RASSEGNA
AVVOCATURA
DELLO STATO
PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO
ANNO LX – N. 4 OTTOBRE-DICEMBRE 2008
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COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino
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COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia – Gianni De Bellis – Sergio Fiorentino – Maurizio Fiorilli –
Paolo Gentili – Antonio Palatiello – Massimo Santoro – Carlo Sica.
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Luigi Gabriele Correnti – Giuseppe Di Gesu – Paolo Grasso – Pierfrancesco La Spina – Maria
Vittoria Lumetti – Marco Meloni – Maria Assunta Mercati – Alfonso Mezzotero – Riccardo
Montagnoli – Domenico Mutino – Nicola Parri – Adele Quattrone – Pietro Vitullo.
SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi e Antonella Quirini
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Michele Gerardo – Flaminia Giovagnoli – Carolina Layek – Dimitris Liakopoulos – Giulia Micio
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Salamone – Francesco Scittarelli – Stefano Varone.
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INDICE – SOMMARIO
TEMI ISTITUZIONALI
Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara in occasione
della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2009. Corte di
Cassazione, 30 gennaio 2009 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1
Maurizio Borgo, Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è compatibile
con le regole comunitarie sugli appalti (C.d.S., sez. VI, sent. 22 aprile
2008 n. 1852) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 5
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE
Dimitris Liakopoulos, Mauro Romani, La pubblicità ingannevole nel
diritto internazionale e comunitario. Aspetti giuridici ed evoluzione della
disciplina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9
1.- Le decisioni
Parità uomo/donna nelle Corti europee
Wally Ferrante, Condanna dell’Italia per la differente età pensionabile
tra uomini e donne pubblici dipendenti. (Corte di Giustizia CE,
sent. 13 novembre 2008 nella causa C-46/07).
Chiara Di Seri, Sul principio di non discriminazione uomo-donna in
materia di benefici fiscali di incentivo all’esodo dei lavoratori.
(Corte di Giustizia CE, ord. 16 gennaio 2008 in cause riunite da C-
128/07 a C-131/07) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 50
Carolina Layek, Il diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee.
(Corte di Giustizia CE, sent. 1 luglio 2008 nelle cause riunite C-
39/05 e C-52/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 68
Giulia Micio, Valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e
privati. (Corte di Giustizia CE, ord. 10 luglio 2008 nella causa C-156/07). . . . » 90
Flaminia Giovagnoli, Applicazione del principio “Chi inquina paga”.
L’onere finanziario dello smaltimento dei rifiuti causati dal naufragio
di una petroliera. (Corte di Giustizia CE, sent. 24 giugno 2008 nella
causa C-188/07) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 96
Sara Palermo, Qualità dell’aria: diritto di un terzo vittima di danni alla
salute alla predisposizione di un piano d’azione. (Corte di Giustiza CE,
sent. 25 luglio 2008 nella causa C-237/07) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 117
2.- I giudizi in corso
Sergio Fiorentino, Agricoltura, causa C-446/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130
Wally Ferrante, Ravvicinamento delle legislazioni, causa C-509/07 . . . . . . . » 134
Wally Ferrante, Ravvicinamento delle legislazioni, causa C-561/07 . . . . . . . » 138
Wally Ferrante, Politica sociale, causa C-69/08 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 143
Wally Ferrante, Politica commerciale, causa C-141/08 P . . . . . . . . . . . . . . » 151
Sergio Fiorentino, Libera prestazione dei servizi, cause riunite C-
155/08 e C-157/08 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157
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Giuseppe Albenzio, Risorse proprie delle Comunità, causa C-334/08 . . . . pag. 164
CONTENZIOSO NAZIONALE
Adolfo Mutarelli, Michele Gerardo, dossier: Operatività della prescrizione
in tema di ricorso per il ristoro della irragionevole durata del processo
(cd. Legge Pinto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . » 175
Stefano Varone, dossier, Sul recupero dei benefici previdenziali postsisma
(Corte d’Appello di Campobasso, sent. 28 marzo 2008 n. 74; Corte
cost., sent. 1 agosto 2008 n. 325) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 212
Pierluigi Di Palma, L’illegittimità costituzionale della Legge regionale
della Lombardia n. 29/07 sul trasporto aereo (Corte cost., sent. 30 gennaio
2009 n. 18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 234
Wally Ferrante, Sufficienza del voto alfanumerico negli esami di abilita
zione: un’unica via interpretativa (Corte cost., sent. 30 gennaio 2009 n.20) . . » 248
Lorenzo D’Ascia, Il particolare meccanismo di decisione preventiva
delle questioni di massima nella giustizia contabile (Cassaz., SS.UU.,
sent. 3 dicembre 2008 n. 28653) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 261
Francesco Scittarelli, L’elemento soggettivo nella responsabilità da illegittimo
esercizio della funzione pubblica (C.d.S., sez. IV, sent. 31 luglio
2008 n. 3823) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 267
Alfonso Mezzotero, Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie
ed effetti interdittivi (T.A.R. Lazio, Roma, sez.I, sent. 9 luglio 2008
n. 6487) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 277
Giovanni Palatiello, Il concetto di atto politico non “giustiziabile”
(T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, sent. 31 dicembre 2008 n. 12539) . . . . . . . . . . . . » 324
Francesco Emanuele Salamone, Verso un’intensificazione dei profili di
responsabilità penale per falso del progettista “abilitato” in materia di
D.i.a. (Cassaz., sez. III, sent. 21 ottobre 2008-19 gennaio 2009, n. 1818) . . . . » 336
PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 347
RECENSIONI
Alessandro D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto,
Cedam, Padova 2008. Recensione di Alessandro Nastri . . . . . . . . . . . . » 361
CONTRIBUTI DI DOTTRINA
Univerità di Pisa e Università di Ferrara, Esperimenti di giustizia costituzionale:
il processo simulato sull’aggravante dell’immigrazione clandestina
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 365
INDICI SISTEMATICI ANNUALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 415
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Inaugurazione dell’anno giudiziario presso la
Corte Suprema di Cassazione – Roma 2009
Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara
“Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente della
Corte di Cassazione, Signore e Signori,
anche nell’anno 2008, come negli anni passati, l’Avvocatura dello Stato
è stata uno dei maggiori protagonisti sulla scena giudiziaria. I nuovi affari
dell’anno ammontano, complessivamente, a 170.000 (che si aggiungono ad
alcune centinaia di migliaia di cause degli anni scorsi ancora pendenti), con
oltre 145.000 sentenze nei vari ordini e gradi di giudizio (per la sola sede
dell’A.G. 47.000 affari nuovi e 60.000 sentenze); si noti che ogni affare può
riguardare più gradi di giudizio. È un contenzioso imponente di cui non vorremmo
portare alcun vanto: considerato, infatti, che all’origine quasi sempre
lo Stato è convenuto o resistente, esso è indice di un malessere della
Comunità ai cui bisogni lo Stato non riesce a dare risposte adeguate.
Lo spettro delle materie trattate è il più variegato che si possa immaginare.
L’Avvocatura ha trattato alcune delle più importanti e delicate vertenze
dinanzi a tutti gli organi giudiziari sopranazionali e nazionali.
Ricordo, a puro titolo esemplificativo, fra i circa 300 affari trattati
dinanzi ai giudici comunitari, le questioni sulla tutela della lingua italiana,
sulla parità uomo-donna, sul condono IVA; dinanzi alla Corte costituzionale
(oltre 500 nuovi affari) il contenzioso sulle leggi statali e regionali e delicate
questioni di legittimità costituzionale in via incidentale; dinanzi ai giudici
ordinari il vasto contenzioso, spesso con connotazioni seriali, riguardo
alla legge Pinto, alla responsabilità per danni alla salute conseguenti all’uso
di amianto, di uranio impoverito, di sangue infetto; le importanti iniziative
assunte per ottenere la riparazione dei danni ambientali; i processi penali per
le vicende del G8 di Genova, la strage di Nassirya, le emissioni elettromagnetiche,
i desaparecidos italiani in Argentina; le costituzioni di parte civile
nei processi riguardanti la mafia, il racket; altrettanto corposo il conten-
T E M I I S T I T U Z I O N A L I
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zioso dinanzi ai giudici amministrativi, che sovente si interseca, per vari
aspetti (invero ancora non del tutto chiariti) con quello dei giudici ordinari
(al riguardo sarà interessante verificare l’impatto della recente pronuncia
definitiva delle SS.UU. della Cassazione in tema di pregiudiziale amministrativa);
le varie controversie in tema di appalto di lavori pubblici e di pubbliche
forniture (1170 affari, di cui solo una bassa percentuale – 75 casi –
iniziati dinanzi a collegi arbitrali); le ben note cause sull’ampliamento della
base militare U.S.A. di Vicenza (Dal Molin); le delicate e numerosissime
vertenze riguardanti la magistratura ordinaria, nelle quali rappresentiamo il
C.S.M.; il diniego di contributi e finanziamenti comunitari; le frequenze
televisive; i provvedimenti delle autorità indipendenti (molto vivace è stato
il contenzioso in tema di pratiche commerciali scorrette da parte delle banche
nell’applicare le norme sulla portabilità dei mutui immobiliari).
Da ultimo, ma solo per evidenziarne la particolare importanza, il nostro
impegno dinanzi alla Corte di cassazione, che oggi ci ospita e con la quale
siamo onorati di poter lavorare in piena armonia: mi piace segnalare la rapidità
(pochi giorni) con la quale è stata risolta, in occasione delle ultime elezioni
politiche, la questione relativa all’ammissione di una lista elettorale.
Dinanzi alla Corte Suprema il contenzioso è particolarmente robusto: quasi
9000 nuovi affari l’anno, di cui 5.700 in materia tributaria. In tale specifica
materia va segnalata l’importante recente sentenza che ha definito i contorni
dell’abuso del diritto; e le recentissime pronunce che hanno ribadito, accogliendo
ancora una volta le tesi dell’Avvocatura, la portata del regime fiscale
delle fondazioni bancarie; e in materia processuale l’opportuna decisione
che, sempre su ricorso dell’Avvocatura, ha posto fine all’onere ingiustificato
di notificare le impugnazioni in più copie anche quando le parti destinatarie
siano difese dal medesimo difensore.
Aquesto impegno si affianca quello, sovente di notevole spessore, di fornire
un supporto tecnico giuridico alle amministrazioni, in sede nazionale e
all’estero, per orientarne l’azione: ricordo – a titolo esemplificativo – la prosecuzione
dell’attività di recupero di opere d’arte illecitamente uscite dal territorio
dello Stato; le iniziative per il recupero di un notevole quantitativo di
oro contenuto in una nave da guerra affondata in acque internazionali durante
la prima guerra mondiale; la nota recente vicenda della estradizione dal
Brasile di Cesare Battisti; la spinosa questione dei limiti della giurisdizione
italiana nei confronti degli Stati esteri.
A questa mole di lavoro (forse non molto noto al grande pubblico) che
ritengo fruttifero sia per la correttezza dell’azione amministrativa sia per le
casse dello Stato (l’intera Avvocatura ha un costo molto contenuto e la percentuale
di vittoria nelle cause è di circa i 2/3 del globale), noi facciamo fronte
con un organico molto stretto: sull’intero territorio nazionale 370 avvocati
e meno di 900 impiegati.
L’informatica ha certamente agevolato il nostro lavoro, permettendo una
maggiore funzionalità e rapidità nel servizio, con notevole risparmio relativo
di spesa. L’Avvocatura dello Stato, al passo con i tempi, si prepara a porre in
essere le necessarie attività conclusive per realizzare i vari processi telematici
con le altre giurisdizioni.
2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Vista la ben nota non florida situazione economica, non abbiamo chiesto
e non chiediamo nuovi stanziamenti, se non minimi, ma insistiamo per misure
che ci consentano una migliore utilizzazione delle risorse umane e una
migliore gestione degli affari che trattiamo, con ricadute benefiche in termini
di migliori risultati anche per le casse dello Stato. Abbiamo chiesto una
certa autonomia finanziaria; un ruolo, anche minimo, di dirigenti; l’assegnazione
di personale amministrativo in esubero in altre amministrazioni.
Ringrazio, però, sin d’ora il Governo per aver presentato al Parlamento
una misura economica a favore del personale amministrativo (cui corrisponde
una encomiabile spontanea riduzione di competenze accessorie del personale
togato e quindi senza alcun onere per lo Stato): auspico che presto il
Parlamento condivida e approvi questa misura, che molto stimolerebbe il personale
beneficiario, con vantaggi indubbi, individuali e collettivi.
Infine, non posso sottrarmi al dovere di segnalare, dall’angolo visuale
dell’Avvocatura, alcuni punti, nella speranza di poter contribuire a rendere la
giustizia più effettiva ed efficace, in un momento in cui più forte si sente
l’esigenza di innovare profondamente e più vicino si vede il raggiungimento
di questo fine (anche con quel controllo di efficienza di cui ha parlato il
Ministro della Giustizia nella sua recente relazione al Parlamento):
– sia assicurato il raccordo con il diritto comunitario, nel rispetto di un
nascente standard europeo di tutela giudiziaria,
– siano favorite procedure di conciliazione extra giudiziarie (nel solco
delle stesse indicazioni comunitarie, che promuovono le A.D.R. – Alternative
Dispute Resolution);
– siano semplificati i procedimenti, con la riduzione dei riti, l’eliminazione
di fasi spesso ridondanti (ad esempio la discussione orale nel processo
civile in cassazione se non espressamente richiesta);
– sia rivisto il concetto di motivazione;
– sia disciplinata la class action, prevedendo anche che sia un giudice
superiore a definirne i contorni allorché nascano cause che lascino intendere
un interesse collettivo;
– sia regolamentata la scelta degli affari che per la loro importanza vanno
decisi con precedenza, in parallelo al compito che si vorrebbe dare al
Parlamento di scegliere i reati da perseguire prioritariamente;
– sia introdotto un filtro per i giudizi in cassazione;
– nel processo penale sia previsto che all’imputato assolto possa essere
attribuito un rimborso delle spese legali; potrebbe sorgere un grosso onere
per l’erario, ma si risponderebbe al principio di equità del processo (come del
resto già avviene per la riparazione dell’errore giudiziario o per l’ingiusta
detenzione), comunque nello spirito della Convenzione dei diritti dell’uomo,
in quanto l’onere cui va ora incontro un innocente è spesso più pesante di una
condanna: una valutazione equitativa e caso per caso potrebbe essere utile ed
essere anche una remora ad iniziative talvolta poco meditate;
– punto dolente la legge Pinto (un contenzioso numericamente imponente,
circa 23.000 nuove cause) ma del problema si è ampiamente già parlato.
Concludo ispirandomi alle parole del Capo dello Stato nel suo discorso
agli italiani di fine anno. L’Avvocatura dello Stato non si sente scoraggiata
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dalle difficoltà che incontra, dalla obiettiva situazione molto pesante dell’economia
e dai problemi in cui si dibatte la giustizia. Nelle difficoltà possiamo
e dobbiamo trovare la forza per recuperare e risorgere (come già è
avvenuto in tempi anche più travagliati). Dalla crisi potrà effettivamente
uscire una Italia più giusta.
Grazie, signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti per avermi
ascoltato”.
Corte Suprema di Cassazione
Roma, 30 gennaio 2009.
4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è compatibile
con le regole comunitarie sugli appalti
(Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 22 aprile 2008 n. 1852)
La questione della compatibilità comunitaria del patrocinio ex lege
dell’Avvocatura dello Stato, è stata nel 2008 affrontata dal Consiglio di
Stato, e risolta nel senso della compatibilità (Cons. St., sez. VI, 22 aprile
2008 n. 1852).
Secondo il Consiglio di Stato, non può in alcun modo ritenersi che l’affidamento
ex lege (rectius: la possibilità di un tale affidamento)
all’Avvocatura dello Stato della difesa in giudizio di un soggetto comunque
deputato allo svolgimento di attività di interesse pubblicistico (quale
l’I.P.Z.S.) risulti lesivo del principio di libera circolazione dei servizi nel
settore del patrocinio legale. Non è possibile escludere a priori che l’espletamento
di servizi lato sensu riconducibili all’assistenza legale in favore di
amministrazioni pubbliche possa essere ricondotta all’ambito di applicazione
della normativa comunitaria – segnatamente, in tema di libera circolazione
delle persone, dei servizi e dei capitali. Depone in tal senso la previsione
di cui all’Allegato I B della direttiva 92/50/CEE (da ultimo trasfusa in
parte qua nell’Allegato II B alla direttiva 2004/18/CE in tema di c.d.
‘appalti nei settori classici’), secondo cui rientra nel novero dei c.d. ‘servizi
non prioritari’ ai fini dell’applicazione delle norme comunitarie in materia
di appalti, l’intero ambito dei servizi legali (n. di riferimento da
74110000-3 a 74114000-1 del Vocabolario Comune degli Appalti al livello
comunitario – CPV).
M.B.
Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 22 aprile 2008 n. 1852 – Pres. G. Ruoppolo
– Est. C. Contessa – Soc. G.I. S.p.A. (Avv. P. Di Martino) c/ Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato s.p.a. (Avv. dello Stato Tortora); Compagnia Assicurativa C. Coop a r.l. (n.c.).
«(…omissis...)
2. Deve in via preliminare essere esaminata la deduzione di Parte ricorrente relativa
all’asserita carenza, in capo all’Avvocatura Generale dello Stato, del jus postulandi in favore
dell’Istituto intimato (memoria in data 5 febbraio 2008, pag. 5).
Tale carenza deriverebbe dalle previsioni di cui alla legge 13 luglio 1966, n. 559
(‘Nuovo ordinamento dell’istituto poligrafico dello Stato’), il cui art. 19 (nella formulazione
introdotta dall’art. 8 del D.Lgs. 21 aprile 1999, n. 116) stabilisce che “fino alla trasformazione
in società per azioni è in facoltà dell’Istituto avvalersi dell’Avvocatura generale dello
Stato per la difesa e la rappresentanza davanti a qualsiasi giurisdizione”.
Ora, poiché l’I.P.Z.S. è stato trasformato in società per azioni sin dal 17 ottobre del 2002
(data di pubblicazione in G.U. della delibera C.I.P.E. n. 59/2002, recante ‘Trasformazione in
società per azioni dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato’) risulterebbe conseguentemente
esclusa la possibilità per l’Istituto, a decorrere da tale data, di affidare la propria difesa
in giudizio all’Avvocatura erariale.
2.1. Il motivo non può essere condiviso.
TEMI ISTITUZIONALI 5
01 temi ist 02 borgo.qxp 06/04/2009 13.35 Pagina 5
Sotto tale profilo, viene in rilievo la previsione di cui al comma 4 dell’art. 7 vicies quater
del d.l. 31 gennaio 2005, n. 7 (convertito in legge, con modificazioni dall’art. 1, legge 31
marzo 2005, n. 43) secondo cui “l’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato S.p.a. può continuare
ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi del titolo I del testo
unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e con applicazione dell’articolo 417-
bis, commi primo e secondo, del codice di procedura civile”.
2.2. Neppure può trovare accoglimento il rilievo secondo cui “la questione dell’illegittimità
del patrocinio erariale a favore dell’Amministrazione appellata assume rilievo più
ampio (…) in relazione ad un’eventuale violazione del Trattato CE e/o di tutte le disposizioni
di rilievo comunitario finalizzate a garantire, nell’ambito dei Paesi membri, condizioni di
mercato aperto e in libera concorrenza (riconosciute dal Trattato)” (memoria, cit., pag. 5).
Nella tesi della ricorrente “l’affidamento, come avvenuto nella fattispecie, dell’incarico
di difesa in giudizio da parte dell’IPZS all’Avvocatura (dopo che in primo grado la difesa
era stata affidata a collega del libero Foro) ha difatti indubitabilmente sottratto il servizio
professionale di cui si discute alla libera concorrenza nel libero mercato dei servizi professionali
legali (con evidente distorsione della concorrenza tra fornitori del medesimo servizio),
concretandosi in un atteggiamento illegittimamente preclusivo nei confronti di professionisti
non inquadrati nell’ambito dell’Avvocatura.
Il suddetto affidamento, peraltro in presenza del chiaro dettato normativo (di senso diametralmente
opposto) riportato, può anche lasciar trasparire la violazione del divieto di
abusare della propria posizione dominante, anch’essa censurabile”.
Il motivo, nel suo complesso, non può trovare accoglimento.
In primo luogo, per le ragioni di diritto positivo dinanzi esposte, non appare fondata la
premessa maggiore dell’argomento testé sinteticamente descritto (ci si riferisce alla circostanza
per cui l’affidamento all’Avvocatura Generale dello Stato del patrocinio dell’Istituto
non risulterebbe assistito da alcun valido supporto normativo).
Ed infatti, le richiamate previsioni normative (art. 7 vicies quater del d.l. 7 del 2005) palesano
che nel caso di specie sussista un’ipotesi di c.d. ‘patrocinio autorizzato’ dell’Avvocatura
dello Stato, conformemente alla previsione generale di cui all’art. 43 del R.D. 30 ottobre 1943,
n. 1612 (‘Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e
difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato’).
Ancora, gli argomenti di doglianza articolati in parte qua dalla società G.I. appaiono
obiettivamente generici e non indicano in modo puntuale quali disposizioni del Trattato istitutivo
della Comunità europea risulterebbero violati in seguito all’affidamento del servizio
legale in questione.
2.3. Ma anche a voler ritenere (come appare possibile dal tenore delle doglianze di Parte
ricorrente) che le disposizioni nella specie violate siano quelle in tema di libera circolazione
dei servizi (art. 49 e segg. del TCE) e di tutela della concorrenza (art. 81 e segg.), nondimeno
l’argomento in questione non potrebbe essere condiviso.
In primo luogo, non può in alcun modo ritenersi che l’affidamento ex lege (rectius: la possibilità
di un tale affidamento) all’Avvocatura dello Stato della difesa in giudizio di un soggetto
comunque deputato allo svolgimento di attività di interesse pubblicistico (quale l’I.P.Z.S.)
risulti lesivo del principio di libera circolazione dei servizi nel settore del patrocinio legale.
Al riguardo, occorre premettere che non è possibile escludere a priori che l’espletamento
di servizi lato sensu riconducibili all’assistenza legale in favore di Amministrazioni pubbliche
possa essere ricondotta all’ambito di applicazione della normativa comunitaria –
segnatamente, in tema di libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali –.
6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Depone in tal senso, inter alia, la previsione di cui all’Allegato IB della direttiva
92/50/CEE (da ultimo trasfusa in parte qua nell’Allegato IIB alla direttiva 2004/18/CE in
tema di c.d. ‘appalti nei settori classici’), secondo cui rientra nel novero dei c.d. ‘servizi non
prioritari’ ai fini dell’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti, l’intero
ambito dei servizi legali (n. di riferimento da 74110000-3 a 74114000-1 del Vocabolario
Comune degli Appalti al livello comunitario – CPV -).
Cionondimeno, il Collegio ritiene che l’ascrivibilità dei ‘servizi legali’ resi in favore di
Amministrazioni pubbliche (ivi compreso, come è evidente, il patrocinio in giudizio) nel
novero delle attività astrattamente contendibili sul mercato, non comporti in alcun modo un
generale ed incondizionato obbligo per il Legislatore nazionale di escludere ipotesi di devoluzione
ex lege del patrocinio in favore delle Amministrazioni pubbliche in favore di
Organismi (quale l’Avvocatura dello Stato) anch’essi ascrivibili a pieno titolo all’alveo pubblicistico
e conseguentemente esclusi – almeno in via tendenziale – dall’applicazione delle
norme comunitarie in tema di evidenza pubblica e di libera circolazione dei servizi.
Del pari, non si ritiene in alcun modo violativa dei richiamati principi comunitari una
previsione normativa (quale il richiamato 7 vicies quater del d.l. 7 del 2005) la quale, letta
in combinazione con l’art. 43 del R.D. 1611 dl 1933, cit., consenta (ma non imponga) ad
Amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati di accedere al patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato, intesa quale plesso dello Stato-apparato istituzionalmente deputato
alla rappresentanza, al patrocinio ed all’assistenza in giudizio delle Amministrazioni
dello Stato e degli altri soggetti normativamente ammessi ad accedere ai relativi servizi.
Sotto il profilo sistematico, si osserva in primo luogo che non appaia in alcun modo
dubitabile l’ascrivibilità dell’I.P.Z.S. (pur nell’attuale sua veste societaria) al novero delle
amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati per i quali l’art. 43 del R.D.
1611, cit. ammette il c.d. ‘patrocinio autorizzato’ da parte dell’Avvocatura dello Stato.
Sotto tale aspetto, il richiamato art. 7-vicies quater, d.l. 7 del 2005, cit., appare una (per
altro, corretta) esplicitazione normativa di principi giuridici aliunde evincibili.
Ed infatti, alla luce della veste giuridica attualmente posseduta dall’I.P.Z.S. e dei compiti
ad esso normativamente devoluti, è certamente possibile ascrivere tale Istituto nel novero
degli Enti pubblici in forma societaria (ovvero, al modulo della c.d. ‘amministrazione
indiretta’, intesa quale sintesi di differenti modelli e strumenti operativi di amministrazione
– anche modellati su schemi tipicamente privatistici – di cui lo Stato e le Autonomie funzionali
si servono al fine di realizzare, in via indiretta, finalità pubbliche connesse all’esercizio
delle proprie competenze – Corte cost., sent. 5 febbraio 1992, n. 35).
Questa essendo la corretta configurazione sistematica dell’I.P.Z.S., il Collegio osserva
che i profili di illegittimità comunitaria ipotizzati da Parte ricorrente in relazione alla possibilità
di devolvere le controversie sorte nello svolgimento dell’attività dell’Istituto non siano
in alcun modo condivisibili.
Innanzitutto, si osserva che la scelta del Legislatore nazionale di riservare – in tutto o
in parte – ad un’entità riconducibile allo Stato-apparato (quale l’Avvocatura dello Stato)
l’esercizio del patrocinio legale in favore di Amministrazioni o Enti pubblici appaia pienamente
compatibile con le previsioni di cui all’art. 295 del Trattato di Roma il quale, nella
consolidata interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia, consente allo Stato di determinare
la latitudine del ruolo proprio (ovvero, quello di Organismi a sé riconducibili sotto il
profilo soggettivo e funzionale) nell’ambito di settori di intervento astrattamente contendibili
sul mercato (sul punto, cfr. le conclusioni dell’Avvocato Generale Colomer in cause riunite
C-367/98, C-483/99 e C-503/99).
TEMI ISTITUZIONALI 7
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Non ignora il Collegio che, secondo un tradizionale orientamento della Corte di
Giustizia, la facoltà per lo Stato di modellare l’ampiezza dei poteri di intervento dei soggetti
pubblici sulle attività economiche (ad es., attraverso l’istituzione di monopoli pubblici in
determinati settori di attività) incontri il limite rappresentato dalla salvaguardia degli equilibri
concorrenziali nell’ambito dei settori di attività comunque aperti alla libera contendibilità
e nei quali operino anche soggetti qualificabili come imprese pubbliche (es.: C.G.C.E.,
sent. 20 marzo 1985, in causa C-41/83 – Commissione vs. Italia -).
Neppure sfugge al Collegio che, secondo una costante giurisprudenza, nel contesto del
diritto della concorrenza la nozione di impresa comprende qualsiasi entità che esercita un’attività
economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle modalità del suo
finanziamento (cfr. C.G.C.E., sentenza 12 settembre 2000, in cause riunite da C-180/98 a C-
184/98, Pavlov e a.).
Tuttavia, ciò che palesa la non condivisibilità dei dubbi di legittimità comunitaria ipotizzati
da Parte ricorrente è, appunto, la pacifica non ascrivibilità dell’Avvocatura dello Stato
al novero delle imprese pubbliche, pur se la nozione in parola venga intesa nella vastissima
accezione accolta dalla giurisprudenza comunitaria.
Ciò, in considerazione delle evidenti ed esclusive finalità di interesse pubblico perseguite
da tale Organo, dell’assenza di scopo di lucro nell’esercizio della relativa attività, nonché
della destinazione esclusiva dei relativi servizi in favore delle Amministrazioni dello
Stato (ovvero, in favore di Amministrazioni pubbliche non statali e di enti sovvenzionati, ai
sensi del richiamato art. 43 del R.D. 1611 del 1933).
È pertanto evidente che la non ascrivibilità dell’Avvocatura dello Stato nell’ambito
delle imprese pubbliche, di cui all’art. 86, par. 1 del Trattato di Roma comporti quale conseguenza
che la relativa attività in alcun modo sia valutabile alla luce dei principi e delle previsioni
di diritto comunitario – richiamate da Parte ricorrente a sostegno delle proprie tesi –
in tema di libera circolazione dei servizi (Parte III, Tit. III, Capo 3 del TCE), ovvero in tema
di tutela della concorrenza nel mercato interno (Parte III, Tit. VI, Capo I del TCE).
2.4. Da ultimo, si ritiene di osservare che la stessa Commissione europea (di cui è noto
il ruolo di ‘custode’ del Trattato istitutivo della Comunità e dei principi in esso trasfusi) ha
avanzato nei confronti della Repubblica italiana istanza di essere ammessa al c.d. patrocinio
autorizzato da parte dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi attivi e passivi davanti alle autorità
giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali e che tale patrocinio
è stato ammesso con d.P.R. 17 febbraio 1981, n. 173.
Non è necessario sottolineare la particolare significatività di tale previsione, se non per
ribadire che, laddove l’Esecutivo comunitario avesse nutrito dubbi in ordine alla compatibilità
dell’istituto del c.d. ‘patrocinio autorizzato’ con i dettami del diritto comunitario, verosimilmente
non avrebbe proposto istanza ai fini di accedere alla relativa facoltà (omissis)».
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La pubblicità ingannevole
nel diritto internazionale e comunitario.
Aspetti giuridici ed evoluzione della disciplina
di Dimitris Liakopoulos(*)e Mauro Romani(**)
SOMMARIO : -1. Introduzione; -2. La disciplina della pubblicità ingannevole a livello
internazionale. La nozione di pubblicità ingannevole; -3. La società dei consumi e le alternative
di politica legislativa; -4. L’avvio della politica comunitaria a tutela del consumatore; -5.
Il danno per la concorrenza; -6. Il danno per i consumatori; -7. L’autodisciplina pubblicitaria
a livello comunitario; -8. L’Alleanza Europea per l’etica in Pubblicità; -9. La normativa internazionale
in materia di pubblicità ingannevole. Le Convenzioni internazionali sui diritti dei
consumatori; -10. Le linee guida dell’OCSE; -11. L’evoluzione normativa in Europa e la
Direttiva 84/450/CEE; -12. La disciplina della pubblicità televisiva; -13. Il criterio della trasparenza
della pubblicità: la regolamentazione della pubblicità comparativa come ipotesi di
pubblicità ingannevole; -14. Il recepimento della Direttiva comunitaria e le diverse soluzioni
nazionali; -15. (segue) La Danimarca; -16. L’azione sanzionatoria della pubblicità ingannevole
in Germania; -17. La disciplina spagnola della pubblicità ingannevole; -18. La disciplina
repressiva in Olanda; -19. (segue) La Grecia; -20. L’attribuzione delle competenze ad autorità
amministrative. Il Portogallo; -21. La pubblicità ingannevole in Francia; -22. Il Belgio; -
23. La disciplina austriaca in materia di pubblicità ingannevole; -24. La normativa sulla pubblicità
ingannevole nei nuovi Stati dell’Unione europea; -25. Conclusioni.
1. Introduzione
Il presente lavoro si propone di indagare l’evoluzione del diritto convenzionale
in materia di pubblicità ingannevole, analizzando la genesi di tale
I L C O N T E N Z I O S O
C O M U N I TA R I O E
I N T E R N A Z I O N A L E
(*) Avvocato, professore a contratto in diritto dell’Unione europea ed internazionale -
Università della Tuscia.
(**) Dottore in scienze politiche - Università della Tuscia.
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nozione in ambito nazionale e la sua progressiva trasposizione in quello internazionale.
L’inganno impedisce ai destinatari ed in particolare ai consumatori
– che sono la parte debole dei rapporti commerciali in quanto vittime di suggestioni
improprie – di esprimere scelte coerenti con i bisogni e le aspettative sollevate
dal messaggio pubblicitario. A livello internazionale, si è affermato il
principio secondo cui tali soggetti sarebbero titolari di un diritto soggettivo nei
confronti degli imprenditori, a carico dei quali viene posto l’onere di un’esatta
informazione sulle qualità e caratteristiche dei prodotti messi sul mercato.
L’obiettivo quindi perseguito con la repressione della pubblicità ingannevole
consiste nell’impedire l’acquisto di beni e/o servizi sulla base di informazioni
che ne possano produrre una scorretta rappresentazione della realtà (1).
In questa prospettiva si intende esporre l’evoluzione del dibattito economico-
giuridico in materia di pubblicità ingannevole, prendendo avvio dalla nozione
di misleading advertising ed esaminando il contributo dell’economia, alla
definizione di una normativa di controllo. La teoria economica ha, infatti, posto
in evidenza i costi rilevanti che un comportamento comunicativo ingannevole
pone a carico dei consumatori e del sistema concorrenziale nel suo complesso.
Negli anni ‘70 era stata auspicata l’elaborazione di un corpus iuris in
grado di disciplinare pubblicità ingannevole, comparativa (2), e settoriale (3).
10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(1) BOTTACCIO M., Contro la pubblicità ingannevole, in Mark up, 2003, pp. 95 ss.;
CONTE G., I procedimenti in materia di pubblicità ingannevole e le situazioni soggettive di
derivazione comunitaria, in Rivista di diritto dell’impresa, 1998, pp. 88 ss.; COOTER R.,
MATTEI U., MONASTERI P. G., PARDOLESI R., ULEN R., Il mercato delle regole, Bologna, 1990;
CORASANTI G., VASSELLI L., Diritto della comunicazione pubblicitaria, Torino, 1999;
FERRANTI R., Pubblicità ingannevole: prevenire è meglio che curare, in L’impresa, 1997, pp.
70 ss.; FORD G. T., CALFEE J. E., Recent developments in FTC policy in deception, in Journal
od marketing, 1986, pp. 82 ss.; FUSI M., Pubblicità comparativa: recenti sviluppi in Europa,
in Relazione al convegno pubblicità ingannevole e comparativa: verso nuove regole, Milano
24 aprile 1992; FUSI M., TESTA P., COTTAFAVI P., La pubblicità ingannevole, Giuffrè, 1993;
GAMBINO A. M., FARUFFINI F., FORTUNA D., PANINI G. M., TUFARELLI M. R., Pubblicità
ingannevole e comparativa, in Concorrenza e mercato, 2001, pp. 140 ss.; GAMBINO A. M.,
La pubblicità ingannevole, Roma, 1999; GAMBINO A. M., La tutela del consumatore nel
diritto della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche alla luce del d. lgs. 25
gennaio 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contratto e impresa, 1992, pp. 412
ss.; GAMBINO A. M., SONNINO G. M., Pubblicità ingannevole, in Concorrenza e mercato,
2000, pp. 162 ss.; MACALUSO F., GUTIERREZ B.M., CIAMPI N., DOTTI M., Pubblicità ingannevole,
in Concorrenza e mercato, 1996, pp. 310 ss.; PRESTON I. L., The tangled web they
weave: truth, falsity and advertisers, Madison, WI, The University of Wisconsin press, 1994.
(2) COLOMBO P., Recenti sviluppi legislativi in materia di pubblicità comparativa, in
Contratto e impresa/Europa, 2000, pp. 64 ss.; FONTANAG., La pubblicità ingannevole e comparativa,
in L’amministrazione italiana, 2000, pp. 624 ss.; PACIULLO G., La pubblicità comparativa
nell’ordinamento italiano, in Il diritto dell’informatica e dell’informazione, 2000,
pp. 115 ss.; GUGGINO, Primo rapporto sulla pubblicità comparativa diretta, in Il diritto industriale,
2001, pp. 102 ss.; CARBONE G., La pubblicità comparativa nel quadro delle recenti
metamorfosi del codice civile, in Contratto e impresa/Europa, 2001.
(3) GARTNER M.G., Advertising and the first amendment, New York, 1989; LAWSON R.
G., Advertising and labelling: laws in the common market, London, 2002.
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Queste discussioni sono appunto sfociate nell’adozione di certe direttive
comunitarie relative alla sola pubblicità ingannevole (4).
Nell’ambito degli accordi internazionali disciplinanti la materia oggetto
dello studio è, invece, possibile ricordare la Convenzione del 1989 sulle trasmissioni
televisive transfrontaliere, il cui articolo 11 elenca alcuni dei principi
generali ai quali deve conformarsi la pubblicità, e sostanzialmente
rispondenti a quelli già affermati in alcune legislazioni interne. In particolare
stabilisce che: “1. Ogni pubblicità deve essere leale ed onesta; 2. La pubblicità
non deve essere menzognera o essere pregiudizievole agli interessi dei
consumatori; 3. La pubblicità destinata ai fanciulli o che fa appello a dei
fanciulli deve evitare di recare pregiudizio agli interessi di questi ultimi e
tener conto della loro particolare sensibilità; 4. L’inserzionista non deve
esercitare alcuna influenza editoriale sul contenuto delle emissioni”.
Altre norme della Convenzione pongono divieti puntuali e incondizionati
concernenti le forme specifiche della pubblicità. Vi si prescrive che la pubblicità
debba essere chiaramente identificabile in quanto tale e distintamente
separata dagli altri programmi mediante mezzi ottici o acustici. Da tale accordo
sono vietate: la pubblicità ingannevole, la pubblicità subliminale e quella
clandestina.
2. La disciplina della pubblicità ingannevole a livello internazionale. La
nozione di pubblicità ingannevole
La normativa comunitaria ravvisa la fattispecie della pubblicità ingannevole
quando il contenuto dell’annuncio promozionale è falso, mendace, erroneo,
illusorio o contiene informazioni inesatte, ovvero quando la campagna
pubblicitaria è difficilmente riconoscibile come tale (5). Giacché provoca
nelle persone una falsa rappresentazione della realtà e le induce a tenere dei
comportamenti economicamente favorevoli all’impresa produttrice, è considerata
uno strumento concorrenziale scorretto. Il Decreto Legislativo n. 74
del 25 gennaio 1992 (6), con cui l’Italia recepisce la Direttiva comunitaria
84/450/CEE, la definisce come “qualsiasi pubblicità che, in qualunque
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 11
(4) Con l’adozione della Direttiva 55/97/CE, che va a modificare la Direttiva
84/450/CEE, si include la disciplina della pubblicità comparativa. ALPA G., Il diritto dei consumatori,
Roma, 2002; ALPA G., Prime note sull’attuazione della direttiva comunitaria in
materia di pubblicità ingannevole (D.lgs. 1992 n. 74), in Diritto dell’informazione e dell’informatica,
1992, pp. 260 ss.; ALPA G., Introduzione al diritto dei consumatori, ed. Laterza, 2006.
(5) UNNIA F., La pubblicità clandestina, in Il diritto privato oggi, 1997, pp. 40 ss.;
GHIDINI G., GAMBINO A. M., DE RASIS C., ERRICO P., FARUFFINI DI SEZZADIO F., LAZZARETTI
A., La pubblicità ingannevole. Commento sistematico alla normativa vigente, Milano, 2003,
pp. 4 e ss.
(6) Il cui scopo è quello di “tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze
sleali i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale,
i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari”
(art. 1, D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74).
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modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in
errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge
e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro
comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere
un concorrente” (7).
Ulteriori indicazioni circa l’ingannevolezza vengono fornite dal Codice
di Autodisciplina Pubblicitaria (8), secondo il quale “la pubblicità deve evitare
ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore
i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni non
palesemente iperboliche, specie per quanto riguarda le caratteristiche e gli
effetti del prodotto, il prezzo, la gratuità, le condizioni di vendita, la diffusione,
l’identità delle persone rappresentate, i premi o riconoscimenti”.
L’art. 1, del suddetto decreto, sostiene che la pubblicità debba essere
“palese, veritiera e corretta”, mentre, ingannevole è ciò che è occulto, scorretto
e non facilmente percepibile come messaggio pubblicitario.
L’ingannevolezza si configura anche quando vengano omesse informazioni
essenziali relative alle caratteristiche dei beni o servizi pubblicizzati, o alle
condizioni alle quali essi vengono forniti. Non ogni omissione informativa
determina necessariamente tale tipologia di illecito: è considerata, infatti,
rilevante solo quella in grado di limitare in modo significativo la portata dell’affermazione
contenuta nel messaggio. Si pensi ad una variabile significativa
come il costo del servizio che, se definita in modo ingannevole, potrebbe
indurre il consumatore a non acquisire altre informazioni circa il dato pubblicizzato.
La “non trasparenza” della pubblicità si configura anche in ambito giornalistico.
Ciò accade, quando i messaggi pubblicitari vengono presentati
come articoli, in modo da acquisire la credibilità di una notizia (c.d. “pubblicità
redazionale”), ovvero all’interno di programmi d’intrattenimento od
opere cinematografiche, al fine di inserire nel tessuto narrativo, a scopo pubblicitario,
i propri prodotti (c.d. “product placement”). In questi casi, per
accertare la trasparenza di un messaggio pubblicitario si deve stabilire la
natura pubblicitaria del messaggio, e verificarne la riconoscibilità.
É stato infine rilevato come l’acquisto del bene o del servizio sia marginale
nell’identificazione della pubblicità ingannevole, essendo sufficiente
che il messaggio, suscitando una interpretazione erronea della realtà, possa
influenzare il comportamento di una parte del pubblico dei consumatori
anche solo inducendola a prendere contatto con l’impresa o con i prodotti e
servizi reclamizzati.
12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(7) La direttiva è stata abrogata dalla direttiva 2006/114/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio del 2 dicembre 2006 che è entrata in vigore il 12 dicembre 2007.
(8) Inizialmente denominato Codice della Lealtà Pubblicitaria, venne istituito su iniziativa
delle organizzazioni rappresentative degli operatori della pubblicità (imprese, utenti,
agenzie, e mezzi) e sulla traccia del Code della Chambre de Commerce internazionale. FUSI
M., TESTA P., COTTAFAVI P., La pubblicità ingannevole, Milano, 1993, p. 42.
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3. La società dei consumi e le alternative di politica legislativa
Secondo la visione classica, i mercati competitivi tendono a raggiungere
le posizioni di equilibrio al verificarsi delle seguenti condizioni: efficienza
della produzione (l’offerta, ossia la quantità di beni prodotti ed immessi nel
mercato, eguaglia la domanda); equità dello scambio (tutti pagano lo stesso
bene allo stesso prezzo). L’informazione trasparente, completa, e distribuita
in maniera omogenea tra i consumatori, impedisce l’eccessiva differenziazione
tra i prodotti, e favorisce la formazione di un unico prezzo, la perfetta
razionalità spinge il consumatore a tenere comportamenti improntati alla
massima utilità.
La presenza delle suddette caratteristiche garantisce l’esistenza delle
“preferenze informate”. Per comprendere di cosa si tratti, si deve tener presente
che ogni consumatore tende ad attribuire ad un bene un valore, che può
aumentare o diminuire, a seconda delle informazioni acquisite su di esso.
Quest’ultime modificano ed incidono le decisioni correnti, influenzano nel
tempo il processo di formazione e riformazione delle preferenze, ed aiutano
a comprendere se la preferenza accordata ad un prodotto sia coerente con i
bisogni che attivano il consumo e spingono i soggetti, nel caso in cui tale corrispondenza
non esista, verso beni diversi.
I fattori analizzati costituiscono i principi base del modello economico
classico di scelta del consumatore. Un consumatore razionale, pertanto, si presenta
sul mercato con delle preferenze già strutturate, formate, prima dello
scambio, dalla comparazione tra i prodotti. Le scelte dei consumatori appaiono,
quindi, autonome e non influenzate da fattori esterni. Il modello descritto
rimane un ideale, poiché non riscontrabile in alcun mercato reale. Più spesso,
i mercati sono caratterizzati da regimi competitivi imperfetti, a causa della
presenza di esternalità negative, beni pubblici, informazione incompleta, che
rendono la razionalità del consumatore limitata e la competizione debole.
Gli aspetti psicologici e sociologici del consumo, la richiesta di varietà,
le questioni attinenti la qualità e l’innovazione del prodotto non sono tenute
in alcun conto, e la soddisfazione del consumatore non è altro che una conseguenza,
quasi meccanica, dell’atto di acquisto. L’informazione asimmetrica
favorisce fenomeni di “selezione avversa” (9), caratterizzati dalla difficoltà
del consumatore nel valutare e distinguere i prodotti di alta qualità da quel-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 13
(9) CAFAGGI F., Pubblicità ingannevole, in Digesto delle discipline privatistiche, XI,
Torino, 1995, p. 433.; VANZETTI A., La repressione della pubblicità menzognera, in Rivista
di diritto civile, 1964, pp. 585 ss.; AUTERI P., La nuova normativa sulla pubblicità ingannevole,
in relazione al convegno “La pubblicità ingannevole: istituzioni, imprese, mezzi e consumatori
a confronto”, Milano, 18 Giugno 1992, p. 41; DE SOLA M., JEUNIAUX M., La politique
communautaire en faveur des consommateurs, in Revue du marchè unique europèen,
1993, pp. 65 ss.; WEATHERILL S., Consumer policy, in P. Craig G., De Búrca (ed.), The evolution
of EU law, Oxford, Oxford University press, 1999, pp. 693 ss.; PRESTON I. L., The
federal trade commission’s identification of implications as constituting deceptive advertising,
in Cincinnati law review, 1989, pp. 1244 ss.
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li di bassa. Tale condizione agevola il fallimento del mercato e coinvolge
anche le imprese produttrici incapaci di far cogliere le differenze tra i loro
prodotti e quelli dei concorrenti. La conseguenza è che, il consumatore sarà
più propenso a scegliere prodotti di più basso prezzo, anche se di minore qualità,
decretando così l’espulsione dal mercato di tutte quelle imprese che producono
beni di qualità a costi più elevati.
I mercati reali, quindi, sono caratterizzati da differenti livelli di gap negoziale,
informativo, e valutativo, che influenzano negativamente i processi di
scelta e di consumo. L’intervento del legislatore è stato quindi funzionale al
riequilibrio di tale asimmetria ed al rafforzamento della posizione del consumatore.
Esso prevedeva il raggiungimento di tre obiettivi: assicurare l’esistenza
ed il pieno funzionamento dei mercati, correggere le inefficienze del mercato,
assicurare la libertà di scelta e di accesso a tutti i consumatori (10).
Un intervento in tal senso si è avuto con la prima normativa Antitrust a
favore del piccolo commercio e della produzione artigianale, volta a contrastare
lo strapotere delle concentrazioni industriali (11) (Sherman Act, 1890). Tale
atto considera le azioni restrittive della concorrenza come violazioni penali,
contro cui i privati e lo Stato possono ricorrere. Si comprese, infatti, che con
questo tipo d’intervento era possibile realizzare l’interesse delle imprese.
4. L’avvio della politica comunitaria a tutela del consumatore
Della tutela del consumatore si è anche occupato il Trattato istitutivo
della Comunità Economica Europea, firmato a Roma nel 1957, il quale si
prefiggeva di assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori, promuovere l’utilizzo
di pratiche capaci di migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti,
favorire il progresso tecnico o economico, condannare le pratiche consistenti
nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno
dei consumatori (12).
14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(10) SILVA F., CAVALIERE A., I diritti del consumatore e l’efficienza economica, in La
tutela del consumatore tra mercato e regolamentazione, Roma, 1996, p. 29.
(11) La concorrenza sleale divenne quindi un reato e con il passare degli anni l’obiettivo
di tutelare i consumatori dalle pratiche commerciali scorrette divenne la motivazione
principale di questa legge. Fonte: http://www.portalex.it. Si veda anche GALLOTTI D.,
Antitrust e procedimento per pubblicità ingannevole, in Rassegna Economica, 6, 2003, p.
45; MALTONI A., Tutela dei consumatori e libera circolazione delle merci nella giurisprudenza
della Corte di giustizia. Profili costituzionali, Giuffrè, 1999.
(12) Si basa su due disposizioni fondamentali contenute nei primi due articoli. Il primo
vieta gli accordi tra imprese stabilendo che “ogni contratto, combinazione nella forma di trust
o altrimenti, o cospirazione, che limita gli scambi o il commercio tra i vari Stati, o con nazioni
straniere, è per mezzo della presente legge dichiarato illegale…”. Nel secondo, invece, si
prevede che “ogni persona che monopolizzerà o tenterà di monopolizzare o entrerà a far parte
di combinazioni o cospirazioni con altra persona o persone, tendenti a monopolizzare qualsiasi
parte degli scambi o del commercio fra i vari Stati o con nazioni straniere sarà ritenuta
colpevole di un reato”. PERA A., Concorrenza e antitrust, Bologna, 1998; SOMMAA., Il dirit-
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 14
Nel 1973, venne approvata la “Carta della protezione del consumatore”,
nella quale erano elencati i diritti fondamentali da assicurare ai fruitori di
beni o servizi, per favorire il progresso economico e sociale (13).
La prima e rilevante normativa comunitaria in tema di tutela dei consumatori
è stata la Risoluzione CEE del 14 aprile 1975 (14), nella quale era
delineato il programma preliminare della politica di protezione del consumatore.
Gli interessi meritevoli di tutela venivano raggruppati in cinque categorie
di diritti fondamentali: il diritto alla protezione della salute e della sicurezza,
il diritto alla tutela degli interessi economici, il diritto al risarcimento
dei danni, il diritto all’informazione ed all’educazione, il diritto alla rappresentanza.
La risoluzione indicava, per ciascuno di tali diritti, criteri a cui ispirare i
diversi interventi. Per la tutela della salute e della sicurezza dei consumatori,
si raccomandava di evitare che quest’ultimi fossero posti in pericolo dai beni
o servizi messi a disposizione, e che fossero portati a conoscenza degli eventuali
rischi ad essi collegati.
Per difendere gli interessi economici si doveva fornire una tutela contro
gli abusi di potere da parte dei venditori e le forme di propaganda ingannevole,
ed assicurare un’adeguata informazione sul prodotto. Il diritto al risarcimento,
invece, doveva essere garantito prestando al consumatore adeguata
assistenza e consulenza in caso di reclami, ed assicurando procedure rapide,
efficaci e poco dispendiose per ottenerne il risarcimento. Il diritto all’informazione,
al contrario, poteva essere assicurato ponendo il consumatore al
corrente di tutte le caratteristiche essenziali di beni e servizi, in modo da permettergli
di compiere sempre scelte razionali e consapevoli. Infine, per quanto
concerne il diritto alla rappresentanza, si dovevano sentire e consultare le
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 15
to dei consumatori è un diritto dell’impresa, in Politica del diritto, 1998, 4, pp. 679-688;
DELOGU L., La tutela dei diritti del consumatore in Italia, ieri e oggi: le iniziative comunitarie
e la L. 281/1998 sui diritti dei consumatori, 2003, pp. 5 e ss.; ALPA G., Diritto privato
dei consumi, Bologna, 1986, p. 26; Cfr. il rapporto CONSEIL DE L’EUROPE, Protection des
consommateurs, Strasburgo, 1972.
(13) L’argomento, divenuto una questione pubblica già negli anni 1967-1968, spinse il
Consiglio d’Europa ad emettere tale Carta. In particolare, venivano individuati: il diritto
all’assistenza e alla protezione dei consumatori, che si deve manifestare in un agevole accesso
alla giustizia ed in una razionale amministrazione di essa. I consumatori devono essere
protetti da ogni danno economico o materiale provocato loro dai beni di consumo; il diritto
al risarcimento del danno derivato al consumatore dalla circolazione di prodotti difettosi, o
dalla diffusione di messaggi pubblicitari menzogneri, erronei o recettivi; il diritto alla informazione
e all’educazione in ordine alla qualità e ad ogni altro aspetto del prodotto, oltre
all’accertamento dell’identità dei fornitori; il diritto di partecipare alle associazioni esponenziali
di interessi dei consumatori, e la possibilità di esprimere direttive, a livello di scelte
politiche ed economiche, inerenti la disciplina dei consumi. La Carta auspicava inoltre l’istituzione,
nei singoli Paesi membri, di una “autorità forte, indipendente ed efficace” che rappresentasse
i consumatori e le categorie commerciali, assegnando agli organi legislativi e
governativi il compito di esprimere pareri circa i problemi di tutela dei consumatori.
(14) In G.U.C.E. n. C 92 del 25 aprile 1975.
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 15
associazioni rappresentative degli interessi degli stessi in relazione ad ogni
decisione che potesse in qualche modo coinvolgerli. Appare chiaro che
secondo la suddetta risoluzione la tutela spettante al consumatore non veniva
trattata come una politica autonoma, quanto piuttosto, come un riflesso di
altre politiche che si realizzava attraverso azioni volte ad attuare un miglioramento
qualitativo delle condizioni di vita della comunità.
I principi sanciti nella risoluzione del 1975 sono stati ribaditi nella successiva
risoluzione del 19 maggio 1981 (15), in cui è stato delineato un secondo
programma per la politica di protezione ed informazione del consumatore. Con
la tale risoluzione non ci si è limitati a confermare la volontà di garantire la
tutela dei diritti già indicati nella risoluzione precedente, ed entrati a far parte
a pieno titolo della legislazione comunitaria, bensì si sono, anche, individuati
nuovi obiettivi, come la creazione di condizioni per favorire e migliorare il dialogo
tra consumatori e produttori distributori, nonché l’impegno a dedicare
maggiore attenzione alla qualità di beni e servizi ed ai loro prezzi.
L’iniziativa comunitaria si è intensificata solo dalla metà degli anni ’80,
quando sono stati emanati una serie di documenti politici e di direttive, che
la dottrina ha considerato come una sorta di codificazione del diritto europeo
dei consumatori. In tale frangente si colloca anche il Trattato di Maastricht,
il cui Tit. XI è espressamente dedicato alla “Protezione dei consumatori”. Il
Trattato di Amsterdam ha successivamente modificato quel titolo e lo ha
arricchito convertendolo nell’attuale Tit. XIV, che è rimasto lo stesso anche
con la modifica del trattato costituzionale di Lisbona.
Dalle suddette disposizioni traspare un atteggiamento nuovo e diverso da
parte della Comunità che non si limita più a fissare regole, ma che assume un
comportamento decisamente propulsivo. Essa si prende anche l’impegno si
assicurare ai consumatori un livello elevato di protezione, soprattutto se confrontato
con l’indirizzo precedentemente seguito dal legislatore comunitario,
che si accontentava del “rispetto di un livello minimale di protezione”, attribuendo
agli Stati membri la facoltà di elevarlo.
La Comunità ha riconosciuto come proprio compito istituzionale quello
di contribuire a tutelare alcuni diritti ed interessi dei consumatori. Non si
limita ad identificare ed a garantire i diritti e gli interessi dei consumatori, ma
intraprende iniziative che ne rendano possibile l’effettivo esercizio.
I diritti individuati dal Trattato di Amsterdam non hanno, quindi, solo
natura programmatica, ma anche precettiva (16). D’ora in poi, l’Unione
Europea non si prefigge unicamente la realizzazione di un mercato unico, ma
16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(15) COLAGRANDE R., Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (l. 30 luglio
1998, n. 281), in Le nuove leggi civili commentate, 1998, 4, pp. 700 e ss.
(16) La Direttiva 84/450/CEE (modificata dalla Direttiva 97/55/CE), in materia di pubblicità
ingannevole e comparativa, attuata con il D.Lgs. n. 74 del 25 gennaio 1992 e con il
D.Lgs. n. 67 del 25 febbraio 2000; la Direttiva 85/374 CEE sulla responsabilità per danno da
prodotti difettosi, attuata con il D.p.r. n. 224 del 24 maggio 1988; la Direttiva 85/577/CEE
sui contratti stipulati fuori dei locali commerciali, attuata con il D.Lgs. n. 50 del 15 gennaio
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 16
anche la tutela delle posizioni soggettive dei consumatori. Tra queste, ve ne
sono alcune che si presentano come veri e propri diritti soggettivi perfetti, in
quanto tutelati già da norme nazionali, mentre le altre sono considerate solo
come diritti strumentali.
Rilevante è anche il principio espresso nel secondo paragrafo dell’art.
153 di tale trattato, in base al quale nella definizione ed attuazione delle altre
politiche o attività comunitarie si devono tenere in considerazione le esigenze
relative alla protezione dei consumatori. A questo appaiono orientati tutti
i provvedimenti diretti al riavvicinamento delle posizioni legislative, regolamentari
ed amministrative degli Stati membri e le misure di sostegno, integrazione
e controllo della politica da loro attuata.
La Comunità non ha, però, rinunciato ad incoraggiare l’autonoma iniziativa
dei singoli Stati, che, in base al paragrafo quinto del medesimo articolo,
possono continuare a mantenere ed a introdurre misure di protezione più
rigorose, purché compatibili con il Trattato. Infine, deve ricordarsi che, il 7
maggio 2002, la Commissione europea ha delineato la strategia sulla politica
di tutela per gli anni 2002/2006, individuando tre obiettivi prioritari, attuabili
tramite azioni da rivedere periodicamente, in modo da adattarle all’evoluzione
sociale ed economica.
Il primo dei suddetti obiettivi consiste nel realizzare “un elevato livello
comunitario di protezione dei consumatori”, in modo da armonizzare sia le condizioni
di sicurezza di beni e servizi, sia gli interessi economici e legali dei con-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17
1992; la Direttiva 87/102/CEE e 88/90/CEE sul credito al consumo, attuata con la Legge n.
142 del 19 febbraio 1992; la Direttiva 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti
“tutto compreso”, attuata con il D.Lgs. n. 111 del 17 marzo 1995; la Direttiva 93/13/CEE
sulle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, attuata con la Legge n. 52 del
6 febbraio 1996; la Direttiva 94/47/CE concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti
dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni
immobili (“Direttiva sulla multiproprietà”), attuata con il D.Lgs. n. 427 del 9 novembre 1998;
la Direttiva 97/7/CE sui contratti a distanza, attuata con il D.Lgs. n. 185 del 22 maggio 1999;
la Direttiva 98/27/CE sui provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori, i cui
principi erano stati già attuati in Italia con la Legge sui diritti dei consumatori e degli utenti
n. 281 del 30 luglio 1998, le cui disposizioni sono state adeguate al provvedimento comunitario
con il D.Lgs. n. 224 del 23 aprile 2001; la Direttiva 99/44/CE su taluni aspetti della vendita
e delle garanzie dei beni di consumo, attuata con il D.Lgs. n. 24 del 2 febbraio 2002; la
Direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione
nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico (“Direttiva sul
commercio elettronico”), attuata negli ultimi mesi con il D.Lgs. n. 70 del 9 aprile 2003.
SCHNEIDER G., PERRY J., Commercio elettronico, Giuffrè, 2000; SMITH B. W., E-commerce:
financial products and services, New York, 2003; PALMIERI A., Sulla tutela dei consumatori:
nuove norme e nuove problematiche, in Il foro italiano, 1998, 3, p. 597 ss.; STUYCK J.,
European consumer law after the treaty of Amsterdam: consumer policy in or beyond the
internal market?, in Common market law review, 2000, pp. 368 ss.; MICKLITZ H. W., REICH
N., WEATHERILL S., EU treaty revision and consumer protection, in Journal of consumer policy,
2004, pp. 368 ss.; HOWELLS G., WILHELMSSON T., EC consumer law: has it come of age,
in European law review, 2003, pp. 370 ss.; HOWELLS G., The rise of european consumer law.
Whither national consumer law? in Sydney law review, 2006, pp. 64 ss.
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 17
sumatori, al fine di permettere a questi ultimi di effettuare i loro acquisiti, all’interno
dell’Unione Europea, con la massima fiducia e con qualunque mezzo.
Il secondo obiettivo è quello di garantire “l’applicazione effettiva delle
norme di protezione dei consumatori” e di vigilare affinché vengano approvate
leggi valide che divengano anche effettive. Lo scopo è di garantire ai
consumatori la stessa protezione in ogni parte dell’Unione, per questo si è,
anche, pensato allo sviluppo di un quadro di cooperazione amministrativo tra
gli Stati membri e di meccanismi di ricorso per i consumatori.
La Comunità europea si è, altresì, prefissata di “favorire una partecipazione
adeguata delle organizzazioni dei consumatori alle politiche dell’UE”,
in modo che cooperino alla definizione delle politiche di protezione e queste
possano sortire gli effetti pratici voluti. I consumatori ed i loro rappresentanti
devono, però, prima di tutto essere posti nelle condizioni di difendere i propri
interessi su un piano di parità con le parti interessate. Ciò comporta una
revisione dei meccanismi di partecipazione attiva alle associazioni e una
disponibilità di capacità e risorse adeguate, da parte dei consumatori (17).
5. Il danno per la concorrenza
La pubblicità ingannevole favorisce la concorrenza sleale danneggiando
le imprese operanti nel medesimo settore di quella che se ne avvale. Si parla
di concorrenza sleale se e quando un atto di concorrenza è idoneo a danneggiare
un’azienda concorrente, ossia ad arrecarle un danno economico, in ogni
aspetto della sua attività. Ciò significa che la lesione può indifferentemente
afferire agli elementi organizzativi dell’impresa, al patrimonio tecnologico,
alla immagine esteriore o alla clientela e, più in generale, a qualunque degli
elementi che ne costituiscono il cosiddetto “avviamento” (18). I presupposti
per il suo verificarsi sono: determinare confusione con i prodotti di aziende
18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(17) cfr. il libro verde sulla revisione dell’acquis comunitario in materia di tutela dei
consumatori (Gazzetta ufficiale C 61 del 15 marzo 2007), la direttiva 98/27/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 19 maggio 1998, relativa a provvedimenti a tutela
degli interessi dei consumatori e la direttiva 98/27/CE consente di introdurre un ricorso per
la cessazione di tutta una serie di pratiche che pregiudicano gli interessi dei consumatori,
come le pratiche commerciali sleali.
(18) cfr. la direttiva 2005/29/CE dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali
sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, che modifica le
direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE e il Regolamento n. 2006/2004. In
prassi la direttiva citata completa anche le disposizioni relative alle transazioni fra impresa
e consumatore di cui alla direttiva sulla pubblicità ingannevole. Secondo la direttiva una pratica
commerciale può ingannare sia tramite un’azione, sia tramite un’omissione. Una pratica
è ingannevole per omissione se non fornisce le informazioni minime o le informazioni di
cui il consumatore medio ha bisogno prima di acquistare. La direttiva stabilisce un elenco di
informazioni essenziali di cui il consumatore ha bisogno prima dell’acquisto, ad esempio le
caratteristiche principali del prodotto, il prezzo, le spese di consegna e il diritto di recesso.
Una pratica commerciale è ingannevole per azione se contiene informazioni false ovvero se
induce o può indurre in errore il consumatore medio, anche se le informazioni presentate
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 18
concorrenti o, addirittura, imitarli; attribuire ad un bene qualità proprie di un
altro; non seguire, da parte dell’inserzionista del messaggio, i principi della
correttezza professionale.
La pubblicità ingannevole lede le imprese concorrenti se, a causa di questa,
esse registrano un decremento delle vendite motivato dallo sviamento
della clientela verso prodotti concorrenti. Tale effetto si ottiene o svolgendo
un’attività denigratoria del prodotto e dell’impresa concorrente o esaltando le
caratteristiche del bene che si sta pubblicizzando rispetto a quelli dello stesso
genere che si trovano in commercio.
Il legame tra pubblicità ingannevole e concorrenza sleale (19) è stato
messo in evidenza anche dalla Dir. 84/450/CEE, il cui secondo considerando
afferma espressamente che “la pubblicità ingannevole può condurre ad
una distorsione di concorrenza all’interno del mercato comune”. In base
alla suddetta, i danni prodotti da questo tipo di pubblicità sono: l’impiego di
segni distintivi appartenenti ad altri prodotti; l’imitazione servile del prodotto
concorrente; il compimento di atti che inducono confusione tra prodotti
di imprese diverse.
Quasi tutti i Paesi sanzionano l’imitazione pubblicitaria servile, ossia lo
sfruttamento del nome, del marchio, e dell’immagine altrui, solo alcuni, invece,
puniscono lo sfruttamento della notorietà di un prodotto. L’imitazione servile
di un prodotto concorrente riguarda la sua forma esterna, che in molti
casi è l’elemento caratterizzante dello stesso, per cui è dannosa per la confusione
che può ingenerare nella clientela rendendola incapace di distinguere
tra il prodotto originale e la sua imitazione. Ogni qual volta un messaggio
pubblicitario produce tale effetto si configura la fattispecie della concorrenza
sleale, poiché la confusione è un aspetto dell’ingannevolezza.
Un secondo tipo di danno consiste nell’attribuire al prodotto pubblicizzato
caratteristiche e qualità proprie di prodotti concorrenti. Un terzo ed ultimo
tipo di danno è la denigrazione del prodotto o dell’attività dell’impresa
concorrente, attraverso la diffusione di notizie false, o vere ma diffuse in
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19
sono oggettivamente corrette. PARISI N., Casi e materiali di diritto europeo dell’informazione
e della comunicazione, II edizione, ed. Editoriale Scientifica, 2007, pp. 620 ss.; VANZETTI
A., DI CATALDO V., Manuale di diritto industriale, Milano, ultima edizione.
(19) Il percorso europeistico contro le pratiche commerciali sleali, si snoda, in particolare
attraverso la direttiva 84/450/CEE del Consiglio seguita dalle direttive 97/7/CE,
98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il Regolamento n.
2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio. L’ultima direttiva è la n. 2005/29/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005. La nuova direttiva detta un distinto
regime giuridico che si segnala per tre ragioni: a) introduce una clausola generale che
vieta le pratiche commerciali sleali, vale a dire quelle pratiche che in contrasto con il requisito
della diligenza professionale pregiudichino il comportamento economico del consumatore
medio che ne sia raggiunto; b) la direttiva individua nelle pratiche ingannevoli e in quelle
aggressive due modalità nella categoria generale delle pratiche commerciali sleali e c) la
nuova direttiva contiene in allegato un elenco di pratiche commerciali che devono in ogni
caso essere considerate sleali.
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 19
modo tendenzioso e scorretto. Se la denigrazione per mezzo della pubblicità
può essere facilmente dimostrata, non altrettanto può dirsi della quantificazione
del danno da essa prodotto. Questo accade perché non è sempre e soltanto
commisurato alla diminuzione del volume di affari, dovendo anche
tener conto della lesione arrecata all’onore ed alla credibilità commerciale
dell’impresa offesa.
Che la pubblicità ingannevole rientri a pieno titolo tra le ipotesi di concorrenza
sleale è confermato anche dalla giurisprudenza di merito, secondo
cui tale situazione si presenta quando si fa ricorso a mezzi contrari ai principi
della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’azienda concorrente,
proprio come accade nel caso della pubblicità ingannevole.
6. Il danno per i consumatori
L’inganno si realizza quando un messaggio descrive in modo non veritiero
caratteristiche e qualità del prodotto o del servizio offerto, ovvero in presenza
di messaggio pubblicitario non riconoscibile come tale, in quanto non
trasparente.
Nel primo caso, il danno subito ha natura patrimoniale e coincide con l’acquisto
di un prodotto non corrispondente a quello pubblicizzato. Nel secondo,
invece, il fatto che il messaggio pubblicitario non sia riconoscibile come tale
impedisce al consumatore di recepirlo nella sua valenza promozionale, e fa sì
che egli ne consideri soltanto l’aspetto informativo, così da risultare più vulnerabile
ai suoi contenuti. Qualora i messaggi pubblicitari riguardino prodotti
pericolosi per la salute e la sicurezza dei consumatori o quando risultino indirizzati
alle cosiddette “fasce deboli” o “a rischio”, per stabilire se siano o meno
idonei ad arrecare danno, viene utilizzato come parametro di riferimento il
consumatore più sprovveduto. Nel caso in cui i destinatari delle comunicazioni
abbiano un grado di discernimento più elevato, viene preso in considerazione
il soggetto dotato di particolari conoscenze tecniche o culturali.
Per valutare la sussistenza di un pregiudizio, deve stabilirsi la rilevanza
e l’incidenza degli elementi ingannevoli rispetto alla scelta del destinatario di
aderire, o meno all’offerta pubblicitaria. Determinante, ai fini della esistenza
o della esclusione del pregiudizio, si è rivelata, in molti casi, la considerazione
degli specifici destinatari del messaggio e delle loro qualità.
7. L’autodisciplina pubblicitaria a livello comunitario
In quasi tutti i Paesi più sviluppati, accanto alle disposizioni di legge
vigenti, troviamo un sistema volontario di controllo della pubblicità, il cui
effetto è limitato ad operatori del settore ed a utenti pubblicitari. Si tratta del
Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, redatto e divulgato dall’omonimo
Istituto di Autodisciplina. I codici di Autoregolamentazione assicurano che la
pubblicità venga realizzata per fornire un servizio al pubblico, data l’influenza
che su di esso può esercitare (20).
Per “Autodisciplina pubblicitaria” o “Autoregolamentazione” si intende
quel particolare fenomeno per il quale un insieme di soggetti, operanti nel
20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 20
medesimo settore di attività ed accomunati da interessi affini, decidono di
assoggettare i loro comportamenti e le regole di condotta. La prevenzione
degli illeciti è l’obiettivo primario dei sistemi di Autoregolamentazione della
pubblicità. Atal fine sono indispensabili idonee procedure di verifica preventiva
della pubblicità.
Le condizioni richieste sono due: la sussistenza tra i soggetti di un vincolo
giuridico, e il rispetto e l’applicazione delle regole da parte degli stessi.
L’Autodisciplina pubblicitaria tutela l’interesse del consumatore a non essere
sviato nelle proprie scelte, ma anche quello concorrenziale, di ogni
imprenditore, a non essere leso dalla scorrettezza altrui.
I codici di Autodisciplina si presentano come un fenomeno a sé stante
rispetto alle norme di diritto positivo, per tale ragione un comportamento che
in base a queste ultime è perfettamente lecito e consentito, potrebbe non esserlo
per quelle Autodisciplinari. Quasi tutti i codici esistenti nei Paesi europei
risultano ispirati al Codice delle Pratiche Leali in Materia Pubblicitaria (Code
de Pratiques Loyales en matière de Publicité) emanato nel 1937 dalla Camera
di Commercio Internazionale, presentando, per tale ragione, molte similitudini,
soprattutto in riferimento alle modalità di svolgimento delle funzioni.
Nel Codice delle Pratiche Leali in Materia Pubblicitaria sono indicati tutti
i criteri etici e giuridici ritenuti, ancora oggi, essenziali per garantire che la
pubblicità rimanga uno strumento di corretta e leale concorrenza, utile per il
consumatore e per lo sviluppo degli scambi internazionali. Tutte le regole che
devono essere previste ed ampliate, se necessario, dai vari codici sono indicate
in 19 articoli, ma i principi cardine sono indicati all’art. 1, secondo il quale
la pubblicità deve essere “leale, veritiera e rispettosa della decenza”.
Il Giurì del codice (diventato attualmente il Bureau de vérification de la
publicité) è articolato in maniera da rappresentare egualmente pubblicitari,
professionisti e media, ed ha il compito di esaminare ed eliminare le pratiche
sleali. Le pronunce da questo emesse non assumono la veste di una condanna,
bensì esprimono un giudizio, circa la conformità dei testi pubblicitari, ai
principi espressi. Nel caso di difformità, queste si limitano a mettere in evidenza
il fatto ed a farlo cessare.
Nel codice viene data una definizione sia di “pubblicità” che di “consumatore”:
per pubblicità, si intende, con una definizione piuttosto ampia, qualunque
forma di propaganda riguardante prodotti o servizi indipendentemen-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21
(20) Cfr. PEYRON L., I metatags di internet come nuovo mezzo di contraffazione del
marchio e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giurisprudenza italiana, 1998, pp.
740 ss.; ROSSI G., La pubblicità dannosa. Concorrenza sleale, diritto a non essere ingannati,
diritti della personalità, Giuffrè, 2000; ROSSELLO C., La pubblicità ingannevole: l’attuazione
della direttiva comunitaria, in Economia e diritto del terziario, 1994, pp. 702 ss.;
SCIANCALEPORE G., Prassi contrattuale e tutela del consumatore, Giuffrè, 2004; FUSI M.,
TESTA P., COTTAFAVI P., Diritto e pubblicità, Milano, 1991; BERTI C., Pubblicità scorretta e
diritti dei terzi, Milano, 2000; FLORIDIA G., Legge e autodisciplina pubblicitaria in Italia, in
Riv. Dir. Ind., 1987, 1, pag. 122 e ss.; FUSI M., TESTA P., COTTAFAVI P., L’autodisciplina pubblicitaria
in Italia, Milano, 1983.
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 21
te dal mezzo usato (21). Per consumatore, invece, qualsiasi persona alla quale
il messaggio possa rivolgersi, quindi, sia il consumatore finale, che l’utente
o il commerciante.
Oltre al costante e tempestivo aggiornamento delle norme dei codici, è
stata ritenuta di fondamentale importanza la rapidità di intervento, caratteristica
che consente ai codici di arginare celermente gli effetti e le conseguenze
dannose di una pubblicità ingannevole.
Comune a quasi tutti i codici è il principio di inversione dell’onere della
prova, secondo cui l’autore del messaggio pubblicitario deve essere in grado,
in qualsiasi momento, di dimostrarne la veridicità. In tal modo si tenta di
responsabilizzarlo facendo sì che egli stesso, al momento della diffusione, sia
il primo ad emettere un giudizio sulla lealtà dell’informazione.
Le sanzioni previste si distinguono in tipiche, e speciali. Le prime, consistono
nella sospensione della divulgazione del messaggio ritenuto ingannevole,
le seconde, adottate in casi di particolare gravità, prevedono la pubblicazione
della sentenza di condanna. Altra caratteristica dei sistemi di
Autodisciplina è la diffusione capillare e continuativa di informazioni sull’attività
svolta, al fine di soddisfare l’esigenza di informazione, e di prevenzione.
In Italia il Codice di Autodisciplina è stato emanato nel 1966, allo scopo
di supplire alla mancanza di una disciplina nazionale del fenomeno pubblicitario,
lacuna poi colmata dal D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74. Prima dell’introduzione
di tale decreto il consumatore non disponeva di strumenti di tutela
giuridici per questa materia, e la protezione era eventuale, indiretta e solo
contro il messaggio pubblicitario nocivo agli interessi di natura imprenditoriale.
Le norme del codice, avendo una natura privatistica, hanno efficacia
solo verso gli aderenti, e non erga omnes.
8. L’Alleanza europea per l’etica in Pubblicità
Gli Istituti di Autodisciplina Pubblicitaria sono membri dell’Alleanza
Europea per l’Etica in Pubblicità (AEEP) (22), che ha assunto nei Paesi di
lingua latina la denominazione di EASA (European Advertising Standards
Alliance).
Tale Associazione internazionale si prefigge di promuovere l’Autodisciplina,
tenendo conto delle differenze culturali dei vari Paesi, e di riunire pe-
22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(21) “ (...) pour englober toute forme d’action publicitaire en faveur de produits, services
et étiquettes et le matériel utilisé aux points de vente”. RISPOLDI D., La pubblicità tra
mercato e tutela dei cittadini-utenti, Milano, 1997, pp. 47 ss.
(22) Organizzazione no-profit con sede a Bruxelles, composta da 28 membri rappresentanti
di 24 Paesi. Ventiquattro di questi membri provengono da ventidue Paesi europei, gli
altri quattro da paesi extra-europei. Per quanto riguardo questi ultimi, è stato consentito l’accesso
ai lavori dell’Alleanza agli organismi autodisciplinari del Sud Africa (Advertising
Standards Authority - ASASA), del Canada (Advertising Standards Canada - ASC), e della
Nuova Zelanda (The Advertising Standards Authority - ASANZ), tutte tramite l’introduzione
della figura del membro corrispondente. Fonte:http://www.iap.it
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 22
riodicamente tutte le organizzazioni europee che adottano tali codici. L’Alleanza
nasce come replica alla sfida lanciata nel 1991 da Sir Leon Brittan,
commissario comunitario alla concorrenza, consistente nel dimostrare che
quanto era stato raggiunto, a livello di singole autodiscipline nazionali, poteva
essere esteso anche su scala Europea.
Basandosi sul principio del mutuo riconoscimento fra i sistemi autodisciplinari
e sulla giurisdizione del paese d’origine del mezzo pubblicitario,
l’EASA nel 1992 dà avvio al Cross-border Complaints System (CBC), il cui
compito consta nel garantire al consumatore di un altro Paese gli stessi diritti
di quello del Paese da cui il mezzo diffonde la pubblicità contestata. La procedura
si attiva con una preliminare lettera all’organismo di Autodisciplina
del proprio Stato, in cui viene indicato il messaggio pubblicitario ritenuto
ingannevole e le ragioni che spingono a esporre denuncia contro di esso.
Successivamente il caso sarà esaminato dagli organi nazionali competenti e,
di qui dall’organo del paese del mezzo coinvolto, e dall’EASA.
Uno dei casi più recenti, ad esempio, esamina il reclamo presentato da un
consumatore inglese, con oggetto una pubblicità contenente pubblicazioni
pornografiche inviate tramite mail dalla STB Inc. Il reclamante, non desideroso
di ricevere tali pubblicazioni, in quanto ritenute offensive, si è rivolto
all’organismo di Autodisciplina del proprio Paese (ASA) che ha, a sua volta,
inviato il reclamo all’organismo spagnolo. Quest’ultimo ha contattato gli
inserzionisti, convincendoli ad eliminare l’indirizzo del reclamante dalla loro
mailing list; la procedura è stata chiusa ed il reclamo accettato.
9. La normativa internazione in materia di pubblicità ingannevole. Le
Convenzioni internazionali sui diritti dei consumatori
La maggior parte delle leggi e dei sistemi attualmente vigenti, per fronteggiare
il problema delle pratiche commerciali fraudolente ed ingannevoli,
sono state elaborate in un’epoca in cui i loro confini erano circoscritti alla
nazione. Per questa ragione, si sono spesso rivelate inadeguate per la risoluzione
di tale problema. Le vittime ed i terzi implicati nelle transazioni, così
come colui che commette l’illecito, si trovano sovente in luoghi diversi ed a
notevole distanza tra loro. Ciò spiega la difficoltà degli organismi preposti al
controllo ad accedere e reperire gli atti fraudolenti e le informazioni indispensabili
per individuare le pratiche dannose.
L’individuazione degli autori di tali pratiche, invece, presenta notevoli
difficoltà, soprattutto quando esse sono il frutto della cooperazione di più
soggetti residenti in paesi diversi, o quando per porle in essere vengano utilizzate
delle società schermo. Le inchieste sulle pratiche commerciali fraudolente
transfrontaliere sono rese complesse dal carattere effimero delle prove,
spesso costituite da dati forniti dai sistemi e dalle reti informatiche che, tendono
a scomparire prima di giungere nelle mani degli incaricati ai controlli.
Per affrontare e risolvere tali problemi, si è da più parti auspicata una
cooperazione più stretta ed efficiente tra gli organismi di controllo, dal
momento che i meccanismi internazionali di collaborazione giudiziaria e
penale, a ciò preposti, si sono rivelati inadeguati a garantire la tutela dei con-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23
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sumatori. A livello internazionale, uno dei primi provvedimenti ad aver sanzionato
i comportamenti fraudolenti delle imprese è stata la Convenzione di
Parigi per la protezione della proprietà industriale nella quale sono sottoposti
a divieto: tutti gli atti di concorrenza sleale, capaci di ingenerare confusione
con lo stabilimento, i prodotti o l’attività industriale o commerciale di un
concorrente; le asserzioni false effettuate nell’esercizio del commercio e tali
da discreditare un concorrente; le indicazioni o le asserzioni il cui uso possa
trarre in errore il pubblico circa la natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche,
l’attitudine all’uso o la quantità delle merci. Quanto disposto dalla
Convenzione è stato riproposto anche dall’Accordo Trips del 1994 e quelli
seguenti nel settore, afferente i diritti di proprietà intellettuale attinenti al
commercio.
Un ulteriore passo in avanti nella definizione di un quadro internazionale
uniforme, in materia di tutela del consumatore e di pubblicità ingannevole,
è stato compiuto con la stipulazione della Convenzione europea sulla televisione
transfrontaliera, approvata il 5 marzo 1989, dal Comitato dei ministri
del Consiglio d’Europa. Aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio
d’Europa, e degli altri Stati già parte della Convenzione culturale europea e
della Comunità economica.
Il Capo III di tale accordo è dedicato alla pubblicità, la quale unitamente
alla sponsorizzazione, costituisce uno degli aspetti più controversi del
sistema televisivo, coinvolgendo anche interessi di ordine economico.
Entrambe rappresentano il fulcro del settore televisivo, intorno a cui gravitano
interessi diversi, a volte anche contrastanti, come quelli delle emittenti,
degli inserzionisti, degli sponsor e degli spettatori consumatori. La
Convenzione ha cercato di contemperare la libertà di trasmissione, pubblicità
e sponsorizzazione, sia con la necessità di tutela dei fruitori e dei minori,
che con l’esigenza di garantire l’integrità dei programmi. La suddetta intesa
è interpretabile come un tentativo di armonizzazione della disciplina esistente
in materia che, fino alla metà degli anni ’90, risultava ancora disomogenea
e soggetta a restrizioni diverse.
Gli Stati ad essa aderenti possono anche, per renderle più rigide, modificarne
le disposizioni, a condizione che le applichino solo alle emittenti soggette
alla loro giurisdizione. La Convenzione contiene, anche un gruppo di
norme che disciplinano il contenuto dei messaggi pubblicitari e che vietano gli
annunci subliminali e clandestini. Si ha pubblicità quando l’inserzionista, dietro
corrispettivo o altro analogo, effettua annunci diretti a: stimolare la vendita,
l’acquisto, e il noleggio di prodotti o di servizi; promuovere una causa o
un’idea; o produrre ogni altro effetto desiderato (art. 2, lett. f). I principi a cui
essa deve uniformarsi, e indicati all’articolo 11 dell’accordo sono: ogni pubblicità
deve essere leale ed onesta; non deve essere né menzognera, né pregiudicare
gli interessi dei consumatori; quella destinata ai fanciulli, o che faccia
appello ad essi, deve evitare di recare pregiudizio agli interessi di questi ultimi,
e tenere conto della loro particolare sensibilità; l’inserzionista non deve
esercitare alcuna influenza sul contenuto delle diffusioni.
Alcune norme della Convenzione afferiscono in maniera specifica alle
forme assunte dalla pubblicità, esigendo che il messaggio sia chiaramente
24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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identificabile e la pubblicità distintamente separata dagli altri elementi. Si
deve sottolineare, a tal proposito, che non tutti gli Stati membri hanno dovuto
emanare apposite disposizioni legislative per recepire la Convenzione, in
quanto essendo le sue disposizioni molto vicine a quelle già in vigore al loro
interno, spesso si sono limitati ad alcuni “aggiustamenti”. Diverso è il caso
dell’Italia, dove la mancanza di una legislazione idonea ha richiesto al legislatore
una nuova legge organica.
Le modalità di trasmissione dei messaggi pubblicitari, regolate agli artt.
12 e 14, si prefiggono di preservare l’integrità ed il valore artistico dei programmi
e di evitare che gli spettatori siano vittime di un vero e proprio “bombardamento”
di annunci. L’art. 15 della Convenzione vieta la pubblicità dei
prodotti a base di tabacco e dei medicinali, per cui sia indispensabile la prescrizione
medica. La stessa disposizione detta regole stringenti anche per i
messaggi aventi ad oggetto le bevande alcoliche. Questi, oltre a non poter
essere rivolti ai minori, non devono: incentivarne il consumo; presentare in
chiave negativa l’astinenza o la sobrietà; sottolineare o insistere sul loro elevato
grado alcolico; collegare l’uso di tali bevande al compimento di prodezze
fisiche; porre in collegamento il loro consumo con la guida dell’auto; attribuire
loro proprietà terapeutiche, stimolanti, sedative, oppure la capacità di
risolvere problemi personali. Per tutti gli altri beni, invece, si esige che la
pubblicità sia “chiaramente individuabile, leale, veritiera, controllabile e
priva di effetti negativi per l’individuo”.
10. Le linee guida dell’OCSE
Nel 2003, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico (OCSE) ha emanato le proprie linee guida per la tutela dei consumatori
contro le pratiche transfrontaliere fraudolente ed ingannevoli. Nella
premessa al testo si dice che tali pratiche causano un notevole pregiudizio ai
consumatori, compromettendo l’integrità dei mercati, sia nazionali che mondiali
e diminuendone la fiducia da parte dei consumatori.
Il comportamento fraudolento ed ingannevole interessa anche le tecnologie
e le telecomunicazioni, il cui sviluppo (pur arrecando vantaggi in termini
di prezzi, possibilità di scelta e globalizzazione dei mercati), permette alle
imprese ed ai singoli, avvezzi all’uso di pratiche, di sottrarsi più agevolmente
al controllo delle autorità preposte al rispetto della legge. Le linee guida
dell’Ocse sono rivolte agli organi pubblici nazionali, dotati di poteri di controllo
in materia di tutela dei consumatori. L’Ocse considera fraudolenta ed
ingannevole “qualunque pratica tesa a fornire informazioni inesatte, in particolare,
le informazioni suscettibili di indurre in errore, che danneggi in modo
sensibile gli interessi economici dei consumatori ingannati”.
Le linee guida sollecitano i Paesi membri a creare e mantenere un efficace
assetto di leggi, organismi di controllo, istituzioni, pratiche e iniziative
comuni, capaci di frenare i comportamenti che sono posti in essere a discapito
dei consumatori. Atale scopo, gli Stati dovrebbero prevedere: misure volte
a dissuadere le imprese ed i singoli dal compimento di pratiche commerciali
fraudolente ed ingannevoli; meccanismi per ricercare, preservare, raccoglie-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25
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re e scambiare informazioni e le prove riguardanti tali pratiche; meccanismi
idonei a farle cessare; meccanismi che garantiscano un risarcimento di danni
ai consumatori che siano stati vittime di pratiche commerciali fraudolente ed
ingannevoli.
11. L’evoluzione normativa in Europa e la Direttiva 84/450/CEE
Nel programma preliminare del Trattato CEE non vi è un riferimento
esplicito alla pubblicità, quale elemento di regolazione giuridica comunitaria,
ma solo alla necessità di una politica di protezione ed informazione del consumatore.
L’art. 153 di tale Trattato, si preoccupa di proteggere il consumatore,
in quanto soggetto debole, di fronte all’annuncio pubblicitario, tutelandolo
da possibili inganni di cui potrebbe essere vittima. Lo stesso intento
caratterizza le due Direttive inerenti il campo della pubblicità: la Direttiva
84/450/CEE, avente ad oggetto l’armonizzazione delle disposizioni legislative
regolamentari ed amministrative degli Stati membri afferenti la pubblicità
ingannevole; la Direttiva 89/552/CEE, concernente l’esercizio di attività
radiotelevisive e contenente disposizioni sul fenomeno del messaggio pubblicitario
mediante i mass media. La loro analisi rivela che a livello comunitario
ci si è preoccupati di assicurare protezione al consumatore, e che la pubblicità
è ritenuta un messaggio persuasivo, ossia uno strumento di comunicazione,
diretta ai potenziali clienti, con lo scopo di favorire la libera contrattazione
di prodotti e servizi.
Il 17 giugno 2003 è presentata una proposta di Direttiva sulle procedure
commerciali sleali nel mercato interno, con l’obiettivo di armonizzare le
diverse regole esistenti nei vari Stati membri. La suddetta proposta contiene
un divieto unico, comune e generale delle procedure commerciali sleali, che
alterino il comportamento economico dei consumatori, oltre che ad una serie
di regole utili al divieto e all’accertamento della mancata lealtà di tali pratiche.
Nella proposta inoltre è stata posta in risalto la differenza tra due tipi di
procedure sleali: quelle ingannevoli e quelle aggressive.
Già nel 1978 la Commissione Europea aveva presentato, in materia di
pubblicità ingannevole e sleale, una proposta di Direttiva volta all’armonizzazione
della legislazione esistente. Acirca 6 anni di distanza, il Consiglio ha
convertito la suddetta proposta in una vera e propria Direttiva (Dir.
84/450/CEE) spinto dalla consapevolezza che sia interesse del pubblico in
generale, e di tutte le persone che esercitano un’attività commerciale, industriale,
artigianale o professionale, che le disposizioni nazionali relative alla
pubblicità ingannevole vengano armonizzate, e che venga emanata una normativa
che disciplini la pubblicità comparativa. Alla base di tale Direttiva,
composta da 9 articoli, vi è l’interesse di evitare che la pubblicità ingannevole
possa portare ad una distorsione della concorrenza, all’interno del mercato
comune, e la consapevolezza che la pubblicità ingannevole influisce sulla
situazione economica dei consumatori, inducendoli a prendere decisioni pregiudizievoli.
Ribadisce, la necessità di permettere la realizzazione di campagne
pubblicitarie oltre i confini nazionali, in modo da non incidere sulla libera
circolazione di merci e servizi.
26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Lo scopo essenziale è quello di tutelare gli interessi del consumatore,
delle persone che esercitano un’attività e della collettività, dalla pubblicità
ingannevole e dalle sue conseguenze sleali. Per pubblicità ingannevole, l’art.
2 intende: “qualsiasi forma di pubblicità che possa indurre in errore le persone
o pregiudicare il comportamento economico di detti soggetti, oppure
ledere un concorrente”. Tale definizione cerca di eliminare alcune delle lacune
normative esistenti e di rendere il consumatore in grado di verificare, nel
bene o servizio oggetto della pubblicità, le qualità elogiate. L’art. 3, indica gli
elementi che possono provocare una lesione soggettiva od oggettiva del consumatore,
ovvero: le caratteristiche di beni o servizi (disponibilità, natura,
esecuzione, composizione, usi, quantità, origine geografica o commerciale,
ecc); il prezzo o il modo in cui questo viene calcolato; la natura, le qualifiche
e i diritti dell’operatore pubblicitario (identità, patrimonio, capacità, diritti di
proprietà industriale, commerciale o intellettuale, premi o riconoscimenti).
Nei rimanenti articoli, infine, è prevista la possibilità per gli Stati membri
di realizzare misure adeguate ed efficaci contro i messaggi ingannevoli, adottando,
nell’interesse dei consumatori che dei concorrenti, disposizioni che
promuovano una migliore e maggiore tutela giudiziaria. Allo stesso scopo è
stata prevista la possibilità di adottare, da parte delle autorità giudiziarie
nazionali, provvedimenti di urgenza o di istituire o mantenere organismi autonomi
che esercitino un controllo volontario sui messaggi pubblicitari.
La normativa ha posto le basi per assicurare, in un’ottica di fair trading,
sia il consumatore nelle sue scelte sia gli imprenditori concorrenti nel corretto
svolgimento degli affari. In Italia, tale obiettivo è stato in parte realizzato
con l’istituzione dell’Autorità Garante, in Inghilterra, invece, con la revisione
della legge sui monopoli.
Nulla fin qui è previsto in tema di pubblicità comparativa, ma non per
una totale rimozione del problema, piuttosto per la scelta della strada che
avrebbe convinto, anche i più scettici, sulla necessità di liberalizzare in tutti
i paesi dell’unione, le pratiche pubblicitarie comparative. Si decise di affrontare
il problema con una apposita Direttiva, presentata nella sua prima versione
il 28 maggio del 1991 e successivamente modificata fino ad arrivare
alla sua ultima versione del 1997.
Il 6 ottobre del 1997, infatti, il Parlamento europeo ed il Consiglio
dell’Unione Europea modificano la precedente legislazione comunitaria, in
materia di pubblicità ingannevole, inserendo, con la Direttiva n. 97/55/CE
(23), le norme in materia di pubblicità comparativa e rinominandola “Direttiva
sulla pubblicità ingannevole e sulla pubblicità comparativa”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27
(23) RIJKENS R., European Regulation of Advertising: supranational Regulation of
Advertising in the European Economic Community, Dordrecht, 1999, p. 5.; RICHARDS J.I.,
Deceptive Advertising: behavioral Study of a Legal Concept, paper, Oxford, 2001, p. 4.;
MASTROIANNI R., Il diritto comunitario e le trasmissioni televisive, in Diritto commerciale
degli scambi internazionali, 1990, pp. 190 ss.; SAVORANI G., Il fenomeno sponsorizzazione
nella dottrina, nella giurisprudenza e nella contrattualistica, in Il diritto dell’informazione
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Con tale direttiva ci si è prefissi di armonizzare la disciplina di tale tipologia
di annuncio pubblicitario e di considerarlo come una forma a sé stante.
Per quanto riguarda i controlli, la direttiva ha riconosciuto agli Stati membri
la possibilità di prevedere meccanismi tali da permettere al titolare di un interesse
legittimo o di un diritto, l’esercizio di un’azione giudiziaria o amministrativa
nei confronti della pubblicità ingannevole e, nelle ipotesi più gravi,
di chiedere la sospensione o il divieto di diffusione del messaggio (24).
Alle autorità degli Stati membri, invece, la direttiva ravvisa la possibilità
di attuare un controllo volontario sulla pubblicità, avvalendosi di organismi
autonomi. Tale verifica può sostanziarsi in una tutela preventiva da parte
dei suddetti organi o nella facoltà per i terzi di avviare una procedura speciale,
innanzi agli istituti volontari. Un ruolo di rilievo è stato svolto dalla Corte
europea di giustizia, che, nel risolvere una controversia tra due case produttrici
di cosmetici, ha deferito al giudice nazionale il compito di pronunciarsi
sull’eventuale carattere ingannevole della denominazione utilizzata, facendo
riferimento all’aspettativa dei consumatori, ossia valutando se “un consumatore
medio (25), normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto”,
possa essere indotto in errore da detta qualificazione che attribuisce al
prodotto caratteristiche o effetti che in realtà non possiede.
La Corte di Giustizia non ha neppure escluso che, in caso di difficoltà del
giudice nel valutare il carattere ingannevole della denominazione, che questi
possa fare riferimento alle condizioni previste dal diritto nazionale, ad un
sondaggio di opinioni oppure ad una perizia che gli fornisca adeguati chiarimenti
ai fini della pronuncia.
12. La disciplina della pubblicità televisiva
Il legislatore comunitario, con la Direttiva 89/552, è intervenuto a regolamentare
la pubblicità televisiva, dettandone una serie di norme minime
28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
e dell’informatica, 1991, pp. 635 ss.; GATTI S., voce: Sponsorizzazione, in Enciclopedia del
diritto, 1990, pp. 510 ss.; MANSI F. P., Art. 153. Protezione dei consumatori, in TIZZANO A.,
Trattati dell’unione europea e della Comunità europea, Giuffrè, 2004, pp. 815 ss.;
FORMICHETTI A., Note in tema di concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e pubblicità
comparativa-denigratoria, in Giustizia civile, 2000, pp. 1190 ss.; MARCHETTI P., UBERTAZZI
L. C., Concorrenza sleale e pubblicità, Padova, 1998; MASCIOCCHI P., Concorrenza sleale e
pubblicità ingannevole: alla luce della vigente normativa antitrust nazionale e comunitaria,
Roma, Sandi Sapi, 2000; MELI V., La pubblicità comparativa fra vecchia e nuova disciplina,
in Giurisprudenza commerciale, 1999, pp. 278 ss.; AUTERI, La pubblicità comparativa
secondo la direttiva 97/55. Un primo commento, in Contratto ed impresa/Europa II, Padova,
1998, pp. 602 ss.
(24) Per il testo della direttiva vedi: PARISI N., Casi e materiali di diritto europeo dell’informazione
e della comunicazione, op. cit., pp. 395 ss.; Cfr. anche: BATRA R, MYERS J.
G, AAKER D.A., Advertising management, Upper Saddle River, NJ Prentice Hall, 1996.
(25) cfr. anche causa: C-220/98, Estee Lauder c. Lancaster, causa Gut Springenheide
Gmbh e Rudolf Tusky c. Oberkreisdirektor des Kreises Steinfurt e cause C-315-92, causa
Verband Sozialer Wettbewerb e V. c. Clinique Laboratoires snc.
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contenenti i principi base ed elementari. In base all’art. 10 di tale direttiva “La
pubblicità televisiva e la televendita devono essere chiaramente riconoscibili
come tali ed essere nettamente distinte dal resto della programmazione con
mezzi ottici e/o acustici; pubblicità e televendita non devono utilizzare tecniche
subliminali; la pubblicità e la televendita clandestine sono vietate”.
Secondo i principi espressi in questa disposizione, la pubblicità deve
essere chiaramente distinguibile dal programma, attraverso, ad esempio, il
riserbo di appositi spazi. L’intento è quello di proteggere il telespettatoreconsumatore
da episodi di concorrenza sleale che pregiudicano la funzione
educativa ed informativa della televisione, e che vengono attuati e perpetrati
attraverso la pubblicità.
La Direttiva contiene anche il divieto di realizzare pubblicità con tecniche
subliminali e distingue quest’ultima dalla pubblicità occulta. La prima è
quella che opera sul subcosciente dei fruitori dei messaggi pubblicitari, non
è visibile dall’occhio umano, incide sulla libertà di scelta del telespettatore.
La seconda, invece, è quella che è inserita intenzionalmente nei programmi,
presenta il difetto di non essere identificabile come tale e di indurre il consumatore
in errore, in merito alla reale natura della presentazione, arrecandogli
un grave pregiudizio.
Per l’art. 13 “È vietata qualsiasi forma di pubblicità televisiva e di televendita
di sigarette e di altri prodotti a base di tabacco”. L’art. 15, invece,
disciplina la pubblicità dei prodotti alcolici, rispetto ai quali non è previsto
un divieto assoluto, ma solo una differenziazione in base al tipo di bevanda.
La Direttiva contiene, altresì, indicazioni in merito alle forme di pubblicità
cosiddette “indirette”, ossia quei messaggi pubblicitari che utilizzano i simboli
o i segni distintivi di un’impresa, la cui attività principale consista nella
produzione o vendita di tali prodotti (26).
13. Il criterio della trasparenza della pubblicità: la regolamentazione della
pubblicità comparativa come ipotesi di pubblicità ingannevole
Per pubblicità comparativa si intende “qualsiasi pubblicità che identifica
in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un
concorrente”. Per essere lecita, tale tipo di pubblicità deve soddisfare una
serie di condizioni, indicate nell’art. 3-bis della Direttiva 84/450/Cee. Più
precisamente è necessario che: non sia ingannevole ai sensi dell’articolo 2,
paragrafo 1 b-bis, e degli articoli 3 e 7, paragrafo 1 della presente direttiva o
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29
(26) BERTO D., La pubblicità televisiva tra disciplina internazionale e regole nazionali,
in Rivista di diritto europeo, 1999, pp. 46 ss.; BIOLAYT J. J., Libre circulation de la publicitè
tèlèvisèe en Europe, in Droit et pratique du commerce international, 1990, pp. 420 ss;
BODDEWYN J. H., Advertising self-regulation and outside participation. A multinational comparison,
Westport, 1992; BRIANTE G. V., SAVORANI G., Il fenomeno sponsorizzazione nella
dottrina, nella giurisprudenza e nella contrattualistica, in Rivista di diritto europeo, 1999,
pp. 46 ss.; BUCCIROSSI G., Le diverse forme di pubblicità redazionale, Giuffrè, 1995.
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degli articoli 6 e 7 della Direttiva 2005/29/CE dell’11 maggio 2005, relativa
alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno;
confronti beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o che si propongano
gli stessi obiettivi; confronti obiettivamente una o più caratteristiche
essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente
il prezzo di tali beni e servizi; non causi discredito o denigrazione di marchi,
denominazioni commerciali, beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente;
si riferisca in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione, nel
caso di prodotti recanti denominazione di origine; non tragga indebitamente
vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale
o ad altro segno distintivo di un concorrente; non rappresenti un bene o
servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un
marchio o da una denominazione commerciale depositati; non ingeneri confusione
tra i professionisti, tra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o
tra i marchi, le denominazioni commerciali, i beni o i servizi dell’operatore
pubblicitario e di un concorrente.
Quasi tutti i Paesi hanno recepito la Direttiva, così come modificata dalla
Direttiva 97/55/Cee relativa alla pubblicità comparativa, inserendo spesso
significative modifiche.
A tal proposito è utile ricordare che in Gran Bretagna la pubblicità comparativa
è regolata dal Codice di Autodisciplina (British Codes of
Advertising and Sale Promotion), il quale prevede come lecita la “comparazione
diretta”, consistente nel paragonare diversi tipi di beni dello stesso produttore,
raffrontare il prezzo con quello a cui il prodotto è stato venduto in
precedenza o a cui avrebbe dovuto essere venduto, effettuare un confronto
immediato attraverso l’identificazione del concorrente o del suo prodotto.
Il paragone tra i prezzi è consentito solo a condizione che non vi sia alcuna
esagerazione del beneficio che l’acquirente può ottenere dall’acquisto del
prodotto reclamizzato. La comparazione è ritenuta sleale qualora gli elementi
utilizzati sono manipolati, distorti o selezionati con criteri non corretti.
Sono vietate le comparazioni che si basano sulla denigrazione, ossia mostrano
gli oggetti del concorrente in una situazione di sfavore, o in una luce del
tutto negativa, ovvero quelle che si fondano o sulla menzogna o sullo sfruttamento
della notorietà altrui. È, invece, consentito a fini pubblicitari, l’uso
dei risultati scientifici dei collaudi comparativi.
In Portogallo, della pubblicità comparativa si occupa l’art. 16 della L.
330/1990 che ricalca la stessa nozione contenuta nell’art. 1 della Dir. 55/1997
e che, nell’indicare le condizioni di liceità di questa, si rifà a quanto disposto
dall’art. 3-bis della Dir. 84/450/ Cee. Nella stessa legge si stabilisce che, in
caso di raffronto avente ad oggetto un’offerta speciale, deve essere indicato,
in modo chiaro e non equivoco, il suo termine finale e, nel caso in cui l’offerta
non sia ancora iniziata, anche la data di inizio e tutte le altre condizioni.
L’onere probatorio della veridicità dei dati contenuti nel messaggio comparativo
è a carico dell’utente.
In Belgio è vietata qualunque pubblicità commerciale che utilizzi delle
comparazioni ingannevoli o diffamatorie; implichi la possibilità di identificare
uno o più commercianti anche se non concorrenti; possa creare confusio-
30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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ne sul mercato tra commercianti, oppure tra marchi, denominazioni commerciali,
prodotti o attività. La giurisprudenza belga consente la cosiddetta
“comparazione necessaria”, il cui scopo è quello di evidenziare il carattere
innovativo dei sistemi produttivi o dei servizi reclamizzati, rispetto agli altri
presenti sul mercato, a condizione che non sia né ingannevole, né diffamatoria.
Una particolare rilevanza è stata accordata, nei rapporti tra concorrenza e
pubblicità, all’impiego dei test comparativi, atti ad accertare la qualità e la
convenienza di prodotti e/o servizi aventi caratteristiche simili.
