaurimento�, salvo poi a precisare che, nel caso in cui vengano accertate gravi ragioni di protezione, astrattamente idonee all�ottenimento della misura tipica richiesta ma limitate nel tempo, deve procedersi al positivo accertamento delle condizioni per il rilascio della misura minima del permesso umanitario. Ci� non di meno, l�attivit� concreta delle commissioni territoriali segnala che la questione non pu� chiudersi con le categorie dell�istituto ad esaurimento e della misura temporanea, atteso che la prassi applicativa, prima ancora che ragioni di carattere sistematico o dottrinario, inducono a ritenere necessaria una terza misura di protezione, oltre a quelle tipiche dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, a chiusura del sistema. Nello sforzo di chiarire la problematica e di recepire indicazioni concrete per l�operatore, dunque, appare utile menzionare due sentenze della Corte di Cassazione. La prima (19) evidenzia che i presupposti relativi alla misura della protezione umanitaria, unitamente a quelli relativi allo status di rifugiato e di protezione sussidiaria, devono ritenersi ricompresi nell�ampia previsione di cui all�art. 10, comma 3, della Costituzione, il cui testo recita: �Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libert� democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge�. A completamento di tale impostazione, una successiva decisione (20) ha affermato che il diritto d�asilo: ҏ oggi interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, sicch� non si scorge alcun margine di residuale applicazione della norma costituzionale�. In conclusione, la tendenza giurisprudenziale del Giudice di legittimit� sembra disegnare l�ambito operativo dell�art. 10, comma 3, della Costituzione come un grande insieme in cui si collocano i sottoinsiemi dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria arrivando, per sottrazione, all�area di attivit� residua che coincide con quella della protezione umanitaria. 5. Conclusioni. Sintetizzando le tappe del percorso logico affrontato, possiamo tentare di definire alcune conclusioni, in linea con gli orientamenti che derivano dalla giurisprudenza esaminata. (17) Ex pluribus Corte d�Appello di Catanzaro, Sent. n. 133/2012, Sent. n. 164/2012. (18) Cass., Ord. n. 11535/2009. (19) Cass., Sez. VI, Sent. n. 20637/2012. (20) Cass., Ord. n. 10686/2012. In primo luogo, la protezione umanitaria � istituto residuale rispetto alle due protezioni maggiori e non pu� essere utilizzato per ipotesi che, almeno astrattamente, ricadono nell�ambito di operativit� proprio di quelle. Cos� sembra doversi ritenere che, nel caso di riscontro di presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, sia pure per esigenze che si possono supporre limitate temporalmente, si debba riconoscere la suddetta forma di protezione internazionale. Allo stesso modo, non pare che in casi di conflitti generalizzati si possa fare ricorso alla protezione umanitaria che invece trover� applicazione in casi di problematiche situazioni di carattere, ad esempio, alimentare, sanitario od ambientale (21). Ancora, la misura di protezione in discorso � valido strumento di ausilio nel caso di riscontro di cause di esclusione per lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria, qualora intervengano comunque esigenze di protezione coperte dalla generale e prevalente formula di cui all�art. 3 C.E.D.U. Inoltre, ovviamente, la protezione umanitaria dovr� essere riconosciuta ogni qual volta si riscontrino: �seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali� (22). Nell�interpretazione costituzionalmente orientata della Cassazione (23), la norma fa riferimento alle fattispecie previste dalle convenzioni universali o regionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani e fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione. L�ampio catalogo che ne risulta pu� essere delimitato attraverso la valorizzazione dell�aggettivo �seri� che pare richiedere, pur in assenza di interpretazione giurisprudenziale consolidata sul punto, una contestualizzazione soggettiva ed oggettiva tale da non far ritenere meramente ipotetico il rischio. Secondo l�insegnamento della Cassazione (24), infine, il rilascio del permesso di soggiorno per protezione umanitaria richieder� il positivo accertamento, da parte del questore, degli ulteriori requisiti previsti dall�ordinamento (25), con specifico riferimento anche all�insussistenza delle circostanze menzionate dall�art. 4, comma 3, del D.L.vo 286/1998 (essere una minaccia per l�ordine pubblico o avere riportato condanna penale per uno dei reati previsti dall�art. 380, comma 1 e 2, del codice di procedura penale, o per reati inerenti gli stupefacenti, al libert� sessuale, il favoreggiamento dell�immigrazione, o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione) (26). (21) Si richiama, al riguardo, la giurisprudenza del Tribunale di Catanzaro citata in precedenza. (22) Art. 5, comma 6, D.L.vo 286/1998. (23) Cass. Ord. n. 19394/2009. (24) Cass., Ord. 11535/2009. (25) Ci si riferisce alla previsione di cui all�art. 28, comma 1, lett. D del D.P.R. 394/1999. (26) Corte d�Appello di Palermo, Sent. n. 103/2011. Confermata in appello l�accertamento della demanialit� �sopravvenuta� delle acque del lago Lucrino (Tribunale Superiore Acque Pubbliche, sentenza 4 dicembre 2012 n. 164) Michele Gerardo* La sentenza del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche del 4 dicembre 2012 n.164 che si annota definisce il secondo grado del giudizio instaurato dall�Amm.ne dello Stato al fine di fare accertare la qualit� di demanio idrico delle acque del lago Lucrino in conseguenza della legge 5 gennaio 1994 n. 36 contenente �Disposizioni in materia di risorse idriche� (cd. legge Galli). L�art.1 di tale legge - iterato nei contenuti con l� art. 1 d.P.R. 18 febbraio 1999 n. 238 e con l�art.144 del D.L.vo 3 aprile 2006 n.152 - enuncia che tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorch� non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche. L�indicato quadro normativo ha superato il pregresso regime delineato dal r.d. 1 dicembre 1933 n. 1775 che ricollegava la qualit� di acque pubbliche all'attitudine "ad usi di pubblico generale interesse" (art. 1 comma 1 r.d. n. 1775 cit.), avendo il legislatore operato a monte la scelta di riservare in via esclusiva al demanio dello Stato la propriet� di tali risorse. La nuova normativa ha avuto l�effetto, nel caso di specie, di rendere irrilevante il pregresso titolo di acquisto delle acque lacuali ad opera di privati. Acquisto valido, per la previgente disciplina, nella evenienza che le acque non avessero i caratteri di pubblico generale interesse. Il primo grado si � definito con la sentenza n. 17 del 10 febbraio 2010 del Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche di Napoli con la quale si �dichiara la propriet� dello Stato con la qualit� di demanio idrico del Lago di Lucrino, come riportato al N.C.T. al foglio 77 p.lla 29 del Comune di Pozzuoli e delle sue pertinenze�. Tale sentenza � stata pubblicata su questa Rassegna (Rass. Avv. Stato, 2010, 2, pp. 244 e ss.) con breve nota dello Scrivente con la quale si segnalavano i profili di interesse collegati all�esame degli effetti giudicato nel tempo e ai requisiti necessari affinch� le acque interne possano essere considerate pubbliche. Il giudice di secondo grado ha rigettato l�appello, confermando l�impianto contenuto nella sentenza impugnata. Sulla disposizione dell�art. 1 della legge Galli - per la quale tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorch� non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche -la sentenza in rassegna contiene almeno due importanti enunciazioni. 1. In prima analisi, il giudice d�appello - rigettando le censure dell�ap (*) Avvocato dello Stato. pellante per il quale la sentenza del giudice delle acque di Napoli nell�accertare la qualit� demaniale di acque interne in precedenza nella titolarit� di privati avrebbe violato il principio di irretroattivit� della legge - rileva che la legge Galli, in parte qua, non contiene una disposizione retroattiva, atteso che �A prescindere dal rilievo che la retroattivit� � proibita solo in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), si osserva come l'affermazione generale della qualit� demaniale di una categoria di beni - posti, perci� stesso, extra commercium - per definizione prescinde dalla considerazione degli atti dispositivi che possano costituirne titolo di acquisto particolare�. Quanto sinteticamente rilevato dal giudicante � esatto, in quanto nel caso di specie � improprio parlare di applicazione retroattiva della legge. A voler seguire la prospettazione dell�appellante, la legge Galli (e le successive) non dovrebbe riguardare le acque appartenenti a privati alla data della sua entrata in vigore. Tuttavia alcun limite del tipo evidenziato � applicabile. Ci� per una molteplicit� di ragioni. a) alcun limite vi � nella legge. Non viene in rilievo un problema di applicazione retroattiva della legge. La retroattivit� implica la applicabilit� della legge a condotte, ad atti pregressi. Ma nella vicenda esaminata dal Tribunale Superiore vi � la disciplina di stati e di connotazione di beni che non pu� non riferirsi ad essi beni; b) dalla parte motiva delle sentenze della Corte Costituzionale del 19 luglio 1996 n. 259 e 27 dicembre 1996 n. 419 - acclaranti la legittimit� della legge Galli - si evince chiaramente che il giudice delle leggi reputa applicabile la legge Galli alle acque cos� come esistenti alla data di entrata in vigore della L. n. 36/ 94; c) la L. n. 36/94 non pu� che applicarsi alle acque esistenti. Implausibile � la applicazione ad acque future. 2. Viene reputata, poi, manifestamente infondata la questione di illegittimit� costituzionale degli artt. 1 della legge 36/1994, 144 del d.P.R. 152/2006, ed 1 del d.P.R. 238/1999 per contrasto con l�art. 42 della Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo sotto il profilo dell'assenza di indennizzo a fronte dell'espropriazione di un bene immobile. Ci� sul rilievo che l'affermazione della demanialit� idrica di tutti i bacini di acqua con le caratteristiche precisate nella legge non � assimilabile all'espropriazione di un singolo bene, specificamente individuato, in funzione di un'opera pubblica da realizzare. Il giudice delle acque rileva che ҏ ormai jus receptum che le limitazioni normative del diritto di propriet�, proprio per il loro carattere generale ed astratto, non integrano una lesione del singolo diritto suscettibile, come tale, di indennit� ai sensi dell'art. 42 della Costituzione� e che non sono �prospettabili nuovi profili di illegittimit� da sottoporre alla Corte costituzionale, gi� espressasi, sulla questione, in senso reiettivo, per la ricordata estraneit� della previsione di demanialit� delle acque allo schema legale delle espropriazioni per pubblica utilit� con obbligo di indennizzo (Corte costituzionale, 27 Dicembre 1996, n.419)�. La Corte Costituzionale � intervenuta sulla costituzionalit� della cd. Legge Galli (art. 1 comma 1 L. 5 gennaio 1994 n. 36 poi sostituito dall'art. 144 D.L.vo n. 152/06, come sopra evidenziato), oltre che con la sentenza 27 Dicembre 1996, n. 419, anche con la sentenza del 19 luglio 1996 n. 259, con le quali ha rilevato che tale legge si applica a tutte le acque indiscriminatamente. All�evidenza il giudice d�appello ha reputato che la normativa sopravvenuta non contiene vincoli espropriativi, ma la mera conformazione di situazioni giuridiche soggettive che, per i principi esclude qualsivoglia diritto ad indennizzi. Difatti i vincoli espropriativi hanno carattere puntuale, individuano le aree sulle quali ricadono ed impongono un sacrificio particolare e differenziato rispetto al regime di zona. A fronti di tali vincoli il soggetto inciso ha diritto ad un indennizzo. Tali vincoli si distinguono e sono da tenere separati dai vincoli conformativi che sono espressione della potest� pubblica - nel caso di specie: con atto legislativo - di conformare il territorio; i vincoli conformativi costituiscono limitazioni che la legge stessa configura come connaturali all�intera categoria dei beni disciplinati da essa medesima definita a priori, in connessione con caratteri che gli immobili interessati posseggono ex se e non vengono impressi ad essi per scelta amministrativa. Tali vincoli non attribuiscono alcun diritto all�indennizzo. Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, sentenza 4 dicembre 2012 n.164 -Pres. Antonino Elefante S.C., Rel. Renato Bernabai - S.C. (avv. Paolo Di Martino) c/ Agenzia del Demanio e Ministero per i Beni e le Attivit� Culturali (Avv. Stato) nonch� Elgea s.r.l. (avv.ti Mario Ciancio e Stanislao Giammarino) e Amministrazione provinciale di Napoli (avv. Aldo Di Falco). (Omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso notificato il 20 novembre 2006 l'Agenzia del Demanio ed il Ministero per i Beni e le Attivit� Culturali convenivano dinanzi il Tribunate regionale delle acque pubbliche di Napoli la signora C.S. e la Elgea s.r.l. per l�accertamento della propriet� demaniale idrica, ai sensi della legge 5 gennaio 1994 n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), del lago di Lucrino, alienato con le sue pertinenze dalla signora S. alla Elgea s.r.l. Costituendosi disgiuntamente, le convenute eccepivano l'incompetenza del tribunate regionale delle acque pubbliche alla luce di precedenti giudicati che avevano statuito trattarsi di acque marittime; ed in subordine, la carenza di legittimazione attiva del Ministero per i Beni e le Attivit� Culturali ai cui fini istituzionali era estranea la tutela della demanialit� idrica del lago. Nel merito, chiedevano i1 rigetto della domanda per infondatezza, assumendo che lo jus superveniens non si applicava alle acque lacustri di natura marina, quali quelle da cui era formato il lago di Lucrino, tuttora disciplinate dal codice della navigazione. L' Elgea s.r.l, chiedeva, in subordine, di essere garantita dalla S., con ripetizione del prezzo pagato, in caso di accoglimento della domanda. Interveniva in giudizio l'Amministrazione provinciale di Napoli, aderendo alla domanda principale. Con sentenza 10 febbraio 2010 il Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Napoli, in accoglimento del ricorso, dichiarava la propriet� dello Stato a titolo di demanio idrico del lago di Lucrino; condannava la signora S. alla restituzione all'Elgea s.r.l. del prezzo di vendita di euro 845.000,00, oltre interessi e rivalutazione, e condannava le convenute alla rifusione delle spese di giudizio nei confronti delle parti attrici. Motivava -che oggetto del giudizio era solo l'accertamento della demanialit� idrica del lago di Lucrino, restandone esclusa la demanialit� marittima, oggetto di precedenti pronunce; - che nessuna efficacia preclusiva ob rem judicatam era invocabile nella specie, in forza dello jus superveniens costituito dalla legge n. 36/1994, che aveva reso pubbliche tutte le acque superficiali e sotterranee - norma, poi abrogata e sostituita dall'articolo 144, primo comma, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale: cd. codice dell'ambiente) che ne aveva riprodotto il testo senza variazioni sostanziali - con superamento definitivo del regime legale antecedente, che ricollegava, invece, la qualit� di acque pubbliche all'attitudine ad un uso di generale interesse (regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 - Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici; art. 822 cod. civ.); -che quindi il lago di Lucrino, pur essendo un bacino interno autonomo e indipendente dal mare limitrofo, doveva considerarsi acquisito al demanio idrico, dal momento che la nuova normativa non si riferiva solo a invasi di acqua dolce; tenuto altresi conto delle esigenze di preservazione della fauna e della flora acquatiche pure tutelate nella legge in vigore; -che nessun rilievo, in senso contrario, rivestiva il vincolo archeologico di cui alla legge 1 giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d'interesse artistico e storico) imposto dal Ministero dei Beni Culturali e Ambientali e trascritto in data 10 marzo 1997, che rispondeva alla diversa esigenza di salvaguardare l'ambiente da interventi edilizi privati con esso incompatibili; - che era pure fondata la domanda di garanzia svolta dall'acquirente Elgea s.r.l. verso la signora S., in forza dell'evizione subita per causa anteriore alla stipulazione del contratto. Avverso la sentenza la signora S. proponeva gravame, articolato in sei motivi e notificato il 18 marzo 2011. Deduceva 1) la violazione degli artt. 140 r. d. n. 1775/1933, 28 cod. della navigazione e 822, primo e secondo comma, cod. civile, nonch� del principio di giudicato, e la carenza di motivazione, per omessa pronunzia di incompetenza, in controversia riguardante un bene appartenente, in ipotesi, al demanio marittimo; 2) la violazione del principio di intangibilit� del giudicato e del principio di irretroattivit� della legge; 3) l'omessa pronunzia sulla carenza di legittimazione attiva del Ministero e dell'Amministrazione provinciale; 4) la carenza di motivazione e la violazione di legge nell'affermazione della demanialit� idrica del lago nonostante la sua indiscutibile conformazione di bacino artificiale, in cui con fluivano sia acque marine, sia acque sorgive di carattere termom�nerale; 5) la violazione degli artt. 822, 840, 909 e 953 cod. civ. nonch� dell'art. l d. P. R. 238/1999, e in generale dei principi fondamentali in materia di propriet� e di espropriazione per pubblica utilit�, per la ritenuta demanialit� idrica del lago di Lucrino con tutte le sue pertinenze; 6) la violazione degli artt. 823 e 1483 cod. civile, nonch� l'illogicit� della motivazione in ordine all'accoglimento della domanda di garanzia. In via subordinata, sollevava eccezione di illegittimit� costituzionale degli artt. 1 della legge 36/1994, 144 del d.P.R. 152/2006, ed 1 del d.P.R. 238/1999, per contrasto con l'art. 42 della Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo nella parte in cui procedeva all'espropriazione di un bene immobile senza previsione di indennizzo. Resistevano con comparsa l'Agenzia del Demanio, il Ministero per i Beni e le Attivit� Culturali e l'Amministrazione provinciale di Napoli, nonch� l'Elgea s.r.l. La ricorrente S. e l'Elgea s.r.l depositavano, altres�, memoria conclusionale. La causa passava in decisione all'udienza del 3 ottobre 2012, sulle conclusioni in epigrafe riportate. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo l'appellante deduce, in via pregiudiziale di rito, l�erroneit� del- l'omessa pronunzia di incompetenza in una vertenza in tema di demanio marittimo. Il motivo e infondato. Premessa l'inammissibilita della censura sotto il concorrente profilo dell'omessa motivazione in ordine ad una questione processuale di competenza, si osserva come questa vada risolta sulla base della prospettazione della domanda. Nella specie, le parti attrici hanno chiaramente rivendicato l'appartenenza del bene al demanio idrico; e tale formulazione vale ad integrare la competenza del tribunate delle acque pubbliche, indipendentemente dall'esattezza della qualificazione, attinente invece al merito della causa: con la conseguenza che l'eventuale estraneit� del lago in questione al demanio idrico comporterebbe il rigetto della domanda, pronunziato pur sempre dal tribunate adito. In via gradata, la S. denunzia la violazione dei principi di intangibilit� del giudicato e di irretroattivit� della legge. Anche queste censure sono infondate. Nessuna efficacia preclusiva ob rem judicatam esercita la citata sentenza irrevocabile 9/1960 del T.r.a.p., trattandosi, in questa sede, di accertare la demanialit� idrica del lago di Lucrino sulla base dello jus superveniens di cui alla legge 5 gennaio 1994 n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), il cui art.1, primo comma, enuncia solennemente il principio fondamentale: "Tutte le acque superficiall e sotterranee, ancorch� non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che � salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidariet��. N� la successiva abrogazione della norma suddetta ad opera del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale - Codice dell'ambiente) modifica i termini del problema, in considerazione della riproduzione inalterata della disciplina nella norma sostitutiva di cui all'art. 144 (Tutela e uso delle risorse idriche). Ne consegue che ogni riferimento all'utilizzazione pubblica dell'acqua, in funzione discriminante della demanialit� - che costituiva il presupposto dei precedenti giurisprudenziali citati dalla ricorrente - � venuto meno; e con esso, l'eccepita preclusione da giudicato del pregresso accertamento giudiziale. Inconferente si palesa, poi, l'invocazione del principio di irretroattivit� della legge. A prescindere dal rilievo che la retroattivit� � proibita solo in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), si osserva come l'affermazione generale della qualit� demaniale di una categoria di beni - posti, perci� stesso, extra commercium - per definizione prescinde dalla considerazione degli atti dispositivi che possano costituirne titolo di acquisto particolare. Meramente assertiva, e quindi inammissibile, appare la successiva doglianza, non sorretta da alcuna specifica ragione in fatto o in diritto, avverso la ritenuta legittimazione attiva del Ministero e dell'Amministrazione provinciale (art. 342 cod. proc. civ.). Con il quarto motivo l'appellante contesta, nel merito, l'affermazione della demanialit� idrica del lago, nonostante la sua conformazione di bacino artificiale. Anche questo motivo � infondato. La qualit� non artificiale del lago di Lucrino dipende dalla sua origine naturale; e non � certo esclusa, ex post, da opere artificiali di contenimento, storicamente effettuate per evitarne la comunicazione col mare. Neppure pu� escludersi la demanialit� in considerazione della natura termominerale dell'acqua, che farebbe rientrare il lago in questione nella riserva di disciplina prevista dall�art. 1, quarto comma, della legge 36/1994 ("Le acque termali, minerali e per uso geotermico sono disciplinate da leggi speciali"). Affinch� tale deroga operi occorre, infatti, che si tratti di acque solo termali o minerali, suscettibili dell'uso specifico ad esse confacente; e non, come nella specie, di acque salmastre, di struttura ed origine composita ed in parte marina. Sul punto, la prospettata distinzione tra il regime legale delle acque e quello del suolo che le contiene, si risolve in un'improponibile equiparazione di opere artificiali e manufatti destinati a contenerle e convogliarle (acquedotti, cisterne e condutture di vario genere) - in cui tale distinzione � giuridicamente possibile (art. 822, secondo comma, cod. civ.) - a bacini naturali, per i quali, invece, la stessa non � concepibile, in forza del vincolo naturale dell'acqua con l'invaso: vincolo, che fa di un lago (come di un fiume o di altro corpo idrico) un bene unitario, comprensivo delle sponde e del fondo. Manifestamente infondata si palesa, in chiusura, la questione di illegittimit� costituzionale degli artt. 1 della legge 36/1994, 144 del d.P.R. 152/2006, ed 1 del d.P.R. 238/1999 per contrasto con l�art. 42 della Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo sotto il profilo dell'assenza di indennizzo a fronte dell'espropriazione di un bene immobile. L'affermazione della demanialit� idrica di tutti i bacini di acqua con le caratteristiche precisate nella legge non � in alcun modo assimilabile all'espropriazione di un singolo bene, specificamente individuato, in funzione di un'opera pubblica da realizzare. Al riguardo, � ormai jus receptum che le limitazioni normative del diritto di propriet�, proprio per il loro carattere generale ed astratto, non integrano una lesione del singolo diritto suscettibile, come tale, di indennit� ai sensi dell'art. 42 della Costituzione. Anche la censura di violazione del principio di uguaglianza, con riferimento ad altri laghi che si assume esenti dalla disciplina normativa in esame, non vale ad integrare il tertium comparationis di un giudizio di legittimit� costituzionale, basandosi su mere affermazioni, senza che la denunziata disparit� di trattamento risulti dallo stesso testo normativo impugnato o da altre leggi specificamente indicate. Alla luce dei predetti rilievi non sono, dunque, prospettabili nuovi profili di illegittimit� da sottoporre alla Corte costituzionale, gi� espressasi, sulla questione, in senso reiettivo, per la ricordata estraneit� della previsione di demanialit� delle acque allo schema legale delle espropriazioni per pubblica utilit� con obbligo di indennizzo (Corte costituzionale, 27 Dicembre 1996, n. 419). Con l'ultimo motivo la signora S. censura l'accoglimento della domanda di garanzia svolta dall'acquirente Elgea s.r.l. Anche sotto questo profilo l'appello � infondato. La nullit� del contratto di compravendita per impossibilit� dell'oggetto -extra commercium, in quanto bene demaniale - con la conseguente evizione a seguito dell'esercizio del- l'azione di accertamento della demanialit� svolta dall'Agenzia d�l Demanio e dal Ministero, comporta l'obbligazione restitutoria del prezzo. Priva di pregio si palesa, in senso contrario, la tesi dell'assunzione del rischio da parte dell'acquirente. Seppur ammissibile, l'esonero convenzionale dalla garanzia (art. 1487 cod. civ.) esime dalla risoluzione del contratto ex artt. 1479 e 1480 cod. civ. in caso di ignoranza, in buona fede, da parte del compratore, dell'altruit� totale o parziale della cosa; ma non previene anche la ripetizione del prezzo in caso di evizione effettiva, fatta salva espressamente dall' art. 1488, primo comma, cod. civile. Affinch� anche questa sia impedita, occorre che le parti abbiano inteso stipulare un contratto aleatorio in senso tecnico - e cio�, a rischio e pericolo del compratore (ibidem, secondo comma) - in forza di clausola espressa; inesistente, nella specie. Ne l'aleatoriet� del contratto stipulato dalla S. e dall'Elgea s.r.l pu� essere desunta per fatti concludenti, ravvisati in comportamenti non solo oggettivamente ambigui, ma, per di pi�, neppure imputabili alla societ� acquirente, bensi ad un terzo, avv. D.C., la cui allegata posizione di socio-sovrano, dominus dell'Elgea s.r.l., � stata ritenuta indimostrata nella sentenza del T.R.A.P. e tale � restata anche in questo grado. Per completezza di analisi, si osserva come la pattuizione della condizione sospensiva della compravendita del lago, consistente nel mancato esercizio del diritto di prelazione da parte della Regione Campania - valorizzata dalla S. per inferirne l'assunzione ex adverso del rischio di demanialit� - dimostra, sernmai, che le parti confidavano nella validit� del contratto alla data della stipulazione: salvo subordinarne l'efficacia ad una circostanza estrinseca, passibile di avveramento solo sulla presupposizione della commerciabilit� del bene. Pure infondata � l'eccezione di improcedibilit� dell'azione di garanzia, in quanto svolta prima dell'irrevocabilit� ob rem judicatam dell'accertamento di demanialit�. Questo non integra, infatti, un presupposto processuale e pu� essere quindi svolto contestualmente, nel medesimo giudizio: come, del resto, prefigurato nella fattispecie legale di cui all'art. 1485 cod. civile, in cui la compresenza del venditore vale a prevenire l'eventuale perdita della garanzia per omesso contrasto della pretesa del terzo. Irrilevanti appaiono, da ultimo, ulteriori intese che si assume intercorse tra la signora S. e l'avv. D.C., stante la diversit� oggettiva e soggettiva dei rapporti dedotti. L'impugnazione dev'essere dunque rigettata, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessit� delle questioni trattate. P.Q.M. ll Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche rigetta l'appello e condanna l'appellante alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti appellate, liquidate, per l'Agenzia del Demanio ed il Ministero per i Beni e le Attivit� culturali in complessivi � 2.000,00, di cui � 500,00 per la fase di studio, � 400,00 per la fase introduttiva ed � 1100,00 per la fase decisoria; e per l'Elgea s.r.l. in complessivi � 2.000,00, di cui � 500,00 per la fase di studio, � 400,00 per la fase introduttiva ed � 1100,00 per la fase decisoria; oltre gli accessori di legge. Cos� deciso in Roma nella camera di consiglio del Tribunale superiore delle acque pubbliche del 3 ottobre 2012. Potere amministrativo implicito e atto amministrativo implicito: ammissibilit� e condizioni di legittimit� dell�uno e dell�altro (Consiglio di Stato., Sez. VI, sentenza 2 maggio 2012, n. 2521) Valeria Romano* Come � noto, il principio di legalit� impone non solo la indicazione dello scopo che l�autorit� amministrativa deve perseguire ma anche la predeterminazione, in funzione di garanzia, del contenuto e delle condizioni dell�esercizio dell�attivit�. Nel caso degli atti regolamentari la legge, per�, normalmente non indica nei dettagli il loro contenuto. La parziale deroga al principio di legalit� sostanziale si giustifica in ragione dell�esigenza di assicurare il perseguimento di fini che la stessa legge predetermina: il particolare tecnicismo del settore impone, infatti, di assegnare alle Autorit� il compito di prevedere e adeguare costantemente il contenuto delle regole tecniche all�evoluzione del sistema. Una predeterminazione legislativa rigida sarebbe di ostacolo al perseguimento di tali scopi: da qui la conformit� a Costituzione, in relazione agli atti regolatori in esame, dei poteri impliciti. La dequotazione del principio di legalit� sostanziale � giustificata, come detto, dalla valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire in particolari settori � impone, inoltre, il rafforzamento del principio di legalit� procedimentale che si sostanzia, tra l�altro, nella previsione di rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore al procedimento di formazione degli atti regolamentari. Con la massima riportata il Consiglio di Stato affronta il problema del rapporto tra principio di legalit� amministrativa e poteri impliciti, con particolare riferimento all�attivit� delle Autorit� amministrative indipendenti. La sentenza del maggio 2012 fornisce lo spunto per ricostruire la distinzione tra potere amministrativo implicito e atto implicito e per esaminare le questioni relative all�ammissibilit� ed alle condizioni di legittimit� dell�uno e dell�altro. I poteri amministrativi impliciti possono essere definiti, in via di prima approssimazione, come poteri che, sebbene non attribuiti expressis verbis dalla legge alla P.A., risultino tuttavia necessari per il raggiungimento degli scopi che l�Amministrazione � chiamata a perseguire. I poteri amministrativi impliciti si connotano, dunque, per due caratteri: la non esplicita attribuzione in capo alla P.A. da parte di una fonte legislativa ed il nesso di strumentalit� tra il loro concreto esercizio ed il conseguimento degli obiettivi che l�Amministrazione � chiamata a realizzare nell�ambito della sua attivit� di cura degli interessi pubblici. I poteri impliciti sono, dunque, poteri che, come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 4 del 1957, si �accompagnano� ai poteri espressamente riconosciuti dalla legge alla Pubblica Amministrazione. La nozione di atto amministrativo implicito si differenzia da quella, appena (*) Dottore in Giurisprudenza, gi� praticante forense presso l�Avvocatura dello Stato. tracciata, di potere amministrativo implicito. L�atto amministrativo implicito si configura come una manifestazione indiretta della volont� della P.A. La volont� dell�Amministrazione pu�, infatti, estrinsecarsi sia in un atto provvedi- mentale formale sia attraverso un provvedimento in forma orale ovvero mediante comportamenti e facta concludentia. L�atto amministrativo implicito pu�, altres�, essere definito come un atto logicamente collegato ad un provvedimento presupposto il quale si pone a monte di quello implicito. L�attitudine dell�atto implicito a porsi come una manifestazione indiretta della volont� della P.A. vale a distinguere la figura dell�atto amministrativo implicito dalla figura del silenzio dell�Amministrazione. Detto altrimenti, il silenzio della P.A. si sostanzia in un�inerzia, un�astensione dall�esercizio del potere da parte dell�Amministrazione; l�atto amministrativo implicito, viceversa, si configura come un comportamento attivo della P.A. consistente in una manifestazione di volont� sebbene implicita. Per meglio chiarire le nozioni di potere implicito ed atto amministrativo implicito pu� essere utile fornire alcuni esempi. La giurisprudenza ha riconosciuto ipotesi di atti amministrativi impliciti nei seguenti casi: l�autorizzazione all�acquisto ex art. 13 della L. n. 127 del 1997 valeva come implicito riconoscimento dell�ente; l�utilizzazione consapevole dell�attivit� del privato vale come dichiarazione implicita dell�utiliter coeptum in relazione all�azione di arricchimento; la comunicazione del parere negativo reso dalla commissione edilizia sull�istanza di concessione edilizia vale come implicito diniego dell�istanza di concessione. � possibile, traendo spunto dalla casistica giurisprudenziale, fornire alcuni esempi anche in relazione ai poteri impliciti. Si � ritenuto che la legge n. 84 del 1992 riconoscendo esplicitamente al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti il potere di vigilanza sull�Autorit� portuale (art.12) abbia implicitamente riconosciuto al Ministero stesso il potere di rimuovere gli organi direttivi dell�Autorit� portuale (1). Esaminate le nozioni di poteri amministrativi impliciti e atti amministrativi impliciti e forniti alcuni esempi dell�uno e dell�altro, pu� concludersi che l�aggettivo implicito che accompagna il termine potere sta ad indicare �non tipizzato dalla legge�, mentre l�aggettivo implicito che accompagna la locuzione atto amministrativo qualifica la forma dell�atto quando questo � assunto tacitamente o emanato in forma orale. Passiamo ora alla questione della legittimit� dei poteri amministrativi impliciti e degli atti amministrativi impliciti. Il problema dell�ammissibilit� dei poteri amministrativi impliciti riguarda, come emerge dalla sentenza in rassegna, la questione della loro compatibilit� con il principio di legalit�. Come a tutti noto, il principio di legalit� ha referenti costituzionali agli articoli 97, 95, 24, 103 della Carta Fondamentale oltre ad essere sancito all�art. 1 della legge sul procedimento amministrativo (L. n. (1) T.A.R.Puglia - Bari - Sezione I, 9 luglio 2009 n. 1803, in Foro amm. TAR 2009, 7-8, 2225. 241/1990). L�art. 97 della Costituzione, in particolare, pone una riserva di legge relativa in materia di �organizzazione degli uffici�. Pur avendo ad oggetto immediato l�organizzazione della Pubblica Amministrazione, il principio di legalit� copre non soltanto l�organizzazione dell�Amministrazione come apparato, ma anche il complessivo espletamento dell�attivit� amministrativa. L�interpretazione secondo la quale il principio di legalit� non riguarda la sola organizzazione della P.A., ma impone all�Amministrazione l�osservanza della legge nell�esercizio delle sue funzioni trova conferma agli articoli 24 e 103 della Costituzione che, sottoponendo al sindacato giurisdizionale l�attivit� della Pubblica Amministrazione, impongono ad essa l�osservanza della legge nella sua azione di cura dell�interesse pubblico. Ci� detto in via generale, bisogna valutare la compatibilit� del principio di legalit� con l�esercizio di poteri impliciti da parte della P.A. Il problema pu� essere riassunto nei seguenti termini: tanto pi� rigorosamente � interpretato il principio di legalit� tanto pi� ridotti saranno i margini per riconoscere l�ammissibilit� dei poteri amministrativi impliciti nel nostro ordinamento. Occorre, dunque, soffermarsi sulle diverse tesi interpretative del principio di legalit�. Il principio in parola � stato interpretato in tre diverse accezioni: debolissimo, formale e sostanziale (2). Nella sua accezione debolissima il principio di legalit� deve essere inteso come divieto imposto alla P.A. di agire in senso difforme dalle disposizioni di legge che ne regolano l�agere. In senso formale il principio di legalit� esprime la necessit� di un fondamento normativo per gli atti e l�attivit� della P.A. In senso sostanziale il principio in parola impone all�Amministrazione di agire in conformit� alla legge. Tale ultima accezione � stata fatta propria dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 115 del 2011 (3). L�adesione all�accezione debolissima, formale o sostanziale del principio di legalit� si riflette, come detto, sulla questione dell�ammissibilit� dell�esercizio di poteri amministrativi impliciti da parte della Pubblica Amministrazione. Sulla compatibilit� dei poteri impliciti con il principio in parola si sono consolidate due opposte teorie. Secondo un primo orientamento, i poteri amministrativi impliciti sono inammissibili. La tesi in parola muove dalla premessa per cui il principio di legalit� implica che la legge non si limiti a stabilire i fini che la P.A. deve perseguire, ma disciplini anche i mezzi con i quali raggiungerli, ossia i poteri che possono essere esercitati per il raggiungimento degli scopi affidati all�Amministrazione. L�argomento � tratto dal- l�art. 1 della legge 241 del 1990 a norma del quale la P.A. non solo persegue i fini stabiliti dalla legge, ma agisce secondo le modalit� previste dalla legge (2) ROBERTO GAROFOLI - GIULIA FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Neldiritto editore, ottobre 2012. (3) Corte Costituzionale, 7 aprile 2011, n. 115 in Il civilista 2011, 6, 17. laddove per modalit� si intendono gli strumenti e, quindi, i poteri stabiliti dalla legge. Secondo la tesi in esame, dunque, i poteri amministrativi sono tipici tanto nei presupposti quanto negli effetti del loro esercizio. Dall�affermazione della tipicit� dei poteri della Pubblica Amministrativa deriva la logica conseguenza dell�inammissibilit� di poteri impliciti, non tipizzati. A sostegno della tesi della tipicit� dei poteri della Pubblica Amministrazione si sostiene, inoltre, che ove si opinasse in senso contrario l�Amministrazione sarebbe libera di adottare qualunque mezzo idoneo a perseguire i fini legislativi con la conseguente esposizione del privato a rischi di arbitri da parte della P.A. La tipicit� dei presupposti e degli effetti dell�esercizio del potere della Pubblica Amministrazione si traduce, dunque, secondo la teoria in parola, in un rafforzamento delle garanzie del privato nei confronti dell�Amministrazione. Si nega, pertanto, cittadinanza nel nostro ordinamento ai poteri amministrativi impliciti nell�esigenza di mettere a riparo il cittadino dai rischi di indebite compressioni della sua sfera giuridica conseguenti all�esercizio di poteri non direttamente disciplinati dal Legislatore. Secondo un opposto indirizzo interpretativo, adottato dalla massima in rassegna, i poteri amministrativi impliciti devono, invece, essere considerati ammissibili. Secondo l�interpretazione del principio di legalit� fornita dal- l�orientamento in parola tale principio impone che l�attivit� amministrativa persegua fini determinati dalla legge. Ci� equivale ad affermare che la Pubblica amministrazione non pu� stabilire essa stessa i fini da perseguire, ma li riceve dal Legislatore. La tesi in esame finisce, dunque, per riconoscere l�ammissibilit� di poteri impliciti allorquando il loro esercizio si qualifichi come necessario per il raggiungimento degli obiettivi il cui perseguimento � affidato all�Amministrazione dalla legge. La tesi in esame riconosce, inoltre, l�esercitabilit� di poteri impliciti in un ottica di valorizzazione del principio del- l�efficacia e buon andamento dell�azione amministrativa. La teoria che ammette l�esercitabilit� di poteri impliciti da parte della P.A. attribuisce prevalenza alle esigenze di efficacia dell�azione amministrativa rispetto a quella di fornire adeguate garanzie al privato contro l�esposizione della sua sfera giuridica a poteri amministrativi non previsti dalla legge. La tesi valorizza un�interpretazione della P.A. come Amministrazione orientata al risultato o performance-oriented. Oltre alla valorizzazione delle esigenze di assicurare buon andamento ed efficacia dell�azione della P.A., la tesi che ammette l�esercitabilit� dei poteri impliciti sostiene che negandone la cittadinanza nel nostro ordinamento si determinerebbe un ingessamento dell�azione amministrativa. Un ulteriore argomento fa leva sull�impossibilit� per il Legislatore di tipizzare in via preventiva ogni potere e ogni strumento per il perseguimento dei fini della P.A. La tesi favorevole all�ammissibilit� dei poteri impliciti � stata fatta propria, gi� prima della sentenza in commento, dalla giurisprudenza del Consi glio di Stato nella sentenza n. 5827 del 2005, Sez. VI (4). Nel caso risolto con la pronuncia appena citata, i Giudici di palazzo Spada hanno vagliato la legittimit� dell�operato dell�Autorit� garante per il gas e l�energia che aveva imposto ai cittadini utenti finali di assicurarsi contro i rischi legati all�uso del gas naturale. Nel riconoscere l�ammissibilit� dei poteri amministrativi impliciti, il Consiglio di Stato ha spiegato come il loro esercizio rientri nella generale facolt� dell�Amministrazione di autoprogrammarsi. Il riconoscimento dell�ammissibilit� dei poteri amministrativi impliciti della P.A. si inquadra, dunque, nell�interpretazione dell�azione della P.A. come teologicamente orientata al conseguimento dei risultati assegnati dalla legge all�Amministrazione. Un orientamento in linea con quello assunto dalla sentenza n. 5827 del 2005 � stato fatto proprio dai giudici amministrativi di merito. Il Tar Puglia ha, infatti, ammesso i poteri amministrativi impliciti sostenendo la loro esercitabilit� da parte delle Amministrazioni il cui operato deve essere funzionalizzato al raggiungimento degli scopi istituzionali (sentenza n. 1806 del 2009 gi� citata). Tanto chiarito in merito all�ammissibilit� dei poteri amministrativi impliciti, bisogna affrontare la diversa questione dell�ammissibilit� degli atti amministrativi impliciti. Tale questione si pone su un piano diverso che non riguarda la compatibilit� della figura con il principio di legalit�, ma involge la questione se l�atto amministrativo implicito rientri tra le possibili forma di estrinsecazione degli atti della P.A. In senso affermativo circa l�ammissibilit� degli atti amministrativi impliciti si sono espressi i giudici di palazzo Spada sin dal 1923. Nella sentenza 24.05 del 1923 la V Sez. del Consiglio di Stato ha ammesso la possibilit� per la P.A. di esprimere la sua volont� attraverso atti amministrativi impliciti o sottintesi argomentando tale possibilit� in base al generale principio di libert� delle forme degli atti amministrativi. A conferma della non necessaria estrinsecazione della volont� della P.A. in un atto amministrativo formale pu� essere richiamata la nota sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale (5). Con la pronunzia appena citata e con la successiva n. 191 del 2006 (6), il Giudice delle Leggi, nel vagliare la legittimit� degli artt. 33 e 34 del d.lgs 80/1998, ha affermato che l�esercizio del potere della P.A. pu� avvenire mediante l�emanazione di provvedimenti formali ovvero attraverso �comportamenti amministrativi� che, sebbene non destinati a sfociare nell�adozione di un provvedimento formale, sono legati a doppio filo con l�esercizio del potere della P.A. Dai �comportamenti amministrativi� la Corte distingue i �meri comportamenti� della P.A. che, non rappresentando un�estrinsecazione del potere dell�Amministrazione, radicano la giurisdizione (4) Consiglio di Stato, sez. VI, 17 ottobre 2005, n. 5827, in Foro amm. CDS 2005, 10, 3022. (5) Corte costituzionale, 6 luglio 2004 n. 204 in Foro amm. CDS 2004, 1895, 2475 (nota di: SATTA; GALLO; SICLARI) (6) Corte costituzionale, 11 maggio 2006, n. 191 in Giur. it. 2006, 8-9, 1729. del G.O. Ai fini della presente trattazione rileva l�assunto sostenuto dal Giudice delle Leggi della possibilit� per l�Amministrazione di esercitare potere di cui � titolare anche in modo tacito o mediante comportamenti. L�ammissibilit� degli atti amministrativi impliciti � stata altres� posta in discussione in relazione alla loro compatibilit� con i principi del giusto procedimento positivizzati nella legge 241 del 1990. In particolare, le norme con le quali � sembrato essere incompatibile la figura dell�atto amministrativo implicito sono quelle contenute agli articoli. 3, 2, 21 septies e 10 bis della L. 241/1990. Con riguardo all�art. 3 della legge sul procedimento amministrativo � stato sostenuto dai fautori della tesi dell�inammissibilit� degli atti amministrativi impliciti che tali atti sarebbero privi di motivazione. � stato ribattuto dai sostenitori della tesi dell�ammissibilit� degli atti amministrativi impliciti che la motivazione dell�atto sottinteso � ricavabile dall�atto presupposto cui l�atto implicito � collegato da logica consequenzialit�. I detrattori dell�ammissibilit� degli atti amministrativi impliciti hanno, inoltre, sostenuto l�incompatibilit� di tali atti con il dettato dell�art. 2 della Legge 241/1990 che prescrive che il procedimento si concluda con un provvedimento espresso. Sul punto � stato obiettato che l�atto implicito si sostanzia una manifestazione di volont� espressa sebbene in forma indiretta, tacita ovvero orale. � stato, poi, argomentato che, in base alla disposizione dell�art. 21 septies, l�atto amministrativo implicito dovrebbe essere considerato nullo per difetto di volont� e forma. Anche tale argomento � stato criticato. � stato, infatti, rilevato che l�atto amministrativo implicito � un atto fornito di un contenuto volitivo ricavabile dall�atto presupposto. Solo quando la legge prescriva un forma ad substantiam potr� concludersi per la nullit� strutturale dell�atto implicito. I fautori della tesi dell�inammissibilit� degli atti amministrativi impliciti hanno infine argomentato la loro dubbia conformit� all�istituto della comunicazione dei motivi ostativi all�accoglimento dell�istanza di cui all�art. 10 bis della legge 241 del 1990. I sostenitori della tesi dell�ammissibilit� degli atti amministrativi impliciti hanno fugato il paventato dubbio sostenendo un�interpretazione funzionale dell�art. 10 bis che consente di escludere la rilevanza invalidante dei vizi di forma e procedura ogniqualvolta si dimostri che il contenuto dispositivo dell�atto amministrativo implicito non avrebbe potuto essere diverso da quello di fatto adottato. Fornita risposta affermativa al quesito dell�ammissibilit� dei poteri amministrativi impliciti e degli atti amministrativi impliciti, � possibile indagare la questione delle condizioni di legittimit� degli uni e degli altri. Quanto ai poteri amministrativi impliciti la giurisprudenza ha isolato due condizioni affinch� il potere implicito possa essere legittimamente esercitato. Il primo requisito � l�individuazione nella legge dello scopo-fine che la P.A. deve perseguire ed alla cui realizzazione deve essere funzionalizzato l�esercizio del potere implicito. Il secondo requisito, in compensazione delle minori garanzie che il privato vanta di fronte all�esercizio di un potere implicito rispetto a quelle di cui gode nel caso di esercizio di poteri tipici, � rappresentato dal rafforzamento delle garanzie procedimentali e partecipative riconosciute agli interessati ed ai controinteressati rispetto all�esercizio del potere. Diverse le condizioni di legittimit� degli atti amministrativi impliciti. Le condizioni affinch� un atto amministrativo implicito possa essere considerato legittimo sono le seguenti: il collegamento di logica consequenzialit� implicazione con l�atto presupposto, inequivocabilit� della manifestazione indiretta della volont� della P.A., la mancata previsione legislativa di una forma ad substantiam per l�atto implicito, l�atto amministrativo implicito deve essere rientrante della sfera di competenza dell�organo che ha emendato il provvedimento presupposto. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 2 maggio 2012, n. 2521 -Pres. Giuseppe Severini, Est. Vincenzo Lopilato - Autorit� per l�energia elettrica ed il gas (Avv. Stato) c. Toscana Energia S.p.A. (avv.ti Giuseppe Caia e Mario Sanino), pi� altri. (Omissis) FATTO e DIRITTO 1.� Con gli atti di appello, indicati in epigrafe, sono state impugnate quattro sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione terza, con le quali sono stati decisi ricorsi aventi ad oggetto talune deliberazioni dell�Autorit� per l�energia elettrica ed il gas (d�ora in avanti Autorit�) relative alle modalit� di determinazione delle tariffe nel settore della distribuzione del gas naturale. 2.� Con sentenza 11 ottobre 2010, n. 6912 sono stati accolti in parte tre ricorsi proposti da: Aspem s.p.a., Aemme Linea distribuzione s.r.l., Dgn, Distribuzione gas naturale s.r.l., Prealpi gas s.r.l. Con sentenza 11 ottobre 2010, n. 6914 � stato accolto in parte il ricorso proposto da Gas plus reti s.r.l. Con sentenza 11 ottobre 2010, n 6915 sono stati accolti in parte tre ricorsi proposti da: Assogas � Associazione nazionale industriali privati gas e servizi collaterali, Erogasmet s.p.a., Italcogim reti s.p.a., Condotte Nord s.p.a. Con sentenza 11 ottobre 2010, n. 6916 � stato accolto il ricorso proposto da Toscana Energia s.p.a. Gli atti impugnati pi� rilevanti sono riportati nella parte che precede l�analisi delle singole censure (punto 6.3.) 3.� Le sentenze sopra indicate sono state impugnate � con quattro separati atti di appello re- canti, rispettivamente, i numeri 469, 472, 468, 467 � dall�Autorit� per i motivi che verranno indicati nel prosieguo. 3.1.� Assogas � Associazione nazionale industriali privati gas e servizi collaterali, Erogasmet s.p.a., Italcogim reti s.p.a., Condotte Nord s.p.a. hanno proposto appello avverso la sentenza n. 6915 del 2010. 3.2.� Gas plus reti s.r.l. ha proposto appello avverso la sentenza n. 6914 del 2010. 4.� I sei atti di appello, sopra indicati, attesa la connessione oggettiva e soggettiva, possono essere riuniti per essere decisi con un�unica sentenza. 5.� In via preliminare, deve rilevarsi che, con atto del 15 febbraio 2012, Toscana Energia s.p.a. ha rinunciato al ricorso di primo grado e agli effetti della sentenza n. 6916 del 2010, con la conseguenza che la stessa deve essere annullata senza rinvio. La decisione in esame ha, pertanto, ad oggetto i rimanenti cinque appelli introdotti con i ricorsi dell�Autorit�, recanti numeri 469, 472 e 468 del 2011, e delle societ� private, recanti numeri 426 e 468 del 2011. 6.� In via preliminare � necessario indicare: i) i principi generali applicabili ai servizi pubblici di rete; ii) il quadro normativo di riferimento nel settore della distribuzione del gas naturale; iii) le deliberazioni, rilevanti in tale settore, adottate dall�Autorit�; vi) gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa, con riferimento alle modalit� del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Autorit� amministrative indipendenti. 6.1� I settori dei servizi pubblici di rete, nell�ambito dei quali, come si dir� oltre, si inserisce il servizio di distribuzione del gas naturale, sono oggetto, su impulso del diritto europeo, di ampie misure di liberalizzazione. Lo Stato interviene nel settore introducendo norme volte ad eliminare i possibili ostacoli all�ingresso nel mercato di nuovi operatori economici mediante, tra l�altro, l�eliminazione di diritti speciali ed esclusivi alle imprese pubbliche, la semplificazione procedimentale nonch� la segmentazione del mercato. In attesa del completamento di tali processi, � necessario, per�, che lo Stato intervenga anche allo scopo di prevedere misure di regolazione � diverse da quelle sopra indicate � finalizzate ad assicurare che il sistema sia idoneo a tutelare i consumatori e a garantire la stessa efficienza delle prestazioni. In questa prospettiva si giustificano, anche nell�ottica europea, l�imposizione di obblighi di servizio in capo alle imprese, pubbliche o private, che possono avere diversa natura ma che hanno l�obiettivo di evitare che la mancanza del necessario pluralismo di operatori rischi di risolversi in un fallimento del mercato a danno dei consumatori. In tale contesto, assumono un ruolo fondamentale le Autorit� amministrative di regolazione alle quali la legge attribuisce non solo compiti di attuazione delle misure di liberalizzazione ma anche funzioni di regolazione del comportamento degli operatori economici allo scopo di limitare la loro libert� d�impresa nella determinazione, tra l�altro, del contenuto dei contratti stipulati. Tali interventi non devono, per�, risolversi in misure eccessivamente rigide e complesse n� in misure che impediscono agli operatori stessi di perseguire gli scopi economici che connotano la loro attivit�. Negli ambiti caratterizzati da particolare tecnicismo, quale � quello del gas naturale, le leggi di settore attribuiscono alle Autorit�, per assicurare il perseguimento degli obiettivi sopra indicati, non solo poteri amministrativi individuali ma anche poteri regolamentari. Come � noto, il principio di legalit� impone non solo la indicazione dello scopo che l�autorit� amministrativa deve perseguire ma anche la predeterminazione, in funzione di garanzia, del contenuto e delle condizioni dell�esercizio dell�attivit�. Nel caso degli atti regolamentari la legge, per�, normalmente non indica nei dettagli il loro contenuto. La parziale deroga al principio di legalit� sostanziale si giustifica in ragione dell�esigenza di assicurare il perseguimento di fini che la stessa legge predetermina: il particolare tecnicismo del settore impone, infatti, di assegnare alle Autorit� il compito di prevedere e adeguare costantemente il contenuto delle regole tecniche all�evoluzione del sistema. Una predeterminazione legislativa rigida sarebbe di ostacolo al perseguimento di tali scopi: da qui la conformit� a Costituzione, in relazione agli atti regolatori in esame, dei poteri impliciti. La dequotazione del principio di legalit� sostanziale � giustificata, come detto, dalla valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire in particolari settori � impone, inoltre, il rafforzamento del principio di legalit� procedimentale che si sostanzia, tra l�altro, nella previsione di rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore al procedimento di formazione degli atti regolamentari (Cons. Stato, VI, 27 dicembre 2006, n. 7972). 6.2.� Questi principi sono stati attuati nel settore del gas naturale mediante l�adozione della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilit�. Istituzione delle Autorit� di regolazione dei servizi di pubblica utilit�) e, soprattutto, del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164 (Attuazione della direttiva 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell�articolo 41 della L. 17 maggio 1999, n. 144). L�art. 1 del d.lgs. n. 164 del 2000 � la cui rubrica reca �Liberalizzazione del mercato interno del gas naturale� � ha previsto che, �nei limiti delle disposizioni del presente decreto, le attivit� di importazione, esportazione, trasporto e dispacciamento, distribuzione e vendita di gas naturale, in qualunque sua forma e comunque utilizzato, sono libere�. In questa sede viene in rilievo la disciplina della distribuzione del gas naturale che � definita dal citato decreto �trasporto di gas naturale attraverso reti di gasdotti locali per la consegna ai clienti� (art. 2, comma 1, lettera n). L�attivit� di distribuzione del gas naturale, non destinata direttamente al pubblico ma indirizzata al venditore, � espressamente qualificata quale servizio pubblico (art. 14, primo comma). L�art. 23 della stessa legge prevede che le tariffe che possono applicare le imprese che operano nel settore della distribuzione del gas vengono definite dall�Autorit� per l�energia elettrica e il gas secondo la disciplina gi� introdotta dalla legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilit�. Istituzione delle Autorit� di regolazione dei servizi di pubblica utilit�). In particolare, tale legge stabilisce, innanzitutto, che per tariffe si intendono �i prezzi massimi unitari dei servizi al netto delle imposte� (art. 2, comma 17) e che l�Autorit� ha il compito di stabilire, �in relazione all�andamento del mercato �, la tariffa base, �i parametri e gli altri elementi di riferimento� in applicazione del metodo del price-cap, �inteso come limite massimo della variazione di prezzo vincolata per un periodo pluriennale� (art. 2, commi 12, lettera e, e 18, della legge n. 481 del 1995). Nel complesso � necessario dare vita ad �sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti � (art. 1, comma 1, della predetta legge). Dalla lettura combinata del complesso delle disposizioni sopra indicate si desume che le finalit� normative del sistema di determinazione tariffaria affidato all�Autorit� sono quelle di: i) promuovere la tutela degli interessi di utenti e consumatori (art. 1, comma 1, della legge n. 481 del 1995); ii) assicurare �la qualit�, l�efficienza del servizio e l�adeguata diffusione del medesimo sul territorio nazionale� (art. 2, comma 12, lettera e, della legge n. 481 del 1995); iii) garantire �una congrua remunerazione del capitale investito� (art. 23, comma 2, ultimo inciso, della legge n. 164 del 2000) e, in particolare, �remunerare iniziative volte ad innalzare l�efficienza di utilizzo dell�energia e a promuovere l�uso delle fonti rinnovabili, la qualit�, la ricerca e l�innovazione finalizzata al miglioramento del servizio� (art. 23, comma 4, della legge da ultimo citata). Da quanto esposto risulta, dunque, che il legislatore ha dato attuazione ai principi generali prima esposti prevedendo, con norme imperative, misure che, anche attraverso l�intervento delle Autorit� di regolazione, impongono obblighi di comportamento alle imprese che operano nel settore della distribuzione del gas nella definizione delle tariffe. Tali misure, come detto, si giustificano proprio in quanto il mercato rilevante non � completamente liberalizzato. � necessario, dunque, che lo Stato intervenga per assicurare la tutela dei consumatori e l�efficienza delle prestazioni. 6.3.� L�Autorit�, a sua volta, ha dato attuazione a tali principi e norme mediante l�adozione di atti regolamentari volti a definire, in relazione a periodi temporali predefiniti, le modalit� di regolazione tariffaria. La regola generale seguita, pur nella diversit� dei criteri, � stata quella di imporre un vincolo sui ricavi di distribuzione (VRD), che definisce i costi massimi riconosciuti con riferimento alla gestione, agli ammortamenti e ai costi di capitale relativi all�attivit� di distribuzione, per la totalit� dei clienti allacciati alla rete distributiva. Il primo periodo di regolazione � dal 1� gennaio 2001 al 30 settembre 2004 � � stato disciplinato dalla deliberazione n. 237 del 2000. La modalit� di definizione del vincolo dei ricavi, sia per la parte relativa al costo del capitale investito sia per la parte relativa ai costi di gestione, � avvenuta mediante l�applicazione del metodo parametrico. Secondo questo metodo il vincolo sui ricavi � pari alla somma delle componenti rappresentative dei costi riconosciuti di gestione (CGD) e di capitale (CCD). L�art. 4 della predetta delibera stabiliva, con formule matematiche, tecniche automatiche di definizione di tali costi. Questo metodo, non riconoscendo alle imprese i costi che fossero superiori a quelli risultanti dagli standards predefiniti, impediva alle imprese stesse di definire il costo del capitale investito sulla base dei dati concreti ancorati all�effettivo andamento dell�attivit� imprenditoriale. La predetta deliberazione ha anche introdotto il concetto di ambito tariffario costituito dall�insieme delle localit� servite attraverso pi� impianti di distribuzione. Con la deliberazione n. 87 del 2003 l�Autorit� � al fine di dare esecuzione a talune decisioni del Consiglio di Stato e del Tribunale amministrativo della Lombardia che avevano rilevato le esposte criticit� del metodo parametrico � ha introdotto, quale alternativa, il metodo del costo storico rivalutato. Quest�ultimo si fonda su un regime individuale e non presuntivo che consente alle imprese di determinare, qualora dispongano di regolare documentazione contabile, il capitale investito tenendo conto dei costi effettivamente e concretamente sostenuti secondo calcoli definiti nel dettaglio dalla predetta deliberazione. Il secondo periodo di regolazione � dal 1� ottobre 2004 al 30 settembre 2008 � � stato disciplinato dalla deliberazione 29 settembre 2004, n. 170 che ha lasciato invariato il sistema di calcolo alternativo sopra descritto. Il terzo periodo di regolazione comprende gli anni 2009-2012 ed � disciplinato dalla deliberazione dell�Autorit� per l�energia elettrica e il gas n. 159 del 2008, �Testo unico della regolazione della qualit� e delle tariffe dei servizi di distribuzione e misura del gas per il periodo di regolazione 2009-2012 (TUDG): approvazione della Parte II �Regolazione tariffaria dei servizi di distribuzione e misura del gas per il periodo di regolazione 2009-2012 (RTDG). Disposizioni transitorie per l�anno 2009�. Tale delibera, oggetto di impugnazione nel giudizio di primo grado, � stata poi modificata e integrata, per quanto interessa in questa sede, dalle deliberazioni: n. 197 del 2008 (su cui si veda anche punto 6.3.); numeri 22, 164, 197 e 206 (su cui si veda anche punto 6.3.) del 2009. Con tale deliberazione � stato generalizzato il metodo del costo storico escludendosi la possibilit� di utilizzare in alternativa il metodo parametrico. La ragione principale di questo nuovo sistema � che contempla anche altre innovazioni, alcune delle quali verranno esaminate nel prosieguo � � stata quella di eliminare un meccanismo ibrido che, consentendo agli operatori del settore, la scelta tra due diverse modalit� di definizione delle tariffe introduceva nel sistema elementi di complessit�. La maggiore certezza derivante dal nuovo sistema in ordine alle modalit� di definizione dei costi e pi� in generale di determinazione delle tariffe consente, inoltre, di semplificare le procedure ed eliminare possibili ostacoli all�ingresso nel mercato della vendita. L�esistenza, infatti, di un sistema unitario e improntato il pi� possibile a criteri non complessi di calcolo dei costi rappresenta un fattore di incentivo per gli operatori ad entrare nel mercato con consequenziale beneficio anche per i clienti finali. Il sistema tariffario per il terzo periodo prevede, inoltre, la determinazione di una tariffa obbligatoria, applicata ai clienti finali, ed una tariffa di riferimento che definisce il ricavo am messo per ciascuna impresa distributrice a copertura del costo riconosciuto. Con riguardo alla delibera n. 159 del 2008 l�Autorit� ha anche emanato la Relazione di analisi della regolazione (d�ora in avanti Relazione AIR). L�Autorit� ha, inoltre, adottato delibere di attuazione, anch�esse oggetto di impugnazione, delle riportate prescrizioni. In particolare: con le deliberazioni n. 79 e n. 197 del 2009 sono state approvate le tariffe dei servizi di distribuzione e misura del gas per l�anno 2009; con deliberazione n. 206 del 2009 sono state aggiornate le tariffe per l�anno 2010. 6.4.� Gli atti dell�Autorit�, sin qui riportati, sono normalmente espressione di valutazioni tecniche e conseguentemente suscettibili di sindacato giurisdizionale, in applicazione di criteri intrinseci al settore che viene in rilievo, esclusivamente nel caso in cui l�Autorit� abbia effettuato scelte che si pongono in contrasto con quello che pu� essere definito principio di ragionevolezza tecnica. Non � sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile. Non � consentito, infatti, al giudice amministrativo � in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri � sostituire proprie valutazioni a quelle effettuate dall�Autorit�. In definitiva, �, pertanto, necessario che le parti interessate deducano l�esistenza di specifiche figure sintomatiche dell�eccesso di potere mediante le quali dimostrare che la determinazione assunta dall�Autorit� si pone in contrasto con il suddetto principio di ragionevolezza tecnica. 7.� Chiarito ci�, si possono esaminare dapprima i motivi posti a base degli atti di appello dell�Autorit� e poi quelli contenuti negli atti di appello delle societ� private. Si seguir� il seguente ordine di esposizione: a) contenuto dell�atto impugnato; b) indicazione dei motivi di impugnazione nel giudizio di primo grado e motivazione della sentenza del Tar; c) motivi di appello; d) esame dei motivi. 8.� La prima questione posta dall�Autorit� appellante, con i tre ricorsi numeri 469, 472 e 468 del 2011, attiene all�applicazione di una maggiorazione nel caso di determinazione d�ufficio della tariffa. 8.1.� La delibera n. 159 del 2008 prevede, all�art. 7.5., che l�Autorit� procede alla determinazione d�ufficio della tariffa di riferimento, nel caso in cui: a) non venga presentata la richiesta; b) non sia stato sottoscritto il modulo di richiesta da parte del legale rappresentante; c) non sia stata trasmessa la dichiarazione di cui al precedente comma 7.3, lettera a) (e cio� �una dichiarazione di veridicit� dei dati trasmessi e di corrispondenza con i valori, desumibili dalla documentazione contabile dell�impresa, tenuta ai sensi di legge, sottoscritta dal legale rappresentante�); d) non siano forniti, in tutto o in parte, i dati necessari per la determinazione delle componenti tariffarie a copertura dei costi di capitale centralizzato; e) non siano stati forniti, in tutto o in parte, i dati necessari per la determinazione delle componenti a copertura dei costi di capitale di localit�. L�art. 7.6. stabilisce che nei casi sopra indicati si procede alla determinazione d�ufficio della tariffa di riferimento, �limitatamente alle componenti per le quali non si dispone della documentazione completa, sulla base del valore della quota parte del vincolo calcolato per l�anno termico 2007-2008 a copertura dei costi di capitale, corretto per le variazioni relative all�anno 2007, al netto dei costi di capitale relativi ai cespiti centralizzati ed effettuando una decurtazione a forfait del 10% sul risultato cos� ottenuto con efficacia fino all�esercizio in cui saranno resi disponibili i dati relativi ai costi sostenuti per lo svolgimento del servizio�. 8.2.� Il primo giudice, con le medesime argomentazioni nelle tre sentenze rese sui predetti ricorsi, accogliendo le censure prospettate dalle societ� ricorrenti, ha ritenuto che �la circostanza dell�omessa trasmissione dei dati necessari per la determinazione del valore del capitale investito da parte delle imprese distributrici, non pu� intaccare in alcun modo l�obbligo dell�Auto rit� di pervenire comunque ad un valore di tariffa aderente alla realt� economica del contesto operativo in cui l�impresa inadempiente svolge la propria attivit�, attivando tutti i poteri istruttori di cui essa dispone�. Si � conseguentemente affermato che la previsione regolamentare �si atteggia a sanzione surrettizia volta a colpire il comportamento inadempiente della ricorrente, senza che la sua comminazione sia assistita dalle apposite garanzie procedimentali (�) e senza, peraltro, alcuna considerazione circa la imputabilit� del comportamento sanzionato�. 8.3.� Secondo l�appellante la sentenza � errata in quanto la previsione della decurtazione del 10% sarebbe finalizzata ad evitare �comportamenti distorti�. � necessario evitare, si afferma, che �la determinazione d�ufficio, effettuata sulla base del valore ottenuto applicando il metodo parametrico in vigore nel secondo periodo regolatorio e concepita come un rimedio eccezionale ad un inadempimento di parte, da eccezione si tramuti in regola�. Si aggiunge che la decurtazione del 10% intende evitare che �per le imprese sia economicamente pi� conveniente rimanere inerti o formulare una proposta incompleta, cos� da beneficiare della tariffa d�ufficio determinata in base al metodo parametrico non pi� in vigore, piuttosto che presentare una richiesta di tariffa di riferimento alla luce del nuovo quadro regolatorio e dunque dei costi effettivi sostenuti�. Infine, si deduce che la decurtazione, contrariamente a quanto affermato dal Tar, non avrebbe carattere sanzionatorio ma sarebbe �espressione del potere tariffario�. 8.4.� Il motivo � fondato. La ragione principale che ha giustificato la revisione, per il terzo periodo regolatorio, delle modalit� di determinazione tariffaria �, come gi� rilevato, rappresentata dalla necessit� di prevedere un sistema unitario idoneo a superare le incertezze applicative del precedente periodo determinate dal riconoscimento della facolt� di scelta del metodo rimessa alla stessa impresa. Inoltre, si � voluto, proprio per venire incontro a talune criticit� prospettate dagli stessi operatori, che il sistema unico del costo storico rivalutato si fondasse su criteri di definizione delle tariffe concreti ed aderenti alle specifiche realt� aziendali. In questo contesto risulta conforme al principio di ragionevolezza tecnica avere previsto che nei casi in cui non sia possibile, per la mancanza di documentazione completa, determinare la tariffa con il metodo individuale si debba procedere d�ufficio al calcolo dei costi sostenuti dalle imprese applicando ad essi una decurtazione forfettaria del 10%. La previsione di tale modalit� di determinazione della tariffa � quella di differenziare, in modo rilevante, i due metodi in esame ed evitare che si possa, sia pure indirettamente, consentire alle imprese, come avveniva nel precedente periodo regolatorio, di scegliere se mettere a disposizione la contabilit� consentendo l�applicazione del criterio del costo storico rivalutato ovvero tenere un comportamento passivo ed ottenere l�applicazione dei criteri presuntivi. L�esistenza di un meccanismo, quale quello prefigurato dall�Autorit�, consente, pertanto, che rimanga centrale il metodo individuale, con conseguenti vantaggi, come gi� rilevato, sul piano della semplificazione procedimentale, della tutela della concorrenza e dei benefici per gli stessi consumatori. Per le ragioni sin qui esposte non si tratta, pertanto, di una sanzione ma di una modalit� di determinazione officiosa della tariffa che rinviene la sua giustificazione nell�esigenza di consentire lo stesso funzionamento del nuovo sistema tariffario. N� varrebbe obiettare, come hanno fatto le societ� appellate, che la prescrizione in esame violerebbe il principio di legalit� una volta che si ritiene che, per le ragioni esposte, tale principio trovi una applicazione modulata sulla specificit� del potere regolatorio. � bene aggiungere che se le imprese dovessero subire dei pregiudizi economici in ragione dell�applicazione di tale metodo per comportamenti tenuti da terzi il sistema conosce gli stru menti di tutela che possono essere azionati per rimediare all�eventuale danno subito. 9.� La seconda questione posta dall�Autorit�, con ricorsi n. 468 e n. 469 del 2011, attiene alla modalit� di determinazione d�ufficio della tariffa con riguardo agli ambiti tariffari. 9.1.� Le deliberazioni n. 197 e n. 206 del 2009 prevedono che la tariffa si determina d�ufficio, secondo le modalit� sopra indicate, non solo limitatamente alle localit� per le quali la societ� di distribuzione non dispone della documentazione completa ma anche per tutte le altre localit� servite. 9.2.� Il primo giudice ha accolto i motivi di censura rilevando �il carattere del tutto sproporzionato del dispositivo nella misura un cui consente che, a fronte di un�indagine avente ad oggetto i dati relativi ad alcune soltanto delle localit� in cui gli operatori esercitano il pubblico servizio di distribuzione del gas naturale, qualora le risposte fornite anche per una sola localit� non vengano ritenute soddisfacenti, l�AEEG possa approvare in via definitiva la tariffa d�ufficio per tutte le localit� servite dall�esercente. Per tale via, si arriva ad estendere il meccanismo anche a quelle localit� per le quali non � stata invece effettuata alcuna verifica e per le quali si adduce, in forza di una presunzione disancorata da parametri concretamente raffrontabili, la sussistenza di errori di rilevazione ed incongruenze�. 9.3.� Secondo l�appellante la scelta dell�Autorit� di prevedere un meccanismo campionario per la determinazione della tariffa d�ufficio � una scelta necessaria �senza la quale vi sarebbe la paralisi della regolazione tariffaria�. Si aggiunge che �in assenza di una proposta tariffaria completa, presentata dall�unico soggetto in grado di procurarsi la molteplicit� dei dati contabili relative alle varie localit� servite, l�Autorit� non � in grado di acquisire tali dati, che peraltro vanno moltiplicati per le centinaia di localit� raggiunte dai vari distributori che possono rilevarsi inadempienti�. 9.4.� Il motivo non � fondato. La previsione di procedere alla generalizzata determinazione d�ufficio delle tariffe anche in relazione a localit� per quali le imprese non hanno posto in essere alcun comportamento contrario alle regole generali di disciplina della loro azione rappresenta una misura regolatoria che contrasta con la stessa scelta di fondo di determinare le tariffe alle luce dei dati concreti forniti dalle imprese stesse. In questo caso, diversamente da quanto esposto in relazione al motivo precedente, si tratta di una modalit� di determinazione delle tariffe non supportata da una ragione giustificativa conforme al canone della ragionevolezza tecnica. Infatti, il meccanismo di determinazione officiosa, con applicazione della maggiorazione, rinviene la propria ratio giustificativa nel comportamento del singolo operatore. Non �, dunque, possibile, avendo riguardo agli stessi criteri stabiliti dall�Autorit�, estendere tale forma di determinazione a fattispecie in relazione alle quali manca lo stesso presupposto generale che giustifica la deroga all�applicazione del metodo generale individuale. 10.� La terza questione posta dall�Autorit� appellante, con i ricorsi numeri 468 e 469 del 2011, attiene al previsto meccanismo di gradualit� nell�applicazione dei nuovi criteri. 10.1.� L�art. 17.1 della delibera n. 159 del 2008 prevede che qualora a seguito della valutazione del capitale investito netto �risulti una variazione, positiva o negativa, del valore del medesimo capitale investito netto aggregato a livello nazionale per tutte le imprese distributrici di gas naturale, superiore al 5% del valore riconosciuto alle medesime imprese con riferimento all�anno termico 2007-2008, corretto applicando la variazione relativa del deflatore per gli investimenti fissi lordi e per tenere conto delle variazioni del capitale investito netto intervenute nell�anno 2007, � attivato un meccanismo di gradualit��. L�art. 17.2. stabilisce le modalit� tecniche di correzione del valore del capitale investito netto. 10.2.� Il primo giudice, accogliendo i motivi di ricorso, ha dichiarato illegittima tale deliberazione nella parte in cui fa riferimento ad una percentuale calcolata sul valore aggregato e non individuale. Tale meccanismo � stato ritenuto irragionevole in quanto �pu� verificarsi l�ipotesi che una determinata impresa di distribuzione, pur registrando una sensibile diminuzione del capitale investito (ammettiamo di molto superiore al 5%), qualora la variazione, riferita a livello aggregato nazionale a tutte le societ� fosse inferiore alla soglia del 5%, non possa giovarsi del meccanismo in questione (anche se ci� comportasse gravi ripercussioni sull�ammontare dei ricavi attesi)�. 10.2.� Secondo l�Autorit� tale motivazione sarebbe erronea. Per dimostrarlo si riporta testualmente la parte della relazione AIR. Si aggiunge poi che l�Autorit� avrebbe accolto le deduzioni delle principali associazioni di categoria volte ad ottenere �l�introduzione di un meccanismo che recuperi entro il 2012 il mancato ricavo connesso ad meccanismo di gradualit� introdotto per il riconoscimento degli ammortamenti�, disponendo che �il minore ammortamento riconosciuto in tariffa si sostanzia in un allungamento della vita utile del cespite ai fini regolatori�. 10.3.� La censura � inammissibile per genericit�. In via preliminare deve essere esaminato il rilievo dell�Amministrazione, prospettato nella memoria del 9 febbraio 2012, secondo cui non sussisterebbe pi� l�interesse delle societ� a far valere la illegittimit� della deliberazione in quanto � �stata registrata a livello nazionale una variazione del capitale investito superiore al 5%�. La mancata dimostrazione che dall�avvenuta dichiarazione di illegittimit� della delibera non deriva neanche un vantaggio, sia pure indiretto, in capo alle societ� e soprattutto la circostanza che le difese delle societ� hanno ribadito la permanenza dell�interesse conduce a ritenere non meritevole di condivisione il rilievo dell�Amministrazione. Chiarito ci�, la genericit� del motivo � conseguenza del fatto che l�Autorit� si � limitata a richiamare il contenuto della relazione AIR la quale, a sua volta, non ha introdotto elementi rilevanti rispetto a quanto gi� risulta dalla lettura della disposizione regolatoria. Non si comprendono, pertanto, le ragioni per le quali la sentenza impugnata, che indica i motivi del- l�accoglimento, sarebbe, sul punto, erronea. 11.� La quarta questione posta dall�Autorit� appellante, con i ricorsi numeri 468, 469 e 472 del 2011, attiene al cosiddetto effetto volume. 11.1.� Si impugnano le nuove delibere di determinazione delle tariffe n. 79 e n. 197 del 2009 nella parte in cui non contemplano pi� il meccanismo che consente di tenere conto del cosiddetto effetto volume relativamente all�andamento climatico sfavorevole. 11.2.� Il primo giudice, accogliendo sul punto le censure prospettate dalle societ�, ha ritenuto che �la delibera n. 170/04 prevedeva un meccanismo di bilanciamento per recuperare negli anni successivi la quota parte dei costi operativi che non erano stati interamente coperti in un determinato anno a causa dell�andamento climatico sfavorevole per le imprese di distribuzione. L�andamento dei ricavi dell�attivit� di distribuzione aveva come parametro di riferimento il volume di gas distribuito dall�operatore due anni prima: se il volume era uguale, l�ammontare dei ricavi della distribuzione rimaneva in linea (fatte salve le altre variabili applicabili); se il volume era maggiore o inferiore, l�entit� dei ricavi variava nella stessa misura�. La mancata previsione di tale recupero lederebbe il legittimo affidamento delle societ� in ordine a �situazioni maturate e concluse nel periodo temporale governato dalla previgente disciplina�. 11.3.� Secondo l�Autorit� appellante il giudice di primo grado sarebbe incorso in un errore. In particolare, si assume che le tariffe si determinano ponendo a base di riferimento i dati contabili dei costi relativi ai due anni precedenti. Ne consegue che �lo stesso anno assume quindi una duplice rilevanza temporale, in quanto anno per il quale calcolare le tariffe e in quanto anno i cui dati di costo costituiscono la base di calcolo per le tariffe di distribuzione di due anni successivi�. Nel 2007, utilizzato per calcolare le tariffe del 2009, primo anno del terzo periodo regolatorio, si � registrato un �inverno anormalmente caldo, con conseguente riduzione dei volumi di gas distribuiti dalle imprese e dei connessi ricavi�. Si aggiunge che �sebbene il 2007 ricada nell�ambito di applicazione della nuova regola tariffaria RTDG le imprese chiedono l�applicazione di un istituto previgente, il c.d. effetto volume, che nella RTDG � stato incorporato nel parametro di rischiosit� beta�. In conclusione, secondo l�Amministrazione, l��Autorit� non ha affatto cambiato le regole adottate nel precedente periodo regola- torio ma si � limitata ad applicare le nuove regole tariffarie�. 11.4.� Il motivo � fondato. L�Autorit�, nel dettare le nuove disposizioni regolatorie, non ha tenuto conto dell�effetto volume riferito all�anno 2007 (recte: 2008) secondo i precedenti meccanismi in quanto ha determinato le tariffe alla luce del nuovo parametro di rischiosit� elaborato dal regolatore. Nella parte motiva del RTDG si afferma che si intende �non accogliere le istanze relative ai mancati ricavi del secondo periodo regolatorio, conseguenti all�andamento climatico sfavorevole, in quanto tale rischio � implicitamente intercettato nella valutazione dei parametri di rischiosit� che concorrono alla definizione della remunerazione del capitale investito�. Nella relazione AIR si afferma che il rischio climatico � stato gi� �implicitamente intercettato nella valutazione dei parametri di rischiosit� che concorrono alla definizione della remunerazione del capitale investito�. Da quanto esposto risulta, pertanto, che l�Autorit� ha inteso disciplinare diversamente, in linea con il nuovo meccanismo di determinazione delle tariffe, le modalit� di incidenza degli effetti climatici. La decisione di non prendere in considerazione, applicando le regole previgenti, l�andamento climatico sfavorevole � conseguenza, pertanto, della esistenza di una diversa modalit� di calcolo dei fattori di rischio che possono incidere sullo svolgimento dell�attivit� di impresa. Al fine di evitare incertezze in sede di esecuzione della presente decisione � bene chiarire che l�Autorit� � in coerenza, del resto, con quanto dalla stessa affermato � dovr� riconoscere alle imprese la remunerazione del capitale alla luce del nuovo criterio in sostituzione del vecchio criterio non pi� contemplato nelle disposizioni di disciplina del terzo periodo regolatorio. 12.� La quinta questione posta dall�Autorit� appellante, con i ricorsi numeri 468, 469 e 472 del 2011, attiene alle modalit� di determinazione del tasso di riduzione annuale dei costi unitari. 12.1.� L�art. 41.1 della delibera n. 158 del 2008 prevede che �nel corso del periodo di regolazione 1� gennaio 2009 � 31 dicembre 2012 l�Autorit� aggiorna, entro il 15 dicembre del- l�anno precedente a quello di efficacia, le componenti a copertura dei costi operativi, applicando, tra l�altro, �il tasso di riduzione annuale dei costi unitari riconosciuti�. L�art. 41.2. determina, nel dettaglio, le percentuali del tasso di riduzione parametrato esclusivamente alla luce della classe dimensionale delle imprese distributrici. 12.2.� Il primo giudice ha accolto i motivi di ricorso affermando che �sia dirimente rilevare il profilo di illogicit� consistente nel determinare una percentuale di recupero di produttivit� costante per l�intera durata del periodo regolatorio, determinando esso un valore numerico progressivo non conciliabile con il fisiologico contrarsi dei livelli di efficienza man mano che il recupero di produttivit� raggiunge un punto di equilibrio in cui non cՏ pi� spazio per significativi miglioramenti�. 12.3.� Secondo l�Amministrazione, se � innegabile, come affermato dal primo giudice, che la possibilit� di procedere a recuperi di produttivit� decresce nel tempo, tuttavia �il carattere decrescente dei recuperi di produttivit� si registra soltanto se si adotta un approccio di analisi statico, poich� nel tempo, in un�ottica dinamica, subentrano vari fattori, in particolare quelli riconducibili all�evoluzione tecnologica, ma anche quelli connessi alle evoluzioni normative, regolamentari, di cambiamento del mercato del lavoro, che fanno s� che anche le imprese sufficientemente efficienti in un determinato periodo possano o debbano procedere all�efficientamento dei propri costi nel periodo successivo�. 12.4.� Il motivo non � fondato. Il sistema del price cup costituisce un utile strumento per stimolare il recupero di efficienza degli operatori economici del settore: la riduzione, infatti, dei costi unitari che vengono riconosciuti alle imprese rappresenta per esse uno stimolo ad innescare meccanismi virtuosi di aumento dell�efficienza. Questo Consiglio di Stato, con sentenza V, 29 maggio 2006, n. 3274, ha gi� avuto modo di affermare che quello in esame � �uno strumento essenziale per stimolare il recupero di efficienza, incentivando le imprese ad attivare azioni di riduzione dei costi con obiettivi ed effetti anche superiori al tasso prefissato dall�Autorit�, al fine di trattenere i maggiori recuperi di produttivit� all�interno dell�azienda stessa a titolo di profitto�. Nella stessa sentenza si rileva, per�, in linea con quanto ritenuto dal primo giudice e con orientamento che la Sezione condivide, che �costituisce fatto notorio la circostanza che i risparmi derivanti dal miglioramento di efficienza vanno diminuendo con gli anni fino addirittura ad esaurirsi�, con la conseguenza che il recupero di produttivit� deve essere decrescente. Nella fattispecie in esame non risulta che l�Autorit� abbia svolto una istruttoria volta ad accertare quale sia il corretto livello di progressiva diminuzione della produttivit� in relazione ai decrescenti margini di recupero di efficienza. In questo caso il difetto di istruttoria rappresenta, alla luce di quanto affermato, un indice sintomatico della violazione del principio di ragionevolezza tecnica della scelta effettuata. N� ad una conclusione diversa si pu� pervenire prendendo in esame, come sostenuto nell�atto di appello, fattori riconducibili all�evoluzione tecnologica o ai cambiamenti del sistema normativo e del mercato del lavoro. Si tratta, infatti, di fattori che, se pure sono in grado di consentire un miglioramento del recupero di efficienza, hanno una valenza ipotetica che in quanto tale da sola non � sufficiente a giustificare, sul piano della razionalit� tecnica, la previsione di una riduzione costante dei costi. 13.� La prima questione posta dalle Societ� appellanti, con i ricorsi numeri 302 e 426 del 2011, riguarda le modalit� di determinazione dei costi dei cespiti acquisiti nell�ambito di processi di aggregazione societaria. 13.1.� L�art. 13 RTDG � la cui rubrica reca �disposizione per casi particolari di indisponibilit� delle informazioni per la ricostruzione dei dati storici stratificati� � prevede, al comma, 2, nel testo modificato dalla delibera n. 29 del 2009, che il costo storico �per cespiti in esercizio al 31 dicembre 2006, acquisiti fino al 31 dicembre 2003 in occasione di processi di aggregazione societaria, quali acquisizioni di rami d�impresa, fusioni o incorporazioni� qualora non siano disponibili le informazioni per ricostruire i dati storici stratificati di cui al gi� citato comma 12.1 Ǐ pari al costo originario di prima iscrizione desumibile dalle fonti contabili obbligatorie del- l�impresa distributrice che ha acquisito il ramo o che risulta dalla fusione o dall�incorporazione�, opportunamente corretto secondo le disposizioni contenute nei successivi commi da 2 a 6. Il comma 1-ter della stessa disposizione regolatoria stabilisce che il costo storico, per cespiti in esercizio al 31 dicembre 2006, conferiti al momento della costituzione di aziende speciali e di societ� per azioni, qualora non siano disponibili le informazioni per ricostruire i dati storici stratificati come riportati nelle fonti contabili giuridiche dei soggetti che precedentemente gestivano il servizio, Ǐ pari al costo originario di prima iscrizione desumibile dalle fonti contabili obbligatorie dell�impresa distributrice che risulta dal medesimo atto di costituzione�. 13.2.� Le societ� ricorrenti in primo grado, con argomentazioni analoghe, hanno sostenuto che sia discriminatorio, con violazione delle regole della concorrenza, consentire soltanto ad alcune imprese di utilizzare i valori di perizia dei cespiti per la costruzione del costo storico rivalutato. N� sarebbe ragionevole avere previsto lo sbarramento temporale al 2003 in quanto a quella data il metodo del costo storico rivalutato era soltanto facoltativo permanendo la possibilit� per l�impresa di ricorrere anche al metodo parametrico. La delibera di modifica del 2009 avrebbe accentuato la valenza discriminatoria della previsione riconoscendo la possibilit� di ricorrere a questo metodo, senza alcun limite temporale, alle aziende speciali e alle societ� derivanti da trasformazioni di aziende speciali. In particolare, Assogas ha poi censurato l�asserita indeterminatezza e arbitrariet� dei criteri introdotti dall�art. 13 della RTDG. 13.3.� Il primo giudice ha rigettato, con entrambe le sentenze, le censure prospettate dalle societ� ricorrenti. In primo luogo, si sottolinea che anche il valore dei cespiti acquisiti nell�ambito di processi di aggregazione societaria avvenuti fino al 2003 � determinato in base ai dati storici stratificati come risultanti dalle fonti contabili obbligatorie dei soggetti che precedentemente gestivano il servizio di distribuzione. Soltanto in via sussidiaria, laddove non siano disponibili le informazioni necessarie a determinare il costo storico rivalutato il valore dei cespiti � quello risultante dalle perizie giurate. Inoltre, la previsione regolatoria, si sottolinea, sarebbe ragionevole in quanto soltanto con la pubblicazione della deliberazione n. 87/03, che ha introdotto l�applicazione del criterio del costo storico rivalutato, pu� presumersi che fosse a tutti nota l�esigenza di disporre di dati storici. Con riguardo poi al motivo prospettato nel ricorso n. 426 del 2011 lo stesso � stato dichiarato inammissibile �non avendo le ricorrenti esemplificato concretamente i termini di manifesta illogicit� dei criteri introdotti; parimenti, pu� dirsi con riguardo alla doglianza secondo cui l�algoritmo per il calcolo sarebbe illogico�. 13.4.� Le appellanti hanno censurato, con gli atti sopra indicati, le sentenze del Tribunale amministrativo ribadendo sostanzialmente le argomentazioni contenute nei ricorsi introduttivi del giudizio di primo grado. Nell�atto di appello n. 426 si aggiunge che qualora non si ritenga di accogliere il motivo prospettato dovrebbe essere dichiarata illegittima la previsione regolamentare nella parte in cui concede soltanto ad alcuni operatori il diritto di potere optare per un sistema pi� favorevole di determinazione dei costi. Nello stesso atto si contesta la sentenza nella parte in cui sono stati dichiarati inammissibili i motivi proposti volti a dimostrare che gli algoritmi utilizzati per il calcolo della tariffe sarebbero irragionevoli, atteso che la concretezza delle doglianze sarebbe dimostrata dalla perizia depositata. Infine, le parti chiedono che venga ordinato all�Autorit� di fornire i dati dai quali risultino gli operatori che hanno concretamente usufruito del meccanismo in esame. Le parti ribadiscono la loro richiesta istruttoria volta ad ottenere i dati in possesso dell�Autorit� relativi agli operatori che hanno usufruito del meccanismo di cui all�art. 13. 13.5.� I motivi di appello non sono fondati. In via preliminare, � bene chiarire che, secondo quanto risulta dalle stesse delibere dell�Autorit�, per processo di aggregazione societaria si intende l�acquisizione di rami di impresa da parte di altra impresa distributrice, la fusione di due o pi� imprese distributrici o l�incorporazione di un�impresa distributrice da parte di altra impresa distributrice. Chiarito ci�, deve rilevarsi che il sistema di calcolo delle tariffe, prima dell�adozione della deliberazione n. 87 del 2003, si fondava, come gi� sottolineato, sul solo meccanismo parametrico. Soltanto a seguito di tale deliberazione � stato introdotto, quale modalit� alternativa, il sistema di determinazione individuale basato sui costi storici. La ragione che giustifica la possibilit� esclusivamente per le aggregazioni societarie avvenute anteriormente al 2003 di potere ricorrere, in assenza dei dati contabili, ad un sistema che di fatto si fonda sul valore industriale risultante da perizie � rappresentata, pertanto, dal fatto che prima del 2003 le imprese che avevano dato luogo a tali aggregazioni non potevano sapere che poi i dati contabili stratificati avrebbero dovuto essere posti a base della nuova determinazione delle tariffe. Ne consegue, come si afferma condivisibilmente, nella relazione AIR, che �in occasione delle aggregazioni societarie successive alla pubblicazione della deliberazione n. 87/03 le parti ben avrebbero potuto concordare il trasferimento delle fonti contabili necessarie per una puntuale ricostruzione del valore degli asset a costi storici rivalutati, in coerenza con le disposizioni della medesima deliberazione n. 87 del 2003�. La diversit� di trattamento, lamentata dalle societ� appellanti, �, pertanto, giustificata dalla differente situazione in cui si trovano le imprese nella fase di passaggio dal vecchio sistema, basato sul solo metodo parametrico, al nuovo sistema, basato sui due metodi posti in una posizione di libera alternativit�. N� vale obiettare che la previsione di tale facolt� di scelta impediva all�operatore economico di potere programmare la propria azione considerando quale unica possibilit� di calcolo il ricorso al metodo del costo storico rivalutato. Sul punto � sufficiente rilevare che, una volta introdotta la possibilit� di una duplice determinazione del capitale da remunerare, risponde ad un criterio di efficienza economica che ispira normalmente l�attivit� imprenditoriale quello di adoperarsi per avere la disponibilit� dei dati storici. Ci� al fine poi di decidere quale fosse il meccanismo che, in concreto, si potesse risolvere in un maggiore vantaggio per l�impresa stessa. In definitiva, risulta non irragionevole la scelta dell�Autorit� di ancorare ad un dato temporale che sancisce il passaggio da un sistema ad un altro la possibilit� di valutare in maniera diversa i costi per i cespiti acquisiti in occasione di processi di aggregazione societaria. Si tenga conto, inoltre, che, come correttamente indicato dal primo giudice, la modalit� in esame di determinazione della tariffa in caso di aggregazioni societarie ha una valenza suppletiva operante soltanto nel caso in cui le imprese non dispongano degli elementi contabili in grado di consentire un calcolo secondo il metodo �ordinario�. Per quanto attiene, poi, alla censura con la quale si lamenta il riconoscimento in capo soltanto ad alcune imprese della facolt� del calcolo in esame � sufficiente rilevare come, una volta dimostrata la ragionevolezza della scelta tecnica, non assume valenza discriminatoria la previsione che consente esclusivamente agli operatori economici che hanno posto in essere le aggregazioni societarie nel periodo temporale considerato di effettuare il calcolo della tariffa secondo le modalit� indicate. Allo stesso modo provata la non illegittimit� della previsione regolamentare nella parte in cui non include anche le societ� appellanti nel proprio campo di applicazione ne consegue che le stesse, anche a volere prescindere dalla natura generica delle censure rilevate dal primo giudice, non hanno interesse a contestare le modalit� di calcolo concreto delle tariffe previste dalla disposizione regolatoria in esame. Per quanto attiene, infine, alla richiesta istruttoria la stessa, a prescindere dalla sua rilevanza ai fini della decisione dell�appello, ha ad oggetto dati che sono stati successivamente consegnati alle ricorrenti dalla stessa Autorit�. 14.� La seconda questione, posta soltanto con l�atto di appello n. 426 del 2011, attiene alle modalit� di determinazione del valore iniziale delle immobilizzazione centralizzate. 14.1.� L�art. 8 del RTDG, inserito nel capo relativo alla �determinazione del valore iniziale delle immobilizzazioni centralizzate�, prevede, con riferimento agli �immobili e fabbricati non industriali�, che: �ai fini della fissazione dei livelli iniziali del capitale investito centralizzato per il terzo periodo di regolazione il valore delle immobilizzazioni nette relativo a immobili e fabbricati non industriali dell�impresa distributrice c esistenti al 31 dicembre 2006, � determinato secondo la seguente formula (�.)�. Il successivo art. 9, relativo ad �altre immobilizzazioni materiali e immobilizzazioni immateriali �, prevede che �ai fini della fissazione dei livelli iniziali del capitale investito centralizzato per il terzo periodo di regolazione, il valore netto relativo alle altre immobilizzazioni materiali e immobilizzazioni immateriali, dell�impresa distributrice c esistenti al 31 dicembre 2006, � determinato secondo la seguente formula (�)�. 14.2.� L�appellante riporta, in primo luogo, le seguenti censure prospettate in primo grado, rilevando come le stesse non hanno inteso censurare tout court n� la metodologia prescelta dall�Autorit� n� tanto meno il valore preso a riferimento quale importo fisso da riconoscere ai distributori, ponendo invece l�attenzione sull�illegittimit� della delibera nella parte in cui non considera che i valori riconosciuti a copertura di detti costi, ove riferiti a quelle aziende che, collocandosi in una classe dimensionale medio-piccola, beneficiano in misura ridotta del c.d. effetto scala, sono del tutto insufficienti a coprire i costi realmente sostenuti dalle stesse per fornire il servizio di distribuzione. Si sottolinea che il riconoscere in modo fisso la copertura di costi che per loro natura sono soggetti a economie di scala, rappresenta un indebito vantaggio per gli operatori di grandi dimensioni. Per evitare tale effetto discriminatorio l�unica possibilit� sarebbe quella di fare s� che le imprese di piccole e medie dimensioni (come definite nella tabella 4 dell�RTDG) abbiano una remunerazione superiore a quella delle imprese di grandi dimensioni. 14.3.� Il Tar ha rigettato i motivi di appello mettendo in rilievo come �i costi di cui agli artt. 8 e 9 non sono costi operativi, ovvero di erogazione del servizio di distribuzione, ma sono costi di investimento che a differenza dei primi non sono soggetti ad un percorso di efficientamento e quindi sono sottratti dall�ambito di applicazione dell�X-factor�. Si �, pertanto, concluso rilevando che �non � affatto arbitrario assumere per i costi di capitale valori forfettari efficienti (individuati, nella specie, nei costi medi di settore)�. 14.4.� La societ� appellante ha riproposto sostanzialmente i motivi prospettati nel ricorso di primo grado, sottolineando come il criterio adottato non sarebbe idoneo ad assicurare la corretta remunerazione dei beni e delle attivit� investite per le imprese di medie e piccole dimensioni. 14.5.� I motivi di appello non sono fondati. Nella Relazione AIR viene indicato il percorso motivazionale che ha condotto all�adozione della misura regolatoria in esame. Il capitale investito delle imprese distributrici � stato distinto in due categorie: capitale investito centralizzato e capitale investito di localit�. Sono considerati immobilizzazioni di localit� relative al servizio di distribuzione i cespiti appartenenti, tra l�altro, alle seguenti tipologie: terreni sui quali insistono; fabbricati industriali; impianti principali e secondari, ecc.. Sono considerate immobilizzazioni centralizzate tutte le seguenti tipologie: immobili e fabbricati non industriali; altre immobilizzazioni materiali e immobilizzazioni immateriali, quali ad esempio sistemi di telegestione e telecontrollo, attrezzature, automezzi, sistemi informatici, mobili e arredi, licenze software. Nel nostro caso vengono in rilievo queste categorie di immobilizzazioni. In relazione ad esse, l�Autorit�, si legge sempre nella Relazione, ha ritenuto, all�esito di una ampia consultazione con le imprese del settore e la valutazione anche di altri possibili metodi, �preferibile uniformare i criteri per la valutazione dei costi unitari di capitale da riconoscere alle imprese e ha disposto l�adozione del costo medio di bilancio anche per la valutazione di immobili e fabbricati non industriali�. Si aggiunge, ed � questo il dato che rileva in questa sede, che �i valori di riferimento per l�anno 2006 sono stati determinati sulla base di un�analisi puntuale dei dati relativi a un campione di 82 imprese distributrici. Tale campione rappresenta circa il 27% delle imprese distributrici, a cui corrisponde un grado di copertura, in termini di punti di riconsegna serviti, pari a circa l�87%�. Alla luce di quanto esposto risulta che l�Autorit�, stabilendo il valore �medio� degli immobili in esame, ha preso in esame nell�indagine anche le imprese di piccola e media dimensione. Non vendo in rilievo in questa sede, come riconosciuto dalla stessa appellante, il metodo prescelto, la scelta tecnica effettuata fondata su costi standard medi non risulta contraria al principio della ragionevolezza tecnica. 15.� La terza questione, posta soltanto con l�atto di appello n. 426 del 2011, attiene alle modalit� di determinazione concreta delle tariffe per l�anno 2009. 15.1.� L�art. 6 del RTDG prevede quanto segue. �Ai fini della determinazione delle tariffe di riferimento per l�anno 2009, i valori delle voci di costo sono: a) determinati sulla base dei dati riscontrati al 31 dicembre 2006; b) aggiornati per tenere conto dei nuovi investimenti effettuati nell�anno 2007; c) aggiornati per tenere conto dei contributi pubblici (�); d) aggiornati per tenere conto dei recuperi di produttivit�; e) aggiornati per tenere conto delle variazioni delle variabili di scala intervenute tra il 31 dicembre 2006 e il 31 dicembre 2008 (�); f) aggiornati per tenere conto delle variazioni del tasso d�inflazione e del deflattore degli investimenti fissi lordi relative al periodo 31 dicembre 2006 - 31 dicembre 2008, valutate sulla base dei pi� recenti dati disponibili�. 15.2.� Le societ� hanno ritenuto l�illegittimit� della disciplina di cui all�art. 6 il quale, nel recare i criteri per procedere alla determinazione delle tariffe di riferimento per l�anno 2009, non espliciterebbe le formule e gli algoritmi matematici in applicazione dei quali l�Autorit� proceder� alla definizione delle voci di costo. La mera elencazione dei criteri, si afferma, sarebbe del tutto inutile mentre la disciplina dettata dall�art. 6 sarebbe incompleta nella misura in cui, in violazione di quanto prescritto dall�art. 1, comma 1, della l. 14 novembre 1985, n. 481, non consente agli esercenti il servizio di distribuzione di elaborare, in modo autonomo e diretto, la propria proposta tariffaria. Tale censura, peraltro, non avrebbe perso di significato nemmeno in seguito alla determinazione delle tariffe di riferimento approvate con la delibera n. 197 del 2009 in quanto, ad oggi, l�Autorit� non ha ancora ufficialmente reso pubbliche le formule e gli algoritmi utilizzati per procedere al calcolo delle tariffe. Tali deficienze impediscono agli operatori del settore, sempre secondo l�appellante, di potere programmare la propria attivit�. 15.3.� Il primo giudice ha ritenuto la censura inammissibile �per sopravvenuta carenza di interesse, poich� nell�ambito della relazione AIR sono state rese note le formule di determinazione e aggiornamento delle tariffe (v. par. 21.45-21.61 e 28) �. 15.4.� Con l�appello vengono riproposti gli stessi motivi dichiarati inammissibili dal primo giudice. Secondo l�appellante, ed � questo l�aspetto che rileva in questa, non si � potuto procedere alla determinazione concreta delle tariffe neanche applicando i criteri contenuti nella relazione AIR in quanto gli stessi sarebbero divergenti rispetto a quelli indicati dall�Autorit� nelle delibere tariffarie. 15.5.� Il motivo di appello � inammissibile. Come correttamente messo in rilievo nella sentenza impugnata l�Autorit� ha indicato, nella relazione AIR, le ragioni che hanno condotto alle modalit� di determinazione delle tariffe per l�anno di riferimento. L�eventuale contestazione di tali ragioni deve, pertanto, essere fatta valere mediante puntuale indicazione delle ragioni della non correttezza di quanto risulta dalla predetta relazione. 16.� Con la quarta questione posta, con atto di appello n. 426 del 2011, � stato impugnato il capo II della sentenza n. 6915 del 2010 nella parte in cui non sono state accolte le censure formulate avverso l�art. 15 della RTDG. Il motivo di appello � stata oggetto di espressa rinuncia con memoria del 22 settembre 2011 a seguito della pubblicazione da parte del primo giudice dell�ordinanza collegiale n. 1112 del 2011 di correzione di errore materiale di un aspetto che aveva costituito oggetto, per fini cautelativi, anche del presente motivo di appello. 17.� La quinta questione, posta con il ricorso n. 302 del 2011, attiene alle modalit� di determinazione dei costi e in particolare dei costi di esercizio. 17.1.� La disciplina generale � contenuta negli articoli 10, 12 e 13 di cui non si riporta, per brevit�, il contenuto. 17.2.� La societ� ha impugnato, nel giudizio di primo grado, tali statuizioni ritenendo la loro illegittimit� nella parte in cui taluni costi sostenuti per la realizzazione degli impianti (come gli allacciamenti) non sarebbero iscritti a libro cespiti ma quali costi dell�esercizio. Specularmente i contributi percepiti per i medesimi allacciamenti sarebbero stati contabilizzati come ricavi del medesimo esercizio. Si assume che il principio di ragionevolezza imporrebbe che i costi sostenuti dall�esercente e relativi contributi da lui percepiti vengano valorizzati in termini omogenei: e quindi, o si considerano, ai fini della determinazione del capitale investito, anche i costi sostenuti e rappresentati nel conto economico (anzich� registrati nel libro cespiti); ovvero non resta che computare i contributi entro e non oltre la capienza dei costi capitalizzati. 17.3.� Il primo giudice ha rigettato il motivo di ricorso premettendo che, secondo le determinazioni dell�Autorit�, possono concorrere alla determinazione del capitale investito solo i costi capitalizzati e non quelli in �conto esercizio�. A questa stregua, �non pare affatto irragionevole ma del tutto conseguente che i contributi siano conteggiati, in ogni caso, ai fini della loro detrazione�. Si rileva, inoltre, come, �non si comprende perch� la societ� ricorrente ritenga (invero senza adeguata esemplificazione delle ragioni giuridiche a sostegno) che occorra computare i contributi entro e non oltre la �capienza� dei costi contabilizzati�. 17.4.� La societ� ha impugnato tale sentenza ribadendo le argomentazioni prospettate nel giudizio di primo grado. 17.5.� Il motivo non � fondato. La scelta dell�Autorit� di non trattare in maniera omogenea, in alcuni casi, i contributi e l�attivit� cui gli stessi si indirizzano non risulta, considerata la diversit� degli ambiti e dei criteri valutativi, contraria al principio di ragionevolezza tecnica. Il trattamento giuridico del contributo come ricavo dell�impresa non implica necessariamente che il referente oggettivo del contributo debba essere considerato costo di esercizio. L�eventuale sindacato su una tale determinazione, in mancanza ancora una volta di elementi dotati di un livello maggiore di concretezza da parte dell�appellante, si risolverebbe in una non consentita invadenza di sfere di competenza dell�Autorit�. 18.� L�ultima questione, posta con il ricorso n. 302 del 2011, riguarda l�applicazione del criterio di gradualit� anche agli ammortamenti. 18.1.� L�art. 17 del RTDG, il cui contenuto � stato gi� riportato, disciplina tale meccanismo. La delibera n. 79 del 2009, oggetto di impugnazione, nel determinare la tariffa obbligatoria applicando il meccanismo di gradualit� di cui all�articolo 17 della RTDG ai costi di capitale, ha espressamente incluso �gli ammortamenti�. 18.2.� Tale statuizione � stata ritenuta illegittima in quanto l�estensione del meccanismo di gradualit� alla quota tariffaria destinata a coprire i costi aziendali rappresentati dagli ammortamenti, sarebbe contraria ai principi di legge che sanciscono la necessit� che il sistema tariffario garantisca gli equilibri economici e finanziari dei soggetti esercenti il servizio. In particolare, si assume che non � possibile applicare un medesimo meccanismo di gradualit� al parametro rappresentato dalla remunerazione dei capitali investiti ed a quello della valorizzazione degli ammortamenti. 18.3.� Il primo giudice ha ritenuto non fondato il motivo di ricorso. Si � affermato, infatti, che, con la delibera n. 197 del 2009, � stato disposto, venendo incontro alle richieste avanzate dagli operatori del settore, un allungamento della vita utile del cespite ai fini regolatori. Ne consegue, si sottolinea, che �l�impresa � in grado di ammortizzare l�intero valore del bene, senza perdere nulla nel valore del capitale, risultando scongiurato qualunque pregiudizio economico�. 18.4.� Con l�atto di appello si riprendono i motivi indicati nel ricorso di primo grado. 18.5.� La censura � infondata. La delibera n. 79 del 2009 ha determinato la tariffa obbligatoria �applicando il meccanismo di gradualit� ai costi di capitale, inclusi gli ammortamenti�. L�Autorit� ha inteso, pertanto, applicare tale meccanismo, nel passaggio dal vecchio al nuovo sistema, rispondente alla ratio gi� illustrata, anche agli ammortamenti. L�inclusione nella valutazione dei costi di capitale anche degli ammortamenti non risulta contraria al principio della ragionevolezza tecnica e soprattutto non impedisce di per s� �una congrua remunerazione del capitale investito�. N� l�appellante ha indicato specifici motivi volti a dimostrare come, in concreto, la previsione impugnata si risolva in una violazione delle regole che presiedono alle modalit� di determinazione delle tariffe. Si tenga conto, inoltre, che le associazioni di categoria hanno chiesto l�introduzione di �un meccanismo che recuperi entro il 2012 il mancato ricavo connesso al meccanismo di gradualit� introdotto per il riconoscimento degli ammortamenti�. La delibera n. 197 del 2009 ha accolto parzialmente la richiesta prescrivendo che �il minor ammortamento riconosciuto in tariffa si sostanzi in un allungamento della vita utile ai fini regolatori�. 19.� Per tutte le ragioni sin qui esposte sono accolti, in parte, gli appelli proposti dall�Autorit� mentre sono rigettati gli appelli proposti dalle societ� indicate in epigrafe. 10.� La natura della controversia giustifica l�integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riuniti i giudizi: a) preso atto della rinuncia al ricorso di primo grado e agli effetti della sentenza 11 ottobre 2010, n. 6916 del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, la annulla senza rinvio;. b) accoglie, nei limiti indicati nella motivazione, gli appelli, indicati in epigrafe, proposti dall�Autorit� per l�energia elettrica e il gas; c) rigetta l�appello, indicato in epigrafe, proposto da Assogas � Associazione nazionale industriali privati gas e servizi collaterali, Erogasmet s.p.a., Italcogim reti s.p.a., Condotte Nord s.p.a.; d) rigetta all�appello, indicato in epigrafe, proposto da Gas plus reti s.r.l. definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorit� amministrativa. Cos� deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2012. L�onere della prova in tema di illegittima aggiudicazione di appalti pubblici e il recente orientamento della Corte di Giustizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 8 novembre 2012 n. 5686) Antonio Vincenzo Castorina* SOMMARIO : 1. Premessa - 2. I tentativi della giurisprudenza di invertire l�onere probatorio tramite il criterio delle presunzioni semplici - 3. L�imprescindibilit� dell�elemento soggettivo nelle ipotesi di responsabilit� amministrativa elaborate dalla dottrina - 4. L�irrilevanza dell�accertamento della colpa in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici - 5. Conclusioni. 1. Premessa. L�evoluzione giurisprudenziale, la codificazione del diritto processuale amministrativo ed in particolare le spinte comunitarie hanno dato nuovo impulso allo storico dibattito circa la natura della responsabilit� da lesione di interessi legittimi. La pronuncia in commento rappresenta l�ennesima indicazione che i tempi sono maturi per nuove considerazioni sulla responsabilit� della pubblica amministrazione a seguito di illegittima attivit� provvedimentale. Il tema della responsabilit� della pubblica amministrazione costituisce certamente un elemento per comprendere il fenomeno di c.d. destatualizzazione (1) che investe il diritto amministrativo nazionale, poich�, come � noto, gli ordinamenti amministrativi si aprono, oltre che al diritto comunitario, ai diritti amministrativi degli altri Paesi membri dell�Unione Europea. Ci� comporta che tale fenomeno, da un lato tende a rendere pi� completa ed efficace la tutela dei diritti dei singoli lesi da attivit� illecite poste in essere dalle istituzioni comunitarie e nazionali, dall�altro tende a promuovere l�armonizzazione dei regimi vigenti negli ordinamenti nazionali. L�intento della giurisprudenza comunitaria consistente nel garantire una tutela pi� rigorosa ed effettiva in una materia in cui sono in gioco i valori della concorrenza e della trasparenza del mercato, appare in evidente contrasto con il tentativo compiuto dalla giurisprudenza amministrativa nazionale, tramite il ricorso al meccanismo delle presunzioni semplici, di coniugare l�approccio comunitario con i tradizionali principi in materia di illecito. In tale solco si colloca la sentenza in commento che riguarda una controversia concernente l�aggiudicazione di un appalto di servizio di sorveglianza. � necessario premettere che il Tar Lombardia, Milano, sez. I, con sentenza n. 1811 del 14 giugno 2010 aveva in parte respinto il ricorso volto ad (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l�Avvocatura dello Stato. (1) M. RENNA-F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffr�, Milano, 2012, p. 286. ottenere il risarcimento in forma specifica o, in subordine, per equivalente in relazione ai pregiudizi patiti a causa dell�illegittima mancata aggiudicazione della procedura concorsuale indetta dal comune di Milano avente ad oggetto il servizio di sorveglianza presso il Palazzo di Giustizia, nonch� per l�annullamento degli atti connessi, con i quali l�amministrazione si era limitata a reintegrare parte ricorrente solo per il periodo residuale di otto mesi. Il Tar, respingendo il ricorso, aveva osservato che dall�andamento degli avvenimenti succedutisi non poteva rinvenirsi in capo all�Amministrazione la sussistenza dell�elemento soggettivo della colpa, indispensabile al fine della configurazione dell�imputazione di responsabilit� civile nei confronti della stessa. Il giudici di Palazzo Spada hanno riformato tale decisione, argomentando proprio in base alle indicazioni contenute nella sentenza della Corte di Giustizia 30 settembre 2010 C-314/09 ove si afferma che la vigente disciplina dell�aggiudicazione degli appalti di lavori, forniture e servizi non consente che il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da una Amministrazione Pubblica, che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti, sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione. Tale fenomeno sembra inquadrabile nel c.d spill over effect, ovvero quel processo di spontanea imitazione che vede i giudici nazionali porre a fondamento delle proprie decisioni le pronunce della giurisprudenza europea (2). Il dibattito � quindi incentrato sull�ammissibilit� dell�interpretazione che, in materia di illegittima aggiudicazione di una gara di appalto, ascrive la responsabilit� alla pubblica amministrazione basandosi sulla mera illegittimit� dell�atto amministrativo e non gi� sulla prova della colpa o dolo, reintroducendo in via interpretativa il principio della culpa in re ipsa fondato sul rilievo che la mera adozione di un provvedimento illegittimo, da parte di un soggetto dotato di capacit� istituzionale e di competenza funzionale ad operare nel settore di riferimento, comporta la consapevole violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte nella quale si risolve la colpa. 2. I tentativi della giurisprudenza di invertire l�onere probatorio tramite il criterio delle presunzioni semplici. Sin dal momento in cui � stata ammessa anche per l�attivit� di diritto pubblico la responsabilit�, il problema che la stessa determina in relazione alla pubblica amministrazione si � sempre rilevato di difficile soluzione (3). Come noto, la giurisprudenza nazionale escludeva che la lesione di interessi legittimi fosse idonea ad originare obbligazioni risarcitorie degli apparati (2) A. FORMICA, L�onere della prova in materia di colpa della pubblica amministrazione: le ricadute sulla giurisprudenza nazionale degli orientamenti della corte di giustizia delle comunit� europee, in www.giustamm.it. (3) E. CASETTA, Manuale di Diritto Amministrativo, Giuffr�, Milano, 2010, pag. 637. pubblici anche in ragione della difficolt� di applicare alla pubblica amministrazione la disciplina codicistica della responsabilit� civile ordinaria, incentrata sul profilo della colpa, intesa quale coefficiente psicologico difficilmente adattabile ad una organizzazione. Per superare tale ostacolo parte della dottrina aveva proposto la costruzione di una autonoma fattispecie di responsabilit�, c.d. speciale, svincolata dall�elemento soggettivo di dolo e della colpa. Si prospettava quindi un ipotesi di responsabilit� obbiettiva, fondata sull�elemento oggettivo della illegittimit� della condotta (4). La giurisprudenza non segu� l�interpretazione proposta dalla dottrina ma ribad� la natura civilistica, sottolineando come la pubblica amministrazione in tema di responsabilit� � soggetta alle norme comuni a tutti i soggetti del- l�ordinamento. La tesi della presunzione assoluta di colpa, proposta dalla dottrina, si risolveva quindi nell�ingiusta assegnazione all�amministrazione di un trattamento deteriore rispetto a quello degli altri soggetti di diritto. � evidente come l�impostazione adottata dalla Cassazione si scontri con l�estrema difficolta , per il ricorrente, di provare la colpa della pubblica amministrazione, in considerazione del fatto che, nella specie, non opera il principio di vicinanza della prova, poich� l�onere probatorio e posto a carico della parte che normalmente non dispone degli elementi di prova sufficienti a soddisfare il principio di cui all�art. 2697 c.c. Per tale ragione la giurisprudenza (5) ha accolto la regola del cd. principio dispositivo con metodo acquisitivo (6). Le ragioni di una tale impostazione risiedono nella disparit� sostanziale e dunque, processuale, tra le �parti� del rapporto di diritto pubblico: da un lato l�amministrazione, dotata di poteri autoritativi e dall�altro il ricorrente, in situazione di soggezione che si traduce nella impossibilit� di avere a disposizione tutto il materiale probatorio idoneo per la definizione della lite. L�illegittimit� dell�atto pu� emergere dall�esame degli accertamenti istruttori espletati dalla pubblica amministrazione nella fase procedimentale, le cui risultanze restano nella sua disponibilit�, con la conseguenza che elementi probatori, anche essenziali, potrebbero non essere facilmente reperibili dal ricorrente (7). La giurisprudenza prevalente (8), fermo restando il carattere aquiliano della responsabilit� amministrativa, facendo ricorso al meccanismo delle presunzioni (4) F. SCOCA, Diritto Amministrativo, Giappichelli, Torino, 2011, pag. 722. (5) T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 11 luglio 2012 n. 220; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 24 aprile 2012 n. 1942; Cons. St., Sez. IV, 11 febbraio 2011 n. 924, in www.dejure.it. (6) A. CIANFLONE, L�appalto di opere pubbliche, Tomo II, Giuffr� , Milano, 2012, pag. 2061. (7) D�SIR�E ZONNO, I poteri del giudice amministrativo in tema di prove: intervento del giudice nella formazione della prova., in www.giustizia-amministrativa.it. (8) Cons. St., Sez. IV, 31 gennaio 2012 n. 482; Cons. Stato, Sez. V, 6 dicembre 2010, n. 8549; Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2010, n. 2384; Cons. Stato, Sez. V, 8 settembre 2008, n. 4242. in www.dejure.it. semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., � giunta ad affermare che l'illegittimit� del provvedimento amministrativo costituisce un indice presuntivo di colpevolezza, da considerare unitamente ad altri quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicit� del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il carattere vincolato o a bassa discrezionalit� dell'azione amministrativa. Seguendo questo orientamento, se non a una vera e propria sua inversione, si � pervenuti a un sostanziale alleggerimento dell'onere probatorio incombente sul privato in forza del quale una volta accertata l'illegittimit� dell'azione della pubblica amministrazione, � a quest'ultima che spetta di provare l'assenza di colpa (9) attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l'inesigibilit� di una condotta alternativa lecita. La giurisprudenza amministrativa giunge quindi al risultato di semplificare il quadro probatorio della parte ricorrente in punto di elemento soggettivo, consentendo al privato danneggiato di adempiere all�onere della prova imposto dall�art. 2697 c.c. mediante elementi da cui presumere la colpa. A sua volta, l�Amministrazione pu� dimostrare la mancanza di colpa fornendo a suo discarico degli elementi riconducibili allo schema dell�errore scusabile (10). Trattasi, tuttavia, di una soluzione che tende a parificare elementi della responsabilit� contrattuale con quella extracontrattuale. La giurisprudenza (11) infatti, nel tentativo di attenuare l�onere probatorio gravante sull�amministrato, ha affermato che l�illegittimit� di un provvedimento produttivo di un danno ingiusto pu� essere sufficiente a far sussistere l�agire colposo della pubblica amministrazione laddove in base al contesto normativo vi sia un vizio di legittimit� particolarmente grave, formulando di fatto una nozione quasi oggettiva di colpa (12). 3. L�imprescindibilit� dell�elemento soggettivo nelle ipotesi di responsabilit� amministrativa elaborate dalla dottrina. A seguito della sent. 500/99, la giurisprudenza maggioritaria, pur esaminando la configurazione della colpa e il relativo onere probatorio, non ha mai messo in dubbio la natura giuridica della responsabilit� della pubblica amministrazione conseguente all�illegittima attivit� provvedimentale, fondata quindi sulla responsabilit� extracontrattuale. � tuttavia opportuno ricordare i differenti orientamenti dottrinali in tema, accolti parzialmente dalla giurisprudenza, poich� come � noto il regime del- l�onere della prova si manifesta in modo diverso a seconda che si discuta di (9) F. CORTESE, L�accertamento della colpa della p.a. nella fattispecie di danno da provvedimento illegittimo: il giudice amministrativo in equilibrio tra diritto interno e diritto europeo, in www.dejure.it. (10) S. CIMINI, La colpa nella responsabilit� civile delle Amministrazioni pubbliche, Giappichelli, Torino, 2008, pag. 493. (11) Cons. St. Sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32, in www.dejure.it. (12) M. D�ALBERTI, Lezioni di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 288. responsabilit� precontrattuale, extracontrattuale o contrattuale. L�orientamento giurisprudenziale (13) e dottrinale (14) che accoglie la tesi della responsabilit� precontrattuale fonda le propria teoria sull�art. 1337 c.c., ovvero nel rispetto del principio di buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. Pi� precisamente la buona fede, intesa in senso oggettivo, e espressione del principio di solidariet� contrattuale nella duplice accezione, negativa come dovere di astenersi da qualsiasi condotta lesiva dell�interesse altrui, e positiva, come dovere di salvaguardare nei limiti di un apprezzabile sacrificio gli interessi della controparte, sicch� si ritiene che dal fatto giuridico dell�instaurazione fra le parti delle trattative contrattuali discende ex lege l�obbligazione di buona fede (oggettiva) dal cui inadempimento deriva il risarcimento del danno ex 1218 c.c.. Differente orientamento (15) basa i propri convincimenti invece sul presupposto che la pubblica amministrazione, rispetto a un privato, non possa considerarsi come il �c.d. terzo qualunque� poich� il provvedimento amministrativo lesivo � preceduto dal rapporto giuridico che si instaura tra cittadino ed amministrazione nel corso del procedimento amministrativo, cosi come regolato dalla l. 241/90. In base a tale interpretazione, c.d. �da contatto amministrativo qualificato�, la responsabilit� andrebbe condotta nell�ambito della c.d. responsabilit� contrattuale ex art. 1218 c.c. Questo indirizzo dottrinale afferma che il cittadino di fronte all�attivit� autoritativa dell�amministrazione vanta, se non un diritto al conseguimento di un bene della vita almeno una pretesa che la pubblica amministrazione agisca nel rispetto delle regole che devono scandire l�attivit� procedimentale; si configura in tal modo una responsabilit� per violazione dei c.d. obblighi di protezione, senza obbligo primario di prestazione. La fonte di questi obblighi viene individuata nell�ultima parte dell�art. 1173 c.c. che che sancisce l�atipicit� delle fonti delle obbligazioni rinviando ad ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformit� dell�ordinamento giuridico, in particolare il procedimento amministrativo costituirebbe il fatto generatore di obblighi di protezione in capo alla pubblica amministrazione. Secondo invece una interpretazione pi� decisa, l�illegittimo esercizio del- l�attivit� amministrativa configura l�inadempimento di un obbligazione avente a oggetto una vera e propria prestazione. Si afferma quindi che oltre a uno specifico obbligo di correttezza, diretta applicazione del principio di imparzialit�, sulla pubblica amministrazione gravano specifici obblighi di prestazione coincidenti con le singole fasi scandite dalla legge sul procedimento amministrativo. Entrambe le soluzioni esposte, ovvero sia la responsabilit� precontrattuale (13) Cons. St. Sez. V, 30 dicembre 2011, n. 7000. (14) P. FAVA, La responsabilit� civile, Giuffr�, Milano, 2009, pag. 374. (15) T.A.R. Palermo, Sicilia, Sez. II, 26 giugno 2012, n.1300; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 5 giugno 2012 n. 2646; Cons. St., Sez. IV, 27 novembre 2010, n. 829, in www.dejure.it. che contrattuale, convengono tuttavia, anche se attraverso strade differenti, nel ricondurre la responsabilit� all�art. 1218. c.c. giungendo dunque a una medesima disciplina in tema di onere della prova. Ad ogni modo, qualsiasi sia la natura riconosciuta alla responsabilit� della pubblica amministrazione, rimane immutata la circostanza che essa non possa prescindere dalla sussistenza dell�elemento soggettivo, presente in ciascuna delle esaminate ipotesi di responsabilit�. Come precedentemente accennato, l�orientamento dominante in giurisprudenza e in dottrina (16) � quello che configura la responsabilit� della pubblica amministrazione come aquiliana. Nel caso di specie, tale impostazione � stata accolta dal giudice di primo grado il quale aveva affermato che la responsabilit� civile della pubblica amministrazione, pur presentando connotazioni di specialit�, sia in relazione alla qualificazione pubblica ed autoritativa del soggetto agente che in considerazione della natura pubblica degli interessi sottesi all'esplicazione della funzione amministrativa, deve essere ricompresa nello schema generale della responsabilit� civile aquiliana. Il giudicante specificava inoltre che, per poter riconoscere come responsabile della lesione inferta alla posizione del privato e, quindi, obbligata al risarcimento del danno l'amministrazione, devono sussistere, dunque, tutti gli elementi costitutivi dell'illecito extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c.: antigiuridicit� del comportamento, identificata con l'illegittimit� dell'atto amministrativo, danno provocato al singolo mediante tale comportamento, nesso di causalit� tra il comportamento antigiuridico ed il danno, elemento soggettivo. Secondo il costante orientamento che si ricava dalle pi� recenti decisioni in tema di responsabilit� civile della pubblica amministrazione, il risarcimento del danno non � una conseguenza automatica dell'annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cio� la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell'amministrazione, l'esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l'illecito ed il danno subito e, riguardo all'elemento soggettivo, � indispensabile accedere ad una nozione di tipo oggettivo, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonch�, della gravit� della violazione commessa dall'amministrazione, anche alla luce dell'ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse e dei precedenti giurisprudenziali. La responsabilit� va affermata quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato; viceversa, va negata quando l'indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di (16) S. PUDDU, Colpa dell�apparato e rapporto procedimentale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011, pag. 75. contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessit� della situazione di fatto. 4. L�irrilevanza dell�accertamento della colpa in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici. In posizione di rottura rispetto all�orientamento della giurisprudenza nazionale dominante � invece la decisione del Consiglio di Stato sez. V n. 5686/2012 che, recependo la giurisprudenza europea, stravolge l�impostazione tipica della responsabilit� in tema di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti di pubblici lavori, servizi e forniture. Il giudicante richiama la pronuncia emessa dalla Terza Sezione della Corte di Giustizia dell�Unione Europea in data 30 settembre 2010, C314/09 secondo cui la vigente normativa che regola le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti non consente che il diritto ad ottenere il risarcimento danno da una Amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinata al carattere colpevole di tale violazione. In particolare la Corte di Giustizia, confermando un indirizzo gi� manifestato in ambito europeo (17), precisa che il principio di effettivit� delle garanzie � soddisfatto soltanto a condizione che la possibilit� di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norma sugli appalti pubblici non sia subordinata all�accertamento dell�esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall�amministrazione aggiudicatrice, poich� nel momento in cui si consente di vincere la presunzione di colpevolezza su essa gravante, emerge l�evidente pericolo che il soggetto danneggiato da una decisione illegittima venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l�Amministrazione riesca a vincere la suddetta eventuale presunzione di colpevolezza. In altri termini, a parere della Corte di Giustizia, la regola comunitaria, prevista dall�art. 2. n. 1, lett. c) nonch� dal sesto �considerando� dell�originaria direttiva 89/665/89 CEE, fondata sull�effettiva tutela degli interessi delle imprese nel settore degli appalti pubblici, configura una responsabilit� non avente natura n� extracontrattuale n� contrattuale ma oggettiva, quindi fondata sulla mera illegittimit� del provvedimento amministrativo. Emerge quindi che nelle norme appena richiamate non viene in alcun modo indicato che la violazione delle norme sugli appalti pubblici rivolta ad ottenere il risarcimento del danno a favore di colui che ha subito un pregiudizio debba presentare caratteristiche particolari, quale � quella di essere connessa ad una colpa, provata o presunta, dell�amministrazione. Da ci� deriva, da un lato, che non pu� gravare su colui che ha subito un pregiudizio l�onere di provare che il danno proveniente dal provvedimento (17) Corte di Giustizia 14 ottobre 2004, C275/03, in www.eur-lex.europa.eu. illegittimo sia conseguenza di una colpa dell�Amministrazione, dall�altro che non possa l�amministrazione sottrarsi all�obbligo di risarcire il danno cagionato da un suo provvedimento illegittimo adducendo l�inesistenza a proprio carico dell�elemento del dolo o della colpa. Il rispetto dei principi di equivalenza ed effettivit�, e in particolare il tentativo di uniformare la disciplina europea in tema di appalti, nel caso in cui tale indirizzo non fosse recepito dal giudice nazionale, rischierebbe di essere svuotato da un inquadramento nazionale che subordina l�ottenimento del risarcimento danni da parte del danneggiato al riscontro dell�elemento soggettivo della responsabilit� della pubblica amministrazione. Orbene, i giudici di Palazzo Spada, accolto l�orientamento sopra citato, sottolineano che il ricorrente che non ottiene direttamente il bene a cui aspira, ovvero la riedizione della gara di appalto, pu� legittimamente avanzare la richiesta di risarcimento per il danno subito. Se, tuttavia, in quest�ultima ipotesi si ammettesse la possibilit� di provare l�assenza di colpa della pubblica amministrazione, � facilmente comprensibile come il privato rischierebbe di rimanere privo di qualsiasi tipo di tutela. La decisione in esame, accolta dalla parte minoritaria della giurisprudenza (18) ispirata all�intento di garantire una tutela effettiva in una materia che investe i valori della concorrenza e della trasparenza del mercato appare inconciliabile con il tentativo compiuto dalla giurisprudenza amministrativa, tramite lo strumento delle presunzioni semplici ritenute idonee a superare le limitazioni poste a livello europeo con la Dir. 89/665/CEE, di collegare l�approccio comunitario con i tradizionali principi in materia. Parte della dottrina (19) ha osservato che il modello di responsabilit� appena delineato dovrebbe applicarsi esclusivamente al settore disciplinato dalle direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE, ovvero le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, come chiarito dal terzo considerando della Dir. 89/665/CEE che specifica come l�apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un�implementazione degli strumenti di tutela per il danneggiato, coerentemente con i principi di trasparenza e non discriminazione. L�obbiettivo che si pone a fondamento di tali disposizioni � quello di garantire l�effettivit� delle regole comunitarie sulla concorrenza attraverso ricorsi rapidi ed efficaci. Secondo un�opposta opinione (20), invece, le procedure di affidamento dei contratti pubblici non sono cos� diverse dalle procedure concorsuali per (18) Cons. St., Sez. V, 24 febbraio 2011 n. 1993; T.A.R Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 5 aprile 2011 n. 98; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 9 settembre 2011 n. 4371; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 19 ottobre 2011 n. 2493, in www.dejure.it. (19) CIMINI, op. cit. in www.giustamm.it. (20) GUIDO VELTRI, La parabola della colpa nella responsabilit� da provvedimento illegittimo: riflessioni a seguito del codice del processo e della recente giurisprudenza. in www.studiolegaleriva.it. l�assunzione del personale a tal punto da giustificare la ragionevole persistenza di un modello differenziato di responsabilit� rispetto alla generale azione della pubblica amministrazione ed alla tutela degli interessi legittimi negli altri settori dell�ordinamento. Si sostiene, quindi, che se la tutela deve essere accessibile, rapida ed effettiva, non sussiste motivo per circoscrivere tale garanzia esclusivamente a determinati ambiti. A ben vedere, che la tutela risarcitoria in materia di appalti possa avere corsie preferenziali o differenziate in punto di effettivit� e celerit� lo ha da subito affermato la giurisprudenza all�inizio della propria opera di delimitazione dell�ambito di applicazione dei riti speciali ed accelerati, chiarendo che �il rito accelerato si deve applicare quando la domanda proposta in giudizio, rientrante tra quelli di cui all�art. 23 bis, c. 1, L. n. 1034/1971, non abbia il mero risarcimento del danno, ma riguardi anche l�annullamento di atti amministrativi� (21). Il Consiglio di Stato inoltre, per corroborare la tesi della natura oggettiva della responsabilit� amministrativa, richiama il criterio della �natura delle cose�(22) come metodo di ricostruzione sistematica tra ordinamento nazionale e comunitario. Tale teoria, sostenuta da autorevole dottrina (23), ponendosi in antitesi con il formalismo e legalismo giuridico, afferma che l�armonizzazione del diritto comunitario debba avvenire attraverso la recezione della sfera economica e sociale dello strumento pi� idoneo a conseguire la finalit� prefissata in rapporto ai criteri di uguaglianza e proporzionalit�. Nel caso di specie viene quindi affermato che, � la normativa sulla responsabilit� che deve modellarsi sulla natura delle cose nel caso di esistenza del danno, non � la normativa che pu� individuare i presupposti per la risarcibilit� del danno, poich� il danno, come fattore oggettivamente esistente deve legittimare il risarcimento. Ci� comporta che ogni danno che sia conseguenza immediata e diretta della violazione di norme in tema di appalti, possa per ci� solo definirsi idoneo a legittimare un adeguato ristoro. 5. Conclusioni. Sebbene la tesi della natura oggettiva della responsabilit� da attivit� provvedimentale della pubblica amministrazione sia accolta dalla dottrina (24) � necessario ricordare che nel nostro ordinamento la regola vigente (art. 2043 c.c.) � fondata imprescindibilmente sul principio della colpa, inteso come cri (21) Cons. giust. amm. Sicilia Sez. giurisd. 14 settembre 2009, n. 788, in www.giustizia-amministrativa. it. (22) M. PROTTO, Il Rapporto Amministrativo, Giuffr�, Milano, 2008, pag. 134 in Responsabilit� civile e previdenza. (23) F. MERUSI, La natura delle cose come criterio di armonizzazione comunitaria nella disciplina degli appalti pubblici, 1997, pag. 39. in Riv. It. Dir. pubbl.. (24) L. GAROFALO, Verso un modello autonomo di responsabilit� dell�Amministrazione, 2005, 1060 e ss. in Urbanistica e Appalti. terio di imputazione della responsabilit� per tutti i danni ingiusti che non trovano una specifica disposizione normativa. Una nuova ipotesi di responsabilit� necessiterebbe, quindi, di una espressa previsione legislativa, poich� se si escludono i riferimenti alle pronunce della Corte di Giustizia, non esiste nessuna norma che possa giustificare un differente trattamento nei confronti dell�amministrazione pubblica rispetto ai singoli cittadini, ammesso che anche qualora fosse presente sia compatibile con il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione all�art. 3. Il testo del Trattato istitutivo della Comunit� Europea, attualmente, non colloca le decisioni della Corte di Giustizia tra le fonti del diritto e non conferisce a queste ultime un�efficacia extraprocessuale sicch� tale scelta necessita di una espressa norma, comunitaria o nazionale, e non pu� quindi essere affidata all�interprete, in particolare nei casi, come quello in esame, in cui l�orientamento adottato dal giudice di Lussemburgo si colloca in contrasto con l�indirizzo storicamente accolto dalla giurisprudenza nazionale maggioritaria. La tutela della concorrenza, principio pacificamente riconosciuto in ambito europeo (25), richiamata dalla Corte di Giustizia per fondare il regime di responsabilit� oggettiva, bench� tutelato dalla nostra Costituzione all�art. 41, non pu� derogare al principio di uguaglianza poich�, come affermato dalla Corte Costituzionale (26), l'esercizio dei poteri normativi delegati all'Unione Europea trova un limite nei principi fondamentali dell'assetto costituzionale e nella maggiore tutela dei diritti inalienabili della persona. L�art. 3 della Costituzione non pu� quindi essere derogato in quanto rientrante tra i principi inviolabili presenti nella nostra Costituzione, sicch� la tesi che ammette una deroga al suddetto principio, consistente in un regime differenziato di responsabilit� per la pubblica amministrazione, in favore della tutela della concorrenza non pu�, secondo un interpretazione costituzionalmente orientata, essere accolta. Peraltro come notato da tempo da un�attenta dottrina (27) non sussiste alcuna valida ragione per escludere che i principi generali previsti dal codice civile in materia di obbligo di risarcimento per danno ingiusto si applichino anche alle Amministrazioni pubbliche, neppure quando il danno consegua ad una attivit� di diritto pubblico degli enti medesimi. Differente dottrina (28) ritiene, al contrario di quanto sopra esposto, che il regime di responsabilit� oggettiva, accolto parzialmente dalla giurisprudenza italiana a seguito dell�impulso fornito dal giudice di Lussemburgo, avrebbe (25) Titolo VI, capo I, Trattato Istitutivo della Comunit� Europea. (26) Corte Costituzionale, 24 giugno 2010, n.227, in cortecostituzionale.it. (27) E. CASETTA, L�illecito degli entri pubblici, Giappichelli, Torino, 1953, pag. 106 e ss. (28) R. CAROCCIA, Lo strano caso del legislatore statale in linea con le direttive europee. in www.giustamm.it. dovuto imporsi immediatamente dopo l�entrata in vigore del Codice del Processo Amministrativo alla luce delle disposizioni nello stesso presenti. In particolare si sottolinea che in virt� dell�art. 124 c.p.a. o il giudice accoglie la domanda di conseguire la aggiudicazione e il contratto, al verificarsi delle condizioni previste dagli artt. 121 c. 1 e 122, o nel caso di dichiarazione di inefficacia non doverosa, qualora non ritenga di comandare il subentro di questi nel rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione �dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato�. Il codice del processo amministrativo prevede dunque la possibilit� di ottenere, da un lato, il conseguimento dell�aggiudicazione o del contratto, c.d. risarcimento in forma specifica, e dall�altro, nel caso in cui il giudice non concede il bene della vita a cui il ricorrente aspira, il risarcimento per equivalente. Si nota immediatamente che, a differenza della disposizione prevista dall�art. 2043 c.c, la parola �danno� non � seguita dall�aggettivo �ingiusto�, n� sono presenti i parametri psicologici di qualsiasi facere antigiuridico, ovvero �doloso o colposo�. Al contrario l�art. 2 bis della l. 241/90 che disciplina le conseguenze del ritardo dell�amministrazione nella conclusione del procedimento specifica esattamente il tipo di danno, ovvero �ingiusto�, rendendo facilmente riconducibile alla responsabilit� aquilina la disciplina prevista dalla legge sul procedimento amministrativo. Tale differenza di terminologia che si manifesta con il silenzio del legislatore nella previsione dell�art. 124 c.p.a, lungi dall�essere una dimenticanza, conduce a configurare l�articolo in questione come una vera e propria deroga all�ordinario principio di responsabilit� amministrativa come configurato dalla sent. 500/99, e con ci� legittimando la tesi di una responsabilit� svincolata dall�elemento soggettivo del dolo o colpa. Inoltre � opportuno rilevare che la stessa ratio che si pone a fondamento della gara di appalto di forniture e servizi si fonda sull�individuazione dell�impresa pi� efficiente presente sul mercato, se tale intento non pu� essere realizzato a causa del cattivo esercizio del potere amministrativo spetta all�impresa pretermessa un risarcimento monetario. Il rimedio per equivalente non costituisce perci� un rimedio risarcitorio in senso stretto ma una misura sostitutiva della tutela specifica, sostanziandosi nell�attribuzione del bene della vita in ragione del suo valore economico. In sostanza non si tratta di una domanda risarcitoria tout court ma dell�accoglimento della stessa domanda di esatto adempimento proposta dal ricorrente che chieda l�aggiudicazione del contratto, con la mera sostituzione del bene della vita in senso specifico con il suo surrogato economico (29). Tale teoria non tiene tuttavia conto che numerosi sono gli inconvenienti di una responsabilit� oggettiva. Certamente � importante tenere in considera (29) F. CARINGELLA, Manuale di diritto Amministrativo, VI edizione, Dike, Roma, 2012, p. 251. zione l�insostenibile esborso economico a cui sarebbe soggetto lo Stato con conseguente paralisi dell�attivit� amministrativa (30). Alla luce delle considerazioni fin qui condotte, pare ragionevole ritenere che nel nostro ordinamento la responsabilit� della pubblica amministrazione per i danni cagionati da illegittimo esercizio della funzione non possa che rimanere attratta nell�orbita civilistica, almeno fino a quando non ci sar� una specifica disciplina legislativa che indichi un regime differente. Inoltre sarebbe difficilmente giustificabile, secondo i parametri costituzionali vigenti, una tutela risarcitoria dell�interesse legittimo che muta il punto di partenza, ovvero la natura giuridica extracontrattuale o oggettiva, in base alla materia oggetto della controversia. Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 8 novembre 2012 n. 5686 -Pres. ff. Carlo Saltelli, Est.. Paolo Giovanni Nicol� Lotti - All System S.p.A. in proprio e quale mandataria R.T.I. (avv. ti Alessandra Sandulli, Massimo Falsanisi e Roberto Invernizzi) c. Comune di Milano, (avv.ti Maria Rita Surano, Raffaele Izzo, Maria Teresa Maffey e Stefania Pagano). FATTO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, sez. I, con la sentenza n. 1811 del 14 giugno 2010, ha in parte respinto, in parte dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall�attuale appellante per il risarcimento in forma specifica, o in subordine per equivalente, anche in applicazione dell�art. 35 d.lgs. 80/1998, in relazione ai pregiudizi patiti e patiendi dalle ricorrenti a causa di atti e comportamenti impugnati, nonch� a causa dell�illegittima mancata aggiudicazione del servizio di sorveglianza presso il Palazzo di Giustizia e presso altri uffici, da espletare a mezzo di guardie giurate e fornitura/installazione di telecamere, durante il periodo 15 giugno 2007-14 giugno 2010�; per l�accertamento del diritto delle ricorrenti ex art. 115 d.lgs. 163-06 a praticare per il servizio il prezzo di cui all�offerta da esse presentata nella gara di cui al servizio predetto, maggiorato con l�applicazione degli indici revisionali maturati dal momento della presentazione dell�offerta medesima; per l�accertamento dell�illegittimit� e della nullit� della clausola contrattuale che vorrebbe imporre la deroga patrizia all�entit� degli interessi per ritardato pagamento stabilita ex d.lgs. 231-02 e direttiva 2000/35/CE; nonch� per l�annullamento degli atti connessi, con i quali l�amministrazione si � limitata a reintegrare parte ricorrente solo per il periodo residuale di otto mesi (note comunali e relativi verbali del 21.9.09, 2.10.09, 14.10.09, 22.10.09; atto dirigenziale n. 410 dell�1.10.09; schema di contratto sottoposto dal Comune). Il TAR ha fondato la sua decisione rilevando, sinteticamente, che, con bando pubblicato in data 19 aprile 2007, il Comune di Milano aveva indetto una procedura aperta, con il criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa, per l�affidamento del servizio di sorveglianza mediante guardie particolari giurate, con fornitura e installazione di telecamere, presso il Palazzo di Giustizia e l�Aula Bunker di piazza Filangieri, Milano, (lotto I) e presso altri Uffici Giudiziari (lotto II); la durata prevista dell�appalto era dal 15 giugno 2007 al 14 giugno 2010. (30) S. CIMINI, op. cit. in www.giustamm.it. Con precedente sentenza n. 3052 del 28 luglio 2008, previa pubblicazione del dispositivo in data 30 aprile 2008, il TAR aveva respinto il ricorso intentato dall�attuale appellante per l�annullamento degli atti della gara in contestazione; il Comune aveva conseguentemente stipulato il contratto con l�originario aggiudicatario per i due lotti, avente come termine finale il 14 giugno 2010, nelle date del 27 giugno e 3 luglio 2008. Tale sentenza era stata riformata da questo Consiglio, con sentenza n. 5096 del 27 agosto 2009, previa pubblicazione del dispositivo in data 8 maggio 2009. In seguito alla pubblicazione di tale ultima decisione, il Comune di Milano, nel mese di settembre 2009, aveva rinnovato le operazioni di gara e riformulato la graduatoria, disponendo, in data 24 ottobre 2009, il subentro della ricorrente, risultata al primo posto della graduatoria del lotto in questione, nell�esecuzione del contratto, per la residua validit� di circa otto mesi, fino al 14 giugno 2010. Il contratto veniva, poi, sottoscritto il 12 marzo 2010. Il TAR ha osservato che dall�andamento degli avvenimenti succedutisi, cos� come descritti, non poteva rinvenirsi in capo all�Amministrazione la sussistenza dell�elemento soggettivo della colpa, indispensabile al fine della possibilit� di configurazione dell�imputazione di responsabilit� civile nei confronti della stessa. Il TAR, quindi, ha in parte respinto il ricorso, quanto alla domanda risarcitoria, e, per il resto, lo ha dichiarato inammissibile nella parte in cui era stato rivolto avverso le clausole contrattuale che derogavano alle ordinarie scadenze e alle decorrenze degli interessi legali, sostanzialmente per difetto di giurisdizione. L�appellante ha contestato la sentenza del TAR chiedendo l�accoglimento dell�appello quanto alla censura avverso l�assunta omissione della revisione prezzi ai sensi dell�art. 115 del d.lgs. n. 163-06, poich� tale clausola era mutata nel contratto rispetto alla bozza prodotta dalla ricorrente in senso favorevole alla stessa e quanto alla censura concernente la clausola relativa alla deroga pattizia all�entit� degli interessi per ritardato pagamento, afferendo all�esecuzione contrattuale e, quindi, alla giurisdizione del giudice ordinario. Si � costituito il Comune, chiedendo il rigetto dell�appello. All�udienza pubblica del 3 luglio 2012 la causa � stata trattenuta in decisione. DIRITTO Rileva il Collegio che il primo e centrale motivo di appello � incentrato sull�individuazione, in capo all�Amministrazione, della sussistenza dell�elemento soggettivo della colpa, ritenuta dal TAR indispensabile al fine della possibilit� di configurazione dell�imputazione di responsabilit� nei confronti della stessa. Questa Sezione deve rilevare che, con sentenza in data 30 settembre 2010, C-314/09, la Terza Sezione della Corte di Giustizia dell�Unione Europea (cfr. anche Consiglio di Stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482) ha affermato che la vigente normativa europea che regola le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi non consente che il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da una Amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione. Secondo la Corte, il rimedio risarcitorio previsto dall'art. 2, n. 1, lett. c), dell�originaria direttiva 89/665/CEE pu� costituire, se del caso, un'alternativa procedurale compatibile con il principio di effettivit� delle garanzie offerte soltanto a condizione che la possibilit� di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata, cos� come non lo sono gli altri mezzi di ricorso previsti dal citato art. 2, n. 1, alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'Amministrazione aggiudicatrice. Poco importa, per il giudice comunitario, che un ordinamento nazionale non faccia gravare sul ricorrente l'onere della prova dell'esistenza di una colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice, ma la presuma a carico della stessa; infatti, dal momento in cui si consente a quest'ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, si genera ugualmente il rischio che il ricorrente pregiudicato da una decisione illegittima di un'Amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l'Amministrazione riesca a vincere la suddetta eventuale presunzione di colpevolezza. La decisione qui riassunta, pur non introducendo elementi di novit� rispetto ad altra precedente decisione della stessa Corte in data 14 ottobre 2004, C-275/03, che aveva sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei danni cagionati da violazioni del diritto comunitario in materia di pubblici appalti all'allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico fossero stati commessi colposamente o dolosamente, ribadisce in modo chiaro e univoco che, in materia di appalti pubblici, da un lato non possa gravare sul ricorrente danneggiato l'onere di provare che il danno derivante dal provvedimento amministrativo illegittimo sia conseguenza di una colpa dell'Amministrazione; dall'altro lato, che non possa l'Amministrazione sottrarsi all'obbligo di risarcire i danni cagionati da un suo provvedimento illegittimo adducendo l'inesistenza a proprio carico di elementi di dolo o di colpa. In altre parole, la regola comunitaria vigente in materia di risarcimento dei danno per illegittimit� accertate in materia di appalti pubblici per avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi configurerebbe una responsabilit� non avente natura n� contrattuale n� extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poich� derivante da principio generale funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici. Intesa in questo senso, � dunque evidente che tale regola non pu� essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia di effettivit� della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel Codice appalti (art. 2 d. lgs. 163-06). Per certi versi, in questo settore, viene di nuovo in rilievo il modello, lungamente adottato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, della colpa in re ipsa, che obliterava, infatti, l'elemento soggettivo nell'illecito provvedimentale, ritenendolo implicita nell'illegittimo esercizio della funzione e/o nell'esecuzione di un atto illegittimo. Al riguardo, � noto che, con il revirement della Cassazione nella sentenza n. 22 luglio 1999 n. 500, si � affermato expressis verbis che dall'illegittimit� di un atto non pu� pi� essere evinta l'illiceit�. La sistematica della colpa si trova oggi, tuttavia, a dover essere rimeditata non solo in generale alla luce della novella azione di condanna al risarcimento, positivizzata dal Codice del processo amministrativo (ex art. 30), questione che esula dal perimetro del presente giudizio; ma soprattutto, come detto, in relazione alla responsabilit� civile della P.A. nel campo degli appalti pubblici, rispetto al quale il giudice comunitario ha mostrato di confermare l'orientamento invalso gi� a partire dalla pronuncia resa in occasione del caso Brasserie du p�cheur � Factortame (CGE 5 marzo 1996, Cause riunite C-46/93 e C-48/93), secondo cui si deve configurare la responsabilit� in senso oggettivo, atteso che il rimedio risarcitorio contemplato dalla diret tiva 89/665/CEE pu� effettivamente rivelarsi un efficace mezzo di ristoro soltanto a condizione che la possibilit� di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'Amministrazione aggiudicatrice. In questo modo si conferisce massima importanza ai principi di equivalenza e, soprattutto, di effettivit�, garantendo nel contempo in tutto il territorio dell'Unione un'uniforme disciplina degli appalti pubblici. L�effettivit� del comando normativo non viene perseguita attraverso prescrizioni di regolazione dei procedimenti amministrativi, ma avviene attraverso il versante delle garanzie, giurisdizionali o paragiurisdizionali: la direttiva 89/665, nei suoi considerando (e ancor pi� le successive direttive di codificazione attualmente vigenti, nonch� la nuova direttiva ricorsi 66/2007/CE), rilevano l'assenza, sia sul piano dei diritti nazionali che su quello del diritto comunitario, di adeguati strumenti di garanzia dell'applicazione effettiva della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici, determinando un freno alla partecipazione delle imprese comunitarie alle gare e, dunque, incidendo sulla libera circolazione dei servizi. Il fatto che manchino rimedi validi ed efficaci avverso le violazioni del diritto comunitario riduce la concorrenza comunitaria e determina un allontanamento dai fini del Trattato, improntata in questo settore ai principi della massima concorrenza e della non discriminazione. La disciplina comunitaria della concorrenza � rivolta, infatti, essenzialmente alla tutela delle posizioni soggettive delle imprese, cui dovrebbe corrispondere in capo alla Pubblica Amministrazione l'obbligo di tenere un corretto comportamento verso i concorrenti alle gare pubbliche; tale intento rischierebbe con ogni probabilit� di essere frustato da una disciplina nazionale che subordinasse l'ottenimento del risarcimento dei danni, da parte dell'offerente offeso, al previo positivo riscontro dell'elemento soggettivo della responsabilit� della Pubblica Amministrazione. L�ordinamento comunitario dimostra che ci� che rileva � l�ingiustizia del danno e non l�elemento della colpevolezza; ci� determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione � inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti da principi caratterizzati da pi� larga acquisizione, poich� il ravvicinamento e l'armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come � quello della responsabilit� piena della P.A. senza aree di franchigia. Peraltro, l'assenza, nella disciplina comunitaria degli appalti, di qualsivoglia riferimento ad un'indagine in ordine all'elemento soggettivo della responsabilit�, lungi dall'essere una dimenticanza, si spiega ponendo mente al fatto che, di norma, la via del risarcimento per equivalente viene percorsa qualora risulti preclusa quella della tutela in forma specifica; la reintegrazione in forma specifica rappresenta, peraltro, in ambito amministrativo l'obiettivo tendenzialmente primario da perseguire e il risarcimento per equivalente costituisce invece una misura residuale, di norma subordinata all'impossibilit� parziale o totale di giungere alla correzione del potere amministrativo, come dimostra, d�altra parte, anche la vicenda giurisprudenziale e normativa relativa alla dichiarazione di inefficacia del contratto d�appalto, come da ultimo risolta per effetto del d. lgs. n. 53-2010, le cui previsioni sono confluite nel Codice del processo amministrativo agli artt. 121 e ss. In tal modo, dunque, il ricorrente che non ottiene direttamente il bene della vita a cui aspira, ossia la riedizione della gara o l'aggiudicazione definiva pu� aspirare alla monetizzazione del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro venisse resa impraticabile o assolutamente impervia, il privato rischierebbe di restare sprovvisto di qualsiasi forma di tutela. Quanto prefigurato � esattamente ci� che accade qualora una normativa nazionale subordini il risarcimento del danno al positivo riscontro della colpa della stazione appaltante. D�altra parte, anche in applicazione del metodo della natura delle cose, proposto da autorevole dottrina come criterio di armonizzazione comunitaria nella disciplina sugli appalti, � la normativa sulla responsabilit� che deve modellarsi sulla natura della cosa, nel caso sull'esistenza del danno, non � la normativa che pu� individuare i presupposti per la risarcibilit� del danno, poich� � il danno, come fattore oggettivamente esistente, infatti, che deve legittimare il risarcimento; ci� porta a ritenere che ogni danno che sia conseguenza immediata e diretta della violazione di norme in tema di appalti pubblici possa, per ci� solo, definirsi ingiusto e, come tale, meritevole di adeguato ristoro. Nel caso di specie, superata in questo modo la questione della colpa da cui si pu�, dunque, prescindere per configurare la risarcibilit� dei danni per equivalente in materia di appalti pubblici, il Collegio ritiene sussistenti anche tutte le altre componenti dell�illecito e cio�: l�illegittimit� dell�agire comunale, dedotto sulla base della decisione di questo Consiglio n. 5096-09 citata; il nesso di causalit�, atteso che, riammesso in gara, l�appellante l�ha vinta; infine, il danno, consistente nella mancata integrale esecuzione del contratto. In concreto, sotto il profilo della quantificazione del danno, poich� l�originario affidamento avrebbe dovuto coprire trentasei mesi, nella parentesi temporale tra il 15 giugno 2007 e il 15 giugno 2010 e poich� per circa ventotto mesi, dal giugno 2007 all�ottobre 2009, il servizio � stato svolto in forza dell�illegittima originaria aggiudicazione, tale ultimo periodo costituisce il parametro per la liquidazione dei danni; danni che sono rappresentati, dunque, dal mancato utile conseguito in questo periodo dall�appellante che non ha potuto svolgere il servizio per effetto dell�illegittima aggiudicazione a terzi. A nulla rileva, come invece eccepisce il Comune, che altri ricorrenti non abbiano interposto appello all�originaria sentenza del TAR, poich� ci� che � centrale nel configurare l�ingiustizia del danno nel caso di specie � rappresentato dall�annullamento dell�aggiudicazione conseguente all�accertamento dell�illegittimit� degli atti, a prescindere dalle condotte di acquiescenza di soggetti terzi che non incidono sulla posizione dell�appellante e, quindi, sulla misura del risarcimento del danno ad esso spettante. Tale parametro (giugno 2007 all�ottobre 2009) deve esser ridotto di un mese, poich� il primo mese � stato svolto dall�odierna appellante in regime di proroga. Non rileva, invece, il fatto, eccepito dal Comune, che dal 14 giugno 2010, giorno di prevista scadenza dell�appalto in questione, All System abbia continuato ad effettuare il servizio di sorveglianza oggetto della sentenza appellata ininterrottamente fino al 30 aprile 2012, atteso che tale periodo non risulta attribuito a fini di ristoro e, comunque, anche se lo fosse stato, rappresenta un�attribuzione illegittima poich� effettuata senza la necessaria procedura di gara, con conseguente configurabilit� di un�illegittimit� amministrativa e di un conseguente possibile illecito contabile. Inoltre, in sede di determinazione del quantum risarcitorio, esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, non essendo oggetto di applicazione automatica e indifferenziata, � necessaria la prova, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, prova desumibile in primis dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara; tale principio trova, in fatti, conferma nell'art. 124 del codice del processo amministrativo che, nel rito degli appalti, prevede il risarcimento del danno (per equivalente) subito e provato. Occorre, quindi, verificare se parte ricorrente ha rispettato il principio basilare sancito dall'art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda: come noto, il diritto entra nel processo attraverso le prove, che devono avere ad oggetto circostanze di fatto precise, e si debbono disattendere le domande risarcitorie formulate in maniera del tutto generica, senza alcuna allegazione degli elementi presupposti. Il Collegio ritiene di sciogliere positivamente il quesito, poich� gli elementi prodotti in giudizio sono sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul quantum spettante a titolo di riparazione pecuniaria, ai fini della formulazione della proposta risarcitoria da parte del Comune e l�eventuale raggiungimento di un accordo con la ricorrente ex art. 34, comma 4, c.p.a. In particolare la stazione appaltante dovr�: - attenersi all'offerta economica presentata dall�appellante in sede di gara; - valorizzare sul punto l'elaborato contenente le giustificazioni delle voci di prezzo che concorrono a formare l'importo complessivo esibito; -tenere in particolare conto di tutte le spese sostenute e sostenibili; - determinare il margine di guadagno che residua dopo l'applicazione del ribasso indicato in sede di gara, anche in relazione all�utile conseguito in concreto nei mesi in cui l�appellante ha potuto gestire il servizio. Il suddetto parametro deve, comunque, essere ridotto in considerazione del fatto che, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione di appalto pubblico e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, come nella specie, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se si dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione. In difetto di tale dimostrazione, che compete comunque al concorrente fornire, � da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum, considerato anche che, ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno (cfr. Consiglio di Stato, questa Sezione, 20 aprile 2012, n. 2317). Pertanto, � pienamente ragionevole stabilire una detrazione dal risarcimento del mancato utile nella misura del 50%. Quanto alla residua questione relativa alla deroga pattizia all�entit� degli interessi per ritardato pagamento, il Collegio rileva che effettivamente tale deroga, in quanto contrastante con l�art. 7 del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, � nulla e tale nullit� pu� essere rilevata d�ufficio incidentalmente ai fini di stabilire l�entit� del risarcimento del danno e, in particolare la sussistenza e l�entit� della mora che, nella responsabilit� aquiliana � prevista dall�art. 1219 c.c. Pertanto, alla luce delle predette argomentazioni, l�appello deve essere accolto, con conseguente risarcimento del danno ai sensi della motivazione, maggiorato di interessi e rivalutazione. Per liquidare l�obbligazione di risarcimento del danno da fatto illecito, infatti, il giudice deve effettuare una duplice operazione; innanzitutto va reintegrato il danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto, dovendosi cos� provvedere alla rivalutazione del credito, cio� alla trasformazione dell�importo del credito originario in valori monetari correnti alla data in cui � compiuta la liquidazione giudiziale; normalmente questa operazione viene effettuata avvalendosi del coefficiente di rivalutazione elaborato dall�Istat, applicando l�indice dei prezzi al consumo per famiglie di ope rai e impiegati, se non dimostrato un diverso indice di rivalutazione. In secondo luogo, dovr� calcolarsi il cd. danno da ritardo, utilizzando il metodo consistente nell�attribuzione degli interessi (c.d. compensativi), da calcolare secondo i criteri gi� fissati dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 1712/95), secondo cui gli interessi (ad un tasso non necessariamente corrispondente a quello legale) vanno calcolati dalla data del fatto non sulla somma complessiva rivalutata alla data della liquidazione, bens� sulla somma originaria rivalutata anno dopo anno, cio� con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici di rivalutazione monetaria. Le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull�appello come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l�effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna il Comune resistente al pagamento delle somme indicate in motivazione a titolo di risarcimento del danno, ai sensi dell�art. 34, comma 4, c.p.a. Condanna il Comune appellato alla rifusione delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, spese che liquida in euro 8.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorit� amministrativa. Cos� deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 luglio 2012. Provvedimento disciplinare inflitto a magistrato ordinario (TAR Lazio, Sez. I quater, sentenza 23 aprile 2013 n. 4064) Giustina Noviello* In materia di impugnazione di atti ministeriali esecutivi di trasferimento disciplinare di magistrato ordinario, sussiste la giurisdizione esclusiva delle Sezioni Unite della Cassazione, ai sensi degli artt. 24 d.lgvo n. 109/2006 e 17, co. 3, l. n. 195/1958. Con la sentenza 23 aprile 2013 n. 4064, il Tar Lazio (Sezione I-Q) prende posizione, in modo chiaro e puntuale, su questione delicata e nuova per il giudice amministrativo: la giurisdizione in tema di esecuzione dei provvedimenti disciplinari adottati nei confronti dei magistrati ordinari e, segnatamente, dei trasferimenti disciplinari (nella specie, si trattava di ricorso proposto da giudice della sezione fallimentare del tribunale di Roma, avverso gli atti ministeriali esecutivi della sanzione accessoria del trasferimento presso il tribunale de l'Aquila, inflitta - unitamente alla sanzione della perdita di anzianit� di sei mesi - con sentenza della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, passata in giudicato). Sembra opportuna una breve riflessione preliminare: la materia disciplinare, da sempre punto nodale e di particolare pregnanza nel settore del pubblico impiego, assume connotazioni di estrema rilevanza quando si tratta della magistratura: se la violazione degli obblighi inerenti la prestazione lavorativa, integrante ipotesi di illecito disciplinare, deve sempre essere perseguita con immediatezza e seriet� dall'Amministrazione datore di lavoro pubblico, tali esigenze (di celerit� ed efficacia) sono presenti in maniera assolutamente potenziata quando a commettere un illecito disciplinare sia un magistrato; questa, in sintesi, la "ratio" della peculiare disciplina, prevista sia in relazione alla fase procedurale (di competenza della Sezione disciplinare del CSM ed avente natura giurisdizionale), sia per la relativa tutela giudiziaria (con giurisdizione esclusiva delle Sezioni Unite della Cassazione, ai sensi dell'art. 24 d.lgvo 23 febbraio 2006 n. 109). Ora, il caso di specie attiene al segmento finale - ma non per questo meno rilevante dal punto di vista pratico - della esecuzione della sanzione irrogata: il magistrato ricorrente aveva impugnato dinanzi al Tar Lazio gli atti ministeriali, adottati ai sensi dell'art. 17 1.n. 195 de1 1958, per l�esecuzione del trasferimento disciplinare. La Difesa erariale ha eccepito il difetto di giurisdizione sotto un doppio aspetto: per essere impugnato, quale atto presupposto, ancora una volta il tra (*) Avvocato dello Stato. sferimento sanzione disciplinare; e perch� lo stesso decreto ministeriale attuativo partecipa della natura giurisdizionale dell'atto cui da esecuzione. Infatti, da un lato, pur in presenza di forrnale impugnazione del provvedimento ministeriale di esecuzione del trasferirnento disciplinare, la ricorrente ha contestato (quale atto presupposto del decreto ministeriale) proprio la decisione della sezione disciplinare, ormai in giudicato. Pertanto, � stato eccepito il difetto di giusrisdizione del giudice amministrativo, sussistendo in materia la giurisdizione della Cassazione a Sezioni unite, ai sensi dell'art. 24, D.Lgvo n. 109/2006 (ove si stabilisce, al comma 1, che il magistrato incolpato pu� proporre <contro i provvedimenti in materia di sospensione cautelare di cui agli artt. 21 e 22 ... ricorso per cassazione, nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale>; e al comma 2 che <La Corte di Cassazione decide a sezioni unite civili, entro sei mesi dalla data di proposizione del ricorso> (1); con conseguente impossibilit� per il giudice amministrativo di adottare, nella specie, misure cautelari, giusta l'art. 10, comma 2, C.P.A.(norma che, come noto, impedisce l'adozione di provvedimenti cautelari, se il giudice "non ritiene sussistente la propria giurisdizione"). D'altra parte, quanto considerato per il trasferimento sanzione disciplinare, vale anche per il conseguente provvedimento ministeriale inerente la presa di possesso. In tal senso, si � richiamata la pur risalente pronuncia delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione n. 9751 del 1983, la quale, in un caso di sospensione disciplinare dalle funzioni e dallo stipendio adottata dalla Sezione disciplinare del C.S.M., ha affermato che: "L'esperibilit� del ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, avverso i provvedimenti in materia disciplinare riguardanti i magistrati, secondo la previsione dell'art. 17 terzo comma della legge 24 marzo 1958 n. 195, va riconosciuta tanto per le statuizioni della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, quanto per i decreti del Capo dello Stato adottati in conformit� di dette statuizioni, vertendosi in tema di atti di natura giurisdizionale, congiuntamente incidenti sulle posizioni soggettive coinvolte dal procedimento disciplinare". Pertanto, ogni questione relativa a provvedimenti meramente attuativi delle statuizioni della Sezione disciplinare spetta alla cognizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in ragione della natura giurisdizionale del provvedimento. La natura meramente attuativa degli eventuali decreti ministeriali successivi alla pronuncia disciplinare � confermata anche da un'altra pronuncia di codeste Sezioni Unite della S.C., la quale afferma che: "In tema di procedi (1) In virt� dell�assetto normativo indicato nel testo devono applicarsi per la fase introduttiva le norme processuali penali e per quella attinente al giudizio quelle processuali civili (sul punto: Cass. Sez. Un. 11 dicembre 2007, n. 25815). mento disciplinare a carico di magistrati, i provvedimenti cautelari provvisori (sospensione dallo stipendio e dalle funzioni), essendo destinati ad operare durante il tempo necessario ad accertare il merito dell'incolpazione e volti a far cessare immediatamente comportamertti lesivi del prestigio della funzione, sono esecutivi anche se impugnati con ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; l�indicata natura cautelare dei suddetti provvedimenti esclude altres� che l'operativita degli stessi possa essere condizionata dalla emanazione del relativo decreto ministeriale di sospensione, decreto che, potendo essere adottato anche a notevole distanza di tempo dalla delibera della sezione disciplinare del C.S.M., ne vanificherebbe le finalit� cautelari, essendo, peraltro, inipotizzabile l�incidenza di un atto dovuto del potere esecutivo (quale l'adozione del provvedimertto di sospensione) sulla immediata efficacia di provvedimenti di natura giurisdizionale quali quelli adottati dalla Sezione disciplinare del C.S.M." (Cass. Sez. Un. 30 luglio 1998 n. 7477). Nella decisione in commento, il Tar Lazio declina la giurisdizione del giudice amministrativo in caso di provvedimenti ministeriali inerenti la fase esecutiva, in base al combinato disposto degli artt. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006 e 17, comma 3, della legge n. 195 del 1958: �� la prima disposizione afferma la giurisdizione delle SS.UU. quanto alle sentenze rese in fase disciplinare, e la seconda quanto a qualsivoglia altro atto conseguente, quando assunto nelle forme del d.P.R. o del D.M.". Sulla questione della natura giuridica degli atti ministeriali impugnati, la sentenza sceglie una via intermedia, argomentando che "... anche senza arrivare ad affermare che i decreti del Capo dello Stato, ovvero del Ministro, condividano tale natura (sul punto, peraltro, Cass. SS.UU. n. 975 del 1983, alla cui statuizione sulla giurisdizione si conforma oggi questo Tribunale), in ogni caso essi si profilano attuativi del comando giurisdizionale, piuttosto che meramente amministrativi. Non � in discussione, infatti, una qualche forma di esercizio della discrezionalit� amministrativa, ma la dovuta esecuzione di una sentenza resa dalla Sezione disciplinare, con cui � stato predeterminato il contenuto dell'atto". Tar Lazio, Sezione I quater, sentenza 23 aprile 2013 n. 4064 -Pres. Elia Orciuolo, Est. Marco Bignami - C.S. (avv.to Mario Sanino) c. Ministero della Giustizia (Avv. Stato). FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso notificato il 6 marzo 2013, e depositato il successivo 8 marzo, la ricorrente, magistrato in servizio presso il Tribunale di Roma, impugna e chiede la sospensione cautelare del decreto del Ministro della giustizia del 7 gennaio 2013, con il quale se ne � disposto il trasferimento al Tribunale dell�Aquila, nonch� del provvedimento del 27 febbraio seguente, con cui si � assegnato termine per assumere le funzioni presso tale sede. Si contesta, anzitutto, la legittimit� del decreto di trasferimento, atteso che esso fa seguito ad una pronuncia disciplinare che non sarebbe definitiva: � stato infatti proposto ricorso innanzi alla Corte di Strasburgo, al fine di far constare violazioni della CEDU verificatesi nella fase del giudizio. In secondo luogo, si impugna per violazione di legge ed eccesso di potere la indicazione, ai fini della presa di possesso, del termine ordinario previsto dall�art. 10 del R.d. 30 gennaio 1941, n. 12. 2. Alla camera di consiglio del 4 aprile 2013 le parti hanno rinunciato ai termini a difesa, al fine di consentire la trattazione del merito del ricorso alla presente udienza. Parte ricorrente ha contestualmente rinunciato alla domanda cautelare. 3. Il ricorso � inammissibile per carenza di giurisdizione, secondo quanto esattamente eccepito dall�Avvocatura dello Stato. Il trasferimento della dott. S. � stato disposto in esecuzione della sentenza resa dalla Sezione disciplinare del Consiglio in data 9 marzo 2012, e divenuta definitiva a seguito di infruttuoso ricorso in Cassazione. All�esito del giudizio, la ricorrente ha subito le sanzioni della perdita di anzianit� per sei mesi e quella del trasferimento al Tribunale dell�Aquila con funzioni di giudice: la sentenza precisa che quest�ultima previsione, come del resto ovvio, costituisce sanzione disciplinare accessoria, ai sensi dell�art. 13 (rectius: art. 13, comma 1) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109. Non � dubitabile che, ai sensi dell�art. 24 di quest�ultimo testo normativo, la giurisdizione a conoscere delle impugnative contro le sentenze pronunciate dalla Sezione disciplinare spetti alle S.U. della Corte di Cassazione. Altra sezione di questo Tribunale, in particolare, ha di recente promosso questione di legittimit� costituzionale con riferimento all�attribuzione della giurisdizione al medesimo supremo giudice, ma esclusivamente nei casi in cui il trasferimento ad altra sede del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare sia stato adottato in via cautelare o comunque provvisoria. Si tratta di ipotesi gi� a prima vista del tutto diversa da quella per cui pende l�odierno giudizio. Ci� detto, il Tribunale osserva che la giurisdizione non pu� certamente radicarsi innanzi al giudice amministrativo, ove venga impugnata non la sentenza disciplinare, ma il decreto ministeriale che � tenuto a recepirne il contenuto, e che costituisce anch�esso un �provvedimento in materia disciplinare�: come � noto, l�art. 17, comma 3, della legge 24 marzo 1958, n. 195 riconosce in tal caso la giurisdizione delle S.U. Ci� avviene operando un rinvio, sia pure limitato ai provvedimenti di carattere disciplinare, a tutti gli atti indicati dal comma 1, ovvero non soltanto alle deliberazioni del Consiglio, ma anzitutto ai decreti del Presidente della Repubblica, o del Ministro, che conferiscono loro forma legale. Il coordinamento tra l�art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006 e l�art. 17, comma 3, della legge n. 195 del 1958 � dunque immediato: la prima disposizione afferma la giurisdizione delle S.U. quanto alle sentenze rese in fase disciplinare, e la seconda quanto a qualsivoglia altro atto conseguente, quando assunto nelle forme del d.P.R. o del D.M. Come � noto, la scelta normativa di rivestire di tale forma le delibere del Consiglio si inserisce in quella forte corrente di ridimensionamento dell�autonomia costituzionale dell�organo di autogoverno, dalla quale mosse il legislatore del 1958, in un�epoca di ripiegamento rispetto agli ideali del Costituente. Ben si comprende, dunque, che in una prima fase dell�attivit� legislativa di attuazione della Costituzione non si sia preso le distanze dal tradizionale modello di inquadramento degli atti concernenti il personale di magistratura quali atti riconducibili, nella forma, a manifestazioni del potere esecutivo, o presidenziale. In seguito, si � tuttavia definitivamente chiarita la autonoma collocazione del Consiglio nel tessuto dell�ordinamento, quale soggetto titolare di una propria quota di potere costituzionale, tanto che oramai se ne ritengono pacificamente impugnabili le delibere. Tuttavia, la formulazione dell�art. 17 non � mutata, ed ha continuato ad investire, piuttosto che le delibere del Consiglio, i provvedimenti del Capo dello Stato, o del Ministro, che le recepiscono: alla luce di ci�, trova conferma la conclusione, secondo cui tale disposizione non solo non � stata tacitamente abrogata (del resto, il primo comma dell�art. 17 � a tutt�oggi oggetto di richiamo da parte dell�art.135, comma 1, lett. a c.p.a.), ma continua pienamente ad operare unitamente all�art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, che ha invece cura di regolare la giurisdizione con diretto riferimento ad un atto dell�organo di autogoverno, quale � la sentenza disciplinare. Del resto, questa soluzione normativa ben si giustifica in ragione dell�opportunit� di concentrare presso un unico giudice ogni controversia attinente alla materia disciplinare, la cui specificit� discende dal carattere giurisdizionale delle pronunce della Sezione competente del Consiglio (Cass. S.U., ordinanze nn. 19566 e 19568 del 2011; id., ordinanza n. 21122 del 2012). Anche senza arrivare ad affermare che i decreti del Capo dello Stato, ovvero del Ministro, condividano tale natura (sul punto, peraltro, Cass. S.U. n. 975 del 1983, alla cui statuizione sulla giurisdizione si conforma oggi questo Tribunale), in ogni caso essi si profilano attuativi del comando giurisdizionale, piuttosto che meramente amministrativi. Non � in discussione, infatti, una qualche forma di esercizio della discrezionalit� amministrativa, ma la dovuta esecuzione di una sentenza resa dalla Sezione disciplinare, con cui � stato predeterminato il contenuto dell�atto. I problemi del tutto specifici che la fattispecie disciplinare comporta, quindi, sono propri e della fase decisoria, e della fase esecutiva, alla quale ultima debbono ricondursi sia il decreto ministeriale che dispone il dovuto trasferimento, sia il conseguente decreto che prescrive la presa di possesso, e che solo apparentemente, in questo caso peculiare, conquista una propria autonomia. Esso, infatti, � anello necessario ai fini dell�esecuzione della sentenza disciplinare, e condivide con il decreto ministeriale di trasferimento la natura di �provvedimento in materia disciplinare� ai sensi dell�art. 17, comma 3, della l. n. 195 del 1958 sopra citata: ogni dilazione dei termini per l�assunzione delle funzioni cui si � stati destinati dalla Sezione disciplinare, infatti, non � in linea astratta estranea agli interessi rilevanti nell�ambito del relativo giudizio, e dei quali conoscono in sede giurisdizionale le S.U. Difatti, l�art. 10 dell�ordinamento giudiziario consente al Ministro di abbreviare il termine ordinario per la presa di possesso, pari a 30 giorni, ovvero di prorogare per non oltre 6 mesi l�esercizio delle funzioni nelle quali il magistrato � gi� immesso. Ma, nell�ipotesi in cui il trasferimento alla nuova sede abbia natura di sanzione disciplinare, un qualsivoglia prolungamento della permanenza del magistrato condannato presso la sede originaria compromette l�immediata efficacia della sanzione stessa. Perci�, appare del tutto congrua la scelta del legislatore di affidare anche le controversie che ne possano nascere alle Sezioni Unite, che hanno giurisdizione sul provvedimenti in materia disciplinare. Non spetta a questo Tribunale dilungarsi su di un profilo attinente al merito della controversia, ma ugualmente non � improprio osservare incidentalmente che, a fronte dell�obbligo di eseguire la sanzione disciplinare, � persino dubitabile che il Ministro possa concedere il posticipato possesso per �ragioni di servizio�, posto che nel caso di specie non si tratta di bilanciare le esigenze contrapposte degli uffici giudiziari coinvolti, ma piuttosto di porre in esecuzione, senza margine di discrezionalit�, la sanzione disciplinare. Avanti alla suprema Corte il ricorso potr� essere riassunto, nel termine perentorio di tre mesi indicato dall�art. 11 del c.p.a. 4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in euro 2500,00, di cui 1500,00 per onorari, 750,00, per diritti ed il residuo per spese, oltre accessori di legge. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, Dichiara il proprio difetto di giurisdizione, a favore delle S.U. della Corte di Cassazione. Condanna la ricorrente a rifondere le spese, che liquida in euro 2500,00, oltre accessori di legge, come in motivazione. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorit� amministrativa. Cos� deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2013. pareri comitato consultivo PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Appalto di opere pubbliche: modalit� di cessione del credito vantato verso una P.A. (Parere prot. 82016 del 21 febbraio 2013, AL 12228/11, avv. ENRICO DE GIOVANNI) Con riferimento alla richiesta di parere datata 21 dicembre 2012 si osserva quanto segue. La giurisprudenza della Suprema Corte ritiene, costantemente, che il principio generale recato dall�art. 9 della l. 20 marzo 1865, nr. 2248, All. E, secondo cui la cedibilit� del credito vantato verso una P.A. � sottoposta alla previa accettazione da parte di quest�ultima, opera solo fino al momento in cui il contratto � in corso e cessa con la conclusione del rapporto contrattuale che, in tema di appalto di opere pubbliche, pu� ritenersi realizzata a seguito dell�espletamento e dell�approvazione da collaudo. (cfr., ex multis, C. Cass. sez. 1�, sent. 11475 dell�8 maggio 2008). Nel caso di specie, quindi, la norma, nella parte in cui richiede l�assenso alla cessione, non risulta, effettivamente, applicabile. Resta tuttavia applicabile, nella fattispecie, l�art. 69 del R.D. 18 novembre 1923, nr. 2440 secondo il quale �le cessioni � relative a somme dovute dallo Stato � debbono essere notificate all�Amministrazione � cui spetta ordinare il pagamento�. Si rileva peraltro che recentemente la necessit� della notifica alle P.A. degli atti di cessione del credito con riferimento al settore dei contratti relativi ai lavori pubblici � stata ribadita dall�art. 117 del d. lgs. 163 del 2006 (cfr. comma 2: �2. Ai fini dell�opponibilit� alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche, le cessioni di crediti devono essere stipulate mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e devono essere notificate alle amministrazioni debitrici�), disposizione che comunque non ha abrogato il citato art. 9 l. 2248/1865 e che non esclude l�applicazione degli artt. 69 e 70 del R.D. 18 novembre 1923, nr. 2440 (cfr. C. Cass. sez. I, sent. n. 19571/07), e ci� a prescindere da ogni considerazione, ultronea in questa sede, circa l�applicabilit� al caso in esame della norma speciale di cui al citato art. 117. Fermo quanto sopra, si osserva che anche la L. s.p.a., che afferma di essere la cessionaria del credito controverso, da quanto emerge dalla nota a cui si d� riscontro sembra in sostanza riconoscere la necessit� della notifica del- l�atto di cessione all�Amministrazione ceduta, ma pretende che essa riguardi non l�atto di cessione del credito in quanto tale, ma possa validamente esercitarsi per equivalente attraverso �un atto pubblico ricognitivo della scrittura privata di compravendita del 21 marzo 2012, da redigere a cura di un Notaio, nel quale non verr� riportato il prezzo d�acquisto�. La pretesa esposta dalla citata societ� non � meritevole di accoglimento. Il combinato disposto degli artt. 69 e 70 del citato R.D. 2440/23, infatti, va interpretato, a giudizio della Scrivente, in termini puntuali e rigorosi, trattandosi di norme intese ad apprestare una tutela speciale e peculiare al pubblico interesse. L�art. 69, infatti, oltre a statuire il ricordato obbligo di notificazione, tratta, in modo strettamente connesso al tema della notifica, della forma dell�atto di cessione, specificando (comma terzo), che �le cessioni � devono risultare da atto pubblico o da scrittura privata, autenticata da notaio� ( disposizione che trova sostanziale conferma nel citato art. 117 del d. lgs. 163 del 2006, che si richiama qui sempre nei sensi sopra segnalati); siffatta previsione va interpretata non solo nel senso che l�atto di cessione va redatto nelle predette modalit�, ma anche nel senso che esso debba �risultare� da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, notificato alla P.A.. L�uso del verbo �risultare� appare palesemente inteso a far s� che la P.A. possa direttamente e immediatamente verificare l�atto di cessione nella sua veste documentale e giuridica originale (ancorch� per copia conforme notificata), accertando cos� che esso sia effettivamente redatto nelle forme e con i contenuti di legge e non presenti vizi o comunque contenuti che possano determinarne la nullit�, annullabilit� o inefficacia: solo in tal modo la cessione potr� �risultare� da atto pubblico o scrittura privata autenticata e la norma in esame potr� spiegare i propri effetti. Inoltre l�art. 70 specifica i contenuti necessari dell�atto di cessione, che evidentemente vanno verificati da parte dell�Amministrazione all�atto della notifica. A ci� si aggiunga che anche in tutte le altre norme citate appare evidente il nesso tra l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata recante la cessione e la notifica, che deve palesemente riguardare l�atto stesso e non un suo equivalente. Non si ritiene, quindi, che i contenuti del contratto di cessione possano risultare aliunde, cio� attraverso un altro e diverso documento in cui vengono riportati, per di pi� in modo parziale, i contenuti del contratto di cessione. Pertanto la societ� che afferma di essere cessionaria del credito dovr� notificare a codesta Amministrazione copia conforme dell�atto di cessione, a nulla rilevando la pendenza del giudizio. Pertanto allo stato ogni eventuale trattativa volta a soluzione transattiva dovr� essere svolta solo con � La M. s.c.a.r.l.�; qualora in futuro dovesse intervenire la notifica della cessione del credito e tale cessione risulti validamente eseguita, ogni conseguente rapporto dovr� aver luogo solo verso la cessionaria. Sul predetto parere si � espresso in senso conforme il Comitato Consultivo in data 13 febbraio 2013. Prevalenza del criterio di specialit� per le assunzioni a tempo indeterminato presso l�AGCM (Parere prot. 108709 del 9 marzo 2013, AL 25031/12, avv. AGNESE SOLDANI) L�art. 66, comma 7 D.L. 112/2008, convertito in l. 133/2008 e poi modificato dall�art. 9 comma 5 d.l. 78/2010 convertito con modificazione nella l. 122/2010, ha introdotto per il quadriennio 2010-2013 il c.d. blocco del turn over, facendo divieto alle amministrazioni di procedere ad assunzione di personale a tempo indeterminato oltre il limite del 20% delle unit� cessate nel- l�anno precedente e per una spesa superiore al 20% di quella relativa al personale cessato nell�anno precedente. Il comma 11 del medesimo art. 66 ha stabilito che tale limite si applica anche al personale elencato nell�art. 3 D.Lgs 165/2001, elenco nel quale rientrano anche i dipendenti dell�Autorit�. Successivamente il D.L. 1/2012 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitivit�), convertito in l. 27/2012, ha conferito all�Autorit� garante della Concorrenza e del mercato l�esercizio di nuove competenze, consistenti nella emanazione di pareri obbligatori sugli schemi dei regolamenti di delegificazione di cui all�art. 1, comma 3 del medesimo D.L. e sugli schemi di delibera degli enti locali di cui all�art. 4, comma 2 D.L 138/2011 relative all�attribuzione dei diritti di esclusiva nella gestione di servizi pubblici locali non liberalizzabili (art. 25), nonch� sulla eventuale motivata scelta del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di affidare senza gara il servizio di gestione automatizzata dei pagamenti dei corrispettivi dovuti dall'utenza per le pratiche automobilistiche e dei servizi connessi (art. 86). Inoltre ha conferito all�Autorit� nuovi poteri di accertamento e sanziona- tori in ordine alla vessatoriet� delle clausole inserite nelle condizioni generali di contratto stipulate tra professionisti e consumatori (art. 5); nonch� in ordine al rispetto delle nuove prescrizioni in tema di stipulazione dei contratti tra professionisti, con particolare riguardo a quelli che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari (art. 62). L�art. 5 bis, comma 3 del medesimo D.L. n. 1/2012 ha inoltre stabilito: �In ragione delle nuove competenze attribuite all'Autorit� garante della concorrenza e del mercato in base agli articoli 1, 5, 25, 62 e 86 del presente decreto, la pianta organica dell'Autorit� � incrementata di venti posti. Ai relativi oneri si provvede con le risorse di cui al comma 7-ter dell'articolo 10 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, introdotto dal comma 1 del presente articolo�. Il comma 7 ter dell�art. 10 l. 287/1990 a sua volta disciplina il nuovo sistema di finanziamento dell�Autorit�, interamente affidato ai contributi obbligatori delle imprese maggiori. In attuazione dell�art. 5 bis comma 3, che ha disposto l�aumento di organico dell�Autorit�, � stato emanato, ai sensi dell�art. 11 comma 1 della legge 287/1990 istitutiva dell�Autorit� medesima (1), il DPCM del 21 dicembre 2012 che ha modificato, in aumento, la pianta organica dell�Autorit� effettuando la ripartizione delle 20 nuove unit� in 2 unit� dirigenziali, 16 unit� di funzionario e 2 unit� con qualifica di operativo. Codesta Autorit� ha chiesto alla Scrivente se la disposizione relativa al blocco del turn over possa ritenersi derogata, quanto meno limitatamente alle venti nuove unit� di cui all�art. 5 bis D.L. 1/2012, in considerazione del fatto che l�aumento di organico � intervenuto in epoca successiva rispetto alla previsione del predetto blocco ed in ragione del nesso tra l�ampliamento di organico e l�attribuzione delle nuove competenze che devono essere da subito esercitate dall�Autorit�. Al quesito posto si ritiene che possa darsi risposta positiva. La ratio giustificatrice del disposto aumento di organico � chiaramente riconnessa alla esigenza di svolgere le nuove, impegnative, competenze previste dal D.L. n. 1/2012 e dunque contiene l�implicito riconoscimento della inadeguatezza della struttura preesistente dell�Autorit� - sotto il profilo della dotazione organica - a farvi fronte. Se dunque l�intento del legislatore era quello di corredare l�Autorit� Garante della Concorrenza e del Mercato della dotazione organica necessaria a far fronte ai nuovi compiti istituzionali affidatile, un simile intento verrebbe evidentemente sacrificato ove quella dell�aumento dell�organico rimanesse una mera previsione astratta, alla quale non fosse possibile dare concretamente corso in virt� dell�applicazione della disciplina sul blocco del turn over. Deve invece ritenersi che proprio l�aver riconnesso l�aumento di organico all�attribuzione delle nuove competenze comporta che detto aumento � stato visto dal legislatore come strumentale alla concreta realizzabilit� dei compiti affidati all�Autorit� e dunque, in ultima analisi, alla esigibilit� degli stessi, attesa la loro urgenza ed indifferibilit�. (1) �Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri � istituito un apposito ruolo del personale dipendente dell'Autorit��. In un simile contesto, l�art. 5 bis citato, nel disporre l�aumento dell�organico dell�Autorit� di 20 unit�, si configura, ad avviso di quest�Avvocatura, come norma speciale rispetto al generale blocco del turn over disposto dall�art. 66, comma 7 D.L. 112/2008 e, in quanto tale, deve ritenersi sottratta alla sua disciplina. Sulla questione � stato sentito il Comitato Consultivo che si � espresso in conformit�. Interpretazione art. 1, co. 19 e segg., L. 190/2012 in materia di arbitrato dei lavori pubblici (Parere prot. 109574 dell�11 marzo 2013, AL 1035/13, avv. ETTORE FIGLIOLIA) Con riferimento al quesito di cui alla nota che si riscontra, inerente alla corretta interpretazione da riservarsi all�art. 1 comma 19 e segg. della Legge n. 190/2012 del 6 novembre 2012, entrata in vigore il 28 novembre 2012, che detta �una nuova disciplina in materia di arbitrato dei lavori pubblici, prevedendo in via generale la nullit� delle clausole compromissorie non previamente autorizzate, con provvedimento motivato, dall�organo di governo dell�amministrazione�, si ritiene di dover valutare quanto segue. Preliminarmente deve evidenziarsi, in via generale, che la Corte di Cassazione ha gi� avuto modo di chiarire in materia di clausole compromissorie incise da sopravvenuti divieti legislativi in punto di deferimento ad arbitri di controversie con la Pubblica Amministrazione, che dette clausole non sono da considerarsi retroattivamente nulle ma, similmente alla disciplina concernente i casi analoghi di rapporti di durata, le stesse debbono ritenersi esclusivamente inefficaci dal momento in cui �, appunto, legislativamente stabilito il predetto divieto. Ed invero, alla stregua del principio costituzionale di portata generale di cui all�art. 102 Cost., sulla base del quale l�esercizio della funzione giurisdizionale � devoluto a magistrati ordinari istituiti ai sensi delle norme sull�ordinamento giudiziario, la facolt� per le parti di compromettere ad arbitri la risoluzione di una controversia costituisce espressione dell�autonomia delle parti stesse, sicch� la sopravvenienza legislativa recante la proibizione per le parti medesime del ricorso all�arbitrato non si risolve in una indebita compressione del diritto di difesa sancito dall�art. 24, comma 1, Cost., residuando pur sempre in capo alle stesse parti la possibilit� di adire gli organi della giurisdizione ordinaria, onde conseguire piena tutela giurisdizionale alle situazioni soggettive di titolarit� ex art. 113 Cost. (sez I, 27 aprile 2011, n. 9394). Quindi, ha ritenuto la Corte di Cassazione, e proprio in materia di sopravvenuto divieto legislativo alla compromissione ad arbitri delle controversie con la Pubblica Amministrazione, che, in carenza di specifiche norme di natura transitoria di salvezza delle precedenti pattuizioni convenzionali, non vi � la possibilit� sul piano giuridico di opinare la perpetuazione dell�efficacia delle previste clausole compromissorie, posto che l�intervento normativo in parola ha proprio lo scopo di sancirne l�inefficacia per il futuro, e senza che possa porsi alcun problema di retroattivit� o di ragionevolezza rispetto ad una ipotizzata deroga all�art. 11 delle Preleggi. Tali principi, tra l�altro, risultano in piena sintonia con la giurisprudenza (Cass. Civ., sez. III, 26 gennaio 2006, n. 1689) che ha statuito che laddove intervenga nel corso di un rapporto contrattuale una nuova disposizione di legge che regoli il rapporto stesso in maniera difforme rispetto alla pattuizione originaria, questa non potr� pi� produrre effetti che non siano quelli gi� prodottisi, in quanto, ai sensi dell�art. 1339 c.c, lo �ius superveniens� prevale sulle previsioni contrattuali espressione dell�autonomia delle parti. Orbene, alla stregua di quanto test� considerato, la sopravvenienza della norma di legge di cui all�art. 1, co. 19, l. n. 190/2012, che prevede che �Le controversie sui diritti soggettivi, derivanti dall�esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazioni e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell�accordo bonario previsto dall�articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell�organo di governo dell�amministrazione. L�inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell�avviso con cui � stata indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nel- l�invito, o il ricorso all�arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli�, deve essere interpretata come diretta a porre, rispetto all�originario contenuto del regolamento contrattuale, una nuova norma imperativa condizionante l�autonomia contrattuale delle parti nel regolamento del rapporto obbligatorio, essendo appunto assente una norma transitoria che preveda l�ultrattivit� della previgente disciplina normativa, sicch� la clausola compromissoria contrattualmente prevista risulta sostanzialmente interdetta nella relativa operativit�. La condivisibilt� di tale interpretazione, trova, ad avviso di questo G.U., conforto nella particolare rilevanza che il legislatore attribuisce agli interessi di titolarit� delle committenze pubbliche e dei quali risulta permeata la materia relativa agli appalti di opere pubbliche, anche in ragione dell�elevato valore delle relative controversie e della conseguente entit� dei costi che il ricorso all�arbitrato comporta per le amministrazioni interessate, e rispetto ai quali stessi interessi l�autonomia privata legittimamente pu� essere compressa posto che, si ripete, in capo alle parti private permane pur sempre la facolt� di adire gli organi della giurisdizione ordinaria per conseguire il riconoscimento delle proprie istanze. Quindi, la prescrizione contenuta nel sopracitato comma 19, che impone la previa autorizzazione motivata da parte dell��organo di governo� per il deferimento ad arbitri della risoluzione della vertenza, ovvero per l�inclusione della clausola compromissoria nel bando o nel contratto, ovvero per il ricorso all�arbitrato, introducendo un ragionevole limite all�autonomia privata, interdice lo spettro di efficacia delle disposizioni del regolamento pattizio sul punto, tutte le volte in cui detta autorizzazione dell�organo di governo medesimo non intervenga coerentemente con la previsione normativa in rassegna. Ci� premesso, va ora osservato che la nuova disciplina di cui al citato comma 19 � assistita da una disposizione regolante il regime transitorio laddove, al successivo comma 25, � espressamente previsto che: �Le disposizioni di cui ai commi 19 e 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della entrata in vigore della presente legge�, sicch� si pone il problema interpretativo su quale sia il significato da attribuirsi alla proposizione di �arbitrati conferiti o autorizzati�, onde individuare la corretta condotta che la committenza deve tenere rispetto alle vigenti fattispecie contrattuali in cui � presente la clausola compromissoria ed in cui la parte privata abbia instato per il deferimento ad arbitri della controversia, ma senza che si sia ancora costituito il collegio arbitrale antecedentemente all�entrata in vigore della presente legge, e cio� alla data del 28 novembre 2012. Ebbene, detta previsione, alla luce del dato oggettivo che anteriormente all�entrata in vigore della legislazione in esame non era consentito individuare alla stregua di alcun specifico dato normativo dette tipologie di arbitrati (conferiti o autorizzati), sembra potersi interpretare nel senso di �incarichi conferiti o autorizzati�, per cui i primi devono intendersi quelli in cui l�Ente abbia operato la designazione dell�arbitro anteriormente alla data di entrata in vigore della legge in rassegna, e non quindi l�avvenuta costituzione del collegio arbitrale, posto che, da un lato, il legislatore non ha fatto nessun specifico riferimento a tale ulteriore fase della procedura di che trattasi e, dall�altro lato, a prescindere dalla costituzione stessa, con detto conferimento dell�incarico arbitrale si � comunque radicato un interesse giuridicamente rilevante nei confronti del soggetto nominato che il legislatore stesso ha ritenuto evidentemente non suscettibile di compressione. Per converso, per arbitrati �autorizzati�, l�esegesi del comma in rassegna probabilmente consente di prescindere da una lettura in combinato disposto con il precedente comma 19, comma questo che, per la prima volta, qualifica il concetto di �arbitrato autorizzato�, a ragione del gi� menzionato dato del precedente silenzio del codice degli appalti, del codice civile e della precedente normativa di settore di tale tipologia arbitrale. Ed allora, alla stregua della esposta superiore esegesi, dovendosi la locuzione �arbitrati autorizzati�, di cui al citato comma 25, intendersi come �incarichi arbitrali autorizzati�, pu� opinarsi che gli stessi siano quelli per i quali, prima dell�entrata in vigore della legge n. 190/12, e cio� prima del 28 novembre 2012, sia intervenuto il consenso dell�Ente di appartenenza dell�arbitro, se del caso da parte dell�Organo di autogoverno. Siffatta interpretazione, non solo non eccede il limite di �ragionevolezza� di cui si � detto, dato che non determina alcuna indebita compressione del diritto di difesa costituzionalmente tutelato dall�art. 24, ma nemmeno si pone in contrasto con l�art. 111, comma 2, Cost. (�Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parit�, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata�) e con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell�uomo, ed in particolare, appunto, con il diritto a un tempo ragionevole di durata del processo. In altre parole, l�intervento del legislatore sugli arbitrati �conferiti o autorizzati�, e cio� degli �incarichi conferiti o autorizzati�, prima dell�entrata in vigore della legge in rassegna, parrebbe mirare sostanzialmente ad evitare che il diritto costituzionalmente tutelato a un tempo ragionevole di durata del processo possa venire leso in tutti quei casi in cui l�esercizio dell�azione di difesa si sia comunque realizzato mediante il conferimento dell�incarico di arbitro, ovvero mediante l�autorizzazione all�espletamento dell�incarico de quo da parte dell�Ufficio o dell�Organo competente, per cui una diversa interpretazione del contesto che privasse di effetti giuridici tale operato potrebbe risolversi in un grave pregiudizio a carico delle parti private, ed eventualmente per la stessa parte pubblica. Dunque, tutto ci� premesso e in ordine alla richiesta di parere inerente alle �istanze arbitrali� che codesta Anas riferisce che �in data 27 novembre 2012 sono state notificate�, � opinione di questo G.U. che le predette istanze siano utilmente declinabili alla stregua delle considerazioni espresse nella presente consultazione, tenuto conto del sopravvenuto quadro normativo, non risultando, dagli atti qui trasmessi, intervenuta, anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 190/2012, alcuna nomina arbitrale n� rilasciata alcuna autorizzazione all�espletamento dell�incarico di che trattasi. Il quesito poi inerente alla nomina degli arbitri rispetto alla previsione dei commi 23 e 24 del pi� volte citato art. 1 della L. 190/2012 rimane evidentemente assorbito dalle precedenti considerazioni test� espresse nella presente consultazione. Sulle questioni di cui al presente parere si � espresso in conformit� il Comitato Consultivo dell�Avvocatura dello Stato. Spese di giustizia: oneri del contributo unificato anche in caso di �soccombenza virtuale� (Parere prot. 112607 del 12 marzo 2013, AL 21332/11, avv. CARMELA PLUCHINO) In riscontro alla nota del 28 novembre 2012, trasmessa a mezzo fax in data 3 gennaio 2013, con cui codesta Amministrazione ha richiesto parere in merito al rimborso del contributo unificato pagato dal ricorrente, si osserva quanto segue. Il ricorso proposto dalla societ� � stato dichiarato improcedibile, con sentenza TAR Lazio n. 5913/12, per sopravvenuto difetto di interesse, in dipendenza dell�avvenuto annullamento da parte di codesto Ministero del provvedimento interdittivo 16 marzo 2011; con compensazione delle spese di lite. Controparte ha chiesto la rifusione del contributo unificato corrisposto per il ricorso e per i �motivi aggiunti�, ai sensi dell�art. 13, co. 6 bis, del DPR n. 115/2002, a mente del quale ��L�onere relativo al pagamento dei suddetti contributi � dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si � costituita in giudizio. Ai fini predetti, la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza. Ai fini del presente comma, per ricorsi si intendono quello principale, quello incidentale e i motivi aggiunti che introducono domande nuove�. Il Consiglio di Stato (sez. III, sentenza n. 4596 del 2 agosto 2011) ha chiarito che �L�art. 13, co. 6 bis, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dispone che �l�onere relativo al pagamento dei suddetti contributi (contributo unificato) � dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si � costituita in giudizio�. In altre parole, la parte soccombente � tenuta in ogni caso a rimborsare a quella vittoriosa il contributo unificato da essa versato; ed � chiaro dal contesto della norma che si tratta di una obbligazione ex lege sottratta alla potest� del giudice di disporne la compensazione ovvero di liquidarne autonomamente l�ammontare (poich� quest�ultimo non pu� che corrispondere all�importo versato). Nondimeno, si pu� ammettere che, qualora il giudice condanni alle spese la parte soccombente liquidando a tal fine un importo genericamente onnicomprensivo senza nulla precisare riguardo alla sua compensazione ed ai criteri di liquidazione, sia dubbio se quell�importo includa o meno il rimborso del contributo unificato comunque dovuto�, aggiungendo che �L�inderogabilit� e specialit� dell�art. 13, comma 6-bis, tolgono rilievo alla collocazione della disciplina del contributo unificato, contenente la norma in parola, nel titolo primo della parte II del Testo unico rubricata �voci di spesa�, nel senso che ai fini dell�imposizione dell�onere del rimborso a carico della parte soccombente separano nettamente il regime delle spese relative al pagamento del contributo stesso da quello riguardante tutte le altre �spese di giustizia�, quali ad esempio quelle di notificazione, ricomprese nel concetto delle generiche spese legali sostenute dalla parte��. Come evidenziato nella Circolare del Segretariato Generale della Giustizia amministrativa del 18 ottobre 2011, contenente �Istruzioni sull�applicazione della disciplina in materia di contributo unificato nel processo amministrativo�, l�art. 13, comma 6-bis, del T.U. n. 115 del 2002 disciplina, con il carattere dell�esclusivit�, l�imposizione del contributo unificato nell�ambito del processo amministrativo. Al lume delle considerazioni che precedono si ritiene fondata la domanda di rimborso da parte della ricorrente, pur in presenza della disposta compensazione delle spese. Ed invero, nel caso di specie appare configurabile una ipotesi di �soccombenza virtuale�, avendo l�Amministrazione - a seguito del ricorso e delle relative verifiche - riconosciuto, con l�annullamento in autotutela del provvedimento interdittivo impugnato, l�errore in cui era incorsa nella valutazione del requisito temporale previsto per l�adozione del suddetto provvedimento. D�altra parte, la Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 19456 del 15 luglio 2008) ha chiarito che �La soccombenza, costituendo un�applicazione del principio di causalit�, per il quale non � esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (per la trasgressione delle norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessit� del processo, prescinde dalle ragioni � di merito o processuali � che l�abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dal- l�avere il giudice esercitato i suoi poteri ufficiosi�. Pertanto, si ritiene che gravi su codesto Ministero l�onere relativo al pagamento del contributo in questione, in quanto parte soccombente, in conformit� al disposto dell�art. 13 co. 6-bis succitato. Infine, prima di procedere al relativo rimborso, si invita ad acquisire la documentazione attestante l�avvenuto versamento degli importi pretesi da controparte (non essendo sufficiente la fattura allegata), osservandosi che in calce ai �motivi aggiunti al ricorso� lo stesso ricorrente ha dichiarato quanto segue: �Non viene corrisposto il contributo unificato in quanto non trattasi di domanda nuova, ai sensi dell�art. 13, co. 6 bis, D.P.R. n. 115/2002 e ss.mm.ii.