In Francia, per pubblicità comparativa si intende quella che “mette in
comparazione dei beni o dei servizi, utilizzando sia la citazione o la rappresentazione
del marchio di fabbricazione, di commercio o di servizio altrui,
sia la citazione o la rappresentazione della ragione sociale o della denominazione,
del nome commerciale o dell’insegna altrui”. Questo tipo di pubblicità
è consentita solo se leale, veritiera e tale da non indurre in errore il
consumatore. La legge esige l’obiettività della comparazione, che deve fondarsi
su elementi essenziali, significativi, pertinenti e verificabili, che caratterizzino
i beni ed i servizi. All’operatore pubblicitario, quindi, può essere
chiesto, in qualsiasi momento, di dimostrare la veridicità e l’esattezza delle
indicazioni contenute nel messaggio pubblicitario. La comparazione deve
limitarsi ai soli elementi materiali, mentre non deve coinvolgere né le opinioni
individuali, né quelle collettive. Tali valutazioni non sono uno strumento
utile ed efficace per evidenziare le caratteristiche essenziali ed obiettive
di un prodotto. Per quanto riguarda la comparazione dei prezzi, la legge
francese fissa anche alcune condizioni di legittimità, quali: l’oggetto esclusivo
della comparazione deve essere il prezzo; i prodotti comparati devono
essere identici, come anche le condizioni di acquisto; deve essere indicato il
periodo durante il quale i prezzi pubblicizzati rimangono validi.
L’inserzionista pubblicitario sopporta l’onere della comunicazione preventiva
a favore dei produttori dei beni che saranno oggetto di comparazione, in
modo che questi siano in grado di impedirne la diffusione, nel caso in cui il
messaggio risulti illecito.
In Germania della pubblicità comparativa si occupano i paragrafi 1 e 14
delle norme sulla concorrenza sleale (UWG). La pubblicità comparativa, benché
vietata, risulta ammessa dalla giurisprudenza a condizione che risulti motivata
da ragioni ben definite, e si mantenga nei limiti del “necessario”. Sono
anche consentiti i confronti a scopo difensivo, e quelli tra sistemi produttivi tecnicamente
differenti. Al di fuori di questi casi, tutte le ipotesi di comparazione
sono considerate atti di concorrenza sleale. La giurisprudenza, quindi, più che
ignorare il divieto della pubblicità comparativa ha introdotto dei criteri per temperarlo,
consentendo così, una maggiore elasticità nella valutazione delle singole
fattispecie e permettendo di adattare le esigenze della produzione e del
mercato, con quelle di informazione e tutela del consumatore.
Per la Spagna, infine, occorre riferirsi alla Ley de competencia desleal che
definisce sleale la comparazione tra attività, prestazioni o aziende, che è realizzata
basandosi su indici disomogenei, irrilevanti o non verificabili.
Diversamente dal passato, la pubblicità comparativa non è ritenuta illegale, ma
tutti concordano sulla necessità che esistano limiti e condizioni da rispettare.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31
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14. Il recepimento della Direttiva comunitaria e le diverse soluzioni nazionali
L’art. 4 della Dir. 84/450/CEE impone agli Stati membri, sia nell’interesse
dei concorrenti che in quello del pubblico, di verificare la sussistenza di
mezzi adeguati ed efficaci per combattere la pubblicità ingannevole. Ai
medesimi soggetti è affidata l’osservanza degli ordinamenti in materia di
pubblicità comparativa, ed il compito di approntare disposizioni giuridiche,
che conferiscano a persone o ad organizzazioni, aventi un legittimo interesse,
la possibilità di ottenere il divieto della pubblicità ingannevole o la regolamentazione
di quella comparativa. Ciò è realizzabile attraverso la promozione
di un’azione giudiziaria contro tale pubblicità e/o l’assoggettamento di
quest’ultima, nel caso di ingannevolezza, al giudizio dell’autorità amministrativa
competente.
Gli Stati membri devono anche conferire sia all’autorità giudiziaria, che a
quella amministrativa, il potere di sospendere la pubblicità ingannevole o di
avviare azioni giudiziarie per ottenere tale risultato, oppure qualora non abbia
ancora avuto luogo la sua divulgazione, di vietare tale pubblicità o di avviare
le azioni appropriate per proibirla, a prescindere dal possesso di prove in merito
alla perdita o al danno effettivamente subito, o all’intenzionalità o alla
negligenza dell’operatore pubblicitario. A tali autorità può essere rimesso il
potere di far pubblicare la decisione definitiva di sospensione della pubblicità
ingannevole o quello di fare divulgare una dichiarazione di rettifica.
Le autorità amministrative devono essere composte in modo da risultare
imparziali, e di godere di poteri tali da poter vigilare ed imporre, in modo
efficace, l’esecuzione delle decisioni e la motivazione di queste ultime. I
provvedimenti, di cui al 1° comma dell’art. 4, possono essere adottati nell’ambito
di procedimenti d’urgenza ed avere sia un effetto provvisorio, che
definitivo. Anche in questo caso, la scelta è rimessa agli Stati membri.
L’articolo 5 della direttiva, occupandosi del controllo volontario sulla
pubblicità ingannevole, esercitato da organismi autonomi, non ne escludeva
la praticabilità da parte dei soggetti interessati. In realtà, il considerando
numero 16, premesso alla medesima, si spingeva oltre, poiché incoraggiava i
legislatori nazionali a valorizzare i sistemi autodisciplinari, in quanto idonei
ad evitare azioni giudiziarie o ricorsi amministrativi.
In base all’art. 6, i Paesi possono attribuire alle autorità, in occasione di
un procedimento giurisdizionale civile o amministrativo, il potere di esigere,
da parte dell’operatore pubblicitario, le prove circa l’esattezza materiale dei
dati di fatto contenuti nella pubblicità, a condizione che ciò risultasse giustificato
dalle particolari circostanze del caso specifico. In caso di pubblicità
comparativa, gli Stati possono, anche, esigere che l’operatore pubblicitario
fornisca tali elementi entro un periodo di tempo circoscritto.
I dati possono essere considerati inesatti qualora le prove richieste non
siano state fornite, o lo siano state in maniera insufficiente. Nel recepire la
Direttiva 84/450/CEE, quasi tutti gli Stati membri hanno dato vita a dei sistemi
di risoluzione delle controversie basati sia su procedure giudiziarie e/o
amministrative, che su meccanismi di altro tipo. Tra queste procedure spiccano
quelle arbitrali, conciliative, di mediazione o simili. Alcuni Stati, come
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Germania, Spagna, Olanda, e Grecia, hanno affidato il controllo della pubblicità
ingannevole al giudice ordinario, altri ad autorità amministrative, altri
ancora ad entrambi, delineando in tal modo un sistema misto (è il caso
dell’Italia, del Belgio, della Danimarca e della Francia).
Agli organi amministrativi e giudiziari, sono stati conferiti sia i poteri di
indagine, che di attività istruttoria, mentre sono privi dei poteri di iniziativa in
via autonoma, potendo agire solo d’impulso e non d’ufficio. Risultano anche
privi di poteri ispettivi diretti, che permetterebbero loro un’acquisizione diretta
delle notizie e dei dati, senza richiederne l’intervento di organi esterni, e con
la conseguente riduzione dei tempi e la maggiore incisività dell’azione.
In molti Stati vi sono, inoltre, procedimenti di tipo abbreviato, come
quelli di ingiunzione, o quelli corrispondenti al procedimento monitorio italiano.
Ulteriori strumenti di tutela sono la pubblicazione della sentenza, la
diffusione di annunci rettificativi, le pubblicità correttive.
In quasi tutti i Paesi, l’onere della prova spetta all’operatore pubblicitario.
In alcuni di essi, oltre a questo soggetto ve sono altri chiamati a risponderne:
si tratta dell’agenzia pubblicitaria o del proprietario del mezzo di diffusione.
L’esperienza maturata dai singoli Stati ha dimostrato che il sistema
che offre le maggiori garanzie, e che si è dimostrato più efficace, è quello
cosiddetto “misto”, poiché gli organi giudiziari garantiscono la tutela dei
diritti soggettivi, e quelli amministrativi si occupano degli interessi legittimi.
I sistemi di controllo della pubblicità si basano su un giudizio di ingannevolezza,
ossia su un giudizio di tipo vero-falso, che l’autorità cui compete il
controllo esercita in relazione a tutte le affermazioni pubblicitarie, capaci di
influenzare le decisioni e le scelte del destinatario della comunicazione (27).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33
(27) Cfr. l’art. 6 che individua tre tipologie di pratiche commerciali ingannevoli. Il
comma 1 della citata disposizione individua le prime due ipotesi in forza delle quali è ingannevole
la pratica commerciale che: a) contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera
e b) pur presentando informazioni in sè veritiere, inganni o possa ingannare il consumatore
medio. L’art. 7 definisce poi le omissioni ingannevoli di cui il consumatore medio
necessita ai fini della scelta commerciale. La fattispecie ingannevole si configura nelle
seguenti ipotesi: omissione in senso stretto, ovvero mancata informazione di informazioni
rilevanti; occultamento, ambiguità, incomprensibilità o intempestività di informazioni rilevanti,
e qualora il mezzo di comunicazione impiegato per comunicare la pratica commerciale
imponga restrizioni in termini di spazio o di tempo, si configura omissione ingannevole
qualora il professionista non adotti tutte le ulteriori misure idonee a mettere le informazioni
a disposizione del consumatore e definisce una serie di ipotesi configuranti omissione ingannevole
nel caso di invito all’acquisto. In tale ipotesi, sarà da ritenersi ingannevole l’omissione
di informazioni in ordine alle caratteristiche principali del prodotto in misura adeguata al
mezzo di comunicazione o in ordine all’indirizzo geografico o all’identità del professionista.
Cfr. anche: BORRELLI F. S., Autodisciplina pubblicitaria e leggi nazionali, in Rivista di diritto
industriale, 1981, pp. 368 ss.; MAIONE N., Le pratiche commerciali sleali nella direttiva
2005/29/CE; G. ALPA e G. CAPILLI, Lezioni di diritto privato europeo, Cedam, 2007, pp. 1063
ss.; BECKER G. S., Information misleading and punishment: an economic approach, in The
journal of advertising economy, 1968; DE LA CUESTA RUTE J. M., Regime juridico e la publicidad,
Madrid, 1974; TATO PLAZA A., Aspectos generales del règimen juridico de las promociones
publicitarias, in Revista de autocontrol de la publicidad, Madrid, 2002, pp. 28 ss.;
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 33
15. (segue) La Danimarca
La legislazione danese, quella svedese e quella finlandese, prevedono la
figura dell’Ombudsman (o difensore civico). In base alla costituzione svedese
del 1809 si trattava di un’istituzione creata dallo Stato, preposta alla difesa
dei diritti fondamentali del cittadino ed alla supervisione delle attività
svolte dalla pubblica amministrazione.
A partire dagli anni ’50 questa figura ha iniziato a diffondersi, anche al
di fuori dell’area scandinava, assumendo competenze nuove, come la tutela
dei consumatori. Nei paesi sopracitati, si devono a tale organo alcune raccomandazioni
destinate a regolare la condotta da tenere nella commercializzazione
di prodotti e servizi, includendovi quelli venduti tramite internet, e prevedendo
l’obbligo di fornire informazioni veritiere sui beni e servizi offerti
dalle aziende. Nei confronti delle imprese inadempienti, l’Ombudsman può
indirizzare delle ingiunzioni.
In Danimarca, la pubblicità ingannevole è disciplinata dalla Legge sulle
Pratiche Commerciali del 1974, modificata dalla Legge del 19 marzo 1986,
e successivamente rivista dall’atto n. 688 del 17 ottobre del 1986, con cui la
Direttiva 84/450/Cee ha ricevuto attuazione. La normativa danese vieta la
diffusione di “indicazioni false, ingannevoli, o ingiustificatamente incomplete
tali da influenzare la domanda o l’offerta di merci, di beni immobili o
mobili, di prestazioni di lavori e di servizi”. É altresì vietata qualsiasi pratica
che, per la forma o per il nesso con circostanze particolari, risulti sleale nei
confronti degli altri operatori economici o dei consumatori.
L’ingannevolezza o meno di un messaggio pubblicitario è stabilita in
riferimento ad un consumatore-medio. Criteri più rigorosi sono adottati
quando il messaggio pubblicitario è destinato a consumatori deboli come, ad
esempio, i minori.
Il mezzo di divulgazione del messaggio ha la sua importanza ai fini della
valutazione dell’ingannevolezza. La giurisprudenza ha, infatti, giudicato
meno pericolosa la pubblicità contenuta all’interno di quotidiani, rispetto a
quella divulgata attraverso la televisione (28). L’onere della prova ricade sull’imprenditore,
che qualora rifiuti di fornire le prove o sia ritenuto colpevole
è assoggettato a sanzioni penali, di natura pecuniaria e detentiva.
34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
BERTI C., Pubblicità scorretta e diritti dei terzi, Giuffrè, 2000; CABANILLAS GALLAS
P.,Principios juridicos de la publicidad espaòola, Madrid, 1967; FONTANA G., La pubblicità
ingannevole e comparativa, in L’amministrazione italiana, 2000, pp. 924 ss.; FLORIDIA G.,
Per una corretta attuazione della direttiva CEE n. 84/450 sulla repressione della pubblicità
ingannevole, in Panorami, 1991, pp. 210 ss.; MELI V., La repressione della pubblicità ingannevole,
Torino, 1994; SORDELLI L., Autodisciplina pubblicitaria: rapporti fra autodisciplina
e legge statuale, in Rivista di diritto industriale, 1975, pp. 54 ss.; CAFARO R., La tutela dei
consumatori:disciplina comunitaria e normativa interna, Napoli, 2002.
(28) CAGGIANO G., La convenzione europea sulla televisione transfrontaliera, in La
Comunità internazionale, 1989, pp. 795 ss.; CAVALLI M., La Convenzione europea sulla televisione
transfrontaliera, in Nuove leggi civili commentate, 1992, pp. 1174 ss.; CAMPBELL P.,
YAQUB Z., The european handbook on advertising law, London, 1999; COLLOVÁ T, La regu-
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 34
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35
Il controllo sul rispetto di tali norme è affidato al Forbrugerombudsman,
organo amministrativo che funge da mediatore per i consumatori (art. 15.1). La
legittimazione ad agire è riconosciuta in capo a persone fisiche, organizzazioni,
ovvero a chiunque constati pratiche sleali e abbia l’interesse legittimo a richiedere
il risarcimento in caso di lesioni o il divieto della diffusione del messaggio.
Anche il mediatore può, di sua iniziativa, promuovere casi di non conformità.
Valutata la fondatezza del reclamo esposto, l’Ombudsman deve comunicare
al reclamante l’avvio di un’indagine in merito alla segnalazione effettuata.
Qualora il reclamo fosse presentato in ritardo, ossia passato un anno dal
verificarsi dell’attività sleale, tale organo dovrà informare il denunciante del
mancato avvio dell’atto tutelativo.
Il denunciante potrà in alternativa esercitare un’azione privata dinanzi ai
Tribunali. L’Ombudsman, in principio, tenta di risolvere la questione attraverso
un provvedimento di conciliazione in modo tale da prevenire o risolvere il
problema senza l’utilizzo di strumenti giudiziali. Se tale tentativo fallisce procede
con un’ingiunzione interlocutoria oppure direttamente in giudizio. Nel
primo caso, qualunque provvedimento restrittivo adottato deve essere confermato
dal Tribunale il primo giorno della settimana successiva, se ciò non avviene
decade e rimane privo di effetti. Allorché la decisione non intervenga prima
che siano decorsi 5 giorni dall’inizio del procedimento, il tribunale, prima della
scadenza di tale termine, farà in modo che l’ingiunzione continui a spiegare i
suoi effetti. Nel secondo caso invece, il giudice adotta le misure restrittive ritenute
necessarie e se il messaggio è reputato ingannevole emette un’ingiunzione
con cui ordina la cessazione della pratica commerciale scorretta. Insieme a
tali disposizioni, o successivamente, può emettere una disposizione per assicurare
il rispetto del divieto e il ritorno alla situazione esistente prima della violazione.
In aggiunta, qualora vi sia il pericolo evidente che l’attesa della sentenza
del Tribunale possa rendere vano l’effetto del divieto, è possibile da parte
del mediatore pubblicare un ordine provvisorio di proibizione (art. 21).
Con riferimento all’Autodisciplina, in tale paese, opera il Consiglio della
Pubblicità (Reclame Radet), la cui attività risulta limitata a pochi casi grazie
alla funzione di controllo svolta dall’Ombudsman.
Le disposizioni finlandesi che disciplinano la pubblicità sono molto più
severe rispetto a quelle della normativa comunitaria, vietando l’uso di procedure
di commercializzazione contrarie al requisito della buona fede, nonché la
diffusione di informazioni false o ingannevoli. Il soggetto incaricato a verificarne
il rispetto, come in Danimarca, è il mediatore dei consumatori (Kuluttajaasiamies),
il quale segnala i casi accertati o presunti d’illegalità al Tribunale per
la protezione dei consumatori (Markkinaoikeus), che poi ne emetterà il divieto.
Se il mediatore rifiuta di portare la causa in tribunale, di ciò può farsene
carico un’Associazione riconosciuta di lavoratori o di consumatori.
lation della sponsorizzazione televisiva nell’Europa comunitaria, in Diritto dell’autore,
1991, pp. 482 ss.; ZACCARIA R., Diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam,
2007, pp. 232 ss.
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Qualora le parti non raggiungano un accordo, il compratore, per risolvere
il contenzioso, può prendere contatto con il consulente locale che rappresenta
la categoria (kunnallinen kuluttajaneuvoja). La questione può anche
essere portata dinanzi al Tribunale o alla commissione competente per le
denunce dei consumatori.
16. L’azione sanzionatoria della pubblicità ingannevole in Germania
La Germania aveva accordato una tutela indiretta del consumatore, attraverso
le norme in tema di concorrenza sleale (UWG – Gesetz Gegen den
Unlauteren Wettbewerb del 7 giugno 1909, par. 3 e 4), collocandosi, così, tra i
primi Paesi aventi una disciplina in materia di pubblicità ingannevole. Secondo
la dottrina tedesca non è necessario che il messaggio pubblicitario contenga
dati falsi o inesatti per essere qualificato come ingannevole, bensì è sufficiente
che possa indurre o che abbia indotto in errore i consumatori. Ai fini della valutazione
dell’ingannevolezza si deve tener conto del target del pubblico a cui
l’annuncio viene rivolto, e di ciò che esso possa aver trasmesso loro.
Dal 1965 le azioni contro i messaggi pubblicitari ingannevoli non sono
più riservate agli imprenditori concorrenti, in quanto la legittimazione è stata
estesa alle Associazioni dei consumatori (Legge del 21 luglio 1965). Queste
ultime possono rivolgersi ai tribunali ordinari, purché risultino soddisfatte
determinate condizioni come: possedere la capacità giuridica per poter esperire
un’azione legale e prevedere nello statuto, tra le finalità, la tutela degli
interessi dei consumatori. Tra le Associazioni più attive c’è la Verbraucherschuteuerein
(VSV), costituita nel 1996, con il compito di garantire il rispetto
delle norme contro la concorrenza sleale, e di occuparsi dei reclami in
materia di condizioni contrattuali inique. Non è stato, invece, modificato
l’onere della prova, che rimane a carico dell’attore, nel caso in cui, però, questi
incontri delle difficoltà, spetterà alla parte convenuta, che sarà chiamata a
dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni.
È anche prevista la possibilità di fare ricorso al procedimento d’urgenza e
ad una procedura di merito rimessa all’Autorità giudiziaria ordinaria. Questi
ultimi, tra loro indipendenti, possono essere azionati contemporaneamente,
anche se solitamente è preferibile per primo avviare la procedura d’urgenza.
Il loro scopo è quello di ottenere l’ordine di cessazione della pubblicità, il
risarcimento dei danni ed il ripristino dello status quo ante. Sono meccanismi
che si attivano a seguito di una diffida, ossia di quel provvedimento con cui si
intima all’imprenditore di interrompere la pratica commerciale scorretta e con
cui lo si invita a risolvere la questione stragiudizialmente. Se l’impresa accetta,
la controversia viene chiusa con la sottoscrizione di un accordo di natura
contrattuale con cui l’imprenditore si impegna a porre fine alla pubblicità
ingannevole ed a pagare, nel caso di insolvenza, una penale. Qualora la proposta
non venga accolta, è possibile ottenere un provvedimento d’urgenza.
Sono poi previste sanzioni penali contro chi, con l’intenzione di far sembrare
un’offerta particolarmente conveniente, fornisca informazioni non
vere, e idonee a provocare inganno, in comunicazioni diffuse al pubblico o
destinate ad una cerchia più ampia di persone. La penalità prevista per que-
36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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sto tipo di illecito è la reclusione, fino a due anni, oppure il pagamento di un
indennizzo (art. 16).
Il sistema di Autodisciplina della pubblicità risale al 1972, anno in cui fu
istituito il Consiglio tedesco della pubblicità (Deutscher Werberat). Il ricorso
a tale organo può essere effettuato, per iscritto o per via telefonica, da chiunque
ne abbia interesse. L’identità del ricorrente può essere mantenuta segreta
a patto che non si tratti di associazioni, enti, o pubbliche autorità. Ove il
ricorso appaia fondato e il messaggio ingannevole, il Consiglio inviterà
l’operatore a cessarne la diffusione, in caso contrario, procederà all’archiviazione
del reclamo immotivato.
17. La disciplina spagnola della pubblicità ingannevole
In Spagna, la Direttiva 84/450/CEE ha ricevuto attuazione con la Ley
General de Publicidad dell’11 novembre 1988, il cui art. 2 definisce la pubblicità
come “qualunque forma di comunicazione realizzata da una persona
fisica o giuridica, pubblica o privata, nell’esercizio di un’attività commerciale,
industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere in modo
diretto o indiretto, l’acquisto di mobili o immobili, servizi, diritti e obbligazioni”,
mentre considera illecita quella che offenda la dignità umana, i valori
ed i diritti riconosciuti dalla Costituzione.
L’art. 4 considera ingannevole la pubblicità che “in qualsiasi modo,
inclusa la sua presentazione, induce o può indurre in errore i suoi destinatari,
potendone influenzare il comportamento economico o pregiudicare o
ledere un concorrente”, oppure, quella che “tacendo informazioni essenziali
sui beni, sulle attività o sui sevizi promossi induca, o possa indurre in errore
i destinatari del messaggio pubblicitario”. Affinché si realizzi l’ingannevolezza
non è necessario che il danno si produca realmente, piuttosto è sufficiente
la mera induzione in errore. Per valutarne l’esistenza o meno, l’art. 5
della Ley General de Publicidad suggerisce di tenere presenti tutti gli elementi
del messaggio pubblicitario e in modo particolare le indicazioni relative
a: caratteristiche di prodotti, attività, o servizi (come origine o provenienza
geografica o commerciale, qualità, quantità, natura).
A determinare il carattere ingannevole dell’informazione si aggiungono
l’utilizzo di espressioni: ambigue, sconosciute, con una pluralità di significati o
sincere, a tal punto da condurre a conclusioni che non corrispondano alla realtà.
La Ley Generale de Publicidad contiene anche disposizioni in materia di
pubblicità sleale. Un messaggio è considerato tale quando: il suo contenuto,
la sua forma di presentazione o la sua diffusione causino, direttamente o indirettamente,
discredito o denigrazione ad una persona fisica o giuridica, ai
suoi prodotti, servizi, attività, circostanze, marche, o ad altri segni distintivi
(art. 6 a); crei confusione con le attività, i prodotti o i segni distintivi di altre
imprese concorrenti; faccia uso, in maniera ingiustificata della denominazione,
della marca o del marchio di altre aziende o società; sia contrario alle
prassi oneste ed ai corretti usi commerciali (art. 6 b); non sia basato su caratteristiche
essenziali, simili e oggettivamente verificabili di prodotti o servizi
oppure raffronti i prodotti o servizi con altri diversi.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 37
È, altresì, espressamente vietata la pubblicità subliminale che, per la sua
stessa tecnica di produzione, agisce sul destinatario, senza che questi sia in grado
di percepirla, in quanto non accompagnata da adeguati effetti sonori o visivi.
L’ordinamento spagnolo conferisce la competenza, in materia di pubblicità
illecita, alla giurisdizione ordinaria. Questa è una delle innovazioni introdotte
da tale legge rispetto all’Estatuto de la Publicidad del 1964, nel quale
veniva contemplata la figura di un organo amministrativo: il “Jurado Central
de Publicidad”.
É tuttavia previsto un procedimento stragiudiziale, ossia conciliativo, al fine
di sollecitare la cessazione o la pubblicazione di annunci rettificativi al messaggio
reputato ingannevole. I soggetti legittimati ad agire sono: le Asso-ciazioni
dei consumatori; i titolari di un diritto o di un interesse legittimo; l’Istituto
Nazionale del Consumo; ecc. Per tale procedimento è previsto l’intervento di
due diversi organi: le giunte arbitrali, cui è affidata l’organizzazione amministrativa;
ed i collegi arbitrali, competenti nella risoluzione delle controversie.
La richiesta va presentata per iscritto e la cessazione può essere pretesa dall’inizio
fino alla fine della campagna pubblicitaria. In caso di mancata cessazione
dell’attività recettiva, il denunciante può adire agli organi giudiziari ordinari.
L’art. 29 disciplina il procedimento di fronte al giudice ordinario, prevedendo
il rigetto della domanda, ove questa sia infondata. Su istanza del richiedente,
il giudice può, considerati tutti gli interessi coinvolti, e con carattere cautelare:
ordinare la cessazione provvisoria della pubblicità illecita o adottare mezzi
necessari per ottenere tale cessazione (art. 30 a); oppure proibirla temporaneamente;
o adottare misure adeguate per impedirne la diffusione (art. 30 b).
Parallelamente al procedimento giudiziario di cessazione o rettifica della
pubblicità ingannevole, esiste un controllo amministrativo a carattere sanzionatorio
per beni, servizi o attività, che possano arrecare rischi alla salute e
alla sicurezza delle persone. Tra questi troviamo: materiali o prodotti sanitari,
stupefacenti, tabacco, bevande alcoliche, ecc. (art. 8). In caso di trasgressione
l’autore dell’illecito sarà punito in base alle norme previste dalla Ley
General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios e dalla Ley
General de Sanidad (art. 8.6). A differenza della normativa belga e lussemburghese,
quella spagnola presume come unico responsabile l’inserzionista,
e non l’agenzia, o chiunque abbia contribuito al verificarsi dell’illecito. Si
suppone, infatti, che essendo la persona interessata alla diffusione del messaggio,
ne controlli lo sviluppo della campagna pubblicitaria.
Con riferimento invece al sistema di Autodisciplina, malgrado la normativa
spagnola non preveda forme di collaborazione con organi privati di autoregolamentazione,
esistono tuttavia Associazioni volontarie di autocontrollo
che operano indipendentemente dall’Autorità Statale: ne è un esempio,
l’Associazione Spagnola delle Agenzie della Pubblicità (AEAP-Asociacion
Espanola de Agencias de Publicidad).
18. La disciplina repressiva in Olanda
In Olanda la materia della pubblicità ingannevole è disciplinata dagli artt.
194-196 del Codice Civile del 1992 e da diverse norme regolamentari di
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natura settoriale riguardanti etichettature, pesi, e quantità, che li vanno ad
integrare. Ai sensi della legislazione olandese la pubblicità è menzognera e
quindi illegale se “l’annuncio è fatto nell’esercizio di un’attività commerciale
o professionale, è pubblico, e può trarre in inganno sotto uno o più aspetti”.
Chi ha subito o può potenzialmente subire un danno da tale forma pubblicitaria
può promuovere un’azione dinanzi alla giurisdizione civile, al fine
di vietarne o rettificarne la pubblicazione. Le azioni legali possono essere
intentate anche da persone giuridiche, quali le Organizzazioni dei consumatori,
le Associazioni ambientali, ecc., il cui statuto preveda la tutela degli interessi
dei consumatori.
La legge presume l’inversione dell’onere della prova a favore dei soggetti
che intraprendano un’azione inibitoria o di rettifica, e contro chi determini
personalmente il contenuto o la presentazione dell’annuncio, ovvero contro
chi lo commissioni. Se il ricorrente afferma che la comunicazione è ingannevole,
spetta al convenuto giustificarne il carattere non ingannevole, a patto
che ciò non sia irragionevole. L’Autodisciplina pubblicitaria basandosi sulle
norme contenute nel Codice Olandese della pubblicità, il Nederlandse
Reclame Code, svolge un ruolo molto importante e spesso sostitutivo della
disciplina statuale. Nel caso di forme di pubblicità non contemplate dallo
stesso, gli organi competenti ad intervenire sono: la Commissione del Codice
della Pubblicità, in prima istanza; e il Collegio d’Appello, in seconda istanza.
Entrambi sono composti da quattro sezioni specializzate: la Camera del
Direct Marketing; la Camera per la pubblicità audiovisiva; le Camere I e II
destinate alle altre forme di propaganda.
Chiunque ritenga che una pubblicità sia contraria a quanto disposto dal
Codice può presentare reclamo scritto alla Commissione, il cui Presidente,
dopo un’analisi della documentazione, ne invia una copia all’operatore pubblicitario
responsabile. Se la pubblicità viene ritenuta ingannevole la Commissione
provvede con provvedimenti che diventano definitivi se entro 14, o
7 giorni nei casi più urgenti, non vengono impugnati davanti al Collegio
d’Appello. Le sanzioni comminate sono: ammende, risarcimento danni e
pubblicazione di annunci rettificativi. Solo il Tribunale civile è autorizzato a
sospendere o a rettificare la pubblicità ingannevole.
19. (segue) La Grecia
La Grecia ha disciplinato la pubblicità ingannevole con il Decreto Legge
n. 5206 del 1989 integrato da un regolamento emesso nel 1991 dal Consiglio
nazionale della radiotelevisione, anche se, in realtà già dal 1977 esisteva, in
questo Paese, una Legge sulla concorrenza sleale (n. 703/77) che sanzionava,
con la reclusione, tutti coloro che, con falsi messaggi pubblicitari, ingannavano
il pubblico o il consumatore medio. Tale decreto vieta, per pubblicizzare
un prodotto, l’uso di ricerche, risultati e test, nel caso in cui queste non
presentino un fondamento scientifico. Competente in materia di pratiche
commerciali scorrette risulta il Giudice Ordinario.
Anche in Grecia il sistema di Autodisciplina riveste un ruolo considerevole.
L’Associazione delle agenzie di pubblicità ha adottato una versione
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greca del Codice delle Pratiche Leali della pubblicità in vigore presso la
Camera di Commercio Internazionale. Nel caso in cui i messaggi pubblicitari
non siano conformi al codice ellenico, sono due gli organi preposti all’applicazione
delle norme in esso contenute: il Comitato di Controllo, competente
in prima istanza e quello Misto, di seconda istanza. Questa comunicazione
può essere notificata anche al Ministero degli Affari Economici ed al
Consiglio Economico Sociale.
Nell’ipotesi di ingannevolezza la procedura da seguire prevede la presentazione
del reclamo al Comitato di Controllo, indicandone i dati del reclamante,
e gli articoli che si considerano violati. Qualora la segnalazione, dopo
una valutazione preventiva, appaia fondata, il Comitato può intervenire o con
la procedura d’urgenza, per i casi particolari (come ad esempio quelli in cui
la pubblicità possa arrecare danno alla salute del consumatore), oppure, con
la procedura ordinaria. L’onere di provare l’esattezza del contenuto del messaggio
è a carico dell’operatore pubblicitario. Le deliberazioni sono decise in
Camera di Consiglio e sono immediatamente esecutive. Se l’operatore pubblicitario,
dopo 20 giorni dal ricevimento della decisione del Comitato di
Controllo, non rispetti quest’ultima, è possibile fare ricorso al Comitato
Misto le cui decisioni risultano conclusive.
20. L’attribuzione delle competenze ad autorità amministrative. Il Portogallo
In Portogallo, la Direttiva 84/450/Cee è stata recepita con il D.L. n. 330
del 1990 (Código da Publicidade). L’art. 3 di tale decreto definisce la pubblicità
come “qualsiasi forma di comunicazione che sia diffusa da una persona
fisica o giuridica nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale,
artigianale o professionale allo scopo, diretto o indiretto, di: a) promuovere
la vendita di beni o servizi; b) promuovere idee, principi, iniziative o istituzioni”,
mentre all’art. 7 è affidata la disciplina della pubblicità illecita, indicandone
i casi in cui essa è vietata.
É, altresì, proibita la pubblicità che faccia appello alla violenza, o ad altre
attività illegali o criminali, minacci la dignità umana, utilizzi espressioni
oscene, incoraggi comportamenti antigiuridici, ecc. Della pubblicità ingannevole
se ne occupa l’art. 11, impedendo qualsiasi messaggio che ”in qualsiasi
modo, inclusa la sua presentazione, induca o possa indurre in errore le persone
a cui è rivolta, a prescindere da un reale pregiudizio economico, o possa
ledere un concorrente”. Per valutare l’ingannevolezza del messaggio viene
suggerito di tener conto di una serie di elementi, quali: le caratteristiche di
beni e servizi (disponibilità, natura, composizione, data di produzione, quantità,
origine geografica o commerciale, ecc.); il prezzo e il modo di fissazione;
le condizioni d’acquisto; la natura, le caratteristiche e i diritti dell’operatore
pubblicitario (qualifica, diritti di proprietà industriale, commerciale o
intellettuale).
Il D.L. 330/1990 esige che la pubblicità sia veramente informativa, per
questo, le notizie attinenti gli elementi suddetti devono essere veritiere e
dimostrabili. L’Autorità competente in materia di pubblicità ingannevole è
l’Istituto dei Consumatori (Instituto do Consumidor), organismo che fa parte
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dell’amministrazione pubblica, la cui missione è promuovere e salvaguardare
i diritti del consumatore. Le azioni svolte da tale istituto sono: l’appoggio
dato ai singoli consumatori tramite supporto informativo; la ricezione e
l’inoltro dei reclami; lo sviluppo di centri di arbitraggio per i conflitti di interesse;
altre azioni di servizio pubblico.
Su richiesta dell’Istituto, l’operatore pubblicitario deve fornire la prova
circa la veridicità dei dati contenuti nel messaggio pubblicitario, nel caso in
cui tale testimonianza risulti insufficiente, i dati saranno considerati inesatti.
All’art. 34 del D.L. sono previste sanzioni pecuniarie il cui ammontare
varia a seconda della tipologia del trasgressore (persona fisica o giuridica). I
soggetti ritenuti responsabili sono: l’operatore pubblicitario; il proprietario
del mezzo di diffusione; l’agenzia pubblicitaria; e chiunque abbia contribuito
alla realizzazione e diffusione del messaggio ritenuto ingannevole. Ai casi
più gravi possono essere applicate sanzioni accessorie, come: l’interdizione
temporanea, per un massimo di 2 anni, dall’esercizio dell’attività pubblicitaria;
la privazione del sussidio diretto o del beneficio erogato per enti o servizi
pubblici; la chiusura temporanea delle imprese dove viene svolta l’attività
pubblicitaria. In alcune circostanze la Commissione può, su proposta degli
enti preposti al controllo della pubblicità, emettere dei provvedimenti cautelari.
Tra le sanzioni vi è anche la pubblicazione di tali provvedimenti, a spese
dell’operatore, e la diffusione di una pubblicità correttiva.
L’applicazione dei provvedimenti afflittivi spetta ad una Commissione
composta dai seguenti membri: a) Presidente dell’Istituto dei Consumatori;
b) Presidente dell’Istituto di Comunicazione Sociale; c) Presidente della
Commissione, ossia il magistrato nominato dal Consiglio Superiore della
Magistratura (Art. 39).
La Commissione può, anche, in assenza di prove in merito al danno o alla
perdita subita, ordinare la cessazione della pubblicità recettiva, oppure vietarne
la diffusione, qualora non sia stata ancora portata a conoscenza del pubblico.
Per quanto attiene invece l’Autodisciplina, nel 1991 si costituisce ufficialmente
l’Istituto Portoghese di Autodisciplina Pubblicitaria (ICAPInstituto
Civil da Autodisciplina da Publicidade), il cui compito è quello di
fornire pareri preventivi in merito alla correttezza del messaggio pubblicitario
e circa la rispondenza della pubblicità già diffusa alle disposizioni del
codice. L’organo giudicante è il Jurì (JEP-Júri de Ética Publicitária), e i suoi
provvedimenti hanno la natura di raccomandazioni. Ad esso possono presentare
reclamo diretto solo le persone giuridiche; i singoli cittadini, infatti,
devono agire tramite le Associazioni di categoria.
21. La pubblicità ingannevole in Francia
In Francia, nel secondo dopoguerra, la disciplina della pubblicità ingannevole
era ricompresa nell’ambito della normativa sulla concorrenza sleale,
e quindi, attuata in modo inadeguato facendo ricorso alle norme generali sull’illecito
civile e sulle frodi in commercio. Solo a partire dal 2 luglio del
1963, anno in cui venne emanata la Loi des Finances, gli illeciti in materia
pubblicitaria divennero di natura penale. Tale legge finanziaria vietava “qual-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41
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siasi pubblicità effettuata in malafede comportante false affermazioni o inducente
in errore, quando tali affermazioni siano precise e si riferiscano ad uno
o più dei seguenti elementi...”, (elementi di cui veniva riportata una dettagliata
elencazione: esistenza dei beni; natura; composizione; prezzo; qualità
essenziali; e numerosi altri dettagli).
Il 27 dicembre del 1973, in seguito alle pressioni delle Associazioni dei
consumatori, insoddisfatti della precedente legge, vi fu un nuovo intervento
legislativo in materia, tradotto nella Loi d’Orientation du Commerce et de
l’Artisanat (c.d. “Loi Royer”) tuttora in vigore. Essa vieta agli artt. 44, 45, e
46 “qualsiasi pubblicità effettuata comportante sotto qualsiasi forma affermazioni,
indicazioni o presentazioni false o tali da indurre in errore allorquando
si riferiscano ad uno o più dei seguenti elementi…”. Mentre nella legge del
1963 il legislatore penale richiedeva la malafede per il configurarsi dell’illecito,
nella nuova normativa la prova di tale requisito, in capo all’autore del
mendacio pubblicitario, è ritenuta, dalla giurisprudenza della Corte di
Cassazione, superflua.
La Loy Royer punisce le suddette rappresentazioni alla stregua delle affermazioni
false, e la pubblicità ingannevole per il solo fatto che possa, anche solo
potenzialmente, trarre in inganno il consumatore medio. Essa inoltre prevede
un certo numero di misure cautelari, finalizzate alla cessazione della pubblicità
ingannevole, da applicarsi prima di addivenire ad una decisione definitiva, e
deferisce la competenza in materia ai tribunali penali ordinari.
A livello processuale, la Loi d’Orientation du Commerce et de l’Artisanat
introduce il principio, gravante sull’inserzionista, dell’inversione dell’onere
della prova, circa la veridicità e non l’ingannevolezza del messaggio
pubblicitario. Essa ha anche riconosciuto la legittimazione attiva delle Associazioni
dei consumatori maggiormente rappresentative, a costituirsi parte
civile “relativamente ai fatti che portano un pregiudizio diretto o indiretto
all’interesse collettivo dei consumatori”.
Due leggi successive, quella n. 23 del 10 gennaio 1978 (Loi sur la protection
et l’information des consommateurs de produits et de services, cosiddetta
“Loi Scrivener”) e quella n. 60 del 18 gennaio 1992 (Loi renforçant la
protection des consommateurs) ne hanno, da un lato inasprito le sanzioni, e
dall’altro, previsto la liberalizzazione della pubblicità comparativa, fissandone
però limiti ben precisi. Da queste ultime norme ricordate, emerge la particolare
attenzione, riservata dal legislatore francese, alla tutela dell’interesse
del consumatore, che è garantito sia davanti ai tribunali ordinari che ai giudici
penali.
La Loi sur la protection et l’information des consommateurs viene codificata,
per la parte legislativa, nel Code de la Consommation dagli artt. 121-
1 fino al 121-7. In base al primo punto è vietata qualsiasi pubblicità “che
comporti, sotto qualsiasi forma, affermazioni, indicazioni o presentazioni
false o di natura tale da indurre in errore il consumatore, quando queste
riguardino uno o più dei seguenti elementi…”. Il suo campo di applicazione
interessa sia i beni mobili, gli immobili e i servizi, che i professionisti e i privati.
Gli organi competenti a rilevare le infrazioni di quanto disposto all’art.
121-1, attraverso la redazione di verbali, sono i funzionari di: Direzione
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Generale della Concorrenza, del Consumo e della Repressione della Frode –
Direzione Generale dell’Alimentazione del Ministero dell’Agricoltura –
Servizio di Metrologia del Ministero dell’Industria. Tali soggetti possono esigere
dall’operatore pubblicitario tutti gli elementi di prova della veridicità
delle informazioni.
La cessazione della pubblicità ritenuta ingannevole, può essere ordinata
dal Giudice Istruttore o dal Tribunale, sia su richiesta del Pubblico Ministero,
che d’ufficio. In caso di condanna, il Tribunale ordina la pubblicazione della
sentenza, può, inoltre, ordinare la diffusione, a spese del condannato, di uno
o più annunci rettificativi.
L’inserzionista per conto del quale la pubblicità è diffusa, è responsabile, a
titolo principale, dell’infrazione commessa, qualora, invece, egli sia una persona
giuridica o un ente morale, la responsabilità ricade sui dirigenti. (art. 121-5).
La pubblicità ingannevole è punita con una ammenda e con una pena
detentiva che va da un minimo di tre mesi ad un massimo di due anni. Nel
caso in cui fossimo lesi da tale tipo di pubblicità dovremo, innanzitutto, fare
in modo che la pubblicità venga modificata o interrotta, intervenendo presso
l’inserzionista, o la Direzione dipartimentale della concorrenza, del consumo
e della repressione della frode (art. 121-2), oppure dinanzi un’Associazione
di consumatori, in grado di far cessare tale pubblicità delittuosa.
L’importante pregiudizio arrecato dalla pubblicità di un prodotto o servizio
che nella realtà non ha le caratteristiche o qualità promesse fa si che il consumatore
possa inoltrare il reclamo presso il Procuratore della Repubblica, indirizzando
una lettera al Tribunale di prima istanza. Se invece il pregiudizio non
è né importante, né difficile da quantificare, il consumatore leso può presentare
reclamo, direttamente, all’inserzionista o al responsabile del supporto (giornale,
direttore del negozio, direttore di radio, …) ed all’ufficio di verifica della
pubblicità (Bureau de Verification de la Publicité). Nell’ordinamento francese
è previsto l’istituto particolare della “Mediation”, alternativo al processo ordinario
e consistente nella nomina di un soggetto terzo, avente lo scopo di condurre
le parti ad una soluzione di comune soddisfazione.
22. Il Belgio
In Belgio, la pubblicità ingannevole fu regolamentata per la prima volta
dall’art. 20 della Legge sulle Pratiche Commerciali del 14 luglio 1971, successivamente
modificata dalla legge del 4 agosto 1978, del 14 novembre 1983, del
26 luglio 1985 e del 14 luglio 1991 (Loi sur les Pratiques du Commerce et sur
l’Information et la Protection du consommateur). Quest’ultima riconosce la
pubblicità commerciale, ma non fornisce una definizione legale di pubblicità
ingannevole, che va indi interpretata secondo l’uso corrente.
Si vieta la pubblicità che diffonda indicazioni suscettibili di indurre in errore
il pubblico circa le caratteristiche di un prodotto o servizio (identità, natura,
composizione, origine, qualità), ovvero che contenga elementi denigratori nei
confronti di un altro venditore, dei suoi prodotti, dei servizi o della sua attività.
Per considerare un messaggio ingannevole è sufficiente che sussista la
mera possibilità di arrecare un pregiudizio economico utilizzando come per-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43
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sona di riferimento il consumatore medio normalmente informato. La competenza
in materia viene affidata al presidente del Tribunale Commerciale, e
i soggetti legittimati a promuovere azioni contro le pratiche commerciali
scorrette, e nei riguardi dell’autore della pubblicità decettiva, sono: il
Ministero degli Affari Economici, le Associazioni dei consumatori, le
Associazioni professionali dotate di personalità giuridica.
Qualora l’inserzionista non risieda in Belgio è consentito intentarla nei
riguardi dell’editore o di chiunque possa aver favorito la produzione di effetti
dannosi. La legge ha, anche, previsto per la risoluzione di controversie, uno
strumento di rapida applicazione, alternativo alla procedura di accertamento
ordinaria. Si tratta dell’action en cessation, il cui esercizio, qualora l’accertamento
fosse favorevole al reclamante, si conclude con la cessazione della
pubblicità accompagnata da un eventuale risarcimento.
Allorché, invece, si agisca secondo le procedure ordinarie, il Presidente
del Tribunale Commerciale deciderà con sentenza, a seguito di regolare processo
svolto in contraddittorio tra le parti, secondo i modelli della Camera di
Consiglio. Sono previste pene accessorie, come la pubblicazione della decisione
su quotidiani e, in caso di dolo, sanzioni penali di carattere pecuniario.
Con riferimento invece al sistema di Autodisciplina, in Belgio opera il
Consiglio della Pubblicità (Conseil de la Publicité), organismo privato, rappresentativo
di inserzionisti, agenzie di comunicazione, e media. L’obiettivo
è quello di promuovere la pubblicità quale fattore di espansione economica e
sociale, e di curare l’applicazione di un sistema di autodisciplina ispirato alle
regole del Codice Internazionale delle Pratiche Leali della Camera di
Commercio Internazionale.
Nel 1974 si dà vita al Jury d’Ethique Publicitaire (JEP), organo di disciplina
con il compito di esaminare, nel rispetto delle regole suddette, la conformità
dei messaggi pubblicitari diffusi dagli stessi media. La sua missione
è duplice: da un lato, giudica i reclami che gli sono stati sottoposti dal pubblico,
e in particolare dai consumatori; dall’altro esamina, in via preventiva,
i progetti di pubblicità che gli vengono presentati liberamente dagli inserzionisti
qualora abbiano dubbi circa la conformità del loro messaggio.
I provvedimenti di questo organo hanno il valore di raccomandazioni,
destinate agli operatori del settore, e lo scopo di impedire o far cessare i messaggi
non conformi alle regole. In caso di inottemperanza, l’organo di autodisciplina
può comunicare la propria decisione ai distributori pubblicitari, i
quali devono, a loro volta, decidere se proseguire o far cessare la diffusione
dell’annuncio ritenuto ingannevole. L’intervento del Jurì non pregiudica
quello degli organi di giustizia ordinaria, e non offre una tutela piena e diretta
del consumatore, nei confronti del quale, è prevista solo la comunicazione
della decisione finale del reclamo o del comportamento tenuto dall’operatore
pubblicitario in seguito alla raccomandazione.
Concludendo ai sensi della legge del 27 novembre del 1986, che regolamenta
le pratiche commerciali e sanziona la concorrenza, è vietata qualsiasi forma
di pubblicità commerciale che incoraggi atti di concorrenza sleale, ossia contrari
agli usi onesti in materia commerciale e industriale, agli accordi contrattuali,
e che tolgano o cerchino di togliere ai concorrenti o ad uno di essi, parte della
44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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loro clientela, creando distorsioni all’interno del mercato. La situazione lussemburghese
è molto simile a quella belga in quanto a organi di tutela e meccanismi,
la differenza invece sta nella mancanza di un sistema di autodisciplina.
23. La disciplina austriaca in materia di pubblicità ingannevole
La legge austriaca sulla concorrenza sleale (UWG–Gesetz gegen den
unlauteren wettbewerb) prevede un’azione inibitoria contro i responsabili di
una pubblicità ingannevole al fine di ottenere la cessazione della stessa.
Qualora l’idoneità a trarre in inganno è nota o sarebbe dovuta essere conosciuta,
è possibile intentare un’azione per il risarcimento danni.
I soggetti legittimati ad agire nel caso di pubblicità ingannevoli o sleali,
sono: i concorrenti, l’Associazione per la protezione contro la concorrenza
sleale, la confederazione austriaca del sindacato, la camera di commercio
austriaca, ecc. Il consumatore può avviare la procedura solo attraverso tali
istituzioni. L’iter previsto dalla legge è nella maggior parte dei casi lungo e
costoso, tuttavia esiste, per gli aventi diritto, la possibilità di chiedere l’emanazione
di un provvedimento d’urgenza.
24. La normativa sulla pubblicità ingannevole nei nuovi Stati dell’Unione
europea
Passando alla relativa normativa di alcuni paesi membri della CE dopo l’allargamento
del 2004 possiamo riferire il caso della Repubblica Ceca, la pubblicità
ingannevole è proibita dalla sez. 2 dell’Act 40/1995 sulla comunicazione
pubblicitaria ed è enunciata come “ (…) any distribution of information about
own or another business, its products or operations, which is likely to cause a
false idea and thus to favour own or another business in the competition at the
expense of other competitors or consumers. The distribution of information is
deemed to be a verbal or written statement, a statement in print, a picture, a
photograph, a message broadcast by radio, television or other mass media. The
misleading information is also true information if it can mislead with regard to
circumstances and the context in which it was given (…)”.
Per valutare l’ingannevolezza, occorre verificare la corrispondenza del
messaggio con i criteri elencati nella sez. 7b dell’Act. 407/1995, inerenti le
caratteristiche di beni e servizi (quali: disponibilità, design, prezzo, modalità
di vendita, e caratteristiche del soggetto autore della pubblicità).
É necessario, inoltre, accertare le informazioni fornite dall’annuncio. La
disciplina della Repubblica Ceca, prevede che il soggetto pubblicizzante sia
tenuto a: “ (…) to provide evidence about particular information contained
in the advertising to the supervising body at its request. Unless the advertiser
provides the supervising body with the required information or unless this
information is provided in a necessary extent, the supervising body can consider
the statement in the advertising to be wrong, i.e. the supervising body
can deem a specific advertising to be misleading (…)”.
L’Estonia, invece, proibisce la pubblicità ingannevole, con L’Advertising
Act del 1997, in cui è considerata falsa qualsiasi: “ (…) advertising which in
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any way, including its presentation, deceives or is likely to deceive the public,
or which, for those reasons, injures or may injure a competitor (…)”. Anche
in questo caso, sono stati individuati una serie di criteri e particolarità alla
luce dei quali è possibile determinare se si tratti o meno di messaggio recettivo.
Le caratteristiche da tenere in considerazione sono: la composizione, il
metodo e la data di fabbricazione, la modalità di utilizzo, il luogo di produzione,
il paese d’origine o altre caratteristiche; il valore e l’attuale prezzo del
prodotto o servizio; i termini di pagamento (quali leasing, vendita a credito,
ecc.) per i prodotti o servizi, la consegna, lo scambio, e la manutenzione dei
prodotti; i termini di garanzia dei prodotti o servizi; il produttore del bene o
il fornitore del servizio, l’area di attività e i diritti di proprietà intellettuale.
La normativa estone proibisce l’impiego di ricerche scientifiche o tecniche,
e l’uso di dati statistici, che possano indurre in errore i consumatori circa
la natura o le performance del prodotto. La normativa polacca e quella slovena,
infine, presentano diverse analogie con quella estone, sia sotto il profilo
nozionistico, sia nell’individuazione dei criteri in base ai quali viene valutata
l’ingannevolezza della comunicazione pubblicitaria.
25. Conclusioni
La normativa comunitaria afferente la pubblicità ingannevole considera
tale quella contenente messaggi pubblicitari falsi, mendaci, erronei o illusori,
oppure difficilmente riconoscibile come annuncio promozionale. La pubblicità
ingannevole è considerata uno strumento concorrenziale scorretto, in
quanto capace di provocare negli individui una falsa rappresentazione della
realtà e di indurli a tenere comportamenti economicamente vantaggiosi per le
imprese. Per tale ragione, il legislatore comunitario ha avvertito l’esigenza e
l’urgenza di uno specifico intervento normativo in materia, soddisfatto con la
Dir. 84/450/CEE. Nel 1978, per armonizzare la disciplina esistente in materia,
fu presentata una proposta di direttiva, convertita nell’attuale norma solo
diversi anni dopo.
Lo scopo, di quest’ultima, è quello di “tutelare i professionisti dalla pubblicità
ingannevole e dalle sue conseguenze sleali (e di stabilire le condizioni
di liceità della pubblicità comparativa)”. Ai sensi dell’art. 2 della stessa,
per pubblicità ingannevole si intende “qualsiasi pubblicità che induca o
possa indurre in errore le persone a cui è rivolta o che essa possa raggiungere”
e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicarne il
comportamento economico o possa ledere un concorrente.
L’art. 3, invece, indica gli elementi che devono essere presi in considerazione
per determinarne l’ingannevolezza (caratteristiche di beni o servizi,
prezzo, natura, qualifiche e diritti dell’operatore pubblicitario). Gli Stati
membri hanno il compito di accertare che sussistano i mezzi adeguati per
contrastare tale tipologia di messaggio pubblicitario. Essi devono concretizzarsi
in disposizioni giuridiche che consentano, a tutti coloro che abbiano un
interesse legittimo ad ottenere il divieto della pubblicità ingannevole, di promuovere
un’azione giudiziaria contro quest’ultima e/o di sottoporre la stessa
al vaglio di un’autorità amministrativa.
46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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É riconosciuto, inoltre, alle autorità giudiziarie e amministrative il potere
di sospendere la pubblicità ingannevole, avviare la procedura necessaria per
ingiungere tale sospensione, vietare tale pubblicità, o dare avvio ad azioni giudiziarie
che consentano di conseguire tale risultato, qualora la pubblicità non
sia stata ancora portata a conoscenza del pubblico, ma ciò sia imminente.
É ravvisato a tali autorità il potere di adottare, con effetto provvisorio o
definitivo, i suddetti provvedimenti nell’ambito di un procedimento d’urgenza,
pubblicare la decisione definitiva con cui si è decretata la sospensione
della pubblicità ingannevole, divulgare una dichiarazione di rettifica. Se tali
competenze vengono esercitate esclusivamente dalle autorità amministrative,
queste hanno l’obbligo di motivare le decisioni intraprese. In caso di esercizio
improprio o ingiustificato dei poteri da parte delle autorità, o di omissioni
improprie o ingiustificate, per presentare un ricorso giurisdizionale devono
essere previste apposite procedure.
Le autorità amministrative e giudiziarie possono esigere durante i rispettivi
procedimenti, se ciò risulti necessario alle circostanze del caso concreto,
che l’operatore pubblicitario fornisca prova dell’esattezza materiale dei dati
contenuti nella pubblicità. La direttiva non si oppone al mantenimento o
all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo
di garantire una più ampia tutela dei professionisti e dei concorrenti.
Ricordiamo brevemente quanto è stato fatto dal nostro paese con il
D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 di attuazione della Dir. 84/450 e, da ultimo,
con il D.Lgs. 206/2005 (art. 19), con cui il legislatore nazionale ha ribadito
la propria volontà di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze
sleali, sia coloro che esercitino un’attività commerciale, industriale,
artigianale o professionale, che i consumatori e, più in generale, gli interessi
del pubblico, nella fruizione dei suddetti messaggi, esigendo che la pubblicità
sia palese, veritiera e corretta (29).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47
(29) CALFEE J. E., Fear of persuasion: a new perspective on advertising and regulation,
London, 2002; CAMPOBASSO C. F., Diritto dell’impresa, in Diritto commerciale, Torino,
2003, pp. 170 ss.; FUSI M., Panorama internazionale dell’autodisciplina pubblicitaria, in
Rivista di diritto industriale, 1975, pp. 62 ss.; CODELUPPI I., I consumatori. Storia, tendenze,
modelli, Giuffrè, 1992; MENDEZ R. M., VILALTA A. E., La publicidad ilicita: engaòosa,
desleal, subliminal y otros, Barcellona, 1999; GARCIA M. L., La publicidad y el derecho a
la informaciòn en el comercio electrònico, Madrid, 2004; MASSAGUER J., PALAU F., El règimen
juridico de las pràcticas comerciales en Espaòa con especial atenciòn a los aspectos
considerados en la comunicaciòn del Comisòn del Libro Verde sobre protecciòn e los consimidores
en la Uniòn Europea, Barcellona, 2002; SANTAELLA LÓPEZ M., El nuevo derecho de
la publicidad, Madrid, 1989; ALPA G., I diritti dei consumatori e il codice del consumo nell’esperienza
italiana, in Contratto e impresa/Europa, 2006, pp. 1 ss.; MICKLITZ H. W., An
expanded and systematized community customer law and alternative or complement?, in
European business law review, 2002, pp. 584 ss.; REICH N., Protection of consumers economic
interests by EC contract law. Some follows-up remarks, in Sydney law review, 2006, pp.
38 ss.; MELI V., I rimedi per la violazione del divieto di pubblicità ingannevole, in Rivista di
diritto industriale, 2000, pp. 5 ss.; PALMIERI A., Sulla tutela dei consumatori, nuove norme e
nuove problematiche, in Il Foro italiano, 1998, pp. 598 ss.; PERA A., Concorrenza e anti-
02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 47
48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Per pubblicità ingannevole, il nostro legislatore, ribadendo la definizione
prevista a livello comunitario, ha inteso qualunque “pubblicità che in qualunque
modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore
le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e
che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento
economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea ledere un
concorrente” (art. 20 D.Lgs. 206/2005). È considerata tale anche quella afferente
i prodotti capaci di mettere in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori,
e che omettendone tale indicazione, induca questi ultimi a trascurare
le normali regole di prudenza e vigilanza (art. 24), indirizzata a bambini
o adolescenti che possa, anche indirettamente, minacciarne la sicurezza, o
abusare della loro credulità, inesperienza e dei naturali sentimenti degli adulti
verso i più giovani (art. 25).
Anche gli elementi di valutazione, in base ai quali stabilire se una pubblicità
sia o meno ingannevole, sembrano essere gli stessi indicati dalla
Direttiva Cee, ovvero: le caratteristiche dei beni o dei servizi; il prezzo o il
modo in cui questo viene calcolato; le condizioni alle quali i beni o servizi
vengono forniti; le categorie, le qualifiche e i diritti dell’operatore pubblicitario
(art. 21 D.Lgs. 206/2005).
L’art. 23 del D.Lgs prescrive che la pubblicità sia “chiaramente riconoscibile
come tale” ed, infine, vieta qualunque forma di pubblicità subliminale.
La tutela è affidata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato,
a cui possono rivolgersi per chiedere che siano inibiti gli atti di pubblicità
ingannevole: i concorrenti, i consumatori, le associazioni ed organizzazioni,
il ministero delle attività produttive ed ogni altra pubblica amministrazione.
Tale autorità, può con provvedimento motivato, in casi di particolare urgenza,
e informando l’operatore pubblicitario, disporre la sospensione provvisoria
dell’annuncio, e qualora il committente sia sconosciuto, chiedere al proprietario
del mezzo che ha diffuso il messaggio pubblicitario, ogni informazione
necessaria per identificarlo.
Conformemente a quanto prescritto dalla direttiva, è possibile esigere
che l’operatore pubblicitario fornisca le prove circa l’esattezza dei dati contenuti
nella pubblicità e considerarli inesatti, qualora le prove non vengano
fornite o siano insufficienti.
Nel caso in cui, l’autorità reputi il messaggio ingannevole, accoglierà il
ricorso vietando la pubblicità non ancora portata a conoscenza del pubblico
trust, Bologna, 1998; ROSDEN G. E., ROSDEN P. E., The law of advertising, New York, 1996;
GHIDINI G., CIAMPI N.L, GAMBARDELLA R., Codice della pubblicità:leggi italiane e direttive,
Giuffrè, 2002; CALAIS AULOY J., La loi Royer et le consommateurs, in Foro italiano, 1974,
pp. 180 ss.; GREFFE F., GREFFE P., La publicitè et la loi, Paris, 1990 ; GREFFE F., La publicitè
mensongère en droit français, in Relazione al convegno: La pubblicità ingannevole: istituzioni,
imprese mezzi e consumatori a confronto, Milano, 18 giugno 1992; GHIDINI G.,
GAMBINO A. M., DE RASIS C., ERRICO P., FARUFFINI DI SEZZADIO F., LAZZARETTI A., La pubblicità
ingannevole. Commento sistematico alla normativa vigente, Giuffrè, 2003; SERENIA.,
La pubblicità ingannevole, in Azienditalia, 2001, pp. 24 ss.
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o la continuazione di quella già iniziata. Se la decisione è di accoglimento, ne
può essere disposta la pubblicazione o la dichiarazione di rettifica. In tale
situazione, l’autorità può comminare anche una sanzione amministrativa
pecuniaria che va dai 1.000 ai 100.000 € a seconda della gravità e della durata
della violazione. La suddetta penalità non può essere inferiore ai 25.000 €
per i messaggi indicati negli artt. 5 e 6.
In caso di inottemperanza ai provvedimenti d’urgenza, a quelli inibitori
o di rimozione degli effetti, è possibile ordinare l’applicazione di una disposizione
amministrativa e pecuniaria da 10.000 a 50.000 € ed in caso di reiterazione,
la sospensione dell’attività di impresa, per non oltre 30 giorni. Se,
invece, non si ottempera all’obbligo di fornire le informazioni richieste la
sanzione andrà dai 2.000 ai 20.000 €, e se le informazioni o documentazione
non siano veritiere dai 4.000 ai 40.000 € (30).
Nel caso in cui la pubblicità sia stata assentita con provvedimento dell’autorità
amministrativa, la tutela dei concorrenti, dei consumatori e delle
loro associazioni o organizzazioni viene garantita in via giurisdizionale con
ricorso al giudice amministrativo, e la competenza del giudice ordinario, permarrà
in relazione agli atti di concorrenza sleale. La tutela dei soggetti suddetti
è consentita, anche, attraverso l’intervento di organismi volontari e autonomi
di autodisciplina a cui richiedere l’inibizione della continuazione degli
atti di pubblicità ingannevole.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49
(30) GHIDINI G., GAMBINO A. M., DE RASIS C., ERRICO P., FARUFFINI DI SEZZADIO F.,
LAZZARETTI A., La pubblicità ingannevole. Commento sistematico alla normativa vigente,
Giuffrè, 2003; SERENI A., La pubblicità ingannevole, in Azienditalia, 2001, pp. 24 ss.
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Parità uomo/donna nelle Corti europee
Condanna dell’Italia per la differente età pensionabile
tra uomini e donne pubblici dipendenti
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, Quarta Sezione,
sentenza del 13 novembre 2008 nella causa C-46/07)
Con la sentenza del 13 novembre 2008, causa C-46/07, la Corte di giustizia
delle Comunità europee ha condannato la Repubblica italiana per aver mantenuto
in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno
diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano
uomini o donne, venendo meno agli obblighi di cui all’art. 141 del Trattato CE.
La procedura di infrazione nei confronti dell’Italia era stata iniziata per
porre rimedio alla disparità di trattamento derivante dalla predetta normativa
ai danni degli uomini.
Secondo la Commissione delle Comunità europee, l’effetto del combinato
disposto dell’art. 5 del decreto legislativo n. 503/1992 e dell’articolo 2,
comma 21 della legge n. 335 dell’8 agosto 1995 è quello di fissare un’età
pensionabile generale di 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile
e di 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile, costituendo così
una forma di trattamento meno favorevole per gli uomini, in violazione dell’art.
141 del trattato CE.
Nel corso della fase precontenziosa, le autorità italiane hanno avanzato
l’argomento secondo cui la diversa età prevista dalla normativa italiana per il
raggiungimento del diritto a pensione per gli uomini e per le donne, non comporta
l’obbligo per le donne di interrompere il rapporto lavorativo a 60 anni,
bensì la mera facoltà discrezionale per queste ultime di optare per la c.d.
“uscita anticipata” al raggiungimento della predetta età. Di ciò sarebbe prova
il fatto che le donne aventi diritto a tale opzione per aver raggiunto il sessantesimo
anno di età, nel 66% dei casi hanno liberamente deciso di proseguire
il proprio rapporto di lavoro.
La Commissione ha invece ritenuto che la previsione di tale facoltà solo
a favore delle donne costituisca una discriminazione ai sensi dell’art. 141 CE,
dal momento che la medesima facoltà non è concessa agli uomini.
Nelle proprie difese, anche orali, il Governo italiano ha giustificato il
trattamento più favorevole riservato alle donne, richiamando la giurisprudenza
della Corte costituzionale italiana, che, al contrario, si è più volte pronunciata
in ordine alla differente età pensionabile tra uomini e donne sotto il profilo
del trattamento meno favorevole derivante alle donne.
In particolare, con la sentenza del 27 aprile 1988, n. 498, la Corte costituzionale
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione del prin-
LE DECISIONI
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cipio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e del principio di parità
di diritti a parità di lavoro tra uomini e donne di cui all’art. 37 della
Costituzione, dell’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, recante parità di
trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro, nella parte in cui subordinava
il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per ottenere la pensione
di vecchiaia (all’epoca fissata per le donne a 50 anni), di continuare a
lavorare fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini (all’epoca fissati a
60 anni), all’esercizio di un diritto di opzione da comunicare al datore di lavoro
almeno tre mesi prima della data del perfezionamento del diritto alla pensione
di vecchiaia mentre analogo onere non era contemplato per gli uomini.
La Corte costituzionale ha infatti affermato che, fermo restando il principio
che l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, stante
l’esigenza di tutelare senza discriminazioni, il più a lungo possibile,
l’esplicazione della capacità lavorativa e quindi della personalità umana, il
diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia ad un’età anagrafica
inferiore, onde poter soddisfare esigenze peculiari nell’ambito familiare,
non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude
speciali profili, dettati dalla posizione della lavoratrice, che meritano una particolare
regolamentazione.
Successivamente, con la sentenza del 20 giugno 2002, n. 256, la Corte
costituzionale ha ribadito, in primo luogo, che i precetti costituzionali di cui
agli articoli 3 e 37 non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in
modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto
concerne il limite massimo di età ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo;
in secondo luogo, che non urta invece contro alcun principio costituzionale
la previsione per le donne di un limite di età per il conseguimento
della pensione di vecchiaia inferiore a quello fissato per gli uomini, anche se
ciò implica il venir meno per le prime della coincidenza tra età pensionabile
ed età lavorativa, continuando a costituire tale possibilità un giustificato
beneficio per le lavoratrici.
Nelle proprie deduzioni, il Governo italiano ha altresì richiamato il 22°
considerando della direttiva 2006/54/CE che, nel riordinare tutte le precedenti
direttive in tema di attuazione del principio delle pari opportunità fra uomini
e donne in materia di occupazione e impiego, ha affermato che, a norma
dell’art. 141, paragrafo 4 del Trattato, allo scopo di assicurare l’effettiva e
completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della
parità di trattamento non impedisce agli Stati membri di mantenere o di adottare
misure che prevedono vantaggi specifici volti a facilitare l’esercizio di
un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato oppure a evitare
o compensare svantaggi nelle carriere professionali.
È evidente che il sesso “debole” nel mondo lavorativo è tuttora quello
femminile e che la compensazione di eventuali svantaggi nelle carriere debba
essere effettuata nei confronti delle donne e non certo degli uomini.
Ciò è chiaramente confermato dal predetto 22° considerando della direttiva,
che prosegue chiarendo: “considerata l’attuale situazione e tenendo presente
la dichiarazione n. 28 del trattato di Amsterdam, gli Stati membri dovrebbero
mirare, anzitutto, a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa”.
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Il Governo italiano ha quindi concluso che, se una distinzione per l’età
pensionabile ancora esiste tra uomini e donne, nel settore del pubblico impiego,
ciò non costituisce una ingiustificata disparità di trattamento bensì un
beneficio accordato alle donne pienamente giustificato e conforme al principio
di proporzionalità.
La Corte di giustizia, con la citata sentenza, ha invece ritenuto che da tali
argomentazioni non si potesse dedurre che l’art. 141 del Trattato CE consenta
la fissazione di un’età diversa a seconda del sesso.
Infatti, dice la Corte, “i provvedimenti nazionali contemplati da tale
disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere
la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo. Ora, la fissazione,
ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda
del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le
carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne
nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono
incontrare durante la loro carriera professionale”.
Quindi la Corte, pur riconoscendo che, tuttora, le lavoratrici di sesso femminile
incontrano maggiori difficoltà nel mondo del lavoro rispetto ai loro colleghi
uomini, ha ritenuto che accordare loro la facoltà di andare in pensione
anticipatamente non sia una misura idonea a supplire a dette difficoltà.
Dalla sentenza della Corte di Giustizia deriva l’obbligo dello Stato italiano
di parificare l’età pensionabile dei pubblici dipendenti tra uomini e
donne. In proposito, attese le note ristrettezze del bilancio pubblico, è improbabile
che l’età venga abbassata per tutti a 60 anni, essendo più verosimile
che venga elevata per tutti a 65 anni.
Pertanto, il risultato della pronuncia della Corte è che le donne, che
anche prima potevano lavorare, a semplice richiesta, fino a 65 anni (e lo facevano
nella maggior parte dei casi) ora dovranno lavorare fino a 65 anni.
In sintesi una pronuncia “pro uomini”.
Avv. Wally Ferrante (*)
Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Quarta Sezione, 13 novembre
2008 nella causa C-46/07 - Ricorso presentato il 1° febbraio 2007 - Commissione delle
Comunità europee/Repubblica italiana. (Avvocati dello Stato G. Fiengo e W. Ferrante - AL
9119/07).
Inadempimento di uno Stato – Art. 141 CE – Politica sociale – Parità di retribuzione tra
lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile – Nozione di “retribuzione” –
Regime pensionistico dei dipendenti pubblici.
(… Omissis)
1. Col suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare
che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici
(*) Avvocato dello Stato.
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hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diversa a seconda se siano uomini o
donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.
2. La Repubblica italiana conclude per il rigetto del ricorso e la condanna della
Commissione alle spese.
Ambito normativo nazionale
3. La legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Supplemento ordinario alla GURI n. 257 del 31
ottobre 1992), fornisce il quadro giuridico del regime pensionistico di cui trattasi nella presente
causa. Tale regime si applica ai dipendenti pubblici e agli altri lavoratori del settore
pubblico nonché ai lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico.
4. Tale regime pensionistico è gestito dall’Istituto nazionale della previdenza per i
dipendenti dell’amministrazione pubblica (in prosieguo: l’«INPDAP»), istituito con decreto
legislativo 30 giugno 1994, n. 479 (Supplemento ordinario alla GURI n. 178 del 1° agosto
1994, pag. 20).
5. Il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Supplemento ordinario alla GURI
n. 305 del 30 dicembre 1992), disciplina più in dettaglio taluni aspetti del regime pensionistico
gestito dall’INPDAP.
6. Ai sensi del suo articolo 5, i dipendenti pubblici hanno diritto alla pensione di vecchiaia
nell’ambito del regime gestito dall’INPDAP alla stessa età prevista dal sistema pensionistico
gestito dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (in prosieguo: l’«INPS»)
per le categorie generali di lavoratori. L’età normale per il pensionamento di vecchiaia nell’ambito
di quest’ultimo sistema è di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini, come risulta
dal combinato disposto dell’art. 5, n. 1, e della tabella A del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 503. Per taluni dipendenti pubblici per i quali era stata precedentemente stabilita
un’età pensionabile più elevata, l’art. 2, n. 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335
(Supplemento ordinario alla GURI n. 190 del 16 agosto 1995), dispone che, a partire dal 1°
gennaio 1996, i dipendenti pubblici di sesso femminile, cui fa riferimento detto art. 5, nn. 1
e 2, possono percepire la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni, senza tuttavia prevedere
una facoltà analoga per i dipendenti pubblici di sesso maschile.
7. L’articolo 2, n. 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, avente ad oggetto la riforma del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare, precisa che «con effetto dal 1° gennaio
1996, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legislativo
3 febbraio 1993, n. 29 (Supplemento ordinario alla GURI n. 30 del 6 febbraio 1993),
iscritti alle forme di previdenza esclusiva dell’assicurazione generale obbligatoria, nonché
per le altre categorie di dipendenti iscritti alle predette forme di previdenza, si applica, ai fini
della determinazione della base contributiva e pensionabile, l’art. 12 della legge 30 aprile
1969, n. 153 [(Supplemento ordinario alla GURI n. 111 del 30 aprile 1969)] e successive
modificazioni e integrazioni (…)».
8. L’articolo 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella versione applicabile alla presente
causa, precisa che «per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi
di previdenza e assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore
riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza
dal rapporto di lavoro». L’ultimo paragrafo di detto articolo prevede che «la retribuzione
come sopra determinata è presa, altresì, a riferimento per il calcolo delle prestazioni a carico
delle gestioni di previdenza e assistenza sociale interessate».
9. Il regime pensionistico gestito dall’INPDAP garantisce ai propri iscritti la tutela previdenziale
per invalidità, vecchiaia, malattia e superstiti. Esso dispone di un bilancio indipendente
finanziato con i contributi e la copertura degli eventuali disavanzi è garantita dalle
leggi finanziarie annuali.
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La fase precontenziosa del procedimento
10. La Commissione, ritenendo il regime pensionistico gestito dall’INPDAP un regime
professionale discriminatorio contrario all’art. 141 CE, in quanto prevede per i dipendenti
pubblici che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, ha
espresso le sue preoccupazioni in una lettera amministrativa del 12 novembre 2004. La
Repubblica italiana ha risposto con una lettera in data 10 gennaio 2005, alla quale è stata
allegata una relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004.
11. La Commissione, il 18 luglio 2005, ha inviato alla Repubblica italiana una lettera
di costituzione in mora alla quale tale Stato membro non ha risposto.
12. Con lettera del 5 maggio 2006, la Commissione ha inviato un parere motivato invitando
detto Stato membro a adottare i provvedimenti necessari al fine di conformarsi a tale
parere entro due mesi a decorrere dalla sua ricezione.
13. La Repubblica italiana ha risposto a tale parere motivato con lettera 17 maggio
2006, cui era allegata una nota dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali, contestando in sostanza la posizione della Commissione relativa alla natura
professionale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.
14. La Commissione, non ritenendo soddisfacente la risposta al parere motivato, ha
deciso di introdurre il presente ricorso.
Sul ricorso
Argomenti delle parti
15. La Commissione ritiene che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituisca
un regime discriminatorio contrario all’art. 141 CE in quanto fissa l’età pensionabile a
60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per
i dipendenti pubblici di sesso maschile.
16. La Commissione sottolinea che la Corte ha confermato, nelle sentenze 17 maggio
1990, causa C-262/88, Barber (Racc. pag. I-1889), e 6 ottobre 1993, causa C-109/91, Ten
Oever (Racc. pag. I-4879), che una pensione corrisposta da un datore di lavoro ad un ex
dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso costituisce una retribuzione ai sensi
dell’art. 141 CE e che la Corte ha dichiarato, nelle sentenze 28 settembre 1994, causa C-7/93,
Beune (Racc. pag. I-4471); 29 novembre 2001, causa C-366/99, Griesmar (Racc. pag. I-
9383), nonché 12 settembre 2002, causa C-351/00, Niemi (Racc. pag. I-7007), che le pensioni
erogate dallo Stato agli ex dipendenti che hanno prestato servizio nel settore pubblico
possono costituire una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE.
17. Nel determinare se una pensione prevista dalla legge, che lo Stato corrisponde ad
un ex dipendente, rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 CE oppure in quello della
direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE relativa alla graduale attuazione del
principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale
(GU L 6, pag. 24), la Commissione rinvia ai criteri stabiliti nelle sentenze sopra citate Beune
e Niemi. Secondo la Commissione, occorre esaminare se, nella presente causa, siano soddisfatti
i tre criteri che risultano da questa giurisprudenza affinché un regime pensionistico sia
qualificato come regime professionale, vale a dire che la pensione interessi soltanto una categoria
particolare di lavoratori, che sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e
che il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico.
18. La Commissione, al fine di qualificare il regime pensionistico in questione, fa riferimento
alla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004, allegata alla lettera della
Repubblica italiana del 10 gennaio 2005 e da cui risulta, secondo la Commissione, che la
pensione versata nell’ambito di tale regime risponde a questi tre criteri.
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19. Secondo la Commissione, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP
sia disciplinato direttamente dalla legge, non sarebbe sufficiente per escluderlo dal campo di
applicazione dell’art. 141 CE. Infatti, nella citata sentenza Beune, la Corte avrebbe esplicitamente
respinto questo criterio puramente formale.
20. Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP sia improntato
all’obiettivo di politica sociale di tener conto delle regole del sistema pensionistico gestito
dall’INPS riguardante categorie generali di lavoratori non sarebbe sufficiente, secondo la
Commissione, per escludere il suddetto regime dal campo di applicazione dell’art. 141 CE.
21. Per di più, secondo la Commissione, che fa riferimento alle sentenze precitate
Griesmar e Niemi, è chiaro che la pensione che rientra nel regime pensionistico gestito
dall’INPDAP è versata dallo Stato in qualità di datore di lavoro, criterio che la Corte ha ritenuto
essenziale.
22. Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana relativo alla portata del
regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Commissione si basa sulla citata sentenza
Niemi in cui la Corte si sarebbe già pronunciata sulla qualifica di un regime professionale
che copre diverse categorie di lavoratori concludendo che, qualora siano soddisfatti i tre criteri
menzionati al punto 17 della presente sentenza, il fatto che tale regime ricopra diverse
categorie di lavoratori non avrebbe alcuna rilevanza.
23. A tal riguardo, la Commissione fa anche riferimento alla sentenza 23 ottobre 2003,
cause riunite C-4/02 e C-5/02, Schönheit e Becker (Racc. pag. I-12575), e osserva che la
Corte, nella citata sentenza Niemi, ha qualificato come regime professionale un regime che
copre diverse categorie di lavoratori, ma tutti appartenenti al settore pubblico e ha così considerato
l’insieme dei dipendenti pubblici come una categoria particolare.
24. Infine, la Commissione contesta l’argomento della Repubblica italiana secondo cui
l’introduzione di differenziazioni di disciplina dell’età pensionabile in funzione del regime,
sia esso l’INPS o l’INPDAP, comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i
lavoratori del settore privato e i dipendenti pubblici. Essa sostiene che tale argomento deriva
dalla premessa erronea secondo cui il regime pensionistico gestito dall’INPDAP è un
regime legale e non un regime professionale. Inoltre, la Commissione fa notare che le similitudini
esistenti tra questi due regimi non sarebbero pertinenti.
25. La Repubblica italiana contesta l’inadempimento addebitato facendo valere il carattere
legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.
26. A tal riguardo, tale Stato membro, richiama, in primo luogo, il contesto delle privatizzazioni
e delle riforme nel settore del pubblico impiego nel quale si inquadra il regime
in questione.
27. Il processo di privatizzazione che la Repubblica italiana ha condotto, a decorrere
dagli anni ’90, nel settore del pubblico impiego, avrebbe come conseguenza che, ad eccezione
di alcune funzioni particolari, quali la magistratura, le forze armate, la diplomazia, le prefetture
e l’avvocatura dello Stato, il rapporto di lavoro pubblico è stato progressivamente
attratto nella contrattazione collettiva e, successivamente, assimilato in tutto ad un rapporto
di impiego privato.
28. In secondo luogo, la Repubblica italiana sottolinea che i limiti di età, fissati a 65
anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, sono uniformemente stabiliti, sia per lavoratori
iscritti all’INPS che per i lavoratori iscritti all’INPDAP. Pertanto, la normativa contestata
manterrebbe, proprio in quanto conforme a quella applicabile alle categorie di lavoratori
iscritti all’INPS, una valenza generale, tale da far considerare il regime pensionistico gestito
dall’INPDAP come avente natura legale. Considerata l’avvenuta privatizzazione di quasi
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tutta l’aerea del pubblico impiego, l’introduzione di differenziazioni nella fissazione dell’età
pensionabile comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori.
29. Per evidenziare la natura legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la
Repubblica italiana fa valere che l’art. 3 del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 479, prevede
un unico e uniforme regime di organizzazione dell’INPDAP e dell’INPS per quanto
riguarda gli organi di gestione.
30. A questo stesso fine, la Repubblica italiana sottolinea che l’INPDAP conferisce
inoltre ai suoi iscritti prestazioni che non costituiscono il corrispettivo dei contributi versati
e pone l’accento sulle modalità di finanziamento del regime pensionistico di cui è causa.
31. In terzo luogo, tale Stato membro contesta il parere della Commissione secondo cui si
potrebbero raggruppare in una sola categoria professionale tanti e diversi dipendenti pubblici.
32. La Repubblica italiana fa valere, in quarto luogo, che la Commissione non può
basare la sua valutazione del regime pensionistico di cui è causa sulla relazione
dell’INPDAP. Atale proposito, questo Stato membro sottolinea che tale relazione si fonda su
disposizioni precedenti alla messa in mora e quindi inutilizzabili come elementi di prova.
Inoltre, non sarebbe corretto dedurre da tale relazione che la pensione che rientra nel regime
pensionistico gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento agli anni di servizio prestati
e allo stipendio percepito. A tal riguardo, il detto Stato membro precisa che il termine
«retribuzioni», utilizzato dal legislatore italiano per indicare il sistema di calcolo delle pensioni,
dovrebbe essere inteso come riferito ai contributi che su tali retribuzioni sono stati
pagati e che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto
a decorrere dagli anni ’90, la pensione tiene conto della media delle retribuzioni percepite
nel corso degli ultimi 10 anni e dei corrispondenti contributi versati.
33. All’udienza dinanzi alla Corte, la Repubblica italiana ha sostenuto, infine, che la
fissazione di un’età pensionabile diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di
eliminare discriminazioni a danno delle donne esistenti ancora nell’evoluzione del contesto
socioculturale.
Giudizio della Corte
34. Ai sensi dell’art. 141, n. 1, CE, ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del
principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile
per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. In base al n. 2, primo comma, di
tale articolo, per retribuzione si intende il salario o trattamento normale di base o minimo e
tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore
di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.
35. Occorre ricordare che, per valutare se una pensione di vecchiaia rientri nel campo
di applicazione dell’art. 141 CE, soltanto il criterio relativo alla constatazione che la pensione
è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce al suo ex datore di lavoro,
ossia il criterio dell’impiego, desunto dalla lettera stessa dell’art. 141 CE, può avere
carattere determinante (sentenze citate supra Beune, punto 43; Griesmar, punto 28; Niemi,
punto 44, nonché Schönheit e Becker, punto 56).
36. Certo, questo criterio non può avere un carattere esclusivo, poiché le pensioni corrisposte
da regimi legali previdenziali possono, in tutto o in parte, tener conto della retribuzione
dell’attività lavorativa (sentenze citate supra Beune, punto 44; Griesmar, punto 29;
Niemi, punto 46, nonché Schönheit e Becker, punto 57). Ora, siffatte pensioni non costituiscono
retribuzioni ai sensi dell’art. 141 CE (v., in tal senso, sentenze 25 maggio 1971, causa
80/70 Defrenne, Racc. pag. 445, punto 13; 13 maggio 1986, causa 170/84, Bilka-Kaufhaus,
Racc. pag. 1607, punto 18; Beune, cit., punto 24 e 44; Griesmar, cit., punto 27, nonché
Schönheit e Becker, cit., punto 57).
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37. Tuttavia, le considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica
o anche le preoccupazioni di bilancio che hanno avuto o hanno potuto avere un ruolo nella
determinazione di un regime pensionistico da parte di un legislatore nazionale non possono
considerarsi prevalenti qualora la pensione interessi soltanto una categoria particolare di
lavoratori, sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e il suo importo sia calcolato
in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico (sentenze citate supra Beune,
punto 45; Griesmar, punto 30; Niemi, punto 47, nonché Schönheit e Becker, punto 58).
38. Di conseguenza, gli argomenti della Repubblica italiana, relativi al metodo di
finanziamento del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, alla sua organizzazione ed alle
prestazioni diverse dalle pensioni che esso conferisce, diretti a dimostrare che tale regime
costituisce un regime previdenziale ai sensi della citata sentenza Defrenne che non rientra
nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, non possono essere accolti. Inoltre, il fatto che
l’età pensionabile sia fissata in maniera uniforme per i lavoratori che rientrano nel regime di
cui è causa e per quelli che rientrano nel regime generale, ossia il sistema pensionistico gestito
dall’INPS, non è pertinente per la qualificazione della pensione versata dal regime pensionistico
gestito dall’INPDAP.
39. Partendo da queste precisazioni circa il senso del termine «retribuzione» nel settore
dei regimi pensionistici occorre esaminare se la pensione versata in forza del regime pensionistico
gestito dall’INPDAP corrisponda ai criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza.
40. Per quanto riguarda il primo criterio, occorre rilevare che i dipendenti pubblici che
beneficiano di un regime pensionistico devono essere considerati come una categoria particolare
di lavoratori. Infatti, essi si distinguono dai lavoratori di un’impresa o di un gruppo di
imprese, di un comparto economico o di un settore professionale o interprofessionale soltanto
in ragione delle caratteristiche peculiari che disciplinano il loro rapporto di lavoro con lo
Stato, con altri enti o datori di lavoro pubblici (sentenze citate supra Griesmar, punto 31, e
Niemi, punto 48).
41. Ne deriva che i dipendenti pubblici che beneficiano del regime pensionistico gestito
dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori.
42. Questo risultato non può essere confutato dagli argomenti dedotti dalla Repubblica
italiana. In primo luogo, tale Stato membro fa valere che il regime pensionistico gestito
dall’INPDAP comprende, oltre ai dipendenti pubblici, lavoratori del settore pubblico e lavoratori
che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico.
43. A tal riguardo, occorre ricordare che il presente ricorso riguarda solo i dipendenti
pubblici, per cui, nella presente causa, non si tratta di determinare se i lavoratori del settore
pubblico e i lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico costituiscano
anch’essi una categoria particolare di lavoratori o se costituiscano, considerati unitamente
ai dipendenti pubblici, una sola categoria particolare di lavoratori. Inoltre, il fatto
che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applichi non solo ai dipendenti pubblici
ma anche ad altre categorie di lavoratori non può privare i dipendenti pubblici della tutela
conferita dall’art. 141 CE allorché gli altri criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza
sono soddisfatti. Come risulta dal punto 49 della sentenza Niemi sopramenzionata, il fatto
che un regime pensionistico comprenda non solo una certa categoria di dipendenti pubblici
ma anche l’insieme dei dipendenti dello Stato non ha come conseguenza che la categoria di
dipendenti pubblici interessata non possa essere considerata una categoria particolare di
lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte.
44. La Repubblica italiana fa valere, in secondo luogo, che i numerosi e diversi gruppi
di dipendenti pubblici non possono essere riuniti in un’unica categoria professionale.
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45. Atale riguardo, occorre osservare che, come risulta dal punto 41 della presente sentenza,
il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applica ai dipendenti pubblici che
costituiscono una categoria particolare di lavoratori. Il fatto che, nell’ambito della categoria
dei dipendenti pubblici, si potrebbero identificare diverse categorie non ha rilevanza in quanto
questa categoria si distingue, come ricordato al punto 40 della presente sentenza, dagli
altri gruppi di lavoratori del settore privato o pubblico per le caratteristiche proprie che disciplinano
il rapporto di impiego dei dipendenti pubblici con lo Stato.
46. Di conseguenza, i dipendenti pubblici che rientrano nel regime pensionistico gestito
dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza
della Corte richiamata al punto 40 della presente sentenza.
47. Per quanto riguarda gli altri due criteri accolti dalla giurisprudenza menzionata al
punto 37 della presente sentenza, ossia che la pensione deve essere direttamente proporzionale
agli anni di servizio prestati e il suo importo deve essere calcolato in base all’ultima retribuzione
del dipendente pubblico, occorre esaminare se essi siano soddisfatti di modo che la
pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP possa essere considerata
comparabile a quella che verserebbe un datore di lavoro privato ai suoi ex dipendenti.
48. La Commissione si basa a tal riguardo sulla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre
2004, che è stata allegata dalla Repubblica italiana alla sua risposta del 10 gennaio 2005
alla lettera amministrativa della Commissione del 12 novembre 2004. Essa deduce da tale
relazione che la pensione versata nell’ambito del regime pensionistico gestito dall’INPDAP
viene calcolata con riferimento al numero di anni di servizio prestati dal dipendente e allo
stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento.
49. La Repubblica italiana, pur contestando queste affermazioni per il motivo che tale
relazione è basata su disposizioni precedenti alla messa in mora, ammette tuttavia che, conformemente
all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere
dagli anni ’90, la pensione di cui trattasi tiene conto della media delle retribuzioni percepite
nell’ultimo decennio e dei contributi versati corrispondenti.
50. Partendo da quest’ultima constatazione, occorre esaminare se questo metodo di calcolo
risponda ai due criteri accolti dalla giurisprudenza della Corte.
51 Per quanto riguarda questi due criteri, la Corte, ai punti 33 e 34 della sentenza
Griesman, sopramenzionata, ha qualificato come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una
pensione il cui importo deriva dal prodotto di una percentuale applicata ad un importo base,
il quale è costituito dallo stipendio corrispondente all’ultimo coefficiente retributivo applicabile
al dipendente pubblico nel corso degli ultimi sei mesi di attività.
52. Costituisce anche una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui
importo è calcolato sulla base del valore medio della retribuzione percepita nel corso di un
periodo limitato ad alcuni anni immediatamente precedenti il ritiro dal lavoro (v. sentenza
Niemi, cit., punto 51) nonché una pensione il cui importo è calcolato sulla base dell’importo
di tutti i contributi versati durante tutto il periodo di iscrizione del lavoratore e ai quali si
applica un fattore di rivalutazione (v. sentenza 1° aprile 2008, causa C-267/06, Maruko, non
ancora pubblicata nella Raccolta, punto 55).
53. Ne deriva che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito
dall’INPDAP deve essere qualificata come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE. Infatti, la
base di calcolo di tale pensione risponde ai criteri stabiliti dalla Corte nelle citate sentenze
Griesmar, Niemi e Maruko.
54. Pertanto, la pensione versata in forza del detto regime pensionistico costituisce una
forma di retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE.
58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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55. Come risulta da una costante giurisprudenza, l’art. 141 CE vieta qualsiasi discriminazione
in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile,
quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza. Secondo questa stessa
giurisprudenza, la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per la concessione
di una pensione che costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE è in contrasto
con questa disposizione (v. sentenze Barber, cit., punto 32; 14 dicembre 1993, causa C-
110/91, Moroni, Racc. pag. I-6591, punti 10 e 20; 28 settembre 1994, causa C-408/92, Avdel
Systems, Racc. pag. I-4435, punto 11, nonché Niemi, cit., punto 53).
56. Come sostiene la Commissione, senza essere contraddetta al riguardo dalla
Repubblica italiana, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP prevede una condizione di età
diversa a seconda del sesso per la concessione della pensione versata in forza di tale regime.
57. L’argomento della Repubblica italiana secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento,
di una condizione di età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di
eliminare discriminazioni a danno delle donne non può essere accolto. Anche se l’art. 141,
n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi
specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare
una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può
dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa
a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono,
in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un
piano di parità rispetto all’uomo [v., per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 6, n. 3,
dell’accordo sulla politica sociale concluso tra gli Stati della Comunità europea ad eccezione
del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU 1992, C 191, pag. 91), sentenza
Griesmar, cit., punto 64].
58. Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda
del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti
pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo
rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale.
59. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, occorre constatare che, mantenendo
in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a ricevere
la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la
Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.
Sulle spese
60. A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, il soccombente è condannato
alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha concluso per la condanna
della Repubblica italiana e quest’ultima è risultata soccombente nei suoi motivi,
occorre condannarla alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce:
1) Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno
diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o
donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 59
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Sul principio di non discriminazione uomo-donna in
materia di benefici fiscali di incentivo all’esodo dei lavoratori
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, Settima Sezione,
ordinanza del 16 gennaio 2008 in cause riunite da C-128/07 a C-131/07)
La Corte di Giustizia è tornata ad affermare il principio della parità di trattamento
fra gli uomini e le donne con riferimento al beneficio della tassazione
con aliquota ridotta alla metà delle somme erogate in occasione dell’interruzione
del rapporto di lavoro, previsto dall’art. 17, n. 4 bis, del D.P.R. n. 917/86.
Con l’ordinanza 16 gennaio 2008, adottata nelle cause riunite da C-127
a C-131/07, il giudice comunitario si è pronunciato su una domanda pregiudiziale
proposta nell’ambito delle controversie tra alcuni lavoratori e
l’Agenzia delle Entrate, a proposito del rifiuto da parte di quest’ultima di
concedere loro la riduzione fiscale sulle somme che essi avevano percepito
dal proprio datore di lavoro a titolo di incentivo all’esodo.
In particolare, i ricorrenti, di sesso maschile e di età compresa tra i 53 e
i 54 anni, non avevano potuto fruire dell’aliquota ridotta sulla ritenuta di
acconto operata dal datore di lavoro, beneficio previsto in relazione alla
diversa età pensionabile per i lavoratori che abbiano superato i 55 anni, se
uomini, i 50 anni, se donne.
La Commissione tributaria provinciale di Latina, essendo sul punto già
intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia del 21 luglio 2005, nella
causa C-207/04 Vergani, dichiarando l’incompatibilità con la Dir.
76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento
fra gli uomini e le donne sul lavoro, della fissazione da parte della normativa
nazionale (art. 17, comma 4-bis, del D.P.R. 917/86) di limiti di età differenti
per gli uomini e le donne per beneficiare di un’agevolazione fiscale in
occasione dell’interruzione del rapporto di lavoro, ha quindi rimesso al giudice
comunitario, tra le altre questioni pregiudiziali, quella relativa all’interpretazione
della precedente pronuncia.
In quell’occasione il giudice comunitario aveva innanzitutto escluso che la
compatibilità della disposizione nazionale sull’indennità di esodo potesse essere
valutata alla luce dell’art. 141 T.C.E. sul principio della parità di retribuzione
tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso
lavoro o per un lavoro di pari valore, richiamando la propria giurisprudenza
secondo cui la retribuzione è costituita dall’insieme di «tutti i vantaggi, in contanti
o in natura, attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente, dal
datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, in forza
di un contratto di lavoro, di disposizioni di legge ovvero a titolo volontario».
La Corte aveva quindi precisato che la diversa derivazione soggettiva
dell’incentivo, proveniente dallo Stato e non dal datore di lavoro, fa rientrare
la disposizione nell’ambito di applicazione dell’art. 5 della Dir.
76/207/CEE, che impone la parità di trattamento anche con riguardo alle condizioni
inerenti al licenziamento. Aveva infine affermato che l’agevolazione
fiscale costituisce una condizione di licenziamento, in quanto conseguente ad
un’interruzione volontaria del rapporto di lavoro, e che, rispetto ad essa, deve
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 61
affermarsi il divieto di discriminazioni, senza che il legislatore nazionale
possa invocare la deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della medesima Dir.
79/7/CEE in tema di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale,
secondo cui non risulta pregiudicata la facoltà degli Stati membri di escludere
dal suo campo di applicazione la fissazione del limite di età per la concessione
della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono
derivarne per altre prestazioni: la disciplina derogatoria, infatti, in quanto
eccezionale, impone di interpretare restrittivamente il riferimento alle
«altre prestazioni» previdenziali, e tali non risultano eventuali agevolazioni
fiscali connesse all’età del pensionamento (1).
La Corte di Giustizia, nell’affrontare l’ulteriore quesito proposto dalla
Commissione tributaria provinciale di Latina sulle conseguenze derivanti
dalla riferita decisione, ha ribadito che, a seguito di una sentenza su rinvio
pregiudiziale da cui risulti l’incompatibilità di una normativa nazionale con
il diritto comunitario, l’adozione dei provvedimenti generali o particolari idonei
a garantirne il rispetto in ambito nazionale rientra nella potestà delle autorità
dello Stato membro interessato, che mantengono un potere discrezionale
quanto alle misure necessarie all’attuazione dei diritti attribuiti ai singoli dal
diritto comunitario.
Il giudice comunitario ha quindi concluso che, nei casi di discriminazioni
incompatibili con il diritto comunitario, finché lo Stato non adotti misure volte
a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza del principio di uguaglianza
può essere garantita solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla
categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria
privilegiata, con la conseguenza che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare
qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere
o attendere la previa rimozione da parte del legislatore.
La disapplicazione operata dal giudice nazionale, in nome del principio di
eguaglianza così come interpretato in ambito comunitario, ha dunque conseguenze
additive favorevoli, in quanto di fatto consente l’estensione dei benefici
di “genere” (2) al fine di rimuovere una «discriminazione alla rovescia» (3).
Dott.ssa Chiara Di Seri(*)
(1) Con riferimento all’art. 7 la Corte, nella sentenza 30 aprile 1998, relativa alle cause
riunite da C-377/96 a C-384/96, aveva in precedenza affermato che quando una normativa
nazionale ha mantenuto in vigore una differenza nell’età pensionabile tra i lavoratori di sesso
maschile e i lavoratori di sesso femminile, lo Stato membro interessato ha il diritto di calcolare
l’importo della prestazione diversamente secondo il sesso del lavoratore. Ma se in tale
calcolo possono essere inclusi benefici connessi ad un pensionamento anticipato appare
debolmente argomentata l’esclusione di benefici in una sede diversa. Infatti, il rapporto di
connessione di trattamenti agevolativi con l’età pensionabile enfatizzato nella pronuncia
relativa alla causa C-303/02 Peter Haackert, richiamata dalla stessa Corte nel caso Vergani,
sembra perdere consistenza solo in considerazione del nomen iuris, nel senso che la ragione
dell’inapplicabilità della deroga di cui all’art. 7 risulta collegata alla forma in cui viene concessa
l’agevolazione.
(*) Dottoranda di ricerca Scuola dottorale Interuniversiatria Internazionale in Diritto
europeo, Storia e Sistemi giuridici dell’Europa – Università degli Studi di Roma Tre.
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62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Ordinanza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Settima Sezione, 16 gennaio
2008 nelle cause riunite da C-128/07 a C-131/07 - Domande di pronuncia pregiudiziale
proposte dalla Commissione tributaria provinciale di Latina - Angelo Molinari (C-128/07),
Giovanni Galeotta (C-129/07), Salvatore Barbagallo (C-130/07), Michele Ciampi (C-
131/07)/Agenzia delle Entrate - Ufficio di Latina. (Avvocato dello Stato W. Ferrante - AL
21789/07).
Direttiva 76/207/CEE - Parità di trattamento tra uomini e donne - Indennità di esodo -
Agevolazione fiscale concessa ad un’età differente a seconda del sesso dei lavoratori.
(… Omissis)
1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione, da un lato, della
direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio
della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro,
alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40),
operata dalla Corte nella sua sentenza 21 luglio 2005, causa C-207/04, Vergani (Racc. pag. I-
7453), e, dall’altro, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla
graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia
di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24).
(2) Una lettura congiunta degli artt. 3 e 37 Cost. rende evidente come la parità di trattamento
non si esaurisca affatto nella parità retributiva, ma investa globalmente la posizione
della donna lavoratrice, postulando un’uguaglianza formale e sostanziale con l’uomo lavoratore.
Di qui la necessità di azioni positive volte a rimuovere una situazione di fatto di diseguaglianza
nelle opportunità di partecipazione alla vita sociale, politica ed economica, dovute
fondamentalmente a fattori culturali e storici. A questo proposito il legislatore è intervenuto
in attuazione dei principi costituzionali prima con specifico riferimento alla tutela della
lavoratrice madre e, successivamente per quel che attiene alla parità e pari opportunità sul
lavoro (si vedano la L. 9 febbraio 1963, n. 66 «Ammissione delle donne ai pubblici uffici e
professioni», la L. 9 dicembre 1977, n. 903 «Parità di trattamento tra uomini e donne in
materia di lavoro» e la L. 10 aprile 1991, n. 125 «Azioni positive per la parità uomo-donna
nel mondo del lavoro»).
(3) Generalmente l’espressione «discriminazioni alla rovescia» è utilizzata nell’ordinamento
nazionale per identificare quelle situazioni di disparità che si verificano come effetto
indiretto delle azioni positive adottate dallo Stato in nome del principio di eguaglianza
sostanziale di cui all’art. 3, 2° comma, Cost. (si veda tra i tanti la compita analisi di
DWORKIN, Discriminazione alla rovescia, Bologna, 1982). Nella stessa categoria sono ricondotti
gli effetti pregiudizievoli dell’applicazione del diritto comunitario in danno dei cittadini
di uno Stato membro, o delle sue imprese, rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento
comunitario (si vedano sul tema GHERA, Il principio di eguaglianza nella costituzione italiana
e nel diritto comunitario, Padova, 2003; ID., Il principio di eguaglianza nel diritto
comunitario e nel diritto interno, in Giur. Cost., 1999, 3267 e segg.; SALMONI, La Corte
costituzionale e la Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Dir. Pubbl., 2002, 491 e
segg.; AMEDEO, DOLSO, La Corte costituzionale e le discriminazioni alla rovescia, in Giur.
Cost., 1998, 1221 e segg.; CANNIZZARO, Esercizio di competenze comunitarie e «discriminazioni
a rovescio», in Dir. Un. Eur., 1996, 351 e segg.; DONATI, Principio fondamentale di
eguaglianza e diritto comunitario, in Giur. Cost., 1995, 1838).
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2. Tali domande sono state presentate nell’ambito di quattro controversie rispettivamente
tra i sigg. Molinari, Galeota, Barbagallo e Ciampi, tutti di sesso maschile, da un alto,
e l’Agenzia delle Entrate-Ufficio di Latina (in prosieguo: l’«Agenzia»), dall’altro, a proposito
del rifiuto da parte di quest’ultima di concedere loro una riduzione fiscale sulle somme
che essi avevano percepito dal proprio datore di lavoro a titolo di «incentivo all’esodo».
Contesto normativo
La normativa comunitaria
La direttiva 76/207
3. Dall’art. 1, n. 1, della direttiva 76/207 risulta che essa è diretta ad attuare negli Stati
membri il principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso
al lavoro, ivi compresa la promozione, e l’accesso alla formazione professionale, nonché
le condizioni di lavoro e, alle condizioni di cui al n. 2 dello stesso articolo, la previdenza
sociale.
4. A termini dell’art. 2, n. 1, di tale direttiva:
«Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l’assenza
di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare
mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia».
5. L’art. 5 della medesima direttiva stabilisce quanto segue:
«1. L’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni
di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite
agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso.
2. A tal fine, gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché:
a) siano soppresse le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al
principio della parità di trattamento;
(...)».
La direttiva 79/7
6. L’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7 stabilisce che questa non pregiudica la
facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione la fissazione del limite
di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che
possono derivarne per altre prestazioni.
La normativa nazionale
7. Nell’ordinamento italiano, le disposizioni relative al limite di età per il collocamento
a riposo sono enunciate dall’art. 9 della legge 4 aprile 1952, n. 218, sul riordinamento
delle pensioni dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti
(Supplemento ordinario alla GURI n. 89 del 15 aprile 1952). Ai sensi di tale disposizione, i
lavoratori di sesso maschile hanno diritto alla pensione al compimento del sessantesimo
anno di età e quelli di sesso femminile al compimento del cinquantacinquesimo anno di età,
a condizione, in entrambi i casi, di aver versato i contributi per la durata e nella misura
richieste.
8. Vigono disposizioni particolari per i dipendenti di imprese dichiarate in crisi dal
Comitato interministeriale per il coordinamento della politica industriale. La legge 23 aprile
1981, n. 155 (Supplemento ordinario alla GURI n. 114 del 27 aprile 1981), consente ai detti
dipendenti di fruire del collocamento a riposo anticipato all’età di 55 anni se uomini e di 50
anni se donne.