�. Pertanto, sembrerebbe dovuto soltanto l�importo versato a titolo di contributo per il ricorso introduttivo del giudizio. Sulla questione � stato sentito il Comitato Consultivo che si � espresso in conformit� in data 8 marzo 2013. Risarcimento per �danno all�immagine di una P.A� a seguito di reati perpetrati da pubblico ufficiale (Parere prot. 161064 dell�11 aprile 2013, AL 31171/12, avv. FABRIZIO URBANI NERI) Con riferimento alla richiesta di cui alle note di codesto Dicastero 22 agosto 2012 n. 55/1/17152/12 e successiva nota, non datata, pervenuta il 29 dicembre 2012, si osserva quanto segue. L�art. 17, comma 30-ter, del D.L. 78/2009 (convertito in l. n. 102/2009 e successivamente modificato dalla l. 103/2009) prevede l�esperibilit� del- l'azione per il risarcimento del danno all'immagine �nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 della l. 27 marzo 2001 n. 97�. Il richiamato art. 7 cit. stabilisce a sua volta che �La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale � comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinch� promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilit� per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale�. La menzionata normativa si riferisce, pertanto, ai soli �delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale di cui all�art. 7 L. n. 97/2001�, come, ad esempio, ai reati per corruzione o per concussione commessi dal pubblico ufficiale, mentre sembra escludere la configurabilit� d�una responsabilit� contabile del pubblico dipendente per danno all�immagine della P.A. a seguito di condanna per altri tipi di reato, quali quelli accertati all�esito del processo penale di cui in oggetto, come i reati di falso, calunnia e i reati contro la persona. Questo Generale Ufficio non ignora, tuttavia, l�esistenza di un indirizzo, non consolidato, della giurisprudenza contabile, che tende a far rientrare nel- l�alveo della risarcibilit� del danno all�immagine anche i fatti dannosi conseguenza di altri tipi di reato, non espressamente contemplati dalla citata normativa speciale. In particolare, nella sentenza n. 809/2012 della I sezione giurisdizionale d�Appello della Corte dei Conti, i giudici contabili hanno pronunziato una condanna al risarcimento di un danno all�immagine, pur dopo la novella legislativa di cui al ripetuto art. 17, comma 30-ter, anche qualora il danno derivi non da un reato contro la pubblica amministrazione, bens� da altro tipo di reato. In tale pronuncia la Corte dei Conti afferma che l�art. 17, comma 30-ter, non indica direttamente i casi in cui pu� essere esercitata l�azione contabile per danno all�immagine, ma rinvia ai �casi� e �modi� previsti dall�art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97; e, inoltre, che �tale riferimento implica, da un lato, la comunicazione al P.M. contabile della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I, titolo II del libro II del codice penale (i �casi� indicati dalla norma) e, dall�altro, l�obbligo per il P.M. penale di comunicare al P.M. contabile, ex art. 129 delle norme di attuazione del c.p.p., l�esercizio dell�azione penale per i reati, di qualsiasi natura, che abbiano cagionato un danno per l�erario (i �modi� indicati dal medesimo Legislatore)�. Dello stesso tenore � la sentenza n. 335/2012, Corte conti, Sez. Giurisdizionale per la Toscana, secondo cui l�art. 7 della legge n. 97 del 2001 andrebbe interpretato nel senso che �la norma, mentre col primo periodo mira ad introdurre una nuova disciplina per i danni derivanti dai reati contro la pubblica amministrazione, si preoccupa, con il secondo periodo, di mantenere ferma, per gli altri reati, la disciplina di cui all�art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.�. In sostanza, secondo tale orientamento, il danno all�immagine sarebbe ipotizzabile anche nella commissione accertata di altri tipi di reato da parte del pubblico ufficiale. Nondimeno, appare opportuno ricordare come la Corte Costituzionale, intervenuta sul punto, con sentenza n. 355/2012, affermi (sebbene con sentenza di rigetto) che il danno all�immagine della p.a. � configurabile solo ove sia stato commesso un reato contro la pubblica amministrazione previsto nel capo I, titolo II del libro II del codice penale. Quanto alla concreta determinazione in sede di accertamento del danno all�immagine, beninteso ove ritenuto effettivamente sussistente nel caso di specie, si ricorda che la recente �Legge anticorruzione�, L. 6 novembre 2012 n. 190, prevede, all�art. 1 comma 62, una sorta di determinazione automatica del danno all�immagine, stabilendo che �Nel giudizio di responsabilit�, l'entit� del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilit� illecitamente percepita dal dipendente�, norma che non risulta applicabile al caso di specie, atteso che non si � in presenza di alcuna ipotesi di utilit� percepita dal pubblico dipendente; anche detta novella sembra deporre a favore di una non configurabilit� di un danno all�immagine nella fattispecie in esame. Tuttavia, nella subordinata ipotesi di ravvisata responsabilit� per danno all�immagine, l�entit� del risarcimento andrebbe determinata in via equitativa ex art. 1226 c.c., con riferimento a spese e costi sopportati dall�Amministrazione per il ripristino della propria reputazione (ad es. per spese in convegni finalizzati a promuovere una positiva immagine del Corpo nella lotta ai reati comuni e alla criminalit� organizzata), ferma, comunque, anche sotto tale profilo, l�estrema difficolt� probatoria di dimostrare un effettivo danno prodotto all�immagine di codesta Amministrazione. Sulla questione, nella seduta del 5 aprile 2003, � stato sentito il Comitato Consultivo, che si � espresso in conformit�. Spese di giustizia: oneri del contributo unificato in caso di soccombenza reciproca (Parere prot. 203993 del 10 maggio 2013, AL 36520/12, avv. AGNESE SOLDANI) Con nota prot. n. 123-UTGC-3-2011/115-239 del 20 settembre 2012 che si invia per opportuna conoscenza anche all�Avvocatura Distrettuale in indirizzo - codesta Amministrazione ha chiesto parere alla Scrivente Avvocatura in ordine alla richiesta, avanzata dal difensore dei Sig.ri (...), di integrale rimborso del contributo unificato pagato in relazione a due ricorsi al TAR Salerno proposti nell�interesse dei suoi assistiti, parzialmente accolti con le sentenze Nn. 276 e 277/2012, depositate il 18 febbraio 2012 e notificate l�8 marzo 2012: dette sentenze, passate in giudicato, hanno accolto uno dei quattro pro- posti motivi d�impugnazione e respinto perch� infondati gli altri tre, per l�effetto annullando �in parte qua� il provvedimento impugnato e compensando le spese di lite. L�esame del quesito proposto impone la soluzione di una problematica di carattere generale, consistente nello stabilire quale sia il soggetto obbligato a sostenere, all�esito del giudizio amministrativo, i �costi� del pagamento del contributo unificato anticipato dal ricorrente. � noto che l�art. 21 D.L. 223/2006 ha introdotto l�onere del pagamento del contributo unificato anche nel processo amministrativo modificando l�art. 13 del DPR 115/2002. La legge di conversione del predetto D.L. (l. 4 agosto 2006 n. 248) ha aggiunto una disposizione - attualmente trasfusa, per effetto di successive modifiche, nell�art. 13 comma 6 bis 1, ultima parte - la quale prevede: �L'onere relativo al pagamento dei suddetti contributi � dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si � costituita in giudizio. Ai fini predetti, la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza�. La norma riguarda evidentemente l�ipotesi della soccombenza totale, stabilendo il principio che il contributo unificato resta a carico della parte soccombente anche quando il giudice abbia ritenuto (nonostante la soccombenza) di compensare le spese processuali. Il Testo Unico delle spese di giustizia nulla invece dispone per il caso di soccombenza parziale o reciproca. Se tuttavia il principio di fondo evincibile dal testo Unico � nel senso che nel processo amministrativo il contributo unificato � a carico della parte soccombente, sembra ragionevole affermare che da tale principio derivi il corollario che il contributo unificato sia posto a carico della o delle parti soccombenti nei limiti della loro soccombenza. Sicch�, ove il Giudice, a fronte di una situazione di soccombenza reciproca, abbia compensato le spese, cos� implicitamente �quantificando� la soccombenza reciproca nei limiti del 50% per ciascuna delle due parti, nella stessa proporzione deve essere posto il contributo unificato a carico di ciascuna di esse. In altri termini, la regola dello �sganciamento� dell�onere del pagamento del contributo unificato rispetto alla statuizione giudiziale sulle spese vale solo in caso di soccombenza totale (in tale ipotesi, anche se il giudice decide di compensare le spese, il contributo unificato sar� per� comunque dovuto per intero dalla parte soccombente), mentre per la soccombenza reciproca il contributo va posto a carico di entrambe le parti (in quanto entrambe soccombenti), nei limiti della soccombenza, e dunque utilizzando la stessa proporzione individuata dal giudice per porre a carico delle parti le spese di lite. Sulla sola questione di massima, propedeutica alla soluzione del caso concreto oggetto del quesito (al quale si fornir� risposta con separato parere), � stato sentito il Comitato Consultivo che nella seduta dell�8 marzo 2013 si � espresso in conformit�. Sulla giustiziabilit� immediata delle riserve iscritte dal contraente generale ante collaudo delle opere in appalto (Parere prot. 205194 del 10 maggio 2013, AL 28036/09, avv. ETTORE FIGLIOLIA) Con la nota che si riscontra codesta Anas, premesso che in relazione ai lavori di cui all�oggetto ҏ in fase di definizione un atto aggiuntivo di regolazione dei rapporti per affidare al contraente generale maggiori e/o diversi lavori previsti in perizia�, sottopone alla consultazione di questa Avvocatura Generale la tematica della giustiziabilit� immediata delle riserve gi� iscritte da tale appaltatore, anteriormente perci� al collaudo delle opere, unitamente alla eventuale possibilit�, in linea di diritto, di convenire pattiziamente detta immediata giustiziabilit� laddove, secondo la tesi sostenuta dal contraente generale medesimo, dovesse opinarsi che le disposizioni di cui agli artt. 32, 33 del D.M. 145/2000 siano di ostacolo all�adizione della giurisdizione prima del termine della fase di collaudazione. Per converso, la tesi dell�Anas espressa nella nota in riferimento � contrap posta a quella dell�appaltatore ora sinteticamente riportata, ritenendo �di non rinvenire nelle disposizioni contrattuali e nella normativa applicabile al contratto, alcuna prescrizione che imponga con certezza tale differimento�, per cui detto Ente non condivide il richiesto �inserimento nell�atto aggiuntivo di apposita clausola recante l�accordo delle parti che dovrebbe rimuovere la ipotizzata preclusione alla immediata instaurazione del giudizio� sulle riserve gi� iscritte. Ritiene al riguardo questo G.U. di dover preliminarmente, ed in via generale, operare alcune riflessioni sia sul complesso di peculiarit� dell�affidamento al contraente generale, che in ordine all�istituto dell��accordo bonario� ex art. 240 del D.Lgs. n. 163/2006, che, come � noto, per effetto dell�art. 4 comma 2 lett. gg) n. 01 D.L. n. 70/2011 conv. con modif. dalla L. n. 106/2011, non � pi� applicabile a tale tipologia di affidamento. Orbene, alla stregua della vigente normativa � innegabile come il contraente generale goda, rispetto ad un appaltatore tradizionale, di una maggiore autonomia organizzativa in uno con le pi� ampie responsabilit� e i conseguenti rischi, in termini di sostanziale corrispondenza con la natura obbligatoria di risultato assunta, sicch� � parimenti inconfutabile come il contratto cos� concluso imponga a detta categoria di appaltatore di praticare misure adeguate per superare le possibili criticit� insorte nel corso dell�opera, anche se del caso riorganizzando funzionalmente le proprie attivit� di cantiere, s� da limitare ovvero elidere l�eventuale pregiudizio connesso alla diseconomica utilizzazione di manodopera e di mezzi. � pertanto conseguente a quanto test� considerato che i maggiori oneri da azionare con l�iscrizione delle riserve da parte del contraente generale dovrebbero derivare esclusivamente da circostanze del tutto imprevedibili, tali, anche per consistenza e gravit�, da non consentire un�idonea riprogrammazione delle attivit� di competenza, e, comunque, detti oneri dovrebbero essere identificati in termini quantitativi e qualitativi alla stregua di rigidi parametri correlati ai tempi strettamente necessari a porre in essere utili correttivi nell�impiego delle risorse, e non perci� calibrati sull�intera durata dell�impedimento. Per quanto precede, dovendosi ricondurre la legittimit� delle riserve del contraente generale a fattori di carattere eccezionale, e senza cio� che possano imputarsi alla committenza oneri di natura teorica, ovvero causati da deficienze organizzative dello stesso appaltatore, il ricorso all�istituto della riserva da parte di quest�ultimo dovrebbe atteggiarsi in termini piuttosto episodici, di rara frequenza, tanto � vero che il legislatore con la richiamata recente normativa del 2011 ha novellato l�art. 240 del codice dei contratti interdicendo l�utilizzo del- l�istituto dell�accordo bonario, evidentemente ritenendone la relativa �ratio� non corrispondente alle peculiarit� del contratto del contraente generale rispetto agli incombenti che a questo fanno capo ex art. 176 dello stesso codice. In particolare dovendosi riconoscere al prefato istituto la funzione di strumento deflattivo del contenzioso, il cui esperimento costituisce condizione di ammissibilit� dell�azione giudiziaria, che resta accessibile solo ove il tentativo di conciliazione fallisca ovvero siano decorsi inutilmente i termini di legge, finalizzato come tale a risolvere le situazioni di criticit� insorte nel corso del- l�appalto, e per le quali il rinvio della trattazione delle riserve inerenti potrebbe determinare pregiudizio all�interesse pubblico per i seri problemi creatisi per l�utile prosieguo di lavori, pu� inferirsi che il legislatore nel caso del contraente generale, proprio per le test� richiamata caratteristiche del relativo contratto, abbia ritenuto che la possibilit� della iscrizione di riserve sia di scarsa consistenza, e comunque, inidonea a compromettere l�ulteriore iter realizzativo a fronte della �capacit� di risposta� di detto appaltatore per l�autonomia che gli compete rispetto alle sopravvenienze causative degli oneri oggetto delle riserve medesime. Ora sulla base delle superiori riflessioni, cos� delineato l�attuale quadro normativo di riferimento con particolare riguardo ai caratteri propri dell�affidamento al contraente generale ed all�istituto dell��accordo bonario�, ritiene questa Avvocatura Generale che la non attivabilit� di quest�ultimo per effetto della richiamata novella legislativa alla fattispecie oggetto del presente parere, precluda effettivamente l�anticipata trattazione delle riserve rispetto alla conclusione del collaudo finale, e senza che possano in merito concludersi convenzioni di tenore derogatorio, anche alla luce del dato oggettivo che l�art. 33 D.M. 145/2000 � stato abrogato. Invero, una volta riconosciuto in via generale all�istituto ex art. 240 codice dei contratti la funzione di strumento eccezionale ed obbligatorio, il cui mancato esperimento � interdittivo dell�adizione del giudice, e con il riconoscimento giuridico in capo all�appaltatore stesso di una specifica posizione giuridica soggettiva ad ottenere che la committenza attivi la procedura de qua, il divieto legislativo prima citato all�esperimento di quest�ultima per il contraente generale, non sembra consentire elusioni di sorta, addirittura attribuendo al contraente generale stesso una posizione di vantaggio di maggiore e pi� significativo spessore rispetto all�appaltatore tradizionale, attraverso il riconoscimento della facolt� di conseguire la ricognizione giudiziale delle riserve nel corso dell�appalto senza che sia concluso il collaudo finale. La correttezza delle suesposte considerazioni si rinviene oltretutto nelle pertinenti disposizioni del d.p.r. n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs. n. 163/20006), con particolare riferimento agli artt. 190, 191 e 200, alla stregua dei quali in via generale le riserve iscritte dall�esecutore nel corso dell�appalto, dovendo necessariamente essere confermate sul conto finale, posto che altrimenti si ritengono abbandonate dall�esecutore medesimo, dimostra chiaramente come non sia anticipabile la giustiziabilit� delle riserve stesse se non attraverso l�istituto dell�accordo bonario, peraltro, come � noto, non praticabile nella ipotesi in cui l�appaltatore sia contraente generale. Conclusivamente, si suggerisce a codesto Ente di evitare l�inserimento nello stipulando atto aggiuntivo di clausole che possano essere lette in termini non coerenti con i parametri normativi di riferimento, laddove, per converso, parrebbe maggiormente preferibile praticare ogni opportuno approfondimento del contesto sul piano della specificit� tecnica ed eventualmente giuridica al fine di valutare la risolvibilit� anche solo parziale delle problematiche insorte sul tema progettuale dell�appalto in discorso nell�ambito della redazione delle perizie di variante tecniche e suppletive citate nella nota che si riscontra. Sulle questioni oggetto del presente parere si � pronunciato in conformit� il Comitato Consultivo. Rimborso spese legali ex art. 32 l. n. 152/1975: procedimenti conclusi con sentenza di prescrizione (Parere prot. 209694 del 14 maggio 2013, AL 35242/12, avv. MASSIMO SANTORO) 1. Il quesito. Con la nota emarginata, codesta Amministrazione - avendo riscontrato un contrasto tra posizioni espresse da varie sedi dell�Avvocatura dello Stato chiede l�avviso della Scrivente sull�applicazione della norma di cui all�art. 32 della legge n. 152 del 1975 ad ipotesi nelle quali i procedimenti penali siano stati definiti con una pronuncia di prescrizione del reato. 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale. L�art. 32 della legge n. 152 del 1975 dispone che �Nei procedimenti a carico di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o dei militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, la difesa pu� essere assunta a richiesta dell'interessato dall'Avvocatura dello Stato o da libero professionista di fiducia dell'interessato medesimo. In questo secondo caso le spese di difesa sono a carico del Ministero del- l'interno salva rivalsa se vi � responsabilit� dell'imputato per fatto doloso�. La norma succitata differisce da quella generale in materia di rimborso delle spese legali dell�amministratore statale di cui all�art. 18 del d.l. n. 67/1997, che cos� testualmente dispone: �Le spese legali relative a giudizi per responsabilit� civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilit�, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato [...]�. La disposizione di cui all�art. 18 del d.l. n. 67/1997 e quella di cui all�articolo 32 della legge n. 152 del 1975, cos� come altre norme del settore pubblico recanti disposizioni analoghe (1), costituiscono espressione di un principio generale dell�ordinamento, secondo il quale le conseguenze economiche dei comportamenti adottati da chi cura un interesse altrui devono essere poste a carico del titolare dell�interesse medesimo. In applicazione di tale principio, � stato chiarito che affinch� l�Amministrazione possa sostenere le spese legali del dipendente, il fatto oggetto del giudizio deve essere stato compiuto nell�esercizio delle attribuzioni a questo affidate e deve esservi un nesso di strumentalit� tra l�adempimento del dovere ed il compimento dell�atto, di talch� l�Amministrazione risponder� per le spese sostenute dal dipendente solo a condizione che il comportamento tenuto da quest�ultimo non sia stato realizzato per perseguire un suo interesse personale non coincidente con quello dell�Amministrazione. In applicazione di quanto sopra illustrato, se non si pone alcun dubbio per la spettanza dei rimborsi nelle ipotesi in cui i processi penali siano stati definiti con sentenza di assoluzione �perch� il fatto non sussiste� o �perch� l�imputato non l�ha commesso�, nei processi conclusi con sentenze di proscioglimento con formule processuali non ampiamente liberatorie, come le pronunce di prescrizione, la giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi, in particolare, sull�art. 18 del d.l. n. 67/1997, � apparsa concorde nel ritenere non dovuto il rimborso delle spese legali. Nella sentenza n. 2242 del 14 aprile 2000, il Consiglio Stato sez. V, ha infatti affermato che �La pretesa al rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori nel corso di liti penali per fatti connessi all'espletamento del- l'incarico va riconosciuta solo quando l'imputato sia prosciolto con la formula pi� liberatoria e non anche quando il proscioglimento avvenga con formule meramente processuali, salvo che l'assoluzione non intervenga in fase istruttoria�. Il principio � stato successivamente confermato anche da altre sezioni del Consiglio di Stato; in particolare, con la sentenza n. 7660 del 2 luglio 2004, sez. VI, il Consiglio di Stato ha enucleato dei principi generali applicabili ad ogni ipotesi di assunzione, da parte dell�Amministrazione, delle spese legali sostenute dai pubblici dipendenti. (1) Cfr., ad esempio, art. 41 del D.P.R. 20 maggio 1987 n. 270, riguardante il personale del Servizio sanitario nazionale, l�art. 19 del D.P.R. 16 ottobre 1979, n. 509, relativo al personale degli Enti pubblici di cui alla L. 20 marzo 1975 n. 70, l�art. 20 del D.P.R. 4 agosto 1990 n. 335, concernente il personale del comparto delle aziende delle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, l�art. 67, primo comma, del d.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, con il quale � stato recepito l�accordo sindacale per il triennio 1985-1987 relativo al comparto del personale dipendente degli enti locali. Dopo avere ribadito che il rimborso delle spese legali non spetta nelle ipotesi in cui sia dichiarata la prescrizione del reato, il Consiglio di Stato ha chiarito che la disposizione di cui all�art.18 cit. costituisce espressione di un principio generale dell�ordinamento, declinato in modo diverso da varie norme di settore, con un minimo comune denominatore rappresentato dalla necessit�, affinch� possa darsi seguito al rimborso, che non sussista un conflitto di interessi tra Amministrazione e dipendente, il cui accertamento pu� avvenire non soltanto in sede penale: �Va osservato in proposito che la disposizione legislativa in questione, come pure le norme di varie leggi relative a particolari settori del pubblico impiego (cfr., ad esempio, art. 41 del D.P.R. 20 maggio 1987 n. 270, riguardante il personale del Servizio sanitario nazionale; art. 19 del D.P.R. 16 ottobre 1979, n. 509, relativo al personale degli Enti pubblici di cui alla L. 20 marzo 1975 n. 70; art. 20 del D.P.R. 4 agosto 1990 n. 335, concernente il personale del comparto delle aziende delle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo), che consentono con varie modalit� l�assunzione delle spese legali da parte dello Stato e di Enti pubblici, costituisce espressione di un principio generalissimo e fondamentale dell�ordinamento amministrativo, in base al quale � consentito all�Amministrazione di intervenire a contribuire alla difesa del suo dipendente, imputato in un processo penale, sempre che, naturalmente, sussista un suo diretto interesse in proposito, da riconoscersi in tutti i casi in cui l�imputazione riguardi una attivit� svolta in diretta connessione con i fini dell�Ente e sia in definitiva imputabile all�Ente stesso (cfr. C.d.S., Sez.V, 22 dicembre 1993, n. 1993 n. 1392). In coerenza con il suesposto criterio va, peraltro, ribadito che, in ogni caso, l�ammissione al beneficio in questione resta pur sempre condizionata dall�effettiva mancanza di un qualsiasi conflitto di interessi tra l�Amministrazione ed il dipendente, da valutarsi alla stregua della statuizione definitiva di proscioglimento della competente autorit� giudiziaria, e ci� non solo sotto il profilo della responsabilit� penale in ordine ai fatti addebitati al dipendente medesimo (che deve essere comunque espressamente esclusa dalla pronuncia del giudice), ma anche sotto altri profili, che siano riscontrabili in riferimento ai fatti medesimi, in ordine ai quali deve essere ugualmente esclusa pure una eventuale responsabilit� di tipo disciplinare od amministrativo, per mancanze attinenti al compimento dei doveri dell�ufficio (cfr. C.d.S., Commissione speciale, 6 maggio 1996, n. 4). Quanto alla tesi dell�appellante sul carattere necessitato dell�esito del procedimento penale nel quale � stato coinvolto, la stessa deve essere respinta, perch� la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, applicata nei suoi confronti, presuppone la mancanza di opposizione dell�imputato e del pubblico ministero, secondo quanto espressamente statuito dall�art. 226 del D.L.vo 19 febbraio 1998, n. 51�.. I principi sopra illustrati appaiono utili ad orientare l�interprete anche ai fini dell�esegesi della norma di cui all�art. 32 della legge n. 152 del 1975, qualora il procedimento penale a carico del dipendente si sia concluso con una sentenza che abbia dichiarato l�estinzione del reato per prescrizione. 3. Differenze normative tra l�art. 32 della legge n. 152 del 1975 e l�art. 18 del d.l. n. 67/1997. Si � visto che rispetto al disposto dell�art. 18 del d.l. n. 67/1997, l�art. 32 della legge n. 152 del 1975 reca alcuni elementi di sostanziale distinzione, legati sia alla qualifica soggettiva del dipendente e ai fatti oggetto del giudizio, sia alle modalit� di accertamento della responsabilit�. Quanto ai primi, mentre l�art. 18 � applicabile a tutti i dipendenti statali per qualunque atto compiuto nell�esercizio delle loro attribuzioni istituzionali, ad esse avvinto da un nesso di strumentalit�, l�art. 32 � applicabile, soggettivamente, solo agli �ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o dei militari in servizio di pubblica sicurezza� e, oggettivamente, solo �per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica�. Con riferimento alle modalit� di accertamento della responsabilit� del dipendente, ai sensi dell�art. 18 il rimborso delle spese legali spetter� solo quando il procedimento a carico del dipendente si concluda con un provvedimento giurisdizionale che esclude espressamente la sua responsabilit� mentre, ai sensi dell�art. 32, il rimborso spetter� in via definitiva solo ove non venga accertata la �responsabilit� dell'imputato per fatto doloso�, accertamento che il dato letterale della norma non ancora espressamente ad una pronuncia giurisdizionale. Ulteriore elemento di distinzione tra le due disposizioni � rappresentato dal meccanismo di pagamento: mentre nell�art. 18 - ad eccezione di ipotesi di anticipazioni - il pagamento delle spese legali sar� a carico del dipendente salvo rimborso, nei casi in cui si applichi l�art. 32 le spese saranno sempre sopportate dall�Amministrazione salvo rivalsa. � evidente che la norma di cui all�articolo 32 della legge n. 152 del 1975, nell�escludere il rimborso solo nei casi in cui venga accertata la responsabilit� dell�imputato per fatto doloso, reca una disciplina maggiormente favorevole al dipendente rispetto a quella contenuta nell�art. 18 del d.l. n. 67/1997. Le ragioni di tale favor vanno ricercate, oltre che nel maggior rischio cui vanno incontro ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o militari in servizio di pubblica sicurezza che usino le armi o altri mezzi di coazione fisica nell�esercizio dei propri doveri, anche nella considerazione che tali azioni, per il contesto in cui sono avvenuti i fatti e per gli ordini ricevuti, possono rendere difficoltoso l�accertamento del coefficiente di imputazione soggettivo dell�azione criminosa. 4. Conclusioni: applicazione dell�art. 32 della legge n. 152 del 1975 ai casi di estinzione del reato per prescrizione. La soluzione del quesito formulato da codesta Amministrazione sulla possibilit� di esercitare la rivalsa quando il procedimento penale a carico del dipendente si sia concluso con una sentenza che dichiara l�estinzione del reato per prescrizione, dovr� tenere conto, oltre che della formulazione letterale della norma e della sua particolare ratio, anche dei principi generali in materia di rimborsi e delle connotazioni giuridiche dell�istituto della prescrizione. Si � gi� detto degli elementi di differenziazione della norma di cui all�art. 32 della legge n. 152 del 1975, evidenziando, in particolare, come il suo dato letterale non pone l�accento - a differenza dell�art. 18 del d.l. n. 67/1997 - sulla necessit� di un provvedimento giurisdizionale che contenga l�accertamento della responsabilit� dell�imputato; si � anche detto della ratio dell�art. 32 e dei principi generali che regolano la materia dell�assunzione da parte dell�Amministrazione delle spese legali sostenute dal dipendente. Quanto all�istituto della prescrizione del reato, il provvedimento giurisdizionale che la dichiara non equivale ad un�assoluzione con formula piena, anche se gli effetti per l�imputato possono sembrare identici. Ai sensi dell�art. 129 cod. proc. pen., infatti, quando ricorre una causa di estinzione del reato, quale � la prescrizione, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l�imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, il giudice � tenuto a pronunciare una sentenza di assoluzione piena. Allo stesso modo, � possibile (anche se, in questo caso, non esiste un obbligo giuridico) che il giudice, nel pronunciare la prescrizione, accerti la sussistenza del reato indicandone anche l�ascrivibilit� all�imputato a titolo di dolo o colpa. Inoltre, la prescrizione � sempre espressamente rinunciabile dall'imputato (art. 157, comma 7, cod. pen.) che pu� decidere di non eccepirla e far proseguire il procedimento giudiziale che lo riguarda al fine di vedere riconosciuta la propria innocenza. Ad avviso della Scrivente, dunque, nelle ipotesi in cui i processi penali siano stati definiti con una sentenza che accerti l�estinzione del reato per prescrizione, la norma di cui all�art. 32 della legge n. 152 del 1975, secondo la quale �le spese di difesa sono a carico del Ministero dell'interno salva rivalsa se vi � responsabilit� dell'imputato per fatto doloso�, dovr� essere interpretata nel senso che l�Amministrazione non potr� esercitare la rivalsa solo quando la sentenza che dichiara la prescrizione accerti anche la responsabilit� del dipendente a titolo di colpa. Nel caso, invece, in cui la sentenza che pronuncia la prescrizione del reato contenga anche un accertamento della responsabilit� dell�imputato a titolo di dolo, l�Amministrazione dovr� esercitare la rivalsa prevista dall�art. 32. Infine, ove la sentenza non sia scesa nel merito dell�accertamento della responsabilit� dell�imputato, nulla statuendo in proposito, ma si sia limitata a dichiarare l�estinzione del reato per prescrizione, l�Amministrazione eserciter� il diritto di rivalsa solo qualora risulti in modo evidente che i fatti contestati al dipendente e oggetto del procedimento penale sussistano e siano a questo addebitabili a titolo di dolo. Questa soluzione appare confortata sia dal dato letterale dell�art. 32 che, a differenza dell�art. 18, non richiede espressamente che la responsabilit� del dipendente venga accertata con un provvedimento avente natura giurisdizionale, sia dalla sua coerenza con il principio generale secondo cui le conseguenze economiche dei comportamenti adottati dal dipendente nell�esercizio delle sue funzioni istituzionali devono essere poste a carico del titolare di detto interesse, cio� dell�Amministrazione, a condizione che tali comportamenti non siano stati realizzati per perseguire un interesse personale del dipendente non coincidente con quello dell�Amministrazione. * * * Si rimane a disposizione per ogni eventuale chiarimento si ritenesse utile. Sul presente parere � stato sentito il Comitato Consultivo nella seduta del giorno 10 maggio 2013, che si � espresso in conformit�. Applicabilit� del termine, previsto dall�art. 2 l. n. 241/1990 e s.m.i. per la conclusione del procedimento amministrativo, all�autotutela in materia tributaria (Parere prot. 218899 del 20 maggio 2013, AL 35237/12, avv. GIUSEPPE ALBENZIO) Codesta Agenzia delle Dogane chiede a questa Avvocatura Generale dello Stato di pronunciarsi sul seguente quesito: �Applicabilit� dell�art. 2 della legge n. 241 del 1990, modificata da ultimo dall�art. 1 del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35 ai procedimenti relativi all�esercizio del potere di autotutela di competenza di questa Agenzia aventi natura tributaria�. In particolare l�Agenzia delle Dogane domanda se il termine previsto per la conclusione del procedimento amministrativo dall�art. 2 della legge n. 241 del 1990, modificato dall�art. 1 del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, sia applicabile ai procedimenti relativi all�esercizio di autotutela di competenza della medesima aventi natura tributaria, dato che il 2 comma dell�art.1 del D.l. 5/2012 precisa che �le disposizioni del presente articolo non si applicano nei procedimenti tributari e in materia di giochi pubblici, per i quali restano ferme le particolari norme che li disciplinano�. *** 1. Va premesso che l�autotutela in materia tributaria differisce da quella amministrativa ed � disciplinata dal Decreto Ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37, recante le norme relative all�esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell�Amministrazione Finanziaria, in attuazione dell�articolo 2 quater della legge n. 656 del 30 novembre 1994 [�Con decreti del Ministero delle Finanze sono indicati gli organi dell�amministrazione finanziaria competenti per l�esercizio del potere di annullamento d�ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilit�, degli atti illegittimi o infondati. Con gli stessi decreti sono definiti i criteri di economicit� sulla base dei quali s�inizia o si abbandona l�attivit� dell�amministrazione�]; il potere discrezionale di cui trattasi era gi� previsto dall�articolo 68 del D.P.R. n. 287 del 27 marzo 1992, concernente il regolamento del personale del Ministero delle Finanze [�salvo che sia intervenuto giudicato, gli uffici dell�amministrazione finanziaria, possono procedere all�annullamento, totale o parziale, dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati con provvedimento motivato notificato al contribuente�]. In materia tributaria l�autotutela presenta peculiarit� proprie, in ragione della disciplina legale della prestazione tributaria, dell�indisponibilit� del tributo e della natura vincolata della funzione impositiva. Infatti, in ossequio ai principi dettati dagli art. 53 e 97 Cost., l�autotutela tributaria tende a realizzare un�opportuna mediazione degli interessi pubblici in conflitto rappresentati, da un lato, dall�interesse alla certezza e stabilit� dell�imposizione tributaria e, dall�altro, dall�interesse pubblico a fornire un�immagine dell�amministrazione di correttezza e di comportamento giusto e imparziale. Allo stesso tempo, l�autotutela � strumento anti-lite che consente la contrazione di quel contenzioso che risulterebbe inutile e dispendioso per la Pubblica Amministrazione, nei casi in cui, sulla base di un giudizio prognostico, � destinata a risultare soccombente nella lite, garantendo, altres�, il rispetto dei �criteri di economicit�, di efficacia, di imparzialit�, di pubblicit� e di trasparenza� che devono reggere l�agire amministrativo, in base alla disposizione dell�art. 1 della legge 241/1990. 2. Ci� precisato, occorre verificare se la riforma di cui alla legge n. 5 del 2012, che reca modifiche all�art. 2 della legge 241/1990 (pi� esattamente la legge ha sostituito gli originari commi 8 e 9 con gli attuali commi da 8 a 9 quinquies), sia applicabile o meno ai procedimenti relativi all�esercizio di autotutela di competenza dell�Agenzia delle Dogane aventi natura tributaria. L�art. 2 della legge 241/1990 prevede che, salvo nel caso in �cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni�; in via preliminare, si sottolinea che la riforma del 2012 non ha apportato modifiche alla natura e funzione dell�art. 2 che resta norma di carattere generale (rispetto a quella speciale dell�art. 21 nonies per l�autotutela) che concerne i soli procedimenti ad attivazione obbligatoria. Codesta Agenzia, in ossequio a quanto previsto dagli articoli 2 e 4 della medesima legge, ha provveduto ad individuare, per i procedimenti di propria competenza, i termini e i responsabili degli stessi. Il D.M. 37/1997, sempre seguendo l�art. 2 della legge 241/1990, specifica chi siano i soggetti preposti all�annullamento dell�atto e i poteri sostitutivi in caso di grave inerzia, stabilendo all�art. 1 che �Il potere di annullamento e di revoca o di rinuncia all�imposizione in caso di autoaccertamento spetta all�ufficio che ha emanato l�atto illegittimo o che � competente per gli accertamenti d�ufficio ovvero in via sostitutiva, in caso di grave inerzia, alla Direzione regionale o compartimentale dalla quale l�ufficio stesso dipende�, ma nulla prevedendo relativamente al termine. La stessa disciplina prevista dall�art. 21 nonies della legge sul procedimento amministrativo non prevede limiti temporali all�esercizio del potere di annullamento in via di autotutela e, infatti, statuisce che �Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell�articolo 21-octies pu� essere annullato d�ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall�organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge�. Nel nostro ordinamento, quindi, il decorso del tempo non preclude il potere di ritiro, ma rende solo pi� severa la valutazione comparativa in ordine all�affidamento del privato e impone che l�annullamento d�ufficio sia esercitato entro un termine ragionevole e di ci� si trova conferma anche nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, ove si statuisce che �L�art. 21 nonies l. 7 agosto 1990 n. 241, non fissa un termine ultimo oltre il quale l�esercizio dell�attivit� di autotutela � illegittima, riconducendo la valutazione in concreto in ordine alla tempistica della vicenda al parametro di valutazione della ragionevolezza del termine� (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 febbraio 2012, n. 1081). Il riferimento a tale parametro indeterminato ed elastico fa s� che sia lasciato all�interprete il compito di individuare in concreto il limite temporale, in ragione del grado di complessit� degli interessi coinvolti e del relativo consolidamento secondo il principio costituzionale di ragionevolezza di cui all�art. 3 Cost.: in presenza di posizioni oramai consolidate e a fronte di vizi di legittimit� meramente formali, occorre, infatti, procedere ad un apprezzamento del ragionevole affidamento suscitato nell�amministrato sulla regolarit� della sua posizione (Consiglio di Stato, sez. I, 30 gennaio 2013, n. 5279). Tuttavia, allorch� vengano in rilievo contrastanti interessi di terzi o superiori interessi pubblici, tali principi devono contemperarsi con quello secondo cui per gli atti che esplicano effetti giuridici ripetuti nel tempo il principio di legalit� impone all�Amministrazione il loro adeguamento in ogni momento al quadro normativo di riferimento, dato che, in tali ipotesi, l�interesse pubblico all�esercizio dell�autotutela � in re ipsa e si identifica nella cessazione di ulteriori effetti contra legem. Da ci� pu� desumersi che l�aspetto temporale � strettamente correlato all�affidamento che si genera in capo al privato, inteso quale situazione di fiducia sulla permanenza della situazione determinata dal provvedimento e maturata in capo al destinatario o quale aspettativa del privato che l�Amministrazione si comporti in ogni caso secondo le regole di correttezza, che impongono di tener conto delle situazioni altrui, da essa create, nel momento in cui volesse ritornare sulle proprie decisioni. Il parametro temporale, invece, assume preminente ed autonomo rilievo in relazione al consolidamento della situazione prodotta dal provvedimento annullato in via di autotutela. La giurisprudenza, infatti, ha osservato che l�annullamento di un atto in autotutela, dopo un certo lasso di tempo dalla data di adozione dell�atto medesimo, non pu� fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalit� ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell�atto, dato che l�esercizio di siffatto potere da parte dell�Amministrazione incontra un limite nell�esigenza di salvaguardare le situazioni del privato che, confidando nella legittimit� dell�atto rimosso, ha acquisito il consolidamento di posizioni di vantaggio scaturenti da esso. Il mancato richiamo del Decreto Ministeriale a termini temporali, nonch� la lettera espressa dell�art. 1, 2 comma, del D.l. 5/2012 e dell�art. 21 nonies della l. 241/1990, oltre che le gi� richiamate caratteristiche dell�art. 2, portano a ritenere non applicabili, ai procedimenti aventi natura tributaria connessi all�esercizio del potere di autotutela, le disposizioni temporali relative alla conclusione del procedimento amministrativo e, quindi, anche a quelli di natura tributaria di competenza dell�Agenzia delle Dogane; sul punto in maniera conforme si sono espressi anche il Ministero dell�Economia e delle Finanze (nota prot. n. 3-3409 del 29 marzo 2013) e l�Agenzia delle Entrate (nota prot. n. 36384 del 21 marzo 2013). 3. Per quanto attiene pi� propriamente la materia tributaria, va ribadito che essa � materia specialis rispetto all�ampio genus del diritto amministrativo. A venire in rilievo non sono situazioni di interesse legittimo, ma diritti soggettivi e, pi� esattamente, un diritto soggettivo del contribuente a non essere obbligato a prestazioni patrimoniali all�infuori dei casi contemplati dalla legge, diritto che trova manforte nell�interesse pubblico che deve essere perseguito dall�Amministrazione, anche in ordine alla corretta esazione delle imposte dovute in base alla legge. Il contribuente vanta, invece, un interesse legittimo, a fronte del potere discrezionale della Pubblica Amministrazione di esercitare l�annullamento in autotutela. L�Amministrazione Finanziaria non �, quindi, obbligata a provvedere in sede di autotutela ed � pienamente libera di rivedere o meno i propri atti illegittimi, senza che a ci� faccia capo una posizione tutelabile del privato, con la con seguenza che l�interesse all�applicazione dell�autotutela � identificato soltanto con quello dell�osservanza dei principi di giustizia, legalit� e buona amministrazione degli uffici finanziari. L�Amministrazione ha la facolt�, non l�obbligo, di correggersi e di procedere alla rimozione degli atti illegittimi al fine di realizzare l�interesse pubblico e ripristinare la legalit�, nonch� di ricercare una soluzione alle potenziali controversie insorte, evitando il ricorso a mezzi giurisdizionali, in ossequio al principio dell�economia dei mezzi giuridici. Tale facolt� dell�amministrazione viene ricordata anche nella nota del 21 marzo 2013 dell�Agenzia delle Entrate, nella quale si fa presente che �il Segretario Generale, con circ. 198 del 1998, ha chiarito che se anche gli uffici tributari non posseggono una �potest� discrezionale di decidere a proprio piacimento se correggere o no i propri errori�, gli stessi hanno il potere ma non il dovere giuridico di ritirare l�atto viziato, mentre � certo che il contribuente, a sua volta, non ha un diritto soggettivo a che l�ufficio eserciti tale potere�. L�autotutela, inoltre, non deve essere intesa come un ulteriore mezzo di difesa concesso al contribuente, oltre quelli previsti dal sistema giuridico, n� pu� essere considerato un metodo sostitutivo dei rimedi giurisdizionali ordinari non esperiti, ma solo come uno strumento che permette agli uffici di attivarsi per assicurare il rispetto dei dettati costituzionali di imparzialit� e buon andamento. Del resto, l�esercizio del potere in questione non richiede alcuna istanza di parte e l�eventuale istanza del privato costituisce soltanto un atto di mera sollecitazione che non comporta l�obbligo per l�Amministrazione di avviare un procedimento di autotutela e assumere provvedimenti al riguardo. La mancata risposta dell�amministrazione non comporta, infatti, la formazione di un silenzio con valore giuridico, determinante la riapertura delle procedure di tutela gi� esaurite, ci� in quanto � necessario evitare commistioni tra l�istituto dell�autotutela e quello della tutela, poich� si finirebbe per vanificare il fine a cui l�autotutela stessa � diretta, ovvero la realizzazione dell�interesse pubblico. La Suprema Corte, trattando la questione relativa all�impugnabilit� o meno del rifiuto di autotutela da parte della P.A., ha sostenuto che �In merito alle azioni giudiziarie inerenti il diniego di autotutela da parte dell'amministrazione finanziaria sussiste la giurisdizione del giudice tributario, il quale dovr� valutare, da un lato, l'esistenza dell'obbligazione tributaria e, dall'altro, nei limiti e nei modi in cui ci� sia possibile, il corretto esercizio del potere discrezionale della P.A. In relazione a tale ultimo aspetto � bene sottolineare che la valutazione operata in tale contesto dal giudice, comunque, non pu�, e non deve, sostituirsi a quella operata dall'amministrazione nell'esercizio del potere discrezionale che le compete e, in ogni caso, non pu� comportare l'adozione dell'atto di autotutela da parte del giudice tributario. Il sindacato, in altre parole, pu� riguardare solo la legittimit� del rifiuto e non la fondatezza della pretesa tributaria poich�, in tale ipotesi, il Giudice tributario verrebbe a sostituirsi indebitamente nell'attivit� amministrativa. In conclusione, quindi, deve essere esclusa l'impugnabilit� del diniego di autotutela per ragioni attinenti non alla legittimit� ma al merito� (Cass. civ. Sez. V, 30 giugno 2010, n. 15451). Si conviene, pertanto, con il Ministero dell�Economia e delle Finanze che, nella nota prot. n. 3-3405 del 29 marzo 2013, richiama la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione secondo la quale �avverso l�atto con il quale l�Amministrazione finanziaria manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non � esperibile una autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalit� propria (in questo caso) dell�attivit� di autotutela, sia perch�, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimit� di un atto impositivo ormai definitivo� (Cassazione civile, Sez. Un., 6 febbraio 2009, n. 2870) e prosegue affermando che �Il contribuente che richiede all'Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non pu� limitarsi a dedurre eventuali vizi dell'atto medesimo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, ma deve prospettare l'esistenza di un interesse di rilevanza generale dell'Amministrazione alla rimozione dell'atto. Ne consegue che contro il diniego dell'Amministrazione di procedere all'esercizio del potere di autotutela pu� essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimit� del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria� (Cassazione civile, Sez. trib., 12 maggio 2010, n. 11457). 4. Si deve, quindi, ritenere che non possono esservi limiti temporali al potere della P.A. di annullare, in sede di autotutela, un proprio atto illegittimo in seguito ad una diversa valutazione dell�interesse pubblico, motivatamente correlato agli eventuali interessi ed alle aspettative del soggetto privato coinvolto, salvo il limite della sentenza di merito passata in giudicato sull�atto medesimo (anche se in taluni casi neppure lo stesso giudicato � ostativo in assoluto del- l�esercizio dell�autotutela, purch� il ritiro dell�atto venga fatto per motivi che non contraddicono il contenuto della sentenza passata in giudicato e che non siano stati oggetto di esame specifico da parte dell�organo giudicante). Del resto, all�art. 1, comma 136, della L. 311/04, � lo stesso Legislatore a prendere una specifica posizione, disponendo che �Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, pu� sempre essere disposto l�annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l�esecuzione degli stessi sia ancora in corso�. In definitiva, con l�esercizio del potere di autotutela, l�ufficio, dopo aver ponderato le diverse esigenze in gioco, quali la certezza e stabilit� dei rapporti, il profilo della buona fede del contribuente, la gravit� del vizio denunciato etc., decide, facendosi carico di una funzione in senso ampio giustiziale ed in ossequio al principio di capacit� contributiva oltrech� a quelli di buona fede, imparzialit� e buon andamento dell�amministrazione, se procedere o meno al ritiro di una pretesa gi� formalizzata. In conclusione, deve escludersi l�applicazione dell�art. 2 della legge n. 241/1990 ai procedimenti relativi all�esercizio del potere di autotutela posti in essere dall�Amministrazione doganale. Sulla questione � stato sentito il Comitato Consultivo che si � espresso in conformit� nella seduta del 10 maggio 2013. Sull�affidamento della gestione del Fondo per il sostegno finanziario dell�internalizzazione del sistema produttivo (Fondo Pubblico di Venture Capital - FVC) (Parere prot. 258903 del 12 giugno 2013, AL 42778/12, avv. MARINA RUSSO) Con la nota in riferimento, l�Amministrazione in indirizzo richiede il parere della Scrivente sulla questione in oggetto, articolando tre quesiti: 1. Se l�affidamento della gestione del FVC debba avvenire attraverso una gara ad evidenza pubblica, ovvero con procedura negoziata ai sensi dell�art. 57 del Codice dei contratti pubblici approvato con D.lgs. 163/06; 2. Se l�entrata in vigore del suddetto Codice abbia determinato l�abrogazione tacita delle previgenti norme che individuano in SIMEST il gestore del Fondo, e se il Codice stesso valga quale chiave interpretativa delle norme riguardanti la medesima materia entrate in vigore successivamente, o se - invece - sia corretto procedere alla disapplicazione delle norme che prevedono l�affidamento a SIMEST della gestione del FVC per contrasto con l�ordinamento comunitario; 3. Se - ai fini dell�affidamento della gestione con gara - occorra l�adozione di una norma di rango primario. Tanto premesso, la Scrivente rende il seguente parere. I) Sembra utile premettere alcuni cenni relativi alla finalit� ed al funzionamento del FVC, nonch� al quadro normativo che lo riguarda. I.1) La finalit� del FVC � quella di sostenere l�internazionalizzazione delle imprese italiane. Ci� avviene attraverso l�acquisizione, alimentata attraverso il FVC, di quote partecipative nel capitale delle societ� che intendono svolgere attivit� su mercati esteri. Il FVC � e resta di propriet� ministeriale, ed � gestito da SIMEST secondo un sistema c.d. �rotativo�; ci� significa che le quote acquisite devono essere nuovamente cedute entro un determinato numero di anni, cos� che il FVC si autoalimenti attraverso il prezzo comprensivo delle eventuali plusvalenze ricavate dalla vendita delle partecipazioni azionarie alle imprese. Il solo compenso percepito per la gestione del FVC da Simest �, dunque, quello pagato dal MISE come previsto nella convenzione. I.2) Sono tuttora formalmente vigenti le norme di legge che prevedono, rispettivamente: -l�affidamento a SIMEST della �gestione degli interventi di sostegno finanziario all'internazionalizzazione del sistema produttivo di cui alla legge 24 aprile 1990, n. 100� , (art. 25 del D.lgs. 143/1998); -l�autorizzazione alla costituzione di SIMEST nonch� l�inserimento, fra i suoi compiti, della gestione, in base ad apposite convenzioni, dei fondi �di cui al comma 1 dell'articolo 25 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 143, nonch� i fondi rotativi di cui all'articolo 5, comma 2, lettera c), della legge 21 marzo 2001, n. 84, e quelli istituiti ai sensi dell'articolo 46 della legge 12 dicembre 2002, n. 273� (legge 100/90 art. 1 commi 1 e 2 lett. h-quinquies, introdotto dall�art. 7 comma 2 l. 56 del 31 marzo 2005). I fondi ivi menzionati sono quelli poi confluiti, per effetto dell�art. 1 comma 932 della legge Finanziaria 2007, nel Fondo Unico oggetto del quesito in esame. La persistente vigenza delle norme sopra richiamate ha altres� trovato recente conferma nell�art. 23-bis del D.L. 95/12, conv. in l. 135/12, che - attribuendo a Cassa Depositi e Prestiti il diritto di opzione per l�acquisto delle partecipazioni statali in SIMEST - ha altres� previsto (al comma 5) che quest�ultima continui a svolgere le attivit� gi� affidatele in base alle norme legislative e regolamentari vigenti, nonch� �� ad osservare le convenzioni con il Ministero dello Sviluppo Economico gi� sottoscritte o che verranno sotto- scritte con il Ministero in base alla normativa di riferimento�. II) Venendo ai quesiti sottoposti da codesta Amministrazione all�esame della Scrivente, si osserva quanto segue. II.1) L�art. 25 D.lgs 143/1998 descrive l�attivit� affidata a SIMEST come la gestione degli interventi di sostegno finanziario all'internazionalizzazione del sistema produttivo, mentre la Convenzione recante il disciplinare del rapporto precisa, nelle premesse, che oggetto della stessa � la novazione dei pregressi rapporti convenzionali relativi alla gestione di �interventi di venture capital e/o l�acquisizione di partecipazioni aggiuntive� e, all�art. 3, che l�attivit� del gestore � finalizzata all��acquisizione e successiva cessione delle partecipazioni�, e comprende altres� tutta una serie di attivit� collaterali e strumentali, quali la promozione e cura del contenzioso, lo studio dei mercati di riferimento, l�operativit� dei fondi e l�amministrazione della relativa liquidit�, la tenuta delle scritture dei Fondi, la stipula di contratti, la valutazione dei piani aziendali ecc.. Le attivit� sopra descritte potrebbero, prima facie, sembrare riconducibili alla definizione di �servizi finanziari� contenuta nel Codice dei Contratti. Tuttavia, ad un pi� approfondito esame, sembra che il servizio di gestione dei FVC di cui SIMEST � titolare ex lege vada, invece, sottratto all�ambito di applicazione del Codice stesso, trattandosi di un servizio prestato da un�amministrazione aggiudicatrice in favore di un�altra, sulla base di un diritto esclusivo previsto da norme legislative (quelle, tuttora vigenti, richiamate sopra, al punto I.2) che non sembrano presentare profili di possibile contrasto con il trattato (cfr. art. 19 comma 2 del Codice). Ci� in ragione degli argomenti che qui di seguito si espongono. II.2) Debbono tenersi nella debita considerazione sia la natura pubblicistica dei soggetti parte del rapporto, quali sono il Ministero e SIMEST (ambedue �amministrazioni aggiudicatrici� ex art. 3 comma 25 del Codice, in quanto amministrazione dello Stato il primo, ed organismo di diritto pubblico il secondo), sia la riserva ex lege dell�attivit� di gestione del FVC, sia - infine - le specifiche peculiarit� proprie di detta attivit�. II.2.a) Quanto al primo dei summenzionati profili, occorre considerare, quanto alla natura pubblicistica di SIMEST che quest�ultima presenta i tratti distintivi propri dell��organismo di diritto pubblico� tale essendo, ex art. 3 comma 26 del Codice, �qualsiasi organismo anche in forma societaria istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; dotato di personalit� giuridica; la cui attivit� sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d�amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali pi� della met� � designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico�. SIMEST, infatti, � un soggetto: -dotato di personalit�; -il cui capitale azionario � detenuto al 76% da Cassa Depositi e prestiti (la cui natura di organismo di diritto pubblico � stata espressamente riconosciuta dal C.d.S. con sent. 550/2007); -che opera �per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale�, quale l�internazionalizzazione delle imprese. N� deve dubitarsi che quest�ultima attivit� sia priva di carattere industriale o commerciale: invero, bench� la stessa si svolga a scopo di lucro ed in regime di concorrenza e bench�, secondo la giurisprudenza nazionale e comunitaria, tali circostanze possano rilevare come indizi del carattere commerciale di un�attivit� (si vedano C.d.S. 2764/08 e 1913/08 e C-229/99 e 260/99, che hanno escluso la finalit� di interesse pubblico di alcuni enti fieristici, in quanto perseguono essenzialmente fini di sostegno all�iniziativa economica privata), detti indizi non hanno tuttavia carattere necessariamente decisivo ai fini della connotazione dell�attivit� stessa: il carattere commerciale infatti ben pu� essere escluso in presenza di un interesse pubblico prevalente, come ritenuto dal Consiglio di Stato (sent. n. 6835/11) sempre con riferimento ad una s.p.a fieristica, in ragione della prevalenza, nel caso esaminato, dell�interesse pubblico perseguito da detta s.p.a., emergente dalla prevalenza del ritorno di immagine di cui il territorio beneficia per effetto dell�organizzazione di manifestazioni com merciali. La giurisprudenza comunitaria (C-360/96) ha, a sua volta, escluso il carattere commerciale di un�attivit� in ragione del solo fatto che il soggetto opera in un regime concorrenziale, laddove si versi in una situazione in cui l�operatore potrebbe essere indotto a subire perdite economiche per perseguire una determinata politica, condizione - quest�ultima - che puntualmente ricorre nel caso oggetto del presente parere (sul che si dir� oltre, al punto II.2.b). Ci� posto, appare evidente come l�internazionalizzazione delle imprese effettivamente corrisponda proprio ad un interesse pubblico, che assume carattere di prevalenza. Essa, infatti - oltre a rilevare come mezzo per l�attuazione della politica industriale nazionale - soprattutto costituisce diretto strumento di politica estera, tantՏ vero che, secondo l�art. 2 l. 100/90, �Il Ministro del commercio con l'estero, sentiti il direttore generale della Sezione speciale per l'assicurazione del credito all'esportazione (SACE), il direttore generale del Mediocredito centrale e il direttore generale dell'Istituto nazionale per il commercio estero e sulla base degli indirizzi generali stabiliti dal Comitato interministeriale per la politica economica estera (CIPES), all'uopo allargato al Ministro delle partecipazioni statali, anche con riferimento a specifiche iniziative di rilevante interesse nazionale, formula le linee direttrici per gli interventi della SIMEST S.p.a., con particolare riguardo ai settori economici, alle aree geografiche, alle priorit� e ai limiti degli interventi, e ne verifica il rispetto. In ogni caso gli interventi della societ� devono essere basati su rigorosi criteri di validit� economica delle iniziative partecipate. 2. Con deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica potranno essere individuati Paesi o aree geografiche di interesse prioritario ai fini degli interventi della SIMEST S.p.a. ��. Si tratta, insomma, di finalit� pubbliche che trascendono il mero interesse privato degli imprenditori che accedono ai finanziamenti, e che - in quanto attengono non solo alla politica economica ed industriale del Paese, ma anche a quella estera - rivestono interesse generale e rientrano fra le attribuzioni fondamentali ed esclusive dello Stato. Quanto alla prevalenza del fine pubblico, essa non pu� essere negata, sol che si considerino le sostanziali restrizioni che esso impone alla libera iniziativa economica di SIMEST, sul che si dir� subito infra, al punto II.2.b). II.2b) Venendo al secondo profilo indicato al punto II.2), cio� la riserva ex lege (artt. 25 D.lgs 143/98, 1 l. 100/90) dell�attivit� affidata a SIMEST ed il particolare oggetto della stessa, si osserva che la rilevanza in termini di politica estera di detta attivit�, meglio descritta al punto che precede, implica che SIMEST - pur operando in regime di concorrenza (in quanto le attivit� elencate all�art. 1 della legge 100/909 non sono suo esclusivo appannaggio) ed a scopo di lucro -non possa tuttavia essere equiparata agli altri operatori del mercato: non solo, infatti, come gi� evidenziato, essa subisce un pesante condizionamento da parte dello Stato quanto ad individuazione delle priorit�, dei limiti e dei settori degli interventi, tale da poter ridurre anche significativamente il margine di lucro conseguibile rispetto a quello ottenibile da un soggetto che si muova liberamente sul mercato, ma � anche soggetta ad ulteriori, precise condizioni e limitazioni, quali la durata (otto anni) delle partecipazioni assunte nelle imprese finanziate ed il relativo ammontare (art. 5 comma 2 lett. C. l. 84/01), il limite massimo della partecipazione percentuale che essa pu� acquisire nelle imprese partecipate (art. 1 comma 2 lett. h-bis l. 100/90). III) Le suesposte considerazioni inducono a ritenere che l�affidamento della gestione del FVC operi su di un piano ben distinto rispetto a quello del Codice dei Contratti, ricorrendo nella specie tutti i requisiti cui l�art. 19 comma 2 del medesimo condiziona l�esclusione dal proprio campo applicativo dei cosiddetti appalti �interni�. Come detto, infatti, la gestione del FVC costituisce oggetto di un diritto esclusivo riservato ex lege da un�Amministrazione aggiudicatrice ad un�altra; n� le norme che riservano detta gestione a SIMEST sembrano presentare profili di possibile incompatibilit� con il Trattato U.E.: ci� proprio in considerazione della diretta funzionalit�, meglio descritta in precedenza, dell�attivit� svolta da SIMEST ad una prerogativa esclusiva dello Stato, qual � la gestione della politica estera, oltre che delle forti limitazioni alla libera iniziativa imprenditoriale di SIMEST che tale funzionalit� comporta. ��� La risposta della Scrivente ai quesiti di cui sopra � pertanto la seguente: Non sussistono i presupposti per dar luogo alla disapplicazione, n� per ritenere l�intervenuta abrogazione, delle norme che riservano a SIMEST la gestione dei FVC; Pertanto - alla scadenza della Convenzione attualmente in essere con SIMEST - non si dovr� ricorrere ad una procedura ad evidenza pubblica per l�affidamento della gestione del FVC, bens� dovr� procedersi al rinnovo della convenzione stessa, restando tuttora valido e vigente il sistema di affidamento ex lege del servizio in via riservata a SIMEST. ��� Il suesposto parere � stato sottoposto all�approvazione del Comitato Consultivo della Scrivente che, nelle sedute del 19 aprile 2013 e 31 maggio 2013, si � espresso in conformit�. Accise: sanzioni per la tutela del bene giuridico sostanziale (evasione/tentata evasione di imposta) e sanzioni per la tutela del bene giuridico formale (mancata/non corretta dichiarazione in via telematica) (Parere prot. 258941 del 12 giugno 2013, AL 6610/13, avv. FABIO TORTORA) In riferimento alla richiesta di parere all�oggetto, ritiene la scrivente Avvocatura di condividere, per le ragioni di seguito indicate, la prospettazione di codesta Agenzia in ordine al rispettivo ambito applicativo delle disposizioni di cui all�art. 59, comma 1, del D.Lgs. 26 ottobre 1995 n. 504 (Testo Unico in materia di Accise; di seguito, breviter, T.U.A.) ed all�art. 1, comma 1 bis, del D.L. 3 ottobre 2006 n. 262 (introdotto dall�art. 11, comma 6, D.L. 2 marzo 2012 n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012 n. 44). L�art. 59, comma 1 del T.U.A. recita: �1. Indipendentemente dall�applicazione delle pene previste per i fatti costituenti reato, sono puniti con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro dal doppio al decuplo dell�imposta evasa o che si � tentato di evadere, non inferiore in ogni caso a 258 euro, i soggetti obbligati di cui all'articolo 53 che: � c) omettono o redigono in modo incompleto o inesatto le dichiarazioni di cui agli articoli 53, comma 8, e 55, comma 2, non tengono o tengono in modo irregolare le registrazioni di cui all�articolo 55, comma 7, ovvero non presentano i registri, i documenti e le bollette a norma dell'articolo 58, commi 3 e 4; ��. Viceversa l�art. 1, comma 1 bis, del D.L. 3 ottobre 2006 n. 262 recita: �1bis. Indipendentemente dall�applicazione delle pene previste per le violazioni che costituiscono reato, la omessa, incompleta o tardiva presentazione dei dati, dei documenti e delle dichiarazioni di cui al comma 1, ovvero la dichiarazione di valori difformi da quelli accertati, � punita con la sanzione amministrativa di cui all�articolo 50, comma 1, del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504�. Nonostante il tenore letterale delle citate norme possa, ad una prima lettura, ingenerare l�apparenza di una possibile loro contestuale applicazione nella disciplina delle conseguenze della mancata, inesatta o incompleta comunicazione all�Amministrazione della dichiarazione di consumo annuale di cui all�art. 53, comma 8, T.U.A., la questione del rapporto fra le disposizioni in parola appare potersi dirimere mediante una corretta applicazione del principio di specialit�. In particolare, ad avviso della scrivente, fra l�art. 59 comma 1, T.U.A. e l�art. 1, comma 1 bis, D.L. 262/2006 intercorrerebbe un rapporto di specialit� cd. �per aggiunta�, l�elemento ulteriore e specializzante della disposizione di cui all�art. 59 comma 1, T.U.A. dovendosi individuare - come correttamente evidenziato da codesta Agenzia - nella evasione o nella tentata evasione d�imposta. Alla differente configurazione �strutturale� pare corrispondere, peraltro, anche una diversa oggettivit� giuridica. La disposizione di cui all�art. 1 comma 1 bis, D.L. 262/2006 sembra, infatti, posta a presidio della specifica modalit� (telematica) con la quale deve assolversi all�obbligo di presentazione annuale delle dichiarazioni di cui al precedente comma 1 lett. c) del medesimo articolo (�c) � dichiarazioni di consumo per il gas metano e l�energia elettrica di cui agli articoli 26 e 55 del testo unico delle accise di cui al decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504� - come gi� rilevato, in proposito, da codesta Agenzia il riferimento all�art. 55 deve intendersi fatto oggi all�art. 53, comma 8 T.U.A., ex art. 1, comma 1, lett. d, D.Lgs. n. 26/2007), mentre la norma di cui all�art. 59 comma 1 T.U.A. mira evidentemente al pi� ampio obiettivo di garantire il pagamento dell�accisa sull�energia elettrica prodotta nel corso dell�annualit�, sanzionando le condotte trasgressive in maniera proporzionale rispetto al danno erariale effettivamente arrecato. La funzione della prima disposizione - volta a presidiare il bene di natura �formale� rappresentato dall�interesse dell�Amministrazione all�acquisizione in modalit� telematica della summenzionata dichiarazione - appare quindi marcatamente anticipatoria rispetto all�esigenza di tutela del bene giuridico �sostanziale� costituito dalla corretta e completa esazione dell�accisa dovuta. La stessa pi� ampia portata della norma di cui all�art. 1 comma 1 bis D.L. 262/2006 - mirante a garantire una serie di obblighi di comunicazione per via telematica alla P.A. di dichiarazioni e informazioni che riguardano anche settori diversi dalla produzione di energia elettrica - conferma l�assunto interpretativo che si tratti di una norma ispirata a differenti finalit� e volta a tutelare un diverso bene giuridico rispetto all�art. 59 comma 1 T.U.A.. Analogamente, appare confermare tale interpretazione la considerazione che l�art. 50 comma 1 T.U.A. sarebbe gi� di per s� idoneo a sanzionare �la omessa o tardiva presentazione delle dichiarazioni e delle denunce prescritte� (n.d.r., dal medesimo T.U.A.), potendosi razionalmente spiegare l�introduzione della disposizione in questione solo con l�intento del legislatore di sanzionare la mancata presentazione per via telematica della dichiarazione indicata al comma 1 della medesima disposizione. Inoltre, ulteriori indici rivelatori della mancata coincidenza dell�ambito applicativo delle disposizioni in questione sono da individuarsi nella diversa collocazione sistematica e nel ricorso a una differente tecnica sanzionatoria. Come noto, infatti, l�art. 1 comma 1 bis D.L. 262/2006, mediante il rinvio all�art. 50 T.U.A., prevede una sanzione di portata afflittiva piuttosto modesta e compresa entro limiti fissi e predeterminati, mentre l�art. 59 comma 1 T.U.A. commina una sanzione da determinarsi proporzionalmente rispetto all�importo dell�effettiva o tentata evasione. Conforta tale ricostruzione anche il raffronto fra il contenuto dispositivo del primo e dell�ultimo comma dell�art. 59, ultimo comma, peraltro, modificato anch�esso dal D.L. 2 marzo 2012 n. 16 (art. 11 comma 5 lett. b)), con la previsione di una sanzione identica a quella di cui all�art. 1 comma 1 bis D.L. 262/2006. Laddove, infatti, le norme qui prese in esame si ritenessero effettivamente concorrere sempre, non si comprenderebbe come lo stesso Legislatore che ha introdotto il comma 1 bis nell�art. 1 del D.L. 262/2006 non abbia contestualmente modificato il primo comma dell�art. 59 - in ipotesi, abrogandolo - bens� l�ultimo comma di tale disposizione. Pertanto, qualora si ritenessero �sovrapponibili� le norme in esame, la condotta di chi, omettendo o comunque redigendo in maniera incompleta o inesatta le dichiarazioni di cui all�art. 53, comma 8 T.U.A. abbia evaso o tentato di evadere l�accisa sarebbe sanzionata, del tutto illogicamente, con la medesima sanzione prevista, in via generale e residuale, dall�art. 59 u.c. T.U.A. per �ogni altra violazione delle disposizioni del presente titolo e delle relative norme di applicazione�. Si realizzerebbe, cos�, una perfetta coincidenza fra la sanzione comminata per il caso, evidentemente pi� grave, di evasione o tentata evasione d�imposta e quella prevista per il novero delle condotte, certamente connotate da una minore offensivit�, riconducibili alla disposizione �di chiusura� di cui all�ultimo comma dell�art. 59 T.U.A.. Sembra da escludere, ad avviso della scrivente, che il Legislatore, peraltro con il medesimo intervento novellistico, abbia inteso addivenire a risultati connotati da tale incongruenza sistematica ed irrazionalit� applicativa. E ci� vale a maggior ragione se si considera la ratio che appare sottesa all�intervento novellistico realizzato con il decreto legge 2 marzo 2012 n. 16, recante �disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento�, con l�art. 11 significativamente inserito nel Titolo II (�Efficientamento e potenziamento dell�azione dell�amministrazione tributaria�), Capo II (�Potenziamento�). Sembra, infatti, da escludere che il Legislatore abbia inteso mitigare la risposta sanzionatoria per i pi� gravi casi di evasione - o tentata evasione dell�accisa con la medesima norma - l�art. 11 - che ha provveduto a raddoppiare le sanzioni previste per le pi� lievi violazioni di cui agli artt. 50 e 59 comma 5 T.U.A.. In conclusione, dal complessivo esame delle modifiche normative introdotte dall�art. 11 del D.L. 16/2012 emerge un disegno che appare coerente e che, al di l� della formulazione letterale del comma 1 bis, in qualche misura equivoca, appalesa la finalit� di rafforzare, e non certo di attenuare, la reazione sanzionatoria per i casi di violazione della disciplina dettata in materia di accise. La scrivente Avvocatura ritiene, pertanto, di dover convenire con quanto prospettato da codesta Agenzia con la nota citata in riferimento in merito ai criteri di delimitazione del rispettivo ambito applicativo delle disposizioni di cui all�art. 59 comma 1 T.U.A. ed all�art. 1 comma 1 bis D.L. 262/2006, e cio� che la sanzione di cui all�art. 1, comma 1 bis D.L. 262/2006 vada in ogni caso applicata esclusivamente laddove la dichiarazione di consumo annuale non venga presentata o venga presentata in formato diverso da quello telematico o in modo incompleto rispetto alle modalit� previste per l�invio telematico, o tardivamente, fermo restando che da tali condotte non derivi in ogni caso alcuna evasione o tentativo di evasione d�imposta, per il quale caso vige, anche in possibile concorso, la diversa sanzione prevista dall�art. 59 comma 1 T.U.A.. Sul parere, costituente questione di massima, � stato sentito il Comitato Consultivo che, nella seduta del 30 maggio 2013, si � espresso in conformit�. Criteri interpretativi delle ordinanze cautelari in materia di appalti pubblici (Parere reso in via ordinaria, AL 47705/12, avv. VINCENZO NUNZIATA) Si fa riferimento all�oggetto ed in particolare alla richiesta di chiarimenti formulata da codesta Societ� circa la modalit� con cui prestare esecuzione alla ordinanza del Consiglio di Stato n. 1680/2013 che ha accolto l�istanza cautelare. I dubbi di codesta Societ� sono evidentemente correlati ai possibili effetti della pronunzia cautelare rispetto alla aggiudicazione o addirittura al contratto, nella specie in corso di esecuzione. Come � noto il Consiglio di Stato ha motivato sia con riferimento al periculum che al fumus, ritenendo sotto questo secondo profilo che �non paiono prima facie infondate� le censure formulate ex adverso concernenti le offerte dell�aggiudicataria e della seconda classificata. � dunque plausibile affermare che vi sia una concreta possibilit� di soccombenza all�esito del giudizio di merito. Tanto premesso, e per venire alle concrete modalit� di esecuzione, va detto che l�ordinanza non � del tutto perspicua, posto che, nella parte dispositiva, �accoglie l�istanza cautelare in primo grado�, compensa le spese, ed ordina la trasmissione dell�ordinanza al TAR per la urgente fissazione dell�udienza di merito ex art. 119, comma 3, c.p.a. Va subito premesso che non aiuta il riferimento ai contenuti dell�istanza di sospensione in primo grado posto che il ricorso introduttivo, proposto come � noto dinanzi al Tar Sardegna, poi dichiaratosi incompetente, genericamente si riferiva agli atti della procedura e ricollegava la sussistenza del fumus proprio alla possibile stipula del contratto, avvenuta come � noto solo a seguito della favorevole pronunzia cautelare di primo grado. L�art. 119, comma 3, cpa dispone che �il tribunale amministrativo regio nale chiamato a pronunciare sulla domanda cautelare, se ritiene, a un primo sommario esame, la sussistenza di profili di fondatezza del ricorso e di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza�. Prosegue che �In caso di rigetto dell'istanza cautelare da parte del tribunale amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato riformi l'ordinanza di primo grado, la pronuncia di appello � trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell'udienza di merito�. Come si vede, il comma 3 non fa riferimento a misure cautelari specifiche n� richiede (o presuppone) la sospensione dei provvedimenti impugnati, sostanziando i concreti effetti della pronunzia cautelare nella ulteriore accelerazione del giudizio, finalizzata evidentemente all�obiettivo di evitare che i tempi della decisione pregiudichino l�interesse della parte che ha ragione. Tale contenuto (o finalit�) della tutela cautelare, come prevista al comma 3, trova ulteriore rafforzamento nel disposto del comma 4 dell�articolo 119, ai sensi del quale �con l�ordinanza di cui al comma 3, in caso di estrema gravosit� ed urgenza, il Tribunale amministrativo dispone le opportune misure cautelari�. In questa ultima ipotesi, dunque, al giudice amministrativo � affidato non solo il compito di accelerare il giudizio, ma anche di dettare concrete misure connesse all��estrema gravit� o urgenza�: ci� che, evidentemente, nella specie non si � verificato. La disposizione di cui all�articolo 119 costituisce la sostanziale riproduzione ai giudizi abbreviati di cui al Titolo V del c.p.a. dell�articolo 55 stesso codice, dettato per il rito ordinario (in particolare commi 10 e ss.), con la unica (ma sostanziale) differenza che nel rito abbreviato il giudice amministrativo, in caso di accoglimento della cautela, deve fissare l�udienza di merito. Non a caso, in sede cautelare, il Consiglio di Stato ha affermato che anche la pronunzia con cui il Tar, ai sensi dell�articolo 55, comma 10, cpa, fissa l�udienza di merito, ha natura di pronunzia cautelare. Tale ricostruzione � sostanzialmente condivisa dalla dottrina che si � occupata della questione. Cos�, ad esempio si � affermato (Codice del Processo Amministrativo a cura di Mario Sanino pag. 252) che �La disposizione di cui al comma 3 del- l�articolo in esame non prevede di regola la concessione dell�istanza cautelare, anche ove ritenuti sussistenti i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, ma stabilisce semplicemente che il TAR fissa con immediatezza l�udienza di merito. Ci� nel presupposto che la ravvicinata definizione del giudizio e dunque il probabile esito favorevole per il ricorrente (almeno secondo quanto emerge in termini di probabilit� ad una prima valutazione in sede cautelare) rende non indispensabile per la sospensione dell�efficacia degli atti impugnati. Si ritiene, in altri termini, che la celere definizione del giudizio, attraverso l�immediata fissazione dell�udienza di merito sia idonea ad impedire il verificarsi di effetti irreversibili. Tuttavia, nel giudizio abbreviato l�accoglimento della domanda cautelare non � preclusa in assoluto, ma solo sottoposta a pi� severi presupposti per la sua concessione. Il 4 comma, infatti stabilisce la possibilit� di accordare le opportune misure cautelari in caso di estrema gravit� ed urgenza. Il requisito dell�estrema gravit� ed urgenza sembra presupporre una fattispecie in cui anche la celere fissazione dell�udienza di merito non consente comunque di lasciare immutato lo stato di fatto, ma rende anzi indispensabile il ricorso a misure cautelari, in assenza delle quali anche l�accoglimento del ricorso rischierebbe di rendere vani gli effetti annullatori del provvedimento. Si ritiene generalmente che il Consiglio di Stato, nell�ipotesi di accoglimento dell�istanza cautelare, in coerenza con la disposizione del 3� comma, non � tenuto ad accordare la tutela cautelare ma pi� semplicemente deve limitarsi a ravvisare la sussistenza dei presupposti per la sollecita fissazione dell�udienza di merito�. Orbene, nella specie il Consiglio di Stato non ha adottato alcuna effettiva misura cautelare che si concreti nella sospensione degli effetti dei provvedimenti impugnati (come avrebbe potuto e normalmente nella pratica avviene quanto il giudice amministrativo, nell�accogliere l�istanza cautelare, indica altres� i provvedimenti sospesi negli effetti). Non sembra a questo punto possa revocarsi in dubbio, sulla base del tenore letterale delle disposizioni citate, che la pronunzia cautelare adottata rientri dunque nella previsione di cui al comma 3 dell�articolo 119, inidonea pertanto a produrre effetti sospensivi del contratto stipulato. Ma in questo senso depongono anche argomenti di carattere sistematico. � noto che il recente c.p.a. � intervenuto in maniera esauriente sulla complessa tematica dei rapporti tra annullamento dell�aggiudicazione, naturalmente solo all�esito del giudizio di merito, e conseguente caducazione degli effetti del contratto, risolvendo le precedenti perplessit� dottrinali e giurisprudenziali sulla situazione di invalidit� in cui venga trovarsi il contratto stesso una volta annullato il provvedimento di aggiudicazione. � noto altres� che lo stesso c.p.a. non prevede di norma un automatismo tra annullamento dell�aggiudicazione e dichiarazione di inefficacia del contratto (articolo 122), salvo le ipotesi in cui la declaratoria di inefficacia consegua a determinate fattispecie di particolare gravit� (art. 121). Ci� che nel complesso emerge dal sistema delineato dal nuovo cpa � una particolare cautela del legislatore rispetto alla soluzione radicale della cessazione degli effetti del contratto, connessa evidentemente al naturale contemperamento della effettiva tutela della parte risultata vittoriosa con l�interesse pubblico perseguito con l�affidamento contrattuale. � stato cos� affermato in giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 5 novembre 2012, n. 5591) che �dopo l'entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva comunitaria 2007/66/CE, ora trasfuse negli artt. 121 e 122 c.p.a., in caso di annullamento giudiziale dell'aggiudicazione di una pubblica gara spetta al giudice amministrativo il potere di decidere discrezionalmente, anche nei casi di violazioni gravi, se mantenere o no l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato; il che significa che l'inefficacia non � conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba continuare o non a produrre effetti, sicch� la privazione degli effetti del contratto per effetto del- l'annullamento dell'aggiudicazione deve formare oggetto di una pronuncia giurisdizionale tipica�. Analogamente, si � affermato (Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 2012, n. 932), che �In materia di appalti pubblici, la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 53 del 2010 e poi trasfusa nell'art. 122 del codice del processo amministrativo, caratterizzata da una maggiore semplificazione, concentrazione in un unico processo ed effettivit� della tutela, secondo quanto previsto dalla normativa comunitaria di cui alla direttiva n.66/2007/CEE, comporta il potere del giudice amministrativo di pronunciarsi in ordine all'inefficacia del contratto, con estensione della giurisdizione esclusiva. � del tutto consequenziale che il sindacato sulla sorte del contratto determini, all'esito della decisione di annullamento dell'aggiudicazione, un assetto del rapporto contrattuale - nel senso della sua inefficacia o del suo mantenimento - che le parti sono obbligate ad osservare e di cui devono tenere conto nei successivi comportamenti�. Ci� che � sicuro, � che la pronunzia di merito che dichiari la inefficacia del contratto deve disporla espressamente e deve essere ancorata dal punto di vista argomentativo ai criteri di valutazione puntualmente indicati dall�articolo 122. Tutto ci� non � nella specie ed anzi, anche ammesso in ipotesi che il giudice amministrativo disponga nella fase cautelare del potere di sospendere gli effetti del contratto in una con l�aggiudicazione, in concreto l�ordinanza cautelare assolutamente nulla dice al riguardo. Conseguentemente, una lettura ad opera dell�interprete della pronunzia cautelare tale da ricollegare ad essa anche effetti sul contratto, comporterebbe una (inammissibile) attivit� di integrazione e/o completamento della pronuncia giudiziale dai confini assolutamente incerti, se non discrezionali. Ed esporrebbe la Stazione appaltante al rischio di azioni risarcitorie da parte dell�aggiudicataria nell�ipotesi di (in ogni caso possibile) esito ad essa favorevole del giudizio; e ci�, a tacere dell�interesse pubblico che verrebbe sicuramente compromesso dal ritardo nell�esecuzione delle prestazioni contrattuali, le quali certo non potrebbero in questa fase interinale essere svolte dal ricorrente (come invece pu� verificarsi, all�esito della pronuncia di merito, con il subentro del ricorrente vittorioso nel contratto). Tanto premesso in punto di diritto, � chiaro che in concreto deve raccomandarsi a codesta Societ� una particolare cautela nella gestione della vicenda contrattuale, sino alla pronunzia di merito del TAR (che questo G.U. ha gi� provveduto a sollecitare con apposita istanza e che � stata fissata all�udienza del 17 luglio p.v.). Ci� evidentemente in applicazione dei principi di buon andamento e di interpretazione secondo buona fede della pronunzia cautelare, nell�obiettivo di assicurare il perseguimento dell�interesse pubblico, ma anche di non svuotare di contenuto il possibile esito del giudizio favorevole alla parte ricorrente. In concreto, quindi, codesta Societ� dovr� valutare le specifiche attivit� che l�aggiudicatario sta svolgendo, eventualmente evitando di commetterne di nuove ed ulteriori, con il rischio che si producano nuovi e maggiori oneri all�esito della pronunzia di accoglimento, alla quale come � noto possono conseguire, oltre che la dichiarazione di inefficacia del contratto, effetti sanzionatori e risarcitori anche per equivalente (articoli 123 e 124 c.p.a.). Al fine di pervenire quanto prima ad un chiarimento, ove codesta Societ� lo ritenga utile, questa Avvocatura potr� richiedere in sede di udienza di merito la pubblicazione anticipata del dispositivo (articolo 119, comma 5, cpa). Si segnala inoltre che, in presenza di particolari perplessit� interpretative da parte di codesta Societ�, risulta attivabile la speciale procedura prevista dall�articolo 112, comma 5, cpa, volta a richiedere al medesimo Giudice chiarimenti in ordine alle modalit� di esecuzione anche della pronunzia cautelare. Si resta a disposizione per quanto possa occorrere. Con l�occasione, ai fini della predisposizione di eventuali ulteriori scritti difensivi, vorr� codesta Societ� far conoscere le proprie valutazioni sui punti, relativi al fumus, ritenuti rilevanti dal Consiglio di Stato. Domanda di accesso al Fondo di rotazione per la solidariet� alle vittime dei reati di tipo mafioso. Legge 22 dicembre 1999, n. 512 (Parere reso in via ordinaria prot. 249896 del 7 giugno 2013, AL 41396/12, avv. MASSIMO SALVATORELLI) Con la nota indicata in oggetto codesta Amministrazione ha fornito i chiarimenti richiesti dalla Scrivente con il foglio n. 481997 del 6 dicembre 2012 con riferimento alla Delibera n. 92 del 28 febbraio 2012 relativa alla domanda di accesso al Fondo indicato in oggetto presentata dal dottor (...), congiunto del giornalista (...), assassinato dalla camorra in data (...). In particolare, ad integrazione di quanto esposto nella richiesta di parere del 2 novembre 2012, si fornisce documentazione dalla quale emerge che la sentenza della Corte d�Assise d�appello di Napoli � stata depositata in data 30 settembre 1999 e che � passata in giudicato (per tutti gli imputati tranne uno) il 13 ottobre 2000. Viene inoltre chiarito che il dottor (...) non ha assunto ad oggi iniziativa alcuna avverso il provvedimento di reiezione della domanda di accesso al Fondo. Tanto premesso, si rammenta che il provvedimento negativo (di rigetto per tardivit�) � stato a suo tempo adottato sulla base di una interpretazione letterale del disposto dell�art. 5, comma 5, della L. 22 dicembre 1999, n. 512 (�la domanda al fondo per il risarcimento dei danni disposto con sentenze pronunciate prima della data di entrata in vigore della presente legge � proposta, a pena di decadenza, �, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge�). Come visto, per la sentenza in esame non solo la lettura del dispositivo, ma anche il deposito � effettivamente avvenuto in data anteriore all�entrata in vigore della legge, di tal che alla fattispecie risulterebbe applicabile il regime transitorio regolato dal comma 5. Codesta Amministrazione esprime tuttavia oggi dubbi in ordine alla legittimit� del provvedimento (sul quale potrebbe intervenirsi in via di autotutela) alla luce di una lettura coordinata della menzionata norma con la previsione del comma 4 del medesimo articolo (�la richiesta di pagamento al fondo � accompagnata dalla copia autentica dell�estratto della sentenza di condanna passata in giudicato�). Tale ultima disposizione lascerebbe intendere che �solo dopo la definitivit� della sentenza il dottor (...) poteva correttamente chiedere la liquidazione dei danni�. Pertanto, l�espressione �sentenze pronunciate� dovrebbe essere rettamente intesa come riferita alle sentenze �passate in giudicato� prima dell�entrata in vigore della legge. In tal caso, poich� il passagio in giudicato della statuizione andrebbe sicuramente collocato in data successiva all�entrata in vigore della legge, non troverebbe applicazione la previsione (transitoria) di cui al comma 4, e la fattispecie sarebbe assoggettata al regime di prescrizione ordinario (anzich� a quello decadenziale), con conseguente tempestivit� della domanda di accesso al Fondo. Definitivamente accertati i fatti di causa, la Scrivente ritiene che il provvedimento adottato dal Comitato di solidariet� per le vittime dei reati di tipo mafioso vada esente da censure. Per un verso, infatti, la disposizione recata nel comma 5 appare di piana lettura, e non fa riferimento al concetto di �sentenza passata in giudicato�, bens� a quello (certamente dotato di specifica e autonoma valenza) di �sentenza pronunciata�. Ci� mostra una precisa volont� in tal senso, atteso che il Legislatore ha in altre disposizioni espressamente fatto riferimento al passaggio in giudicato della statuizione giurisdizionale. La stessa non appare d�altro canto irrazionale, ma perfettamente coerente con le esigenze di certezza dei rapporti giuridici (qui collegate anche alle ovvie necessit� contabili di copertura di bilancio, ed al principio per cui le norme che comportano erogazione di fondi pubblici devono essere oggetto di stretta interpretazione), atteso che non pu� consentirsi di azionare la domanda di accesso al Fondo per un periodo estremamente lungo (corrispondente alla prescrizione ordinaria decennale), come avrebbe potuto verificarsi per fatti anche remotissimi, in assenza di una disposizione transitoria. D�altro canto, l�interpretazione che assimila le due espressioni usate dal Legislatore al quarto e al quinto comma dell�art. 5 non appare del tutto corretta, atteso che, come risulta dallo stesso testo del comma 4, il passaggio in giudicato della sentenza non � condizione necessaria per azionare la richiesta di accesso al Fondo, essendo la stessa espressamente consentita anche nell�ipotesi di �sentenza di condanna al pagamento di provvisionale� e di �sentenza civile di liquidazione del danno� che non necessariamente presuppongono una statuizione definitiva. Conclusivamente si ritiene che allo stato, non essendo lo stesso viziato per illegittimit�, non sussistano i presupposti per agire in via di autotutela annullando il provvedimento adottato dal Comitato di solidariet� per le vittime dei reati di tipo mafioso sulla istanza prodotta dal dottor (...). Si rimane a disposizione per quanto altro possa occorrere. Utilizzazione del R.D. 14 aprile 1910 n. 639 nelle procedure di rimborso a favore della P.A. (Parere reso in via ordinaria prot. 274910 del 24 giugno 2013, AL 25758/13, avv. DIANA RANUCCI) 1) L�Avvocatura de L�Aquila ha trasmesso alla Scrivente la richiesta, formulata da codesto Comando, di procedere al recupero delle somme indebitamente percepite dal nominato in oggetto, il quale, dalla lettura delle carte allegate a detta richiesta, non risulterebbe pi� essere dipendente dell�Amministrazione Difesa. Per tale motivo l�Avvocatura aquilana propone di notificare al debitore, il quale non ha ottemperato alle richieste di rimborso avanzate da codesto Comando, ricorso per decreto ingiuntivo da richiedersi al TAR competente per territorio. Esaminata la documentazione trasmessa la Scrivente ritiene che allo stato sia opportuno in via preliminare procedere diversamente, con lo strumento pi� rapido, e probabilmente pi� efficace quanto a forza persuasiva, della ingiun zione ex R.D. 14 aprile 1910, n. 639, tuttora validamente utilizzabile dallo Stato non solo per le entrate strettamente di diritto pubblico ma anche per quelle di diritto privato. Tale strumento trova il suo fondamento nel potere di autoaccertamento della Pubblica Amministrazione ed il suo legittimo uso � subordinato alla sola condizione che � il credito in base al quale viene emesso l'ordine di pagare la somma dovuta sia certo, liquido ed esigibile, senza alcun potere di determinazione unilaterale dell'Amministrazione, dovendo la sussistenza del credito, la sua determinazione quantitativa e le sue condizioni di esigibilit� derivare da fonti, da fatti e da parametri obiettivi e predeterminati, rimanendo all'Amministrazione un mero potere di accertamento dei detti elementi� (Cass. Sez. I, n. 13587/1992), condizione quest�ultima certamente soddisfatta nella specie, risultando il credito della P.A. dai documenti contabili. 2) N� potrebbe obiettrasi che trattasi di istituto abrogato, atteso che, al contrario, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che �l'ingiunzione emessa ai sensi del R.D. 14 aprile 1910, n. 639, deve ritenersi "sopravvissuta", nella sua componente di atto di accertamento della pretesa erariale (idoneo a dar vita ad un giudizio sulla legittimit� della pretesa stessa), al disposto del- l'art. 130, comma secondo, del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, il quale, nel- l'abrogare tutte le disposizioni che regolavano la riscossione coattiva delle imposte mediante il rinvio al R.D. n. 639 del 1910, ha sancito l'abrogazione delle sole previgenti disposizioni in materia di riscossione e non anche quelle in materia di accertamento. Pertanto, tale ingiunzione, inidonea di per se stessa (quando emessa in epoca successiva all'entrata in vigore del citato D.P.R. n. 43 del 1988) ad attivare un procedimento di riscossione a mezzo ruoli, si sostanzia pur sempre in un invito al pagamento di quanto dovuto, in ordine al quale la notifica a mezzo del servizio postale deve ritenersi strumento idoneo al fine di portare a conoscenza del contribuente la pretesa erariale e di consentirgli la piena tutela del diritto di difesa anche in sede giudiziaria� (Cass. Sez. V, n. 10923/2003). Pi� di recente, la Cassazione, chiamata a decidere quale giudice fosse dotato di giurisdizione in un giudizio di opposizione ad ingiunzione emessa sulla base del R.D. n. 639/1910, ha avuto modo di chiarire �che l'ingiunzione che precede l'espropriazione speciale attuata in base al Decreto del 1910, quando d� luogo ad una contestazione basata su una norma tributaria, non pu� che essere assegnata alla Commissione Tributaria. L'ingiunzione non � sicuramente un atto dell'espropriazione forzata, ma � un atto (normalmente di natura tributaria) riferibile al creditore, che non � preceduto da una notificazione del ruolo o di una cartella. Esso ha la stessa funzione della cartella e deve potere essere impugnato come una cartella. Giova ricordare che nel processo esecutivo ordinario c'� il principio contenuto nell'articolo 479 c.p.c. secondo il quale "Se la legge non dispone altrimenti, l'esecuzione forzata deve essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto". Questo principio � ribadito anche nell'articolo 50 del D.P.R. n. 602/73 secondo il quale �Il concessionario procede a espropriazione forzata quando � inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla dilazione e alla sospensione. Se l'espropriazione non � iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l'espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi con le modalit� previste dall'articolo 26, di un avviso che contiene l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni. Ma, anche l'articolo 5 del decreto del 1910 presuppone che prima del- l'espropriazione forzata venga notificata l'ingiunzione. Tutto ci�, allora, conferma che l'ingiunzione svolge la stessa funzione che svolge la cartella in quanto atto prodromico per l'esecuzione forzata� (Cass. Sez. Un. n. 10958/2005). In disparte dal notare che, nella fattispecie ivi esaminata, la Suprema Corte ha concluso per la giurisdizione della Commissione tributaria poich� la pretesa sottostante l�ingiunzione aveva natura fiscale, quel che occorre sottolineare � il dato fondamentale che la Corte abbia ritenuto pienamente legittimo l�uso dell�ingiunzione ex TU 1910. 3) � poi pacifico che lo strumento in discorso sia utilizzabile anche per le entrate di natura non tributaria. In questo senso si � espresso il giudice amministrativo (cfr. Cons.di S. sez. V, n. 8156/2010) secondo cui �le controversie relative ad atti di recupero di ratei di pensione erogati e non dovuti appartengono alla giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti in materia di dipendenti degli enti locali poich�, venendo in discussione il quantum (o nella specie l'an) del trattamento pensionistico e, quindi, la sussistenza o l'entit� del diritto a pensione, ci� che rileva ai fini in questione � il contenuto pubblicistico del rapporto dedotto in giudizio; n� tale regola soffre della deroga in favore di altro giudice nell'ipotesi in cui l'Amministrazione si sia avvalsa del procedimento per ingiunzione di cui al R.D. 14 aprile 1910, n. 639, art. 2 (cfr., tra le tante, Cass., ss.uu., 16 novembre 2007 n. 23731). La Corte regolatrice della giurisdizione tanto ha altres� ribadito, affermando che spetta alla Corte dei conti la giurisdizione sulla controversia avente ad oggetto l'indebita percezione di ratei di pensione ed il conseguente diritto alla ripetizione fatto valere dall'amministrazione del tesoro, n� tale giurisdizione soffre deroga, in favore di altro giudice, nel caso in cui si contesti l'esperibilit� ai fini del recupero del procedimento di riscossione adottato (cfr. Cass., ss.uu., 18 giugno 2008 n. 16530)�. 4) In altri termini, sia il giudice ordinario che quello amministrativo ritengono che l�ingiunzione in esame sia legittimamente utilizzabile dalle Amministrazioni statali in ogni ipotesi in cui si debba procedere al recupero di somme, certe, liquide ed esigibili, aventi natura tributaria, pubblicistica o anche privatistica (esclusa l�ipotesi di somme di natura risarcitoria), costituendo l�ingiunzione atto idoneo ad attivare la pretesa dell�amministrazione ed a consentire l�opposizione del debitore avanti al giudice competente. Alla luce degli esposti principi, non � dubbio che la fattispecie in esame rientri perfettamente nei confini delineati, atteso che le somme da recuperare attengono ad un rapporto di natura pubblica: il rapporto d�impiego. Si evidenzia infine che, nella decisione sopra citata, il Consiglio di Stato ha anche ritenuto legittimo � il recupero disposto mediante il procedimento di riscossione dell'indebito consistente nella trattenuta di un quinto dello stipendio in godimento nell'ambito della prosecuzione del rapporto di impiego con l'Ente datore di lavoro�. Qualora quindi il nominato in oggetto fosse ancora titolare di rapporto di lavoro con codesta Amministrazione ovvero di trattamento pensionistico nulla osta a che si proceda al recupero mediante la suddetta trattenuta. Vorr� pertanto codesto Comando procedere nel senso indicato, e provvedere ad emettere e notificare al debitore, con la massima celerit�, l�ingiunzione suddetta. legislazione ed attualit� LEGISLAZIONE ED ATTUALIT� Lo Stato ferito: con la sentenza in commento un contributo sui reati compiuti nel corso delle manifestazioni (Nota a Trib. Roma, Sez. VII Coll., sentenza 30 novembre 2012 n. 16442) Alessandra Bruni* Niccol� Guasconi** SOMMARIO: 1. Lo Stato in giudizio: le ragioni di una scelta - 2. Il caso in esame e la resistenza a pubblico ufficiale - 3. Il reato di devastazione e la sua problematica applicabilit� alla manifestazione del 15 ottobre 2011. 1. Lo Stato in giudizio: le ragioni di una scelta. La sentenza n. 16442, emessa dal Tribunale Penale di Roma in composizione collegiale, le cui motivazioni sono state depositate in cancelleria il 30 novembre 2012, � una delle tante che riguardano gli eventi verificatisi a Roma durante la manifestazione del 15 ottobre 2011, la c.d. �Giornata europea del- l�indignazione� (1). Il processo si � concluso con la condanna dell�imputato a 5 anni di reclusione e al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili. La decisione in commento assume particolare rilievo, oltre che per le problematiche giuridiche affrontate, anche per la costituzione dello Stato nel processo come parte civile e per la precisione con cui sono state tratteggiate le ragioni e le modalit� che hanno trasformato una manifestazione pacifica in (*) Avvocsto dello Stato. (**) Dottorando in �Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate� presso l�Universit� degli Studi di Roma �La Sapienza�, gi� praticante forense presso l�Avvocatura dello Stato. (1) La denominazione richiama il movimento degli Indignados nato nel 2011 in Spagna per protestare contro la gestione della crisi economica e finanziaria in atto e la subordinazione della politica all�economia scontri d�inaudita violenza, tali da poter essere definiti i pi� gravi accaduti a Roma nell�ultimo ventennio, paragonabili per drammaticit� agli eventi del G8 di Genova del 2001. A differenza del giudizio civile, che � spesso una questione di puro diritto, il processo penale si basa essenzialmente sul fatto e, in quanto tale, non pu� prescindere dalla ricostruzione non solo delle condotte individuali, ma anche della cornice di eventi in cui esse si collocano. Come si vedr�, anche dal contesto possono ricavarsi elementi giuridicamente rilevanti per appurare il disvalore della condotta del singolo, senza che ci� vada a menomare il principio di personalit� della responsabilit� penale sancito dall�art. 27 Cost. Infatti, quando ci si deve confrontare con fenomeni collettivi di questo tipo, una mancata analisi del contesto in cui i singoli episodi si collocano non consentirebbe di coglierne appieno il significato. In questo senso pu� dirsi che, ferma l�esigenza di appurare tutti gli elementi della fattispecie in ogni singolo caso, � lo stesso ordinamento ad imporre un accertamento ad ampio raggio, perch� solo una ricostruzione quanto pi� possibile fedele dei fatti e del significato delle azioni nel loro complesso permette di calibrare la risposta sanzionatoria. In questo contesto va dunque spiegata l�attenzione che la pronuncia in commento dedica alla descrizione del clima, delle strategie e dei comportamenti dei diversi gruppi durante la manifestazione. A tale scopo si � rivelata particolarmente significativa la deposizione del teste Lamberto Giannini, dirigente della Digos di Roma, dalla quale sono emersi elementi utili a ricostruire le dinamiche tipiche in grado di trasformare manifestazioni pacifiche in un�escalation di violenza (2). Anche in questo caso, come in tanti altri analoghi, il rischio era ampiamente preventivato dall�intelligence, ma ugualmente inevitabile proprio per le modalit� che hanno caratterizzato gli episodi di violenza. Volendo tracciare un quadro sintetico degli elementi che hanno consentito la deflagrazione di una vera e propria guerriglia urbana, bisogna partire dal dato di fatto che vi � stata una sistematica opera di infiltrazione tra i manifestanti pacifici da parte di numerosi gruppi violenti, di varia estrazione politica. Si tratta di formazioni ben organizzate che strumentalizzano il diritto costituzionale di riunione per fini eversivi premeditati, tali da implicare un lavoro di progettazione e di studio dei luoghi che consenta di nascondere lungo il percorso oggetti atti ad offendere (mazze, fionde, biglie, molotov) e di individuare in anticipo quali materiali, anche fra gli arredi urbani, presenti sul posto pos (2) Occorre in proposito ricordare che l�art. 17, co. 1, Cost. consente solo lo svolgimento di riunioni pacifiche e senz�armi, ma, secondo quanto sostenuto da autorevole dottrina, per vietare una manifestazione occorre che vi sia un pericolo immediato e concreto di violazione dell�ordine pubblico o che ad essere armati siano la maggior parte dei manifestanti, sicch� risulti impossibile isolare gli intrusi. Sul tema si veda A. PACE, Art. 17, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione italiana, Foro it. � Zanichelli, Roma � Bologna, 1977, pp. 147 ss. sono prestarsi ad opere di danneggiamento (transenne, cassonetti, sampietrini). Gli episodi di violenza non sono quindi, almeno nel loro momento genetico, figli di un raptus o di un clima di eccitazione collettiva, ma lucidamente preordinati; cos� la manifestazione diventa strumento incolpevole di mire che nulla hanno a che vedere con questa. Le difficolt� nel fronteggiare i facinorosi sono dovute anche alle loro modalit� di azione, basate su aggregazioni improvvise di persone, pronte poi a disperdersi, confondendosi nel corteo pacifico, all�avvicinarsi delle forze dell�ordine. Ulteriore elemento indispensabile per ricostruire il clima venutosi a creare � l�individuazione degli obiettivi presi di mira dalle frange violente. Infatti, diversamente da altre occasioni in cui i bersagli erano circoscritti e individuabili ex ante, in questo caso gli episodi di devastazione hanno raggiunto una molteplicit� di obiettivi eterogenei: da un supermercato agli istituti bancari, dagli uffici postali alle auto in sosta, da esercizi commerciali di vario genere agli alloggi della Guardia di Finanza, fino a giungere alla profanazione di luoghi di culto, quale la chiesa dei Santi Marcellino e Pietro al Laterano. Non si � trattato dunque di azioni mirate e rivolte contro obiettivi strategici, il che ha reso ulteriormente imprevedibile il comportamento dei facinorosi e difficoltosa l�opera di monitoraggio e prevenzione, che pure cՏ stata, pur con tutte le difficolt� dovute all�esigenza di non coinvolgere i manifestanti pacifici. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che le violenze fossero fini a se stesse; l�evoluzione successiva dei fatti fa pensare che in realt� l�obiettivo finale fosse l�attacco alle forze dell�ordine, in quanto emblema delle istituzioni. Infatti, polizia e carabinieri, intervenuti per presidiare i siti oggetto di aggressione, sono essi stessi divenuti le vittime dirette degli attacchi. Tutto ci�, anche alla luce della pre-organizzazione dell�escalation violenta, fa ritenere che fin dall�origine l�obiettivo fosse far uscire allo scoperto, e rendere cos� pi� vulnerabile, il bersaglio vero: lo Stato, rappresentato dagli uomini e dalle donne istituzionalmente incaricati di difendere l�ordine pubblico. Circa un centinaio di loro sono rimasti feriti, ma il senso di responsabilit� delle forze dell�ordine ha impedito che il bilancio fosse ancor pi� grave. In questo senso va letta anche la dichiarazione del teste Giannini, laddove ha fatto riferimento al fatto che gli idranti erano stati calibrati a bassa potenza per evitare di �fare molto male a qualcuno�. L�assalto alla camionetta dei carabinieri avvenuto in piazza San Giovanni rappresenta dunque il momento culminante di una sistematica opera di aggressione ai danni dello Stato che si � protratta per tutta la giornata con modalit� da guerriglia urbana. In questo senso � opportuno sottolineare la rilevanza e il significato della presenza nel processo delle parti civili che l�Avvocatura Generale dello Stato rappresenta. Il Ministero della Difesa e il Ministero dell�Interno sono espressione dello Stato democratico e agiscono nel processo per la tutela dello Stato medesimo, nella sua forma, nel suo libero funzionamento, nei suoi organi, nella sua dimensione istituzionale volta ad assicurare ai cittadini che lo svolgimento della vita pubblica avvenga pacificamente e nel rispetto della Costituzione e delle leggi, contro chi ha fatto della violenza l�unico strumento per veicolare una protesta meramente distruttiva e fine a se stessa. La costituzione di parte civile � pertanto la reazione processuale contro un attacco che si � concretizzato nella lesione della funzione statuale di assicurare l�ordine pubblico, come �ordine su cui poggia la convivenza sociale� (3), e nell�aggressione alle persone e ai simboli che di questo ruolo costituiscono espressione e garanzia. Al di l� del fatto in s�, ci� che per qualche ora � venuto meno � proprio il ruolo originario e basilare della statualit�: far s� che l�esercizio di diritti configgenti non sia regolato, come avviene allo stato naturale, da meri rapporti di forza, ma garantire a ciascun cittadino il massimo di libert� possibile senza ledere quella altrui. Il problema non � dunque la contrariet�, anche espressa con particolare forza, a certe scelte politiche, che � anzi espressione di democrazia, quanto il disconoscimento dello Stato in s� per tornare ad una condizione in cui a prevalere � la legge del pi� forte. Ci� che viene intaccato in ultima istanza non � lo Stato come ente astratto, ma il resto della collettivit�, spogliata del proprio diritto di manifestare pacificamente e di utilizzare il suolo pubblico senza ritrovarsi esposta al pericolo di una guerriglia, con possibile pregiudizio per la propria incolumit� personale e patrimoniale. Questa � la prospettiva in cui si coglie il senso profondo della costituzione di parte civile e delle ragioni che l�Avvocatura dello Stato ha voluto rappresentare in giudizio. Del resto, se � vero che la pubblica accusa � portatrice della pretesa punitiva dello Stato, la pena sanziona il danno criminale assolvendo a finalit� rieducative e preventive, ma non risarcisce il soggetto passivo per il danno patito. Il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale viene dedotto con la costituzione di parte civile e riparato mediante il risarcimento, che qui assolve alla duplice funzione di rimedio contro la lesione del prestigio dello Stato e di strumento per evitare che i danni provocati dagli atti di devastazione restino a carico della collettivit�. 2. Il caso esaminato e la resistenza a pubblico ufficiale. Il fatto in s� � noto, perch�, essendo stato ripreso dalle telecamere, � divenuto agli occhi dell�opinione pubblica uno dei momenti simbolo della protesta: poco prima delle ore 18 un mezzo blindato dei carabinieri viene bloccato in piazza San Giovanni da un gruppo di facinorosi, che dapprima colpiscono, per fortuna senza conseguenze letali, gli occupanti del veicolo e poi riversano tutta la loro rabbia contro la camionetta, danneggiandola e, infine, incendiandola. In questo frangente le riprese aeree consentono di enucleare il ruolo di (3) Cos� l�ordine pubblico � stato testualmente definito da Corte cost., sent. 16 marzo 1962, n. 19. Per una ricostruzione a pi� ampio raggio della nozione di ordine pubblico si veda G. CORSO, voce Ordine Pubblico (diritto pubblico), in Enciclopedia del Diritto, XXX, Giuffr�, Milano 1980, pp. 1058 ss. uno dei partecipanti all�assalto, poi identificato in S.C., che, dopo aver scagliato oggetti contundenti contro il blindato e aver incitato i compagni a fare altrettanto, lancia contro il veicolo del liquido, che lui stesso riconoscer� essere infiammabile, in quanto composto da cola e whisky. I reati contestati all�imputato sono sia la resistenza aggravata a pubblico ufficiale sia la devastazione, ma il processo si � giocato quasi tutto sul secondo capo d�imputazione e sulle aggravanti da applicarsi al primo capo. Infatti, bench� la difesa abbia chiesto l�assoluzione da entrambe le imputazioni, l�orientamento giurisprudenziale registratosi in casi analoghi � generalmente sfavorevole all�imputato per quanto attiene alla resistenza a pubblico ufficiale, mentre risulta pi� contrastato riguardo alla devastazione. In questo senso � importante rammentare che il processo che aveva ad oggetto un altro momento simbolo della giornata, il lancio di un estintore contro le forze dell�ordine, si � concluso con la condanna dell�imputato per resistenza aggravata e l�assoluzione dal reato di devastazione (4). La prima fattispecie ascritta al S. si colloca nell�ambito dei reati che tutelano il corretto andamento della P.A. tramite la difesa della libert� del pubblico ufficiale (5). Il reato, nella forma aggravata ai sensi dell�art. 339 c.p., ricorre con frequenza nei casi in cui l�ordine pubblico sia messo in pericolo da degenerazioni di manifestazioni. Del resto proprio per ipotesi analoghe il d.l. 8 febbraio 2007, n. 8, ha aggiunto all�art. 339 c.p. una nuova fattispecie circostanziale, giacch� l�aumento di pena si applica anche in caso di resistenza consumata con il lancio di oggetti contundenti o altri strumenti atti ad offendere in modo da creare un effettivo pericolo alle persone. Nella sostanza il bene giuridico tutelato � sempre l�ordine pubblico nella sua accezione dinamica, di sovversione del normale andamento della vita di una comunit�, la cui violazione � la risultante di diverse e concorrenti violazioni normative. Nel caso concreto, ad opinione del Tribunale, assume particolare rilievo l�individuazione del momento in cui l�imputato cessa di esercitare i suoi diritti costituzionalmente tutelati di riunirsi e manifestare il proprio pensiero per entrare nell�ambito del penalmente rilevante. Secondo il Collegio tale momento precede l�incendio del blindato dei carabinieri e va individuato nel frangente in cui la manifestazione nel suo complesso perde il suo carattere non violento, al punto che i manifestanti pacifici sono costretti a scappare. Gi� in quel momento la manifestazione non � pi� tale, da diritto fondamentale si � trasformata in un pretesto per dar sfogo ad una violenza incontrollabile, per cui la scelta (4) Il riferimento � alla sentenza nei confronti di F.F., emessa dal Tribunale di Roma, 11 giugno 2012, che ha condannato l�imputato a 3 anni di reclusione. In altri casi di analoga gravit�, sempre riferibili ai fatti del 15 ottobre 2011, il reato di devastazione non � stato neanche contestato agli imputati. Si veda in proposito la sentenza emessa in primo grado nei confronti di V.P., Trib. Roma, 14 marzo 2012. (5) R. PASELLA, voce Violenza e resistenza a pubblico ufficiale, in Digesto delle discipline penalistiche, XV, UTET, 1999, p. 251. del S. di permanere in piazza San Giovanni, nonostante le violenze crescenti e sebbene i manifestanti pacifici abbiano gi� abbandonato il corteo, sar� determinante per ascrivergli la responsabilit� delle condotte successive sia dal punto della condotta che dell�elemento soggettivo. Tale ricostruzione assume peculiare valore ai fini della configurabilit� delle aggravanti del concorso di pi� persone riunite, ex art. 339, secondo comma, c.p., e di aver profittato di una situazione tale da ostacolare la difesa, ex art. 61, quinto comma, c.p., nel reato di resistenza a pubblico ufficiale. Con riferimento alla compresenza di pi� persone riunite, il Tribunale ha correttamente rilevato che la fattispecie non richiede il previo concerto, ma la semplice consapevolezza del singolo di inserirsi in un contesto numerico di persone che condividono le stesse finalit�. In questo senso il fatto che l�imputato sia rimasto sul luogo degli scontri, nonostante la manifestazione fosse gi� palesemente degenerata, � un indicatore pressoch� univoco. Il disvalore che l�ordinamento intende colpire � infatti quello dell�aggressione di gruppo ad interessi protetti, in quanto nella modalit� � insita di per s� una maggior forza intimidatoria ed una minor capacit� di reazione. Questi ultimi elementi peraltro caratterizzano l�aggravante in parola anche rispetto al concorso di persone nel reato. Quanto alla minorata difesa, l�aggravante ha carattere obiettivo e ricorre anche quando la situazione che ostacola la difesa si sia ingenerata indipendentemente dalla volont� dell�agente, per cui non si � reso necessario accertare se l�imputato abbia concorso ad innescare la situazione o ne abbia solo tratto giovamento. Il Tribunale ha invece dovuto affrontare il problema della compatibilit� tra le due aggravanti in oggetto e l�ha risolto ritenendo non assorbibile la mino- rata difesa nell�aver agito in numero maggiore di dieci e nell�aver adoperato oggetti contundenti. Invero, pur essendo unico il fatto, lo stesso assume una portata antigiuridica diversa ed ulteriore, giacch� la minorata difesa non sempre pu� essere compresa nel solo aver agito in numero elevato: nel caso di specie � integrata dall�aver commesso il fatto profittando della situazione caotica innescatasi a seguito del degenerare della manifestazione, il che rappresenta un disvalore ulteriore rispetto al numero degli agenti e al lancio di oggetti contundenti. In conclusione, il reato di resistenza a pubblico ufficiale, che rappresenta un modello talmente generico e duttile da essere riconducibile ai fatti pi� di- sparati, assume, grazie alla sapiente modulazione delle molteplici aggravanti, tratti sempre pi� nitidi, fino a presentarsi in maniera di volta in volta diversa per ciascuna situazione. In tal modo rappresenta una risposta sanzionatoria in grado di attagliarsi con esattezza al disvalore della condotta nelle diverse sfumature che questa pu� assumere. 3. Il reato di devastazione e la sua problematica applicabilit� alla manifestazione del 15 ottobre 2011. L�art. 419 c.p. prevede la devastazione e il saccheggio come fattispecie alternative e penalmente equivalenti dettate a tutela dell�ordine pubblico, da intendersi come armonica e pacifica coesistenza di cittadini, che si concretizza nella percezione di tranquillit� e sicurezza che lo Stato garantisce ai consociati (6) e che assurge a condizione basilare dell�esercizio dei diritti individuali. L�ordine pubblico, pur essendo il motivo ispiratore della norma (7), non costituisce esso stesso elemento della fattispecie di devastazione, la quale, dal punto di vista oggettivo, � individuata in maniera a dir poco laconica dal legislatore con le semplici parole �fatti di devastazione�. Risulta, pertanto, sempre necessaria un�opera interpretativa da parte del Giudice per determinare a priori quali siano in concreto le condotte che integrano il reato, riconducendo in tal modo la fattispecie all�interno dei canoni di tipicit� e offensivit�. In una prima fase applicativa il delitto in commento veniva ritenuto configurabile solo per casi di guerra civile, ma la giurisprudenza pi� recente, sia pur con non poche incertezze dovute proprio alla genericit� della formula usata dalla norma incriminatrice, ne ha esteso l�ambito applicativo fino a farvi rientrare ipotesi di gravi disordini commessi nel corso di eventi sportivi o manifestazioni politiche. Quanto all�elemento oggettivo, la devastazione si caratterizza rispetto ad altre fattispecie analoghe (8), per una capacit� distruttiva indiscriminata, vasta e profonda, tale da cagionare non solo un danno patrimoniale ai proprietari, ma anche un�offesa concreta all�ordine pubblico (9). A tal fine l�ipotesi delittuosa pu� essere integrata sia da una pluralit� di fatti che da un singolo atto (10), purch� tale da recare in s� una grave lesione del- l�ordine pubblico, indipendentemente dalle modalit� concrete dell�azione, trattandosi di reato a condotta libera. Si tratta, in altre parole, di una fattispecie in cui l�ordine pubblico, pur non espressamente menzionato, � una sorta di convitato di pietra, la cui lesione passa attraverso un�aggressione patrimoniale ma resta indipendente dall�entit� del pregiudizio economico causato (11). Nel caso concreto l�elemento oggettivo del reato � stato individuato es (6) M. BOUCHARD, Devastazione e saccheggio, in Digesto delle discipline penalistiche, III, UTET, 1989, p. 442. (7) S. MARANI, I delitti contro l�ordine e l�incolumit� pubblica, Giuffr�, Milano, 2008, p. 110. (8) Particolarmente problematico � il rapporto con il meno grave reato di danneggiamento di cui all�art. 635 c.p. Una parte della dottrina ammette il possibile concorso tra devastazione e danneggiamento, v. G. FIANDACA � E. MUSCO, Diritto penale: parte speciale, Zanichelli, 2006, p. 479; altra parte della dottrina preferisce inquadrare il rapporto tra i due reati nell�ottica del reato progressivo, v. R. VENDITTI, voce Saccheggio e devastazione, in Enciclopedia del Diritto, XLI, Giuffr�, Milano, 1989, p. 187. (9) Cass. Pen., sent. 1 aprile 2010, n. 16553. (10) Cass. Pen., sent. 27 marzo 2009, n. 15543. Detta tesi, ormai ampiamente maggioritaria, � sostenuta da tempo da V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. VI, UTET, 1983, pp. 221-223. (11) Va precisato che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso la giurisprudenza di legittimit� ha abbandonato il criterio quantitativo per distinguere tra devastazione e danneggiamento sostenuto in passato; v. ad es. Cass., S.U., sent. 26 marzo 1960, Niedermajer. L�orientamento pi� recente ritiene invece che la devastazione si caratterizzi rispetto al danneggiamento per la messa in pericolo dell�ordine pubblico; v. ad es. Cass. 16 aprile 2004, n. 25104. senzialmente nell�aver contribuito al rogo del mezzo blindato dei carabinieri: un comportamento che, pur inserendosi in condotte di distruzione e danneggiamento, assume un disvalore aggravato nella forma della devastazione in virt� della sua attitudine a turbare l�ordine pubblico. Sotto questo aspetto, la decisione appare corretta nelle conclusioni ma motivata in maniera fin troppo scarna, senza dare adeguata rilevanza alle modalit� dell�aggressione n� al valore simbolico che essa ha avuto nel sottrarre piazza San Giovanni al controllo delle forze dell�ordine n� alla potenzialit� lesiva del gesto in s�; basti considerare al proposito il rischio di esplosione della camionetta. Dal punto di vista psicologico, ai fini della configurabilit� del reato, non � richiesto il dolo specifico, ma solo il dolo generico. � quindi sufficiente la coscienza e volont� di porre in essere fatti che costituiscono devastazione, mentre resta irrilevante l�ulteriore finalit� di attentare all�ordine pubblico (12). Va per� considerato che la volont� di commettere atti di devastazione implica anche la consapevolezza di contribuire, nell�ambito di condotte antecedenti, concomitanti e susseguenti, a determinare un quadro complessivo di eccezionale gravit�. Alla luce di queste considerazioni va vista la sentenza del Tribunale di Roma che ha invece assolto dal reato di cui all�art. 419 c.p. F.F. per il famoso episodio del lancio dell�estintore. I due casi sono per molti versi analoghi, perch� per entrambi sono stati prospettati i medesimi capi d�imputazione e perch� in tutti e due gli episodi la devastazione sarebbe essenzialmente integrata da un singolo fatto, potenzialmente molto pericoloso e altamente simbolico, tanto da diventare emblema della sovversione dell�ordine pubblico. In entrambi i processi i giudici hanno ritenuto sussistente l�elemento oggettivo del delitto de quo, mentre per l�elemento soggettivo hanno reputato necessaria un�indagine che non si esaurisse nel solo atto incriminato ma considerasse il comportamento degli imputati nel contesto di tutta la manifestazione. All�esito di questo accertamento, mentre F. � stato assolto dal capo d�imputazione per l�insussistenza dell�elemento soggettivo, S. � stato condannato. In realt� si tratta in ambo le ipotesi di ragazzi che non si erano presentati travisati alla manifestazione e il cui apporto ai fatti violenti si � concretizzato in un solo atto, non essendo stata segnalata la loro presenza nei teatri delle principali attivit� di devastazione. Tutto lascia dunque pensare a condotte non premeditate, ma dovute piuttosto all�eccitazione creata dal contesto e alla sensazione di trovarsi in una dimensione di sospensione della legalit�. In conclusione le differenze tra i due fatti non erano tali da giustificare la diversa qualificazione giuridica dei fatti, che piuttosto va ricondotta a differenti impostazioni seguite dai giudici riguardo alla valutazione dell�elemento soggettivo. La divergenza d�impostazione sta tutta nel fatto che nel caso di F. il Giu (12) Cass. Pen., sent. 29 gennaio 1985, n. 2949. dice ha tenuto conto esclusivamente dei fatti commessi dal singolo agente, insistendo quindi sull�aspetto psicologico e motivazionale fino ad escludere l�intenzione di partecipare ad un�aggressione reiterata ed organizzata tale da compromettere la pace pubblica (13). Non pu� sfuggire come una simile lettura tenda ad introdurre surrettiziamente un elemento che la fattispecie non prevede: il dolo specifico, sub specie di finalit� ulteriore di sovvertire l�ordine pubblico. Viceversa, la sentenza resa sul caso S., che, come si � evidenziato fin dall�inizio del presente commento, pone una particolare attenzione alla ricostruzione del contesto in cui si sono svolti i fatti, appare pi� aderente al dettato normativo dell�art. 419 c.p. Infatti il Collegio giudicante, pi� che ragionare sulle motivazioni ulteriori che hanno guidato l�agente, si � concentrato sulla volont� di realizzare fatti che, nella loro consistenza oggettiva, costituiscono devastazione. A tal fine non � dunque richiesto alcun accertamento in ordine ad una volont� devastatrice o di compromettere l�ordine pubblico, ma � sufficiente la mera consapevolezza delle diverse azioni antecedenti, concomitanti e susseguenti, nonch� del pi� ampio contesto in cui il proprio comportamento si iscrive. La condotta assume dunque un disvalore maggiore di quello suo proprio non perch� sorretta da un particolare scopo, ma in quanto giunge al culmine di una situazione oggettiva di guerriglia, di cui l�agente si rendeva perfettamente conto e alla quale ha voluto offrire un autonomo apporto causale, contribuendo cos� in maniera decisiva a sottrarre il luogo pubblico alle pi� elementari regole di convivenza. Coerentemente con quanto finora si � detto, seguendo quest�orientamento l�ordine pubblico continua ad essere solo il bene giuridico tutelato e non elemento della fattispecie. Dalla lettura della motivazione della sentenza F. emerge, da parte del giudicante, un�ulteriore profilo di preoccupazione, che spiega l�interpretazione erroneamente restrittiva data in relazione all�elemento soggettivo: il timore che la devastazione altro non sia che una duplicazione dell�imputazione per resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Il Tribunale in quell�occasione aveva ritenuto che l�elemento distintivo tra i due capi fosse proprio una particolare accentuazione del dolo nella devastazione e per questo vi aveva incentrato la propria statuizione. In effetti il problema del concorso tra devastazione e resistenza aggravata a pubblico ufficiale esiste, ma andava risolto in maniera diversa. Nella sentenza S., coerentemente con l�insegnamento della Suprema Corte sul punto (14), si evidenzia infatti che l�elemento differenziale risiede nella direzione (13) Cos� testualmente Trib. Roma, 11 giugno 2012: �non vi sono elementi univoci � ma anzi siamo in presenza di elementi del tutto contraddittori � che possano inserire la condotta isolata del F. � la cui gravit� e disvalore rimangono ampiamente coperti e sanzionati dalla contestazione di cui al capo 1) della richiesta del Pm � in una azione pi� grave e complessa la cui struttura e finalit� si identificavano nella aggressione reiterata ed organizzata della propriet� pubblica e privata con conseguente paralisi della cd. Pace Pubblica�. (14) Cass. Pen., sent. 5 luglio 2012, n. 26144. della violenza esplicata dall�agente: la devastazione implica l�aggressione a beni patrimoniali, di particolare intensit� e vastit� tali da mettere in pericolo l�ordine pubblico, ma non pu� assorbire anche condotte caratterizzate dall�uso di violenza contro la persona. In conclusione, la decisione in commento s�inserisce a pieno titolo in quel filone giurisprudenziale che negli ultimi anni ha riscoperto il delitto di devastazione e saccheggio, ritenendolo applicabile a contesti quali manifestazioni sfociate in violenti disordini. Va d�altra parte segnalato, ed � evidente gi� dal- l�analisi dei processi aventi ad oggetto i fatti del 15 ottobre 2011, come il surriferito orientamento risulti tutt�altro che pacifico, determinando cos� significative quanto ingiustificate differenze nel trattamento sanzionatorio di vicende analoghe. A ben vedere, il nostro ordinamento sconta l�inesistenza di figure di reato specificamente preposte a reprimere l�uso della violenza nel corso delle manifestazioni e cos� � toccato alla giurisprudenza colmare la la- cuna. Tuttavia, nel far ci�, i giudici hanno utilizzato in maniera ondivaga la fattispecie incriminatrice de qua, con ci� menomando la certezza del diritto. Nell�attesa che prima o poi il legislatore metta mano alla materia, magari introducendo circostanze attenuanti ed aggravanti specifiche, cos� comՏ stato fatto per la resistenza a pubblico ufficiale, l�auspicio � che la giurisprudenza riesca ad offrire un�interpretazione unitaria all�art. 419 c.p. Come si � gi� avuto modo di accennare, chi scrive condivide l�impostazione seguita dal Tribunale di Roma nel caso S., in quanto pi� rispondente al dettato codicistico e alla funzione general-preventiva della norma. Del resto il segreto della sopravvivenza fino ad oggi di un codice che ha pi� di ottanta anni risiede proprio in un�interpretazione che, scostandosi dalla volont� del legislatore storico, ha saputo adattare i modelli astratti previsti dalle norme ad una realt� in continua trasformazione. Tribunale di Roma, Sezione Settima Collegiale, sentenza del 30 novembre 2012 n. 16442 -Pres. M. Silvestri, Est. S. Calegari, P.M. F. Minisci. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) L'odierna vicenda processuale trae origine dai drammatici eventi connessi allo svolgimento della manifestazione denominata "Giornata dell'indignazione" che, svoltasi a Roma il 15 ottobre 2011, era stata indetta dal "Coordinamento 15 ottobre" ed aveva raccolto l'adesione di iscritti alla confederazione Cobas, di studenti universitari dell'Universit� "La Sapienza", di aderenti ai collettivi universitari della capitale e ai movimenti universitari autonomi di altre citt� italiane, di appartenenti al movimento "Roma Bene Comune" nonch� dei metalmeccanici di Pomigliano d'Arco e del movimento dei "NO TAV". Dalla deposizione del teste Lamberto GIANNINI, dirigente la Digos della Questura di Roma, � emerso che la predetta manifestazione nazionale ed il relativo corteo, erano stati regolar mente preavvisati per il 15 ottobre 2011 e dovevano svolgersi dalle ore 14.00 alle ore 21.00 circa, su un percorso che, da Piazza della Repubblica, doveva terminare a piazza San Giovanni, attraversando le zone comprese tra via Cavour, via dei Fori Imperiali e viale Manzoni. Sin dai giorni precedenti la manifestazione, le forze di Polizia avevano acquisito informazioni investigative di intelligence in merito alla possibile infiltrazione di gruppi non pacifici di varia natura e di varia estrazione, in particolare di componenti della sinistra antagonista pi� estrema, anche di stampo marxista - leninista, di aderenti ai movimenti anarco - insurrezionalisti e di aderenti alle tifoserie ultras di calcio. Conseguentemente la Digos di Roma, unitamente alle altre forze di polizia, aveva deciso di controllare il percorso stabilito dagli organizzatori al fine di evitare uno spostamento in massa, altamente probabile, presso sedi e palazzi istituzionali. Per evitare la messa in pericolo dei bersagli istituzionali, erano stati dislocati, alla testa e alla coda del corteo, contingenti di forze di polizia. Un consistente presidio di militari era stato, inoltre, collocato in piazza San Giovanni e, cio�, nel previsto luogo di arrivo della manifestazione. L'attuazione di tale servizio di prevenzione, come narrato dal GIANNINI, si era dimostrato di particolare difficolt� a causa dell'eccezionale numero di partecipanti pacifici che, a notevole distanza gli uni dagli altri, erano sparsi lungo l'itinerario stabilito. Il teste ha, altres�, riferito di aver ricevuto, durante lo svolgimento della manifestazione, numerose e particolarmente allarmanti informazioni investigative che segnalavano ripetute e preordinate attivit� delittuose che si stavano organizzando in occasione del passaggio del corteo in prossimit� di possibili bersagli istituzionali. Conseguentemente la Polizia di Stato, unitamente al personale dell'Arma dei Carabinieri, iniziavano a svolgere attivit� coordinate di controllo che portavano al fermo di appartenenti a movimenti anarchici che stavano infiltrandosi nella manifestazione armati di mazze, fionde, biglie ed altri micidiali oggetti atti ad offendere. La situazione si presentava decisamente pericolosa, in quanto, sin dal momento in cui il corteo aveva iniziato a percorrere via Cavour, erano scoppiati i primi tafferugli. In quel frangente, infatti, uno spezzone dei manifestanti, rappresentato dai cost detti "black bloc", da aderenti all' anarco-insurrezionalismo, da appartenenti alle frange antagoniste pi� estreme, tutti vestiti in egual modo, si era era mischiato ai manifestanti pacifici e, di fatto, aveva reso, praticamente, impossibile procedere alla loro identificazione, nonostante la preventiva predisposizione di riprese video sia da terra che da mezzi aerei. Il clima si presentava di particolare tensione ed effervescenza. Dietro striscioni di colore arancione, alcuni soggetti avevano iniziato una sistematica opera di devastazione nei confronti di vari obiettivi e, in particolare, del supermercato Elite, di istituti bancari, di uffici postali e di autovetture in sosta. Gi� in questa fase era risultata particolarmente evidente la programmazione di preordinate azioni delittuose volte, anche in pregiudizio dei pacifici manifestanti, a compromettere l'ordine pubblico ed il regolare, pacifico svolgimento del corteo autorizzato. Veniva tra l'altro rinvenuto, da parte delle forze di polizia, un borsone sospetto che, dopo il suo prelievo, risult� contenere otto o nove bottiglie molotov gi� confezionate e pronte per l'uso. Nel frattempo, un gruppo travisato si era staccato dal corteo e, con cartelli stradali, sampietrini ed altri oggetti contundenti, si era reso responsabile dei danneggiamenti sopra descritti, non astenendosi dal lanciare i medesimi oggetti contro le forze dell'ordine che, all'uopo, avevano creato degli sbarramenti a presidio del centro cittadino e delle sedi istituzionali ivi presenti. Nella fase iniziale della manifestazione, cui stavano partecipando oltre 100 mila persone, il numero dei "devastatori", secondo il dettagliato racconto del teste, poteva essere stimato in appena 400 persone. Sempre pi� difficoltosa era apparsa l'organizzazione di un intervento calibrato visto che, nei punti c.d. sensibili, i "devastatori", come osservato dall'equipaggio di un elicottero che sorvolava la zona, erano soliti infiltrarsi e farsi scudo dei manifestanti pacifici. I danneggiamenti e le devastazioni erano iniziate, sostanzialmente, a partire dal passaggio presso la stazione metro Colosseo, altezza via dei Fori Imperiali. In questo frangente, per le forze dell'ordine coordinate dal GIANNINI, era risultato impossibile intervenire proprio per la presenza dei manifestanti pacifici nella cui "pancia", come emerso dall' osservazione aerea, si era infiltrato il gruppo dei facinorosi. In via Labicana erano continuati ed avevano preso vigore episodi di estrema gravit� e, in particolare, si erano consumati danneggiarnenti e saccheggi di negozi, di autovetture, di un istituto bancario e addirittura di uno stabile eve erano ubicati degli alloggi di servizio della Guardia di Finanza. Le linee di viabilit� pubblica urbana nelle zone interessate erano state soppresse ed erano stati constatati numerosi danneggiamenti a telecamere, postazioni dei vigili urbani e cassonetti del- l'immondizia. Qui, a fronte di una prima fuga generale, c'era stato un ricompattamento del manifestanti che avevano posto in essere comportamenti particolamiente aggressivi nei confronti della polizia ed avevano dato inizio a scontri che, senza soluzione di continuit�, erano proseguiti per oltre un paio d'ore. Orbene, proprio in concomitanza con tale specifico e drammatico momento della manifestazione, viene a determinarsi una peculiare situazione che, ad avviso del tribunate, offre una precisa chiave di lettura degli eventi successivi e, per ci� che qui interessa, delle condotte di cui, anche il S., si rese responsabile. Come narrato, nel dettaglio, dal teste Giannini, l�elevato livello di violenza da parte dei soggetti infiltratisi tra i pacifici manifestanti determin� il doveroso intervento del reparti schierati in servizio di ordine pubblico che, con decisione, tentarono di isolare i soggetti violenti. I successivi scontri venutisi a determinate a seguito di quelle azioni indussero i tantissimi manifestanti pacifici a tornare sui propri passi o a cercare via di fuga lungo percorsi altemativi aperti dagli stessi contingenti di polizia. Grazie a tale, opportuna opera di protezione, la gran parte dei partecipanti al corteo fu accompagnata lungo un itinerario alternativo e utile a sottrarla agli scontri di efferata violenza che, nel frattempo, andavano incrementandosi. A questo punto al gruppo degli originari facinorosi, gi� individuato dalle riprese aeree, si aggiunsero altri soggetti che, senza avere partecipato ai precedenti atti di violenza, si aggregarono ai primi e, anche con la loro attiva presenza, contribuirono ad accentuare il clima di grossa tensione che, gi� da tempo, era venuto a deterrninarsi. La particolare rilevanza di tale specifico momento della manifestazione rende opportuno riprodurre, testualmente, il racconto del teste GIANNINI che, cos�, si � espresso: ADR GIANNINI; omissis "Gli scontri che io ho rivisto mille volte nei filmati in tutta la loro fase per� sulla piazza mi sono solo brevissimamente affacciato proprio per cercare di evitare che anche quest�altro gruppo venisse coinvolto, c'� stato un fortissimo gruppo di soggetti dove ci stavano in parte quelli che avevano disordine prima, altri soggetti che si sono aggiunti anche perch� quando si crea una grossa tensione nei confronti delle forze dell�ordine i simpatizzanti sono tanti, si aggregano. Successivamente, nella fase degli arresti, nella fase delle denunce, nella fase delle identificazioni, abbiamo visto quanto fosse composito il mondo dei soggetti che erano stati identificati e arrestati. In questa fase, sostanzialmente, con vari scontri c'� un gruppo, parlo di Piazza San Giovanni, sono tre o quattrocento persone, in maniera compatta si inizia ad attaccare le forze di Polizia, forze di Polizia che sono frammentate perch� non riescono a ricongiungersi perch� c'� un fittissimo lancio di oggetti ... tantissimi sampietrini, bottiglie, grossi petardi, fumogeni sono state utilizzate delle transenne che erano state utilizzate delle transenne cheerano state utilizzate per la piazza come arieti e anche per improvvisare delle barricate per cercare di riuscire a bloccare i mezzi perch� poi ci sono riusciti, ma il tentativo era proprio di venire a contatto e di riuscire a bloccare i mezzi della Polizia, Guardia di Finanza e Carabinieri che ci stavano che hanno avuto anche difficolt�, nei confronti di una aggressione cos� forte, a fermarsi e fare un 'azione ... io ho parlato con il dirigente che si faceva il servizio, che non riuscivano a disimpegnarsi anche perch� c'era grossa difficolt� a manovrare con una retromarcia, cose del genere per le persone ... c '� stato quest'attacco violentissiino che � durato per diverso tempo. In questo gruppo, come si vede anche dalle immagini dall'altro, si muoveva sostanzialmente compatto, appena si avvicinava la Polizia si disperdevano, poi si aggregavano e portavano i vari attacchi, � stato piuttosto lungo. C'� stato anche l'intervento degli idranti, ma � servito molto poco anche perch� ai fini ... insomma, il getto non era tale da poter neutralizzare ... la potenza degli idranti vengono calibrati perch� altrimenti si potrebbe fare molto male qualcuno. Vengono fatte anche delle barricate in strada spostando cassonetti, spostando altri mezzi e nel frattempo piccoli scontri e piccoli tafferuigli arrivano anche nelle vie che sono limitrqfe, stiamo parlando di dietro, la parte di Via Sannio, Torquato Tasso, Museo Della Liberazione, questo � quello che accade. Vengono fatti degli arresti in fragranza di reato in questa situazione e, poi, dopo diverso tempo, la situazione in qualche maniera si placa. Affluiscono a sistemare molti altri reparti, i facinorosi non erano pi� tantissimi ... alcuni gruppi vengono inseguiti e poi si riescono a defilare arrivando fino a Piazza San Giovanni ... io ritengo che il momento clou per la pericolosit� � stato l'incendio del mezzo dei Carabinieri perch� l� � stata veramente una fortuna che non ci siano state delle conseguenze maggiori sia perch� .... � stato colpito con un palo sia perch� quello che si � dato alla fuga poi l'abbiamo arrestato, l'abbiamo colpito con una pietra ed � riuscito a rimanere in piedi perch� abbiamo tutto questo gruppo intorno. Debbo dire che tutta la fase di questi movimenti e di questi attacchi � stata di estrema drammaticit� e violenza. PUBBLICO MINISTERO -lei ha detto che il militare dell'arma � stato colpito con un palo, � stato inseguito, colpito con i sampietrini, sul mezzo che cosa � stato provocato? TESTE -incendiato e distrutto oltre che devastato perch� noi abbiamo foto di soggetti travisati che sono andati con i cimeli che poteva essere uno specchietto retrovisore ... PUBBLICO MINISTERO -parliamo di Piazza San Giovanni e dell'incendio del mezzo blindato dei carabinieri. Come si arriva all'identificazione di S.C. TESTE -allora, innanzitutto la collocazione, proprio davanti la scala Santa, Piazza San Giovanni in alto, Piazza del Vicariato era pi� tranquilla, leggermente pi� in l�, l'entrata laterale, l� questo mezzo viene incendiato, non riesce pi� a partire, si incendia e capita quello che poi � nei filmati PUBBLICO MINISTERO -dottor Giannini, volevo capire con riferimento agli scontri che ci sono stati e alle conseguenze che il vostro personale ha avuto, che cosa ci pu� dire? TESTE -come Polizia, che ricordi, sono state 64 le persone che hanno fatto ricorso alle cure mediche, le prognosi pi� gravi, ho visto le prime e non so poi le evoluzioni, c'erano state deIle fratture, tre o quattro persone con delle fratture quindi erano superiori ai trenta giorni, so che 18 appartenenti alla Guardia di Finanza hanno fatto ricorso alle cure mediche. I Carabinieri hanno fatto la comunicazione diretta, ma penso sicuramente oltre 30. PUBBLICO MINISTERO -senta, lei da quando tempo dirige la Digos di Roma? TESTE -sono alla Digos di Roma sin dal 1992 e la dirigo dal 2004, a mia memoria, non ricordo incidenti cos� gravi da quando sono alla Digos, non li ricordo. Ho vissuto atti di devastazione sistematica, ma soprattutto di incendi anche a stabili, si � verificata la profanazione di una chiesa, c'era anche un altare collocato in un istituto non li ricordo, devo andare in altre parti d'Italia dove sono stato ad esempio a Genova, ma a Roma no". Alla luce della ricostruzione offerta dal teste GIANNINI, appare, pertanto, conforme alle acquisite risultanze istruttorie affermare che l'incendio del mezzo blindato dei Carabinieri e, dunque, uno degli specifici episodi contestati al S., si � concretizzato proprio al culmine dei gravissimi disordini scoppiati, per ci� che qui interessa, all'interno di p.zza San Giovanni. La visione, all'udienza del 19 luglio 2012, di un video contenente anche le immagini relative ai momenti immediatamente antecedenti e successivi a quell'attacco ha permesso di apprezzare, con ancora maggiore perfezione ed attendibilit�, lo svilupparsi degli eventi narrati dal teste e, in particolare, il momento in cui il militare a bordo del mezzo venne colpito con un palo e, quindi, dopo essere stato attinto da una grossa pietra scagliatagli durante la fuga, riusc� a mettersi in salvo. Immediatamente dopo tale tragica sequenza, sempre nel filmato visionato in udienza, si nota l'aggressione del mezzo ad opera di un folto gruppo di violenti che, con ogni tipo di oggetto contundente (bastoni, sampietrini, razzi e bottiglie molotov), prende d'assalto la camionetta ormai abbandonata e, quindi, la danneggia e, infine, la incendia. Proprio in tale specifico frangente si nota, per ci� che qui specificamente interessa, una persona che, a volto scoperto e con una maglia tipo baseball di indubbia evidenza, dopo aver incitato altri facinorosi ad avvicinarsi al mezzo dei carabinieri, lancia il contenuto di una bottiglia in direzione del veicolo che appare gi� in fiamme. Vale, altres�, segnalare, come dalle riprese aeree visionate sempre all'udienza del 19 luglio 2012 sia possibile ricostruire il contesto pi� generale in cui viene a registrarsi l'episodio specificamente contestato al S.. Dalle sequenze delle immagini riprodotte in quel video, infatti, emerge come gli atti di ripetuta violenza consumatisi sulla camionetta poi data alla fiamme maturino in un quadro di vera e propria guerriglia urbana che, con tutta evidenza, viene alimentata anche dalle persone che si resero responsabili dell'assalto a quel mezzo blindato. N� pu�, infine, tacersi come, a testimoniare la violenza degli scontri registratisi durante la manifestazione, venivano constatati gli ingenti danni arrecati ad edifici pubblici e privati, ad esercizi commerciali, ad autovetture, alla segnaletica ed alla pavimentazione stradale, ai cassonetti AMA. Analoghi, decisi riscontri alla violenza di quegli scontri emergevano dal numero delle vittime registratesi tra gli appartenenti alle forze di polizia che, alla fine della drammatica giornata, contavano circa un centinaio tra agenti e militari feriti. A questo punto, nonostante la sua, ormai, pacifica identificazione, vale ripercorrere, per completezza di indagini, la pista investigativa che pone alla individuazione del S.. La Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione diram� ai vari comandi di pg dislocati sul territorio nazionale alcuni dei fotogrammi che, estrapolati dalle riprese video della manifestazione, ritraevano soggetti particolarmente attivi durante gli scontri avvenuti nella giornata del 15 ottobre 2011 e, tra questi, il fotogramma dell'individuo che gettava oggetti contundenti e il liquido di una bottiglia contro il mezzo blindato dei carabinieri in fiamme. Nella pressoch� immediatezza delle indagini, il personale della stazione dei CC di Castel Franco di Sotto, sulla base di quella estrapolazione fotografica, riconosceva nell'odiemo imputato uno dei cittadini residenti nella zona di sua competenza. Conseguentemente, come si evince della deposizione del teste 1.gt Quaranta Emanuele, il 27 ottobre 2011, venne effettuata una perquisizione di iniziativa presso l'abitazione del S.. Lo stesso, nel predetto frangente, riconosciuto dai militari come l'individuo rappresentato nel fotogramma divulgato sul sito "IL GIORNALE.IT" quotidiani, confermava di essere ii giovane ritratto nella foto e dichiarava di aver lanciato contro il blindato del CC liquido composto da coca cola e whisky. In tale occasione venivano sequestrati al S.: -gli indumenti indossati il giorno della manifestazione; -un volantino che istigava al boicottaggio degli istituti bancari; -un telefono cellulare con all'intemo immagini del S. con in volto una maschera anti gas, ed un sms con scritte quali: "sbirri assassini" e "picchia duro i celerini", ricevuti immediatamente prima l'inizio della manifestazitme. II S., anche in sede di convalida del fermo, confermava di essere il giovane che, nel fotogramma pi� volte citato, gettava il contenuto di una bottiglia all'indirizzo del mezzo blindato in fiamme. Quante alle condotte riferibili al S., il racconto dei testi escussi e la visione del DVD contenente le riprese effettuate sia dall'elicottero della Polizia di Stato che da terra, hanno permesso di verificare come l'imputato facesse, sicuramente, parte di un nutrito gruppo di manifestanti che, nella fase degli scontri culminata con l'assalto alla camionetta in questione, si stacc� da quest'ultimo e, rivolgendosi all'indietro, invit� i compaani ad avvicinarsi e, quindi, dopo avere gettato oggetti contundenti contro il mezzo blindato dei CC gi� in fiamme, svuot� il liquido di una bottiglia all' indirizzo di quest' ultimo. Le condotte specificamente contestate all'imputato, pertanto, trovano un preciso ed oggettivo riscontro nel materiale fotografico e video in atti che, per l'appunto, ritrae il S. nell'atto di commettere le azioni a lui specificamente addebitate nel capo di imputazione. Lo stesso imputato, del resto, non potendo contestare la configurabilit� a suo carico di quelle condotte, consapevole del grave contesto in cui le stesse furono filmate, rispondendo a specifiche domande rivoltegli nel corso del suo esame, ha giustificato la sua presenza in piazza San Giovanni per avere, senza particolare intenzione di partecipare alla manifestazione, semplicemente accompagnato un'amica di cui, peraltro, non forniva alcun utile elemento di identificazione. Il S., poi, in merito alla richiesta di giustificare le ragioni che lo indussero a rimanere nella piazza nonostante la determinatasi situazione di "guerriglia", chiamato a spiegare il movente che lo spinse a gettare del liquido sul mezzo in fiamme, si � rifugiato nella pi� comoda ed in- dimostrata spiegazione, dichiarando di aver agito in stato di ebbrezza e, dunq�e, inconsapevole di quanto stesse facendo. Ci� posto, appare di tutta evidenza come le dichiarazioni difensive del S. non solo siano smentite dal chiaro contenuto del filmato visionato all'udienza del 19 luglio 2012, ma appaiano contraddette da elementari canoni logici ed altrettanto comuni regole di esperienza. Sotto il primo dei profili prospettati, non pu� ignorarsi come la sequenza delle azioni riferibili all'imputato, lungi dal documentarne un suo stato di ebbrezza, testimoni, al contrario, la coerente e consapevole condotta di un soggetto che, totalmente padrone delle sue azioni, intende opporsi, con atti di violenza e in concorso con numerosi, altri manifestanti, al legittimo intervento del personale operante e, quindi, partecipa, attivamente, all'attacco ed all'incendio di un mezzo blindato in specifico e doveroso servizio di ordine pubblico. Sotto il secondo dei profili prospettati, deve, poi, segnalarsi come la presenza del S. nel momento in cui si registr� il culmine delle azioni violente in danno delle forze di polizia testimoni, secondo logica e comuni regole di esperienza, non solo, la sua, precisa volont� di aderire ad un progetto condiviso con gli altri facinorosi, ma, soprattutto, la sua, altrettanto, evidente intenzione di rafforzarne ed agevolarne le condotte, offrendo un suo, autonomo contributo causale allo, svilupparsi degli scontri che, dopo il lancio di oggetti contundenti, portarono, addirittura, all'attacco ed all'incendio di una camionetta dei carabinieri. N� pu� tacersi come la valutazione della condotta del S. non possa prescindere dalla doverosa considerazione di una oggettiva circostanza che, emersa dal suo racconto, � stata, con chiarezza, sottolineata dal GIANNINI. Il teste ha riferito, per ci� che qui interesa, che l'elevato livello di violenza che ebbe a precedere le azioni registratesi in p.zza San Giovanni aveva determinato la fuga della gran parte dei pacifici manifestanti cui, proprio a causa della drammatica situazione di ordine pubblico venutasi a creare, fu, di fatto, impedito il legittimo esercizio di un diritto costituzionalmente garantito. In tale quadro appare ragionevole ritenere che le documentate, successive condotte del S., lungi dal potersi ricondurre in una occasionale presenza in piazza San Giovanni, sono, piuttosto, da attribuirsi alla sua precisa volont� di partecipare, attivamente e a differenza dei tanti, altri manifestanti costretti a fuggire, agli scontri violenti che, come reso evidente dai filmati visionati, trasformarono piazza San Giovanni in un luogo di vera e propria guerriglia in cui risultava impossibile esercitare le pi� normali attivit� di vita comune. Alla luce delle risultanze istruttorie fin qui esaminate, si �, pertanto, dell'avviso che, con tranquilla certezza, possa essere affermata la penale responsabilit� del S. con riferimento ad entrambi i reati a lui ascritti. In relazione al capo A), non sembra, infatti, contestabile come le azioni violente di cui si rese consapevolmente responsabile l'imputato fossero destinate a contrastare l'operato dei pubblici ufficiali addetti al servizio di ordine pubblico che, per dovere del loro ufficio e non senza rischi per la loro incolumit� personale, furono chiamati ad intervenire per interrompere le gravi azioni di danneggiamento e le altre condotte violente che, di fatto, avevano impedito un pacifico svolgimento di una legittima manifestazione. Parimenti provata deve, poi, ritenersi, ad avviso del tribunale, la sussistenza delle aggravanti ipotizzate con riferimento al delitto di resistenza descritto nel capo di imputazione. Come pacifico in giurisprudenza, per la configurabilit� dell'aggravante di cui al comma 2 del- l'art. 339 cp, ҏ necessario e sufficiente che i concorrenti nella esecuzione del delitto siano stati presenti in pi� di dieci sul luogo e nel momento in cui la violenza viene perpetrata" ed inoltre "non rileva che alcune di esse siano rimaste non identificate". Orbene, risultando evidente che il S., come emerge dal filmato visionato in udienza, ag� unitamente ad un nutrito gruppo di altri manifestanti e risultando, altrettanto, evidente che le sue condotte furono agevolaie dalla concomitante presenza di questi ultimi, nessun dubbio sussiste quanto alla configurabilit� nel caso di specie dell'aggravante in questione. Ad ulteriore conforto della conclusione cui si � pervenuti vale, altres�, evidenziare come, sempre secondo una consolidata e condivisa giurisprudenza, l'affermazione della effettiva sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 339 II co. c.p. non richieda l'accertamento di un previo concerto degli autori del fatto, essendo sufficiente la consapevolezza, da parte di questi ultimi, che la propria azione si inserisca in un contesto numerico di persone che ne condividono finalit�, destinatari e modalit�. Ad una conclusione ugualmente sfavorevole all'imputato deve, poi, pervenirsi anche con riferimento alla configurabilit� delle ulteriori, due circostanze aggravanti contestate. L'accertato, ripetuto lancio di oggetti e, da ultimo del liquido versato sul mezzo in fiamme, rende, in particolare, evidente come le condotte di resistenza poste in essere dal S. furono consumate con le modalit� di cui all'ultimo comma dell'art. 339 cp. N� sembra contestabile che le particolari circostanze di tempo e di luogo in cui ebbero a svolgersi i fatti contestati integrino, senz'altro, gli estremi dell'aggravante comune di cui al n. 5 dell'art. 61 cp.. Ove, infatti, si consideri che il S. pot� agire grazie alla grave situazione di ordine pubblico venutasi a determinare per i ripetuti atti di violenza che portarono la fuga dei pacifici manifestanti; che l'intervento del personale schierato a difesa dell'ordine pubblico fu ostacolato non solo dall'elevato numero di facinorosi, ma dalla loro organizzata azione di resistenza; che, come riferito dal teste GIANNINI, al culmine degli scontri cui partecip� l'imputato, la piazza San Giovanni appariva il teatro di atti di vera e propria "guerriglia", appare conforme a logica, oltre che a diritto, ritenere che il S., cos� come gli viene contestato, abbia, sicuramente, approfittato di una peculiare situazione che, fino al ripristino dell'ordine pubblico, ostacolava la difesa tanto pubblica che privata. Per completezza di indagine, vale, infine, evidenziare come tra le aggravanti ad effetto speciale di cui all'art. 339 c.p. e l'aggravante di cui al n. 5 dell'art. 61 c.p. non sussista, a parere del tribunale, alcuna situazione di incompatibilit� n� � prospettabile l'assorbimento dell'aggravante comune nell'una o nell'altra delle aggravanti ad effetto speciale. Infatti, la circostanza di aver profittato di condizioni di tempo e di luogo tali da ostacolare la pubblica o privata difesa non costituisce elemento gi� implicito nelle aggravanti di aver agito in numero di persone superiore a dieci e di aver fatto impiego di oggetti contundenti per potenziare l'azione di contrasto alle forze dell'ordine, ma si configura come elemento diverso ed ulteriore di individuazione della condotta antigiuridica. Quanto ai fatti contestati al capo B) della rubrica, il tribunale � dell'avviso che, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, l'accertata condotta del S. debba, per l'appunto, essere ricondotta nel paradigma del delitto di devastazione. Non ignora il tribunale le decisioni di legittimit� che, anche di segno opposto, sono intervenute per delimitare l'ambito applicativo della norma incriminatrice di cui all'art. 419 cp. Tuttavia, senza alcuna pretesa di originalit� e trascrivendo, testualmente, argomenti sviluppati in una recente decisione adottata dal supremo collegio proprio con riferimento ad un soggetto indagato per gli stessi fatti contestati al S., vale ricordare, in punto di diritto "che la fattispecie di cui all'art. 419 c.p., risulta integrata allorch� le condotte di distruzione e danneggiamento, anche aventi ad oggetto uno specifico bene (nel caso di specie, il mezzo blindato dei CC), siano attuate con modalit� tali da ledere il bene dell'ordine pubblico, inteso come forma di civile e corretta convivenza" (Cassazione Penale sez. I del 5.07.2012, n. 26144 che richiama sez. I n. 20313 del 29/04/2010). Ritenuta la configurabilit�, in astratto, del delitto di devastazione anche con riferimento all'incendio del mezzo blindato cui partecip� il S., resta da valutare se, nel caso di specie, possano ritenersi sussistenti le modalit� che, secondo la regola di diritto sopra richiamata, valgano ad integrare la ipotizzata violazione delle contestata norma incrimimatrice. La risposta al formulato quesito non pu� che essere sfavorevole all'imputato. Nella ricostruzione degli eventi addebitati al S., si �, pi� volte, evidenziato come le azioni violente di cui questi si rese responsabile si consumarono al culmine degli scontri tra mani- festanti e forze di polizia e, in particolare, quando, la situazione dell'ordine pubblico era gravemente compromessa. Il racconto dei testi escussi e le sequenze del filmato messo a disposizione del tribunale hanno, infatti, testimoniato che, allorch� fu attaccato e incendiato il mezzo blindato del carabinieri, la piazza San Giovanni era stata sottratta ai pi� elementari usi di civile e corretta convivenza. N� pu� tacersi, che sempre a causa di quella documentata situazione di "guerriglia" fu, di fatto, inibito ai tantissimi, pacifici partecipanti del corteo di esercitare il loro diritto costituzionale "di manifestare liberamente il proprio pensiero". Deve, pertanto, ritenersi che, in ossequio al principio in diritto richiamato dalla citata sentenza, proprio la ricostruzione dei fatti e delle condone antecedenti, concomitanti e susseguenti alla consumazione delle azioni violente addebitate al S. (creazione di barricate, lancio di oggetti contundenti all'indirizzo di persone e case, utilizzo di armi improprie per l'assalto al veicolo blindato dei carabinieri) rende di tutta evidenza come, nel caso di specie, si sia realizzata una grave lesione al bene giuridico dell�ordine pubblico che, pertanto, vale, senz'altro, ad integrare il contestato delitto di devastazione. Nella stessa decisione, infine, il giudice di legittimit� ha avuto modo di precisare, con specifico riferimento al possibile concorso tra i reati contestati al S., che "il reato di resistenza aggravata non pu� ritenersi assorbito dal reato di devastazione, stante il fatto che quest'ultimo include condotte di violenza reale che aggrediscono beni patrimoniali (quali danneggiamenti, furti ed altre condotte lesive di interessi patrimoniali) con una vastit� tale da generare un pericolo per l'ordine pubblico; la fattispecie non assorbe condotte connotate dall'uso di violenza contro la persona le quali integrano concorrenti fattispecie autonome di reato". Provata la penale responsabilit� dell'imputato per entrambi i delitti a lui contestati, appare evidente come la contestualit� di tempo e di luogo in cui si sono consumati i fatti, la palese unicit� del disegno criminoso che anim� il S. consentono di applicargli il trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 81 cp, con conseguente determinazione di una quota di aumento di pena sulla sanzione relativa al pi� grave degli accertati reati e, dunque, a quello di devastazione. Sempre con riferimento ai parametri di determinazione della pena, una circostanza merita di essere segnalata in favore dell'imputato. L'analisi delle risultanze istruttorie, evidenzia come da nessuna fonte di prova sia possibile ricavare una partecipazione del S. alla fase organizzativa degli scontri poi registratesi durante, le varie fasi della manifestazione. Parimenti sfornita di prova � una ipotetica partecipazione dell'imputato a fatti avvenuti all'esterno di piazza San Giovanni. In tale quadrq, nella totale assenza di emergenze di segno contrario, � ragionevole affermare che le condotte violente di cui si rese responsabile l'imputato, bench� connotate da oggettiva gravit�, scaturirono da una, verosimile estemporanea volont� dell'imputato che, non diversamente da quanto accaduto per altri manifestanti, matur� la decisione di partecipare agli atti di resistenza e di devastazione solo perch� animato da un dolo d'impeto e, quindi, senza una sua, qualsiasi, precedente programmazione con appartenenti a gruppi organizzati. Proprio l'assenza di una partecipazione del S. alla pianificazione delle azioni violente, il suo marginale contributo causale alla fase terminale degli scontri consentono, ad avviso del tribunale, di applicare un trattamento di clemenza anche mediante il ricorso all'art. 114 c.p. La condotta del S., infatti, seppur utile a configurare i gravi reati a lui ascritti, non appare comparabile con quella, ben pi� aggressiva, degli altri ignoti facinorosi che, durante le varie fasi del corteo, facendosi scudo dei tantissimi, pacifici manifestanti, si resero responsabili di ripetute atti di aggressioni a persone e cose e, con la loro pianificata azione di provocazione, procurarono la ingestibile situazione di ordine pubblico che port� allo scatenarsi degli scontri cui prese parte l'imputato. Ove, poi, si consideri che le sequenze del filmato visionato mostrano il S. nell'atto di versare il liquido di una bottiglia su un mezzo blindato gi� in fiamme, appare conforme a logica ed alle acquisite risultanze istruttorie affermare che quella condotta, seppure apprezzabile quale autonomo contributo alla consumazione degli accertati fatti di devastazione, non fu la causa scatenante dell'incendio che altri avevano gi� provocato. Anche con riferimento alla fase esecutiva del delitto pu�, pertanto, stimarsi marginale l'opera che l'imputato ebbe a prestare per la consumazione del delitto di devastazione e, quindi, anche sotto tale profilo, pu� trovare applicazione l'attenuante comune di cui all'art. 114 c.p. Avuto, poi, riguardo alla necessit� di adeguare la pena al caso concreto e, in buona sostanza, di mitigate la severit� delle pene edittali previste per il reato di devastazione, possono essere applicate al S. anche le circostanze attenuanti generiche. In conclusione valutati comparativamente gli elementi tutti di cui all'art. 133 cp, appare conforme a giustizia, in ragione del sistema di calcolo sopra prospettato, condannare l�imputato alla pena finale e complessiva di anni 5 di reclusione (p.b. anni 8 di reclusione � 1/3 ex art. 114 c.p. � 10 mesi di recl. ex art. 62 bis c.p. + pi� mesi 6 di recl. ex art. 81 cpv. c.p.). L'affermazione di penale responsabilit� dell'imputato e la durata della pena detentiva a lui inflitta comportano la sua condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare nonch� l'applicazione nei suoi confronti delle pene accessorie specificate in dispositivo. Ai sensi dell'art. 240 c.p. va disposta la confisca e la distruzione delle cose di cui al verbale di sequestro del 27.10.2011 ad eccezione del computer di marca Acer, di cui al n. 1 , e del telefono cellulare marca Alcatel con relativa scheda Vodafone, di cui al n. 2, delle quali deve essere disposta l'immediata restituzione al S. L'imputato deve poi essere condannato al risarcimento dei danni - da liquidarsi in separata sede, difettando nella presente elementi precisi per la loro determinazione - in favore delle parti civili costituite nonch� alla rifusione nei confronti delle medesime delle spese sostenute per il presente giudizio, che vanno determinate nella misura di � 2.000,00 per ciascuna parte civile. Va respinta la richiesta di provvisionale, difettando la prova degli specifici danni derivanti dalla condotta dell'imputato. II termine per il deposito della presente motivazione, di carattere complesso, viene fissato alla data del 30 novembre 2012. P.Q.M. Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara S.C. colpevole dei reati a lui ascritti e concesse la circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p. e le circostanze attenuanti generiche, ritenuta la continuazione, lo condanna alla pena finale e complessiva di anni 5 di reclusione (p.b. anni 8 di reclusione � 1/3 ex art. 114 c.p. � 10 mesi di recl. ex art. 62 bis c.p. + mesi 6 di recl. ex art. 81 cpv. c.p.), oltre al pagamento delle spese processuali e di quelle di custodia cautelare. Visti gli artt. 28, 29 e 32 c.p., dichiara S.C. interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale per la durata della pena. Visto l'art. 240 c.p., ordina la confisca e la distruzione delle cose di cui al verbale di seq�estro del 27.10.2011 ad eccezione del computer di marca Acer, di cui al n.1; e del telefono cellulare marca Alcatel con relativa scheda Vodafone, di cui al n. 2, delle quali deve essere disposta l'immediata restituzione all'imputato. Visti gli artt. 538 e ss c.p.p., condanna S.C. al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili ATAC s.p.a., Ministero della Difesa, Ministero dell'Interno, AMA s.p.a. e Roma Capitale, da liquidarsi in separata sede e alla rifusione delle spese di costituzione in giudizio che liquida, in favore di ciascuna, in euro 2.000,00. Rigetta la richiesta di provvisionale avanzata dalle predette parti civili. Fissa alla data del 30 novembre 2012 il termine per il deposito della motivazione. Il pubblico impiego dinanzi alla Riforma Fornero Michele Gerardo e Adolfo Mutarelli* SOMMARIO: 1. La problematica esclusione del pubblico impiego dall�ambito applicativo della Riforma Fornero - 2. Le posizioni dottrinati sin qui emerse. La tesi dell�applicabilit� 3. (Segue) La tesi dell�inapplicabilit� - 4. Le ragioni che militano in favore dell�inapplicabilit� al pubblico impiego delle disposizioni sostanziali della Riforma Fornero - 5. Le ragioni che depongono per l�applicabilit� al pubblico impiego del nuovo rito speciale previsto dalla Riforma Fornero per i licenziamenti illegittimi. 1. La problematica esclusione del pubblico impiego dall�ambito applicativo della Riforma Fornero. Il legislatore dell�ambiziosa riforma del mercato del lavoro � riuscito a dar vita, si ignora quanto consapevolmente, ad un testo normativo a dir poco sibillino addirittura in ordine al campo di applicazione della riforma. Non � chiaro infatti in che misura la riforma si applichi anche al pubblico impiego e, manco a dirlo, se si applichi il novellato testo dell�art. 18 della L. 300/1970 sui licenziamenti ed il correlato rito speciale disciplinato agli art. 47-68 del medesimo corpus normativo. I prodromi di tale impiccio erano stati peraltro tempestivamente avvertiti dalla dottrina (1), che gi� con riferimento al disegno di legge governativo 3249 (divenuto poi riforma del mercato del lavoro) aveva messo in guardia l�incauto legislatore dal �rattoppo� dell�ultimo minuto costituito dal compromissorio testo dell�art. 2 (1� e 2� comma) divenuti poi 7� e 8� commi dell�art. 1 L. 92/2012 (2). � noto come in occasione della predisposizione del ricordato disegno di legge si sia scatenata una aspra polemica politico-sindacale che ha coinvolto gli stessi Dicasteri del Lavoro e della Funzione Pubblica (3) in ordine all�ap (*) Avvocati dello Stato. Autore dei �� 1 e 5 Adolfo Mutarelli. Autore dei �� 2, 3 e 4 Michele Gerardo. (1) F. CARINCI, Complimenti, dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in LG, 2012, 6, 529; S. MAGRINI, Quer pasticciaccio brutto (dell�art.18), in ADL, 2012, 3, 535; M. GERARDO, Contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e giurisdizione del giudice ordinario, in M. GERARDO, A. MUTARELLI, Il processo nelle controversie di lavoro pubblico, Giuffr�, 2012, pag. 29, nota 40. (2) L�osservazione di L. ZOPPOLI, La riforma del mercato del lavoro vista dal Mezzogiorno: profilo giuridico istituzionali, in http://www.giuslavoristi.it, secondo cui Ǐ troppo evidente in questo caso il rattoppo dell�ultimo minuto realizzato in considerazione delle polemiche suscitate dall�eventuale applicazione del �nuovo� art. 18 St. lav. anche ai dipendenti pubblici�. (3) L. OLIVERI, Una controriforma per il pubblico impiego, in www.lavoce.info.it; V. BRANCACCIO, E. CAVALLARO, L�articolo 18, pulizie di primavera, in Il Manifesto, 22 aprile 2012. plicabilit� al pubblico impiego della disciplina di cui al novellato testo dell�art. 18 Statuto dei lavoratori. Figli di questa aspra polemica sono appunto i ricordati commi 7 e 8 dell�art 1 L. 92/2012 secondo cui: �7. Le disposizioni della presente legge, per quanto da essa non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all�art. 1, comma 2, del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall�art. 2 comma 2 del medesimo d. lgs. Restano ferme le previsioni di cui all�art. 3 del medesimo d. lgs. 8. Ai fini dell�applicazione del comma 7 il Ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione, sentite le Organizzazioni Sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalit� e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche�. Gi� ad una prima lettura � agevole osservare che le richiamate disposizioni sono state concepite senza tener conto che alcuna delle disposizioni modificate e - per quanto di interesse - tra queste in particolare l�art. 18, erano gi� operanti nella disciplina del pubblico impiego in virt� dell�espresso rinvio contenuto nel 2� comma dell�art. 51 del T.U. 165/2001 �alla legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni e integrazioni� secondo cui �la legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti�. Richiamo reso pi� stringente e completo dal 2� comma dell�art. 2, T.U. 165/2001 alla luce del quale �i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo 1, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell�impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo�. Sicch� rispetto al novellato testo dell�art. 18 St. lav. risulta quanto mai arduo stabilire se tale disposizione sia nella mens legis destinata a costituire principio cui dovr� informare la propria azione il Ministro per la pubblica amministrazione e per la semplificazione per definire modalit� e tempi dell�armonizzazione della disciplina alle amministrazioni pubbliche o, viceversa, destinata a costituire disciplina di immediata applicazione in virt� del rinvio dinamico di cui al ricordato 2� comma dell�art. 51, T.U. 165/2001 rispetto a cui alcun effettivo argine sarebbe riuscito a porre il comma 7 dell�art. 1 della riforma Fornero. 2. Le posizioni dottrinali sin qui emerse. La tesi dell�applicabilit�. L�illustrato quadro normativo � tale da rendere ragionevolmente plausibile ognuna delle opzioni ermeneutiche astrattamente configurabili (e configurate) dinanzi a tale anodina trama normativa. Pur essendo state infatti formulate in dottrina tutte le opzioni possibili non pu� infatti ritenersi che si sia individuata una definitiva chiave di lettura normativa del testo. Secondo una parte della dottrina laddove la riforma interviene su disposizioni gi� applicabili al pubblico impiego le modifiche apportate non potrebbero non essere applicate al lavoro pubblico. Ci� in quanto la previsione di cui al 7� comma dell�art. 1 della L. 92/2012 non sembra idonea sul piano tecnico/giuridico a modificare l�ambito di applicabilit� delle norme oggetto di riforma (4). Ad analoghe conclusioni perviene altro orientamento secondo cui l�inciso �per quanto da esse non espressamente previsto� andrebbe letto quale �salva espressa previsione in senso contrario� (5). In tale prospettiva l�espressa diversa previsione sarebbe da ricercare non solo nella legge 92/2012 - laddove vi � un espresso riferimento alla Pubblica Amministrazione - ma anche in tutte quelle altre disposizioni che sono destinate a trovare applicazione immediata anche nell�ambito del lavoro pubblico per effetto della �funzione di travaso� garantita dall�art. 51, 2� comma nonch� dall�art. 2, 2� comma del T.U. 165/2001 (6). Deve tuttavia segnalarsi come l�illustrato orientamento dottrinario si diversifichi poi all�interno in ordine alla problematica dell�applicabilit� al pubblico impiego del nuovo rito speciale disciplinato dai commi da 48 a 67 dell�art. 1 della L. 92/2012 che, per dettato del comma 47 si applica �alle controversie aventi ad oggetto l�impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall�art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto�. Secondo una prima opzione ricostruttiva, l�esclusione di carattere generale di cui all�art. 1 comma 7 della riforma del mercato del lavoro sarebbe idonea a giustificare l�inapplicabilit� al pubblico impiego del nuovo rito speciale per i licenziamenti in quanto il legislatore, in questo caso ed a differenza del- l�art. 18, non � intervenuto su una norma gi� applicabile per rinvio al pubblico impiego ma � intervenuto predisponendo un rito speciale del tutto nuovo (7). Da tale prospettiva pertanto si osserva che mentre le modifiche della legge 92/2012 concernenti la disciplina sostanziale dei licenziamenti devono trovare (4) L. GALANTINO, Diritto del lavoro pubblico, Torino 2012, pag. 16. (5) � questa la posizione di A. TAMPIERI, La legge 92/2012 e il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in G. PELLACANI (a cura di), La riforma del lavoro, Giuffr�, 2013, pag. 29. (6) Per l�applicabilit� del nuovo testo dell�art. 18 al pubblico impiego, v. L. CAVALLARO, L�art.18 St. Lav. e il pubblico impiego: breve (per ora) storia di un equivoco, in LPA, 2012, 1019; A. TAMPIERI, La legge 92/2012 e il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., pag. 29 ss.; G. GENTILE, I dipendenti delle Pubbliche amministrazioni, in M. CINELLI, G. FERRARO, O. MAZZOTTA (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro. Dalla riforma Fornero alla legge di stabilit� 2013, Giappichelli, 2013, 227; C. MUSELLA, Il rito speciale in materia di licenziamenti, ivi, 359; E.A. APICELLA, Lineamenti del pubblico impiego privatizzato, Giuffr�, 2012, 208 ss.; R. RIVERSO, Indicazioni operative sul rito Fornero (con una divagazione minima finale), in www.altalex.com. (7) Cos� A. TAMPIERI, La legge n. 92/2012 e il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., 33. applicazione anche nel settore pubblico in quanto relative a disposizioni sostanziali gi� applicabili, viceversa le ulteriori novit� del rito in materia di licenziamenti non dovrebbero trovare applicazione non intervenendo direttamente su norma gi� applicabile al pubblico impiego (8). Partendo viceversa dal carattere necessario ed esclusivo del nuovo rito previsto dalla legge sul mercato del lavoro si ritiene che lo stesso sia applicabile anche al pubblico impiego in quanto alcuna indicazione contraria � desumibile dal complesso normativo della L. 92/2012. Sicch� le impugnative del licenziamento del pubblico impiegato non potrebbero ritenersi sottratte al nuovo rito (9). 3. (Segue) La tesi dell�inapplicabilit�. Sul fronte opposto si osserva che, alla luce dell�art. 1, comma 1, l. 92/2012, le finalit� perseguite dalla riforma del mercato del lavoro appaiono ritagliate a misura del lavoro privato con l�evidente corollario che il successivo 7� comma dell�art. 1, seppur di infelice formulazione, non pu� che essere letto come presidio dei dichiarati obiettivi normativi apparendo quindi del tutto coerente l�esclusione del lavoro pubblico dall�ambito del complesso normativo. In tal prospettiva si rileva altres� come la soluzione di tecnica legislativa di cui ai commi 7 e 8 del ricordato articolo 1 non � cos� distante da quella utilizzata nel d. lgs. 10 settembre 2003 n. 276, che oltre a prevedere la generale esclusione del pubblico impiego stabiliva all�art. 86 comma 8 che il Ministro della funzione Pubblica convocasse entro sei mesi le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti all�entrata in vigore della nuova disciplina, e ci� anche ai fini dell�eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia (di cui oggi si � tuttora in attesa). L�esclusione del lavoro pubblico dall�ambito della riforma del mercato del lavoro viene cos� veicolata in una progressiva scelta politica che se non va in dichiarata contro- tendenza rispetto al processo di privatizzazione del pubblico impiego ne connota tuttavia una lenta erosione su aspetti normativi di particolare rilievo (10). Tale orientamento postula pertanto la coesistenza di un testo �storico� dell�articolo 18 applicabile al pubblico impiego e un testo vigente applicabile al lavoro privato. In ordine al fenomeno della sopravvivenza del testo dell�articolo 18 ante novella la stessa viene variamente spiegata come effetto implicitamente abrogativo del comma 2 dell�articolo 51 del d.lgs. 165/2001 determinato dall�esclusione del pubblico impiego contenuta nel comma 7 del (8) Cos� G. GENTILE, I dipendenti delle pubbliche amministrazioni, cit., 229. (9) C. MUSELLA, Il rito speciale in materia di licenziamento, cit., pag. 359; P. CURZIO, Il nuovo procedimento in materia di licenziamenti, in P. CHIECO (a cura di), Flessibilit� e tutele del lavoro. Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, Bari 2012, 8 ss.. (10) F. CARINCI, Articolo 18 St. lav. per il pubblico impiego privatizzato cercasi disperatamente, in LPA, 2012, pag. 247 ss.. l�articolo 1 L. 92/2012 (11) o, viceversa, meramente disapplicativo (12) od ancora, pi� radicalmente, dovendosi ritenere come sopravvissuto per rinvio materiale il vecchio testo dell�art. 18 Stat. lav. (13). Pertanto il testo storico dell�art. 18 in tale assetto ricostruttivo rimarrebbe operativamente applicabile ai rapporti di pubblico impiego sino all�eventuale attuazione dell�armonizzazione preannunziata dall�8� comma, dell�art. 1 L. 92/2012 (e sin qui neanche avviata). Quanto all�applicabilit� ai licenziamenti del lavoro pubblico del nuovo rito speciale anche in tale orientamento si registra una difformit� di soluzioni. Secondo taluno dovrebbe in ogni caso applicarsi il nuovo rito in quanto il 47� comma dell�art. 1 l. 92/2012 non individua come discrimen per l�assoggettamento a nuovo rito l�applicabilit� alla controversia dell�art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel testo novellato (14). Per altri invece il nuovo rito non potrebbe ritenersi applicabile in virt� della pi� generale esclusione del pubblico impiego dall�ambito di operativit� della legge (15). 4. Le ragioni che militano in favore dell�inapplicabilit� al pubblico impiego delle disposizioni sostanziali della Riforma Fornero. Il richiamo contenuto agli artt. 2, 2 comma e 51, 2 comma d. lgs. 165/2001 alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell�impresa ed alla l. 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni ed integrazioni opera un rinvio mobile (detto anche formale o non-recettizio) in quanto viene richiamato non uno specifico atto, ma una fonte di esso (16). Con il rinvio mobile vengono recepite tutte le modifiche che si producono nella normativa posta dalla fonte richiamata. In presenza di tale sistema, le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nel- l'impresa si applicano al rapporto di lavoro pubblico a prescindere da specifici richiami nelle stesse contenute. Necessaria �, invece, l�espressa previsione della non applicazione al fine di escludere l�applicazione delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nel- l'impresa al lavoro pubblico. Un esempio in quest�ultimo senso � rinvenibile nell�art. 1 comma 2 (11) F. CARINCI, Articolo 18 St. lav. per il pubblico impiego privatizzato cercasi disperatamente, cit., pag. 255. (12) E. PASQUALETTO, La questione del pubblico impiego privatizzato, in C. CESTER, I Licenziamenti dopo la legge 92 del 2012, Cedam, 2013, pag. 58, nota 20. (13) A. VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli 2012, pag. 55. (14) In tal senso F.M. GIORGI, Il nuovo processo per l�impugnazione dei licenziamenti. Questioni generali, in ID. (coordinato da), La riforma del mercato del lavoro, Jovene, 2012, pag. 318. (15) C. ROMEO, La �legge Fornero� e il rapporto di impiego pubblico, in LPA, 2012, pag. 713. In tal senso sembra potersi leggere M. DE CRISTOFARO, G. GIOIA, Il nuovo rito dei licenziamenti: l�anelito alla celerit� per una tutela sostanziale dimidiata, in www.judicium.it, pag. 5, nota 10. (16) Ex plurimis, R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, G.Giappichelli, 2012, pag. 319 ss.. D.L.vo 10 settembre 2003 n. 276 ( cd. Legge Biagi) (17), relativo alla attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, secondo cui �Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale�. Come si � gi� osservato analoga esclusione � disposta dalla riforma Fornero, in termini generali che coinvolgono anche la novella dell�art. 18 St. lav. Dispone infatti il pi� volte citato comma 7 dell�art.1, secondo cui: �Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall'articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo�. Il menzionato comma stabilisce la generale inapplicabilit� delle le disposizioni contenute nella legge Fornero al lavoro pubblico - rimettendosi al meccanismo disciplinato nel successivo comma 8 la possibile estensione - tranne quelle espressamente (�per quanto da esse non espressamente previsto�) dalla stessa dichiarate applicabili al lavoro pubblico. Un esempio in quest�ultimo senso � rinvenibile nell�art. 1 comma 32 (18) della L. n. 92/2012 che, novellando l�art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, amplia la possibilit� per il committente pubblico di far ricorso al lavoro accessorio. Orbene, nelle disposizioni della legge Fornero non vi � la espressa previsione dell�applicabilit� al pubblico impiego della novella all�art. 18 St. lav. (17) S. MAINARDI, D. lgs. 10 settembre 2003, 276 e riforma del mercato del lavoro: l�esclusione del pubblico impiego, in LPA, 2003, I, 1069. (18) Per il quale: �Al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, sono apportate le seguenti modificazioni: a) l'articolo 70 � sostituito dal seguente: �Art. 70 (Definizione e campo di applicazione). - 1. Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attivit� lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con riferimento alla totalit� dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell'anno precedente. Fermo restando il limite complessivo di 5.000 euro nel corso di un anno solare, nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attivit� lavorative di cui al presente comma possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente ai sensi del presente comma. Per l'anno 2013, prestazioni di lavoro accessorio possono essere altres� rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, fermo restando quanto previsto dal comma 3 e nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno solare, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L'INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio. 2. [�] 3. Il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico � consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilit� interno. 4. [�]�. La peculiare formulazione del comma 7 richiede per l�immediata applicazione al lavoro pubblico dei precetti contenuti nella legge n. 92/2012 una espressa previsione nel senso che la specifica disposizione sia destinata ad operare anche per i �rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165�. Quanto detto implica che si deve escludere la conclusione per cui tutte le volte che la legge Fornero contenga previsioni modificative di disposizioni rese applicabili al rapporto alle dipendenze della Pubblica Amministrazione da altri contesti normativi -rectius: dal rinvio mobile operato dagli artt. 2 comma 2 e 51 comma 2 del d.lgs. n. 165/2001 - ci� equivalga ad una espressa previsione quale quella richiesta dal citato comma 7 (�per quanto da esse non espressamente previsto�) per l�applicabilit� alla pubblica amministrazione. Non si pu� pertanto ritenere che le norme gi� applicabili alla pubblica amministrazione continuino ad essere applicate alla Pubblica Amministrazione nel nuovo testo Fornero. Ci� non appare consentito dal pur atecnico dettato della disposizione di cui al comma 7 in esame di cui non si pu� non cogliere l�intento ad excludendum solo se messa a confronto con gli artt. 51, 2� comma, e 2, 2� comma del D.L.vo n. 165/2001. Da tale raffronto emerge con sufficiente chiarezza che la previsione di cui al comma 7, dell�art. 1, L. 92/2012 intende porsi come argine al rinvio dinamico contenuto nelle ricordate disposizioni del d. lgs. 165/2001 escludendone l�operativit�. L�interpretazione letterale e sistematica conduce ad una lettura secondo cui sono applicabili alla Pubblica Amministrazione solo ed esclusivamente quelle disposizioni la cui applicabilit� � espressamente prevista dalla stessa legge Fornero. Difatti: -il precetto generale della disposizione di cui al settimo comma dell�art. 1 L. 92/2012 � quello della inapplicabilit� delle �disposizioni della presente legge� ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni; -il precetto �per quanto da esse [rectius: �disposizioni della presente legge�] non espressamente previsto� non pu� - logicamente - che riferirsi a quelle disposizioni che prevedano l�applicabilit� delle �disposizioni della presente legge� ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. L�illustrato canone interpretativo appare peraltro sintonico rispetto alla evoluzione della disciplina riservata al pubblico impiego che ha visto nel tempo di fatto annacquato (o forse pi� propriamente eluso) il carattere dinamico di ricordati rinvii che avrebbero dovuto per il legislatore della privatizzazione assicurare la costante armonizzazione del regime normativo tra impiego pubblico e privato. Ne consegue che il rapporto tra il d. lgs. 165/2001 e la L. 92/2012 non pu� essere scrutinato nei termini di un rapporto di successione tra leggi in quanto tale possibilit� appare inibita dalla scelta ad excludendum compiuta dalla legge Fornero. Pu� pertanto ritenersi che al rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione continua ad applicarsi il testo �storicizzato� dell�art. 18 L. 300/70 vigente alla data di entrata in vigore della legge Fornero non in virt� di un preteso carattere materiale del rinvio di cui al 2� comma dell�art. 51 d. lgs. 165/2001, bens� per volont� legislativamente codificata nella riforma Fornero di rimettere proprio il settore �caldo� del licenziamento disciplinare alla contrattazione collettiva cui era stato �scippato� dalla riforma Brunetta. Ci� in evidente sintonia con la pax stipulata con le organizzazioni sindacali per il pubblico impiego con il protocollo 3 maggio 2012 - intesa raggiunta tra il Ministero per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione, i sindacati maggiormente rappresentativi dei dipendenti pubblici e le amministrazioni locali (poi approvata in data 10 maggio 2012 dalla conferenza Regioni e Provincie autonome) - il quale gi� prevedeva l�individuazione di forme di stabilit� in caso di licenziamento. N� pu� nascondersi che questo potrebbe rivelarsi come un definitivo disancoramento della disciplina del pubblico impiego dalla stagione (invero breve) della ricerca di armonizzazione con l�impiego privato. 