9. L’art. 17, comma 4 bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917 (Supplemento ordinario alla GURI n. 302 del 31 dicembre 1986), come modificato
dal decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314 (Supplemento ordinario alla GURI
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 63
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n. 219 del 19 settembre 1997; in prosieguo: il «DPR n. 917/86»), dispone quanto segue:
«Per le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto al fine di incentivare
l’esodo dei lavoratori che abbiano superato l’età di 50 anni se donne e di 55 se uomini, di
cui all’art. 16, comma 1, lett. a), l’imposta si applica con l’aliquota pari alla metà di quella
applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e somme
indicate alla lett. a) del comma 1 dell’art. 16».
10. Dopo i fatti della causa principale, l’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86 è diventato,
in seguito al decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344 (Supplemento ordinario alla
GURI n. 291 del 16 dicembre 2003), l’art. 19, n. 4 bis, del medesimo DPR.
11. Il detto art. 19, n. 4 bis, è stato abrogato dall’art. 36, n. 23, del decreto legge 4 luglio
2006, n. 223 (GURI n. 186 dell’11 agosto 2006).
12. Il detto art. 36, n. 23, è così formulato:
«Nell’articolo 19 [del DPR n. 917/86] il comma 4-bis è abrogato. La disciplina di cui al predetto
comma 4-bis continua ad applicarsi con riferimento alle somme corrisposte in relazione
a rapporti di lavoro cessati prima della data di entrata in vigore del presente decreto, nonché
con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati in attuazione
di atti o accordi, aventi data certa, anteriori alla data di entrata in vigore del presente
decreto».
La controversia nella causa principale e le questioni pregiudiziali
13. Risulta dalle decisioni di rinvio che i ricorrenti nella causa principale ricevevano,
tra il mese di maggio e il mese di novembre dell’anno 2002, a seguito della cessazione del
rapporto di lavoro con il loro datore di lavoro, somme versate a titolo di incentivo all’esodo.
All’epoca essi erano di età compresa tra i 53 e i 54 anni. Il datore di lavoro effettuava la ritenuta
di acconto a titolo di imposta sul reddito delle persone fisiche senza applicare la riduzione
del 50% prevista all’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86.
14. Basandosi sulla citata sentenza Vergani i ricorrenti nella causa principale si rivolgevano
all’Agenzia al fine di ottenere il rimborso della metà delle somme oggetto di ritenuta
da parte del datore di lavoro a titolo della detta imposta. Poiché le loro domande non venivano
accolte dall’Agenzia, essi proponevano dinanzi al giudice del rinvio ricorsi diretti
all’annullamento del silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia alle istanze di rimborso delle
somme a loro parere da essi indebitamente versate.
15. Dinanzi a tale giudice, l’Agenzia ha sostenuto che, nella citata sentenza Vergani, la
Corte si è limitata ad affermare l’illegittimità della fissazione di limiti di età differenti per gli
uomini e le donne per beneficiare di un’agevolazione fiscale, ma non si è pronunciata sulla
questione se il legislatore italiano avrebbe dovuto estendere agli uomini di età compresa fra
i 50 e i 55 anni il beneficio della riduzione fiscale concessa alle donne rientranti nella stessa
fascia di età.
16. Di conseguenza la Commissione tributaria provinciale di Latina ha deciso di
sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, formulate
in termini identici nelle quattro cause da C-128/07 a C-131/07:
«1) Se la [citata] sentenza [Vergani] debba essere interpretata nel senso che il legislatore italiano
avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di età vantaggioso previsto per le
donne;
2) Se nel caso in esame si [debba] statuire che agli uomini a partire dai 50 anni devono applicarsi
sulle somme di incentivazione all’esodo l’aliquota pari alla metà di quella prevista per
la tassazione del T.F.R.;
3) Se, considerato che gli importi versati dal contribuente per Irpef non costituiscono ele-
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mento della retribuzione non essendo pagati dal datore di lavoro in ragione del rapporto di
lavoro, e considerato che l’importo versato, per favorire l’incentivazione, dal datore di lavoro
al lavoratore non ha natura retributiva, sia conforme al diritto comunitario statuire che la
differenza di età di 50 anni per le donne e 55 per gli uomini sia contraria al diritto comunitario
ritenuto che la direttiva 79/7 consente agli Stati membri di mantenere limiti di età diversi
per il pensionamento.
4) Se l’interpretazione del diritto comunitario (direttiva […], 76/207 […]) osta o non osta
all’applicazione della norma nazionale da cui ha tratto spunto il caso portato all’esame della
Corte, significando a questo giudice nazionale l’incompatibilità della norma interna (art. 17
ora 19 comma 4-bis D.P.R. 917/86) ovvero la compatibilità».
17. Con ordinanza del presidente della Corte del 27 aprile 2007, le cause da C-128/07
a C-131/07 sono state riunite ai fini delle fasi orale e scritta del procedimento nonché della
sentenza.
Sulle questioni pregiudiziali
18. Ai sensi dell’art. 104, n. 3, primo comma, del regolamento di procedura, qualora la
soluzione di una questione pregiudiziale possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza,
la Corte, dopo aver sentito l’avvocato generale, può statuire con ordinanza motivata.
Sulle questioni prima, seconda e quarta
19. Con le suddette questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del
rinvio chiede sostanzialmente quali siano gli obblighi che la citata sentenza Vergani impone
al legislatore italiano e, in particolare, se esso sia tenuto, nell’ambito delle cause principali,
a disapplicare l’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86 e ad applicare agli uomini di età compresa
fra i 50 e i 55 anni alla data del versamento delle somme corrisposte a titolo di incentivo
all’esodo lo stesso regime fiscale riservato alle donne per la tassazione di tali somme.
20. A questo proposito, occorre subito ricordare che la Corte ha dichiarato, da un lato,
che l’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207 non attribuisce affatto agli Stati membri la facoltà di
condizionare o restringere l’applicazione del principio della parità di trattamento nel proprio
campo d’applicazione e, dall’altro, che detta disposizione è adeguatamente precisa e incondizionata
per essere fatta valere dai singoli dinanzi ai giudici nazionali e consentire a questi
ultimi la disapplicazione di qualsiasi disposizione nazionale non conforme al suddetto art. 5,
n. 1 (sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 55).
21. Nella citata sentenza Vergani la Corte ha dichiarato che la direttiva 76/297 dev’essere
interpretata nel senso che osta ad una norma quale quella controversa nella causa principale,
ossia l’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86, che concede ai lavoratori che hanno raggiunto
l’età di 50 anni, se si tratta di lavoratori di sesso femminile, e di 55 anni, se si tratta
di lavoratori di sesso maschile, a titolo di incentivo all’esodo, il beneficio della tassazione
con aliquota ridotta alla metà delle somme erogate in occasione della cessazione del rapporto
di lavoro.
22. La Corte ha già dichiarato che, a seguito di una sentenza emessa su domanda di
pronuncia pregiudiziale da cui risulti l’incompatibilità di una normativa nazionale con il
diritto comunitario, è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i provvedimenti
generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario sul loro
territorio (v., in questo senso, sentenza 7 gennaio 2004, causa C-210/02, Wells, Racc. pag. I-
723, punti 64 e 65; 25 marzo 2004, causa C-495/00, Azienda Agricola Giorgio, Giovanni e
Luciano Visentin e a., Racc. pag. I-2993, punto 39, nonché 21 giugno 2007, cause riunite da
C-231/06 a C-233/06, Jonkman e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 38). Tali
autorità mantengono un potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il dirit-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 65
02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 65
to nazionale sia adeguato al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti
che sono attribuiti ai singoli da quest’ultimo (v. sentenza Jonkman e a., cit., punto 38).
23. Così, nei casi di discriminazioni incompatibili con il diritto comunitario, finché non
siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza del principio
di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle persone appartenenti
alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata.
In tale ipotesi, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione
nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte
del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che
viene riservato alle persone dell’altra categoria (sentenze 28 settembre 1994, causa C-
408/92, Avdel Systems, Racc. pag., I-4435, punti 16 e 17; 12 dicembre 2002, causa C-
442/00, Rodriguez Caballero, Racc. pag. I-11915, punti 42 e 43; 7 settembre 2006, causa
C-81/05, Cordero Alonso, Racc. pag. I-7569, punti 45 e 46, nonché Jonkman e a., cit.,
punto 39).
24. Di conseguenza occorre risolvere la prima, la seconda e la quarta questione pregiudiziale
nel senso che, a seguito della citata sentenza Vergani, da cui risulta l’incompatibilità
di una normativa nazionale con il diritto comunitario, è compito delle autorità dello Stato
membro interessato adottare i provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il
rispetto del diritto comunitario sul loro territorio, mentre le dette autorità mantengono un
potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il diritto nazionale sia adeguato
al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti che sono attribuiti ai singoli
da quest’ultimo. Qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile con il
diritto comunitario, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento,
il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria,
senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare
ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone
dell’altra categoria.
Sulla terza questione
25. Con detta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le somme versate
a titolo di incentivo all’esodo abbiano il carattere di prestazioni previdenziali e se, di conseguenza,
la disparità di trattamento tra gli uomini e le donne controversa nella causa principale
possa rientrare nella deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7.
26. A questo proposito, basta rilevare che, dopo aver ricordato che il detto art. 7, n. 1,
lett. a), può applicarsi solo alla fissazione del limite di età per la concessione della pensione
di vecchiaia e di fine lavoro e alle conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni
rientranti nell’ambito della previdenza sociale, la Corte, al punto 33 della citata sentenza
Vergani, ha dichiarato che tale eccezione al divieto di discriminazioni fondate sul sesso non
è applicabile a un’agevolazione fiscale quale quella prevista dall’art. 17, n. 4 bis, del DPR
n. 917/86, che non costituisce una prestazione previdenziale.
27. Di conseguenza, occorre risolvere la terza questione nel senso che la deroga prevista
dall’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7 non è applicabile ad una misura fiscale quale
quella di cui all’art. 17, n. 4 bis del DPR n. 917/86.
Sulle spese
28. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 66
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 67
Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara:
1) A seguito della sentenza 21 luglio 2005, causa C-207/04, Vergani, da cui risulta l’incompatibilità
di una normativa nazionale con il diritto comunitario, è compito delle autorità
dello Stato membro interessato adottare i provvedimenti generali o particolari idonei a
garantire il rispetto del diritto comunitario sul loro territorio, mentre le dette autorità mantengono
un potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il diritto nazionale
sia adeguato al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti che sono
attribuiti ai singoli da quest’ultimo. Qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile
con il diritto comunitario, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la
parità di trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione
discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore,
e deve applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene
riservato alle persone dell’altra categoria.
2) La deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978,
79/7/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le
donne in materia di sicurezza sociale, non è applicabile a una misura fiscale quale quella di
cui all’art. 17, n. 4 bis, del DPR 22 dicembre 1986, n. 917, come modificato dal decreto legislativo
2 settembre 1997, n. 314.
02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 67
68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Il diritto di accesso ai documenti delle
Istituzioni europee
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza del 1° luglio 2008
nelle cause riunite C-39/05 P e C-52/05 P)
La sentenza oggetto della presente nota a commento verte in tema di
ammissibilità o meno dell’accesso, da parte del pubblico, ai documenti delle
Istituzioni Europee, in particolare, nel caso de quo, ai pareri giuridici del
Consiglio, ed addiviene alla conclusione per cui la trasparenza del procedimento
legislativo ed il rafforzamento dei diritti democratici dei cittadini europei
costituiscono un interesse pubblico prevalente che giustifica la divulgazione
dei pareri giuridici.
Fatto
Il 22 ottobre 2002 il Sig. Maurizio Turco chiedeva l’accesso ad un parere
del servizio giuridico del Consiglio in merito ad una proposta di direttiva
recante requisiti minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati
membri. A seguito del diniego di accesso, giustificato - a dire del Consiglio -
dalla particolare tutela per i pareri del servizio giuridico e dall’assenza di un
interesse pubblico prevalente che consentisse la divulgazione del documento,
il Sig. Turco adiva il Tribunale di primo grado al fine di ottenere l’annullamento
della decisione del Consiglio. Il Tribunale adito respingeva ogni
motivazione addotta statuendo che “la divulgazione di pareri quali il parere
giuridico di cui trattasi potrebbe, da un lato, suscitare un dubbio sulla legittimità
degli atti legislativi cui tali pareri si riferiscono e, dall’altro, mettere
a repentaglio l’indipendenza del servizio giuridico del Consiglio nel fornire
la sua consulenza, cosicché il Consiglio non ha commesso errori di valutazione
nel ritenere che sussista un interesse generale alla tutela dei pareri giuridici
quale quello di cui trattasi”.
In merito al principio di trasparenza dei procedimenti legislativi, evocato
dal sig. Turco a sostegno della propria tesi quale interesse pubblico prevalente,
il Tribunale dichiarava la necessità di tenere distinti i principi soggiacenti
al regolamento n. 1049/2001 (1) (tra cui il principio della trasparenza)
e l’interesse pubblico prevalente in quanto tale.
Il Sig.Turco e il Regno di Svezia adivano, pertanto, la Corte di Giustizia
onde ottenere l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui
negava l’accesso ai pareri giuridici.
La Corte ha precisato che il Consiglio, prima della divulgazione di un
documento, deve:
(1) Regolamento (CE) n. 1049 del 30 maggio 2001 relativo all’accesso del pubblico ai
documenti del Paralamento europeo, del Consiglio e della Commissione.
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 68
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 69
- verificare che, indipendentemente dalla denominazione data al documento,
quest’ultimo costituisca effettivamente ex se un parere giuridico;
- verificare se dalla predetta divulgazione possa derivare pregiudizio alcuno
per la tutela della consulenza legale;
- verificare che non esista un interesse pubblico prevalente che giustifichi tale
divulgazione nonostante il pregiudizio che ne deriverebbe al suo interesse a
chiedere una consulenza legale o a ricevere pareri franchi ed obiettivi.
La statuizione del Tribunale a quo - continua la Corte - secondo cui la
divulgazione potrebbe far sorgere dubbi circa la legalità dell’atto legislativo,
non è di per se idonea ad integrare gli estremi di un tale pregiudizio, dal
momento che “proprio la trasparenza contribuisce a conferire alle Istituzioni
una maggiore legittimità agli occhi dei cittadini europei e ad accrescere la
loro fiducia”.
La Corte ha così concluso che il regolamento n. 1049/2001 impone, in
linea di principio, un obbligo di divulgare i pareri del servizio giuridico del
Consiglio relativi ad un procedimento legislativo derogabile soltanto in caso
di pareri resi nell’ambito di un procedimento legislativo che abbia un contenuto
particolarmente sensibile o una portata particolarmente estesa che
vada al di là dell’ambito del procedimento legislativo. In tal caso si dovrebbe
motivare il diniego in modo circostanziato (2).
La Corte, pertanto, ha annullato la sentenza del Tribunale nella parte concernente
il diniego di accesso al parere giuridico in esame ed ha annullato la
decisione del Consiglio di diniego di accesso al documento richiesto (3).
Il Regolamento CE n. 1049/2001 e l’art. 4 n. 2 e n. 3 del Reg. cit.
L’intera questione oggetto della sentenza in esame ruota attorno alla corretta
interpretazione e applicazione dell’art. 4 n. 2 (4) e n. 3 del Regolamento
(CE) n. 1049/2001 (5): l’art. 4 n. 2 prevede che le Istituzioni rifiutino l’accesso
ad un documento laddove la sua divulgazione possa arrecare pregiudizio
- per la parte che qui interessa per la risoluzione del caso de quo - “alla
tutela delle procedure giurisdizionali e della consulenza legale, a condizione
che non vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione”; l’art. 4 n.
(2) Nel senso della necessità di una motivazione si veda, ex multis, Tribunale di primo
grado, sentenza del 26 aprile 2005, Sison c/o Consiglio, cause riunite T-110/03, T-150/03 e
T-405/03; Tribunale di primo grado, sentenza del 6 luglio 2006, Franchet e Byk.
(3) “Il Consiglio ha preso atto delle conseguenze della sentenza della Corte del 1° luglio
2008”: Comunicato Stampa, 2887° sessione del Consiglio Giustizia e Affari Interni,
Bruxelles 24-25 luglio 2008.
(4) L’art. 4 n. 2 dispone testualmente che “Le Istituzioni rifiutano l’accesso a un documento
la cui divulgazione arrechi pregiudizio alla tutela di quanto segue: gli interessi commerciali
di una persona fisica o giuridica, ivi compresa la proprietà intellettuale; le procedure
giurisdizionali e la consulenza legale; gli obiettivi delle attività ispettive, di indagine e di
revisione contabile, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione”.
(5) Si veda nota n. 1
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70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
3 testualmente dispone che “l’accesso ad un documento elaborato per uso
interno da un’Istituzione o da essa ricevuto, relativo ad una questione su cui
la stessa non abbia ancora adottato una decisione, viene rifiutato nel caso in
cui la divulgazione del documento pregiudicherebbe gravemente il processo
decisionale dell’Istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente
alla divulgazione”.
Il Tribunale di primo grado ha chiaramente indicato che l’oggetto del
Regolamento è permettere a ogni persona fisica di avere accesso ai documenti
pubblici. L’interesse specifico di una persona a ottenere accesso a un documento,
in particolare per far valere il proprio punto di vista in una controversia,
non rileva ai fini della decisione di divulgare o non il documento, ove
l’Istituzione applichi le eccezioni di cui all’art. 4, par. 1 lett. a) o qualora uno
Stato membro si opponga alla divulgazione di un documento ai sensi dell’art.
4 par. 5. Il Tribunale di primo grado ha, altresì, più volte statuito che il diritto
della difesa di un richiedente in una causa è di natura privata e che pertanto
non può costituire un interesse pubblico superiore tale da giustificare la
divulgazione di un documento.
Il sig. Turco, nel caso oggetto della presente nota a commento, ha invocato
l’applicazione al caso de quo dell’art. 4 n. 3 ed una errata interpretazione
dell’art. 4 n. 2.
La giurisprudenza comunitaria ha affrontato in più occasioni le problematiche
legate al diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee e correlate
eccezioni. Si veda, ad esempio, causa T-403/05 del 9 settembre 2008, My Travel
c/ Commissione; causa C-266/05 del 1 febbraio 2007, Sison c/ Consiglio; causa
T-237/02 del 14 dicembre 2006, Technische Glaswerke Gmbh c/ Commissione;
ordinanza del Tribunale di Primo grado del 15 giugno 2005, causa T-98/04,
Società imballaggi metallici Salerno Srl (SIMSA) c/ Commissione .
Si cita, altresì, a titolo esemplificativo, la causa T-610/97, Carlsen e a. c/
Consiglio, secondo cui “la divulgazione di documenti di questo tipo avrebbe
per effetto di rendere pubblico il dibattito e gli scambi di vedute, interni
all’istituzione, circa la legittimità e la portata dell’atto giuridico da adottare
e, pertanto… essa potrebbe portare a far perdere all’istituzione qualsiasi interesse
a chiedere ai servizi giuridici pareri scritti. In altri termini… la divulgazione
di tali documenti potrebbe creare un’incertezza riguardo alla legittimità
degli atti comunitari e avere conseguenze negative sul funzionamento delle
istituzioni comunitarie” (6).
E ancora: il diritto di accesso è negato laddove il diniego trovi giustificazione
“nell’interesse pubblico, secondo cui le Istituzioni devono poter beneficiare
dei pareri dei loro servizi giuridici forniti in totale indipendenza” (7).
(6) T-610/97, ordinanza del 3 marzo 1998, Presidente del Tribunale di primo grado.
(7) Corte di Giustizia, ordinanza del 23 ottobre 2002, Austria c/Consiglio, causa C-
445/00; Tribunale di primo grado, sentenza dell’ 8 novembre 2000, Ghignone e a.
c/Consiglio, causa T-44/97; Tribunale di primo grado, ordinanza del 10 gennaio 2005,
Gollnisch e a. c/Parlamento, causa T-357/03.
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 70
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 71
L’operato delle Istituzioni europee a garanzia di un maggiore diritto di
accesso del pubblico ai documenti e gli effetti della sentenza Turco (8).
Nel novembre 2005 la Commissione europea ha avviato la sua campagna
a favore di una maggiore trasparenza e possibilità per le Istituzioni di rispondere
in modo più efficiente alle richieste dei cittadini, elaborando, in primis,
una proposta di revisione del Regolamento n. 1049/2001. Nella primavera
del 2007 la Commissione ha provveduto alla pubblicazione di un Libro
Verde, punto di partenza, questo, assieme alle raccomandazioni del
Parlamento europeo e alla giurisprudenza della Corte europea per una revisione
del Regolamento menzionato.
La Commissione ha espresso che “L’obiettivo consiste nell’accrescere la
trasparenza, nel migliorare l’accesso e nello sviluppare comunicazione e
comprensione. Il diritto dei cittadini a sapere è fondamentale in ogni sistema
democratico. L’accesso ai documenti è uno strumento essenziale della democrazia
e ora ci apprestiamo a migliorarlo” (9).
Il Libro Verde è composto di due parti principali: la prima contiene
un’analisi dell’attuazione del Regolamento con una sintesi della giurisprudenza
pertinente in merito; la seconda contiene suggerimenti della
Commissione per migliorare il sistema (10).
Oggi la Commissione ha adottato modifiche relative alle regole di accesso
ai documenti delle istituzioni UE. Il Presidente della Commissione europea,
Josè Manuel Barroso, ha dichiarato: “All’inizio del mio mandato ho sottolineato
la necessità di accrescere la trasparenza del nostro lavoro. Le regole
di accesso ai documenti funzionano bene. Le modifiche si prefiggono di
rispondere all’evolversi della giurisprudenza della Corte e di migliorare
ulteriormente l’accesso dei documenti da parte dei cittadini europei”.
La proposta della Commissione di un nuovo testo consolidato conferisce
maggiore importanza alla diffusione attiva di informazioni e conforma il
Regolamento alle disposizioni della Convenzione di Aarhus (11) sull’accesso ai
dati ambientali. Viene infine chiarito il significato di documento, includendo, ad
(8) Considerazioni tratte dalla Proposta di risoluzione del Parlamento europeo sul
Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti del Parlamento (2007/
2154(INI)) del 6 ottobre 2008.
(9) Dichiarazioni della vicepresidente della Commissione Margot Wallstrom, responsabile
per le Relazioni istituzionali e la Strategia della comunicazione.
(10) Le principali questioni sottoposte a consultazione sono:
- è necessario un più forte accento sulla promozione di una diffusione attiva delle informazioni?
- l’armonizzazione con le regole dell’accesso alle informazioni ambientali determinerebbe
una maggiore chiarezza per i cittadini?
- come assicurare il giusto equilibrio tra esigenza di trasparenza, protezione dei dati personali
e buona amministrazione?
(11) Convenzione sull’accesso all’informazione, sulla partecipazione del pubblico al
processo decisionale e sull’accesso alla giustizia in materia ambientale conclusa a Aarhus
(Danimarca) il 25 giugno 1998.
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72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
esempio, anche il contenuto di banche dati elettroniche quando può essere stampato
o trasmesso in forma elettronica e si propone, altresì, un testo più esplicito
relativamente alla protezione dei documenti relativi ad indagini in corso, al fine
di una maggiore chiarezza, senza, tuttavia, ridurre il numero dei documenti
accessibili. Si prevede il miglioramento dell’accesso ai nomi e alle funzioni
delle persone che operano a titolo professionale, a documenti degli stati membri
e alla documentazione scritta presentata dalle Istituzioni ai tribunali. Tali modifiche
sono in linea con la recente giurisprudenza della Corte europea (12).
Si evidenzia, inoltre, che, sempre nell’ottica di garantire una maggiore
trasparenza e accessibilità ai cittadini europei dei documenti amministrativi,
è stato predisposto un centro di documentazione europea (CDE), uno dei centri
di informazione della rete Europe Direct dell’Unione Europea. L’obiettivo
del CDE è quello di offrire a tutti i cittadini la possibilità di accedere alla
documentazione prodotta nell’Unione europea, in ottemperanza ai regolamenti
ad alle normative codificate solennemente nel principio di trasparenza
(art. 255 del Trattato CE e tradotte nel Regolamento del 2001) che riconosce
il diritto di accesso ai documenti amministrativi come uno dei diritti fondamentali
del cittadino europeo.
A seguito dell’emanazione della sentenza Turco, nella recentissima
Proposta di risoluzione (del Parlamento europeo) sul Rapporto annuale relativo
all’accesso pubblico ai documenti del Parlamento si è messo in evidenza
come la comunità internazionale e l’Unione europea siano progressivamente
pervenute al riconoscimento di un reale diritto di accesso ai documenti
e di un diritto all’informazione fondato sui principi di democrazia, pubblicità,
prospettandosi per il futuro la necessità che le Istituzioni europee ispirino
il loro modus operandi ad una maggiore apertura e trasparenza e si muovano
in direzione di un Freedom of Information Act dell’UE, dal momento
che l’applicazione del Regolamento (CE) n. 1049/2001 ha portato alla pubblica
attenzione tutta una serie di carenze.
“Le recenti sentenze in materia devono essere analizzate ed attuate con
urgenza da parte delle Istituzioni” (13).
Anche il Parlamento europeo sostiene, pertanto, che la sentenza oggetto
della presente nota a commento rafforza ulteriormente nell’UE il principio in
base al quale le Istituzioni democratiche hanno il dovere di assicurare pubblicità
alle proprie attività, documenti e decisioni, in quanto condizione della loro
legalità, legittimità e accountability, principi sanciti dall’articolo 6 del Trattato
UE e dagli articoli 254 e 255 (14) del Trattato CE; che pertanto i documenti
(12) www.europa.eu – “migliorare l’accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni
UE”, articolo del 30 aprile 2008.
(13) Progetto di Relazione sul Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti
del Parlamento sopra cit., pag. 5.
(14) Art. 255, Trattato CE: “qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o
giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro ha il diritto di accedere
ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, secondo i principi
e alle condizioni da definire a norma dei paragrafi 2 e 3.
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 73
devono essere pubblicati e resi comunque accessibili e che ogni eccezione a
tale principio deve essere limata ed interpretata in senso restrittivo.
Il Parlamento europeo sollecita tutte le Istituzioni dell’UE ad applicare il
Regolamento citato alla luce della recente giurisprudenza, e segnatamente
della sentenza Turco con tutte le sue implicazioni (pubblicazione dei pareri del
servizio giuridico, interpretazione restrittiva delle eccezioni, obbligo di fornire
una motivazione particolareggiata in caso di rifiuto, ecc. ) ed invita inoltre
il Consiglio a garantire la pubblicità di tutti i documenti e dati informativi, e
ciò in quanto “le conclusioni della CGCE secondo cui il pubblico interesse
alla trasparenza fa premio sull’eccezione motivata dalla protezione del processo
decisionale - in quanto la diversità dei pareri di un atto legislativo accresce
la legittimità delle Istituzioni - si applicano anche in tal caso” (15).
Il diritto di accesso nel contesto italiano: brevi cenni
L’accesso ai documenti amministrativi, protagonista, specie nei recentissimi
anni, di innovazioni legislative - il riferimento è alla L. n. 15/2005 e alla
L. n. 80/2005, con le quali il diritto di accesso è assurto a principio generale
dell’attività amministrativa - e di pronunce giurisprudenziali applicative della
l. 241/1990 così come modificata dalle leggi citate, costituisce un fondamentale
corollario del principio di trasparenza. L’obiettivo del legislatore nazionale
è stato quello di garantire la celerità dell’azione amministrativa ma, al
contempo, assicurare gli interessi dei soggetti titolari di situazioni giuridiche
incise dal modus operandi pubblico.
Si tenterà nel prosieguo della disamina di offrire una panoramica generale
in merito al diritto di accesso ai documenti, mettendo in luce i profili più
significativi della disciplina normativa.
Con la L. n. 15/2005, il diritto di accesso ai documenti amministrativi -
del quale la dottrina aveva già rinvenuto anche un fondamento costituzionale
- è stato elevato, come innanzi esposto, a principio generale dell’attività
amministrativa.
Nel contesto italiano si è, altresì, dibattuto a lungo in merito alla natura
del diritto di accesso, se qualificabile alla stregua di diritto soggettivo o interesse
legittimo (16), una questione ancora irrisolta.
I principi generali e le limitazioni a tutela di interessi pubblici o privati applicabili al diritto
di accesso ai documenti sono stabiliti dal Consiglio che delibera secondo la procedura di
cui all’art. 251 entro due anni dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam.
Ciascuna delle suddette istituzioni definisce nel proprio regolamento interno disposizioni
specifiche riguardanti l’accesso ai propri documenti”.
(15) Progetto di Relazione sul Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti
del Parlamento sopra cit., pag. 6.
(16) La giurisprudenza amministrativa non è pacifica nel riconoscere che il diritto di
accesso abbia natura di un vero e proprio diritto soggettivo (a favore si veda ex multis TAR
Abruzzo, Pescara, 21 febbraio 2004 n. 230; contra, CdS, sez. V, 7 aprile 2004 n. 1969, per
cui la posizione giuridica soggettiva posta a base del diritto di accesso va qualificata come
interesse legittimo).
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74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Ai sensi dell’art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241 per diritto di accesso
si intende il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia
di documenti amministrativi intesi, quest’ultimi, in una accezione piuttosto
ampia enunciata nei termini che seguono: “ogni rappresentazione grafica,
foto-cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, formati
dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività
amministrativa”.
Il diritto di accesso deve fondarsi su di un interesse che sia:
- attuale, non già in riferimento all’interesse ad agire in giudizio per la tutela
immediata della posizione sostanziale sottostante la richiesta ostensiva,
bensì alla richiesta di accesso ai documenti in sé considerata;
- personale (17), ossia inerente alla sfera giuridica dell’interessato intesa
come legame tra l’interesse ed il soggetto;
- concreto(18), inteso nel senso di non evanescenza, bensì tangibilità dell’interesse;
- serio, quindi meritevole, per cui l’interesse non deve essere emulativo.
In una recentissima sentenza in merito alla prova della lesione di un interesse
giuridicamente rilevante ai fini dell’esercizio del diritto di accesso, il
TAR Lazio, sez. III, con sentenza del 12 novembre 2008 n. 10036, ha statuito
che la legittimazione ad accedere ad atti amministrativi sussiste qualora il
richiedente vanti un interesse giuridicamente rilevante, anche se tale interesse
non assume consistenza di interesse legittimo o diritto soggettivo, rispetto
al quale la documentazione si pone in rapporto di strumentalità ai fini della
tutela della posizione giuridica dell’interessato.
In sostanza, la documentazione richiesta deve costituire mezzo utile per
la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, ma non strumento di prova
diretta della lesione di tale interesse, non potendo essere operato alcun
apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale
che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l’accesso e non potendo essere valutata la legittimazione
all’accesso alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante.
Per costante giurisprudenza il diritto di accesso ai documenti amministrativi
è riconosciuto al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa
e di favorirne lo svolgimento imparziale (così CdS, Ad. Plen., n. 5
del 4 febbraio 2007).
Ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 il diritto di accesso consiste
nel diritto ad essere informati degli atti dei procedimenti che possono incidere
sulla sfera giuridica del soggetto, al fine di consentirgli le dovute difese;
pertanto, il diritto di accesso si configura come autonomo bene della vita, ma
esso può essere esercitato solo quando sussiste un’esigenza concreta ed attua-
(17) Ex multis, TAR Campania, sez. V, 7 gennaio 2002 n. 131.
(18) Ex multis, TAR Marche, 21 dicembre 2001 n. 1250.
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 74
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 75
le dell’interessato alla tutela delle sue situazioni giuridicamente rilevanti
(così CdS, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 984).
Il diritto di accesso agli atti amministrativi e di estrarre copia deve essere
inteso “cum grano salis” e il suo concreto esercizio deve esser ispirato a
principi di comune buon senso (TAR Sicilia, Catania, sez. III, 4 novembre
1999, n. 2310).
Nel definire il documento amministrativo accessibile l’art. 22 cit. non
menziona gli atti preparatori, la cui accessibilità, anche nella nuova formulazione,
potrebbe desumersi a contrario (19) dal nuovo art. 24, comma 1 della
legge cit., che espressamente prevede l’esclusione del diritto di accesso nei
soli procedimenti tributari (20); per i documenti coperti da segreto di Stato;
nei confronti dell’attività diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi
generali, di pianificazione e di programmazione; nei procedimenti
selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni
di carattere psicoattitudinale relative ai terzi.
Il nuovo comma 1 dell’art. 24 prevede, infatti, una serie di limitazioni
all’esercizio del diritto di accesso in relazione ad esigenze di segreto e di
riservatezza concernenti determinati documenti amministrativi, poste sia nell’interesse
pubblico che nell’interesse dei terzi. Sono limiti di carattere oggettivo
finalizzati alla salvaguardia di interessi pubblici fondamentali e prevalenti
rispetto al generale interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi,
in presenza dei quali la P.A. è obbligata a esprimere diniego a fronte
della richiesta di accesso.
Il comma 2 dell’art. 24 della legge cit. riconosce alle singole pubbliche
amministrazioni di poter individuare altre categorie di documenti da esse formati
o comunque nella loro disponibilità, che si vanno in tal modo ad aggiungere
a quelli sottratti all’accesso in virtù della precedente indicazione (21).
L’art. 25 della legge cit. delinea le modalità del diritto di accesso.
(19) Contra, CdS, sez. IV, 11 ottobre 2007 n. 5356 per cui “ai sensi dell’art. 24 comma
6, L. 7 agosto 1990 n. 241, il diritto di accesso agli atti preparatori della determinazione conclusiva
del procedimento deve ritenersi escluso fin quando detto procedimento è ancora in
corso, ma non anche quando si è concluso con l’adozione della determinazione finale”.
(20) In una recentissima sentenza del TAR LAZIO, sez. II, 31 ottobre 2008 n. 9516 si
statuisce che “sussiste il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai conclusosi
con l‘adozione dell’atto di accertamento. Infatti l’art. 24 lett. b) della l. n. 241 del
1990 esclude l’accesso solo agli atti del procedimento tributario adottati nel corso di formazione
del provvedimento, prima che lo stesso sia emanato, ed ai documenti inerenti l‘attività
della p.a., diretta all’emanazione di atti preparatori nel corso della formazione di provvedimenti
conclusivi, cioè agli atti propedeutici all’emanazione del provvedimento terminale;
conseguentemente deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l’Amministrazione abbia
concluso il procedimento con l’emanazione del provvedimento finale”.
(21) Tuttavia “il canone ermeneutico da adoperare al riguardo deve essere improntato
a criteri rigorosi e restrittivi, perché le ipotesi di esclusione dall’accesso costituiscono eccezioni
ai principi ex l. n. 241/1990 e sono di stretta interpretazione” (così CdS, sez. V, 16
novembre 1998, n. 1620).
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 75
76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Il rito speciale previsto ex art. 25 cit., comma 5, si caratterizza per la
sommarietà e la celerità (CdS, sez. V, 21 ottobre 1998, n. 1529) ma pur caratterizzandosi
in tal senso non può essere ricompreso fra i procedimenti cautelari
e d’urgenza e pertanto ad esso si applica la sospensione feriale dei termini
(così CdS, sez. VI, 11 febbraio 1997, n. 260). Il ricorso ex art. 25 l.
241/1990 deve essere notificato oltre che all’amministrazione cui era stata
presentata la domanda di accesso anche al soggetto cui si riferiscono i documenti
amministrativi, soltanto se detti documenti coinvolgono aspetti di
riservatezza del terzo (così TAR Calabria, 17 marzo 2003 n. 198).
Considerazioni conclusive
Come si è potuto notare dalla disamina sin qui effettuata, la sentenza
Turco ha consolidato il principio della necessità della trasparenza del procedimento
legislativo e del diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni
quali principi cardine di una comunità democratica, offrendo alle Istituzioni
europee terreno fertile per un cambiamento del loro modus operandi e consentire
alle stesse di rispondere in modo più efficiente alle richieste dei cittadini.
Dott.ssa Carolina Layek (*)
Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, 1° luglio
2008 nei procedimenti riuniti C-39/05 P e C-52/05 P - Regno di Svezia, Maurizio
Turco/Consiglio dell’Unione europea, Regno di Danimarca, Repubblica di Finlandia, Regno
Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Commissione delle Comunità europee. (Il
Governo italiano non è intervenuto).
Impugnazione - Accesso ai documenti delle istituzioni - Regolamento (CE) n. 1049/2001 -
Pareri giuridici.
(… Omissis)
1. Con le loro impugnazioni, il Regno di Svezia (causa C-39/05 P) e il sig. Turco (causa
C-52/05 P) chiedono l’annullamento della sentenza del Tribunale di primo grado delle
Comunità europee 23 novembre 2004, causa T-84/03, Turco/Consiglio (Racc. pag. II-4061;
in prosieguo: la «sentenza impugnata»), nella parte in cui è stato respinto il ricorso del
sig. Turco diretto all’annullamento della decisione del Consiglio dell’Unione europea 19
dicembre 2002, che aveva negato a quest’ultimo l’accesso ad un parere del servizio giuridico
del Consiglio relativo ad una proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi
per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (in prosieguo: la «decisione controversa
»). Il Regno di Svezia chiede inoltre alla Corte di statuire essa stessa su tale ricorso
annullando la decisione controversa.
(*)Dottore in giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale
dello Stato.
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 76
2. Con i motivi dedotti in sede d’impugnazione i ricorrenti invitano la Corte a pronunciarsi
sulla portata e sull’applicazione dell’eccezione all’obbligo di divulgazione di documenti
prevista, in caso di pregiudizio alla tutela della consulenza legale, nell’art. 4, n. 2,
secondo trattino, del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 30 maggio
2001, n. 1049, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del
Consiglio e della Commissione (GU L 145, pag. 43).
Contesto normativo
3. L’art. 255 CE garantisce, in particolare, a qualsiasi cittadino dell’Unione europea il
diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione
delle Comunità europee, secondo i principi e alle condizioni definiti dal Consiglio a tutela di
interessi pubblici o privati.
4. Il regolamento n. 1049/2001 è stato adottato dal Consiglio sulla base dell’art. 255,
n. 2, CE.
5. I ‘considerando’ dal primo al quarto, nonché sesto e undicesimo di detto regolamento
sono formulati come segue:
«(1) L’articolo 1, secondo comma del trattato sull’Unione europea sancisce il concetto di trasparenza,
secondo il quale il trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di
un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano adottate nel
modo più trasparente possibile e più vicino possibile ai cittadini.
(2) Questa politica di trasparenza consente una migliore partecipazione dei cittadini al processo
decisionale e garantisce una maggiore legittimità, efficienza e responsabilità dell’amministrazione
nei confronti dei cittadini in un sistema democratico. La politica di trasparenza
contribuisce a rafforzare i principi di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali sanciti
dall’articolo 6 del trattato UE e dalla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
(3) Le conclusioni delle riunioni del Consiglio europeo di Birmingham, Edimburgo e
Copenaghen hanno messo in evidenza la necessità di garantire una maggiore trasparenza nel
lavoro delle istituzioni dell’Unione. Il presente regolamento consolida le iniziative già adottate
dalle istituzioni al fine di migliorare la trasparenza del processo decisionale.
(4) Il presente regolamento mira a dare la massima attuazione al diritto di accesso del pubblico
ai documenti e a definirne i principi generali e le limitazioni a norma dell’articolo 255,
paragrafo 2, del trattato CE.
(…)
(6) Si dovrebbe garantire un accesso più ampio ai documenti nei casi in cui le istituzioni agiscono
in veste di legislatore, anche in base a competenze delegate, preservando nel contempo
l’efficacia del loro processo di formazione delle decisioni. Nella più ampia misura possibile
tali documenti dovrebbero essere resi direttamente accessibili.
(…)
(11) In linea di principio, tutti i documenti delle istituzioni dovrebbero essere accessibili al
pubblico. Tuttavia, taluni interessi pubblici e privati dovrebbero essere tutelati mediante
eccezioni. Si dovrebbe consentire alle istituzioni di proteggere le loro consultazioni e discussioni
interne quando sia necessario per tutelare la propria capacità di espletare le loro funzioni.
(...)».
6. L’art. 1, lett. a), del regolamento n. 1049/2001, rubricato «Obiettivo», enuncia che
quest’ultimo mira a «definire i principi, le condizioni e le limitazioni, per motivi di interesse
pubblico o privato, che disciplinano il diritto di accesso ai documenti del Parlamento europeo,
del Consiglio e della Commissione (in prosieguo “le istituzioni”) sancito dall’articolo
255 del trattato CE in modo tale da garantire l’accesso più ampio possibile».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 77
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 77
7. Intitolato «Destinatari e campo di applicazione», l’art. 2, n. 1, in questo stesso regolamento
riconosce a qualsiasi cittadino dell’Unione e a qualsiasi persona fisica o giuridica
che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro un diritto d’accesso ai documenti
delle istituzioni «secondo i principi, le condizioni e le limitazioni definite nel presente regolamento
».
8. L’art. 4 del regolamento n. 1049/2001, rubricato «Eccezioni», prevede quanto segue:
«(…)
2. Le istituzioni rifiutano l’accesso a un documento la cui divulgazione arrechi pregiudizio
alla tutela di quanto segue:
(…)
– le procedure giurisdizionali e la consulenza legale,
(…)
a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione.
3. L’accesso a un documento elaborato per uso interno da un’istituzione o da essa ricevuto,
relativo ad una questione su cui la stessa non abbia ancora adottato una decisione, viene
rifiutato nel caso in cui la divulgazione del documento pregiudicherebbe gravemente il processo
decisionale dell’istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla
divulgazione.
L’accesso a un documento contenente riflessioni per uso interno, facenti parte di discussioni
e consultazioni preliminari in seno all’istituzione interessata, viene rifiutato anche una
volta adottata la decisione, qualora la divulgazione del documento pregiudicherebbe seriamente
il processo decisionale dell’istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente
alla divulgazione.
(…)
6. Se solo alcune parti del documento richiesto sono interessate da una delle eccezioni, le
parti restanti del documento sono divulgate.
7. Le eccezioni di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 si applicano unicamente al periodo nel quale la
protezione è giustificata sulla base del contenuto del documento. Le eccezioni sono applicabili
per un periodo massimo di 30 anni. (...)».
9. L’art. 12, n. 2, del regolamento n. 1049/2001 stabilisce che, fatti salvi gli artt. 4 e 9
di questo stesso regolamento, i documenti redatti o ricevuti nel corso delle procedure per
l’adozione di atti giuridicamente vincolanti negli o per gli Stati membri dovrebbero essere
resi direttamente accessibili.
Fatti all’origine della controversia
10. Il 22 ottobre 2002 il sig. Turco chiedeva al Consiglio l’accesso ai documenti figuranti
all’ordine del giorno della riunione del Consiglio «Giustizia e affari interni», svoltasi a
Lussemburgo il 14 e il 15 ottobre 2002, tra i quali rientrava, con il n. 9077/02, un parere del
servizio giuridico del Consiglio relativo ad una proposta di direttiva del Consiglio che fissa
standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.
11. Il 5 novembre 2002 il Consiglio negava al sig. Turco l’accesso a tale parere, basandosi
sull’art. 4, n. 2, del regolamento 1049/2001. Tale diniego era motivato come segue:
«Il documento n. 9077/02 è un parere del servizio giuridico del Consiglio concernente una
proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti
asilo negli Stati membri.
Tenuto conto del suo contenuto, la divulgazione di tale documento potrebbe arrecare pregiudizio
alla tutela della consulenza legale interna al Consiglio, di cui all’art. 4, n. 2, del regolamento
[n. 1049/2001]. In assenza di qualsiasi motivo specifico il quale indichi la sussisten-
78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 78
za di un particolare interesse pubblico [prevalente] alla divulgazione di tale documento, il
segretariato generale ha concluso, dopo aver ponderato gli interessi, che l’interesse alla tutela
della consulenza legale interna prevale sull’interesse pubblico e ha quindi deciso di rifiutare
l’accesso a tale documento, conformemente all’art. 4, n. 2, [di tale] regolamento. Tale eccezione
interessa il contenuto integrale del documento. Conseguentemente non è possibile accordare
un accesso parziale a quest’ultimo a norma dell’art. 4, n. 6, [di detto] regolamento».
12. Il 22 novembre 2002 il sig. Turco presentava al Consiglio una domanda di conferma
al fine di ottenere che quest’ultimo rivedesse la propria posizione, rilevando che il Consiglio
aveva erroneamente applicato le eccezioni al diritto di accesso del pubblico ai documenti delle
istituzioni di cui all’art. 4, nn. 2 e 3, del regolamento n. 1049/2001 e che il principio di democrazia
e di partecipazione dei cittadini al processo legislativo costituiva un interesse pubblico
prevalente che giustificava la divulgazione, in particolare, del parere giuridico di cui trattasi.
13. Con la decisione controversa il Consiglio accettava di divulgare il paragrafo introduttivo
di detto parere, nel quale era indicato che quest’ultimo conteneva la consulenza del
servizio giuridico del Consiglio sulla questione della competenza comunitaria in materia di
accesso dei cittadini di paesi terzi al mercato del lavoro, ma, per il resto, rifiutava di rivedere
la propria posizione. Esso giustificava tale conferma del diniego di accesso rilevando
essenzialmente, da un lato, che i pareri del proprio servizio giuridico meritano una tutela particolare,
in quanto costituiscono un importante strumento che gli permette di essere certo
della compatibilità dei suoi atti con il diritto comunitario e di far avanzare la discussione concernente
gli aspetti giuridici controversi, e, dall’altro, che la loro divulgazione potrebbe
generare un’incertezza circa la legalità degli atti legislativi adottati a seguito di detti pareri
e, pertanto, mettere in pericolo la certezza del diritto e la stabilità dell’ordinamento giuridico
comunitario. Quanto all’esistenza dell’interesse pubblico prevalente invocato dal
sig. Turco, il Consiglio ha rilevato quanto segue:
«Il Consiglio considera che un siffatto interesse pubblico non è costituito unicamente dalla
circostanza che la divulgazione di tali documenti contenenti il parere del servizio giuridico
in questioni giuridiche sollevate in occasione del dibattito su iniziative legislative servirebbe
all’interesse generale di aumentare la trasparenza e l’apertura del processo decisionale
dell’istituzione. Di fatto tale criterio è idoneo ad essere applicato a tutte le opinioni scritte o
analoghi documenti del servizio giuridico, il che renderebbe praticamente impossibile al
Consiglio il rifiuto dell’accesso a qualsiasi parere del servizio giuridico a norma del regolamento
n. 1049/2001. Il Consiglio considera che un risultato siffatto sarebbe manifestamente
contrario alla volontà del legislatore qual è espressa all’art. 4, n. 2, del regolamento
n. 1049/2001, perché esso priverebbe tale disposizione di qualsiasi effetto utile».
Procedimento dinanzi al Tribunale e sentenza impugnata
14. Con atto introduttivo depositato nella cancelleria del Tribunale il 28 febbraio 2003
il sig. Turco ha proposto un ricorso volto all’annullamento della decisione controversa. A
sostegno di tale ricorso egli ha dedotto, con riferimento al diniego di accesso al parere giuridico
di cui trattasi, un motivo unico relativo alla violazione dell’art. 4, n. 2, del regolamento
n. 1049/2001, suddiviso in tre parti.
15. In primo luogo, in via principale, egli ha rilevato l’esistenza di un errore relativamente
al fondamento normativo della decisione controversa, poiché i pareri giuridici formulati
nel contesto dell’esame di proposte legislative sono riconducibili, a suo parere, all’eccezione
di cui all’art. 4, n. 3, del regolamento n. 1049/2001 e non a quella indicata nell’art. 4,
n. 2, di detto regolamento, che riguarderebbe soltanto pareri giuridici redatti nell’ambito di
procedure giurisdizionali.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 79
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 79
16. Tale interpretazione è stata respinta dal Tribunale, il quale l’ha dichiarata contraria
al tenore letterale di detto art. 4, n. 2, che non comporta una siffatta restrizione, e ha affermato
che essa avrebbe la conseguenza di privare di qualsiasi effetto utile la menzione della
consulenza legale tra le eccezioni previste dal regolamento n. 1049/2001, in quanto il legislatore
comunitario si sarebbe prefisso di sancire, in tale disposizione, un’eccezione relativa
alla consulenza legale distinta da quella relativa alle procedure giurisdizionali. Infatti, i pareri
giuridici redatti dal servizio giuridico del Consiglio nell’ambito di procedure giurisdizionali
sarebbero già inclusi nell’eccezione relativa alla tutela di tali procedure. Di conseguenza,
secondo il Tribunale, il Consiglio ha potuto validamente basarsi sull’eccezione relativa
alla consulenza legale prevista dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento
n. 1049/2001 al fine di determinare se esso dovesse consentire al ricorrente l’accesso al parere
giuridico di cui trattasi.
17. In secondo luogo, il sig. Turco ha dedotto, in subordine, un’errata applicazione di
detto art. 4, n. 2, in quanto il Consiglio avrebbe erroneamente considerato che i pareri emessi
dal suo servizio giuridico meritassero, per loro natura, la tutela che tale disposizione
garantisce. Inoltre, il Consiglio non dovrebbe basarsi su presunzioni di carattere generale e
potrebbe pronunciarsi sull’applicazione dell’eccezione in parola soltanto in relazione ad ogni
singola fattispecie, previo esame in concreto di ogni parere giuridico di cui è chiesta la divulgazione.
Il sig. Turco ha altresì contestato la pertinenza della necessità di tutela del parere
giuridico in parola addotta dal Consiglio nella decisione controversa.
18. Al riguardo il Tribunale ha dichiarato che la divulgazione di pareri quali il parere giuridico
di cui trattasi potrebbe, da un lato, suscitare un dubbio sulla legittimità degli atti legislativi
cui tali pareri si riferiscono e, dall’altro, mettere a repentaglio l’indipendenza del servizio
giuridico del Consiglio nel fornire la sua consulenza, cosicché il Consiglio non ha commesso
errori di valutazione nel ritenere che sussista un interesse generale alla tutela dei pareri giuridici
quale quello di cui trattasi. Il Tribunale ha inoltre rilevato che la motivazione del diniego
parziale di accesso al parere giuridico in parola nonché la decisione di divulgarne il paragrafo
introduttivo dimostrano che il Consiglio aveva esaminato il contenuto di detto parere. Esso si
è espresso al riguardo, ai punti 69-80 della sentenza impugnata, nei termini seguenti:
«69 Va rilevato che l’istituzione deve valutare in ciascun caso concreto se i documenti di cui
si richiede la divulgazione rientrino effettivamente nelle eccezioni elencate nel regolamento
n. 1049/2001 (v., per analogia, per quanto riguarda la decisione 94/90, sentenza della Corte
11 gennaio 2000, cause riunite C-174/98 P e C-189/98 P, Paesi Bassi e van der
Wal/Commissione, Racc. pag. I-1, punto 24).
70 È necessario constatare nel caso di specie che il documento in questione è un parere del
servizio giuridico del Consiglio relativo a una proposta di direttiva del Consiglio che fissa
standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.
71 Tuttavia, la circostanza che il documento in questione riguardi un parere non basta di per
sé a giustificare l’applicazione dell’eccezione invocata. Infatti, come si è ricordato in precedenza,
ogni eccezione al diritto di accesso ai documenti delle istituzioni rientranti nella sfera
di applicazione del regolamento n. 1049/2001 deve essere interpretata ed applicata in senso
restrittivo (v., in tal senso, sentenza del Tribunale 13 settembre 2000, causa T-20/99,
Denkavit Nederland/Commissione, Racc. pag. II-3011, punto 45).
72 Spetta quindi al Tribunale verificare se, nella fattispecie, il Consiglio non abbia commesso
errori di valutazione nel ritenere, ai sensi dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento
n. 1049/2001, che la divulgazione del parere giuridico in questione pregiudicherebbe la
tutela di cui può fruire tale tipo di documento.
80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 80
73 Al fine di giustificare il suo rifiuto di divulgare l’integralità del parere giuridico in questione,
il Consiglio fa valere in sostanza, nella decisione [controversa], che i pareri del suo servizio
giuridico costituiscono uno strumento importante che gli permette di essere certo in merito alla
compatibilità dei suoi atti col diritto comunitario e di far avanzare la discussione concernente
gli aspetti giuridici in questione. Esso fa valere che da una divulgazione siffatta potrebbe derivare
un’incertezza circa la legalità degli atti legislativi adottati in seguito a tali pareri. Il
Consiglio si riferisce anche alle citate conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa
all’origine della sentenza [della Corte 13 luglio 1995, causa C-350/92,] Spagna/Consiglio
[Racc. pag. I-1985] nonché all’ordinanza [del presidente del Tribunale 3 marzo 1998, causa T-
610/97 R,] Carlsen e a./Consiglio [Racc. pag. II-485], e alla sentenza [del Tribunale 8 novembre
2000, causa T-44/97,] Ghignone e a./Consiglio [Racc. PI pag. I-A-223 e II-1023].
74 È vero che tale motivazione, relativa al bisogno di tutela invocato, sembra concernere
l’insieme dei pareri giuridici del Consiglio vertenti su atti legislativi e non specificamente il
parere giuridico di cui trattasi. Nondimeno, il carattere generale della motivazione del
Consiglio è giustificato dal fatto che il richiamo di informazioni supplementari, segnatamente
riferentesi al contenuto del parere giuridico in questione, priverebbe della sua finalità l’eccezione
invocata.
75 Inoltre, benché il Consiglio abbia, in un primo tempo, rifiutato l’accesso del ricorrente al
parere giuridico di cui trattasi, dalla decisione impugnata emerge che esso ha finalmente
accettato di divulgare soltanto il paragrafo introduttivo del suddetto parere. Risulta da tale
paragrafo introduttivo che il parere stesso contiene la consulenza del servizio giuridico del
Consiglio circa la questione della competenza comunitaria in materia di accesso dei cittadini
di paesi terzi al mercato del lavoro.
76 Ne deriva che la censura secondo cui il Consiglio non avrebbe esaminato il contenuto del parere
giuridico in questione onde pronunciarsi sulla domanda di accesso litigiosa non è fondata.
77 Quanto alla pertinenza del bisogno di tutela del parere stesso, individuato dal Consiglio
nella decisione [controversa], il Tribunale ritiene che la divulgazione del parere giuridico di
cui trattasi avrebbe per effetto di rendere pubbliche le discussioni interne del Consiglio concernenti
la questione della competenza comunitaria in materia di accesso dei cittadini di
paesi terzi al mercato del lavoro e, in maniera più generale, concernenti la questione della
legalità dell’atto legislativo su cui verte.
78 La divulgazione di un parere siffatto potrebbe, quindi, alla luce della natura particolare di
tali documenti, lasciar sussistere un dubbio sulla legalità dell’atto legislativo in questione.
79 Occorre inoltre constatare che il Consiglio ha buone ragioni di ritenere che l’indipendenza
dei pareri del suo servizio giuridico, redatti su richiesta di altri servizi di tale istituzione o
ad essi quanto meno destinati, può costituire un interesse da tutelare. Il ricorrente non ha al
riguardo chiarito in quale misura, nelle circostanze della fattispecie, la divulgazione del parere
giuridico in questione contribuirebbe a proteggere il servizio giuridico del Consiglio da
illegittime influenze esterne.
80 Dato quanto precede, il Consiglio non ha commesso errori di valutazione nel ritenere che
sussistesse un interesse alla tutela del parere giuridico di cui trattasi».
19. In terzo luogo, il sig. Turco ha sostenuto, sempre in subordine, che il principio di
trasparenza costituisce un «interesse pubblico prevalente» ai sensi dell’art. 4, n. 2, del regolamento
n. 1049/2001 e che il parere giuridico di cui trattasi avrebbe dovuto in ogni caso
essere divulgato in osservanza di tale principio.
20. Relativamente a tale parte del motivo il Tribunale ha dichiarato, ai punti 82-85 della
sentenza impugnata, che il Consiglio aveva giustamente considerato che l’interesse pubbli-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 81
02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 81
co prevalente che può giustificare la divulgazione di un documento doveva, di regola, essere
tenuto distinto dai principi richiamati dal sig. Turco, soggiacenti all’intero regolamento
n. 1049/2001, esprimendosi nei termini seguenti:
«82 Va nondimeno rilevato che tali principi sono attuati dall’insieme delle disposizioni del
regolamento n. 1049/2001, come attestato dai ‘considerando’ 1 e 2 del suddetto regolamento,
i quali fanno esplicito riferimento ai principi di trasparenza, di apertura, di democrazia e
di migliore partecipazione dei cittadini al processo decisionale (...).
83 L’interesse pubblico prevalente di cui all’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001, che
può giustificare la divulgazione di un documento arrecante pregiudizio alla tutela dei pareri
giuridici, deve quindi, in linea di principio, essere distinto dai principi summenzionati soggiacenti
al suddetto regolamento. In assenza di un interesse siffatto, incombe quanto meno
al richiedente dimostrare che, alla luce delle specifiche circostanze del caso di specie, il far
valere codesti stessi principi presenta una rilevanza tale da superare il bisogno di tutela del
documento litigioso. Ciò non si verifica però nella fattispecie.
84 Inoltre, benché sia possibile che l’istituzione di cui trattasi individui essa stessa un interesse
pubblico prevalente alla divulgazione di un documento siffatto, incombe al richiedente
il quale intende avvalersi di un tale interesse farlo valere nell’ambito della sua domanda
al fine di invitare l’istituzione a pronunciarsi su tale punto.
85 Nel caso di specie, poiché il Consiglio non ha commesso errori di valutazione nel ritenere
che gli interessi pubblici prevalenti invocati dal ricorrente non fossero tali da giustificare
la divulgazione del parere giuridico in questione, non può essergli addebitato di non aver
individuato altri interessi pubblici prevalenti».
21. Il Tribunale ha pertanto respinto il ricorso nella parte relativa al diniego di accesso
al parere giuridico di cui trattasi.
Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti
22. Con le loro impugnazioni il Regno di Svezia e il sig. Turco chiedono l’annullamento
della sentenza impugnata nella parte in cui nega al sig. Turco l’accesso al parere giuridico
di cui trattasi. Il Regno di Svezia invita inoltre la Corte a statuire essa stessa sul merito
annullando la decisione controversa. Il sig. Turco chiede invece, se necessario, che la causa
sia rinviata dinanzi al Tribunale per un nuovo giudizio.
23. Con ordinanza del presidente della Corte 19 aprile 2005 le due impugnazioni sono
state riunite ai fini della trattazione scritta e orale e della sentenza.
24. Con ordinanza del presidente della Corte 5 ottobre 2005 il Regno dei Paesi Bassi è
stato autorizzato a intervenire a sostegno delle conclusioni dei ricorrenti.
25. Il Regno di Danimarca, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica di Finlandia chiedono
che la Corte voglia accogliere le impugnazioni.
26. Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, il Consiglio e la Commissione
chiedono che la Corte voglia respingere le impugnazioni.
Sulle impugnazioni
27. Le impugnazioni si fondano su cinque motivi, di cui i primi tre rinviano alle tre
parti del motivo dedotto dal sig. Turco in primo grado.
28. In primo luogo, il sig. Turco, sostenuto dal Regno dei Paesi Bassi, rileva che il
Tribunale avrebbe commesso un errore di interpretazione dell’art. 4, n. 2, secondo trattino,
del regolamento n. 1049/2001 assumendo erroneamente che i pareri giuridici relativi a proposte
legislative possono rientrare nell’ambito di applicazione di detta disposizione, mentre
essi sarebbero riconducibili soltanto all’art. 4, n. 3, di detto regolamento.
29. In secondo luogo, il Regno di Svezia e il sig. Turco, sostenuti dal Regno dei Paesi
Bassi e dalla Repubblica di Finlandia, rilevano che il Tribunale ha applicato l’art. 4, n. 2,
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secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 in modo erroneo dichiarando che i pareri
giuridici del servizio giuridico del Consiglio relativi a proposte legislative rientrano, per loro
natura, nell’eccezione prevista in tale disposizione.
30. In terzo luogo, il sig. Turco, sostenuto dal Regno dei Paesi Bassi e dalla Repubblica
di Finlandia, contesta al Tribunale di aver erroneamente interpretato e applicato la nozione
di interesse pubblico prevalente che, ai sensi dell’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001,
può giustificare la divulgazione di un documento in linea di principio rientrante nel campo
di applicazione dell’eccezione di riservatezza prevista in questa stessa disposizione per la
consulenza legale.
31. Con gli ultimi due motivi il sig. Turco, rispettivamente, invoca il principio dello
stato di diritto su cui si fonda l’ordinamento giuridico comunitario e rileva l’insufficienza
della motivazione.
Osservazioni preliminari
32. Prima di esaminare i motivi dedotti a sostegno delle impugnazioni occorre ricordare
le disposizioni pertinenti relative, da un lato, all’esame che il Consiglio deve effettuare
quando gli viene chiesta la divulgazione di un parere del suo servizio giuridico relativo ad
un procedimento legislativo e, dall’altro, alla motivazione che esso deve fornire per giustificare
un eventuale diniego di divulgazione.
L’esame che l’istituzione deve effettuare
33. Il regolamento n. 1049/2001 è volto, come indicano il suo quarto ‘considerando’ e
il suo art. 1, a conferire al pubblico un diritto di accesso il più ampio possibile ai documenti
delle istituzioni.
34. Conformemente al suo primo ‘considerando’, tale regolamento è riconducibile
all’intento espresso all’art. 1, secondo comma, UE, inserito con il Trattato di Amsterdam, di
segnare una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli
dell’Europa, in cui le decisioni siano adottate nel modo più trasparente possibile e più vicino
possibile ai cittadini. Come ricorda il secondo ‘considerando’ di detto regolamento, il
diritto di accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni è connesso al carattere democratico
di queste ultime.
35. Quando viene chiesta al Consiglio la divulgazione di un documento, quest’ultimo è
tenuto a valutare, in ciascun caso di specie, se tale documento rientri nelle eccezioni al diritto
di accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni elencate all’art. 4 del regolamento
n. 1049/2001.
36. Tenuto conto degli obiettivi perseguiti da tale regolamento, queste eccezioni devono
essere interpretate e applicate in senso restrittivo (v. sentenza 18 dicembre 2007, causa
C-64/05 P, Svezia/Commissione e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 66).
37. Con riferimento all’eccezione riguardante la consulenza legale, prevista dall’art. 4,
n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001, l’esame che il Consiglio deve effettuare
quando gli viene chiesta la divulgazione di un documento deve necessariamente svolgersi
in tre fasi, in relazione ai tre criteri previsti da tale disposizione.
38. Dapprima il Consiglio deve assicurarsi che il documento di cui viene chiesta la
divulgazione costituisca effettivamente un parere giuridico e, in caso affermativo, determinare
quali ne siano le parti effettivamente interessate, che possono rientrare quindi nel campo
di applicazione di detta eccezione.
39. Infatti, un documento non beneficia automaticamente della tutela della consulenza
legale garantita dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 per il solo
fatto di essere denominato «parere giuridico». Al di là della sua denominazione, l’istituzione
ha l’obbligo di accertarsi che tale documento consti effettivamente di un siffatto parere.
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02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 83
40. In un secondo tempo, il Consiglio deve esaminare se la divulgazione delle parti del
documento in parola individuate come concernenti pareri giuridici «arrechi pregiudizio alla
tutela» della consulenza legale.
41. Al riguardo occorre rilevare che né il regolamento n. 1049/2001 né i lavori preparatori
di quest’ultimo apportano chiarimenti sulla portata della nozione di «tutela» della consulenza
legale. Pertanto essa dev’essere interpretata alla luce del sistema e della finalità della
normativa di cui fa parte.
42. Si deve di conseguenza interpretare l’eccezione relativa alla consulenza legale prevista
nell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 come volta a tutelare
l’interesse di un’istituzione a chiedere una consulenza legale e a ricevere pareri franchi,
obiettivi e completi.
43. Il rischio di pregiudizio a tale interesse, per poter essere invocato, deve essere
ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico.
44. Infine, in una terza fase, se il Consiglio ritiene che la divulgazione di un documento
arrecherebbe pregiudizio alla tutela della consulenza legale quale sopra definita, è suo
dovere verificare che non esista un interesse pubblico prevalente che giustifichi tale divulgazione
nonostante il pregiudizio che ne deriverebbe al suo interesse a chiedere una consulenza
legale e a ricevere pareri franchi, obiettivi e completi.
45. In tale contesto il Consiglio deve ponderare l’interesse specifico da tutelare, impedendo
la divulgazione del documento in questione, con, in particolare, l’interesse generale
all’accessibilità a tale documento, tenendo conto dei vantaggi che derivano, come rileva il
secondo ‘considerando’ del regolamento n. 1049/2001, da una maggiore trasparenza, consistenti
in una migliore partecipazione dei cittadini al processo decisionale e in una maggiore
legittimità, efficienza e responsabilità dell’amministrazione nei confronti dei cittadini in un
sistema democratico.
46. Tali considerazioni hanno evidentemente una rilevanza del tutto particolare quando
il Consiglio agisce in veste di legislatore, come risulta dal sesto ‘considerando’ del regolamento
n. 1049/2001, secondo il quale un accesso più ampio ai documenti dev’essere autorizzato
per l’appunto in tali circostanze. La trasparenza, al riguardo, contribuisce a rafforzare
la democrazia permettendo ai cittadini di controllare tutte le informazioni che hanno costituito
il fondamento di un atto legislativo. Infatti, la possibilità per i cittadini di conoscere il
fondamento dell’azione legislativa è condizione per l’esercizio effettivo, da parte di questi
ultimi, dei loro diritti democratici.
47. Si deve inoltre rilevare che, ai sensi dell’art. 207, n. 3, secondo comma, CE, il
Consiglio deve definire i casi in cui si deve considerare che esso deliberi in qualità di legislatore
onde consentire, in tali casi, un maggior accesso ai documenti. Similmente, l’art. 12,
n. 2, del regolamento n. 1049/2001 riconosce la specificità del procedimento legislativo nel
disporre che i documenti redatti o ricevuti nel corso delle procedure per l’adozione di atti
giuridicamente vincolanti negli o per gli Stati membri dovrebbero essere resi direttamente
accessibili.
La motivazione richiesta
48. Ogni decisione del Consiglio adottata sulla base delle eccezioni elencate all’art. 4
del regolamento n. 1049/2001 deve essere motivata.
49. Se il Consiglio decide di negare l’accesso a un documento di cui gli è stata chiesta
la divulgazione, esso deve, in primo luogo, spiegare come l’accesso a tale documento potrebbe
arrecare concretamente ed effettivamente pregiudizio all’interesse tutelato da un’eccezione
prevista all’art. 4 del regolamento n. 1049/2001 che tale istituzione invoca e, in secondo
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luogo, nei casi indicati ai nn. 2 e 3 di tale articolo, verificare che non sussista un interesse
pubblico prevalente che giustifichi comunque la divulgazione del documento in parola.
50. Il Consiglio può, in linea di principio, basarsi al riguardo su presunzioni di carattere
generale che si applicano a determinate categorie di documenti, in quanto a domande di
divulgazione riguardanti documenti della stessa natura possono applicarsi considerazioni di
ordine generale analoghe. È suo obbligo tuttavia verificare in ogni singolo caso se le considerazioni
di ordine generale normalmente applicabili a un determinato tipo di documenti
possano essere effettivamente applicate ad un particolare documento di cui sia chiesta la
divulgazione.
51. I motivi dedotti dai ricorrenti a sostegno delle loro impugnazioni devono essere
esaminati tenendo presenti tali considerazioni in diritto.
52. Occorre in primo luogo esaminare il secondo motivo.
Sul secondo motivo
53. Il secondo motivo si divide in tre parti, che si riferiscono tutte ad un’interpretazione
errata, da parte del Tribunale, dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento
n. 1049/2001. Con la prima parte i ricorrenti rilevano che il Tribunale ha violato tale disposizione
per non aver correttamente verificato se il Consiglio avesse esaminato il documento
di cui trattasi in modo sufficientemente dettagliato prima di rifiutarne la divulgazione. Con
la seconda parte i ricorrenti imputano al Tribunale di aver ammesso una motivazione del
diniego espressa in termini generali riguardanti tutta la consulenza legale del servizio giuridico
del Consiglio vertente su atti legislativi, e non specificamente il parere giuridico controverso.
Con la terza parte i ricorrenti sostengono che il Tribunale avrebbe violato la detta
disposizione ammettendo l’esistenza di un’esigenza generale di riservatezza connessa alla
consulenza legale relativa a questioni legislative.
54. Il Consiglio ritiene che la prima e la seconda parte del presente motivo traggano origine
dalla confusione tra, da un lato, il principio secondo il quale ogni documento dovrebbe
essere valutato sulla base del suo contenuto e, dall’altro, la possibilità di invocare motivi di
carattere generale. Per quanto riguarda la terza parte di tale motivo il Consiglio mantiene la
posizione che aveva difeso dinanzi al Tribunale, vale dire che sussiste un’esigenza generale
di riservatezza connessa alla consulenza legale relativa a questioni legislative, poiché, da un
lato, la divulgazione di pareri giuridici potrebbe suscitare dubbi sulla legalità dell’atto legislativo
interessato e, dall’altro, la divulgazione sistematica di tali pareri porrebbe a repentaglio
l’indipendenza del suo servizio giuridico.
55. Riguardo alla prima parte del presente motivo si deve constatare che il Tribunale
ha potuto legittimamente dedurre dal fatto che il Consiglio abbia, da un lato, accettato di
divulgare il paragrafo introduttivo del parere giuridico in parola e, dall’altro, negato l’accesso
alla restante parte di tale parere invocando la tutela della consulenza legale che tale istituzione
aveva effettivamente esaminato la domanda di divulgazione di detto parere giuridico
alla luce del suo contenuto e che aveva pertanto completato perlomeno la prima fase dell’esame
descritto ai punti 37-47 della presente sentenza. Si deve pertanto respingere la prima
parte del presente motivo.
56. Rispetto alla seconda parte di quest’ultimo, il fatto che il Tribunale abbia ammesso la
presa in considerazione, da parte del Consiglio, di motivi di carattere generale per giustificare
il diniego parziale di accesso al parere giuridico in questione non può, come risulta dal punto 50
della presente sentenza, di per sé invalidare l’esame di detto diniego effettuato dal Tribunale.
57. Si deve tuttavia constatare, da un lato, che quest’ultimo non ha considerato necessario
che il Consiglio verificasse se i motivi di carattere generale da esso addotti fossero
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effettivamente applicabili al parere giuridico di cui gli era stata chiesta la divulgazione.
Dall’altro, come risulta dalle considerazioni seguenti in merito alla terza parte del presente
motivo, il Tribunale ha erroneamente considerato che esista un’esigenza generale di riservatezza
connessa alla consulenza legale del servizio giuridico del Consiglio relativa a questioni
legislative.
58. Infatti, nessuno dei due argomenti sollevati al riguardo dal Consiglio e ripresi dal
Tribunale ai punti 78 e 79 della sentenza impugnata è idoneo a giustificare tale affermazione.
59. Con riferimento, in primo luogo, al timore espresso dal Consiglio che la divulgazione
di un parere del suo servizio giuridico relativo ad una proposta legislativa possa suscitare
dubbi sulla legittimità dell’atto legislativo interessato si deve rilevare che proprio la trasparenza
su tale punto, nel consentire che i diversi punti di vista vengano apertamente
discussi, contribuisce a conferire alle istituzioni una maggiore legittimità agli occhi dei cittadini
europei e ad accrescere la loro fiducia. Di fatto, è piuttosto la mancanza di informazioni
e di dibattito che può suscitare dubbi nei cittadini, non solo circa la legittimità di un
singolo atto, ma anche circa la legittimità del processo decisionale nel suo complesso.
60. Peraltro, il rischio che i cittadini europei maturino dubbi circa la legittimità di un
atto adottato dal legislatore comunitario per il fatto che il servizio giuridico del Consiglio
abbia emanato un parere negativo riguardo a tale atto nella maggior parte dei casi non sorgerebbe
se la motivazione di detto atto fosse rafforzata evidenziando le ragioni per le quali
tale parere negativo non è stato seguito.
61. Si deve conseguentemente constatare che un richiamo generale e astratto al rischio
che la divulgazione dei pareri giuridici relativi a procedimenti legislativi possa suscitare dubbi
circa la legittimità di atti legislativi non può bastare ad integrare un pregiudizio alla tutela
della consulenza legale ai sensi dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento
n. 1049/2001 e non può di conseguenza giustificare un diniego di divulgazione di tali pareri.
62. Per quanto riguarda, in secondo luogo, l’argomento del Consiglio secondo il quale
l’indipendenza del suo servizio giuridico sarebbe messa in pericolo da una possibile divulgazione
dei pareri giuridici emessi da quest’ultimo nell’ambito di procedimenti legislativi, si
deve constatare che tale timore costituisce proprio il fulcro degli interessi tutelati dall’eccezione
prevista nell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001. Infatti, come
risulta dal punto 42 della presente sentenza, tale eccezione è volta appunto a tutelare l’interesse
di un’istituzione a domandare consulenza legale e a ricevere pareri franchi, obiettivi e
completi.
63. Si deve tuttavia rilevare che il Consiglio si è basato, al riguardo, sia dinanzi al
Tribunale sia dinanzi alla Corte, su semplici affermazioni non suffragate in alcun modo da
argomentazioni circostanziate. Orbene, alla luce delle considerazioni che seguono, non è
ravvisabile alcun rischio effettivo, ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico,
di pregiudizio a detto interesse.
64. Con riferimento a eventuali pressioni esercitate al fine di influenzare il contenuto
dei pareri espressi dal servizio giuridico del Consiglio, è sufficiente rilevare che, anche supponendo
che i membri di tale servizio giuridico subiscano a tal fine pressioni illegittime,
sarebbero queste pressioni, e non la possibilità di divulgazione dei pareri giuridici, a pregiudicare
l’interesse di tale istituzione a ricevere pareri giuridici franchi, obiettivi e completi, e
spetterebbe evidentemente al Consiglio adottare le misure necessarie per porvi fine.
65. Riguardo all’argomento della Commissione secondo il quale potrebbe essere difficile,
per il servizio giuridico di un’istituzione che abbia inizialmente espresso un parere
negativo in merito ad un atto legislativo in corso di adozione, difendere successivamente la
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legittimità di tale atto una volta pubblicato questo parere, si deve constatare che un argomento
talmente generico non può giustificare un’eccezione alla trasparenza prevista dal regolamento
n. 1049/2001.
66. Alla luce di tali considerazioni non è ravvisabile alcun rischio effettivo, ragionevolmente
prevedibile e non meramente ipotetico, che la divulgazione dei pareri del servizio giuridico
del Consiglio emessi nell’ambito di procedimenti legislativi possa pregiudicare la
tutela della consulenza legale ai sensi dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento
n. 1049/2001.
67. In ogni caso, qualora tale divulgazione potesse pregiudicare l’interesse alla tutela
dell’indipendenza del servizio giuridico del Consiglio, tale rischio dovrebbe essere ponderato
rispetto agli interessi pubblici prevalenti soggiacenti al regolamento n. 1049/2001.
Costituisce un siffatto interesse pubblico prevalente, come ricordato ai punti 45-47 della presente
sentenza, il fatto che la divulgazione dei documenti contenenti il parere del servizio
giuridico di un’istituzione su questioni giuridiche sorte nel corso del dibattito su iniziative
legislative possa aumentare la trasparenza e l’apertura del procedimento legislativo e rafforzare
il diritto democratico dei cittadini europei di controllare le informazioni che hanno
costituito il fondamento di un atto legislativo, come indicato, in particolare, nei ‘considerando’
secondo e sesto di detto regolamento.
68. Risulta dalle considerazioni innanzi esposte che il regolamento n. 1049/2001 impone,
in linea di principio, un obbligo di divulgare i pareri del servizio giuridico del Consiglio
relativi ad un procedimento legislativo.
69. Tale constatazione non impedisce tuttavia che la divulgazione di un parere giuridico
specifico, reso nell’ambito di un procedimento legislativo, ma avente contenuto particolarmente
sensibile o portata particolarmente estesa che travalichi l’ambito del procedimento
legislativo di cui trattasi, venga negata richiamandosi alla tutela della consulenza legale. In
tali circostanze, l’istituzione interessata dovrebbe motivare il rifiuto in modo circostanziato.
70. In tale contesto si deve inoltre ricordare che, ai sensi dell’art. 4, n. 7, del regolamento
n. 1049/2001, un’eccezione può essere applicata unicamente al periodo nel quale la
protezione è giustificata sulla base del contenuto del documento.
71. Alla luce di quanto precede, risulta che erroneamente il Tribunale ha considerato,
nei punti 77-80 della sentenza impugnata, che la decisione controversa poteva essere legittimamente
motivata e giustificata da un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza
legale relativa a questioni legislative.
72. Ne consegue che le parti seconda e terza del presente motivo sono fondate. La sentenza
impugnata deve essere pertanto annullata nella parte riguardante il diniego di accesso
al parere giuridico di cui trattasi e nella parte in cui condanna il sig. Turco e il Consiglio a
sopportare, ciascuno, la metà delle spese.
Sul terzo motivo
73. Dalle considerazioni relative al secondo motivo risulta che anche il terzo motivo è
fondato, e che pertanto anche in base ad esso si giustifica l’annullamento della sentenza impugnata
nella parte riguardante il diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi e nella parte
in cui condanna il sig. Turco e il Consiglio a sopportare, ciascuno, la metà delle spese.
74. Come è stato dichiarato ai punti 44-47 nonché 67 della presente sentenza, il
Tribunale, nel dichiarare che l’interesse pubblico prevalente che può giustificare la divulgazione
di un documento deve essere di regola distinto dai principi soggiacenti a tale regolamento,
ha proceduto a un’interpretazione erronea dell’art. 4, n. 2, del regolamento
n. 1049/2001.
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75. Infatti, i principi che ispirano un atto legislativo sono manifestamente quelli alla
luce dei quali devono essere applicate le sue disposizioni.
Sui motivi primo, quarto e quinto
76. Poiché le parti seconda e terza del secondo motivo nonché il terzo motivo sono
accolti e giustificano l’annullamento della sentenza impugnata nella parte che riguarda il
diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi e le spese relative al ricorso sostenute dal
sig. Turco e dal Consiglio, non occorre esaminare i motivi primo, quarto e quinto dedotti dal
sig. Turco a sostegno della sua impugnazione, dal momento che questi ultimi non sono idonei
a comportare un annullamento di tale sentenza avente portata più ampia.
Sulle conseguenze dell’annullamento parziale della sentenza impugnata
77. Ai sensi dell’art. 61, primo comma, dello Statuto della Corte di giustizia, quest’ultima,
in caso di annullamento della decisione del Tribunale, può statuire definitivamente sulla
controversia, qualora lo stato degli atti lo consenta. È quanto avviene nel caso di specie.
78. La decisione controversa è stata adottata sulla scorta di un duplice errore, riguardante,
da un lato, l’esistenza di un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza
legale relativa a procedimenti legislativi, tutelata dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del
regolamento n. 1049/2001, e, dall’altro, la tesi secondo la quale i principi soggiacenti a tale
regolamento non possono essere considerati un «interesse pubblico prevalente» ai sensi dell’art.
4, n. 2, di detto regolamento.
79. Orbene, come risulta dai punti 40-47, 56-68 nonché 74 e 75 della presente sentenza,
sono fondati i motivi dedotti dal sig. Turco in primo grado, secondo i quali il Consiglio,
da un lato, ha erroneamente considerato che esiste un’esigenza generale di riservatezza connessa
alla consulenza legale del suo servizio giuridico relativa a procedimenti legislativi,
tutelata dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001, e, dall’altro, non ha
legittimamente verificato l’esistenza, nel caso di specie, di un interesse pubblico prevalente.
80. Ne consegue che la decisione controversa deve essere annullata.
Sulle spese
81. Ai sensi dell’art. 122, primo comma, del regolamento di procedura, quando l’impugnazione
è accolta e la controversia viene definitivamente decisa dalla Corte, quest’ultima
statuisce sulle spese. L’art. 69 del medesimo regolamento, applicabile al procedimento di
impugnazione ai sensi dell’art. 118 dello stesso, stabilisce nel suo n. 2 che la parte soccombente
è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Il n. 4, primo comma, del medesimo
art. 69 stabilisce che gli Stati membri e le istituzioni intervenuti nella causa sopportano
le proprie spese.
82. Poiché le impugnazioni sono state accolte, il Consiglio deve essere condannato a
sopportare le spese sostenute in tali procedimenti dal Regno di Svezia e dal sig. Turco, che
ne hanno fatto domanda.
83. Il Consiglio e le altre parti del procedimento di impugnazione sopporteranno le proprie
spese relative al procedimento stesso.
84. Poiché la Corte ha peraltro accolto il ricorso proposto dal sig. Turco dinanzi al
Tribunale, il Consiglio deve essere altresì condannato a sopportare le spese sostenute nel
procedimento di primo grado dal sig. Turco, che ne ha fatto domanda.
85. Il Consiglio sopporterà le proprie spese relative al procedimento di primo grado.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce:
1) La sentenza del Tribunale di primo grado delle Comunità europee 23 novembre 2004,
causa T-84/03, Turco/Consiglio, è annullata nella parte che riguarda la decisione del
Consiglio dell’Unione europea 19 dicembre 2002 che ha negato al sig. Turco l’accesso al
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 89
parere del servizio giuridico del Consiglio n. 9077/02, relativo ad una proposta di direttiva
del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati
membri, e nella parte in cui condanna il sig. Turco e il Consiglio a sopportare ciascuno la
metà delle spese.
2) La decisione del Consiglio dell’Unione europea 19 dicembre 2002, che ha negato al
sig. Turco l’accesso al parere del servizio giuridico del Consiglio n. 9077/02, è annullata.
3) Il Consiglio dell’Unione europea è condannato a sopportare le spese sostenute dal Regno
di Svezia nel procedimento di impugnazione nonché quelle sostenute dal sig. Turco sia in
detto procedimento sia in quello di primo grado conclusosi con la citata sentenza del
Tribunale di primo grado delle Comunità europee.
4) Il Regno di Danimarca, il Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica di Finlandia, il Regno
Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, il Consiglio dell’Unione europea nonché la
Commissione delle Comunità europee sopporteranno le proprie spese relative al procedimento
di impugnazione.
5) Il Consiglio dell’Unione europea sopporterà le proprie spese relative al procedimento di
primo grado.
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Valutazione di impatto ambientale di progetti
pubblici e privati
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sesta Sezione,
ordinanza del 10 luglio 2008 nella causa C-156/07)
Tre sono i principi interpretativi espressi dalla Corte di Giustizia Europea
con ordinanza emanata in data 10 luglio 2008 a seguito del ricorso in appello
presentato dal signor A. ed altri contro il Comune di Milano e nei confronti
di Euromilano Spa e Metropolitana milanese Spa, per la riforma della sentenza
di primo grado emessa dal Tar Lombardia.
Col ricorso in primo grado il signor Aiello ed altri impugnavano il progetto
relativo alla realizzazione della strada interquartiere nord di Milano
poiché ritenevano il progetto non conforme al diritto comunitario per mancanza
della valutazione dell’impatto ambientale dello stesso. I profili di contrarietà
al diritto comunitario si ravvisavano nella circostanza che tale progetto
era considerato dal Comune di Milano rientrante nell’allegato I e non già
nell’allegato III della direttiva 85/337. L’allegato I considera i progetti di
strade urbane sottoponibili a VIA solo qualora superino i 10 km. La strada
oggetto del ricorso de quo non raggiungeva tale lunghezza arrestandosi invece
a 1600 metri. I ricorrenti sostenevano che la realizzazione della strada in
questione dovesse essere sottoposta a VIA in quanto inserita in un progetto
piu’ ampio di ristrutturazione e di collegamento di quartieri. E che quindi non
doveva prendersi a riferimento unico la lunghezza della singola strada di
1600 metri ma anche quella delle altre strade ad essa collegate; sicchè, il criterio
da applicare non sarebbe quello della singola strada previsto dall’allegato
I ma bensì quello del cumulo delle lunghezze delle diverse strade previsto
dall’allegato III. Tale criterio del cumulo però, sebbene previsto dalla
direttiva 85/337, non è stato recepito dal legislatore italiano che con DPR 12
aprile 1996 lo ha escluso dai criteri obbligatori per la sottoposizione di progetti
pubblici e privati a VIA .
Il Tar Lombardia riteneva tali rilievi infondati. Il signor A. ed altri impugnavano
poi tale determinazione di rigetto del ricorso di fronte al Consiglio
di Stato che, con decisione 24 ottobre 2006 rimetteva alla CGE l’interpretazione
ai sensi dell’art. 234 del trattato CE della direttiva del Consiglio 27 giugno
1985 n. 337, come modificata dalla n. 97 del marzo 1997, riguardante la
valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e privati.
I tre punti su cui il Consiglio di Stato sollecita il dictum della CGE sono
i seguenti:
1. Se i progetti da sottoporre a VIA di cui alla art. 2 della citata direttiva siano
definiti esaurientemente nell’allegato I e II di essa, ovvero l’elenco di essi
contenuto in tali allegati sia da ritenersi esemplificativo (tassatività od esemplificatività
dell’elenco di progetti pubblici o privati da sottoporre a VIA?).
2. Se l’art. 4 della stessa direttiva attribuisca obbligo o solo facoltà agli Stati
membri di prevedere VIA per i progetti pubblici e privati rientranti nell’alle-
90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 90
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 91
gato II, tenendo conto dei criteri stabiliti dall’allegato III (quando uno Stato
membro deve procedere a VIA in base ad un esame caso per caso od in base
alle soglie e criteri stabiliti dall’allegato III deve ritenere tali parametri assolutamente
vincolanti?).
3. Se l’art. 1 del D.P.R. 12 aprile 1996 emanato per il recepimento dell’art. 4
della direttiva 85/337 e del suo allegato III sia da considerarsi adeguato e
conforme al testo dispositivo di tale direttiva nonostante abbia escluso dall’allegato
II, e quindi dai criteri selettivi per sottoporre a VIA i progetti pubblici
e privati, il criterio del cumulo del progetto con altri progetti ad esso
connessi (il criterio del cumulo del progetto con altri era di facoltativo recepimento
per gli Stati membri?).
In merito alla prima questione la CGE ritiene che l’elenco contenuto
negli allegati I e II della direttiva 85/337 sia tassativo. I progetti pubblici e
privati sono da sottoporre a VIA alle condizioni ex art. 4 fatti salvi gli art. 1
nn. 4 e 5 ed art. 2 n. 3.
In merito alla seconda questione la CGE ritiene che gli Stati devono tenere
conto dei criteri stabiliti dall’allegato III sia quando esso consenta allo
Stato un esame caso per caso, ovvero quando tale allegato prescriva soglie o
criteri predeterminati.
Infine, con riferimento all’ultima questione, la CGE chiarisce come gli
Stati debbano doverosamente rifarsi ai criteri dell’allegato III della direttiva
85/337 per stabilire la sottoponibilità a VIA di progetti, o rinviando a tali
norme ovvero recependo puntualmente la normativa comunitaria. È indifferente
se gli Stati si rifacciano per espresso o per implicito rinvio a tali criteri,
il punto è che la rilevanza di essi è perfettamente vincolante.
Dott.ssa Giulia Micio(*)
Ordinanza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sesta Sezione, 10 luglio
2008 nella causa C-156/07 – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di
Stato (Italia) il 21 marzo 2007 – Salvatore Aiello e a./Comune di Milano, Sindaco di Milano,
Comitato tecnico-scientifico per l’emergenza del trafficio e della mobilità nella città di
Milano, Provincia di Milano, Regione Lombardia, Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti, Ministero dell’Interno, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Euromilano SpA,
Metropolitana milanese SpA. (Avvocato dello Stato G. Fiengo – AL 49205/06).
Rinvio pregiudiziale – Direttiva 85/337/CEE – Valutazione dell’impatto ambientale di determinati
progetti pubblici e privati – Realizzazione di una strada a Milano.
(…Omissis)
Nel merito
26. Considerando che la soluzione delle tre questioni proposte non dà adito ad alcun
ragionevole dubbio, la Corte, in conformità all’art. 104, n. 3, secondo comma, del suo rego-
(*) Dottore in giurisprudenza.
02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 91
lamento di procedura, ha informato il giudice del rinvio che essa si proponeva di statuire con
ordinanza motivata e ha invitato gli interessati di cui all’art. 23 dello Statuto della Corte di
giustizia a presentare le loro osservazioni eventuali al riguardo.
27. I signori Aiello e altri e la Commissione delle Comunità europee hanno aderito
all’invito della Corte. La Commissione ha indicato nella sua risposta di non aver obiezioni a
che la Corte statuisse con ordinanza motivata. I signori Aiello e altri hanno invocato argomenti
simili a quelli svolti nelle loro osservazioni scritte e hanno chiesto che venisse fissata
un’udienza. Tuttavia, tali elementi non inducono la Corte a discostarsi dall’iter procedurale
deciso.
– Sulla prima questione
28. Con la prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 2, n. 1, della
direttiva 85/337 debba essere interpretato nel senso che i progetti per i quali si prevede un
notevole impatto ambientale, ma che non sono citati agli allegati I e II di tale direttiva, devono
cionondimeno essere sottoposti a valutazione del loro impatto ambientale in conformità
a quanto previsto da detta direttiva.
29. L’art. 2, n. 1, della direttiva 85/337 prevede che i progetti per i quali si prevede un
notevole impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro
ubicazione, e per i quali è pertanto prevista una valutazione del loro impatto, sono definiti
all’art. 4 di tale direttiva.
30. Detto art. 4 prevede, al n. 1, che i progetti inclusi nell’allegato I della direttiva
85/337 devono essere sottoposti ad una valutazione dell’impatto ambientale e, al n. 2, che,
per i progetti inclusi nell’allegato II di tale direttiva, spetta agli Stati membri stabilire se essi
debbano essere sottoposti a una tale valutazione sulla base di determinate soglie o di determinati
criteri.
31. Si deve parimenti ricordare che tale articolo fa salva, nelle due ipotesi richiamate al
punto precedente, l’applicazione dell’art. 2, n. 3, della direttiva 85/337, che permette agli
Stati membri, in casi eccezionali, di esentare, in tutto o in parte, un progetto specifico dalla
necessità di una valutazione.
32. Inoltre, l’art. 1 della direttiva 85/337 stabilisce, al n. 4, che quest’ultima non riguarda
i progetti destinati a scopi di difesa nazionale e, al n. 5, che essa non si applica ai progetti
adottati nei dettagli mediante un atto legislativo nazionale specifico, inteso che gli obiettivi
perseguiti dalla direttiva vengono considerati raggiunti tramite la procedura legislativa.
33. In ogni caso, si deve parimenti rammentare che l’ambito d’applicazione della direttiva
85/337 è vasto e il suo obiettivo di portata molto ampia (v. sentenze 24 ottobre 1996,
causa C-72/95, Kraaijeveld e a., Racc. pag. I-5403, punto 31, nonché 16 settembre 2004,
causa C-227/01, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-8253, punto 46), ed è in questo spirito
che deve essere attuata.
34. Di conseguenza, considerati i punti 29-32 della presente ordinanza, occorre risolvere
la prima questione proposta dichiarando che l’art. 2, n. 1, della direttiva 85/337 deve essere
interpretato nel senso che esso non richiede che tutti i progetti per i quali si prevede un notevole
impatto ambientale siano sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale
in conformità a quanto previsto da questa direttiva, bensì che debbano esserlo solo quelli
che sono citati agli allegati I e II di detta direttiva, nelle condizioni previste all’art. 4 di quest’ultima
e fatti salvi gli artt. 1, nn. 4 e 5, nonché 2, n. 3, della medesima direttiva.
– Sulla seconda questione
35. Con la seconda questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se i criteri di selezione
menzionati all’allegato III della direttiva 85/337 siano vincolanti per gli Stati membri
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quando essi stabiliscono, in applicazione dell’art. 4, n. 2, di questa direttiva, per i progetti
rientranti nell’allegato II della medesima, sulla base di un esame caso per caso o sulla base
delle soglie o dei criteri da essi fissati, se tali progetti debbano essere sottoposti alla procedura
di valutazione dell’impatto ambientale.
36. A questo proposito, la Corte ha già affermato che, se gli Stati membri hanno la possibilità
di fissare i criteri e/o le soglie che consentono di stabilire quali progetti rientranti nell’allegato
II della direttiva 85/337, nella sua versione originaria, debbano essere oggetto di
una tale valutazione, il loro margine discrezionale trova il proprio limite nell’obbligo, enunciato
all’art. 2, n. 1, di detta direttiva, di sottoporre ad una valutazione d’impatto i progetti
idonei ad avere un notevole impatto ambientale, segnatamente per la loro natura, le loro
dimensioni o la loro ubicazione (v., in particolare, sentenza 23 novembre 2006, causa C-
486/04, Commissione/Italia, Racc. pag. I-11025, punto 53).
37. Ai sensi dell’art. 4, n. 2, della direttiva 85/337, spetta agli Stati membri stessi determinare
in quali casi i progetti elencati all’allegato II di questa direttiva devono essere sottoposti
a valutazione dell’impatto ambientale, mentre quelli che figurano all’allegato I di quest’ultima
sono sempre oggetto di tale procedura di valutazione.
38. La medesima disposizione lascia agli Stati membri due possibilità. La prima consiste
nel decidere caso per caso se un progetto indicato all’allegato II debba essere sottoposto
a tale valutazione. La seconda consiste nel determinare, in modo generale ed astratto, in funzione
di soglie o criteri, i progetti figuranti in tale allegato che saranno obbligatoriamente
oggetto di detta valutazione.
39. Risulta dal testo medesimo del suo art. 4, n. 3, che la direttiva 85/337 impone agli
Stati membri, in entrambi i casi, l’obbligo di tener conto dei criteri di selezione rilevanti definiti
al suo allegato III, vale a dire di quelli fra tali criteri che, tenuto conto delle caratteristiche
del progetto interessato, devono essere applicati.
40. Pertanto, occorre risolvere la seconda questione proposta nel senso che i criteri di selezione
rilevanti citati all’allegato III della direttiva 85/337 sono vincolanti per gli Stati membri
quando stabiliscono – per i progetti rientranti nell’allegato II di quest’ultima, sulla base di un
esame caso per caso ovvero sulla base delle soglie o dei criteri che essi fissano – se il progetto
interessato debba essere sottoposto alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale.
– Sulla terza questione
41. Con la terza questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, alla Corte di precisare
se la normativa italiana di cui trattasi nella causa principale assicuri una trasposizione
corretta dell’art. 4 di detta direttiva 85/337, laddove tale normativa non prevede il criterio del
cumulo con altri progetti, pur menzionato all’allegato III di tale direttiva, in quanto criterio
di selezione da prendere in considerazione quando l’autorità nazionale competente determina
se progetti rientranti nell’allegato II della detta direttiva debbano essere sottoposti alla
valutazione dell’impatto ambientale.
42. Secondo una giurisprudenza costante, non spetta alla Corte pronunciarsi, nell’ambito
di un procedimento avviato in forza dell’art. 234 CE, sulla compatibilità di norme di
diritto interno con le disposizioni del diritto comunitario. Per contro, la Corte è competente
a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi d’interpretazione propri del diritto comunitario
che gli consentano di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa
comunitaria (sentenza 6 marzo 2007, cause riunite C-338/04, C-359/04 e C-360/04,
Placanica e a., Racc. pag. I-1891, punto 36 e giurisprudenza ivi citata).
43. Nella fattispecie, emerge dalla decisione di rinvio che il giudice nazionale cerca di
sapere se gli Stati membri, quando traspongono la direttiva 85/337 nell’ordinamento giuri-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 93
02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 93
dico interno, siano tenuti ad adottare una disposizione che ribadisca l’obbligo di rispettare il
criterio del cumulo del progetto interessato con altri progetti, menzionato all’allegato III di tale
direttiva, quando si tratti di valutare se un progetto rientrante nell’allegato II della medesima
debba essere sottoposto alla valutazione dell’impatto ambientale prevista da detta direttiva.
44 . A tale riguardo, occorre anzitutto ricordare che ciascuno degli Stati membri destinatari
di una direttiva ha l’obbligo di adottare, nell’ambito del proprio ordinamento giuridico,
tutti i provvedimenti necessari a garantire la piena efficacia della direttiva, conformemente
allo scopo che essa persegue (sentenza 30 novembre 2006, causa C-32/05,
Commissione/Lussemburgo, Racc. pag. I-11323, punto 32).
45. La Corte ha parimenti ritenuto che le disposizioni di una direttiva devono essere
attuate con efficacia cogente incontestabile, con la specificità, la precisione e la chiarezza
necessarie per garantire pienamente la certezza del diritto, la quale esige che, qualora la
direttiva miri ad attribuire diritti ai singoli, i destinatari siano posti in grado di conoscere la
piena portata dei loro diritti (sentenza 4 dicembre 1997, causa C-207/96,
Commissione/Italia, Racc. pag. I-6869, punto 26).
46. Nella fattispecie, l’art. 4 della direttiva 85/337 deve essere interpretato nel senso che
esso impone all’autorità competente di tener conto dei criteri di selezione rilevanti menzionati
all’allegato III di detta direttiva, quando si tratta di valutare se un progetto rientrante nell’allegato
II della medesima debba essere sottoposto a valutazione dell’impatto ambientale,
o quando tale valutazione viene eseguita caso per caso, ovvero quando lo Stato membro interessato
ha optato per una regolamentazione generale.
47. Quando uno Stato membro sceglie di determinare in modo generale e astratto, come
gli è consentito dalla direttiva 85/337, i progetti rientranti nell’allegato II di questa direttiva
che dovranno essere sottoposti a valutazione dell’impatto ambientale, esso è tenuto a redigere
l’elenco di tali progetti applicando, secondo i casi, l’uno o l’altro dei diversi criteri rilevanti
di detto allegato III. Il criterio del cumulo può così, ove sia rilevante, essere utilizzato
per sottoporre un tipo di progetto a una tale valutazione, tenuto conto della realizzazione del
medesimo con altri progetti, eventualmente prendendo in considerazione la realizzazione del
complesso di tali progetti durante un periodo di tempo determinato.
48. Quando invece uno Stato membro opta, in tutto o in parte, per la determinazione caso
per caso dei progetti rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337 che devono essere sottoposti
ad una valutazione dell’impatto ambientale, esso è tenuto a fare in modo che le autorità
nazionali competenti tengano conto dei diversi criteri elencati all’allegato III di questa direttiva
in quanto siano rilevanti con riferimento alle caratteristiche del progetto interessato.
49. A tale scopo, detto Stato membro può rinviare, mediante la legislazione nazionale,
ai criteri dell’allegato III. Gli è anche possibile integrare tali criteri nella sua legislazione,
prevedendo espressamente che le autorità competenti dovranno farvi riferimento per determinare,
caso per caso, se un progetto rientrante nell’allegato II della direttiva 85/337 debba
essere oggetto di valutazione dell’impatto ambientale.
50. In ogni caso, quando uno Stato membro sceglie questo modo di procedere, esso non
può, senza venir meno ai suoi obblighi comunitari, escludere esplicitamente o implicitamente
uno o più criteri dell’allegato III della direttiva 85/337, perché ciascuno di essi può, a
seconda del progetto interessato rientrante nell’allegato II di questa direttiva, essere rilevante
per determinare se debba essere avviata una procedura di valutazione dell’impatto
ambientale. Una tale esclusione potrebbe, infatti, a seconda delle caratteristiche dell’ordinamento
giuridico nazionale di cui si tratta, dissuadere l’autorità nazionale competente dal
prendere in considerazione il criterio o i criteri in questione o addirittura impedirle di farlo.
94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 94
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 95
51. Di conseguenza, occorre risolvere la terza questione proposta dichiarando che,
quando uno Stato membro opta per determinare caso per caso quali progetti tra quelli rientranti
nell’allegato II della direttiva 85/337 devono essere sottoposti a valutazione dell’impatto
ambientale, esso deve, o rinviando nelle sue norme nazionali all’allegato III di questa
direttiva, o riproducendo nelle sue norme nazionali i criteri elencati dalla stessa direttiva,
fare in modo che il complesso di tali criteri possa effettivamente essere considerato qualora
l’uno o l’altro di essi sia rilevante per il progetto interessato, senza poterne escludere alcuno
esplicitamente o implicitamente.
Sulle spese
52. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara:
1) L’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la
valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata
dalla direttiva del Consiglio 3 marzo 1997, 97/11/CE, deve essere interpretato nel senso
che esso non richiede che tutti i progetti destinati ad avere un notevole impatto ambientale
siano sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale prevista da questa
direttiva, bensì che devono esserlo solo quelli che sono citati agli allegati I e II di detta direttiva,
nelle condizioni previste all’art. 4 di quest’ultima e fatti salvi gli artt. 1, nn. 4 e 5, e 2,
n. 3, della medesima direttiva.
2) I criteri di selezione rilevanti citati all’allegato III della direttiva 85/337, come modificata
dalla direttiva 97/11, sono vincolanti per gli Stati membri quando stabiliscono – per i progetti
rientranti all’allegato II di quest’ultima, sulla base di un esame caso per caso ovvero
sulla base delle soglie o dei criteri che essi fissano – se il progetto interessato debba essere
sottoposto alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale.
3) Quando uno Stato membro opta per determinare caso per caso quali progetti tra quelli
rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 97/11, devono
essere sottoposti a valutazione dell’impatto ambientale, esso deve, o rinviando nelle sue
norme nazionali all’allegato III di questa direttiva, o riproducendo nelle sue norme nazionali
i criteri elencati dalla stessa direttiva, fare in modo che il complesso di tali criteri possa
effettivamente essere considerato qualora l’uno o l’altro di essi sia rilevante per il progetto
interessato, senza poterne escludere alcuno esplicitamente o implicitamente.
02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 95
96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Applicazione del principio “chi inquina paga”.
L’onere finanziario dello smaltimento dei rifiuti
causati dal naufragio di una petroliera
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza
del 24 giugno 2008 nella causa C-188/07)
La sentenza pronunciata il 24 giugno 2008 dalla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee in Grande Sezione, sul rinvio pregiudiziale promosso
dalla III Sezione della Corte di Cassazione francese, con ordinanza del 3 aprile
2007, contiene una serie di quaestiones ex art. 234 TCE relative alla qualificazione
di rifiuto, ai sensi della direttiva 75/442, dell’olio pesante venduto
come combustibile da solo o miscelato a sedimenti e acqua in seguito al
naufragio di una petroliera e la conseguente possibilità di individuare nel produttore
e/o venditore e noleggiatore i soggetti su cui grava l’onere finanziario
del suo smaltimento.
L’origine della questione
Appare opportuno in via preliminare ricostruire brevemente i fatti che
hanno dato origine al contenzioso in oggetto.
La società italiana ENEL stipulava con la Total International Ltd un contratto
di fornitura di olio pesante destinato a essere utilizzato come combustibile
per la produzione di energia elettrica. Per l’esecuzione del contratto, la
Total Raffinage production, diventata Total France SA, vendeva l’olio pesante
alla Total International Ltd. Quest’ultima noleggiava la nave Erika, battente
bandiera maltese, per trasportare l’olio dal porto di Dunkerque in Francia
a quello di Milazzo (Sicilia).
Il 12 dicembre 1999 la nave affondava al largo delle coste bretoni, sversando
parte del carico e dell’olio in mare e causando l’inquinamento del litorale
atlantico francese.
In data 9 giugno 2000 il Comune di Mesquer (Francia) conveniva in giudizio
le imprese del gruppo Total dinanzi al Tribunal de commerce de Saint
Nazaire (1) perché fossero dichiarate responsabili dei danni a seguito dello
sversamento, con conseguente condanna in solido alle spese sostenute per le
opere di bonifica e pulitura del suo territorio costiero, ai sensi della disciplina
nazionale (2).
(1) Il Comune di Mesquer sosteneva infatti che gli idrocarburi sversati fossero da considerare
rifiuti ai sensi della disciplina comunitaria e che la Total International Ltd e Total
France in qualità di precedenti detentori o produttori dovessero sopportare i costi sostenuti
per la bonifica.
(2) La normativa di riferimento è l’art. 2 della L. 15 luglio 2975 n. 75-633 relativa allo
smaltimento dei rifiuti ed al recupero dei materiali, ormai L 541-2 del codice dell’ambiente,
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 97
Il Comune di Mesquer, a seguito del rigetto del ricorso in primo grado,
proponeva appello alla Cour d’Appel de Rennes che però confermava la sentenza
del Tribunal de commerce (3) .
La Cour de Cassation, considerate le difficoltà interpretative delle disposizioni
comunitarie applicabili, per potersi pronunciare sull’impugnazione
relativa alla causa, sospendeva il procedimento e sottoponeva alla Corte di
Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1. “Se l’olio pesante, prodotto
derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell’utilizzatore,
destinato dal produttore a essere venduto come combustibile e
menzionato nella direttiva 68/414 (...) possa essere considerato un rifiuto ai
sensi dell’art. 1 della direttiva 75/442 (...) codificata dalla direttiva 2006/12
(...)”. 2. “ Se un carico di olio pesante, trasportato da una nave e accidentalmente
sversato in mare, costituisca, di per sé o miscelato ad acqua e sedimenti,
un rifiuto ai sensi della [categoria] Q4 dell’allegato I della direttiva
2006/12 (...)”. 3. “In caso di soluzione negativa della prima questione e di
soluzione affermativa della seconda, se il produttore dell’olio pesante (Total
Raffinage [distribuzione]) e/o il venditore e noleggiatore (Total International
Ltd) possano essere considerati, ai sensi dell’art. 1, lett. b) e c), della direttiva
2006/12 (…) e ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della medesima direttiva,
come il produttore e/o il detentore del rifiuto, anche qualora il prodotto,
al momento dell’incidente che l’ha trasformato in rifiuto, fosse trasportato
da terzi”.
L’ampliamento della nozione comunitaria di rifiuto
Le prime due questioni affrontate nella sentenza in commento riguardano
la nozione “aperta” di rifiuto e la sua continua evoluzione interpretativa
alla luce della relativa disciplina comunitaria. Il tema dell’ambiente e della
sua tutela, anche dal punto di vista della salute umana, è ed è stato oggetto di
innumerevoli pronunce della Corte di Giustizia che, partendo dal dato testuache
dispone “Chiunque produca o detenga rifiuti in circostanze tali da produrre effetti nocivi
per il suolo, la flora, la fauna, deteriorare i siti o i paesaggi, inquinare l’aria o le acque,
causare rumori e odori e, in generale, ledere la salute dell’uomo e l’ambiente, è tenuto a
provvedere o a far provvedere al loro smaltimento conformemente alle disposizioni del presente
capitolo, in condizioni idonee a evitare i danni menzionati al comma precedente. Lo
smaltimento dei rifiuti comporta le operazioni di raccolta, trasporto, stoccaggio, cernita e
trattamento necessari al recupero degli elementi e dei materiali riutilizzabili o dell’energia,
nonché al deposito o al rigetto nell’ambiente naturale di tutti gli altri prodotti in condizioni
idonee a evitare i danni menzionati al comma precedente”.
(3) Le considerazioni svolte erano di due ordini: la prima relativa alla valutazione dell’olio
pesante, da reputare non come un rifiuto bensì come un materiale combustibile costituente
materiale energetico creato per un uso specifico. La seconda escludeva la responsabilità
delle società convenute, perché nessuna norma consentiva di poterne addebitare la
responsabilità in quanto esse non erano produttrici o detentrici dei rifiuti prodotti, pur
ammettendo che l’olio sversato e trasformato a seguito del suo miscelarsi all’acqua e alla
sabbia avesse generato rifiuti.
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98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
le di non sempre univoca interpretazione offerto dalla direttiva 75/442 (4), ha
con il tempo riempito e ampliato di significato la direttiva stessa.
Il rinvio del giudice francese alla Corte di Lussemburgo ha come base
normativa l’art. 1 della citata direttiva che qualifica come rifiuto “qualsiasi
sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I (5) e
di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Come precedentemente affermato, la Corte di Giustizia anche in tale occasione
ha voluto ribadire la necessità di valutare la nozione di rifiuto e il suo
campo applicativo alla luce del significato attribuito al termine “disfarsi”, nel
rispetto delle finalità della direttiva quali “la protezione della salute umana dell’ambiente
contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento,
dell’ammasso e del deposito dei rifiuti” e dell’art. 174 n. 2 TCE (6).
L’elaborazione comunitaria della nozione di rifiuto ha portato alla formulazione
di due fondamentali indici rivelatori, utili anche per la risoluzione del
caso di specie. La Corte, chiamata a pronunciarsi nelle celebri sentenze Palinn
Granit e Vehmassalon kansanterveystyon (7), e ARCO Chemie Neder-land (8),
aveva avuto già occasione di precisare che l’esclusione di una delle operazioni
menzionate negli allegati II Ao B della Direttiva 2006/12 (9) non permetteva
sic et simpliciter di qualificare in positivo una sostanza o un oggetto come
rifiuto e in negativo sostanze e oggetti suscettibili di riutilizzo economico.
Il giudice sembra qui seguire lo stesso ragionamento usato per la risoluzione
del caso Palin Granit, nel quale fu esclusa la qualificabilità di rifiuto
in presenza di due condizioni: da un alto il grado di probabilità di riutilizzo
della sostanza senza operazioni di trasformazioni preliminari ad opera del
detentore e dall’altro il conseguimento di un vantaggio economico a seguito
di tale operazione. Infatti, ove ricorrano congiuntamente tali elementi, la
sostanza non potrà essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi
di disfarsi, bensì un autentico prodotto.
Nel caso di specie la Corte non ha ritenuto di considerare rifiuto la
sostanza trasportata, olio pesante venduto come combustibile (10), “nei limi-
(4) Direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE relativa ai rifiuti (GU L 194)
modificata dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135) e
dalla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006, 2006/12/CE.
(5) Punto 53 della sentenza “…l’allegato II della direttiva 75/442 propone elenchi di
sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto valore indicativo,
posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e
del significato del termine «disfarsi»”.
(6) L’articolo 174 del TCE dispone che “La politica della Comunità in materia ambientale
mira ad un elevato livello di tutela, tenendo conto delle diversità delle situazioni nelle
varie regioni della Comunità. Essa è fondata in particolare sui principi della precauzione e
dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni
causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga»”.
(7) Sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00.
(8) Sentenza15 giugno 2000, cause C-418/97 e C-419/97.
(9) Cfr. supra.
(10) Si tratta di olio pesante, prodotto e derivato da un processo di raffinazione rispondente
alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore ad essere venduto come com-
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 99
ti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose
e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare
di preliminari operazioni di trasformazione”. Di conseguenza, il giudice
di Lussemburgo ha invece qualificato come rifiuti, ai sensi della categoria Q4
dell’allegato I della direttiva 75/442, “gli idrocarburi accidentalmente sversati
in mare a seguito del naufragio che risultino miscelati ad acqua nonché a
sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a
raggiungerle, nei limiti in cui non possono essere più sfruttati o commercializzati
senza preliminari operazioni di trasformazione” (11), rammentando il
valore puramente indicativo (12) degli elenchi allegati alla direttiva stessa.
Il sistema della responsabilità civile per danni dovuti a inquinamento da
idrocarburi alla luce delle nuove riflessioni
La terza questione pregiudiziale interviene e si avvale della disciplina
contenuta nella Convenzione internazionale sulla responsabilità civile per i
danni dovuti a inquinamento da idrocarburi adottata a Bruxelles il 29 novembre
1969 (13). Ai sensi della stessa, i proprietari delle navi rispondono a titolo
di responsabilità oggettiva per i danni da sversamento di idrocarburi nel
territorio di uno Stato contraente, compreso il mare territoriale e nella zona
economica dello stesso, conformemente alle norme di diritto internazionale.
Il risarcimento non può essere richiesto a qualsiasi noleggiatore, gestore,
operatore della nave “tranne nel caso in cui il danno sia dovuto a loro atti o
omissioni personali commessi con l’intento di provocare tali danni, ovvero
con negligenze e con la consapevolezza della probabilità di provocare tali
danni” ai sensi dell’art. III, n. 4. A completamento del sistema cosi delineato,
nel 1971 veniva istituito il “FIPOL” il fondo internazionale per il risarcimento
dei danni da inquinamento da idrocarburi (14) a favore delle vittime e
in seguito veniva creato il “fondo complementare internazionale del 2003 per
il risarcimento dei danni da inquinamento da idrocarburi”.
bustibile e menzionato nella direttiva 68/14/CEE, relativa alle risorse strategiche soggette ad
obbligo di stoccaggio.
(11) La commercializzazione di tale miscela (composta da idrocarburi, acqua e sedimenti)
appare aleatoria, e pur ammettendola, presupporrebbe operazioni preliminari che non
sono economicamente vantaggiose per il detentore.
(12) La Corte ha tenuto a precisare la circostanza che al punto Q4 l’allegato I della
direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», menzioni, le “sostanze accidentalmente
riversate, perdute o aventi subito qualunque altro incidente compresi tutti i materiali, le
attrezzature, ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione”, ha valore di indizio. Tale
circostanza, pertanto, non consente di per sé di qualificare come rifiuti gli idrocarburi che
siano stati accidentalmente sversati e che siano all’origine di un inquinamento del terreno e
delle acque sotterranee (si veda sentenza Van de Walle punto 43).
(13) Pubblicata in GU 2004, L 78, modificata dal protocollo firmato a Londra il 27
novembre 1992.
(14) Convenzione internazionale sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento
di danni dovuti da inquinamento da idrocarburi adottata a Bruxelles il 18 dicembre
1971, modificata dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992 (GUL 78).
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100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Svolte queste brevi premesse di carattere generale, assume importanza
fondamentale ancora una volta l’art. 15 (15) della direttiva 75/442 che in
tema di identificazione del responsabile e del conseguente addebito dei costi
di smaltimento e bonifica dei rifiuti generati dispone (16) che, in conformità
al principio “chi inquina paga”, tale costo debba essere sostenuto dal detentore
che consegna rifiuti ad un raccoglitore o ad un impresa di cui all’art. 9
oppure dai precedenti detentori (17) o dal produttore (18) del prodotto causa
dei rifiuti.
Come nella vicenda analoga, sentenza Van de Walle (19), in cui il gestore
della stazione di servizio in cui era avvenuto una fuoriuscita accidentale di
idrocarburi venne qualificato detentore, essendone produttore e possessore,
anche nel caso di specie la Corte ha ritenuto possibile assimilare la figura del
proprietario, che trasporta gli idrocarburi immediatamente prima che avvenga
lo sversamento, a colui che li ha prodotti e quindi come detentore ai sensi
della direttiva (20). Nel caso di specie la Corte, chiarito il significato della
locuzione “detentore”, afferma che coloro i quali hanno venduto la merce al
destinatario e hanno noleggiato la nave, in qualità di detentori precedenti o di
produttori del prodotto all’origine dei rifiuti, possono essere tenuti a sopportare
i costi dello smaltimento del rifiuto prodotto, “a motivo del loro contributo
alla produzione dei rifiuti in parola e, eventualmente, al rischio di inquinamento
che risulta”, demandando al giudice nazionale le valutazioni caso
per caso sul comportamento dei soggetti indicati e l’accertamento della loro
responsabilità. Il Giudice di Lussemburgo approda dunque alla formulazione
della responsabilità del produttore, che ha generato i rifiuti diffusi accidental-
(15) Alla base delle richieste risarcitorie del Comune di Mesquer nei confronti delle
Società Total c’era infatti l’applicazione del citato articolo, per l’esame delle posizioni del
Governo francese, italiano e belga si vedano il punto 67 e 68 della sentenza.
(16) Posto che la direttiva in oggetto distingue le operazioni di smaltimento poste a carico
del detentore dei rifiuti e l’assunzione dell’onere finanziario relativo alle operazioni stesse
di cui sono gravati i soggetti che sono all’origine dei rifiuti, a prescindere dalla qualifica
di questi ultimi, siano essi detentori, precedenti detentori o fabbricanti del prodotto all’origine
degli stessi e che i soggetti coinvolti nella produzioni non possono sottrarsi ai loro obblighi
finanziari.
(17) L’art. 188, comma 1 delD.Lgs. 152/2006 statuisce che “Gli oneri relativi alle attività
di smaltimento sono a carico del detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore autorizzato
o ad un soggetto che effettua le operazioni di smaltimento, nonché dei precedenti
detentori o del produttore dei rifiuti”.
(18) Ai sensi dell’art. 1 della direttiva è detentore “il produttore dei rifiuti o la persona
fisica o giuridica che li detiene”, mentre il produttore è “la persona la cui attività ha prodotto
rifiuti e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre
operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti.
(19) Sentenza 7 settembre 2004, causa C-1/03.
(20) A norma dell’art. 8 della Direttiva 75/442 “Gli Stati membri adottano le disposizioni
necessarie affinché ogni detentore di rifiuti: li consegni ad un raccoglitore privato o
pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni previste nell’allegato II A o B, oppure
provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni della
presente direttiva”.
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 101
mente in mare, con il conseguente addebito a questo dell’onere finanziario
relativo allo smaltimento, solo in via subordinata.
Su questo punto appare esaustivo quanto disposto dalla Corte “Quindi,
per quanto riguarda idrocarburi accidentalmente sversati in mare a seguito
del naufragio di una petroliera, il giudice nazionale può considerare che
colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati
ha «prodotto rifiuti» se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione
è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che tale venditore-
noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento
determinato da tale naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare
provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla
scelta della nave. In siffatte circostanze, il venditore-noleggiatore potrà essere
qualificato come precedente detentore dei rifiuti ai fini dell’applicazione
dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, della direttiva 75/442”.
Pertanto appare chiaro che la responsabilità del produttore viene sancita
affinché il diritto nazionale assicuri comunque la trasposizione dell’art. 15 della
direttiva in oggetto e ne tuteli le finalità, consentendo di attribuire al soggetto
individuato la responsabilità in linea con il principio “chi inquina paga” (21)
“solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse
l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave” e con due ordini di limiti. Il
produttore sarà gravato dell’onere finanziario solo nel caso in cui i costi dello
smaltimento dei rifiuti conseguenti allo sversamento accidentale di idrocarburi
in mare non siano oggetto di accollo da parte del fondo in parola o non possano
esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto
per tale sinistro e se, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di
responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello
derivante da convenzioni internazionali, impedisca che tali costi siano sostenuti
dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene
tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi dell’art. 1,
lett. c) della direttiva 75/442, come modificata dalla Decisione 96/350.
Conclusioni
La risposta del giudice comunitario nella sentenza C-188/2007 si inserisce
nella continua ed attenta elaborazione delle problematiche e tematiche
relative ai rifiuti e alla protezione dell’ambiente, all’interno di una disciplina
comunitaria di non sempre chiara e univoca interpretazione (22). Nella sentenza
è statuito in modo chiaro che, a determinate condizioni (23), l’olio
(21) Si veda art. 178 comma 3 del D.Lgs. 152/2006, nel quale oltre all’enucleazione dei
principi cardine a livello nazionale e comunitario da adottare per la gestione dei rifiuti, c’è
un riferimento esplicito al principio “chi inquina paga”.
(22) Decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, “VI
Programma d’azione ambientale europea” ( GUCE 242 del 2002) detta all’art. 8, n. 2, IV, tra
le priorità del programma decennale, la rielaborazione o revisione della normativa sui rifiuti.
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102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
pesante venduto come combustibile non costituisce un rifiuto ai sensi della
direttiva 75/442/CEE e che, nei limiti in cui non possono più essere sfruttati
o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione, gli idrocarburi
in seguito a un naufragio accidentalmente sversati in mare - miscelati
ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno
Stato membro fino a raggiungere queste ultime - sono da considerare rifiuti.
La sentenza comunitaria, oltre ai rilevanti profili emersi per la risoluzione di
alcuni aspetti inerenti all’attuale problema dell’inquinamento del mare,
diventa occasione e spunto per consolidare e sottolineare ancora una volta il
fondamentale ruolo degli Stati membri e del giudice nazionale nell’applicazione
della disciplina comunitaria e dei principi ivi contenuti.
Infatti ai primi viene richiesto di ottemperare all’obbligo cogente contenuto
nella direttiva stessa consistente nell’adottare tutti i provvedimenti necessari
per raggiungere il risultato da questa prescritto ai sensi dell’art. 249 terzo
comma TCE (24) compresa l’adozione di tutti i provvedimenti generali o particolari
degli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito delle loro
competenze, quelli giurisdizionali (25). Spetta invece al giudice nazionale
l’interpretazione del diritto interno (26) al fine di conseguire il risultato perseguito
dalla direttiva stessa, e conformandosi pertanto all’art. 294 terzo comma
TCE. Nel caso di specie e negli eventuali futuri sarà pertanto demandata al
giudice nazionale ogni valutazione circa la possibilità di addebitare al fabbricante
del prodotto l’onere di farsi carico dei costi connessi allo smaltimento
dei rifiuti, nel caso in cui, mediante la sua attività, egli abbia contribuito al
rischio dell’avvenuto inquinamento causato dal naufragio della nave.
Dott.ssa Flaminia Giovagnoli(*)
Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, 24 giugno
2008 nel procedimento C-188/07 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla
Cour de cassation (Francia) - Commune de Mesquer/Total France SA, Total International
Ltd. (Avvocato dello Stato D. Del Gaizo - AL 24443/07).
Direttiva 75/442/CEE – Gestione dei rifiuti – Nozione di rifiuti – Principio “chi inquina
paga” – Detentore – Precedenti detentori – Produttore del prodotto causa dei rifiuti –
(23) L’olio non è considerato rifiuto, nei limiti in cui è sfruttato o commercializzato a
condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzato come combustibile
senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione.
(24) L’articolo 249, comma 3 TCE così dispone “La direttiva vincola lo Stato membro
cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza
degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.
(25) Si veda sentenza Marleasing, 13 novembre 1990, causa C-106/89.
(26) Parte IV Testo Unico Ambientale (D.Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006, “Nuove norme
in materia ambientale” artt. 177-266), che rappresenta il riferimento normativo di settore per
l’Italia.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura
Generale dello Stato.
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Idrocarburi e olio pesante – Naufragio – Convenzione sulla responsabilità civile per i danni
dovuti a inquinamento da idrocarburi – FIPOL.
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 1 e 15 della
direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39),
come modificata dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135,
pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»), nonché sull’allegato I di tale direttiva.
2. La domanda in questione interviene nell’ambito di una controversia che vede contrapporsi
il Comune di Mesquer alla Total France SA e alla Total International Ltd (in prosieguo,
congiuntamente: le «società Total») relativamente al risarcimento dei danni causati
dai rifiuti sversati sul territorio del menzionato Comune in seguito al naufragio della petroliera
Erika.
Contesto normativo
La normativa internazionale
3. La convenzione internazionale del 1969 sulla responsabilità civile per i danni dovuti
a inquinamento da idrocarburi, adottata a Bruxelles il 29 novembre 1969, come modificata
dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992 (GU 2004, L 78, pag. 32; in prosieguo:
la «convenzione sulla responsabilità civile»), disciplina la responsabilità dei proprietari
di navi per i danni risultanti da sversamenti ripetuti di idrocarburi provenienti da navi
cisterna. Essa si fonda sul principio della loro responsabilità oggettiva, limitata a un importo
calcolato in funzione della stazza della nave, e istituisce un sistema obbligatorio di assicurazione
della responsabilità civile.
4. Ai sensi dell’art. II, lett. a), della convenzione sulla responsabilità civile, quest’ultima
si applica ai danni dovuti a inquinamento che si verificano nel territorio di uno Stato contraente,
ivi compreso il mare territoriale, e nella zona economica esclusiva di uno Stato contraente,
definita conformemente alle norme del diritto internazionale, o, qualora uno Stato
contraente non abbia fissato tale zona, in una fascia di mare situata al di là delle acque territoriali
di detto Stato contraente e ad esse contigua, conformemente al diritto internazionale,
che si estende non oltre le 200 miglia nautiche dalla linea di base a partire dalla quale è misurata
la larghezza delle acque territoriali.
5. Ai sensi dell’art. III, n. 4, della convenzione sulla responsabilità civile, «il risarcimento
per danni dovuti a inquinamento ai sensi della presente convenzione o di altro genere non
può essere chiesto (...) a qualsiasi noleggiatore (in qualunque modo descritto, ivi compresi i
noleggiatori di navi non equipaggiate), gestore o operatore della nave (...), tranne nel caso in
cui il danno sia dovuto a loro atti o omissioni personali, commessi con l’intento di provocare
tali danni, ovvero con negligenza e con la consapevolezza della probabilità di provocare
tali danni».
6. La convenzione internazionale sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento
dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi, adottata a Bruxelles il 18 dicembre
1971, come modificata dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992 (GU 2004,
L 78, pag. 40; in prosieguo: la «convenzione Fondo»), completa la convenzione sulla responsabilità
civile, istituendo un sistema di risarcimento delle vittime.
7. Il Fondo internazionale per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi
(in prosieguo: il «FIPOL»), alimentato da contributi dell’industria petrolifera, può
coprire fino a 135 milioni di DTS (diritti speciali di prelievo) per un evento precedente al
2003. Conformemente all’art. 4 della convenzione Fondo, le vittime possono presentare,
dinanzi ai giudici dello Stato parte contraente di tale convenzione in cui sono stati causati i
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danni, istanze al fine di ottenere un risarcimento, in particolare qualora la convenzione sulla
responsabilità civile non preveda alcuna responsabilità per il danno in questione o qualora il
proprietario della nave sia insolvibile o sollevato dalla sua responsabilità in forza della convenzione
in parola.
8. Il protocollo del 2003 alla convenzione internazionale del 1992 sull’istituzione di un
fondo internazionale per il risarcimento dei danni causati dall’inquinamento da idrocarburi
(GU 2004, L 78, pag. 24) crea un fondo complementare internazionale per il risarcimento dei
danni dovuti a inquinamento, denominato «fondo complementare internazionale del 2003
per il risarcimento dei danni da inquinamento da idrocarburi», che consente, congiuntamente
al FIPOL, di coprire fino a 750 milioni di unità di conto per un determinato incidente successivo
al 1° novembre 2003.
La normativa comunitaria
La direttiva 75/442
9. Ai sensi del terzo ‘considerando’ della direttiva 75/442, ogni regolamento in materia
di smaltimento dei rifiuti deve essenzialmente mirare alla protezione della salute umana e
dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso
e del deposito dei rifiuti.
10. L’art. 1 della direttiva 75/442 così dispone:
«Ai sensi della presente direttiva, si intende per:
a) “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I
e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.
La Commissione (...) preparerà (...) un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui
all’allegato I. (…);
b) “produttore”: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti (“produttore iniziale”) e/o la persona
che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che
hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti;
c) “detentore”: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene;
(…)
e) “smaltimento”: tutte le operazioni previste nell’allegato II A;
f) “recupero”: tutte le operazioni previste nell’allegato II B;
g) “raccolta”: l’operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro
trasporto».
11. L’art. 8 della direttiva 75/442 recita:
«Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché ogni detentore di rifiuti:
a) li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni
previste nell’allegato II A o II B, oppure
b) provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni della
presente direttiva».
12. L’art. 15 della direttiva 75/442 prevede:
«Conformemente al principio “chi inquina paga”, il costo dello smaltimento dei rifiuti deve
essere sostenuto:
a) dal detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore o ad una impresa di cui all’articolo
9; e/o
b) dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto causa dei rifiuti».
13. Le categorie Q4, Q11, Q13 e Q16 dell’allegato I della direttiva 75/442, intitolato
«Categorie di rifiuti», hanno il seguente tenore:
«Q4 Sostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subìto qualunque altro incidente,
compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione
104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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(…)
Q11 Residui provenienti dall’estrazione e dalla preparazione delle materie prime (ad esempio
residui provenienti da attività minerarie o petrolifere, ecc.)
(…)
Q13 Qualunque materia, sostanza o prodotto la cui utilizzazione è giuridicamente vietata
(…)
Q16 Qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».
14. L’allegato II A della citata direttiva, intitolato «Operazioni di smaltimento», intende
elencare le operazioni di smaltimento così come esse sono effettuate in pratica, laddove
l’allegato II B della stessa, intitolato «Operazioni di recupero», intende analogamente elencare
le operazioni di recupero.
15. La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006, 2006/12/CE,
relativa ai rifiuti (GU L 114, pag. 9), nell’operare, a fini di chiarezza e razionalizzazione, una
codificazione della direttiva 75/442, riporta agli artt. 1 e 15 nonché agli allegati I, II A e II B
le disposizioni sopra menzionate. La direttiva 2006/12 è stata tuttavia adottata solo successivamente
al verificarsi dei fatti di cui alla causa principale, cosicché essa non è chiamata a
disciplinare la causa principale.
La direttiva 68/414/CEE
16. L’art. 2 della direttiva del Consiglio 20 dicembre 1968, 68/414/CEE, che stabilisce
l’obbligo per gli Stati membri della CEE di mantenere un livello minimo di scorte di petrolio
greggio e/o di prodotti petroliferi (GU L 308, pag. 14), come modificata dalla direttiva
del Consiglio 14 dicembre 1998, 98/93/CE (GU L 358, pag. 100), che prevede un siffatto
obbligo in particolare per far fronte a eventuali penurie o crisi di approvvigionamento, assimila
gli oli combustibili a una categoria di prodotti petroliferi.
La direttiva 2004/35/CE
17. Il decimo ‘considerando’ della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 21
aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione
del danno ambientale (GU L 143, pag. 56), recita:
«Si dovrebbe tenere espressamente conto del trattato Euratom, delle convenzioni internazionali
pertinenti e della normativa comunitaria che disciplina più completamente e più rigorosamente
tutte le attività che rientrano nel campo di applicazione della presente direttiva.
(…)».
18. L’art. 4, n. 2, della direttiva 2004/35 dispone:
«La presente direttiva non si applica al danno ambientale o a una minaccia imminente di tale
danno a seguito di un incidente per il quale la responsabilità o l’indennizzo rientrano nell’ambito
d’applicazione di una delle convenzioni internazionali elencate nell’allegato IV,
comprese eventuali successive modifiche di tali convenzioni, in vigore nello Stato membro
interessato».
19. L’allegato IV della direttiva 2004/35 così recita:
«Convenzioni internazionali di cui all’articolo 4, paragrafo 2
a) Convenzione internazionale del 27 novembre 1992 sulla responsabilità civile per i danni
derivanti da inquinamento da idrocarburi;
b) Convenzione internazionale del 27 novembre 1992 istitutiva di un Fondo internazionale
per l’indennizzo dei danni derivanti da inquinamento da idrocarburi;
(…)».
La decisione 2004/246/CE
20. Il Consiglio ha adottato, il 2 marzo 2004, la decisione 2004/246/CE, che autorizza
gli Stati membri a firmare o ratificare, nell’interesse della Comunità europea, il protocollo
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del 2003 alla convenzione internazionale del 1992 sull’istituzione di un fondo internazionale
per il risarcimento dei danni causati dall’inquinamento da idrocarburi, o ad aderirvi, e che
autorizza Austria e Lussemburgo, nell’interesse della Comunità europea, ad aderire agli strumenti
di riferimento (GU L 78, pag. 22).
21. Il quarto ‘considerando’ della decisione 2004/246 dispone come segue:
«Conformemente al protocollo per il fondo complementare, solo gli Stati sovrani possono
esserne parte; pertanto, la Comunità non può ratificare il protocollo o aderirvi né potrà farlo
nel futuro immediato».
22. Gli artt. 1, n. 1, e 4 della decisione 2004/246 recitano:
«Articolo 1
1. Gli Stati membri sono autorizzati a firmare o ratificare, nell’interesse della Comunità
europea, il protocollo del 2003 alla convenzione internazionale del 1992 sull’istituzione di
un fondo internazionale per il risarcimento dei danni provocati da inquinamento da idrocarburi
(il protocollo per il fondo complementare), o ad aderirvi, alle condizioni specificate nei
seguenti articoli.
(…)
Articolo 4
Gli Stati membri si adoperano con tempestività affinché il protocollo per il fondo complementare
e gli strumenti di riferimento siano modificati per consentire alla Comunità di divenirne
parte contraente».
La normativa nazionale
23. L’art. 2 della legge 15 luglio 1975, n. 75-633, relativa allo smaltimento dei rifiuti ed
al recupero dei materiali (JORF del 16 luglio 1975, pag. 7279), ormai art. L541-2 del codice
dell’ambiente, così dispone:
«Chiunque produca o detenga rifiuti in circostanze tali da produrre effetti nocivi per il suolo,
la flora e la fauna, deteriorare i siti o i paesaggi, inquinare l’aria o le acque, causare rumori
e odori e, in generale, ledere la salute dell’uomo e l’ambiente, è tenuto a provvedere o a far
provvedere al loro smaltimento conformemente alle disposizioni del presente capitolo, in
condizioni idonee a evitare i menzionati effetti.
Lo smaltimento dei rifiuti comporta le operazioni di raccolta, trasporto, stoccaggio, cernita
e trattamento necessari al recupero degli elementi e dei materiali riutilizzabili o dell’energia,
nonché al deposito o al rigetto nell’ambiente naturale di tutti gli altri prodotti in condizioni
idonee a evitare i danni menzionati al comma precedente».
Causa principale e questioni pregiudiziali
24. Il 12 dicembre 1999 la petroliera ERIKA, battente bandiera maltese e noleggiata
dalla Total International Ltd, affondava a circa 35 miglia marine a sud-ovest della punta di
Penmarc’h (Finistère, Francia), sversando una parte del suo carico e del suo combustibile in
mare e causando un inquinamento del litorale atlantico francese.
25. Dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni presentate dinanzi alla Corte emerge
che la società italiana ENEL ha stipulato con la Total International Ltd un contratto di fornitura
di olio pesante diretto a essere utilizzato come combustibile per la produzione di energia
elettrica. Ai fini dell’esecuzione di tale contratto, la Total raffinage distribution, divenuta
Total France SA, ha venduto l’olio pesante alla Total International Ltd, la quale ha noleggiato
la nave Erika al fine di trasportarlo dal porto di Dunkerque (Francia) a quello di
Milazzo.
26. Il 9 giugno 2000 il Comune di Mesquer ha proposto un ricorso dinanzi al Tribunal
de commerce de Saint-Nazaire avverso le società Total diretto, in particolare, a far dichiara-
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re che queste ultime dovevano farsi carico, in applicazione della legge n. 75-633, delle conseguenze
dei danni causati dai rifiuti sversati sul suo territorio ed essere condannate in solido
al pagamento delle spese sostenute dal Comune per operazioni di pulitura e bonifica,
ossia EUR 69 232,42.
27. In seguito al rigetto del suo ricorso, il Comune di Mesquer ha interposto appello
dinanzi alla Cour d’appel de Rennes, che, con sentenza 13 febbraio 2002, ha confermato la
sentenza di primo grado, stimando che l’olio pesante fosse, nel caso di specie, non un rifiuto
bensì un materiale combustibile costituente un materiale energetico creato per un uso specifico.
La Cour d’appel de Rennes ha in effetti ammesso che l’olio pesante, così sversato e
trasformato a seguito del suo miscelarsi con l’acqua e la sabbia, ha generato rifiuti, ma essa
ha tuttavia ritenuto che nessuna norma consentisse di dichiarare la responsabilità delle società
Total, poiché queste ultime non possono essere considerate produttrici o detentrici dei
rifiuti in questione. Il Comune di Mesquer ha allora proposto ricorso per cassazione.
28. Reputando che la causa presenti una seria difficoltà in termini di interpretazione
della direttiva 75/442, la Cour de cassation (Corte di cassazione) ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche
dell’utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile e menzionato
nella direttiva 68/414 (...) possa essere considerato un rifiuto ai sensi dell’art. 1 della
direttiva 75/442 (...) codificata dalla direttiva 2006/12 (...).
2) Se un carico di olio pesante, trasportato da una nave e accidentalmente sversato in mare,
costituisca, di per sé o miscelato ad acqua e sedimenti, un rifiuto ai sensi della [categoria]
Q4 dell’allegato I della direttiva 2006/12 (...).
3) In caso di soluzione negativa della prima questione e di soluzione affermativa della seconda,
se il produttore dell’olio pesante (Total Raffinage [distribuzione]) e/o il venditore e
noleggiatore (Total International Ltd) possano essere considerati, ai sensi dell’art. 1, lett. b)
e c), della direttiva 2006/12 (…) e ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della medesima direttiva,
come il produttore e/o il detentore del rifiuto, anche qualora il prodotto, al momento
dell’incidente che l’ha trasformato in rifiuto, fosse trasportato da terzi».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla ricevibilità
29. Le società Total sostengono che il presente rinvio pregiudiziale deve essere dichiarato
irricevibile in quanto il Comune di Mesquer ha già ottenuto un risarcimento in forza del
FIPOL e che, di conseguenza, non disporrebbe dell’interesse ad agire. Pertanto, la domanda
di pronuncia pregiudiziale rivestirebbe un carattere ipotetico.
30. Secondo costante giurisprudenza, le questioni relative all’interpretazione del diritto
comunitario sollevate dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che egli individua
sotto la propria responsabilità, del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono
di una presunzione di rilevanza. Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda proposta da
un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione
del diritto comunitario richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto della
causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non
disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni
che le sono sottoposte (v., in tal senso, sentenza 7 giugno 2007, cause riunite da C-
222/05 a C-225/05, van der Weerd e a., Racc. pag. I-4233, punto 22 e giurisprudenza citata).
31. Peraltro, secondo una giurisprudenza costante, spetta ai giudici nazionali cui è stata
sottoposta la controversia valutare sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 107
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in grado di pronunciare la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopongono
alla Corte (sentenza 15 giugno 2006, cause riunite C-393/04 e C-41/05, Air Liquide
Industries Belgium, Racc. pag I-5293, punto 24 e giurisprudenza citata).
32. A questo riguardo, emerge dagli atti di causa che il Comune di Mesquer ha effettivamente
beneficiato di pagamenti in forza del FIPOL, i quali sono stati effettuati a seguito
della domanda di risarcimento formulata dal Comune nei confronti, in particolare, del proprietario
della nave Erika e del FIPOL. Questi pagamenti hanno costituito l’oggetto di transazioni
mediante le quali il Comune in parola ha espressamente rinunciato a qualsivoglia
istanza e azione, a condizione che fossero rimborsate le somme versate.
33. Sembra che il giudice del rinvio disponesse di tali informazioni, ma che esso tuttavia
non abbia né considerato che la causa principale si era estinta o che il Comune di
Mesquer aveva perso il suo interesse ad agire né rinunciato a proporre alla Corte le sue questioni
pregiudiziali.
34. Occorre pertanto risolvere le questioni proposte dalla Cour de cassation.
Sulla prima questione
35. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio intende sapere se l’olio pesante
venduto per essere utilizzato come combustibile possa essere qualificato come rifiuto ai
sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442.
36. Le società Total, gli Stati membri che hanno sottoposto osservazioni nonché la
Commissione sono dell’avviso che occorra risolvere in termini negativi tale questione. Solo
il Comune di Mesquer sostiene che un tale olio pesante deve essere qualificato come rifiuto e
che, inoltre, la sostanza in questione rientra nella categoria dei prodotti pericolosi e illeciti.
37. In via preliminare, si deve rammentare che, a norma dell’art. 1, lett. a), della direttiva
75/442, deve considerarsi rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate
nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.
38. Così, nel contesto della direttiva 75/442, l’ambito di applicazione della nozione di
rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18 dicembre 1997, causa C-
129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag I-7411, punto 26) e, di conseguenza, conformemente
alla giurisprudenza della Corte, tale termine va interpretato tenendo conto delle
finalità di questa stessa direttiva (sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-
419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag I-4475, punto 37), finalità che, ai sensi del
terzo ‘considerando’ della direttiva di cui trattasi, consiste nella tutela della salute umana e
dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso
e del deposito dei rifiuti, alla luce dell’art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica
della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare
sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (v. sentenza 11 novembre
2004, causa C-457/02, Niselli, Racc. pag I-10853, punto 33).
39. La Corte ha altresì dichiarato che, alla luce della finalità perseguita dalla direttiva
75/442, la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo (v. sentenza
ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 40).
40. Tale nozione può riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa,
anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo,
di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin
Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I-3533; in prosieguo:
la sentenza «Palin Granit», punto 29 e giurisprudenza citata).
41. A tale proposito, alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore
di una sostanza o di un oggetto se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di
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disfarsene ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442. Ciò si verifica, in particolare, se
la sostanza utilizzata è un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato
in quanto tale (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 83 e 84). La Corte ha così
precisato che i detriti provenienti dall’attività estrattiva di una cava di granito, che non si
configurano come produzione principale ricercata mediante tale sfruttamento, rientrano, in
via di principio, nella categoria dei rifiuti (sentenza Palin Granit, punti 32 e 33).
42.Tuttavia, un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione
o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un
residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ma che essa
intende sfruttare o commercializzare a condizioni per essa favorevoli, in un processo successivo,
senza operare trasformazioni preliminari (v. sentenza Palin Granit, punto 34, nonché
ordinanza 15 gennaio 2004, causa C-235/02, Saetti e Freudiani, Racc. pag I-1005, punto 35).
43. Infatti, non è assolutamente giustificato assoggettare alle disposizioni della direttiva
75/442 beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di
prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti
alla normativa applicabile a tali prodotti (v. sentenza Palin Granit, punto 35, nonché ordinanza
Saetti e Frediani, cit., punto 35).
44. Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di
rifiuto al fine di limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere
il ricorso a tale argomentazione relativa ai sottoprodotti alle situazioni in cui il riutilizzo
di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza
trasformazione preliminare, e nell’ambito del processo di produzione (sentenza Palin Granit,
punto 36, nonché ordinanza Saetti e Frediani, cit., punto 36).
45. Unitamente al criterio del riconoscimento o meno della natura di residuo di produzione
riguardo ad una certa sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza,
senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce quindi un secondo criterio utile
al fine di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla
mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel
farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione
non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un
autentico prodotto (sentenza Palin Granit, punto 37).
46. Nella causa principale, risulta che la sostanza di cui trattasi è ottenuta in esito al processo
di raffinazione del petrolio.
47. Tuttavia, tale sostanza residua può essere sfruttata commercialmente a condizioni
economicamente vantaggiose, come confermato dal fatto che essa è stata l’oggetto di
un’operazione commerciale e che risponde alle specifiche dell’acquirente, come sottolinea il
giudice del rinvio.
48. Si deve quindi risolvere la prima questione nel senso che una sostanza come quella
oggetto della causa principale, nella fattispecie olio pesante venduto come combustibile, non
costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442, nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata
a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata
come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione.
Sulla seconda questione
49. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio intende sapere, in sostanza, se
l’olio pesante accidentalmente sversato in mare a seguito di un naufragio, in siffatte circostanze,
debba essere qualificato come rifiuto ai sensi della categoria Q4 dell’allegato I della
direttiva 75/442.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 109
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Osservazioni presentate alla Corte
50. Il Comune di Mesquer, sostenuto in sostanza dai governi francese e italiano nonché
dalla Commissione, ritiene che siffatti idrocarburi, una volta che siano sversati in mare e, a
fortiori, che si siano miscelati all’acqua e a sedimenti, debbano essere qualificati come rifiuti
ai sensi della direttiva 75/442.
51. Le società Total reputano che la miscela costituita da idrocarburi, acqua e sedimenti
del litorale costituisca un rifiuto solo qualora esista un obbligo di smaltimento o di recupero
degli idrocarburi accidentalmente sversati in quanto tali e se questi ultimi sono indissolubilmente
uniti all’acqua e ai sedimenti.
52. Il governo belga sostiene che i prodotti così sversati in mare non dovrebbero essere
qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, ma idrocarburi pesanti in conformità
alle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL. Il governo del Regno Unito, pur
ammettendo che idrocarburi di questo tipo possono essere qualificati come rifiuti ai sensi di
tale direttiva, ritiene auspicabile che lo sversamento accidentale di idrocarburi in mare rientri
solo nella sfera delle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL e, di conseguenza,
che la direttiva 75/442 non si applichi in siffatte circostanze.
Risposta della Corte
53. In limine, occorre rammentare che l’allegato II della direttiva 75/442 propone elenchi
di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto un
valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del
detentore e dal significato del termine «disfarsi» (v. sentenza 7 settembre 2004, causa C-
1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I-613, punto 42).
54. La circostanza che l’allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti
», menzioni, al punto Q4, le «[s]ostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subìto
qualunque altro incidente, compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in
seguito all’incidente in questione», costituisce quindi soltanto un indizio dell’inclusione di
tali materie nell’ambito di applicazione della nozione di rifiuto. La detta circostanza, pertanto,
non consente di per sé di qualificare come rifiuti gli idrocarburi che siano stati accidentalmente
sversati e che siano all’origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee
(v., in tale senso, sentenza Van de Walle e a., cit., punto 43).
55. Ciò premesso, è necessario verificare se un siffatto sversamento accidentale di idrocarburi
sia un atto mediante il quale il detentore si disfa di questi ultimi ai sensi dell’art. 1,
lett. a), della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza Van de Walle e a., cit., punto 44).
56. A tale riguardo, la sostanza o l’oggetto in questione, ove costituiscano un residuo di
produzione, vale a dire un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo
ulteriore e che il detentore non può riutilizzare a condizioni economicamente vantaggiose
senza prima sottoporlo a trasformazione, debbono considerarsi come un onere del
quale il detentore «si disfa» (v. sentenze Palin Granit, punti 32-37, nonché Van de Walle e a.,
cit., punto 46).
57. Per quanto riguarda idrocarburi che siano stati accidentalmente sversati e che siano
all’origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee, la Corte ha avuto modo
di constatare che questi ultimi non costituiscono un prodotto riutilizzabile senza previa trasformazione
(v. sentenza Van de Walle e a., cit., punto 47).
58. Orbene, una siffatta constatazione s’impone altresì con riferimento a idrocarburi
accidentalmente sversati in mare e che siano all’origine di un inquinamento delle acque territoriali
nonché, di conseguenza, delle coste di uno Stato membro.
59. È infatti pacifico che lo sfruttamento o la commercializzazione di idrocarburi sversati
o emulsionati con l’acqua o, ancora, agglomerati con sedimenti è un’operazione molto
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aleatoria se non addirittura ipotetica. Risulta altrettanto indubbio che, anche ammettendo che
sia tecnicamente attuabile, un siffatto sfruttamento o commercializzazione presupporrebbe
comunque operazioni preliminari di trasformazione che, lungi dall’essere economicamente
vantaggiose per il detentore di tale sostanza, costituirebbero in realtà considerevoli oneri
finanziari. Ne consegue che idrocarburi accidentalmente sversati in mare costituiscono
sostanze che il loro detentore non aveva l’intenzione di produrre e delle quali egli «si disfa»,
ancorché involontariamente, in occasione del loro trasporto, cosicché devono essere qualificate
come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza Van de Walle e a.,
cit., punti 47 e 50).
60. Peraltro, l’applicabilità della direttiva in parola non è rimessa in discussione dal
fatto che lo sversamento accidentale di idrocarburi si è verificato non già sul territorio terrestre
di uno Stato membro, ma nella zona economica esclusiva di quest’ultimo.
61. Infatti, senza che occorra pronunciarsi sull’applicabilità di tale direttiva al luogo del
naufragio, basta osservare che gli idrocarburi così accidentalmente sversati sono andati alla
deriva lungo le coste fino a raggiungere queste ultime, risultando in tal modo sversati sul territorio
terrestre dello Stato membro di cui trattasi.
62. Da ciò consegue che, nel caso del naufragio di una petroliera come quello che caratterizza
la causa principale, la direttiva 75/442 trova applicazione ratione loci.
63. Di conseguenza, occorre risolvere la seconda questione nel senso che idrocarburi
accidentalmente sversati in mare in seguito a un naufragio, che risultino miscelati ad acqua
nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungere
queste ultime, costituiscono rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442,
nei limiti in cui non possono più essere sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni
di trasformazione.
Sulla terza questione
64. Con la sua terza questione, il giudice del rinvio intende sapere se, nel caso del naufragio
di una petroliera, il produttore dell’olio pesante sversato in mare e/o colui che lo ha
venduto e noleggiato la nave che trasportava tale sostanza possano essere tenuti a farsi carico
dei costi connessi allo smaltimento dei rifiuti così generati, anche qualora la sostanza
sversata in mare fosse trasportata da terzi, nel caso di specie da un vettore marittimo.
Osservazioni presentate alla Corte
65. Il Comune di Mesquer reputa che, nella causa principale, ai fini dell’applicazione
dell’art. 15 della direttiva 75/442, il produttore dell’olio pesante nonché colui che ha venduto
tale sostanza e noleggiato la nave che la trasporta devono essere qualificati, ai sensi dell’art.
1, lett. b) e c), della direttiva, come produttori e detentori dei rifiuti risultanti dallo sversamento
in mare della sostanza in parola.
66. Secondo le società Total, in circostanze come quelle oggetto della causa principale,
l’art. 15 della direttiva 75/442 non è applicabile al produttore dell’olio pesante né a colui che
lo ha venduto e ha noleggiato la nave che lo trasportava poiché, al momento dell’incidente
che ha determinato la trasformazione della sostanza di cui trattasi in rifiuto, la stessa veniva
trasportata da terzi. Peraltro, la disposizione in parola non si applicherebbe nemmeno al produttore
dell’olio pesante per la sola ragione che quest’ultimo sarebbe il produttore della
sostanza che ha generato i rifiuti.
67. Il governo francese, parzialmente sostenuto dal governo italiano e dalla
Commissione, è dell’avviso che il produttore dell’olio pesante e/o colui che lo ha venduto e
ha noleggiato la nave che trasportava tale sostanza possano essere qualificati come produttori
e/o detentori dei rifiuti risultanti dallo sversamento in mare di detta sostanza solo se il
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naufragio della nave, che ha trasformato il carico di olio pesante in rifiuti, era imputabile a
diversi comportamenti idonei a far sorgere la loro responsabilità. La Commissione aggiunge
tuttavia che il produttore di una sostanza come l’olio pesante non può, già solo a motivo di
tale attività, essere qualificato come «produttore» e/o «detentore», ai sensi dell’art. 1, lett. b)
e c), della direttiva 75/442, dei rifiuti generati da tale prodotto in occasione di un incidente
verificatosi durante il loro trasporto. Nondimeno, in forza dell’art. 15, secondo trattino, della
direttiva, tale soggetto sarebbe ancora tenuto a sopportare il costo dello smaltimento dei
rifiuti nella sua qualità di «produttore del prodotto causa dei rifiuti».
68. Per il governo belga, l’applicazione della direttiva 75/442 è esclusa a motivo del
fatto che deve essere applicata la convenzione sulla responsabilità civile. Analogamente, il
governo del Regno Unito reputa che la Corte non debba risolvere tale questione in quanto la
causa principale riguarda questioni di responsabilità per sversamento di olio pesante in mare.
Risposta della Corte
69. In circostanze come quelle oggetto della causa principale, tenuto conto della finalità
della direttiva 75/442, ricordata al suo terzo ‘considerando’, l’art. 15, secondo trattino, di
tale direttiva prevede che, conformemente al principio «chi inquina paga», il costo dello
smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto dai precedenti detentori o dal produttore del
prodotto che ha generato i rifiuti.
70. Ai sensi dell’art. 8 della direttiva 75/442, ogni «detentore di rifiuti» è tenuto a consegnarli
ad un raccoglitore privato o pubblico o ad un’impresa che effettua le operazioni previste
nell’allegato II A o II B di tale direttiva, oppure deve provvedere egli stesso al recupero
o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni della direttiva (sentenza 26 aprile
2005, causa C-494/01, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-3331, punto 179).
71. Dalle disposizioni sopra citate risulta che la direttiva 75/442 distingue la materiale realizzazione
delle operazioni di recupero o smaltimento – che essa pone a carico di ogni «detentore
di rifiuti», indipendentemente da chi sia il produttore o il possessore degli stessi – dall’assunzione
dell’onere finanziario relativo alle suddette operazioni, che la medesima direttiva
accolla, in conformità del principio «chi inquina paga», ai soggetti che sono all’origine dei rifiuti,
a prescindere dal fatto che costoro siano detentori o precedenti detentori dei rifiuti o anche
fabbricanti del prodotto che ha generato i rifiuti (sentenza Van de Walle e a., cit., punto 58).
72. A tale riguardo, l’applicazione del principio «chi inquina paga», ai sensi dell’art.
174, n. 2, primo comma, seconda frase, CE e dell’art. 15 della direttiva 75/442, sarebbe
vanificata se tali soggetti coinvolti nella produzione di rifiuti dovessero sottrarsi ai loro
obblighi finanziari come previsti dalla direttiva 75/442, sebbene sia chiaramente dimostrata
l’origine degli idrocarburi sversati in mare, ancorché involontariamente, e che sono stati
all’origine di un inquinamento del territorio costiero di uno Stato membro.
– Sulle nozione di «detentore» e di «precedenti detentori»
73. La Corte ha ritenuto, con riferimento a idrocarburi accidentalmente sversati a causa
di una fuoriuscita dagli impianti di stoccaggio di una stazione di servizio e che erano stati da
questa acquistati per le esigenze delle sue attività, che tali idrocarburi fossero, in realtà, in
possesso del gestore della stazione di servizio. La Corte ha inoltre reputato che, in tale contesto,
colui che, per le esigenze della sua attività, accantonava detti idrocarburi quando sono
divenuti rifiuti possa essere qualificato come colui che li ha «prodotti», ai sensi dell’art. 1,
lett. b), della direttiva 75/442. Infatti, il gestore della stazione di servizio, essendo al tempo
stesso possessore e produttore di tali rifiuti, dev’essere qualificato come loro detentore ai
sensi del medesimo art. 1, lett. c), di tale direttiva (v., in tale senso, sentenza Van de Walle
e a., cit., punto 59).
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74. Analogamente, nel caso di idrocarburi accidentalmente sversati in mare, occorre
osservare che il proprietario della nave che li ha trasportati ne è, di fatto, in possesso immediatamente
prima che divengano rifiuti. Pertanto, il proprietario della nave può quindi essere
qualificato come colui che ha prodotto tali rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva
75/442 ed essere così qualificato per ciò stesso come «detentore» ai sensi dell’art. 1,
lett. c), di tale direttiva.
75. Tuttavia, la direttiva in parola non esclude che, in determinati casi, il costo dello
smaltimento dei rifiuti sia a carico di uno o più detentori precedenti (sentenza Van de Walle
e a., cit., punto 57).
– Sulla determinazione delle persone che devono sopportare il costo dello smaltimento dei
rifiuti
76. Nella causa principale, sorge la questione se colui che ha venduto la merce al destinatario
finale e che a tal fine ha noleggiato la nave che si è danneggiata in mare possa altresì
essere qualificato come «detentore», per questa ragione «precedente», dei rifiuti in tal
modo sversati. Inoltre, il giudice del rinvio si chiede se il produttore del prodotto che ha
generato rifiuti possa anche essere tenuto a sopportare il costo dello smaltimento dei rifiuti
così prodotti.
77. Al riguardo, l’art. 15 della direttiva 75/442 prevede che talune categorie di persone,
nel caso di specie i «precedenti detentori» o «il produttore del prodotto causa dei rifiuti»,
conformemente al principio «chi inquina paga», possono essere tenuti a sopportare il costo
dello smaltimento dei rifiuti. Così, tale obbligo finanziario grava sui medesimi a motivo del
loro contributo alla produzione dei rifiuti in parola e, eventualmente, al rischio di inquinamento
che risulta.
78. Quindi, per quanto riguarda idrocarburi accidentalmente sversati in mare a seguito
del naufragio di una petroliera, il giudice nazionale può considerare che colui che ha venduto
tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati ha «prodotto rifiuti» se tale giudice,
alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla
conclusione che tale venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento
determinato da tale naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti
diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave. In siffatte
circostanze, il venditore-noleggiatore potrà essere qualificato come precedente detentore
dei rifiuti ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, della direttiva
75/442.
79. Come è stato rammentato al punto 69 della presente sentenza, in circostanze come
quelle oggetto della causa principale, l’art. 15, secondo trattino, della direttiva 75/442 prevede,
facendo ricorso alla congiunzione «o», che il costo dello smaltimento dei rifiuti deve
essere sostenuto dai «precedenti detentori» o dal «produttore del prodotto causa» dei rifiuti
di cui trattasi.
80. A tale riguardo, conformemente all’art. 249 CE, gli Stati membri destinatari della
direttiva 75/442, pur disponendo della competenza in merito alla forma e ai mezzi, sono vincolati
riguardo al risultato da conseguire in termini di assunzione dell’onere finanziario dei
costi connessi allo smaltimento dei rifiuti. Di conseguenza, sono tenuti a garantire che il loro
diritto nazionale consenta l’imputazione dei costi di cui trattasi a precedenti detentori o al
produttore del prodotto che ha generato rifiuti.
81. Come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 135 delle sue conclusioni,
l’art. 15 della direttiva 75/442 non osta a che gli Stati membri prevedano, in applicazione di
impegni internazionali sottoscritti in materia, come le convenzioni sulla responsabilità civi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 113
02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 113
le e FIPOL, che il proprietario della nave e il noleggiatore di quest’ultima non possono
rispondere dei danni causati dallo sversamento di idrocarburi in mare fino a concorrenza di
importi limitati nel massimo in funzione della stazza della nave e/o in circostanze particolari
connesse al loro comportamento negligente. Tale disposizione non osta nemmeno a che,
in applicazione dei menzionati impegni internazionali, un fondo di risarcimento, come il
FIPOL, che prevede un tetto massimo per ogni sinistro assuma in luogo dei «detentori», ai
sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti
risultanti da idrocarburi accidentalmente sversati in mare.
82. Tuttavia, qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da
uno sversamento accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del
fondo in parola o non possono esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento
previsto per tale sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di
responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante
da convenzioni internazionali, impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della
nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati
come «detentori» ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, un siffatto diritto nazionale
dovrà allora consentire, onde sia garantita una trasposizione conforme dell’art. 15 di tale
direttiva, che i costi in questione siano sopportati dal produttore del prodotto che ha generato
i rifiuti così sversati. Nondimeno, conformemente al principio «chi inquina paga», il produttore
può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito
al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave.
83. Al riguardo l’obbligo di uno Stato membro di adottare tutti i provvedimenti necessari
per raggiungere il risultato prescritto da una direttiva è un obbligo cogente, prescritto
dall’art. 249, terzo comma, CE e dalla direttiva stessa. Tale obbligo di adottare tutti i provvedimenti
generali o particolari vale per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito
delle loro competenze, quelli giurisdizionali (v. sentenze 13 novembre 1990, causa
C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8, e Inter-Environnement Wallonie, cit.,
punto 40).
84. Ne consegue che, nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si
tratti di norme precedenti o successive alla direttiva o di disposizioni risultanti da convenzioni
internazionali alle quali lo Stato membro ha aderito, il giudice nazionale chiamato a
interpretare tale diritto deve procedere per quanto più possibile alla luce della lettera e dello
scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi
pertanto all’art 294, terzo comma, CE (v., in tal senso, sentenza Marleasing, cit., punto 8).
85. Inoltre, contrariamente a quanto rilevato dalle società Total in sede di udienza, la
Comunità non è vincolata dalle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL. Infatti, da
un lato, la Comunità non ha aderito ai citati strumenti internazionali e, dall’altro, non può
essere considerata né come un sostituto dei suoi Stati membri, non foss’altro perché questi
ultimi non hanno tutti aderito a tali convenzioni (v., per analogia, sentenze 14 luglio 1994,
causa C-379/92, Peralta, Racc. pag. I-3453, punto 16, nonché 3 giugno 2008, causa C-
308/06, Intertanko e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 47), né come indirettamente
vincolata dalle convenzioni stesse a motivo dell’art. 235 della convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, entrata in
vigore il 16 novembre 1994 e approvata con decisione del Consiglio 23 marzo 1998,
93/392/CE (GU L 1979, pag. 1), disposizione il cui n. 3 si limita, come ha sottolineato il
governo francese all’udienza, a sancire un obbligo generale di cooperazione tra le parti della
convenzione in questione.
114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 114
86. Inoltre, per quanto riguarda la decisione 2004/246, che autorizza gli Stati membri a
sottoscrivere o a ratificare, nell’interesse della Comunità, il protocollo del 2003 della convenzione
Fondo o ad aderirvi, è sufficiente constatare che la decisione e il protocollo del
2003 non possono essere applicati ai fatti relativi alla causa principale.
87. Certamente, la direttiva 2004/35 prevede in modo espresso, all’art. 4, n. 2, che essa
non si applica al danno ambientale o a una minaccia imminente di tale danno a seguito di un
incidente per il quale la responsabilità o l’indennizzo rientrano nell’ambito d’applicazione di
una delle convenzioni internazionali elencate nell’allegato IV, il quale menziona le convenzioni
sulla responsabilità civile e Fondo. Infatti, il legislatore comunitario, come indica il
decimo ‘considerando’ di tale direttiva, ha stimato necessario tener conto espressamente
delle convenzioni internazionali pertinenti che disciplinano in modo più completo e più rigido
le attività rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva in parola.
88. Tuttavia, è giocoforza constatare che la direttiva 75/442 non contiene una disposizione
analoga, nemmeno nella sua versione codificata risultante dalla direttiva 2006/12.
89. Tenuto conto di quanto precedentemente considerato, occorre risolvere la terza questione
nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della direttiva 75/442 allo sversamento
accidentale di idrocarburi in mare all’origine di un inquinamento delle coste di uno
Stato membro:
– il giudice nazionale può considerare colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la
nave che li ha trasportati come produttore dei rifiuti in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. b),
della direttiva 75/442, e, in questo modo, come «precedente detentore» ai fini dell’applicazione
dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, di tale direttiva se tale giudice, alla luce
degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che
detto venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento determinato
dal naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire
un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave;
– qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da uno sversamento
accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del FIPOL o non
possono esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per
tale sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il
diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali,
impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore
di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai
sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, un siffatto diritto nazionale dovrà allora consentire,
onde sia garantita una trasposizione conforme dell’art. 15 di tale direttiva, che i costi
in questione siano sopportati dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti così sversati.
Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», tale produttore può essere
tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che
si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave.
Sulle spese
90. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) Una sostanza come quella oggetto della causa principale, nella fattispecie olio pesante
venduto come combustibile, non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 115
02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 115
116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla decisione della
Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE, nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a
condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile
senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione.
2) Idrocarburi accidentalmente sversati in mare in seguito a un naufragio, che risultino
miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato
membro fino a raggiungere queste ultime, costituiscono rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. a),
della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, nei limiti in cui non possono
più essere sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione.
3) Ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione
96/350, allo sversamento accidentale di idrocarburi in mare all’origine di un inquinamento
delle coste di uno Stato membro:
– il giudice nazionale può considerare colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la
nave che li ha trasportati come produttore dei rifiuti in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. b),
della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, e, in questo modo, come
«precedente detentore» ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte,
di tale direttiva se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva
competenza, giunge alla conclusione che detto venditore-noleggiatore ha contribuito al
rischio che si verificasse l’inquinamento determinato dal naufragio, in particolare se si è
astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi
alla scelta della nave;
– qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da uno sversamento
accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del Fondo internazionale
per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi o non possono
esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per tale
sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto
nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali,
impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore
di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi
dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, un siffatto
diritto nazionale dovrà allora consentire, onde sia garantita una trasposizione conforme
dell’art. 15 di tale direttiva, che i costi in questione siano sopportati dal produttore del prodotto
che ha generato i rifiuti così sversati. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina
paga», tale produttore può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la
sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio
della nave.
02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 116
Qualità dell’aria: diritto di un terzo vittima di
danni alla salute alla predisposizione
di un piano d’azione
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sezione Seconda, sentenza del 25 luglio 2008,
nel procedimento C-237/07)
La questione decisa dalla Corte di Giustizia concerne la sussistenza o
meno, a favore di un terzo, che abbia subito danni alla salute a causa dell’inquinamento
atmosferico, di un diritto soggettivo nei confronti delle autorità
competenti all’adozione di un piano d’azione, sebbene lo stesso sia in grado
di agire in giudizio per ottenere dalle stesse autorità competenti la predisposizione
di misure indipendenti dal suddetto piano.
Preliminarmente, sembra opportuno riassumere brevemente il contesto
fattuale che ha condotto all’emanazione della pronuncia in commento, al fine
di comprendere al meglio i punti intorno ai quali ruotano le argomentazioni
della Corte di Giustizia.
Il sig. Janecek, residente sulla circonvallazione interna di Monaco di
Baviera, a pochi metri da una stazione di controllo della qualità dell’aria, ha
proposto ricorso dinanzi al Verwaltungsgericht Munchen, chiedendo che
fosse ordinata all’autorità competente la predisposizione di un piano di azione
per la qualità dell’aria in quel settore, e affinché venissero stabilite le
misure da adottare a breve termine per garantire l’osservanza del numero
massimo autorizzato di 35 violazioni annuali del valore stabilito come soglia
massima per le emissioni di particelle fini PM10.
In seguito al mancato accoglimento della doglianza, il ricorrente adiva
in appello il Verwaltungsgerichtshof, il quale statuiva che, sebbene i soggetti
residenti interessati possano pretendere dalle autorità competenti la predisposizione
di un piano di azione, tuttavia, essi non possono ottenere la messa
a punto di misure idonee a garantire l’osservanza a breve termine dei valori
massimi di emissione delle particelle fini suddette.
Pertanto, il giudice di secondo grado ingiungeva al Freistaat Bayern di
predisporre un piano di azione così strutturato.
Infine, in ultima istanza, il sig. Janecek si rivolgeva al Bundesverwaltungsgericht.
Quest’ultimo giudice, nel richiamare la normativa tedesca in
materia (1), nonché la normativa comunitaria (2), ha ritenuto che il singolo
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 117
(1) Precisamente si tratta dell’art. 47 n. 2 della legge tedesca in materia di inquinamento
che ha recepito la direttiva 96/62, il quale dispone: “In caso di rischio di superamento dei
valori limite o delle soglie di allarme delle emissioni definiti mediante regolamento in forza
dell’art. 48 bis, n. 1, l’autorità competente deve predisporre un piano di azione che stabilisca
le misure da adottare a breve termine, che devono essere in grado di ridurre il rischio
di superamento e limitarne la durata. I piani di azione possono essere inseriti in un piano
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 117
cittadino non è titolare di un diritto soggettivo alla predisposizione di un
piano di tal guisa; in particolare, si afferma che il soggetto danneggiato dagli
effetti nocivi dell’inquinamento atmosferico può tutelarsi ottenendo misure
adeguate dalle autorità nazionali, ma in ogni caso indipendenti dalla realizzazione
di un piano di azione.
Il Bundesverwaltungsgericht, tuttavia, riconoscendo la presenza di opinioni
differenti in materia, sospendeva il procedimento al fine di sottoporre
alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1. “Se l’art. 7, n. 3
della direttiva (…) 96/62 (…), sia da interpretare nel senso che ad un terzo,
che abbia subito danni alla salute, viene conferito un diritto soggettivo
all’adozione di un piano di azione anche allorquando, indipendentemente dal
piano di azione, lo stesso è in grado di far valere il suo diritto alla difesa contro
gli effetti nocivi per la salute dovuti al superamento del valore massimo
di emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10, agendo in giudizio
per ottenere l’intervento delle autorità competenti”. 2. “Qualora la prima questione
debba essere risolta in senso affermativo, se ad un terzo, esposto agli
effetti nocivi per la salute prodotti dalle particelle di polveri fini PM10, abbia
diritto all’adozione di detto piano d’azione recante misure da applicare a
breve termine, atte a garantire la stretta osservanza del valore massimo di
emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10”. 3. “ Qualora la seconda
questione debba essere risolta in senso negativo: in che misura, grazie ai
provvedimenti definiti nel piano d’azione, il rischio di superamento del valore
massimo debba essere ridotto e la sua durata circoscritta. Se il piano
d’azione possa limitarsi, alla stregua di un programma graduale, a misure
che, pur non garantendo il rispetto del valore massimo, contribuiscano ciò
nondimeno al miglioramento a breve termine della qualità dell’aria”.
Il diritto soggettivo alla qualità dell’aria
La direttiva che la Corte di Giustizia è stata chiamata ad interpretare si
inserisce nell’ambito di un nutrito corpus normativo concernente la materia
dell’inquinamento atmosferico, ed in particolare è inclusa in quel gruppo di
provvedimenti che si occupano della qualità dell’aria e dei limiti normativi
alla concentrazione nell’aria di determinate sostanze inquinanti (3), denominata
anche “normativa immissioni”.
118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
per la qualità dell’aria, ai sensi del n. 1”. (legge 26 settembre 2002, modificata con legge
25 giugno 2005, BGBI I, pag. 1865).
(2) Si veda l’art. 7 n. 3 della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE in
materia di valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente (GU L 296, pag. 55), come
modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003,
n. 1882 (GU L 284, pag. 1). Esso così dispone: “Gli Stati membri predispongono piani di
azione che indicano le misure da adottare a breve termine in casi di rischio di un superamento
dei valori limite e/o delle soglie d’allarme, al fine di ridurre il rischio e limitarne la
durata (…)”.
(3) A questa categoria di direttive è affidato il compito di ridurre le emissioni complessive
di alcuni inquinanti atmosferici conformemente con gli obblighi internazionali derivan-
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 118
Nel corso degli ultimi anni, l’orientamento dei giudici di Lussemburgo
ha avvalorato la tesi per cui le direttive della tipologia suddetta configurerebbero
una nuova fattispecie di diritti individuali, oltre ad essere attributive di
obblighi determinati.
In proposito, si cita la sentenza della Corte di Giustizia del 30 maggio
1991, causa C-361/88, con riferimento alla prima direttiva in materia di immissioni
(4), dalla quale si evince che la determinazione di valori limite in questo
settore determina un diritto soggettivo in capo ai singoli. Relativamente a questo
aspetto, si riporta il punto 16 della suddetta pronuncia: “Occorre rilevare,
sotto questo aspetto, che l’obbligo imposto agli Stati membri di prescrivere
valori limite da non superare durante certi periodi e a condizioni determinate,
di cui all’art. 2 della direttiva, persegue ‘il fine di tutelare in particolare la
salute dell’uomo’. Ciò implica che ogniqualvolta il superamento dei valori
limite possa mettere in pericolo la salute, gli interessati devono potersi avvalere
di norme imperative a tutela dei propri diritti (…)”.
Questo principio è stato altresì ribadito da un’altra pronuncia della Corte
di Giustizia, nella causa C-59/89 riguardante la direttiva 82/884 sui valori
limite per il piombo (5), e fa comprendere come i giudici europei abbiano
ricondotto il superamento delle soglie limite alla sussistenza di un diritto soggettivo
in capo al singolo, che vede potenzialmente o concretamente danneggiata
la propria salute, come nella sentenza oggetto della presente nota, dalle
sostanze inquinanti.
Il punto fondamentale sul quale si sono soffermati i giudici di
Lussemburgo per giungere a tale conclusione concerne il bene che la normativa
europea si prefigge di tutelare, ossia la salute umana, e conseguentemente,
le disposizioni delle direttive citate non potevano non essere considerate
norme di ordine pubblico, e dunque, attributive di diritti individuali.
Nella pronuncia in commento, infatti, il ricorrente ha sostenuto che la
direttiva 96/62 mira a proteggere la salute umana e che l’art. 7 n. 3 deve essere
considerata norma di ordine pubblico, la quale impone la predisposizione
di un piano di azione ogni qualvolta vi sia anche solo il rischio di superamento
di un valore massimo.
In merito si segnalano le posizioni contrastanti dei governi olandese e
austriaco, i quali ritengono rispettivamente, che la disposizione oggetto di
interpretazione non conferisce ai terzi un diritto soggettivo alla predisposi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 119
ti dal Protocollo di Goteborg del 1 novembre 1999. I limiti nazionali di emissione, per i paesi
membri dell’Unione europea, sono definiti dalla direttiva 2001/81 del 23 ottobre 2001 (G.U.
L 309 del 27 novembre 2001, p.22).
(4) La pronuncia (Commissione contro Repubblica Federale di Germania) è contenuta
nella Raccolta della Giurisprudenza 1991, p. 2567. Essa è relativa all’interpretazione della
direttiva 80/779 del 15 luglio 1980 sui valori limite di qualità dell’aria per l’anidride solforosa
e le particelle in sospensione.
(5) Sentenza del 30 maggio 1991 (Commissione contro Repubblica Federale di
Germania), in Raccolta della giurisprudenza 1991, p. 2607. Cfr. inoltre sentenza 17 ottobre
1991, causa C-58/89, Commissione/Germania, Racc. p. 4983, punto 14.
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 119
zione di un piano di azione, dal momento che gli Stati membri godono di
un’ampia discrezionalità in materia, e che, sebbene l’art. 7 sia direttamente
applicabile, non sussiste un diritto soggettivo al piano d’azione.
La Corte, nel risolvere la prima questione pregiudiziale, ravvisa nel suddetto
art. 7 n. 3 un chiaro obbligo di predisporre piani di azione sia in caso di
rischio di superamento dei valori massimi, sia in caso di rischio di superamento
delle soglie di allarme; infatti, in virtù di una consolidata giurisprudenza
della Corte, i singoli possono far valere nei confronti delle autorità pubbliche
disposizioni precise e dettagliate di una direttiva (6), ed è compito dell’ordinamento
nazionale interpretare la normativa interna in modo conforme
agli obiettivi della direttiva (7).
Pertanto, nel caso di specie la Corte ha affermato che i singoli devono
poter ottenere dalle autorità nazionali competenti la predisposizione di un
piano di azione, ed è andata oltre stabilendo che è irrilevante la circostanza
che vi sia la possibilità per tali soggetti di avvalersi di procedure alternative
per l’adozione di misure concrete non inserite in un piano più generale.
Infine, la seconda questione pregiudiziale relativa al contenuto specifico
di detto piano, è stata risolta stabilendo che le misure devono essere idonee a
ridurre al minimo il rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di
allarme ed a ritornare gradualmente ad un livello inferiore a tali valori (8).
Considerazioni conclusive: ancora sul primato del diritto comunitario
La circostanza che la Corte abbia affermato, con la pronuncia oggetto
della presente nota, il diritto del singolo ad invocare l’applicazione delle
disposizioni di una direttiva nei confronti dell’autorità nazionale, non fa altro
che consolidare l’orientamento dei giudici di Lussemburgo relativamente al
primato del diritto comunitario.
Come è ormai ben noto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ribadito
che “in tutti i casi in cui talune disposizioni di una direttiva appaiono, sotto
il profilo sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono
farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che
questo non abbia recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale,
sia che l’abbia recepita in modo inadeguato. (…) Peraltro, una norma è sufficientemente
precisa per poter essere invocata da un singolo ed applicata dal
giudice allorché sancisce un obbligo in termini non equivoci” (9).
Tuttavia, anche le direttive che non siano qualificabili nel senso appena
indicato possono produrre effetti che si ripercuotono sulla protezione delle
120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(6) Cfr. sentenza 5 aprile 1979, C-148/78, Racc. pag. 1629, punto 20.
(7) Si veda in tal senso la sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Merleasing,
punto 8, Racc. pag. I-4135.
(8) Si precisa che, sebbene gli Stati membri abbiano potere discrezionale in materia,
l’art. 7 n. 3 della direttiva 96/62 fissa alcuni limiti all’esercizio di quest’ultimo. Si veda in
tal senso la sentenza 24 ottobre 1996, causa C-72/95, punto 59, pag. I-5403.
(9) V. sentenza 23 febbraio 1994, causa C-236/92, Racc. I-483.
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 120
situazioni giuridiche da esse tutelate: la Corte, infatti, ha precisato che il giudice
nazionale interpreta il diritto interno alla luce degli scopi della direttiva
al fine di perseguire il risultato più conforme ad essa, e deve riconoscere alla
direttiva una funzione interpretativa della legislazione nazionale (10).
Pertanto, la Corte di Giustizia pretende che i privati possano far valere in
giudizio, nei confronti delle pubbliche autorità, le posizioni giuridiche fondate
sulle norme comunitarie direttamente applicabili, al fine di una tutela piena
ed effettiva di tali diritti.
Alla luce di quanto osservato, si è valorizzato il ruolo di collaborazione
dei giudici nazionali (11), coinvolti nell’azione di garanzia del diritto comunitario,
e conseguentemente, si è parlato di primato del diritto comunitario,
che ne impone un’applicazione uniforme ed effettiva. In proposito, si ricorda
la nota sentenza Simmenthal (12), in cui si afferma che “in forza del principio
della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del trattato e gli
atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto,
nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri…, di rendere ipso iure
inapplicabile… qualsiasi disposizione della legislazione nazionale…
Qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della propria competenza, ha
l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti
che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente
contrastanti della legge interna”.
In base alle argomentazioni della Corte, la direttiva 96/62 non impedisce
l’adozione di provvedimenti in virtù di altre disposizioni dell’ordinamento
nazionale, ma rafforza ulteriormente la tutela del singolo, istituendo una specifica
procedura di pianificazione, di cui il cittadino deve potersi avvalere in
caso di superamento dei valori limite delle emissioni nocive o delle soglie di
allarme.
L’obiettivo della citata direttiva è, dunque, la riduzione dell’inquinamento
atmosferico e si traduce concretamente nell’obbligo, gravante sugli Stati
membri, di adottare misure idonee a ridurre al minimo il rischio di superamento
dei valori limite e la sua durata.
Dott.ssa Sara Palermo(*)
Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Seconda Sezione, 25 luglio
2008 nella causa C-237/07 – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 121
(10) Cfr. ex multis sentenza 14 luglio 1994, C-91/92, Faccini Dori.
(11) In proposito, si ricorda che ad avviso della Corte “è compito dei giudici nazionali,
secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 5 del Trattato Cee, garantire la tutela
giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norma di diritto comunitario” (Sentenza
19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame, Racc. I-2473).
(12) Sentenza 9 marzo 1978, causa C-106/77.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura
Generale dello Stato.
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 121
Bundesverwaltungsgericht (Germania) – Dieter Janecek/Freistaat Bayern. (Avvocato dello
Stato G. Fiengo – AL 29332/07).
Direttiva 96/62/CE – Valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente – Fissazione
dei valori limite – Diritto di un terzo vittima di danni alla salute alla predisposizione di un
piano d’azione.
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 7, n. 3,
della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE, in materia di valutazione e di
gestione della qualità dell’aria ambiente (GU L 296, pag. 55), come modificata dal regolamento
(CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882 (GU L 284,
pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 96/62»).
2. Questa domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Janecek
ed il Freistaat Bayern in merito ad una domanda diretta a che sia imposto a quest’ultimo di
predisporre un piano di azione per la qualità dell’aria nel settore della Landshuter Allee, in
Monaco di Baviera, dove risiede l’interessato; questo piano dovrebbe contenere le misure da
adottare a breve termine per garantire l’osservanza del limite autorizzato dalla normativa
comunitaria per quanto concerne le emissioni di particelle fini PM10 nell’aria ambiente.
Contesto normativo
La normativa comunitaria
3. Ai sensi del dodicesimo ‘considerando’ della direttiva 96/62:
«(…) Per tutelare l’ambiente nel suo complesso e la salute umana, è necessario che gli Stati
membri intervengano quando vengono superati i valori limite al fine di conformarsi a tali
valori entro il termine stabilito».
4. L’allegato I alla direttiva 96/62 contiene un elenco degli inquinanti atmosferici da
considerare nel quadro della valutazione e della gestione della qualità dell’aria ambiente. Il
punto 3 di quest’elenco menziona le «particelle fini quali la fuliggine (ivi compreso PM10)».
5. L’art. 7 della direttiva 96/62, intitolato «Miglioramento della qualità dell’aria
ambiente – Requisiti generali», così dispone:
«1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare il rispetto dei valori limite.
(…)
3. Gli Stati membri predispongono piani d’azione che indicano le misure da adottare a breve
termine in casi di rischio di un superamento dei valori limite e/o delle soglie d’allarme, al
fine di ridurre il rischio e limitarne la durata. (…)».
6. L’art. 8 di questa direttiva, intitolato «Misure applicabili nelle zone in cui i livelli
superano il valore limite», enuncia quanto segue:
«1. Gli Stati membri elaborano l’elenco delle zone e degli agglomerati in cui i livelli di uno
o più inquinanti superano i valori limite oltre il margine di superamento.
Allorché non è stato fissato un margine di superamento per un determinato inquinante, le
zone e gli agglomerati in cui il livello di tale inquinante supera il valore limite sono equiparati
alle zone e agli agglomerati di cui al primo comma e si applicano i paragrafi 3, 4 e 5.
2. Gli Stati membri elaborano l’elenco delle zone e degli agglomerati in cui i livelli di uno o
più inquinanti sono compresi tra il valore limite e il valore limite aumentato del margine di
superamento.
3. Nelle zone e negli agglomerati di cui al paragrafo 1, gli Stati membri adottano misure atte
a garantire l’elaborazione o l’attuazione di un piano o di un programma che consenta di raggiungere
il valore limite entro il periodo di tempo stabilito.
122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 122
Tale piano o programma, da rendere pubblico, deve riportare almeno le informazioni di cui
all’allegato IV.
4. Nelle zone e negli agglomerati di cui al paragrafo 1 in cui il livello di più inquinanti supera
i valori limite, gli Stati membri predispongono un piano integrato che interessi tutti gli
inquinanti in questione.
(…)».
7. L’art. 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 22 aprile 1999, 1999/30/CE, concernente
i valori limite di qualità dell’aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli
ossidi di azoto, le particelle e il piombo (GU L 163, pag. 41), così dispone:
«Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le concentrazioni di particelle
PM10 nell’aria ambiente, valutate a norma dell’articolo 7, non superino i valori limite
indicati nella sezione I dell’allegato III a decorrere dalle date ivi indicate.
I margini di tolleranza indicati nella sezione I dell’allegato III si applicano a norma dell’articolo
8 della direttiva 96/62/CE».
8. L’allegato III, fase 1, punto 1, alla direttiva 1999/30 presenta, in una tabella, i valori
limite per le particelle fini PM10.
La normativa nazionale
9. La direttiva 96/62 è stata recepita nell’ordinamento tedesco mediante la legge sulla
protezione contro gli effetti nocivi sull’ambiente dell’inquinamento dell’aria, acustico, delle
vibrazioni e di altro genere (Gesetz zum Schutz vor schädlichen Umwelteinwirkungen durch
Luftverunreinigungen, Geräusche, Erschütterungen und änliche Vorgänge), nella versione
pubblicata il 26 settembre 2002 (BGBl I, pag. 3830), quale modificata mediante legge 25
giugno 2005 (BGBl I, pag. 1865; in prosieguo: la «legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento
»).
10. L’art. 45 della legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento, intitolato
«Miglioramento della qualità dell’aria», così dispone:
«(1) Le autorità competenti devono adottare le misure necessarie per garantire l’osservanza
dei valori delle emissioni stabiliti dall’art. 48 bis, in particolare mediante i piani previsti dall’art.
47.
(…)».
11. L’art. 47 della medesima legge, intitolato «Piani per la qualità dell’aria, piani d’azione,
legislazione dei Land», così dispone:
«(1) In caso di superamento dei valori limite, aumentati dei margini di superamento legali e
stabiliti mediante regolamento in forza dell’art. 48 bis, n. 1, le autorità competenti devono
predisporre un piano per la qualità dell’aria, che indichi le misure necessarie per ridurre in
modo duraturo gli inquinanti atmosferici in conformità a quanto imposto dal regolamento.
(2) In caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme delle emissioni
definiti mediante regolamento in forza dell’art. 48 bis, n. 1, l’autorità competente deve
predisporre un piano di azione che stabilisca le misure da adottare a breve termine, che devono
essere in grado di ridurre il rischio di superamento e limitarne la durata. I piani di azione
possono essere inseriti in un piano per la qualità dell’aria, ai sensi del n. 1.
(…)».
12. Le soglie massime di emissione menzionate dall’art. 47 della legge tedesca in materia
di lotta all’inquinamento sono stabilite dal ventiduesimo regolamento di esecuzione della
detta legge, il cui art. 4, n. 1, così dispone:
«Per le PM10, il valore limite delle emissioni nelle 24 ore, in considerazione delle esigenze
di tutela della salute umana, è pari a 50 μg/m3; i casi di superamento nel corso di un anno
non possono superare il numero di 35 (…)».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 123
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 123
Causa principale e questioni pregiudiziali
13. Il sig. Janecek risiede lungo la Landshuter Allee, sulla circonvallazione interna di
Monaco di Baviera, a circa m 900 a nord di una stazione di controllo della qualità dell’aria.
14. Le misurazioni effettuate in questa stazione hanno dimostrato che, nel corso del
2005 e del 2006, il valore massimo per le emissioni di particelle fini PM10 è stato superato
ben più di 35 volte, laddove questo numero di violazioni rappresenta il massimo autorizzato
dalla legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento.
15. È pacifico che, per quanto riguarda il territorio del comune di Monaco di Baviera,
esiste un piano d’azione per la qualità dell’aria, dichiarato obbligatorio il 28 dicembre 2004.
16. Tuttavia, il ricorrente nella causa principale ha proposto ricorso dinanzi al
Verwaltungsgericht München, chiedendo che fosse ordinato al Freistaat Bayern di predisporre
un piano di azione per la qualità dell’aria nel settore della Landshuter Allee, affinché vengano
stabilite le misure da adottare a breve termine per garantire l’osservanza del numero
massimo autorizzato di 35 violazioni annuali del valore stabilito come soglia massima per le
emissioni di particelle fini PM10. Il detto giudice ha dichiarato il ricorso infondato.
17. Il Verwaltungsgerichtshof, adito in appello, ha adottato una posizione differente, giudicando
che i residenti interessati possono pretendere dalle autorità competenti la predisposizione
di un piano di azione, ma che essi non possono chiedere che quest’ultimo contenga le
misure idonee a garantire l’osservanza a breve termine dei valori massimi di emissione di particelle
fini PM10. Secondo questo giudice, le autorità nazionali sono obbligate soltanto a
garantire che quest’obiettivo venga perseguito mediante un piano di tal genere, nei limiti del
possibile e di quanto risulti proporzionato allo scopo. Di conseguenza, esso ha ingiunto al
Freistaat Bayern di predisporre un piano di azione che rispettasse i suddetti obblighi.
18. Il sig. Janecek e il Freistaat Bayern hanno impugnato la sentenza del
Verwaltungsgerichtshof dinanzi al Bundesverwaltungsgericht. Secondo quest’ultimo giudice,
il ricorrente nella causa principale non può invocare nessun diritto alla predisposizione di un
piano di azione in forza dell’art. 47, n. 2, della legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento.
Il detto giudice ritiene inoltre che né lo spirito né la lettera dell’art. 7, n. 3, della direttiva
96/62 attribuiscano un diritto soggettivo alla predisposizione di un piano del genere.
19. Il giudice del rinvio spiega che, malgrado l’omessa adozione, persino illecita, di un
piano di azione non violi, secondo l’ordinamento nazionale, i diritti del ricorrente nella causa
principale, quest’ultimo non è sprovvisto di strumenti per far rispettare la normativa. Infatti,
la tutela contro gli effetti nocivi delle particelle fini PM10 dovrebbe essere garantita con
misure indipendenti da un piano del genere, di cui gli interessati hanno il diritto di pretendere
la realizzazione da parte delle autorità competenti. In questo modo sarebbe garantita una
protezione effettiva, in condizioni equivalenti a quelle risultanti dalla formulazione di un
piano di azione.
20. Il Bundesverwaltungsgericht riconosce tuttavia che una parte della dottrina trae
conclusioni differenti dalle disposizioni comunitarie in questione, secondo le quali i terzi
interessati avrebbero il diritto alla predisposizione di un piano di azione; tale tesi parrebbe
confermata dalla sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione/Germania
(Racc. pag. I-2607).
21. Alla luce di ciò, il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il procedimento
e di proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’art. 7, n. 3, della direttiva (…) 96/62(…), sia da interpretare nel senso che ad un
terzo, che abbia subito danni alla salute, viene conferito un diritto soggettivo all’adozione di
un piano d’azione anche allorquando, indipendentemente dal piano d’azione, lo stesso è in
124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 124
grado di far valere il suo diritto alla difesa contro gli effetti nocivi per la salute dovuti al
superamento del valore massimo di emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10,
agendo in giudizio per ottenere l’intervento delle autorità competenti.
2) Qualora la prima questione debba essere risolta in senso affermativo: se un terzo, esposto
agli effetti nocivi per la salute prodotti dalle particelle di polveri fini PM10, abbia diritto
all’adozione di detto piano d’azione recante misure da applicare a breve termine, atte a
garantire la stretta osservanza del valore massimo di emissione fissato per le particelle di
polveri fini PM10.
3) Qualora la seconda questione debba essere risolta in senso negativo: in che misura, grazie
ai provvedimenti definiti nel piano d’azione, il rischio di superamento del valore massimo
debba essere ridotto e la sua durata circoscritta. Se il piano d’azione possa limitarsi, alla stregua
di un programma graduale, a misure che, pur non garantendo il rispetto del valore massimo,
contribuiscano ciò nondimeno al miglioramento a breve termine della qualità dell’aria».
Sulle questioni pregiudiziali
Osservazioni presentate alla Corte
22. Il ricorrente nella causa principale asserisce che, in tutti i casi in cui l’inosservanza,
da parte delle autorità nazionali, delle disposizioni di una direttiva diretta a proteggere la
sanità pubblica possa mettere a rischio la salute delle persone, queste ultime devono poter
invocare le norme di ordine pubblico che esse contengono [v., per quanto riguarda la direttiva
del Consiglio 15 luglio 1980, 80/779/CEE, relativa ai valori limite e ai valori guida di
qualità dell’aria per l’anidride solforosa e le particelle in sospensione (GU L 229, pag. 30),
sentenza 30 maggio 1991, causa C-361/88, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2567,
punto 16, e, per quanto concerne le direttive del Consiglio 16 giugno 1975, 75/440/CEE,
concernente la qualità delle acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile
negli Stati membri (GU L 194, pag. 26) e 9 ottobre 1979, 79/869/CEE, relativa ai metodi di
misura, alla frequenza dei campionamenti e delle analisi delle acque superficiali destinate
alla produzione di acqua potabile negli Stati membri (GU L 271, pag. 44) sentenza 17 ottobre
1991, causa C-58/89, Commissione/Germania, Racc. pag. I-4983, punto 14].
23. Poiché ritiene che la direttiva 96/62 miri a proteggere la salute umana, il ricorrente
nella causa principale sostiene che l’art. 7, n. 3, della detta direttiva costituisce una norma
di ordine pubblico, la quale impone la predisposizione di un piano di azione una volta che
esista anche solo il semplice rischio di superamento di un valore massimo. L’obbligo di predisporre
un piano del genere in tale ipotesi, la cui esistenza è pacifica nella controversia principale,
costituirebbe di conseguenza una norma di cui egli potrebbe valersi, in base alla giurisprudenza
citata nel punto precedente della presente motivazione.
24. Per quanto concerne il contenuto del piano di azione, il ricorrente nella causa principale
sostiene che esso deve prevedere tutte le misure idonee affinché il periodo di superamento
dei valori massimi sia il più breve possibile. Ciò si ricaverebbe in particolare dall’economia
dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, il quale indica chiaramente che i piani di azione
devono essere redatti una volta che esista anche solo il semplice rischio di superamento
di questi valori, e dell’art. 8, n. 3, della medesima direttiva, secondo il quale, quando i valori
massimi sono già superati, gli Stati membri devono adottare misure per elaborare o porre
in esecuzione un piano o un programma, che consenta di raggiungere il valore massimo entro
il termine stabilito.
25. Il governo olandese sostiene che l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 non conferisce
ai terzi un diritto soggettivo alla predisposizione di un piano di azione. Gli Stati membri
disporrebbero di un’ampia discrezionalità tanto per l’adozione dei piani di azione, quanto per
la determinazione dei loro contenuti.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 125
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 125
26. Dalla medesima disposizione si ricaverebbe che il legislatore comunitario ha inteso
lasciare agli Stati membri il potere di porre in esecuzione un piano di azione e di adottare
le misure accessorie, che essi giudichino necessarie e adeguate per raggiungere il risultato
programmato.
27. Di conseguenza, l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 non imporrebbe agli Stati membri
nessun obbligo di risultato. L’ampia discrezionalità di cui disporrebbero consentirebbe
loro di ponderare diversi interessi e di adottare provvedimenti concreti, i quali tengano conto
tanto dell’osservanza dei valori massimi quanto di altri interessi ed obblighi, quali la libera
circolazione all’interno dell’Unione europea.
28. Pertanto, gli Stati membri sarebbero obbligati unicamente a porre in esecuzione
piani di azione, i quali indichino le misure da adottare a breve termine per ridurre il rischio
di superamento dei detti valori o limitarne la durata.
29. Il governo austriaco ricorda che la Corte ha dichiarato che le disposizioni del diritto
comunitario, che stabiliscono valori massimi al fine di tutelare la salute umana, conferiscono
parimenti agli interessati un diritto all’osservanza di questi valori, che essi possono far
valere in giudizio (sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione/Germania, cit.).
30. Questo governo ritiene tuttavia che, sebbene l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 possa
ritenersi direttamente efficace, da ciò non deriva che questa disposizione stabilisca, a vantaggio
dei soggetti dell’ordinamento, un diritto soggettivo alla predisposizione di piani di azione,
dal momento che, a suo parere, essa mira unicamente all’adozione di misure in grado di
contribuire a garantire l’osservanza dei valori massimi nel quadro dei programmi nazionali.
31. La Commissione asserisce che dalla lettera della direttiva 96/62, in particolare dal
combinato disposto degli artt. 7, n. 3, e 2, punto 5, nonché dal dodicesimo ‘considerando’ di
quest’ultima, si ricava che la fissazione dei valori massimi per le particelle fini PM10 mira
alla tutela della salute umana. Ebbene, la Corte avrebbe dichiarato, con riferimento a disposizioni
analoghe, che, in tutti i casi in cui il superamento dei valori massimi possa mettere a
rischio la salute delle persone, queste ultime potevano invocare tali norme al fine di affermare
i loro diritti (citate sentenze 30 maggio 1991, causa C-361/88, Commissione/Germania,
punto 16, e causa C-59/89, Commissione/Germania, punto 19, nonché 17 ottobre 1991,
Commissione/Germania, punto 14).
32. I principi fissati in tali sentenze si applicherebbero ai piani di azione di cui alla
direttiva 96/62. Pertanto, l’autorità competente sarebbe obbligata a predisporre piani del
genere quando le condizioni stabilite da questa direttiva sono soddisfatte. Ne discenderebbe
che un terzo interessato dal superamento di valori massimi potrebbe invocare il suo diritto a
che venga predisposto un piano di azione, necessario per raggiungere l’obiettivo relativo a
questi valori massimi fissato dalla detta direttiva.
33. Per quanto concerne il contenuto dei piani di azione, la Commissione basa la sua
risposta sui termini dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, secondo i quali questi piani di azione
devono prevedere misure «da adottare a breve termine (…) al fine di ridurre il rischio [di
un superamento] e di limitarne la durata». Essa ritiene che l’autorità competente disponga di
un potere discrezionale per adottare le misure che le sembrino più adeguate, a condizione che
queste ultime siano concepite alla luce di quanto sia effettivamente possibile e giuridicamente
adeguato realizzare, in modo da consentire un ritorno, nel più breve tempo possibile, a
livelli inferiori ai valori massimi stabiliti.
Risposta della Corte
Per quanto concerne la predisposizione dei piani di azione
34. Con la sua prima questione, il Bundesverwaltungsgericht chiede se un soggetto dell’ordinamento
possa pretendere dalle competenti autorità nazionali la predisposizione di un
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piano di azione nell’ipotesi, prevista dall’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, di un rischio di
superamento dei valori massimi o delle soglie di allarme.
35. Questa disposizione impone agli Stati membri un chiaro obbligo di predisporre
piani di azione sia in caso di rischio di superamento dei valori massimi, sia in caso di rischio
di superamento delle soglie di allarme. Questa interpretazione, che deriva dalla semplice lettura
dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, è confermata del resto dal dodicesimo ‘considerando’
di quest’ultima. Quanto enunciato in merito ai valori massimi vale a fortiori per quanto
riguarda le soglie di allarme relativamente alle quali, del resto, l’art. 2 di questa stessa
direttiva, il quale definisce le varie nozioni impiegate in quest’ultima, dispone che gli Stati
membri «devono immediatamente intervenire a norma della presente direttiva».
36. Inoltre, in forza di una giurisprudenza consolidata della Corte, i soggetti dell’ordinamento
possono far valere nei confronti delle autorità pubbliche disposizioni categoriche e
sufficientemente precise di una direttiva (v., in tal senso, sentenza 5 aprile 1979, causa
148/78, Ratti, Racc. pag. 1629, punto 20). È compito delle autorità e dei giudici nazionali
interpretare le disposizioni dell’ordinamento nazionale in un senso che sia compatibile, nella
maggiore misura possibile, con gli obiettivi di questa direttiva (v., in tal senso, sentenza 13
novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8). Qualora non sia
possibile formulare un’interpretazione del genere, è loro compito disapplicare le norme dell’ordinamento
nazionale incompatibili con la detta direttiva.
37. Come ha ricordato più volte la Corte, è incompatibile con il carattere vincolante che
l’art. 249 CE riconosce alla direttiva escludere, in linea di principio, che l’obbligo che essa
impone possa essere invocato dagli interessati. Questa considerazione vale in modo particolare
per una direttiva, il cui scopo è quello di controllare nonché ridurre l’inquinamento
atmosferico e che mira, di conseguenza, a tutelare la sanità pubblica.
38. Per tali ragioni la Corte ha dichiarato che, in tutti i casi in cui l’inosservanza dei
provvedimenti imposti dalle direttive relative alla qualità dell’aria e a quella dell’acqua potabile,
e che mirano a tutelare la sanità pubblica, possa mettere in pericolo la salute delle persone,
queste ultime devono poter invocare le norme di ordine pubblico che esse contengono
(v. citate sentenze 30 maggio 1991, causa C-361/88, Commissione/Germania, e causa C-
59/89, Commissione/Germania, nonché 17 ottobre 1991, Commissione/Germania).
39. Da quanto sin qui esposto deriva che le persone fisiche o giuridiche direttamente
interessate da un rischio di superamento di valori massimi o di soglie di allarme devono poter
ottenere dalle autorità competenti, eventualmente adendo i giudici competenti, la predisposizione
di un piano di azione una volta che esista un rischio del genere.
40. La circostanza che queste persone dispongano di altre procedure, in particolare del
potere di pretendere dalle competenti autorità l’adozione di misure concrete per ridurre l’inquinamento,
come previsto dall’ordinamento tedesco, in base a quanto indicato dal giudice
del rinvio, è irrilevante a tal riguardo.
41. Infatti, da un lato, la direttiva 96/62 non contiene nessuna riserva relativa a provvedimenti
che possano essere adottati in forza di altre disposizioni dell’ordinamento nazionale;
dall’altro, essa istituisce una procedura del tutto specifica di pianificazione che mira, come
enunciato dal suo dodicesimo ‘considerando’, alla tutela dell’ambiente «nel suo complesso»,
tenendo conto dell’insieme degli elementi da prendere in considerazione quali, in particolare,
le esigenze collegate al funzionamento degli impianti industriali o agli spostamenti.
42. Di conseguenza, occorre risolvere la prima questione dichiarando che l’art. 7, n. 3,
della direttiva 96/62 dev’essere interpretato nel senso che, in caso di rischio di superamento
dei valori limite o delle soglie di allarme, i soggetti dell’ordinamento direttamente interessa-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 127
02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 127
ti devono poter ottenere dalle competenti autorità nazionali la predisposizione di un piano di
azione, anche quando essi dispongano, in forza dell’ordinamento nazionale, di altre procedure
per ottenere dalle medesime autorità che esse adottino misure di lotta contro l’inquinamento
atmosferico.
Per quanto concerne il contenuto dei piani di azione
43. Con le sue questioni seconda e terza, il Bundesverwaltungsgericht chiede se le
competenti autorità nazionali abbiano l’obbligo di adottare misure le quali, a breve termine,
consentano di raggiungere il valore massimo o se le stesse possano limitarsi ad adottare quelle
che consentano di ridurre l’entità del superamento nonché di limitarne la durata e che
siano tali, di conseguenza, da consentire un miglioramento progressivo della situazione.
44. Ai sensi dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, i piani di azione devono contenere le
misure «da adottare a breve termine in casi di rischio di un superamento dei valori limite e/o
delle soglie di allarme, al fine di ridurre il rischio e limitarne la durata». Dalla lettera stessa
risulta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adottare misure tali da scongiurare qualsiasi
superamento.
45. Al contrario, dall’economia della detta direttiva, la quale mira a una riduzione integrata
dell’inquinamento, si ricava che spetta agli Stati membri adottare misure idonee a
ridurre al minimo il rischio di superamento e la sua durata, tenendo conto di tutte le circostanze
presenti e degli interessi in gioco.
46. In questa prospettiva occorre rilevare che, sebbene gli Stati membri dispongano di
un potere discrezionale, l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 fissa alcuni limiti all’esercizio di
quest’ultimo, i quali possono essere fatti valere dinanzi ai giudici nazionali (v., in tal senso,
sentenza 24 ottobre 1996, causa C-72/95, Kraaijeveld e a., Racc. pag. I-5403, punto 59), in
relazione al carattere adeguato delle misure che il piano di azione deve contenere nei confronti
dell’obiettivo di riduzione del rischio di superamento e di limitazione della sua durata,
in considerazione dell’equilibrio che occorre garantire tra tale obiettivo e i diversi interessi
pubblici e privati in gioco.
47. Di conseguenza, occorre risolvere le questioni seconda e terza dichiarando che gli
Stati membri hanno come unico obbligo di adottare, sotto il controllo del giudice nazionale,
nel contesto di un piano di azione e a breve termine, le misure idonee a ridurre al minimo il
rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme ed a ritornare gradualmente
ad un livello inferiore ai detti valori o alle dette soglie, tenendo conto delle circostanze di
fatto e dell’insieme degli interessi in gioco.
Sulle spese
48. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) L’art. 7, n. 3, della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE, in materia di
valutazione e di gestione della qualità dell’aria ambiente, come modificata dal regolamento
(CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882, dev’essere
interpretato nel senso che, in caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie
di allarme, i soggetti dell’ordinamento direttamente interessati devono poter ottenere dalle
competenti autorità nazionali la predisposizione di un piano di azione, anche quando essi
dispongano, in forza dell’ordinamento nazionale, di altre procedure per ottenere dalle medesime
autorità che esse adottino misure di lotta contro l’inquinamento atmosferico.
128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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2) Gli Stati membri hanno come unico obbligo di adottare, sotto il controllo del giudice
nazionale, nel contesto di un piano di azione e a breve termine, le misure idonee a ridurre
al minimo il rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme ed a ritornare
gradualmente ad un livello inferiore ai detti valori o alle dette soglie, tenendo conto delle
circostanze di fatto e dell’insieme degli interessi in gioco.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 129
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130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Causa C-446/07 – Materia trattata: agricoltura – Domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta dal Tribunale civile di Modena (Italia) il 1°
ottobre 2007 – Alberto Severi, Cavazzuti e figli/Regione Emilia-Romagna.
(Avvocato dello Stato S. Fiorentino – AL 47067/07).
LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI
1) Se l’art. 3 par. 1 e art. 13 par. 3 Reg. CEE 2081/92 (ora art. 3 par. 1 e
13 par. 2 Reg. Ce 510/06) in riferimento all’articolo 2 D.Lgs. 109/92 (art. 2 dir.
2000/13/CE) debbano essere interpretati nel senso che la denominazione di un
prodotto alimentare contenente riferimenti geografici, per la quale vi sia stato
in sede nazionale un «rigetto» o comunque un blocco dell’inoltro della richiesta
alla Commissione europea di registrazione come DOP o IGP ai sensi dei
citati regolamenti, debba essere considerata generica quantomeno per tutto il
periodo in cui pendono gli effetti del suddetto «rigetto» o blocco;
2) se l’art. 3 par. 1 e art. 13 par. 3 Reg. CE 2081/92 (ora art. 3 par. 1 e
13 par. 2 Reg. Ce 510/06) in riferimento all’articolo 2 D.Lgs. 109/92 (art. 2
dir. 2000/13/CE) debbano essere interpretati nel senso che la denominazione
di un prodotto alimentare evocativo di un luogo non registrata come DOP
o IGP ai sensi dei citati regolamenti, possa essere legittimamente utilizzata
nel mercato europeo dai produttori che ne abbiano fatto uso in buona fede
ed in modo costante per molto tempo prima dell’entrata in vigore del
Regolamento CEE n. 2081/92 (ora Reg. CE 510/06) e nel periodo successivo
a tale entrata in vigore;
3) se l’art. 15 par. 2 della dir. CEE 89/104, relativa all’armonizzazione
delle legislazioni nazionali sui marchi, debba essere interpretato nel senso che
al soggetto titolare di un marchio collettivo di prodotto alimentare, contenente
un riferimento geografico, non è consentito impedire ai produttori di un prodotto,
avente le stesse caratteristiche, di designarlo con una denominazione simile
a quella contenuta nel marchio collettivo, qualora detti produttori abbiano
usato tale denominazione in buona fede, in modo costante per un tempo molto
anteriore alla data di registrazione del suddetto marchio collettivo.
L’INTERVENTO ORALE DEL GOVERNO ITALIANO
Signor Presidente, Signori Giudici, Signor Avvocato Generale.
Pur avendo apprezzato anche le osservazioni delle parti che hanno preso
conclusioni diverse dalle nostre, in questo breve intervento intendiamo confermare
il punto di vista che abbiamo espresso in via principale nel nostro
scritto difensivo(*), secondo il quale tutti e tre i quesiti posti dal Tribunale di
I GIUDIZI IN CORSO
ALLA CORTE DI GIUSTIZIA CE
(*) v. n. 4/07 “Rassegna Avvocatura dello Stato”.
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 130
Modena devono essere dichiarati irricevibili, perché essi pongono questioni
che non hanno relazione alcuna con l’oggetto della causa principale.
La risoluzione delle questioni che si pongono nel giudizio a quo, sebbene
richieda un accertamento di fatto piuttosto complesso, è, nei suoi termini
giuridici, estremamente semplice e non coinvolge l’interpretazione del
Regolamento sulle indicazioni geografiche e le denominazioni di origine, né
l’interpretazione della direttiva sui marchi.
Il Giudice nazionale deve, infatti, esclusivamente accertare se la denominazione
di vendita utilizzata dalla ricorrente ed apposta sui prodotti messi in
commercio, fosse tale da indurre in errore i consumatori in relazione alla loro
provenienza.
Per risolvere tale questione, il Tribunale di Modena è chiamato ad applicare,
e quindi ad interpretare, la sola direttiva sull’etichettatura, ed in particolare
il suo articolo 2, paragrafo 1, che vieta l’uso di indicazioni capaci di
indurre in errore l’acquirente.
Lo scopo della direttiva sull’etichettatura – lo si desume, ad esempio, dal
sesto, dall’ottavo e dal quattordicesimo dei suoi ‘considerando’ – è principalmente
quello di assicurare una corretta informazione ai consumatori.
I consumatori sono dei terzi che hanno diritto a non essere indotti in errore,
indipendentemente dai rapporti tra il produttore e l’eventuale titolare di un
marchio collettivo, indipendentemente dalla sua buona fede nell’utilizzare
una particolare denominazione di vendita ed indipendentemente dal rispetto,
da parte del produttore, delle regole relative alla protezione delle indicazioni
geografiche e delle denominazioni d’origine protetta.
I consumatori, in altre parole, non sono tenuti a sapere se chi utilizza
un’etichettatura sia in buona fede, se stia rispettando i diritti del titolare di un
marchio collettivo, se la sua condotta sia conforme ai precetti del regolamento
sulle indicazioni geografiche.
Ecco perché, nonostante siamo fiduciosi che la risposta sarebbe in linea
con quella da noi suggerita, riteniamo importante che la Corte dichiari irricevibile
anche il primo quesito posto dalla giurisdizione di rinvio.
Ritenere ricevibile il quesito, sia pure per darvi risposta negativa, vorrebbe
dire in qualche modo negare l’autosufficienza – come la ha efficacemente
definita la Commissione – dell’articolo 2 della direttiva sull’etichettatura.
L’origine e la provenienza di un prodotto – siamo qui nuovamente d’accordo
con la Commissione – ha un rilievo autonomo nell’economia dell’articolo
2 della direttiva sulla etichettatura.
È quindi sufficiente che il consumatore sia indotto in errore sull’origine
o sulla provenienza affinché sia violato l’articolo 2 della direttiva.
Tale situazione è già stata considerata dalla Corte nella sentenza
Warsteiner. In quel caso si trattava appunto di un’indicazione geografica c.d.
semplice, che non implicava, cioè, nessun rapporto tra le caratteristiche del
prodotto e la sua origine geografica, perché era pacifico che una birra prodotta
Warstein non possedeva alcuna caratteristica che le derivasse da quella
località. E tuttavia la Corte ritenne legittima una normativa nazionale che inibisse,
a fini del tutela del consumatore, l’utilizzazione di quella indicazione
di provenienza nella enominazione di vendita.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 131
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 131
Nel nostro caso, la ricorrente ha sostenuto che gli acquirenti del prodotto
non potevano essere indotti in errore, perché nell’etichetta era chiaramente
indicato il luogo di preparazione, diverso da quello di tradizionale produzione
del Salame Felino.
Se questa indicazione fosse sufficiente a fornire una corretta informazione
ai consumatori è, evidentemente, una questione di fatto, rimessa all’apprezzamento
del Giudice nazionale. Noi ci limitiamo a rilevare che anche nel
caso Warsteiner l’etichetta apposta sul prodotto indicava come luogo di produzione
una città diversa da Warstein.
Ciò premesso, è evidente che l’errore sull’origine o sulla provenienza del
prodotto può tradursi anche in un errore sulle qualità e sulle caratteristiche
essenziali del prodotto stesso, nel momento in cui, attraverso la indicazione
di un’origine, si finisce per evocare una tradizione produttiva, l’impiego di
materie prime selezionate, l’utilizzo di metodologie di preparazione strettamente
legate al territorio.
In questi casi, infatti, l’indicazione ha l’effetto di descrivere, sia pure
indirettamente e sia pure senza usurpare una denominazione protetta, «la
natura, l’identità e le qualità» del prodotto, cioè altre caratteristiche prese in
considerazione dall’art. 2, paragrafo 1, lettera a), della direttiva.
Se ciò si verifica, l’applicazione dei principi enunciati nella sentenza
Warsteiner si impone, a nostro giudizio, a maggiore ragione, senza che ciò privi
di effetto utile le disposizioni del regolamento sulle indicazioni geografiche.
Infatti non viene qui in questione l’interesse dei concorrenti, cioè dei
soggetti che legittimamente utilizzano la denominazione registrata, ma quello
alla corretta informazione dei consumatori.
Se la denominazione non è registrata i concorrenti non potranno, evidentemente,
invocare la protezione conferita dal regolamento.
Ma ciò non esclude, a nostro giudizio, che siano represse condotte che
abbiano l’effetto di trarre in inganno i consumatori attraverso l’utilizzo di una
denominazione di origine che non sia divenuta generica e che, pertanto, sia
comunque evocativa di certe caratteristiche del prodotto.
Un’interpretazione sistematica delle norme del regolamento n. 510/06
consente, in altre parole, di concludere che esso prende chiaramente in considerazione
tre categorie di denominazioni d’origine: quelle “protette”,
rispetto alle quali è possibile invocare la tutela conferita dal regolamento,
quelle “divenute generiche”, rispetto alle quali quella protezione è esclusa ed
infine quelle che non sono protette, ma non sono neanche divenute generiche.
L’utilizzo di queste ultime denominazioni è indifferente ai fini del regolamento
n. 510 del 2006. Ciò non toglie che esso debba avvenire nel rispetto
della direttiva sull’etichettatura, perché non è ammissibile pretendere di
indurre in errore i consumatori con l’argomento che non si stanno violando
le disposizioni relative alle indicazioni geografiche protette.
Per concludere sul punto, ci sembra che l’utilizzo di una denominazione
d’origine che non sia protetta, ma non sia neanche divenuta generica, sebbene
non rilevi ai fini delle protezione conferita dal regolamento sulle indicazioni
geografiche, non debba necessariamente essere considerato un fatto
autorizzato ai sensi della direttiva sull’etichettatura.
132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 132
E poiché è evidente che la mancata registrazione di una indicazione geografica
o di una denominazione d’origine, o anche l’espresso rigetto di una
domanda di registrazione non rende di per sé generica la denominazione,
siamo convinti che la risposta al primo quesito – nel caso in cui la Corte lo
ritenesse ricevibile – debba essere negativa.
Rispetto al secondo ed al terzo quesito, veramente non vediamo come
essi possano essere considerati ricevibili.
Sul secondo quesito mi sembra che sia questa, sostanzialmente, anche la
conclusione della Commissione. Le norme sull’etichettatura, le sole che il
Giudice del rinvio è chiamato ad applicare, prendono in considerazione
l’aspettativa di un consumatore medio, normalmente avveduto.
Quale sia il contenuto di tale aspettativa è oggetto di un giudizio di fatto.
L’uso costante e in buona fede di una certa denominazione può, in questo contesto,
avere un qualche rilievo solo se, attraverso tale uso, si siano prodotti
degli effetti su tale aspettativa, perchè i consumatori hanno smesso di associare
l’origine o le caratteristiche del prodotto alla denominazione in questione.
Il giudizio su tale questione resta, pertanto, un giudizio di fatto.
Se, nonostante questo uso prolungato e in buona fede, l’etichettatura continua
a rivelarsi ingannevole per l’acquirente, il fatto rientra a pieno titolo nel
divieto posto dall’art. 2 della direttiva sulle etichettature.
È quindi evidente che, per definire la controversia ad esso devoluta, il
Tribunale di Modena non ha alcuna necessità di sapere se, ai sensi del
Regolamento sulle indicazioni geografiche, il ricorrente fosse legittimato ad
utilizzare la denominazione. Le disposizioni del Regolamento non potrebbero
mai autorizzare un produttore ad utilizzare una denominazione che fornisse
un’informazione non corretta al consumatore.
Il terzo quesito è manifestamente irricevibile perché puramente ipotetico,
dal momento che il giudizio a quo non ha ad oggetto la contraffazione di
un marchio collettivo.
I titolari del marchio collettivo non erano neanche parti in causa e sono
intervenuti solo dopo la proposizione della questione pregiudiziale.
Non viene in questione, pertanto, l’interpretazione della direttiva sui
marchi. Questa direttiva stabilisce le condizioni alle quali il titolare del diritto
su un marchio può inibire ai terzi l’uso nel commercio, per prodotti analoghi,
di segni distintivi uguali o simili al marchio, suscettibili di indurre confusione
nel pubblico.
L’aspettativa del consumatore è presa in considerazione, dalla direttiva
sui marchi, ma in via del tutto indiretta, al fine di definire il contenuto del
diritto del titolare del marchio in un giudizio di contraffazione. Le norme che
il Giudice del rinvio è chiamato ad applicare tutelano, invece, direttamente le
aspettative del consumatore, riconoscendogli un diritto ad una completa
informazione che non potrebbe essere violato sulla base dei diritti acquisiti
dal produttore nei confronti del titolare del marchio.
In altre parole, le norme di cui si chiede l’interpretazione nel terzo quesito
sono norme di diritto privato, volte a stabilire se un concorrente possa
validamente opporre al titolare del marchio collettivo un limite ai diritti conferiti
da tale marchio.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 133
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 133
Tuttavia – e mi avvio a concludere – questo limite non potrebbe essere
efficacemente opposto alle autorità pubbliche, nel momento in cui queste
contestano all’interessato, sulla base di norme di diritto pubblico, la violazione
delle disposizioni relative alla etichettatura.
Ecco perchè siamo convinti che anche il terzo quesito debba essere
dichiarato non ricevibile. Ove la Corte dovesse essere di diverso parere, ci
sembrano ben fondate le argomentazioni e le conclusioni prese sul punto
dalla Commissione, alle quali, per brevità mi richiamo.
Sulla base di quanto precede confidiamo che la On.le Corte vorrà accogliere
le conclusioni rese nella fase scritta.
Avv. Sergio Fiorentino
Causa C-509/07 – Materia trattatata: ravvicinamento delle legislazioni
– Domanda di proununcia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Bergamo
(Italia) il 21 novembre 2007 – Luigi Scarpelli/NEOS Banca SpA.
(Avvocato dello Stato W. Ferrante – AL 4988/08).
LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE
Se l’articolo 11, comma 2, della direttiva 87/102/CEE debba essere
interpretato nel senso che l’accordo tra fornitore e finanziatore in base al
quale il credito è messo esclusivamente da quel creditore a disposizione dei
clienti di quel fornitore, sia presupposto necessario del diritto del consumatore
di procedere contro il creditore – in caso di inadempimento del fornitore
– anche quando tale diritto sia: a) solo quello di risoluzione del contratto
di finanziamento, oppure b) quello di risoluzione e di conseguente restituzione
delle somme pagate al finanziatore.
L’INTERVENTO ORALE DEL GOVERNO ITALIANO
Signor Presidente, signori Giudici, signor Avvocato Generale,
Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia nella quale un
consumatore, convenuto in giudizio da una banca che gli aveva erogato un
finanziamento per l’acquisto di un’autovettura perché aveva sospeso il pagamento
delle residue rate del mutuo, eccepiva che l’autovettura, dopo ben due
anni dalla conclusione del contratto e il pagamento di 24 rate mensili, non gli
era mai stata consegnata dal venditore, nelle more fallito.
L’acquirente invocava pertanto la risoluzione del contratto di compravendita,
collegato funzionalmente con quello di finanziamento, del quale
chiedeva pure la risoluzione, unitamente alla restituzione delle rate nel frattempo
pagate.
La questione sottoposta all’attenzione della Corte riveste una particolare
importanza, tenuto conto dell’esigenza di apprestare un’efficace tutela del
consumatore in un momento in cui la congiuntura economica, sia in Italia che
nel resto dell’Europa, rende il ricorso al mutuo bancario uno strumento spes-
134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 134
so indispensabile per l’acquisto di beni fondamentali quali l’abitazione o,
come nel caso di specie, l’automobile.
L’art. 11, paragrafo 2 della direttiva 87/102/CEE attribuisce al consumatore
che abbia ottenuto un finanziamento per l’acquisto di beni di consumo,
il diritto, in caso di inadempimento del fornitore, di procedere contro il finanziatore,
per quel che interessa nel caso di specie, solo allorquando sussista un
rapporto di esclusiva tra quest’ultimo ed il fornitore.
Al riguardo, non si concorda con i dubbi di ricevibilità del quesito sollevati
dalla Commissione nelle proprie osservazioni scritte, sul presupposto che
l’art. 11, par. 2 della direttiva non sarebbe applicabile nel caso di specie, caratterizzato
dall’assenza di un rapporto di esclusiva tra creditore e fornitore.
Ciò che viene chiesto alla Corte è infatti di definire in cosa consista “il
diritto di procedere contro il creditore”, non specificato dal citato art. 11, par.
2: se cioè tale diritto possa riguardare la risoluzione del contratto di credito, la
richiesta di restituzione delle rate di mutuo già corrisposte sine causa ovvero
l’azione di risarcimento del danno derivante dall’inadempimento del fornitore.
La soluzione che la Corte fornirà al quesito vertente sulla interpretazione
della citata norma comunitaria sarà quindi assolutamente rilevante ai fini
della risoluzione della controversia.
Ciò premesso, occorre precisare che il citato art. 11, par. 2 è stato trasposto
nell’ordinamento italiano con l’art. 42 del Codice del consumo (decreto
legislativo n. 206 del 2005), in base al quale il consumatore ha diritto di agire
contro il finanziatore “a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al
finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore”.
In proposito, occorre rettificare quanto affermato dal Governo tedesco ai
punti 3 e 11 delle proprie osservazioni scritte in merito al fatto che, in base
alla legislazione italiana, i diritti del consumatore nei confronti del finanziatore
sarebbero svincolati dall’esistenza di un rapporto di esclusiva tra finanziatore
e fonitore.
In realtà, dalla norma appena richiamata, risulta invece che tale accordo
di esclusiva è necessario.
Non si può concludere quindi, come fatto dal Governo tedesco, che nell’ordinamento
italiano esiste una norma più favorevole per il consumatore,
che sarebbe certamente conforme al diritto comunitario in base a quanto
espressamente previsto dal considerando 25 e dall’art. 15 della direttiva
87/102/CEE che consentono agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni
più severe a protezione del consumatore, nel rispetto degli obblighi
derivanti dal Trattato.
Il giudice del rinvio però ricorda che, in base alla giurisprudenza (e non
alla legislazione) italiana in tema di collegamento negoziale, laddove risulti
inequivocabilmente l’esistenza di un nesso di interdipendenza tra il contratto
di mutuo e quello di vendita, per volontà di tutte le parti, è stato costantemente
affermato che le vicende di un contratto si riverberano su quello collegato,
secondo il principio “simul stabunt, simul cadent” in quanto entrambi i negozi
giuridici sono finalizzati ad un’unica operazione economica.
In base alla richiamata giurisprudenza, formatasi prima dell’adozione del
Codice del consumo che ha trasposto, nel 2005, la direttiva 87/102/CEE, è
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 135
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 135
quindi ammessa l’azione di risoluzione del contratto di credito al consumo
nel caso di inadempimento totale del venditore, alla quale consegue l’obbligo
del finanziatore di restituire le rate già percepite in assenza di una ragione
giustificativa, a prescindere da un rapporto di esclusiva tra venditore e
finanziatore.
Il giudice del rinvio chiede quindi alla Corte di giustizia di stabilire a
quali diritti del consumatore sia applicabile il presupposto del rapporto di
esclusiva tra fornitore e creditore previsto dall’art. 11, par. 2 della predetta
direttiva, recepito dall’art. 42 del Codice del consumo italiano.
Al riguardo, come chiarito dalla Corte di giustizia ai punti 42 e 64 della sentenza
Rampion e Godard (del 4 ottobre 2007, causa C-429/05), l’obiettivo perseguito
dal citato art. 11, par. 2 deve essere letto alla luce del ventunesimo considerando
della direttiva 87/102/CEE ai termini del quale il consumatore deve
godere, nei confronti del creditore, di diritti che si aggiungono ai suoi normali
diritti contrattuali nei riguardi di questo e del fornitore di beni o servizi, nel caso
in cui esista un precedente accordo di esclusiva tra creditore e fornitore.
Sarebbe quindi irrazionale ritenere che la richiamata disposizione restringa
anziché incrementare la protezione già apprestata al consumatore dagli ordinamenti
nazionali in via legislativa o quanto meno giurisprudenziale e dottrinale.
La direttiva, infatti, è stata emanata allo scopo di assicurare un duplice
obiettivo: assicurare la realizzazione di un mercato comune del credito al
consumo e proteggere i consumatori che ottengono tali crediti (sentenza 23
marzo 2000, causa C-208/98, Berliner Kindl Brauerei, punto 20; sentenza 4
marzo 2004, causa C-264/02, Cofinoga Mérignac, punto 25).
Sarebbe quindi in contrasto con l’obiettivo perseguito dalla direttiva, che
consiste nel garantire in tutti gli Stati membri il rispetto di una tutela minima
del consumatore in materia di credito al consumo, assoggettare diritti contrattuali
già esistenti ad una condizione (quella del rapporto di esclusiva) che,
anzichè rafforzare, indebolisca la posizione del consumatore.
Come correttamente evidenziato dal Governo ungherese al punto 12
delle proprie osservazioni scritte, l’art. 11 della direttiva prescrive solo una
disciplina de minimis, atteso che il ventunesimo considerando stabilisce che
“almeno” nelle circostanze ivi definite, e cioè in presenza di un precedente
accordo di esclusiva tra creditore e fornitore, il consumatore deve godere di
diritti aggiuntivi.
Il termine “almeno” significa che anche in assenza di un accordo di
esclusiva può essere garantito un diritto immediato al consumatore anche
contro il fornitore.
Pertanto, laddove l’ordinamento italiano, per giurisprudenza consolidata
precedente alla trasposizione della direttiva, assicuri al consumatore il
diritto di risolvere il contratto di credito al consumo per effetto dell’inadempimento
contrattuale del venditore e, di conseguenza, di recuperare le rate di
finanziamento già corrisposte, solo sul presupposto del collegamento funzionale
dei due contratti, indipendentemente dal rapporto di esclusiva tra
finanziatore e venditore, l’art. 11 della direttiva non può che garantire diritti
ulteriori, quali il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento del
venditore.
136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 136
Giustamente, il giudice del rinvio sottolinea che l’esercizio dell’azione di
risarcimento del danno nei confronti del finanziatore, che sostanzialmente
estende a quest’ultimo il rischio economico derivante dall’inadempimento
del venditore, potrebbe essere giustificato solo da un rapporto di esclusiva
che presuppone una condivisione della responsabilità e del rischio di impresa
tra i due operatori economici.
Analogo presupposto non è invece richiesto per l’esercizio dei normali
diritti contrattuali: risoluzione del contratto e restituzione del corrispettivo
versato in assenza della controprestazione.
Inoltre, il considerando 24 e l’art. 14 della direttiva impongono agli Stati
membri di adottare le misure necessarie per impedire che le norme di attuazione
della medesima direttiva siano eluse in conseguenza di una speciale
formulazione dei contratti.
Da tale norma, si desume l’esigenza che sia apprestata al consumatore
una tutela il più possibile effettiva, conformemente allo spirito della direttiva,
anche facendo ricorso all’intervento interpretativo del giudice nazionale
chiamato a risolvere una data controversia.
In proposito, va sottolineato, come risulta dalle osservazioni scritte del
consumatore Luigi Scarpelli, che sebbene sia pacifico che il contratto dallo
stesso sottoscritto prevedesse una clausola di esclusione del rapporto di
esclusiva, nella prassi, come successivamente accertato nel procedimento
penale a carico del venditore fallito mediante numerose deposizioni testimoniali
di altri acquirenti, veniva sempre suggerita o meglio imposta la stessa
società finanziaria.
Pertanto, l’inserimento di una clausola che escluda, solo formalmente, la
sussistenza di un accordo che attribuisca alla società finanziaria l’esclusiva
per la concessione di credito ai clienti del fornitore, a fronte della sostanziale
impossibilità di operare una scelta tra più finanziatori, appare chiaramente
finalizzato ad eludere la disciplina che prevede l’esercizio di diritti contrattuali
nei confronti del finanziatore.
Peraltro, il modulo prestampato non lasciava alcuna possibilità al consumatore
di apportare delle modifiche al testo.
Quindi, qualora ci si limitasse al mero dato formalistico, la posizione di
debolezza contrattuale del consumatore potrebbe comportare la sistematica
mancata attuazione della finalità della direttiva e così favorire i professionisti
che inseriscano nel contratto una clausola di non esclusiva, allo scopo di
sottrarlo alla relativa disciplina posta a tutela del consumatore.
Per tale ragione, la necessità del presupposto del rapporto di esclusiva va
interpretato restrittivamente nel senso di non precludere al consumatore di
esercitare quei diritti che comunque gli spettavano a prescindere dalla trasposizione
negli ordinamenti nazionali dell’art. 11, par. 2 della direttiva.
Alla luce della finalità della direttiva, improntata al favor nei confronti
del consumatore, non può essere condiviso quanto affermato dalla Neos
Banca spa, secondo la quale appare corretto, nella logica della ripartizione
dei rischi, che il consumatore subisca anch’esso l’alea dell’operazione di credito,
altrimenti “rimarrebbe sempre e comunque indenne”.
Il rischio d’impresa va infatti sopportato dall’imprenditore e da ogni soggetto
che agisca professionalmente allo scopo di trarre profitto dalla propria attivi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 137
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 137
138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
tà (nella specie sia il fornitore, sia il finanziatore) e non certo dalla persona fisica
che acquista un bene di consumo per soddisfare un esigenza fondamentale.
Peraltro, come correttamente osservato al punto 62 delle conclusioni
dell’Avvocato Generale nella citata causa Rampion e Godard, la tutela
aggiuntiva del consumatore, apprestata dall’art. 11, par. 2 della direttiva, in
caso di inadempimento del fornitore, rappresentata dal diritto di procedere
contro il creditore, è volta a compensare l’indebolimento della tutela del consumatore,
rispetto all’ipotesi di credito concesso direttamente dal fornitore,
che altrimenti conseguirebbe a quello “sdoppiamento” della sua controparte
che è inerente all’acquisto di beni e servizi tramite credito concesso da persona
diversa dal fornitore; sdoppiamento che porrebbe il consumatore nell’impossibilità
di far valere la mancata esecuzione della fornitura per sottrarsi
al rimborso del credito.
Il Governo italiano conclude quindi nel senso che l’art. 11, par. 2 della
direttiva 102/87/CEE debba interpretarsi nel senso che l’accordo di esclusiva
tra fornitore e finanziatore non sia presupposto necessario del diritto del
consumatore di procedere contro il creditore – in caso di inadempimento del
fornitore – per la risoluzione del contratto di finanziamento e la conseguente
restituzione delle somme pagate al finanziatore.
Lussemburgo, 11 dicembre 2008 Avv. Wally Ferrante
Causa C-561/07 – Materia trattata: ravvicinamento delle legislazioni –
Ricorso presentato il 18 dicembre 2007 – Commissione delle Comunità
europee/Repubblica italiana. (Avvocato dello Stato W. Ferrante – AL
3316/08).
LE CONCLUSIONI DELLA COMMISSIONE
– Mantenendo in vigore le disposizioni dell’articolo 47, commi 5 e 6, della
legge 428 del 29 dicembre 1990 in caso di crisi aziendale a norma dell’art.
2, quinto comma, lettera c) della legge 12 agosto 1977 n. 675 in modo tale
che i diritti dei lavoratori elencati agli articoli 3 e 4 della direttiva
2001/23/CE non sono garantiti in caso di trasferimento di imprese di cui è
stata accertata la «situazione di crisi», la Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi che le incombono in virtù di questa direttiva;
– condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese di giudizio.
I MOTIVI E I PRINCIPALI ARGOMENTI
La Commissione ritiene che le disposizioni della legge n. 428/1990 (art.
47, commi 5 e 6) violano la direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001 concernente
il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento
dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti
o di parti di imprese o di stabilimenti, in quanto i lavoratori dell’impresa
ammessi al regime della cassa integrazione guadagni straordinaria
trasferiti all’acquirente perdono i diritti previsti dall’art. 2112 del codice
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 138
civile fatte salve le eventuali garanzie previste dall’accordo sindacale (il
«trattamento di miglior favore» evocato all’art. 47 paragrafo 5).
Ciò significa che i lavoratori dell’impresa ammessa al regime della
Cassa integrazione guadagni («CIGS») per una situazione di crisi non beneficiano,
in caso di trasferimento dell’impresa, delle garanzie previste agli
articoli 3 e 4 della direttiva.
Per quanto concerne l’articolo 47, comma 6, esso prevede che i lavoratori
che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del
subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi
effettuano entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo
maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori
predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante
in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione
l’articolo 2112 del codice civile.
Il Governo italiano non ha contestato l’analisi della Commissione in base
alla quale i lavoratori dell’impresa ammessa al regime della CIGS per situazione
di crisi non beneficiano, in caso di trasferimento d’impresa, delle garanzie
previste agli articoli 3 e 4 della direttiva. Tuttavia esso ha sostenuto che nel
caso di specie si applicherebbe l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva.
La Commissione ha rilevato nel ricorso che detta disposizione consente,
sì, nell’ipotesi di trasferimento di imprese quando l’alienante è in una situazione
di crisi economica grave, di modificare le condizioni di lavoro dei lavoratori
al fine di salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la
sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o stabilimenti.
Tuttavia questa disposizione abilita lo Stato membro unicamente a
consentire all’alienante e ai rappresentanti dei lavoratori di convenire di
modificare le condizioni di lavoro in talune circostanze e non di escludere,
come fa l’articolo 47, commi 5 e 6, della legge n. 428/90, l’applicazione degli
art. 3 e 4 della direttiva.
L’INTERVENTO ORALE DEL GOVERNO ITALIANO
Signor Presidente, signori Giudici.
Con la procedura di infrazione in questione, la Commissione delle
Comunità Europee ha adito la Corte di Giustizia allo scopo di far constatare
la non conformità dell’art. 47, commi 5 e 6 della legge n. 428/1990 con la
direttiva 2001/23/CE concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti
di imprese.
In particolare, la Commissione ritiene che detta norma, nell’escludere
l’applicazione dell’art. 2112 del codice civile ai lavoratori trasferiti all’acquirente
in caso di crisi aziendale, priverebbe i lavoratori stessi delle garanzie
previste dagli articoli 3 e 4 della direttiva 2001/23/CE, trasfusi appunto nell’art.
2112 del codice civile.
In proposito, il Governo italiano ha dedotto, da un lato, che la previsione
di alcune delle garanzie riconosciute dai predetti articoli 3 e 4 della direttiva
è facoltativa per gli Stati membri e, dall’altro, che, per le altre garanzie
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 139
non facoltative, l’art. 5, paragrafi 2 e 3 della medesima direttiva contempla
espressamente la possibilità di adottare un regime derogatorio, di cui si è
avvalso il legislatore italiano.
Con riferimento al primo profilo, ovvero, alle garanzie facoltative, si
ricorda che le stesse riguardano tre distinte previsioni: 1) la solidarietà passiva
tra cedente e cessionario per i crediti di lavoro esistenti alla data del trasferimento
(art. 3, n. 1, comma 2); 2) la notifica da parte del cedente al cessionario
di tutti i diritti e gli obblighi che saranno trasferiti a quest’ultimo
(art. 3, n. 2); 3) il trasferimento dei diritti e il mantenimento delle condizioni
convenute mediante contratto collettivo con riferimento alle prestazioni di
vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari di previdenza
professionali o interprofessionali.
In relazione alla prima garanzia facoltativa, si prende atto che la
Commissione, al punto 11 della replica, riconosce che il riferimento del ricorso
all’art. 3 della direttiva non deve intendersi esteso alla non conformità
della norma nazionale con il secondo comma del paragrafo 1 di detto art. 3,
relativo appunto alla responsabilità solidale tra alienante e acquirente.
Tale ridimensionamento della contestazione, rispetto al punto 18 del
ricorso, è confermato nelle conclusioni della replica della Commissione che
specificano esattamente quali parti degli articoli 3 e 4 della direttiva si ritengono
violati, eccettuando espressamente l’art. 3, paragrafo 1, comma 2.
Quanto alla seconda garanzia facoltativa, molto opportunamente, la
Corte ha rivolto un quesito alla Commissione al fine di accertare se, preso
atto della rinuncia alla contestazione appena menzionata, la Commissione
confermi se intende mantenere la censura basata sulla violazione dell’art. 3,
n. 2 della direttiva 2001/23, posto che anche detta norma prevede la mera
facoltà per gli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari per garantire
che il cedente notifichi al cessionario tutti i diritti e gli obblighi che saranno
trasferiti al cessionario.
Ad avviso del Governo italiano, la risposta della Commissione non potrà
che essere negativa.
Non può configurarsi infatti alcuna violazione da parte del diritto nazionale
di una norma comunitaria di carattere facoltativo, che rimetta allo Stato
membro la scelta in ordine al suo recepimento o meno.
Quanto alla terza garanzia facoltativa, si ritiene che, anche qui, per coerenza,
la Commissione dovrebbe rinunciare alla relativa censura, atteso che,
pure in tal caso, “a meno che gli Stati membri dispongano diversamente”, i
paragrafi 1 e 3 dell’art. 3 non si applicano ai diritti dei lavoratori a prestazioni
di vecchiaia, di invalidità, o per i superstiti dei regimi complementari di
previdenza professionali o interprofessionali.
Quindi, non solo tali diritti possono essere esclusi dall’applicabilità della
direttiva ma addirittura gli stessi sono di regola esclusi, in assenza di una contraria
previsione degli Stati membri. Anche rispetto a tale esclusione, non può
pertanto in alcun modo ipotizzarsi una non conformità alla norma comunitaria.
In merito a quanto osservato dalla Commissione al punto 9 della replica
in merito all’art. 3, paragrafo 4, lettera b), che prevede comunque l’adozione
di provvedimenti per tutelare gli interessi dei lavoratori concernenti le presta-
140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 140
zioni di vecchiaia e per i superstiti (non anche quelle di invalidità) qualora gli
Stati membri decidano di non ritenere applicabili i paragrafi 1 e 3, a norma
del citato paragrafo 4, lettera a), si osserva che in nessun punto dell’art. 2112
c.c. vi è alcun cenno a dette prestazioni, la cui tutela è assicurata da altre
norme dell’ordinamento italiano e pertanto non è dalla non applicazione dell’art.
2112 c.c. (disposta dal censurato art. 47, comma 5 l. 428/1990) che può
derivare la non conformità agli artt. 3 e 4 della direttiva in questione. Ai sensi
dell’art. 3, commi 4 bis e 4 ter della l. 223/1991 in tema di cassa integrazione
e mobilità, infatti, è espressamente previsto che, per i lavoratori che maturino,
nel corso del trattamento di mobilità, il diritto alla pensione, la retribuzione
da prendere a base per il calcolo della pensione deve intendersi quella
dei dodici mesi di lavoro precedenti l’inizio del trattamento di mobilità.
Con riferimento al secondo profilo, ovvero alle garanzie non facoltative
– che il legislatore italiano non avrebbe potuto escludere ove non autorizzato
da altre norme della stessa direttiva – occorre soffermarsi sull’art. 3, paragrafi
1 e 3 e sull’art. 4 della direttiva.
Partendo dall’art. 4, occorre ricordare che tale norma, nel prevedere che
il trasferimento di un’impresa non è di per sé motivo di licenziamento, soggiunge,
subito dopo che “tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che
possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che
comportano variazioni sul piano dell’occupazione” che è ciò che accade nel
caso di accertamento “di specifici casi di crisi aziendale che presentino particolare
rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale ed
alla situazione produttiva del settore” ai sensi dell’art. 2, comma 5, lettera c)
della legge 12 agosto 1977 n. 675.
Proprio i motivi economici, tecnici o d’organizzazione sono stati invocati
dalla Corte di giustizia, in relazione alla legislazione spagnola, nella recente
sentenza del 16 ottobre 2008, causa C-313/07, Vigano, punti 45 e 46, per
escludere che la direttiva 2001/23 imponga, in caso di trasferimento di impresa,
di mantenere il contratto di locazione di un locale commerciale concluso
dal cedente dell’impresa anche se la risoluzione di tale contratto possa comportare
la risoluzione dei contratti di lavoro trasferiti al cessionario.
La Corte ha soggiunto che la necessità di raggiungere l’obiettivo di tutela
dei lavoratori non può spingersi fino al punto di pregiudicare i diritti di
terzi estranei all’operazione di trasferimento dell’impresa, imponendo loro
l’obbligo di subire un trasferimento automatico del contratto di locazione che
non è chiaramente previsto dalla direttiva di cui trattasi (punto 44).
Proprio alla luce di tale recente e condivisibile interpretazione restrittiva
degli articoli 3 e 4 della direttiva, volta a contemperare le esigenze di tutela
dei lavoratori e con altri interessi altrettanto meritevoli di considerazione, si
ribadisce che la rigida applicazione delle predette norme della direttiva,
anche laddove la stessa ne consenta una parziale deroga, costituirebbe un
disincentivo per gli imprenditori eventualmente disposti ad acquisire l’impresa
in stato di crisi, vista l’eccessiva onerosità del trasferimento di tutti i lavoratori,
non supportata da incentivi connessi alla loro assunzione, con un effetto
finale complessivamente deteriore per i lavoratori medesimi.
Infatti, anche i lavoratori eccedenti non trasferiti perderebbero i vantaggi
che avrebbero eventualmente potuto trarre dalla prosecuzione del rappor-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 141
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 141
to di lavoro con il cedente, godendo comunque del diritto di precedenza
nelle assunzioni effettuate dal cessionario entro un anno dal trasferimento
dell’impresa.
Quanto all’art. 3, paragrafi 1 e 3, si evidenzia che l’art. 5, paragrafo 2,
concernente i trasferimenti nel corso di una procedura di insolvenza non
necessariamente finalizzata alla liquidazione dei beni del cedente, quale è la
dichiarazione di crisi aziendale oggetto del presente procedimento, prevede,
alla lettera a), una sostanziale deroga che consente di non trasferire al cessionario
gli obblighi del cedente nei confronti dei lavoratori, a condizione che
tale procedura di insolvenza appresti una protezione almeno equivalente a
quella prevista dalla direttiva 80/987/CEE.
Orbene, in base all’art. 4 della citata direttiva, in caso di insolvenza del
datore di lavoro, gli organismi di garanzia assicurano ai lavoratori i diritti non
pagati relativi alla retribuzione degli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro.
Il meccanismo della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria ha invece
una durata ben più estesa, essendo peraltro finalizzato alla graduale assunzione
di tale personale da parte del cessionario, con priorità rispetto alle
eventuali altre assunzioni che quest’ultimo si determini ad effettuare entro un
anno dal trasferimento, come previsto dall’art. 47, comma 6 della legge n.
428/90.
In particolare, l’art. 1 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e successive
modificazioni, recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti
di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea,
avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro,
prevede che i trattamenti straordinari di integrazione salariale non possano
avere una durata complessiva superiore a trentasei mesi mentre l’articolo 7
della stessa legge prevede, per i lavoratori collocati in mobilità, una indennità
per un periodo massimo di dodici mesi, elevato a ventiquattro mesi per i
lavoratori che hanno compiuto i quaranta anni e a trentasei mesi per i lavoratori
che hanno compiuto i cinquanta anni, precisando che l’indennità spetta
nella misura percentuale del cento per cento del trattamento straordinario di
integrazione salariale per i primi dodici mesi e dell’ottanta per cento dal tredicesimo
al trentaseiesimo mese.
Non si può certo dire quindi che la tutela apprestata dal legislatore italiano
non sia non solo equivalente bensì largamente più favorevole rispetto a
quella minima richiesta dalla direttiva 80/987/CEE.
Quanto all’art. 5, paragrafo 2, lettera b) in combinato disposto con il
paragrafo 3 della stessa norma, la deroga al mantenimento delle condizioni
di lavoro è contemplata proprio per i trasferimenti in cui il cedente sia in una
situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purchè
tale situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia
aperta al controllo giudiziario.
In proposito, nella stessa relazione della commissione (all. C1 della commissione
p. 23), viene precisato che “l’Italia è l’unico Stato membro in cui,
al 17 luglio 1998, il diritto nazionale definiva una situazione di grave crisi
economica ai sensi delle condizioni dell’articolo 5, paragrafo 3 e che potrebbe
quindi legittimamente autorizzare la modifica delle condizioni di lavoro
conformemente all’articolo 5, paragrafo 2, punto b).”
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 143
Tale deroga consente di convenire modifiche alle condizioni di lavoro
intese a salvaguardare le opportunità occupazionali, garantendo al contempo
la sopravvivenza dell’impresa.
Il Governo italiano conclude pertanto nel senso che l’esclusione dell’applicazione
degli articoli 3 e 4 della direttiva è consentita sia perché alcune
garanzie previste da detti articoli sono facoltative, sia perché, negli altri casi,
le deroghe a tali disposizioni sono ammesse in base ad altre norme della
direttiva medesima, finalizzate a contemperare gli interessi dei lavoratori con
altri interessi altrettanto meritevoli di tutela.
Lussemburgo, 22 gennaio 2009 Avv. Wally Ferrante
Causa C-69/08 – Materia trattata: politica sociale – Domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta dal Tribunale di Napoli – Sezione Lavoro
(Italia) il 20 febbraio 2008 – Raffaello Visciano/I.N.P.S. (Avvocato dello
Stato W. Ferrante – AL 17951/08)
LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI
1) Se gli articoli 3 e 4 della direttiva n. 80/987 del 20 ottobre 1980 nella
parte in cui prevedono il pagamento dei diritti non pagati ai lavoratori
subordinati relativi alla retribuzione, consentono che tali crediti, nel momento
in cui vengono fatti valere nei confronti dell’organismo di garanzia, vengano
privati della loro iniziale natura retributiva ed assumano la diversa
qualificazione previdenziale per il solo fatto che la loro erogazione sia stata
affidata dallo Stato membro ad un istituto previdenziale, e che quindi nella
normativa nazionale il termine “retribuzione” venga sostituito da quello
“prestazione previdenziale”.
2) Se per il fine sociale della direttiva è sufficiente che la normativa
nazionale utilizzi il credito retributivo iniziale del lavoratore subordinato
come un mero termine di paragone, rispetto al quale determinare per relationem
la prestazione da garantire con l’intervento dell’organismo di garanzia,
o si richiede che il credito retributivo del lavoratore nei confronti del datore
di lavoro insolvente venga tutelato, grazie all’intervento dell’organismo di
garanzia, assicurandogli eguale contenuto, garanzie, tempi e modalità di
esercizio di quelle riconosciute a qualsiasi altro credito di lavoro nello stesso
ordinamento.
3) Se i principi desumibili dalla normativa comunitaria, ed in particolare
i principi di equivalenza ed effettività, consentono di applicare ai diritti
non pagati ai lavoratori subordinati relativi alla retribuzione, del periodo
individuato ai sensi dell’art. 4 della direttiva n. 80/987, un regime prescrizionale
meno favorevole rispetto a quello applicato a crediti di analoga natura.
IL FATTO
Il Tribunale di Napoli è stato investito di una controversia nella quale un
lavoratore dipendente – assoggettato a licenziamento collettivo a seguito del-
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 143
l’apertura di procedura concorsuale a carico della società alle cui dipendenze
prestava la propria attività lavorativa – ha chiesto al Fondo di garanzia istituito
presso l’INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) il pagamento dei
crediti di lavoro insoluti relativi alle tre ultime mensilità del rapporto di lavoro,
senza tener conto degli anticipi di retribuzione già ottenuti dal datore di
lavoro, che l’INPS ha ritenuto di sottrarre dal massimale fissato per legge.
Secondo il giudice del rinvio, preliminare alla valutazione di fondatezza
della domanda è la decisione in ordine all’eccezione di prescrizione del diritto
sollevata dall’INPS, che dipenderebbe dalla natura del credito in contestazione.
Ove si trattasse di credito di natura retributiva: a) sarebbe applicabile la
prescrizione quinquennale ex art. 2948 del codice civile; b) la prescrizione
rimarrebbe sospesa per effetto dell’insinuazione al passivo fallimentare ex
articolo 94 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267); c) l’interruzione
della prescrizione nei confronti del datore di lavoro avrebbe effetto,
ai sensi dell’art. 1310 del codice civile, anche nei confronti dell’INPS condebitore
in solido.
Ove si trattasse di credito di natura previdenziale: a) si applicherebbe la
prescrizione annuale prevista dall’art. 2, comma 5 del decreto legislativo del
27 gennaio 1992, n. 80, conformemente al termine di prescrizione generalmente
previsto per le prestazioni previdenziali; b) non sarebbe applicabile
l’articolo 94 della legge fallimentare che sospende il decorso della prescrizione
per tutta la durata del procedimento concorsuale; c) la prestazione a carico
dell’INPS avrebbe carattere autonomo ed indipendente rispetto a quella
originariamente facente capo al datore di lavoro e non sarebbe configurabile
tra i predetti soggetti una responsabilità solidale, con la conseguenza che l’interruzione
della prescrizione nei confronti del datore di lavoro non avrebbe
effetto nei confronti dell’INPS.
Il Tribunale di Napoli chiede quindi alla Corte di Giustizia di chiarire se
gli articoli 3 e 4 della direttiva 80/987/CEE, concernente il riavvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati
in caso di insolvenza del datore di lavoro, consentano che, nella normativa
nazionale, i crediti dei lavoratori possano essere privati della loro
natura “retributiva”, per assumere quella di “prestazione previdenziale” e
che, in conseguenza di questa mutata natura, possano essere applicati garanzie,
tempi e modalità di tutela diversi da quelli applicabili ai crediti di lavoro,
ed in particolare possa essere applicato un regime prescrizionale meno
favorevole rispetto a quello applicato al credito originario.
LA POSIZIONE DEL GOVERNO ITALIANO
In ordine al primo quesito, va ricordato che la direttiva 80/987/CEE ha
impegnato gli Stati membri ad adottare le misure necessarie affinché appositi
organismi di garanzia assicurino la tutela dei diritti dei lavoratori subordinati
nei confronti dei datori di lavoro, sia in caso di insolvenza di questi ultimi,
accertata in sede di procedura concorsuale, sia in caso di semplice inadempimento
dei medesimi, dopo l’esperimento negativo dell’esecuzione forzata
individuale.
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 144
In attuazione della citata direttiva, la legge 29 maggio 1982, n. 297,
recante la disciplina del trattamento di fine rapporto (T.F.R.) e norme in materia
pensionistica, ha previsto, all’art. 2, l’istituzione presso l’INPS del Fondo
di garanzia per il trattamento di fine rapporto con lo scopo di sostituire tale
ente al datore di lavoro in caso di insolvenza nel pagamento del T.F.R.
Il decreto legislativo 7 gennaio 1992, n. 80, emanato in attuazione della
delega di cui all’art. 48 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, al fine di adeguare
pienamente l’ordinamento interno alla direttiva 80/987/CEE, ha esteso
la garanzia già prevista dalla legge n. 297 del 1982 per il T.F.R. ai crediti di
lavoro inerenti agli ultimi tre mesi del rapporto lavorativo, utilizzando il
medesimo Fondo di garanzia istituito dalla predetta legge n. 297 del 1982.
L’intervento del Fondo è soggetto, oltre che a limiti temporali – nel senso
che la garanzia opera solo se i tre mesi finali del rapporto rientrano nel periodo
di dodici mesi che precede il provvedimento di apertura della procedura
concorsuale o la data di inizio dell’esecuzione forzata o il provvedimento di
messa in liquidazione dell’impresa – a limitazioni oggettive, relative al quantum
della prestazione.
In particolare il pagamento effettuato dal Fondo non può essere superiore
ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario
di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali
ed assistenziali (art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 80 del 1992) e lo stesso pagamento
non è cumulabile: a) con il trattamento di integrazione salariale; b) con
le retribuzioni corrisposte al lavoratore negli ultimi tre mesi; c) con l’indennità
di mobilità (art. 2, comma 4).
In proposito, va precisato che la suddetta lettera b) dell’art. 2, comma 4
del D.Lgs. n. 80 del 1982 è stata soppressa dall’art. 1 del D.Lgs. 19 agosto
2005, n. 186, emanato in attuazione della direttiva 2002/74/CE che ha modificato
la direttiva 80/987/CEE.
Il che rende la questione preliminare della prescrizione ancor più rilevante
nella causa a quo posto che, ove tale ostacolo dovesse essere superato, la fondatezza
della domanda del ricorrente, che contesta il divieto di cumulo tra la
prestazione corrisposta dall’INPS e gli eventuali “acconti” sul credito garantito
non si baserebbe più solo su un orientamento giurisprudenziale – la sentenza
della Corte di cassazione del 10 agosto 2004, n. 15464, citata dal giudice
del rinvio ed emessa a seguito della rimessione alla Corte di Giustizia culminata
con la sentenza del 4 marzo 2004, cause riunite C-19/01, C-50/01 e C-84/01
– bensì su una modifica normativa che elimina il predetto divieto di cumulo.
È stato infatti espressamente recepito nell’ordinamento italiano il principio
stabilito dalla Corte di Giustizia nella citata sentenza del 4 marzo 2004,
secondo il quale gli articoli 3, n. 1 e 4, n. 3 primo comma della direttiva
80/987/CEE devono essere interpretati nel senso che non autorizzano uno
Stato membro a limitare l’obbligo di pagamento degli organismi di garanzia
a una somma che copre i bisogni primari dei lavoratori interessati e da cui
andrebbero detratti i pagamenti versati dal datore di lavoro durante il periodo
coperto dalla garanzia.
Ciò detto, va osservato, quanto alla possibilità di sostituire il termine
“retribuzione” con quello di “prestazione previdenziale” che la direttiva
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 145
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 145
80/987/CEE prevede esplicitamente all’art. 2, comma 2: “La presente direttiva
non pregiudica il diritto nazionale per quanto riguarda la definizione dei
termini ‘lavoratore subordinato’, ‘datore di lavoro’, ‘retribuzione’, ‘diritto
maturato’ e ‘ diritto in corso di maturazione’ ”.
È evidente infatti che, se la creazione di organismi di garanzia è finalizzata
ad assicurare una maggiore tutela del lavoratore, allo stesso tempo la
responsabilità di detti organismi può essere limitata e diversamente disciplinata
rispetto a quella del datore di lavoro divenuto insolvente.
Sotto il primo profilo, l’articolo 5 della direttiva 80/987/CEE prevede
che: a) il patrimonio degli organismi deve essere indipendente dal capitale
dei datori di lavoro e essere costituito in modo da non poter essere sequestrato
in un procedimento in caso di insolvenza; b) i datori di lavoro devono contribuire
al finanziamento, a meno che quest’ultimo non sia integralmente
assicurato dai pubblici poteri; c) l’obbligo di pagamento a carico degli organismi
esiste indipendentemente dall’adempimento degli obblighi di contribuire
al finanziamento.
Dai tre suddetti principi discende che il lavoratore è particolarmente tutelato
proprio dalla struttura che caratterizza gli organismi di garanzia, sottratti
a procedure di sequestro proprio allo scopo di assicurare l’integrità del loro
patrimonio e tenuti comunque al pagamento anche ove i datori di lavoro non
adempiano al loro obbligo di contribuire al finanziamento, che è ad ogni
modo assicurato da eventuali fondi pubblici.
Quale corollario di tale tutela rafforzata a beneficio del lavoratore, la
direttiva prevede tuttavia la possibilità degli Stati membri di limitare l’obbligo
di pagamento degli organismi di garanzia ad un determinato periodo (art.
4, comma 2) e di fissare un massimale per la garanzia di pagamento dei diritti
non pagati (art. 4, comma 3) proprio per assicurare che il patrimonio di tali
organismi sia in grado di coprire comunque tutte le richieste dei lavoratori
alle dipendenze di datori di lavoro insolventi.
Anche la direttiva 2002/74/CE, che modifica la direttiva 80/987/CEE,
all’ottavo considerando, prevede che gli Stati membri possono stabilire limitazioni
alla responsabilità degli organismi di garanzia, limitazioni che devono
essere compatibili con l’obiettivo sociale della direttiva e possono tener
conto dei diversi livelli dei diritti.
Pertanto deve ritenersi pienamente conforme al fine sociale della direttiva
la possibilità di novazione del diritto del lavoratore da credito di lavoro a
credito previdenziale atteso che, a fronte di alcune limitazioni quantitative e
di modalità di tutela, la gestione da parte degli organismi di garanzia assicura
comunque quel “minimo garantito” per tutti i lavoratori.
Non va dimenticato infatti che l’insinuazione al passivo fallimentare non
solo non garantisce il pagamento parziale (e tanto meno totale) del credito ma
che l’effettiva soddisfazione anche di parte della pretesa è soggetta ai tempi
a volte molto lunghi che caratterizzano le procedure concorsuali mentre il
sistema del Fondo di garanzia è congegnato in modo tale da assicurare il
pagamento di una somma certa in tempi rapidi.
** ** **
Con riferimento al secondo quesito, va premesso che il fine sociale della
direttiva consiste nel garantire a tutti i lavoratori subordinati una tutela comu-
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nitaria minima in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante il pagamento
dei crediti non pagati derivanti da contratti di lavoro o da rapporti di
lavoro e vertenti sulla retribuzione relativa ad un periodo determinato (Corte
di giustizia, sentenza 4 marzo 2004 cit., punto 35, sentenza 14 luglio 1998,
causa C-125/97, Regeling, punto 20; sentenza 18 ottobre 2001, causa C-
441/99, Gharehveran, punto 26; sentenza 11 settembre 2003, causa C-
201/01, Walcher, punto 38).
Ciò detto, si osserva che il problema della natura delle prestazioni erogate
dal Fondo di garanzia dell’INPS è sempre stato largamente dibattuto nella
giurisprudenza italiana sebbene non in relazione all’applicabilità del termine
di prescrizione quinquennale o annuale (stante il chiaro tenore dell’art. 2,
comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992) bensì con riferimento all’applicabilità del
cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria, che è consentito per i crediti
di lavoro dei dipendenti privati, come nel caso di specie, (per effetto della
sentenza della Corte costituzionale del 2 novembre 2000, n. 459 che ha
dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 22, comma 36 della legge 23 dicembre
1994, n. 724 nella parte in cui ha abolito il cumulo dei predetti accessori,
dettato da esigenze di contenimento della spesa pubblica, anche per i
dipendenti privati) e che è invece precluso per i crediti previdenziali ai sensi
dell’art. 16, comma 6 della legge 30 dicembre 1991, n. 412.
Come ricordato dal Giudice del rinvio, un primo orientamento giurisprudenziale
qualifica come retributiva la natura delle prestazioni del Fondo
dell’INPS, rilevando che la “sostituzione” del Fondo nel pagamento del trattamento
di fine rapporto, prevista dall’art. 2, primo comma, legge n. 297 del
1982, sta ad indicare non già una garanzia o una fideiussione, ma un accollo ex
lege a carico del Fondo in ordine, dunque, allo stesso debito (retributivo) del
datore di lavoro, comprensivo della somma capitale e degli accessori in cumulo
tra loro (Cass. 18 dicembre 2001 n. 15995; 18 aprile 2001 n. 5658; 30 dicembre
1999 n. 14761; 24 maggio 1994 n. 5043; 23 novembre 1989 n. 5036).
La Cassazione rileva poi che la posizione creditoria dell’unico ed originario
creditore non muterebbe, ove si qualificasse l’obbligazione dell’ente previdenziale
in termini di sussidiarietà, in considerazione dell’onere del preventivo
esperimento delle azioni esecutive nei confronti del debitore originario.
La Suprema Corte osserva, inoltre, che l’istituzione del Fondo di garanzia
rende evidente l’attuazione di una forma di assicurazione sociale, in cui
l’interesse del lavoratore è conseguito non attraverso l’erogazione di un’autonoma
indennità, ma mediante l’assunzione, in caso d’insolvenza del datore
di lavoro, della responsabilità solidale per l’erogazione del trattamento
di fine rapporto – quale retribuzione differita – da parte dell’istituto previdenziale.
Un secondo orientamento ha invece qualificato come previdenziale la
natura di tali prestazioni, rilevando che l’art. 2 del D.Lgs. n. 80 del 1992, al
quinto comma, definisce testualmente come “prestazione” il pagamento
effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi del primo comma (il pagamento,
cioè, dei crediti di lavoro diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di
fine rapporto) e, altrettanto testualmente, dispone che il diritto a tale prestazione
si prescrive in un anno.
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Tale orientamento giurisprudenziale fa quindi discendere da tali rilievi la
considerazione che la terminologia usata (“prestazione”) e la previsione di
uno specifico termine di prescrizione, identico nella durata a quello generalmente
stabilito per i diritti alle prestazioni previdenziali di carattere temporaneo
erogate dall’INPS, esprimerebbero con evidenza la regola che l’obbligazione
del Fondo ha natura non retributiva ma previdenziale, inserita nell’ambito
di un rapporto a struttura assicurativa (alimentato mediante contributi del
datore di lavoro), e, perciò, autonoma rispetto all’obbligazione retributiva
originaria, anche se coincidente con questa quanto all’oggetto, determinato
“per relationem” (Cass. 2 maggio 2000 n. 5489 e 18 aprile 2001 n. 5663).
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, intervenute nel 2002 (sentenze
n.13988-13989-13990 e 13991) per comporre il conflitto insorto presso la
Sezione Lavoro, hanno aderito al primo orientamento e hanno stabilito il
principio secondo il quale “il credito del lavoratore per il trattamento di fine
rapporto e per gli emolumenti relativi agli ultimi tre mesi del rapporto non
muta la propria natura retributiva quando, in forza della legge 29 maggio
1982 n. 297 e del D.Lgs. 27 gennaio 1992 n. 80, sia fatto valere nei confronti
del Fondo di garanzia gestito dall’INPS per l’insolvenza o l’inadempimento
del datore di lavoro, ed è quindi comprensivo, come di regola, degli interessi
legali e della rivalutazione monetaria, restando inapplicabile il divieto
di cumulo di tali accessori stabilito dall’art. 16, sesto comma, legge 30
dicembre 1991 n. 412”.
Recentemente, proprio in relazione a questioni inerenti la decorrenza
della prescrizione, la Suprema Corte ha parzialmente mutato il proprio orientamento,
precisando che: “L’istituzione del Fondo di garanzia attua una
forma di assicurazione sociale obbligatoria (con relativa obbligazione contributiva
posta a carico esclusivo del datore di lavoro), con la sola particolarità
che l’interesse del lavoratore alla tutela è conseguito mediante l’assunzione
da parte dell’ente previdenziale, in caso di insolvenza del datore di
lavoro, di un’obbligazione pecuniaria il cui quantum è determinato con riferimento
al credito di lavoro nel suo ammontare complessivo. Tale meccanismo
non è certamente incompatibile con la qualificazione di prestazione previdenziale,
sulla base degli elementi richiamati. Il complesso delle argomentazioni
svolte e il richiamo della più recente giurisprudenza di questa Corte
giustificano l’abbandono degli orientamenti in precedenza espressi sulla
questione, secondo i quali l’accollo ex lege comporterebbe l’aggiunta del
Fondo al datore di lavoro per l’adempimento della medesima obbligazione,
con applicazione di tutte le regole delle obbligazioni solidali”. (Cass., Sez.
Lavoro, n. 4183/2006; conformi sono anche Cass., Sez. Lavoro, n.
13930/2006; Cass. Sez. Lavoro, 19 dicembre 2005, n. 27917; Cass. Sez.
Lavoro 15 novembre 2004, n. 21595; Cass., Sez. Lav. 23 dicembre 2004, n.
23930) .
In base a tale più recente orientamento della Suprema Corte, quindi, la
natura previdenziale discenderebbe dal fatto che il diritto alla prestazione del
Fondo nasce non in forza del rapporto di lavoro ma del distinto rapporto assicurativo-
previdenziale, in presenza dei presupposti previsti dalla legge:
insolvenza del datore di lavoro ed accertamento del credito nell’ambito della
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 148
procedura concorsuale secondo le specifiche regole di tale procedura ovvero
formazione di un titolo giudiziale ed esperimento non satisfattivo dell’esecuzione
forzata.
Da tale natura, totalmente autonoma rispetto a quella del credito nei confronti
del datore di lavoro, conseguirebbe l’inapplicabilità delle norme sulle
obbligazioni solidali, che presuppongono peraltro l’esistenza di un medesimo
termine di prescrizione affinché l’effetto interruttivo nei confronti di un condebitore
in solido possa avere effetto anche nei confronti dell’altro.
Per tali ragioni, non può ritenersi che il credito retributivo del lavoratore,
una volta che subentri il Fondo di garanzia, conservi eguale contenuto,
garanzie, tempi e modalità di esercizio in quanto ciò sarebbe incompatibile
con l’obiettivo della direttiva di assicurare a tutti i lavoratori quel minimo
garantito, obiettivo che può perseguirsi solo parametrando il credito nei confronti
del Fondo al credito retributivo iniziale ma al contempo limitando la
responsabilità del Fondo alla ricorrenza di precisi presupposti e all’osservanza
di particolari termini e condizioni.
** ** **
Con riferimento al terzo quesito, occorre rilevare che il regime di prescrizione
previsto dall’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992 è perfettamente
compatibile con i principi di equivalenza e di effettività delineati dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia ed in particolare dalla sentenza
Francovich del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, in attuazione
della quale è stato peraltro adottato il predetto decreto legislativo n. 80
del 1992.
Quanto al principio di effettività, che secondo il Giudice remittente
sarebbe compromesso dall’incertezza creata dalla giurisprudenza della
Suprema Corte, che avrebbe dapprima ingenerato nel lavoratore un certo affidamento
in ordine alla natura del credito ed alla conseguente disciplina applicabile
per poi mutare orientamento, si osserva che l’art. 2, comma 5 del d.lgs.
n. 80 del 1992 è molto chiaro nel fissare il termine di prescrizione di un anno
e non si presta a dubbi interpretativi.
L’oscillazione giurisprudenziale si è infatti appuntata sull’applicabilità
della solidarietà passiva tra il debito del datore di lavoro e quello del Fondo
INPS e sul conseguente effetto interruttivo della prescrizione effettuata nei
confronti di uno dei due condebitori anche rispetto all’altro.
Il termine di prescrizione annuale non è peraltro di per sé tale da rendere
eccessivamente oneroso l’esercizio del diritto da parte del lavoratore,
come già ritenuto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Palmisani del 10
luglio 1997, causa C-261/95 con riferimento al termine di decadenza annuale
per l’esercizio del diritto all’indennità di cui all’art. 2, comma 7 del d.lgs.
n. 80 del 1992.
Nell’ordinamento italiano, il termine di prescrizione annuale è inoltre
applicabile in generale ai diritti previdenziali e quindi non può dirsi che il
principio di equivalenza sia pregiudicato.
Anzi, rispetto ai crediti previdenziali, per i quali, come si è visto, l’art. 16
della legge 412 del 1991 vieta il cumulo tra interessi legali e rivalutazione
monetaria, l’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992 prevede invece espres-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 149
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 149
samente la debenza di entrambi i predetti accessori del credito, apprestando
quindi una tutela, sotto tale profilo, più favorevole.
Infatti, per stabilire se una disciplina sia più o meno favorevole, occorre
considerarla nel suo complesso.
Afronte del regime prescrizionale previsto dall’art. 2, comma 5 citato, va
dunque valutata l’intera disciplina che, come si è già illustrato, è finalizzata
ad assicurare un minimo garantito certo a tutti i lavoratori alle dipendenze di
datori di lavoro insolventi in tempi rapidi e senza attendere l’esito invece
aleatorio ed incerto della procedura concorsuale.
Inoltre, va sottolineato che anche la giurisprudenza della Corte di cassazione
più recente, che il giudice del rinvio ha considerato meno favorevole al
lavoratore, ha invece invariabilmente accolto le tesi dei lavoratori.
La Suprema Corte ha infatti affermato che, pur trattandosi di credito di
natura previdenziale, pur applicandosi il termine di prescrizione annuale e
pur non applicandosi il regime delle obbligazioni solidali, la prescrizione non
decorre finchè non si verifichino gli specifici presupposti che condizionano il
sorgere della prestazione previdenziale, che si perfeziona non già con la cessazione
del rapporto di lavoro ma al realizzarsi delle condizioni previste dall’art.
2 della legge n. 297 del 1982, richiamato dagli artt. 1 e 2 del d.gs. n. 80
del 1992: insolvenza del datore di lavoro, domanda di ammissione al passivo,
verifica dell’esistenza e misura del credito in sede di ammissione al passivo,
deposito dello stato passivo reso esecutivo dal Giudice delegato.
La Corte di Cassazione ha quindi chiarito che, prima del verificarsi di tali
presupposti, nessuna domanda può essere rivolta all’INPS e pertanto non può
decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del Fondo di
garanzia (Cass. Sez. Lavoro, n. 4183/2006; Cass. Sez. Lavoro, 19 dicembre
2005, n. 27917; Cass. Sez. Lavoro 15 novembre 2004, n. 21595; Cass., Sez.
Lav. 23 dicembre 2004, n. 23930 citate) .
Conclusivamente, il regime prescrizionale previsto dall’art. 2, comma 5
del d.lgs. n. 80 del 1992, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte
di cassazione, è da ritenersi pienamente conforme ai principi di equivalenza
e di effettività del diritto comunitario.
** ** **
Il Governo italiano propone alla Corte di risolvere il primo quesito nel
senso che gli articoli 3 e 4 della direttiva n. 80/987/CEE consentono che i
diritti non pagati ai lavoratori, nel momento in cui vengono fatti valere nei
confronti dell’organismo di garanzia, vengano privati della loro iniziale natura
retributiva ed assumano la diversa qualificazione previdenziale per il fatto
che la loro erogazione sia stata affidata dallo Stato membro ad un istituto previdenziale
e che quindi nella normativa nazionale il termine “retribuzione”
venga sostituito da quello “prestazione previdenziale”.
Il Governo italiano propone alla Corte di risolvere il secondo quesito nel
senso che, per il fine sociale della direttiva, è sufficiente che la normativa
nazionale utilizzi il credito retributivo iniziale del lavoratore subordinato
come un mero termine di paragone, rispetto al quale determinare per relationem
la prestazione da garantire con l’intervento dell’organismo di garanzia,
non richiedendosi che il credito retributivo del lavoratore nei confronti del
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 150
datore di lavoro insolvente venga tutelato, grazie all’intervento dell’organismo
di garanzia, assicurandogli eguale contenuto, garanzie, tempi e modalità
di esercizio di quelle riconosciute a qualsiasi altro credito di lavoro nello
stesso ordinamento.
Il Governo italiano propone alla Corte di risolvere il terzo quesito nel
senso che i principi desumibili dalla normativa comunitaria, ed in particolare
i principi di equivalenza ed effettività, consentono di applicare ai diritti
non pagati ai lavoratori subordinati relativi alla retribuzione un regime prescrizionale
meno favorevole rispetto a quello applicato a crediti di analoga
natura, in quanto la disciplina applicabile va considerata nel suo complesso.
Roma, 23 giugno 2008 Avv. Wally Ferrante
Causa C-141/08 P – Materia trattata: politica commerciale –
Impugnazione proposta il 7 aprile 2008 dalla Fosham Shunde Yongjian
Housewares & Hardware Co. Ltd avverso la sentenza del Tribunale di
primo grado 29 gennaio 2008, causa T-206/07, Foshan Shunde Yongjian
Housewares & Hardware/Consiglio dell’Unione europea. (Avvocato dello
Stato W. Ferrante – AL 33754/07).
LA COMPARSA DI RISPOSTA DEL GOVERNO ITALIANO
La ricorrente Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware ha chiesto
l’annullamento del regolamento CE del Consiglio n. 452/2007, adottato
in data 23 aprile 2007 che istituisce un dazio antidumping definitivo del
18,1% e dispone la riscossione definitiva del dazio provvisorio istituito sulle
importazioni di assi da stiro originarie della Repubblica popolare cinese e
dell’Ucraina.
La ricorrente, produttrice ed esportatrice cinese di assi da stiro verso
l’Unione europea, ritiene il regolamento impugnato viziato per due motivi
attinenti, rispettivamente, alla presunta violazione dell’art. 2, paragrafo 7 lettera
c) del regolamento di base antidumping n. 385/96 laddove viene interpretato
nel senso che impedirebbe di modificare in corso di procedura la
determinazione iniziale in merito alla concessione o meno del Trattamento di
Economia di Mercato (MET) nonché alla presunta violazione dell’art. 20
paragrafo 5 dello stesso regolamento di base laddove non sarebbe stato osservato
il termine processuale di 10 giorni ivi previsto con conseguente lesione
del diritto di difesa della ricorrente.
La sentenza del Tribunale di primo grado del 29 gennaio 2008 qui impugnata
ha respinto entrambi i motivi di ricorso.
La ricorrente ha impugnato la predetta decisione ritenendola viziata per
due motivi.
L’impugnazione è infondata e va respinta per le seguenti ragioni.
Fatto
Preliminarmente, va ricordato che, con il regolamento provvisorio n.
1620/2006 del 30 ottobre 2006, il MET – che consente di calcolare il dazio
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 151
antidumping confrontando i prezzi all’esportazione con i propri prezzi interni
(del mercato cinese) anziché con quelli di un paese analogo (in questo caso
la Turchia) – non era stato concesso all’impresa ricorrente in quanto la stessa
non era risultata in possesso di uno dei cinque requisiti previsti dall’art. 2,
paragrafo 7 lettera c) del regolamento di base antidumping ed in particolare
di quello previsto dal secondo trattino, a norma del quale è richiesto che “le
imprese dispongano di una serie ben definita di documenti contabili di base
soggetti a revisione contabile indipendente e che siano d’applicazione in ogni
caso in linea con le norme internazionali in materia di contabilità” .
Infatti, la Commissione al punto 25 del Regolamento provvisorio, sosteneva,
in relazione alle cinque società cinesi, compresa la ricorrente, cui era
stato negato il Trattamento di Economia di Mercato, che “l’esame dei documenti
contabili ha rivelato gravi vizi in tutti e cinque i casi. Ad esempio, le
società non specificavano nella contabilità tutte le differenti entrate e spese
ma applicavano un ampio sistema di compensazione tra tali entrate e spese
su base mensile. Inoltre, esse non rispettavano il principio della contabilità
per competenza. In effetti, esse raggruppavano le transazioni per mese e le
registravano nei libri contabili in forma succinta senza particolareggiare le
singole transazioni”.
I documenti contabili non sono stati quindi ritenuti in linea con i principi
IAS (International Accounting Standards).
A seguito delle osservazioni scritte e orali della ricorrente, la
Commissione, nel documento di informazione finale generale del 20 febbraio
2007, mutava avviso e manifestava l’intenzione di concedere all’impresa ricorrente
lo statuto di Economia di mercato, ipotizzando che le irregolarità contabili
riscontrate non avessero un’incidenza rilevante in termini di affidabilità dei
documenti e non fossero determinanti per il calcolo del margine di dumping.
In occasione delle riunioni del Comitato Antidumping del 6 e del 22
marzo 2007, alcuni membri dello stesso si opponevano però alla concessione
dello statuto di Economia di mercato all’azienda ricorrente in quanto i
motivi per il diniego del suddetto trattamento in fase provvisoria dovevano
ritenersi molto gravi e di non rapida soluzione.
A seguito di questa forte opposizione degli Stati membri, la
Commissione, confermando la posizione già assunta con il Regolamento
provvisorio, proponeva di respingere la richiesta della ricorrente di concessione
dello statuto di economia di mercato, con il documento di informazione
finale rivisitato del 23 marzo 2007.
Questa volta la proposta era approvata dagli Stati membri e veniva recepita
dal regolamento del Consiglio n. 452/07 del 23 aprile 2007 impugnato
nella presente causa.
Diritto
Primo motivo: il Tribunale non ha risposto al primo motivo di ricorso rigettandolo
sulla base di una constatazione manifestamente contraria agli atti di
causa e cioè che il dibattito concernente l’interpretazione dell’art. 2, paragrafo
7, c) del regolamento di base e del punto 44 della sentenza Nanjing
Metalink/Consiglio sarebbe privo di rilevanza nella presente controversia.
152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Così brevemente riassunta la vicenda, va sottolineato che il primo motivo
di impugnazione appare infondato.
Correttamente il Tribunale di primo grado ha ritenuto che la decisione
della Commissione in ordine alla non concessione del MET non si fonda sull’impossibilità
di rivalutare i fatti a norma dell’art. 2, paragrafo 7, lettera c)
ultima frase del regolamento di base, come interpretato dalla giurisprudenza
Najing Metalink (causa T-138/02 sentenza del 14 novembre 2006), considerata
nella fattispecie irrilevante, bensì sulla non conformità della contabilità
della ricorrente alle norme IAS (punti 44, 45 e 50).
In proposito, il Tribunale di primo grado, nel corso dell’udienza del 13
dicembre 2007, ha espressamente domandato alle parti se le irregolarità contabili
fossero già state esaminate dalla Commissione prima del 15 settembre
2006, data in cui la stessa ha adottato la prima determinazione di non concedere
alla ricorrente il MET.
Ciò al fine di accertare se la Commissione avesse assunto tale decisione
alla luce della piena conoscenza dei fatti e delle relative controdeduzioni
della ricorrente.
In risposta a tale domanda, la Commissione ha prodotto una lettera del 1
settembre 2006 della ricorrente, con la quale erano state addotte tutte le giustificazioni
circa le contestate irregolarità contabili.
In particolare, la ricorrente non negava che dette irregolarità vi fossero
ma deduceva che solo per poche voci gli importi erano stati presentati globalmente
e riassuntivamente e che quindi le irregolarità non dovevano ritenersi
determinanti.
Giustamente quindi il Tribunale di primo grado ha ritenuto che non vi
fossero fatti e documentazione nuovi tali da legittimare un mutamento di
avviso della Commissione in ordine alla concessione del MET rispetto al
regolamento provvisorio, adottato nella piena consapevolezza della situazione
di fatto (punto 47).
Pertanto, la Commissione non ha fondato il proprio convincimento, volto
a confermare la proposta di esclusione della concessione del MET, sull’asserito
divieto di mutare posizione derivante dal citato art. 2, paragrafo 7 sub c),
come interpretato dalla sentenza Metalink – o meglio non solo su questo –
bensì sul fatto assorbente che le gravi irregolarità riscontrate non potevano
ritenersi superate da fatti nuovi o da elementi di prova tali da ribaltare l’accertamento
già eseguito.
Correttamente inoltre il Tribunale di primo grado ha ritenuto che un
motivo di ricorso volto a censurare l’iter decisionale che ha condotto alla proposta
finale della Commissione nonchè l’apprezzamento da parte delle istituzioni
in ordine alla sussistenza o meno delle condizioni per l’applicazione
dell’art. 2, paragrafo 7, sub c), ovvero l’esistenza di fatti o prove nuove,
costituirebbe un motivo di ricorso nuovo, come tale irricevibile (punto 51).
Tale affermazione non risulta essere stata impugnata dalla ricorrente e
non appare quindi più censurabile.
Analogamente non è stata impugnata la statuizione della sentenza del
Tribunale di primo grado secondo la quale il documento d’informazione finale
rivisitato non doveva essere motivato che in relazione all’insieme degli
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 153
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elementi raccolti durante l’istruttoria e non anche rispetto ad una posizione
provvisoria esposta nei documenti comunicati alle parti interessate per permettere
loro di far pervenire le loro osservazioni (punto 52).
Per completezza, va comunque osservato che, contrariamente a quanto
affermato dalla ricorrente, il documento di informazione finale rivisitato del
23 marzo 2007 non è affatto immotivato e non propone al Consiglio una soluzione
consapevolmente errata solo per tener fede alle determinazioni iniziali
adottate con il regolamento provvisorio.
Al punto 13 del predetto documento viene infatti espressamente precisato
che le censurate pratiche contabili della società sono risultate, durante la
verifica in loco, palesemente in contrasto con le norme internazionali di contabilità
(IAS), in particolare con l’IAS n. 1, e non possono perciò essere considerate
irrilevanti.
Pertanto, a prescindere dal fatto che tali pratiche contabili possano essere
in linea con le previsioni cinesi in materia, resta il fatto che le stesse costituiscono
una chiara violazione del IAS.
Tale considerazione è stata ribadita al punto 13 del regolamento definitivo
impugnato ove viene sottolineato che non sono state presentate nuove
prove che potessero indurre a modificare le conclusioni di cui al considerando
25 del regolamento provvisorio.
È importante ribadire infatti che la società ricorrente non ha affatto negato
l’esistenza delle irregolarità contabili, limitandosi a lamentare che la
Commissione avrebbe fondato la sua proposta sulle conclusioni provvisorie
anziché sulle conclusioni definitive, pur conoscendo l’erroneità delle prime e
solo in ossequio alla giurisprudenza Najing Metalink.
In proposito, va osservato che la predetta sentenza, che pur è stata certamente
tenuta in considerazione dalla Commissione, sebbene non quale elemento
centrale ed esclusivo, non è mai stata menzionata in nessun documento
a sostegno della conferma della determinazione iniziale.
Come correttamente rilevato dalle tre società intervenienti nel presente
giudizio Vale Mill Rochdale Ldt, Pirola Spa e Colombo New Scal Spa, nella
lettera della Commissione del 4 aprile 2007, con la quale si è dato riscontro
ai rilievi sollevati dalla società Foshan in merito al c.d. “volta faccia” contenuto
nel documento di informazione finale rivisitato del 23 marzo 2007, si da
ampiamente conto delle numerose ragioni che hanno indotto la Commissione
a confermare la determinazione inizialmente presa circa l’insussistenza dei
presupposti per riconoscere il Trattamento di Economia di Mercato.
In tale lettera, si precisa innanzi tutto che il documento di informazione
generale finale del 20 febbraio 2007 non integra in alcun modo una nuova
determinazione in ordine alla concessione del MET, trattandosi di un documento
interlocutorio sottoposto non solo alle osservazioni delle parti ma
anche all’approvazione del Comitato antidumping. Ed infatti il Tribunale di
primo grado ha chiaramente affermato che tale documento non fa stato, né
conferisce diritti (punto 53).
In secondo luogo, in detta lettera è chiarito che le conclusioni provvisorie
sono state confermate in quanto è stato definitivamente stabilito che gli
effetti delle pratiche contabili irregolari, che erano già state riscontrate come
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difformi rispetto alle regole IAS, non possono assolutamente considerarsi
irrilevanti.
In terzo luogo, la Commissione ha rilevato che i dati forniti dalla ricorrente
in merito ai prezzi di importazione dell’acciaio sono stati comunque già
valutati dall’industria comunitaria che ne ha ritenuto la non influenza atteso
che gli esportatori utilizzano principalmente acciaio cinese.
Solo a conforto delle suddette considerazioni, la Commissione ha altresì
aggiunto che la ricorrente non fa altro che ripetere argomenti già esposti ed
esaminati e che la giurisprudenza in materia di riconoscimento del MET non
consente la rivalutazione di fatti noti.
L’art. 2, paragrafo 7 lettera c) ultima frase del regolamento di base antidumping
prevede infatti che “si procede ad un accertamento se il produttore
soddisfa i criteri summenzionati entro tre mesi dall’avvio dell’inchiesta,
dopo aver sentito il comitato consultivo e dopo aver dato all’industria comunitaria
la possibilità di presentare osservazioni. Quest’accertamento resta
valido durante l’inchiesta”.
Questa “immutabilità” dell’accertamento derivante da tale norma è stata
interpretata dalla sentenza Najing Metalink, al punto 47, nel senso che “essa
vieta alle istituzioni di rivalutare gli elementi di cui disponevano al momento
della determinazione iniziale dello statuto di economia di mercato. Tale disposizione
non osta tuttavia a che la concessione dello statuto di economia di mercato
non sia mantenuto quando una modifica della situazione di fatto, sulla base
della quale tale statuto era stato accordato, non permetta più di considerare che
il produttore in questione operi nelle condizioni di un’economia di mercato”.
La predetta sentenza peraltro si è occupata di una fattispecie inversa
rispetto a quella oggetto del presente giudizio in quanto, in quel caso, il MET
era stato originariamente concesso ed è stato successivamente negato con il
regolamento definitivo perché la società, anch’essa cinese, dopo aver ottenuto
il trattamento di economia di mercato, anziché continuare a rispettare tutti
i criteri necessari per poter beneficiare del predetto trattamento, quali, in quel
caso, l’osservanza di un certo grado di indipendenza rispetto allo Stato conformemente
ai principi dell’economia di mercato, aveva modificato il suo
comportamento costringendo la Commissione a ritornare sulla propria decisione
proprio in virtù dei fatti nuovi sopravvenuti.
Tale orientamento è peraltro conforme al principio secondo il quale le
norme sulla concessione del MET vanno applicate restrittivamente (sentenza
Shangai Teraoka T-35/01).
Il fenomeno inverso deve ritenersi molto più raro anche perché, come
riconosciuto dalla stessa ricorrente al punto 26 del ricorso di primo grado,
laddove non sia inizialmente riconosciuto il MET, il valore normale dovrà
essere determinato in base al prezzo di un prodotto simile di un paese terzo
ad economia di mercato e non in base al prezzo interno e quindi la
Commissione non disporrà di alcun dato sui prezzi del mercato interno per
quel prodotto, necessario per determinare la concessione o meno del MET.
Pertanto, alla luce della citata giurisprudenza, l’iniziale rigetto del MET
avrebbe potuto essere modificato nel regolamento definitivo solo in presenza
di elementi nuovi idonei a far venire meno le ragioni del rigetto.
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Nel caso di specie, invece, la ricorrente si è limitata solo a prospettare,
sulla base degli stessi elementi e quindi senza contestare le irregolarità contabili
addebitategli, una presunta non incidenza delle stesse sui prezzi praticati.
È evidente, perciò, non solo che non ricorre l’ipotesi eccezionale che
consente alla Commissione di mutare orientamento circa la concessione dello
statuto di economia di mercato ma che la violazione delle norme internazionali
di contabilità, poste a tutela dell’affidabilità dell’impresa, ne compromettono
irrimediabilmente la credibilità.
Il primo motivo di impugnazione va quindi rigettato.
Secondo motivo: il Tribunale ha concluso a torto che la violazione del diritto
di difesa della ricorrente, pur verificatosi e constatato dal Tribunale, non
comporterebbe l’annullamento del regolamento impugnato per l’erronea
ragione che in alcun modo la procedura amministrativa avrebbe potuto condurre
ad un risultato diverso.
Con riferimento al secondo motivo di impugnazione, attinente ad una
presunta violazione del diritto di difesa in quanto la Commissione non avrebbe
atteso il termine di dieci giorni previsto dall’art. 20 paragrafo 5 del regolamento
di base ed assegnato alla ricorrente per presentare osservazioni alla
proposta di misure definitive, va escluso, come correttamente rilevato dal
Tribunale di primo grado, che, dal punto di vista sostanziale, vi sia stata una
violazione del diritto di difesa non avendo la ricorrente dimostrato che alcuna
delle sue osservazioni, meramente ripetitive di quanto già esposto nel
corso della procedura, non fossero già state esaminate dalla Commissione e
non siano state prese in considerazione nell’adozione della decisione finale.
Come affermato dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia,
Distillers Company/ Commissione, sentenza del 10 luglio 1980, causa C-
30/78; Tribunale di primo grado, cause riunite T-33/98 e T-34/98, Petrotub e
Repubblica), l’accertamento della violazione del diritto di difesa presuppone
non solo l’inosservanza in senso formale di una norma processuale ma anche
che in ragione di tale inosservanza la parte non abbia potuto utilmente difendere
i propri interessi.
La presunta violazione deve quindi tradursi in un pregiudizio sostanziale
e non risolversi nella mera inosservanza di una regola formale che non ha
arrecato alcun danno alla pienezza del diritto di difesa.
Nella fattispecie, la Commissione, nella risposta del 4 aprile 2007, ha
precisato che le osservazioni della ricorrente non aggiungevano alcuna nuova
argomentazione rispetto alle osservazioni già presentate in precedenza e che
pertanto in nessun modo avrebbero potuto orientare diversamente la decisione
finale.
Peraltro, la stessa ricorrente, nella lettera del 2 aprile 2007 ammette che
nel documento di informazione finale rivisitato del 23 marzo 2007 non è
affermato in alcun punto che il mutato avviso rispetto al documento di informazione
generale finale del 20 febbraio 2007 sia dovuto all’interpretazione
data all’art. 2, paragrafo 7 lettera c) del regolamento di base alla luce della
sentenza Najing Metalink, in base alla quale la Commissione sarebbe “legalmente
obbligata a non modificare l’iniziale determinazione in ordine alla
156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 156
concessione del MET anche se successivamente tale determinazione si è rivelata
ingiustificata”.
Si tratta quindi solo di una (erronea) supposizione della ricorrente.
Peraltro, va innanzitutto ribadito, come già osservato in relazione al
primo motivo, che la sentenza Najing Metalink non dice affatto questo, avendo
invece in quella fattispecie consentito la modifica della determinazione
iniziale in ordine alla concessione del MET (in quel caso favorevole) in
ragione di fatti sopravvenuti, legittimando il rigetto del MET nella decisione
definitiva.
La sentenza dice quindi esattamente il contrario di quel che si vorrebbe
farle dire e cioè che la Commissione non è affatto vincolata alle sue determinazioni
iniziali provvisorie laddove, alla luce di fatti nuovi, le stesse si rivelino
ingiustificate.
Ciò detto, va evidenziato che la stessa ricorrente, nella citata lettera del 2
aprile 2007, riconosce che la decisione di mutare avviso rispetto al documento
di informazione generale finale e di confermare la decisione iniziale contenuta
nel regolamento provvisorio del 30 ottobre 2006 non è affatto basata
sull’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 2, paragrafo 7, sub c) ma sull’apprezzamento
in termini di gravità ed importanza delle irregolarità contabili
riscontrate in violazione delle norme IAS e sulla ininfluenza dei dati relativi
ai prezzi di importazione dell’acciaio atteso che gli operatori utilizzano
principalmente acciaio cinese.
Su entrambe tali questioni, oltre all’assorbente profilo di irricevibilità già
rilevato ai punti 20 e 21 del presente atto, la ricorrente aveva già avuto modo
di presentare le proprie osservazioni e di controdedurre nel corso della procedura
amministrativa, come correttamente osservato dal Tribunale di primo
grado (punti 73 e 74), e pertanto non può in alcun modo ritenersi violato il
suo fondamentale diritto di difesa.
Anche il secondo motivo di impugnazione è pertanto infondato.
Alla luce di quanto sopra, il Governo italiano conclude affinché la Corte
di Giustizia delle Comunità Europee voglia rigettare l’atto di impugnazione.
Roma, 5 agosto 2008 Avv. Wally Ferrante
Cause riunite C-155/08 e C-157/08 – Materia trattata: libera prestazione
dei servizi – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Hoge
Raad der Nederlanden il 16 aprile 2008 – Convenuto: Staatssecretaris van
Financien. (Avvocato dello Stato S. Fiorentino – AL 25484/08).
LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI
1) (primo quesito comune ad entrambe le cause) Se gli artt. 49 e 56 CE
debbano essere interpretati nel senso che essi non ostano a che uno Stato
membro, nei casi in cui (redditi derivanti da) risparmi all’estero che non
siano stati dichiarati alle sue autorità fiscali, applichi un regime normativo
che prevede un termine per l’accertamento di dodici anni, a compensazione
dell’assenza di effettive possibilità di controllo sui beni all’estero, mentre per
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 157
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 157
(redditi derivanti da) risparmi che sono stati mantenuti all’interno del suo
territorio, dove invece esistono siffatte possibilità effettive di controllo, vige
un termine di cinque anni.
2) (secondo quesito – solo causa 155/08) Ai fini della soluzione della
prima questione, se faccia differenza il fatto che i beni siano mantenuti in uno
Stato membro che applica il segreto bancario.
3) (terzo quesito – solo causa 155/08) Qualora la prima questione sia
risolta affermativamente, se gli artt. 49 CE e 56 CE non ostino neppure a che
un’ammenda inflitta per l’omessa dichiarazione di redditi o patrimoni con
riferimento ai quali si esige a posteriori l’imposta venga determinata in proporzione
all’importo richiesto per il periodo più lungo.
LA NORMATIVA COMUNITARIA
I quesiti posti nell’ordinanza di rinvio portano sull’interpretazione dell’articolo
49 e dell’art. 56 CE.
L’articolo 49 CE stabilisce:
«Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione
dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini
degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario
della prestazione.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa
ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente
capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno
dell’Unione».
L’articolo 56 CE dispone:
«1. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate
tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati
membri e paesi terzi.
2. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte
le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi
terzi».
LA NORMATIVA NAZIONALE
Viene in rilievo l’articolo 16 della Algemene wet inzake rijksbelastingen
(legge generale olandese sulle imposte dello Stato: in prosieguo l’«AWR»)
che, secondo quanto si ricava dalle ordinanze di rinvio, dispone quanto
segue:
«(1) Qualora un qualche fatto susciti il sospetto che a torto non abbia avuto
luogo l’assoggettamento ad imposta ovvero che sia stato liquidato un importo
troppo basso (...), l’Inspecteur può esigere a posteriori l’imposta non prelevata.
(...)
(2) ...
(3) Il potere di emettere un avviso di accertamento decade con il decorso di
cinque anni dal momento in cui è sorto il debito d’imposta. (...)
(4) Qualora sia stata prelevata un’imposta troppo bassa per un elemento
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 158
oggetto di una qualche imposizione, mantenuto o generato all’estero, il potere
di accertamento, in deroga a quanto stabilito al terzo paragrafo, prima
frase, decade con il decorso di dodici anni dal momento in cui è sorto il debito
d’imposta».
IL FATTO
Entrambe la controversie hanno ad oggetto avvisi di accertamento –
relativi in un caso alla sola imposta sul patrimonio, nell’altro caso a questa
imposta, all’imposta sul reddito e ai contributi previdenziali – nel contesto
dei quali l’Amministrazione finanziaria olandese ha esercitato una pretesa
relativa ad obbligazioni risalenti ad un periodo anteriore al quinquennio dalla
data dell’accertamento, avvalendosi della facoltà concessale dall’art. 16, n. 4,
della AWR. Nella fattispecie che ha dato luogo alla causa C-155/08, con l’avviso
di accertamento sono state irrogate anche delle sanzioni, diversamente
da quanto è avvenuto nell’altro caso, nel quale l’Amministrazione finanziaria
olandese ha accordato alla interessata i benefici previsti dalla legge per il
caso di autodenuncia dell’evasione.
I ricorrenti, in entrambe le cause, hanno tra l’altro contestato l’applicabilità
dell’art. 16, n. 4, della AWR perché, sebbene fosse pacifico che ricorressero
i presupposti per l’applicazione di tale norma, essa risulterebbe in contrasto
con i principi del Trattato. La regola prevista dal diritto olandese, infatti,
costituirebbe un ostacolo per la libera circolazione di capitali, dei pagamenti
o dei servizi, integrando una discriminazione in assenza di una causa
oggettiva di giustificazione. In ogni caso, anche ammesso che l’obiettivo perseguito
dalla norma olandese sia meritevole di tutele e giustifichi il trattamento
differenziato, un termine di addirittura dodici anni sarebbe in ogni
caso inadeguato e non proporzionato all’obiettivo.
Nell’illustrare la questione pregiudiziale l’Hoge Raad prende le mosse
dal presupposto che la norma olandese introduca effettivamente un ostacolo
alla libera circolazione di servizi o capitali, di tal che la questione che si pone
consiste unicamente nello stabilire se esista una giustificazione sufficiente
per tale ostacolo.
Infatti, la circostanza che un’operazione sia compiuta allo scopo di evadere
il fisco non rende l’operazione medesima “artificiosa”, nel senso chiarito,
ad esempio, dalla sentenza Emsland - Stärke di codesta Corte, così da
escludere l’interessato dall’accesso alle libertà garantite dal Trattato.
Analizzando, quindi, le possibili giustificazioni della disposizione, la
Corte di cassazione olandese ne ha enunciato le finalità ricavandole dai lavori
preparatori della norma, dai quali si evince cha la ratio del prolungamento
del termine per l’accertamento risiede nella mancanza di adeguate possibilità
di controllo da parte delle autorità fiscali con riguardo ad elementi del reddito
o del patrimonio generati all’estero.
Queste difficoltà risultano accresciute nel caso in cui il presupposto
d’imposta si radica in un Paese che non ha stipulato una convenzione con i
Paesi Bassi relativa allo scambio di informazioni e/o che applica il segreto
bancario. Si è reso pertanto necessario, a giudizio del legislatore olandese,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 159
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 159
prevedere per questi casi un termine superiore a quello di cinque anni e la
scelta è caduta su di un termine, come quello di dodici anni, pari al periodo
di prescrizione del reato. E poiché questi casi di occultamento di materia
imponibile sono sempre caratterizzati da dolo, o quanto meno da colpa grave,
era ragionevole, secondo la relazione illustrativa del provvedimento legislativo,
allineare a questo termine anche quello entro il quale può essere inflitta
una sanzione amministrativa.
L’Hoge Raad ha rilevato che l’ambito di applicazione dell’art. 16, n. 4,
AWR non è, a rigore, limitato ai casi in cui vi sia stato un consapevole occultamento
degli elementi patrimoniali o di reddito prodotti all’estero, il che, di
per sé, non esclude che la norma possa essere considerata compatibile con il
Trattato o, quanto meno, che possa esserlo nella misura in cui colpisca condotte
nelle quali l’occultamento doloso vi sia stato.
Poiché, secondo il giudice a quo, i casi qui in esame sono caratterizzati
dal dolo, l’esistenza di una causa di giustificazione può essere esaminata in
relazione a questo particolare caso e alla stregua della costante giurisprudenza
di codesta Corte di giustizia, secondo la quale l’efficacia dei controlli
fiscali costituisce un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare
una restrizione dell’esercizio delle libertà di circolazione garantite dal
Trattato (v., inter alia, sentenze 8 luglio 1999, causa C-254/97, Baxter, punto
18; 22 marzo 2007, causa C-383/05, Talotta, punto 35 e 18 dicembre 2007,
causa C-101/05, Skatterverket/A, punto 55).
LA POSIZIONE DEL GOVERNO ITALIANO
Nel presente intervento il Governo italiano sosterrà che al primo dei quesiti
posti dalla giurisdizione di rinvio occorra dare risposta positiva, affermando,
cioè, che le norme del Trattato non debbano essere interpretate nel
senso di non consentire una norma come quella prevista dall’ordinamento
olandese; sosterrà, inoltre, che al secondo dei quesiti occorra dare risposta
negativa (nel senso che l’applicazione della suddetta regola prescinda dall’esistenza
del segreto bancario nello Stato membro in cui sono mantenuti i
beni da cui origina il presupposto imponibile); sosterrà, infine, che sia opportuno
rispondere positivamente al terzo quesito, affermando che si possano
applicare sanzioni amministrative riferite al periodo rispetto al quale operano
i più lunghi termini di accertamento.
Le ragioni per pervenire a tale conclusione sono, come si vedrà, già
sostanzialmente illustrate nell’ordinanza di rinvio.
Il problema che pone il rinvio pregiudiziale riguarda il controllo delle
transazioni da e per l’estero effettuate da soggetti residenti, al fine di impedire
che le disponibilità economiche di questi soggetti possano sfuggire alla
concreta possibilità di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria,
che ha interesse a verificare il rispetto del principio, comune a tutti gli Stati
membri, di tassazione dell’intero reddito personale, ovunque prodotto.
L’esigenza di introdurre misure che abbiano un simile obiettivo è comunemente
avvertita dagli Stati membri, consapevoli dell’insufficienza dei soli
strumenti di cooperazione tra gli Stati, siano essi previsti da Convenzioni bila-
160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 160
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 161
terali contro la doppia imposizione sul reddito ovvero da fonti di diritto comunitario
derivato, come la direttiva 77/799/CEE sulla reciproca esistenza amministrativa,
la direttiva 76/308/CEE, successivamente modificata dalla direttiva
2001/44/CE, concernente l’assistenza amministrativa reciproca in materia di
recupero dei crediti tributari e la direttiva 2003/48/CE in materia di tassazione
dei redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi (1).
Misure normative di controllo dei movimenti finanziari con l’estero
sono, ad esempio, previste anche dall’ordinamento italiano, sebbene non sia
prevista una differenziazione dei termini di decadenza per l’accertamento (2).
Il decreto – legge n. 167 del 1990 (convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 227 del 1990), prevede, in quest’ottica, una serie di disposizioni volte al
controllo delle transazioni da e verso l’estero di denaro, titoli e valori per un
importo superiore a 12.500,00 euro, tra le quali:
– l’obbligo di comunicazione a carico degli intermediari finanziari che si
interpongono nell’esecuzione delle operazioni di trasferimento;
– l’obbligo di dichiarazione dei trasferimenti effettuati in forma diretta ovvero
mediante plico postale o equivalente di denaro, titoli e valori mobiliari in
questo caso il limite di importo é pari a 10.000,00 euro);
– obbligo di indicazione, nella dichiarazione dei redditi, degli investimenti
all’estero e delle attività estere di natura finanziaria attraverso le quali possono
essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia nonché dei trasferimenti,
da, verso e sull’estero che hanno interessato i suddetti investimenti
o attività (l’obbligo non sussiste nei casi in cui il contribuente abbia dato
incarico ad un intermediario di curare l’incasso dei redditi esteri prodotti
dalle suddette disponibilità finanziarie).
Dall’ordinanza di rinvio si evince che alcuni obblighi di questo tipo esistono
anche nei Paesi Bassi, ma che, negli anni cui si riferiscono gli accertamenti
contestati, il trasferimento o il mantenimento di risparmi all’estero non
richiedeva di norma il coinvolgimento di terzi, così esposti al controllo delle
autorità fiscali olandesi. Il Giudice a quo rileva, inoltre, che non esiste alcun
obbligo per le banche estere di informare le autorità fiscali olandesi, al contrario
di quanto avviene per la banche olandesi rispetto agli investimenti
interni. Vi è, quindi, un’obiettiva maggiore difficoltà, per il fisco olandese,
nell’individuare fonti estere di materia imponibile sottratta all’imposizione
rispetto a quanto si verifichi per le fonti localizzate nei Paesi Bassi. Questa
(1) Sulla tradizionale inefficienza della cooperazione amministrativa in materia tributaria,
si vedano le considerazioni ed i riferimenti dell’Avvocato Generale Trstenjak, nelle conclusioni
della causa C-73/06, Planzer Luxembourg, punto 58.
(2) Questi termini, in Italia, scadono il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello
in cui è stata presentata la dichiarazione. In caso di omessa presentazione della dichiarazione
o di dichiarazione nulla, l’accertamento può essere emesso sino al 31 dicembre del
quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione dovrebbe essere stata presentata.
Questi termini sono raddoppiati quando il contribuente abbaia commesso una violazione
della normativa fiscale punita quale reato e per la quali sia previsto l’obbligo di denuncia ai
sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale (sia, cioè, reato perseguibile d’ufficio).
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 161
disparità di situazioni di fatto, secondo la Corte di cassazione dei Paesi Bassi,
ha dato origine alla norma qui in esame e potrebbe anche giustificarne la
legittimità.
A giudizio del Governo italiano la conclusione si dimostra persuasiva.
Va, al riguardo, anzi tutto osservato che la preoccupazione che è alla base
della disposizione nazionale olandese in esame è sostanzialmente coincidente
con quella del legislatore comunitario, considerato che la Commissione
Europea propose un’apposita iniziativa legislativa, poi approvata dal
Consiglio e sfociata nella direttiva 2003/48/CE del Consiglio, in materia di
tassazione di redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi. La
direttiva è stata adottata proprio per offrire uno strumento giuridico di contrasto
ai fenomeni di evasione dei redditi “transfrontalieri” da risparmio. Il
quinto ‘considerando’ premesso alla direttiva ricorda, infatti, che «in assenza
di coordinamento dei regimi tributari nazionali in materia di imposizione
sui redditi da risparmio sotto forma di pagamento di interessi, in particolare,
per quanto attiene al trattamento degli interessi percepiti da non residenti,
attualmente i residenti degli Stati membri possono spesso evitare qualsiasi
forma di imposizione nel loro Stato membro di residenza sugli interessi
percepiti in un altro Stato membro».
In secondo luogo, come già accennato, è necessario non sopravvalutare
la possibilità (spesso solo teorica) che hanno gli Stati di ottenere informazioni
su tipologie di reddito quali quelle qui in discussione, ai sensi della direttiva
77/799/CEE sulla reciproca assistenza amministrativa tra autorità competenti.
Vanno, a tale proposito, ricordati i limiti allo scambio di informazioni
previsti dall’articolo 8 della citata direttiva e, in particolare, dal paragrafo
1 di tale articolo, il qual chiarisce che la stessa direttiva «non impone allo
Stato membro al quale sono richieste informazioni alcun obbligo di effettuare
indagini o di comunicare informazioni, se la legislazione o la prassi amministrativa
di tale Stato non consente all’autorità competente di condurre tali
indagini o di raccogliere le informazioni richieste». La sussistenza di questi
limiti è stata, del resto, già valorizzata dalla giurisprudenza di codesta Corte
di giustizia (v., ad es., sentenza 11 ottobre 2007, causa C-451/05, ELISA,
punto 93, benché, in quel caso, si sia poi escluso che la misura esaminata
fosse proporzionata all’obiettivo di superare tali difficoltà).
In terzo luogo, sembra al Governo italiano ben fondata l’argomentazione
che risulta essere stata utilizzata nel giudizio a quo, secondo la quale in
mancanza di indicazioni circa il fatto che il soggetto passivo interessato avesse
probabilmente un reddito o un patrimonio acquisito o detenuto nell’altro
Stato membro, non vi è spazio per le norme sulla cooperazione amministrativa,
a meno di non voler ipotizzare la presentazione periodica a tutti gli Stati
membri di una richiesta di informazioni avente ad oggetto tutti soggetti passivi
olandesi, residenti nei Paesi Bassi.
Quanto precede porta, ad avviso del Governo italiano, a ritenere che la
misura prevista dal diritto olandese sia giustificata, perché è pacifico che la
garanzia dell’efficacia dei controlli fiscali costituisce un motivo imperativo
di interesse generale idoneo a giustificare la restrizione dell’esercizio della
libertà di circolazione dei capitali (peraltro in casi in cui essa non è stretta-
162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 162
mente funzionale alla libertà di stabilimento). La misura sembra, inoltre, proporzionata
all’obiettivo, perché essa, lungi dall’annullare la libertà di circolazione,
si limita a contrastare la propensione all’evasione fiscale tenendo
conto dell’esistenza di ostacoli obiettivi nell’accertamento di fonti di reddito
estranee alla sfera di controllo delle autorità olandesi. Ostacoli che sembrano
ragionevolmente superabili, nella grande maggioranza dei casi, solo attraverso
l’abolizione di limiti temporali (con l’eccezione di quelli connessi all’esigenza
di certezza del diritto, rispetto ai quali il termine di dodici anni sembra
congruo).
Quanto al secondo quesito, che porta sull’esame del segreto bancario, si
osserva che il problema risulta solo in parte “sdrammatizzato” per effetto dell’adozione
della direttiva 2004/38/CE in materia di tassazione del risparmio.
Tale direttiva, come è noto, ha visto delinearsi un sistema in cui tutti gli Stati
hanno accettato di scambiarsi reciprocamente le informazioni sui redditi da
risparmio contemplati dalla direttiva stessa, ad eccezione di tre soli Stati
(Austria, Belgio e Lussemburgo) che, a difesa del proprio segreto bancario,
hanno ottenuto di applicare in luogo dello scambio di informazioni una ritenuta
alla fonte, per un periodo (teoricamente) transitorio. Tuttavia, il quattordicesimo
‘considerando’ della stessa direttiva rammenta che «l’obiettivo
finale di permettere l’imposizione effettiva sui pagamenti di interessi nello
Stato membro di residenza fiscale del beneficiano effettivo può essere raggiunto
mediante lo scambio di informazioni sui pagamenti di interessi tra gli
Stati membri», il che conferma che l’obiettivo finale che il Legislatore comunitario
si pone è il superamento del segreto bancario ed il raggiungimento di
un efficace scambio di informazioni tra tutti gli Stati membri.
È vero che il sedicesimo considerando della direttiva 2003/48/CE chiarisce,
tra l’altro, che «è pertanto necessario stabilire che gli Stati membri che
si scambiano informazioni a norma della presente direttiva non possano
avvalersi dei limiti allo scambio di informazioni di cui all’articolo 8 della
direttiva 77/799/CEE», tuttavia, tali disposizioni non si rendono applicabili
proprio a quei Paesi (Austria, Belgio e Lussemburgo) che nel regime transitorio
applicano il sistema di ritenuta in luogo dello scambio di informazioni.
Tutto ciò porta a ritenere che l’esistenza del segreto bancario è ostacolo
che a maggior ragione giustifica una disposizione come l’articolo 16, n. 4,
dell’AWR, senza, tuttavia, giungere ad affermare che esso si ponga quale
presupposto applicativo della norma. Infatti, il segreto bancario è un elemento
che indebolisce lo strumento dello scambio di informazioni, ma si è visto
che la ragione giustificatrice principale della norma qui in esame si pone a
monte di tale strumento e risiede nella pratica impossibilità di attivare sistematicamente
lo scambio di informazioni rispetto a contribuenti che non
hanno dato luogo a dubbi o sospetti.
Da ultimo, con riferimento al terzo quesito, sembra al Governo italiano
che il mantenimento di una sanzione, anche in relazione ai periodi sui quali
si proietta il maggior termine di accertamento, sia norma, anch’essa, funzionale
all’obiettivo perseguito dall’art. 16, n. 4 e che non sembra introdurre
irragionevoli discriminazioni tra situazioni di diritto interno e situazioni
transfrontaliere, essendo giustificata dalla maggiore pericolosità dell’evasio-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 163
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 163
ne d’imposta perpetrata all’estero, in ragione delle maggiori difficoltà di
accertamento di cui si è detto.
Conclusioni
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il Governo italiano suggerisce
alla Corte di rispondere ai quesiti sottoposti al suo esame affermando che:
Gli articoli 49 CE e 56 CE non ostano ad una norma nazionale che concede
all’Amministrazione finanziaria un termine di dodici anni per l’accertamento
di redditi prodotti da risparmi detenuti all’estero, che non sono stati
dichiarati alle autorità fiscali dello Stato di residenza, a fronte della previsione
di un termine di cinque anni rispetto ad analoghi redditi prodotti nello
Stato di residenza.
Tale conclusione prescinde dal fatto che i risparmi siano detenuti in uno
Stato membro che applichi il segreto bancario, sebbene si imponga a maggior
ragione in questo caso.
I predetti articoli del Trattato non ostano, altresì, all’applicazione di una
sanzione amministrativa per l’omessa dichiarazione di redditi o patrimoni
calcolata in proporzione all’imposta evasa anche nei periodi rispetto ai quali
opera il prolungamento dei termini di accertamento.
Roma, 6 agosto 2008 Avv. Sergio Fiorentino
Causa C-334/08 – Materia trattata: risorse proprie delle Comunità –
Ricorso presentato il 18 luglio 2008 – Commissione delle Comunità europee/
Repubblica italiana. (Avvocato dello Stato G. Albenzio – AL 29747/08).
LE CONCLUSIONI DELLA COMMISSIONE
Constatare che la Repubblica italiana ha mancato agli obblighi che le
incombono in virtù dell’art. 10 CE, dell’art. 8 della decisione 2000/597/CE,
Euratom del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse
proprie delle Comunità europee, e degli artt. 2, 6, 10, 11 e 17 del regolamento
(CE, Euratom) n. 1150/2000 del Consiglio, del 22 maggio 2000,
recante applicazione della decisione 94/728/CE, Euratom, relativa al sistema
delle risorse proprie delle Comunità, per aver rifiutato di mettere a
disposizione della Commissione le risorse proprie corrispondenti all’obbligazione
doganale derivante dal rilascio, dal 27 febbraio 1997, da parte della
Direzione compartimentale delle dogane per le Regioni Puglia e Basilicata,
sita a Bari, di autorizzazioni irregolari a creare e gestire a Taranto magazzini
doganali di tipo C, seguite da concesutive autorizzazioni alla trasformazione
sotto controllo doganale e al perfezionamento attivo, fino alla loro
revoca il 4 dicembre 2002;
Condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese processuali.
I MOTIVI DELLA COMMISSIONE
Col presente ricorso la Commissione europea rimprovera al Governo
italiano di avere rifiutato di mettere a disposizione delle Comunità europee
164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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le risorse proprie – quantificate in circa 23 milioni di euro – corrispondenti
ad alcune autorizzazioni doganali irregolari rilasciate a Taranto nel periodo
compreso fra il febbraio 1997 ed il dicembre 2002.
La materia del contendere riguarda essenzialmente la responsabilità
degli importi relativi alle risorse non riscosse a causa delle operazioni irregolari
in questione. Il Governo italiano pretende di non essere responsabile
dei mancati introiti dovuti alle predette irregolarità, in quanto queste ultime
sarebbero unicamente imputabili ai funzionari che hanno provocato il
danno, mentre la Commissione è persuasa che la vigente legislazione comunitaria
imponga allo Stato italiano di farsi carico di tutte le conseguenze
finanziarie derivanti all’operato – anche irregolare – dei funzionari che agivano
in suo nome e per suo conto.
IL CONTRORICORSO DEL GOVERNO ITALIANO
In fatto si espone
La vertenza processuale che qui occupa ha avuto inizio a seguito di una
segnalazione della Direzione Regionale di Milano, recante data 18 novembre
2002, relativa a possibili irregolarità riguardo l’immissione in consumo di
rottami di alluminio; rottami che sarebbero stati costituiti, contrariamente a
quanto dichiarato dagli operatori, da pani tagliati; a seguito della suddetta
denuncia la Direzione Regionale per la Puglia e la Basilicata ha attivato con
nota 2002/37155 del 29 novembre 2002 la Direzione della Circoscrizione
doganale di Taranto che, al termine delle indagini, ha redatto la relazione 3
febbraio 2003; in conseguenza di tale accertamento è stata revocata in autotutela
l’autorizzazione alla trasformazione sotto controllo doganale (rottamazione)
di pani di alluminio, concessa alla società Fonderie S.p.A. e sono stati
informati i competenti servizi della Commissione delle Comunità europee
che, quindi, hanno chiesto chiarimenti alle Autorità italiane con lettera n.
D(2003)3107 del 27 ottobre 2003.
Rilevanti appaiono, per la decisione della Corte, i seguenti elementi di
fatto accertati nel corso delle indagini. In data 29 gennaio 1997 la società
Fonderie S.p.A. ha chiesto alla Direzione Compartimentale per le Regioni
Puglia e Basilicata, per il tramite della Circoscrizione doganale di Taranto,
l’autorizzazione all’istituzione ed alla gestione, nel proprio stabilimento di
Taranto, di un “deposito doganale privato di tipo C” [“deposito … destinato
unicamente ad immagazzinare merci del depositario, ove il depositario si
identifichi con il depositante senza essere, necessariamente, proprietario
delle merci” – art. 504 Reg. CEE 2454/93 e art. 99 Reg. CEE 2913/92]; per
tale tipologia di deposito il controllo doganale consiste nelle sole verifiche
periodiche dei registri di carico e scarico e relativa giacenza; non si richiedono,
cioè, particolari forme di vigilanza che vadano oltre le ordinarie procedure
previste ed eseguite (si vedano i verbali di verifica in data 7 giugno 2002,
30 maggio 2002, 3 maggio 2002, 23 luglio 1999, 10 marzo 1998, 4 luglio
1997).
Nella stessa istanza la società ha chiesto di effettuare le seguenti operazioni:
“trasformazione sotto controllo doganale: rottamare merci destinate
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 165
alla fusione per la lavorazione prima dell’immissione in consumo”; l’operazione
di rottamazione ha assunto il ruolo di attività fondamentale nell’ambito
dello stabilimento, con il passaggio da una voce tariffaria con dazio del 6%
ad una voce esente.
In data 27 febbraio 1997 il Direttore Compartimentale per la Puglia e la
Basilicata, Nicola De Michele, ha rilasciato l’autorizzazione richiesta dalla
Società Fonderie S.p.A. per immettere nel deposito “prodotti, rottami e
avanzi di alluminio per la fusione”; in data 7 aprile 1997, con nota prot. n.
5005, a firma del Direttore sostituto Antonio La Macchia, è stata rilasciata
“autorizzazione alla trasformazione dei pani di alluminio introdotti in deposito
[voce doganale 7601 – dazio 6%] in rottami (avanzi) [voce doganale
7602 – dazio zero]”.
La procedura di controllo sulla “trasformazione in rottami (avanzi) dei
pani di alluminio … mediante spezzatura a mezzo di idonei strumenti”
(come prevista dall’autorizzazione del 7 aprile 1997), stabiliva la “vigilanza
finanziaria” consistente nella presenza saltuaria di un funzionario doganale,
delegato dal coordinatore dell’ufficio accertamento, e nella verifica da parte
della Guardia di Finanza con modalità da stabilirsi, con la redazione di un
verbale, a firma congiunta del funzionario doganale preposto, del militare
della Guardia di finanza e dello spedizioniere in rappresentanza della Società.
L’attività dichiarata di trasformazione dei pani ha comportato il mutamento
della posizione tariffaria, con i consequenziali effetti di una minore
entrata al bilancio comunitario per dazi, stimata in circa 46,6 miliardi di vecchie
lire e minori entrate all’erario nazionale per l’IVA, stimate in circa 18,8
miliardi di vecchie lire.
Successivamente, è stata rilasciata una nuova autorizzazione da parte
dell’allora Direttore della Circoscrizione, Armando Mele, che ha rinnovato il
precedente titolo autorizzativo, con la previsione della chiusura del regime di
deposito mediante l’emissione di una bolletta di perfezionamento attivo,
secondo la prassi consolidata fin dal 1997.
Con nota prot. n. 2002-8103 del 13 giugno 2002, il Direttore della
Circoscrizione doganale di Taranto ha integrato il precedente dispositivo di
autorizzazione alla trasformazione sotto controllo doganale con l’estensione
all’area dell’intero stabilimento della zona destinata a deposito doganale con
il probabile obiettivo di prevenire ulteriori interventi della Guardia di
Finanza. Tale estensione non poteva essere concessa dal Direttore della
Circoscrizione in quanto si trattava di una competenza esclusiva del Direttore
Regionale.
Nel mese di agosto 2002 è stata avviata la verifica fiscale da parte della
Guardia di Finanza presso gli stabilimenti della Società Fonderie S.p.A. cha
ha portato alla scoperta della frode, ma già in occasione di una verifica fiscale
a carattere generale, effettuata dal 20 marzo al 28 maggio 2002 dal Nucleo
regionale della Guardia di Finanza di Bari, era emerso che alcune partite di
alluminio, iscritte nella contabilità del deposito doganale della Società
Fonderie S.p.A., non si trovavano nelle zone previste dall’autorizzazione;
sulla base di questa constatazione i militari hanno proceduto al sequestro del
prodotto rinvenuto, con l’immediata contestazione alla Società Fonderie
166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 166
S.p.A. del reato di contrabbando, commesso asportando merci dal deposito
doganale senza aver pagato i diritti o senza averne garantito il pagamento;
mentre era già in corso la verifica fiscale della Guardia di finanza, la
Circoscrizione doganale di Taranto ha proceduto ad una verifica ordinaria
presso il deposito doganale privato della Società Fonderie S.p.A.
All’esito di ulteriori controlli effettuati sul territorio nazionale a partire
dal 7 ottobre 2002, l’Area gestione tributi della stessa Direzione Regionale
per la Puglia e la Basilicata, con nota n. 2002-17605 del 4 dicembre 2002, ha
precisato che “la trasformazione sotto controllo doganale dei pani di alluminio
greggio introdotti in deposito doganale privato non genera il prodotto
classificabile alla voce doganale «rottami » 7602 S.A., aliquota daziaria
zero, bensì deve essere classificato nonostante il taglio cui è sottoposto alla
stessa voce doganale del prodotto originario 7601 ad aliquota daziaria 6%”;
la stessa direzione regionale ha, inoltre, informato la Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Bari ed ha revocato con effetto immediato
le autorizzazioni alla trasformazione sotto controllo doganale a suo tempo
concesse alla Ditta Fonderie S.p.A.
Ad evidenziare la diligenza dell’Amministrazione doganali italiana va
detto che, non appena stimato l’importo esatto da recuperare per gli anni dal
1997 al 2002 (circa 46 miliardi di lire), è stato richiesto al Presidente del
locale Tribunale Civile il sequestro conservativo di cui all’art. 671 del c.p.c.
sui beni delle Fonderie S.p.A., cui ha fatto seguito l’azione di recupero dei
diritti evasi (non preclusa per alcuno degli anni in questione – 1997/2002– ai
sensi dell’art. 221, comma 4, del Reg. 2913/92); è stata anche attivata la
polizza fideiussoria a garanzia delle operazioni della Società in questione per
5,2 miliardi di lire – € 2.685.575 circa – ma, nel frattempo, la società è stata
ammessa alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni presso
il Tribunale civile di Roma-sezione Fallimentare.
Sulla base degli elementi di fatto testé esposti si può dire che le principali
responsabilità per quanto accaduto sono ad individuarsi nelle iniziative illegittime
prese dai responsabili della Circoscrizione Doganale di Taranto e
della Direzione Compartimentale (ora Regionale) per la Puglia e la
Basilicata, soprattutto nella fase di avvio della vicenda nel 1997; risultano
eloquenti, in questa direzione, alcuni passi della motivazione del provvedimento
con il quale il G.I.P. del Tribunale penale di Taranto ha ordinato la
custodia cautelare in carcere di alcuni funzionari della dogana e di alcuni
militari della Guardia di Finanza: “la sistematica violazione di norme penali
e doganali, secondo le modalità sopra descritte, così prolungata nel tempo,
appare necessariamente essere il risultato di un consolidato accordo criminoso
tra i responsabili delle Fonderie S.p.A. ed i pubblici funzionari addetti
ai controlli. Tale accordo appare sin d’ora connotato da evidenti sospetti di
corruttela che dovranno necessariamente essere approfonditi e sviluppati nel
prosieguo delle indagini, sulla base dell’ovvia considerazione che gli ingenti
vantaggi patrimoniali illecitamente conseguiti dai proprietari della
Fonderie S.p.A. non possono costituire frutto di graziosa elargizione. La
situazione ambientale sopra descritta rende evidentemente problematico il
lavoro degli inquirenti, dovendosi operare all’interno di un ambiente carat-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 167
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 167
terizzato da una così diffusa illegalità e da una stretta complicità tra i soggetti
coinvolti” (ciò conferma la difficoltà, data anche dalla tipologia dei controlli
ordinari richiesti, di smascherare subito la frode posta in essere).
In risposta alla lettera n. D(05)53566 del 3 maggio 2005 dei competenti
servizi della Commissione, le Autorità italiane, con nota n. 3241 del 30 settembre
2005, hanno calcolato che l’ammontare complessivo delle minori
entrate comunitarie era definitivamente quantificato nella cifra di €
22.730.818,35 (12.771.448,10 + 9.507.317,93 + 452.052,32) che la
Commissione ha invitato a mettere a disposizione in quanto, a suo parere, gli
Stati membri sono gli unici responsabili della riscossione delle risorse proprie
della Comunità e sono tenuti a coprire le perdite conseguenti causate da
errori commessi dai loro funzionari.
La dogana italiana ha obiettato che nella specie non si trattava di “errori”
o “negligenze” delle Autorità ma di conseguenze dannose causate da
altrui atteggiamenti dolosi ed a carattere fraudolento che non potevano essere
addossate allo Stato membro.
La Commissione, tuttavia, insistendo nelle sue posizioni, ha inviato ai
sensi dell’art. 226 CE una lettera di costituzione in mora – n. (2007)920 – ed
il conseguente parere motivato – n. (2007)4700 – non ritenendo sanata l’infrazione
contestata; su questa è stata chiamata a decidere la Corte di Giustizia CE.
In punto di diritto
Prima di ogni altra considerazione, riportiamo le disposizioni che regolano
la materia ed in base alle quali dovrà essere decisa la causa: l’art. 8, par.
1, della decisione 2000/597/CE Euratom del Consiglio secondo cui “le risorse
proprie comunitarie di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettere a) e b) sono
riscosse dagli stati membri conformemente alle disposizioni legislative regolamentari
e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze
della normativa comunitaria. La commissione procede, ad intervalli regolari
all’esame delle disposizioni nazionali che le vengono comunicate dagli
stati membri, comunica agli stati membri gli adattamenti che ritiene necessari
per garantire che esse siano conformi alle normative comunitarie…”; il
regolamento (CE, Euratom) n. 1150/2000 del Consiglio, a sua volta, sancisce
al suo art. 17, nn. 1 e 2, che “gli Stati membri sono tenuti a prendere tutte le
misure necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati in
conformità dell’articolo 2 siano messi a disposizione della Commissione…
gli Stati membri sono dispensati dall’obbligo di mettere a disposizione della
commissione gli importi corrispondenti ai diritti accertati soltanto se la
riscossione non possa essere effettuata per ragioni di forza maggiore.
Inoltre, in casi particolari, gli stati membri sono dispensati dal mettere a
disposizione della Commissione tali importi quando, dopo attento esame di
tutti i dati pertinenti del caso, risulta definitivamente impossibile procedere
alla riscossione per motivi che non potrebbero essere loro imputabili”.
La Commissione ritiene che lo Stato italiano, alla luce di questa normativa
e dell’altra richiamata in sede di ricorso, sia venuto meno agli impegni
che su di esso incombono in virtù dell’art. 10 CE [secondo cui “gli stati
membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad
168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 168
assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero
determinati dagli atti delle istituzioni della comunità”] e dell’art. 8 citato e
che, inconseguenza, deve mettere a disposizione l’importo dell’obbligazione
doganale in questione (€ 22.730.826,29).
Secondo la Commissione la responsabilità dello Stato italiano deriva da
un “errore amministrativo” concretatosi nella “mancata sorveglianza adeguata
alle persone incaricate dall’autorità pubblica”; così ipotizzando,
l’Organo comunitario opera una fallace equiparazione fra le ben differenti
nozioni di “negligenze” e di “azioni erronee”, prefigurando una responsabilità
per culpa in eligendo vel in vigilando, cioè una forma di responsabilità
vicaria, sostanzialmente oggettiva e per fatto altrui, anche doloso.
È a tutti noto che l’errore sia concetto ed istituto giuridico differente dal
dolo, elemento psicologico che si estrinseca in un operare fraudolento ove si
realizza un raggiro (ai danni, nel caso che occupa, sia della Comunità che
dello Stato italiano); ciò perché l’errore vive nel terreno dell’involontarietà
della colpa mentre il dolo si caratterizza per un’architettura dinamica ove la
signoria del volere domina.
Dai fatti di causa sopra riportati e in particolare dalla relazione Audit
dell’Agenzia delle Dogane italiana n. 1369 del 3 febbraio 2003, emerge che,
a carico dei funzionari responsabili del mancato introito comunitario e dell’emissione
delle autorizzazioni illecite che lo hanno causato, è stata emessa
dall’Autorità giudiziaria penale una informazione di garanzia con l’imputazione
di “contrabbando aggravato e falso in atto pubblico” determinato,
appunto, dall’abusivo rilascio dei provvedimenti autorizzatori.
Il punto determinante della vicenda in questione va individuato proprio
nella macchina fraudolenta ed illegale messa in piedi da quei funzionari corrotti,
in accordo con i titolari delle società beneficiarie delle evasioni dei dazi, e
nella conseguente recisione del nesso di causalità che sussiste tra condotta ed
evento e che vive di una dimensione fattuale ed una soggettiva (colpa, dolo etc.).
Le circostanze da cui la controversia ha tratto origine sono ricollegabili
in maniera indiscutibile agli illeciti penali commessi: l’evidente distonia
delle conclusioni della Commissione con quanto fin qui detto deriva dal fatto
che, vertendosi in materia di responsabilità penale, ove ci si muove in una
dimensione soggettiva della responsabilità (l’art. 27 della Costituzione italiana
recita che “La responsabilità penale è personale”), i relativi fatti non possono
in alcun modo essere imputati all’Amministrazione della quale i funzionari
corrotti erano dipendenti.
Per superare questo evidente ostacolo, la Commissione prefigura la
responsabilità del Governo italiano facendo riferimento ad errori comportamentali
dell’Amministrazione alla stessa imputabili ma su questo piano (corretto)
di indagine occorre basarsi su quanto stabilito dalla stessa
Commissione con l’atto DOC BUDG/266/OO-IT, Dossier 4.3.50 sulla
“Responsabilità finanziaria degli stati membri per errori amministrativi
commessi dalle autorità nazionali”, ove sono individuate le “6 categorie che
possono impegnare la responsabilità finanziaria degli stati membri: 1. mancata
contabilizzazione dei diritti a seguito di errore non rilevabile dal debitore…;
2. mancata contabilizzazione dei diritti in seguito alla prescrizione
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 169
dell’obbligazione doganale causata dall’inattività dell’autorità doganale
(=errore) che disponeva di tutti gli elementi che le permettevano di contabilizzare
i diritti e di comunicarli al debitore…; 3.a) mancata contabilizzazione
dei dazi all’importazione a seguito di un errore non rilevabile dalle autorità
doganali nel quadro della gestione dei contingenti tariffari, mediante
applicazione di una preferenza tariffaria quando il beneficio era soppresso…;
3.b) rimborso o sgravio dei dazi già contabilizzati in quanto le autorità
doganali hanno applicato un dazio ridotto nel quadro di un contingente
tariffario quando l’imputazione a questo contingente non era più possibile a
causa di un errore non rilevabile nel corso del trattamento amministrativo
della domanda di imputazione da parte dell’amministrazione; 4. rimborso o
sgravio di dazi già contabilizzati in situazioni particolari, fondato su un errore
non rilevabile dall’amministrazione…; 5. non accettazione da parte della
Commissione di una domanda di inesigibilità di risorse proprie accertate
(diritti contabilizzati) per il fatto che lo stato membro non è stato sufficientemente
diligente nel rispettare la normativa doganale e finanziaria, comprese
le disposizioni amministrative e regolamentari nazionali in materia di recupero…;
6. mancata contabilizzazione dei diritti a causa della fiducia legittima
del debitore riguardo alle azioni dell’autorità competente (rilascio di
un’autorizzazione non conforme al diritto).”
Con chiara evidenza tutte le ipotesi formulate attengono a casi di errori o
carenze imputabili all’apparato amministrativo dello Stato, non anche a fattispecie
di imputabilità del fatto ad un soggetto terzo che con atteggiamento
doloso ha posto in essere comportamenti fraudolenti.
Nella fattispecie di cui si discute, invece, non risultano, ictu oculi e alla
luce di quanto detto, errori, omissioni o carenze in capo all’Amministrazione,
in quanto l’esistenza di una situazione collusiva tra i funzionari e i terzi ha
creato una copertura agli stessi operatori disonesti, non rendendo agevole
l’individuazione in tempi brevi del meccanismo fraudolento; meccanismo
che è stato comunque scoperto e represso dall’Amministrazione doganale italiana
non appena ha avuto a disposizione elementi che giustificavano un controllo
generale e straordinario e diverso da quelli per prassi effettuati.
La rilevanza penalistica dei comportamenti posti in essere ha, peraltro,
comportato il rinvio a giudizio di ben 24 persone da parte del Tribunale di
Taranto, la condanna in primo grado dello spedizioniere Metta, l’avvio verso
i sei funzionari responsabili di procedure di contestazione di addebiti disciplinari
e sospensione dal servizio (sullo stato di questi giudizi si veda la relazione
dell’Agenzia delle Dogane 27 agosto 2008).
L’Agenzia delle Dogane ha proceduto, inoltre, alla revisione di tutte le
bollette doganali relative alle operazioni di trasformazione sotto controllo
doganale effettuate dalla Società Fonderie S.p.A. che, però, è stata dichiarata
fallita e tutti i crediti iscritti a ruolo sono stati insinuati nel passivo fallimentare;
tuttavia, è stata recuperata, ad onore della diligenza mostrata dai
competenti organi italiani, la somma di € 2.185.681,00, mediante escussione
dell’intero massimale della polizza fideiussoria prestata dalle Generali
S.p.A.; la Direzione Regionale di Bari ha disposto, infine, il fermo amministrativo
nei confronti della Società Fonderie S.p.A. di tutti i crediti nei con-
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02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 170
fronti della pubblica amministrazione e, per l’effetto, è stata annullata una
disposizione di rimborso IVA pari a € 516.000,00; la residua somma dovuta
sarà recuperata a carico dei funzionari responsabili allorché le loro responsabilità
saranno definite all’esito delle azioni giudiziarie in corso (sono, infatti,
pendenti i giudizi proposti dagli stessi funzionari e dalla società in opposizione
agli atti di contestazione notificati dall’amministrazione doganale, come
relazionato nella citata nota dell’Agenzia 27 agosto 2008).
È evidente la diligenza dell’amministrazione doganale italiana nell’adozione
di tutti le iniziative necessarie per pervenire alla riscossione dei dazi
evasi, non appena in possesso degli elementi utili acquisiti in seguito alle
indagini esperite e senza che siano maturati termini di prescrizione o decadenza
(anche ai sensi e per l’effetto dell’art. 221, par. 4, Reg. 2913/92).
Si consideri, inoltre, che sulla base di quanto disposto dall’art. 8 della
Decisione 94/728/CEE-Euratom (riprodotto integralmente nella Decisione
2000/597/CE/Euratom) ed in particolare dal suo paragrafo 1 si prevede una
sorta di “controllo permanente” da parte della Commissione delle disposizioni
nazionali che, come già detto, prevedono per i depositi doganali e le
attività del tipo di quelle eseguite dalla società Fonderie S.p.A. quel tipo di
controlli che sono stati puntualmente eseguiti dagli uffici doganali italiani;
nessuna indicazione di eseguire controlli diversi è mai stata formulata dalla
Commissione.
Inoltre, nulla è previsto in tema di responsabilità degli Stati, non essendo
stata neppure emanata la normativa di cui al paragrafo 2 del medesimo
articolo. La mancanza di una espressa disposizione in materia rende ancor
più evidente l’inconfigurabilità di una responsabilità stricto sensu oggettiva
del tipo di quella ipotizzata dalla Commissione nel suo ricorso; non va, inoltre,
trascurato che l’Amministrazione si è attivata, come già detto, con i
mezzi concessi dalle disposizioni processuali italiane per perseguire nelle
opportune sedi i funzionari responsabili (si veda, fra l’altro, la sentenza del
Tribunale di Milano n. 3473/99).
Ulteriori aspetti di rilievo vanno ancora evidenziati. Innanzitutto, quale
conferma a contrario di quanto qui sostenuto, si ritiene utile richiamare la
sentenza in data 15 novembre 2005 nella causa C-392/02 – Commissione c.
Danimarca – , ove solo apparentemente sembra sostenersi la tesi addotta
dalla Commissione in sede di ricorso ma la responsabilità dello Stato è basata
sugli errori amministrativi addebitabili ai suoi apparati amministrativi; la
Corte ribadisce, infatti, che la responsabilità dello Stato membro per l’omesso
o ritardato accertamento e versamento delle risorse proprie della Comunità
si fonda sulla imputabilità agli apparati amministrativi dello Stato dell’omissione
o del ritardo: “66. Peraltro, a termini dell’art. 17, nn. 1 e 2, del regolamento
n. 1552/89, gli Stati membri sono tenuti a prendere tutte le misure
necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati in conformità
dell’art. 2 del regolamento medesimo siano messi a disposizione della
Commissione. Gli Stati membri sono dispensati da tale obbligo soltanto se la
riscossione non abbia potuto essere effettuata per ragioni di forza maggiore
ovvero quando risulti definitivamente impossibile procedere alla riscossione
per motivi che non possono essere loro imputati” .
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 171
02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 171
È evidente e chiarissima la differenza di situazione, sulla scorta dei fatti
come sopra riportati; nel caso di specie, infatti, si è di fronte non ad un errore
amministrativo, bensì ad un comportamento doloso e fraudolento dei funzionari
dipendenti in concorso con i responsabili della società coinvolta,
comportamento che non può non recidere il nesso causale che sussiste tra
condotta ed evento e tra evento e responsabilità.
Come si legge nell’art. 17 Reg. 1150/2000 citato, “… gli Stati membri
sono dispensati dall’obbligo di mettere a disposizione della commissione gli
importi corrispondenti ai diritti accertati soltanto se la riscossione non possa
essere effettuata per ragioni di forza maggiore. Inoltre, in casi particolari, gli
stati membri sono dispensati dal mettere a disposizione tali importi a disposizione
della Commissione, quando, dopo attento esame di tutti i dati pertinenti
del caso, risulta definitivamente impossibile procedere alla riscossione
per motivi che non potrebbero essere loro imputabili”; il discrimen tra l’essere
ritenuti responsabili ed il non esserlo è quindi l’elemento della forza
maggiore.
Come è noto, l’esimente della forza maggiore postula una vis maior cui
resisti non potest, cioè un evento che derivi dalla natura o dall’uomo e che
non può essere impedito; la forza maggiore sussiste quando il soggetto ha
fatto quanto (normalmente) in suo potere e per cause indipendenti dalla sua
volontà (condotta dolosa e fraudolenta) non ha potuto impedire l’evento o la
condotta antigiuridica; la condotta illecita dei funzionari costituisce, in effetti,
un quid alieni rispetto a quella dell’Amministrazione ed al dovere di vigilanza
e controllo a cui la stessa è tenuta; la macchinazione fraudolenta posta
in essere dai funzionari e dai terzi ha impedito la verificazione della legittimità
del rilascio delle autorizzazioni che hanno causato l’evasione.
A questo si aggiunga che, per quanto concerne il rilascio delle autorizzazioni
alla trasformazione sotto controllo doganale, l’attuale normativa in
materia, cioè l’art. 552 del Reg.to CEE 2454/93, indica le ipotesi per le quali
è previsto il preventivo esame delle condizioni economiche e i casi in cui le
condizioni economiche si considerano soddisfatte; in particolar modo, per i
casi elencati nella parte Adell’allegato 76 al citato Regolamento, le condizioni
economiche si considerano senz’altro soddisfatte e l’art. 552, par. 1, prevede
che deve essere effettuato l’esame delle condizioni economiche per le
ipotesi non indicate nella parte A dell’allegato 76 sopra citato (cioè merci di
qualsiasi specie non sottoposte a misure di politica agricola o commerciale,
a dazi antidumping o a dazi di compensazione provvisori o definitivi destinati
a qualsiasi trasformazione il cui vantaggio in termini di dazio derivato
dal ricorso al regime supera l’ammontare di € 50.000,00 per richiedente e per
anno civile); vengono fatte oggetto, inoltre, di esame delle condizioni economiche
tutte le istanze riguardanti merci sottoposte a misura di politica commerciale,
a prescindere dal dazio risparmiato; in particolare, le autorizzazioni
ricadenti nella parte A dell’allegato 76 vengono rilasciate dagli uffici periferici
competenti sullo stabilimento dove vengono effettuate le trasformazioni;
l’esame delle condizioni economiche viene svolto in modo da verificare
se il rilascio dell’autorizzazione possa contribuire a favorire la creazione o il
mantenimento di attività di trasformazione nella Comunità senza creare pre-
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IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 173
giudizio ai produttori comunitari delle stesse merci, come previsto dall’art.
133 del Reg. CEE 2913/92.
Le autorizzazioni rilasciate dagli uffici dipendenti della Direzione
Regionale di Bari riguardano operazioni consistenti nella riduzione in cascami
e rottami di pani di alluminio e magnesio: la lavorazione rientra fra le ipotesi
contenute nella parte A dell’allegato 76, punto 2, e quindi si tratta di
un’operazione per la quale le condizioni economiche si considerano soddisfatte
e nessun controllo ulteriore è richiesto (e, quindi, non può essere imputata
all’amministrazione italiana alcuna omissione). Le autorizzazioni in questione,
rilasciate dalla dogana di Taranto negli anni 1997, 2001 e 2002 sono
state viziate da una frode consistente nell’aver dichiarato per l’immissione in
libera pratica quale merce derivante dalla trasformazione (riduzione in cascami)
rottami di alluminio e magnesio (dazio uguale a zero); la trasformazione
svolta, invece, corrispondeva alla rottamazione a mezzo taglio dei pani di
alluminio e magnesio e i relativi prodotti ottenuti, in base alla Nomenclatura
Combinata della Comunità Europea per l’alluminio, dovevano essere dichiarati
alluminio greggio e magnesio greggio, con dazio da assolvere.
Le considerazioni svolte e, in dettaglio, la connotazione dolosa e fraudolenta
dei comportamenti alla base del mancato introito comunitario, la diligenza
mostrata dalle autorità italiane nell’adempiere ai controlli ordinari e
richiesi dalla fattispecie, data la tipologia di lavorazione posta in essere e
l’apparente sussistenza di tutti i presupposti di legittimità della stessa, l’esimente
della forza maggiore da identificarsi con una condotta di terzi non
arginabile con i normali controlli previsti dalle disposizioni comunitarie, non
possono che escludere l’imputabilità in capo al Governo italiano di una
responsabilità che altrimenti si configurerebbe come oggettiva e senza alcuna
previsione specifica.
Questi essendo gli elementi decisivi per il giudizio, la Corte di Giustizia
dovrà decidere se, come vuole la Commissione, in assenza di una specifica
previsione normativa a riguardo ed a fronte di comportamenti dolosi e fraudolenti
di funzionari pubblici la cui condotta costituisce causa determinante
del mancato introito comunitario, sia possibile addebitare allo Stato italiano
una responsabilità oggettiva per il pagamento delle risorse comunitarie,
nonostante l’attivazione dei rimedi penalistici e civilistici in capo ai suddetti
soggetti e nonostante la diligenza mostrata in fase di controllo ed in fase di
repressione dei comportamenti illeciti.
Ad avviso del Governo italiano non si può dare a questo quesito una
risposta positiva e, pertanto, si chiede che il ricorso della Commissione sia
rigettato.
Roma, 20 settembre 2008 Avv. Giuseppe Albenzio
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Dossier
Operatività della prescrizione in tema di ricorso
per il ristoro della irragionevole durata del
processo (cd. legge Pinto)
DOCUMENTI: 1.- Corte Suprema di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 giugno
2008 n. 17703. 2.- Corte di Appello di Napoli - Memoria Difensiva per il Ministero
dell’Economia e delle Finanze. 3.- Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto
deciso il 17 luglio 2008. 4.- Corte di Appello di Napoli, sezione seconda civile, decreto 29
luglio 2008. 5.- Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 4 agosto 2008. 6.-
Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto 14 ottobre 2008. 7.- Corte di Appello
di Napoli, sezione quarta civile, decreto 20 ottobre 2008. 8.- Corte di Appello di Napoli,
sezione prima civile, decreto 27 ottobre 2008. 9.- Corte di Appello di Napoli, sezione prima
civile, decreto 31 ottobre 2008. 10.- Corte di Appello di Reggio Calabria, sezione civile,
decreto 7 novembre 2008.
I provvedimenti della Corte di Appello in rassegna danno conto dei più
recenti orientamenti in tema di operatività della prescrizione dei ricorsi ex
legge n. 89/01, a fronte della specifica eccezione sollevata – con particolare
riferimento alla decorrenza della prescrizione in pendenza del giudizio del
quale si lamenta la irragionevole durata – nel rispetto dei termini di costituzione
previsti per lo speciale procedimento (art. 3 comma 5 legge 24 marzo
2001 n. 89).
Tutti i provvedimenti favorevoli – temporalmente successivi alla sentenza
della Corte di Cassazione 27 giugno 2008 n. 17703 in rassegna – in sintonia
con la linea difensiva proposta, pongono l’accento sull’incontrovertibile presupposto
che il diritto alla equa riparazione non è stato introdotto dalla legge n.
89/2001, ma dall’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali (Cass. S.U. n. 28507/05). Da qui viene fatta scaturire
la consequenziale considerazione che la prescrizione inizia a decorrere una
volta che il processo, del quale ci si duole della eccessiva durata, abbia supera-
I L C O N T E N Z I O S O
N A Z I O N A L E
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to la sua durata ragionevole e poiché la situazione dannosa produce nocumento
in continuazione il diritto al ristoro del pregiudizio sorge giorno per giorno.
E del resto nella maggior parte dei provvedimenti si evidenzia: “poiché si tratta
di un diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo irragionevolmente
lungo e sino a quando questo non venga definito (com’è confermato
dall’art. 4 della legge n. 89/2001, che consente all’interessato di presentare
l’istanza di equa riparazione mentre il giudizio è ancora in corso), ci si
trova in una situazione analoga a quella dell’illecito permanente, per il quale la
prescrizione comincia a decorrere per ciascuna frazione del risarcimento (qui
di indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (ex plurimis:
Cass. n. 5831/07)”.
Nella riferita prospettiva non costituisce ostacolo alla maturazione della
prescrizione la previsione dell’art. 4 della legge Pinto secondo cui: “la
domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento
nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di
decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il
medesimo procedimento, è divenuta definitiva”.
Ed infatti la previsione della decadenza entro 6 mesi dalla definitività
della decisione ivi prevista non può essere interpretata come automatica
sospensione del termine di prescrizione, in quanto per pacifica giurisprudenza,
l’istituto della sospensione della prescrizione può solo verificarsi nei casi
tassativamente previsti ex aa. 2941-2942 c.c. (Cass. n. 8677/06) ed è insuscettibile
di interpretazione analogica e/o estensiva (Cass. n. 8533/06). E’
di tutta evidenza che nella legge Pinto manca la previsione dell’operatività di
tale istituto.
Né argomenti in senso contrario – come previsto in un decreto sfavorevole
della Corte di Appello di Napoli del 29 luglio 2008 in esame – possono
trarsi dall’art. 79 della legge n. 392/78 secondo cui il conduttore può ripetere
fino a 6 mesi dalla riconsegna dell’immobile le somme corrisposte in violazione
dei decreti previsti dalla medesima legge, alla luce del quale la giurisprudenza
ritiene inopponibile qualsiasi eccezione di prescrizione per i crediti
maturati nel corso del rapporto locativo (Cass. n. 13681/07). Tale orientamento
infatti per giungere alle cennate conclusioni valorizza nel caso di
specie l’istituto del “favor” per il locatario quale parte debole del rapporto.
Viceversa in tema di legge Pinto non è configurabile alcun “favor” in
quanto l’azione deve essere istituzionalmente proposta nei confronti di soggetti
del tutto estranei al processo di cui si lamenta la irragionevole durata.
Appare pertanto evidente l’impossibilità di configurare una situazione di
“favor” per giustificare l’istituto della sospensione nei casi di specie.
Merita particolare esame l’ordinanza n. 17703/08 con cui la Corte di
Cassazione ha respinto la specifica eccezione sollevata nell’interesse del
Ministero della Giustizia in ordine alla operatività della decorrenza della prescrizione
nei procedimenti ex legge Pinto sulla base dell’assunto che “il diritto
all’indennizzo matura in relazione alla durata non ragionevole del processo
inteso nella sua unitarietà, e pertanto la prescrizione comincia a decorrere
dalla data in cui detto diritto viene fatto valere (nel caso di azione antecedente
alla definizione del procedimento presupposto) ovvero in quella di defini-
176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 176
zione del processo (in cui comunque matura compiutamente il relativo diritto),
non avendo alcuna autonoma rilevanza, se non ai fini del computo dell’indennizzo,
le singole annualità in relazione alle quali viene operata la
liquidazione”.
L’iter argomentativo osservato, peraltro non registrato in alcuno dei
provvedimenti in rassegna, non convince sotto convergenti profili.
Ed infatti la Suprema Corte non qualifica la natura della condotta dello
Stato e poggia la scarna motivazione (senza qualificare la natura dell’illecito),
utilizzando la nozione di unitarietà del processo del quale si lamenta l’ingiusta
durata e da qui fa scaturire l’operatività della prescrizione dalla definizione
del processo, a meno che – prosegue la S.C. – l’interessato non abbia
fatto valere in giudizio il proprio diritto all’indennizzo prima della definitività
del procedimento presupposto.
Sicché con la predetta pronuncia la Corte rimette alla scelta processale
dei singoli la possibilità di far decorrere o meno la prescrizione in costanza
del giudizio irragionevole durata. Appare evidente che ad una tale conclusione,
così distonica rispetto ai principi che regolano l’istituto della prescrizione,
la Corte poteva pervenire solo attraverso una compiuta ed articolata motivazione
che desse conto delle ragioni per le quali in tema di indennizzo ex
legge Pinto ci si possa discostare dai pacifici principi in tema di inderogabilità
della disciplina della prescrizione.
Non può ancora sottacersi come la Corte abbia omesso di indagare la
compatibilità del provvedimento con i propri precedenti, e in specie con la
sentenza con cui – nel presupposto che la legge Pinto abbia solo modalizzato
un diritto preesistente – statuì che “il diritto all’equa riparazione non è
stato introdotto con la legge n. 89/01 ma dalla Convenzione Europea dei
diritti dell’Uomo” (Cass. S.U. n. 28507/05 cit.).
Appare, da ultimo, condivisibile negli esaminati provvedimenti favorevoli
all’Amministrazione l’applicazione della prescrizione decennale, non
versandosi in obbligazione ex delicto, bensì in obbligazione ex lege.
Avv.ti Adolfo Mutarelli e Michele Gerardo(*)
(doc. 1)
Corte Suprema di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 giugno 2008 n.
17703 – Pres. M. Adamo – Rel. C. Piccininni – P.M. G. Schiavon – Ministero della Giustizia
c/ V. (Avv. G. Romanelli)
«(…) Fatto e Diritto
Con decreto del 24 marzo 2006 la Corte di Appello di Brescia condannava il Ministero
della Giustizia al pagamento di € 18.000 in favore di V., con riferimento all’eccesso di dura-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177
(*) Avvocati dello Stato.
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ta di un giudizio per convalida di sfratto iniziato nel 1983, la cui durata ragionevole era stata
apprezzata nella misura di due anni.
Avverso la decisione il Ministero della Giustizia proponeva ricorso per cassazione affidato
a tre motivi, cui resisteva il V., con il quale denunciava violazione di legge (primo e
secondo motivo) e omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione, rispettivamente con
riferimento alla mancata rilevazione della propria carenza di legittimazione passiva, desumibile
dalla riconducibilità del ritardo alle leggi di sospensione e proroga degli sfratti
(primo motivo); alla inapplicabilità della 1egge 2001/89 alle procedure esecutive (secondo
motivo); alla omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione delle pretese “su interessi
precedenti il quinquennio decorrente dalla data di notifica della domanda”, prescrizione che
avrebbe cominciato a decorrere a far tempo dalla data in cui la durata del processo sarebbe
divenuta irragionevole, e quindi nella specie due anni dopo l’inizio della procedura, vale a
dire l’1 gennaio l988.
Successivamente il relatore designato ai sensi degli artt. 377, 380 bis c.p.c. sollecitava
il rigetto del ricorso ritenendo, quanto ai primi due motivi, la legittimazione passiva del
Ministero e, quanto al terzo, la sua inammissibilità per mancanza del quesito.
Il Collegio condivide la conclusione del relatore, in relazione al primo motivo, poiché
trattandosi di processo davanti a giudice ordinario la legittimazione passiva risulta essere del
Ministero della Giustizia, per il secondo, poiché la giurisprudenza di questa corte, formatasi
sulla scorta delle indicazioni della Corte europea, è nel senso dell’applicabilità della 1egge
2001/89 anche alle procedure esecutive, e non sono ravvisabili ragioni per derogarvi; per
quanto concerne infine il terzo, perché il diritto all’indennizzo matura in relazione alla durata
non ragionevole del processo inteso nella sua unitarietà, e pertanto la prescrizione comincia
a decorrere dalla data in cui detto diritto viene fatto valere (nel caso di azione antecedente
alla definizione del procedimento presupposto) ovvero in quella di definizione del processo
(in cui comunque matura compiutamente il relativo diritto), non avendo alcuna autonoma
rilevanza, se non ai fini del computo dell’indennizzo, le singole annualità in relazione alle
quali viene operata la liquidazione.
Conclusivamente il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali del presente giudizio, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il Ministero della Giustizia al pagamento delle spese processuali
del presente giudizio (…).
Roma, 10 aprile 2008 (…)».
(doc. 2)
Corte di Appello di Napoli – Memoria Difensiva per il Ministero dell’Economia e
delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli).
«(…) 1) Dato per noto il contenuto del ricorso introduttivo, si costituisce in giudizio con
il presente atto il Ministero in epigrafe, ut supra, il quale osserva e deduce quanto segue.
2) in via preliminare, la Corte adita dovrà valutare la proponibilità e l’ammissibilità dell’azione
proposta, anche ai sensi dell’art. 54 comma II, del D.L. 25 giugno 2008 nr. 112 convertito
con modificazioni con la legge 6 agosto 2008 nr. 133 secondo cui:
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“la domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al Giudice
Amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui all’art. 2, comma 1,
della legge 24 marzo 2001 n. 89, non è stata presentata un’istanza ai sensi del secondo
comma dell’art. 51 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642”.
Alla luce di quanto detto, si invita la Corte a dichiarare inammissibile il ricorso, ove non
sia soddisfatto il presupposto processuale previsto dalla disposizione da ultimo ricordata.
3) In via gradata, ove proponibile l’azione proposta, quale questione preliminare di
merito si eccepisce la parziale prescrizione delle pretese avanzate dal ricorrente. Ciò per
seguenti ragioni:
A) DIES A QUO DELLA PRESCRIZIONE
Viene lamentata la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo riconosciuto
dall’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata
con la legge 4 agosto 1955 n. 848.
Il dies a quo deve individuarsi dal momento in cui scade il termine della giusta durata
del processo alla base delle odierne pretese, purché i fatti costitutivi si siano svolti in data
successiva al 1° agosto 1973, data di entrata in vigore del predetto art. 6 della Convenzione
a seguito della dichiarazione dello Stato italiano che ha riconosciuto il diritto al ricorso individuale
avanti alla giurisdizione europea.
La cd. legge Pinto (L. 24 marzo 2001 n. 89) ha infatti modalizzato tale diritto, già preesistente.
Ciò in quanto il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale coincide
con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Conv. di immediata rilevanza nel
diritto interno” (Cass. S.U. 23 dicembre 2005 n. 28507); si è in sostanza statuito che “il diritto
alla equa riparazione in caso di irragionevole durata del processo non è stato introdotto
dalla L. 81 /2001, ma dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, immediatamente precettiva
nel nostro ordinamento” (così ancora Cass. S.U. n. 28507/05 citata).
Da qui discende che il diritto all’equa durata del processo – diritto esistente fin dal
momento dell’adesione dell’Italia alla Convenzione nei termini sopra indicati – trovava protezione
non solo nell’ordinamento internazionale (ad esempio con il ricorso alla Corte
Europea ex artt. 34-35 Convenzione), ma anche nell’ordinamento interno con gli strumenti
di tutela all’uopo utilizzabili, giudiziari e/o stragiudiziali (ad esempio con l’intimazione dì
pagamento ex art. 1219 c.c., ecc.).
La ragionevole durata del processo, giusta i principi giurisprudenziali consolidati in
tema, è di 3 anni. (Viceversa la durata in materia pensionistica ritenuta ragionevole viene
commisurata a 2 anni 7 mesi).
La fondatezza della eccepita prescrizione trova conferma nella stessa legge 89/01 nella
parte in cui consente (art. 4) la promozione dell’azione durante il corso del giudizio e, quindi,
durante il maturarsi del diritto giorno per giorno. Del resto sia la giurisprudenza della
Corte Europea che della Cassazione ha configurato la durata irragionevole come fatto continuativo
commisurando l’entità della riparazione all’entità temporale del ritardo con ciò
implicitamente riconoscendo la natura continuativa della lesione del diritto alla ragionevole
durata del processo. Il precipitato di tale pacifico orientamento comporta che la decorrenza
della prescrizione matura con il sorgere del diritto e quindi via via dal giorno in cui è stato
superato il limite temporale ritenuto ragionevole. Ne consegue che deve ritenersi applicabile
alla fattispecie in esame la giurisprudenza consolidata secondo cui la prescrizione nei casi
di specie decorre giorno per giorno dall’inizio della lesione, poiché la situazione dannosa
produce nocumento in continuazione e quindi giorno per giorno sorge il diritto al ristoro del
pregiudizio quotidianamente subito e comincia a decorrere la prescrizione (Cass. n. 5831/07,
Cass. n. 6512/04, Cass. n. 16009/00).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179
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A tale principio appare informato anche il legislatore che all’art. 4 della L. 89/01 ha
concesso al cittadino il diritto di procedere giudiziariamente per la riparazione della violazione
anteriormente al deposito della sentenza. Tale facoltà configura quindi in favore della
parte un diritto che va azionato nel rispetto dei termini di prescrizione, non avendo il legislatore
italiano previsto che la durata del processo costituisca sospensione del termine della
prescrizione né potendo pervenirsi a tale ultima conclusione in via analogica. Ed infatti è
pacificamente riconosciuto che l’istituto della sospensione della prescrizione, costituendo
una ipotesi eccezionale, può verificarsi solo nei casi tassativamente previsti dagli artt. 2941
e 2942 c.c. non estensibili a fatti materiali e ragioni giuridiche non contemplate da dette
norme (Cass. n. 6364/87 e Cass. n. 8677/06), insuscettibili di applicazioni analogiche e di
applicazioni estensive (Cass. n. 8533/06).
Del resto la problematica concernente la disciplina di istituti fondati sul decorso del
tempo appare essere stata vagliata anche in sede comunitaria osservandosi che:
“Il diritto nazionale deve tuttavia rispettare il principio comunitario di equivalenza, il
quale esige che le modalità procedurali di trattamento di situazioni che trovano la loro origine
nell’esercizio di una libertà comunitaria non siano meno favorevoli di quelle aventi ad
oggetto il trattamento di situazioni puramente interne, nonché il principio comunitario di effettività,
che esige che le dette modalità procedurali non rendano in pratica impossibile eccessivamente
difficile l’esercizio dei diritti risultanti dalla situazione di origine comunitaria. Tali
principi si applicano all’insieme delle modalità procedurali di trattamento di situazioni che
trovano la loro origine nell’esercizio di una libertà comunitaria, indipendentemente che le
dette modalità siano di natura amministrativa o giudiziaria, come le norme nazionali in materia
di prescrizione e di ripetizione dell’indebito o quelle che impongono alle situazioni competenti
di prendere in considerazione la buona fede degli interessati o di controllare regolarmente
la loro posizione pensionistica” (Sent. Corte Giustizia CE, Sez. V, 19 giugno 2003 n. 34).
Sotto convergente profilo, si osserva da ultimo che proprio l’azionabilità del diritto nel
corso del giudizio rende costituzionalmente legittimo il breve termine di decadenza sancito
dall’art. 4 L. 89/01 secondo cui: “il diritto può essere azionato” – oltre che in corso di giudizio
– “a pena di decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il
medesimo procedimento, è divenuta definitiva”.
B)TERMINE DI PRESCRIZIONE
Deve ritenersi che il termine di prescrizione è quello quinquennale ex art. 2947 c.c.. Nel
caso di specie ricorre infatti la dedotta responsabilità risarcitoria oggettiva dello Stato per
aver leso il diritto soggettivo assoluto del cittadino ad avere un processo con una durata
ragionevole. Del resto la giurisprudenza della Cassazione dopo aver qualificato il danno da
lesione quale equa riparazione lo parametra alle voci tipiche del danno aquiliano.
Viene in rilievo nel caso di specie una condotta dello Stato (lesiva del diritto della persona
alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole) continuativa – a far
data di inizio della durata del giudizio – e permanente fino alla data della decisione conclusiva
in via definitiva dello stesso.
Alla luce di tali criteri pertanto devono ritenersi prescritte le pretese, maturate di giorno
in giorno per tutto il periodo della “durata ingiusta”, germinate anteriormente al quinquennio
computato a ritroso dalla data di notifica dei ricorso introduttivo della odierna lite,
valevole ex art. 2943 c.c. quale atto interruttivo della prescrizione e, in via subordinata, dal
deposito dello stesso.
Sicché sono prescritte tutte le pretese maturate nel periodo anteriore al quinquennio
rispetto all’atto interruttivo ora descritto.
180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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In via subordinata rispetto a quanto dedotto circa il termine quinquennale di prescrizione,
si eccepisce la prescrizione decennale ex art. 2946 cc..
Si evidenzia che nel senso dell’applicazione della prescrizione decennale si è pronunciato
codesto Gudice con decreto del 4 agosto 2008 (del quale si produce copia).
4) In via gradata, per la pretesa non prescritta, la deducente Amministrazione,
per quanto concerne l’an della pretesa, si riporta ai criteri in proposito elaborati dalla
giurisprudenza interna ed internazionale, ed in particolare dalla Ecc.ma Corte adita, cui si
rimette, con conseguente liquidazione del chiesto indennizzo, da determinarsi, peraltro, nel
quantum, a stregua dei criteri in proposito elaborati dalla ormai costante giurisprudenza della
Corte medesima.
Ritenuto, peraltro, che la concludente Amministrazione – giova rammentarlo – non ha
modo di soddisfare spontaneamente l’avversa pretesa indennitaria, ed è per legge necessitata
ad attendere il provvedimento di liquidazione della Corte d’Appello, e che, nella fattispecie
che ne occupa, non si oppone all’avversa pretesa, ben potrà disporsi l’integrale compensazione
delle spese di lite (recte: nulla per le spese), in considerazione della condotta processuale
non ostativa della medesima Amministrazione.
In proposito è agevole il rinvio alla giurisprudenza pressoché univoca che esclude la
stessa possibilità di ravvisare una soccombenza rilevante ai fini della condanna alle spese ex
art. 91 cit., in tutti i procedimenti di volontaria giurisdizione (ex plurimis, Cass. Civ., I, 15
marzo 2001, n. 3750).
Da tutto quanto precede, conclusivamente, emerge la illegittimità della condanna alle
spese giudiziali, nei procedimenti di volontaria giurisdizione, quale il presente, quanto meno
allorquando l’Amministrazione intimata, costituita o meno che sia, non si sia opposta, come
nella specie, alla pretesa del ricorrente, per la parte tuttora vitale, non prescritta.
Alla stregua di quanto precede, si rassegnano le seguenti conclusioni.
1) Voglia l’adito giudice dichiarare inammissibile il ricorso ove non sia soddisfatto il
presupposto processuale ex art. 54, comma II, D.L n. 112/2008 conv. in L. n. 133/2008;
2) voglia l’adito giudice dichiarare parzialmente prescritte le pretese del ricorrente ex
art. 2947 cc. e, in via gradata ex art. 2946 c.c. (giusto decreto del 4 agosto 2008 di codesta
Corte citato);
3) voglia l’adito giudice decidere di ogni avversa domanda non prescritta secondo giustizia,
provvedendo alla eventuale liquidazione dell’indennizzo ex adverso richiesto a stregua
dei criteri di cui in narrativa, in ogni caso disponendo l’integrale compensazione delle
spese di lite, ovvero disponendosi nulla per le spese.” (…)».
(doc.3)
Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto deciso il 17 luglio 2008 –
Pres. R. Bochicchio – Rel. M.D.Fierro Cristini – I.C. (Avv.ti A. e P. D’Avino) c/ Ministero
dell’Economia e delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli).
Equa riparazione ex legge n. 89/01
« (...) Svolgimento del processo.
La ricorrente in epigrafe premesso di essere ex dipendente dell’Amministrazione
Provinciale di Napoli; 2) di aver sottoscritto con l’Amministrazione Provinciale un atto di
transazione e che, non essendo stati mantenuti da controparte gli impegni assunti, aveva
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181
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depositato in data 19 gennaio 1999 ricorso al T.A.R. Campania iscritto al n. 500/1999; 3) che
la causa è stata fissata per il 17 aprile 2008, tanto essenzialmente premesso, concludeva perché
la Corte: “voglia condannare il Ministero ... al risarcimento dei danni patrimoniali da
liquidare in forma equitativa, nonché dei danni non patrimoniali nella misura equitativa di
euro duemila per ogni anno trascorso dal deposito del ricorso o a quella diversa che la Corte
riterrà. Spese e competenze di giudizio con attribuzione...”.
Il Ministero resistente ha eccepito la parziale prescrizione del diritto, rimettendosi per
il resto alla Corte.
Motivi della decisione
Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero,
atteso che il diritto qui azionato ha la sua fonte nella legge n. 89/2001, per cui solo nell’entrata
in vigore della norma potrebbe individuarsi il dies a quo per il computo dell’eventuale
termine di prescrizione e, attesa la natura di equa riparazione dell’indennizzo richiesto, che
prescinde da un illecito aquiliano, essa è soggetta all’ordinario termine decennale, nella fattispecie
non trascorso.
Osserva la Corte che la domanda è fondata e va accolta per quanto di ragione.
In proposito è qui opportuno premettere, conformemente a quanto ripetutamente affermato
in casi analoghi da questa stessa Corte d’Appello, che la responsabilità dello Stato per
l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile
colpa nella gestione dei procedimento stesso da parte del giudice al quale esso è stato
affidato.
L’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione
e la ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la cui violazione
è oggi sanzionata nell’ambito del diritto interno dalla previsione dell’equa riparazione disciplinata
dalla legge n. 89/01, impegna infatti lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi
poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni,
concorrere all’adempimento di tale obbligo (v. sentenza della Corte Europea dei
diritti dell’uomo 17 luglio 1983), caso Zimmermann e Steiner c/ Svizzera; id. 26 ottobre
1988, Martius Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per
il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in generale per il fatto di non
aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare
con ragionevole velocità la domanda di giustizia (v.: sentenza 12 ottobre 1992,
Boddeart c/ Belgio; id. 25 giugno 1987, Baggetta c/ Italia).
Quanto ora detto, d’altro canto, trova oggi diretto riscontro costituzionali nel testo novellato
dell’art. 111 Cost., il quale dispone che la legge (e cioè l’ordinamento nel suo complesso
considerato e non solo l’istituzione giudiziaria) assicura la ragionevole durata del processo.
In conseguenza di ciò, pertanto, non è necessario andare alla ricerca della negligenza del
giudice che ha seguito il singolo caso portato all’attenzione della Corte o dei suoi collaboratori
interni o esterni all’organizzazione giudiziaria (anche se, ovviamente, nei casi in cui sussista,
dovrà tenersene conto insieme alle altre disfunzioni della macchina giudiziaria), poiché
anche nei casi in cui, per la situazione logistica in cui è costretto a lavorare, da questi non sarebbe
stato possibile esigere di più di quanto ha fatto in termini di velocità di definizione del procedimento,
il fatto stesso che lo stato delle strutture e dell’organizzazione abbia reso inevitabili
rinvii molto lunghi tra un’udienza e l’altra e tempi d’attesa anche di anni tra il completamento
dell’istruttoria e la decisione della causa è già sufficiente ad affermare la responsabilità dello
Stato per la difettosa concezione ed organizzazione del sistema giudiziario.
182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Tutto quanto fin qui premesso, dunque, può affermarsi con certezza che nella fattispecie
sottoposta alla cognizione di questa Corte vi sia stata effettivamente, in danno della ricorrente,
la violazione del diritto costituzionalmente garantito alla ragionevole durata del processo.
Orbene, nel caso di specie appaiono incontestati e provati i fatti di causa sui quali è fondata
la domanda dei ricorrenti e, in particolare, che il giudizio intentato dinanzi al T.A.R. per
la Campania ebbe inizio con il deposito del ricorso, che risale al 19 gennaio 1999, e, alla data
del deposito innanzi a questa Corte (24 aprile 2008) era pendente.
Sulla base di quanto fin qui esposto, dunque, appare evidente come nel caso di specie
sia stato violato il principio di cui alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali che assicura ad ogni persona che la sua causa sia esaminata
entro un termine ragionevole.
Invero l’art. 2 della legge 891/01 prevede che chi abbia subito un danno patrimoniale o
non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione indicata sotto il profilo del
mancato rispetto del termine ragionevole dei processi ha diritto ad un’equa riparazione e che,
inoltre, nell’accertamento della violazione sia considerata la complessità del caso e, in relazione
alla stessa, il comportamento delle parti, del giudice del procedimento e di ogni altra
autorità preposta a contribuire alla sua definizione.
Tenuto conto, da un lato, dei parametri che è possibile ricavare dalla giurisprudenza
della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e, dall’altro, che nel caso in esame la durata ragionevole
del processo può essere fissata, in primo grado, in anni tre a decorrere dal deposito
del ricorso dinanzi all’Autorità Giudiziaria adita, ne discende che il ritardo risulta pertanto
irragionevole, in misura di sei e mesi tre circa (anni 9 e mesi tre circa – anni tre).
Del danno derivante dal ritardo irragionevole risponde la parte resistente, secondo
quanto sancito dagli artt. 2 e 3 legge 89/01.
Circa tale danno si può presumere, secondo dati di comune esperienza, che il ritardo
nella definizione del processo abbia creato nella parte ricorrente uno stato di disagio da attesa
in ragione del significato della vicenda giudiziaria nella sua vita sociale: è infatti noto che
la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determini nell’interessato stanchezza,
sfiducia nella giustizia e, più in generale, nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi,
in definitiva, uno stato d’animo negativo che, in quanto tale, è suscettibile di ristoro in termini
di danno morale.
Tale danno va determinato a norma dell’art. 2056 c.c., secondo i criteri dettati dagli artt.
1223, 1226 e 1227, comma l, c.c..
Tutto ciò premesso, dunque, avuto riguardo a tutti gli elementi di valutazione emergenti
dalle obiettive connotazioni, oggettive e soggettive, proprie del caso di specie, alla stregua
dei rilievi svolti e della documentazione in atti, si stima equo liquidare in via equitativa, per
la considerata riparazione, la somma di € 6.230,00 (pari ad €. 1,000,00 ad anno) ai valori
odierni, comprensiva degli interessi già maturati.
Le spese del procedimento camerale seguono la soccombenza della parte resistente, si
liquidano in dispositivo e vanno distratte in favore dei procuratori anticipatari Avv.
Arcangelo e Paolo D’Avino: considerata la particolare natura della controversia esaminata e
delle questioni trattate – oggetto di un’elaborazione giurisprudenziale complessa e non sempre
univoca – ritiene peraltro la Corte che nel caso di specie sussistano giusti motivi per
dichiarare dette spese compensate fra le parti nella misura della metà.
P.Q.M.
La Corte di appello di Napoli così provvede:
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1) condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare, in favore di I.C. a titolo
di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo di cui in premessa, la somma di €
6.230,00 oltre gli interessi al tasso legale dalla pubblicazione del presente decreto al saldo;
2) condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze alla rifusione della metà delle
spese processuali sostenute dalla suddetta ricorrente nel corso del presente procedimento (…)
Così deciso in Napoli, oggi, 17 luglio 2008, nella Camera di Consiglio della III Sez.
Civ. della Corte di Appello di Napoli (…)».
(doc.4)
Corte di Appello di Napoli, sezione seconda civile, decreto del 29 luglio 2008 – Pres.
D. Balletta – Rel. U. Di Mauro – R.E. c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze
(Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli).
«La Corte di appello (…) letto il ricorso depositato in data 18 dicembre 2007, con il
quale R.E. (…) ha presentato istanza di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo
innanzi al T.A.R. Campania di Napoli – avente ad oggetto trattenuta del 15% sull’indennità
di tempo pieno – introdotto con ricorso depositato il 7 maggio 1995 NRG 3358/1995 e non
ancora deciso;
letta la memoria difensiva dell’Avvocatura erariale per il Ministero della Economia e delle
Finanze, in persona del Ministro pro tempore, con la quale si eccepisce la intervenuta prescrizione
ed in subordine si chiede la liquidazione dell’indennizzo rimettendosi ai criteri elaborati
dalla giurisprudenza della Corte adita con integrale compensazione delle spese di lite;
letti gli atti e sentito il relatore, sciogliendo la riserva di cui al verbale della Camera di
Consiglio del 9 luglio 2008, ha emesso il seguente decreto.
Preliminarmente va rigettata la eccezione di prescrizione, in quanto nella specie il ricorso
è stato proposto il 18 dicembre 2007 e perciò entro il termine di decadenza previsto dall’art. 4
Legge 24 marzo 2001 n. 89 il quale dispone che “La domanda di riparazione può essere proposta
durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata,
ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il
medesimo procedimento, è divenuta definitiva. Sul punto va richiamato il costante orientamento
giurisprudenziale relativo all’art. 79 L. 392/78 (che va ritenuto applicabile anche all’art. 13
comma quinto della Legge 9 dicembre 1998 n. 431) che contempla al secondo comma analoga
ipotesi di decadenza disponendo che il conduttore può ripetere fino a sei mesi dopo la riconsegna
dell’immobile, le somme corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla
Legge 392/78. Ebbene in siffatta ipotesi la Suprema Corte ha costantemente chiarito che “Il termine
semestrale di decadenza per l’esercizio dell’azione di ripetizione delle somme sotto qualsiasi
forma corrisposte dal conduttore in violazione dei limiti e dei divieti previsti dalla stessa
legge, previsto dall’art. 79, secondo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, fa sì che, se
l’azione viene esperita oltre il detto termine, il conduttore è esposto al rischio dell’eccezione di
prescrizione dei crediti per i quali essa è già maturata, mentre il rispetto del termine di sei mesi
gli consente il recupero di tutto quanto indebitamente è stato corrisposto fino al momento del
rilascio del l’immobile locato, il che si traduce nella inopponibilità di qualsivoglia eccezione
di prescrizione (Cass. 11 giugno 2007 n. 13631; Cass. 26 maggio 2004 n. 10128).
Tanto premesso si rileva che il processo di primo grado innanzi al T.A.R. Campania,
introdotto con ricorso depositato il 7 maggio 1996 non è stato ancora deciso. Esso, quindi,
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fino alla data del deposito del ricorso ex L. 89/2001 del 18 dicembre 2007 ha avuto la durata
di anni 11 e mesi 7 circa.
Valuta la Corte che non può accedersi alla richiesta del ricorrente di vedersi riconosciuta
un’equa riparazione per l’intera durata del procedimento. Come stato puntualizzato dalla
Suprema Corte, infatti, in tema di diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine
di durata ragionevole del processo, ai sensi della legge n. 89/2001, rileva solo il periodo
eccedente il suddetto termine, essendo sul punto vincolante il criterio chiaramente stabilito
dall’art. 2 comma terzo di detta legge. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto
del periodo di durata “ordinario” e “ragionevole”, valorizzato, invece, dalla Corte di
Strasburgo, non esclude la complessiva attitudine della legge n. 89 a garantire un serio ristoro
per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte Europea nella
sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97 (Cass. 26 aprile 2005 n. 8603).
Ciò posto nello specifico avuto riguardo alla natura delle questioni trattate, il processo
di primo grado poteva essere definito in un tempo ragionevole di due anni, sicché, come
sopra evidenziato, rileva solo il danno riferibile al periodo di anni 9 e mesi 7 circa eccedente
il predetto termine ragionevole.
In relazione all’arco di tempo così individuato va riconosciuto il diritto del ricorrente,
ai sensi dell’art. 2 segg. della L. 89/2001, a conseguire un’equa riparazione dallo Stato,
responsabile di non avere organizzato il sistema giudiziario in maniera tale da consentire di
soddisfare con ragionevole tempestività le domande di giustizia.
In favore dell’istante può liquidarsi il danno non patrimoniale, anche in mancanza di
prova della sua effettiva sussistenza.
Come è stato precisato dalla Suprema Corte, invero, tale danno, pur non potendosi identificare
nella violazione stessa (cosiddetto danno-evento), si verifica normalmente, cioè di
regola, per effetto della stessa violazione, essendo normale che l’anomala lunghezza della
pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia,
una sofferenza morale, che non occorre provare sia pure attraverso elementi presuntivi.
Si tratta, quindi, di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l’id
quod prelumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al caso singolo;
anche se va fatta salva la ricorrenza di situazioni concrete in cui tali normali conseguenze
vanno escluse, perché il protrarsi del processo risponde a un interesse della parte o è
comunque destinato a produrre conseguenze che la parte riconosce a sé favorevoli (Cass.
S.U. 26 gennaio 2004 n. 1338 e n. 1339).
Quanto alla misura di tale danno, nella liquidazione equitativa, ai sensi degli artt. 2056
e 1226 c.c., i più recenti criteri di liquidazione adottati dalla Corte europea costituiscono dati
di riferimento, i quali sono ovviamente passibili di variazione, potendo in specie “L’entità
degli interessi in gioco” determinare “una riduzione significativa dell’indennizzo”, salvo il
rispetto dei limiti di ragionevolezza, la cui lesione si risolverebbe in violazione di legge
(Cass. S.U. 26 gennaio 2004 n. 1340).
Nel caso di specie, tenuto conto della natura del diritto fatto valere in giudizio, nonché
della posta in gioco e della presentazione dell’istanza di prelievo di riconoscere, in favore
del ricorrente, la somma di € 9,500,00 calcolata in base ad importo annuo di € 1.000,00 (v.
sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 10 novembre 2004, causa Riccardi
Pizzati contro Italia), oltre interessi dal deposito del ricorso del 18 dicembre 2007.
Ricorrono giusti motivi, anche in considerazione dell’accoglimento parziale del ricorso,
per compensare per la metà le spese del procedimento, che per il resto si liquidano come
in dispositivo, con attribuzione ai procuratori antistatari.
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P.Q.M.
Letti gli artt. 2 e segg. della Legge 24 marzo 2001 n. 89, condanna il Ministero
dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, a pagare al ricorrente
la somma di € 9.500,00, oltre interessi legali dal 18 dicembre 2001, pari alla metà delle spese
del procedimento (…)
Napoli, 16 luglio 2008».
(doc.5)
Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto del 4 agosto 2008 – Pres.
L. Martone – Rel. M. Cristiano – P.G. (Avv. R. Buonfantino) c/ Ministero dell’Economia e
delle Finanze (Avv. dello Stato M. Gerardo, Napoli, ct 12512/08).
Equa riparazione ex legge n. 89/2009.
«P.G., con ricorso in riassunzione depositato il 14 marzo 2008, ha lamentato l’eccessiva
durata del procedimento da lui promosso dinanzi al T.A.R. della Campania al fine di ottenere
l’annullamento della delibera della G.M. di Ischia che apponeva un termine finale alla
proroga del suo mantenimento in servizio quale vigile urbano.
Ha dedotto che il giudizio, introdotto con ricorso del 18 marzo 1988, è tuttora pendente
ed ha chiesto, pertanto, la liquidazione della somma di € 33.500 a titolo di risarcimento
dei danni morali subiti per la violazione del principio di ragionevole durata dei procedimenti
giudiziari fissato dall’art. 6, § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito ed ha eccepito in via preliminare
la parziale prescrizione dell’azione; in subordine, nel merito, non ha contestato l’an
della pretesa ma ha chiesto la compensazione delle spese del procedimento.
Tanto premesso, questa Corte osserva:
Il ricorso, proposto prima ancora dell’emissione della sentenza di primo grado, è certamente
proponibile ai sensi dell’art. 4 L. n. 89/01.
L’eccezione di prescrizione svolta in via preliminare dal Ministero è parzialmente fondata.
Come è noto, l’obbligo indennitario dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento
giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione del procedimento
stesso da parte del giudice al quale esso è stato affidato, infatti, l’obbligo assunto a
livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della
Convenzione impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le
sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere
all’adempimento di tale obbligo (v.: sentenza CEDU 26 ottobre 1988, Martini Moreira c/
Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente
degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare
il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole
velocità la domanda di giustizia (v.: sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart c/Belgio).
Pertanto se l’eccessivo carico di lavoro, che notoriamente affligge la maggior parte degli
uffici giudiziari italiani, può giustificare sul piano soggettivo il comportamento del singolo
organo giudiziario, ciò non è rilevante ai fini della valutazione richiesta dalla L. n. 89/01, che
fonda un’obbligazione ex lege e non ex delicto, che sorge per il fatto oggettivo dell’eccessiva
durata del processo e non già per il comportamento doloso o colposo degli organi giudiziari.
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Ne consegue che il termine di prescrizione dell’azione è quello ordinario decennale.
Peraltro, come la S.C. ha avuto modo di porre in evidenza, il diritto del cittadino ad un
processo di ragionevole durata non è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla L. n. 89/01,
ma dalla legge n. 848/55 di ratifica della Convenzione CEDU, che ha immediata rilevanza
interna al diritto posto dalla convenzione, la L. n. 89/01 si è limitata ad istituire uno strumento
interno di riparazione per la lesione di tale diritto, che in precedenza era tutelato dinanzi alla
Corte di Strasburgo. Da ciò discende che il diritto in questione poteva essere fatto valere già
prima del 2001 e nel momento stesso in cui, avendo la durata del procedimento oltrepassato il
limite della ragionevolezza, la posizione soggettiva dell’interessato è stata lesa.
Poiché si tratta di un diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo
irragionevolmente lungo e sino a quando questo non venga definito (come è confermato dall’art.
4 della legge che consente all’interessato di presentare istanza di equa riparazione
quando il giudizio è ancora in corso) ci si trova in una situazione analoga a quella dell’illecito
permanente, per il quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna frazione del
risarcimento (qui dell’indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato
(Cass. n. 5831/07).
Ora, anche in base ai parametri che possono ricavarsi dalla giurisprudenza della CEDU,
questa Corte ritiene che per giudizi di ordinaria complessità e non coinvolgenti questioni di
rilievo tale da imporre uno straordinario sforzo di efficienza da parte dell’apparato giudiziaria,
una durata triennale per un grado di giudizio sia da considerare ragionevole, posto che
ogni sistema giudiziario reale deve fare i conti con la contemporanea pendenza di numerosi
procedimenti e, quindi, per quanto ben organizzato, non può non diluire il proprio impegno
su tutta la massa delle questioni da istruire, studiare e decidere. In sostanza, è fisiologico e
socialmente accettato che i processi abbiano una certa durata, misurabile in anni.
Nel caso in esame, avente ad oggetto la richiesta di annullamento di una delibera, il
limite triennale appare del tutto adeguato.
Ne consegue che il diritto all’indennizzo del P.G., iniziato a maturare dal 18 marzo
1991, risulta prescritto sino al 10 dicembre 1997 (data anteriore di dieci anni al deposito del
primo ricorso, poi riassunto).
Va ancora osservato che, per quanto la CEDU, una volta superato il limite della ragionevolezza,
consideri ai fini della liquidazione dell’indennizzo l’intera durata del procedimento,
tanto non è consentito al giudice italiano, posto che l’art. 2, c. 3°, lett. a), della legge
n. 89/2001, espressamente sancisce che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo riconosciuto
dal nostro diritto interno per l’eccessiva durata dei processi, “rileva solamente il
danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole”. Pertanto, finché il legislatore
non riterrà di modificare tale dettato normativo (che non contrasta né con le norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.) né con i principi fondamentali
dell’ordinamento comunitario (art. 11 Cost.) né, infine, con la Convenzione, ma solo con un
orientamento ermeneutico della Corte di Strasburgo, che non può prevalere su di una espressa
disposizione di legge, i giudici italiani non potranno che attenervisi.
In definitiva, può riconoscersi al P.G. solo l’indennizzo per il periodo 11 dicembre
1997/4 luglio 2008 (10 anni e 7 mesi).
Il P.G. ha chiesto solo l’indennizzo per il danno morale che, secondo i parametri di valutazione
della CEDU, cui il giudice nazionale è tenuto ad adeguarsi, costituisce conseguenza
ordinaria del prolungarsi del giudizio oltre i termini di ragionevole durata, sicché può essere
escluso solo in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino che la durata del procedimento
corrisponde all’interesse del ricorrente (Cass., ss.uu., 26 gennaio 2004 n. 1338).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187
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Nel liquidare in via equitativa il danno in esame occorre attenersi, in linea di massima,
al metro di valutazione adottato dalla CEDU in casi analoghi, dal quale ci si può discostare
solo in misura ragionevole (Cass., ss.uu., 26 gennaio 2004 n. 1340).
Tenuto conto che il P.G. ha proposto il ricorso in via collettiva e che non ha mai presentato
istanza di prelievo e considerato, inoltre, che non ha chiarito sotto quale profilo permanga
il suo interesse alla definizione del procedimento, nonostante l’avvenuta scadenza del termine
previsto dall’atto impugnato, appare giustificato discostarsi in parte dagli usuali parametri
di liquidazione della CEDU e riconoscere al ricorrente la somma di € 8.466 al valore
attuale della moneta, in ragione di € 800 per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Su
tale somma decorrono gli interessi al tasso legale dalla domanda al saldo (Cass. 27 gennaio
2004 n. 1405; id. 3 aprile 2003 n. 5110).
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, nei minimi
tariffari attesa la natura della controversia e la ripetitività delle questioni trattate, rapportato il
valore della lite all’importo liquidato, in favore degli avvocati antistatari, in via fra loro solidale.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Napoli dichiara estinto per prescrizione sino all’11 dicembre
1997 il diritto all’equa riparazione di P.G. e condanna il Ministero dell’Economia e delle
Finanze a pagare al ricorrente per tale titolo la somma di € 8.466 oltre agli interessi legali
dal 14 marzo 2008 al saldo (…).
Napoli, 4 luglio 2008».
(doc.6)
Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto 14 ottobre 2008 – Pres. M.
Lepre – Rel. M.Piantadosi – M.P. (Avv. G. Vitale) c/ Ministero della Giustizia (Avv.
Distrettuale dello Stato di Napoli).
«Ritenuto in fatto.
Con ricorso del 9 gennaio 2008 M.P. ha proposto domanda di equa riparazione ai sensi
della legge 24 marzo 2001, n. 89 in relazione alla non ragionevole durata della causa civile
instaurata con ricorso depositato il 12 luglio 1991 nei confronti di M.F. ed ancora pendente
dinanzi al Tribunale di Vallo della Lucania.
Ha, pertanto, richiesto, in rapporto alla denunciata violazione dell’art. 6, paragrafo 1,
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la condanna del Ministero della Giustizia
al risarcimento del danno non patrimoniale nella misura di € 13.500,00 oltre ai danni patrimoniali
da liquidarsi in via equitativa ed al rimborso delle spese del giudizio.
Il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti in camera
di consiglio sono stati ritualmente notificati al menzionato Ministero, che si è costituito ed
ha svolto le seguenti conclusioni:
– dichiarare parzialmente prescritte le pretese del ricorrente ai sensi dell’art. 2947 c.c.
ed, in via gradata, ai sensi dell’art. 2946 c.c.; – decidere di ogni avversa domanda non prescritta
secondo giustizia, provvedendo all’eventuale liquidazione dell’indennizzo richiesto
alla stregua dei criteri elaborati dalla giurisprudenza interna ed internazionale, in ogni caso
disponendo l’integrale compensazione delle spese di lite, ovvero nulla per le spese.
Sciogliendo la riserva formulata in esito alla predetta udienza camerale, la Corte osserva
quanto segue.
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Considerato in fatto ed in diritto.
Il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è conseguenza normale,
ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata
del processo, nei termini indicati dalla disposizione dell’art. 6 della considerata Convenzione
europea, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto
solitamente provoca alle persone coinvolte in un giudizio. Quindi, pur dovendo escludersi
la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente
e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – una volta accertata e determinata
l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere
tale danno esistente, sempre che l’altra parte non dimostri che sussistono, nel caso concreto,
circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia
stato sofferto dal ricorrente. Nel caso di specie tale prova non è stata offerta.
Facendosi, quindi, concreta applicazione degli enunciati principi, va, in primo luogo,
rilevato che – come emerge dalla documentazione acquisita – il processo presupposto si è
protratto dal 12 luglio 1991 al 13 marzo 2008 (data di cancellazione dal ruolo). La durata
complessiva è stata, dunque, pari ad anni 16 e mesi otto circa.
In base ai comuni criteri applicati in materia (cfr., per tutte, Cass. 31 marzo 2006, n. 7688)
e tenuto, altresì, conto della natura del procedimento in oggetto (violazione delle distanze legali
fra costruzioni), quale emerge dalle pacifiche acquisizioni probatorie di natura documentale,
la ragionevole durata del procedimento può fissarsi in anni tre, ovvero sino al 12 luglio 1994.
Inoltre sino al 9 gennaio 1998 la pretesa è prescritta, a mente dell’art. 2946 c.c., com’è
stato eccepito dall’Amministrazione resistente.
In proposito va rilevato che il diritto ad un processo di ragionevole durata non è stato
introdotto nell’ordinamento vigente dalla legge n. 89 del 2001, ma dalla legge di ratifica
della convenzione CEDU (legge 4 agosto 1955, n. 848), che ha dato immediata rilevanza al
diritto posto dalla Convenzione: la legge n. 89 del 2001 si é, infatti, limitata ad istituire uno
strumento interno di riparazione per la lesione del diritto stesso, che in precedenza era tutelato
solo dal ricorso alla Corte di Strasburgo (Cass. sez. un. 23 dicembre 2005, n. 28507).
Consegue che il ripetuto diritto poteva essere fatto valere già prima del 2001 e nel
momento in cui, avendo la durata del procedimento oltrepassato il limite della durata ragionevole,
la posizione soggettiva dell’interessato risultava lesa.
Trattandosi di un diritto che matura giorno per giorno mentre il processo si protrae irragionevolmente
e sino a quando non venga definito (come conferma l’art. 4 della citata legge
n. 89, che consente di proporre la domanda di equa riparazione mentre il giudizio presupposto
è ancora in corso), ricorre una situazione analoga a quella dell’illecito permanente, per il
quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna frazione del risarcimento (nel caso
che ne occupa di indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (cfr., per
tutte, Cass. n. 5831 del 2007).
Il termine di prescrizione è quello ordinario decennale, versandosi in caso non già di
un’obbligazione ex delicto, soggetta all’applicazione dell’art. 2947 c.c., bensì di un’obbligazione
ex lege, che sorge per il fatto oggettivo dell’eccessiva durata del processo, ovvero indipendentemente
dal comportamento doloso o colposo degli organi giudiziari.
Il danno non patrimoniale deve, pertanto, essere riferito al periodo dal 9 gennaio 1998
al 13 marzo 2008, ovvero ad anni dieci e mesi due (circa). Da tale durata vanno, tuttavia,
detratti anni quattro, in quanto, come emerge dall’esame dei verbali di causa e come riconosce
lo stesso ricorrente, nel lasso di tempo considerato (novembre 2002 – 5 maggio 2003, 5
maggio 2003 – 17 novembre 2003, 21 marzo 2005 – 24 ottobre 2005, e così di seguito sino
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189
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alla cancellazione dal ruolo) il processo si è protratto unicamente ad espressa, concorde
richiesta delle parti e nel loro esclusivo interesse, e ciò sostanzialmente al fine di conseguire
la transazione della lite.
In definitiva, il danno di che trattasi deve essere ragguagliato ad anni sei e mesi due.
Correlati, quindi, i correnti parametri di liquidazione alle concrete connotazioni della
vicenda esaminata, stimasi equo liquidare per il considerato pregiudizio l’importo di euro
seimilacentosettanta, e ciò con liquidazione complessiva ed unitaria riferita al momento
della decisione. Quanto al danno patrimoniale, va rilevato che esso è stato prospettato con
riferimento “alla mancata possibilità di utilizzare in futuro completamente la proprietà e/o
mancato sfruttamento di beni di sua proprietà, deprezzamento dei beni stessi”. È manifesta
la carenza di qualsiasi connessione causale tra tali ragioni e lo svolgimento del processo presupposto.
In ogni caso, nessuna prova è stata offerta sul punto, né è stato allegato il benché
minimo elemento utile per l’invocata liquidazione equitativa.
Avuto riguardo all’esito del procedimento ed alle ulteriori connotazioni, oggettive e
soggettive, proprie del caso di specie, quali emergono dai rilievi svolti, ricorrono giusti motivi
per dichiarare compensate tra le parti le spese del presente procedimento in ragione di due
terzi; l’ulteriore terzo segue, nella misura liquidata in dispositivo, la soccombenza
dell’Amministrazione, con distrazione in favore del difensore del ricorrente, giusta il disposto
dell’art. 93 del codice di rito.
Va, peraltro, ribadito che in terna di spese processuali e con riferimento al processo
camerale per l’equa riparazione del diritto alla ragionevole durata del processo, non ricorre
un generale esonero dall’onere delle spese a carico del soccombente, in quanto, in virtù del
richiamo operato dall’ari. 3, comma quarto, della legge 24 marzo 2001, n. 89, si applicano
le norme del codice di rito (cfr., per tutte Cass. 22 dicembre 2004).
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sulla domanda proposta, con ricorso del 9 gennaio 2008, da
M.P. nei confronti del Ministero della Giustizia, in persona del ministro, ai sensi della legge
24 marzo 2001, n. 89, così provvede:
1) Dichiara – nei sensi specificati in motivazione – la violazione dell’art. 6, paragrafo
1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e,
per l’effetto, il diritto del predetto M.P. ad un’equa riparazione limitatamente al danno non
patrimoniale;
2) Condanna il Ministero della Giustizia, in persona del ministro, al pagamento, in favore
del medesimo M.P., della somma di euro seimilacentosettanta, oltre al rimborso di un terzo
delle spese di lite, (...) dichiara compensati tra le parti i residui due terzi delle spese stesse.
Così deciso in Napoli il 3 ottobre 2008 nella camera di consiglio della terza sezione
civile della Corte di appello».
(doc.7)
Corte di Appello di Napoli, sezione quarta civile, decreto 20 ottobre 2008 – Pres.
S.Ferro – Rel. C. Molfino – D.P. (Avv.ti L. Borca e M. C. Pinto) c/ Ministero della Giustizia
(Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli).
Equa Riparazione ex lege 89/2001
«(…) rilevato che, con ricorso depositato l’8 ottobre 2007, il ricorrente ha richiesto il
riconoscimento dell’equa riparazione, a norma dell’art. 2, comma 1 della legge n. 89/01, del
190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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danno da durata irragionevole del processo, deducendo di aver denunziato al Procuratore
della Repubblica di Nocera Inferiore in data 23 marzo 1996 i Sigg.ri D.V.F. e D.V.G. per i
reati di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 368 c.p.;
di essersi costituito parte civile nel procedimento n. 590/96 N.R. e di aver atteso che gli
stessi, autori di denunzie in suo danno, archiviate dopo due anni di indagini con sofferto
periodo di custodia cautelare, fossero giudicati;
di aver assistito all’estinzione del giudizio per intervenuta prescrizione pronunziata in
data 13 luglio 2007, con sentenza passata in cosa giudicata in data 13 aprile 2007;
che il ricorrente riteneva, pertanto, violato ampiamente il termine ragionevole di durata
del processo penale e deduceva di aver subito danni patrimoniali e morali, che quantificava
in € 250.000,00, di cui chiedeva la riparazione;
che si costituiva il Ministero resistente, eccependo la parziale prescrizione delle pretese
invocando, in subordine, la compensazione delle spese della procedura;
ritenuto che il ricorso è ammissibile ex all’art. 4 L. n. 89/2001, poiché proposto nel
semestre successivo alla definitività della decisione, da intendersi in conformità del significato
a tale termine attribuito dalla legislazione statuale;
che è infondata l’eccezione di prescrizione, atteso che la legge in applicazione prevede
che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del giudizio presupposto
oppure all’esito della sua definizione, con ciò assicurando al soggetto leso la tutela permanente
della posizione soggettiva di danneggiato;
che, come ritiene consolidato indirizzo giurisprudenziale, il diritto all’equa riparazione
per le conseguenze della irragionevole durata del processo è pienamente configurabile per i
giudizi dinanzi al giudice penale, qualsiasi sia il loro oggetto, in armonia con il contenuto
dell’art. 6, p. 1 della CEDU, che comprende ogni posizione soggettiva valutata in Italia dai
giudici (Cass. n. 6519/03);
osservato che la responsabilità dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento
giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione del procedimento
da parte del giudice al quale esso è affidato: infatti l’obbligo assunto a livello internazionale
dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo, la cui violazione è oggi sanzionata nell’ambito del diritto
interno dalla previsione dell’equa riparazione di cui alla citata legge n. 89/01, impegna lo
Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali,
sicché tutti devono, nei limiti delle attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo
(cfr. sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo 13 luglio 1983, caso Zimmermann e
Steiner c/Svizzera), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento
negligente degli organi giudiziari, ma più in generale per il fatto di non avere provveduto
ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole
velocità la domanda di giustizia;
ritenuto che il principio suddetto trova diretto riscontro costituzionale nel testo novellato
dall’art. 111 Cost., il quale dispone che la legge assicura la ragionevole durata del processo;
che, in ordine ai giudizi penali, deve essere valutato il periodo decorrente dal momento nel
quale il soggetto riceve conoscenza legale delle indagini penali a suo carico o da lui attivate, cui
far risalire la necessità della predisposizione di una difesa tecnica e l’inizio della concreta e
motivata sofferenza morale soggettiva, che la norma in applicazione va ad indennizzare;
che nel caso in esame il ricorrente ha documentato il dies a quo, che coincide con la
proposizione della denunzia al Procuratore della Repubblica di Nocera, 23 settembre 1996,
e il dies ad quem, coincidente con la sentenza di (ndp) per intervenuta prescrizione del reato,
13 febbraio 2007;
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che il giudizio presupposto è durato, pertanto, dieci anni e undici mesi;
che da tale periodo vanno detratti tre anni, corrispondenti al periodo di durata ragionevole
del giudizio penale presupposto, valutati i reati contestati;
che la domanda va, pertanto, accolta per il periodo eccedente la durata ragionevole,
sette anni e due mesi, ed in relazione al solo danno non patrimoniale, che deve ritenersi sussistente,
poiché non vi è dubbio che la lunga attesa della definizione del giudizio abbia determinato
nell’interessato stanchezza e sfiducia nelle istituzioni ed, in definitiva, uno stato
d’animo negativo, che è suscettibile di ristoro equitativo in termini di danno morale;
che, conformemente alle usuali liquidazioni di questa Corte ed ai parametri della Corte
Europea, tenuto conto anche della complessità del caso e del comportamento della parte, va
liquidata la somma di € 1.100,00 all’anno e, quindi, € 8.008,00 (euro ottomila e otto/00),
oltre spese della procedura che si liquidano d’ufficio in dispositivo;
che, viceversa, non può accogliersi la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali
come conseguenza della durata irragionevole del processo presupposto, posto che l’esistenza
e l’entità dei relativi pregiudizi non può desumersi presuntivamente una necessità di prova
rigorosa sull’an e sul quantum, non offerta in giudizio;
che il ristoro dei restanti danni connessi alla costituzione di parte civile dovrà avvenire
nella sede propria, in danno dei legittimati passivi.
P.Q.M.
condanna il Ministero della Giustizia in persona del Ministro in carica al pagamento in
favore di D.P. della somma di € 8.008,00 con interessi legali della domanda al saldo a titolo
di equa riparazione, oltre spese della procedura (…).
Napoli, 16 luglio 2008 (…)».
(doc.8)
Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 27 ottobre 2008 – Pres. L.
Martone – Rel. G. de Donato – D.S.M. (Avv.ti M. Ferrara e M. Albachiara) c/ Ministero
dell’Economia e delle Finanze.
Equa riparazione ex legge n. 89/2001
«(…) In fatto
la ricorrente si duole dell’eccessiva durata del procedimento da lei introdotto innanzi
al T.A.R. della Campania con ricorso depositato il 26 marzo 1991, al fine di ottenere l’annullamento
del silenzio inadempimento mantenuto dal Comune di Torre Annunziata sull’istanza
di rendita vitalizia per indennità dipendente da causa di servizio da lei presentata;
deduce che il procedimento è ancora pendente, benché siano trascorsi oltre diciassette anni
dalla sua introduzione, e chiede la liquidazione dell’equa riparazione prevista dalla legge n.
89/2001, in misura di € 23.250,00; il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito,
deducendo l’improponibilità del ricorso ed eccependo la panale prescrizione del diritto;
tanto premesso, osserva
in diritto
1. Il ricorso è ammissibile, poiché proposto mentre ancora pende il giudizio presupposto,
com’è consentito dall’art. 4 della legge n. 89/2001.
Alla sua proponibilità non asta il fatto che nel procedimento innanzi al T.A.R. non sia
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stata mai proposta l’istanza di prelievo, poiché l’art. 54, c. 2°, del d.l. 25 giugno 2008 n. 112,
convertito con modificazioni in legge 6 agosto 2008 n. 133, a norma del quale la domanda
di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio innanzi al G.A., in cui si assume essersi
verificata la violazione del diritto ad una ragionevole durata del processo, non è stata presentata
l’istanza di prelievo (art. 51 r.d. 17 agosto 1907 n. 642), per quanto norma processuale
che trova immediata applicazione anche nei procedimenti pendenti alla data della sua
entrata in vigore, tuttavia, in mancanza di un’espressa disposizione in tal senso, non è norma
retroattiva, sicché disciplina solo gli atti dei procedimento posti in essere dopo la sua entrata
in vigore e non quelli compiuti anteriormente, i quali, in applicazione del principio tempus
regit actum, restano regolati dalla disciplina in vigore all’epoca del loro compimento
(Cass. 12 maggio 2000 n. 6099; id. 4 novembre 1996 n. 9544: id. 22 gennaio 1980 n. 509).
Sicché essendo proposta la domanda il 7 maggio 2008 la suddetta norma sopravvenuta non
può trovare applicazione.
2. L’obbligo indennitario dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario
può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione del procedimento stesso
da parte dei giudice al quale esso è stato affidato, infatti l’obbligo assunto a livello internazionale
dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione
impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni
strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento
di tale obbligo (v. sentenza CEDU 26 ottobre 1988, Martins Moreira c/Portogallo),
con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli
organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio
sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la
domanda di giustizia (v.: sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart c/Belgio).
Pertanto, se l’eccessivo carico di lavoro, che notoriamente affligge la maggior parte
degli uffici giudiziari italiani (ed in particolare i T.A.R.), può giustificare sul piano soggettivo
il comportamento del singolo organo giudiziario, ciò tuttavia non è rilevante ai fini della
valutazione richiesta dalla legge n. 89/2001, che fonda un’obbligazione ex lege e non ex
delicto, che sorge per il fatto oggettivo dell’eccessiva durata del processo e non già per il
comportamento colposo o doloso degli organi giudiziari (Cass. 22 ottobre 2002 n. 14885}.
3. In ordine ai giudizi amministrativi innanzi al T.A.R., questa Corte recependo l’orientamento
giurisprudenziale della CEDU, da tempo afferma che l’omissione o il ritardo nella presentazione
dell’istanza di prelievo non assume rilievo ai fini dell’an debeatur, ma può rilevare
solo ai fini dell’apprezzamento dell’entità del pregiudizio derivante dal superamento del termine
ragionevole di durata del procedimento (Cass. 13 dicembre 2004 n. 23187). Pertanto si
tien conto dell’intera durata del procedimento, benché detta istanza sia stata mai presentata.
La durata rilevante del giudizio, al quale si riferisce la domanda, risulta, dunque, sino a
circa diciassette anni e sei mesi (dal 26 marzo 1991 al 3 ottobre 2008) ed eccede il limite di
ragionevolezza (tre anni) che questa Corte, in base ai parametri che possono ricavarsi dalla
giurisprudenza della CEDU, ritiene congruo per un grado di giudizio riguardo a cause di
ordinaria complessità e non coinvolgenti questioni di rilievo tale da imporre uno straordinario
sforzo di efficienza da parte dell’apparato giudiziario e che ben si attaglia al caso in
esame. Ne discende che il periodo eccedente, da considerare per l’indennizzo, è pari a quattordici
anni e sei mesi.
4. In proposito va osservato che, per quanto la CEDU, una volta superato il limite della
ragionevolezza, consideri ai fini della liquidazione dell’indennizzo la intera durata del procedimento,
tanto non è consentito al giudice italiano, posto che l’art. 2, c. 3°, lett. a), della legge
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n. 89/2001, espressamente sancisce che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo riconosciuto
dal nostro diritto interno per l’eccessiva durata dei processi, “rileva solamente il danno riferibile
al periodo eccedente il termine ragionevole”, onde, finché il legislatore non riterrà di
modificare tale dettato normativo (che non contrasta con le norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute – art. 10 Cost. – e neppure con i principi fondamentali dell’ordinamento
comunitario – art. 11 Cost. – onde è da escludersi la possibilità di sollevare questione
di legittimità costituzionale, e per vero non contrasta neppure con la Convenzione; ma solo
con un orientamento ermeneutico della Corte di Strasburgo, che non può prevalere su di una
espressa disposizione di legge), i giudici italiani dovranno attenervisi.
5. L’amministrazione resistente ha eccepito la prescrizione del diritto e l’eccezione è
parzialmente fondata.
Come la suprema Corte ha avuto modo di porre in evidenza, il diritto del cittadino ad un
processo di ragionevole durata non è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n.
89/2001, ma dalla legge di ratifica della convenzione CEDU (legge 4 agosto 1955 n. 848), che
ha dato immediata rilevanza interna al diritto posto dalla convenzione; la legge n. 89/2001 si
è limitata ad istituire uno strumento interno di riparazione per la lesione di tale diritto, che in
precedenza era tutelato solo dal ricorso alla Corte di Strasburgo (Cass., ss.uu., 23 dicembre
2005 n. 28507). Da ciò discende che il diritto in questione poteva esser fatto valere già prima
del 2001 e nel momento stesso in cui, avendo la durata del procedimento oltrepassato il limite
della ragionevole durata, la posizione soggettiva dell’interessato è stata lesa.
Poiché si tratta di un diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo
irragionevolmente lungo e sino a quando questo non venga definito (com’è confermato dall’art.
4 della legge n. 89/2001, che consente all’interessato di presentare l’istanza di equa
riparazione mentre il giudizio è ancora in corso), ci si trova in una situazione analoga a quella
dell’illecito permanente, per il quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna
fazione del risarcimento (qui di indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato
(ex plurimis: Cass. n. 5831/07).
Il termine di prescrizione è quello ordinario decennale, poiché, come si è ricordato al §
2, non si tratta di un’obbligazione ex delicto, cui sia applicabile l’art. 2947 c.c., ma di un’obbligazione
ex lege.
Da quanto esposto deriva che il diritto all’indennizzo per l’eccessiva durata del processo
maturato tra il 26 marzo 1994 e al 6 maggio 1998 (dieci anni prima della proposizione del
ricorso) deve ritenersi estinto per prescrizione, con la conseguenza che può liquidarsi solo
l’indennizzo per il periodo dal 7 maggio 1998 al 3 ottobre 2008 (dieci anni e cinque mesi).
6. Il ricorrente ha chiesto l’indennizzo solo per danni non patrimoniali, va, pertanto,
preso in considerazione il solo danno morale (art. 2, c. 1°, della legge n. 89/2001), che,
secondo i parametri di valutazione della CEDU, cui il giudice nazionale è tenuto ad adeguarsi,
costituisce conseguenza ordinaria del prolungarsi del giudizio oltre i termini di ragionevole
durata, sicché può essere escluso solo in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino
che la durata del procedimento corrisponde all’interesse del ricorrente (Cass., ss.uu.
26 gennaio 2004 n. 1338). Esso non può esser oggetto che di valutazione equitativa, nell’operare
la quale occorre attenersi, in linea di massima, al metro di valutazione adottato
dalla CEDU, dal quale ci si può discostare solo in misura ragionevole (Cass. ss.uu. 26 gennaio
2004 n. 1340).
Tenuto, pertanto, conto dei parametri di liquidazione cui mediamente si attiene la
CEDU (tra 1.000,00 e 1.500,00 per ogni anno, sul punto da ultimo: Grande Camera CEDU
29 marzo 2446 in causa Scordino c/Italia) e considerato che l’omessa presentazione del-
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l’istanza di prelievo induce a ritenere che la partecipazione emotiva dei ricorrenti sia stata
meno intensa dell’ordinario, appare equo liquidare un indennizzo pari ad € 800,00 x (10 +
5/12) = € 8.333,00. Tenuto conto dello specifico oggetto del contendere, come sopra specificato,
della relativa rilevanza dello stesso e del rito in concreto applicato, non appare equo
concedere alcun bonus, posto che la Corte di Strasburgo riconosce tale ulteriore voce indennitaria
solo per le controversie di particolare importanza, tra cui ha inserito anche le cause in
materia di lavoro, ma ciò non vuol dire che ogni causa di tale natura sia per ciò solo importante
e nel caso in esame deve escludersi che gli estremi del caso concreto consentano una
valutazione di particolare importanza della controversia.
Sull’importo liquidato sono dovuti gli interessi al tasso legale dalla domanda al saldo
(Cass. 27 gennaio 2004 n. 1405; id. 3 aprile 2003 n. 5110).
7. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, tenendo
conto dell’importo liquidato ed applicando, secondo il più recente insegnamento della suprema
Corte, la tariffa per i procedimenti contenziosi, con distrazione in favore del procuratore
antistatario.
P.Q.M.
1) condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di
D.S.M., a titolo di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo di cui in premessa,
di € 8.333,00 (ottomila trecentotrentatre/00), oltre gli interessi al tasso legale dal 3 luglio
2008 al saldo;
2) condanna altresì il Ministero dell’Economia e delle Finanze alla rifusione delle spese
anticipate per il giudizio dal ricorrente, (...).
Così deciso in Napoli il 10 ottobre 2008 (…)».
(doc.9)
Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 31 ottobre 2008 – Pres. F.
Del Porto – Rel. A. Fiengo – D.F. (Avv.ti I. Ferraro e M. Albachiara) c/ Ministero
dell’Economia e delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, ct 14385/08).
«Fatto e diritto
Con ricorso depositato il 7 maggio 2008, D.F., dipendente della Regione Campania,
premesso di avere, in data 28 novembre 1992, proposto ricorso al T.A.R. Campania, onde
ottenere l’esatto inquadramento nei ruoli del personale regionale; che il giudizio non era
stato ancora definito; che la durata del procedimento costituiva violazione dell’art. 6, par. 1,
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; tutto ciò premesso, chiedeva che il ministero
dell’Economia e delle Finanze venisse condannato al pagamento, a titolo di equa riparazione,
della complessiva somma di € 22.000,00,00, o di quella ritenuta di giustizia, nonché
al pagamento delle spese del procedimento da distrarsi in favore del procuratore anticipatario.
Fissata, con decreto, l’udienza di comparizione delle parti, il Ministero
dell’Economia e delle Finanze si costituiva in giudizio, eccependo l’improponibilità della
domanda e la prescrizione parziale del diritto e chiedendo, in subordine, la compensazione
delle spese di giudizio.
All’udienza del 22 ottobre 2008 la Corte si riservava la decisione.
Deve, prima di tutto, osservarsi che la responsabilità dello Stato per l’eccessiva durata
di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestio-
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ne del procedimento stesso da parte del giudice al quale esso è stato affidato; infatti l’obbligo
assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la cui violazione è oggi sanzionata
nell’ambito del diritto interno dalla previsione dell’equa riparazione disciplinata
dalla legge n. 89/2001, impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in
tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere
all’adempimento di tale obbligo (v. sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo
13 luglio 1983, caso Zimmermann e Steiner c/Svizzera; id. 26 ottobre 1988, Martins
Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento
negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto
ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con
ragionevole velocità la domanda di giustizia (v. sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart
c/Belgio; id. 25 giugno 1987, Baggetta c/ Italia).
Ciò, del resto, trova oggi diretto riscontro costituzionale nel testo novellato dell’art. 111
Cost., il quale dispone che la legge (e cioè l’ordinamento nel suo complesso considerato e
non solo l’istituzione giudiziaria) assicura la ragionevole durata del processo.
Si vuol dire, quindi, che, se l’eccessivo carico di lavoro, che notoriamente affligge la
maggior parte degli uffici giudiziari italiani (ed in particolare i T.A.R.), può giustificare sul
piano soggettivo il comportamento del singolo organo giudiziario, ciò tuttavia non assolve
da responsabilità lo Stato nel suo complesso considerato, per il fatto di non aver apprestato
procedure adeguatamente snelle e strutture adeguate al carico di lavoro, che sono destinate
a smaltire, in modo da consentire ad organi giudiziari ordinariamente diligenti di rispondere
in tempi accettabili alla domanda di giustizia.
Non è, perciò, necessario andare alla ricerca della negligenza del giudice, che ha seguito
il singolo caso portato all’attenzione della Corte, o dei suoi collaboratori interni o esterni
all’organizzazione giudiziaria (anche se, ovviamente, nei casi in cui sussista, dovrà tenersene
conto insieme alle altre disfunzioni della macchina giudiziaria), poiché anche nei casi in
cui, per la situazione logistica in cui è costretto a lavorare, da questi non sarebbe stato possibile
esigere di più di quanto ha fatto in termini di velocità di definizione del procedimento,
il fatto stesso che lo stato delle strutture e dell’organizzazione abbia reso inevitabili tempi
molto lunghi è già sufficiente ad affermare la responsabilità dello Stato per la difettosa concezione
ed organizzazione del sistema giudiziario.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte rilevato che la lesione del diritto alla
definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6 paragrafo 1 di detta
Convenzione, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento
al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, tenendosi cioè
conto del tempo complessivo dell’attesa della risposta sulla domanda di giustizia, mentre
l’omissione od il ritardo nella presentazione dell’istanza di prelievo (non contemplata dalla
legge processuale, ma prevista dalla prassi degli uffici giudiziari quale strumento acceleratorio)
non sospendono o differiscono il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda
medesima, né dunque implicano il trasferimento sui contendenti della responsabilità del
superamento per tale pronuncia della scadenza congrua (v. sent. 24 maggio 1991 in causa
Vocaturo c/ Italia e, da ultimo, sentt. 19 febbraio 2002 in cause Abate, Ferdinandi, Polcari e
Donato c/ Italia).
L’orientamento della Corte di Strasburgo, in quanto inerente alla determinazione del
fatto costitutivo del diritto all’indennizzo individuato dalla legge n. 89 del 2001 per relationem
tramite il richiamo dell’art. 6 della Convenzione, deve essere seguito dal giudice italia-
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no, sia pure nei limiti consentiti dalla stessa legge n. 89 del 2001, per effetto dell’adesione
dell’Italia a detto Accordo internazionale (con la legge di ratifica 4 agosto 1955 n. 848)
anche nella parte in cui ne affida al giudice europeo l’interpretazione, come affermato dalle
Sezioni unite della Cassazione con sentenza 26 gennaio 2004 n. 1341.
Per quanto concerne il caso concreto, deve, prima di tutto, rilevarsi che la sollevata
eccezione di improponibilità della domanda è infondata.
Il ricorso è stato, infatti, proposto in data 2 maggio 2008, cioè anteriormente al 23 agosto
2008, data di entrata in vigore della legge 6 agosto 2008 n. 133, con la conseguenza che
non può ritenersi necessaria la preventiva presentazione al giudice amministrativo di
un’istanza ai sensi del secondo comma dell’art. 51 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642.
Ciò posto, va osservato che, essendo stato il ricorso al T.A.R. proposto il 28 novembre
1992 e non ancora definito, deve ritenersi fondata la domanda, essendo decorso un lasso di
tempo superiore ai tre anni dalla proposizione della domanda, lasso di tempo che, per insegnamento
della giurisprudenza della Corte Europea, è sufficiente per decidere una controversia
non particolarmente complessa quale quella in esame.
La proposta eccezione di prescrizione è parzialmente fondata.
Premesso che deve trovare applicazione nella fattispecie il termine di prescrizione ordinario
decennale, vertendosi in tema non di obbligazione ex delicto, cui sia applicabile l’art.
2947 c.c., ma di un’obbligazione ex lege, va, infatti, osservato che nel caso concreto detto
termine, decorrente dalla scadenza del periodo di normale durata del giudizio (28 novembre
1995), deve ritenersi decorso, essendo il periodo di irragionevole durata, tenendo conto della
data di proposizione del ricorso in esame (7 maggio 2008), superiore ai dieci anni.
Per quanto concerne la misura dell’equa riparazione, in mancanza di prova in ordine
all’esistenza di un danno patrimoniale, deve essere preso in considerazione il solo danno
morale (art. 2, comma 1°, della legge n. 89/01), che, secondo i parametri di valutazione della
C.E.D.U., cui il giudice nazionale è tenuto ad adeguarsi, costituisce conseguenza ordinaria
del prolungarsi del giudizio oltre i termini di ragionevole durata, sicché può essere escluso
solo in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino che la durata del procedimento
corrisponde all’interesse del ricorrente (Cass., sez. un., 26 gennaio 2004 n. 1338).
Esso non può che essere oggetto di valutazione equitativa, nell’operare la quale occorre
attenersi, in linea di massima, al metro di valutazione adottato dalla C.E.D.U. in casi analoghi,
dal quale ci si può discostare solo in misura ragionevole (Cass., sez. un., 26 gennaio
2004 n. 1340).
Tenuto conto della quantificazione operata dalla Corte Europea nei casi analoghi a quello
in esame, ritiene la Corte che l’indennizzo debba essere fissato, per la durata eccessiva del
giudizio di anni 10 e mesi 6 circa, nella misura di € 8.500,00, corrispondente alla somma di
€ 1.000,00 per ogni anno di ritardo, ridotta ad € 800,00 in considerazione dell’assenza di
qualsiasi attività sollecitatoria da parte della ricorrente, quale risulta dall’omesso deposito di
istanze di prelievo.
Tenuto conto dello specifico oggetto del contendere, come sopra indicato, della relativa
rilevanza dello stesso e del rito applicato, non appare equo concedere alcun bonus, posto
che la Corte di Strasburgo riconosce tale ulteriore voce indennitaria solo per le controversie
di particolare importanza, ma ciò non vuol dire che ogni causa di tale natura sia per ciò solo
importante e nel caso deve escludersi che gli estremi del caso concreto consentano una valutazione
di particolare importanza della controversia.
Le spese, conformemente a quanto ritenuto dalla Suprema Corte, devono, anche nei
procedimenti del tipo di quello presente, seguire il principio della soccombenza; le stesse
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vanno, pertanto, poste a carico del Ministero e, liquidate come indicato in dispositivo, vanno
distratte a favore del procuratore anticipatario.
P.Q.M.
Letti gli artt. 2 e segg. L. 24 marzo 2401 n. 89, condanna il Ministero dell’Economia e
delle Finanze al pagamento in favore di D.F. della somma di € 8.500,00.
Condanna, inoltre, il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore
dell’Avv. Italia Ferraro delle spese dallo stesso anticipate per il presente procedimento (…).
Così deciso in Napoli, in camera di consiglio, il 29 ottobre 2008».
(doc. 10)
Corte di Appello di Reggio Calabria, sezione civile, decreto 7 novembre 2008 –
Pres. C. Epifanio – Rel. est. E. Iannello – C.M. (Avv. M. Intilisano) c/ Ministero della
Giustizia (Avv. dello Stato P. Garofoli, Reggio Calabria, ct 4361/08).
«(…) 1. Il ricorrente chiede la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di
un’equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole previsto dall’art. 6, paragrafo
1, della Convenzione per la salvaguardia dai diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 48, in relazione alla durata di una causa
civile dallo stesso promossa insieme con C.P., con citazione del 23 marzo 1992 innanzi al
Tribunale di Messina, al fine di ottenere l’accertamento della usucapione di un immobile sito
in Contrada (…) di Messina, definita in primo grado dalla sezione stralcio di quel tribunale,
con sentenza n. 1517/02 del 20 maggio 2002 e, quindi, in appello, con sentenza della locale
Corte n. 125/47 del 19 marzo 2007.
C.M. deduce che il procedimento ha superato il termine ragionevole sopra indicato,
causandogli danni non patrimoniali di cui chiede la liquidazione secondo i criteri elaborati
dilla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo.
Il Ministero della Giustizia ha eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità della
domanda ai sensi dell’art. 4 della L. n. 89/2001. Ha in subordine opposto la parziale prescrizione
del credito indennitario e, nel merito, ne ha contestato la fondatezza deducendo l’insussistenza
dei presupposti della dedotta pretesa indennitaria e che il ricorrente non ha
comunque dato alcuna prova del tipo di danno sofferto in conseguenza delle asserite lungaggini
dell’iter processuale.
2. Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per decadenza
dei ricorrenti dal termine semestrale di cui all’art. 4 della L. n. 89/2001.
La stessa è infondata.
Com’è noto, infatti, l’art. 4 della legge 24 marzo 2001 n. 89 prevede che “la domanda
di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la
violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in
cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”. È parimenti
noto, però, che per “definitività” della decisione concludente il procedimento nel cui ambito
la violazione si assume verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di
sei mesi per la proponibilità della domanda, s’intende il momento in cui si consegue il fine
al quale il singolo procedimento è deputato. Tale momento, in relazione al giudizio di cognizione,
va identificato nel passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce (v. Cass., 7
marzo 2007, n. 5212).
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Orbene, nella specie, la sentenza d’appello è stata depositata in data 19 marzo 2007 e
non risulta essere stata notificata, con la conseguenza che la stessa va considerata non ancora
passata in giudicato al momento in cui il ricorso è stato proposto.
3. In ordine gradato, occorre adesso esaminare l’eccezione di mozione opposta dall’amministrazione
convenuta, parziale prescrizione opposta dall’amministrazione convenuta,
anch’essa di rilievo ovviamente preliminare.
Tale eccezione deve ritenersi fondata.
Ed infatti, per il generale principio secondo cui, ex art. 2934, 1° comma c.c., “ogni diritto
si estingue per prescrizione”, anche quello all’equa riparazione – in mancanza di diversa
specifica previsione derogatrice – deve ritenersi soggetto a tale causa estintiva qualora trascorrano
più di dieci anni senza che il cittadino avanzi alcuna pretesa al riguardo.
3.1. In particolare, quanto alla misura (decennale) del termine prescrizionale, è appena
il caso di rammentare che essa è indicata in via generale dall’art. 2946 c.c. e che il diritto
all’indennità di che trattasi sfugge alla prescrizione breve di cui all’art. 2947 c.c., non essendo
riconducibile a quello avente ad oggetto il risarcimento del danno da fatto illecito, né
essendo assimilabile ad alcuna delle categorie per le quali l’art. 2948 dello stesso codice contempla
pur sempre una prescrizione quinquennale.
Costituisce, invero, jus receptum che l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione
ha natura indennitaria e non risarcitoria, si configura non già come obbligazione ex delicto,
ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto
o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico
(Cass. 13 aprile 2006, n. 8712). Il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto
del termine ragionevole del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, non richiede
infatti l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c. né presuppone
la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente; esso è invece
ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1, della convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo del
diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole.
3.2. Maggiori perplessità si pongono, invece, con riferimento alla decorrenza di detto
termine prescrizionale, registrandosi sul punto contrastanti orientamenti nella giurisprudenza
di merito.
Secondo un primo indirizzo, invero, detto termine non potrebbe cominciare a decorrere
se non dal momento della cessazione del processo della cui irragionevole durata si tratta
e, dunque, del passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce. A fondamento di tale
tesi si pongono argomenti diversi e non del tutto coincidenti. Da alcuni si osserva infatti che
“il diritto all’equo indennizzo ... pur sussistendo anche a prescindere dal suo riconoscimento
con la L. 89/01, non matura affatto giorno per giorno, ma va verificato in relazione al
concreto andamento del singolo processo in rapporto alle caratteristiche di ogni fattispecie:
sicché esso non è né liquido, né esigibile prima della valutazione giudiziale e prima della
proposizione della domanda o, se anteriore, della cessazione del processo medesimo” (App.
Salerno, decr. 14 ottobre 2008). Altri invece ritengono che la fattispecie integrerebbe “ipotesi
di illecito permanente il cui conseguente danno persiste nel tempo fin quando la relativa
condotta non è cessata e ciò si verifica solo con il passaggio in giudicato della sentenza resa
nel procedimento nel cui ambito assume essersi verificata la violazione” (App. Roma, decr.,
9 luglio 2001, in Guida al diritto, 2001, n. 38, p. 30).
Secondo una posizione intermedia la prescrizione non potrebbe farsi decorrere prima
della data di entrata in vigore della legge n. 89 (2001, dal momento che, prima di allora, nes-
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suno poteva pretendere dal giudice italiano di essere indennizzato per tali danni, non essendo
stato ancora riconosciuto dall’ordinamento nazionale il relativo diritto e mancava, dunque,
la possibilità legale di esercizio dello stesso richiesta, ai sensi dell’art. 2935 c.c., per il
decorso della prescrizione (App. Brescia, decr. 4 marzo 2005).
Secondo un terzo indirizzo, infine, la prescrizione decennale ben può cominciare a
decorrere anche durante la pendenza del processo dal momento in cui è stato superato il termine
ragionevole di durata prospettabile (App. Napoli, decr. 4 luglio 2008).
Ritiene questa Corte che quest’ultimo indirizzo meriti di essere condiviso, con le precisazioni
di cui appresso, e che vadano invece disattese le altre più restrittive posizioni interpretative.
3.2.1. Conviene prendere le mosse dalla tesi che abbiamo detta intermedia, secondo cui
il termine prescrizionale potrebbe cominciare a decorrere solo a far data dall’entrata in vigore
della legge 24 marzo 2001, n. 89. Tale tesi evidentemente postula che il diritto ad ottenere
un’equa riparazione per il ritardo irragionevole del processo sia sorto solo per effetto della
legge Pinto o, che, pur trovando anteriormente quel diritto riconoscimento – diretto o indiretto
– nel nostro ordinamento, solo la legge detta abbia per la prima volta introdotto uno
strumento di tutela.
Sia l’una che l’altra affermazione (la pena dovrebbe, a rigore, condurre a ritenere indennizzabili
solo ritardi maturati successivamente alla legge n. 89/2001) sono però chiaramente
smentite dalla giurisprudenza della Suprema Corte, quale ormai consolidatasi a partire dai
fondamentali arresti di Cass., sez. un. 26 gennaio 2004, nn. 1339, 1340 e 1341 e di Cass.,
sez. un., 23 dicembre 2006, n. 28507.
Con le prime, le Sezioni Unite hanno infatti identificato il fatto costitutivo prefigurato dell’art.
2 della legge n. 89 del 2001 proprio nel mancato rispetto del termine ragionevole di durata
del processo stabilito dall’art. 6 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo
e hanno negato, conseguentemente, che la fattispecie prevista dalla norma interna assuma connotati
diversi da quelli stabiliti dalla Convenzione, rispetto alla quale essa andrebbe considerata
non già costitutiva del diritto all’equa riparazione per la non ragionevole durata del processo,
bensì unicamente istitutiva della via di ricorso interno, prima inesistente, diretta ad assicurare
una tutela pronta ed efficace alla vittima della violazione del canone dì ragionevole durata
del processo in attuazione del disposto dell’art. 13 della Convenzione.
Con la seconda le SS.UU. hanno ulteriormente chiarito che non è nemmeno predicabile
una distinzione tra diritto ad un processo di ragionevole durata, introdotto dalla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (o addirittura ad essa preesistente
come valore costituzionalmente protetto), e un diritto all’equa riparazione, che sarebbe stato
introdotto solo con la legge n. 89 del 2001, in quanto “la tutela assicurata dal giudice nazionale
non si discosta da quella precedentemente offerta dalla Corte di Strasburgo, alla cui
giurisprudenza è tenuto a conformarsi il giudice nazionale”.
Se così è, non sembra allora nemmeno sostenibile che prima dell’entrata in vigore non
sussistesse la possibilità legale di far valere il diritto (all’equa riparazione) alla cui mancanza,
secondo pacifica interpretazione dell’art. 2935 c.c., deve riconoscersi rilievo impeditivo
del decorso della prescrizione.
Non par dubbio invero che, ai fini della citata norma codicistica possa e debba assumere
rilievo anche la sola possibilità di ricorrere alla Corte Europea.
Si consideri al riguardo che:
a) la Convenzione Europea non solo afferma il diritto, sostanziale, all’equa riparazione,
ma – come detto – prevede anche uno strumento di tutela (sussidiario) che, prima del-
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l’introduzione della legge Pinto, rendeva quel diritto direttamente azionabile davanti agli
organi istituiti dalla Convenzione da parte del soggetto che avesse subito danni dalla sua
lesione (c.d. ricorso individuale, prima subordinato ad una dichiarazione dello Stato membro
di riconoscere come obbligatoria la giurisdizione della Corte, dichiarazione intervenuta
per l’Italia solo con decorrenza dal 1° agosto 1973: artt. 25 e 46 Convenzione testo originario;
poi reso sempre possibile, senza alcuna facoltà di disconoscimento da parte degli Stati
membri, dopo l’approvazione del Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994
ed entrato in vigore in Italia l’1° novembre 1998: nuovi artt. 32 e 34 Conv.);
b) l’uno (diritto all’equa riparazione) e l’altro (proponibilità del ricorso individuale agli
organi di giustizia internazionali) devono certamente considerarsi parte integrante anche dell’ordinamento
interno, volta che la Convenzione è stata recepita nel nostro ordinamento con
la legge 4 agosto 1955 n. 848: in particolare lo strumento di tutela rappresentato dal ricorso
individuale alla Corte Europea (e prima alla Commissione) – le cui decisioni sono da ritenersi
già a priori riconosciute e vincolanti nell’ordinamento interno – deve ritenersi acquisito
nel patrimonio dei diritti dei cittadini italiani dal 1° agosto 1973 valendo, quanto meno da
quella data, a integrare la condizione cui l’art. 2935 c.c. subordina il decorso del termine prescrizionale;
c) di fatto la Corte Europea, e prima di essa la Commissione Europea, già da molti anni
prima della legge n. 89/2001, esaminavano richieste di “satisfaction équitable” emettendo
condanne nei confronti dell’Italia, a loro volta direttamente esecutive nell’ordinamento interno,
tanto che la legge Pinto è stata emanata proprio (e solo) al fine di porre argine, attivando
il filtro del “previo esaurimento dei ricorsi interni” ex art. 35 Conv., all’affollamento di
ricorsi davanti alla Corte di Strasburgo che stavano mettendo a dura prova il funzionamento
degli organi di controllo europei – impegnati ad occuparsi solo dell’Italia e solo di quella
particolare violazione – ed evitare la conseguente e ormai incombente minaccia di estromissione
dell’Italia dal gruppo degli stati aderenti alla Convenzione;
d) che si tratti di tutela sostanzialmente sovrapponibile è dimostrato anche dalla norma
transitoria di cui all’art. 6 legge n. 89/2001, che prevede espressamente che i ricorsi già pendenti
presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e relativi alla violazione del termine ragionevole
di durata del processo possono essere trasferiti alla Corte d’appello competente sulla
base della nuova disciplina interna, sia pure entra il termine di sei mesi dall’entrata in vigore
della legge (poi prorogato ad un anno ai sensi dell’art. 1 D.L. 12 ottobre 2001, n. 370).
Alla luce di tali considerazioni, del tutto condivisibile appare la ricostruzione dottrinaria
che ravvisa il significato ultimo dell’art. 2 legge cit. in quello di norma sulla giurisdizione.
Si rileva infatti che, con la ratifica in Italia della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, “è stato introdotto nel nostro ordinamento sia il precetto ‘primario’ (rinveniente
dall’art. 6 della Convenzione) che impone allo Stato di garantire ai cittadini una giustizia
dalla durata non irragionevole, sia il precetto ‘secondario’ o ‘sanzionatorio’ (rinveniente
dall’art. 41) secondo cui la violazione di questo dovere comporta per lo Stato l’obbligazione
di assicurare al cittadino danneggiato un’equa soddisfazione. Nel diritto italiano, dunque,
la fattispecie normativa sostanziale secondo cui il soggetto leso dall’eccessiva lentezza
di un processo ha diritto ad essere indennizzato dallo Stato era già presente prima dell’entrata
in vigore della nostra legge. Quello che mancava al nostro diritto era soltanto il
momento giustiziale diretto ad accertare la sussistenza dell’obbligo riparatorio: momento
che, ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, si realizzava necessariamente davanti alla
Corte europea. La legge n. 89, in attuazione dell’art. 13 della Convenzione (e dando quindi
concretezza al principio secondo cui il singolo Stato deve garantire ai suoi cittadini un effet-
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tivo rimedio giurisdizionale ‘interno’ contro le violazioni della Convenzione stessa) ha finalmente
devoluto le controversie sull’eccessiva durata dei processi e sulla conseguente obbligazione
indennitaria dello Stato, ai giudici italiani. L’art. 2 della nostra legge, in quest’ottica,
si risolve allora in una semplice norma sulla giurisdizione; una norma che attribuisce
(anche) alla magistratura italiana la potestas iudicandi su queste controversie”.
Conclusivamente sul punto può, dunque, notarsi che: se il diritto che si tratta di tutelare
trova il suo fondamento nella violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU ed ha contenuto
e natura esattamente identici a quello già riconosciuto dall’art. 41 della Convenzione
medesima; se come tale esso ben può essere maturato, in tutto o in parte, anteriormente
all’entrata in vigore dalla c.d. legge Pinto (cfr. ex multis Cass. 9 novembre 2006, n. 23939);
se il ricorso giurisdizionale alla Corte Europea era volto proprio a prestare tutela a quel diritto
e, come tale, era sostanzialmente sovrapponibile al ricorso alla Corte d’Appello introdotto
dall’art. 3 legge n. 89/2001; se il primo era ed è tuttora direttamente esperibile (in via sussidiaria
in caso di insussistenza ma anche di inadeguatezza del ricorso interno rispetto allo
scopo, imposto dall’art. 13 della Convenzione, di consentire una tutela effettiva del diritto)
e – soprattutto – lo era con esiti immediatamente efficaci, esecutivi e vincolanti nell’ordinamento
interno; se tutto ciò è vero, non si vede allora perché il diritto in questione passa ritenersi
non legalmente tutelabile prima della introduzione del nuovo ricorso interno per effetto
della legge n. 89/2001 e, dunque, impedito nel suo esercizio ai fini dell’art. 2935 c.c., se
non sulla base di una nozione di legale possibilità di esercizio limitata al solo novero degli
strumenti di tutela giurisdizionale interna che, però, non appare imposta da alcun cogente
argomento sistematico ed, anzi, finirebbe con l’obliterare gli effetti della legge 4 agosto
1955, n. 848 di ratifica ed esecuzione della Convenzione EDU.
3.2.2. Nemmeno può essere condiviso l’indirizzo secondo cui il termine prescrizionale
non potrebbe decorrere prima della cessazione del processo della cui irragionevole durata si
tratta. Gli argomenti che in tal senso, a quanto consta, sono stati proposti si rivelano invero
infondati o inconferenti.
3.2.2.1. Non si vede anzitutto per qual ragione il diritto all’equa riparazione possa ritenersi
inesigibile prima della valutazione giudiziale (definirlo “inesigibile prima della proposizione
della domanda” appare poi una palese contradictio in adiecto).
Vero è che si tratta di credito illiquido – richiedendosi una valutazione in termini pecuniari
del danno e, dunque, una sua liquidazione – ma ciò non significa certo che il danno non preesista
alla liquidazione e con esso il diritto all’equa riparazione, né che questo non sia esigibile.
L’esigibilità corrisponde, per comune insegnamento, alla possibilità di far valere giudizialmente
il diritto attraverso una domanda di condanna attuale al pagamento (cfr. Cass. 20
maggio 1969, n. 1769; 13 settembre 1974, n 2459), la quale certamente sussiste per il diritto
all’equa riparazione e, ovviamente, preesiste alla liquidazione del danno.
Quanto poi alla illiquidità del credito, essa non ha mai costituito ostacolo al decorso
della prescrizione: basti considerare che, diversamente opinando, dovrebbe ritenersi imprescrittibile
il diritto al risarcimento del danno, quale che ne sia il fatto generatore e il fondamento
giuridico, essendo anch’esso ancora illiquido al momento della proposizione della
relativa domanda giudiziale (il che evidentemente non può sostenersi).
È vero piuttosto che, per pacifico insegnamento, applicabile – mutatis mutandis – anche alla
fattispecie in esame, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere
dal momento in cui il danno stesso si è verificato e non da quello, eventualmente diverso, in cui
è stato posto in essere l’atto illecito (v. Cass., sez. un., 6 ottobre 1975, n. 3161; Cass. 15 marzo
1989, n. 1306; 8 febbraio 1990, n. 875; 10 giugno 1999, n. 5701; 12 gennaio 2000, n. 246).
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Le considerazioni che precedono consentono peraltro di focalizzare l’equivoco che probabilmente
sta a fondo della tesi che si sta esaminando.
E’ ben vero infatti che, in materia, si richiede una valutazione caso per caso sia sulla
sussistenza della fattispecie costitutiva del diritto all’equa riparazione (ossia il superamento,
da parte del singolo processo considerato, della ragionevole durata), sia sul danno ad essa
riferibile: da un lato, infatti, come ha avuto modo di ribadire più volte la Suprema Corte, la
legge n. 89 del 2001 non specifica il periodo di tempo massimo valicato il quale la durata
del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di determinarlo di volta in
volta, desumendolo dalla complessità del caso e dal comportamento delle parti, del giudice
e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del
processo; dall’altro, anche l’esistenza e l’entità del danno non possono considerarsi in re ipsa
ma vanno in concreto valutate, sia pure inevitabilmente, almeno per il danno non patrimoniale,
con ricorso a presunzioni (v. ex aliis Cass. 19 gennaio 2005 n. 1094). E però, l’incertezza
sull’an e sul quantum dell’obbligo indennitario (a ben vedere, non diversa da quella
che si registra per definizione in tutti i casi in cui si controverte sulla sussistenza di un danno
risarcibile ovvero sul momento in cui lo stesso si sia verificato) non esclude affatto che – se
violazione e danno si valutino sussistenti, se è vero che al manifestarsi di questo sorse anche
il diritto (tanto da doversi considerare acquisito al patrimonio del soggetto e addirittura trasmissibile
agli eredi: v. ex pluribus Cass. 9 novembre 2006, n. 23939; Cass., sez. un., 23
dicembre 2005, n. 28507), se ancora il diritto diviene a sua volta immediatamente esigibile
(anche nel corso del processo della cui lentezza si tratta: art. 4 L. 89/2001) – da quella stessa
data debba farsi anche decorrere il termine prescrizionale.
Quel che occorre, piuttosto, tener presente è che la fattispecie considerata è, in potenza,
plurioffensiva; che, cioè, diversi sono i danni in astratto ipotizzabili in conseguenza dell’eccessiva
lentezza del processo (ferma ogni avvertenza sulla necessità di provare in concreto
un nesso causale diretto, prova in pratica di estrema difficoltà per molti di quelli
appresso ipotizzati) e diversi anche i momenti in cui gli stessi possono considerarsi effettivamente
maturati. Si pensi, quanto ai danni non patrimoniali, da un lato, a quelli relativi allo
stress, allo stato di incertezza di per sé ragionevolmente ipotizzabili già dopo i primi segmenti
temporali di irragionevole durata, dall’altro alle vere e proprie perturbazioni mentali ovvero
ai danni psichici o fisici in ipotesi sorti a causa del troppo lungo immorarsi del processo,
specie se ultradecennale e specie se respingente beni primari inerenti alla persona; ma si
pensi anche, quanto ai danni patrimoniali, al pregiudizio potenzialmente derivante dal tardivo
accoglimento della domanda (es. per il mancato godimento del bene o per il suo definitivo
deterioramento o per la sua perdita di valore o per l’impossibilità o la maggiore difficoltà
di portare ad esecuzione il credito), al danno, ancora, da perdita di chance (es. l’impossibilità
di partecipare a concorsi per la pendenza di un procedimento penale).
L’attenzione che occorre prestare a tale varietà di ipotetici pregiudizi non realizza, però,
di per sé, alcuna deroga al principio generale della prescrizione del diritto per il decorso del
tempo: è ben vero infatti che, per alcuni danni, i quali possono considerarsi maturati solo al
momento della definizione del processo, non potrà predicarsi alcuna decorrenza anteriore del
termine prescrizionale, ma ciò sarà non per l’inapplicabilità alla fattispecie di quell’istituto,
ma solo e semplicemente perché quel particolare danno (e il corrispondente diritto all’indennizzo)
prima di allora non può considerarsi sorto. Ciò in particolare – è bene avvertire – vale
anche per quei danni da irragionevole durata legati alla sussistenza del diritto per cui è stato
avviato il processo (si pensi, ad es., alla domanda di condanna al pagamento di una somma
di danaro: in tali casi, benché apparentemente il danno – da perdita degli interessi, da perdi-
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ta di occasioni favorevoli di investimento fruttifero, da perdita o diminuzione della garanzia
patrimoniale – è apprezzabile durante la durata del processo, in realtà solo il provvedimento
che definisce il giudizio potrà dire se quel diritto sussiste davvero e non prima di allora
potrà dunque stabilirsi se danno da ritardata tutela vi sia stato).
Esiste però, indubitabilmente, una tipologia di danni, non patrimoniali, legali alla durata
del processo indipendentemente dal suo esito decisorio, sicché l’indennizzo può spettare
anche al soccombente per il solo fatto di essere stato impegnato a lungo in una determinata
controversia. Si tratta dei danni, di cui sopra si è accennato e che l’esperienza dimostra essere
nella grandissima parte dei casi gli unici di fatto dedotti e/o accertati, rappresentati dallo
stress, dallo stato di incertezza e, dunque, dalle sofferenze morali e psicologiche imputabili
a quella durata, se e in quanto irragionevole.
L’idea che anche tali danni richiedano una valutazione unitaria sempre e solo alla fine
del processo e che, pertanto, prima di allora, non possa decorrere, nemmeno per essi, alcun
termine prescrizionale, contrasta con il dato logico che si tratta di danni destinati a rimanere
tali qualunque sia la successiva evoluzione del processo (il pregiudizio morale che deriva
dall’aver dovuto attendere tre anni oltre il prevedibile e ragionevole limite di durata del processo,
rimarrà tale anche se quel processo durerà per altri tre o cinque anni; potrà cioè solo
sommarsi al danno imputabile a quest’ultimo segmento temporale, ma non, in sé, aggravarsi
o attenuarsi) e, soprattutto, è smentito dalla già citata norma di cui all’art. 4 legge Pinto
che, come detto (in piena conformità a principi già invalsi nella giurisprudenza europea ed
anzi proprio per questo introdotta: come evidenziato nel sesto punto della relazione al disegno
di legge), consente di proporre la domanda di riparazione “durante la pendenza del procedimento
nel cui ambito la violazione si assume verificata”.
Tale norma, con ogni evidenza, postula l’esistenza di danni derivanti dalla lentezza del
processo suscettibili di valutazione parcellizzata, ossia di danni – già perfettamente maturati
– riferibili ai singoli segmenti di durata irragionevole di volta in volta trascorsi e, correlativamente,
di un diritto all’indennizzo già sorto e acquisito al patrimonio del soggetto danneggiato,
perfettamente esigibile e, come tale, suscettibile di estinzione per prescrizione ove
non esercitato nel termine previsto dalla legge.
3.2.2.2. Le considerazioni che precedono portano anche a dissentire dalla tesi, accolta nel
succitato precedente della Corte d’Appello di Roma, secondo cui la prescrizione non potrebbe
decorrere prima della definizione del processo poiché si tratta di “illecito permanente il cui
conseguente danno persiste nel tempo fin quando la relativa condotta non è cessata”.
Se può convenirsi con la qualificazione del fatto generatore del danno (ma sarebbe più
corretto dire: dei danni) in termini di fatto (non propriamente illecito, siccome chiarito dalla
Cassazione, almeno secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c.) permanente, fino
alla definizione del processo troppo lento, non sembra invece corretto parlare, quanto alle
conseguenze via via determinate, di danno permanente.
Le considerazioni e il dato positivo sopra evidenziati inducono invero a ritenere che,
piuttosto che un solo danno (concettualmente e logicamente isolabile) destinato a permanere
nel tempo (come ad es. quello da invalidità permanente nel caso della lesione alla salute)
e magari suscettibile salo di aggravarsi, sono concettualmente e distinguibili (non solo in
senso sincronico ma anche diacronico) diversi danni (ancorché della stessa specie), suscettibili
di autonoma considerazione e valutazione, di volta in volta prodottisi in conseguenza
diretta del perpetuarsi della condotta nel tempo.
Per i danni, dunque, originatisi immediatamente all’atto del superamento della durata
ragionevole del processo, la prescrizione ben può dirsi maturata una volta superato – in
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assenza di atti interruttivi – il relativo termine decennale. Analogamente, per i danni via via
originatisi successivamente nel tempo per effetto dell’ulteriore protrarsi del processo, il termine
di prescrizione ben può considerarsi maturato – sempre in assenza di atti interruttivi –
con il decorso di dieci anni dalla loro verificazione di volta in volta (cfr. Cass. 24 agosto
2007, n. 17985; Cass. 13 marzo 2007, n. 5831; in motivazione, par. 2.2; Cass. 2 aprile 2004,
n. 6512; 20 dicembre 2000, n. 16009).
3.3. Per completezza, occorre chiedersi se le conclusioni cui sopra si è giunti, nella
misura in cui evidentemente portano ad una possibile riduzione del quantum dell’indennizzo
complessivamente spettante, si pongano in contrasto con le norme pattizie e con l’interpretazione
che di esse ne dà la Corte Europea e, in caso affermativo, se ciò possa e debba
condurre ad una diversa ricostruzione della disciplina applicabile.
3.3.1. La risposta al prima quesito deve essere negativa.
Al riguardo, giova rammentare che un’interpretazione della legge n. 89/2001 non conforme
a quella che la Corte europea ha dato della norma dell’art. 6 CEDU comporta che la
vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta
dalla Corte europea, ottenga da quest’ultimo Giudice l’equa soddisfazione prevista
dall’art. 41 CEDU. Il che renderebbe inutile il rimedio predisposto dal legislatore italiano
con la legge n. 89/2001 e comporterebbe una violazione del principio di sussidiarietà dell’intervento
della Corte di Strasburgo. In questo senso, secondo indicazioni della
Cassazione e della stessa Corte europea, si fa derivare da detto principio l’affermazione del
dovere, per le giurisdizioni nazionali, di interpretare ed applicare il diritto nazionale “per
quanto possibile” conformemente alla Convenzione nazionale (v. Cass., sez. un., 26 gennaio
2004, n. 1339).
E tuttavia non si vede perché l’applicazione della prescrizione all’obbligazione indennitaria
dello Stato debba parsi in contrasto nome CEDU. Non constano a questo Collegio
pronunce della Corte Europea che affermino l’imprescrittibilità, prima della definizione del
processo della cui lentezza si tratta, del diritto all’indennizzo per la parte in cui esso si riferisca
a ritardi maturati oltre dieci anni prima della domanda.
E del resto, l’estinzione parziale del diritto deriva in questi casi non da una particolare
interpretazione delle norme in tema di ragionevole durata del processo o di quelle che regolano
le conseguenze della violazione del relativo precetto primario, ma dall’applicazione di
un principio generale, come tale ovviamente non specificamente introdotto per concorrere a
disciplinare la materia ma destinato a trovare applicazione in tutti i campi del diritto privato,
ove si tratti di diritti disponibili a contenuto patrimoniale, salvo diversa specifica previsione.
Correlativamente, la parziale estinzione del diritto non discende da ragioni intrinseche
alla (interpretazione della) disciplina della fattispecie, ma da elementi estrinseci ed,
essenzialmente, dall’inerzia della parte a far valere il diritto all’indennizzo, in mancanza
della quale nessuna estinzione, neppur parziale, ovviamente si verificherebbe.
3.3.2. In ogni caso, occorre rimarcare che il dovere per il giudice nazionale di conformare
la propria interpretazione (della legge n. 89/2001) alle norme della CEDU per come
esse “vivono” nella giurisprudenza della Corte Europea, opera “per quanto possibile” e,
quindi, solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della
stessa legge n. 89, non potendo certo il giudice violare quest’ultima legge, alla quale egli è
pur sempre soggetto (in tal senso, Cass. sez. un., 1339/04, cit.).
A fortiori non potrebbe un tale presunto (ma non sostenibile) contrasto con le norme
della CEDU consentire al giudice nazionale di disapplicare norme di portata e applicazione
generale, quale quella di cui all’art. 2934 c.c.
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Al più esso potrebbe soltanto far emergere una intrinseca inadeguatezza dello strumento
di tutela interno rispetto alle finalità perseguite e, quindi, far venire meno il filtro del previo
esaurimento dei ricorsi interni e riaprire il ricorso diretto alla CEDU.
Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il
diritto interno è, però, ovviamente, la Corte europea stessa, alla quale spetta di fare applicazione
dell’art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della
CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della
violazione stessa (così, Cass. n. 1339/04, cit.).
3.4. In definitiva, il diritto all’equa riparazione ex lege Pinto deve ritenersi soggetto ad
estinzione per prescrizione decennale, decorrendo il relativo termine dal momento in cui si
determina il pregiudizio connesso all’irragionevole protrarsi di un processo e, dunque, da
ogni momento in cui, all’atto del superamento della durata ragionevole del processo e via
via per l’ulteriore successivo immorarsi dello stesso, si origina il danno legato alla corrispondente
frazione temporale di durata legato alla corrispondente eccedente quella ragionevole.
Nel caso di specie, alla data in cui il ricorso è stato notificato (24 luglio 2008) – primo
momento in cui può considerarsi perfezionato l’atto interruttivo (art. 2943, comma 1 c.c.; v.
Cass. 8 agosto 2007, n. 17385; Cass. lav., 30 marzo 2004, n. 6343; Cass. lav. 6 marzo 2003,
n. 3373) – la pretesa creditoria azionata dal ricorrente deve pertanto considerarsi prescritta
per la parte relativa al ritardo irragionevole eventualmente maturato prima del 24 luglio
2008, il che comporta che la data di decorrenza per il calcolo dell’indennizzo spettante non
potrà essere anteriore ad essa (potendo invece risultare successiva nella misura in cui si
debba ritenere, in base alle circostanze del caso concreto, che il perdurare del processo oltre
tale data sia giustificata e, quindi, ragionevole).
4. Passando dunque al merito, giova ribadire in premessa che l’art. 2 della legge 24
marzo 2001 n. 89 riconosce il diritto ad un’equa riparazione al soggetto che abbia “subito un
danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4
agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui
all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione”, il quale sancisce, appunto, il diritto di ciascuno a
ottenere che la sua causa sia decisa “equamente, pubblicamente e in un termine ragionevole”.
Per quanto concerne il concetto di “ragionevolezza”, il legislatore del 2001 tenendo
conto dei criteri già elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,
ha indicato nell’art. 2 prima menzionato alcuni parametri di riferimento, disponendo che nell’accertare
la violazione si debba tener conto: a) della complessità del caso; b) del comportamento
delle parti; c) del comportamento del giudice del procedimento; d) del comportamento
di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla sua definizione
(rientrano in tale ultima definizione, secondo la prevalente giurisprudenza di merito
formatasi sul punto, gli ausiliari del giudice, gli organi di cancelleria, altre persone cui vengano
affidati legittimamente compiti endoprocessuali).
Come detto, la legge n. 89 del 2001 non specifica il periodo di tempo massimo valicato
il quale la durata del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di
determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso e dal comportamento
delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire
alla definizione del processo.
Ai fini dell’applicazione della norma interna occorre, dunque, operare una selezione tra
i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili all’operato del giudice, sottraendo
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i primi alla durata complessiva del procedimento. Il risultato di tale sottrazione costituisce il
tempo complessivo imputabile al giudice, inteso come apparato giudiziario, vale a dire come
complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio,
in relazione al quale dovrà essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della
durata del processo. Non tutto il tempo imputabile al giudice, nel senso appena precisato, può
essere, però, considerato come eccedente la durata ragionevole. Ogni processo, infatti, anche
il più celere, ha una durata fisiologica inevitabilmente collegata allo svolgimento delle varie
fasi, delle attività che vi si compiono e degli eventuali diversi gradi di giudizio in cui si è articolato.
Affinché, nei singoli casi, i tempi possano essere considerati irragionevoli, non basta
guardare al dato relativo alla durata complessiva del processo, ma è necessario verificare di
volta in volta se essa si giustifichi in ragione delle attività processuali compiute, non rinvenendosi
d’altronde né sul piano normativo né all’interno della giurisprudenza della Corte
europea la previsione di un termine di durata media oltre il quale il periodo trascorso deve
considerarsi sempre non ragionevole (in questi termini Cass. 25 novembre 2405, n. 25008).
Appare evidente, dunque, che il concetto di “termine ragionevole” non è assoluto, ma
relativo, e che per stabilire se la durata del processo sia stata ragionevole oppure no, non si
può prescindere dalla considerazione delle circostanze del caso concreto, tenendo presente
che ciò che la legge ha inteso stigmatizzare è l’inerzia ingiustificata nella definizione dei processi,
sanzionando la responsabilità dello Stato per le carenze, non imputabili alle parti, che
si verificano nell’organizzazione del servizio dell’amministrazione della giustizia.
5. Venendo all’esame del caso di specie, rileva la Corte che, con riferimento al primo
grado, dalla documentazione in atti risulta che la causa è durata esattamente 10 anni, 1 mese
e 29 giorni, considerato l’arco di tempo intercorso tra la notifica dell’atto di citazione (23
marzo 1992) e la data di pubblicazione della sentenza (22 maggio 2002), ed ha avuto, in dettaglio,
il seguente andamento:
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- sono state dunque fissate in tutto 13 udienze;
- ne risultano tenute effettivamente 11;
- 2 udienze già fissate sono state differite d’ufficio (udienze del 11 novembre 1992 e del
17 ottobre 1996);
- per 4 volte il rinvio deve ritenersi imputabile ad attività assertiva o probatoria svolta
in udienza dalle parti e non previamente autorizzata e/o alle conseguenti richieste di rinvio
per esame e controdeduzioni (udienza del 10 giugno 1992, 24 febbraio 2000, 25 gennaio
2001, 3 maggio 2001);
- i rinvii sono sempre stati superiori a tre mesi: in 7 casi il rinvio ha superato anche i sei
mesi; in 2 casi è stato superiore ad un anno;
- si sono succeduti 6 giudici (gli ultimi dei quali, onorari).
Alla luce di tali dati non può non considerarsi, ai fini della valutazione cui è chiamato
questo Collegio, che, se da un lato, la controversia non si presentava di particolare complessità,
dall’altro, vi è stato un rallentamento del processo dovuto ai quattro rinvii ascrivibili al
comportamento delle parti, rallentando quantificabile all’incirca in un anno tenuto conto di
un arco temporale medio di tre mesi tra un’udienza e l’altra.
Se si considerano le suddette circostanze, il termine ragionevole di durata del processo
di primo grado può essere stimato nel caso concreto in quattro anni, dovendosi aggiungere
l’anno che, come detto, è imputabile al comportamento delle parti, ai tre anni che, secondo
la Corte di Strasburgo – le cui sentenze in tema di interpretazione dell’art. 6, par. 1 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pur non avendo efficacia immediatamente vincolante
per il giudice italiano, rappresentano nondimeno la prima e più importante guida
ermeneutica (Cass. 2 marzo 2004, n. 4247) – , costituiscono in astratto il termine di ordinaria
durata per una causa di media complessità.
Si ritiene, pertanto, che in relazione alla complessiva durata del primo grado di giudizio
non appare ragionevole, in quanto non giustificata, la durata di anni 6, mesi 1 e giorni 29.
Se non ci fossero stati, dunque, i disservizi e le manchevolezze dell’apparato giudiziario
la causa in primo grado si sarebbe dovuta concludere entro il mese di marzo del 1996
(ossia, come detto, a distanza di quattro anni dal suo inizio).
Da quella data in poi deve considerarsi dunque sorto il diritto all’equa riparazione per
tutta la successiva irragionevole durata del processo.
Viene però in rilievo, a questo punto, l’esaminata eccezione di prescrizione che, in
quanto fondata, per i motivi detti, deve indurre a ritenere estinto il diritto all’indennizzo per
il danno riferibile al segmento temporale collocato oltre dieci anni prima della notifica del
ricorso introduttivo, ossia compreso tra il predetto limite di ragionevole durata del processo
(marzo 1996) e la data antecedente di dieci anni quella di notifica del ricorso: 24 luglio 1998.
Ne discende, nella specie, che: a) quest’ultima sarà la data di decorrenza per il calcolo
dell’indennizzo spettante; b) la irragionevole durata rilevante (perché non “coperta” dalla
prescrizione decennale) si riduce quindi a quella di 3 anni, 11 mesi 21 giorni.
6. Per quanto riguarda il secondo grado, si ricava dalla documentazione in atti che esso è
durato esattamente 4 anni, 8 mesi e 4 giorni, considerato l’arco di tempo intercorso tra la notifica
dell’atto di appello (15 luglio 2002) e la data di pubblicazione della sentenza (19 marzo 2007).
Non risultano né sono stati dedotti particolari motivi afferenti ad attività processuali
richieste o comunque resesi necessarie ovvero dipendenti dalla natura della controversia, che
può anzi considerarsi di medio-lieve complessità, sicché il termine ragionevole di durata del
processo di secondo grado può essere stimato nel caso concreto in due anni, ossia in un termine
non superiore a quello che secondo la giurisprudenza della CEDU deve considerarsi in
astratto l’ordinaria durata per un giudizio di secondo grado, di media complessità.
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Per la parte eccedente (pari a 2 anni, 8 mesi e 4 giorni) la durata deve pertanto considerarsi
ingiustificata e fonte anch’essa, in presenza degli altri presupposti, del reclamato diritto
all’indennizzo, essendo appena il caso di segnalare che esso ovviamente si riferisce a periodo
per il quale non può considerarsi maturata, in nessuna misura, l’eccepita prescrizione.
7. A tale periodo va peraltro anche aggiunto quello intercorso tra la data di pubblicazione
della sentenza di primo grado (22 maggio 2002) e la data di proposizione del gravame (15
luglio 2002) trattandosi di fase che non può essere imputata a comportamento anomalo della
parte, costituendo invero esercizio del suo diritto costituzionalmente garantito di agire e
difendersi in giudizio e considerata peraltro nella specie la limitata estensione di tale periodo,
pienamente giustificabile dall’esigenza di esame e studio della sentenza di primo grado
e di redazione dell’atto di appello (cfr. Cass. 9 luglio 2005, n. 14477). Essa, pertanto, non
può essere detratta dalla complessiva durata del processo ai fini del calcolo di quella parte di
esso che può considerarsi ragionevole e di quella che invece tale non può considerarsi.
Occorre infatti tenere presente al riguardo che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza
europea, e, di riflesso, anche in quella nazionale, agli effetti dell’apprezzamento
del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
devesi avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino
al momento della proposizione della domanda di equa riparazione (o della cessazione del
processo de quo se anteriore), dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva
del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e
fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate, atteso che queste ineriscono
all’unico processo da considerare, secondo quanto induce a ritenere il fatto che, a norma dell’art.
4 della citata legge, ferma restando la possibilità di proporne la domanda di riparazione
durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata,
tale domanda deve essere avanzata, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui
la decisione, che conclude il procedimento stesso, è divenuta definitiva (Cass. 7 settembre
2005, n. 17838; v. anche conf. Cass. 18 febbraio 2004, n. 3143; 29 dicembre 2005, n. 28864;
10 maggio 2006, n. 10810; 6 settembre 2007, n. 18720 e altre conformi). Non considerare,
dunque, in tale calcolo il tempo occorso per lo studio della sentenza e la proposizione dell’atto
d’appello (quando, come nel caso di specie, esso è contenuto in tempi del tutto giustificabili)
significherebbe prolungare senza alcuna apprezzabile ragione il tempo di durata
ragionevole del processo quale presunto (in relazione alle fasi di giudizio – primo e secondo
grado – che qui vengono in considerazione) pari al massimo in cinque anni (3+2).
Potrebbe al più, tale intervallo, non considerarsi fonte di diritto all’indennizzo soltanto
qualora la sua durata possa ritenersi “assorbita” in quella presunta come ragionevole per la
durata del giudizio di appello (nel caso in cui, cioè, la sentenza d’appello intervenga entro il
termine di due anni dalla sentenza di primo grado). Ipotesi che però, nella specie, per quanto
detto, non ricorre.
8. In conclusione, l’indennizzo in concreto spettante al ricorrente può, nel caso di specie,
essere parametrato in riferimento ad un termine (di irragionevole durata) di complessivi
6 anni, 7 mesi e 23 giorni.
9. Il ricorrente ha chiesto il riconoscimento del danno non patrimoniale.
La domanda è fondata e merita accoglimento.
E, invero, al rilievo del Ministero resistente secondo il quale gli istanti non hanno provato
l’esistenza del tipo di danno dedotto, non può non obiettarsi che – se pur è vero che la
Suprema Corte ha ripetutamente affermato che deve essere esclusa la configurabilità di un
danno non patrimoniale in re ipsa, automaticamente e necessariamente riconducibile all’ac-
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certamento della violazione relativa alla ragionevole durata del processo – tuttavia le Sezioni
Unite della stessa Suprema Corte hanno avuto modo di precisare che “in tema di equa riparazione
ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza
normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicché, pur dovendo escludersi la
configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente
e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – il giudice, una volta accertata
e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo
secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non
patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che
facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente” (Cass., sez.
un. 26 gennaio 2004, n. 1338).
In applicazione del principio di cui sopra, nel caso di specie, non ricorrendo circostanze
concrete che facciano positivamente escludere l’esistenza del danno non patrimoniale
lamentato dal ricorrente, deve ritenersi che la durata eccessiva del processo gli abbia cagionato
quel senso di frustrazione e impotenza che, secondo l’id quod plerumque accidit, prende
qualunque cittadino, causandogli un negabile stato di stress, allorquando, per ingiustificati
ritardi e disfunzioni del servizio giustizia, non riesce a ottenere tempestivamente il riconoscimento
dei propri diritti.
Per quanto concerne 1a liquidazione di tale tipo di pregiudizio, considerate le circostanze
che caratterizzano il caso in esame e avuto riguardo, in particolare, alle cause e alla natura
del giudizio del cui ritardo qui si discute, ritiene la Corte che il danno non patrimoniale
sofferto dal ricorrente possa essere equitativamente determinato, adottando i consueti criteri
di valutazione, in € 1.000,00 per ogni anno di ritardo e, quindi, in complessivi € 6.652,05,
già calcolato con riferimento all’attualità.
10. Su tale somma decorrono gli interessi legali dalla data della domanda, in base al
principio secondo cui gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda, nonostante
il carattere di incertezza e illiquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria
(Cass. 13 aprile 2006, n. 8712).
11. Avuto riguardo al solo parziale accoglimento della domanda, ma considerato anche
il marginale peso dell’eccezione accolta nell’economia della lite, equo appare compensare
tra le parti le spese processuali in ragione di un quarto e condannare l’Amministrazione resistente
alla rifusione della restante parte, liquidate come da dispositivo e da distrarsi in favore
del procuratore antistatario.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, visto l’art. 3 della legge 24 marzo 2001 n. 89,
accoglie per quanta di ragione la domanda proposta da C.M. con ricorso depositato in data
8 novembre 2007 e, per l’effetto:
1) condanna il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento
in favore del ricorrente, della somma di € 6.652,05, con gli interessi legali dalla data
della domanda e sino all’effettivo pagamento;
2) compensa per un quarto tra le parti le spese processuali, condannando il predetto
Ministero al pagamento, in favore del procuratore antistatario, Avv. Mario Intilisano, della
restante parte (…).
Così deciso in Reggio Calabria nella Camera di Consiglio del 30 ottobre 2008».
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Dossier
Sul recupero dei benefici previdenziali
post-sisma
(Corte d’Appello di Campobasso, sentenza 28 marzo 2008 n. 74; Corte costituzionale,
sentenza 1 agosto 2008 n. 325)
La sentenza della Corte costituzionale n. 325/2008 è intervenuta sulla
delicata materia degli ausili pubblici connessi con gli eventi sismici che nei
più recenti anni hanno interessato le regioni Molise e Puglia, fornendo un
chiaro ausilio interpretativo per la lettura del quadro normativo dettato in
materia emergenziale.
Afronte del sisma sono state infatti adottate numerose disposizioni emergenziali,
fra le quali l’art. 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei
Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002 ha disposto che “Nei confronti dei
soggetti residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi
sismici iniziati il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui al D.P.C.M. 31 ottobre
2002 e al D.P.C.M. 8 novembre 2002 sono sospesi, fino al 31 marzo 2003, i
versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e dei premi per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali,
ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con
contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Per lo stesso periodo
sono sospesi i termini per l’effettuazione degli adempimenti connessi al versamento
dei contributi di cui sopra”, disposizione poi prorogata con successivi
provvedimenti fino al dicembre 2005.
In merito alla riferita norma erano state fornite divergenti letture in ordine
all’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione che hanno originato un
contenzioso di rilevante portata numerica azionato dai pubblici dipendenti e
diretto a veder loro riconosciuti i richiamati benefici, consistenti in un “rinvio”
del versamento degli oneri previdenziali. A tale posizione si contrapponeva
quella dell’amministrazione volta a disconoscere le pretese sulla base
della ritenuta inapplicabilità dei benefici ai datori di lavoro pubblici. Si era
infatti evidenziato che la disposizione non è diretta a creare condizioni individuali
di temporaneo arricchimento, bensì ad alleviare gli oneri sociali gravanti
sugli operatori economici privati, onde consentire l’abbreviazione dei
tempi di ripresa della produzione di valore aggiunto.
Nelle more della definizione dei processi è quindi intervenuto, quale
norma di interpretazione autentica, l’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006
n. 263, inserito dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, il quale
dispone che “La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che
le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio
della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali
e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro pri-
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 213
vati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di
protezione civile”.
Proprio tale norma, che chiariva la correttezza della lettura operata dall’amministrazione
lì dove si era dedotta l’inapplicabilità del beneficio ai lavoratori
dipendenti da datori pubblici, è stata oggetto di dubbi di compatibilità
con il dettato costituzionale, risolti dalla Consulta con la richiamata sentenza.
Nell’attesa delle prime pronunce della Cassazione sulla materia, è assai
significativo che la Corte, al fine di valutare la costituzionalità della norma,
abbia fornito un rilevante ausilio interpretativo affermando, sulla scorta di
quanto dedotto dalla difesa erariale, che “la limitazione del beneficio ai soli
datori di lavoro non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale e
previdenziale che pone a carico del datore di lavoro l’onere del versamento
contributivo anche per la quota a carico del lavoratore. Per altro verso, corrisponde
ad un principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità
del legislatore la scelta di limitare il beneficio della sospensione del versamento
contributivo ai soli datori di lavoro del settore privato. Questi ultimi,
infatti, a differenza delle amministrazioni pubbliche, spesso non dispongono
di sufficienti risorse e di idonea capacità organizzativa per fronteggiare in
modo adeguato emergenze come quelle originate dall’evento sismico”.
Avv. Stefano Varone(*)
Corte d’Appello di Campobasso, sentenza 28 marzo 2008 n. 74 – Pres. D. Gentile –
Rel. V. Pupilella – Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Avvocatura distrettuale dello
Stato di Campobasso) c/ C.G. (Avv. M. Di Niro).
Sospensione versamento contributi previdenziali.
«(…) Fatto e Diritto
Con sentenza del 29 giugno 2006 il Tribunale di Campobasso, in funzione di giudice
del lavoro, ha respinto la opposizione proposta dal Ministero odierno appellante avverso il
d.i. ottenuto dal pubblico impiegato appellato per il rimborso di contributi previdenziali
mensili relativi all’anno 2005 – rimborso richiesto perché il versamento dei contributi stessi
era ancora sospeso, giusta la normativa emergenziale (per calamità naturale) emessa in favore
della provincia di Campobasso.
Il Tribunale, con la impugnata sentenza, ha osservato che beneficiari della sospensione
di cui trattasi sono altresì i lavoratori, relativamente alla loro quota di contribuzione previdenziale
– onde rendere maggiore la capacità di consumo e favorire la ripresa economica –,
e compresi quelli non legati da rapporto di lavoro con aziende private nonché che comunque
prestavano lavoro nella zona colpita da calamità naturale.
Il soccombente Ministero ha proposto argomentato appello per la riforma della predetta
sentenza.
Al gravame resiste l’appellato.
Rileva la Corte che la impugnazione non può avere esito positivo.
(*)Avvocato dello Stato.
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Deduce l’appellante che ha errato il primo giudice nel riconoscere la operatività pure
per i lavoratori dipendenti pubblici della sospensione di versamento di contributi previdenziali:
ma, in effetti, ad avviso di questo Collegio, è condivisibile la indicazione del Tribunale
di essere la sospensione de qua diretta altresì alla suddetta categoria di lavoratori, poiché evidentemente
anche questi ultimi sono stati colpiti dal disagio conseguente agli eventi calamitosi
(e hanno contribuzione previdenziale a loro carico, a cui sintomaticamente la stessa
norma non manca di fare riferimento). D’altronde, se scopo della sospensione di cui trattasi
è quello di consentire una rapida ripresa delle attività economico-produttive, non v’è chi non
veda che va sostenuta pure la pronta e ampia ripresa dei consumi, attraverso il temporaneo
maggior ammontare delle retribuzioni.
Rileva, poi, la Corte che, contrariamente a quanto dedotto dall’impugnante, neanche può
avere rilievo, nel presente caso, l’ordinanza Pres. Cons. Min. del 10 giugno 2005, siccome non
attiene al territorio della provincia di Campobasso, e peraltro introducendo in materia un limite
soggettivo nuovo relativamente ai datori di lavoro – qual è la riferibilità del beneficio in
parola solo ai datori di lavoro privati – . Parimenti non appare avere qui applicabilità il D.L.
263/06, conv. in legge 290/06 – laddove si è inteso interpretare autenticamente la legge 225/92
prevedendo che le ordinanze emergenziali di sospensione di versamento di contributi previdenziali
ivi contemplate sono dirette ai privati datori di lavoro –, norma a cui pure si è richiamato
l’impugnante, e ciò per l’assorbente motivo che l’ord. P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002,
che ha inizialmente ammesso la sospensione più volte menzionata, risulta emanata anche in
base al D.L. 245/02, conv. in legge 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto benefici
emergenziali (da stabilirsi d’intesa con la Regione ed ai sensi della legge 225/92) e non è
interessata dalla interpretazione autentica succitata, e peraltro è interpretazione concernente la
posizione (contributiva) dei datori di lavoro; le proroghe fino al 31 dicembre 2005 del beneficio
de quo, poi, sono da correlare appunto alla detta iniziale ordinanza presidenziale (cfr. ord.
P.C.M. n. 3300 del 2003 e ord. P.C.M. n. 3344 del 2004, e la proroga dei “termini” indicata nei
detti provvedimenti evidentemente e logicamente è riferita pure ai versamenti, com’è dato ricavare
anche dalla incontestata sua concreta esecuzione avutasi nel tempo).
Osserva, inoltre, la Corte, in ordine alle altre deduzioni dell’impugnante: che il credito
oggetto del d.i. è stato azionato dal lavoratore interessato, sicché non v’è questione in ordine a
necessità di una richiesta dello stesso (d’altronde non potrebbe non rilevare altresì il comportamento
concludente dell’interessato di accettazione dei ratei della contribuzione previdenziale
dovuta); che non v’è necessità di (prova della) residenza anagrafica del beneficiario nel territorio
considerato dalle ordinanze emergenziali di cui trattasi, perché, oltre ad essere questione
non posta in primo grado e l’essere appunto il riferimento alla residenza un ulteriore riscontro
che la sospensione concerne pure persone fisiche, vi è che la generica previsione, nella normativa
de qua, anche della “sede operativa” dei beneficiari è da interpretare quale rilievo da
assegnare altresì al luogo della operatività del soggetto debitore della contribuzione previdenziale
– atteso che i danni da calamità naturale si riflettono altresì su siffatti soggetti –.
L’appello va, quindi, respinto, con conferma della impugnata sentenza.
La peculiarità del caso fa ravvisare giusti motivi per compensare anche in questo grado
le spese di lite.
P.Q.M.
la Corte di Appello di Campobasso, in funzione di giudice del lavoro, sentiti i procuratori
costituiti e definitivamente pronunciando sull’appello proposto, avverso la sentenza del
Tribunale di Campobasso in data 29 giugno 2006 e con ricorso qui depositato il 9 marzo
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2007, da Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nei confronti di C.G., ogni contraria
istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede:
– rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza;
– compensa per intero tra le parti le spese del presente grado.
Campobasso, 20 febbraio 2008 (…)».
Corte costituzionale, sentenza 1 agosto 2008 n. 325 – Pres. F. Bile – Red. P.M.
Napolitano.
«(…) Ritenuto in fatto
1. - Con cinque ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del
2007), il Tribunale amministrativo regionale del Molise ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell’art. 6, comma 1-bis,
del decreto-legge del 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza
nel settore dei rifiuti nella regione Campania – Misure per la raccolta differenziata),
comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, «sia ove interpretato
nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare
della sospensione dei contributi, sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è
concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti
previdenziali».
Il T.A.R. del Molise ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della citata
disposizione nel corso di giudizi aventi ad oggetto l’accertamento del diritto di taluni magistrati,
in servizio presso il Tribunale di Campobasso, alla percezione della retribuzione mensile
al lordo delle ritenute e trattenute previdenziali, a far data dal novembre 2002.
L’art. 7 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri (in seguito o.P.C.m.)
del 29 novembre 2002, n. 3253 (Primi interventi urgenti diretti a fronteggiare i danni conseguenti
ai gravi eventi sismici verificatisi nel territorio delle province di Campobasso e di
Foggia ed altre misure di protezione civile), e successive proroghe, aveva previsto che – a
seguito degli eventi sismici che avevano investito la Regione Molise tra i mesi di ottobre e
novembre del 2002 – fosse sospeso l’obbligo del versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali per i soggetti residenti, aventi sede legale o operativa, alla data dei predetti
eventi calamitosi, nelle province di Campobasso e Foggia, disponendo che la sospensione
dovesse essere comprensiva anche della quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di
coloro che avessero contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
Da qui i ricorsi degli interessati, secondo i quali il quadro normativo, come sopra delineato,
«evidenzierebbe la sussistenza dell’obbligo, in capo ai datori di lavoro, di sospendere
le trattenute previdenziali e assistenziali relative ai propri dipendenti, che prestano servizio
nel territorio della provincia di Campobasso».
1.2. - Il legislatore, dopo che si erano determinate diverse interpretazioni della norma
stessa – tra cui una del medesimo T.A.R. del Molise (sentenza del 29 aprile 2006, n. 400) – è
intervenuto con la legge 16 dicembre 2006, n. 290, che ha convertito in legge il d.l. n. 263 del
2006, introducendo all’art. 6 il comma 1-bis che recita testualmente: «La legge 24 febbraio
1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile
che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed
assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati
aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile».
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Il giudice a quo, ritenuta la natura interpretativa di questo intervento, solleva questione
di legittimità costituzionale del citato 1-bis «sia ove interpretato nel senso di conferire
solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare della sospensione dei
contributi, sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio
di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali».
Secondo il rimettente, la prima lettura violerebbe l’art. 3 Cost. per l’irragionevole
disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra i dipendenti del settore privato e
quelli del settore pubblico; la seconda lettura sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., «per
ingiustificata esclusione dal godimento dei benefici emergenziali dei lavoratori dipendenti,
anch’essi pregiudicati dalle conseguenze del sisma ed anch’essi destinatari su un piano generale
degli interventi in parola», sia con l’art. 3 Cost., «per irragionevole disparità di trattamento
tra datori di lavoro e lavoratori», in quanto la calamità naturale avrebbe «inciso in
ugual misura su entrambe le categorie di soggetti», ma soltanto i primi «beneficerebbero
della sospensione del versamento della propria quota di contribuzione».
Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente osserva come la stessa sussista poiché
«solo attraverso l’eliminazione della norma sospettata di incostituzionalità, i ricorrenti, lavoratori
dipendenti del settore pubblico e residenti «in un Comune molisano individuato da
ordinanza della protezione civile, potrebbe[ro] continuare a percepire la propria retribuzione
al lordo della quota di contribuzione».
2. - È intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale
sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
2.1. - L’Avvocatura dello Stato ritiene, anzitutto, che sussistano gli estremi per la declaratoria
di inammissibilità, in quanto la questione di legittimità costituzionale della norma
censurata è avanzata «sotto due diverse chiavi di lettura della medesima», non consentendo,
pertanto, l’identificazione del thema decidendum.
Infatti, l’ordinanza del T.A.R. del Molise si fonda su interpretazioni contrapposte della
norma applicabile e non opera una scelta tra contenuti normativi che pur risultando diversi
sono prospettati contestualmente, senza alcuna subordinazione dell’uno rispetto all’altro.
La difesa erariale ritiene, altresì, che sussista un altro motivo di inammissibilità, perché
si propone alla Corte una mera questione interpretativa che, per pacifica giurisprudenza,
non è ammissibile in sede di giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
2.2. - Nel merito, osserva, poi, l’Avvocatura che la norma sospettata di incostituzionalità
è rivolta, inequivocabilmente, «direttamente ed in primo luogo ai datori di lavoro e non
ai lavoratori», datori di lavoro i quali «non possono che essere quelli privati».
La ratio dell’intervento, infatti, è quella di tutelare la produzione di beni e servizi e l’intermediazione
economica; in altri termini, il legislatore guarda «al settore economico privato,
non certo all’attività della P.A.».
Per rilanciare il sistema produttivo, secondo la prospettazione dell’Avvocatura, si utilizza
lo strumento nella sospensione di un obbligo contributivo particolarmente gravoso per
i datori di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di «investire in misura maggiore» in
una situazione di emergenza determinata dal sisma.
Se questa è la ratio posta alla base della scelta legislativa, osserva ancora l’Avvocatura,
ha rilievo marginale l’effetto che la stessa determina anche in favore dei soli lavoratori privati,
considerato tra l’altro che la quota di contribuzione dagli stessi dovuta (e normalmente
prelevata dal datore di lavoro nella sua qualità di sostituto) è modesta e la maggior retribuzione
è comunque fiscalizzata. D’altro canto, che non sia questo ultimo effetto quello volu-
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to dal legislatore (ma solo una conseguenza della ratio della norma che è di incentivare la
produzione economica), lo confermerebbe il rilievo che se il rilancio di un territorio, gravemente
colpito da una calamità naturale, fosse affidato ad un’azione finalizzata «a garantire
maggior liquidità ai lavoratori della zona terremotata», questa sarebbe «una misura dalla portata
economicamente debole e soprattutto poco lungimirante».
In relazione a quanto sopra, la difesa erariale conclude per la manifesta infondatezza
della questione con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
2.3. - Ugualmente manifestamente infondata sarebbe la denunciata disparità di trattamento
tra lavoratori pubblici e privati, in quanto il confronto sarebbe condotto rispetto a
situazioni del tutto disomogenee. In proposito l’Avvocatura osserva che è sufficiente considerare
che la pubblica amministrazione non ha fini lucrativi e la prestazione di lavoro si svolge
secondo regole e parametri sui quali sono ininfluenti i fenomeni naturali e le condizioni
ambientali eccezionali. Tutto al contrario, il datore di lavoro privato, che opera in un determinato
territorio, è significativamente esposto a tutti quegli accadimenti che incidono sulla
dimensione organizzativa dell’impresa e sulla possibilità di un suo esercizio caratterizzato
da rigorosi parametri economici.
Ne discende, quindi, oltre alla disomogeneità delle posizioni poste a confronto, l’assoluta
ragionevolezza di una scelta legislativa che limiti il beneficio ai soli datori di lavoro privati
i quali, a differenza della pubblica amministrazione, non sempre dispongono di una
capacità organizzativa e di risorse idonee a fronteggiare in modo adeguato le situazioni di
emergenza originate da un evento sismico.
Infine, per l’Avvocatura, l’ordinanza di rimessione cerca di ottenere dalla Corte un vero
e proprio intervento manipolativo o additivo, finalizzato a creare una norma che non è presente
nell’ordinamento.
3. - Nel procedimento r.o. n. 687 del 2007 si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo,
il quale, riservandosi ulteriori argomentazioni e deduzioni, ha concluso per l’accoglimento
della questione.
3.1. - In prossimità della data di udienza, la costituita parte privata, sciogliendo la riserva
precedentemente formulata, ha depositato memoria illustrativa. In essa, ricostruita brevemente
la vicenda normativa che ha portato all’adozione della disposizione censurata, afferma
che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, la stessa non avrebbe natura «propriamente
» interpretativa, ma innovativa con effetto retroattivo. Al riguardo osserva che la
giurisprudenza costituzionale, anche recentemente (sentenza n. 170 del 2008), riconosce al
legislatore la possibilità di emanare norme che precisino il significato di preesistenti disposizioni
anche nel caso che non siano insorti contrasti giurisprudenziali, «ma sussista comunque
una situazione di incertezza nella loro applicazione». Nel caso di specie, però, non sarebbero
esistiti contrasti interpretativi da dirimere; così come, parimenti, non vi sarebbero incertezze
interpretative quanto alla disciplina preesistente, essendo la stessa così lineare da potersi
prestare ad un’unica lettura.
Inoltre, sempre secondo la parte privata, la cosiddetta norma di interpretazione autentica
non svolgerebbe tale funzione con riferimento ad una legge (specificamente la legge 24
febbraio 1992, n. 225, recante «Istituzione del servizio nazionale della protezione civile»),
ma soltanto con riguardo ad ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri, dal momento
che la legge sopra richiamata, all’art. 5, si limiterebbe a prevedere il potere di ordinanza
di questo ultimo in caso di calamità naturali.
Comunque, prosegue la difesa di parte privata, anche volendo ritenere interpretativa la
norma censurata, va segnalato che le norme di interpretazione autentica, avendo come tali
efficacia retroattiva, dovrebbero essere sottoposte ad un rigoroso scrutinio di ragionevolezza.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 217
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Peraltro, la norma in questione «non potrebbe passare indenne neppure da uno scrutinio
di ragionevolezza che eventualmente fosse a maglie larghe», in quanto sarebbe priva di
giustificazioni la differenza di trattamento fra dipendenti privati e pubblici.
Viene, inoltre, sottolineato che tutta la popolazione del Molise avrebbe subito i disagi
del sisma, non essendo gli stessi riferibili ai soli lavoratori privati.
3.2. - Sostiene, infine, la parte privata, l’infondatezza dell’eccezione avanzata dalla difesa
erariale, là dove la stessa afferma l’inammissibilità della questione poiché proposta in modo
alternativo o ancipite: in realtà, l’ordinanza di rimessione avrebbe solo voluto prospettare tutti
i profili di irragionevolezza della disposizione censurata, risultando chiaro che la censura investe
solo l’irragionevole discriminazione di cui sono oggetto i dipendenti pubblici.
4. - Con successiva ordinanza del 12 dicembre 2007 (r.o. n. 54 del 2008), analoga questione
di legittimità costituzionale della medesima norma di interpretazione, in riferimento
agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, è stata sollevata dallo stesso T.A.R. del Molise, investito
del ricorso proposto da due docenti dell’Università di Campobasso volto ad accertare il
loro diritto a percepire la retribuzione al lordo delle ritenute e trattenute previdenziali, in base
a quanto disposto dall’art. 7 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3253
del 2002 e successive proroghe.
4.1. - Diversamente da quanto argomentato nelle precedenti ordinanze, il T.A.R. prospetta
ora una sola lettura della norma, in base alla quale sarebbero esclusi dal beneficio della
sospensione tutti i lavoratori, pubblici e privati. Si denuncia anche l’irragionevole disparità
di trattamento nei confronti dei lavoratori autonomi e degli «imprenditori artigiani».
La disposizione censurata violerebbe, con le identiche motivazioni di cui sopra, gli artt.
2 e 3 Cost., nonché l’art. 24 Cost. Secondo il rimettente, difatti, relativamente a questa ultima
censura, la norma interpretativa avrebbe vulnerato le prerogative del potere giurisdizionale,
essendo stata emanata «nell’intento specifico di eludere e paralizzare gli effetti delle
decisioni giurisprudenziali», che avevano riconosciuto ai lavoratori dipendenti, anche privati,
il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione.
4.2. - Il giudice a quo ritiene rilevante, ai fini della definizione del giudizio principale,
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del d.l. n. 263 del 2006, in
quanto il dettato del citato comma osta all’accoglimento delle pretese dei ricorrenti.
4.3. - In ordine, quindi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente
afferma che la norma denunciata, violando l’art. 3, primo comma, Cost., determinerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori sia pubblici che privati,
oltre che autonomi ed «imprenditori artigiani», risultando tutti, tranne i primi, esclusi dal
beneficio. Tale disparità di trattamento non troverebbe alcuna giustificazione, secondo il
rimettente, «in una diversità di situazioni di partenza, in quanto entrambi i soggetti – datore
di lavoro/lavoratore – sono stati colpiti allo stesso modo dall’evento calamitoso». Inoltre, tale
scelta del legislatore si dimostrerebbe vieppiù irrazionale, tenendo conto dell’esclusione dal
beneficio anche dei lavoratori autonomi e degli artigiani, i quali «pur essendo datori di lavoro
di se stessi, non possono nondimeno beneficiare della sospensione dei contributi previdenziali
gravanti a loro carico, in evidente contraddizione con la ratio legis volta a favorire nel
suo complesso il rilancio economico-produttivo delle zone interessate dall’evento sismico».
Quindi, la norma impugnata verrebbe a ledere anche gli artt. 2 e 3, primo e secondo
comma, Cost., in quanto essa – pur collocandosi in un contesto di benefici alle popolazioni colpite
dal sisma del 2002 – escluderebbe, ingiustificatamente, dalla possibilità di godere «delle
misure emergenziali» i lavoratori dipendenti, colpiti, anch’essi, al pari dei datori di lavoro,
dalla calamità e «anch’essi destinatari su un piano generale degli interventi in questione».
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4.4. - Il T.A.R. del Molise ravvisa, poi, anche una lesione dell’art. 24 Cost., in quanto
la norma sospettata di incostituzionalità – a fronte di un consolidato orientamento sia della
giurisprudenza amministrativa che di quella ordinaria, che aveva riconosciuto ai lavoratori
dipendenti il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione – sarebbe
stata emanata con l’intento di «paralizzare ed eludere gli effetti [di tali] decisioni giurisprudenziali,
con vulnerazione conseguente delle prerogative del potere giurisdizionale».
5. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale
sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
La difesa erariale, in particolare, afferma che la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. non
sussiste, in quanto le posizioni dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro privati, «ai fini
della prospettata ingiustificata disparità di trattamento, non sono omogenee», poiché i primi,
pur colpiti dal sisma, non sopportano le conseguenze economiche inerenti al rischio d’impresa.
La difesa pubblica sottolinea, poi, l’inammissibilità, stante la sua irrilevanza, della questione
relativa alla disparità di trattamento, là dove la stessa viene prospettata con riferimento
alla categoria dei lavoratori autonomi ed artigiani, essendo pacifico che i ricorrenti nel
giudizio a quo sono dipendenti dell’Università degli studi del Molise.
Infine, sempre con riferimento alla violazione del parametro rappresentato dall’art. 3
Cost., l’Avvocatura dello Stato evidenzia come la scelta del legislatore non possa comunque
definirsi arbitraria.
Quanto, ancora, alla violazione dell’art. 2 Cost., la questione viene ritenuta inammissibile
per carenza di supporti argomentativi.
Infine, inammissibile e, comunque, infondata è, per l’Avvocatura, la questione in riferimento
all’art. 24 Cost., perché il parametro evocato è «assolutamente inconferente».
6. - Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti nel giudizio a quo, i quali, riservandosi
ulteriori argomentazioni e deduzioni, hanno concluso per la richiesta di declaratoria di illegittimità
costituzionale della disposizione censurata.
6.1. - In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa di parte privata ha presentato una
memoria illustrativa nella quale svolge considerazioni pressoché identiche a quelle già proposte
relativamente alla precedente questione (r.o. n. 687 del 2007), sia in riferimento alla
natura della disposizione interpretata, sia con riguardo alla fondatezza della questione.
Inoltre, per quanto attiene alla violazione dell’art. 24 Cost., la parte privata contesta
l’opinione della difesa erariale che ritiene la evocazione di tale parametro inconferente, in
quanto la disposizione impugnata atterrebbe «al piano sostanziale della disciplina e dei rapporti
e non a quello processuale della tutela dei diritti», affermando che risulta evidente dalla
giurisprudenza della Corte come sia illegittima ogni disposizione normativa che intenda eludere
o paralizzare, come nel caso in questione, gli effetti delle decisioni giurisprudenziali.
Considerato in diritto.
1. - Il Tribunale regionale del Molise, con cinque distinte ordinanze di identico contenuto
(r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-
legge 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore
dei rifiuti nella regione Campania – Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto
dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290.
Il T.A.R. rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale del citato comma,
«sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il
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diritto di beneficiare della sospensione dei contributi» previdenziali e assistenziali e dei premi
assicurativi, «sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio
di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali».
Secondo la prima interpretazione, la disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 3
Cost., poiché verrebbe ad escludere irragionevolmente i dipendenti pubblici dal godimento
di tale beneficio. In base alla seconda, essa contrasterebbe con l’art. 2 Cost. «per ingiustificata
esclusione dal godimento dei benefici emergenziali dei lavoratori dipendenti, anch’essi
pregiudicati dalle conseguenze del sisma ed anch’essi destinatari su un piano generale degli
interventi in parola», e con l’art. 3 Cost., «per irragionevole disparità di trattamento tra datori
di lavoro e lavoratori» perché la calamità naturale avrebbe «inciso in ugual misura su
entrambe le categorie di soggetti», mentre soltanto i primi verrebbero a godere del benefico
in questione.
Successivamente, con altra ordinanza (r.o. n. 54 del 2008), lo stesso T.A.R. del Molise
ha nuovamente sollevato analoga questione di legittimità costituzionale della citata norma di
interpretazione autentica, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione.
Il T.A.R. rimettente, in questa ordinanza, prospetta, rispetto alle precedenti ordinanze
di rimessione, una sola lettura della norma censurata, e, pertanto, lamenta la sola irragionevole
disparità di trattamento tra datori di lavoro privati e lavoratori, siano essi pubblici o privati,
nonché nei riguardi dei lavoratori autonomi e «imprenditori artigiani».
La disposizione censurata violerebbe, con le identiche motivazioni di cui alle già citate
precedenti ordinanze, gli artt. 2 e 3 Cost., nonché l’art. 24 Cost., poiché, secondo il rimettente,
la norma interpretativa avrebbe vulnerato le prerogative del potere giurisdizionale,
essendo stata emanata «nell’intento specifico di eludere e paralizzare gli effetti delle decisioni
giurisprudenziali» che avevano riconosciuto ai lavoratori dipendenti, anche privati, il
diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione.
I giudizi, in quanto concernenti la stessa disposizione e relativi a questioni analoghe o
connesse, devono essere riuniti e decisi con unica pronuncia.
2. - Preliminarmente, deve essere dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007.
Deve, infatti, essere accolta l’eccezione, sollevata dall’Avvocatura dello Stato, relativa
alla loro prospettazione «sotto due diverse chiavi di lettura», che non consentirebbe, pertanto,
a questa Corte l’esatta identificazione del thema decidendum.
Le questioni risultano formulate in termini di alternativa irrisolta e, dunque, in forma
ancipite, non avendo operato il rimettente una scelta tra contenuti normativi che, pur risultando
diversi, sono prospettati contestualmente, senza alcuna subordinazione dell’uno rispetto
all’altro.
La proposizione di questioni di legittimità costituzionale formulate in via alternativa,
secondo giurisprudenza costituzionale costante, le rende manifestamente inammissibili (ex
plurimis ordinanze n. 449 e n. 122 del 2007; ordinanza n. 362 del 2005).
Inoltre, le questioni risultano manifestamente inammissibili anche per l’indeterminatezza
di ciò che viene richiesto a questa Corte. La dedotta violazione dell’art. 3 Cost. o, in
alternativa, degli artt. 2 e 3 Cost., è argomentata sulla base dell’asserita disparità di trattamento,
evocata ora tra lavoratori dipendenti privati e pubblici, ora tra datori di lavoro e lavoratori
privati e pubblici, senza che le ordinanze di rimessione tengano conto delle sostanziali
differenze tra i soggetti rispetto ai quali viene lamentata una disparità di regime normativo.
Poiché il giudice a quo, onde porre rimedio alla denunciata violazione dei parametri
costituzionali, non ha concentrato il quesito sull’una o sull’altra delle disparità di trattamen-
220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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to prospettate, anche le questioni sottoposte a questa Corte (oltre all’interpretazione della
disposizione legislativa che ne determinerebbe l’incostituzionalità) risultano formulate in
modo ancipite e ne deve essere, anche per questo concorrente motivo, dichiarata la manifesta
inammissibilità.
3. - Con l’ordinanza r.o. n. 54 del 2008, il rimettente propone, come si è già detto, una
sola lettura della disposizione che sospetta di incostituzionalità. E’, al riguardo, innanzitutto,
necessario precisare, con riferimento alla più ampia prospettazione formulata dalle parti
costituite, che il thema decidendum è fissato dall’ordinanza di rimessione, potendo la parte
privata addurre suoi argomenti nei confronti dei parametri e dei profili sollevati, senza però
poterne modificare l’impianto strutturale, e, con riferimento a quanto viene dedotto nell’ordinanza,
che il giudizio, dato il suo carattere incidentale, non può riguardare fattispecie non
rilevanti nel processo a quo (le quali, del resto, nelle precedenti ordinanze nn. 687, 688, 689,
690 e 691 del 2007, erano state riportate con la precisa indicazione che esse erano evocate
«ad colorandum»).
3.1. - Passando all’esame delle censure formulate dal rimettente, debbono essere
dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli
artt. 2 e 24 della Costituzione.
3.2. - Con riguardo alla violazione dell’art. 2 Cost., è, infatti, da accogliere l’eccezione
di inammissibilità avanzata dall’Avvocatura dello Stato per carenza di supporti argomentativi.
Invero il T.A.R. rimettente denuncia la violazione di questo parametro costituzionale,
lamentando l’ingiustificata esclusione dei lavoratori dipendenti dal godimento del beneficio
della sospensione dell’obbligo contributivo, sulla base del solo richiamo alla circostanza che
anch’essi risultano pregiudicati dalle conseguenze del sisma.
In proposito, l’ordinanza di rimessione non illustra in che modo si concretizzi questo
pregiudizio in relazione alla disciplina dell’adempimento contributivo che è a carico del
datore di lavoro, il quale opera anche come sostituto del lavoratore nell’adempimento dell’obbligazione
nei confronti dell’Ente previdenziale. Manca, altresì, qualsivoglia argomentazione
in ordine alla ragionevolezza o meno della distribuzione degli oneri connessi al principio
di solidarietà economica e sociale di cui è espressione il parametro evocato.
Nulla dice il rimettente anche in ordine alle ragioni per cui il legislatore avrebbe, nell’ambito
della sua ampia discrezionalità in materia, irragionevolmente distribuito gli oneri
della contribuzione previdenziale nel caso in esame. Sotto tale profilo, oltre che per carenza
nella motivazione, l’ordinanza di rimessione risulta inammissibile anche perché chiede a
questa Corte - a fronte di una fattispecie normativa che realizza un non irragionevole bilanciamento
di interessi fra i valori costituzionali in gioco - «l’adozione di un altro, diverso, criterio
di bilanciamento» sulla «base di una [.] personale sensibilità alla tematica in questione
», la «cui individuazione, nella molteplicità delle soluzioni possibili è, però, rimessa alla
prudente discrezionalità del legislatore» (ordinanza n. 393 del 2007).
In termini ancora più generali, non viene chiarito se la censura ipotizza una violazione
della parte della disposizione costituzionale che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo» o della parte in cui «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale».
3.3. - Ugualmente inammissibile – come del resto eccepito anche dalla difesa erariale
– è la censura relativa alla violazione dell’art. 24 Cost., in quanto il parametro costituzionale
invocato risulta inconferente. Il T.A.R. del Molise, infatti, non chiarisce sotto quale profilo
venga prospettata tale violazione, stante il carattere sostanziale della norma denunciata,
che si limita ad interpretare autenticamente l’ambito di applicazione della temporanea
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sospensione dell’obbligo contributivo. E’, tra l’altro, da osservare che il rimettente non contesta
la natura interpretativa della disposizione in questione.
L’inconferenza del parametro evocato è, del resto, confermata dalla circostanza che,
secondo l’ordinanza di rimessione, la sua violazione si concretizzerebbe nel fatto che la
legge d’interpretazione autentica avrebbe prospettato una lettura diversa rispetto a quella
operata dal T.A.R. rimettente e da altri giudici di merito in precedenti decisioni.
Al riguardo, anche prescindendo dalla considerazione che il tipo di censura sollevata
(nell’ordinanza si lamenta una «vulnerazione [.] delle prerogative del potere giurisdizionale
») sembrerebbe postulare una violazione degli artt. 101 e 113 Cost. più che dell’art. 24
Cost., occorre sottolineare che la costante giurisprudenza di questa Corte ha sempre affermato
che la legge di interpretazione autentica non può considerarsi lesiva dei canoni costituzionali
di ragionevolezza, e dei principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza
delle situazioni giuridiche, quando «essa si limita ad assegnare alla disposizione interpretata
un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario» (ex multis,
sentenze n. 74 del 2008; n. 234 del 2007; n. 274 del 2006).
3.4. - Non fondata è, invece, la questione di legittimità costituzionale prospettata dal
T.A.R. del Molise per violazione del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., sotto il
profilo della disparità di trattamento – relativamente al godimento del beneficio della
sospensione dei versamenti contributivi – tra datori di lavoro e lavoratori sia pubblici che
privati, oltre che nei confronti dei lavoratori autonomi ed «imprenditori artigiani».
In proposito, come afferma l’Avvocatura dello Stato, la limitazione del beneficio ai soli
datori di lavoro non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale e previdenziale che
pone a carico del datore di lavoro l’onere del versamento contributivo anche per la quota a
carico del lavoratore.
Per altro verso, corrisponde ad un principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità
del legislatore la scelta di limitare il beneficio della sospensione del versamento
contributivo ai soli datori di lavoro del settore privato. Questi ultimi, infatti, a differenza
delle amministrazioni pubbliche, spesso non dispongono di sufficienti risorse e di idonea
capacità organizzativa per fronteggiare in modo adeguato emergenze come quelle originate
dall’evento sismico.
Sempre con riferimento alla sollevata censura di disparità di trattamento, è opportuno
sottolineare che nell’ordinanza si sostiene la tesi che la norma sospettata di incostituzionalità
verrebbe a determinare una «violazione del principio di uguaglianza» non in quanto discriminerebbe
i lavoratori privati rispetto a quelli pubblici, come invece si sosteneva in una delle
due letture della disposizione impugnata nel gruppo di ordinanze di cui al precedente punto
2, ma in quanto la discriminazione si verificherebbe tra i datori di lavoro ed i lavoratori
dipendenti.
Anche tralasciando la circostanza che è improprio ravvisare (né l’ordinanza fornisce
adeguati argomenti) una disparità di trattamento in materia previdenziale tra datori di lavoro
e lavoratori dipendenti, qualunque sia la natura dei primi, perché la disciplina riferisce ai
soli datori di lavoro le obbligazioni relative ai versamenti contributivi, cosicché il lavoratore
ne è destinatario soltanto di riflesso, è tuttavia evidente che la trasparente disomogeneità
delle situazioni poste a confronto determina l’infondatezza della questione. I termini di raffronto
non presentano, infatti, aspetti di tale conformità che impongano al legislatore, pena
la violazione dell’art. 3 della Costituzione, di adottare identica disciplina.
Ne consegue che l’asserita ingiustificata disparità di trattamento non sussiste, perché
eventuali agevolazioni previste per i datori di lavoro privati ben possono, non irragionevol-
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mente, non essere estese anche ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, stante la non
omogeneità dei due termini che vengono presi a paragone.
Va, infine, affermata la carenza di rilevanza quanto all’evocata disparità di trattamento
con i lavoratori autonomi (nei confronti dei quali il Tribunale amministrativo regionale non
avrebbe avuto giurisdizione), in quanto, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, i ricorrenti
nel processo principale sono dipendenti di una pubblica amministrazione.
Per questi motivi
la Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara manifestamente inammissibile la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge 9 ottobre 2006,
n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella regione
Campania – Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione
6 dicembre 2006, n. 290, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal
Tribunale amministrativo regionale del Molise, con le ordinanze r.o. nn. 687, 688, 689, 690
e 691 del 2007;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-
bis, del decreto-legge n. 263 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 24 della
Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con l’ordinanza r.o. n. 54
del 2008;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis,
del decreto-legge n. 263 del 2006, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal
Tribunale amministrativo regionale del Molise, con l’ordinanza r.o. n. 54 del 2008.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
30 luglio 2008».
Avvocatura generale dello Stato – Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro –
Ricorso del 27 agosto 2008 per il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (cs.
27128/08, Avv. dello Stato S. Varone) c/ A.M. (Avv. V. Iacovino) per la cassazione della sentenza
della Corte di Appello di Campobasso – Sezione Lavoro n. 102/08 (R.G. 129/07) depositata
il 4 aprile 2008 e non notificata.
« (…) Fatto
Con ricorso ex art. 633 c.p.c. A.M. otteneva dal Tribunale decreto ingiuntivo – dichiarato
provvisoriamente esecutivo – con il quale veniva intimato all’Amministrazione di corrispondere
al dipendente le somme trattenute in busta paga a titolo di contributi previdenziali.
A tal fine allegava una presunta violazione dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio
dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002, la cui efficacia è stata successivamente prorogata
fino al dicembre 2005.
In particolare l’istante dichiarava di essere dipendente dell’amministrazione in epigrafe
indicata, e vantava il diritto, in quanto lavoratore della provincia di Campobasso, a fruire dei
benefici della normativa emergenziale conseguente al sisma dell’ottobre 2002. Richiamava
quindi l’art. 7 dell’O.P.C.M. 3253 del 29 novembre 2002 nella parte in cui prevede che nei confronti
dei soggetti residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi sismici iniziati
il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri
del 31 ottobre 2002 e dell’8 novembre 2002, sono sospesi i versamenti dei contributi di previdenza
e di assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e
le malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti.
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Sosteneva pertanto l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione lì dove,
mutando orientamento rispetto all’iniziale applicazione del beneficio, aveva versato all’istituto
previdenziale la quota parte di contributi previdenziali ed assistenziali dei lavoratori, omettendo
pertanto di corrisponderli direttamente ai dipendenti mediante inclusione in busta paga.
Il Tribunale, in accoglimento della pretesa monitoria, ingiungeva all’amministrazione il
pagamento delle somme trattenute a titolo di contributi previdenziali (e dall’amministrazione
già versate all’INPDAP), affermando che le stesse dovevano essere corrisposte direttamente
al lavoratore in applicazione del meccanismo di cui alla richiamata O.P.C.M.
Avverso detto decreto ingiuntivo proponeva tempestiva opposizione l’amministrazione.
Sosteneva in particolare che la sospensione dell’inclusione in busta paga delle ritenute previdenziali
risultava motivata da una rivalutazione della normativa di riferimento (art. 7
D.P.C.M. 3253/2002) e del suo ambito soggettivo di applicabilità da parte dell’INPDAP, ente
gestore degli importi previdenziali in questione.
Evidenziava in particolare che con la circolare prot. 20264 del 15 febbraio 2005 la
Direzione Generale dell’INPDAP aveva comunicato che l’Istituto previdenziale avrebbe
sospeso “la liquidazione dei rimborsi a tutti i soggetti aventi sede legale od operativa nei territori
colpiti dagli eventi calamitosi”.
Sulla base della sospensione della liquidazione dei rimborsi disposta dal soggetto gestore
dei fondi pensionistici l’Amministrazione ha sospeso la corresponsione ai lavoratori
dipendenti delle ritenute previdenziali: ciò in quanto l’ovvia conseguenza della circolare
interpretativa dell’INPDAP era l’obbligo per l’Amministrazione di versare all’Istituto i contributi,
secondo le regole ordinarie. La contemporanea corresponsione ai dipendenti degli
stessi contributi in busta paga sarebbe stata pertanto impossibile in quanto avrebbe determinato
un indebito doppio versamento da parte della medesima somma: al lavoratore e all’Ente
previdenziale.
Peraltro, al di là di detti profili, si chiariva la piena legittimità dell’operato dell’amministrazione
determinato da una rimeditazione – non affatto irragionevole – dell’ambito applicativo
delle normativa in tema di agevolazioni fiscali e previdenziali concernenti i territori
colpiti dal sisma ed in particolare sull’individuazione dei soggetti reali beneficiari del privilegio
in discussione.
Si poneva in luce pertanto l’infondatezza della pretesa azionata in via monitoria sulla
base di due differenti ragioni:
1) i datori di lavoro pubblici non sono ricompresi nell’ambito di applicabilità del beneficio.
2) l’art 7 dell’Ordinanza concerne esclusivamente l’obbligo di versamento dei contributi
previdenziali, ma non già l’obbligo imposto ai datori di lavoro di effettuare la trattenuta.
Ricostruendo la normativa di riferimento si partiva pertanto dall’esame dall’art. 7
dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002,
pubblicata sulla G.U. n. 286 del 6 dicembre 2002, ai sensi del quale: “Nei confronti dei soggetti
residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi sismici iniziati il 31
ottobre 2002 nel territorio di cui al D.P.C.M. 31 ottobre 2002 e al D.P.C.M. 8 novembre
2002 sono sospesi, fino al 31 marzo 2003, i versamenti dei contributi di previdenza e di
assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le
malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di
quelli con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Per lo stesso periodo sono
sospesi i termini per l’effettuazione degli adempimenti connessi al versamento dei contributi
di cui sopra”. Tale disposizione agevolativa risulta essere stata prorogata fino al
dicembre 2005.
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In merito a tale norma l’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti delle
Amministrazioni Pubbliche, direttamente interessato dalla disposizione della sospensione
dei versamenti contributivi, ha avuto modo di esprimersi con una serie di note informative,
indirizzate anche alle Amministrazioni dello Stato oltre che ai propri uffici territoriali, nelle
quali sono state date le prime indicazioni operative e fornite alcune precisazioni circa l’ambito
applicativo della norma medesima.
Si chiariva pertanto l’iter storico-interpretativo della norma, richiamando la nota informativa
n. 4 del 28 gennaio 2003 con cui l’INPDAP ha in un primo momento precisato che
la sospensione dei termini per il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a
causa degli eventi calamitosi opererebbe anche con riguardo alle quote previdenziali a carico
degli iscritti alla gestione, ossia del personale dipendente dei soggetti, datori di lavoro,
aventi sede legale od operativa nei territori danneggiati.
Si sottolineava poi che tale impostazione era stata successivamente rettificata con nota
n. 32 del 24 luglio 2003, ove era stato precisato che “la sospensione dei versamenti contributivi,
per esplicita previsione normativa, trova come destinatari del beneficio, anche per la
quota del personale dipendente, gli enti datori di lavoro operanti nelle province di
Campobasso e Foggia. Conseguentemente gli enti interessati, anche per il periodo di
sospensione, dovranno continuare ad operare, sulle competenze mensili, le previste ritenute
contributive”, posizione poi ribadita nella successiva nota informativa INPDAP n. 35 del 29
luglio 2003 ove si precisava che la sospensione “trova come destinatari esclusivi del beneficio,
anche per la quota a carico del personale dipendente, gli enti datori di lavoro; …. gli
enti interessati dovranno continuare ad operare, sulle competenze mensili spettanti ai dipendenti
le previste ritenute contributive, accantonandole”.
Dall’esame della normativa di riferimento e delle circolari in questione emergeva quindi
la ratio, posta a base dell’O.P.C.M., di agevolare l’imprenditore al fine di riprendere l’attività
produttiva, ratio che è comune a tutte le ordinanze emanate in seguito ad eventi calamitosi
del medesimo genus, non a caso analoghe sotto il profilo dispositivo o precettivo.
Si affermava pertanto che sfugge alla norma l’intento di attribuire un diretto beneficio
ai lavoratori dipendenti, peraltro direttamente interessati da specifici provvedimenti agevolativi
contenuti nel medesimo plesso normativo (si vedano al riguardo gli artt. 2, 3 comma 1
lett. d ed e, nonché l’art. 4 dell’ordinanza che dispongono in merito alle esigenze alloggiative
secondo un articolato e completo programma di interventi).
Non si trascurava quindi di mettere a conoscenza il giudicante che l’applicazione della
norma di cui all’art. 7 della più volte citata O.P.C.M. n. 3253/2002, nel senso prospettato
dalla parte ricorrente, venne ipotizzata dall’INPDAP (che mutava in tal modo orientamento)
solo con nota operativa n. 15 del 5 luglio 2004 allorché fu riconosciuta la possibilità di ottenere
il rimborso dei contributi eventualmente versati durante il periodo di sospensione.
Che tale interpretazione della norma in questione fosse erronea è stato tuttavia palesato
dallo stesso INPDAP che resosi conto dell’erroneità delle direttive emanate con le circolari da
ultimo richiamate, ha successivamente comunicato a tutte le Amministrazioni dello Stato di
aver sospeso la liquidazione dei rimborsi ai soggetti aventi sede legale od operativa nei territori
colpiti dagli eventi calamitosi (nota 20264 del 15 febbraio 2005 – doc. A fasc. primo grado)
A ciò si aggiungeva che una corretta interpretazione della disposizione portava ad
escludere dal suo spettro operativo i datori di lavoro pubblici.
In primo luogo il riferimento a soggetti “con sede legale od operativa” contenuto
nell’O.P.C.M. è un indice che spinge a qualificare come beneficiari della disposizione i soggetti
legati da rapporto lavorativo o di collaborazione con organismi imprenditoriali (privati);
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La ratio stessa della norma conferma inoltre l’esclusione dei datori di lavoro pubblici
dallo spettro dei beneficiari. La stessa infatti non è già diretta a creare condizioni individuali
di temporaneo arricchimento, bensì ad alleviare gli oneri sociali gravanti sugli operatori
economici, datori di lavoro privati, onde consentire con agevolazione indiretta l’abbreviazione
dei tempi di ripresa della produzione di valore aggiunto.
È evidente che le pubbliche amministrazioni sono estranee a tale logica. Tale chiave di
lettura risulta ulteriormente confermata dai ripetuti riferimenti (anche nel corpo dello stesso
art. 7; v. anche l’art. 3 ord. citata) ai datori di lavoro privati ed al sostegno delle relative attività
produttive, nonché a tematiche alternative di integrazione salariale.
Si evidenziava poi che l’esclusione dei datori di lavoro pubblici dallo spettro dei beneficiari
delle agevolazioni contributive de quibus non porta ad una disparità di trattamento fra
lavoratori dipendenti pubblici e lavoratori dipendenti privati: anche per questi ultimi infatti
una corretta interpretazione della norma -e della sua ratio diretta ad agevolare il riavvio e
l’incentivazione delle attività produttive-, conduce ad escludere che la sospensione dei versamenti
contributivi implichi che il datore di lavoro deve corrispondere gli stessi ai lavoratori
(infatti tali contributi sono diretti a finanziare l’impresa, e il lavoratore, in tale processo,
assume una posizione neutra).
L’adito Tribunale tuttavia, disattendendo le argomentazioni dell’amministrazione, rigettava
l’opposizione e confermava il decreto ingiuntivo con sentenza n. 116/06. Riteneva infatti
che la normativa emergenziale avrebbe obbligato il datore di lavoro a versare direttamente
in busta paga la quota di contributi “sospesi”, in modo da rendere maggiore la capacità di
consumo dei lavoratori delle zone colpite dal sisma. Riteneva inoltre che il beneficio in questione
riguarderebbe anche i datori di lavoro dipendenti di soggetti pubblici, senza peraltro
dilungarsi sul punto.
Avverso detta sentenza proponeva tempestivo appello l’Amministrazione riproponendo
le censure sopra evidenziate poste a fondamento dell’opposizione ed in particolare insisteva
sulla erroneità della sentenza sia nella parte in cui aveva affermato che i datori di lavoro pubblici
sono ricompresi nell’ambito di applicabilità del beneficio sia lì dove aveva disatteso le
eccezioni dell’amministrazione in merito al fatto che l’art 7 dell’Ordinanza concerne esclusivamente
l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali, ma non già l’obbligo imposto
ai datori di lavoro di effettuare la trattenuta.
Si citava a tal fine anche l’ordinanza della Presidenza del Consiglio del 10 giugno 2005
(in G.U. n. 139 del 17 giugno 2005) che in una fattispecie del tutto identica e relativa alla
provincia di Catania aveva precisato che “La sospensione dei versamenti dei contributi e
premi prevista dall’articolo 5 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29
novembre 2002, n. 3254 e successive modificazioni, si applica nei confronti dei datori di
lavoro privati aventi sede legale od operativa nei comuni di cui al comma 1”.
Si sosteneva inoltre l’erroneità della sentenza lì dove condannava l’amministrazione a
concedere il beneficio in assenza della prova (ed in presenza di una esplicita contestazione
sul punto), della residenza del ricorrente al momento del sisma e nei periodi successivi nella
zone contemplate dall’O.P.C.M. Ulteriore profilo di doglianza atteneva al fatto che la sentenza
aveva disatteso l’eccezione dell’amministrazione della mancanza di esplicita domanda
(prima della richiesta di D.I.) da parte dell’interessato di ottenere il beneficio: profilo di
rilevanza in quanto il meccanismo agevolativo è destinato ad operare solo su istanza di parte.
Nelle more del processo era poi entrato in vigore l’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre
2006 n. 263, inserito dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290 il quale dispone che
“La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinan-
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ze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi
previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai
datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze
di protezione civile”, norma prontamente richiamata in sede di appello.
La disposizione chiariva la correttezza della lettura operata dall’amministrazione lì
dove si era dedotta l’inapplicabilità del beneficio ai lavoratori dipendenti da datori pubblici.
La Corte di appello di Campobasso tuttavia, con l’impugnata sentenza, rigettava il gravame
proposto dall’amministrazione. Vi si legge che “deduce l’appellante che ha errato il
primo giudice nel riconoscere la operatività pure per i lavoratori dipendenti pubblici della
sospensione di versamento di contributi previdenziali: ma, in effetti, ad avviso di questo
Collegio, è condivisibile la indicazione del Tribunale di essere la sospensione de qua diretta
altresì alla suddetta categoria di lavoratori, poiché evidentemente anche questi ultimi
sono stati colpiti dal disagio conseguente agli eventi calamitosi (e hanno contribuzione previdenziale
a loro carico, a cui sintomaticamente la stessa norma non manca di fare riferimento).
D’altronde, se scopo della sospensione di cui trattasi è quello di consentire una
rapida ripresa delle attività economico—produttive, non v’è chi non veda che va sostenuta
pure la pronta e ampia ripresa dei consumi, attraverso il temporaneo maggior ammontare
delle retribuzioni”.
Affermava quindi la Corte che “non appare avere qui applicabilità il D.L. 263/06,
conv. in L. 290/06 — laddove si è inteso interpretare autenticamente la L. 225/92 prevedendo
che le ordinanze emergenziali di sospensione di versamento di contributi previdenziali
ivi contemplate sono dirette ai privati datori di lavoro, norma a cui pure si è richiamato
l’impugnante, e ciò per l’assorbente motivo che l’ord.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre
2002, che ha inizialmente ammesso la sospensione più volte menzionata, risulta emanata
anche in base al D.L. 245/02, conv. in L. 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto
benefici emergenziali (da stabilirsi d’intesa con la Regione ed ai sensi della L. 225/92)
e non è interessata dalla interpretazione autentica succitata, e peraltro è interpretazione
concernente la posizione (contributiva) dei datori di lavoro; le proroghe fino al 31 dicembre
2005 del beneficio de quo, poi, sono da correlare appunto alla detta iniziale ordinanza
presidenziale (cfr. ord. P.C.M. n. 3300 del 2003 e ord. P.C.M. n. 3344 del 2004, e la proroga
dei “termini” indicata nei detti provvedimenti evidentemente e logicamente è riferita
pure ai versamenti, com’è dato ricavare anche dalla incontestata sua concreta esecuzione
avutasi nel tempo)”.
Avverso della sentenza, ingiusta, erronea e lesiva degli interessi dell’Amministrazione,
il Ministero intestato propone ricorso dinanzi a codesta Corte Suprema di Cassazione affidato
ai seguenti
motivi
Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263,
convertito con modificazioni in legge 6 dicembre 2006, n. 290 in relazione all’art. 360
comma 1 n. 3 c.p.c.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della L. 24 febbraio 1992 n. 225 in combinato
con gli articoli: 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29
novembre 2002; 8 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 aprile 2003 n.
3279; 6 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 11 luglio 2003 n. 3300 e
5 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 19 marzo 2004 n. 3344 in relazione
all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
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Violazione e falsa applicazione del D.L. 4 novembre 2002 n. 245 convertito in legge,
con modificazioni, dall’art. 1, L. 27 dicembre 2002, n. 286 in relazione all’art. 360 comma
1 n. 3 c.p.c.
Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1189 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n.
3 c.p.c.
Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360,
n. 5, c.p.c.
L’impugnata sentenza ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie il D.L. 263/06, conv. in
L. 290/06, di interpretazione autentica della L. 225/92, il quale sancisce che le disposizioni
delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti
dei contributi previdenziali ed assistenziali si applicano esclusivamente ai datori di
lavoro privati. A giudizio della Corte di appello tale inapplicabilità della norma sopravvenuta
deriverebbe, “dall’assorbente motivo che l’ord. P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002, che
ha inizialmente ammesso la sospensione più volte menzionata, risulta emanata anche in
base al D.L. 245/02, conv. in L. 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto benefici
emergenziali (da stabilirsi d’intesa con la Regione ed ai sensi della L. 225/92) e non è
interessata dalla interpretazione autentica succitata”.
Tale assunto non può essere assolutamente condiviso, come si dimostrerà dall’analisi
della normativa regolante la fattispecie.
Tutte le ordinanze che hanno disposto e prorogato i benefici previdenziali in questione,
vale a dire l’ord.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 e le successive n. 3279 e 3300 del
2003 e n. 3344 del 2004 sono state infatti emanate, (come espressamente indicato nella relativa
epigrafe), ai sensi della L. 24 febbraio 1992 n. 225 ed in particolare ai sensi del relativo
articolo 5. Questo prevede la dichiarazione di stato di emergenza e il potere di ordinanza
in caso di calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono
essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari e dispone che:
“1. Al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), il Consiglio dei
ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai
sensi dell’articolo 1, comma 2, del Ministro per il coordinamento della protezione civile,
delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto
riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede
alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti.
2. Per l’attuazione degli interventi di emergenza conseguenti alla dichiarazione di cui
al comma 1, si provvede, nel quadro di quanto previsto dagli articoli 12, 13, 14, 15 e 16,
anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento giuridico.
3. Il Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo
1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, può emanare altresì
ordinanze finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose.
Le predette ordinanze sono comunicate al Presidente del Consiglio dei ministri, qualora non
siano di diretta sua emanazione.
4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo
1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, per l’attuazione degli
interventi di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, può avvalersi di commissari delegati.
Il relativo provvedimento di delega deve indicare il contenuto della delega dell’incarico, i
tempi e le modalità del suo esercizio.
5. Le ordinanze emanate in deroga alle leggi vigenti devono contenere l’indicazione
delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere motivate.
228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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6. Le ordinanze emanate ai sensi del presente articolo sono pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana, nonché trasmesse ai sindaci interessati affinché vengano
pubblicate ai sensi dell’articolo 47, comma 1, della legge 8 giugno 1990, n. 142”.
Non può pertanto dubitarsi che la norma interpretativa di cui all’art. 6 comma 2° del
D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, inserito dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, il
quale dispone che “La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni
delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei
versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano
esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati
da ordinanze di protezione civile” si applichi all’O.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre
2002 e alle successive ordinanze di proroga, le quali tutte trovano la loro fonte e legittimazione
nel richiamato art. 5 della L. 24 febbraio 1992 n. 225, con la conseguenza che l’applicazione
del beneficio anche ai datori di lavoro pubblici, affermata dalla Corte di appello
appare completamente erronea.
Né il riferimento alla L. 27 dicembre 2002, n. 286, contenuto nell’impugnata sentenza,
assume rilievo alcuno per escludere l’applicazione alla fattispecie della citata norma interpretativa.
A giudizio della Corte di appello, sul presupposto che l’ord.P.C.M. n. 3253 del 29
novembre 2002 “risulta emanata anche in base al D.L. 245/02, conv. in L. 286/02, legislazione
che ha in via autonoma disposto benefici emergenziali” la stessa non sarebbe interessata
dalla interpretazione autentica succitata.
Tale lettura non può essere in alcun modo condivisa. Il D.L. 4 novembre 2002 n. 245
convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, L. 27 dicembre 2002, n. 286 (Interventi
urgenti a favore delle popolazioni colpite dalle calamità naturali nelle regioni Molise, Sicilia
e Puglia, nonché ulteriori disposizioni in materia di protezione civile) non prevede infatti in
modo alcuno un potere autonomo di emettere ordinanze di necessità ed urgenza, in quanto
la fonte normativa del potere di ordinanza (e la relativa disciplina) vanno sempre rinvenuti
nella l. 24 febbraio 1992, n. 225.
Inequivoco è a tal fine il dato che l’Ordinanza n. 3253 del 29 novembre 2002 e le successive
ordinanze di proroga sono tutte Ordinanze emesse dal Presidente del Consiglio dei
Ministri e che l’art. 2 D.L. 4 novembre 2002 n. 245 , dopo aver previsto che “il Capo del
Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per il perseguimento
degli obiettivi di cui al presente decreto, agisce con i poteri di cui al comma 2
dell’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, adottando gli indispensabili provvedimenti
per assicurare ogni forma di tutela agli interessi pubblici primari delle popolazioni
interessate e il concorso immediato delle amministrazioni e degli enti pubblici, nonché di
ogni altra istituzione, organizzazione e soggetto privato, il cui apporto possa comunque
risultare utile per il perseguimento degli interessi pubblici, assumendo altresì ogni ulteriore
determinazione per il soccorso e l’assistenza alle popolazioni interessate”, prevede al
comma 2° (richiamato nell’epigrafe dell’OPCM 3253/2002) che “Con successive ordinanze
di protezione civile adottate dal Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’articolo
5, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, in relazione alle quali l’intesa regionale
relativa all’impianto generale del provvedimento ed alla tipologia delle iniziative di soccorso
ivi previste è rilasciata entro quarantotto ore dalla richiesta, si provvede alla disciplina
ed alla definizione delle modalità degli interventi di emergenza, a valere sulle risorse di cui
all’articolo 5 del presente decreto, nonché su quelle eventualmente individuate nelle stesse
ordinanze di protezione civile”.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 229
03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 229
Ne deriva che tutte le ordinanze contingibili ed urgenti emesse nel quadro del D.L. 4
novembre 2002 n. 245 convertito in legge 27 dicembre 2002, n. 286 sono emanate ai sensi
dell’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e pertanto alle stesse si applica la norma
di interpretazione autentica di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv.,
in l. 6 dicembre 2006, n. 290
Le ordinanze in questione sono d’altronde provvedimenti suscettibili di introdurre una
disciplina divergente dall’ordine normativo posto da disposizioni primarie e, come confermato
dalla Cassazione (ex plurimis Sez. Unite, sent. n. 4813 del 7 marzo 2006) “pur non
avendo valore di legge, sono nel loro ambito indipendenti e, nel loro contenuto, soggette solo
alla Costituzione ed ai principi generali dell’ordinamento, e non sono vincolate da altre
norme preesistenti che non siano quelle espressamente indicate dalla fonte da cui traggono
origine”. Che la fonte normativa delle ordinanze in questione sia da rinvenire nell’art. 5
della legge 24 febbraio 1992, n. 225, oltre che dall’espresso richiamo contenuto nel testo
delle medesime, risulta pertanto evidente se si considera che le stesse apportano una deroga
all’applicazione della normativa di livello primario (quale è quella che prevede termini
modalità e contenuti del versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro),
deroga che sarebbe inammissibile se non operata per mezzo di una ordinanza emergenziale
adottata ai sensi della legge n. 225/1992.
La ratio della norma di cui al l’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv.
in l. 6 dicembre 2006, n. 290, espressamente qualificatasi come interpretativa (e quindi
applicabile a tutte le ordinanze emesse sulla base della l. 225/1992) è d’altronde chiarissima
nell’escludere letture, quali quella proposta dall’impugnata sentenza, che vadano ad
ampliare lo spettro dei beneficiari fino ad includervi anche i datori di lavoro privati e i relativi
dipendenti.
Non sembra poi, al di là della espressa qualificazione della norma, che possa mettersi
in dubbio la sua reale natura interpretativa: la stessa interviene infatti in un ambito caratterizzato
da difformi e contrapposte letture palesate dalle contraddittorie circolari
dell’INPDAP ed evidenziate dalla difesa erariale. Fin dall’atto di opposizione si era infatti
evidenziato che l’Ord. P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 prevede, a carico dei soggetti
residenti o aventi sede legale od operativa nei comuni interessati dal sisma, la sospensione
dei versamenti dei contributi di previdenza sia per la quota a carico degli enti datori di lavoro
che per quella a carico dei lavoratori dipendenti, facendo, quindi, riferimento al momento
del pagamento, inteso come fase conclusiva del ciclo della spesa, anziché a quello della
effettuazione della trattenuta o dell’accantonamento. Dal che la necessità da parte del soggetto
datore di lavoro di effettuare la trattenuta in busta paga, salvo non effettuare il versamento
all’Ente Previdenziale per finanziare temporaneamente l’impresa al fine del recupero
dell’attività produttiva, ipoteticamente compromessa dall’evento sismico. Finalità di finanziamento
che evidentemente non può adattarsi ad un soggetto pubblico quale un Ministero.
La norma di cui al citato art. 7 dell’O.P.C.M. 3253/2002 non è d’altronde diretta a creare
condizioni individuali di temporaneo arricchimento, bensì ad alleviare gli oneri sociali
gravanti sugli operatori economici privati, onde consentire, con agevolazione indiretta, l’abbreviazione
dei tempi di ripresa della produzione di valore aggiunto, ed è evidente che le
pubbliche amministrazioni sono estranee a tale logica.
A ciò va aggiunto che tale chiave di lettura risulta confermata dai ripetuti riferimenti
(nel corpo dello stesso art. 7 e nell’art. l’art. 3 dell’ordinanza citata) ai datori di lavoro privati
ed al sostegno delle relative attività produttive, nonché a tematiche alternative di integrazione
salariale.
230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Né una tale disposizione è diretta ad introdurre ingiustificate differenziazioni fra datori
di lavoro pubblici e privati che possano far dubitare della relativa costituzionalità. Al di là
della ragionevolezza di discipline differenziate concernenti i pubblici dipendenti (Corte
costituzionale, sentenza n. 367 del 2006, nonché da ultimo sentenza 16 maggio 2008 n. 146),
resta il fatto che anche per i dipendenti privati una corretta interpretazione della norma –e
della sua ratio diretta ad agevolare il riavvio e l’incentivazione delle attività produttive-, conduce
ad escludere che la sospensione dei versamenti contributivi implichi la loro diretta corresponsione
ai lavoratori (infatti tali contributi sono diretti a finanziare l’impresa, e il lavoratore,
in tale processo, assume una posizione neutra).
La norma di interpretazione autentica è d’altronde tale “quando sia diretta a chiarire il
senso di disposizioni preesistenti ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati
ragionevolmente ascrivibili alle statuizioni interpretate” (Corte cost. 5 novembre 1996, n.
386) ed è di per sé dotata di efficacia retroattiva, con la conseguenza che un rapporto svoltosi
anteriormente alla relativa entrata in vigore dovrà essere disciplinato da essa, salvo che
non si tratti di rapporti interamente esauriti, in particolare per effetto del giudicato (Cass.
677/2008), ipotesi che non ricorre certamente nel caso di specie.
Considerato pertanto che l’O.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 e le successive
ordinanze di proroga fanno espresso riferimento, quale fonte legittimante, alla legge 24 febbraio
1992, n. 225 e che quest’ultima, ai sensi della legge 6 dicembre 2006, n. 290, “si interpreta
nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio
della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei
premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale
ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile”, la sentenza impugnata
andrà cassata.
Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. si formulano, quindi, i seguenti quesiti di diritto: “Dica,
codesta Suprema Corte se, ai sensi dell’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, convertito
con modificazioni in legge 6 dicembre 2006, n. 290 l’art. 7 dell’Ordinanza del
Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002 e successive proroghe
(nella parte in cui prevede che “Nei confronti dei soggetti residenti, aventi sede legale od
operativa alla data degli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui ai decreti
del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31 ottobre 2002 e dell’8 novembre 2002, sono
sospesi, fino al 31 marzo 2003, i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza
sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali,
ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con contratto
di collaborazione coordinata e continuativa”) si applichi ai soli datori di lavoro privati,
con esclusione dei datori di lavoro pubblici e relativi dipendenti”.
“Dica altresì, codesta Suprema Corte se alle ordinanze contingibili ed urgenti emanate
nel quadro del D.L. 4 novembre 2002 n. 245 convertito in legge 27 dicembre 2002, n. 286
ed adottate ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, si applichi la norma di interpretazione
autentica di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv,. in L. 6
dicembre 2006, n. 290”.
Circa le ulteriori doglianze sopra evidenziate (Violazione e/o falsa applicazione dell’art.
1189 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Insufficiente motivazione su un punto
decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.) che si sollevano in via subordinata
si evidenzia che, indipendentemente dall’applicazione della normativa di interpretazione
autentica di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv. in L.
290/2006, la sentenza di appello risulta erronea nella parte in cui ha omesso di considerare
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 231
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l’efficacia liberatoria del versamento dei contributi previdenziali effettuato dall’Amministrazione
all’INPDAP.
A pag. 5 del ricorso in opposizione si era infatti evidenziato che con nota n. 20264 del
15 febbraio 2005 (all. A fasc. oppos.), 1’INPDAP, resosi conto dell’erroneità delle direttive
precedentemente emanate, ha comunicato a tutte le Amministrazioni dello Stato di aver
sospeso la liquidazione dei rimborsi ai soggetti aventi sede legale od operativa nei territori
colpiti dagli eventi calamitosi. Del pari nell’opposizione era chiaramente allegata la duplicità
di pagamenti che l’esecuzione del decreto ingiuntivo avrebbe comportato. A pag. 12 dell’appello
si era poi evidenziato che la sentenza di primo grado aveva omesso di considerare
che l’amministrazione si è uniformata alle istruzioni operative del soggetto legittimato,
l’INPDAP, e che pertanto in buona fede ha provveduto al versamento dell’intera quota dei
contributi previdenziali relativi ai lavoratori.
Tale profilo avrebbe dovuto indurre la corte di Appello a valutare l’applicazione dell’art.
1189 c.c. alla fattispecie, come espressamente richiesto dall’appellante, ma sotto tale
aspetto vi è totale carenza di motivazione da parte della Corte che ha omesso di valutare il
fatto, ritualmente dedotto e provato, dell’intervenuto pagamento delle somme vantate dal
lavoratore e per cui è stato successivamente emanato il decreto ingiuntivo.
Considerato pertanto che ai sensi della richiamata norma codicistica il debitore che esegue
il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche è liberato
se prova di essere stato in buona fede, e che il Ministero ha allegato e provato sia gli elementi
a dimostrazione della propria buona fede sia l’oggettiva apparenza ingenerata dalle istruzioni
INPDAP, la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere l’efficacia liberatoria del pagamento
dei contributi all’Ente previdenziale e comunque motivare espressamente su tale punto.
Tale profilo rileva sia sub specie di violazione di norma di diritto che di insufficienza della
motivazione della sentenza. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. si formula, quindi, il seguente quesito
di diritto: “Dica, codesta Suprema Corte se, ai sensi dell’art. 1189 c.c. sia liberatorio il
pagamento dei contributi previdenziali effettuato dall’amministrazione all’INPDAP sulla base
di apposita circolare dell’INPDAP medesimo in presenza di acclarata incertezza interpretativa
(dovuta a contraddittorie prese di posizione degli enti previdenziali) circa la sospensione o
meno dell’obbligo di versamento dei contributi medesimi ex art. 7 dell’Ordinanza del
Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002 e successive proroghe”.
Sempre ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., ai fini della precisazione del fatto controverso e
rilevante per il giudizio, si formula il seguente quesito “dica codesta Corte se incorra in vizio
di motivazione la sentenza che, pur in presenza della deduzione da parte dell’appellante di
specifica censura in merito alla mancata valutazione dell’efficacia liberatoria del pagamento
effettuato in buona fede dall’amministrazione all’INPDAP, sulla base di circolari emanate
da quest’ultimo, ometta totalmente di prendere posizione sul punto e sulle conseguenze
della dedotta duplicità di pagamenti in cui è incorsa l’amministrazione.
Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5,
c.p.c.
Del pari insufficiente è la motivazione della Corte in merito alle modalità operative del
meccanismo di sospensione e ritenuta dei contributi.
Non chiarisce infatti la sentenza perché, qualora si volesse ammettere che la sospensione
del versamento dei contributi ex art. 7 O.P.C.M. 3253/02 riguarda anche i dipendenti pubblici,
l’amministrazione avrebbe dovuto corrispondere gli stessi al lavoratore. Sotto tale profilo
il Giudice di Appello si limita ad affermare che “beneficiari della sospensione di cui trat-
232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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tasi sono altresì i lavoratori, relativamente alla loro quota di contribuzione previdenziale –
onde rendere maggiore la capacità di consumo e favorire la ripresa economica”.
La motivazione è apodittica e non chiarisce in modo alcuno, da un punto di vista giuridico,
perché la sospensione, oltre che alla fase di versamento, debba essere riferita anche alla
fase della “trattenuta” da parte del datore. Di quest’ultimo aspetto (trattenuta) non vi è d’altronde
traccia alcuna nell’O.P.C.M. 3253 del 29 novembre 2002 la quale si limita a prevedere
che “… sono sospesi … i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e
dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, ivi
compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con contratto di collaborazione
coordinata e continuativa...”. Si era d’altronde chiarito da parte di questa difesa
erariale, tanto in sede di opposizione quanto in appello, che la sospensione dei versamenti dei
contributi prevista dall’ordinanza fa chiaro riferimento al momento del pagamento, inteso
come fase conclusiva del ciclo della spesa, anziché a quello della effettuazione della trattenuta
o dell’accantonamento: dal che la necessità da parte del soggetto datore di lavoro di operare
la trattenuta in busta paga, salvo non effettuare il versamento all’Ente Previdenziale per
finanziare temporaneamente l’impresa (al fine del recupero dell’attività produttiva, ipoteticamente
compromessa dall’evento sismico). E proprio sotto tale aspetto si era rimarcata l’inapplicabilità
del beneficio ai datori di lavoro pubblici essendo lo stesso diretto a consentire la
rapida ripresa economica delle imprese, mentre sono altre le disposizioni della medesima
O.P.C.M. prevedono diretti benefici dei singoli lavoratori direttamente danneggiati.
La Corte avrebbe pertanto dovuto motivare esaurientemente sul perché il meccanismo
previsto dall’ordinanza si potesse interpretare anche nel senso di escludere l’obbligo del datore
di lavoro di effettuare la “trattenuta”, espressamente prevista dalla normativa vigente.
Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., si precisa che il fatto controverso e rilevante per il giudizio
è rappresentato dal seguente: se, intervenuto l’obbligo di sospendere il versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali in base all’O.P.C.M. 3253 del 29 novembre 2002, tale
sospensione si estenda anche alla autonoma fase della trattenuta da parte del datore di lavoro
della quota parte spettante al lavoratore.
Da ultimo va evidenziato che la fondatezza dei motivi di ricorso trova ulteriore conferma
nella recente sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2 agosto 2008 resa proprio
sulla legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge del 9 ottobre 2006,
n. 263, convertito il legge 6 dicembre 2006, n. 290.
In tale occasione la consulta ha affermato chiaramente la limitazione del beneficio ai soli
datori di lavoro, chiarendo che ciò non è non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale
e previdenziale che pone a carico del datore di lavoro l’onere del versamento contributivo
anche per la quota a carico del lavoratore. Ha quindi aggiunto che corrisponde ad un
principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore la scelta di limitare
il beneficio della sospensione del versamento contributivo ai soli datori di lavoro del settore
privato, confermando pertanto pienamente le censure sollevate con il presente ricorso.
In virtù di quanto sin qui esposto, dedotto ed eccepito il Ministero intestato insiste per
l’accoglimento delle seguenti
Conclusioni
“Voglia codesta Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione accogliere il presente ricorso e
per l’effetto cassare l’impugnata sentenza, con ogni conseguente statuizione in ordine a
spese, diritti ed onorari del giudizio”. (…)
Roma, 27 agosto 2008 – Avv. dello Stato Stefano Varone».
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 233
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L’ illegittimità costituzionale
della legge regionale della Lombardia n. 29/07
sul trasporto aereo
(Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 18)
La Corte costituzionale con sentenza n. 18/09, relatore Giuseppe
Tesauro, già presidente dell’Antitrust, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
della discussa legge regionale Lombarda n. 29/07 in materia di trasporto
aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuale
il cui ambito di applicazione coinvolgeva le responsabilità di governo degli
scali di Malpensa, Linate, Bergamo e Brescia.
Al riguardo, c’è da dire che il 2 dicembre 2008, nel corso dell’udienza
pubblica, l’Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Governo,
insistendo per l’accoglimento del ricorso promosso nel gennaio 2008, pur
riconoscendo, ex art. 117 della Costituzione, uno spazio legislativo concorrente
all’autonomia regionale nella materia degli aeroporti civili, ha sostenuto
con forza le ragioni dell’incostituzionalità della legge regionale lombarda.
In particolare, tenuto conto che il novellato codice della navigazione rappresenta
la “legge cornice” (cfr. art. 3, c. 7, D.Lgs. n. 96/05 s.m.i.) nel cui
ambito le regioni possono elaborare la legislazione concorrente di competenza,
la difesa erariale ha sottolineato come gli aeroporti di Malpensa, Linate e
Bergamo sono classificabili come “nodi essenziali per l’esercizio delle competenze
esclusive dello Stato” (cfr. art. 698 C.N.), rispetto ai quali le regioni
non hanno potestà per l’esercizio della legislazione concorrente.
Infatti, pur in mancanza di una identificazione degli scali di rilevanza
nazionale secondo le complesse previsioni codicistiche, l’Avvocatura erariale
ha fatto riferimento a fonti normative comunitarie, di immediata applicazione
nel nostro Paese, che fanno coincidere gli aeroporti regionali con gli
scali che sviluppano al massimo un traffico pari a 5.000.000 passeggeri
annui, soglia superata dai tre aeroporti già dall’ottobre 2008.
Per quanto concerne la questione dell’aeroporto di Brescia-Montichiari,
l’altro scalo di interesse commerciale sul quale erano rivolte le attenzioni del
legislatore regionale per il rilascio della gestione aeroportuale, l’Avvocatura
Generale dello Stato ha evidenziato come, per questo aeroporto, vale tuttora
una norma transitoria (art. 3, c. 2 D.Lgs. n. 96/05 s.m.i.) elaborata in un percorso
di leale collaborazione Stato-Regione – la revisione della parte aeronautica
del Codice della navigazione è stata definita con l’acquisizione del
parere favorevole della “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,
le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano” – che esclude la
possibilità di un intervento normativo di carattere regionale.
Poi, per quanto concerne il problema dell’interferenza della legislazione
lombarda sulle procedure di assegnazione degli slots, il rappresentante del
Governo ha espresso legittimi dubbi sul fatto che la materia della clearence
aeroportuale sia da ricomprendersi in quella degli “aeroporti civili” di cui
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all’art. 117 della Costituzione, la sola per la quale deve riconoscersi alle
regioni la potestà legislativa concorrente, nel rispetto della “legge cornice”
adottata dallo Stato con l’emanazione del D. L.vo n. 96/05 e s.m.i.
Peraltro, è stato evidenziato che, sul punto, l’art. 807 C.N. con esplicita
chiarezza prevede che “l’assegnazione delle bande orarie, negli aeroporti
coordinati, avviene in conformità delle norme comunitarie e dei relativi provvedimenti
attuativi”, escludendo ulteriori e diverse procedure.
La Corte costituzionale, assumendo la riferibilità della legislazione
regionale ai soli aeroporti coordinati della Lombardia, ha concentrato il suo
ragionamento sui regolamenti comunitari per l’assegnazione di bande orarie
(Reg. 95/93/CEE come modificato dal Reg. 793/2004/CE), desumendo “che
la disciplina da essi recata è essenzialmente volta al fine di garantire l’accesso
al mercato di tutti i vettori secondo regole trasparenti e non discriminatorie”.
Dall’esame della normativa comunitaria e di quella interna di attuazione
(art. 807 C.N.) la Corte ha quindi conclusivamente ritenuto “che la disciplina
di assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati risponde da
un lato, ad esigenze di sicurezza del traffico aereo, e, dall’altro, ad esigenze
di tutela della concorrenza, le quali corrispondono ad ambiti di competenza
esclusiva dello Stato”.
Ciò posto, la Consulta ha precisato che, come già affermato con la decisione
n. 51/08 che ha sostanzialmente respinto la questione di costituzionalità
della legge sui “requisiti di sistema”(Legge n. 248/05), la competenza
regionale concorrente nella materia controversa riguarda “le infrastrutture e
la loro collocazione sul territorio regionale”.
Al contrario, sono da ritenersi attribuite alla competenza esclusiva dello
Stato l’assegnazione delle bande orarie ed il rilascio delle concessioni, materie
che vanno oltre “la dimensione regionale” e che si riferiscono “alla sicurezza
del traffico aereo ed alla tutela della concorrenza (…) all’organizzazione
ed all’uso dello spazio aereo, peraltro in una prospettiva di coordinamento
fra più sistemi aeroportuali”.
L’apprezzata decisione della Corte costituzionale, nel delineare in modo
netto la distinzione degli ambiti di potestà legislativa dello Stato e delle
regioni nella materia degli “aeroporti civili”, lascia solo un dubbio nell’aver
affrontato la questione del riparto di competenze legislative con riferimento
esplicito ai soli aeroporti coordinati, mentre l’ambito di applicazione della
legge lombarda, per quanto concerne il rilascio delle concessioni di gestione
totale, era da riferirsi a tutti gli aeroporti situati nel territorio regionale ovvero
anche ad un aeroporto che coordinato non è: Brescia Montichiari.
P.D.P.
Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 18 – Pres. G.M.Flick – Red. G.
Tesauro – nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia
(Avv. B. Carovita di Toritto) 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto aereo,
coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali), promosso con ricorso
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 235
03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 235
del Presidente del Consiglio dei ministri (Avv. dello Stato P.Di Palma), notificato il 17 gennaio
2008, depositato in cancelleria il 22 gennaio 2008.
Norme impugnate: artt. 3, 4 e 9 della legge della Regione Lombardia 9 novembre 2007,
n. 29.
«(…) Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso, notificato in data 17 gennaio 2008, depositato il successivo 22 gennaio,
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, della
legge della Regione Lombardia del 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto
aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali), ed in particolare
degli artt. 3, 4 e 9.
1.1. – Il ricorrente premette che, con la legge n. 29 del 2007, la Regione Lombardia ha
dettato norme che incidono sia sull’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati,
sia sulle procedure di rilascio delle concessioni di gestione aeroportuale, in una prospettiva
di coordinamento con le politiche nazionali e comunitarie, di valorizzazione delle potenzialità
del territorio lombardo e dell’economia della Regione nonché di sostenibilità sociale
ed ambientale. Essa, infatti, attribuisce alla Regione una serie di poteri e competenze sia in
tema di coordinamento aeroportuale (poteri consultivi nei confronti del coordinatore in ordine
a decisioni inerenti all’accesso ai nodi infrastrutturali ed incidenti, fra l’altro, sull’utilizzo
della capacità aeroportuale: art. 2; poteri di concorso nella definizione dei parametri di
coordinamento: art. 4; poteri di acquisizione periodica di informazioni dal coordinatore finalizzate
a verificare che l’attività di coordinamento abbia rispettato i parametri, nonché poteri
di promozione di accordi e intese con lo Stato al fine di garantire l’adeguato coinvolgimento
regionale nelle funzioni di controllo e vigilanza dell’attività del coordinatore: art. 5; potere
di segnalazione alla Commissione Europea di eventuali violazioni delle disposizioni
comunitarie di cui sia venuta a conoscenza e di informazione delle competenti autorità
nazionali in caso di violazione dei parametri integrativi o delle regole della concorrenza: art.
6; competenze in tema di cooperazione fra sistemi aeroportuali: art. 7; poteri in materia di
ripartizione del traffico aereo: art. 8); sia in ordine al rilascio delle concessioni di gestioni
aeroportuali (prevedendo che la Regione emana proprie direttive relative alle nuove convenzioni
sottoscritte fra gestore aeroportuale ed Ente Nazionale Aviazione Civile – ENAC e che
tali direttive costituiscono linee guida vincolanti per le convenzioni tra gestore aeroportuale
ed ENAC: art. 9; che la stessa Regione «esprime, ai competenti organi statali, il proprio parere
sul rilascio definitivo della concessione, verificata la rispondenza del piano di sviluppo
aeroportuale promosso dal gestore», «con gli obiettivi del territorio regionale»: art. 10; e che
«la Giunta regionale avvia la procedura per l’adozione delle direttive relative alle convenzioni
tra gestore aeroportuale ed ENAC, di cui all’articolo 10, comma 3, entro trenta giorni
dall’entrata in vigore della presente legge»: art. 11).
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, l’ambito di operatività della citata
legge regionale sarebbe costituito da tutti gli aeroporti situati nel territorio regionale lombardo,
uniformemente considerati e disciplinati in funzione della loro qualificazione come
«nodi essenziali di una rete strategica per la mobilità, per il governo del territorio lombardo
e per l’economia intera della regione».
Essa, pertanto, recherebbe una serie di disposizioni che eccederebbero i limiti in cui
può essere legittimamente esercitata la potestà legislativa regionale concorrente in materia di
aeroporti, ponendosi in contrasto, oltre che con i vincoli derivanti dall’ordinamento comuni-
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tario – e precisamente con le norme contenute nei regolamenti 95/93/CEE (Regolamento del
Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della
Comunità) e 793/2004/CE (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica
il regolamento n. 95/93/CEE del Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione
di bande orarie negli aeroporti della Comunità) finalizzati a garantire lo sviluppo della rete
trans-europea dei trasporti, a tutela della concorrenza – anche con i principi e le regole costituzionalmente
riservate alla competenza dello Stato, contenuti nel decreto legislativo 9 maggio
2005, n. 96 (Revisione della parte aeronautica del Codice della navigazione, a norma dell’articolo
2 della legge 9 novembre 2004, n. 265), e nel decreto legislativo 4 ottobre 2007, n.
172 (Disciplina sanzionatoria in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti italiani
relativamente alle norme comuni stabilite dal regolamento CE n. 793/2004 che modifica
il regolamento CEE n. 95/93 in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti
comunitari), in una prospettiva sottesa alla unitaria valutazione e tutela di interessi di rilievo
nazionale che trascendono la mera dimensione regionale.
1.2. – Il ricorrente censura, in modo particolare, l’art. 3 della legge regionale n. 29 del
2007, nella parte in cui prevede che la Regione nomini una propria rappresentanza nel comitato
di coordinamento degli aeroporti e nella parte in cui determina un rafforzamento della
posizione del rappresentante regionale (commi 3 e 4). Tale norma violerebbe il disposto dell’art.
5, comma 1, del suindicato regolamento comunitario n. 95/93/CE che, tra i soggetti
ammessi a partecipare a tale strumento consultivo, non inserisce rappresentanti del governo
regionale o locale, e, nella parte in cui determina un rafforzamento della posizione del rappresentante
regionale (commi 3 e 4), contrasterebbe con il predetto regolamento che, invece,
non prevede nella composizione del comitato di coordinamento la prevalenza di alcuni
membri rispetto ad altri.
Viene, altresì, impugnato l’art. 4 della medesima legge regionale sotto svariati profili.
In particolare, il ricorrente sostiene che detta norma, nella parte in cui (comma 2) attribuisce
alla Regione – in riferimento all’obbligo di garantire il perseguimento anche degli interessi
regionali in sede di fissazione dei criteri di assegnazione delle bande orarie – il compito di
concorrere a definire i parametri di coordinamento, contrasterebbe con l’art. 6 del regolamento
793/2004/CEE che, invece, attribuisce tale ruolo allo Stato membro, e con l’art. 3 del
D.Lgs. n. 172 del 2007 che istituisce un organismo nazionale, l’ENAC, chiamato a fissare i
parametri di coordinamento, in quanto responsabile dell’applicazione del citato regolamento.
Il predetto articolo violerebbe altresì il principio generale posto dal legislatore statale
all’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007, nella parte in cui (comma 2, lettera e) attribuisce alla
Regione il compito di prevedere sanzioni a carico del vettore, compito viceversa assegnato
dalla normativa statale all’ENAC. Esso, infine, contrasterebbe con l’art. 4, comma 5, del
regolamento comunitario n. 793/2004, che definisce il coordinatore come unico responsabile
dell’assegnazione delle bande orarie allo scopo di garantirne la neutralità e l’indipendenza,
nella parte in cui (comma 4) prescrive che, in caso di mancato rispetto dei parametri definiti
dagli organi regionali, la Regione possa diffidare il coordinatore e possa proporne la
revoca, in difformità peraltro anche con l’art. 8, comma 5, del predetto regolamento, che stabilisce
che il coordinatore può tener conto anche delle direttrici locali purché non ostino
all’indipendenza del coordinatore stesso, siano conformi alla normativa comunitaria e siano
finalizzate ad un utilizzo più efficiente della capacità dell’aeroporto.
Per le ragioni suddette, la disposizione in esame violerebbe anche l’art. 117, secondo
comma, lettera h), della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza legislativa in
materia di sicurezza, dal momento che la determinazione della banda oraria non può essere
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condizionata da interessi locali, ma concerne la sicurezza, l’efficienza e la regolamentazione
tecnica del trasporto aereo di stretta competenza dell’ENAC.
Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, infine, l’art. 9 della legge regionale n.
29 del 2007, nella parte in cui, disciplinando le concessioni di gestione aeroportuale, si porrebbe
in contrasto con l’art. 704 del codice della navigazione, in quanto prescrive che la
Regione emani proprie direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale
ed ENAC (comma 3) e che tali direttive costituiscono linee guida vincolanti per le
convenzioni tra gestore aeroportuale ed ENAC (comma 4), laddove, invece, il citato art. 704
del codice della navigazione attribuisce al Ministero dei trasporti la competenza a rilasciare
il titolo concessorio della gestione degli aeroporti e dei sistemi aeroportuali di rilevanza
nazionale e all’ENAC la stipulazione della relativa previa convenzione nel rispetto delle
direttive del Ministero dei trasporti, prevedendo un ruolo meramente consultivo della
Regione nel cui territorio ricade l’aeroporto oggetto di concessione.
In conclusione, il ricorrente osserva che l’intero impianto della legge regionale n. 29
del 2007 «appare strutturato in funzione dell’esercizio da parte della Regione Lombardia di
poteri che l’ordinamento statale riserva unitariamente all’autorità centrale (Ministero dei
Trasporti ed ENAC), quando non risultino resi omogenei al livello europeo attraverso il
regolamento comunitario» e chiede, pertanto, di valutare se debba essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’intera legge regionale n. 29 del 2007.
2. – Con memoria depositata in data 11 febbraio 2008, si è costituita in giudizio la
Regione Lombardia, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile ed infondato il ricorso,
«previo, se del caso, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia della Comunità europea ex
art. 234 TCE relativamente al regolamento comunitario 93/95/CEE».
La resistente premette che la legge impugnata dal Governo, dettando norme in materia
di «trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestioni aeroportuali», è
riconducibile alla materia «porti ed aeroporti civili» che la legge costituzionale n. 3 del 2001
ha espressamente attribuito alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni, in
linea con la considerazione che gli aeroporti costituiscono un’infrastruttura strategica per lo
sviluppo economico della Regione e per il suo inserimento nel sistema dei trasporti, per lo
sviluppo del turismo ed in generale per l’accessibilità del territorio. Considerato che il nuovo
testo dell’art. 117 della Costituzione ha notevolmente ampliato gli spazi di autonomia regionale,
estendendo la competenza legislativa delle regioni in ordine a materie che assumono
una spiccata rilevanza non solo sul piano nazionale, ma anche su quello comunitario ed internazionale,
la Regione osserva che la dimensione ormai sovranazionale del sistema del trasporto
e, in particolare, di quello aeroportuale, mette in evidenza la necessità, da un lato, di
una legislazione statale di principio e, dall’altro, soprattutto del rispetto dei principi di sussidiarietà
e leale collaborazione fra i diversi livelli di governo, imponendo la partecipazione
della medesima Regione.
In questa prospettiva sarebbero – ad avviso della Regione – tutte infondate le censure
sollevate nei confronti delle disposizioni della legge regionale n. 29 del 2007 specificamente
impugnate.
Infatti, l’art. 3 della predetta legge regionale non sarebbe affatto in contrasto con l’art.
5 del regolamento 95/93/CEE, dal momento che anche quest’ultimo stabilirebbe che il coinvolgimento
regionale è uno strumento indispensabile per l’efficienza nella gestione aeroportuale.
Quanto alle censure sollevate nei confronti dell’art. 4, esse sarebbero tutte da rigettare,
dal momento che il richiamo alla materia della sicurezza di cui alla lettera h) del secondo
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comma dell’art. 117 della Costituzione, sarebbe, oltre che generico, inconferente, mentre
non sarebbe possibile ravvisare alcun contrasto né con le norme del regolamento comunitario
(artt. 4 e 6), né con l’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007. Infine, anche il preteso contrasto
dell’art. 9 con l’art. 704, comma 1, del codice della navigazione in tema di rilascio delle concessioni
di gestione aeroportuale dovrebbe ritenersi escluso, considerato che – con la predetta
norma – la Regione, lungi dal sostituire le competenze degli organi statali con poteri regionali,
si sarebbe limitata ad integrare ed orientare la disciplina statale verso il rispetto della
competenza legislativa concorrente prevista dalla Costituzione.
3. – All’udienza pubblica il Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito per l’accoglimento
del ricorso, sottolineando che le norme della legge regionale in esame, nel disciplinare
l’assegnazione delle bande orarie nonché il rilascio delle concessioni di gestione
aeroportuale, intervengono illegittimamente in materie che appartengono alla competenza
statale esclusiva.
La Regione ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale della
legge della Regione Lombardia 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto
aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali), e in particolare
degli artt. 3, 4 e 9, sull’assunto che esse, incidendo sia sull’assegnazione delle bande orarie
negli aeroporti coordinati, sia sulle procedure di rilascio delle concessioni di gestione aeroportuale,
complessivamente eccederebbero i limiti della competenza legislativa regionale,
ponendosi in contrasto «con i principi e le regole costituzionalmente riservate alla competenza
dello Stato», contenute nel decreto legislativo 9 maggio 2005, n. 96 (Revisione della
parte aeronautica del Codice della navigazione, a norma dell’articolo 2 della legge 9 novembre
2004, n. 265), e nel decreto legislativo 4 ottobre 2007, n. 172 (Disciplina sanzionatoria
in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti italiani relativamente alle norme
comuni stabilite dal regolamento CE n. 793/2004 che modifica il regolamento CEE n. 95/93
in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti comunitari), competenza che si
fonda sull’esigenza di unitaria valutazione e tutela di interessi di rilievo nazionale, che trascendono
la mera dimensione regionale e che ineriscono alla sicurezza del traffico aereo
nonché alla tutela della concorrenza.
Le medesime disposizioni sarebbero, inoltre, anche in contrasto con i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e precisamente con le norme contenute nei regolamenti
95/93/CEE (Regolamento del Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande
orarie negli aeroporti della Comunità) e 793/2004/CE (Regolamento del Parlamento europeo
e del Consiglio che modifica il regolamento n. 95/93/CEE del Consiglio relativo a norme
comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità), finalizzate peraltro
a garantire lo sviluppo della rete trans-europea dei trasporti, nel rispetto della concorrenza.
Il ricorrente deduce che l’intera legge reca disposizioni che – incidendo in materia di
coordinamento aeroportuale (Titolo II), di cooperazione fra sistemi aeroportuali (Titolo III),
nonché in tema di procedure di concessioni di gestioni aeroportuali (Titolo IV) – «eccedono i
limiti in cui può essere legittimamente esercitata la potestà legislativa regionale, ponendosi in
difformità e in contrasto – oltre che con i vincoli derivanti in materia dall’ordinamento comunitario
– con i principi e le regole costituzionalmente riservate alla competenza dello Stato».
In questa prospettiva, sarebbe censurabile, in modo particolare, l’art. 3 della citata
legge regionale, nelle parti in cui dispone che la Regione nomina un proprio rappresentante
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 239
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nel comitato di coordinamento degli aeroporti (comma 1); determina un rafforzamento della
posizione del rappresentante regionale in seno al predetto comitato, prevedendo l’obbligo di
motivazione da parte del coordinatore che si discosti dal parere obbligatorio del rappresentante
regionale reso su decisioni del predetto comitato che incidano direttamente su interessi
regionali e stabilendo che, qualora le predette decisioni siano difformi dagli interessi rappresentati
dalla Regione, quest’ultima possa sottoporre direttamente al coordinatore le proprie
determinazioni (commi 3 e 4).
La norma contrasterebbe anche con l’art. 5 del regolamento 95/93/CEE, il quale, tra i
soggetti ammessi a partecipare a tale strumento consultivo, non indica i rappresentanti del
governo regionale o locale, «al fine di evitare la proliferazione di normative locali, che si
oppongono al gioco della libera concorrenza», e non prevede, in relazione alla composizione
del comitato di coordinamento, la prevalenza di alcuni membri rispetto ad altri.
L’art. 4 della medesima legge regionale sarebbe costituzionalmente illegittimo nella
parte in cui riconosce alla Regione la possibilità di concorrere a definire una serie di parametri
di coordinamento nell’assegnazione delle bande orarie (comma 1), secondo precisi criteri
direttamente individuati dalla medesima norma (comma 2), prevedendo altresì che la
Regione possa diffidare il coordinatore ove quest’ultimo non rispetti i parametri indicati,
assegnando un termine entro il quale provvedere alla corretta applicazione degli stessi, e
possa anche – ove la situazione di inadempienza permanga – segnalare il fatto al Governo,
proponendo la revoca del coordinatore stesso (comma 4).
Tale norma contrasterebbe con l’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007, il quale istituisce un
organismo nazionale, l’ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile), responsabile dell’applicazione
del regolamento comunitario 793/2004/CE, competente a fissare i parametri di coordinamento
e a prevedere sanzioni a carico del vettore inadempiente. Inoltre, essa sarebbe,
comunque, lesiva della competenza esclusiva dello Stato in materia di sicurezza, dal momento
che la determinazione della banda oraria non può essere condizionata da interessi locali,
concernendo la sicurezza, l’efficienza e la regolamentazione tecnica del trasporto aereo di
stretta competenza dell’ENAC. Il predetto art. 4 contrasterebbe altresì con l’art. 6 del regolamento
793/2004/CEE, che attribuisce allo Stato membro il compito di definire i parametri
per l’assegnazione delle bande orarie e con l’art. 4, comma 5, del medesimo regolamento,
che definisce il coordinatore come unico responsabile dell’assegnazione delle bande orarie
allo scopo di garantirne la neutralità e l’indipendenza.
Analoghe censure sono proposte nei confronti dell’art. 9, impugnato nella parte in cui,
disciplinando le concessioni di gestione aeroportuale, si porrebbe in contrasto con l’art. 704
del codice della navigazione. Mentre, infatti, la citata disposizione regionale prescrive che la
Regione emani proprie direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale
ed ENAC (comma 3), che tali direttive costituiscano linee guida vincolanti per le
convenzioni tra gestore aeroportuale ed ENAC (comma 4), il citato art. 704 del codice della
navigazione attribuisce al Ministero dei trasporti la competenza a rilasciare il titolo concessorio
della gestione degli aeroporti e dei sistemi aeroportuali di rilevanza nazionale e
all’ENAC la stipulazione della relativa previa convenzione nel rispetto delle direttive del
Ministero dei trasporti, prevedendo un ruolo meramente consultivo della Regione nel cui territorio
ricade l’aeroporto oggetto di concessione.
In conclusione, il ricorrente ritiene che l’intero impianto della legge regionale n. 29 del
2007 sia finalizzato a consentire l’esercizio, da parte della Regione, di poteri riservati unitariamente
all’autorità centrale (Ministero dei Trasporti ed ENAC) in ragione del rilievo nazionale,
ove non sovranazionale, degli interessi ad essi sottesi e chiede pertanto che sia dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’intera legge regionale in esame.
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2. – In linea con quanto già affermato da questa Corte (sentenza n. 368 del 2008), devono
essere esaminate prioritariamente le censure dirette a contestare il potere della Regione di
emanare le norme impugnate, in base alle regole che disciplinano il riparto interno delle
competenze, avendo esse carattere preliminare, sotto il profilo logico-giuridico, rispetto a
quelle che ineriscono all’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
2.1. – Le predette questioni sono fondate.
Gli artt. 3, 4 e 9 della legge della Regione Lombardia n. 29 del 2007 attribuiscono alla
Regione una serie di competenze e poteri in ordine ad ambiti inerenti all’assegnazione delle
bande orarie (mediante la previsione di peculiari modalità, assistite da procedure rinforzate,
di concorso regionale alla definizione dei parametri di coordinamento, sulla cui base il coordinatore
procede all’assegnazione delle predette bande, e di specifici strumenti di controllo
del rispetto dei medesimi: artt. 3 e 4); nonché al rilascio delle concessioni di gestione degli
aeroporti “coordinati”, presenti nel territorio regionale ma non destinati ai voli di mero cabotaggio
regionale (con la previsione della partecipazione della Regione alla procedura di rilascio
delle predette concessioni realizzata mediante l’elaborazione di proprie direttive relative
alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale ed ENAC, che costituiscono
linee guida vincolanti per le medesime convenzioni: art. 9).
Le citate disposizioni sono, peraltro, strettamente ed inscindibilmente connesse con tutti
gli altri articoli della legge regionale n. 29 del 2007. Infatti, alcuni di essi espressamente rinviano
alle norme fatte oggetto di specifiche censure (artt. 5 e 6). Le altre disposizioni non specificamente
impugnate della medesima legge, pur non contenendo un richiamo espresso agli
artt. 3, 4 e 9, o ne presuppongono in ogni caso l’applicazione (artt. 2, 10 ed 11), o ne disciplinano
potenziali sviluppi applicativi (artt. 7 ed 8), o sono volte a determinare l’ambito di operatività
e la data di entrata in vigore della legge regionale in esame (artt. 1 e 12).
Per valutare le censure sollevate nei confronti della legge regionale, relativamente alla
pretesa violazione delle norme costituzionali inerenti al riparto delle competenze legislative,
occorre preliminarmente identificare la materia alla quale esse sono riconducibili, alla luce
dell’oggetto delle medesime e delle finalità perseguite dagli interventi legislativi nel cui
ambito esse si collocano, anche al fine di individuare correttamente gli interessi tutelati (sentenza
n. 165 del 2007).
Tale materia è stata oggetto di numerosi interventi normativi.
Il legislatore comunitario, dapprima con il regolamento n. 95/93/CEE del Consiglio,
poi con il regolamento n. 793/2004/CE, ha introdotto norme comuni per l’assegnazione delle
bande orarie, inerenti al permesso di utilizzare l’intera gamma di infrastrutture aeroportuali
necessarie per operare un servizio aereo ad una data e in un orario specifici, assegnati da un
coordinatore al fine dell’atterraggio e del decollo degli aeromobili. L’assegnazione riguarda
gli aeroporti comunitari cosiddetti coordinati, contraddistinti da un elevato traffico aereo e
da serie carenze di capacità, nei quali è necessario, quindi, che ai vettori sia assegnata una
banda oraria da parte di un coordinatore, sulla base dei fattori tecnici, operativi e ambientali
che incidono sulle prestazioni dell’infrastruttura aeroportuale e dei suoi vari sottosistemi
(i parametri di coordinamento). Dalla stessa formulazione testuale dei predetti regolamenti
comunitari si desume che la disciplina da essi recata è essenzialmente volta al fine di garantire
l’accesso al mercato di tutti i vettori secondo regole trasparenti, imparziali e non discriminatorie,
di promuovere un’effettiva apertura delle rotte nazionali alla concorrenza a beneficio
dell’utenza e di garantire fondamentali esigenze di sicurezza del traffico aereo, in una
prospettiva unitaria già a livello comunitario.
In attuazione della richiamata normativa comunitaria, il legislatore statale ha provveduto
a modificare la parte aeronautica del codice della navigazione, in specie con il D.Lgs. n. 96
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del 2005 (successivamente modificato dal D.Lgs. n. 151 del 2006, entrambi adottati previo
parere della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome
di Trento e di Bolzano). Si è stabilito, fra l’altro, che «la partenza e l’approdo di aeromobili
negli aeroporti coordinati, come definiti dalla normativa comunitaria, sono subordinati
all’assegnazione della corrispondente banda oraria ad opera del soggetto allo scopo designato.
L’assegnazione delle bande orarie, negli aeroporti coordinati, avviene in conformità
delle norme comunitarie e dei relativi provvedimenti attuativi […]» (art. 807 cod. nav.).
Con il successivo D.Lgs.. n 172 del 2007, il legislatore statale delegato ha ulteriormente
adeguato la normativa interna alla normativa comunitaria, in particolare sanzionatoria, ed
ha attribuito all’ENAC – già titolare delle funzioni di controllo e regolazione dell’intero sistema
aeroportuale, in base alla legge 9 novembre 2004, n. 265 (Conversione in legge, con modificazioni,
del D.L. 8 settembre 2004, n. 237, recante interventi urgenti nel settore dell’aviazione
civile. Delega al Governo per l’emanazione di disposizioni correttive ed integrative del
codice della navigazione), a fini di garanzia di adeguati livelli di sicurezza e di efficienza del
traffico aereo negli aeroporti della Comunità – il ruolo di responsabile dell’applicazione delle
norme comunitarie e dell’irrogazione delle sanzioni amministrative ivi previste.
Dall’esame della normativa comunitaria e di quella interna di attuazione emerge che la
disciplina dell’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati risponde, da un
lato, ad esigenze di sicurezza del traffico aereo, e, dall’altro, ad esigenze di tutela della concorrenza,
le quali corrispondono ad ambiti di competenza esclusiva dello Stato (art. 117,
comma secondo, lettere e) ed h), Cost).
La legge regionale impugnata nel presente giudizio, pur riguardando sotto un profilo
limitato ed in modo indiretto gli aeroporti, non può essere ricondotta alla materia «porti e
aeroporti civili», di competenza regionale concorrente. Tale materia – come questa Corte ha
già affermato (sentenza n. 51 del 2008) – riguarda le infrastrutture e la loro collocazione sul
territorio regionale, mentre la normativa impugnata attiene all’organizzazione ed all’uso
dello spazio aereo, peraltro in una prospettiva di coordinamento fra più sistemi aeroportuali.
La distribuzione delle bande orarie richiede, infatti, almeno una corrispondenza tra i due
aeroporti del volo, quello di partenza e quello di arrivo, oltre che il coordinamento dei voli
nello spazio aereo considerato.
Le norme in esame, pertanto, incidono direttamente ed immediatamente sulla disciplina
di settori (l’assegnazione delle bande orarie, il rilascio delle concessioni aeroportuali) che sono
stati oggetto dei richiamati interventi del legislatore comunitario, e poi del legislatore statale,
riconducibili alle materie sopra indicate, attribuite alla competenza esclusiva dello Stato.
Restano assorbiti gli ulteriori profili.
Per questi motivi
la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione
Lombardia 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento
aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
26 gennaio 2009 (…)».
Brevi note in margine alla discussione orale
Devo premettere che, per mia storia personale(*), ho visto e vedo con
favore il coinvolgimento delle Regioni nella gestione del sistema aeroportuale
del nostro Paese.
242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 243
È noto, infatti, che, tenuto conto dell’art. 117 della Costituzione, per
come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, sono stato il
promotore del Disegno di Legge n. 1 del 22 gennaio 2003 della Regione
Puglia per “l’affidamento alla società S.E.A.P. S.P.A. della gestione totale del
sistema aeroportuale della Regione Puglia”, pubblicando, nel 2004, il primo
volume della collana de “I quaderni dell’aviazione civile” dal titolo “Il trasporto
aereo nell’Europa delle Regioni – valorizzazione del sistema aeroportuale
italiano – la Puglia: un esempio che fa discutere” in cui si documenta
il complesso percorso burocratico amministrativo che ha portato il Governo
a riconoscere alla SEAP, solo alla vigilia dell’approvazione della citata legge
regionale (cd. Legge Fitto), la concessione quarantennale degli scali di “Bari
Palese, Brindisi Papola Casale, Taranto Grottaglie, Foggia Gino Lisa”.
Inoltre, nel maggio 2007, come Presidente del Centro Studi Demetra (1)
ho organizzato un convegno nella prestigiosa sala Vanvitelli dell’Avvocatura
Generale dello Stato sul “Trasporto aereo nell’Europa delle Regioni – il
sistema aeroportuale del Lazio” per lanciare l’idea che, nell’ambito delle
competenze regionali in materia di aeroporti civili ex art. 117 Cost, si può
realizzazione l’aeroporto a valenza regionale di Frosinone che andrebbe ad
integrare il sistema aeroportuale della Capitale. Va comunque precisato che il
predetto sistema aeroportuale ha necessità di essere riorganizzato, affiancando
a Fiumicino lo scalo di Viterbo, che, nell’ambito di una ipotesi di delocalizzazione
funzionale, è destinato a sostituire l’aeroporto di Ciampino, il cui
traffico va ridimensionato per problemi di carattere ambientale.
Ciò nonostante, nella discussione che ho svolto, in rappresentanza del
Governo, il 2 dicembre innanzi alla Corte costituzionale, ho sostenuto con
forza le ragioni dell’incostituzionalità della legge regionale Lombardia n. 29
del 9 novembre 2007 recante “Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento
aeroportuale e concessioni di gestioni aeroportuali”.
In particolare, ho richiesto la declaratoria dell’illegittimità costituzionale
della predetta legge con riferimento alle norme contenute nella parte aeronautica
del Codice della navigazione per come modificato dal D.Lgs. n.
96/05, successivamente integrato dal D.Lgs. n. 151/06 ed alle disposizioni
del Reg. (CE) n. 2408/92, oggi rinvenibili nel Reg. (CE) n. 1008/08, in materia
di accesso dei vettori aerei della Comunità alle rotte intracomunitarie.
Per completezza, è corretto evidenziare che la Regione Lombardia, nel
corso del giudizio di costituzionalità della norma regionale ha ritenuto di
affermare la compatibilità costituzionale della legge n. 29/07 sulla base del
noto principio di “leale collaborazione” di elaborazione “pretoria”, ricavabile
dalla fondamentale decisione n. 303/03 della Corte costituzionale che pretende
il necessario coordinamento dell’intervento statale con gli interventi
(*) L’Avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma ha ricoperto la carica di direttore generale
dell’ENAC.
(1) info@demetracentrostudi.it
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regionali, postulando l’ineliminabile partecipazione degli enti autonomi territoriali
nel governo delle materie di legislazione concorrente.
Inoltre, la difesa della Regione Lombardia, tenuto conto che la discussione
verteva su problematiche di derivazione comunitaria, ha altresì chiesto che
la Corte costituzionale procedesse ad un rinvio pregiudiziale innanzi alla
Corte di Giustizia della Comunità Europea (ex art. 234 TCE) affinché sia tale
Autorità a fornire l’interpretazione più adeguata in merito all’interferenza
della legge lombarda sulla corretta applicazione, in particolare, della normativa
sulla clearance aeroportuale di cui al Reg. (CEE) n. 95/93, come modificato
e integrato dal Reg. (CE) n. 793/04.
Ma valga il vero.
In sintesi, la legge regionale lombarda, sulla base di una non condivisa
tecnica legislativa con cui, ad una normativa di riferimento nazionale, si
sovrappongono procedure di pertinenza regionale appesantendo e dilatando
nel tempo i processi decisionali di un settore, l’aviazione civile, che si caratterizza
per la necessità, a volte, di provvedimenti a carattere istantaneo (ad
es. notam), tratta di clearance aeroportuale (artt. 2-8) e di concessioni di
gestione aeroportuale (artt. 9-11), con riferimento agli “aeroporti situati nel
territorio regionale” (art. 1), imponendo una disciplina di carattere territoriale
con riferimento all’assetto aeroportuale esistente.
Specificamente, l’ambito di applicazione della legge è da riferirsi alle
questioni inerenti gli aeroporti di Milano Linate, Milano Malpensa, Bergamo
Orio al Serio e Brescia Montichiari.
Detto questo, iniziando l’analisi della coerenza costituzionale di cui alle
norme in tema di concessione della gestione aeroportuale di cui agli artt. 9 e
ss. della legge regionale, è necessario osservare che il percorso di “leale collaborazione”
tra Stato e Regione di cui alla citata decisione della Corte costituzionale
n. 303/03 è stato definito dal D.Lgs. n. 96/05, con l’acquisizione,
sul testo della riforma della parte aeronautica del Codice della navigazione,
del parere favorevole della “Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano” (cfr. premessa
al D.Lgs. n. 96/05).
Ma vi è di più.
L’art. 3, c. 7, del D.Lgs. n. 96/05 prevede espressamente che “Le Regioni
disciplinano le materie di propria competenza nel rispetto dei principi desumibili
dalle disposizioni contenute nel titolo III del libro I della parte II del
codice della navigazione, come modificato dal presente articolo”.
In sostanza, la predetta disciplina è da considerarsi la “legge cornice” di
cui all’art. 117 Cost., nel cui ambito le Regioni possono elaborare la legislazione
concorrente di competenza, ivi inclusa la materia delle concessioni
aeroportuali.
Di talché, è riconosciuta dalle Regioni la distinzione tra aeroporti di rilevanza
nazionale e quelli di interesse regionale di cui agli artt. 698 e 704 cod.
nav., per come modificato dal D. L.vo n. 96/05 e dalle successive integrazioni
di cui al D. L.vo n. 151/06.
Di contro, rispetto a questa ricostruzione dell’assetto normativo di carattere
costituzionale può opporsi la mancata individuazione, ai sensi dell’art.
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698 cod. nav., de “gli aeroporti e i sistemi aeroportuali di interesse nazionale”
e la mancata costituzione del “comitato di coordinamento tecnico”, di cui
all’art. 704, c. 2, per “coordinare le politiche di sviluppo degli aeroporti di
interesse regionale” .
Sicché, in mancanza dei predetti adempimenti, non si avrebbe la cognizione
degli aeroporti da ascrivere, per legge condivisa, tra “i nodi essenziali
per l’esercizio delle competenze esclusive dello Stato” (art. 698 cod. nav.),
ovvero gli scali di rilevanza nazionale rispetto ai quali le Regioni non hanno
potestà per l’esercizio della legislazione concorrente.
Sul punto, a prescindere dalle varie ipotesi dottrinarie, può farsi esplicito
riferimento a quanto disponeva il Reg. (CEE) n. 2408/92 del 23 luglio 1992
sull’accesso dei vettori aerei della Comunità alle rotte intracomunitarie dove,
all’art. 2, lett. l), viene definito come “aeroporto regionale qualsiasi aeroporto
non compreso nell’elenco degli aeroporti di categoria 1, di cui all’allegato
I”, dove, per l’Italia, sono indicati i sistemi aeroportuali di Roma e Milano
che, all’allegato II, vengono ad identificare, per quanto concerne gli aeroporti
meneghini, gli scali di “Milano-Linate/Malpensa/Bergamo(Orio al Serio)”.
C’è da dire che il sistema aeroportuale, che secondo l’art. 8 del citato
regolamento rappresentava “il raggruppamento di due o più aeroporti che
servono la stessa città o lo stesso agglomerato urbano”, è da ritenersi tuttora
un riferimento valido ai fini della individuazione degli aeroporti di rilevanza
nazionale, anche se, oggi, la qualificazione giuridica dei sistemi aeroportuali
risulta profondamente modificata dall’art. 19 del Reg. (CE) n. 1008/08,
che abroga e sostituisce i Regg. (CEE) nn. 2407-2408-2409/02.
In ogni caso, laddove quanto prospettato non fosse ritenuto sufficiente a
riconoscere gli aeroporti di rilevanza nazionale, pare opportuno evidenziare
che nella Comunicazione della Commissione europea relativa agli
“Orientamenti comunitari in materia di finanziamento degli aeroporti e gli
aiuti pubblici di avviamento concessi alle compagnie operanti su aeroporti
regionali” adottata dopo “il caso Charleroi” per gli aiuti economici corrisposti
a Ryanair, i piccoli aeroporti regionali sono fatti coincidere con quelli sino
ad un milione di passeggeri annui ed i grandi scali regionali sono considerati
quelli sino a cinque milioni di passeggeri.
Solo oltre il citato volume annuo di traffico passeggeri, per l’Europa c’è
la categoria degli aeroporti nazionali (sino a dieci milioni di passeggeri) ed i
grandi scali comunitari (oltre dieci milioni di passeggeri).
Per quanto concerne l’aerea lombarda, i dati di traffico passeggeri gennaio/
ottobre 2008 danno Malpensa a 16.735.000, Linate a 8.097.000,
Bergamo a 5.515.000.
Conseguentemente, i predetti aeroporti rientranti nel sistema di scali nazionali
secondo le disposizioni del Reg. (CEE) n. 2408/92, non sono catalogabili
come regionali neanche facendo riferimento a fonti comunitarie di immediata
applicazione nel nostro Paese come la Comunicazione di cui si è detto.
Inoltre, c’è da dire che il predetto limite di cinque milioni di passeggeri,
che fissa il limite dell’interesse comunitario per gli aeroporti, è stato di recente
ribadito dalla “Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 ottobre
2008 relativa alla posizione comune del Consiglio in vista dell’adozione
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 245
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della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente i diritti
aeroportuali”.
Ciò posto, come richiesto dal Parlamento europeo, la direttiva sulla
determinazione della misura dei diritti aeroportuali si applicherà a tutti gli
aeroporti UE “il cui volume di traffico annuale superi la soglia di cinque
milioni” di movimenti passeggeri (art. 1 c. 2), rispetto al limite di un milione
proposto dalla Commissione.
In tale contesto normativo di carattere nazionale che trova conferma nel
diritto comunitario, è chiaro che la legge della Regione Lombardia, in evidente
contrasto con la norma costituzionale, tende far valere una propria
disciplina nella materia degli aeroporti civili ex art. 117 Cost. in un ambito
non proprio perché i tre aeroporti del sistema di Milano sono da considerarsi
di rilevanza nazionale in quanto “nodi essenziali per l’esercizio delle competenze
esclusive dello Stato” (art. 698 cod. nav.) in relazione alle espresse
definizioni rinvenibili nell’ordinamento comunitario.
Per quanto poi concerne la questione dell’aeroporto di Brescia
Montichiari, l’altro scalo di interesse commerciale su cui incide, allo stato, la
farraginosa procedura di cui agli artt. 9 ss. della legge regionale in tema di
rilascio della concessione di gestione aeroportuale, vi è da dire che il D.Lgs.
prevede all’art. 3, c. 2, una norma transitoria – sostanzialmente non modificata
dal D.L. n. 248/07 convertito con legge n. 31/08 (cd. Milleproroghe) –
che deroga al principio della procedura di affidamento per “gara ad evidenza
pubblica secondo la normativa comunitaria” di cui all’art. 704 cod. nav.
anche “ai procedimenti di rilascio della concessione su istanza antecedente
alla data di entrata in vigore del (…) decreto legislativo”.
Di talché, gli artt. 9 e 10 della legge lombarda, che dispongono la partecipazione
della Regione alla procedura per il rilascio delle nuove concessioni
di gestione aeroportuale, contrastano palesemente con il dettato normativo
di cui alla citata disposizione transitoria.
Per quanto invece concerne il contrasto sulle norme di cui alla legge
regionale concernenti la clearance aeroportuale è indubbio che, per quanto
già detto, risulta incostituzionale l’ambito di applicazione delle norme che
chiaramente incidono esclusivamente sulla operatività degli aeroporti lombardi
di rilevanza nazionale, per come precedentemente identificati in base ai
riferimenti di cogenti disposizioni comunitarie.
Infatti, Milano Malpensa, Milano Linate e Bergamo (Orio al Serio), sono
gli unici tre aeroporti “coordinati” della Lombardia sottoposti, come per
legge, all’assegnazione delle bande orarie da parte di Assoclearance, perché,
in ragione della congestione del traffico aereo, è necessario limitare, secondo
regole precise e non discriminatorie di cui al Reg (CEE) n. 95/93 come
integrato e modificato dal Reg (CE) n. 793/04, l’accesso ai vettori nel valore
massimo di slots di cui è possibile disporre, secondo la capacità aeroportuale
predefinita.
Peraltro, sul punto, l’art. 807 cod. nav. prevede che “l’assegnazione delle
bande orarie, negli aeroporti coordinati, avviene in conformità delle norme
comunitarie e dei relativi provvedimenti attuativi” e la modifica introdotta
dall’art. 12, c. 4, D.Lgs. n. 151/06 dispone che “si applichi altresì la discipli-
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na sanzionatoria attuativa delle norme comunitarie”, poi recepita nel nostro
ordinamento con il D.Lgs. n. 172/07 in riferimento al Reg. (CE) n. 793/04,
modificativo, come detto, del Re. (CEE) n. 95/93, in materia di assegnazione
di bande orarie.
Al riguardo, pare opportuno sottolineare che l’art. 807 cod. nav. non è richiamato
dall’art. 3, c. 7, del D.Lgs. n. 96/05 quale principio a cui le Regioni devono
conformare la propria legislazione concorrente in tema di “aeroporti civili”.
È palese che questo mancato richiamo, pone dei legittimi dubbi sul fatto
che per il legislatore la materia della clearance aeroportuale sia da ricomprendersi
in quella degli “aeroporti civili” di cui all’art. 117 della Cost. per
la quale deve riconoscersi alle Regioni la potestà legislativa concorrente, nel
rispetto dei principi di cui alla “legge cornice” adottata dallo Stato con l’emanazione
del D.Lgs. n. 96/05 e s.m.i.
Da ultimo, è necessario fare anche alcune significative osservazioni di
merito.
In particolare, l’art. 4 della legge regionale lombarda tende a confondere
la definizione della banda oraria con quella di collegamento aereo e porta ad
integrare, in un percorso di dubbia legittimità, i parametri di coordinamento
ricavabili dalla legislazione comunitaria, dando una priorità nell’allocazione
delle bande orarie da parte di Assoclearance a quei vettori che garantiscono
da e per gli aeroporti del sistema aeroportuale di Milano tratte destinate al
“mantenimento del network (…) in termini di collegamento da e per destinazioni
intercontinentali”.
È quindi necessario fare chiarezza sul fatto che per banda oraria (slot) deve
intendersi, come per legge, il permesso dato dal coordinatore, per l’Italia
Assoclearance, di utilizzare l’intera gamma di infrastrutture aeroportuali necessarie
per operare un servizio aereo in un aeroporto coordinato ad una data e in
un orario specifici assegnati dal coordinatore, secondo le regole del Reg. (CEE)
n. 95/93, come integrato e modificato dal Reg. (CE) n. 793/04.
Da quanto precisato, è indubitabile che, salvo specifiche situazioni
riscontrabili, ad esempio, nell’esame del decreto Bersani bis in materia di
ripartizione del traffico del sistema aeroportuale di Milano, non è possibile
per il coordinatore concedere, senza stravolgere le regole di non discriminazione
che presidiano l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della
Comunità, una priorità alle richieste di vettori che garantiscono un determinato
tipo di collegamento aereo rispetto ad un altro.
Per queste ragioni, al termine della discussione del 2 dicembre innanzi la
Corte costituzionale, pur da sempre valorizzando la partecipazione regionale
nel governo del trasporto aereo perché i principi di derivazione comunitaria
di privatizzazione e liberalizzazione del settore diventino condiviso patrimonio
del nostro Paese, utili allo sviluppo dell’economia territoriale, ho concluso
per la declaratoria di incostituzionalità della legge regionale Lombardia n.
29/07 recante “Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale
e concessioni di gestione aeroportuali”.
Avv. Pierluigi Di Palma
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Sufficienza del voto alfanumerico negli esami
di abilitazione: un’unica via interpretativa
(Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 20)
1. Con la sentenza n. 20 del 30 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22,
comma 9 del R.D.L. 23 novembre 1933, n. 1578 convertito dalla legge 22
novembre 1934, n. 36 e degli artt. 17 bis, 22, 23 e 24 del R.D. 22 gennaio
1934, n. 37, con riferimento agli artt. 24, commi 1 e 2, 111, commi 1 e 2, 113,
comma 1 e 117, comma 1 della Costituzione.
Le predette norme sono state censurate dal giudice remittente, nella parte
in cui, secondo l’indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato, tanto consolidato
da costituire “diritto vivente”, consentono la motivazione esclusivamente
attraverso il voto numerico dei giudizi espressi in sede di valutazione
delle prove dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense.
La Corte costituzionale si è già più volte occupata della questione,
dichiarandola però sempre inammissibile, ritenendo possibili diverse letture
delle norme censurate e rimettendo quindi al giudice la scelta ermeneutica
più congrua in relazione alle circostanze concrete, quali ad esempio la predeterminazione
di criteri di valutazione più o meno dettagliati.
In particolare, con ordinanza 3 novembre 2000, n. 466, la Corte costituzionale
ha dichiarato manifestamente inammissibile, in quanto non diretta a
risolvere un dubbio di legittimità costituzionale ma tendente impropriamente
ad ottenere un avallo di una determinata interpretazione della disposizione
impugnata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n.
241/1990, nella parte in cui escluderebbe l’obbligo di motivazione analitica
per i giudizi sulle prove scritte dell’esame di abilitazione all’esercizio della
professione forense, con riferimento agli articoli 3, 24, 113 e 97 della
Costituzione.
Successivamente, con ordinanza 6 luglio 2001 n. 233, la Corte costituzionale
ha nuovamente dichiarato manifestamente inammissibile la stessa
questione, in considerazione del fatto che il rimettente avrebbe voluto “estendere
l’obbligo di motivazione ai giudizi espressi in sede di valutazione delle
prove d’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati” ma non avrebbe tratto
“le conseguenze applicative dell’interpretazione che egli considera conforme
ai parametri costituzionali, deducendo l’esistenza della giurisprudenza
del Consiglio di Stato, che segue l’interpretazione da lui non condivisa” mentre
“nulla impedisce al rimettente di adottare l’interpretazione da lui ritenuta
corretta alla luce dei parametri costituzionali”.
Con successive ordinanze del 14 novembre 2005, nn. 419 e 420, la Corte
costituzionale ha ribadito l’inammissibilità di ogni questione attraverso la
quale il rimettente tenda ad ottenere l’avallo della Corte a favore di una certa
interpretazione, contestando esplicitamente il presupposto interpretativo
posto a base dell’ordinanza di rimessione ed escludendo che la tesi dell’ine-
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sistenza di un obbligo di motivazione analitica per gli esami di abilitazione e
in generale per i concorsi costituisca “diritto vivente”.
Infine, con ordinanza del 27 gennaio 2006, n. 28, la Corte costituzionale
ha nuovamente dichiarato la manifesta inammissibilità della medesima questione
di legittimità costituzionale, ribadendo che la giurisprudenza amministrativa
fornisce un panorama articolato di possibili soluzioni interpretative,
non limitandosi alla sola tesi che esclude l’obbligo di motivazione analitica
nelle operazioni di giudizio conseguenti a valutazioni tecniche ma estendendosi
sino a quella che invece ritiene applicabile il medesimo obbligo anche ai
giudizi valutativi ed a quella secondo cui la sufficienza e idoneità del punteggio
numerico dev’essere apprezzata caso per caso, in relazione alla possibilità
concreta che il concorrente abbia di ricostruire per relationem i criteri
seguiti dalla commissione esaminatrice, ad esempio facendo riferimento ai
criteri di massima predeterminati dalla stessa o alle glosse apposte sugli elaborati
scritti. Infatti, il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza del 30 aprile
2003, n. 2331 (successivamente però smentita da numerose altre pronunce di
segno opposto), a fronte dell’orientamento seguito da alcuni giudici amministrativi
– secondo il quale è necessaria una motivazione analitica per la valutazione
negativa delle prove di esame – e di altro orientamento maggioritario
– in forza del quale l’onere della motivazione nella materia de qua è sufficientemente
assolto con l’attribuzione di un punteggio numerico – ha seguito un
orientamento intermedio, secondo il quale, per valutare l’idoneità del punteggio
numerico a soddisfare il requisito della motivazione, occorre avere riguardo
“alla tipologia dei criteri di massima fissati dalla commissione, risultando
sufficiente il punteggio soltanto ove i criteri siano predeterminati rigidamente
e insufficiente nel caso in cui si risolvano in espressioni generiche”.
2. Con la sentenza annotata, invece, la Corte costituzionale ha preso atto
della ormai “granitica” giurisprudenza del Consiglio di Stato ed ha pertanto
dichiarato ammissibile la questione di legittimità costituzionale, concludendo
però per la sua infondatezza.
La Corte ha infatti precisato che il principio dell’effettività del diritto di
difesa (art. 24 Cost.) anche con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione (art. 113 Cost.) “sono volti a presidiare l’adeguatezza
degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela
in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale”.
La Corte ha soggiunto che anche il principio del giusto processo, consacrato
nell’art. 111 Cost, ed attuato attraverso il rispetto del principio del contraddittorio,
del principio della ragionevole durata del processo e della motivazione
della decisione, si estrinseca mediante garanzie di carattere esclusivamente
processuale.
Pertanto, ha affermato la Corte, le norme censurate, che non impongono
alla Commissione una specifica modalità di motivazione delle proprie valutazioni,
attengono al profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento
amministrativo conclusivo del procedimento di abilitazione alla professione
forense mentre “l’aspetto processuale degli strumenti predisposti
dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in
gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo”.
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La disciplina censurata non è stata quindi ritenuta idonea ad interferire né
con il diritto di difesa, né con il principio del contraddittorio.
2.1. Per comprendere la portata della decisione, occorre prendere le
mosse dall’ordinanza di rimessione.
Sotto il profilo relativo alla violazione dell’art. 24, commi 1 e 2 della
Costituzione, posto a tutela del diritto di difesa, il giudice remittente osserva
che la disciplina speciale dell’esame di abilitazione alla professione legale, nel
testo risultante dalla recente riforma di cui al D.L. 21 maggio 2003, n. 112
convertito dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, sarebbe illogica ed irrazionale
atteso che, da una parte, il legislatore della riforma avrebbe predisposto un
sistema di valutazione degli elaborati scritti improntato ai principi di trasparenza
e imparzialità attraverso la previsione, già a livello normativo, di criteri
generali di giudizio successivamente specificati da una commissione appositamente
istituita presso il Ministero della Giustizia e, dall’altra, rimarrebbe
vigente una normativa che si limiterebbe a prevedere l’attribuzione di un semplice
punteggio senza obbligo per la commissione esaminatrice di giustificare
in concreto tale attribuzione attraverso un’apposita motivazione sul punto.
In proposito, è innanzitutto necessario ricordare che l’art. 3 della legge n.
241/1990 collega la sufficienza della motivazione alle risultanze dell’istruttoria
e, quindi, fa riferimento all’attività amministrativa più propriamente provvedimentale
e non all’attività di giudizio conseguente a valutazione quale è,
appunto, quella relativa alla preparazione culturale o tecnica del candidato.
Inoltre, quanto alla denunciata contraddittorietà interna della normativa
in esame, appare al contrario chiara l’intenzione del legislatore della riforma
di codificare a livello normativo il principio, ormai invalso nel sistema e condiviso
dalla stessa giurisprudenza, in base al quale l’espressione della valutazione
attraverso un voto non è uno strumento che esime dalla motivazione ma
ne costituisce, invece, un’espressione in forma sintetica.
Il voto non rappresenta infatti una sorta di dispositivo di cui occorra fornire
la motivazione, ma esprime esso stesso in forma, per l’appunto, sintetica
la valutazione compiuta dalla commissione esaminatrice nell’apprezzamento
delle singole prove e nella loro reciproca comparazione.
In tale ottica, non può essere revocato in dubbio che il voto, associato ai
criteri generali definiti a livello normativo nonché ai criteri stabiliti in linea
di massima dalla commissione esaminatrice appositamente costituita, consenta
di ricostruire l’iter logico seguito nella valutazione dei singoli elaborati
scritti da parte della medesima commissione.
Né vale invocare, come fatto dal giudice remittente, il sopravvenuto art.
11, comma 5 del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 in materia di concorso
notarile, in base al quale “il giudizio di non idoneità è motivato” mentre
“nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione”. E’, infatti, evidente
che una procedura selettiva per l’abilitazione professionale presenta
caratteristiche difformi, tali da giustificarne una diversità di disciplina, rispetto
ad una procedura concorsuale a numero chiuso.
Nel primo caso, trattasi infatti di esame abilitativo volto al mero accertamento
delle capacità tecniche dell’aspirante professionista, nel secondo caso
invece trattasi di procedura selettiva fondata sul necessario raffronto compa-
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rativo fra i candidati al fine di scegliere i soggetti migliori in relazione al
numero limitato di posti messi a concorso. Peraltro, il predetto art. 11 del
D.Lgs. n. 166/2006, lungi dallo smentire l’orientamento giurisprudenziale
prevalente, non fa altro che confermare il principio secondo cui la valutazione
tradottasi nella attribuzione di un punteggio “vale motivazione” mentre la
previsione che, laddove essa non sfoci in una votazione, vi sarà un giudizio
diversamente motivato, deve considerarsi norma speciale di stretta interpretazione,
di per sé non espressiva di un principio generale e dunque non estensibile
al di fuori dell’ambito concorsuale ivi specificamente disciplinato
(Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 2008, n. 1787).
Tale orientamento è stato affermato dal Consiglio di Stato, nella predetta
decisione, in relazione al concorso per uditore giudiziario che, pur integrando
un concorso per l’accesso ad un pubblico impiego con un numero di
posti limitati rispetto alla platea dei partecipanti, non prevede nemmeno il
punteggio numerico nel caso in cui il candidato non meriti di ottenere il minimo
richiesto per l’approvazione (art. 16 R.D. 15 ottobre 1925, n. 1860)
bastando in tale ipotesi la locuzione “non idoneo”. È stato infatti chiarito che
non è configurabile un interesse giuridico del candidato a conoscere il grado
di insufficienza delle proprie prove, “atteso che nell’ambito dell’insufficienza,
le norme non assegnano all’uno o all’altro voto alcun effetto”.
Quanto al rilievo del giudice remittente secondo il quale il candidato non
ammesso dovrebbe poter comprendere dove abbia sbagliato e quali errori
possano e debbano essere emendati in una successiva tornata d’esami di abilitazione,
basta osservare che la valutazione della commissione non ha scopi
didattici ma è volta ad accertare la capacità e la preparazione culturale del
candidato che intenda apprestarsi all’esercizio della professione forense.
Come si è visto, quindi, per ogni concorso od esame, vi è una particolare
disciplina che chiarisce in quali termini il giudizio della commissione debba
essere motivato in relazione alle peculiarità della singola procedura concorsuale,
senza che possa ritenersi violato il diritto di difesa del candidato.
Come detto in precedenza, infatti, la votazione è di per sé idonea ad
esplicitare compiutamente, in maniera sintetica ma non per questo meno eloquente,
il giudizio maturato dalla commissione in ordine alle prove d’esame,
rendendo in tal modo del tutto percepibile il percorso logico seguito dalla
commissione giudicatrice nell’attribuzione del punteggio numerico.
Conseguentemente, appare evidente che la motivazione espressa numericamente,
oltre ad assicurare la necessaria chiarezza sulle valutazioni di merito
compiute dalla commissione, garantisce il rispetto dei principi costituzionali
di efficienza, economia, efficacia e speditezza su cui deve parimenti fondarsi
l’attività amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 16 luglio 2007, n. 4007).
Al riguardo, è sufficiente osservare che l’attività di correzione sarebbe
notevolmente rallentata qualora la commissione d’esame dovesse esternare,
in via analitica, attraverso un articolato giudizio, le ragioni delle singole valutazioni
a fronte dell’elevato numero degli esaminandi, dell’eterogeneità della
preparazione degli stessi e dell’obbligo di concludere le operazioni in tempi
strettissimi (sei mesi, salvo eccezionale e motivata proroga in base all’art. 23
R.D. n. 37/1934).
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In tal modo, verrebbero considerevolmente allungati i tempi di correzione
degli elaborati scritti, con evidenti ripercussioni sul più generale interesse
di tutti i candidati ad una veloce definizione della procedura de qua che,
come è noto, ha cadenza annuale.
Peraltro, è stato osservato che il giudizio in ordine alla preparazione di
un candidato è stato sempre tradizionalmente espresso nel nostro ordinamento,
a partire da quello scolastico (cfr. artt. 81 e 82 del R.D. n. 1054/1923), con
l’attribuzione di un voto. Pertanto, non è certo agevole comprendere perché
lo stesso soggetto, che da studente non ha avuto difficoltà a cogliere dal voto
numerico ricevuto a conclusione dei singoli esami compresi nel suo piano di
studi, le ragioni ad esso sottese, a distanza di pochi anni sarebbe incapace di
comprendere, da laureato partecipante ad una procedura idoneativa all’esercizio
di una determinata professione, il perché del voto numerico che la commissione
esaminatrice ha ritenuto di assegnare alle sue prove (Cons. Stato,
sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3114).
In realtà il voto numerico, col suo collocarsi all’interno di una scala parametrale
comunemente riconosciuta, si configura come formula sintetica ma
chiara di esternazione della valutazione tecnica compiuta dall’esaminatore e,
come tale, è perfettamente idoneo a rendere conto delle ragioni del giudizio
espresso.
2.2. In relazione alla pretesa violazione dell’art. 113, comma 1 della
Costituzione, che sancisce il principio di effettività della tutela giurisdizionale,
il giudice remittente osserva che, rispetto alle valutazioni espressione di
discrezionalità tecnica, come nel caso di quelle operate dalle commissioni
esaminatrici per l’abilitazione all’esame di avvocato, il giudice deve poter
controllare la ragionevolezza, logicità e coerenza dei giudizi espressi mentre
tale controllo, seppur di tipo “debole”, sarebbe compromesso dalla presenza
di un mero punteggio numerico che non consentirebbe, ancora una volta, di
rendere visibili i criteri applicati in concreto dalla commissione d’esame con
conseguente riduzione delle facoltà costituzionalmente connesse alla tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi.
Invero, a tale proposito, si osserva che la conclusione cui si perviene nell’ordinanza
di rimessione si fonda sull’erroneo presupposto secondo cui il
voto espresso in forma numerica non consentirebbe di comprendere l’iter
logico seguito dalla commissione esaminatrice nella valutazione delle prove.
La votazione rappresenta, invece, una sintesi delle ragioni poste a fondamento
della valutazione delle prove scritte, ictu oculi percepibili attraverso la
semplice associazione di tale breve motivazione con i criteri generali indicati
sul piano normativo e integrati da quelli specificati dalla stessa commissione
d’esame.
Di talché, appare evidente che non sia dato ravvisare alcuna compromissione
di quelle facoltà che costituiscono espressione della garanzia di tutela dei
diritti soggettivi e interessi legittimi così come assicurata dall’art. 113 Cost. atteso
che, pur trattandosi di motivazione sintetica, essa non è incontrollabile per cui
i soggetti interessati potranno in ogni caso usufruire dei medesimi strumenti giuridici
di tutela messi a disposizione dall’intero assetto normativo qualora si controverta
in merito ad una motivazione espressa in forma più analitica.
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D’altra parte, occorre sottolineare che, proprio perché trattasi di materia
rientrante nella sfera della c.d. discrezionalità tecnica, l’orientamento giurisprudenziale
maggioritario in ordine alla sufficienza del voto numerico si
fonda, in primo luogo, sulla necessità che il sindacato del giudice amministrativo
si svolga ab externo, limitatamente al procedimento che ha condotto
a quella valutazione e non ab interno, sovrapponendo la propria valutazione
a quella espressa dalla commissione; in secondo luogo, sulla considerazione
che, qualora i concorsi o gli esami non dovessero vertere su materie giuridiche,
il giudice amministrativo difetterebbe della competenza tecnica necessaria
per poter apprezzare la congruenza della valutazione analitica effettuata
dall’organo tecnico.
2.3.Per quanto concerne la pretesa violazione dell’art. 111, commi 1 e 2
della Costituzione, che enuncia il principio del giusto processo, il remittente
osserva che la lettura delle norme censurate fornita dal “diritto vivente”
escluderebbe in radice ogni possibilità che siano garantiti il diritto di difesa
in giudizio e dunque le regole coessenziali al giusto processo, con conseguente
compressione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Appare evidente che le argomentazioni addotte dal remittente a sostegno
di tale ulteriore asserito profilo di incostituzionalità, sono meramente ripetitive
di quelle già avanzate con riferimento agli articoli 24 e 113 Cost., che
riguardano appunto il diritto di difesa e il principio di effettività della tutela
giurisdizionale.
In proposito, va ricordato che le valutazioni espresse dalle commissioni
giudicatrici in merito alle prove di esame o di concorso, in quanto espressione
di discrezionalità tecnica, non sono sindacabili dal giudice amministrativo
se non nei casi in cui sussistano elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento
logico, un errore di fatto o una contraddittorietà ictu oculi rilevabile
(Cons. Stato, IV, 17 gennaio 2006, n. 176).
Ne consegue che il giudicante non può ingerirsi negli ambiti riservati alla
discrezionalità tecnica dell’organo valutatore e sostituire il proprio giudizio sul
merito dell’elaborato scritto a quello della commissione (il che escluderebbe
anche il possibile ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, introdotta nel processo
amministrativo dall’art. 1 della legge 21 luglio 2000, n. 205, prevista,
come riconosce lo stesso remittente, esclusivamente “per l’accertamento della
legittimità di ogni questione positivamente sottratta all’area della riserva amministrativa”)
se non nel caso in cui il giudizio, anche se espresso mediante voto
numerico, si appalesi viziato sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza,
vizio la cui sostanza non può essere confusa con l’adeguatezza della motivazione,
ben potendo questa essere adeguata e sufficiente e tuttavia al tempo
stessa illogica e irrazionale (Cons. Stato, sez. IV, 19 maggio 2008, n. 2293).
Stante il diverso rilievo ed ambito concettuale che assumono i due vizi, l’uno
non può quindi essere arbitrariamente ed automaticamente dedotto dall’altro.
Pertanto, l’affermata idoneità del punteggio numerico ad integrare l’obbligo
di motivazione non fa certo venir meno, né in qualche modo attenua la
garanzia della possibilità di un sindacato sulla ragionevolezza, coerenza e
logicità della valutazione, potendo il candidato conoscere gli errori o le lacune
del giudizio espresso dalla commissione e valutare la fruibilità dell’azio-
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ne giurisdizionale anche sulla base dell’accesso agli atti della competizione
concorsuale, volto a verificare l’imparzialità del giudizio e la coerente ed uniforme
applicazione dei criteri di valutazione che allo stesso presiedono, entro
i limiti in cui al giudice amministrativo è consentito di esercitare il proprio
sindacato di legittimità su atti espressivi di discrezionalità tecnica (Cons.
Stato, sez. IV, 17 gennaio 2006, n. 172).
La motivazione analitica, invece, presterebbe il fianco – come accade
spesso nel contenzioso concernente il concorso notarile, che prevede tale
forma di motivazione da ben prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n.
166/2006, che si è limitata, sotto tale profilo, ad eliminare il c.d. voto di
eccellenza – ad inammissibili censure di merito, che tendano a sovrapporre,
al giudizio della commissione, valutazioni finalizzate ad apprezzare direttamente
la “bontà” dell’elaborato mentre in tale materia il controllo giurisdizionale
deve tener conto del fatto che l’applicazione della norma tecnica non
sempre si traduce in una legge scientifica universale, caratterizzata dal requisito
della certezza, potendo invece dar luogo ad apprezzamenti tecnici ad elevato
grado di opinabilità.
La motivazione mediante voto numerico quindi non restringe le possibilità
di tutela giurisdizionale, dovendo la stessa comunque rimanere confinata
nei limiti del sindacato di legittimità.
2.4. Quanto all’asserita violazione dell’art. 117, comma 1 della
Costituzione, che impone il rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario
e dagli obblighi internazionali, il remittente osserva che la Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevede
espressamente il diritto ad un processo equo (art. 6) e quindi, ove l’incostituzionalità
delle norme denunciate, la cui interpretazione si tradurrebbe in una
violazione del giusto processo, non venisse sanzionata dalla Corte costituzionale,
la conseguente sentenza di reiezione del giudice remittente sarebbe
direttamente ricorribile per saltum davanti alla Corte europea di Strasburgo.
Invero, lo stesso remittente riconosce che i principi del giusto processo
sono stati pacificamente recepiti nel nostro ordinamento con le modifiche
apportate all’art. 111 Cost.
Ciò detto, non è rinvenibile nella CEDU alcuna norma che imponga la
motivazione dei provvedimenti amministrativi (norma peraltro presente nel
nostro ordinamento, appunto l’art. 3 della legge 241/1990, sebbene non sia
prevista a livello costituzionale), né tanto meno che disciplini le modalità in
cui detta motivazione debba essere esternata.
Né appare utilmente invocabile “l’obbligo per l’amministrazione di
motivare le proprie decisioni” di cui alla lettera c) del comma 2 dell’art. II-
101 del Trattato 20 ottobre 2004 (Trattato che adotta una Costituzione per
l’Europa) giacché tale norma è applicabile, per disposto espresso dello stesso
Trattato, “alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del
principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione
del diritto dell’Unione” (art. II-111, comma 1) mentre è pacifico
che la disciplina degli esami di abilitazione all’esercizio della professione
forense non attiene certo all’attuazione del diritto comunitario (Cons. Stato,
sez. IV, 19 maggio 2008, n. 2293).
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Peraltro, come si è già detto, il voto numerico non esclude la motivazione
bensì è una modalità di esternazione della stessa.
3. Alla luce della pronuncia della Corte costituzionale annotata, che ha fornito
un’interpretazione molto chiara delle norme sospettate di incostituzionalità,
concludendo per la loro piena conformità ai parametri costituzionali di riferimento,
si ritiene che i giudici amministrativi sapranno certamente trarre le
necessarie conseguenze nel tracciare i confini di sindacabilità giurisdizionale
dei giudizi valutativi degli esami di abilitazione alla professione forense.
Avv. Wally Ferrante(*)
Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 20 – Pres. G.M.– Flick – Red. L.
Mazzella.
«(…) Ritenuto in fatto
1.- Con tre distinte ordinanze, emesse il 5 maggio e il 3 giugno 2008, il Tribunale regionale
di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato, con riferimento agli articoli 24, primo
e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio
decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore),
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art.
1-bis, decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli
esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18
luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto
23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27
novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore) –
disposizioni, queste ultime, da intendersi censurate nel testo vigente, quale risultante dalle
modifiche e dalle sostituzioni di cui alla legge 27 giugno 1988, n. 242 (Modifiche alla disciplina
degli esami di procuratore legale) e dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112
(Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito,
con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180 – nella parte in cui non prevedono
l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in
occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla
professione forense.
2.- Riferisce il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, in ciascuna
delle ordinanze di rimessione, che, con sentenze non definitive, esso aveva respinto, all’esito
dei giudizi di impugnazione delle valutazioni negative degli scritti redatti in sede di esami
di abilitazione alla professione forense, sessione 2006/2007, due delle tre censure dedotte dai
ricorrenti, fondate sulla denunciata violazione, da parte delle commissioni esaminatrici, dell’asserito
obbligo di dare atto dell’effettiva applicazione dei criteri di valutazione stabiliti in
sede nazionale, dato che dagli artt. 22 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e 17-bis, 22, 23
e 24 del R.D. 23 gennaio 1934, n. 37 non emergerebbe un siffatto obbligo. Nell’esaminare
(*) Avvocato dello Stato.
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la residuale, terza censura, con la quale era stato dedotto il difetto di motivazione dell’espresso
giudizio alla luce della totale inidoneità ad esternarlo da parte del cosiddetto voto alfanumerico,
il rimettente asserisce che, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza del
Consiglio di Stato, che fa propria la tesi della sufficienza del voto alfanumerico, tale censura
avrebbe dovuto essere respinta.
3.- Il rimettente, tuttavia, dubita della legittimità costituzionale della normativa in
oggetto secondo la costante interpretazione della giurisprudenza del Consiglio di Stato. Sotto
un primo profilo, infatti, la mera espressione alfanumerica di un giudizio, secondo il rimettente,
non soddisferebbe l’esigenza di manifestare al candidato le ragioni della sua reiezione
alle prove scritte, traducendosi soltanto nell’espressione di un valore relativo che si manifesta
in termini matematici.
Il rimettente si dichiara consapevole di quanto statuito, anche di recente, da questa
Corte, con le ordinanze n. 466 del 2000, n. 419 e 420 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006,
sull’inammissibilità di questioni analoghe a quella odierna, tese ad ottenere un avallo interpretativo,
a causa dell’insussistenza in giurisprudenza di un vero e proprio «diritto vivente».
Egli, tuttavia, reputa che, allo stato, tale giurisprudenza possa essere superata, visto che ogni
diversa lettura dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sarebbe costantemente rigettata
in sede d’appello dal Consiglio di Stato, il cui orientamento dovrebbe, quindi, essere ormai
qualificato come diritto vivente.
Una conferma si desumerebbe, sempre secondo il rimettente, dalla circostanza che, sebbene
il decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18
luglio 2003, n. 180, al suo art. 1-bis abbia introdotto alcuni criteri di valutazione delle prove
d’esame in discussione, tale precetto non pare essere stato recepito dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato, che ha statuito che neppure la predeterminazione dei criteri di valutazione
delle prove a posti di pubblico impiego può essere considerata elemento imprescindibile
ai fini della legittimità della procedura, trattandosi di attività riservata alla discrezionalità
dell’Amministrazione.
La questione dovrebbe essere riguardata, a parere del rimettente, alla luce dei precetti
di cui agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo
comma, in associazione a quanto stabilito dall’art. 117, primo comma, della Costituzione.
Quanto al principio di effettività della tutela giurisdizionale, il rimettente osserva che il
Consiglio di Stato, con il parere 9 novembre 1995, n. 120 dell’Adunanza generale, aveva
richiesto e ottenuto dal legislatore la modifica dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 9 agosto
1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni
e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme
di assunzione nei pubblici impieghi), avvenuta con d.P.R. 30 ottobre 1996, n. 693
(Regolamento recante modificazioni al regolamento sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni e sulle modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle
altre forme di assunzione nel pubblico impiego, approvato con d.P.R. 9 maggio 1994, n.
487). In tal modo, tramite la sostituzione dell’espressione «assegnazione del punteggio» a
quella preesistente, avrebbe determinato l’espunzione dal tessuto dell’ordinamento dell’unica
disposizione in grado di positivamente infirmare la teoria del voto alfanumerico.
Tale riforma sarebbe stata, secondo il rimettente, ispirata a valorizzare i principi, oltre
che d’imparzialità, di economicità e di celerità di espletamento delle procedure concorsuali,
nonché di buon andamento stabiliti dall’art. 97 della Costituzione.
Al rimettente pare, tuttavia, che in tale riforma e nel successivo orientamento della giurisprudenza
del Consiglio di Stato, sia stata trascurata la diversa, ma non meno rilevante esi-
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genza della trasparenza dei giudizi formulati dalle Commissioni esaminatrici e che sia stato
violato il diverso principio tratto dai richiamati artt. 24, primo e secondo comma, e 113,
primo comma, della Costituzione, che altrettanto puntualmente proclamano il principio di
effettività della tutela giurisdizionale.
L’affermazione che il voto alfanumerico sia espressione sintetica, ma completa, del giudizio,
sarebbe insoddisfacente, dato che, sulla base di un voto alfanumerico, sarebbe impedito
il successivo svolgimento di un giusto processo, data la preclusione di ogni potenziale
verifica degli eventuali vizi della motivazione.
Per altro verso, secondo il rimettente, l’art. 22, comma 9, del r.d. n. 1578 del 1933, come
modificato dal d.l. n. 112 del 2003 e dalla sua legge di conversione, stabilisce che «la commissione
istituita presso il Ministero della giustizia definisce i criteri per la valutazione degli
elaborati scritti» che devono essere comunicati alle varie Sottocommissioni; fra tale criteri,
devono comunque essere sempre presenti i seguenti: a) chiarezza, logicità e rigore metodologico
dell’esposizione; b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici
problemi giuridici; c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti
giuridici trattati; d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all’atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche
di persuasione. Ciò offrirebbe un’ulteriore conferma alla dedotta censura, dato che la norma
in questione sarebbe priva di significato in mancanza di un obbligo di motivazione dei giudizi
formulati sugli elaborate dei candidati.
Le norme censurate, interpretate in base al «diritto vivente» elaborato negli anni dal
Consiglio di Stato, precluderebbero, inoltre, ogni diritto di difesa dato che il giudizio negativo
espresso nei confronti di un soggetto, non sarebbe verificabile neppure sotto l’angusto
profilo della sua motivazione: ciò che determinerebbe una violazione del principio di effettività
della tutela giurisdizionale, consacrato, secondo il rimettente, anche nel principio del
“giusto processo” di cui all’art. 111, primo e secondo comma della Costituzione.
La questione appare al rimettente non manifestamente infondata anche alla luce dell’art.
117, primo comma della Costituzione, posto che tale norma farebbe obbligo allo Stato di
esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario e
dagli obblighi internazionali. La violazione delle regole del giusto processo e del principio
della sua effettività, invero, determinerebbe, in base a quanto statuito da questa Corte nelle
sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, a cui
è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché del suo Protocollo addizionale
firmato a Parigi il 20 marzo 1952.
4.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, con il patrocinio
dell’Avvocatura generale dello Stato, con tre distinti atti di intervento, deducendo l’inammissibilità
del ricorso, per l’inesistenza del diritto vivente descritto dal rimettente e sostenendo
in ogni caso, nel merito, l’infondatezza dello stesso.
Quanto al primo aspetto, la difesa erariale sottolinea come questa Corte, in ben quattro
pronunce, abbia già evidenziato la mancanza di un orientamento consolidato del Consiglio
di Stato e dei TAR qualificabile come “diritto vivente”, attesa la eterogeneità delle soluzioni
interpretative offerte in giurisprudenza.
Nel merito, l’Avvocatura ricorda che l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove
norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi),
nel prevedere il generale obbligo di motivazione, si riferisce all’attività amministrativa
provvedimentale e non a quella conseguente a una valutazione tecnica, qual è quella
relativa alla preparazione del candidato.
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Soggiunge che il voto in tale circostanza non rappresenterebbe una sorta di dispositivo
di cui occorra fornire la motivazione, ma esprime esso stesso, in forma sintetica, la valutazione
compiuta dalla commissione esaminatrice nell’apprezzamento delle singole prove e
nella loro reciproca comparazione.
Né, prosegue l’Avvocatura, la situazione può ritenersi alterata dall’introduzione dell’art.
11, comma 5, del D.Lgs. 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile,
pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell’articolo
7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246, in materia di concorso notarile),
in base al quale il giudizio di non idoneità è motivato, mentre nel giudizio di idoneità il
punteggio vale motivazione. La diversità di normativa sarebbe giustificata dal fatto che il
concorso notarile, a differenza dell’esame di abilitazione, sarebbe una procedura concorsuale
a numero chiuso, fondata sul necessario raffronto comparativo tra i candidati.
L’Avvocatura poi ricorda la recente decisione del Consiglio di Stato, in relazione al concorso
per uditore giudiziario, con la quale è stato affermato che non è configurabile un interesse
giuridico del candidato a conoscere il grado di insufficienza delle proprie prove, atteso
che «nell’ambito dell’insufficienza, le norme non assegnano all’uno o all’altro voto alcun
effetto».
Quanto alla deduzione in base alla quale la espressione numerica del giudizio non consentirebbe
al candidato di comprendere dove abbia sbagliato, onde poter ritentare l’esame di
abilitazione, l’Avvocatura osserva che la valutazione della commissione non ha scopi didattici;
aggiungendo che tale forma sintetica di motivazione garantirebbe il rispetto dei principi
costituzionali di efficienza, economia, efficacia e speditezza su cui deve fondarsi l’azione
amministrativa, dovendosi ritenere che l’attività di correzione sarebbe notevolmente rallentata
se la commissione dovesse esprimere dei giudizi articolati in luogo dei voti.
L’idoneità del voto a racchiudere in sé un giudizio sintetico renderebbe, pertanto, priva
di fondamento la tesi del Tribunale amministrativo rimettente dell’asserita violazione del
principio di effettività della tutela giurisdizionale e di garanzia del giusto processo, sia per
quanto attiene alla censura relativa all’art. 24, Cost., sia per quella relativa all’art. 111, Cost.,
sia infine per quella relativa all’art. 117, primo comma, Cost.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento dubita, con riferimento
agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma,
e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 22, nono
comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni
di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n.
36, sostituito dall’art. 1-bis, d.l. 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina
degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla
legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del
regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre
1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), nella
parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini
alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame
per l’abilitazione alla professione forense.
Il vigente sistema di valutazione, fondato sulla attribuzione di un punteggio alfanumerico
compreso tra 1 e 10, viene contestato nella parte in cui, secondo un’interpretazione giurisprudenziale
qualificata dal rimettente in termini di diritto vivente, non prevederebbe
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(implicitamente anche) la necessità di una motivazione del punteggio attribuito agli elaborati
scritti.
L’odierno incidente di costituzionalità ha ad oggetto, da un lato, gli artt. 17-bis, 22, 23,
e 24, 1 comma, del regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37, come modificato dal decreto-legge
21 maggio 2003, n. 112 convertito in legge (…), che dettano la disciplina e il contenuto delle
prove (scritte e orali) cui sono sottoposti gli aspiranti avvocati, prevedendo, tra l’altro, che
all’esito della correzione degli elaborati scritti la sottocommissione esprima un punteggio
numerico tra 1 e 10 per ciascuna prova scritta; e, dall’altro, la disposizione di cui all’art. 22
del r.d.l. n. 1578 del 1933, come riformato dal decreto-legge n. 112 del 2003, che pone a carico
della Commissione esaminatrice nazionale l’obbligo di definire, per tutte le Corti di
appello, dei criteri uniformi per la valutazione degli elaborati scritti.
Le norme predette, nell’odierno giudizio costituzionale, vengono ritenute in contrasto
con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, per la lesione del principio di effettività della tutela
giurisdizionale, in ambito generale e amministrativo; con il principio del “giusto processo”,
enunciato dall’art. 111 della Costituzione e, infine, per il tramite dell’art. 117, primo
comma, della Costituzione, con i medesimi principi di effettività della tutela giurisdizionale
e del giusto processo, consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo
e delle libertà fondamentali.
2.- I giudizi, avendo ad oggetto le medesime norme, denunciate in riferimento agli stessi
parametri e con argomentazioni identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia.
3.- La questione è ammissibile.
Questa Corte, in plurime decisioni, ha sinora escluso che la tesi dell’insussistenza, nell’ordinamento
vigente, di un obbligo di motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione
e della idoneità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida motivazione
del provvedimento di inidoneità costituisse una interpretazione obbligata e univoca della
normativa vigente (ordinanze n. 466 del 2000, n. 233 del 2001, n. 419 del 2005 e, da ultimo,
n. 28 del 2006).
Tuttavia, nella più recente evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, tale
tesi si è ormai consolidata, privando la tesi minoritaria, ancora adottata in alcune isolate pronunce,
di ogni concreta possibilità di definitiva affermazione giurisprudenziale. Questa
Corte deve quindi prendere atto della circostanza che la soluzione interpretativa offerta in
giurisprudenza costituisce ormai un vero e proprio «diritto vivente».
4.- Nel merito, la questione non è fondata.
Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il
primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione.
Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali
posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente
sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, le sentenze n. 182 del 2008, nn.
180, 181, 282, 420 del 2007, n. 101 del 2003 e n. 419 del 2000).
A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111, Cost., è finalizzato
ad assicurare che gli strumenti procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione
di parità e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte nel processo,
attraverso la piena attuazione del principio del contraddittorio, del principio di ragionevole
durata del procedimento, della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di
garanzie di carattere esclusivamente processuale.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 259
03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 259
260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Gli stessi principî di effettività del diritto di difesa e