5. Le ragioni che depongono per l�applicabilit� al pubblico impiego del nuovo rito speciale previsto dalla Riforma Fornero per i licenziamenti illegittimi. Altro osso duro della riforma in esame � costituito dalla problematica dell�applicabilit� al pubblico impiego del nuovo rito speciale (19) disciplinato dai commi da 47 a 68 dell�art. 1 della riforma sul mercato del lavoro e, in particolare, se la sua applicabilit� sia (o meno) condizionata dalla soluzione che si accolga sul pi� ampio tema della applicabilit� al lavoro pubblico della complessiva riforma in esame. Deve in primo luogo osservarsi come, pur aderendo all�orientamento secondo cui il pubblico impiego deve ritenersi escluso dall�ambito di operativit� della riforma Fornero, non sembra possa conseguirne l�inapplicabilit� del nuovo rito speciale in essa disciplinato. Sul piano sostanziale non appare percepibile alcuna incompatibilit� strutturale tra tutela sostanziale e processuale tenuto conto che il nuovo rito � dichiaratamente applicabile �alle controversie instaurate successivamente alla entrata in vigore della presente legge� (comma 67, art. 1, l. 92/2012) e quindi anche a licenziamenti intimati prima della entrata in vigore della stessa (e cio� (19) Rito speciale costruito a m� di �adattata� sintesi del procedimento ex art. 28 Statuto dei lavoratori (per la fase sommaria definita con ordinanza e, in ipotesi di opposizione, per il primo grado di giudizio definito con sentenza) con l�innesto del rito divorzile (per la fase di reclamo introdotta con ricorso). Cos� M. GERARDO, Contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e giurisdizione del giudice ordinario, cit., pag. 29, nota 40. intimati sulla base del testo dell�art. 18 ante riforma). Sotto il profilo ermeneutico pu� inoltre osservarsi che la congiunzione �e� con cui il comma 47 dell�art. 1 della L. 92/2012 circoscrive l�applicabilit� del nuovo rito alle ipotesi disciplinate � dall�art. 18, L. 20 maggio 1970 n. 300, e successive modificazioni� non denota un concetto unitario bens� due distinti spazi di operativit� della disposizione, costituiti dall�art. 18 nel testo previgente alla L. 92/2012 nonch� sempre dallo stesso art. 18 come integrato dalle modifiche apportate dalla legge Fornero. Tale opzione semantica risulta rafforzata dalla circostanza che la locuzione �e successive modificazioni� � collocata tra due virgole. In ogni caso l�applicazione del rito non potrebbe ritenersi preclusa dal- l�insostenibile leggerezza dello sbarramento costituito dal comma 7 dell�art. 1, L. 92/2012 anche perch� nella lettura proposta il comma 47 dell�art. 1 l. 92/2012 costituirebbe ex se disciplina direttamente applicabile al pubblico impiego in quanto idonea ad integrare quella �espressa previsione� normativa salvifica, alla luce dello stesso comma 47 dell�art. 1 l. 92/2012, della applicabilit� delle disposizioni al pubblico impiego. Non appare peraltro in alcun modo ipotizzabile la attribuzione al Ministro per le Pubbliche Amministrazioni e le semplificazioni (art. 1, comma 8, L. 92/2012) dell�individuazione e della definizione di una disciplina rigorosamente processuale da applicare al pubblico impiego. A meno che non si auspichi l�introduzione di un nuovo rito �pi� speciale degli altri" (20) e sempre che una tale opzione possa ritenersi (a parit� di tutela) costituzionalmente �ragionevole� (21). Del resto in tale senso milita lo stesso comma 7 dell�art. 1 l. 92/2012, allorch� circoscrive la natura programmatica �delle disposizioni della presente legge� esclusivamente a quelle concernenti la �regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni� . Mentre infatti � comprensibile sul piano della ragionevolezza che il recesso della pubblica amministrazione sia regolato da norme diverse da quelle che disciplinano l�analogo potere dei datori di lavoro privati, non altrettanto pu� dirsi a proposito della disciplina processuale delle controversie aventi ad oggetto l�impugnazione dei licenziamenti (22). Non sembra peraltro condivisibile neanche l�orientamento (23) secondo cui (pur nel lodevole intento di pervenire ad una soluzione compositiva del ser (20) Sulla semplificazione e riduzione dei riti in chiave di garanzia della celerit� del processo sia consentito il rinvio a: M.GERARDO, A.MUTARELLI, Sulla causa della �irragionevole� durata del processo civile e possibili misure di reductio a �ragionevolezza�, in www. judicium.it, pag. 110. (21) La previsione di riti differenziati non � in quanto tale incostituzionale essendo riconosciuto al legislatore disporre apposite discipline differenziate sempre con l�ovvio limite che la adottata differenziazione sia costituzionalmente �ragionevole�. Su tali profili L.P. COMOGLIO, Tutela differenziata e pari effettivit� nella giustizia civile, in Riv. dir. proc., 2008, pag. 1526. (22) In tal senso: Trib. Roma ord. 23 gennaio 2013, inedita. (23) C. MUSELLA, Il rito speciale in materia di licenziamento, cit., 359. rato dibattito oramai aperto in subiecta materia) il nuovo rito si applicherebbe solo in via transitoria e cio� fino a quando non saranno adottate le iniziative di cui al comma 8 dell�art. 1 della riforma in esame. Tale opzione sembra palesare una insanabile contraddizione: se infatti il nuovo rito deve costituire per il pubblico impiego solo un criterio cui informare il (futuribile) processo di armonizzazione ci� vuol dire che lo stesso non � applicabile neanche medio tempore. Il comma 7 dell�art. 1 l. 92/2012 non contiene infatti una mera disciplina di carattere intertemporale delle riforma Fornero bens� individua il criterio discretivo tra disposizioni immediatamente applicabili e �criteri e principi� da porre a base delle auspicabili iniziative di armonizzazione: tertium non datur. � a questo punto da chiedersi se valga l�inverso. Se cio� alla ritenuta applicabilit� al pubblico impiego della riforma dell�art. 18 Statuto dei lavoratori consegua (o meno) l�applicabilit� del nuovo rito speciale sui licenziamenti. Al riguardo non sembrano potersi condividere quegli orientamenti che, seppur sotto vari profili, postulano rispetto al pubblico impiego la divaricazione tra l�art. 18 St. lav. nel testo post Fornero e il rito speciale sui licenziamenti. � infatti di solare evidenza che ove ritenuto applicabile al pubblico impiego il testo novellato dell�art. 18 St. lav. non potrebbe poi non riconoscersi al licenziato �pubblico� una pari dignit� di tutela processuale rispetto al lavoratore privato. Ed indubitabile al riguardo che tra rito e disciplina sostanziale come concepiti nella legge l. 92/2012 vi � uno stretto rapporto tra compressione della tutela reintegratoria a fronte di licenziamenti illegittimi e la costruzione di un processo speciale a tempi serrati. Nella riferita prospettiva appare pertanto inaccettabile una dissociazione tra rito e nuovo testo dell�art. 18 che peraltro potrebbe dar luogo ad evidenti censure di costituzionalit� sia rispetto al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) sia rispetto al diritto di difesa (art. 24 Cost.). Una tale disparit� di trattamento non appare infatti costituzionalmente tollerabile e certo cadrebbe sotto la scure dalla Corte Costituzionale cui pure in passato si � addebitata la responsabilit� di non aver colto l�occasione di astenersi dal differenziare il trattamento tra lavoro pubblico e privato in tema di cumulo di interessi e rivalutazione monetaria (24). Non va per� sottaciuto al riguardo che nella ricordata occasione la Corte era stata investita della questione di costituzionalit� non in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (bens� con riferimento all�art. 36 Cost.) e che nei giudizi a quibus la questione era stata sollevata solo con riferimento ai datori di lavoro privati per cui la Corte era tenuta ad applicare il vincolo processuale della cor (24) Corte Cost., 2 marzo 2000, n. 459, in Giur. Cost., 2001, pag. 119, con nota di P. PASSALACQUA, Sul cumulo tra rivalutazione e interessi per i crediti di lavoro la Corte Costituzionale reintroduce l�instabile regime delle tutele differenziate. rispondenza tra chiesto e pronunciato in conformit� del principio desumibile per tali giudizi dall�art. 27 L. 11 marzo 1953, n. 87 (25). Nel caso di specie infatti, oltre ai ricordati parametri costituzionali (artt. 3 e 24 Cost.), potrebbe configurarsi altres� un�incompatibilit� con gli artt. 14 e 26 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici con conseguente interessamento anche del parametro di costituzionalit� costituito dal 1� comma dell�art. 117 Cost. Pertanto, ove si ritenga la nuova disciplina sui licenziamenti legittimi estesa al pubblico impiego, l�applicabilit� del nuovo rito speciale diviene l�unica possibile interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni in rassegna. Peraltro, sul piano pi� rigorosamente processuale, il nuovo rito speciale disciplinato dalla L. 92/2012 costituisce modalit� esclusiva per l�esercizio dell�azione giudiziale riconosciuta al lavoratore dinanzi al licenziamento illegittimo (26). Sicch� anche sotto tale profilo non appare concretamente percorribile una opzione ricostruttiva sostanzialmente ambigua che da un lato non esclude il pubblico impiego dall�applicazione dell�art. 18 St. lav. nuova formula e, dall�altro, lo esclude dall�unica forma processuale di quella tutela (27). In via conclusiva deve ritenersi che il nuovo rito speciale previsto dalla riforma Fornero a fronte di licenziamenti illegittimi si applica al pubblico impiego indipendentemente dall�orientamento assunto in ordine alla pi� generale esclusione (o meno) di tale comparto delle disposizioni sostanziali della l. 92/2012 (28). Rimane in ogni caso irrisolto (e irresolubile) stabilire se il �capolavoro di italica furbizia� (29) operato dall��ignoto staff tecnico preposto alla stesura di (25) In ordine alle regole cui � sottoposto giudizio della Corte per quanto attiene al thema decidendum, v. G. ZAGREBELSKY, Processo costituzionale, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, pag. 594. (26) P. SORDI, L�ambito di applicazione del nuovo rito per l�impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, relazione svolta nell�incontro di studio �La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n. 92� organizzato a Roma il 29-31 ottobre 2012, pag. 5. (27) Per la natura necessaria del nuovo rito F.M. GIORGI, Il nuovo processo per l�impugnazione dei licenziamenti. Questioni generali, cit., pag. 306; L. DE ANGELIS, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in WP C.S.D.L.E. �Massimo D�Antona�.it, n. 152/2012, pag. 11; G. PACCHIANA PARRAVICINI, Il nuovo art. 18 St. Lav.: problemi sostanziali e processuali, in Mass. Giur. lav., 2012, pag.755; P. CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti, WP C.S.D.L.E. �Massimo D�Antona�.it, n. 158/2012, pag. 16; F.P. LUISO, La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012 nell�ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, in www.juudicium.it, 2012, pag. 6 e ss., il quale osserva che il nuovo rito �tutela anche la parte che ha torto�; C. CONSOLO, D. RIZZARDO, Vere o presunte novit�, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr. Giur., 2012, 6, pag. 735. (28) Ritiene in ogni caso inapplicabile alla fattispecie l�art. 700 c.p.c. atteso il carattere di resi- dualit� di tale forma di tutela: U. ADORNO, Licenziamenti: Legge Fornero e pubblici dipendenti, in Rass. Avv. Stato, 2012, 3, 156. (29) Cos� F. CARINCI, Complimenti, dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, cit., 8. quella destinata a passare alla cronaca come la riforma Fornero� (30) sia costituito dall�essere riuscito con gli evanescenti commi 7 e 8 dell�art. 1, l. 92/2012 ad abrogare di fatto ed in parte qua il 2� comma dell�art. 11 T.U. 165/2001 o, viceversa, a rendere occultamente applicabile la riforma dell�art. 18 St. lav. gi� applicabile al pubblico impiego nel testo storicizzato (o forse il solo rito speciale) o, piuttosto, nell�aver di fatto maliziosamente affidato alla supplenza della giurisprudenza l�individuazione degli incerti confini dell�accordo compromissorio politicamente sbandierato da parte sindacale e governativa. (30) Ancora F. CARINCI, Articolo 18 St. lav. per il pubblico impiego privatizzato cercasi disperatamente, cit. 247. Finanziamenti bancari rogati all�estero tra regime civilistico e imposta sostitutiva del registro (Nota a Risoluzione n. 20/E - 28 marzo 2013 - della Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa) Federico Maria Giuliani * SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Le questioni - 3. In punto di abuso (rinvio) - 4. Su tempo e luogo di conclusione del contratto: a) il caso della sottoscrizione in Italia degli elementi essenziali � 5. (Segue): b) il caso della nullit� del contratto italiano per vizio formale e le conseguenze impositive (cio� il �sottinteso� della risoluzione) - 6. Sull�abuso (conclusione). 1. Premessa. Con risoluzione 28 marzo 2013 n. 20/E (1) l�Agenzia delle Entrate ha risposto a un quesito sui contratti di finanziamento bancari a medio-lungo termine, stipulati all�estero in forma di scrittura privata autenticata o atto pubblico, da banche italiane con clienti residenti in Italia. In particolare il quesito e la risposta vertono sull�applicazione dell�imposta sostitutiva di cui agli artt. 15 ss., d.p.r. 29 settembre 1973, n. 601 (agevolazioni). A parere di chi scrive la risoluzione assume rilevanza, non soltanto per ci� che a chiare lettere esprime, ma anche per ci� che lascia intendere in modo inesplicito ai lettori, alla luce della normativa applicabile. 2. Le questioni. Il quesito posto all�Agenzia in primo luogo prospettava un possibile esito di abuso del diritto, nella misura in cui, nonostante il contratto sia formato per scrittura privata autenticata o atto pubblico - fuori dal territorio nazionale (e.g. in Svizzera), proprio tale ubicazione territoriale appariva mirata all�indebito e mero conseguimento del vantaggio fiscale. Quest�ultimo consisterebbe nel fatto che, essendo il tributo sostitutivo, al pari di quelli sostituiti (registro ecc.), improntato sul presupposto della territorialit�, e recandosi all�uopo i paciscenti oltre le Alpi a stipulare, ci� farebbero soltanto al fine di evitare la debenza del tributo stesso. Ci� � tanto pi� vero - secondo l�autore del quesito - se i contratti in parola, come accade sovente, sono �di fatto� gi� prima conclusi in Italia quando l�intera istruttoria e deliberazione, interna alle banche eroganti, si perfeziona su domanda del sovvenuto. Di talch�, una volta conchiusa tale procedura, l�ac (*) Avvocato del Libero Foro. LL.M. Independent Researcher, libero scrittore. (1) Infra. cordo si � gi� perfezionato nel territorio e la trasferta all�estero, per la formalizzazione dinnanzi al notaio ivi ubicato, si riduce a duplicazione di un quid negoziale che gi� esiste, se pure in altra forma. Peraltro, in stretta correlazione a ci�, l�interrogante prospettava anche l�ipotesi di una gi� intervenuta conclusione del contratto in Italia sul piano astrattamente civilistico, a prescindere dal ricorso alla categoria dell�abuso nel diritto tributario. Si ponevano, dunque, non poche esigenze di chiarimento. E l�Agenzia non si � sottratta a tale necessit�. 3. In punto di abuso (rinvio). Anzitutto l�ente autore della risoluzione non condivide la prospettazione dell�abuso del diritto tributario. A parere della scrivente, infatti, nella fattispecie all�esame manca l�utilizzo distorto di strumenti civilistici, privo di valide ragioni economiche che non siano quelle del risparmio fiscale. Sembra cio� che, per l�Agenzia, la extra-territorialit� stipulatoria avanti il notary public estero, pi� che l�impiego di un istituto civilistico piegato al fine deviato del vantaggio tributario, costituisca il semplice ricorso all�applicazione del conflict of rules, cio� del diritto internazionale privato, in punto di lex contractus, in presenza di diversi criteri di collegamento. Ci� � posto al di fuori della sfera di rilevanza dell�abuso. Ed invero le parti decidono di stipulare all�estero e, altrettanto concordemente, assoggettano con clausola esplicita il contratto alla legge italiana. Siccome per� il cuore dei problemi sollevati dal quesito e svolti nella risoluzione, si dipana nel prosieguo, occorre fare tornare sull�abuso nella parte finale di questo scritto (2). 4. Su tempo e luogo di conclusione del contratto: a) il caso della sottoscrizione in Italia degli elementi essenziali. Diversa da quella sull�abuso � la soluzione che l�Agenzia fornisce in ordine alla seconda questione posta, cio� quella relativa all�esatto momento e luogo di conclusione del contratto di finanziamento. Ora, � ben vero anzitutto che, come osserva la stessa Agenzia, in punto di forma dei contratti bancari, tra cui i finanziamenti in questione, la legge prescrive non gi� l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata, bens� semplicemente la forma scritta, ai sensi dell�art. 117, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (testo unico bancario, �TUB�). Sicch�, a prescindere dalle (posteriori) formalit� notarili all�estero, se nel territorio italiano interviene una scrittura privata avente a oggetto il finanzia (2) Infra, par. 6. mento stesso, essa � soggetta alla citata imposta sostitutiva di cui all�art. 15 d.p.r. 601/73. Rispetto a tale scrittura, il rogito o la scrittura privata autenticata all�estero diventano, a quel punto, mera �riproposizione� - per dirla con l�ente scrivente (rectius �ricognizione�) - e in ogni caso quelli non rilevano, siccome posti in essere fuori dal territorio, ai fini del tributo medesimo (3). Resta da mettere a fuoco che cosa occorre esattamente, in concreto, acciocch� siano integrati gli estremi di una scrittura privata italiana. � necessario e sufficiente che sia reperito, in sede di verifica fiscale, un �term sheet� - si scrive -�o altra documentazione da cui risulti gi� avvenuta la formazione del consenso in ordine agli elementi essenziali del contratto di finanziamento [poi] riproposti con l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata�. Ebbene pu� condividersi l�assunto, per cui sono sufficienti gli �elementi essenziali� o determinanti, nel testo sottoscritto, acciocch� il contratto possa dirsi concluso (4). Cos� come � condivisibile l�ulteriore assunto dell�Agenzia secondo cui, ai fini del soddisfacimento della forma scritta, non � necessaria la sottoscrizione delle parti sul medesimo documento, ma sono bastevoli le rispettive sottoscrizioni non contestuali su proposta e accettazione (5). Sicch�, nel caso all�esame, tutti gli elementi richiesti ricorrono acciocch� il contratto sia civilisticamente esistente e valido e, sul versante tributario, soggetto all�imposta sostitutiva, sol che vi sia sottoscrizione di proposta e accettazione (essenziali). Quindi � corretto menzionare, fra l�altro, i c.d. �term sheets�, a condizione che, nel presente contesto, siano firmati sia dalla banca sia dal cliente in Italia, sebbene non di necessit� sul medesimo esemplare documentale n� contestualmente (6). Invece non sarebbe corretto, allo stato attuale del ragionamento (7) - viceversa generandosi confusione - pensare che siano bastevoli, per la conclusione del contratto in Italia, documenti e/o �term sheets� non sottoscritti. Al riguardo l�Agenzia delle Entrate nulla scrive. E pertanto si deve rite (3) V., supra, par. 1. (4) Cfr. M. FRATINI � A. PENSABENE, Compendio di diritto civile, Nel Diritto Ed., Roma, 2012, p. 307. Contra, ma solo attraverso la dimostrazione di una contraria rilevanza attribuita dalle parti agli elementi accidentali, F. CARINGELLA � L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, Dike, Roma, 2009, p. 687. E infatti adde P. TRIMARCHI, Manuale di diritto privato, XVIII ed., Giuffr�, Milano, 2009, par. 210, che ai fini della conclusione sui soli elementi essenziali - propende a che le parti si riservino di trattare poi le clausole accessorie in una successiva ed eventuale pattuizione (richiamando, sul punto, Cass. n. 23949/2008 e Cass. n. 11429/1992). (5) Cos�, proprio in materia di contratti bancari, vedi la recente Cass., 21 agosto 2012, n. 14584. (6) Si pu� discutere se siano necessarie, per la conclusione civilistica del contratto bancario, le firme sia della banca sia del cliente, atteso che la forma scritta � prescritta a tutela del solo cliente, cio� per sua informativa di protezione. La tesi rigorista sembra per� prevalere: Cass., 14 novembre 2012, n. 19934 (nel senso, appunto, della necessaria sottoscrizione di ambedue le parti); Trib. Mantova, 13 marzo 2006, G.U. Laura De Simone, in www.ilcaso.it (conf.). (7) Vedi poi, infra, par. 5. nere che, rettamente, essa non accordi rilevanza a siffatte documentazioni provvisorie, reperibili in Italia e non firmate. 5. (Segue): b) il caso della nullit� del contratto italiano per vizio formale e le conseguenze impositive (cio� il �sottinteso� della risoluzione). Se per� il lettore del caso e della risoluzione si arrestasse qui, l�esito interpretativo sarebbe semplicistico. Per l�imposta sostitutiva sui finanziamenti, infatti, valgono le stesse regole applicative del tributo di registro sostituito, secondo quanto previsto dall�art. 20, penultimo comma, d.p.r. n. 601/1973. E se � vero che, ex art. 2 d.p.r. 26 aprile 1986 n. 131 (testo unico leggi registro, �TUR�), di regola sono soggetti al tributo solo gli atti formati per iscritto, � altres� vero che, ai sensi dell�art. 38 TUR, la nullit� dell�atto non dispensa dall�obbligo di registrazione e dal pagamento della relativa imposta, salva la restituzione (al netto della misura fissa) se e quando l�atto � dichiarato nullo, per causa non imputabile alle parti, con sentenza passata in giudicato. Perci� se un contratto � nullo per violazione della forma scritta prescritta dalla legge ad substantiam (8), esso non sfugge a registrazione perch� fatto in forma orale, ma tutt�al contrario � soggetto a registrazione in quanto nullo. E il tributo � dovuto fino alla eventuale restituzione, che potr� per� esigersi soltanto dopo il passaggio in giudicato di sentenza di nullit� dell�A.G.O (9). Del resto l�art. 38 TUR trova la sua ratio per un verso proprio nella prospettiva antielusiva e, per altro verso, nell�assunto per cui comunque anche il contratto nullo, ai fini tributari, non � del tutto improduttivo di effetti giuridici (10). Quindi, anche per l�imposta sostitutiva sui finanziamenti, vale la stessa regola secondo quanto si � detto. Il che importa che, se il contratto di finanziamento risulta concluso in Italia in forma orale, e poi esso � fatto oggetto di rinnovazione estera con atto pubblico o scrittura autenticata, in Italia esso � da assoggettarsi al tributo sostitutivo; mentre all�estero la rinnovazione non � soggetta al tributo stesso per carenza del presupposto territoriale. Da questo punto di vista, a differenza della situazione di cui al par. prec., non occorre sottoscrizione di sorta. (8) Sulla nullit� come conseguenza del vizio di forma nei contratti bancari, vedansi le sentenze citate supra alla nota 6. (9) La sentenza del Giudice Tributario a nulla rileva, sotto questo profilo, poich� in essa la nullit� � questione meramente incidentale e su di essa non si forma il giudicato. (10) V. UCKMAR � R. DOMINICI, Registro (imposta di), in Nov. Dig. It., Utet, Torino, 1986; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, VII ed., Cedam, Padova, 2010, p. 818; F. BATISTONI FERRARA, Atti simulati e invalidi nell�imposta di registro, Jovene, Napoli, 1969, p. 77 ss.; P. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Giuffr�, Milano, 2002, p. 261; G. ARNAO, Manuale dell�imposta di registro, V ed., Ipsoa, Milano, 2005, p. 207 ss.. Occorre per� all�uopo dimostrare che, sui testi finali del contratto di finanziamento, si sia effettivamente formato, in Italia, un accordo contrattuale orale. Cio� un consenso definitivo in tale forma. Una prova pressoch� diabolica, certo, ma che nell�analisi della risoluzione e delle sue implicazioni non puo essere sottaciuta. Da questo punto di vista, al vaglio delle norme, la risoluzione in commento assume rilevanza pi� per ci� che non dice, che per ci� che apertamente esprime. 6. Sull�abuso (conclusione). A questo punto si deve condividere in modo pieno l�assunto dell�Agenzia, secondo cui sarebbe inesatto, nel caso di specie, ravvisare una ipotesi di abuso del diritto. Ed invero, per la situazione considerata al par. 3, di abuso non ha senso parlare poich� per ipotesi vi � un contratto sottoscritto in Italia, se pure in modo non contestuale ma mediante separata proposta e accettazione. E siccome, ancora per ipotesi, quel contratto contiene almeno gli elementi essenziali della ricognizione poi fatta all�estero in forma di scrittura autenticata o atto pubblico, l�applicazione dell�imposta sostitutiva � diretta, senza bisogno alcuno di ricorrere all�abuso. D�altro canto, per la situazione considerata al par 4 abbiamo visto esistere una norma impositiva apposita, che rende del tutto ultronea, di per se stessa, ogni invocazione della categoria dell�abuso. RISOLUZIONE N. 20/E AGENZIA DELLE ENTRATE Roma, 28 marzo 2013 Direzione Centrale normativa OGGETTO: Contratti di finanziamento bancario a medio e lungo termine stipulati all�estero - Profili elusivi e ipotesi di applicabilit� del regime impositivo di cui agli artt. 15 e seguenti del D.P.R. 601/1973. Nel caso di contratti di finanziamento a medio-lungo termine, formati in Italia ma stipulati all�estero con atto pubblico o scrittura privata autenticata tra una banca italiana e un cliente residente in Italia, la �trasferta� per la stipula non integra gli estremi dell�abuso sotto il profilo della imposta sostitutiva, di cui agli artt. 15 ss. del d.p.r. n. 601/1973. Se per� dai controlli in Italia emergono �term sheets� o altra documentazione, da cui risulti gi� costituitosi il consenso nel territorio della Repubblica sugli elementi essenziali del contratto di finanziamento riproposti con l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata all�estero, allora il contratto � soggetto alla predetta imposta sostitutiva. PREMESSA � pervenuto un quesito, con il quale si chiede di conoscere il corretto trattamento da riservare, ai fini dell�applicazione dell�imposta sostitutiva sui finanziamenti, ai contratti relativi ad operazioni di finanziamento a medio e lungo termine stipulati all�estero e destinati a produrre effetti giuridici principalmente in Italia. In particolare, � stata rappresentata la fattispecie della stipula all�estero di operazioni di finanziamento nelle quali: -le parti contraenti sono entrambe residenti in Italia; -i finanziamenti sono concessi per finalit� operative sul territorio nazionale; -i contratti sono formati per atto pubblico firmato all�estero e sottoposti alla giurisdizione italiana. � stato richiesto se il comportamento posto in essere dalle parti pu� essere censurato alla luce del principio del divieto di abuso del diritto, in quanto la circostanza che la mera sottoscrizione dei contratti avvenga al di fuori dei confini dello Stato pu� apparire finalizzata ad ottenere un indebito vantaggio fiscale, anche in considerazione del fatto che detti contratti di finanziamento, sebbene formalmente sottoscritti all�estero, sono di fatto formati nel territorio dello Stato. � stato rilevato, infatti, che le principali fasi del processo di erogazione del finanziamento sono normalmente effettuate da articolazioni interne di istituti di credito, aventi sede in Italia, e terminano con l�assunzione da parte del consiglio di amministrazione degli istituti stessi della delibera, per effetto della quale i fidi sono immediatamente erogabili. Generalmente, quindi, tutti gli atti necessari per l�erogazione del finanziamento sono predisposti in Italia e vengono trasmessi all�estero solo successivamente, esclusivamente per la stampa e la sottoscrizione dell�atto. Sulla base di tali elementi, si potrebbe ritenere che la conclusione del contratto, inteso come luogo in cui viene raggiunto il consenso negoziale, avviene sul territorio nazionale, mentre all�estero viene meramente sottoscritto il contratto di fatto gi� concluso in Italia. ABUSO DEL DIRITTO Per quanto concerne il richiamo al principio dell�abuso del diritto, si rappresenta che lo stesso, secondo costante giurisprudenza, si sostanzia nel divieto di �trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale� (Cassazione, sezioni unite, nn. 30055, 30056 e 30057 del 2008). L�abuso del diritto sembra, pertanto, essere stato individuato dalla giurisprudenza nel- l�utilizzo distorto di strumenti giuridici senza alcuna valida ragione economica diversa dal risparmio d�imposta cui la stessa operazione posta in essere � finalizzata. In linea generale, dunque, il luogo di sottoscrizione del contratto, di per s� considerato ed in assenza di ulteriori elementi, non sembra rientrare nella definizione di abuso del diritto finora elaborata dalla giurisprudenza, per la configurazione della quale appare necessario un quid pluris idoneo a realizzare �l�utilizzo distorto di strumenti giuridici� finalizzato all�ottenimento di un risparmio fiscale. FORMAZIONE DELL�ATTO Diversa questione, riguarda, invece, l�individuazione del momento di �formazione� del- l�atto, al fine di stabilire se tale momento si realizzi in Italia o all� estero. In linea generale, per l�individuazione degli atti soggetti all�imposta sostitutiva si appli cano i criteri dettati per l�imposta di registro che, in particolare, all�articolo 2 del DPR 26 aprile 1986, n. 131 (di seguito TUR) dispone che "Sono soggetti a registrazione, (... ): a) gli atti indicati nella tariffa, se formati per iscritto nel territorio dello Stato; (...);. Ai sensi dell�articolo 1326 del codice civile (Conclusione del contratto) �Il contratto � concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte�. Pertanto, in linea di principio, il contratto si considera concluso al momento della contestuale sottoscrizione ad opera delle parti oppure quando chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell�accettazione dell�altra parte. � possibile ritenere, quindi, che la �formazione� dell�atto si verifichi alla conclusione del contratto realizzata secondo le modalit� appena evidenziate (sottoscrizione contestuale oppure momento di conoscenza dell�accettazione da parte del proponente qualora proposta ed accettazione non siano contestuali). Con specifico riferimento al tema in esame, va considerato che la forma pubblica non � prevista ad substantiam per la conclusione del contratto di finanziamento. Infatti, come si rileva dall�articolo 117 del Decreto Legislativo 1� settembre 1993, n. 385 (�Testo Unico Bancario�), secondo cui �I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare � consegnato ai clienti�, per tali contratti � richiesta la forma scritta ma non � necessario l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata. Pertanto, essi possono essere conclusi in forma di scrittura privata semplice. Conseguentemente, qualora con riferimento a fattispecie del tipo rappresentato, il consenso negoziale in ordine agli elementi essenziali del contratto di finanziamento risulti gi� da scrittura privata semplice, prima che da atto pubblico o da scrittura privata autenticata sottoscritta all�estero, si pu� ritenere che l�atto � formato per iscritto nel territorio dello Stato e, quindi, ricade nell�ambito applicativo dell�imposta sostitutiva. In tal caso, infatti, l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata sottoscritta all�estero concretizza una mera riproposizione dell�accordo gi� raggiunto con la scrittura privata semplice e non assume rilevanza ai fini del presupposto di territorialit� di cui al citato articolo 2 del TUR. Tale fattispecie potrebbe ricorrere, ad esempio, laddove venga reperito in sede di controllo un �term sheet� o altra documentazione da cui risulti gi� avvenuta la formazione del consenso in ordine agli elementi essenziali del contratto di finanziamento riproposti con l�atto pubblico o la scrittura privata autenticata sottoscritta all�estero. ADEMPIMENTI E SANZIONI Si ritiene utile rammentare che gli enti che effettuano le operazioni rilevanti ai fini del- l�imposta sostitutiva devono dichiarare, ai sensi dell�articolo 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, le somme sulle quali si commisura l�imposta dovuta. In particolare, devono essere presentate due dichiarazioni, di cui la prima relativa alle operazioni effettuate nel primo semestre dell�esercizio e la seconda relativa alle operazioni effettuate nel secondo periodo dell�esercizio stesso. Le dichiarazioni devono essere presentate entro tre mesi, rispettivamente, dalla scadenza del primo semestre e dalla chiusura dell�esercizio (articolo 8, comma 4, decreto-legge 27 aprile 1990, n. 90, convertito dalla legge 26 giugno 1990, n. 165). Inoltre, l�articolo 20, quinto comma, del d.P.R. n. 601 del 1973 rinvia alle norme in ma teria di imposta di registro per quanto concerne: -la rettifica dell�imponibile e l�accertamento; -le sanzioni per l�omissione o l�infedelt� della dichiarazione; -la riscossione del tributo; -il contenzioso; -e per quanto altro riguarda l�applicazione dell�imposta sostitutiva. Sullo specifico tema delle sanzioni, l�articolo 3 del decreto del Ministero delle Finanze del 28 febbraio 1975, n. 2456, richiama le norme dell�imposta di registro dettate dal DPR 26 ottobre 1972, n. 634 (attualmente sostituito dal TUR). In particolare, in caso di omessa o tardiva presentazione della dichiarazione si applicano le sanzioni di cui all�articolo 69 del TUR (articolo 67 del DPR n. 634 del 1972), previste nella misura dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell�imposta dovuta. In tale circostanza, l�imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, entro il termine di cinque anni dalla data entro la quale la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata, ai sensi dell�articolo 76, comma 1, del TUR. Qualora la dichiarazione sia stata presentata ma risulti infedele, si applicano le sanzioni stabilite per l�occultazione di corrispettivo dall�articolo 72 del TUR (articolo 70 del DPR n. 634 del 1972), stabilite nella misura dal duecento al quattrocento per cento della differenza tra l�imposta dovuta e quella gi� applicata. In tale circostanza, l�imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni decorrenti dalla data di presentazione della dichiarazione, ai sensi dell�articolo 76, comma 2, lettera b), del TUR. IL DIRETTORE CENTRALE Sulla azione per l�efficienza amministrativa introdotta con il D. Lgs. 198/2009 con riferimento ai primi orientamenti giurisprudenziali Francesco Mataluni* SOMMARIO: 1. La disciplina generale del d.lgs. 198/2009 - 2. L�ammissibilit� dell�azione per l�efficienza: TAR Lazio, Roma, sez. III, sentenza 20 gennaio 2011, n. 552 - 3. L�onere della prova per il ricorrente: TAR Lazio, Roma, sez. I, sentenza 3 settembre 2012, n. 7483 4. Le condizioni dell�azione per l�efficienza: TAR Basilicata, Potenza, sez. I, sentenza 23 settembre 2011, n. 478. 1. La disciplina generale del d.lgs. 198/2009. Il d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198 (1) contiene la disciplina del ricorso per l�efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici. � stato adottato in attuazione dell�art. 4, della l. 4 marzo 2009, n. 15, la quale � una legge di delega al governo finalizzata, fra le altre cose, �alla ottimizzazione della produttivit� del lavoro pubblico e alla efficienza delle pubbliche amministrazioni� e che si inserisce all�interno delle riforme dell�allora Ministro per la Pubblica Amministrazione e l�Innovazione. Come afferma l�art. 1, comma 1, del d.lgs. 198/2009, lo scopo principale dell�azione in esso disciplinata � �ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio�. Tale fine dimostra il perfetto inserimento del ricorso in esame nelle riforme che stanno attraversando la P.A. e che l�hanno portata a trasformarsi in un�amministrazione di risultato (2). Infatti, almeno nelle intenzioni del Legislatore, il ricorso per l�efficienza della P.A. � uno strumento molto innovativo, che dovrebbe ben inserirsi nella moderna concezione di Amministrazione e di attivit� amministrativa. Negli ultimi anni, si � affermata l�idea che l�Amministrazione non � pi� un�autorit� che, in modo im (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l�Avvocatura dello Stato. (1) Sull�argomento si vedano: C. DEODATO e M.G. COSENTINO, �L�azione collettiva contro la P.A. per l�efficienza dell�Amministrazione�, Nel Diritto Editore, 2010; A. FABRI, �Le Azioni Collettive nei confronti della Pubblica Amministrazione nella sistematica delle Azioni Non Individuali�, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011; G. FIDONE, �L�azione per l�efficienza nel processo amministrativo: dal giudizio sull�atto a quello sull�attivit��, Giappichelli, 2012; D. SICLARI, �Decreto Legislativo 20 dicembre 2009, n. 198�, in E. PICOZZA (a cura di), �Codice del Processo Amministrativo, Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104, Commento articolo per articolo�, Giappichelli, 2010; G. SORICELLI, �Contributo allo studio della Class Action nel sistema amministrativo italiano�, Giuffr�, 2012. (2) A tal proposito, basti dire che, in coerenza con il principio del buon andamento sancito dall�art. 97 della nostra Costituzione, l�amministrazione di risultato � caratterizzata dal fatto che il mero rispetto delle regole a volte non basta a garantire il raggiungimento degli scopi che il Legislatore pone all�azione amministrativa e che l�esercizio di un potere, formalmente corretto, potrebbe, nei fatti, risultare lesivo di interessi giuridicamente meritevoli di tutela. perativo, esercita i suoi poteri contro impotenti cittadini al solo fine di soddisfare l�interesse pubblico, bens� � divenuta il soggetto che gestisce e si fa portatore anche degli interessi degli individui, quelli meritevoli di tutela si intende, la cui azione, per di pi�, � finalizzata al soddisfacimento di tali bisogni e tali esigenze, almeno per quanto compatibile con l�interesse pubblico primario. Una simile P.A., che preferisce l�accordo, quello previsto dalla Legge sul Procedimento Amministrativo, al tradizionale provvedimento autoritativo, non pu� non essere sottoposta a quella forma di controllo che solo la tutela giurisdizionale pu� assicurare, cos� che i cittadini, lesi nei loro interessi, abbiano un effettivo strumento posto alla loro protezione. L�obiettivo del d.lgs. 198/2009 � introdurre un controllo esterno di tipo giudiziale che assicuri, in taluni casi, il buon andamento della pubblica amministrazione. Partendo dalla possibilit� del ricorso da parte dei cittadini, il Legislatore vuole migliorare in termini di efficienza e buon andamento la Pubblica Amministrazione. La grande novit� del ricorso per l�efficienza � che con questo non si impugna un provvedimento della P.A. n� si vuole contestare il silenzio della stessa. In prima analisi, si pu� dire che l�oggetto dell�azione � costituito dalla pretesa del cittadino al corretto svolgimento della funzione amministrativa o alla corretta erogazione di un servizio (appunto l�efficienza di cui sopra). L�azione per l�efficienza deve essere volta ad assicurare la tutela del cittadino, inteso come utente della P.A., e al tempo stesso la trasparenza di quest�ultima, elemento essenziale per il suo buon andamento. Per proporre l�azione in questione � necessario che vi siano dei malfunzionamenti dell�azione amministrativa, dai quali deve derivare quella �lesione diretta, concreta ed attuale� degli interessi che legittima la realizzazione del ricorso. I vizi dell�attivit� amministrativa sanzionabili con il ricorso sono indicati dallo stesso art. 1, comma 1: violazione dei termini; mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato dalla legge o da un regolamento; violazione degli obblighi contenuti nelle carte di sevizi; violazione di standard qualitativi ed economici. Sono tutte ipotesi di lesione dell�efficienza della P.A. e del principio del buon andamento di cui all�art. 97 della Costituzione. Rinviando a un secondo momento l�analisi dei presupposti soggettivi del ricorso, � importante individuare chi sono i soggetti contro i quali questo pu� essere esercitato. L�art. 1, comma 5 indica quali legittimati passivi �gli enti i cui organi sono competenti a esercitare le funzioni o a gestire i servizi�, cui si riferiscono quei malfunzionamenti appena descritti; si fa riferimento alle P.A. e ai concessionari di servizi pubblici. Per Pubblica Amministrazione, semplificando il grande dibattito sull�argomento, dobbiamo intendere tutti quei soggetti pubblici che svolgono un�attivit� che si ponga al servizio dei cittadini e allo scopo di soddisfare le loro esigenze (3). Per �concessionari di servizi pubblici�, invece, sembra farsi riferimento a quei soggetti di diritto privato che esercitano un�attivit� diretta al soddisfacimento di interessi pubblici e che, per questo, dovrebbe essere prerogativa dei poteri pubblici, ma che viene esercitata, di regola sotto il controllo di questi ultimi, da privati titolari di un apposito provvedimento autorizzatorio. In ogni caso, dal decreto sono esclusi una serie di soggetti contro i quali non � possibile proporre il ricorso: le autorit� amministrative indipendenti; gli organi giurisdizionali; le assemblee legislative; gli organi costituzionali e la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Secondo quanto stabilito dall�art. 1, comma 7, il ricorso per l�efficienza � attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e rientra, cio�, in quelle materie in cui questi si occupa delle controversie nelle quali si faccia questione sia di diritti soggettivi che di interessi legittimi (4). A differenza di quanto era disposto nella legge delega, il decreto non prevede pi� la giurisdizione estesa al merito, il che esprime la volont� del Legislatore di ricostruire il ricorso non come un sindacato per valutare la P.A. in maniera generalizzata, ma come uno strumento volto a sindacare la legittimit� delle sue scelte organizzative e gestionali con riferimento a standard e parametri valutativi prede- terminati e precisi. Infine, nel silenzio del d.lgs. 198/2009, l�individuazione del giudice amministrativo competente � realizzata secondo le regole generali contenute nell�art. 13 del Codice del Processo Amministrativo. L�art. 3 detta una disciplina sintetica ma al tempo stesso specifica e particolare del procedimento giurisdizionale da seguire nel caso del ricorso per l�efficienza. L�elemento centrale di tale disciplina �, senza dubbio, la diffida che il ricorrente deve preventivamente notificare alla pubblica amministrazione o al concessionario di pubblico servizio affinch� questi realizzino �gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati� (5). In via alternativa alla diffida, il ricorrente pu� tentare la risoluzione non giurisdizionale della sua controversia attraverso lo strumento di conciliazione offerto dall�art. 30, della l. 18 giugno 2009, n. 69, con la possibilit�, in caso di fallimento, di proporre il ricorso per l�efficienza al TAR. Con la sentenza che accoglie il ricorso, il giudice ordina, �nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane gi� assegnate in via ordinaria e (3) In tal modo, nel concetto di P.A. vi rientrano sia i pubblici poteri che gli enti pubblici. (4) La disposizione � conforme all�art. 103 della Costituzione cos� come interpretato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 204/2004 perch� il ricorso non � volto a contestare un mero comportamento materiale della P.A. o dei concessionari, bens� un vero e proprio comportamento amministrativo di esercizio di un potere. (5) Art. 3, comma 1, D.Lgs. 198/2009. Le finalit� della diffida sono di dare la possibilit� alla pubblica amministrazione o al concessionario diffidato di porre autonomamente rimedio al malfunzionamento contestato e di tentare di ridurre il carico di lavoro dei nostri giudici, con lo scopo di velocizzare e, quindi, migliorare dal punto di vista dell�efficienza, l�attivit� giudiziaria nel nostro ordinamento. senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica� (6), alla amministrazione o al concessionario soccombente di rimuovere e correggere la disfunzione accertata in giudizio, rimettendo le modalit� di esecuzione del comando solo alla discrezionalit� del soggetto che deve adempiervi. Nei casi in cui dovesse riscontrarsi una �perdurante inottemperanza di una pubblica amministrazione� (7), si potr� procedere con il relativo giudizio di ottemperanza secondo le regole generali del processo amministrativo. Per evitare di dare la possibilit� al giudice amministrativo, che nel caso dell�ottemperanza ha ampli poteri discrezionali, di interferire con l�attivit� di societ� private, spesso quotate in borsa, quali sono i concessionari, per questi � esclusa l�ottemperanza, cosa che pone non pochi problemi di coerenza con il quadro costituzionale delle tutele giurisdizionali per la disciplina dell�esecuzione della sentenza che accoglie il ricorso per l�efficienza (8). Dopo aver inquadrato l�azione per l�efficienza, si pu� passare all�analisi di alcune prime pronunce giurisprudenziali sulla sua disciplina. Si � cercato di individuare quelle pi� rilevanti che aiutano a comprendere meglio la portata del d.lgs. 198/2009. 2. L�ammissibilit� dell�azione per l�efficienza: TAR Lazio, Roma, sez. III, sentenza 20 gennaio 2011, n. 552. �La formula utilizzata dal legislatore con l'art. 7 d.lg. 198/09 descrive una norma incompleta che, avendo individuato in via generale e astratta posizioni giuridiche di nuovo conio, oltre che strumenti azionabili per la relativa tutela, ma non i parametri specifici della condotta lesiva, necessita di una ulteriore previsione normativa, agganciata alla peculiarit� e concretezza dell'assetto organizzativo dell'agente e ai limiti della condotta diligente dal medesimo esigibili, ferme restando le risorse assegnate. Ne consegue che, allo stato, nonostante la vigenza della norma primaria, le posizioni giuridiche in via generale individuate e protette dalla stessa non sono ancora in concreto prospettabili davanti ad un giudice difettando la compiuta definizione della fattispecie lesiva o l'esatta individuazione del comportamento esigibile, oltre che la fissazione del �dies a quo� della concreta applicazione. Le medesime considerazioni non possano, per contro, riprodursi per quelle norme del d.lgs. 198/09 che individuano fattispecie completamente definite in ogni loro aspetto, ivi compresa l'esatta perimetrazione del comportamento lesivo; quest�ultima ipotesi ricorre, in particolare, nel caso relativo all'obbligo di �emanazione di atti amministrativi generali obbligatori (6) Art. 4, comma 1, D.Lgs. 198/2009. (7) Art. 5, comma 1, D.Lgs. 198/2009. (8) Si ritiene che il cittadino interessato al rispetto della sentenza debba rivolgersi all�Amministrazione che vigila sul concessionario per fargli adempiere all�ordine del giudice. e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento�. La sentenza del TAR Lazio n. 552/2011 � stata la pronuncia che ha deciso il primo ricorso per l�efficienza della pubblica amministrazione proposto ai sensi del d.lgs. 198/2009. Con il giudizio in questione, il Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori (CODACONS) ha agito contro il Ministero dell�Istruzione per richiedere l�adozione degli atti amministrativi in materia di formazione delle classi scolastiche e dimensionamento della rete scolastica. In altri termini, ha agito contro le c.d. classi pollaio, dovute alla presenza di un numero eccessivamente elevato di studenti in un�unica aula. Pi� che sulla decisione di merito, con la quale il TAR Lazio ha accolto il ricorso, preme concentrarsi sulle considerazioni riguardanti gli aspetti rituali del ricorso svolte dai giudici romani. Questi ultimi, infatti, sono stati i primi giudici ad aver considerato ammissibile il ricorso per l�efficienza, superando i dubbi e le perplessit� sollevati dalla dottrina sul punto. Le perplessit� sull�ammissibilit� o meno del ricorso per l�efficienza erano legate al testo del decreto del 2009. Infatti, l�art. 7, del d.lgs. 198/2009 rinvia a successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (da adottare su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e di concerto, per quanto di competenza, con gli altri Ministri interessati) la determinazione della �concreta applicazione� della disciplina in esame. La dottrina, fin dall�introduzione del d.lgs. 198/2009, aveva, dunque, sollevato dubbi sulla reale applicazione dello stesso e, di conseguenza, sull�ammissibilit� di un eventuale ricorso per l�efficienza. In particolare, dal dato testuale, emergeva la necessit� di una previsione regolamentare, successiva, necessaria per attuare e far applicare il decreto. Tale considerazione era, poi, accompagnata dal timore che, mancando l�indicazione di un termine per l�emanazione di tale normativa di attuazione, il d.lgs. 198/2009 rischiasse di restare lettera morta. I dubbi in dottrina erano rimasti nonostante, appena due mesi dopo l�emanazione del decreto, il Dipartimento della funzione pubblica costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri avesse adottato una direttiva volta a superare i dubbi circa l�art. 7 in questione. Con tale circolare, intitolata �Direttive sull�attuazione dell�art. 7 del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198 in materia di ricorso per l�efficienza delle Amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici� (9), l�allora Ministro per la pubblica amministra (9) Si tratta della circolare del 25 febbraio 2010, n. 4/2010, emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funzione pubblica. zione e l�innovazione sanciva che �alcune delle azioni introdotte dal decreto legislativo n. 198/2009 sono gi� esperibili attualmente�. In particolare, nella direttiva, il Ministro fa riferimento all�ipotesi di violazione dei termini e a quella della mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato dalla legge o da un regolamento. Il secondo caso � oggetto della sentenza in commento. Il TAR Lazio, chiamato per primo a pronunciarsi su un ricorso per l�efficienza, riconosce l�ammissibilit� del ricorso per l�efficienza in forza dell�applicabilit� del decreto del 2009, dando seguito alla circolare del Ministro. In questo modo, i giudici laziali sgombrano il campo dai residui dubbi in merito all�azione per l�efficienza e fanno venire meno i timori sollevati dalla dottrina in materia. Le argomentazioni del TAR si fondano sull�attenta analisi del testo del- l�art. 7. Se � vero che tale disposizione ha dato adito a non pochi dubbi sul- l�applicabilit� del d.lgs. 198/2009, � altrettanto vero, come rilevano i giudici amministrativi, che l�art. 7 � una norma transitoria e che ha a oggetto l�applicazione della disciplina del ricorso per l�efficienza e non il suo vigore o la sua efficacia. In altri termini, il d.lgs. 198/2009 � gi� pienamente in vigore fin dalla sua promulgazione, come le altre norme di legge. Il decreto, pertanto, produce i suoi effetti, anche se la sua concreta attuazione � stata rimessa dallo stesso Legislatore all�adozione di successive fonti regolamentari. Resta da chiarire, dunque, cosa si intenda per concreta attuazione. I giudici del TAR laziale ritengono che con l�espressione �concreta attuazione�, il Legislatore abbia voluto indicare quel processo nel corso del quale vengono indicati gli elementi (parametri, organizzazione, sostenibilit� degli impegni, ecc.) necessari affinch� una norma astrattamente applicabile diventi concreta ed effettiva. Il decreto del 2009 ha delineato in astratto i contorni del ricorso per l�efficienza, ma necessita di un intervento normativo di secondo grado che lo agganci alla realt�. Manca un provvedimento di attuazione che individui i parametri della condotta che, posta in essere, possa dare avvio al ricorso in questione. Dopo questa premessa generale, in cui ha dimostrato la vigenza del d.lgs. 198/2009, il TAR del Lazio approfondisce il tema dell�applicabilit� della disciplina in esso contenuta, precisando che l�art. 7 deve intendersi come non riferito all�intero testo normativo. Premesso quanto sopra, � chiaro che le norme del d.lgs. 198/2009 che individuano fattispecie astratte completamente definite in ogni loro aspetto sono gi� concretamente applicabili. I decreti ministeriali di attuazione non sono necessari per quelle condotte represse dal d.lgs. 198/2009 e la cui disciplina individua in maniera esaustiva perch�, in tali ipotesi, la fattispecie astratta che fonda il ricorso per l�efficienza � adeguatamente individuata dalla fonte legislativa. I giudici romani si riferiscono espressamente all�ipotesi di �emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento�, individuata all�art. 1. In tal caso, il legislatore ha delineato compiutamente tutti gli aspetti della fattispecie astratta: � definita la posizione giuridica del ricorrente; � individuato l�atto alla cui emanazione (rectius mancata emanazione) � correlata la posizione tutelata; � regolamentata la procedura per la proposizione del ricorso e il processo dinanzi al giudice amministrativo. In definitiva, l'art. 7 non esclude l'immediata operativit� delle disposizioni che individuano fattispecie gi� completamente definite dal Legislatore in ogni loro aspetto e, in particolare, che individuano esattamente il comportamento lesivo da sanzionare. In questa tipologia di disposizioni rientrano quelle che prevedono l'obbligo di emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo, da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento. In tali casi, pertanto, � ammissibile la proposizione del ricorso per l'efficienza per richiedere e ottenere il rispetto dell�obbligo di emanazione di atti amministrativi generali. � importante sottolineare che la sentenza in commento � stata confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello. Il Supremo Consesso amministrativo, infatti, ha ritenuto di disattendere �i motivi dell'appello principale con cui si deduce l'erronea applicazione della disciplina dettata d. lgs. 20 dicembre 2009 n. 198, e in particolare dell'art. 1, co. 1� poich� ha ritenuto sussistenti �nel caso di specie tutti i presupposti cui la disposizione richiamata subordina l'esperibilit� del rimedio previsto� (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 9 giugno 2011, n. 3512). Nonostante le pronunce appena esaminate, nel caso concreto permango alcuni dubbi riguardanti l�applicabilit� del d.lgs. 198/2009 con riferimento ai presupposti fattuali della norma. Per quanto sia fuori discussione che, in astratto, il ricorso per l�efficienza sia gi� esperibile, almeno nei casi indicati dal TAR e dal Consiglio di Stato, rimane in ogni caso qualche perplessit� sul quando effettivamente tali ipotesi si realizzino nella fattispecie concreta. Basti pensare, per esempio, al caso oggetto delle sentenze appena esaminate. Date le pronunce dei giudici amministrativi, non vi sono dubbi che il ricorso per l�efficienza sia stato adeguatamente ed esaustivamente disciplinato dal d.lgs. 198/2009 con riferimento al caso della �mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento� (art. 1, comma 1). Ci� nondimeno, possono sussistere delle perplessit� sulla corretta individuazione dell�atto generale obbligatorio e non normativo, la cui mancata adozione legittima la proposizione del ricorso per l�efficienza. Nel giudizio conclusosi con la sentenza del Consiglio di Stato citata, si � discusso, fra le altre cose, proprio dell�effettiva natura generale del provvedi mento oggetto della causa, senza giungere a una soluzione che fosse veramente soddisfacente. Si pensi, infatti, che il Supremo Consesso si � limitato ad affermare che la natura generale del piano oggetto del ricorso per l�efficienza fosse deducibile dalla legge. Nulla ha detto, tuttavia, su quali siano o debbano essere i requisiti che un provvedimento amministrativo deve avere per essere qualificato come atto avente natura generale ai sensi del d.lgs. 198/2009. La questione risulta ancora pi� complicata in ipotesi, come quella del caso di specie, in cui la legge � poco chiara sulla definizione della natura del provvedimento in essa disciplinato. Nella fattispecie, la norma di riferimento era il d.P.R. 20 marzo 2009, n. 81. In particolare, l�art. 3 di tale decreto, dopo aver disposto che il Dirigente scolastico determina il numero delle classi del- l�istituto in base al numero complessivo degli alunni iscritti e, di conseguenza, assegna gli stessi alle singole classi, al comma 2 prescrive che �per il solo anno scolastico 2009-2010 restano confermati i limiti massimi di alunni per classe previsti dal decreto del Ministro della pubblica istruzione in data 24 luglio 1998, n. 331, e successive modificazioni, per le istituzioni scolastiche individuate in un apposito piano generale di riqualificazione dell'edilizia scolastica adottato dal Ministro dell'istruzione, dell'universit� e della ricerca, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze�. Si potrebbe a lungo discutere sulla natura generale o meno di questo �apposito piano generale� contemplato dalla disposizione citata, la cui mancata emanazione � stata oggetto della controversia in esame. Il legislatore, infatti, utilizza il termine �apposito� che sembra non lasciare dubbi in merito alla natura particolare del provvedimento amministrativo. In tal senso, il ricorso per l�efficienza non sarebbe utilizzabile nella fattispecie poich� riservato ai casi di mancata emanazione di provvedimenti amministrativi generali. Il legislatore, tuttavia, utilizza anche il termine �generale�, riferendosi allo stesso piano, aprendo la strada alla proposizione del ricorso per l�efficienza. A bene vedere, tuttavia, leggendo attentamente le disposizioni di legge rilevanti, il carattere generale del piano in questione ben pu� essere riqualificato in termini, per cos� dire, particolari. Il comma 2, infatti, individua e disciplina una deroga alla regola generale in esso contenuta nel momento in cui afferma che il Ministro dell�istruzione deve adottare un piano di riqualificazione dell�edilizia scolastica che riguardi gli istituti appositamente individuati nel piano stesso. In altri termini, stando alla lettera del comma 2, il Ministro � chiamato ad adottare un piano che valga solo per gli istituti ai quali non si applica la regola derogatoria per l�anno scolastico 2009/2010. In tal senso, il piano potrebbe essere considerato generale solo in quanto il legislatore avrebbe richiesto un unico provvedimento per tutti gli interventi di riqualificazione dell�edilizia scolastica degli istituti oggetto della deroga. Ci� non toglie, tuttavia, che un provvedimento amministrativo cos� individuato, vale a dire con riferimento solo ad alcuni istituti soggetti a una particolare deroga, debba essere considerato come avente natura particolare e non certo generale. Al di l� della soluzione del caso specifico, quanto detto � interessante ai fini della disciplina dell�azione per l�efficienza. Come detto, infatti, la natura generale o particolare di un provvedimento amministrativo � determinante ai fini dell�ammissibilit� o meno del ricorso ex d.lgs. 198/2009. Nel silenzio del decreto sul punto, sarebbe auspicabile un intervento giurisprudenziale chiarificatore che permettesse di superare definitivamente i dubbi in tal senso. Le sentenze esaminate, per quanto siano state di fondamentale importanza ai fini dell�affermazione dell�ammissibilit� in astratto del ricorso per l�efficienza, non hanno saputo affrontare n� risolvere adeguatamente il problema dell�individuazione della natura del provvedimento amministrativo oggetto della causa. La soluzione proposta, pi� o meno condivisibile che sia, permette di affrontare solo il caso di specie, mantenendo ferme le problematicit� generali sull�argomento. 3. L�onere della prova per il ricorrente: TAR Lazio, Roma, sez. I, sentenza 3 settembre 2012, n. 7483. �La �class action� ex d.lg. 198/2009 non sfugge ai comuni principi in materia di domanda giudiziale, e, dunque, alla regola che questa debba essere sufficientemente determinata nel suo �petitum�, in relazione al contenuto dell'azione ed alla sua finalit�. Parte ricorrente, quindi, non pu� limitarsi genericamente a chiedere l'emanazione di �atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo�: giacch� si deve trattare di atti �obbligatori�, chi li richiede deve evidentemente dimostrare, quale elemento costitutivo essenziale della sua domanda, che tali essi sono, e ne dovr� perci� definire il contenuto, indicando la fonte normativa di tale obbligo, in riferimento alla situazione di pregiudizio lamentata: o, comunque, tutto ci� dovr� essere �de plano� desumibile dal ricorso, per consentire al giudice di pronunciare l'accertamento richiesto e le statuizioni consequenziali. Peraltro, se con un solo ricorso sono individuate una pluralit� di situazioni, in cui debba essere ripristinato il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio - e quindi, in pratica, in cui sono cumulate pi� domande - per ciascuna di esse dovr� essere identificabile l'atto generale da emettere�. La seconda sentenza presa in considerazione si lega in maniera stringente con la precedente e, al tempo stesso, segna un ulteriore passo in avanti nella definizione delle regole che disciplinano il ricorso per l�efficienza. Ancora una volta � il CODACONS ad adire il giudice amministrativo al fine di far accertare la sussistenza dell�obbligo per le amministrazioni resistenti (nella fattispecie la Protezione Civile in primis e altri enti locali interessati) di adottare gli atti necessari alla rimozione di una serie di situazioni di rischio idrogeologico. Il TAR di Roma, in questo caso, dichiara il ricorso inammissibile perch� la domanda presentata dal ricorrente � generica. Correttamente, i giudici ritengono che, salvo che per gli aspetti particolari dettati dalla disciplina speciale di cui al d.lgs. 198/2009, il ricorso per l�efficienza debba rispettare le regole e i principi generali del processo amministrativo. Fra questi, vi � il principio della determinatezza dell�azione e, soprattutto, del petitum in essa contenuto: il ricorrente non pu� formulare una domanda generica al giudice adito, ma deve specificare la propria richiesta in modo tale da delineare correttamente il thema decidendum. In questo modo, da un lato, si assicura il rispetto della corrispondenza fra chiesto e pronunciato da parte del giudice, che decider� entro i limiti della domanda del ricorrente. Dall�altro lato, si assicura un�adeguata garanzia del contraddittorio attraverso il diritto di difesa delle controparti che potranno replicare al ricorso solo se � individuabile il suo oggetto. Applicando questi principi generali al caso del ricorso per l�efficienza, i giudici del TAR affermano che con tale azione il ricorrente non pu� limitarsi a chiedere l�emanazione di atti amministrativi generali obbligatori senza aggiungere altro. Nel ricorso, il soggetto interessato dovr� indicare per quale motivo ritiene che gli atti di cui chiede l�emanazione sono �obbligatori� ai sensi dell�art. 1, del d.lgs. 198/2009. Di conseguenza, per poter correttamente presentare l�azione per l�efficienza, il ricorrente deve indicare quali sono le norme di legge che si presumono violate perch� contenenti l�obbligo disatteso dal- l�Amministrazione resistente. Inoltre, il ricorrente dovr� indicare il contenuto che l�atto obbligatorio non emanato avrebbe dovuto avere per essere conforme alle disposizioni normative violate e, quindi, per soddisfare il suo interesse. Sul ricorrente incombe, in altri termini, l�onere della prova della sussistenza del comportamento lesivo sanzionato dal Legislatore. Con la sentenza del 2011, si � dimostrato che il d.lgs. 198/2009 � concretamente applicabile con riferimento alle fattispecie che delinea in tutti i loro elementi. Con quella del 2012, in esame, i giudici affermano che il ricorrente deve provare l�esistenza concreta di tale fattispecie, pena l�inammissibilit� del ricorso. Peraltro, i giudici laziali sembrano rendersi conto delle difficolt� che potrebbe incontrare il ricorrente nell�individuare il contenuto dell�atto di cui chiede l�emanazione. In tal senso, per quanto si debba assicurare il corretto svolgimento del processo, non si deve dimenticare di garantire l�effettivit� del diritto di azione del ricorrente. Per questo motivo, il TAR afferma che, ai fini dell�ammissibilit� del ricorso per l�efficienza, non � necessario individuare l�esatto contenuto dell�atto obbligatorio non emanato, ma basta che ci� sia desumibile dal ricorso. Leggendo l�atto introduttivo del giudizio, il giudice deve avere la possibilit� di capire quale sia la richiesta del ricorrente e in quali ter mini deve pronunciarsi ai fini dell�accertamento domandato. Ne consegue anche che se con un unico ricorso sono individuate una pluralit� di situazioni giuridiche tutelate dal d.lgs. 198/2009, come accade nel caso al giudizio del TAR Lazio, allora il ricorso contiene una pluralit� di domande che comportano la necessit� di individuare per ciascuna di esse il contenuto del- l�atto generale da emettere. Nella fattispecie su cui si � pronunciato il TAR, nulla di tutto questo � accaduto perci� il ricorso � stato dichiarato inammissibile. 4. Le condizioni dell�azione per l�efficienza: TAR Basilicata, Potenza, sez. I, sentenza 23 settembre 2011, n. 478. �La legittimazione delle associazioni alla proposizione dell'azione per l'efficienza delle p.a. va sempre verificata in concreto, caso per caso, in relazione alla natura e alla tipologia dell'interesse leso, al fine di accertare se l'ente ricorrente sia statutariamente deputato alla tutela di quello specifico interesse �omogeneo per una pluralit� di utenti e di consumatori�. Deve ritenersi pertanto preclusa la legittimazione a proporre l'azione per l'efficienza di cui al d.lg. n. 198 del 2009 da parte di partiti e movimenti politici o, in generale, di associazioni e comitati a tutela oggettiva del ripristino della legalit� violata: il movimento politico � espressione, per sua stessa definizione, degli interessi politici dei sui associati ed in quanto rappresentativo di una classe generale ed eterogenea non � legittimato ad esprimere gli interessi giuridicamente rilevanti di una classe determinata ed omogenea di �utenti e consumatori�. La sentenza del TAR lucano � la seconda, in ordine cronologico, sul tema del ricorso per l�efficienza. � di particolare rilevanza se si intende analizzare l�azione in esame sotto il profilo delle condizioni processuali necessarie alla sua proposizione. Nella fattispecie, una serie di associazioni hanno proposto ricorso al TAR di Potenza per accertare un disservizio della Regione Basilicata, consistente nella mancata pubblicazione dell�indirizzo di posta elettronica certificata sulla home page del proprio sito istituzionale. Prima di entrare nel merito della questione, che si conclude con l�accoglimento del ricorso, il TAR verifica la sussistenza delle condizioni dell�azione: la sua ammissibilit�, la legittimazione ad agire del ricorrente; il suo interesse a ricorrere. Sul primo punto, vi si � gi� soffermati analizzando la sentenza del TAR Lazio n. 552/2011 che, infatti, viene richiamata anche dai giudici potentini. Non vi sono dubbi, quindi, sull�ammissibilit� del ricorso per l�efficienza. Pi� interessanti considerazioni suscitano la legittimazione ad agire e l�interesse a ricorrere. Prima di vedere come il TAR affronta l�analisi delle condizioni del- l�azione, � necessario fare qualche premessa di carattere generale. In un ordinamento giuridico democratico, la tutela apprestata in giudizio ha una rilevanza fondamentale come strumento di effettivit� delle libert� e dei diritti che lo stesso riconosce. Per questo motivo � importante garantire l�accesso a questa tutela a chiunque necessiti del suo intervento; peraltro, si deve assicurare che nessuno abusi della macchina giudiziaria con il rischio di sovraccaricarla di ricorsi ed azioni manifestamente infondate, magari con l�unico scopo di rallentarla a scapito della tutela degli altri cittadini. Per questo sono centrali le condizioni generali dell�azione: legittimazione a ricorrere e interesse a ricorrere. Il principio di effettivit� della tutela giurisdizionale, dunque, � di fondamentale importanza tanto che lo stesso art. 1 del c.p.a. lo afferma, richiamando le norme costituzionali che la assicurano (10) e anche il diritto europeo che, in un certo senso, lo ha costruito e introdotto nei nostri ordinamenti (11). Nel processo amministrativo, il principio di effettivit� funge da criterio di interpretazione delle norme di rito e, al tempo stesso, quale fine ultimo da realizzare. Al fine di avere gli strumenti e le conoscenze necessari a studiare le figure della legittimazione ad agire e dell�interesse a ricorrere, bisogna analizzare le posizioni giuridiche soggettive che in giudizio vengono tutelate. Trattandosi di Diritto Amministrativo, non si pu� prescindere dallo studio dell�interesse legittimo. Dare una definizione di interesse legittimo non � per niente facile, per� possiamo accettare l�idea di considerarlo come �la situazione giuridica soggettiva della quale � titolare un soggetto privato nei confronti della pubblica amministrazione, che esercita un potere autoritativo attribuitole dalla legge� (12). Tale posizione giuridica va ricollegata, da una parte, al potere della pubblica amministrazione e, dall�altra, alla legge che lo regola. Inoltre, poich� l�interesse legittimo �, in ogni caso, una posizione giuridica soggettiva, questo deve avere i caratteri della qualificazione e della differenziazione (13) Il diritto soggettivo, invece, � tradizionalmente definito come il potere che il singolo ha di agire per realizzare un proprio interesse tutelato dall�ordinamento (14). La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi ha avuto una duplice funzione: da una parte, � stata criterio di riparto fra la giurisdizione (10) Ovviamente, si fa implicito riferimento agli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione che esprimono �i principi sull�azione del Processo Amministrativo� (A. TRAVI, �Lezioni di Giustizia Amministrativa�, Giappichelli, 2010). (11) Anche attraverso il principio del giusto processo che, in recepimento della disposizione dell�art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell�Uomo, ora � riconosciuto anche dall�art. 111 della Costituzione. (12) M. CLARICH e G. FONDERICO, �Dizionario di Diritto Amministrativo�, Il Sole 24 Ore, 2007, voce �L�Interesse Legittimo�. (13) Un interesse � qualificato, e quindi pu� essere considerato legittimo, quando � lo stesso ordinamento giuridico, in particolare la norma che attribuisce il potere alla P.A., a riconoscerne la rilevanza all�interno dell�attivit� procedimentale amministrativa. La differenziazione rende l�interesse legittimo una vera e propria posizione di carattere soggettivo, in quanto � rilevabile solo qualora il singolo � titolare di una situazione giuridica distinta da quella degli altri, pi� intensamente tutelata. (14) Cfr. A. TORRENTE e P. SCHLESINGER, �Manuale di Diritto Privato�, Giuffr�, 2007; gli Autori dicono che �il diritto soggettivo � la signoria del potere� (pag. 72). del giudice amministrativo, posta a tutela degli interessi legittimi, e del giudice ordinario, per la cura dei diritti soggettivi; dall�altra, era il confine dell�ambito della responsabilit� civile della P.A., in quanto, prima, la lesione degli interessi legittimi non era risarcibile (15). Risulta, dunque, di fondamentale importanza, anche ai fini del nostro tema, riuscire a distinguere tra interesse legittimo e diritto soggettivo. La cosa non � per niente facile tanto che la giurisprudenza nel corso degli anni ha ricostruito una serie di criteri che si sono susseguiti nel tempo per individuare tale distinzione. Cercando di semplificare, diremmo che il cittadino � titolare di una posizione di diritto soggettivo nei casi in cui l�amministrazione abbia agito cos� contro le regole da non poter nemmeno configurare il suo comportamento come un vero potere, che, nel caso, � carente; se, invece, la P.A. ha solo mal esercitato il potere attribuitole dalla legge, discostandosi dalle regole poste da questa, allora il privato vanter� un interesse legittimo al rispetto di tali regole. A queste due categorie, si affiancano quelle degli interessi diffusi e degli interessi collettivi. I primi sono definiti come interessi senza titolare in quanto fanno riferimento ad una pluralit� di soggetti che costituiscono all�interno della societ� una comunit� non ancora organizzata stabilmente; i secondi, invece, fanno capo ad una collettivit� organizzata in un�apposita associazione stabile cui fa capo l�interesse stesso, come collettore degli interesse omogenei ed analoghi dei singoli componenti l�organizzazione stessa. Infine, nello studio del ricorso per l�efficienza � importante occuparsi anche dell�interesse semplice il quale � un interesse che non � qualificato dall�ordinamento come meritevole di tutela e per questo � definito come di mero fatto perch� attiene alla sfera fattuale di un soggetto o di pi� soggetti e non a quella del giuridicamente rilevante. La caratteristica distintiva degli interessi semplici � che, in quanto tali, non sono tutelabili in giudizio quindi non fanno sorgere nessuna legittimazione ad agire in capo a chi ne � titolare, salvo i casi eccezionali in cui � il Legislatore a garantirne la tutela attraverso le azioni popolari. La legittimazione ad agire si identifica nella titolarit� dell�azione, nel senso che legittimato ad agire � quel soggetto che l�ordinamento giuridico considera essere idoneo a presentare l�azione dinanzi al giudice. � legittimato ad agire in giudizio chi afferma nella domanda di essere titolare del diritto o del- l�interesse del quale chiede la tutela al giudice. Essendo il Processo Amministrativo un processo di parti centrale in esso � il tema della legittimazione ad agire, rectius a ricorrere, la quale �deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal medesimo provvedimento� (16). Per questo motivo possiamo affermare che in generale, nel diritto (15) Sappiamo che le cose oggi sono cambiate dopo la sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite della Cassazione. (16) Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 28 agosto 2001, n. 4544. amministrativo, la legittimazione ad agire in giudizio coincide con la titolarit� di una posizione giuridica qualificata riconducibile ad un interesse legittimo o ad un diritto soggettivo che con il ricorso si intende tutelare. Di sicuro, questa non potr� fondarsi di regola su interessi semplici o di mero fatto (17). L�altra condizione dell�azione � l�interesse a ricorrere che potremmo definire come il �filtro di efficienza attraverso il quale si vuole evitare il dispendio di attivit� giurisdizionale inutile� (18). Come si pu� evincere, ha lo scopo di evitare che si svolgano attivit� processuali superflue perci� si pone come obiettivo quello di permettere l�accesso alla giustizia solo a chi ne possa effettivamente, se anche in via potenziale, trarne un vantaggio. Di fondamentale importanza � ricordare che �l'interesse ad agire deve essere concreto ed attuale, e non pu� dunque essere rivolto alla soluzione in via di massima di una questione giuridica in vista di situazioni future ed ipotetiche� (19). Inoltre, la sua stessa valutazione dipende dalla prospettazione che fa il ricorrente (20), quindi per poterne accertare la sussistenza si deve andare a guardare la domanda, rectius il ricorso che � stato depositato presso il giudice amministrativo adito. Infine, � necessario sottolineare che l�interesse a ricorrere va tenuto distinto dall�interesse legittimo, per quanto sul punto la dottrina non � unanimemente d�accordo. Infatti, da un lato, l�interesse sostanziale pu� sussistere anche nel caso in cui non dovesse esserci l�interesse al ricorso; dall�altro lato, se sussiste l�interesse a ricorrere non per forza si accerter� anche l�interesse legittimo, altrimenti si arriverebbe all�assurda conclusione che ogni volta in cui il giudice accerta anche implicitamente (21) l�interesse a ricorrere, dovrebbe accertare l�interesse legittimo del ricorrente accogliendone la domanda. La legittimazione ad agire e l�interesse a ricorrere formano insieme le condizioni generali dell�azione, ma sono distinti e separati l�uno dall�altra: chi � titolare della situazione giuridica che gli permette di agire in giudizio, non � detto che possa trarre un vantaggio da detto giudizio, quindi potrebbe non avere il necessario interesse; viceversa, chi agisce in giudizio potr� anche essere concretamente interessato a questo, per� magari potrebbe risultare non (17) Ci� non toglie che vi sono dei casi eccezionali nei quali la legittimazione a ricorrere non presuppone una situazione giuridica sostanziale, ma si basa su elementi meramente formali; non di interessi di mero fatto si tratta, ma semplicemente di una sorta di legittimazione eccezionale che il Legislatore espressamente ma solo in talune ipotesi riconosce a chi non � titolare effettivo dell�interesse giuridico tutelato. (18) A. DO PASSO CABRAL, �Interesse ad agire e zone di interesse�, in www.judicium.it. La disposizione cardine dell�interesse ad agire � l�art. 100 del Codice di Procedura Civile, considerata espressione di un principio generale del nostro ordinamento giuridico e, quindi, applicabile sia nel rito ordinario che in quello amministrativo. (19) Cassazione Civile sentenza 7 dicembre 1985 n. 6177. (20) Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 1 agosto 2001, n. 4206. (21) Il non pronunciare l�inammissibilit� o l�improcedibilit� del ricorso rispettivamente per originaria o sopravvenuta carenza dell�interesse significa riconoscerne implicitamente la sussistenza. essere legittimato allo stesso (22). Acquisiti gli strumenti necessari allo studio delle figure dalla legittimazione ad agire e dell�interesse a ricorrere, vediamo come li analizza il TAR Basilicata, premettendo che la sentenza in esame valuta le condizioni per la proposizione del ricorso da parte delle associazioni. Il TAR afferma che la legittimazione ad agire delle associazioni non va valutata in astratto, bens� con riferimento al caso concreto. Di conseguenza, un�associazione non pu� proporre ricorso per l�efficienza per qualsiasi disfunzione amministrativa che riguardi i propri iscritti, ma solo per quelle connesse al suo scopo. L�associazione, in altri termini, deve svolgere, in nome del proprio statuto, un�attivit� volta alla tutela di un interesse �omogeneo per una pluralit� di utenti e di consumatori� che sono i suoi iscritti. Sulla base di simili considerazioni, il TAR conclude che le associazioni sono legittimate a proporre il ricorso per l�efficienza solo quando dimostrano di rappresentare adeguatamente tale interesse cos� che quest�ultimo da diffuso che era si soggettivizza in capo all�associazione, trasformandosi in un interesse collettivo. L�interesse al ricorso funge, invece, da limite alla legittimazione ad agire. Infatti, come spiega il TAR Basilicata, il ricorso per l�efficienza non � stato introdotto dal Legislatore come strumento di controllo oggettivo e generalizzato sull�operato dell�Amministrazione. L�azione di cui al d.lgs. 198/2009 � pur sempre uno strumento per ottenere una tutela processuale di interessi sostanziali, rectius di interessi concreti e attuali. Di conseguenza, non basta dimostrare di essere legittimati a proporlo, bisogna avere anche uno specifico interesse da proteggere. In altri termini, non � sufficiente che chi presenta il ricorso in esame lamenti un�inefficienza della Pubblica Amministrazione n� basta dimostrarne l�esistenza. Se cos� fosse, infatti, l�azione per l�efficienza si trasformerebbe in un�azione popolare che qualsiasi cittadino potrebbe proporre per correggere i difetti della macchina pubblica. Il ricorso per l�efficienza andrebbe a sostituire i tradizionali meccanismi di controllo amministrativo e politico, trasformandosi in una potente arma nelle mani di tutti i cittadini. Per evitare che ci� accada, il Legislatore, all�art. 1, richiede la sussistenza dell�interesse a ricorrere che � connesso alla lesione diretta, concreta e attuale che il ricorrente ha subito o sta per subire con pregiudizio per il suo interesse tutelato, che � omogeneo alla pluralit� di utenti e consumatori di cui fa parte. Tale discorso vale anche nel caso delle associazioni che, per quanto legittimate ad agire, devono essere interessate a farlo, per la tutela dei propri membri. A tal proposito, tuttavia, i giudici lucani affermano che, nel caso di un ente collettivo, l�interesse a ricorrere si ricava in via presuntiva sulla base della sua rappresentativit�. (22) Lo afferma anche il Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza 14 luglio 1972, n. 475. Il ragionamento del TAR prende le mosse dalla considerazione che l�interesse al ricorso per l�efficienza serve per accertare che il singolo proponente sia effettivamente titolare di un interesse omogeneo alla classe di utenti e consumatori di cui afferma di far parte. Se l�associazione rappresenta una particolare categoria di utenti e consumatori di cui al d.lgs. 198/2009, allora l�omogeneit� dell�interesse dedotto in giudizio � di per s� dimostrata. Di conseguenza, secondo i giudici lucani, � dimostrato l�interesse a ricorrere che si presume, quindi, in forza della rappresentativit� dell�associazione ricorrente. Per quanto si possano apprezzare le argomentazioni utilizzate dal TAR Basilicata, non si possono condividere le conclusioni a cui � giunto sugli istituti della legittimazione ad agire e dell�interesse a ricorrere nel caso dell�azione per l�efficienza. Le condizioni dell�azione per l�efficienza pongono non pochi problemi. Al fine di comprendere al meglio queste problematiche, � opportuno concentrare l�attenzione sull�attivit� amministrativa oggetto del ricorso per l�efficienza e sulle sue finalit�. La trasformazione di tale attivit� da funzione autoritativa a servizio �deve consentire, in linea di principio, l�utilizzazione dell�azione per l�efficienza a fronte di ogni tipo di attivit� amministrativa il cui malfunzionamento arrechi pregiudizio ad un determinato gruppo di individui, qualificabili in relazione a tale attivit� come utenti o consumatori� (23). Lo scopo dell�azione � individuare e correggere (24) i malfunzionamenti nello svolgimento delle funzioni delle amministrazioni pubbliche e nell�erogazione di servizi da parte dei concessionari, senza dimenticarne per� il carattere individuale perch� l�utente ricorrente vuole ottenere con tale azione che il risultato finale dell�attivit� della P.A. sia per lui soddisfacente. Queste particolarit� portano la necessit� di adattare gli istituti generali della legittimazione ad agire e dell�interesse a ricorrere alle specifiche esigenze dello strumento giudiziale in esame. Nella legge 15/2009, il Legislatore delegante si era occupato di definire, in via generale, anche la legittimazione ad agire della nuova azione, per� il Legislatore delegato ha apportato una qualche modifica a quanto disposto nella delega. La legge aveva l�intenzione di introdurre nel nostro ordinamento una forma di azione del tutto particolare posta alla tutela di interessi nuovi, rectius interessi tradizionalmente non tutelabili in giudizio, quali gli interessi diffusi; con il decreto, invece, si � recuperato il carattere individuale dell�azione. L�azione � proponibile dal singolo che rientri nella categoria dei �titolari (23) G. FIDONE, �L�azione per l�efficienza nel processo amministrativo: dal giudizio sull�atto a quello sull�attivit��, Giappichelli, 2012. (24) La correzione prima ancora della sanzione, secondo F. PATRONI GRIFFI, �Class Action e ricorso per l�efficienza delle amministrazioni e dei concessionari pubblici� (Relazione al convegno: �Le Class Actions: modelli a confronto�, Universit� Roma Tre, Facolt� di Economia, Roma 9 giugno 2010), in Federalismi.it, 2010. di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralit� di utenti e consumatori� (25); in tal modo non viene meno il carattere per cos� dire diffuso della legittimazione. Con ci�, tuttavia, non si vuole dire, che l�azione tutela un interesse diffuso, n� che tale � la posizione giuridica fatta valere, bens� si sostiene che l�azione per l�efficienza possa essere presentata da chiunque rientri nella categoria dei titolari dell�interesse tutelato in quanto utente o consumatore, intendendo per questi �il soggetto, individuale o collettivo, che ha diritto di usufruire o che comunque richiede di usufruire del servizio pubblico� (26). Chi vuole proporre il ricorso per l�efficienza non deve essere un quisque de populo, ma deve dimostrare di essere titolare di un interesse giuridicamente rilevante che sia anche differenziato in capo ad una collettivit� di utenti e consumatori che, per quanto ampia possa essere, sar� sempre ristretta rispetto alla generalit� dei cittadini. Il ricorso per l�efficienza � una fattispecie di giurisdizione soggettiva. Punto nodale dell�analisi sulle condizioni dell�azione per l�efficienza e, in particolare, sulla sua legittimazione ad agire, � comprendere la natura giuridica della posizione giuridica sottostante. A tal proposito, sembra necessario negare la creazione di una nuova figura giuridica attraverso l�azione per l�efficienza, ma non basta nemmeno assegnare l�etichetta di interesse legittimo o di diritto soggettivo a tale posizione legittimante: � necessario far evolvere le figure tradizionali per renderle compatibili con le esigenze dell�azione per l�efficienza. Non bisogna, per�, pensare che in dottrina sono tutti d�accordo con questa soluzione prospettata. Infatti, da un lato vi � chi identifica l�interesse giuridicamente tutelato con l�azione per l�efficienza come un interesse semplice perch� questa va a correggere i malfunzionamenti delle amministrazioni e dei concessionari, dando ai cittadini uno strumento di tutela proprio in quelle ipotesi in cui, tradizionalmente, non si riconosceva altro che un interesse di mero fatto in capo ai singoli. Il presupposto per poter mantenere questa prospettiva � che non deve ritenersi necessario essere titolari di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo per poter agire in giudizio, dato che talvolta basta anche un quid minus, come appunto un interesse semplice. In realt�, affermare che il titolare di un interesse semplice pu� agire in giudizio per la sua tutela � un controsenso, senza considerare che aprirebbe la strada ad un�ipotesi di giurisdizione oggettiva tanto osteggiata dalla Corte Costituzionale; potremmo dire che grazie al ricorso per l�efficienza un interesse semplice si � trasformato in interesse legittimo, ma � cosa ben diversa. Alla base della legittimazione ad agire ex (25) Art. 1, comma 1, D.Lgs. 198/2009. (26) Commissione Indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l�Integrit� delle Amministrazioni Pubbliche (CiVIT), delibera 24 giugno 2010, n. 88: �Linee guida per la definizione degli standard di qualit� (articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198)�. D.Lgs. 198/2009, non pu� esserci un interesse di mero fatto. Dall�altro lato, parte della dottrina ha cercato di configurare l�interesse del ricorso per l�efficienza come un interesse diffuso, in conformit� con quanto detto dal Consiglio di Stato in sede consultiva nel parere 1943/2009. Tale tesi non si condivide perch� se il ricorso per l�efficienza presupponesse interessi diffusi, allora il ricorrente agirebbe non per la cura di un proprio interesse personale, ma con il solo intento di ripristinare la correttezza della funzione amministrativa o dell�erogazione del servizio reso dal concessionario. Saremmo nuovamente dinanzi ad un�azione totalmente oggettiva, dove il singolo e il suo interesse vengono messi sullo sfondo. In realt�, il ricorso per l�efficienza � posto a tutela di un interesse legittimo di carattere pretensivo. Si tratta dell�interesse al buon funzionamento dei servizi pubblici, quindi quello che una volta era un interesse di mero fatto, privo di tutela giurisdizionale, si trasforma in un interesse legittimo che pu� essere portato dinanzi al giudice amministrativo affinch� adotti i provvedimenti necessari a garantirne la soddisfazione; inoltre, non si tratta di semplici interessi legittimi perch� non fanno capo solo al singolo, ma sono omogenei ad una pluralit� di persone, i nostri utenti e consumatori perci� presentano un particolare carattere di pluralit� e di collettivit�, pur rimanendo situazioni giuridiche individuali che connotano una legittimazione ad agire anch�essa individuale. Questa natura � riconducibile al fatto che il giudizio instaurato con il ricorso per l�efficienza ha come oggetto, un�attivit� amministrativa rivolta a una pluralit� di persone titolari di interessi fra loro omogenei. Il carattere collettivo del ricorso viene individuato sotto due profili: da un parte, con riferimento alla legittimazione ad agire, dove il carattere dell�omogeneit� funge da limite alla legittimazione del ricorso per l�efficienza in quanto serve ad evitare che chiunque possa proporlo; dall�altra, riguardo gli effetti della sentenza che chiude il giudizio perch� questa produce sempre effetti ultra partes su tutti gli utenti e consumatori a prescindere dalla loro partecipazione allo stesso processo. Non vi � modo, invece, di configurare come collettivo l�interesse giuridico tutelato, come invece sostiene il TAR Basilicata. Dopo aver analizzato la legittimazione ad agire del ricorso per l�efficienza sotto i suoi molteplici aspetti problematici, � necessario adesso occuparsi del- l�interesse a ricorrere. L�interesse a ricorrere � collegato al ricorrente e alla posizione giuridica soggettiva che egli vuole tutelare. Essendo il ricorso posto a tutela di interessi legittimi, allora l�interesse a ricorrere ha carattere individuale e personale, riferito al singolo. In realt�, da pi� parti la dottrina sostiene strenuamente, ma anche in maniera diversa, la tesi contraria di un interesse a ricorrere di carattere collettivo. Ancora una volta, si apre la strada della giurisdizione di diritto oggettivo, che non � configurabile nel caso del ricorso per l�efficienza perch� questo nasce comunque con lo scopo di porsi a tutela di un interesse legittimo individuale, tanto che finch� non si ottiene una pronuncia che davvero sia finalizzata a garantire il ripristino dell�attivit� amministrativa corretta, l�interesse a ricorrere prima e quello alla decisione poi permangono in capo al ricorrente. Per questo l�interesse a ricorrere ha una rilevanza collettiva che si esprime nel requisito dell�omogeneit�: l�interesse del ricorso per l�efficienza � collettivo perch� rivolto a un bene della vita omogeneo per tutti coloro che appartengono alla categoria degli utenti e consumatori e che consiste nel- l�efficienza della Pubblica Amministrazione. Ribadendo che non sono diffusi n� collettivi, si pu� dire che gli interessi tutelati dal ricorso per l�efficienza sono omogenei in quanto derivano tutti da una pluralit� di rapporti analoghi che i singoli utenti e consumatori hanno con la P.A. o con i concessionari e che sono stati lesi dalla stessa funzione amministrativa o dalla stessa attivit� di servizio. Per questo motivo, quando afferma che l�interesse a ricorrere delle associazioni si pu� ricavare dalla loro rappresentativit�, il TAR di Potenza coglie nel segno solo in parte. Certamente � importante assicurarsi che l�interesse dedotto con il ricorso per l�efficienza abbia il carattere di omogeneit� richiesta dal decreto del 2009. Peraltro, l�interesse a ricorrere si fonda sulla lesione di questo interesse omogeneo: se manca la lesione o non la si dimostra, non � possibile proporre l�azione per l�efficienza. Anche nel caso delle associazioni, quindi, � necessario dimostrare la lesione diretta, concreta e attuale ai sensi dell�art. 1, del d.lgs. 198/2009 e non basta la rappresentativit� della stessa. In altri termini, rappresentare la classe di utenti e consumatori legittimati ad agire in giudizio pu� essere rilevante ai fini della legittimazione, ma non � sufficiente a configurare l�interesse a ricorrere. Fra gli interessanti spunti per una riflessione che il ricorso per l�efficienza pone, vi � quello sul legame che potrebbe unirlo all�azione di adempimento. Strumento ben noto in altri ordinamenti (27), questa azione ha avuto molte difficolt� ad affermarsi nel nostro, anzi non � con assoluta certezza che possiamo riconoscerne la sussistenza all�interno del processo amministrativo. Grazie all�azione di adempimento, il cittadino avrebbe la possibilit� di non limitarsi a chiedere l�annullamento di un provvedimento illegittimo o al massimo una generica condanna della P.A. ad esercitare, rectius ad esercitare di nuovo il potere pubblico in conformit� con la legge e la sentenza del giudice; grazie all�azione di adempimento, il ricorrente pu� ottenere in giudizio la realizzazione del bene della vita che sottost� all�interesse dedotto nel processo, attraverso una sentenza che non si limiterebbe a valutare la legittimit� di un provvedimento, bens� andrebbe ad accertare cosa sarebbe spettato al cittadino se l�Amministrazione avesse agito correttamente. Il c.p.a. non prevede la disciplina dell�azione di adempimento, per quanto la commissione istituita presso il Consiglio di Stato per la redazione dello (27) Il tedesco su tutti. stesso Codice aveva inserito nella bozza finale del testo di legge l�art. 40 dedicato a questa particolare forma di azione. Sennonch� il lavoro di cesura del Governo � stato poco razionale perch� � stato eliminato l�articolo sull�azione di adempimento, ma non la corrispondente disposizione sulla sentenza che ne avrebbe fatto seguito, ancora oggi l�art. 34, comma 1, lett. c); tra l�altro, questa � solo una delle disposizioni che richiamano in qualche modo l�azione di adempimento e, quindi, aprono la strada al riconoscimento di tale azione nel- l�ordinamento italiano. Infatti, la stessa giurisprudenza sembra riconoscere l�esistenza dell�azione di adempimento nel processo amministrativo (28); il che sarebbe un importante passo in avanti verso una pi� piena attuazione del principio di effettivit� della tutela giurisdizionale. In ogni caso, come ulteriore indice dell�utilit� concreta dell�azione di adempimento, si deve rilevare che gi� prima del Codice, nonostante mancasse, come ora, la sua previsione generale, il Legislatore ha introdotto delle azioni che sono riconducibili a questo modello. Si pensi all�ipotesi della tutela che viene apprestata nei casi di silenzio-inadempimento della Pubblica Amministrazione, nel qual caso l�art. 31, comma 3 del Codice che d� al giudice amministrativo la possibilit� di pronunciarsi sulla fondatezza della domanda dedotta in giudizio; oppure alla disciplina del rito speciale in materia di accesso ai documenti della Pubblica Amministrazione, nel quale il giudice amministrativo, adito da chi ha fatto richiesta di accessi di un documento della P.A. e in cambio ha ottenuto un suo provvedimento di diniego o il suo silenzio, pu� ordinare l�esibizione dei documenti richiesti. Sotto forma di azione speciale, l�azione di adempimento � gi� presente nel c.p.a.; come azione generale, non ha una vera e propria disciplina, ma facendo leva sul principio di atipicit� delle azioni si pu� trovare la strada per ammetterla come strumento di ricorso al giudice amministrativo. Nel caso dell�azione di adempimento, il giudice � chiamato a decidere non solo sulla legittimit� di un provvedimento ai fini del suo possibile annullamento, ma anche sulla fondatezza della pretesa del ricorrente per questo deve godere di una cognizione piena che gli permetta di conoscere dell�intera faccenda, in modo tale da poter valutare se e quale provvedimento la P.A. avrebbe dovuto correttamente adottare se avesse agito in maniera legittima, senza pregiudicare l�interesse del ricorrente. Resta comunque fermo il limite del merito amministrativo per il giudice anche nel caso dell�azione di adempimento perch�, in nome del principio della separazione dei poteri, il giudice, nemmeno quello amministrativo, non pu� sindacare la scelta della P.A. se non con riferimento alla legittimit�, intesa come conformit� alle norme che la regolano. Non si potr� decidere sul merito, quindi il giudice pu� pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio con l�azione di adempimento solo (28) Si veda T.A.R. Lombardia di Milano, sentenza 1428 del 2011. quando si tratta di attivit� vincolata, intesa anche solamente nel concreto e cio� quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalit� amministrativa. Da un certo punto di vista, il risultato che si pu� ottenere con una simile azione � simile a quello raggiungibile attraverso altre forme di ricorso, come l�azione di annullamento, attraverso l�effetto conformativo di una sentenza che l�accolga, ed il ricorso di ottemperanza. Per l�azione di annullamento la differenza con l�azione di adempimento sta nella sentenza: in caso di accoglimento, il giudice non inserisce una generica regola comportamentale che imponga semplicemente la non ripetizione dell�errore accertato, come fa in caso di annullamento, perch� con l�adempimento la P.A. sar� obbligata ad adottare un provvedimento specifico, quello che puntualmente soddisfi la richiesta del ricorrente vittorioso. La distinzione con il giudizio di ottemperanza � pi� difficile da cogliere, ma si basa sul fatto che questo pu� essere intrapreso solo dopo che si � gi� ottenuta una sentenza del giudice amministrativo, come potrebbe essere quella di annullamento, e che la P.A. non vi si sia conformata e che, inoltre, l�ottemperanza � possibile solo nei casi espressamente previsti all�art. 112 del Codice del Processo Amministrativo. Dopo aver inquadrato in maniera analitica e dettagliata l�azione di adempimento, averne analizzato i caratteri, gli aspetti critici, l�importanza, l�ammissibilit� nel nostro ordinamento, � giunto il momento di metterla a confronto con l�azione per l�efficienza, cercando di capire se l�azione introdotta nel 2009 dal decreto Brunetta possa essere considerata o almeno equiparata ad una forma di azione di adempimento. Nel caso del ricorso per l�efficienza, l�oggetto � l�attivit� dell�Amministrazione; anche l�azione di adempimento ha a oggetto in un certo senso l�attivit� amministrativa in quanto il giudice deve poter conoscere e accertare tutti i profili dell�azione amministrativa che siano rilevanti da un punto di vista giuridico al fine di poter decidere sulla pretesa del ricorrente. Inoltre, l�attivit� amministrativa si lega in maniera stringente al risultato all�interno dell�azione per l�efficienza che � volta a controllare se il secondo segua correttamente alla prima: il ricorso per l�efficienza � finalizzato a realizzare l�esatto adempimento dell�attivit� amministrativa in relazione al risultato indicato dagli standard. Da notare che questo particolare tipo di azione di adempimento si concluder� semplicemente con la condanna da parte del giudice per la P.A. di realizzare un determinato risultato specifico, lasciandole libert� di scelta su come raggiungere l�obiettivo; inoltre, la condanna � possibile, solo nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie e umane gi� assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, come afferma l�art. 4, comma 1. In definitiva, gli schemi delle due azioni sembrano essere quanto meno paragonabili, se non addirittura assimilabili. La similitudine si mostra anche attraverso le condizioni dell�azione. Nel ricorso per l�efficienza, la legittimazione ad agire si fonda su un interesse legittimo di tipo pretensivo connesso al buon funzionamento della funzione amministrativa che, ormai, viene considerata alla stregua di un servizio pubblico; analogamente, nell�azione di adempimento, la legittimazione si esprime nella titolarit� di un interesse legittimo pretensivo volto a ottenere dalla P.A. un provvedimento specifico che amplia la sfera giuridica del ricorrente. Infine, nel caso del ricorso per l�efficienza, chi agisce in giudizio ha come obiettivo quello di �ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio� (29). L�interesse a ricorrere dell�azione di adempimento consiste nel voler ottenere dal giudice una pronuncia con la quale si condanna la P.A. ad adottare uno specifico provvedimento che sia conforme alle pretese del ricorrente cos� da poterle soddisfare, ricordando che intanto potr� sussistere l�interesse a ricorrere in quanto la P.A. sia, in un certo senso, tenuta ad adottare quell�atto: l�azione di adempimento � possibile abbia esaurito le proprie possibilit� di scelta. (29) Art. 1, comma 1, D.Lgs. 198/2009. Le disposizioni in materia di inconferibilit� e incompatibilit� di incarichi di cui al D. lgs. n. 39/2013 Francesco Spada* Premessa Con decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, sono state adottate le �Disposizioni in materia di inconferibilit� e incompatibilit� di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190�. Il decreto si articola in otto capi, riguardanti: principi generali; inconferibilit� di incarichi in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione; inconferibilit� di incarichi a soggetti provenienti da enti di diritto privato regolati o finanziati dalle pubbliche amministrazioni; inconferibilit� di incarichi a componenti di organi di indirizzo politico; incompatibilit� tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalle pubbliche amministrazioni nonch� lo svolgimento di attivit� professionale; incompatibilit� tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e cariche di componenti di organi di indirizzo politico; vigilanza e sanzioni; norme finali e transitorie. Tanto premesso, si esaminer� qui di seguito il contenuto del decreto, suddividendo la trattazione in quattro parti. L�inconferibilit� L�articolo 3 del decreto disciplina l�inconferibilit� di incarichi in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione. In particolare, la disposizione prevede: � l�impossibilit� di attribuzione di alcune tipologie di incarichi per coloro che siano stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale; � il carattere permanente dell�inconferibilit� di cui al comma 1, laddove la condanna riguardi uno dei reati di cui all'articolo 3, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97, nei casi in cui sia stata inflitta la pena accessoria del- l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero sia intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro a seguito di procedimento disciplinare o la cessazione (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell�Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l�Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell�Autore e non impegna in alcun modo l�Amministrazione di appartenenza. del rapporto di lavoro autonomo. Ove sia stata inflitta una interdizione temporanea, l'inconferibilit� ha la stessa durata dell'interdizione. Negli altri casi l'inconferibilit� degli incarichi ha la durata di cinque anni; � il carattere permanente dell�inconferibilit�, laddove la condanna riguardi uno degli altri reati previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale, nei casi in cui sia stata inflitta la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero sia intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro a seguito di procedimento disciplinare o la cessazione del rapporto di lavoro autonomo. Ove sia stata inflitta una interdizione temporanea, l'inconferibilit� ha la stessa durata dell'interdizione. Negli altri casi l'inconferibilit� ha una durata pari al doppio della pena inflitta, per un periodo comunque non superiore a cinque anni; � la possibilit� di conferimento di incarichi diversi da quelli che comportino l'esercizio delle competenze di amministrazione e gestione nei casi di cui all'ultimo periodo dei commi 2 e 3, salve le ipotesi di sospensione o cessazione del rapporto, al dirigente di ruolo, per la durata del periodo di inconferibilit�. � in ogni caso escluso il conferimento di incarichi relativi ad uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all'acquisizione di beni, servizi e forniture, nonch� alla concessione o all'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati, di incarichi che comportano esercizio di vigilanza o controllo. Nel caso in cui l'amministrazione non sia in grado di conferire incarichi compatibili con le disposizioni in esame, il dirigente viene posto a disposizione del ruolo senza incarico per il periodo di inconferibilit� dell'incarico; � la cessazione di diritto della situazione di inconferibilit�, laddove venga pronunciata, per il medesimo reato, sentenza anche non definitiva, di proscioglimento; � la sospensione dell'incarico e dell'efficacia del contratto di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, stipulato con l'amministrazione, l'ente pubblico o l'ente di diritto privato in controllo pubblico nel caso di condanna, anche non definitiva, per uno dei reati di cui ai commi 2 e 3 nei confronti di un soggetto esterno all'amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico cui e' stato conferito uno degli incarichi di cui al comma 1. Per tutto il periodo della sospensione non spetta alcun trattamento economico. In entrambi i casi la sospensione ha la stessa durata dell'inconferibilit� stabilita nei commi 2 e 3. Fatto salvo il termine finale del contratto, all'esito della sospensione l'amministrazione valuta la persistenza dell'interesse all'esecuzione dell'incarico, anche in relazione al tempo trascorso; � l�equiparazione, agli effetti della disposizione in esame, della sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. alla sentenza di condanna. I successivi articoli 4 e 5 disciplinano l�inconferibilit� di incarichi nelle amministrazioni statali, regionali e locali, nonch� di incarichi di direzione nelle Aziende sanitarie locali a soggetti provenienti da enti di diritto privato regolati o finanziati. In particolare, le disposizioni prevedono: � l�impossibilit� di attribuzione di alcune tipologie di incarichi per coloro che, nei due anni precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato o finanziati dall'amministrazione o dall'ente pubblico che conferisce l'incarico ovvero abbiano svolto in proprio attivit� professionali, se queste sono regolate, finanziate o comunque retribuite dall'amministrazione o ente che conferisce l'incarico; � l�impossibilit� di attribuzione di alcune tipologie di incarichi per coloro che, nei due anni precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dal servizio sanitario regionale. L�articolo 6 disciplina l�inconferibilit� di incarichi a componenti di organo politico di livello nazionale, prevedendo che per le cariche di Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e di commissario straordinario del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, si applicano i divieti di cui alla legge 20 luglio 2004, n. 215. L�articolo 7 disciplina l�inconferibilit� di incarichi a componenti di organo politico di livello regionale e locale, prevedendo: � l�impossibilit� di attribuzione di alcune tipologie di incarichi per coloro che, nei due anni precedenti, siano stati componenti della giunta o del consiglio della regione che conferisce l'incarico, ovvero nell'anno precedente siano stati componenti della giunta o del consiglio di una provincia o di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti della medesima regione o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione, oppure siano stati presidente o amministratore delegato di un ente di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione ovvero da parte di uno degli enti locali di cui al presente comma; � l�impossibilit� di attribuzione di alcune tipologie di incarichi per coloro che, nei due anni precedenti, siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, ovvero a coloro che nell'anno precedente abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella stessa regione dell'amministrazione locale che conferisce l'incarico, nonch� a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione; � la non applicazione delle inconferibilit� di cui al presente articolo ai dipendenti della stessa amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico che, all'atto di assunzione della carica politica, erano titolari di incarichi. L�articolo 8 disciplina l�inconferibilit� di incarichi di direzione nelle Aziende sanitarie locali, prevedendo che: � l�inconferibilit� di alcune tipologie di incarichi a coloro che nei cinque anni precedenti siano stati candidati in elezioni europee, nazionali, regionali e locali, in collegi elettorali che comprendano il territorio della ASL; � l�inconferibilit� di alcune tipologie di incarichi a coloro che nei due anni precedenti abbiano esercitato la funzione di Presidente del Consiglio dei ministri o di Ministro, Viceministro o sottosegretario nel Ministero della salute o in altra amministrazione dello Stato o di amministratore di ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico nazionale che svolga funzioni di controllo, vigilanza o finanziamento del servizio sanitario nazionale; � l�inconferibilit� di alcune tipologie di incarichi a coloro che nell'anno precedente abbiano esercitato la funzione di parlamentare; � l�inconferibilit� di alcune tipologie di incarichi a coloro che nei tre anni precedenti abbiano fatto parte della giunta o del consiglio della regione interessata ovvero abbiano ricoperto la carica di amministratore di ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico regionale che svolga funzioni di controllo, vigilanza o finanziamento del servizio sanitario regionale; � l�inconferibilit� di alcune tipologie di incarichi a coloro che, nei due anni precedenti, abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, il cui territorio e' compreso nel territorio della ASL. L�incompatibilit� Gli articoli 9 e 10 del decreto disciplinano l�incompatibilit� tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalle pubbliche amministrazioni nonch� tra i medesimi incarichi e lo svolgimento di attivit� professionale. In particolare, le disposizioni prevedono: � l�incompatibilit� degli incarichi amministrativi di vertice e degli incarichi dirigenziali, comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, che comportano poteri di vigilanza o controllo sulle attivit� svolte dagli enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione che conferisce l'incarico, con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione o ente pubblico che conferisce l'incarico; � l�incompatibilit� degli incarichi amministrativi di vertice e degli incarichi dirigenziali, comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, degli incarichi di amministratore negli enti pubblici e di presidente e amministratore delegato negli enti di diritto privato in controllo pubblico con lo svolgimento in proprio, da parte del soggetto incaricato, di un'attivit� professionale, se questa e' regolata, finanziata o comunque retribuita dall'amministrazione o ente che conferisce l'incarico; � l�incompatibilit� degli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali di una medesima regione: a) con gli incarichi o le cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dal servizio sanitario regionale; b) con lo svolgimento in proprio, da parte del soggetto incaricato, di attivit� professionale, se questa e' regolata o finanziata dal servizio sanitario regionale; � l'estensione dell�incompatibilit� di cui al presente articolo agli incarichi, alle cariche e alle attivit� professionali assunte o mantenute dal coniuge e dal parente o affine entro il secondo grado. Gli articoli 11, 12, 13 e 14 disciplinano l�incompatibilit� tra incarichi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti privati in controllo pubblico e cariche di componenti di organi di indirizzo politico. In particolare, le disposizioni prevedono: � l�incompatibilit� degli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali, regionali e locali e degli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello nazionale, regionale e locale, con la carica di Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e commissario straordinario del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, o di parlamentare; � l�incompatibilit� degli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni regionali e degli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello regionale: a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della regione che ha conferito l'incarico; b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione; c) con la carica di presidente e amministratore delegato di un ente di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione; � l�incompatibilit� degli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione nonch� gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale: a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che ha conferito l'incarico; b) con la carica di componente della giunta o del consiglio della provincia, del comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico; c) con la carica di componente di organi di indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, nonche' di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione abitanti della stessa regione; � l�incompatibilit� degli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione o nello stesso ente pubblico che ha conferito l'incarico, ovvero con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di presidente e amministratore delegato nello stesso ente di diritto privato in controllo pubblico che ha conferito l'incarico; � l�incompatibilit� degli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello nazionale, regionale e locale con l'assunzione, nel corso dell'incarico, della carica di Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e commissario straordinario del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, o di parlamentare; � l�incompatibilit� degli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello regionale: a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della regione interessata; b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione; c) con la carica di presidente e amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione; � l�incompatibilit� degli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello provinciale o comunale: a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della regione; b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico; c) con la carica di componente di organi di indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, nonch� di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione della stessa regione; � l�incompatibilit� degli incarichi di presidente e amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico, di livello nazionale, regionale e locale, con la carica di Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e di commissario straordinario del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, o di parlamentare; � l�incompatibilit� degli incarichi di presidente e amministratore delegato di ente di diritto privato in controllo pubblico di livello regionale: a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della regione interessata; b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia o di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione; c) con la carica di presidente e amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, nonche' di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione della medesima regione; � l�incompatibilit� degli incarichi di presidente e amministratore delegato di ente di diritto privato in controllo pubblico di livello locale con l'assunzione, nel corso dell'incarico, della carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia o di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione. � l�incompatibilit� degli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali con la carica di Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario di Stato e commissario straordinario del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, di amministratore di ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico nazionale che svolga funzioni di controllo, vigilanza o finanziamento del servizio sanitario nazionale o di parlamentare; � l�incompatibilit� degli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali di una regione: a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della regione interessata ovvero con la carica di amministratore di ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico regionale che svolga funzioni di controllo, vigilanza o finanziamento del servizio sanitario regionale; b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione; c) con la carica di presidente e amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, nonche' di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione della stessa regione. Vigilanza e sanzioni L�articolo 15 del decreto disciplina la vigilanza sul rispetto delle disposizioni in materia di inconferibilit� e incompatibilit� nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto privato in controllo pubblico. In particolare, la disposizione prevede che: � il responsabile del piano anticorruzione di ciascuna amministrazione pubblica, ente pubblico e ente di diritto privato in controllo pubblico, cura, anche attraverso le disposizioni del piano anticorruzione, che nell'amministrazione, ente pubblico e ente di diritto privato in controllo pubblico siano rispettate le disposizioni del decreto sulla inconferibilit� e incompatibilit� degli incarichi. A tale fine il responsabile contesta all'interessato l'esistenza o l'insorgere delle situazioni di inconferibilit� o incompatibilit� di cui al decreto; � il responsabile segnala i casi di possibile violazione delle disposizioni del decreto all'Autorit� nazionale anticorruzione, all'Autorit� garante della concorrenza e del mercato ai fini dell'esercizio delle funzioni di cui alla legge 20 luglio 2004, n. 215, nonch� alla Corte dei conti, per l'accertamento di eventuali responsabilit� amministrative; � il provvedimento di revoca dell'incarico amministrativo di vertice o dirigenziale conferito al soggetto cui sono state affidate le funzioni di responsabile, comunque motivato, e' comunicato all'Autorit� nazionale anticorruzione che, entro trenta giorni, pu� formulare una richiesta di riesame qualora rilevi che la revoca sia correlata alle attivit� svolte dal responsabile in materia di prevenzione della corruzione. Decorso tale termine, la revoca diventa efficace. Il successivo articolo 16 disciplina la vigilanza dell'Autorit� nazionale anticorruzione. In particolare, la disposizione prevede che: � l'Autorit� nazionale anticorruzione vigila sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici e degli enti di diritto privato in controllo pubblico, delle disposizioni di cui al decreto, anche con l'esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi; � l'Autorit� nazionale anticorruzione, a seguito di segnalazione o d'ufficio, pu� sospendere la procedura di conferimento dell'incarico con un proprio provvedimento che contiene osservazioni o rilievi sull'atto di conferimento dell'incarico, nonch� segnalare il caso alla Corte dei conti per l'accertamento di eventuali responsabilit� amministrative. L'amministrazione, ente pubblico o ente privato in controllo pubblico che intenda procedere al conferimento del- l'incarico deve motivare l'atto tenendo conto delle osservazioni dell'Autorit�; � l'Autorit� nazionale anticorruzione esprime pareri, su richiesta delle amministrazioni e degli enti interessati, sulla interpretazione delle disposizioni del decreto e sulla loro applicazione alle diverse fattispecie di inconferibilit� e incompatibilit� degli incarichi. Il successivo articolo 17 commina la sanzione della nullit� per gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del decreto e per i relativi contratti. Infine, gli articoli 18 e 19 prevedono, in materia di sanzioni: � la responsabilit�, per le conseguenze economiche degli atti adottati, per i componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli. Sono esenti da responsabilit� i componenti che erano assenti al momento della votazione, nonch� i dissenzienti e gli astenuti; � l�impossibilit� di conferimento, per i componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli, degli incarichi di loro competenza, per un periodo di tre mesi. Il relativo potere e' esercitato, per i Ministeri dal Presidente del Consiglio dei ministri e per gli enti pubblici dall'amministrazione vigilante; � l�adeguamento, da parte delle regioni, delle province e dei comuni, entro tre mesi dall'entrata in vigore del decreto, dei propri ordinamenti, individuando le procedure interne e gli organi che in via sostitutiva possono procedere al conferimento degli incarichi nel periodo di interdizione degli organi titolari; � la pubblicazione dell'atto di accertamento della violazione delle disposizioni del decreto sul sito dell'amministrazione o ente che conferisce l'incarico; � la decadenza dall'incarico e la risoluzione del relativo contratto, di lavoro subordinato o autonomo, decorso il termine perentorio di quindici giorni dalla contestazione all'interessato, da parte del responsabile di cui all'articolo 15, dell'insorgere della causa di incompatibilit� nei casi di svolgimento degli incarichi di cui al decreto in una delle situazioni di incompatibilit� di cui ai capi V e VI; � la perdurante vigenza delle disposizioni che prevedono il collocamento in aspettativa dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni in caso di incompatibilit�. Norme finali e transitorie L�articolo 20 del decreto disciplina la dichiarazione sulla insussistenza di cause di inconferibilit� o incompatibilit�, prevedendo che: � all'atto del conferimento dell'incarico l'interessato presenta una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di inconferibilit� di cui al decreto; � nel corso dell'incarico l'interessato presenta annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilit� di cui al decreto; � le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 sono pubblicate nel sito della pubblica amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico che ha conferito l'incarico; � la dichiarazione di cui al comma 1 e' condizione per l'acquisizione del- l'efficacia dell'incarico; � ferma restando ogni altra responsabilit�, la dichiarazione mendace, accertata dalla stessa amministrazione, nel rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio dell'interessato, comporta la inconferibilit� di qualsivoglia incarico di cui al presente decreto per un periodo di cinque anni. Il successivo articolo 21 prevede che, ai soli fini dell'applicazione dei di vieti di cui al comma 16-ter dell'articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, sono considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di uno degli incarichi di cui al decreto, ivi compresi i soggetti esterni con i quali l'amministrazione, l'ente pubblico o l'ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo e che detti divieti si applicano a far data dalla cessazione dell'incarico. Infine, l�articolo 22 disciplina la prevalenza su diverse disposizioni in materia di inconferibilit� e incompatibilit�, prevedendo che: � le disposizioni del decreto recano norme di attuazione degli articoli 54 e 97 della Costituzione e prevalgono sulle diverse disposizioni di legge regionale, in materia di inconferibilit� e incompatibilit� di incarichi presso le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e presso gli enti privati in controllo pubblico; � sono in ogni caso fatte salve le disposizioni della legge 20 luglio 2004, n. 215; � le disposizioni di cui agli articoli 9 e 12 del decreto non si applicano agli incarichi presso le societ� che emettono strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati e agli incarichi presso le loro controllate. contributi di dottrina CONTRIBUTI DI DOTTRINA L�atto presupposto nel diritto tributario Lorenzo D�Ascia* SOMMARIO: 1. L�art. 19, d. lgs. n. 546/1992 nel sistema del processo tributario: la separata impugnazione degli atti solo per vizi propri - 2. Atti presupposti generali - 2.1 La disapplicazione - 2.2 Il doppio binario della disapplicazione del giudice tributario e della tutela del giudice amministrativo - 2.3 L�illegittimit� derivata per vizio dell�atto presupposto generale - 2.4 Limiti al potere di disapplicazione - 2.5 Configurabilit� di un potere di disapplicazione d�ufficio - 2.6 Principio del contraddittorio - 3. Atti presupposti particolari - 3.1 L�illegittimit� derivata dal vizio dell�atto presupposto particolare - 3.2 La presupposizione impropria o �attenuata�. I motivi dell�annullamento dell�atto presupposto: vizi di forma o vizi sostanziali 3.3 Sanabilit� della mancata o irrituale notifica dell�atto presupposto - 4. Vicende dell�atto presupposto e riflessi sull�atto conseguenziale - 4.1 Atto presupposto inoppugnabile - 4.2 Atto presupposto impugnato - 4.3 Atto presupposto ritenuto legittimo con sentenza passata in giudicato - 4.4 Atto presupposto ritenuto illegittimo con sentenza (anche non passata in giudicato) - 5. La sospensione del processo avente ad oggetto l�atto conseguenziale: problemi sull�applicaizone dell�art. 295, c.p.c. - 5.1 La sospensione nel processo tributario - 5.2 Casi di presupposizione in cui non si pu� dar luogo alla sospensione ex art. 295, c.p.c. - 5.3 Ricadute del giudicato pregiudiziale nel giudizio sospeso - 6. Conflitto di giudicati. La revocazione ex art. 395, c.p.c. e l�effetto espansivo esterno ex art. 336, c.p.c. - 7. Il potere/dovere di autotutela. 1. L�art. 19, d. lgs. n. 546/1992 nel sistema del processo tributario: la separata impugnazione degli atti solo per vizi propri. Il tema dei vizi dell�atto presupposto impone preliminarmente di operare una differenziazione delle diverse ipotesi di presupposizione che possono pre (*) Avvocato dello Stato. Il presente studio costituisce la relazione dell�Autore al Seminario - tenutosi presso l�Aula Magna della Corte Suprema di Cassazione il giorno 13 novembre 2012 - sul tema �I vizi dell�atto impositivo tra contenuto e procedimento�. sentarsi all�esame dell�operatore, con peculiarit� tali da incidere sulla disciplina sostanziale e processuale. Dando alla nozione il significato pi� ampio possibile, � possibile distinguere tre tipi di presupposizione: a) atti prodromici che si collocano all�interno del procedimento impositivo, e che sono strumentali all�emanazione dell�atto finale: hanno natura infraprocedimentale e non sono impugnabili autonomamente. Essi incidono sulla validit� dell�atto impositivo finale, che potr� essere impugnato deducendo i vizi di tali atti preparatori. Sono ad esempio gli ordini di servizio, l�autorizzazione del procuratore della Repubblica a una perquisizione, o altri atti istruttori funzionali all�acquisizione delle prove. Per alcuni di essi, peraltro, si configura una immediata, autonoma lesivit�, suscettibile di tutela dinanzi al giudice ordinario per violazione dei diritti soggettivi del destinatario (ad esempio la lesione della libert� d�impresa dell�imprenditore o il diritto alla privacy di un contribuente soggetti a una ispezione o un accesso). Secondo Cass., SS.UU., n. 6315/09 si tratta di atti plurilesivi che, al di l� della loro rilevanza fiscale che potr� dar luogo a un sindacato giurisdizionale dinanzi al giudice tributario solo quando verr� adottato il provvedimento impositivo finale, potrebbero ledere anche diritti soggettivi non tributari del contribuente. Per la tutela di questi ultimi, pi� che configurare un interesse legittimo al corretto esercizio della potest� pubblica che incide su libert�, deve parlarsi di diritti soggettivi, con giurisdizione del giudice ordinario per la verifica della sussistenza dei presupposti di legge per la loro adozione. b) atti presupposti in senso �proprio�: sono gli atti, con dignit� provvedi- mentale autonoma, che costituiscono per� il presupposto indefettibile di altri provvedimenti. Gli atti ad essi conseguenziali si caratterizzano per non poter essere emessi se non preceduti dall�atto presupposto, e dal fatto che l�esistenza stessa dell�atto presupposto � condizione della loro esistenza. Possono essere: * atti generali: ad esempio il regolamento sugli studi di settore, il D.P.C.M. sui parametri del 29 gennaio 1996; le delibere comunali sulle tariffe TARSU, i decreti ministeriali contenenti l�elenco dei Paesi a fiscalit� privilegiata (c.d. black list); le delibere comunali sulle aliquote Ici o Imu; * atti particolari: ad esempio quelli che si situano nella sequenza �accertamento - cartella - avviso di mora�; il provvedimento di diniego o di disconoscimento di un�agevolazione o di una esenzione rispetto al conseguente provvedimento di diniego del rimborso; il diniego o la revoca dell�iscrizione di un�associazione all�anagrafe delle Onlus rispetto al conseguente provvedimento di disconoscimento delle relative agevolazioni; l�avviso di accertamento rispetto al provvedimento di fermo del pagamento di rimborso Iva. Per questi atti presupposti occorre distinguere tra quelli da impugnare separatamente (in ossequio al principio generale sancito dall�art. 19, d. lgs. n. 546/1992) e atti in cui � possibile la cognizione incidentale dei vizi dell�atto presupposto da parte del giudice investito del sindacato dell�atto conseguenziale. L�art. 19, d. lgs. n. 546/1992 stabilisce che ogni atto pu� essere impugnato solo per vizi propri, il che comporta che nessun atto pu� essere disapplicato nell�ambito di un giudizio relativo ad un altro atto. Se � vero che, in linea di massima, il giudice tributario dispone di ampi poteri di cognizione incidentale -con le sole eccezioni delle questioni in materia di querela di falso o di stato e capacit� delle persone (art. 2, comma 3, d. lgs. n. 546/1992) -, l�art. 19 esclude per� che questo potere di cognizione incidentale si estenda ai vizi e alla illegittimit� di provvedimenti diversi, ancorch� presupposti. Fanno eccezione i soli atti regolamentari e generali, per i quali l�art. 7, d. lgs. n. 546/1992 d� al giudice tributario un potere di disapplicazione, ferma restando la possibilit� di impugnarli in via principale davanti al giudice amministrativo. c) atti con presupposizione in senso improprio o �attenuata� (v. infra � 3.2). � il caso di: -atti conseguenziali che possono anche non essere preceduti dall�atto presupposto: sono atti cio� che presuppongono l�accertamento di una circostanza di fatto che � riportata, di norma, ma non necessariamente, in un atto che li precede. Possono per� anche essere emessi del tutto indipendentemente da detti atti (l�avviso di accertamento del maggior reddito e il separato atto di contestazione; il provvedimento di diniego o disconoscimento di un�agevolazione o di una esenzione (art. 19, lettera h), d. lgs. n. 546/1992) e il provvedimento di diniego del rimborso (art. 19, lettera g), d. lgs. n. 546/1992). -atti distinti che in realt� fanno capo a un rapporto unico (socio - societ� di persone: Cass., SS.UU., n.14815/2008 parla di pregiudizialit� secundum eventum litis) che possono essere impugnati in maniera separata, ancorch� con riunione obbligatoria, e in ogni caso garantendo il litisconsorzio necessario. Il litisconsorzio necessario non opera invece per il rapporto di presupposizione tra accertamento nei confronti di societ� di capitali a ristretta base azionaria e accertamento conseguenziale nei confronti dei soci (per i quali pure si presume la distribuzione degli utili extrabilancio). 2. Atti presupposti generali. 2.1 La disapplicazione. L�art. 7, d. lgs. n. 546/1992 conferisce al giudice tributario il potere di disapplicazione dei regolamenti e degli atti generali. Nel diritto amministrativo una delle differenze tra regolamenti e atti generali � costituita dalla impossibilit� di disapplicazione di questi ultimi da parte del giudice amministrativo (dinanzi al quale � ammessa la disapplicazione dei soli atti regolamentari), ci� in quanto uno dei principi del diritto amministrativo � quello dell�inoppugnabilit�. Lo stesso non vale per il giudice tributario che detiene poteri di disapplicazione incidentale anche degli atti generali. Casi pi� ricorrenti sono le delibere comunali che regolano l�applicazione della tassa sui rifiuti, spesso impugnato, forse anche perch� si tratta di un atto generale per il quale, in deroga alla legge n. 241/1990 (art. 3, comma 2), � prescritto l�obbligo di motivazione (art. 69, d. lgs. n. 507/1993). Ma vi sono anche i decreti ministeriali su parametri e studi di settore, il decreto ministeriale che individua l�elenco dei Paesi a regime fiscale privilegiato (c.d. black list), le delibere comunali che fissano l�aliquota Ici o Imu. 2.2 Il doppio binario della disapplicazione del giudice tributario e della tutela del giudice amministrativo. Quella del processo tributario � un tipo di disapplicazione particolare, che desta qualche perplessit� nella misura in cui la situazione giuridica soggettiva fatta valere dinanzi sia al giudice amministrativo che al giudice tributario � sempre fiscale, � sempre rivolta all�atto impositivo. A fronte di ci�, per il solo fatto che il petitum sia diverso (annullamento totale, mera disapplicazione incidentale) vi � una doppia giurisdizione rimessa alla scelta dell�interessato. Normalmente i fenomeni di doppia giurisdizione si accompagnano ad atti o comportamenti plurilesivi, che incidano cio� su situazioni giuridiche sog gettive eterogenee e soggette, nella loro diversit�, a giurisdizioni diverse. Non pare che questo avvenga nei casi in cui trova applicazione l�art. 7, d. lgs. n. 546/1992. L�atto regolamentare o generale � in astratto impugnabile dinanzi al giudice amministrativo, quando sia immediatamente lesivo della sfera giuridica del contribuente. La Corte di Cassazione ritiene che ai fini della disapplicazione non importa se tale impugnazione non sia avvenuta e l�atto regolamentare o generale sia divenuto inoppugnabile. L�inoppugnabilit� presuppone la impugnabilit�, dunque il fatto che l�atto avesse una immediata portata lesiva della posizione del contribuente. Tale pu� essere, ad esempio, la delibera comunale che aumenta le tariffe Tarsu o le aliquote Ici o Imu (non anche, probabilmente, le norme sugli studi di settore, o gli elenchi dei Paesi a fiscalit� privilegiata): si � al cospetto di de- libere immediatamente lesive e dunque, per questo, subito impugnabili con ricorso al giudice amministrativo. Se il contribuente non impugna questi atti generali o regolamentari, pu� poi chiederne la disapplicazione quando l�Amministrazione titolare del potere impositivo li applica nei suoi confronti. Ma siamo veramente al cospetto di una cognizione meramente incidentale che non aggira il principio dei termini di decadenza? Tutto sommato la situazione giuridica soggettiva fatta valere � sempre la stessa, ed � volta a evitare una maggiore imposizione. La ripartizione della giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario non esclude che comunque ogni atto debba essere impugnato, a pena di decadenza, entro un termine. �, pare, proprio questo il motivo per cui la giurisprudenza amministrativa ha escluso la disapplicazione dell�atto amministrativo nel giudizio amministrativo, fatta eccezione per i regolamenti, per i quali opera (anche) il principio della gerarchia delle fonti. Viene dunque da pensare che il potere di disapplicazione dovrebbe forse operare solo quando l�atto generale produca effetti che incidentalmente investano la causa principale, non quando l�atto generale costituisca il presupposto dell�atto impositivo e sia esso stesso gi� lesivo della posizione soggettiva del contribuente. 2.3 L�illegittimit� derivata per vizio dell�atto presupposto generale. Da un punto di vista sostanziale, il vizio dell�atto presupposto pu� integrare una ipotesi di illegittimit� derivata, dal momento che il giudice tributario pu� disapplicarlo e rilevare l�illegittimit� dell�atto conseguenziale. Questo effetto derivato dovrebbe operare, indistintamente, sia per vizi formali (es. decreto ministeriale emesso senza il previo parere del consiglio di stato) sia per vizi sostanziali (cattivo esercizio della discrezionalit�). Occorre per� verificare, caso per caso, come in concreto l�illegittimit� dell�atto incida sull�atto conseguenziale, o meglio, sulla generalit� degli atti conseguenziali. In primo luogo, per poter dichiarare la illegittimit� derivata dell�atto conseguenziale occorre che il contribuente abbia dedotto, con ricorso, il vizio dell�atto presupposto. Resta infatti fermo il principio dispositivo del processo tributario, di tal che, in caso di annullamento da parte del TAR dell�atto presupposto, non vi � una illegittimit� derivata di massa degli atti conseguenziali: � sempre necessario che il contribuente impugni (o abbia impugnato) nei termini l�atto conseguenziale deducendo quel vizio. Ove il vizio sia stato dedotto occorre verificare come incide l�illegittimit� dell�atto presupposto. Ad esempio, in caso di decreto illegittimo che preveda uno studio di settore, il suo annullamento (o la sua disapplicazione) dovrebbe determinare il venir meno della presunzione semplice del reddito. Ne deriverebbe, seguendo una impostazione pi� formalistica, l�illegittimit� ex se dell�accertamento che si � limitato a valutare negativamente le prove contrarie fornite nel contraddittorio dal contribuente senza fornire elementi probatori costitutivi della pretesa tributaria e a monte del maggior reddito. Per altro verso si potrebbe ritenere che, una volta introdotto il giudizio di merito, essendo quello tributario un giudizio sul rapporto, si verificherebbe la semplice inversione dell�onere della prova a carico dell�Amministrazione, che per� a rigore non potrebbe presentare nuovi elementi probatori non contenuti nella motivazione dell�accertamento. Occorre quindi distinguere se l�accertamento si basasse esclusivamente sullo scostamento del reddito dichiarato dal reddito desumibile dallo studio di settore, o se tenesse conto comunque di altri elementi indiziari ad abundantiam (in questo secondo caso il giudizio dovrebbe proseguire sul rapporto). Lo stesso dovrebbe dirsi se ad essere annullato o disapplicato � il decreto contenente l�elenco dei Paesi a fiscalit� privilegiata, nel giudizio nel quale si discuta della effettiva residenza del contribuente, ritenuto evasore totale per non aver fornito la prova prescritta. Se invece viene annullata o disapplicata una delibera tariffaria o un�aliquota, verosimilmente trova applicazione la precedente delibera e dunque le precedenti tariffe, senza possibilit� per il giudice tributario di sostituirsi al- l�amministrazione nella determinazione delle tariffe. Per le delibere tariffarie sui rifiuti v. Cass., n. 16937/2007 ma anche Cass., n. 9415/2005, dove si precisa che, accertata la contrariet� di un regolamento comunale a una previsione normativa, il giudice deve limitarsi a disapplicarlo e verificare la legittimit� dell�atto impositivo alla luce della normativa vigente e applicabile. 2.4 Limiti al potere di disapplicazione. La Corte di Cassazione ha affermato che il potere di disapplicazione sia esercitabile anche quando l�atto � divenuto inoppugnabile, con l�unico limite del giudicato amministrativo, che s�impone al giudice tributario in modo diverso a seconda che sia: a) confermativo della legittimit� dell�atto presupposto: il giudicato vincola il giudice tributario solo se la decisione del giudice amministrativo � stata resa nel contraddittorio tra le stesse parti (Cass., SS.UU. n. 8277/2008); b) di annullamento dell�atto presupposto: il giudicato vincola sempre il giudice tributario visto che l�annullamento opera ex tunc ed erga omnes, dunque non � necessario il contraddittorio con il contribuente che se ne avvantaggia. Per il resto, il giudice tributario pu� disinteressarsi dell�esito del giudizio amministrativo, e in particolare: -non � tenuto a sospendere il giudizio tributario ex art. 295, c.p.c.: per costante orientamento della Corte di Cassazione l�art. 295 non opera in questi casi, dal momento che il giudice tributario ha poteri di disapplicazione e quindi di cognizione incidentale, e considerato poi che la Cassazione non ammette la sospensione per pregiudiziali pendenti dinanzi a giurisdizioni diverse. -non � vincolato dal giudicato confermativo reso con altre parti. Nei casi in cui il giudice tributario debba attenersi al giudicato amministrativo (ossia nelle ipotesi appena descritte sub a) e b), se il giudicato interviene nel corso del giudizio, questo sar� effettivamente vincolante per lui. Cosa succede se il giudicato sull�atto presupposto interviene invece dopo la decisione sull�atto conseguenziale? Come si risolve l�eventuale conflitto tra giudicati? Il giudicato amministrativo successivo non dovrebbe poter incidere su situazioni ormai definite con sentenza passata in giudicato (n� peraltro divenute inoppugnabili per mancata impugnazione). In particolare, il giudicato di annullamento dell�atto regolamentare o generale non fa venir meno quello del giudice tributario in cui sia stata dichiarata (incidenter tantum) la legittimit� degli stessi: il giudicato di annullamento si comporterebbe insomma come le decisioni della Corte Costituzionale che operano ex tunc ma non incidono sulle situazioni ormai consolidate per essersi il relativo rapporto esaurito. Dunque � possibile avere, teoricamente, soluzioni diverse per cause aventi ad oggetto atti conseguenziali rispetto al medesimo atto presupposto, oggetto di una causa pregiudiziale, ove dette cause siano incardinate in momenti diversi: se l�atto lesivo � stato emesso prima del giudicato amministrativo sul- l�atto presupposto (che in teoria pu� arrivare anche anni dopo l�emanazione dell�atto generale presupposto), il giudice tributario pu� decidere e disapplicare liberamente. Se l�atto � emesso dopo, il giudice tributario deve attenersi al giudicato amministrativo formatosi sull�atto presupposto. 2.5 Configurabilit� di un potere di disapplicazione d�ufficio. La disapplicazione non pu� ovviamente essere disposta d�ufficio dal giudice tributario (Cass., n. 15285/2008), ma il contenuto del ricorso va valutato con elasticit�, nel senso che non � necessaria una espressa formalizzazione della richiesta di disapplicazione, essendo sufficiente che il ricorrente deduca il vizio dell�atto presupposto a fondamento della impugnazione dell�atto conseguenziale. Occorre comunque allegare l�atto presupposto illegittimo e indicare i suoi vizi. Per i regolamenti, questo principio � mitigato dal fatto che la sua disapplicazione � imposta dal principio di gerarchia delle fonti e dalla regola secondo cui iura novit curia. 2.6 Principio del contraddittorio. Secondo la Corte di Cassazione la disapplicazione non richiede il contraddittorio con l�autore dell�atto presupposto (Cass., n. 16937/2007: �Il sindacato incidenter tantum di un atto amministrativo presupposto dell�imposizione, finalizzato alla disapplicazione di tale atto con riflessi sulla legittimit� dell�atto impositivo impugnato, non pu�, infatti, comportare l�esi genza di un contraddittorio nei confronti del soggetto autore dell�atto presupposto. Si consideri, d�altra parte, che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte (sentenze 18541/03; 139, 181, 12598, 17934 del 2004) il processo tributario non consente l�intervento adesivo dipendente e, in generale, la partecipazione di soggetti che non siano parti del rapporto tributario, essendovi ammessi soltanto i soggetti che hanno partecipato direttamente all�emissione dell�atto impositivo o che ne sono diretti destinatari� ). 3. Atti presupposti particolari. 3.1 L�illegittimit� derivata dal vizio dell�atto presupposto particolare. L�illegittimit� derivata opera in modo diverso a seconda che si tratti di: a) illegittimit� di atto prodromico: questa comporta l�illegittimit� derivata dell�atto impositivo finale. Si tratta di una illegittimit� viziante, occorre sempre impugnare l�atto finale; b) atti presupposti: non si pu� parlare in questo caso di illegittimit� derivata: nel diritto tributario il vizio dell�atto presupposto particolare non contagia l�atto finale: anche in presenza di un collegamento funzionale tra gli atti, gli stessi, ai sensi dell�art. 19, d. lgs. n. 546/1992, sono caratterizzati da una particolare autonomia, che comporta: - il consolidamento degli effetti in caso di mancata tempestiva impugnazione; -la impugnabilit� limitata ai soli vizi propri dell�atto. Fanno eccezione, come visto, gli atti regolamentari e generali che possono essere disapplicati nel giudizio relativo all�atto particolare. Il riflesso viziante delle vicende dell�atto presupposto sull�atto conseguente pu� essere duplice: * l�atto presupposto manchi del tutto (ex art. 19, comma 3): non si � al cospetto di una illegittimit� derivata dell�atto conseguenziale, ma di una sua illegittimit� propria. L�atto conseguenziale � nullo per situarsi nella sequenza procedimentale senza il suo antecedente necessario. � un vizio di illegittimit� del solo atto immediatamente successivo e conseguenziale: ai sensi dell�art. 19 la mancata notifica dell�atto presupposto deve comunque essere fatta valere censurando, nei termini, l�atto conseguenziale. Per cui, se non si impugna l�atto immediatamente successivo nella sequenza, ancorch� viziato per la mancanza dell�atto presupposto, tale vizio non potr� pi� essere fatto valere impugnando l�atto ancora successivo, parte della medesima sequenza. La mancanza dell�atto presupposto inficia di invalidit� solo l�atto immediatamente successivo, e non quello che viene ancora dopo; su questo si veda infra � 4. Dal punto di vista della mediazione, l�art. 17-bis, d. lgs. n. 546/1992 (introdotto dal d. lgs. n. 28/2010) la limita agli atti emessi dall�Agenzia delle entrate, sono dunque esclusi gli atti del concessionario, come la cartella di pagamento. Ma se la impugnazione, ad esempio, della cartella di pagamento si fonda sul vizio dell�atto presupposto emesso dall�Agenzia delle entrate (come la mancata notifica dell�avviso di accertamento), a rigore dovrebbe prima procedersi alla mediazione. ** l�atto presupposto venga a mancare (per annullamento giurisdizionale dello stesso): nella sequenza procedimentale il segmento precedente, che costituisce titolo per il segmento successivo, viene meno. Questa circostanza non pu� non influire sull�atto conseguenziale, sia pure in via sopravvenuta. L�illegittimit� sopravvenuta dell�atto conseguenziale, ove non impugnato (perch� privo di vizi propri), e magari inoppugnabile, deve essere fatta valere con istanza di autotutela, su cui si torner� infra � 7. In particolare nel rapporto tra accertamento e riscossione, se viene impugnato l�accertamento e non la riscossione, e l�accertamento viene annullato, deve cadere anche la riscossione, anche senza bisogno del passaggio in giudicato di annullamento dell�accertamento (arg. ex art. 68, comma 2, d. lgs. 546/1992; v. anche Cass., n. 10436/2003). 3.2 La presupposizione impropria o �attenuata�. I motivi dell�annullamento dell�atto presupposto: vizi di forma o vizi sostanziali. Nella sequenza ordinaria �accertamento - cartella - avviso di mora� vi � un rapporto di dipendenza assoluta: qualunque sia il motivo (formale o sostanziale) che fa cadere l�atto presupposto, cadr� anche l�atto conseguenziale. Lo stesso vale in altri casi di presupposizione: mancata iscrizione a onlus / diniego di agevolazioni; attribuzione rendita catastale / avviso di accertamento imposta di registro o ici. Ma non � sempre cos�. Si pensi al rapporto atto di accertamento / atto di contestazione per il medesimo periodo d�imposta, o ancora il diniego del diritto a una esenzione e il diniego di rimborso: se il primo cade per un vizio di forma, ci� non vuol dire che il secondo sia ugualmente illegittimo, avendo comunque una sua autonomia e non avendo bisogno del primo per esistere. Lo stesso, come visto, vale per la presupposizione tra atti relativi alla societ� di persone e atti che accertano, in via derivata, il maggior reddito da partecipazione del socio. Sono atti con presupposizione attenuata (socio/societ�): fanno capo a un rapporto plurisoggettivo unitario, ma in realt� ogni atto ha una sua autonomia sostanziale (oltre che processuale, ex art. 19 cit.) e investe soggetti diversi. Quindi s�impongono il litisconsorzio necessario, la riunione obbligatoria dei giudizi incardinati separatamente, ma non la sospensione necessaria del giudizio sulla posizione del socio, visto che il giudicato sull�atto presupposto non � opponibile a chi non � stato parte del giudizio sulla societ�. L�atto dei soci presuppone quello della societ�, ma quest�ultimo non co stituisce condizione necessaria per l�emanazione del primo: l�atto del socio deve comunque contenere una sua autonoma motivazione. Per cui se manca l�accertamento nei confronti della societ� (o se questo viene annullato, o, ancora, se la societ� si estingue per cancellazione prima della notifica dell�accertamento che la riguarda), l�atto impositivo nei confronti del socio non � di per s� illegittimo o caducato. In particolare, se l�accertamento nei confronti della societ� viene dichiarato illegittimo per motivi di forma, questo non vuol dire che la ripresa fiscale non sia sostanzialmente corretta e quindi l�atto del socio sia illegittimo. Del pari, se il socio contesta la sua percentuale di partecipazione alla societ�, la conferma della legittimit� dell�accertamento verso la societ� non significa necessariamente la legittimit� dell�accertamento nei confronti del socio (cui l�accertamento della societ� sia opponibile). Per questi atti non vi � quindi un rapporto di presupposizione assoluta. 3.3 Sanabilit� della mancata o irrituale notifica dell�atto presupposto. La Corte di Cassazione ha chiarito, in ordine all�applicazione dell�art. 19, d. lgs. n. 546/1992, che l�omessa notifica (o anche la nullit� della stessa) dell�atto presupposto determina sempre la nullit� dell�atto conseguenziale, e non rimette semplicemente in termini il contribuente per impugnare l�atto presupposto. Secondo Cass., SS.UU., n. 16412/2007, in caso di mancata o irrituale notifica dell�atto presupposto, l�atto conseguenziale � nullo, e il contribuente pu� scegliere: -se impugnare solo l�atto conseguenziale e ottenerne l�annullamento; - o impugnare anche l�atto presupposto: ove voglia far accertare nel merito la illegittimit� della pretesa, e sempre che vi abbia interesse (ad esempio quando l�amministrazione � ancora in termini per reiterare l�atto, o quando si tratti di atto concernente pi� periodi d�imposta, e puntando a un giudicato esterno). La Suprema Corte precisa che il giudice tributario deve interpretare la domanda e capire quale sia la scelta del contribuente: nel caso di doppia impugnazione si potrebbe anche arrivare a una conferma della legittimit� dell�atto presupposto. La facolt� data al contribuente serve a risolvere subito e scongiurare nuovi contenziosi tributari, ma in questo modo, sembra dire la Cassazione, il contribuente rinuncia al motivo di doglianza del mancato rispetto della corretta sequenza procedimentale: la scelta, dice la Corte, � tra �impugnare il solo atto successivo (notificatogli) facendo valere il vizio derivante dall�omessa notifica dell�atto presupposto - che costituisce vizio procedurale per interruzione della sequenza procedimentale caratterizzante l�azione impositiva e predisposta dalla legge a garanzia dei diritti del contribuente (e per questo vincolante per l�amministrazione, ma disponibile da parte del garantito mediante l�esercizio dell�impugnazione cumulativa) -, oppure impugnare con l�atto conseguenziale anche l�atto presupposto (non notificato) facendo valere i vizi che inficiano quest�ultimo e contestando alla radice il debito tributario reclamato nei suoi confronti�. E ancora Cass., n. 9873/2011 ritiene che l�impugnazione congiunta dell�atto presupposto sani la nullit� della notifica dello stesso. La scelta del contribuente, tra limitarsi a chiedere l�annullamento dell�atto conseguenziale o sanare questo vizio e chiedere l�annullamento dell�atto presupposto, pu� essere dettata da varie considerazioni. La soluzione pi� cauta, a rigore, dovrebbe essere quella di impugnare la cartella da sola e in subordine anche l�accertamento. Pu� tuttavia essere pi� conveniente per il contribuente impugnare direttamente il solo accertamento (sanando il vizio della mancata notifica): quando l�accertamento � mal motivato o presenta vizi di forma, l�Amministrazione � ancora in termini per emanarlo ed il contribuente spera che il mancato esercizio tempestivo dell�autotutela sostitutiva porti ad un annullamento dell�atto di accertamento quando i termini per riemanarlo siano ormai scaduti. In questo senso la mediazione � uno strumento posto anche nell�interesse dell�Amministrazione per verificare tempestivamente se si � ancora in tempo per riadottare il provvedimento emendandolo di eventuali vizi di forma o di motivazione. 4. Vicende dell�atto presupposto e riflessi sull�atto conseguenziale. 4.1 Atto presupposto inoppugnabile. In linea generale l�atto presupposto inoppugnabile mette l�atto successivo al sicuro sotto il profilo del rispetto della sequenza procedimentale. L�atto successivo sar� impugnabile solo per vizi propri. Non sempre � cos�. Nel caso di presupposizione societ�/soci, l�avviso di accertamento societario non impugnato dalla societ� non giustifica una riscossione diretta nei confronti del socio per redditi da partecipazione: occorre notificare al socio l�avviso di accertamento che lo riguarda. Cosa diversa � la riscossione della pretesa vantata solidalmente nei confronti della societ� e illimitatamente dei soci, dove la notifica dell�accertamento alla societ�, non impugnato, giustifica, senza necessit� di ulteriori notifiche dello stesso ai soci, l�iscrizione a ruolo nei loro confronti e l�emissione della cartella di pagamento; i soci possono per� sempre impugnare, insieme con la cartella o l�avviso di mora, l�accertamento presupposto (che quindi per loro non � definitivo, e consente loro di avere sanzioni pi� favorevoli in caso di mutamenti normativi, ex art. 3, comma 3, d. lgs. n. 472/1997 v. Cass., n. 29625/2008). 4.2 Atto presupposto impugnato. Se l�atto presupposto � impugnato, e il contribuente riceve la notifica dell�atto conseguenziale, due sono le ipotesi: a) l�atto conseguenziale non ha vizi propri: non viene impugnato e si aspetta l�esito del giudizio sull�atto presupposto (v. supra � 3.1, lett. b)**). b) l�atto conseguenziale presenta vizi propri: allora viene impugnato in separato giudizio che, ove non possa essere riunito al primo, pone il problema della sospensione del processo (v. infra � 5). 4.3 Atto presupposto ritenuto legittimo con sentenza passata in giudicato. Se l�atto presupposto � legittimo, l�atto conseguente non pu� ovviamente cadere per i vizi dell�atto presupposto. Nel caso di presupposizione societ�/socio, nonostante si tratti di un rapporto unitario, il giudicato di conferma relativo alla societ� � opponibile ai soci solo se sia stato rispettato il litisconsorzio necessario, altrimenti si deve comunque svolgere un nuovo giudizio sui vizi dell�atto relativo al socio. Occorre ricordare che la motivazione dell�accertamento nei confronti dei soci, se richiama l�accertamento della societ� lo deve allegare o riportare nel contenuto essenziale (secondo Cass., n. 14815/2008, l�accertamento societario va notificato unitariamente anche a tutti i soci; afferma Cass., n. 8166/2011 che � sufficiente l�accertamento dei soci riporti in motivazione gli elementi su cui si fonda l�accertamento nei confronti della societ�). La motivazione della sentenza sul socio pu� richiamare la sentenza confermativa dell�atto presupposto sulla societ� solo se costituisce un giudicato formatosi tra le stesse parti, o altrimenti (nel caso di violazione della regola sul litisconsorzio necessario) pu� riprodurne la motivazione e farla propria (Cass., n. 14815/2008). Per quest�ultima ipotesi, peraltro, la Cassazione ha puntualizzato che, violando le regole del contraddittorio, se si conclude il giudizio nei confronti della societ� o di alcuni soci, il giudicato sfavorevole non � opponibile (per i limiti soggettivi dell�art. 2909, c.c.) al socio estraneo per quel che riguarda la sua posizione. Tale giudicato non � per� tamquam non esset e integra un documento che il giudice deve valutare sia pure senza una mera motivazione per relationem (Cass., n. 11459/2009). 4.4 Atto presupposto ritenuto illegittimo con sentenza (anche non passata in giudicato). La sentenza che annulla l�atto presupposto, in teoria, fa cadere l�atto conseguenziale. Non vi � bisogno di un giudicato, anche se, a rigore, il giudice dell�atto conseguenziale deve sospendere ex art. 295, c.p.c. e aspettare il passaggio in giudicato della sentenza che ha annullato l�atto presupposto. Ad ogni modo ai fini della (caducazione della) riscossione non � necessario il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dell�accertamento, visto l�art. 68, d. lgs. 546/1992. * Il giudicato di annullamento dell�atto presupposto � opponibile all�amministrazione, anche se reso nei confronti di un�Amministrazioni diversa (quindi anche superando l�art. 2909, c.c.). Ad esempio, nel rapporto tra gli atti di attribuzione della rendita catastale (impugnati al giudice tributario contro l�Agenzia del territorio) e i conseguenziali atti impositivi (registro/Agenzia delle entrate; ici-imu/comune), la Cassazione ritiene che il giudicato si estenda anche al terzo comune o all�Agenzia delle entrate che non siano stati parti del giudizio presupposto, essendo la loro una posizione dipendente, e senza che vi sia un litisconsorzio necessario nel giudizio presupposto. La dottrina al riguardo ha manifestato qualche perplessit�, soprattutto per la posizione del comune che in astratto potrebbe essere legittimato a impugnare la insufficiente rendita catastale, visto che influisce sul gettito fiscale a suo favore, e quindi dovrebbe poter prendere parte al giudizio sulla rendita, e non subirlo da estraneo. La possibilit� di una interferenza tra giudicati porta a ritenere possibile la sospensione ex art. 295, c.p.c. anche se le parti sono diverse. ** Nei rapporti societ�/socio la sentenza n. 14815/08 stabilisce che il socio estraneo pu� avvantaggiarsi del giudicato favorevole su questioni comuni formatosi nel giudizio con la societ� o anche con singoli altri soci (e nel caso di giudicato parzialmente favorevole, il socio pretermesso pu� avvantaggiarsene, ferma restando la possibilit� di chiedere l�annullamento totale del suo atto, visto che la parte sfavorevole alla societ� non � a lui opponibile ex art. 2909) (v. anche Cass., n. 14014/2007). *** Vi � per� il limite del giudicato sfavorevole o della inoppugnabilit� maturati nei confronti del socio estraneo: secondo Cass., n. 14011/2012 (e gi� Cass., n. 11469/2009) l�accoglimento del ricorso proposto da una societ� di persone, con conseguente annullamento dell�avviso di accertamento, esplica effetti positivi nei confronti dei soci che insorgano avverso la medesima violazione tributaria, a condizione che non si sia formato un precedente giudicato nei confronti dei soci o sia divenuto definitivo, per mancata impugnazione, l�accertamento effettuato nei confronti del socio. Quest�ultimo, infatti, non pu� invocare l�eventuale annullamento dell�accertamento emesso a carico della societ� per rimettere in discussione la definitivit� di quello che lo riguarda, poich� tale decisione � stata pronunciata in una causa fra parti diverse e, dunque, non � idonea a travolgere il giudicato o la definitivit� dell�accertamento formatosi nei suoi confronti. 5. La sospensione del processo avente ad oggetto l�atto conseguenziale: problemi sull�applicazione dell�art. 295, c.p.c. 5.1 La sospensione nel processo tributario. Un tema ampiamente dibattuto nel processo tributario � quello della possibilit� di disporre in esso la sospensione ex 295, c.p.c. L�art. 39 del d. lgs. n. 546/1992 ammette la sospensione in caso di querela di falso e per le questioni di stato e capacit�. La Corte di Cassazione ha per� chiarito che si pu� (e si deve) disporre la sospensione di cui all�art. 295, c.p.c. anche nel giudizio tributario (per effetto del richiamo operato dall�art. 1, d. lgs. n. 546/1992 alle norme del processo civile), rispetto ad un altro giudizio tributario pregiudiziale (c.d. pregiudiziale interna), non anche in relazione a pregiudiziali per altre giurisdizioni. Fanno eccezione la querela di falso e le questioni di stato e capacit�, per le quali � ammessa la sospensione con pregiudiziale esterna, ai sensi dell�art. 39, d. lgs. n. 546/1992. Nel processo tributario, il giudice ha in generale poteri di cognizione incidentale (art. 2, comma 3, d. lgs. n. 546/1992), con l�eccezione dell�esame dei vizi degli atti presupposti, che sono - come visto - autonomamente impugnabili e dunque non possono essere oggetto di cognizione incidentale da parte del giudice, se non in casi limitati (ossia quelli in cui, ai sensi dell�art. 7, d. lgs. n. 546/1992, � ammessa la disapplicazione). Fuori dai casi di disapplicazione, quindi, il giudice tributario deve necessariamente sospendere ove sia contestata la legittimit� di un atto presupposto, impugnato (comՏ prescritto dal legislatore) in separato giudizio. Nel processo civile, la ratio della sospensione ex art. 295, c.p.c. � quella di ovviare ai casi in cui sulla questione pregiudiziale non sia possibile la riunione con il giudizio principale, ed eccezionalmente, in quest�ultimo, non sia possibile la decisione sulla questione pregiudiziale (ossia quando le parti o la legge impongano che questa sia decisa con effetto di cosa giudicata). La Corte di Cassazione non vede favorevolmente l�istituto della sospensione, perch� contrastante con l�art. 111, Cost., con l�art. 6, CEDU e il principio della durata ragionevole del processo. Ma nel processo tributario, dove � sempre precluso l�accertamento incidentale del vizio dell�atto presupposto, salva la disapplicazione dell�art. 7, la sospensione � imprescindibile. Va peraltro rilevato che secondo la Corte di Cassazione, nell�ambito del processo civile, la sospensione deve essere esclusa nei casi in cui sia possibile ricorrere all�effetto espansivo esterno del giudicato (art. 336, c.p.c.; v. infra � 6), cio� nei casi di pregiudizialit� logica e non tecnico-giuridica, che scongiura il rischio di conflitto di giudicati. Sotto altro profilo, se non si sospende, da un lato si scongiura un processo troppo lungo, ma dall�altro se ne porta avanti uno inutile. La sospensione pu� allora essere opportuna. Non pare tuttavia che possa parlarsi, nel processo tributario, di sospensione facoltativa: la sospensione � un rimedio estremo (che ritarda la conclusione del processo) che va disposto solo quando � strettamente necessario. 5.2 Casi di presupposizione in cui non si pu� dar luogo alla sospensione ex art. 295, c.p.c. Come detto, in linea di massima, in caso di presupposizione il giudice tributario deve sospendere. La Corte di Cassazione ha escluso alcune ipotesi di pregiudizialit�: a) atto presupposto generale o regolamentare: in questo caso non si pu� dar luogo alla sospensione sia perch� il giudice tributario dispone di poteri di cognizione incidentale (disapplicazione) sia perch� si tratterebbe di pregiudizialit� esterna con la giurisdizione del giudice amministrativo. In Cass., n. 9673/2010 si ammette una sospensione facoltativa anche in presenza di pregiudiziale dinanzi al giudice amministrativo. La soluzione lascia per� perplessi visto che il giudice tributario ha un potere di disapplicazione, e dunque la sospensione non � indispensabile, come invece negli altri casi di pregiudiziale con un atto soggetto alla giurisdizione tributaria. b) presupposizione impropria societ� di persone-socio: la Corte di Cassazione (SS.UU. n. 14815/2008) ha escluso l�applicazione dell�art. 295, c.p.c., dal momento che non si tratta di giudizi in cui l�attivit� dell�amministrazione � realmente frazionata (es. accertamento - contestazione sanzione; rendita catastale - accertamento ici), ma di un unico rapporto plurisoggettivo: il rimedio allora � l�unitariet� necessaria del processo, perseguita con gli strumenti della riunione dei giudizi o comunque del litisconsorzio necessario con il socio nel giudizio societario. Ove patologicamente non si realizzi n� la riunione n� il litisconsorzio necessario, la sospensione del giudizio del socio estraneo � comunque inutile, ritiene la Corte di Cassazione, perch� il giudicato societario non � opponibile ai soci estranei. Per la verit� questo orientamento non tiene conto del fatto che il socio potrebbe trarre una utilit� dal giudicato favorevole sulla societ�, e quindi avere un interesse alla sospensione, che non potrebbe che giovargli: se il giudicato � favorevole se ne appropria e ne trae vantaggio, se � sfavorevole non gli � opponibile. Nel caso di societ� di capitali a ristretta base azionaria, dal momento che non opera il litisconsorzio necessario, deve procedersi alla sospensione ex art. 295, c.p.c. del giudizio avente ad oggetto l�accertamento nei confronti del socio. c) giudizi senza identit� di parti: la Corte di Cassazione in generale ritiene che per la sospensione, ai sensi dell�art. 295, c.p.c., sia necessaria una identit� di parti tra i due giudizi, visto che poi la sospensione serve a evitare conflitto di giudicati. Fanno eccezione i casi in cui la Corte di Cassazione ammette l�estensione di giudicato anche a parti estranee al processo pregiudiziale e senza litisconsorzio necessario: ad esempio per gli atti di attribuzione della rendita catastale (impugnati dinanzi al giudice tributario contro l�Agenzia del Territorio) rispetto agli atti impositivi (imposta di registro/Agenzia entrate; Ici-Imu/comune): la decisione si estende anche al terzo comune o all�Agenzia delle entrate che non siano stati parti del giudizio presupposto, essendo la loro una posizione dipendente, e senza che vi sia un litisconsorzio necessario nel giudizio presupposto (v. � 4.4). 5.3 Ricadute del giudicato pregiudiziale nel giudizio sospeso. Una volta decisa la causa pregiudiziale, gli effetti sono vincolanti per il giudice dell�atto conseguenziale: v. Cass., n. 2535/2011. Ma � necessario il giudicato, o � sufficiente una sentenza ancora non definitiva? Laddove vi � obbligo di sospensione, occorre aspettare il giudicato, cio� continuare a tenere sospeso il giudizio conseguente. In Cass., n. 1865/2012 si dice che l�accertamento pregiudiziale di una societ� a ristretta compagine sociale pu� estendere i suoi effetti solo se passato in giudicato; il giudice non pu� quindi prendere per buona la sentenza non definitiva ma deve sospendere ex art. 295, c.p.c. Resta fermo che, in ogni caso, l�accertamento conseguenziale nei confronti dei soci non � subordinato alla definitivit� dell�accertamento nei confronti della societ�. Sul punto v. anche Cass., n. 11962/2012, dove si dice che per far cadere il fermo non basta l�annullamento non passato giudicato dell�accertamento presupposto. Del resto se non si aspettasse il giudicato, si tratterebbe di una disapplicazione dell�atto presupposto (non generale o regolamentare) contraria ai limiti della cognizione incidentale del giudice tributario (Cass., n. 9999/2006). Nel caso in cui non vi sia la sospensione, le cose sono diverse. In Cass., n. 18122/2009 si legge che �una pronuncia del giudice amministrativo, soprattutto se passata in giudicato, non pu� non svolgere effetto vincolante nel processo tributario�. 6. Conflitto di giudicati. La revocazione ex art. 395, c.p.c. e l�effetto espansivo esterno ex art. 336, c.p.c. La revocazione di una sentenza, ai sensi dell�art. 395, n. 5, c.p.c., richiede identit� di parti e di oggetto, non essendo sufficiente che uno dei due giudicati riguardi un antecedente logico necessario dell�altro (Cass., n. 13870/1999, e poi, in ambito tributario, Cass., n. 14045/11). Va per� aggiunto, concentrando l�attenzione sul processo tributario, che la Suprema Corte afferma l�operativit� del giudicato esterno, come vincolante per il giudice tributario, anche senza identit� di parti o di oggetto: in questi casi dovrebbe allora essere possibile anche la revocazione ex art. 395, n. 5, c.p.c. La giurisprudenza con cui, a partire dalla nota sentenza n. 13916/2006 delle Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha affermato l�estensione del giudicato esterno formatosi sulle qualificazioni giuridiche o sugli altri elementi preliminari destinati a valere per pi� anni, dovrebbe valere anche per l�atto presupposto. Ma in realt� occorre distinguere: a) rapporto di presupposizione in senso stretto. � quello in cui l�atto conseguenziale non si fonda sul contenuto dell�atto presupposto ma sulla sua esistenza (ad esempio la cartella rispetto all�avviso di accertamento, il diniego agevolazione rispetto alla revoca della qualifica di Onlus, o il fermo del rimborso rispetto all�avviso di accertamento). In questo caso il rapporto di presupposizione � dato dalla necessit�, nella sequenza procedimentale, dell�esistenza dell�atto presupposto su cui il giudice dell�atto conseguenziale, peraltro, non ha alcun potere di cognizione. Ciascun atto � sindacabile solo per vizi propri. Qui allora non abbiamo un conflitto di giudicati, ma un rapporto di dipendenza dell�uno rispetto all�altro, e, pertanto, il rimedio � quello dell�operativit� del c.d. effetto espansivo esterno ex art. 336, c.p.c., e non della revocazione ex art. 395, n. 5, c.p.c. Nel rapporto tra giudicati �difformi� legati da rapporto di presupposizione non prevale il giudicato anteriore (soluzione che deriverebbe dall�applicazione dello strumento della revocazione), ma sempre il giudicato (anche successivo) formatosi sull�atto presupposto, ai sensi dell�art. 336, c.p.c. Si ha, quindi, sull�atto conseguenziale un giudicato formale apparente che cade per effetto di una decisione contrastante sull�atto presupposto. Peraltro, per operare l�effetto espansivo esterno, la decisione per cos� dire pregiudiziale pu� anche non essere ancora definitiva: l�art. 336, c.p.c. non richiede il formarsi del giudicato per l�effetto caducatorio sulle pronunce dipendenti (sul rapporto tra artt. 295, 336, comma 2 e pregiudizialit� solo logica v. Cass., SS.UU., n. 14060/2004; in ambito tributario, nel rapporto accerta- mento/fermo, v. Cass., n. 11962/2012). b) presupposizione con giudicato amministrativo. Il giudicato amministrativo di annullamento di un atto presupposto regolamentare o generale non travolge il giudicato tributario nel quale il giudice tributario abbia esercitato in modo difforme il potere di disapplicazione, in via solo incidentale. Il giudicato non pu� toccare situazioni ormai definitive. Il giudicato di annullamento dell�atto regolamentare o generale non fa venir meno quello del giudice tributario in cui sia stata dichiarata la legittimit� del- l�atto conseguenziale n� la inoppugnabilit� di quest�ultimo. La situazione � simile a quella delle decisioni della Corte Costituzionale, che operano ex tunc ma non incidono sulle situazioni ormai consolidate per essersi il relativo rapporto esaurito. c) presupposizione impropria tra atti comunque autonomi. � il caso del rapporto tra diniego di agevolazione e diniego di rimborso, su cui v. Cass., n. 14045/2011: la Cassazione esclude l�applicazione dell�art. 336, c.p.c. perch� il giudice dell�atto conseguenziale ha comunque accertato in via incidentale, con efficacia di giudicato, il diritto all�agevolazione. L�atto conseguenziale non � dipendente dall�atto presupposto, perch� ha una sua autonoma motivazione (sia pure con un nucleo comune a quello che sostiene il diniego dell�agevolazione) su cui si former� un autonomo giudicato. In quel caso il rimborso viene negato non perch� � stata emesso il provvedimento di diniego dell�agevolazione con l�atto presupposto, ma perch� il rimborso non � dovuto. Analoga soluzione dovrebbe imporsi nel rapporto accertamento-contestazione sanzioni. Cos� stando le cose, il giudicato successivo sull�atto presupposto non travolge il giudicato precedente perch� non vi � un vero rapporto di dipendenza procedimentale, e semmai dovrebbe configurarsi una possibile applicazione dell�art. 395, n. 5, c.p.c. nei confronti del giudicato successivo (ancorch� formatosi sull�atto presupposto). Lo stesso dovrebbe valere nel rapporto societ� socio. Ma secondo la Corte di Cassazione il socio si avvantaggia del giudicato societario favorevole: -sempre: se era parte del giudizio societario: in teoria per� l�annullamento societario non dovrebbe travolgere l�accertamento del socio sfavorevole passato in giudicato ex art. 336, c.p.c. non trattandosi di pregiudizialit� in senso stretto ma di atti autonomi; -salvo giudicato o inoppugnabilit� a lui sfavorevoli: se non era parte nel giudizio societario. 7. Il potere/dovere di autotutela. Se l�atto conseguenziale non � impugnato, ma l�atto presupposto viene poi annullato, si pu� chiedere all�Amministrazione di agire in autotutela. L�autotutela non dovrebbe operare quando l�atto conseguenziale era gi� censurabile per i vizi concernenti l�atto presupposto: quindi nella ipotesi di presupposizione con atti generali o regolamentari (dovՏ possibile invocare la disapplicazione) e in quella di presupposizione impropria. In questi casi il giudicato di annullamento sull�atto presupposto non dovrebbe travolgere l�atto conseguenziale, e non dovrebbe consentire di ottenere l�autotutela a fronte di un atto conseguenziale ormai inoppugnabile perch� non impugnato o perch� coperto da giudicato confermativo. L�autotutela dovrebbe poter operare quando invece il vizio dell�atto presupposto non poteva essere dedotto impugnando l�atto conseguenziale. Avverso il diniego di autotutela, si ricorda che si configura un interesse legittimo tutelato dinanzi al giudice tributario, in cui possono farsi valere solo vizi intrinseci del diniego, non anche quelli relativi al rapporto sostanziale sottostante e all�esistenza dell�obbligazione tributaria (sul punto, v. Cass., n. 11457/2010; Cass., n. 16097/2009; Cass., SS.UU., n. 3698/2009). La Corte di Cassazione ammette l�impugnazione dell�autotutela con estensione del sindacato giurisdizionale al merito del rapporto tributario, in soli due casi: a) autotutela esercitata dall�Amministrazione nella quale si riesamini l�atto e lo si confermi; b) fatti sopravvenuti (Cass., n. 3608/2006). Osservazioni sul libro III, titolo I del codice del processo amministrativo Giuliano Gambardella* SOMMARIO: 1. Una necessaria premessa sul doppio grado di giurisdizione - 2. Le impugnazioni: definizione, collocazione sistematica e principi generali - 3. La disciplina delle impugnazioni nel nuovo codice del processo amministrativo - 4. Il nuovo articolo 98 c.p.a. e la disciplina delle misure cautelari dopo il d.lgs. 160/2012 - 5. Termine per impugnare: le novit� introdotte dal codice del processo - 6. Luogo di notificazione delle impugnazioni e deposito -7. Le impugnazioni incidentali ed il principio di concentrazione delle impugnazioni nel codice del processo amministrativo - 8. Il deferimento all�adunanza plenaria dopo i decreti legislativi 2 luglio n. 104, d. lgs. 195/2011 e d. lgs. 160/2012. 1. Una necessaria premessa sul doppio grado di giurisdizione. Nel processo amministrativo vige il principio del doppio grado di giurisdizione, secondo quanto previsto dagli articoli 100, 103 e 125 Cost. In applicazione di tali principi quindi l�appellabilit� delle sentenze dei T.a.r. trova fondamento nelle norme costituzionali, e precisamente nell�articolo 125 comma 2, ma non pu� essere ignorato come, abitualmente sia in dottrina che in giurisprudenza amministrativa, si sia dato per scontato il postulato che la Carta non garantisca in maniera assoluta il doppio grado di giurisdizione. Merita, a tal riguardo, fare alcune precisazioni. La prima riguarda la domanda che dovrebbe sorgere spontaneamente, circa le ragioni per le quali il costituente avrebbe voluto garantire il doppio grado di giurisdizione solamente per la giustizia amministrativa e non anche per quella civile e penale, dato che, mentre questi ultimi due tipi di tutela giudiziale vantavano una tradizione legislativa ed applicativa di lungo corso, la giurisdizione amministrativa presentava contorni non ancora definiti, sia perch� gli interessi sottesi alla tutela giudiziaria ordinaria (civile e penale) non apparivano di rango deteriore rispetto alla tutela degli interessi legittimi che (a parte i casi di giurisdizione esclusiva) formava il contenuto storicamente essenziale della giustizia amministrativa, sia perch�, a parte la conservazione dei tradizionali organi di giustizia amministrativa (Consiglio di Stato e Corte dei Conti), anche per gli altri organi della giustizia amministrativa richiamati dall�articolo 103 cost., si era programmata una pronta revisione per bonificare il campo della giustizia amministrativa da ogni residuo di giurisdizioni speciali incompatibili con la Costituzione (VI disp. trans. e fin. Cost.). L�altra precisazione va fatta, invece, con riferimento al profilo sistematico, avuto riguardo alla topografia della Carta, dove tutte le disposizioni con (*) Dottorando di ricerca in Diritto ammiinistrativo - Universit� degli Studi di Roma Tor Vergata. cernenti la Magistratura trovano collocazione sistematica nel titolo IV di omonima intitolazione, mentre l�articolo 125 comma 2 che viene invocato come base costituzionale del doppio grado della giurisdizione amministrativa rientra nel titolo V dedicato alle autonomie locali. Deve essere aggiunto che �di organi di giustizia amministrativa di primo grado�, l�art. 125 Cost. parla solamente nel secondo comma (oramai unico comma dopo la soppressione del primo ad opera della riforma costituzionale del 2001), quasi come se si trattasse di una disposizione di secondaria importanza rispetto alla materia trattata nel comma precedente, dedicato ai controlli sugli atti amministrativi degli enti pubblici regionali. La funzione del T.a.r. originariamente era infatti quella di completare il quadro dei controlli (sia amministrativo che giurisdizionale) sul nuovo tipo di atto amministrativo che di li a poco sarebbe stato emesso dal nuovo apparato amministrativo di secondo livello. Come osservato dalla dottrina pi� attenta, dovrebbe apparire inverosimile che una disposizione cosi innovativa in materia giurisdizionale, quale la previsione di un importantissimo ufficio giudiziario e l�affermazione sia pure indiretta ma formalmente esplicita di una garanzia costituzionale a tutela del doppio grado di giurisdizione fosse collocata nel titolo V della costituzione anzich� in quello precedente assieme a tutte le altre disposizioni costituzionali concernenti la materia giudiziaria. Diversamente, in precedenza (e cio� prima dell�entrata in vigore della legge n. 1034/1971 istitutiva dei T.a.r.), il Consiglio di Stato era visto come il fulcro dell�intero sistema della giustizia amministrativa, non gi� come mero organo di revisione di sentenze di altro organo di giustizia amministrativa. Prima dell�istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, la giunta provinciale amministrativa aveva funzioni molto rilevanti, che comprendevano: il controllo di legittimit� e di merito (la cosiddetta "tutela") sugli atti della provincia, dei comuni, dei loro consorzi e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB); funzioni di giudice amministrativo per ricorsi contro provvedimenti amministrativi di tali enti nonch� per il contenzioso elettorale relativo ai loro organi. Quando la G.P.A. operava come giudice amministrativo sedevano nel collegio solo il prefetto, i due funzionari della carriera prefettizia e due dei membri eletti dal consiglio provinciale, il pi� anziano e il pi� giovane (era la cosiddetta sezione speciale, in contrapposizione alla sezione ordinaria composta da tutti i membri). Successivamente, le funzioni di giudice amministrativo sono state dichiarate incostituzionali dalla Corte costituzionale con sentenza n. 33 del 9-20 aprile 1968, poich� la posizione di dipendenza gerarchica dal Governo del prefetto e dei membri da lui designati ne pregiudicava l'indipendenza. Ora queste funzioni spettano al tribunale amministrativo regionale (TAR) istituito con legge n. 1034/1971. Diversi i problemi che sono emersi a seguito dell�abolizione delle Giunte provinciali amministrative; si citano principalmente i problemi delle decisioni non passate in giudicato e l�attribuzione della competenza al Consiglio di Stato ed al Consiglio di giustizia amministrativa. Con riferimento al primo si poneva in giurisprudenza il problema delle decisioni emesse dalle G.P.A. e non ancora passate in giudicato al momento della pronuncia della Corte Costituzionale. La giurisprudenza (1) ha chiarito che l�efficacia di tale pronuncia non poteva incidere sui giudicati. Passavano in giudicato, ad esempio, non solo le decisioni non pi� appellabili, o il cui appello fosse gi� stato definito, ma anche quelle il cui appello era inammissibile per difetto di legittimazione, o irricevibile per tardivit� della notifica del gravame; non anche i provvedimenti cautelari, con la conseguenza che gli interessati dovevano rinnovare l�istanza di sospensione davanti il Consiglio di Stato. Per le decisioni non coperte da giudicato si afferm� in molteplici pronunce, che, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale, esse divenivano invalide (non esistenti) e che, pendendo davanti il Consiglio di Stato (o al Consiglio di Giustizia Amministrativa), questo doveva, anche d�ufficio annullarle. Ritenendosi consumato il primo grado di giurisdizione, la controversia veniva interamente devoluta a tale giudice, come se fosse stata a lui proposta in prime cure, con il conseguente obbligo di esame di tutti i motivi di ricorso in primo grado e quelli successivamente dedotti (2). Considerare l�appello pendente davanti al Consiglio di Stato (Consiglio di Giustizia Amministrativa), come giudizio di primo grado presupponeva logicamente una volont� persistente di chi aveva originariamente preposto il ricorso alla G.P.A., in assenza della quale nessun giudizio di primo grado poteva mai ipotizzarsi. Dibattuto � stato anche il secondo problema afferente ai limiti dell�attribuzione al Consiglio di Stato (ed al C.G.A.). In particolare, si pose subito il problema se l�attribuzione si estendesse a tutta l�area prima coperta dai cessati organi e cio� se la giurisdizione di questi passasse per intero o con qualche limite. Si escluse anzitutto che passasse la giurisdizione di merito, in quanto il Consiglio di Stato era giudice naturale di legittimit�, ma, per il merito, non poteva andare oltre i casi tassativamente attribuitigli dalla legge (3). (1) Consiglio di Stato, Sez. V, 21 maggio 1968 n. 691; Consiglio di Stato, Sez. V, 28 febbraio 1969 n. 123; Consiglio di Stato, Sez. V, 28 marzo 1971 n. 220; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 settembre 1972 n. 773; C.G.A., 27 ottobre 1974 n. 470; Consiglio di Stato, 25 ottobre 1975 n. 427; TAR Lombardia, 22 ottobre 1975 n. 323. (2) Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 24 novembre 1967 n. 15; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 13 febbraio 1968 n. 5; Consiglio di Stato, Sez. V, 20 febbraio 1968 nn. 96 e 98; Consiglio di Stato, Sez. V, 5 marzo 1968 n. 219. (3) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 marzo 1969 nn. 5 e 7; Consiglio di Stato, Sez. V, 13 maggio 1969, n. 453; Consiglio di Stato, Sez. V, 10 ottobre 1969 n. 1039; Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 gennaio 1970 n. 18; Consiglio di Stato, Sez. V, 24 marzo 1970, n. 300. Contra Cass. SS.UU. 24 maggio 1975 n. 2099. Pi� controversa fu l�esclusione della giurisdizione esclusiva, relativamente alla tutela dei diritti soggettivi, per i quali si profil� il dubbio che, essendo un�eccezione la loro sottrazione al giudice ordinario, venuta meno l�eccezione, ossia le norme che li avevano attribuiti ad uno speciale giudice amministrativo, riprendesse vigore la regola. La questione fu affrontata dall�Adunanza Plenaria (4), che si pronunci� per la reviviscenza di suddetta regola, ossia l�attribuzione al giudice ordinario dei ricorsi in cui si lamentasse la lesione di un diritto. L�orientamento fu in un primo tempo seguito dalla giurisprudenza amministrativa e successivamente, sotto l�influsso del deciso orientamento della Cassazione, la quale ripetute volte aveva dichiarato che l�intera giurisdizione delle G.P.A., sia per gli interessi legittimi, sia per i diritti, doveva essere assorbita dal Consiglio di Stato, si registrava un mutamento di indirizzo in tal senso. La garanzia del doppio grado di giurisdizione riguarda soltanto l�impossibilit� di attribuire al t.a.r. competenze giurisdizionali in un unico grado e la conseguente necessaria appellabilit� delle sue sentenze, non potendo l�articolo 125 secondo comma cost. comportare l�inverso, perch� nessun�altra norma indica il Consiglio di Stato come giudice solo di secondo grado (5). Secondo Travi, la norma di cui all�art. 125 secondo comma cost. era stata pensata per assicurare l�istituzione di un giudice amministrativo periferico, su base regionale, anche come elemento di garanzia e di equilibrio dei poteri riconosciuti dalla Costituzione alle Regioni ed agli enti locali. Le problematiche afferenti al doppio grado di giurisdizione sono estranee ad una prospettiva del genere ed anche l�idea appunto di un giudice periferico. Ad avviso di chi scrive la costituzionalizzazione del doppio grado di giurisdizione non � da considerarsi una garanzia assoluta per il sistema della giustizia amministrativa; a tal proposito si citano come esempio a titolo meramente informativo la proposizione dei motivi aggiunti e l�opposizione di terzo. Con riferimento ai motivi aggiunti (6), la possibilit� di formularli in appello rappresenta un�eccezione sia all�effetto devolutivo, sia �al doppio grado di giudizio�, sia al principio di corrispondenza tra oggetto del giudizio di primo grado e oggetto del giudizio in appello. La soluzione per cui ha optato il legislatore favorevole all�ammissibilit� ha una ragione e precisamente la seguente: �il principio di effettivit� della tutela giurisdizionale, consentendole di essere pi� celere e la riduzione dei tempi processuali avviene a scapito di un unico grado di giudizio. In definitiva la possibilit� di presentare motivi aggiunti in appello costituisce non soltanto applicazione del principio di effettivit� della (4) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 marzo 1969 nn. 5 e 7. (5) A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, VIII ed. riv. e agg., Giappichelli, Torino, 2010. (6) S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Giuffr� editore, pag. 261, anno 2011. tutela giurisdizionale, ma anche e soprattutto del principio di economicit� e di concentrazione del giudizio�. 2. Le impugnazioni: definizione, collocazione sistematica e principi generali. Le impugnazioni sono ora disciplinate nel codice del processo amministrativo e precisamente nel libro III Titolo I che apre con l�articolo 91, ai sensi del quale: �i mezzi di impugnazione delle sentenze sono l�appello, la revocazione, l�opposizione di terzo ed il ricorso per cassazione per i soli motivi attinenti alla giurisdizione�. Il titolo I del libro III, oltre ai mezzi di impugnazione delle sentenze dei giudici amministrativi, contiene anche le disposizioni generali riguardanti i termini, il luogo ed il deposito, le parti del giudizio di impugnazione, le impugnazioni avverso la medesima sentenza (appena modificate dal terzo correttivo al codice del processo amministrativo), l�intervento nel giudizio di impugnazione, le misure cautelari ed il deferimento all�Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (7) rispettivamente disciplinati dagli articoli 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98 e 99 del c.p.a. Un breve richiamo va fatto al codice del processo amministrativo, e precisamente al decreto legislativo n. 160 del 2012, che da ultimo nella disciplina delle impugnazioni ha modificato gli articoli 96, 98, 99 c.p.a. Pi� nel dettaglio, all�articolo 96 viene modificato il termine di deposito dell�appello incidentale ex art. 334 c.p.c.. In luogo del termine di 10 giorni, viene previsto un termine di 30 giorni; all�articolo 97 in luogo dell�applicazione dei soli artt. 55, 56 e 57 al procedimento finalizzato alla concessione delle misure cautelari appena menzionate, si prevede l�applicabilit� di tutto il titolo II (procedimento cautelare) del libro II, in quanto applicabile mentre all�articolo 99 viene contemplata la possibilit�, per la Plenaria, di dissentire in ordine alla importanza della questione e di restituire gli atti alla Sezione che ha disposto il rinvio. Quanto ai principi generali delle impugnazioni, � opportuno segnalare che con il codice del processo amministrativo, essi sono stati finalmente codificati, in quanto prima erano stati riconosciuti solamente dalla giurisprudenza. Trovano applicazione nel processo amministrativo in particolare il prin (7) Il sistema delle impugnazioni prima dell�entrata in vigore del Codice del processo amministrativo � stato oggetto di specifiche disposizioni da parte dell�articolo 44 della legge n. 69/2009 che, tra i principi ed i criteri direttivi del riassetto della disciplina processuale amministrativa, ha ricompreso anche quello relativo al riordino del sistema delle impugnazioni (comma 2 lett. g da attuarsi individuando sia le disposizioni applicabili, mediante rinvio a quelle del processo di primo grado, sia disciplinando la concentrazione delle impugnazioni, l�effetto devolutivo dell�appello, la proposizione di nuove domande, prove ed eccezioni). A tal fine il legislatore delegato, ispirandosi alle previsioni del codice di procedura civile, ha voluto soddisfare l�esigenza di offrire una disciplina positiva ad istituti frutto della pi� autorevole giurisprudenza amministrativa, cercando di creare un sistema organico di disposizioni in grado di colmare le lacune ed i dubbi interpretativi che hanno caratterizzato la precedente disciplina sulle impugnazioni. cipio di tipicit� delle impugnazioni, il principio della soccombenza, unitamente alle altre condizioni dell�azione impugnatoria, il principio di concentrazione delle impugnazioni, l�effetto devolutivo ed i limiti dello jus novorum, l�effetto traslativo, l�effetto conservativo, l�effetto espansivo della pronuncia in sede di impugnazione, alcuni di questi gi� previsti e disciplinati nel codice di procedura civile, come vedremo. Per completezza � opportuno analizzarli singolarmente partendo dal noto principio della soccombenza che � presupposto dell�interesse ad impugnare. Merita precisare che la sua configurabilit� risulta pacifica solo in alcune ipotesi che in questa sede � il caso di richiamare. Un esempio � quello del ricorrente, rispetto alla sentenza che ha dichiarato infondato il suo ricorso, oppure del controinteressato, rispetto alla sentenza di accoglimento del ricorso avversario. In altre ipotesi invece la configurabilit� ed i caratteri della soccombenza appaiono pi� opinabili: � il caso del ricorrente che in primo grado abbia visto accolto il proprio ricorso (con conseguente annullamento del provvedimento impugnato) per alcune soltanto delle censure proposte, mentre le altre censure sono state dichiarate infondate. La giurisprudenza pi� recente in questo caso considera nella ipotesi pro- spettata ammissibile l�appello della parte vittoriosa in primo grado, se tale parte pu� conseguire dall�eventuale accoglimento delle censure respinte dal Tar un vantaggio ulteriore (si pensi in proposito ai diversi effetti che derivano per il ricorrente, dall�accoglimento del ricorso per vizi di legittimit� solo formale). CՏ infine una parte della giurisprudenza che ammette, in deroga al principio della soccombenza anche l�appello del terzo rimasto estraneo al giudizio (8). Segue a questo principio quello di concentrazione delle impugnazioni, gi� disciplinato dall�articolo 42 del r.d. 642/1907, che dettava una disciplina particolare per la riunione (9) e la giurisprudenza, seppur fra alterne posizioni tendeva ad affermare l�applicabilit� anche al processo amministrativo dei principi dettati in materia dal codice del processo civile. Oggi la materia � oggetto di una disciplina specifica. Il principio di concentrazione dei giudizi di impugnazione trova applicazione in quattro istituti giuridici, due in via preventiva e due in via successiva. Il primo trova esplicito riconoscimento nell�articolo 95 c.p.a., il quale san (8) ALDO TRAVI, Lezioni di Giustizia Amministrativa, Ottava edizione, G. Giappichelli - Torino pag. 312 e ss. (9) L�articolo 52 del r.d. 642/1907, abrogato dall�articolo 4 primo comma, numero 2, dell�allegato 3 al c.p.a. prevedeva che �se alcuna delle parti o la pubblica amministrazione chieda che per ragioni di connessione due ricorsi siano uniti e venga provveduto su di essi con una sola decisione, la sezione, udite le parti interessate, pu� ordinarne l�unione. Il Presidente pu�, anche quando non sia chiesta l�unione, ordinare che i due ricorsi siano chiamati di ufficio alla stessa udienza, affinch� la sezione possa giudicare della loro connessione e, ove si faccia luogo alla riunione, pronunciare sui due ricorsi con una sola decisione�. cisce che l�impugnazione va notificata, nelle cause inscindibili, a tutte le parti in causa e, negli altri casi, a tutte quelle che hanno interesse a contraddire. Sempre in via preventiva, il principio in parola si estrinseca nell�onere di proporre le impugnazioni, successive alla prima in via incidentale. Tuttavia nel codice del processo amministrativo difetta una norma che imponga analogamente all�articolo 333 c.p.c. alla parte destinataria della notifica di una impugnazione, di proporre, a pena di decadenza, le sue impugnazioni in via incidentale nello stesso processo. L�assenza di una norma siffatta, si traduce semplicemente nel venir meno della sanzione della decadenza per coloro che omettano di proporre impugnazione in forma incidentale nello stesso processo. La scelta di non ricollegare la sanzione della decadenza alla proposizione dell�impugnazione in via autonoma e non in forma incidentale, si rivela opportuna nel processo amministrativo, nel quale le posizioni delle parti sono molto variegate. Tuttavia, sarebbe stato preferibile inserire nel codice del processo amministrativo una norma che sancisce la necessit� di conferire la forma incidentale all�impugnazione successiva alla prima. Invece il potere conferito al giudice di procedere alla riunione dei ricorsi � manifestazione successiva del principio di concentrazione in esame; infatti l�articolo 96 primo comma c.p.a., intitolato �impugnazioni avverso la medesima sentenza� stabilisce che �tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo�. L�articolo 96 primo comma, riproduce l�articolo 335 c.p.c. ad esclusione dell�espressione �anche di ufficio�. Tale mancanza potrebbe essere interpretata come una consapevole scelta volta ad evitare che la riunione delle impugnazioni venga disposta anche d�ufficio. Potrebbe sostenersi che si sia voluto assoggettare la materia al principio dispositivo, devolvendo solo alle parti il potere di decidere se riunire o meno le impugnazioni. Tuttavia l�interpretazione formale non pu� essere condivisa. Altri e pi� importanti elementi inducono a formulare una diversa conclusione. La mancanza nell�articolo 96 primo comma c.p.a. dell�espressione �anche d�ufficio�, presente invece nell�articolo 335 c.p.c. non incide sui poteri del giudice di disporre la riunione delle impugnazioni, che possono essere esercitati anche d�ufficio. Invero la riunione dei processi � sottratta alla disponibilit� delle parti e rientra nella tecnica necessaria del processo. La riunione infatti � finalizzata ad assicurare la pi� breve durata del processo e soddisfa esigenze di economia processuale. La definizione congiunta dei processi riduce il tempo di definizione delle controversie, in ossequio al principio costituzionale del giusto processo (10). (10) Sul tema G. CARLOTTI. La riunione dei ricorsi e l�integrazione del contraddittorio in G. CARLOTTI, M. FRATINI, L�appello al Consiglio di Stato, Milano, 2008, 612. Oltretutto la riunione dei ricorsi riduce il rischio di giudicati contrastanti (11). La riunione delle impugnazioni deve essere disposta dal Collegio con ordinanza, in conseguenza della natura ordinatoria del provvedimento (12). Nonostante la riunione, ogni impugnazione per� conserva la sua autonomia e la riunione dar� luogo ad una decisione pluristrutturata. Infine il principio di concentrazione dei giudizi di impugnazione trova applicazione in via successiva anche nell�articolo 95 terzo comma c.p.a., il quale conferisce al giudice il potere di integrare il contraddittorio quando la sentenza non sia stata impugnata nei confronti di tutte le parti. L�indagine dovr� articolarsi enucleando innanzitutto, gli istituti che assicurano in via preventiva la concentrazione delle impugnazioni e poi, quelli che ne determinano il verificarsi in via successiva. La concentrazione delle impugnazioni in via preventiva � assicurata dalla previsione di specifici oneri in capo alle parti, in via successiva invece � garantita dal conferimento al giudice di una serie di poteri. Pertanto, dovranno essere esaminati innanzitutto l�onere di notificazione dell�impugnazione e l�onere di proporre le impugnazioni successive alla prima, in via incidentale; poi, dovr� essere approfondito il potere del giudice di riunire le diverse impugnazioni proposte autonomamente e quello di disporre l�integrazione del contraddittorio (13). Con riferimento alle impugnazioni � opportuno ancora esaminare l�effetto devolutivo, l�oggetto del giudizio e la piena conoscibilit� del fatto. A tal proposito va fatta una premessa di carattere generale e cio� che ogniqualvolta l�appello viene proposto per sollecitare un nuovo giudizio di merito della controversia, ci si trovi in presenza di un gravame di tipo rinnovatorio (14) e come tale viene in evidenza l�effetto devolutivo (15). Al pari degli altri mezzi di impugnazione, anche l�appello presuppone la soccombenza di chi lo propone, cio� il rigetto parziale o totale delle sue domande in primo grado. L�effetto devolutivo si produce nel giudizio di appello in relazione ai capi (11) G. CARLOTTI, La riunione dei ricorsi e l�integrazione del contraddittorio in G. CARLOTTI, M. FRATINI, L�appello al Consiglio di Stato, Milano, 2008, 612. (12) In tal senso S. CASSARINO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 491; G. CARLOTTI, La riunione dei ricorsi, 2008, 615. (13) Le impugnazioni nel processo amministrativo di SERGIO PERONGINI, 2011, Il principio di concentrazione delle impugnazioni, pag. 46, 47, 48. (14) Tale lo qualifica anche C.E. GALLO, Appello, cit., 321, rilevando che il rinvio al giudice di primo grado (artt. 34 e 35 della legge n. 1034 del 1971) � del tutto eccezionale. Recentemente l�appello � stato definito �gravame rinnovatorio, a natura libera con pienezza della cognitio causae� da IANNOTTA L. - PUGLIESE F., Appello e contraddittorio, in Dir. Proc. Amm., 1997, 10. (15) Sul punto BASSI F., L�effetto devolutivo nell�appello amministrativo (dalla parte del ricorrente) in Dir. Proc. Amm. 1985, 343. Da ultimo sull�effetto devolutivo del processo civile: BIANCHI L., I limiti oggettivi dell�appello civile, Padova 2000, 165 e ss.. di domanda riproposti in secondo grado ed alle eccezioni in rito sulle quali il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare o si sia pronunciato. Non pu� non evidenziarsi come dalla proposizione dell�appello possano nascere delle problematiche, concernenti i profili attinenti all�esigenza della riproposizione specifica delle varie questioni o alla devoluzione automatica di certe questioni, indipendentemente da apposita riproposizione. Si tratta in particolare di tre aspetti che meritano la dovuta attenzione. Il primo � quello relativo ai poteri di cognizione del giudice di secondo grado in ordine all�accertamento del fatto. Il secondo � quello relativo ai poteri di cognizione e di decisione del giudice, in relazione alle domande nuove. Il terzo � quello relativo al limite posto dalla volont� delle parti, rispetto all�oggetto del giudizio. In riferimento al primo di questi aspetti, la dottrina pi� autorevole (16) aveva rilevato che la legge istitutiva dei T.a.r., a differenza di quanto disponeva l�articolo 22 del T.U. per l�appello avverso le decisioni del g.p.a. in s.g. non poneva pi� alcuna limitazione per quel che concerneva la conoscibilit� del fatto. Qualunque sia il vizio denunciato, cio� sia che esso riguardi la sentenza di primo grado, sia che esso riguardi un provvedimento amministrativo impugnato, il Consiglio di Stato ha il potere di indagare, liberamente, mediante l�acquisizione di nuove prove o mediante il compimento di nuove valutazioni sul fatto, avvalendosi degli stessi poteri del giudice di primo grado, senza limitazione alcuna (17). Conseguentemente ai fini della deduzione di nuove prove, nessuna preclusione si verifica nei confronti delle parti, per effetto della mancata allegazione di esse nel giudizio innanzi al T.a.r. L�effetto devolutivo nel processo amministrativo si manifesta dunque non devolvendo al giudice di secondo grado il fatto come accertato nel giudizio di primo grado, ma mediante la devoluzione al giudice degli stessi poteri spettanti al giudice di primo grado, ai fini dell�accertamento del fatto, trattandosi di un giudizio rinnovatorio (18). L�appello, infatti, in quanto revisio prioris instantiae e non rimedio eliminatorio, non pu� che essere rinnovatorio pieno, salvo i limiti che per ciascun tipo di processo vengano posti nelle discipline legislative particolari, come ad esempio avveniva quanto alla conoscibilit� del fatto nell�appello avverso le decisioni delle g.p.a., per il quale era stabilito che il Consiglio di Sato avrebbe (16) Per tutti si veda V. CAIANIELLO, Manuale di diritto Processuale amministrativo, Utet, anno 2003, pag. 875 e ss.. (17) VACIRCA G., Sull�ammissibilit� delle nuove prove in appello nel processo amministrativo (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 28 ottobre 1986 n. 684) in Foro amm., 1978, 93. (18) Cons. Giust. Amm. Sic., 22 febbraio 1978 n. 5 e Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 ottobre 1979 n. 711. Sull�argomento V. TIMIERI, Considerazioni sull�istruttoria e sull�appello, in Nuova Rass., 1981, 836 ss.. dovuto decidere la controversia �ritenuto il fatto stabilito dalla decisione impugnata�. Mancando nell�attuale normativa questa specificazione anche in base ad un criterio interpretativo d�ordine �storico sistematico�, deve ritenersi, in disaccordo con alcune recenti tendenze giurisprudenziali, che il Consiglio di Stato quale giudice di appello non incontri limitazioni per quel che concerne le indagini sul fatto, escludendosi, correlativamente, ogni preclusione per le parti nella deduzione dei mezzi di prova, ai fini della rinnovazione dell�istruttoria, ovviamente nei limiti delle censure proposte nell�atto di appello o nei limiti in cui il giudice possa rilevare d�ufficio questioni attinenti al giudizio di primo grado (19). Prima dell�entrata in vigore del codice del processo amministrativo avvenuto con decreto legislativo n. 104/2010, la scarna disciplina prevista in tema di appello taceva completamente sul punto (20). Gli unici punti di riferimento erano desumibili dalla qualificazione del (19) Nel senso della potest� istruttoria piena del Consiglio di Stato in sede di appello: Cons. di Stato Sez. V, 27 ottobre 1978 n. 1051 ed in senso adesivo, QUARANTA A., L�appello nel sistema dei mezzi di impugnazione delle sentenze dei tribunali amministrativi regionali, cit., 1873; SATTA F., Appello, cit., 442. (20) Sul divieto di nuove domande in appello la giurisprudenza, anche prima dell�istituzione della legge T.a.r. � stata sempre costante: Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, 7 novembre 1966 n. 22. Il Consiglio di Stato estende al processo amministrativo il divieto dello jus novorum, sancito dall�articolo 345 c.p.c. quale logica conseguenza del principio di specificit� dei motivi di impugnazione del provvedimento amministrativo, e pi� in generale, dell�onere di specificazione della domanda da parte di chi agisce in giudizio (Cons. di Stato, Sez. VI, 30 novembre 1995 n. 1356). Il divieto delle nuove prove non � applicabile in tema di questioni pregiudiziali - ricevibilit�, ammissibilit�, le quali, essendo rilevabili d�ufficio nei giudizi di primo grado, ben possono essere affrontate dal giudice d�appello se in tale grado fatte valere da una delle parti: Cons. di Stato, Sez. V, 16 aprile 1987 n. 251; 26 maggio 1989 n. 321; ma Sez. IV, 14 marzo 1990 n. 171, esclude la rilevabilit� d�ufficio in grado di appello della causa di inammissibilit� del ricorso di primo grado allorch� il primo giudice ha accolto il ricorso nel merito, con ci� implicitamente disattendendola; pertanto � da ritenersi ammissibile in appello il motivo con cui l�appellante deduce la carenza di interesse dei ricorrenti in primo grado sotto profili nuovi rispetto a quelli denunciati nel giudizio davanti il tribunale amministrativo regionale (Consiglio di Stato, Sez. V, 27 agosto 1976 n. 1126). Inoltre il ricorso in appello � stato ritenuto ammissibile anche se la parte soccombente e ricorrente prospetti una tesi diversa da quella sostenuta in primo grado, ove tale tesi sia in stretta correlazione e dipendenza dalla qualificazione giuridica data dalla decisione impugnata all�oggetto del provvedimento, ma rimanendo sempre sul tema del decidere (Cons. di Stato, Sez IV, 13 giugno 1978 n. 561). Pi� incerto � il discorso sulla estensione del divieto dello jus novorum alle eccezioni nuove, in quanto in passato prevaleva la tesi contraria, cio� quella che riteneva possibile sollevare, per la prima volta in secondo grado, delle eccezioni nuove, salvo la loro incidenza sul regime delle spese (Cons. di Stato, Sez. VI, 27 gennaio 1978 n. 99; Sez. VI, 3 marzo 1978 n. 309; Sez. IV, 31 luglio 1987 n. 506; Sez. VI, 4 novembre 1988 n. 1223; Sez. VI, 13 aprile 1991 n. 182; Sez. IV, 6 marzo 1996 n. 292), mentre di recente, da un lato si afferma, in sintonia con il novellato art. 345 comma 2 c.p.c., la loro improponibilit�, atteso che anch�esse allargano l�oggetto del giudizio (Cons. di Stato, Sez. IV, 2 giugno 1999 n. 963; 28 dicembre 2000 n. 6947); dall�altro, si esclude che il novellato art. 345 comma 2 c.p.c. sia compatibile con le nuove esigenze del processo amministrativo (Cons. di Stato, 2 marzo 2000 n. 1086; 31 gennaio 2011 n. 349). Le incertezze non riguardano per� quelle eccezioni rilevabili anche d�ufficio, per le quali va escluso il divieto dello jus novorum nel giudizio di appello (Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 24 giugno 1998, n. 4). gravame come �appello� e dal terzo comma dell�articolo 35 della legge n. 1034/1971, che, posto dopo i commi che disciplinano i casi di rinvio al giudice di primo grado, stabiliva che �in ogni caso il Consiglio di Stato decide sulla controversia�. La qualificazione del gravame come appello imporrebbe il riferimento agli istituti ed ai principi elaborati dalla scienza generale per questo mezzo di gravame, e quindi a quello proprio dei gravami di tipo appellatorio, del divieto di proposizione di domande nuove (21). In secondo luogo, l�intera formulazione dell�articolo 35 della legge n. 1034/1971, aggancia il giudizio di secondo grado a quello di primo grado, ed in particolare al primo comma, ove stabilisce che il Consiglio di Stato quando accoglie il ricorso per difetto di procedura o di forma �annulla la sentenza e rinvia per la controversia al giudice di primo grado�. Per controversia si intende ovviamente quella di cui il giudice di primo grado era stato in precedenza investito, altrimenti si arriverebbe all�assurdo di ritenere che in sede di giudizio di rinvio il T.a.r. possa conoscere di una controversia nuova rispetto a quella di cui era stato investito con ricorso introduttivo. Il termine controversia � pure presente nel terzo comma dell�articolo 35, dove risulta che: �in ogni altro caso il Consiglio di Stato decide sulla controversia�. Osserva autorevole dottrina (22), che se in una stessa norma viene usato pi� volte lo stesso termine, deve ad esso attribuirsi un significato omogeneo ogni volta che lo si incontra. E se nel primo comma si � visto che per �controversia� non pu� non intendersi se non quella di cui �gi�� era stato investito il giudice di primo grado, identico significato deve attribuirsi allo stesso termine usato nel terzo comma, il che porterebbe ad escludere che il giudice di appello possa essere investito, mediante domande nuove, di una controversia diversa da quella della quale era investito il giudice di primo grado. (21) SCIACCA N., L�appello nella legge sui tribunali amministrativi regionali in Cons. di Stato, 1973, II 1069, il quale sembra orientato per la possibilit� dell�allargamento delle domande in appello. La giurisprudenza � ferma nel negare l�ammissibilit� di domande nuove in appello; Cons. di Stato, Sez. V, 26 febbraio 1976 n. 291; 22 aprile 1976 n. 669; 26 ottobre 1976 n. 1319; 25 marzo 1977 n. 220; Sez. VI, 8 novembre 1977 n. 843; Sez. IV, 20 dicembre 1977 n. 1284; Sez. IV, 17 gennaio 1978 n. 17; Sez. VI, 31 luglio 1987 n. 506; 14 novembre 1988 n. 1440; 11 maggio 1991 n. 308 e pi� di recente Sez. V, 26 maggio 1992 n. 466; Sez. IV, 3 dicembre 1996 n. 1277; 2 giugno 1999 n. 963. Sono state ritenute anche inammissibili in appello le censure dedotte in primo grado con semplice memoria (Sez. IV, 5 aprile 1977 n. 366; 22 novembre 1977 n. 1045; Ad. Plen., 7 Luglio 1978 n. 22; Sez. IV, dicembre 1995, n. 981). La regola vale anche per il soggetto che nel giudizio dinanzi il tribunale amministrativo regionale sia stato parte resistente, il quale non pu� far valere censure dedotte in primo grado solo se, con ricorso incidentale dinanzi al tribunale regionale medesimo, abbia proposto un motivo specifico sulla questione controversa, pu�, in caso di reiezione da parte del primo giudice, riproporre la censura come motivo di appello (Sez. V, 17 dicembre 1976 n. 1524). Sono inoltre inammissibili i motivi in appello dedotti per la prima volta nella discussione orale (Sez. IV, 4 marzo 1977 n. 207; Sez. IV, 6 dicembre 1977 n. 1121). (22) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Ed. Utet, 2003, pag. 878. Peraltro, con riferimento ai motivi, sono da ritenersi ammissibili, ancorch� proposti per la prima volta, non solo quelli riferiti alla sentenza ed al giudizio di primo grado, ma anche i motivi aggiunti. Il divieto di proporre nuovi motivi, poi, vale per il ricorrente originario ma non per i resistenti in primo grado, i quali possono appellare la decisione ad essi sfavorevole adducendo qualsiasi motivo ritenuto utile per dimostrare al giudice di appello l�infondatezza della domanda del ricorrente accolta dal T.a.r. (23). Il principio del divieto di nuove prove subisce alcuni temperamenti che � opportuno richiamare in questa sede. In primo luogo per stabilire in che senso debba parlarsi di medesime controversie, ci si deve riferire agli elementi di identificazione dell�azione che sono i soggetti, il petitum e la causa petendi (24). In riferimento al petitum, � escluso (25) che possa essere chiesto l�annullamento di atti diversi da quelli impugnati in primo grado, mentre sul punto della rivalutazione monetaria sembra prevalere la tesi della possibilit� di richiederla per la prima volta in appello, trattandosi di statuizione che il giudice pu� pronunciare anche d�ufficio (26). Diversamente dal petitum, l�aspetto pi� rilevante nello jus novorum riguarda la causa petendi, che, come si sa, � la ragione per cui l�azione viene proposta e che ha origine dalla lesione che si assume prodotta nella sfera giuridica del soggetto. In relazione a tale elemento, deve escludersi che possa considerarsi domanda nuova una diversa prospettazione in appello di un motivo di censura, quando nella sostanza esso richiami lo stesso vizio dell�atto impugnato che, sia pure con una diversa formulazione giuridica (ad esempio violazione di legge invece che eccesso di potere, oppure travisamento dei fatti invece che illogicit�) era gi� stato dedotto nel ricorso introduttivo dinanzi al tribunale amministrativo regionale (27); mentre a diversa conclusione perviene la giurisprudenza quando si sia in presenza di una sostanziale modificazione, in appello dei motivi di impugnazione (28). Ci� che rileva per l�individuazione della causa petendi � la lesione della (23) Cons. di Stato, Sez. VI, 13 aprile 1991 n. 182; Sez. V, 3 gennaio 1992 n. 2; 30 settembre 1998 n. 1363; Sez. VI, 14 maggio 1999 n. 641; 23 settembre 1999 n. 1257; 21 febbraio 2001 n. 906. (24) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Ed. Utet 2003, pag. 126. (25) Cons. di Stato, Sez. IV, 4 marzo 1977 n. 207. (26) Cons. di Stato, Sez. IV, 17 settembre 1984 n. 512 e 31 ottobre 1984 n. 628, salvo i limiti del giudicato formatosi sull�esplicito rigetto, in primo grado, il che ne precluderebbe la rilevabilit� d�ufficio (Cons. di Stato, 1 agosto 1985 n. 18). Pi� di recente: Cons. di Stato, Sez. V, 17 gennaio 1994 n. 11. (27) In giurisprudenza Cons. di Stato, Sez. VI, 7 luglio 1982 n. 344; Sez. V, 3 ottobre 1984 n. 684 e 15 ottobre n. 315; Sez. IV, 19 febbraio 1986 n. 108; Sez. V, 1 febbraio 1995 n. 179; in V. CAIANIELLO, Manuale di Diritto Amministrativo, pag. 880. (28) Cons. di Stato, Sez. VI, 20 febbraio 1998 n. 179. sfera giuridica del ricorrente e questa lesione deriva dal vizio dell�atto in quanto vizio e non secondo la formulazione che di esso venga data dalle parti. Un secondo temperamento al divieto di domande nuove � la possibilit� di proposizione di motivi aggiunti in appello, solo ove, in base al deposito per la prima volta, in questa sede, di documenti nuovi, le parti siano in grado di dedurre i vizi dell�atto. Sulla loro proponibilit� possono verificarsi tre diverse ipotesi. La prima � quella dell�inammissibilit� per effetto del divieto di nuove prove in appello; la seconda quella dell�ammissibilit�, ma del rinvio al giudice di primo grado per consentire anche sui motivi aggiunti il doppio grado di giurisdizione; la terza � quella dell�inammissibilit� delle nuove prove, ma con l�esame diretto di essi da parte del giudice di appello. Intanto, la prima soluzione non pu� essere condivisa, perch� in contrasto con il principio della parit� processuale delle parti. L�amministrazione o le altre parti intimate potrebbero difatti riservarsi di esibire documenti rilevanti ai fini del decidere nel processo di appello, impedendo cosi al ricorrente di far valere eventuali vizi dell�atto desumibili dalla nuova documentazione esibita e ricavando cos� un vantaggio, sul terreno processuale, a discapito del diritto di difesa del ricorrente. Non � neppure condivisibile la seconda soluzione in base al diritto positivo, perch� il rinvio al giudice di primo grado � previsto dalla legge in ipotesi tassativamente indicate. La soluzione invece che trova piena condivisibilit� � la terza, perch� appunto confacente al rispetto del diritto di difesa e del principio di parit� processuale fra le parti (29). Con l�entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo le tre ipotesi del divieto di nuove domande in appello sono state definitivamente codificate e riunite all�articolo 104. L�articolo consta di tre autonome fattispecie che � opportuno prima citare per poi esaminarle. Stabilisce il primo comma �nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, fermo quanto previsto dall�articolo 34 comma 3,n� nuove eccezioni non rilevabili d�ufficio. Possono tuttavia essere chiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonch� il risarcimento del danno dopo la sentenza stessa. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti (29) V. CAIANIELLO, Commento all�art. 28 della legge n. 1034/1971, nel volume LUCIFREDI - CAIANIELLO, I tribunali, cit., 227, nonch� nella prima edizione dei Lineamenti, p. 430, e in giurisprudenza, Cons. di Stato, Sez. IV, 13 maggio 1992 n. 511; Sez. VI, 11 gennaio 1999 n. 8.: Cons. di Stato, Ad. Plen., 28 ottobre 1980 n. 40, che sembrerebbe a prima vista ammettere il motivo aggiunto solo se costituisca esplicazione di un motivo gi� dedotto in primo grado. Una pi� attenta lettura della decisione dovrebbe portare ad escludere che si sia voluta affermare tale limitazione. nuovi documenti, salvo che il Collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti amministrativi impugnati�. Si tratta di una mera riproduzione di quanto era gi� stabilito nel codice del processo civile dato che la disposizione estende ad un altro processo (quello amministrativo) la disciplina dettata per il processo civile all�articolo 345 c. p.c. relativo al principio del divieto dei nova in appello, sia per le domande nuove, escluse quelle aventi ad oggetto accessori maturati dopo la sentenza appellata, nonch� il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza stessa, sia per le eccezioni non rilevabili d�ufficio. La codificazione di questa disposizione altro non � se non il frutto del recepimento di precedenti orientamenti giurisprudenziali (30) che hanno riconosciuto l�applicabilit� della regola di cui al�articolo 345 c.p.c. all�eccezione di prescrizione proposta per la prima volta in appello dall�amministrazione soccombente, cos� risolvendo i contrasti giurisprudenziali in ordine all�ammissibilit� dei nova in appello. Quanto, pi� in generale, al regime delle eccezioni e delle nuove domande, sempre previste dal primo comma dell�articolo 104 c.p.a. il codice stabilisce che per le parti diverse dall�appellante sia sufficiente la loro riproposizione nei termini e nei modi previsti per la costituzione in giudizio e quindi con semplice memoria non notificata. Al contrario per le eccezioni espressamente o implicitamente esaminate e non accolte, nel silenzio del codice sembra preferibile l�interpretazione analogica, basata anche sulla natura del giudizio come continuazione del giudizio di primo grado, ma si deve segnalare un persistente contrasto nella giurisprudenza amministrativa, parte della quale ritiene necessaria la proposizione di un apposito appello incidentale. La soluzione accolta si fonda a giudizio del Consiglio di Stato sul combinato disposto degli articoli 3 e 24 Cost., che esprimono la pienezza della tutela giurisdizionale e la completa parit� delle parti nel processo, come valore di rilevanza costituzionale e sul rilievo dell�estensione dei casi di giurisdizione esclusiva, in cui le parti si fronteggiano in posizione paritetica. Prima dell�entrata in vigore del codice del processo amministrativo non vi era una disciplina specifica del divieto dello jus novorum, ma semplicemente giurisprudenza consolidata, sopra menzionata (31) che estendeva i principi generali della procedura civile soltanto ad alcuni aspetti ed istituti non puntualmente disciplinati. (30) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29 dicembre 2004 nn. 14 e 15. (31) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 8 aprile 1963 n. 6. Sempre con riferimento al divieto di nuove domande, va osservato che mentre la giurisprudenza (32) aveva concordemente affermato l�operativit� del divieto di cui all�articolo 345 c.p.c., un orientamento minoritario (33) aveva invece escluso l�applicabilit� del comma 2 dell�articolo 345 c.p.c., contenente il divieto di proposizione per la prima volta in appello di eccezioni non rilevabili d�ufficio. Il secondo comma dell�articolo 104 del codice del processo amministrativo disciplina invece il divieto dello jus novorum con riferimento, in particolare, al divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti in appello. In base ad una prima lettura sembrerebbe che la disposizione riproduca �pedissequamente� quanto gi� disciplinato nell�articolo 345 comma 3 del c.p.c., ribadendo ai fini della loro ammissibilit� in sede di appello le condizioni alternative all�indispensabilit� ai fini della decisione della causa ovvero dell�impossibilit� di produzione in primo grado per causa non imputabile alla parte (34). Prima di passare ad esaminare le problematiche affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, occorre sottolineare che esistono due tipi di prove; quelle costituite, come ad esempio i documenti, e quelle costituende, che cio� si formano nel processo, come ad esempio la testimonianza. Giurisprudenza amministrativa recente, per� (35), ha cercato di disco- starsi dall�ordinaria regola dello jus novorum come regola generale derivante dalle disposizioni e dalla logica interna del processo civile. In particolare la giurisprudenza (36) era incline a mitigare il divieto previsto dall�articolo 345 comma 3 c.p.c., ritenendosi inapplicabile la predetta preclusione ove si trattasse di documentazione preesistente: �l�articolo 345 c.p.c. non esclude in modo tassativo la produzione di nuove prove in appello, poich� ne ammette l�acquisizione quando le stesse siano indispensabili alla decisione della causa. N� va trascurato che, ove la parte interessata, senza produrre il documento che risulti decisivo, ne affermi l�esistenza, il giudice amministrativo potrebbe esercitare i poteri istruttori tipici di un processo basato sul metodo acquisitivo�. Una disposizione che ci aiuta a confermare questo assunto � prevista nel nuovo codice del processo amministrativo e precisamente all�articolo 66 che disciplina l�istituto della verificazione, che altro non rappresenta se non un mezzo istruttorio di competenza collegiale. Diversamente e contrariamente al divieto di ammissione di nuovi mezzi (32) Cons. di Stato, Sez. VI, 30 settembre 2007 n. 356, Cons. di Stato, Sez. IV, 12 agosto 2002 n. 4163; Cons. di Stato, Sez. VI, 21 febbraio 200 n. 906; Cons. di Stato, Sez. V, 2 marzo 1999 n. 222; Cons. di Stato, Sez. IV, 24 giugno 1997 n. 675. (33) Cons. di Stato, Sez. V, 31 gennaio 2001 n. 349; Cons. di Stato, Sez. V, 21 febbraio 2001 n. 906; Cons. di Stato, Sez. IV, 28 dicembre 2000 n. 6947. (34) ROBERTO CHIEPPA, Il codice del processo amministrativo, Giuffr�, Milano 2010. (35) Cons. di Stato, Sez. IV, 19 ottobre 2007 n. 5472. (36) Cons. di Stato, Sez. V, 22 dicembre 2005, che cita come precedenti Sez IV, 15 novembre 2004 n. 7365; Sez. V. 4 novembre 2004 n. 7140. di prova e nuovi documenti disciplinato dal nuovo articolo 104 comma 2 c.p.a., ed in applicazione dei principi di effettivit� e di concentrazione della tutela giurisdizionale, � prevista la possibilit� di proporre motivi aggiunti in sede di appello nell�ipotesi in cui la parte sia venuta a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel corso del giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti e dei provvedimenti amministrativi impugnati. Fatte queste brevi premesse, occorre sottolineare come i motivi aggiunti sono stati interpretati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Una parte della dottrina (37) si era posta la domanda se davvero fosse riferibile alla problematica del divieto in parola la proponibilit� di motivi aggiunti in un momento successivo alla scadenza del termine ultimo per appellare ed aveva espresso parere negativo, ritenendo che, al pari del giudizio di primo grado, il motivo aggiunto non va ad ovviare a lacune e dimenticanze in cui sia incorso il difensore nel formulare il ricorso originario, i motivi aggiunti di appello non valgono ad integrare le censure impugnatorie mosse alla sentenza con l�appello originario, quindi non violano il divieto dei nova in appello e neanche la perentoriet� dei termini per appellare, essendo la proponibilit� dei motivi stessi pur sempre legata a fatti di conoscenza e �giustificata per il fatto che essi concernono vizi che emergono per la prima volta in quel grado di giudizio� e si atteggiano come strumento integrativo del ricorso, in seguito all�acquisizione al processo di fatti nuovi, prima non noti al ricorrente. Logica conseguenza di quanto appena affermato � che anche la possibilit� di proporre in appello motivi aggiunti segue logiche distinte da quelle proprie dei nova. Altra parte della dottrina (38), ribadendo la precedente tesi, definendolo un �problema ulteriore� aveva preso in esame quello dell�applicabilit� al giudizio di appello della novit� introdotta dalla legge di riforma del 2000 in ordine alla facolt�-onere di impugnare con motivi aggiunti i provvedimenti, connessi a quello impugnato e quindi all�oggetto del ricorso, intervenuti in pendenza del relativo giudizio. L�eventuale inapplicabilit� del divieto di nuove domande ed eccezioni avrebbe potuto dare adito a manovre dilatorie contrarie allo spirito della stessa innovazione in parola e sarebbe stata contraria al principio di economia processuale per le possibili refluenze dei nuovi provvedimenti sul giudizio originario; perci� si concludeva in senso affermativo, con il solo inconveniente della perdita del doppio grado di giurisdizione nella misura in cui questi motivi aggiunti sarebbero stati sottoposti direttamente all�esame ed alla decisione del giudice di appello (39). (37) ALDO TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, VIII ed. riv. e agg., Giappichelli, Torino, 2010. (38) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto amministrativo, ed. Utet, 2003. (39) Sul punto si veda pure NAZARENO SAITTA, Sistema di Giustizia Amministrativa, terza edizione aggiornata al codice del processo amministrativo, Giuffr� Editore, pag. 671. Anche la giurisprudenza (40) che si era formata prima dell�entrata in vigore del codice del processo amministrativo considerava pacifica l�ammissibilit� di motivi aggiunti in appello, ma non anche di quelli diretti avverso provvedimenti adottati in pendenza di ricorso tra le stesse parti, �connessi all�oggetto del ricorso stesso� ai sensi delle novit� normative introdotte con l�articolo 1 della legge n. 205/2000, osservando da un lato che siffatto gravame aggiuntivo avrebbe privato, per la scelta fatta da una parte, le altre parti del primo dei due gradi di giudizio; dall�altro che lo scopo della concentrazione perseguito dal novellato articolo 21 della legge T.a.r. avrebbe potuto essere raggiunto attraverso la rituale proposizione di un ulteriore ricorso in primo grado e la richiesta di assunzione di adeguate misure al giudice di appello, in attesa della pronuncia da parte del T.a.r. anche sul secondo ricorso. Secondo giurisprudenza amministrativa (41), una sorta di novum, necessariamente consentito in grado di appello � dato dal caso in cui il T.a.r. abbia deciso con sentenza in forma semplificata emessa in data anteriore a quella della sentenza da cancellare, del termine per la proposizione del ricorso incidentale, dovendosi consentire al controinteressato di far valere quelli che avrebbero rappresentato i motivi del ricorso incidentale sottoforma di motivi di appello contro la sentenza. Il Consiglio di Stato (42) ha, poi, escluso la possibilit� di proporre motivi (40) Cons. di Stato, Sez. V, 5 luglio 2006 n. 4252. (41) Cons. di Stato, Sez. IV, 12 giugno 2003 n. 3312. (42) Cons. di Stato, Sez. V, n. 3913/2011, cit., secondo cui a tale conclusione si perviene: a) in base al tenore letterale della norma sancita dall�articolo 104 comma 3, cit., che si riferisce a provvedimenti gi� impugnati in primo grado ed a documenti preesistenti ma non prodotti nel giudizio davanti al t.a.r. b) sul piano logico e sistematico, in considerazione della portata del principio grado di giudizio che non consente ampliamenti del thema decidendum nel passaggio tra il primo ed il secondo grado, non pu� incontrare deroghe implicite, � posto nell�interesse di tutte le parti in causa, � inderogabile costituendo espressione di ordine pubblico processuale (cfr. da ultimo, sul valore del principio alla luce del nuovo c.p.a., Cons. di Stato, III, 5 maggio 2011, n. 2031). Nello stesso senso, aggiunge il Supremo Consesso, depone anche la relazione illustrativa del c.p.a. in cui si afferma che i motivi aggiunti in appello si rivolgono contro atti gi� impugnati in primo grado e che resta �fermo il principio per cui nei confronti degli ulteriori provvedimenti amministrativi emessi o conosciuti nelle more del giudizio di appello va proposto ricorso di primo grado�. In applicazione del principio in esame, ancora il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, 12 aprile 2001 n. 2257, in Urbanistica e Appalti, 2011, 737), ha ritenuto ammissibile la proposizione in appello di motivi aggiunti al ricorso incidentale ex art. 104, comma 3 c.p.a. con i quali l�aggiudicatario appellato deduca un nuovo motivo di censura avverso l�ammissione dell�originario ricorrente, emerso dopo la celebrazione del giudizio di prime cure. A tale conclusione il Supremo Consesso � pervenuto ritenendo che nel caso di specie �il nuovo motivo non introduce una �domanda nuova�, ma costituisce un�articolazione della medesima domanda proposta con il ricorso incidentale di primo grado, entrambe volte a sostenere che l�appellante principale andava escluso dalla gara�.Nella suddetta prospettiva, il Consiglio di Stato ha ritenuto superati i dubbi di costituzionalit� della disposizione processuale in esame sollevati dall�appellante principale, ritenendo che la norma, infatti, contemperi il tendenziale principio del doppio grado di giudizio con il diritto di difesa dell�articolo 24 Cost. (il quale risulterebbe compresso se non si consentisse di sollevare in appello questioni discendenti dalla natura tardiva scoperta di documenti fondamentali). aggiunti in appello avverso atti diversi da quelli impugnati con sentenza di primo grado, ancorch� connessi ovvero impugnati in via meramente derivata. Come prima accennato l�ultimo dei problemi che pone l�effetto devolutivo riguarda il limite posto dalla volont� delle parti all�oggetto del giudizio. La rilevabilit� delle questioni pregiudiziali relative al giudizio di primo grado. Come ha osservato autorevole dottrina (43), gi� prima dell�entrata in vigore del codice del processo amministrativo avvenuta con decreto legislativo n. 104/2010, le questioni pregiudiziali, relative al ricorso introduttivo (inammissibilit�, irricevibilit�, nullit�, estinzione, ecc), possono essere affrontate per la proposizione dei motivi aggiunti, per cui, mancando questa impugnativa, si dovrebbe ritenere che su di esse si formi il giudicato. Mentre prima della legge istitutiva dei T.a.r., prevaleva l�opinione contraria, ammettendosi cio� (nei casi di appello delle sentenze delle g.p.a. in s.g. al Consiglio di Stato, e del Cons. Giust. Amm. per la regione Sicilia all�Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato), la rilevabilit� d�ufficio di tali questioni in appello, successivamente la giurisprudenza si � orientata in senso diverso (44). Infatti si ritiene ormai che le questioni pregiudiziali, non decise espressa (43) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto amministrativo, ed. Utet, 2003, pag. 881. (44) Per la rilevabilit� d�ufficio in appello di tutte le questioni pregiudiziali, prima della legge istitutiva dei t.a.r. Cons. di Stato, Ad. Plen. 24 ottobre 1955 n. 17; Sez. V, 23 ottobre 1948 n. 663; Sez. V, 27 giugno 1975 n. 921 e 18 gennaio 1977 n. 21, aveva precisato che la parte risultata vincitrice in prime cure non possa in sede di appello proposto dalla parte soccombente eccepire profili di inammissibilit� del giudizio di primo grado, ove non abbia proposto appello incidentale (Sez. V, 1 ottobre 1976 n. 1213). E ci� sia quando il tribunale regionale si fosse su detti profili espressamente pronunciato (Sez. V, 11 marzo 1977 n. 168; Sez. IV, 5 luglio 1977 n. 680; Sez. IV, 11 aprile 1978 n. 289), sia quando non lo avesse fatto, dovendosi in tal caso ritenere che ogni relativa questione, in quanto pregiudiziale al- l�esame del merito della controversia, fosse stata per implicito risolta positivamente (Sez. V, 1 febbraio 1977 n. 78; Sez. VI, 18 ottobre 1977 n. 880; Sez. V, 20 gennaio 1978 n. 74); in senso contrario in quest�ultimo caso, circa la non necessariet� dell�appello incidentale Sez. V, 15 aprile 1977 n. 320. Pi� di recente si � andato consolidando l�orientamento secondo cui le eccezioni in secondo grado debbano essere sollevate mediante appello incidentale, quando siano state esaminate e disattese dalla sentenza appellata: Ad. Plen., 21 ottobre 1980 nn. 41 e 42. In precedenza la giurisprudenza era poco univoca, ritenendosi talvolta che, nel caso in cui tali cause non fossero state esaminate dalla sentenza appellata, occorresse l�appello incidentale: in tal senso la decisione Sez. VI, 18 ottobre 1977 n. 789, mentre lo si era considerato superfluo dalla Sez. IV, 15 maggio 1979 n. 342. La Sez. V, 20 gennaio 1978 n. 74, aveva affermato per� che, se la parte avesse sollevato nel giudizio di primo grado l�eccezione di inammissibilit� del ricorso, ma il tribunale amministrativo regionale lo avesse deciso nel merito, si dovesse ritenere che l�eccezione fosse stata disattesa implicitamente. In questo stesso senso: Cons. di Stato, Sez. IV, 14 marzo 1990 n. 171, gi� citato nella precedente nota 20. L�orientamento che ammette la rilevabilit� d�ufficio solo se il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato sembra oggi prevalente: Cons. di Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1982 n. 21 (con nota di VACIRCA G., in Foro amm., 1983, I, 623; Sez. V, 1 ottobre 1986 n. 488; Sez. VI, 4 febbraio 1986 n. 78; Sez. V, 25 gennaio 1986 n. 56). In questo ordine di idee si sostiene che la reiezione nel merito del ricorso di primo grado non comporti alcuna statuizione implicita in ordine ai presupposti processuali, sicch� il Consiglio di Stato, in sede di appello mancando una precisa pronunzia sul punto nella sentenza appellata, pu� verificare d�ufficio la ricevibilit� e l�ammissibilit� del ricorso originario (Cons. di Stato, Sez. V, 19 febbraio 1996 n. 204). mente in primo grado, possano essere esaminate in secondo grado d�ufficio e cio� indipendentemente dalla loro proposizione nell�appello principale o incidentale, mentre l�esame d�ufficio di esse non � possibile se esse siano state disattese in primo grado, occorrendo in questo caso apposita impugnazione (45). Nella diversa ipotesi e cio� se, in primo grado, le questioni stesse siano state accolte, con la conseguenza che il ricorso sia stato dichiarato inammissibile o irricevibile, l�unico mezzo che rimane alla parte soccombente � l�appello principale, contenente la censura rivolta nel confronti della statuizione che ha precluso l�esame nel merito. La giurisprudenza (46) � nel senso che alla parte appellante non sia preclusa la possibilit� di prospettare quale motivo di gravame, la carenza di un requisito di ammissibilit� del ricorso, anche se non l�abbia espressamente eccepito in primo grado. Merita una particolare attenzione nella vita del processo amministrativo l�effetto traslativo. Quest�ultimo era gi� stato affrontato da autorevole dottrina (47), che lo aveva battezzato addirittura come �un�ipotesi di scuola� ed aveva escluso che il problema anzidetto potesse essere risolto (in senso negativo) in virt� dell�art. 356, comma 2, c.p.c. (�Quando sia stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal n. 4 del secondo comma dell�art. 279, il giudice d�appello non pu� disporre nuove prove riguardo alle domande e alle questioni, rispetto alle quali il giudice di primo grado, non definendo il giudizio, abbia disposto, con separata ordinanza, la prosecuzione dell�istruzione�), che, oltre a recare un divieto la cui portata � controversa anche con riguardo al processo civile (sembra corretto, tuttavia, ritenere che la norma escluda dal giudizio civile d�appello tutte le questioni non decise nella sentenza non definitiva impugnata, delle quali rimane perci� investito unicamente il giudice a quo) (48), comporta un limite alla funzione rinnovatoria del gravame e non �, quindi, applicabile al di fuori dello specifico sistema processuale per il quale � stato concepito (49). Da qui il convincimento che, nel processo amministrativo, con riguardo al quale la legge � muta, sia applicabile soltanto il primo limite del doppio grado di giu (45) Cons. di Stato, Sez. VI, 26 ottobre 1992 n. 815; Cons. di Stato, Sez. IV, 11 dicembre 1997 n. 1378. (46) Cons. di Stato, Sez. IV, 26 ottobre 1985 n. 463, in Foro amm., 1985, 1860. (47) Sull�effetto traslativo dell�appello si vedano V. CAIANIELLO, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1972, 534. G. LEONE, Le impugnazioni nel processo amministrativo. Profili generali, Napoli, 1988, 327 e ss.. V. CAIANIELLO, Manuale, 2003, 893 ss., il quale formula su di esso un giudizio di disvalore. G. LEONE, Il sistema, 2006, 432 ss.. G. GARLOTTI, L�appello incidentale, l�appello parziale, la riserva di appello e l�appello contro il dispositivo in G. CARLOTTI. M. FRATINI, L�appello al Consiglio di Stato, in F. CARINGELLA, R. GAROFOLI (a cura di) Trattato di giustizia amministrativa, Milano 2008, 556, 557. (48) N. RASCIO, L�oggetto dell�appello civile, Napoli, 1996. (49) M. NIGRO, L�appello nel processo amministrativo, Milano, 1960. risdizione desumibile dal succitato art. 356, comma 2 � cio�, l�inammissibilit� del sindacato delle scelte istruttorie compiute dal primo giudice � e non il secondo � cio�, il divieto, per il giudice d�appello, di interloquire anche sulla scelta base riguardo la necessit� di istruttoria. In conclusione, secondo questa tesi, confermata anche alla luce della legge istitutiva dei T.a.r., il Consiglio di Stato, confermi o meno la sentenza non definitiva immediatamente appellata, non pu� ritenere la causa e provvedere alla sua istruzione, ma, qualora ritenga la causa stessa matura per la decisione conclusiva (a prescindere dal fatto che concordi con il primo giudice sulla soluzione data alla questione gi� decisa), ben pu� sindacare la scelta base compiuta dal T.a.r., correggere l�errore da questo commesso nel non decidere completamente la causa, pur avendo gli elementi per farlo e decidere lui l�intera controversia (50). Pi� recentemente, in parziale dissenso rispetto a tale impostazione, secondo la quale �sembra ovvio che l�effetto si produce solo se vi sia domanda espressa di una delle parti, nella forma dell�appello (principale o incidentale)�, � stato affermato che, alla luce dell�art. 35, comma 3, l. T.a.r., deve ritenersi che, affinch� il Consiglio di Stato possa decidere sulla controversia, anzich� disporre il rinvio della causa al T.a.r., non occorra un�apposita domanda delle parti, essendo la stessa �insita nella stessa richiesta di voler considerare erronea la parzialit� o la interlocutoriet� della pronuncia�; richiesta la quale investe il giudice d�appello della potest� di decidere la controversia in luogo del primo giudice, il cui potere si � consumato con la prima pronuncia, la quale stabilisce che, in caso di rigetto dell�appello proposto avverso la sentenza non definitiva, il giudizio prosegue inevitabilmente innanzi al t .a. r., che non pu� essere spogliato dalla controversia (51). Nelle more dell�impugnazione della sentenza non definitiva e, soprattutto, in assenza di sospensione della stessa da parte del Consiglio di Stato, sarebbe opportuno che, per evitare contrasto di pronunce, quest�ultimo soprassedesse in via di fatto (se non addirittura sospendendo il processo di secondo grado) dal pronunciarsi sull�appello, cos� da riunirlo a quello che verr� proposto avverso la sentenza definitiva: suggerimento pragmatico avversato da un�altra parte della dottrina (52) che mira ad evitare, in radice, che si verifichino le condizioni cui � subordinata l�operativit� dell�effetto traslativo. Poich� il differimento dell�appello avverso le sentenze non definitive (appellabili), adesso espressamente contemplato dall�art. 103 del Codice, costituisce una mera facolt� della parte legittimata, le anzidette sentenze possono comunque essere impugnate immediatamente, nel qual caso si pone il pro (50) M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 6 ed., a cura di E. CARDI e A. NIGRO, Bologna 2002. (51) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, 3� ed., Torino, 2003. Ed anche C. CONSOLO, Impugnazione immediata di una sentenza non definitiva e proseguimento del giudizio in primo grado, RDC, 1979, II, 600 ss.. (52) G. LEONE, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Napoli, 1988. blema attinente alla facolt� del giudice d�appello, adito per l�impugnazione della sentenza non definitiva, di superare i confini dalla stessa tracciati, spaziando sull�intero ambito della controversia (53). Rimangono ancora da esaminare nel processo amministrativo l�effetto conservativo e l�effetto estensivo. Il primo acquista importanza nel processo amministrativo, specie in quello di legittimit�, nell�ipotesi di appello di una sentenza che si riferisca ad un atto amministrativo che riguardi pi� di un soggetto. In particolare il problema consiste nello stabilire se l�impugnazione proposta da uno dei soggetti soccombenti giovi agli altri, nel senso cio� di abilitare questi, ancorch� rimasti estranei all�atto di appello, ad esplicare nel processo di appello una qualunque attivit� difensiva, semmai con la forma dell�intervento adesivo (54). La risposta � certamente negativa. Il presupposto o condizione per l�esercizio dell�azione di impugnazione � la soccombenza; ci� comporta che se alcuni dei soggetti soccombenti non propongano nei termini l�appello che, in virt� della soccombenza erano legittimati a proporre, essi rimangono estranei all�appello proposto da altri e quindi, non essendo parti nel processo di secondo grado, non possono ivi esplicarvi attivit� difensiva. � preclusa ad essi anche la possibilit� di acquistare la qualit� di parte esplicando un atto di intervento adesivo in parte actoris, cio� adiuvativo del- l�appellante, perch�, nei loro confronti, si verifica la stessa situazione che nel processo di primo grado riguarda coloro che, avendo una lesione diretta del- l�atto amministrativo, abbiano omesso di impugnarlo nei termini di decadenza. Per essi la giurisprudenza ha sempre escluso che possa essere ammesso l�intervento quando, essendo titolari di un interesse identico a quello del ricorrente, avrebbero potuto tutelarlo con ricorso principale nei modi e nei termini di legge. L�effetto estensivo pu� avvenire anche in situazioni analoghe a quella appena menzionata, come ad esempio nel caso di un gruppo di soggetti che sia rimasto inerte, mostrando cos� acquiescenza alla sentenza favorevole (55). Analogamente, il discorso che precede vale per coloro che, di fronte ad un appello principale, possano avere un interesse alla proposizione di un appello incidentale: quello proposto da alcuni non si estende a chi si trovi nel- l�identica situazione. Ma, se a coloro che avrebbero potuto proporre appello principale venga notificato ricorso incidentale provocato dall�appello principale proposto da altri, dovrebbe ritenersi che, per i primi, si riaprano i termini per proporre se mai un �controappello incidentale�. (53) F. SAITTA, Commento all�articolo 100 del codice del processo amministrativo pubblicato il 29 luglio 2010 sul sito della giustizia amministrativa. (54) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, 2003, ed. Utet, pag. 889. (55) In questo senso Cons. di Stato, Sez. VI, 8 febbraio 1977 n. 84; 15 novembre 1982 n. 570. Un�ultima precisazione va fatta con riferimento all�effetto estensivo prendendo come punto di riferimento l�esito della sentenza di primo grado. In particolare se la sentenza di primo grado � sfavorevole e cio� abbia respinto il ricorso, i soccombenti che non abbiano appellato, si troveranno nella stessa situazione di coloro che abbiano omesso di impugnare l�atto amministrativo: nei loro confronti questo atto diventa inoppugnabile e quindi anch�essi, rispetto alla eventuale decisione di secondo grado, che in riforma della sentenza appellata, annulli l�atto amministrativo, sono da considerarsi terzi, per cui ad essi si applicheranno le regole che reggono l�efficacia soggettiva del giudicato amministrativo. Diversamente, se la sentenza di primo grado abbia accolto il ricorso annullando l�atto amministrativo, sono soccombenti e quindi legittimati ad appellare le parti intimate e cio� l�amministrazione che aveva emesso l�atto amministrativo impugnato ed i controinteressati. In questo caso, se il Consiglio di Stato accolga l�appello e, quindi, annullando la sentenza di primo grado, faccia rivivere l�atto amministrativo impugnato, questa riviviscenza in via normale dovrebbe valere nei confronti di tutti coloro che siano rimasti soccombenti in primo grado, ancorch� abbiano omesso di impugnare la prima sentenza, e ci� per l�evidente considerazione che, annullata la sentenza che annullava l�atto amministrativo, questo riacquista integralmente il suo valore e la sua efficacia. Fa eccezione l�ipotesi in cui la sentenza di secondo grado annulli quella di primo grado per motivi che concernono solo i soggetti appellanti, ipotesi questa in cui la sentenza sull�impugnazione non pu� certo giovare agli altri soggetti, estranei al motivo di accoglimento dell�appello, dato che questa non estensione si sarebbe verificata anche se questi ultimi soggetti avessero anch�essi appellato. In questo ordine di idee l�Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (56) ha escluso che in caso di mancata riunione di pi� atti di appello separatamente proposti contro la stessa sentenza di primo grado e quindi nel caso di non completa identit� dei soggetti del giudizio, la sentenza pronunciata solo su alcune impugnazioni estenda i propri effetti nei confronti delle altre impugnazioni non ancora decise. Rimane ancora da esaminare, ma soltanto nel paragrafo della disciplina delle notificazioni l�effetto conservativo, secondo cui l�appello proposto da uno solo dei soccombenti impedisce la formazione del giudicato nei confronti degli altri litisconsorti necessari; in tal caso, tuttavia, l�inerzia di uno dei soccombenti rimasto estraneo al processo di appello instaurato da un altro soccombente, non consente al primo di esplicare alcuna attivit� difensiva, neppure con l�intervento ad adiuvandum poich� ci� comporterebbe l�elusione dei termini di decadenza per proporre l�impugnazione (Cons. di Stato Sez. IV, sent. 3895/01) (57). (56) Cons. di Stato, Ad. Plen., 21 giugno 1996 n. 9. 3. La disciplina delle impugnazioni nel codice del processo amministrativo. Con l�entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, la disciplina delle impugnazioni nel processo amministrativo trova collocazione sistematica nel libro terzo, titolo I, Impugnazioni in generale. Osserva autorevole dottrina (58) che �era comunque da aspettarsi un intervento del legislatore, anche e soprattutto nella materia delle impugnazioni, dove, prima dell�entrata in vigore del codice del processo amministrativo, le disposizioni della legge processuale amministrativa dedicate ai giudizi d�impugnazione erano infatti disorganiche e incomplete: disorganiche, perch� limitate all�appello al Consiglio di Stato e alla revocazione (59) mentre mancano del tutto disposizioni di carattere generale; incomplete perch� la disciplina dei singoli mezzi d�impugnazione espressamente presi in considerazione dal legislatore era circoscritta a poche previsioni normative, tutt�altro che esaustive: gli artt. 28 2�, 4� e 5� comma, 29 1� e 4� comma; 34 e 35 l. 6 dicembre 1971, n. 1034 per l�appello al Consiglio di Stato e gli artt. 46 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, 28 1� comma e 36 l. n. 1034/1971 per la revocazione (in quest�ultimo caso attraverso un rinvio impreciso alle disposizioni degli artt. 395 e 396 c.p.c.), cui si aggiungono gli artt. 81-86 r.d. 17 agosto 1907, n. 642. Bisogna considerare la disciplina delle impugnazioni nel codice del processo amministrativo come una sintesi tra le poche disposizioni espresse, le disposizioni del r.d. n. 1054/1924 e del r.d. n. 642/1907 applicabili in quanto richiamate dall�art. 29 1� comma l. n. 1034/1971, ma in realt� strutturate rispetto a un giudizio nel quale il Consiglio di Stato era giudice in grado unico (con tutta una serie di problemi di coordinamento), le disposizioni del codice di procedura civile sulle impugnazioni in generale (Libro II, Titolo III, Capo I, artt. 323-338 c.p.c.) e alcune disposizioni specifiche del codice di procedura civile, la cui applicabilit� al processo amministrativo � stata ritenuta necessaria per colmare evidenti lacune nella disciplina dei singoli mezzi di impugnazione�. Il quadro nel quale si � trovato ad operare il legislatore delegato �, come (57) Codice del processo amministrativo di LEONE GIOVANNI, MARUOTTI LUIGI, SALTELLI CARLO, ed. Cedam 2010, pagg. 249, 250. (58) GIANFRANCO SIGISMONDI, Osservazione alle disposizioni sulle impugnazioni, nello schema del decreto legislativo con �un codice del processo amministrativo� pubblicato sul sito giustamm.it rivista di diritto pubblico il 31 maggio 2010. (59) Come � noto l�opposizione di terzo ordinaria nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali passate in giudicato � stata introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale 17 maggio 1995 n. 177, Foro it., 1996, I, 3318: di conseguenza nessuna disposizione della legge processuale amministrativa disciplina in alcun modo l�istituto; l�opposizione di terzo ordinaria nei confronti delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali non passate in giudicato � invece ammessa in via interpretativa, ma con una configurazione del tutto particolare, dal momento che se ne consente la proposizione al giudice di secondo grado: in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007 n. 2, id., 2007, III, 113, con nota di TRAVI; l�opposizione di terzo c.d. revocatoria, infine, � tuttora estranea al processo amministrativo. anticipato, la lacunosit� della normativa positiva che lasciava ampie possibilit� d�intervento. Pertanto, era necessario confrontarsi con i risultati del lavoro interpretativo della giurisprudenza, e quindi con quelle peculiarit� che le impugnazioni nel processo amministrativo avevano assunto nel corso del tempo, per stabilire quali di questi orientamenti avrebbero dovuto trovare conferma nel diritto positivo e quali, invece, sarebbero stati destinati a essere abbandonati. A questo si aggiungeva l�esigenza di dettare disposizioni che non risultassero appiattite sul modello del giudizio impugnatorio o strettamente funzionali a esso, ma che fossero adeguate all�intenzione di delineare un giudizio amministrativo nell�ambito del quale il tradizionale schema di tutela fosse solo una delle declinazioni possibili. Infine, restava il problema relativo ai rapporti con la disciplina del codice di procedura civile, che costituisce un modello di riferimento completo e collaudato, le cui disposizioni (e in particolar modo quelle dedicate alle impugnazioni in generale), fino a oggi, hanno tendenzialmente trovato applicazione anche nel processo amministrativo. La preferenza del legislatore delegato si � indirizzata nel senso di predisporre una disciplina il pi� possibile completa: non solo, quindi, sono stati compiutamente disciplinati i singoli mezzi di impugnazione previsti (appello, revocazione, opposizione di terzo e ricorso per cassazione secondo l�elencazione dell�art. 91 del progetto), ma sono stati anche predisposti una serie di articoli dedicati alle impugnazioni in generale. � opportuno, dopo queste considerazioni, affrontare nello specifico la norma cardine che disciplina le impugnazioni. Si tratta dell�articolo 91 del c.p.a. secondo cui �i mezzi di impugnazione delle sentenze sono l�appello, la revocazione, l�opposizione di terzo ed il ricorso per Cassazione per i soli motivi attinenti alla giurisdizione�. In base ad una prima lettura, si evince come l�articolo in analisi, si limiti ad indicare i mezzi di impugnazione delle sentenze dei giudici amministrativi. La norma pone una disciplina soltanto di alcuni profili comuni alle impugnazioni, dal momento che operano il rinvio interno ed esterno contenuti nel libro I, rispettivamente agli articoli 38 e 39 del codice, che rendono applicabili anche in tale sede le norme dettate per il giudizio di primo grado e le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili. Non si riscontra nella norma dell�articolo 91 c.p.a la distinzione classica tra mezzi di impugnazione ordinaria e mezzi di impugnazione straordinaria, classificazione che era gi� nota al diritto processuale civile. A prescindere dalla classificazione o meno effettuata dal codice, sono mezzi di impugnazione ordinaria quelli che possono essere esperiti dalla parte soccombente prima del giudicato formale della sentenza, secondo la disciplina gi� contenuta nell�articolo 324 c.p.c. e sono: l�appello, la revocazione ordinaria ed il ricorso per Cassazione; sono invece mezzi di impugnazione straordinari la revocazione straordinaria e l�opposizione di terzo. L�elencazione contenuta nell�articolo 91 � tassativa ed espressione del noto principio di tipicit� dei mezzi di impugnazione, gi� noto negli altri processi, civile e penale (Consiglio di Stato Sez. V, 9 dicembre 2008, n. 6121), ed esclude che possano essere considerati tali nel processo amministrativo altri istituti attraverso i quali la parte possa presentare doglianze avverso la decisione dell�autorit� giurisdizionale. Un breve richiamo, sempre con riferimento alla tematica delle impugnazioni, va fatto anche al regolamento di giurisdizione, il quale, al pari del processo civile non pu� definirsi come mezzo di impugnazione, in quanto la sua proposizione � preventiva rispetto alla definizione della controversia realizzata con la sentenza e diversamente da quanto accade nel processo civile con il regolamento di competenza. A seguito di alcune modifiche apportate al testo che si commenta, anche il regolamento di competenza � diventato un mezzo di impugnazione delle ordinanze sulla competenza e trova collocazione sistematica nel codice del processo amministrativo e precisamente all�articolo 16 comma 3 c.p.a., ma non assurge a mezzo di impugnazione delle sentenze come nel caso del processo civile. La risposta a tale affermazione d�altronde la si rinviene nell�articolo 47 c.p.c., e cio� nella circostanza che competente a pronunciarsi sul regolamento di competenza � il Consiglio di Stato, vale a dire lo stesso giudice di secondo grado e non anche la Corte di Cassazione. Per comprendere poi appieno il significato della norma, bisogna far riferimento all�inciso �sentenza�, concetto alquanto diverso, che � atto del giudice e che ha contenuto decisorio ed attitudine a comporre in modo tendenzialmente stabile l�assetto degli interessi coinvolti nella controversia. Sono pertanto esclusi dall�ambito di applicazione della norma gli atti di natura sostanziale, quali negozi e provvedimenti amministrativi, n� possono essere esperiti in linea di principio, contro qualsiasi altro atto del giudice, quali ordinanze e decreti, avverso i quali il reclamo deve essere fatto nei limiti, nelle forme e nei tempi indicati dalle disposizioni ad esse indicate. Possono essere impugnate in appello le sentenze non definitive e contro di essere pu� essere fatta riserva di appello secondo la disciplina contenuta nell�articolo 103 c.p.a. I casi di esclusione delle impugnazioni riguardano anche le ordinanze istruttorie e quelle meramente ordinatorie ovvero interlocutorie perch� pacificamente ritenute prive di contenuto decisorio. Tuttavia giurisprudenza recente (60) ritiene impugnabili i provvedimenti (60) Consiglio di Stato, Sez. V, 9 dicembre 2008 n. 6121. del giudice amministrativo di primo grado, che pur privi della forma e del nomen juris di sentenza abbiano in modo concreto contenuto decisorio, poich� in tutto o in parte, in modo esplicito o implicito, risolvono la questione che oppone le parti, ovvero un punto pregiudiziale di essa. Un�ultima distinzione, sempre in tema di impugnazione, merita essere fatta con riferimento alla natura giuridica dell�ordinanza che decide sul ricorso in materia di accesso in corso di causa. La giurisprudenza (61) distingue tra ordinanze che si pronunciano in ordine ai presupposti dell�accesso in quanto tale e quelle che respingono il ricorso in ragione dell�inutilit� dei documenti ai fini del giudizio; alle prime riconosce natura decisoria e quindi scatta l�appellabilit� della stessa, mentre le seconde, che hanno natura meramente istruttoria, non sono ritenute appellabili (62). 4. Il nuovo articolo 98 c.p.a. e la disciplina delle misure cautelari dopo il d.lgs. 160/2012. Successivamente all�entrata in vigore del codice del processo amministrativo, avvenuta con il decreto legislativo n. 104 del 2010 sono intervenuti a distanza di poco tempo due importanti correttivi, opportunamente previsti dopo un primo periodo di rodaggio che hanno apportato alcune modifiche all�originaria disciplina, compreso l�art. 98 c.p.a.. Prima di passare ad esaminare l�articolo per intero, occorre soffermarsi sulla modifica apportata dal d. lgs. 160 del 2012 (secondo correttivo) all�articolo 98 comma 2 c.p.a., ai sensi del quale: �il procedimento si svolge secondo le disposizioni del libro II, titolo II, in quanto compatibili�. Stabilisce il suddetto articolo che �salvo quanto previsto dall�articolo 111, il giudice dell�impugnazione pu�, su istanza di parte, valutati i motivi proposti e qualora dall�esecuzione possa derivare un danno grave ed irreparabile, disporre la sospensione della sentenza impugnata, nonch� le altre opportune misure cautelari, con ordinanza pronunciata in camera di consiglio. Al procedimento si applicano gli articolo 55, commi 2 a 10, 56 e 57�. La novella proposta dalla Commissione speciale richiama tutta la disciplina del giudizio cautelare di primo grado nel giudizio di compatibilit�. Come autorevolmente osservato dalla dottrina (63), il risultato pratico pi� immediato � che in caso di accoglimento della domanda cautelare avverso la sentenza, il Consiglio di Stato dovr� fissare l�udienza di merito. Sinora si riteneva insussistente tale obbligo, perch� l�articolo 55 comma 11 (61) Cons. Stato, Sez. VI, 25 marzo 2004 n. 1629; Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 2002 n. 5450; Cons. di Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2002 n. 397. (62) Per tutto si veda il commento di S. OGGIANU, Artt. 91-95 al codice del processo amministrativo, d. lgs 2 luglio 2010, n. 104 commento articolo per articolo, a cura di E. PICOZZA, Giappichelli, 151-152. (63) R. DE NICTOLIS, Il secondo correttivo del codice del processo amministrativo in Federalismi. it n. 20/2012 e precisamente sul giudizio cautelare di appello. c.p.a. non era espressamente richiamato dall�articolo 98 comma 2 c.p.a. Da una prima lettura, basta notare come il precedente testo richiamava gli articoli 55 da comma 2 a comma 10, e gli articoli 56, 57. � da ritenere che tali disposizioni siano senz�altro compatibili con il giudizio di appello. Dopo l�entrata in vigore del decreto in esame, rimane da verificare la compatibit� del giudizio di appello con le disposizioni concernenti il giudizio cautelare di primo grado. Sono senz�altro applicabili, perch� gi� richiamate dalla precedente disciplina del c.p.a. le norme in tema di cauzione (art. 55 comma 2 c.p.a.), il comma 3, immediatamente successivo, secondo il quale la domanda cautelare pu� essere proposta con il ricorso di merito o con distinto ricorso notificato alle controparti, l�articolo 55 comma 4, che disciplina la regola della temporanea improcedibilit� della domanda cautelare finch� non � presentata domanda di fissazione dell�udienza di merito, l�articolo 55 comma 5 concernente le regole in ordine alla data di udienza cautelare e ai termini per memorie e documenti, l�articolo 55 comma 6, che riguarda le regole in tema di prova della notificazione a mezzo posta, l�articolo 55 comma 7 sullo svolgimento della camera di consiglio, l�articolo 55 comma 8 sull�autorizzazione alla produzione di documenti in camera di consiglio, ancora l�articolo 55 comma 9 che disciplina la motivazione dell�ordinanza cautelare, l�articolo 55 comma 10 che stabilisce la regola secondo cui l�esigenza cautelare pu� anche essere soddisfatta mediante sollecita fissazione dell�udienza nel merito ed ancora l�articolo 56 che disciplina le misure cautelari monocratiche ed infine l�articolo 57 (Regole in tema di spese del procedimento cautelare). Da valutare � poi la compatibilit� delle disposizioni che residuano sul giudizio cautelare di primo grado con quello di appello. Il riferimento �, in particolare ai commi 11, 12 e 13 dell�articolo 55 c.p.a. L�articolo 55 comma 11 prescrive che l�ordinanza con cui viene disposta una misura cautelare fissa la data di discussione del ricorso nel merito e che in sede di appello cautelare il Consiglio di Stato, se conferma la misura cautelare, dispone, ove non l�abbia fatto il giudice di primo grado, che il T.a r. fissi l�udienza con priorit�, rafforzando la vecchia previsione che stabiliva che l�ordinanza di accoglimento della richiesta cautelare comporter� priorit� nella fissazione della data di trattazione del ricorso di merito. Tale previsione appare compatibile con il giudizio di appello. Pertanto se nel giudizio di impugnazione viene accolta la domanda di sospensione della sentenza, il giudice del- l�impugnazione, a differenza che nel vigore della versione originaria del c.p.a., � ora tenuto a fissare contestualmente la data di udienza del merito. Osserva autorevole dottrina (64) che sfuggiva la razionalit� della previ (64) R. DE NICTOLIS, Il secondo correttivo del codice del processo amministrativo in federalismi. it n. 20/2012 e precisamente sul giudizio cautelare di appello. gente disciplina, che non richiamava l�art. 55 comma 11 c.p.a., se poteva ipotizzarsi che la fissazione della data dell�udienza del merito in sede di udienza cautelare potesse creare disagi organizzativi, non conoscendo il collegio i carichi di lavoro gi� assegnati alle varie udienze, era comunque insopprimibile l�esigenza, che costituisce la filosofia ispiratrice della tutela cautelare nel c.p.a. che il lasso temporale tra la fase cautelare e quella di merito sia minimo. Non si comprendeva perch� nei giudizi di impugnazione lo sforzo fatto dal c.p.a. per avvicinare la cautela al merito venisse vanificato. L�articolo 55, comma 12 c.p.a. assicura che ai fini dell�adozione della misura cautelare siano garantiti il pieno contraddittorio, nonch� la completezza dell�istruttoria, e, a tal fine, il collegio su istanza di parte adotta i provvedimenti necessari. Anche questa disposizione � compatibile con il giudizio cautelare di appello ed � applicabile dopo il secondo correttivo. Nella versione originaria l�articolo 55 comma 12 non era richiamato per l�appello e tale mancato richiamo appariva irrazionale, in quanto anche nel giudizio di impugnazione pu� ben dirsi esservi un�esigenza di integrare l�istruttoria o il contraddittorio e non di rado il giudice dell�impugnazione, in sede cautelare, dispone incombenti istruttori o provvede ad ordinare l�integrazione del contraddittorio. Rimane da esaminare poi l�ultimo comma dell�art. 55 del c.p.a. per poi valutarne la compatibilit� con il giudizio di appello. Tale disposizione subordina alla soluzione del problema della competenza solo il potere di disporre misure cautelari e non anche quello di decidere nel merito destando perplessit�; infatti subordinare alla positiva valutazione della propria competenza solo il potere di disporre misure cautelari, pu� far ritenere che la questione di competenza non sia rilevante se il giudice intenda negare le misure cautelari richieste. In ogni caso resta ferma la previsione di cui all�articolo 15 comma 5, secondo cui il Tribunale adito non provvede sulla domanda se non ritiene la propria competenza. In definitiva la questione della competenza il giudice deve porsela d�ufficio in caso di decisioni cautelari e non anche per la decisione nel merito e ci� comporta che il giudice presso cui � proposto ricorso, se si ritiene incompetente, non pu� pronunciarsi sulla domanda cautelare, ma occorre chiedersi cosa accada se la parte rinunciasse alla domanda cautelare. Una soluzione condivisibile sarebbe quella di trattenere la causa e deciderla nel merito. Un�altra domanda da chiedersi � se il giudice possa in sede cautelare, pur non essendo competente, valutare la sussistenza dei presupposti per la decisione nel merito all�esito dell�udienza cautelare e decidere la causa con sentenza in forma semplificata o fissare l�udienza sollecita per il giudizio di merito. Si tratta di problemi dovuti alla previsione di due diversi regimi di competenza per due momenti diversi del medesimo giudizio, quello cautelare e del merito. In conclusione la disposizione in esame � incompatibile con il giudizio di appello. Pienamente compatibili con il giudizio di appello e quindi applicabili dopo il secondo correttivo sono poi le altre disposizioni del c.p.a., con particolare riferimento alla revoca o modifica delle misure cautelari collegiali e riproposizione della domanda cautelare respinta, all�esecuzione di misure cautelari, alla definizione del giudizio in esito all�udienza cautelare, istituti rispettivamente disciplinati dagli articoli 58, 59, 60, del c.p.a. Non � invece compatibile con il giudizio di appello l�articolo 61 che disciplina le misure cautelari anteriori alla causa. 5. Termine per impugnare: le novit� introdotte dal Codice del processo. Con l�entrata in vigore del codice del processo amministrativo viene unificata la disciplina dei termini per la proposizione delle impugnazioni fatta eccezione per i riti abbreviati (65). Si tratta dell�articolo 92 c.p.a. che consta di cinque commi che � opportuno, ai fini di una completezza espositiva, riportare per intero. 1. Salvo quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge, le impugnazioni si propongono con ricorso e devono essere notificate entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza. 2. Per i casi di revocazione previsti nei numeri 1, 2, 3 e 6 del primo comma dell'articolo 395 del codice di procedura civile e di opposizione di terzo di cui all'articolo 108, comma 2, il termine di cui al comma 1 decorre dal giorno in cui � stato scoperto il dolo o la falsit� o la collusione o � stato recuperato il documento o � passata in giudicato la sentenza di cui al numero 6 del medesimo articolo 395. (65) A questo punto della trattazione vale la pena fare una breve ma necessaria considerazione sulla nozione del �termine� e sulle accezioni ad essa riferite.Tradizionalmente la disciplina generale sui termini � stata impostata su due ordini di distinzione di cui l�uno riguarda l�origine e l�altro attiene invece alle tradizionali ripartizioni dei termini. Con riferimento all�origine, si � soliti compiere una distinzione tra termini legali e giudiziali, dove legali sono quelli stabiliti dalla legge e giudiziali sono quelli stabiliti dal giudice. I termini possono poi essere suddivisi in perentori ed ordinatori. Sono perentori quelli entro i quali deve compiersi un determinato atto, la cui inosservanza produce la decadenza da un diritto o la preclusione a compiere un atto processuale. Essi non possono essere abbreviati o prorogati nemmeno su accordo delle parti (cfr. in giurisprudenza Cons. di Stato, Sez. V, 17 novembre 2009 n. 7166; Cons. di Stato, 24 settembre 2009 n. 5733; Tar Piemonte, Torino, Sez. I, 26 marzo 2010 n. 1609; Cons. giust. Sic., 5 febbraio 2010 n. 149, tutte in www.giustizia-amministrativa.it); sono invece ordinatori i termini che hanno lo scopo di regolare le attivit� processuali secondo le necessit� del normale andamento del processo. L�inosservanza dei descritti termini non produce la decadenza dalla facolt� di compiere l�atto in ritardo, n� l�inefficacia dell�atto compiuto dopo la scadenza del termine (cfr. in giurisprudenza sul punto ex multis Cons. di Stato, Sez. IV, 1 marzo 2010 n. 1178, in www.giustizia-amministrativa.it). Una terza categoria di termini � rappresentata in ultimo da quelli dilatori. In questo senso si fa riferimento a quei termini che devono trascorrere prima che possa compiersi un determinato atto. In dottrina sul punto, per ulteriori approfondimenti si rinvia a CARINGELLA F., PROTTO M., Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2011. 3. In difetto della notificazione della sentenza, l'appello, la revocazione di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395 del codice di procedura civile e il ricorso per cassazione devono essere notificati entro sei mesi dalla pubblicazione della sentenza. 4. La disposizione di cui al comma 3 non si applica quando la parte che non si � costituita in giudizio dimostri di non aver avuto conoscenza del processo a causa della nullit� del ricorso o della sua notificazione. 5. Fermo quanto previsto dall'articolo 16, comma 3, l'ordinanza cautelare che, in modo implicito o esplicito, ha deciso anche sulla competenza � appellabile ai sensi dell'articolo 62. Non costituiscono decisione implicita sulla competenza le ordinanze istruttorie o interlocutorie di cui all'articolo 36, comma 1, n� quelle che disattendono l'istanza cautelare senza riferimento espresso alla questione di competenza. La sentenza che, in modo implicito o esplicito, ha pronunciato sulla competenza insieme col merito � appellabile nei modi ordinari e nei termini di cui ai commi 1, 3 e 4. I primi due commi della disposizione dettano una disciplina unitaria del breve termine di impugnazione, risolvendo dubbi interpretativi sorti con riferimento alla revocazione ed all�opposizione del terzo, mentre il terzo comma contiene la previsione generale del termine lungo, attualmente ridotto a sei mesi a seguito della modifica dell�articolo 327 c.p.c. ad opera della legge n. 69 del 18 giugno 2009. La norma prevede che per la proposizione delle impugnazioni � previsto un termine breve di sessanta giorni in luogo del termine di trenta giorni previsto dal codice di procedura civile per appello, revocazione ed opposizione di terzo. In tal modo si estende a tutte le impugnazioni il termine previsto nel codice di procedura civile per il ricorso per Cassazione (art. 325 c.p.c.). Analogamente a quanto previsto nel codice di procedura civile, si distingue tra impugnazione ordinaria ed impugnazione straordinaria per l�identificazione del dies a quo della decorrenza del termine suddetto. Per l�appello e la revocazione ordinaria, rispettivamente disciplinati dal- l�articolo 395 commi 4 e 5 c.p.c. e ricorso per Cassazione, rileva la notificazione della sentenza; nel caso di revocazione straordinaria prevista sempre dall�articolo 395 commi 1, 2, 3 e 6 c.p.c., e opposizione di terzo (art. 108 comma 2), poich� la legittimazione all�impugnazione si fonda su un evento sopravvenuto e soprattutto non rilevabile dal contenuto testuale della sentenza, il termine inizia a decorrere dal giorno in cui � stato scoperto il dolo o la falsit� o la collusione o � stato recuperato il documento o � passata in giudicato la sentenza che accerta il dolo del giudice che ha adottato la decisione. Rispetto all�elencazione contenuta negli articoli 28 e 36 della legge n. 1034 del 1971, l�articolo 92 c.p.a., introduce l�opposizione di terzo, recependo le indicazioni della giurisprudenza della Corte Costituzionale (66), ed ha disposto il termine per l�impugnativa di sessanta giorni. Per quanto concerne invece l�articolo 92 comma 3 del codice, sempre concernente i termini per impugnare, le sole modificazioni rispetto alla disciplina previgente sono costituite dalla riduzione del termine lungo per l�appello, della revocazione di cui ai nn. 4 e 5 dell�articolo 295 c.p.c. e del ricorso per Cassazione da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza in totale armonia con quanto stabilito per il giudizio dinanzi all�A.G.O. dalla legge n. 69/2009 (art. 92 comma 3 c.p.a.), nonch� la previsione totalmente nuova nel codice del processo amministrativo, che detto termine lungo non trovi applicazione �quando la parte che non si � costituita in giudizio dimostri di non aver avuto conoscenza del processo a causa della nullit� del ricorso o della sua notificazione� (articolo 92 comma 4 c.p.a.). Come noto, anteriormente alla riforma del 2009, del processo civile, il termine per l�impugnazione era di un anno dalla pubblicazione della sentenza ai sensi dell�articolo 327 c.p.c.; tale termine � stato applicato in via analogica ed in virt� dell�evoluzione giurisprudenziale (67) alle impugnazioni delle sentenze amministrative. In particolare, la nuova disciplina, ai sensi dell�articolo 58 della legge n. 69/2009, si applica ai giudizi civili instaurati dopo l�entrata in vigore della legge n. 69/2009 e tale norma � stata ritenuta applicabile anche al processo amministrativo ancor prima che il codice, con l�art. 92, la recepisse formalmente. Una novit� � anche contenuta nell�articolo 92 comma 5 del c.p.a., ai sensi del quale l�ordinanza cautelare che abbia deciso in modo esplicito o implicito anche sulla competenza � appellabile nei modi dell�appello cautelare, mentre l�ordinanza che abbia disposto solo sulla competenza � impugnabile con regolamento di competenza ai sensi dell�articolo 16 comma 3 c.p.a. Per contro, la sentenza che, in modo esplicito o implicito abbia pronunciato sulla competenza insieme col merito � appellabile nei modi ordinari. 6. Luogo di notificazione e deposito dell�impugnazione. La norma di cui all�articolo 93 c.p.a � la seguente: �L'impugnazione deve essere notificata nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte nell'atto di notificazione della sentenza o, in difetto, presso il difensore o nella (66) C. Cost. sent. n. 177/1995. (67) Con la sentenza del Cons. di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 1979 n. 17, in Giust. civ., 1979, II, 290, si stabil� che per l�appello avverso le sentenze dei T.a.r., il termine lungo dovesse essere di un anno decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza, mutuato dal processo civile. Si ritenne infatti, che nel processo amministrativo trovava applicazione il termine annuale di decadenza stabilito dall�art. 327 c.p.c., con la proroga di 45 giorni per il periodo feriale. In particolare si ritiene applicabile l�articolo 327 c.p.c. in considerazione della sua piena compatibilit� con il sistema della giustizia amministrativa. Infatti la disciplina del giudizio amministrativo, ispirata alla pi� radicale e veloce definizione dello stesso, si concilia con la ratio dell�art. 327 c.p.c., volta a circoscrivere nel tempo la facolt� di impugnazione delle sentenze, indipendentemente dalla loro notificazione per garantirne l�immutabilit� e dare cosi certezza e stabilit� ai rapporti giuridici definiti in via contenziosa. Per ulteriori approfondimenti sul punto si rinvia a DE NICTOLIS R., I termini nel processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it. residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza. Qualora la notificazione abbia avuto esito negativo perch� il domiciliatario si � trasferito senza notificare una formale comunicazione alle altre parti, la parte che intende proporre l'impugnazione pu� presentare al presidente del tribunale amministrativo regionale o al presidente del Consiglio di Stato, secondo il giudice adito con l'impugnazione, un'istanza, corredata dall'attestazione dell'omessa notificazione, per la fissazione di un termine perentorio per il completamento della notificazione o per la rinnovazione dell'impugnazione�. La disciplina del luogo di notificazione dell�impugnazione corrisponde a quanto previsto per il giudizio di impugnazione all�articolo 330 c.p.c. L�articolo 93 c.p.a. affronta anche il caso della notificazione non andata a buon fine. Bisogna distinguere quindi tra l�ipotesi fisiologica e l�ipotesi patologica. Con riferimento alla prima, si dispone che, se nell�atto di notificazione della sentenza la parte ha dichiarato la sua residenza o eletto domicilio, l�impugnazione deve essere notificata nel luogo indicato. In mancanza di indicazione, la notificazione deve essere fatta presso il difensore o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza. Il secondo comma dell�articolo 93 c.p.a. � norma del tutto innovativa e dispone che: �qualora la notificazione abbia avuto esito negativo perch� il domiciliatario si � trasferito senza notificare una formale comunicazione alle altre parti, la parte che intende proporre l�impugnazione pu� presentare al Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale o al Presidente del Consiglio di Stato, secondo il giudice adito con l�impugnazione un�istanza corredata dall�attestazione della omessa notificazione, per la fissazione di un termine perentorio per il completamento della notificazione o per la rinnovazione dell�impugnazione�. Vengono recepiti i principi enunciati dalla Corte di Cassazione (68) e dal Consiglio di Stato (69) allo scopo di sollevare la parte che diligentemente ha effettuato la notificazione nel luogo risultante dalla formale indicazione della controparte dalle conseguenze del mancato buon esito della notificazione dovuto a fatto del domiciliatario; infatti la norma prevede un nesso di causalit� tra il trasferimento di quest�ultimo non formalmente comunicato alle altre parti e l�esito negativo della notificazione. Al ricorrere di questo presupposto, la parte che intende proporre l�impugnazione pu� ottenere, previa proposizione di apposita istanza al Presidente del T.a.r. o del Consiglio di Stato, la fissazione di un termine perentorio per il suo completamento o per la sua rinnovazione. Sull�impugnante grava ovviamente l�onere di corredare l�istanza con l�attestazione dell�omessa notificazione. Quanto al deposito delle impugnazioni disciplinato dall�art. 94 del c.p.a., (68) Cass. Civ., sent. 20 maggio 1993 n. 5752; Cass Civ., Sez III, 7 dicembre 1989 n. 5417. (69) Cons. di Stato, Ad. Plen., 27 maggio 1999 n. 13. merita precisare che quest�ultimo, con riferimento ai giudizi di appello, revocazione e di opposizione di terzo, poich� per il ricorso per Cassazione trovano applicazione le disposizioni del codice di procedura civile, costituisce una novit� che semplifica gli adempimenti a carico dell�impugnante. L�aver ritenuto sufficiente che unitamente al ricorso sia depositata la copia anche non autentica della sentenza impugnata, sembra derivare dall�agevole reperibilit� della stessa nel sito ufficiale. Il che peraltro fa presumere con ragionevole certezza che il testo cos� ottenuto sia conforme all�originale. 7. Le impugnazioni incidentali ed il principio di concentrazione delle impugnazioni nel codice del processo amministrativo. Anche per quanto concerne le impugnazioni incidentali, merita fare un raffronto tra la vecchia e la nuova disciplina. Ante codice del processo amministrativo, le impugnazioni incidentali non erano oggetto di una disciplina espressa e le uniche disposizioni sulle impugnazioni incidentali nel processo amministrativo erano quelle previste dall�art. 22 t.u. 1058/1924 e dall�art. 37 t.u. 1054/1024 per il ricorso incidentale innanzi al Consiglio di Stato, quale Giudice di primo ed unico grado e che in virt� dell�art. 29 legge n. 1034 del 1971 venivano considerate come volte a disciplinare l�appello incidentale. Pertanto, in un primo e non breve periodo, l�unica figura di impugnazione prevista e disciplinata per il processo amministrativo era l�appello incidentale (70) in primo grado. Sennonch�, l�art. 37, sesto comma del t.u. 1054/1924 stabiliva che �il ricorso incidentale non � efficace, se venga prodotto dopo che si sia rinunziato al ricorso principale, o se questo venga dichiarato inammissibile, per essere stato proposto fuori termine�. Sulla scorta di detta norma, l�appello incidentale, analogamente a quanto avveniva per il ricorso incidentale in primo grado, era legato da un nesso di accessoriet� e subordinazione all�atto introduttivo del processo, vale a dire all�appello principale. L�esigenza di assicurare in maniera pi� ampia possibile la concentrazione delle impugnazioni condusse dottrina e giurisprudenza, dopo non pochi tentennamenti, a ritenere applicabile anche al processo amministrativo le disposizioni dettate dal codice del processo civile per le impugnazioni incidentali. Nel vigente sistema processuale civile, l�impugnazione proposta per prima assume la denominazione di impugnazione principale, mentre le impu (70) Sull�appello incidentale si vedano Cons. di Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1982 n. 21, con nota di F. LUBRANO, Osservazioni in tema di appello incidentale, in Dir. Proc. Amm., 1984, 237 ss.; Cons. di Stato, Sez. VI, 25 febbraio 1989 n. 173, con nota di D. ARDINI, Ancora un tentativo di unificazione delle opposte tesi in materia di appello incidentale, in Dir. Proc. Amm., 1989, 453 ss.. gnazioni successive assumono quella di impugnazioni incidentali. Purtroppo per�, nonostante la presenza delle norme del codice di procedura civile nel sistema processuale amministrativo sulle impugnazioni incidentali, ben presto la giurisprudenza rilev� l�iniquit� dell�applicazione del rapporto di accessoriet� e subordinazione contemplato nell�art. 37, sesto comma t.u. 1054/1924 a tutte le impugnazioni incidentali. Infatti la rinunzia o la declaratoria di inammissibilit� dell�impugnazione principale travolgeva tutte le impugnazioni proposte in via incidentale, anche se supportate da un autonomo interesse ad impugnare. Tutto ci� port� alla distinzione tra appello incidentale proprio ed appello incidentale improprio (71). L�appello incidentale proprio era quello proponibile solo dal soccombente formale, vale a dire dalla parte processuale che, pur vedendo respinte anche le sue eccezioni, era risultata vincitrice nel processo. Quest�ultima circostanza precludeva al soccombente la possibilit� di impugnare la sentenza, che pur aveva respinto alcune sue eccezioni, perch� priva dell�interesse ad impugnare. La proposizione dell�impugnazione da parte del soccombente sostanziale determinava il sorgere dell�interesse ad impugnare del soccombente formale e gli consentiva la proposizione dell�impugnazione incidentale. L�esistenza di un rapporto di accessoriet� e di subordinazione fra appello incidentale proprio ed appello principale giustificava l�applicazione dell�articolo 37, sesto comma, t.u. 1054/1924. L�appello incidentale improprio invece era proposto da un soggetto in posizione di soccombenza sostanziale e ricorreva ogni qual volta una impugnazione sostanzialmente autonoma veniva esperita in via incidentale solo perch� formulata successivamente alla notifica di altra impugnazione, che assumeva la denominazione di appello principale. In questi casi l�appellante incidentale improprio era sollecitato da un autonomo interesse ad impugnare, non accessorio, n� subordinato a quello dell�appellante principale. In questi casi non trovava applicazione l�art. 37 sesto comma t.u. 1054/1024. In conclusione, prima dell�emanazione del codice, le impugnazioni incidentali erano pacificamente ammesse nel processo amministrativo, anche se la carenza di una specifica normativa rendeva problematico l�assetto dei vari profili (72). In particolare si discuteva se l�omessa proposizione dell�impugnazione in via incidentale ne determinasse la decadenza, se l�impugnazione in via incidentale fosse proponibile solo avverso lo stesso capo di sentenza, se la rigorosa disciplina pre (71) Sulla distinzione tra appello incidentale proprio e quello improprio, cfr. V. CAIANIELLO, Manuale, 2003, 923 ss.; G. LEONE, Il sistema, 2006, 282. (72) Sottolinea le diverse posizioni della giurisprudenza R. VILLATA, Incertezza in tema di appello incidentale nel processo amministrativo, in Dir. Proc. amm., 1984, 159 ss.; R. VILLATA, Ancora in tema di appello incidentale, in Dir. Proc. amm., 1985, 316 ss.; R. VILLATA, L�appello incidentale innanzi l�adunanza plenaria, in Dir. Proc. amm.; R. VILLATA, L�Adunanza Plenaria perde un�occasione per chiarire i problemi dell�appello incidentale ma poi (forse) ripara, in Dir. Proc. amm., 1989, 747 ss.. vista dall�art. 37, sesto comma, t.u. 1054/1024, trovasse applicazione anche nei confronti di impugnazioni sostenute da un autonomo interesse a impugnare (73). Con l�entrata in vigore del codice, vengono codificate tutte le relative regole con alcune novit� che � il caso di esaminare. L�art. 96 c.p.a. consta di cinque autonome fattispecie che � opportuno menzionare. 1. Tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo. 2. Possono essere proposte impugnazioni incidentali, ai sensi degli articoli 333 e 334 del codice di procedura civile. 3. L'impugnazione incidentale di cui all'articolo 333 del codice di procedura civile pu� essere rivolta contro qualsiasi capo di sentenza e deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione. 4. Con l'impugnazione incidentale proposta ai sensi dell'articolo 334 del codice di procedura civile possono essere impugnati anche capi autonomi della sentenza; tuttavia, se l'impugnazione principale � dichiarata inammissibile, l'impugnazione incidentale perde ogni efficacia. 5. L'impugnazione incidentale di cui all'articolo 334 del codice di procedura civile deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla data in cui si � perfezionata nei suoi confronti la notificazione dell'impugnazione principale e depositata, unitamente alla prova dell'avvenuta notificazione, nel termine di cui all'articolo 45. 6. In caso di mancata riunione di pi� impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l'improcedibilit� delle altre. L�art. 96 c.p.a. come � evidente, disciplina le impugnazioni incidentali con una norma che innova notevolmente la materia (74). Alla norma va attribuito il merito di aver definitivamente risolto precedenti contrasti interpretativi (75), che hanno dilaniato a lungo dottrina (76) e giurisprudenza (77); pertanto essa consente di parlare di impugnazione incidentale (73) S. PERONGINI, Le impugnazioni nel codice del processo amministrativo. L�onere di proporre l�impugnazione successiva alla prima in via incidentale, pagg. 80, 81, Giuffr� editore, 2011. (74) Sulle impugnazioni incidentali secondo il codice del processo amministrativo, si vedano E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, XII, Milano 2010, 908 ss.; A.TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, IX, Torino, 2010, 307 ss.. (75) Secondo V. Caianiello la fonte normativa va individuata nell�articolo 37 t.u. n. 1054/1924, in forza del rinvio operato dall�art. 29, primo comma, l. n. 1034/1971. (76) G. LEONE, Il sistema, 2006, 284, sostiene che la fonte dell�impugnazione incidentale vada individuata nell�art. 333 c.p.c. e nei principi desumibili dall�ordinamento processuale civile. In termini si veda Cons. Stato, VI, 15 marzo 1989 n. 173. (77) S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, 2011, Giuffr�, pag. 81. e non solo di appello incidentale, come invece era nel precedente ordinamento. L�art. 96, secondo comma, c.p.a. stabilisce che possono essere proposte impugnazioni incidentali, ai sensi degli articoli 333 e 334 c.p.c. L�art. 333 stabilisce che �le parti alle quali sono state fatte le notificazioni previste dagli articoli precedenti debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo�. L�art. 334 c.p.c. prevede che �Le parti contro le quali � stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell�art. 331, possono proporre impugnazione incidentale anche quando per esse � decorso il termine o hanno fatto acquiescenza alla sentenza. In tal caso, se l�impugnazione principale � dichiarata inammissibile, la impugnazione incidentale perde ogni efficacia. Queste disposizioni trovano collocazione anche nel codice del processo amministrativo che per� presenta significative novit� rispetto alle disposizioni previgenti e rilevanti differenze rispetto alle stesse disposizioni dettate dal codice del processo civile. Come ha osservato autorevole dottrina (78) nel codice del processo amministrativo scompare la disciplina specifica prevista per il ricorso incidentale (alias appello incidentale) e viene sostituita da disciplina generale, valida per tutte le impugnazioni incidentali. Inoltre, il codice del processo amministrativo, determina un vero e proprio capovolgimento del rapporto tra impugnazione incidentale propria ed impugnazione incidentale impropria. Prima dell�emanazione del codice l�art. 22 t.u. 1058/1924, l�art. 37 t.u. 105471924 e l�art. 29 legge n. 1034/1971 disciplinavano l�appello incidentale improprio; solo a partire dagli anni 80, la giurisprudenza ha cominciato a configurare l�appello incidentale improprio come ipotesi ordinaria. Invece l�art. 96 c.p.a. disciplina l�appello incidentale improprio e l�appello incidentale tardivo, omettendo ogni espresso riferimento all�appello incidentale proprio. L�articolo 96 comma secondo c.p.a. consente poi la possibilit� di proporre impugnazioni incidentali ai sensi degli artt. 333 e 334 c.p.c. In virt� della succitata disposizione, tutte le parti destinatarie della notifica dell�impugnazione, devono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale; inoltre nel processo amministrativo, l�area delle parti tenute a proporre le proprie impugnazioni in via incidentale � pi� ristretta rispetto a quella stessa area individuabile nel processo civile perch� il codice di procedura civile assicura la concentrazione delle impugnazioni in maniera pi� intensa di quanto non faccia il codice del processo amministrativo. Infatti, poich� l�art. 332 c.p.c. stabilisce che in sede di integrazione del contraddittorio la notifica dell�impugnazione va fatta a tutte le parti nei cui (78) S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, 2011, Giuffr�, pag. 82. confronti l�impugnazione non sia preclusa o esclusa, l�area dei soggetti tenuti a proporre impugnazione in via incidentale � ampia ed � tanto estesa quante sono le parti del processo che non siano gi� decadute dal potere di proporre impugnazione, che non abbiano fatto acquiescenza o non abbiano rinunciato alla impugnazione. Infatti, l�art. 333 c.p.c. prevede che i soggetti che devono proporre impugnazione incidentale sono tutte le parti destinatarie della notifica, sia nelle ipotesi di cause inscindibili, che nei casi di cause scindibili, in virt� dell�espresso richiamo, contenuto nel primo comma, ai precedenti articoli 331 e 332 c.p.c.; invece il nuovo codice del processo amministrativo restringe l�area dei soggetti tenuti alla proposizione dell�impugnazione in via incidentale. E ci� lo si desume dalla lettura dell�art. 95 primo comma, c.p.a., dall�inciso �negli altri casi�, vale a dire nelle cause diverse da quelle inscindibili. L�integrazione deve investire non tutte le parti del processo, ma solo quelle �interessate a contraddire�; ci� comporta che l�area dei soggetti tenuti a proporre la propria impugnazione in via incidentale comprende non solo tutti coloro che sono titolari di una situazione contrastante con l�impugnante principale, ma anche coloro che, pur avendo una posizione autonoma, si collochino in una posizione di cointeresse con l�impugnante principale. Per concludere, nel processo amministrativo � pi� elevato, rispetto al processo civile, il rischio che nei confronti della medesima sentenza siano proposte impugnazioni separate (79). Inoltre, il codice, all�articolo 96, afferma espressamente che l�impugnazione incidentale gi� prevista dell�art. 333 c.p.c. pu� essere rivolta contro qualsiasi capo della sentenza. Infine, trover� applicazione la sanzione della decadenza e non potr� trovare applicazione il precedente orientamento giurisprudenziale secondo il quale la riunione delle impugnazioni � idonea ad evitare la decadenza delle stesse. La decadenza si verifica nel momento della proposizione della impugnazione, indipendentemente dal momento in cui viene dichiarata. 8. Il deferimento all�Adunanza Plenaria dopo i decreti legislativi 2 luglio 2010 n. 104, d. lgs. 195/2011 e d. lgs. 160/2012. L�art. 99 c.p.a. disciplina il deferimento all�adunanza plenaria del Consiglio di Stato e consta di cinque autonome fattispecie che � opportuno richiamare. 1. La sezione cui � assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d'ufficio pu� rimettere il ricorso all'esame dell'adunanza plenaria. L'adunanza plenaria, (79) A .TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, IX, 2010, 309. qualora ne ravvisi l'opportunit�, pu� restituire gli atti alla sezione. 2. Prima della decisione, il presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d'ufficio, pu� deferire all'adunanza plenaria qualunque ricorso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali. 3. Se la sezione cui � assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall'adunanza plenaria, rimette a quest'ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. 4. L'adunanza plenaria decide l'intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente. 5. Se ritiene che la questione � di particolare importanza, l'adunanza plenaria pu� comunque enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l'estinzione del giudizio. In tali casi, la pronuncia dell'adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato. Con l�entrata in vigore del codice del processo amministrativo viene riprodotto nel libro terzo, titolo primo, quasi pedissequamente nell�articolo 99, quanto gi� previsto e disciplinato dall�articolo 45 commi 2 e 3 del r.d. n. 1054/1924, sul deferimento all�adunanza plenaria. Da una prima lettura, si desume che l�intenzione del legislatore di collocare il deferimento all�Adunanza Plenaria nel libro riservato alle impugnazioni, fa intendere come questo istituto sia proprio non soltanto dell�appello, bens� esperibile per tutti i mezzi di impugnazione. Osserva autorevole dottrina (80), che dalla collocazione sistematica accolta dal Codice si desume che la rimessione all�Adunanza Plenaria sia possibile in tutte le ipotesi in cui un ricorso venga esaminato dalla sezione del Consiglio di Stato, indipendentemente dal mezzo di impugnazione esperito per investire del ricorso il Consiglio di Stato. Prima di passare ad analizzare le ultimissime novit� apportate all�articolo 99 c.p.a. dal secondo correttivo (d. lgs. 160/2012), bisogna contemplare le singole ipotesi di deferimento previste dalla norma. La prima � contenuta nell�articolo 99 comma 1 c.p.a. ed attribuisce ad ogni sezione del Consiglio di Stato il potere di rimettere il ricorso all�esame dell�Adunanza Plenaria, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo (contrasto attuale) o possa dar luogo (contrasto potenziale) a contrasti giurisprudenziali. Il deferimento pu� essere sollecitato dalle parti, con richiesta, o pu� essere disposto anche d�ufficio; nel primo caso per� la sezione non � tenuta a disporre il deferimento ma pu� provvedere discrezionalmente. (80) S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Giuffr� Editore, 2011, pag. 123. Soltanto con l�entrata in vigore del decreto legislativo 160 /2012 (secondo correttivo al codice del processo amministrativo), all�articolo 99 primo comma � stato introdotto un nuovo comma. In particolare, all'articolo 99, comma 1 c.p.a., � stato aggiunto il seguente periodo: "L'adunanza plenaria, qualora ne ravvisi l'opportunit�, pu� restituire gli atti alla sezione". Viene attribuito all�Adunanza Plenaria, investita da una sezione semplice per risolvere un contrasto (sia esso attuale o potenziale) di giurisprudenza, il potere di restituire gli atti qualora ne ravvisi l�opportunit�. Una prima osservazione va fatta con riferimento all�ambito applicativo; infatti, da una prima lettura, non vi � dubbio che la previsione � di stretta interpretazione, perch� � stato previsto che a rimettere l�affare all�adunanza plenaria � soltanto la sezione semplice in caso di contrasto di giurisprudenza, rimanendo esclusi gli altri casi di rimessione sempre previsti dall�articolo 99 c.p.a. (la rimessione da parte del Presidente del Consiglio di Stato o da parte di una sezione che intenda discostarsi da un precedente della Plenaria). Una seconda osservazione va fatta con riferimento al potere di restituzione degli atti, lasciando la norma un potere discrezionale in bianco che, come � stato autorevolmente osservato, non si conf� ad un organo giurisdizionale, bens� ad un organo amministrativo (81). Successivamente, non sono mancate voci autorevolissime (82), che hanno considerato come tale norma possa portare l�adunanza plenaria a realizzare un abuso, qualora, per ragioni di opportunit�, faccia un uso distorto di tale potere che comunque spetta per legge. Ad avviso di chi scrive, questo abuso potr� essere evitato soltanto se l�adunanza plenaria limiter� il potere di restituzione degli atti a determinate ipotesi ed al ricorrere di determinati presupposti gi� contemplati dalla norma (contrasti attuali o potenziali di giurisprudenza), escludendolo quindi nel caso in cui essi manchino ed ancora quando ci siano evidenti ragioni di opportunit� processuale. Si citano come esempio le questioni nuove, dove l�intervento della Plenaria pu� apparire prematuro, essendo preferibile aspettare prima gli orientamenti espressi dalle sezioni semplici. Il potere della Plenaria di restituire gli atti alla sezione segue un procedimento diverso rispetto a quello previsto per il rito civile e disciplinato dall�articolo 374 c.p.c., il quale stabilisce che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione investite del potere nomofilattico, non hanno il potere di restituire gli atti alla sezione rimettente. (81) R. DE NICTOLIS, Il secondo correttivo del codice del processo amministrativo. (82) Relazione di PASQUALE DE LISE del 19 novembre 2012 sulle impugnazioni nel codice del processo amministrativo, in occasione della presentazione del libro �Le impugnazioni nel processo amministrativo� di MARIO SANINO. Una novit� � stata introdotta nell�articolo 99 comma 2 c.p.a., dal decreto legislativo 104/2010 e non oggetto di modifica da parte del primo e del secondo correttivo al codice del processo. In particolare, si tratta del potere conferito, al Presidente del Consiglio di Stato, prima della decisione, anche se la formula utilizzata dalla norma induce a ritenere che il deferimento possa intervenire anche dopo che la sezione abbia trattenuto la causa per la decisione, purch� questa non sia depositata, di risolvere questioni di massima di particolare importanza e rispetto al passato risulta pi� accentuato il suo ruolo, dal momento che il deferimento da parte sua pu� aversi non solamente come prevedeva l�art. 45 del r.d. 1054/1924, ove si renda necessaria la risoluzione di questioni di massima, ma anche in caso di contrasti giurisprudenziali. La ratio della riforma � quella di realizzare l�unit� del diritto nazionale prevista per la Cassazione all�art. 65 della legge sull�ordinamento giudiziario. La norma trova un fondamento normativo nell�art. 376 secondo e terzo comma e nell�art. 374 secondo comma c.p.c. Una parte della dottrina (83) ha molto criticato il potenziamento del ruolo del Presidente del Consiglio di Stato sul potere di deferimento della questioni controversie all�Adunanza Plenaria, perch� eccessivo; infatti da quanto si desume dalla previsione della norma, il Presidente del Consiglio di Stato pu� deferire, non solo su richiesta delle parti (circostanza che potrebbe essere significativa: in caso appunto di mancato accoglimento di un�istanza di questo genere davanti alla sezione presso la quale la causa si discute, la parte potr� domandare al Presidente che venga deferita all�Adunanza Plenaria), ma lo pu� fare addirittura d�ufficio, senza che la parte lo abbia domandato. La norma non precisa neppure quando possa farlo, se in ogni tempo, o fino alla decisione, lasciando lacune che devono essere assolutamente colmate. Si tratta di una critica di carattere sostanziale, non processuale. Il Presidente, esercitando il potere di rimettere la causa all�Adunanza Plenaria, genera un vulnus al principio del giudice naturale precostituito per legge, che � principio troppo importante per essere sacrificato per esigenze di nomofilachia e dell�uniformit� dell�ordinamento giudiziario su tutte le questioni, anche su quelle pi� importanti. Con l�entrata in vigore dei primi due commi dell�art. 99 del codice del processo amministrativo, infatti, il legislatore ha cercato di colmare la laconicit� dell�articolo 45 del t.u. sul Consiglio di Stato. Il deferimento della �questione� al massimo organo della giustizia amministrativa, ne � testimonianza con l�aumento delle decisioni del Consiglio di Stato rese in Adunanza Plenaria, che � stato congruente con l�ampliamento delle ipotesi di remissione all�Adu (83) A. POLICE, Relazione sulla riforma del codice del processo amministrativo tenutasi presso l�Universit� degli studi di Roma Tor Vergata il 30 aprile 2010, pag. 19. nanza Plenaria, sia sotto il profilo soggettivo (deferimento all�adunanza plenaria da parte del Presidente del Consiglio di Stato su richiesta delle parti, ma, con la riforma anche d�ufficio), sia sotto quello oggettivo (per dirimere contrasti giurisprudenziali, attuali o potenziali). L�intento del legislatore di attribuire al Presidente del Consiglio di Stato maggiori poteri rispetto alla precedente disciplina trova un riscontro pratico essenzialmente nelle �notevoli competenze tecniche del Presidente del Consiglio di Stato�, ed in particolare nella valutazione delle singole fattispecie sottoposte alla sua attenzione. La norma � innovativa soprattutto con riferimento al novero dei soggetti perch� attribuendo al Presidente del massimo organo della giustizia amministrativa, il deferimento della questione all�Adunanza Plenaria, colma la lacuna della precedente disciplina che evidentemente �aveva mancato di estendere questa attribuzione che soltanto in un momento successivo � stato avvertito dalla giustizia amministrativa e poi codificata dal legislatore della riforma� (84). La terza ipotesi, prevista e disciplinata dall�art. 99 comma 3, ricorre quando la sezione cui � assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall�Adunanza Plenaria. In tal caso rimette a quest�ultima con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. Dalla lettura della norma � palese l�intenzione del legislatore di rafforzare il dovere di motivare, e rivolgendosi soprattutto ai giudici che devono indicare in modo pi� preciso i punti di dissenso e le ragioni che supportano tale opinione. La norma precisa che al Consiglio di Stato spetta un�ulteriore funzione e cio� quella di decidere anche il ricorso nel merito. La previsione contenuta nel terzo comma dell�art. 99 c.p.a. ha portata innovativa e ci� � stato avallato anche dalla giurisprudenza costituzionale (85) che riconosce la funzione nomofilattica della Plenaria, in conformit� con le pi� recenti trasformazioni del processo civile riguardanti le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Con l�introduzione dell�art. 99 comma 4 c.p.a. invece, il legislatore ha conferito all�Adunanza Plenaria il potere di decidere sia l�intera controversia, sia quello di limitarsi ad enunciare il principio di diritto, sciogliendo il punto (84) M. SANINO, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Edizioni Giappichelli, pag. 113, anno 2012. (85) Con la sentenza n. 30 del 24 gennaio 2011, la Corte Costituzionale � stata chiamata a pronunciarsi sulla possibilit� che le Sezioni riunite della Corte dei Conti si pronuncino sui giudizi che presentano una questione di diritto decisa in senso difforme dalle sezioni centrali o regionali e ha dichiarato in parte inammissibile ed in parte infondata la questione di legittimit� costituzionale dell�art. 1 comma 7, terzo periodo del d. l. 15 novembre 1993, n. 453 convertito, con modificazioni, nella legge n. 19 del 14 gennaio 1994, come integrato dall�art. 42, comma 2 della legge n. 69/2009 con riferimento agli artt. 24, 25 e 11 cost., nella parte in cui � stato attribuito al Presidente della Corte dei Conti il potere di deferimento di questioni di massima in relazione ai giudizi pendenti innanzi alle sezioni giurisdizionali di primo grado e di appello. controverso o di particolare importanza, restituendo per il resto il giudizio alla sezione remittente. Autorevole dottrina (86) ha osservato che l�introduzione dell�art. 99 comma 4, rappresenta soltanto in parte un�innovazione perch� gi� nel 1907 si stabil� che l�Adunanza Plenaria potesse decidere l�intera controversia, confermando cosi le proprie funzioni nomofilattiche. Per capire la ratio della riforma bisogna fare un breve richiamo alla precedente normativa; il riferimento � all�art. 73 del Regolamento di Procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, r.d. 17 agosto 1907, n. 642, secondo il quale �l�Adunanza, quando si pronuncia a termini e per gli effetti dell�art. 37 (oggi 45) della legge, terzo capoverso, decide in tutte le altre questioni della controversia�. Dal contenuto della norma � palese la regola della Plenaria che decideva �in tutte le altre questioni della controversia� e che una volta rimessa la causa al- l�esame dell�Adunanza Plenaria, questa avrebbe deciso sia del fatto che del diritto. L�opinione di chi scrive � che rispetto alla precedente disciplina il legislatore abbia finalmente codificato il pensiero della dottrina ma soprattutto quanto gi� affermato in giurisprudenza (87), circa il potere dell�Adunanza Plenaria di decidere l�intera controversia, oppure limitarsi ad enunciare il principio di diritto per poi rimettere a sua discrezione la questione sottopostale alla sezione remittente, attribuendole perci� maggiore potere decisorio in merito alla prosecuzione o meno della controversia e ci� si desume dall�inciso �salvo che ritenga�, formula che appare contemplare ipotesi eccezionale e condizionata da una specifica valutazione del Collegio. Rimane da esaminare l�ultimo comma dell�art. 99 c.p.a.; quest�ultimo in conformit� a quanto previsto dall�art. 363 c.p.c. (che disciplina il ricorso nel- l�interesse della legge), consente all�Adunanza Plenaria di enunciare �il punto di diritto� nell�interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero in caso di estinzione del giudizio. Si tratta senz�altro di un�altra novit� nel codice del processo amministrativo, ipotesi assente nella precedente disciplina e precisamente nell�art. 45 del t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato 1054/1024. Con tale norma viene scissa la soluzione della questione di diritto dalla definizione del giudizio realizzata dalla sentenza di rito e ci� si evince dalla lettura dell�ultimo periodo dell�art. 99 e precisamente dall�inciso �la Pronuncia dell�Adunanza Plenaria non ha effetto sulla sentenza impugnata�. (86) M. SANINO, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Edizioni Giappichelli, 2012, 114. (87) Il riferimento � ovviamente alle decisioni nn. 4, 5, 7, 8, 9 del 30 luglio 2008 rese in Adunanza Plenaria dal Consiglio di Stato, e prevedevano che l�Adunanza Plenaria possa limitarsi a pronunciare il principio di diritto, restituendo per il resto il giudizio alla sezione remittente, senza condizionare tale scelta ad alcun presupposto di fatto o di diritto e quindi sulla base dell�insindacabile scelta del Supremo Consesso. Il primo correttivo del codice del processo amministrativo e precisamente il d. lgs. 195/2011 ha modificato l�ultimo periodo dell�art. 99 comma 5 c.p.a.; le parole �sulla sentenza impugnata� sono state sostituite dalle seguenti �sul provvedimento impugnato�. Secondo autorevole dottrina, rispetto alla precedente disciplina quindi gli effetti della pronuncia dell�adunanza plenaria non si ripercuotono sulla sentenza impugnata, bens� sul provvedimento impugnato e genera anche risvolti processuali, perch� l�appello non viene pi� considerato un vero e proprio giudizio di impugnazione avente ad oggetto la sentenza del T.a.r. avverso la quale vanno rimosse specifiche censure, non bastando la generica riproduzione dei motivi di ricorso mossi contro il provvedimento impugnato in primo grado, bens� come gravame, avente come riferimento il rapporto oggetto della controversia di primo grado incentrato appunto sul provvedimento amministrativo. Tesi, quest�ultima, ritenuta condivisibile anche secondo l�opinione di chi scrive (88). � opportuno precisare che l�enunciazione del principio di diritto in caso di chiusura in rito del giudizio non costituisce un obbligo per l�Adunanza Plenaria, bens� una facolt� da esercitare e ci� lo si desume dall�inciso �l�Adunanza Plenaria pu� comunque enunciare il principio di diritto�. Questa disposizione, al pari delle altre, � da considerarsi innovativa perch� comunque conferma e rafforza il ruolo dell�Adunanza Plenaria anche quando il giudizio si conclude con una decisione di rito e riservando quindi all�Adunanza Plenaria almeno teoricamente di giungere ad un diverso avviso rispetto a quanto rilevato dall�organo remittente. Un�ultima considerazione va fatta, infine, con riferimento alla previsione o meno di un filtro sull�ammissibilit� sulla rimessione all�adunanza plenaria, per poi tracciare una distinzione rispetto al giudizio di Cassazione. La questione era stata gi� studiata dalla pi� autorevole dottrina (89), che si era posto il problema dell�opportunit� di creare un filtro preliminare omogeneo all�Adunanza Plenaria. Secondo l�autore appena citato, la norma non prevede alcun filtro sull�ammissibilit� della questione all�Adunanza Plenaria come invece � previsto per il giudizio civile, ai sensi dell�art. 47 della legge n. 69 del 2009, che ha introdotto l�art. 360 bis, concernente l�inammissibilit� del ricorso: �1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa; 2) quando � manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo�. Si tratta, infatti, di una previsione che nel caso del Consiglio di Stato par (88) M.G. ANTONUCCI, Elementi di diritto processuale amministrativo, Giuffr� Milano, 2012. (89) S. OGGIANU, Resoconto del seminario sul libro III (le Impugnazioni) del progetto di codice del processo amministrativo svoltosi il 30 aprile 2010 presso l�Universit� degli studi di Roma Tor Vergata. rebbe opportuno limitare ai casi in cui si prevede il deferimento del caso controverso all�Adunanza Plenaria e non rispetto alla sezione semplice, stante la commistione di funzioni di giudice d�appello e di funzioni nomofilattiche dell�organo di vertice della giurisdizione amministrativa. Infatti, senza questo adattamento si priverebbe il processo amministrativo del secondo grado, in contrasto peraltro con la previsione di cui all�art. 125 della Costituzione. � inoltre necessario precisare che mentre l�articolo 360 bis c.p.c. si riferisce ad un mezzo di impugnazione, il ricorso in Cassazione appunto, il ricorso all�Adunanza Plenaria non costituisce un mezzo di impugnazione, ma si inserisce nel processo prima che la controversia sia definita con sentenza ed anzi la soluzione del caso � adottata direttamente dal supremo consesso amministrativo; correlativamente, mentre il ricorso in cassazione � ad istanza di parte, l�Adunanza plenaria pu� essere adita dalla sezione o dal Presidente del Consiglio di Stato. Anche sotto questo profilo, dunque, l�istituto, che pu� essere suscettibile di estensione quanto all�idea di fondo, necessita un adattamento alle dinamiche proprie del processo amministrativo. Del resto si tratta di una soluzione presente anche in altri ordinamenti di civil law, in cui la giustizia amministrativa � distinta dalla giustizia civile (90). Si cita come esempio l'ordinamento francese dove il Conseil d'Etat �, in materia di contenzioso amministrativo, al tempo stesso organo di vertice del- l'ordine giurisdizionale amministrativo e giudice di Cassazione. Tuttavia il profilo organizzativo (Cour Supr�me) e quello funzionale (jurisdiction de cassation) non sempre coincidono, dal momento che il codice di giustizia amministrativa (CJA) ha previsto una diversa procedura per il ricorso al Consiglio di Stato quale giudice di una nomofilachia �preventiva�, rispetto a quella esercitata in forza del rinvio allo stesso giudice come corte di ultima istanza. L�accesso al Conseil dՏtat quale giudice di cassazione � caratterizzato, infatti, dal punto di vista procedurale, da una fase preliminare in cui viene sindacata l�ammissibilit� dell�istanza, che precede la trattazione del ricorso. La procedura � imperniata sul principio inquisitorio e si svolge in assenza di contraddittorio tra le parti. In particolare, dispone l�art. 11 della l. 1127/1987: �il ricorso per cassazione davanti al Consiglio di Stato � oggetto di una procedura preliminare di ammissione. L�ammissione � rifiutata con decisione giurisdizionale, se il ricorso � irricevibile o non � fondato �su alcun motivo serio�. Dal punto di vista delle ipotesi di inammissibilit�, posti in disparte i casi di irricevibilit� che presentano scarso interesse rispetto al discorso che si va svolgendo, appare interessante rilevare l�elasticit� della previsione normativa che fa riferimento alla condizione che il ricorso non sia fondato su �alcun motivo (90) S. OGGIANU, Commento all�istituto del ruolo dell�Adunanza Plenaria, 30 aprile 2010 presso l�Universit� degli Studi di Roma Tor Vergata. serio�. La formulazione al negativo, infatti, da un lato estende i confini del- l�ammissibilit�, poich� sembra escludere i soli ricorsi che si presentino manifestamente non seri, cio� non imperniati su fondate questioni di diritto; dall�altro, proprio l�ulteriore attitudine all�adattamento � data dal riferimento al �motivo serio� non meglio specificato. Un altro esempio lo si pu� fare con riferimento all�ordinamento tedesco, dove la giurisdizione amministrativa si articola in tre gradi di giudizio: tribunali di prima istanza (Tribunali amministrativi, Verwaltungsgerichte), tribunali di appello (Tribunali amministrativi superiori, Oberverwaltungsgerichte, OVG) ed un Tribunale amministrativo federale (Bundesverwaltungsgerichte, BverwG). A quest'ultimo, in prima battuta, � affidato l'esercizio della funzione nomofilattica, in seno al ricorso di revisione, disciplinato dalla XIII sezione (revisione) della legge sul processo amministrativo (Verwaltungsgerichtsordnung, VwGO) del 21 gennaio 1960. In particolare, ai sensi del par. 132 �contro la sentenza definitiva di un tribunale amministrativo superiore (...) alle parti spetta la revisione solo se il tribunale amministrativo superiore l'ha ammessa o se l'ha ammessa il tribunale federale amministrativo su ricorso contro la non ammissione� (co.1). Anche la legge tedesca, quindi, condiziona il ricorso in revisione ad una previo giudizio di ammissibilit� rimesso al giudice di seconda istanza e, in sede di impugnazione della decisione di questo, al Tribunale amministrativo federale. Le condizioni di ammissibilit� della revisione sono enunciate al co. 2 del citato par. 132: �la revisione � da ammettere se: 1) la causa ha un'importanza fondamentale; 2) la sentenza diverge da una decisione del Tribunale di revisione o del Senato comune delle supreme corti del Bund e si basa su questa divergenza; 3) viene fatto valere ed � presente un vizio processuale sul quale pu� basarsi la decisione�. Conclude il par. 3 che �il tribunale federale amministrativo � vincolato all'ammissione�. Il risarcimento del danno per equivalente da aggiudicazione illegittima. Osservazioni in materia di decadenza dell�azione di condanna, prescrizione e quantum risarcibile Cesare Trecroci* SOMMARIO: 1. Premesse - 2. Art. 30, co. 5, c.p.a. Azione di condanna proposta in via autonoma. Dies a quo di decorrenza del termine decadenziale in relazione al pricipio del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione e, in definitiva, in relazione al principio di acquiescenza di cui all�art. 329 c.p.c. - 3. Aggiudicazione provvisoria e aggiudicazione definitiva. Dies a quo di decorrenza della prescrizione - 4. Determinazione del quantum risarcibile: spese per la partecipazione alla gara; mancato utile e perdita di chances; danno all�immagine a carico dell�impresa non aggiudicataria della gara di appalto; danno curriculare. Orientamenti giurisprudenziali a confronto. 1. Premesse. Il risarcimento del danno da aggiudicazione illegittima ha rappresentato ed ancora rappresenta una tematica di grande interesse per la giurisprudenza e la dottrina amministrativiste. Ci� non dipende soltanto dalla prassi giudiziaria, dove sono frequenti le domande risarcitorie, in forma specifica o per equivalente. Per converso, la problematica in esame svolge un importante ruolo nell�enucleazione delle modalit� con cui il giudice amministrativo pu� condannare l�amministrazione a risarcire i danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi. Tutto ci� premesso, nella presente trattazione, ci si concentrer� su alcuni dubbi in merito: a) al dies a quo di decorrenza del termine di decadenza per la proposizione dell�azione di condanna, ai sensi e per gli effetti dell�art. 30, comma 5, c.p.a., in relazione al principio del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione e, in definitiva, in relazione al principio di acquiescenza di cui all�art. 329 c.p.c.; b) al dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione per il risarcimento del danno da aggiudicazione illegittima, sia essa l�aggiudicazione provvisoria o l�aggiudicazione definitiva; c) alla determinazione del quantum risarcibile per equivalente, con particolare riferimento al danno emergente (spese per la partecipazione alla gara), al lucro cessante (mancato utile ovvero perdita di chances), al danno all�immagine, al danno curriculare. 2. Art. 30, co. 5, c.p.a. Azione di condanna proposta in via autonoma. Dies a quo di decorrenza del termine decadenziale in relazione al principio del giu (*) Dottore in Giurisprudenza, gi� praticante forense presso l�Avvocatura dello Stato. dicato interno ed implicito sulla giurisdizione e, in definitiva, in relazione al principio di acquiescenza di cui all�art. 329 c.p.c. Il combinato disposto degli articoli 30 e 34, comma 3, c.p.a., ammette espressamente l�esperibilit� di un�azione di condanna dinanzi al giudice amministrativo (1). In particolare, come gi� prevedeva l�art. 7, l. n. 205/2000, di modifica dell�art. 7, l. TAR (2), � ammessa la proposizione dell�azione di condanna dinanzi al G.A., contestualmente a quella di annullamento (3), ovvero nel corso del giudizio di primo grado (4). Inoltre, superato l�acceso contrasto giurisprudenziale in tema di �pregiudiziale amministrativa� (5), il nuovo codice del processo amministrativo consente la proposizione di un�azione di condanna in via autonoma, anche se non (1) L�art. 30 c.p.a. prescrive quanto segue. �1. L�azione di condanna pu� essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma. 2. Pu� essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall�illegittimo esercizio del- l'attivit� amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva pu� altres� essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall�articolo 2058 del codice civile, pu� essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica. 3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi � proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si � verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l�ordinaria diligenza, anche attraverso l�esperimento degli strumenti di tutela previsti. 4. Per il risarcimento dell�eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell�inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l�inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere. 5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria pu� essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. 6. Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo�. Specularmente, l�art. 34, comma 3, c.p.a. sancisce che: �Quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta pi� utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimit� del- l'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori�. (2) L�art. 7, comma 3, l. TAR n. 1034/1971, stabiliva che: �Il tribunale amministrativo regionale, nell�ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all�eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Restano riservate all'autorit� giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacit� dei privati individui, salvo che si tratti della capacit� di stare in giudizio, e la risoluzione dell'incidente di falso�. (3) Art. 30, comma 1, cpv., c.p.a. (4) Art. 30, comma 5, cpv., c.p.a. (5) Per pregiudiziale amministrativa si intende la necessit� di esercitare una previa o contestuale azione di annullamento prima di potere formulare una domanda risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo ovvero al giudice ordinario. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4; Ad. Plen., 22 ottobre 2007, n. 12. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, Tomo I, Milano, 2011, pp. 596 e ss.. vi � pi� interesse all�annullamento del provvedimento (6), quando si versi nell�ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e negli altri casi previsti dall�art. 30 c.p.a. (7), nonch� quando non siano ancora trascorsi centoventi giorni dalla verificazione del fatto o del provvedimento lesivi (8), ovvero quando non siano ancora trascorsi centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza demolitoria (9). Ci� detto, nell�ipotesi di un�azione di condanna esperita in via autonoma, ai sensi dell�art. 30, comma 5, c.p.a., ci si chiede quale sia il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale. Infatti, non sembrerebbe poi cos� pacifico che il dies a quo e, quindi, il passaggio in giudicato della pronuncia di annullamento vada individuato nel- l�inutile decorso del termine per la revocazione ordinaria, ovvero nel decorso del termine per la proposizione del ricorso per cassazione per i motivi attinenti alla giurisdizione, ovvero nella declaratoria di inammissibilit� dei due mezzi di impugnazione, ai sensi e per gli effetti dell�art. 324 c.p.c. (10). Per converso, il principio generale in tema di passaggio in giudicato formale delle sentenze di appello trova una palese deroga nel principio di acquiescenza ex art. 329 c.p.c. (11) e nel principio del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione, che del principio di acquiescenza costituisce una specificazione. D�altra parte, per la costante letteratura, l�acquiescenza, espressa o tacita, rende inammissibile l�impugnazione per difetto di interesse. In aggiunta, nel- l�ipotesi di acquiescenza impropria o parziale (art. 329, comma 2, c.p.c.), il difetto di interesse rende inammissibile l�impugnazione in parte qua (12), sia che si acceda a quella tesi per cui il capo di sentenza non impugnato deve aver definito una domanda nel merito (13), sia che si acceda a quell�altro indirizzo interpretativo per cui il capo di sentenza non impugnato pu� aver definito anche una mera questione pregiudiziale di rito ovvero una questione preliminare di merito (14). (6) Art. 34, comma 3, c.p.a. (7) Art. 30, comma 1, c.p.a. (8) Art. 30, comma 3, c.p.a. (9) Art. 30, comma 5, c.p.a. (10) L�art. 324 c.p.c. stabilisce che: �Si intende passata in giudicato la sentenza che non � pi� soggetta n� a regolamento di competenza, n� ad appello, n� a ricorso per cassazione, n� a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell�articolo 395�. In base a quanto stabilisce l�art. 324 c.p.c., il Consiglio di Stato ha pi� volte affermato che la sentenza di appello passerebbe in giudicato laddove siano trascorsi il termine di proposizione del ricorso per revocazione ordinaria e del ricorso per cassazione per i motivi attinenti alla giurisdizione. Cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 19 maggio 1997, n. 9. Cfr. anche F. CARINGELLA, Manuale di diritto processuale amministrativo, Roma, 2011. Tuttavia, come si osserva in questo scritto, tali affermazioni appaiono semplicistiche e poco attente rispetto ad una ricostruzione sistematica della normativa in tema di impugnazioni. (11) L�art. 329 c.p.c. stabilisce che: �1. Salvi i casi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell�art. 395, l'acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volont� di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilit�. L�impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate�. Tale avviso della dottrina � stato fatto proprio dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, il quale ha di sovente affermato che: �Nel giudizio amministrativo qualora la decisione impugnata si sorregga su una pluralit� di motivi, ciascuno dei quali sia da solo in grado di sostenerla perch� fondato su specifici presupposti logico - giuridici, spetta all�appellante contrastarli tutti, sicch� l�omessa contestazione di uno di tali motivi implica, in applicazione dell�art. 329, secondo comma, c.p.c., l�acquiescenza a detto capo il formarsi del giudicato su di esso e, per l'effetto, l�inammissibilit� del gravame proposto avverso gli altri capi� (15). Peraltro, secondo la pi� recente giurisprudenza di legittimit�, il principio di acquiescenza non opera soltanto con riferimento alle statuizioni espresse od assorbite contenute nella sentenza soggetta a gravame. Per converso, esso opera anche con riguardo alle decisioni implicite in tema di riparto di giurisdizione ovvero di condizioni dell�azione, come ad esempio l�interesse ad agire di cui all�art. 100 c.p.c. (16). Cos�, per la giurisprudenza delle Sezioni Unite, il giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione costituisce una specificazione del principio di tacita acquiescenza rispetto ai capi di sentenza non tempestivamente impugnati, ai sensi e per gli effetti dell�art. 329, comma 2, c.p.c. (17). Per di pi�, con la pronuncia n. 23306/2011, le Sezioni Unite esaminavano i rapporti tra l�acquiescenza (il giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione) ed il definitivo passaggio in giudicato formale della sentenza di appello soggetta a gravame. Dunque, la Suprema Corte affermava che: �Nel processo davanti al (12) LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, vol. II, 4a ed., Milano, 1984, pp. 269 e ss.. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, vol. II, 20a ed., Torino, 2009, pp. 436 e ss.. COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, 2a ed., Bologna, 1998, pp. 787 e ss.. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, 2a ed., Milano, 2002, pp. 280 e ss.. BONSIGNORI, Impugnazioni civili in generale, in Digesto civ., IX, Torino, 1993, pp. 345 e ss.. RONCO, Note sull'acquiescenza cosiddetta tacita o implicita, nota a Cass. 11 agosto 2000, n. 10706, in GI, 2001, pp. 700 e ss.. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 3a ed., Napoli, 1999, pp. 493 e ss.. (13) Questa era l�opinione della dottrina un tempo dominante. LIEBMAN, �Parte� o �capo� di sentenza, in RDPr, 1964, pp. 47, 57. BIANCHI, L'oggetto dell'appello civile, Milano, 2000, p. 134. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. II, 2, Milano, 1962, p. 53. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, II, 3a ed., Napoli, 1956, p. 384. (14) Questa era l�opinione della dottrina minoritaria, oggi dominante, fortemente criticata e, ci� nondimeno, fatta oggi propria dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite: cfr. Cassazione, Sez. Un., n. 24883/2008, in tema di giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione; Sez. I, 5 ottobre 2012, n. 17060, in materia di giudicato interno ed implicito sul difetto di interesse ad agire e di legittimazione attiva; 29 marzo 2013, n. 7941, in tema di giudicato interno ed implicito sulla nullit� della clausola compromissoria e sull�incompetenza del collegio arbitrale, Sez. II, 22 gennaio 2013, n. 1493, in tema di giudicato interno ed implicito sulla possibilit� giuridica (condizione dell�azione) di una domanda possessoria, in luogo di una domanda petitoria. POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, p. 131; Giusto processo e oggetto del giudizio di appello, in RDPr, 2010, p. 57. COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, op. cit., p. 788. (15) Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 dicembre 2012, n. 6370. (16) Cfr. nota 13. (17) Cassazione, Sez. Un., 9 ottobre 2008, n. 24883. giudice amministrativo, come disciplinato dalla l. 6 dicembre 1971, n. 1034, e dal suo art. 30, la decisione sulla questione di giurisdizione, implicita nella decisione di rigetto del ricorso rivolto al tribunale amministrativo regionale passa in giudicato se, impugnata dal ricorrente la decisione sul merito, non � a sua volta impugnata dagli interessati con appello incidentale condizionato� (18). In altri termini, per la giurisprudenza, ai sensi e per gli effetti dell�art. 329, comma 2, c.p.c., l�acquiescenza determina: a) la mancata devoluzione del capo di sentenza non impugnato presso il giudice dell�impugnazione; b) come risvolto negativo dell�inammissibilit� originaria (o forse dell�irricevibilit�) del gravame, il passaggio in giudicato del capo in analisi. In termini conformi si � espressa la Corte Costituzionale, in un obiter dictum contenuto nella sentenza n. 155 del 1990. In quella sede, la Consulta afferm� che addirittura l�inammissibilit� sopravvenuta (rectius: improcedibilit�) dell�appello, per difetto di legittimazione attiva e difetto di interesse ad impugnare, determina automaticamente il passaggio in giudicato formale della sentenza appellata fin dalla data di deposito (19). Ne deriva che, se acquiescenza � stata prestata, sarebbe irrilevante la notifica della pronuncia di annullamento ai fini del passaggio in giudicato della stessa, cos� come sarebbe irrilevante il termine di sessanta giorni per avanzare ricorso per cassazione ovvero il termine di sessanta giorni per la proposizione della revocazione ordinaria (20). In effetti, se l�inammissibilit� originaria del gravame si risolve nell�im (18) Cassazione, Sez. Unite, 9 novembre 2011, n. 23306. (19) Corte Costituzionale, 19 marzo-4 aprile 1990, n. 155. (20) Articoli 325 e 326 c.p.c. Inoltre, ai sensi dell�art. 327 c.p.c., modificato dalla l. n. 69/2009, il termine lungo per la proposizione del ricorso per cassazione o della revocazione ordinaria � di sei mesi. Ci� nondimeno, l�acquiescenza rende irrilevante anche il termine lungo, posto che l�inammissibilit� originaria dell�impugnazione (irricevibilit�) ha, come contraltare, il passaggio in giudicato della sentenza di appello sin dalla data di deposito. Ci si chiede se, nelle controversie aventi ad oggetto il risarcimento per equivalente del danno derivante da aggiudicazione illegittima, trovi applicazione, quanto meno per il termine di proposizione della revocazione ordinaria, la dimidiazione dei termini ex art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a. Tale questione produce conseguenze anche sulla disciplina del contributo unificato. In effetti, ai sensi dell�art. 13, comma 6-bis, lett. d), D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il contributo unificato per le controversie in tema di affidamento di lavori, servizi e forniture (art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a.) � di � 6.000,00. Altrimenti, il contributo unificato sarebbe di � 650,00, ai sensi e per gli effetti dell�art. 13, comma 6-bis, lett. e), D.P.R. n. 115/2002. Il Consiglio di Stato ha escluso l�applicabilit� della dimidiazione dei termini (e quindi del contributo unificato maggiore) alle controversie in cui l�azione di condanna � esercitata in via autonoma. Non cos� se l�azione di condanna � esercitata contestualmente a quella di annullamento. Nel primo caso, infatti, il petitum sostanziale � direttamente estraneo, ancorch� sia poi collegato, alla legittimit� delle procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture. Nel secondo caso, invece, il petitum sostanziale riguarda esplicitamente siffatte procedure. Cfr. Circolare del 18 ottobre 2011 del Segretario Generale della Giustizia amministrativa, recante Istruzioni sull�applicazione della disciplina in materia di contributo unificato nel processo amministrativo (con aggiornamento al 1� marzo 2012). Contra, cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 29 marzo 2013, n. 3228. mediato passaggio in giudicato formale della sentenza di annullamento fin dalla data di deposito, sembrerebbe chiaro come la successiva notifica della pronuncia in esame sia irrilevante ai fini del decorso del termine breve per proporre impugnazione, ai sensi dell�art. 326 c.p.c.. Senza dimenticare come, anche nel processo civile, la notifica della sentenza o di un mezzo di gravame (la revocazione ordinaria, ad esempio) � idonea a far decorrere il termine breve per tutte le impugnazioni proponibili contro la medesima pronuncia (il ricorso per cassazione, ad esempio) (21). Per di pi�, per quanto attiene alla giurisdizione, in virt� del principio di acquiescenza (e della sua specificazione, ovverosia il giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione), il capo di sentenza da impugnare passerebbe in giudicato gi� con l�utile decorso del termine per proporre appello avverso la sentenza del TAR (22). In relazione alle specifiche fattispecie, tali conclusioni potrebbero valere anche per il ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale (23) ovvero per il ricorso per revocazione ordinaria (24), stante il carattere univer (21) Cassazione, Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1196: �La notificazione della citazione per la revocazione di una sentenza di appello equivale (sia per la parte notificante che per la parte destinataria) alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione, onde la tempestivit� del successivo ricorso per cassazione va accertata non soltanto con riguardo al termine di un anno dal deposito della pronuncia impugnata, ma anche con riferimento a quello di sessanta giorni dalla notificazione della citazione per revocazione, a meno che il giudice della revocazione, a seguito di istanza di parte, abbia sospeso il termine per ricorrere per cassazione, ai sensi dell�art. 398, 4� comma, c.p.c. (nel testo novellato dall�art. 68 l. n. 353 del 1990); tale effetto sospensivo si produce soltanto a seguito del provvedimento del giudice, e non della semplice richiesta della parte (che peraltro pu� essere contenuta anche in atto distinto dalla citazione per revocazione), e ci� non contrasta, manifestamente, con il diritto di difesa, la cui garanzia costituzionale si attua nelle forme e nei limiti stabiliti dal- l�ordinamento processuale, salva l�esigenza della effettivit� della tutela del medesimo diritto, che nella specie appare pienamente rispettata, atteso che la parte dispone comunque per intero del termine di sessanta giorni dalla prima notifica per ricorrere per cassazione, qualunque sia l�esito dell�istanza di sospensione, mentre gli effetti della scelta di attendere il provvedimento del giudice sull�istanza di sospensione non possono che imputarsi alla stessa parte che tale scelta processuale ha ritenuto di compiere". (22) Art. 9 c.p.a.: �Il difetto di giurisdizione � rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione � rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione�. Il presente articolo codifica, per il solo processo amministrativo, il principio del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione, sancito dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 24883/2008. (23) In particolare, viene in rilievo il difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione. Il ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale � pur sempre un ricorso ex art. 111, comma 8, Cost., per i soli motivi attinenti alla giurisdizione. In particolare, con il ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale non si censura l�attribuzione di una determinata materia alla cognizione del giudice speciale piuttosto che al giudice ordinario (limiti esterni della giurisdizione). Per contro, si censurano le modalit� di esercizio del potere giurisdizionale, le quali possono sconfinare, ad esempio, in prerogative riservate alla pubblica amministrazione. Cos�, Cassazione, Sez. Un., 17 febbraio 2012, n. 2312, ha rilevato l�eccesso di potere giurisdizionale, da parte del Consiglio di Stato, laddove lo stesso aveva accertato, a sua volta, un eccesso di potere amministrativo, per disparit� di trattamento e contraddittoriet� del comportamento, in base a risultanze non emerse in sede istruttoria. (24) Art. 395, comma 1, nn. 4) e 5), c.p.c., cui l�art. 106 c.p.a. rinvia. sale del principio di acquiescenza ex art. 329 c.p.c., valevole per tutti i mezzi di impugnazione, per qualsivoglia motivo. In altre parole, potrebbero risultare originariamente inammissibili sia il ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale, sia la revocazione ordinaria per errore di fatto o per contrasto con il giudicato, giusta la formazione del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione, anche su un eventuale eccesso di potere giurisdizionale, nonch� giusta la formazione di acquiescenza tacita, ai sensi dell�art. 329 c.p.c., sul contrasto con res iudicata o su eventuali errori di fatto, con contestuale passaggio in giudicato della sentenza di appello sin dalla data di deposito, secondo gli insegnamenti delle Sezioni Unite n. 23306/2011. D�altra parte, in astratto, soltanto la parte soccombente in seconde cure � legittimata (e ha interesse) ad impugnare la decisione del Consiglio di Stato con revocazione o con ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale. Tuttavia, in concreto, il ricorso per eccesso di potere giurisdizionale potrebbe risultare inammissibile quando il Consiglio di Stato si limiti a confermare una precedente sentenza del TAR. In questo caso, infatti, l�eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nei poteri della pubblica amministrazione dovrebbe essere tempestivamente denunciato con i motivi di ricorso in appello, a pena di acquiescenza e di formazione del giudicato interno ed implicito sul punto. Al riguardo, trattasi di vero e proprio giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione, posto che il ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale, al pari di ogni ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, � pur sempre riconducibile nell�ambito applicativo dell�art. 111, comma 8, Cost., nonch� dell�art. 110 c.p.a. (25). Similmente, se gli appellanti (soccombenti in prime cure e vittoriosi in secondo grado) si limitassero a riproporre i motivi e le eccezioni esaminati e respinti dal TAR, in ossequio al divieto di jus novorum di cui all�art. 104 c.p.a., sarebbe comunque evidente un�identit� di petitum e causa petendi tra i giudizi di primo e di secondo grado. Di conseguenza, laddove gli appellanti non eccepiscano alcunch� in ordine ad un possibile eccesso di potere giurisdizionale del TAR, dovrebbe essersi formato il giudicato interno ed implicito sulla sindacabilit� giurisdizionale della materia devoluta alla cognizione del giudice amministrativo, giudicato facente stato tra tutte le parti (art. 2909 c.c.), anche la parte vittoriosa in primo grado e soccombente dinanzi al Consiglio di Stato. Cos�, con sentenza n. 28812/2011, le Sezioni Unite rilevavano l�eccesso di potere giurisdizionale in relazione ad una pronuncia del Consiglio di Stato, adottata in sede di ottemperanza, la quale aveva innovato la portata del giudicato, e quindi della precedente fase processuale, adducendo sopravvenienze (25) Cassazione, Sez. Un., 27 dicembre 2011, n. 28812. in fatto che giustificavano una diversa domanda di inquadramento lavorativo (26). Laddove, invece, nell�ambito delle proprie tipiche attribuzioni (27), il Consiglio di Stato si fosse limitato ad eseguire il giudicato, non innovando nulla rispetto alla precedente fase processuale (cristallizzata nel giudicato), non vi sarebbe stato eccesso di potere giurisdizionale, suscettibile di ricorso ex art. 111, comma 8, Cost. Peraltro, con una successiva pronuncia, le Sezioni Unite hanno riscontrato l�incompatibilit� tra il giudicato interno ed implicito e l�eccesso di potere giurisdizionale quando, in concreto, si sia lamentato lo sconfinamento del potere giurisdizionale in quello amministrativo, da parte del solo Consiglio di Stato (28). Se, tuttavia, il Consiglio di Stato si limita a confermare o riformare le statuizioni del TAR, relativamente ai soli motivi gi� respinti dal giudice di prime cure e successivamente riproposti, ebbene, tale sconfinamento avrebbe gi� dovuto essere dedotto tra i motivi di appello, a pena di acquiescenza e di formazione del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione (29). L�acquiescenza potrebbe anche determinare l�inammissibilit� originaria della revocazione ordinaria per contrasto con il giudicato (30) ovvero l�inammissibilit� della revocazione ordinaria per errore di fatto o per infra-petizione (31), con ovvio passaggio in giudicato della sentenza di appello dalla data del suo deposito. Per esempio, ci� potrebbe verificarsi se, accolte tutte le sue eccezioni in prime cure, la parte successivamente soccombente in appello si limitasse a supportare la validit� e correttezza delle determinazioni del TAR, non opponendo mai, con appello incidentale condizionato, una sentenza passata in giudicato, n� contestando la corrispondenza dei motivi delle imprese odierne appellanti rispetto agli atti allegati, ecc. Ad ogni buon conto, nel processo amministrativo le norme del codice di procedura civile trovano applicazione in quanto compatibili (32), mentre il codice del processo amministrativo non rinvia espressamente all�art. 324 c.p.c.. Nondimeno, � da dubitare che quest�ultima previsione normativa sia pienamente compatibile con il processo amministrativo, cos� come � da dubitare che il termine per la proposizione della revocazione ordinaria impedisca il passaggio in giudicato della sentenza di appello sin dalla data di deposito. D�altrocanto, prima della modifica legislativa intervenuta con l�art. 107, comma 2, c.p.a., il Consiglio di Stato, con sentenza n. 219/1996, sanciva che: (26) Cassazione, Sez. Un., 27 dicembre 2011, n. 28812. (27) Cassazione, Sez. Un., 18 ottobre 2012, n. 17842. (28) Cassazione, Sez. Un., 18 ottobre 2012, n. 17842. (29) Sulla ragionevole durata del processo, l�abuso del diritto ed il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, cfr. Cassazione, Sez. Un., n. 23726/2007. (30) Art. 395, comma 1, n. 5), c.p.c. (31) Art. 395, comma 1, n. 4), c.p.c. (32) Art. 39 c.p.a. �Pu� essere legittimamente esperito, non ostandovi le preclusioni di cui all�art. 403 comma 1, c.p.c. e all�art. 86 r.d. 17 agosto 1907 n. 642, il ricorso per revocazione di una decisione del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibile un precedente ricorso per revocazione proposto avverso altra decisione con cui fu dichiarato inammissibile l�appello della p.a. soccombente in prime cure, atteso che le norme citate precludono, senza che ci� determini qualsivoglia vuoto di tutela, l�impugnazione per revocazione di una sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione e di cui si lamenta l�erroneit� per un errore di fatto ai sensi dell'art. 395 n. 4, c.p.c., soltanto nel caso in cui questa sentenza sia stata resa da un giudice le cui decisioni siano suscettibili di appello o di ricorso per cassazione ex art. 360 ss., c.p.c., mentre, comՏ noto, contro le decisioni del Consiglio di Stato il ricorso per cassazione � ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione ex art. 111 cost. Diversamente argomentando, sussisterebbero dubbi di legittimit� costituzionale sull�art. 403, comma 1, c.p.c., se non si ammettesse il generale principio, basato sulla giurisprudenza costituzionale - per cui l�art. 24 cost. non tollera limitazioni di giustizia per errore di fatto commesso dalla Corte di cassazione - in virt� del quale il soggetto di diritto non pu� restare senza un rimedio giurisdizionale nel caso in cui una delle supreme magistrature, ordinaria o amministrativa, sia incorsa in un errore di fatto ex art. 395 c.p.c. e conferma di ci� � rinvenibile nel testo del ripetuto art. 403 comma 1 e dell'art. 509 c.p.c. del 1865, rispetto alle pi� rigorose prescrizioni normative che storicamente li hanno preceduti ed ispirati (ossia, l�art. 616, c.p.c. del 1854 e l�art. 579 c.p.c. del 1859, vigenti nel Regno di Sardegna e conformi all�art. 503 c.p.c. francese tutti intesi ad escludere la proposizione successiva di due domande di revocazione per la stessa sentenza ed ogni rimedio revocatorio avverso il rigetto della predetta domanda, indipendentemente dal relativo motivo)� (33). Tale orientamento giurisprudenziale, ovviamente, � stato superato dall�art. 107, comma 2, c.p.a., per cui, anche nel processo amministrativo, �la sentenza emessa nel giudizio di revocazione non pu� essere impugnata per revocazione�. Ci� nondimeno, non pu� dirsi interamente superato il contrasto giurisprudenziale gi� esistente prima dell�entrata in vigore del Cod. Proc. Amm.vo., stante il tenore letterale degli articoli 403 c.p.c. e 117, comma 2, c.p.a., i quali non si riferiscono espressamente alla declaratoria di inammissibilit� della revocazione. Cos�, a fronte dell�irrevocabilit� della sentenza che ha deciso nel merito sulla revocazione, si collocano ancora: a) una prima tesi giurisprudenziale che, in virt� delle esigenze di tutela del diritto di difesa, gi� ravvisate nella sentenza del Consiglio di Stato n. 216/1996, � favorevole all�inapplicabilit� relativa dell�art. 403 c.p.c. (oggi tra (33) Consiglio di Stato, Sez. V, 19 febbraio 1996, n. 219. sposto nell�art. 107, comma 2, c.p.a.): �Ai sensi dell�art. 403 c.p.c., applicabile anche al giudizio amministrativo, in mancanza di circostanze eccezionali quali la declaratoria di inammissibilit�, per un mero errore di fatto, dell�originaria domanda di revocazione, non � ammessa domanda di revocazione contro una decisione emessa in sede di revocazione� (34); b) una seconda tesi giurisprudenziale per cui: �Ai sensi dell�art. 403 c.p.c., � inammissibile il ricorso per revocazione proposto contro sentenza gi� pronunciata in un precedente giudizio di revocazione, contro la quale sono invece ammessi i mezzi d�impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione� (35). Ad ogni modo, almeno con riferimento alla tesi dell�inapplicabilit� relativa dell�art. 403 c.p.c., avviene che, se nel processo amministrativo � ammessa la revocazione ordinaria della pronuncia che ha dichiarato inammissibile la revocazione ordinaria di una precedente sentenza di appello, l�art. 324 c.p.c. non dovrebbe essere applicato tout court al processo amministrativo, subordinando il passaggio in giudicato della sentenza del Consiglio di Stato alla scadenza del termine per la proposizione della revocazione ordinaria e, quindi, se la revocazione ordinaria � stata proposta, alla scadenza del termine per la proposizione della revocazione ordinaria dell�eventuale pronuncia di inammissibilit� della revocazione ordinaria, e cos� via, in un circolo vizioso di revocazioni ordinarie che pregiudicano la ragionevole formazione del giudicato formale, in violazione dei principi del favor iudicati e dell�esaurimento dei mezzi di impugnazione. Per non dire come l�art. 107, comma 1, c.p.a. ammette l�appellabilit� e la ricorribilit� ex art. 111, comma 8, Cost. della sentenza che ha pronunciato sulla revocazione. Siffatta serie di gravami ulteriori potrebbe impedire il tempestivo passaggio in giudicato formale della sentenza soggetta a revocazione. Tanto avverrebbe in spregio del principio del ragionevole esaurimento dei mezzi di gravame, codificato dall�art. 324 c.p.c., nonch� in violazione della lettera di quest�ultima disposizione, da sottoporre ad interpretazione abrogante, nella parte in cui l�eventuale impugnabilit� della sentenza che ha deciso sulla revocazione, con appello o con ricorso per cassazione, procrastina necessariamente il passaggio in giudicato della sentenza stessa e, de relato, della sentenza soggetta a revocazione, specie se, in silentio legis, potrebbero essere revocabili le sentenze che decidono sull�impugnazione (ulteriormente proposta avverso la pronuncia che ha deciso sulla revocazione). Inoltre, lungi dall�esservi un orientamento giurisprudenziale uniforme, due indirizzi ermeneutici si contendono l�esatta interpretazione dell�art. 324 c.p.c.. Un primo indirizzo ermeneutico, letterale, lega la formazione della res (34) Consiglio di Stato, Sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4080. (35) Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 1476. iudicata al decorso inutile del termine per la proposizione del ricorso per cassazione, nonch� della citazione/del ricorso per revocazione ordinaria (36). Per contro, un secondo e recentissimo indirizzo interpretativo, emerso in tema di domanda per equa riparazione derivante da irragionevole durata del processo (37), in base ad una lettura di sistema, ritiene irrilevante il termine per la notifica della domanda di revocazione ai fini del passaggio in giudicato della sentenza da revocare; e ci� in base alla �natura straordinaria� dei �casi ordinari� di revocazione (38). Ci� detto, a livello sistematico, molti elementi militerebbero a favore di questa seconda tesi giurisprudenziale. In primo luogo, con riferimento al processo amministrativo, l�art. 106, comma 3, c.p.a., rafforza il carattere straordinario ed eccezionale della revocazione, la quale deve essere ritenuta ininfluente ai fini della formazione del giudicato formale. Infatti, a differenza dell�art. 396 c.p.c. (39), il quale evoca i soli casi di revocazione straordinaria avverso le sentenze rese in primo grado, l�art. 106 c.p.a. ammette il ricorso per revocazione ordinaria indifferentemente avverso le sentenze dei TAR e del Consiglio di Stato, le prime impugnabili in via concorrente rispetto all�appello, sempre che si deducano motivi non altrimenti proponibili con il mezzo di impugnazione di cui all�art. 101 c.p.a. In secondo luogo, nel processo civile, non � sempre vero che il termine per la proposizione del ricorso per cassazione, della domanda di revocazione ordinaria, o di altro mezzo di impugnazione, � comunque rilevante ai fini della determinazione della data di passaggio in giudicato formale della sentenza. Ci� non si verifica, ad esempio, laddove vi sia stata acquiescenza rispetto alla proposizione dell�impugnazione stessa, nonch� nel caso si sia formato il giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione. In terzo luogo, nell�ordinamento italiano, come permeato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell�Uomo (40), il giudicato si forma (36) Cassazione, Sez. Un., 30 aprile 2008, n. 10867. Prima dell�entrata in vigore del Cod. Proc. Amm., cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 4 aprile 2007, n. 1522; Sez. IV, 10 ottobre 2005, n. 5474, Ad. Plen., 19 maggio 1997, n. 9. (37) Legge n. 89/2001. (38) Cassazione, Sez. VI-1, 6 settembre 2012, n. 14970; Sez. I, 15 giugno 2012, n. 9843, con riferimento alla revocazione ordinaria di cui all�art. 68, lett. a), del R.D. 12 luglio 1933, n. 1214, ma gli argomenti possono essere utilizzati, mutatis mutandis, con riferimento all�art. 395, comma 1, nn. 4) e 5), c.p.c.. (39) Art. 396 c.p.c.: �Le sentenze per le quali � scaduto il termine per l'appello possono essere impugnate per revocazione nei casi dei nn. 1, 2, 3 e 6 dell'articolo precedente, purch� la scoperta del dolo o della falsit� o il recupero dei documenti o la pronuncia della sentenza di cui al n. 6 siano avvenuti dopo la scadenza del termine suddetto. Se i fatti menzionati nel comma precedente avvengono durante il corso del termine per l'appello, il termine stesso � prorogato dal giorno dell'avvenimento in modo da raggiungere i trenta giorni da esso�. (40) Secondo gli insegnamenti delle sentenze gemelle della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 2007. esclusivamente all�esito dell�esperimento di diversi gradi di giudizio, dinanzi a giudici diversi. Cos�, anche se in materia penale, ai sensi dell�art. 2, Prot. VII, CEDU, la Corte di Strasburgo ha affermato che il giudicato - suscettibile di esecuzione -pu� scaturire soltanto a seguito dell�esperimento di minimo due gradi di giurisdizione, dovendosi definire tali quei mezzi di impugnazione che assicurano la cognizione di una data causa dinanzi a giudici diversi, posti in serie o successione gerarchica (41). Ci� nondimeno, � pacifico che il giudizio di revocazione ordinaria non costituisce - n� pu� costituire - un �terzo grado� di giurisdizione, nei termini di cui all�art. 360 c.p.c., 1� cpv., c.p.c., ovvero nei termini di cui all�art. 2, Prot. VII, CEDU. D�altra parte, a pronunciarsi sulla revocazione � lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza da revocare, il che si contrappone a quanto richiesto dalla Corte di Strasburgo in termini di alterit� del giudice dell�impugnazione od, in genere, del diverso grado di giudizio. Peraltro, a testimonianza della straordinariet� ed estraneit� del procedimento di revocazione rispetto al procedimento da cui � scaturita la sentenza da revocare, sta il fatto che, sebbene il ricorso per cassazione sia ammissibile avverso le statuizioni sulla revocazione medesima, �resta [�] esclusa la possibilit� di mettere in discussione [�] la precedente decisione di merito� (42). In quarto luogo, ai sensi dell�art. 398, comma 4, c.p.c., �la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre ricorso per cassazione�. Dunque, � chiaro come il ricorso per cassazione sia un mezzo di impugnazione concorrente rispetto alla revocazione, specialmente se ordinaria; e ci� avviene perch� ammettere la ricorribilit� per cassazione della sentenza di revocazione ordinaria, deducendo vizi che non attengono al giudizio di revocazione, significherebbe ignorare quanto disposto dall�art. 398, 4� cpv., c.p.c., determinando cos� un�inammissibile proroga dei termini perentori di proponibilit� del ricorso per cassazione, ai sensi degli articoli 325, comma 2, 326, cpv., e 327, comma 1, c.p.c. Da siffatta situazione di concorrenza tra mezzi di impugnazione discende che: a) la sentenza da impugnare con ricorso per cassazione � quella resa in grado di appello, anche in virt� di un�interpretazione sistematica degli articoli 360, 1� cpv., e 398, comma 4, c.p.c. (43); (41) Corte Europea dei Diritti dell�Uomo, 5 maggio 2009, Ricorso n. 12584/08, Sellem c. Italia. Sulla diversit� dei giudici chiamati a pronunciarsi nei diversi gradi di giudizio, cfr., altres�, Corte Costituzionale, ord., 6 novembre 1998, n. 363. (42) Cfr. Cassazione, Sez. Un., 30 luglio 2008, n. 20600; Sez. Un., 24 novembre 1986, n. 6891. (43) Cassazione, Sez. II, 19 luglio 2012, n. 12495. b) la notifica del ricorso per revocazione ordinaria vale come notifica della sentenza al fine del decorso del termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione (44); c) anche nei casi ordinari di cui ai nn. 4) e 5) dell�art. 395, comma 1, c.p.c., la revocazione rappresenta comunque un mezzo di impugnazione �straordinario� (45), da proporsi dinanzi allo stesso (e non ad un diverso) giudice che ha emesso la sentenza gravata, nelle specifiche ipotesi di cui all�art. 395 c.p.c. In quinto luogo, in nome dell�unit� dell�ordinamento giuridico, nel processo penale, dove non � previsto il rimedio della revocazione ordinaria per errore di fatto, con l. n. 128/2001, � stato introdotto l�art. 625-bis c.p.p., recante il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, il quale non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza. Da ultimo, per completezza, occorre valutare se, con specifico riferimento alla decadenza ex art. 30, comma 5, c.p.a., la giurisprudenza in tema di giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione ed, in generale, in tema di acquiescenza in sede di impugnazione, sia rilevante ed applicabile ai giudizi pendenti fino al 15 settembre 2010 (46). Infatti, in virt� del principio di irretroattivit� delle norme processuali rispetto ai giudizi pendenti, fatto proprio dalla Plenaria n. 3/2011 (47), si potrebbe per assurdo escludere la rilevanza del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione in tema di passaggio in giudicato formale della sentenza di appello. Tuttavia, il principio di irretroattivit� delle norme processuali non pu� spingersi fino al punto da concretizzare un abuso del diritto, menzionato anch�esso dalla Plenaria n. 3/2011. In altre parole, non sarebbe configurabile alcun legittimo affidamento circa la disciplina processuale previgente, posto che i principi di acquiescenza e del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione hanno fatto parte del- l�acquis giurisprudenziale per lo meno tra il 2003 e l�entrata in vigore del c.p.a. D�altra parte, sebbene le Adunanze Plenarie n. 4 del 30 agosto 2005 e n. 6 del 15 settembre 2005 avessero superato in senso negativo la questione del giudicato interno ed implicito sulla giurisdizione, la giurisprudenza di legittimit� continuava comunque ad esprimersi a favore dello stesso, applicandolo ai giudizi pendenti (48). Per di pi�, secondo gli insegnamenti della Plenaria n. 3/2011, � possibile l�applicazione ai rapporti processuali pendenti delle discipline, delle deca (44) Cassazione, Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1196. (45) Cassazione n. 14970/2012 cit. (46) Ai sensi dell�art. 2, all. III al c.p.a., le decadenze previste dal nuovo codice non si applicano ai soli termini processuali pendenti alla data del 16 settembre 2010. (47) Consiglio di Stato, Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3. (48) Inter alia, cfr. Cassazione, Sez. Unite, 9 ottobre 2008, n. 24883. denze, delle preclusioni processuali che, codificate in seno al Codice del Processo Amministrativo, appartenevano gi�, anche in modo controverso, all�ordinamento previgente. Ci� accade con il concorso del danneggiato nell�illecito in difetto di tempestiva impugnazione del provvedimento lesivo. Ci� non pu� non avvenire anche con riferimento al giudicato implicito sulla giurisdizione, il quale: a) si fonda sull�interpretazione sistematica degli articoli 183, 276, comma 2, 329, comma 2, 350, c.p.c.; b) non � un principio avulso dall�ordinamento previgente al c.p.a. ed � quindi stato applicato ai giudizi pendenti, ad esempio, ad opera della nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 24883/2008. 3. Aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva. Dies a quo di decorrenza della prescrizione. La pi� recente giurisprudenza amministrativaha affermato che �il definitivo superamento della c.d. pregiudizialit� amministrativa ha comportato, come conseguenza, la generale applicazione del principio, gi� affermato da questo Consesso anteriormente all�entrata in vigore dell�attuale codice del processo amministrativo, per cui il dies a quo della prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno coincide con la data del provvedimento lesivo, e non pi� con quella del passaggio in giudicato della sentenza che lo ha annullato� (49). Tale orientamento, oltre a sugellare l�opinione della giurisprudenza dominante in tema di natura aquiliana della responsabilit� della PA, supera definitivamente la pregiudizialit� amministrativa, anche con riferimento alla decorrenza del termine quinquennale di prescrizione, ai sensi dell'art. 2947, comma 1, c.c.. Per converso, in vigenza della pregiudiziale, il Consiglio di Stato soleva dichiarare che: �In caso di risarcimento del danno conseguente all'annullamento di un atto amministrativo, la prescrizione inizia a decorrere solo dal passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale� (50). In aggiunta, il recente orientamento del Consiglio di Stato valorizza la funzione di mero accertamento, e non pure costitutiva, della sentenza che accoglie la domanda di risarcimento del danno (51). Infatti, con l�entrata in vigore del codice del processo amministrativo e sotto l�influenza della (49) Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 dicembre 2010, n. 8533; Sez. V, 13 luglio 2010, n. 4513; Sez. IV, 15 settembre 2009, n. 5523; Sez. V, 9 giugno 2009, n. 3531; Cassazione, Sez. Unite, 8 aprile 2008, n. 9040; TAR Lazio, Roma, Sez. II bis, 14 settembre 2011, n. 7276. Cfr. altres� Cassazione, Sez. Un., nn. 13659, 13660 e 13911 del 2006: con tali pronunce la Suprema Corte afferm� incidentalmente che la pregiudiziale amministrativa aggiungeva un termine di decadenza non previsto dalla legge, oltre al termine quinquennale di prescrizione a decorrere dalla conoscenza dell�atto amministrativo reputato lesivo. (50) Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 maggio 2006, n. 3157. (51) Ex multis, cfr. Cassazione, Sez. III, 13 marzo 2012, n. 3968. giurisprudenza comunitaria e costituzionale, il danno non va pi� riferito al provvedimento dichiarato illegittimo, bens� al complessivo comportamento tenuto dall�amministrazione, prima della proposizione del ricorso dinanzi al giudice amministrativo (52). Tutto ci� premesso, sempre nell�ipotesi di un�azione di condanna esercitata in via autonoma, bisogna anzitutto valutare se l�orientamento giurisprudenziale pi� recente trovi applicazione anche ai rapporti dedotti in giudizio (sub specie di domanda di annullamento) prima dell�entrata in vigore del nuovo Codice del Processo Amministrativo, il quale, come � noto, ha definitivamente superato la pregiudiziale amministrativa. Il TAR Lazio si � espresso a favore dell�applicazione retroattiva del- l�orientamento giurisprudenziale in esame (53). Ad ogni buon conto, l�art. 2, all. III al c.p.a., prevede che: �Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti�. Questo disposto sembrerebbe riferirsi ai soli termini di diritto processuale, e non anche a quelli di diritto �sostanziale�, tra i quali si annovera il termine di decorrenza della prescrizione. Costituisce infatti un principio invalso in giurisprudenza la separazione tra il diritto sostanziale e quello processuale, come contenuti nei rispettivi codici (54). Tuttavia, � indubbio come l�orientamento, inaugurato dal Consiglio di Stato nel 2009, abbia avuto un notevole impatto sull�individuazione dell�esatto dies a quo di decorrenza della prescrizione, e ci� sebbene lo stesso indirizzo, che precede l�entrata in vigore del codice del processo amministrativo (il 16 settembre 2010), abbia riguardato, di per s�, le conseguenze derivanti dalla scomparsa della pregiudiziale amministrativa. In altri termini, l�orientamento ermeneutico in questione potrebbe astrattamente a qualificarsi come overruling in merito alla determinazione del termine a quo di decorrenza della prescrizione, anche con riferimento ai giudizi pendenti. Cosicch�, si potrebbe argomentare circa la necessit� di tutelare il legittimo affidamento delle imprese ricorrenti, secondo i principi della nota sentenza delle Sezioni Unite n. 15144/2011 (55), ovvero secondo il principio dell�errore scusabile (56). Con la pronuncia in questione, le Sezioni Unite concedevano la rimessione in termini a favore di quelle parti processuali che fossero incorse in un (52) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3; riff. articoli 30, commi 3 e 5, nonch� 34, comma 3, c.p.a. (53) TAR Lazio, Roma, Sez. II bis, 14 settembre 2011, n. 7276, par. 14 della decisione. (54) Cassazione, Sez. Un., 14 aprile 2011, n. 8491 (55) Cassazione, Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144. (56) Ex multis, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1767 (cfr., altres�, Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 maggio 2007, n. 2596. improvviso revirement della giurisprudenza, in pendenza di un termine previsto a pena di decadenza, laddove il precedente indirizzo pretorio fosse sufficientemente preciso ed univoco da ingenerare un legittimo affidamento in capo alle parti medesime. Similmente � accaduto con la dottrina dell�errore scusabile, applicata dal Consiglio di Stato ad oscillazioni giurisprudenziali su tematiche di diritto processuale. Ci� nondimeno, nella fattispecie in analisi, non si versa nell�ipotesi di termini processuali, ma si tratta del termine di prescrizione, che ha natura sostanziale (57). In aggiunta, � noto come la rimessione in termini, gi� prevista dall�art. 34, T.U. leggi sul C.d.S., nonch� dall�art. 34, l. TAR, non possa operare con riferimento al termine di prescrizione. N� � previsto uno strumento analogo in diritto civile. N� risulterebbe opponibile al presente orientamento il decisum dell�Adunanza Plenaria n. 3/2011. Con la sentenza in questione, il Supremo Consesso stabiliva che: (57) � indubbio come l�eccezione di decadenza ex art. 30, comma 5, c.p.a. sia eccezione pregiudiziale di rito, connessa all�esercizio di poteri processuali come disciplinati dal c.p.a., nonch� rilevabile ex officio in ogni stato e grado del processo. Per converso, l�eccezione di prescrizione � eccezione preliminare di merito, rilevabile su istanza di parte e quindi, con riferimento al caso di specie, su istanza della parte resistente in prime cure, sino al deposito delle memorie ex art. 73 c.p.a. D�altro canto, l�art. 46 c.p.a., a differenza del comb. disp. degli articoli 166 e 167 c.p.c., non prevede la proponibilit� delle eccezioni preliminari di merito a pena di decadenza entro il termine di costituzione delle parti intimate: �Nel giudizio amministrativo la violazione dei termini sanciti dall�art. 73, co. 1, c.p.a. (d.lgs. n. 104/2010) conduce all�inutilizzabilit� processuale degli atti di costituzione in giudizio e delle memorie, con la conseguente inammissibilit� delle domande, eccezioni in senso stretto e prove col� introdotte (o allegate), con la decadenza delle facolt� processuali previste dal codice sotto comminatoria di un termine e, qualora la parte appellata costituitasi tardivamente risulti vincitrice, con la possibilit� di configurare le eccezionali ragioni per la compensazione delle spese di giudizio� (Consiglio di Stato, Sez. V, 23 febbraio 2012, n. 1058). Peraltro, con riferimento al primo grado di giudizio, � pacifico in giurisprudenza come, �nel giudizio amministrativo, il termine di sessanta giorni previsto dall�art. 46, co. 1, c.p.a. (d.lgs. n. 104/2010) non ha carattere decadenziale (fatta salva, per il giudizio di appello, l�eccezione recata dall'art. 101, co. 2, c.p.a.), essendo posto a tutela della parte intimata; in ogni caso la costituzione in giudizio non pu� intervenire oltre il termine di trenta giorni (computato a ritroso dalla data di celebrazione dell�udienza di discussione), individuato dall�art. 73, co. 1, c.p.a. per il deposito delle memorie difensive illustrative, avente carattere perentorio in quanto espressivo di un precetto di ordine pubblico processuale posto a presidio del contraddittorio e dell'ordinato lavoro del giudice� (Consiglio di Stato, Sez. V, 23 febbraio 2012, n. 1058; Sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 1120; Sez. III, 2 agosto 2011, n. 4601). Per non dire come, quand�anche la decadenza ex art. 30, comma 5, c.p.a. fosse per assurdo equiparata alle decadenze di tipo sostanziale, come quelle in tema di denuncia dei vizi nei contratti del consumatore, la differenza con la prescrizione rimarrebbe intatta. La prescrizione, infatti, rappresenta la sanzione riconnessa al mancato esercizio di una situazione giuridica soggettiva attiva nel tempo e, in definitiva, essa coincide con l�estinzione della situazione giuridica soggettiva stessa (art. 2934, comma 1, c.c.). La decadenza sostanziale, invece, � la sanzione riconnessa al mancato esercizio di un potere, a sua volta connesso al diritto soggettivo, come ad esempio accade con la garanzia per vizi o per l�evizione, e in definitiva essa determina la perdita del rimedio medesimo, ma non l�estinzione del diritto (art. 2964 c.c.). Ad ogni buon conto, � pacifico in giurisprudenza che una norma processuale si distingue da una norma sostanziale a seconda che essa sia contenuta in un codice/una legge speciale di rito ovvero nella legislazione sostanziale (Cassazione, Sez. Unite, 14 aprile 2011, n. 8491). a) in generale, le norme del codice del processo amministrativo non si applicano alle fattispecie ed ai giudizi anteriori al 16 settembre 2010; b) deroghe a questo principio sono ammesse in presenza di �situazioni anteriori [all�entrata in vigore del c.p.a.] in quanto [tali deroghe siano ricognitive] di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all�entrata in vigore del codice�. Ebbene, si potrebbe contestare che la diversa individuazione del dies di decorrenza della prescrizione sia conseguenza immediata e diretta dell�abolizione codicistica della pregiudiziale amministrativa. Cosicch�, le innovazioni del codice del processo amministrativo non potrebbero non pregiudicare i giudizi e le �fattispecie� che essi hanno ad oggetto, ivi compreso il diritto al risarcimento dei danni in dipendenza dell�annullamento dell�aggiudicazione di una gara di appalto. Tali considerazioni non appaiono fondate. In primo luogo, la pregiudiziale amministrativa non avrebbe mai potuto ingenerare un legittimo affidamento secondo i canoni delle Sezioni Unite n. 15144/2011, posto che la pregiudiziale era oggetto di forti contestazioni prima dell�entrata in vigore del D. Lgs. n. 104/2010 (58), sia in seno al giudice amministrativo, sia nel confronto tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Per di pi�, ad individuare un diverso dies a quo di decorrenza della prescrizione era quella stessa giurisprudenza amministrativa che, gi� prima del- l�entrata in vigore del c.p.a., ripudiava la pregiudizialit�, uniformandosi con ci� all�orientamento del giudice di legittimit� (59). In secondo luogo, invece, l�Adunanza Plenaria n. 3/2011 non colora il termine �fattispecie� con un attributo processuale o sostanziale. Nondimeno, l�esistenza di un disposto, quale l�art. 2, all. III al c.p.a., imporrebbe di considerare il carattere squisitamente processuale dei rapporti ad oggetto della decisione della Plenaria. In breve, se la giurisprudenza non pu� importare deroghe alle norme di legge, la necessaria armonia tra ordinamento e decisioni pretorie richiede di interpretare queste ultime alla luce della disciplina vigente. D�altro canto, l�art. 2, all. III c.p.a., fa testualmente riferimento ai �giudizi� ed alle �fattispecie�, legati in inscindibile endiadi, mentre � incontestato il principio di separazione tra diritto processuale e diritto sostanziale, per cui una legge processuale transitoria pu� avere effetto sulle sole regole processuali, e giammai su quelle sostanziali, tra le quali si annovera la prescrizione. Ne deriva che il termine quinquennale di prescrizione sembrerebbe decorrere dalla data del provvedimento di aggiudicazione, anche con riferimento ai giudizi demolitori iniziati prima del superamento definitivo della pregiudiziale amministrativa. (58) Recante il codice del processo amministrativo. (59) Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 settembre 2009, n. 5523; Sez. V, 9 giugno 2009, n. 3531. Ci� detto, ci si chiede inoltre: a) se la notifica di un eventuale atto stragiudiziale di costituzione in mora sia idoneo ad interrompere il termine di prescrizione, prima che il TAR si pronunci su un�azione di condanna esercitata in via autonoma, si sensi dell�art. 30, comma 5, c.p.a.; b) se anche l�aggiudicazione provvisoria possegga il predicato di lesivit� ai fini dell�individuazione del dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale. In particolare, non risulterebbero giuridicamente configurabili, n� efficaciai fini dell�interruzione della prescrizione, atti stragiudiziali di costituzione in mora, laddove l�art. 1219, comma 2, n. 1), c.c. esclude la costituzione in mora del presunto debitore per le obbligazioni derivanti da illecito, soprattutto prima che il giudice di prime cure si sia espresso su un�eventuale azione di condanna esercitata in via autonoma. La disciplina di cui all�art. 1219, comma 2, n. 1), c.c., detta della mora automatica, � anzitutto espressione dell�esigenza di un�immediata ed integrale eliminazione delle conseguenze dell�ingiusta lesione provocata dall�illecito. Il tempo che intercorre tra il momento della commissione dell�illecito e quello della liquidazione del danno non deve pregiudicare il creditore ed il danneggiante � costretto a pagare gli interessi moratori sulla somma che sar� liquidata anche per il tempo in questione in modo da assicurare al danneggiato il risarcimento integrale. Detta regola poggia, inoltre, sullo sfavore sociale che colpisce il fatto illecito, con la conseguente inammissibilit� di una presunzione legislativa di tolleranza del ritardo da parte del creditore. Infine, in base al principio di tassativit� delle cause interruttive della prescrizione ex art. 2943 c.c. ed ex art. 2944 c.c. (60), la disciplina della mora automatica trova il proprio fondamento nel necessario accertamento giudiziale e nella necessaria prova del fatto illecito, del nesso causale, del danno (nell�an e nel quantum), del dolo o della colpa (61). Viene peraltro fatta salva la possibilit� di un riconoscimento stragiudiziale di responsabilit� aquiliana da parte dell�eventuale danneggiante (62), ovvero vengono fatti salvi i meccanismi interruttivi in presenza di obbligazioni civili nascenti da reato (63), ovvero vengono fatti salvi gli effetti interruttivi derivanti dalla proposizione della domanda giudiziale (64). In nessun caso, per�, sarebbe ammissibile un atto stragiudiziale (60) Ex multis, cfr. Cassazione, Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5302 (61) La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con la sentenza del 30 settembre 2010, causa C314/ 09, ha escluso la necessit� della prova della colpa in capo alla PA, laddove il risarcimento per equivalente sia strumento necessariamente sostitutivo della tutela in forma specifica. Cfr. altres� Consiglio di Stato, Sez. V, 20 giugno 2011, n. 3670. Tuttavia, occorre che il danneggiato adempia all'onere di allegazione e prova del nesso causale, laddove i costi di partecipazione alla gara, il danno curriculare, il lucro cessante, devono essere individuati quali conseguenze immediate e dirette dell'aggiudicazione illegittima (art. 1223 c.c.). (62) Cassazione, Sez. III, 10 luglio 1979, n. 3850. (63) Cassazione, Sez. I, 12 novembre 1987, n. 8337. (64) Cassazione, Sez. III, 10 febbraio 1995, n. 1490. di costituzione in mora per obbligazioni derivanti da fatto illecito. Anche il Consiglio di Stato, con una pronuncia del 2010, dopo aver ricordato che il termine breve di prescrizione ex art. 2947 c.c. decorre dalla data del provvedimento/evento lesivo, ha osservato che l�interruzione della prescrizione costituisce un onere probatorio a carico del danneggiato, nei modi �espressamente previsti dagli artt. 2943 e 2944 c.c.� (65), tra i quali, per�, non si annovera una forma atipica di costituzione in mora dell�eventuale amministrazione danneggiante. In definitiva, il diritto al risarcimento del danno o, comunque, la tutela per equivalente del bene della vita danneggiato (66) sorgerebbero gi� con la manifestazione del comportamento illecito della pubblica amministrazione. Tanto legittimerebbe all�esercizio immediato del diritto o della tecnica risarcitoria di tutela, senza l�onere di previa costituzione in mora, contestualmente alla proposizione del ricorso demolitorio (67) od anche in via autonoma, entro il termine di centoventi giorni dalla conoscenza del provvedimento ritenuto lesivo (68). La prescrizione, da parte sua, decorrerebbe dal giorno in cui il diritto � esercitabile (art. 2934 c.c.), con la proposizione di una specifica azione di condanna, anche in via autonoma, dinanzi al giudice amministrativo. In aggiunta, potrebbero sorgere dei dubbi in ordine alla configurabilit� di un atto utile di costituzione in mora, dal momento che, secondo le sentenze della Corte Costituzionale n. 204/2004 e 191/2006, il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi (il caso di specie) non corrisponde n� ad una materia, n� ad un vero e proprio diritto di credito, ma ad un�ulteriore tecnica di tutela accordata dall�ordinamento. Sotto questo profilo, la prescrizione ex art. 2934 c.c. decorrerebbe sempre dal giorno in cui � esercitabile la pretesa risarcitoria (69), ovverosia dalla data di conoscenza del provvedimento illegittimo (70). Per di pi�, l�utile decorso del termine quinquennale di prescrizione estingue la pretesa stessa, posto che, secondo la prospettiva rimediale, il diritto viene inteso come pretesa, come domanda di attivazione di una tecnica di tutela, ovviamente insuscettibile di fungere da �presupposto� per la costituzione in mora nei termini di cui all�art. 1219 c.c. Senza dimenticare come, prima che la sentenza in materia risarcitoria sia adottata, un presunto atto stragiudiziale non potrebbe mai costituire in mora il (65) Consiglio di Stato, Sez. V, 13 luglio 2010, n. 4513. (66) A seconda che si opti per la natura sostanziale o rimediale del risarcimento del danno extracontrattuale. (67) Art. 30, comma 1, c.p.a.; art. 7, l. n. 205/2000, di mod. art. 7, l. TAR. (68) Art. 30, comma 3, c.p.c.; TAR Lazio, Roma, Sez. II bis, 14 settembre 2011, n. 7276. (69) Il giorno in cui si � conosciuto il provvedimento ritenuto lesivo, ai sensi dell�art. 30, comma 3, c.p.a.; TAR Lazio, Roma, Sez. II bis, 14 settembre 2011, n. 7276. (70) Il quale costituisce illecito in re ipsa. Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 20 giugno 2011, n. 3670. Vi � comunque differenza tra il fatto illecito in re ipsa, il quale esonera dalla prova dell�evento lesivo, ed il danno in re ipsa, il quale esonera dalla prova dell�an debeatur. danneggiante ed interrompere utilmente la prescrizione ex art. 2943 c.c., dato il mancato accertamento del diritto al risarcimento del danno come credito di valore (71). D�altro canto, prima di una sua ricognizione giudiziale, il diritto al risarcimento del danno, gi� sorto in conseguenza del fatto illecito dell�amministrazione (e, dunque, della conoscibilit�, secondo l�ordinaria diligenza, del provvedimento/fatto lesivo) (72) non sarebbe configurabile neanche alla stregua di un credito di valore (73). Da qui, l�inefficacia interruttiva dell�eventuale atto di intimazione e costituzione in mora, quando: a) non sia avvenuta alcuna forma di riconoscimento stragiudiziale di responsabilit� da parte del danneggiante, ai sensi dell�art. 2944 c.c.; b) l�illecito facente capo all�amministrazione, il nesso causale e il danno (nell�an e nel quantum) non siano stati ancora accertati da parte del giudice amministrativo, prima della proposizione del ricorso per il risarcimento dei danni; c) non sia stata esperita alcuna azione di condanna generica contestualmente alla domanda di annullamento. Parimenti, si deve segnalare che la notifica del previo ricorso demolitorio non potrebbe avere effetto interruttivo della prescrizione con riferimento al diverso diritto al risarcimento del danno, anche perch� la giurisprudenza di legittimit� suole affermare che le domande di annullamento, risoluzione, ecc., del contratto, in quanto tendenti ad una pronuncia costitutiva avulsa da una pregressa pretesa creditoria, non sono idonee ad interrompere la prescrizione, ai sensi e per gli effetti dell�art. 2943 c.c. (74). Per contro, se da un lato la pronuncia demolitoria del giudice amministrativo ha efficacia costitutiva dell�illegittimit� del provvedimento amministrativo, dall�altro, la pronuncia di condanna � ricognitiva del fatto illecito dell�amministrazione (75). In effetti, l�azione di condanna pu� essere esercitata indipendentemente da quella di annullamento (76), dovendosi badare all�illegittimit� del provvedimento come dato di fatto, rilevabile incidenter tantum nell�ipotesi di domanda risarcitoria formulata in via autonoma. In definitiva, l�azione di annullamento non sarebbe in grado di produrre effetti interruttivi della prescrizione con riferimento al �diverso� ed �autonomo� �diritto� al risarcimento del danno (77), posto che la domanda demolitoria tutela l�interesse legittimo alla correttezza della procedura di gara, (71) TAR Lazio, Roma, Sez. III, 29 marzo 2013, n. 3228. (72) Consiglio di Stato, Sez. V, 13 luglio 2010, n. 4513; Cassazione, Sez. III, 25 maggio 2010, n. 12699. (73) TAR Lazio, Roma, Sez. III, 29 marzo 2013, n. 3228. (74) Cassazione, Sez. I, n. 25468/2010; Sez. I, n. 20332/2007. (75) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 22 ottobre 2007, n. 12; Ad. Plen., n. 3/2011. (76) Art. 34, comma 3, c.p.a., (77) Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 3/2011. mentre la domanda risarcitoria tutela l�interesse a non essere leso nelle proprie situazioni giuridiche soggettive, nel possesso e nella detenzione qualificata nella vita di relazione. Queste considerazioni non sono smentite ed, anzi, troverebbero rispondenza nella decisione della Cassazione, Sez. Unite, 8 aprile 2008, n. 9040. In quella sede, infatti, la Suprema Corte ha straordinariamente riconosciuto l�efficacia interruttiva della prescrizione in capo alla domanda di annullamento dinanzi al GA, senza nulla precisare, tra le altre cose, in ordine alla diversit� delle situazioni giuridiche soggettive protette dall�azione demolitoria e da quella di condanna. Tuttavia, per la Cassazione, �prima che l�art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall�art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, concentrasse nella cognizione del giudice amministrativo la tutela demolitoria e quella risarcitoria�, si rendeva necessario assicurare una qualche tutela effettiva (art. 24 Cost.) a favore del privato, facendo in modo che la pregiudiziale amministrativa ed i tempi processuali non avessero impatto sull�utile decorso del termine di prescrizione quinquennale, a decorrere dal provvedimento/evento lesivo. Ovviamente, tali considerazioni devono ritenersi superate fin dall�entrata in vigore del d.lgs. n. 80/1998 e della l. n. 205/2000, la quale ha previsto la possibilit� di proporre l�azione di condanna dinanzi al GA, contestualmente a quella di annullamento (78). Ci� � ancor pi� vero in relazione alle azioni demolitorie, esercitate nel 2006 e preordinate al successivo esercizio di azioni di condanna. In effetti, fin dal 2006, la giurisprudenza di legittimit� si era orientata ad ammettere un�azione di risarcimento del danno in via autonoma (79), senza che a ci� ostasse il termine decadenziale per proporre il ricorso di annullamento (80). Dunque, a decorrere dall�entrata in vigore del D. Lgs. n. 80/1998 e maggiormente dal 2006, nessuna difficolt� di accesso ad un�effettiva tutela giurisdizionale potrebbe derogare all�ordinaria irrilevanza della domanda costitutiva di annullamento ai fini dell�interruzione della prescrizione quinquennale per il risarcimento del danno. Tanto premesso, in un�ottica di giudizio sul rapporto, bisogna altres� ritenere che l�aggiudicazione provvisoria abbia assunto le vesti di un vero e proprio provvedimento/evento lesivo, individuabile quale dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione, ai sensi dell�art. 2947 c.c. D�altro canto, l�orientamento fatto proprio dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 8533/2010, in tema di prescrizione, si pone nel solco di quell�indirizzo giurisprudenziale, inaugurato nel 2009, il quale ha senza dubbio avuto portata (78) Art. 7, l. TAR, mod. dall�art. 7, l. 205/2000; cfr. art. 30, comma 1, c.p.a. (79) Art. 30, commi 3 e 5, c.p.a. (80) Cassazione, Sez. Un., nn. 13659, 13660 e 13911 del 2006. innovativa rispetto al precedente indirizzo del Consiglio di Stato, fondato invece sulla pregiudizialit� amministrativa e sulla decorrenza del termine di prescrizione a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. In altri termini, in un�ottica di giudizio sul rapporto, piuttosto che sul- l�atto, l�indirizzo giurisprudenziale pi� recente in materia di prescrizione valorizza la funzione di mero accertamento, e non pure costitutiva, della sentenza che accoglie la domanda stessa, con riferimento del danno al complessivo comportamento tenuto dall�amministrazione. � per questo motivo che il TAR Lazio ha sancito che il dies a quo di decorrenza del termine ex art. 2947 c.c. va individuato �nella conoscenza del- l�evento lesivo� in capo al danneggiato, e non pure nella semplice conoscenza dell�atto lesivo o dotato di efficacia esterna ai fini della proposizione del- l�azione di annullamento (81). Pi� precisamente, secondo l�assunto del TAR Lazio e della recente giurisprudenza amministrativa, divergono i presupposti dell�azione demolitoria rispetto ai presupposti dell�azione di condanna. Da un lato, l�azione demolitoria � azione di legittimit�, e cio� azione sul- l�atto, la quale viene proposta in dipendenza delle lesione dell�interesse legittimo alla correttezza della gara, avverso il solo provvedimento avente portata eso-procedimentale, ad esempio l�aggiudicazione definitiva (82). Per contro, l�azione di condanna � azione sul rapporto, sul complessivo comportamento illecito dell�amministrazione, sul danno ingiusto arrecato all�amministrato (83), in dipendenza del �diritto� dell�amministrato a non essere leso nei suoi interessi giuridicamente tutelati nella vita di relazione (84), con conseguente rilevanza esterna dell�intera attivit� lesiva dell�amministrazione, a prescindere dalla portata eso-procedimentale del singolo atto, purch� questo sia conoscibile o sia stato addirittura impugnato (85). Dunque, se nelle azioni di condanna il fondamento dell�obbligo o del dovere risarcitorio risiede nel comportamento illecito dell�amministrazione, sembrerebbe avvenire che, ai fini della determinazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione, non possa essere rilevante il solo provvedimento avente efficacia eso-procedimentale in ordine alla proposizione dell�azione demolitoria, come l�aggiudicazione definitiva. Per converso, sebbene sia normalmente irrilevante in sede di azione di annullamento, l�aggiudicazione provvisoria, sugellata dall�aggiudicazione definitiva ed in quanto testimonianza iniziale del comportamento contra jus (81) TAR Lazio, Roma, Sez. II bis, 14 settembre 2011, n. 7276, (82) Consiglio di Stato, Sez. V, 6 agosto 2012, n. 4518. (83) Cassazione, Sez. Un., n. 500/1999; Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 3/2011. (84) Art. 2043 c.c. (85) TAR Lazio, Roma, n. 7276/2011. dell�amministrazione, potrebbe svolgere un importante ruolo quale momento di manifestazione primordiale dell�illecito. Ci� dovrebbe verificarsi specialmente se l�aggiudicazione provvisoria sia stata conosciuta dalle imprese che reclamano il danno ed ancor di pi� se le stesse imprese l�abbiano impugnata in via principale dinanzi al giudice amministrativo, ravvisandone ovviamente la natura lesiva. Cos�, rimanendo in tema di azione di condanna e di giudizio sul rapporto (86), l�aggiudicazione provvisoria � stata ritenuta un provvedimento rilevante, e cio� con efficacia esterna ai fini risarcitori (87), al fine di instaurare la responsabilit� precontrattuale (aquiliana) dell�amministrazione, nel caso in cui quest�ultima dovesse revocare od annullare ex officio l�aggiudicazione provvisoria stessa (88). Di conseguenza, all�interno di un giudizio sul rapporto, laddove l�aggiudicazione definitiva abbia confermato quella provvisoria e laddove il ricorrente abbia impugnato in via principale l�aggiudicazione provvisoria (riservandosi di impugnare con motivi aggiunti l�aggiudicazione definitiva), sembrerebbe che la lesione si sia consolidata con l�aggiudicazione provvisoria, la quale sarebbe comunque provvista di efficacia esterna ai fini risarcitori, diversa dalla portata eso-procedimentale ai fini demolitori. In definitiva, secondo una prospettiva di giudizio sul rapporto, se l�aggiudicazione provvisoria - oggetto di revoca - rileva ai fini della responsabilit� precontrattuale, non si vede perch�, in tema di danno da aggiudicazione illegittima, la medesima aggiudicazione provvisoria non debba rilevare, laddove il danno iniziale sia conosciuto dalle imprese e derivi dall�aggiudicazione provvisoria medesima. A ci� si aggiunge che, se l�aggiudicazione provvisoria dovesse eventualmente essere impugnata, anche per mero scrupolo, l�impugnazione principale dovrebbe essere dichiarata inammissibile, ancorch� non si verificher� poi la contestuale inammissibilit� dell�atto per motivi aggiunti con cui si impugnava l�aggiudicazione definitiva (89). Senza dimenticare come l�impugnazione dell�aggiudicazione provvisoria non � senza effetto processuale e sostanziale. Siffatta impugnazione, infatti, rende irricevibile qualsiasi ricorso in via principale avverso l�aggiudicazione (86) Nei termini fatti propri dalla Plenaria n. 3/2011. (87) Al di l� della successiva aggiudicazione definitiva. (88) Consiglio di Stato, Ad Plen., 5 settembre 2005, n. 6; Sez. VI, 1 febbraio 2013, n. 633; Sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 156; Sez. IV, 7 marzo 2005, n. 920; Sez. IV, 19 marzo 2003, n. 1457; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 25 settembre 2012, n. 3923; Sez. VIII, 3 maggio 2010, n. 2263; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 ottobre 2009, n. 10477; Sez. II ter, 11 dicembre 2008, n. 11265; Sez. III, 10 settembre 2007, n. 8761; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 8 luglio 2004, n. 4921; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 6 luglio 2001, n. 609; App. Napoli, Sez. III, 30 marzo 2006, S. s.a.s. di C.B. c. I.A.C.P. di Salerno. (89) Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 giugno 2004, n. 4448. TAR Marche Ancona, Sez. I, 26 luglio 2010, n. 3178. definitiva (da impugnare con motivi aggiunti) (90), con consolidamento del- l�aggiudicazione definitiva stessa e con conseguente improcedibilit� del ricorso avverso l�aggiudicazione provvisoria per sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere (91). Peraltro, non � affatto vero che la proponibilit� contestuale delle domande di annullamento e di condanna (92) manifesti una simbiosi tra l�azione demolitoria e quella risarcitoria, la prima presupposto per l�esercizio dell�altra, con presunti riflessi in tema di decorrenza del termine di prescrizione dal giorno in cui � possibile chiedere contestualmente il risarcimento del danno e l�annullamento dell�unico atto avente portata eso-procedimentale, e cio� l�aggiudicazione definitiva. D�altro canto, in un�ottica di giudizio sull�atto, se la piena conoscenza dei motivi dell�illegittimit� dell�aggiudicazione definitiva non osta rispetto alla decorrenza del termine di impugnazione a decorrere dalla comunicazione ex art. 79, D.Lgs. n. 163/2006 (93), a maggior ragione, secondo una prospettiva di giudizio sul rapporto, la conoscenza dell�aggiudicazione provvisoria, testimoniata da una sua tempestiva impugnazione, equivarrebbe gi� a coscienza della �rapportabilit� causale� di un danno al comportamento lesivo dell�amministrazione (94), con conseguente individuazione in tale momento del dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale (95). Ad ogni modo, nel caso in cui l�aggiudicazione provvisoria venga concretamente alla stregua di un provvedimento lesivo e, pertanto, venga impugnata, i privati non potrebbero contestualmente invocare il carattere endo-procedimentale del succitato provvedimento, a meno di non incorrere nella violazione del principio generale �nemo potest venire contra factum proprium�. In effetti, tale violazione pu� essere utilmente eccepita, dalla parte odierna appellante, mediante l�exceptio doli generalis seu presentis, secondo l�insegnamento della Cassazione civile, Sez. I, 7 marzo 2007, n. 5273, valevole in tema di diritto sostanziale ed anche in tema di diritto processuale (96). (90) Art. 120, comma 7, c.p.a. (91) Ex multis, cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 6 marzo 2012, n. 1118; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 28 febbraio 2012, n. 539; T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 6 marzo 2010, n. 175; T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. II, 24 agosto 2009, n. 1400. (92) Art. 30, comma 1, c.p.a. (93) Consiglio di Stato, Ad. Plen., 31 luglio 2012, n. 31. Contra, cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I, ord., 25 marzo 2013, n. 427, di rimessione di una pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Contra, cfr. altres� Consiglio di Stato, ord., 11 febbraio 2013, n. 790, di rimessione della questione all�Adunanza Plenaria. (94) Cassazione, Sez. III, 25 maggio 2010, n. 12699. (95) Vale a dire del giorno dal quale � possibile chiedere il risarcimento del danno contestualmente all�annullamento e soprattutto in via autonoma, al di l� di ogni specifica domanda demolitoria, ai sensi degli articoli 30, commi 3 e 5, c.p.a. e 34, comma 3, c.p.a. Ibid. (96) Consiglio di Stato, Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 656. 4. Determinazione del quantum risarcibile: spese per la partecipazione alla gara; mancato utile e perdita di chances; danno all�immagine a carico del- l�impresa non aggiudicataria della gara di appalto; danno curriculare. Orientamenti giurisprudenziali a confronto. Per quanto attiene al quantum risarcibile per equivalente, in dipendenza di aggiudicazione illegittima, vengono in rilievo diverse voci di danno, tra cui: a) il danno emergente, consistente nelle spese per la partecipazione alla gara; b) il lucro cessante, quale mancato utile derivante dall�illegittima aggiudicazione della gara ad altro concorrente; c) il lucro cessante, quale perdita di chances imprenditoriali, in conseguenza dell�illegittima aggiudicazione della gara ad altro concorrente; d) il danno all�immagine a carico dell�impresa non aggiudicataria della gara di appalto; e) il danno curriculare, quale mancata inserzione dell�appalto non aggiudicato nel curriculum dell�impresa, utile ai fini della partecipazione ad ulteriori procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture. Con riferimento al danno emergente, la giurisprudenza amministrativa � granitica nell�affermare come: �I costi sostenuti per la partecipazione ad una gara di appalto non sono risarcibili dall�impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell�appalto, in quanto la partecipazione a dette gare comporta per le imprese costi che ordinariamente restano a carico delle stesse, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione; i costi di partecipazione si configurano infatti come danno emergente (e sono quindi risarcibili) solo nel caso in cui l�impresa sia stata illegittimamente esclusa dalla gara, atteso che in questo caso viene in rilievo la pretesa del partecipante a non essere coinvolto in trattative inutili� (97). Per contro, con riferimento al lucro cessante, la giurisprudenza dominante pone in evidenza tre condizioni per l�ottenimento del risarcimento: 1) che l�entit� del mancato utile sia provata, anche mediante il riferimento agli utili percepiti in appalti similari, posto che il criterio dell�utile, pari al 10% dell�offerta oggetto di ribasso, ha valore meramente presuntivo (98); 2) che le imprese ricorrenti dimostrino, in base alle specifiche caratteristiche della procedura di gara, l�esistenza di un indice probabilistico pari al 100% in ordine al conseguimento dell�aggiudicazione in assenza del provvedimento illegittimo adottato dalla stazione appaltante (99); altrimenti, si pu� chiedere soltanto il risarcimento della perdita di chances (100); (97) Consiglio di Stato, Sez. V, 3 luglio 2012, n. 3888; cfr. altres�, Consiglio di Stato, Sez. VI, 16 settembre 2011, n. 5168; Sez. V, 12 ottobre 2011, n. 5528; Sez. V, 20 giugno 2011, n. 3670; Sez. V, 18 gennaio 2011, n. 329. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 27 giugno 2012, n. 5920; Sez. III, 22 febbraio 2011, n. 1680; Sez. III, 29 marzo 2013, n. 3228. (98) Consiglio di Stato, Sez. V, 20 giugno 2011, n. 3670. 3) che venga specificatamente addotta prova negativa, da parte dell'impresa ricorrente, circa l�aliunde perceptum vel percipiendum, a pena di presunzione in ordine alla naturale produttivit� dei mezzi di produzione: in particolare, le imprese ricorrenti devono provare, in modo preciso, il fermo dei macchinari, la mancata utilizzazione di personale regolarmente retribuito, le spese per materiali non utilizzati, ecc., in poche parole, di non essere state beneficiarie di utili a seguito dell�esecuzione di altre commesse nel periodo in cui avrebbero dovuto realizzare l�opera ad oggetto del bando di gara (101). In aggiunta, si segnala che vi � divergenza, in sede giurisprudenziale, in ordine alla definizione del contenuto, alla qualificazione ed alla quantificazione del lucro cessante ovvero della perdita di chances. In breve, risulta pacifico che il lucro cessante sia risarcibile laddove vi sia la certezza in ordine alla conseguibilit� dell�appalto a favore del ricorrente (102). Per converso, la perdita di chances sarebbe risarcibile: a) per certa giurisprudenza, in presenza di un indice probabilistico almeno pari al 50% delle possibilit� di ottenimento dell�appalto (103); b) per altra giurisprudenza, in presenza di un indice probabilistico anche inferiore al 50 % (104). Ugualmente, � principio accettato che, laddove non sia risarcibile il lucro cessante, potrebbe esservi comunque spazio per il risarcimento della perdita di chances, se la relativa domanda � stata ritualmente formulata (105). Ci� nondimeno, avviene di sovente che la giurisprudenza amministrativa (99) Consiglio di Stato, Sez. V, 17 ottobre 2008, n. 5100. Per dimostrare la certezza nel conseguimento dell�appalto, occorre dimostrare gli �indici significativi di successo� nel conseguimento dell�appalto, in assenza del provvedimento illegittimo di aggiudicazione della gara, con particolare riferimento, per esempio, al numero dei concorrenti, alla configurazione della graduatoria eventualmente stilata ed al contenuto del- l�offerta presentata dall�impresa danneggiata, come suggerito dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, pubblicata in data 28 gennaio 2009, n. 491. Critico � TAR Lazio, Roma, Sez. III, 29 marzo 2013, n. 3228, per cui: �Nelle gare di appalto, l�impresa non aggiudicataria, ancorch� proponga ricorso e possa ragionevolmente confidare che riuscir� vittoriosa, non pu� mai - come detto - nutrire la matematica certezza che le verr� aggiudicato il contratto, atteso che sono molteplici le possibili sopravvenienze ostative�. (100) TAR Puglia, Bari, Sez. II, 18 luglio 2002, n. 3399, la domanda per perdita di chances, per�, in quanto fondata su un diverso tipo di danno, rappresenta una domanda nuova e diversa rispetto alla domanda di risarcimento del lucro cessante, formulata dalle imprese odierne resistenti, con automatica soggezione al divieto di mutatio libelli e di jus novorum in appello. (101) Questa prova negativa, oltre ad evitare i rischi di un�indebita locupletazione dei danni, � fondamentale ai fini della dimostrazione del danno da inattivit�, ma anche ai fini della quantificazione, in senso riduttivo ed in via equitativa, del lucro cessante (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 aprile 2011, n. 2427) ovvero della perdita di chances (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 115). Contra, cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Siciliana, 21 settembre 2010, n. 1226. (102) Consiglio di Stato, Sez. V, 17 ottobre 2008, n. 5100. (103) Consiglio di Stato, Sez. V, 10 ottobre 2011, n. 5527; Sez. IV, 4 luglio 2008, n. 3340. (104) Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3144; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 4 giugno 2010, n. 2069. (105) Consiglio di Stato, Sez. V, 12 ottobre 2011, n. 5527; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 18 luglio 2002, n. 3399. risarcisca il lucro cessante indifferentemente sotto la fattispecie della perdita di chances ovvero sotto quella del mancato utile, facendo riferimento al criterio presuntivo dell�utile pari al 10 % dell�offerta oggetto di ribasso (106). Vi sono anche dei casi in cui, pi� correttamente, la perdita di chances viene risarcita in misura minore rispetto al mancato utile, in una percentuale che va dall�1 % al 5 % dell�offerta ribassata, cui deve aggiungersi la riduzione equitativa del danno per mancata prova dell�aliunde perceptum vel percipiendum (107). Ci� detto, occorre valutare il rapporto esistente tra il risarcimento del mancato utile ed il criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa, ai sensi del comb. disp. degli articoli 53, comma 2, ed 83, D. Lgs. n. 163/2006. Sul punto sono emersi due distinti orientamenti. Da un lato, vi � chi ha sostenuto: a) che il criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa, a differenza del criterio del prezzo pi� basso, non � di automatica applicazione, presupponendo invece valutazioni discrezionali da parte della stazione appaltante; b) che sono necessari criteri di aggiudicazione automatici per integrare la certezza nell�affidamento dell�appalto a favore del ricorrente secondo classificato; c) che, in ossequio al riparto di giurisdizione tra G.A. e P.A., il giudice amministrativo pu� risarcire il mancato utile soltanto in presenza di criteri di aggiudicazione automatici. In presenza del criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa, quindi, il mancato utile non sarebbe risarcibile in via integrale. Sarebbe, invece, risarcibile la perdita di chances (108). Dall�altro lato, vi � chi ha sostenuto che, nonostante il criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa non possegga caratteri di automaticit�, �negli appalti da aggiudicare con il criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa, la misura presunta del lucro cessante (pari al 10% dell'importo del contratto), qualora si debba risarcire l�impresa illegittimamente esclusa dalla gara, va decurtata in ragione degli indici significativi delle potenzialit� di successo (quali, ad esempio, il numero dei concorrenti, la configurazione della graduatoria eventualmente stilata ed il contenuto dell�offerta presentata dall'impresa danneggiata); conseguentemente la relativa determinazione giurisdizionale dei criteri sfugge a canoni valutativi rigidi, cosicch� ai fini della liquidazione del danno pu� essere utilizzato lo strumento previsto dall'art. 35, comma 2, D.Lgs. n. 80/1998, come sostituito dall'art. 7 L. n. 205/2000� (109). Ne deriva che il lucro cessante o mancato utile non sarebbe integralmente (106) Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 115; Sez. V, 28 gennaio 2009, n. 491. (107) Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3144; Sez. V, 20 ottobre 2011, n. 5527; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 4 giugno 2010, n. 2069. (108) TAR Puglia, Bari, Sez. II, 18 luglio 2002, n. 3399. CARINGELLA, Corso di Diritto Amministrativo, Vol. I, 2011, pp. 581 e 582. (109) Consiglio di Stato, Sez. V, 28 gennaio 2009, n. 491. risarcibile, nell�ipotesi in cui la mancata prova della certezza nell�affidamento dovesse condurre ad una riduzione equitativa dell�importo risarcito, ulteriore rispetto alla riduzione equitativa per la mancata prova dell�aliunde perceptum vel percipiendum. A maggior ragione, il mancato utile non sarebbe risarcibile se si dovesse accedere a quell�altro orientamento giurisprudenziale, per cui la mancata prova della certezza nell�affidamento dell�appalto, in presenza del criterio dell�offerta economicamente pi� vantaggiosa, pregiudica, in modo assoluto, la risarcibilit� del mancato utile. Ci� detto, il danno all�immagine non � risarcibile se sfornito di prova (110), mentre il danno curriculare � risarcibile (111), giusta prova dell�an e del quantum, in una misura che va dal 2% al 5% dell�offerta oggetto di ribasso (112). In particolare, nonostante il provvedimento illegittimo dell�amministrazione rappresenti un�ipotesi di fatto illecito in re ipsa, i danni risarcibili appartengono sempre alla specie dei danni conseguenza, secondo gli insegnamenti della Corte Costituzionale (113). Anche il danno curriculare non sfugge alla specie dei danni conseguenza (diversi dai pretesi danni in re ipsa), i quali non sfuggono alla dimostrazione dell�an debeatur, soprattutto, del quantum debeatur (114). (110) Consiglio di Stato, Sez. V, 12 ottobre 2011, n. 5527: �In materia di appalti pubblici, per il diritto al risarcimento del danno derivante alla seconda classificata dalla illegittima aggiudicazione ad altra impresa concorrente, non possono essere presi in considerazione, ai fini della quantificazione del danno, n� l�utilit� derivante dallo svolgimento di prestazioni ulteriori ed aggiuntive rispetto a quelle previste in gara (evidentemente non attinenti all�appalto, da considerarsi solo eventuali al momento dello svolgimento della selezione), n� le mancate economie di scala per effetto dell�innalzamento del fatturato, in quanto non direttamente ricollegabili alla mancata esecuzione dell�appalto, n�, infine, il danno da immagine, del tutto sfornito di prova. Va, invece, riconosciuto il diritto al risarcimento del danno curriculare, derivante dalla maggiore qualificazione professionale che sarebbe derivata alla interessata dalla esecuzione dell'appalto�. Consiglio di Stato, Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 661, confonde il danno curriculare con il danno all�immagine sociale dell�impresa non aggiudicataria: �Il cd. danno curriculare, derivante all�impresa nei cui confronti non sia stata disposta l�aggiudicazione (nella specie a causa dell'illegittimit� dell�azione amministrativa) deve identificarsi nel ristoro del pregiudizio economico connesso alla impossibilit� di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico collegato alla esecuzione del lavoro o del servizio. Tale danno, in particolare, si concretizza nel nocumento alla immagine sociale della impresa, con riferimento all�aspetto del radicamento nel territorio, per cui risulta evidente la contiguit� con il danno alla immagine derivante dalla perdita di prestigio nell�ambito del mercato legata alla mancata esecuzione dei lavori�. (111) Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; Sez. VI, 2 marzo 2009, n. 1180; Sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3144; Sez. V, 23 luglio 2009, n. 4594. TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 7 gennaio 2010, n. 3. (112) Su una percentuale del 2% si � assestata la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 12 ottobre 2011, n. 5527. Per contro, su un coefficiente tra l'1% ed il 5% si � assestato il TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 4 giugno 2010, n. 2069. (113) Corte Costituzionale, 14 luglio 1986, n. 184; 27 ottobre 1994, n. 372. Sul danno in re ipsa, si erano implicitamente assestate le precedenti pronunce della Corte Costituzionale nn. 87 e 88 del 1979. Contra il danno in re ipsa, cfr. altres� Cassazione, Sez. I, 25 settembre 2012, n. 16294, in tema di configurabilit� del danno in re ipsa da concorrenza sleale. Il danno in re ipsa esonera dalla prova del danno nell�an. (114) Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 settembre 2010, n. 7004; Sez. V, 22 febbraio 2010, n. 1038. Cassazione, Sez. I, 15 febbraio 2008, n. 3794. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 29 marzo 2013, n. 3228. Finito di stampare nel mese di settembre 2013 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma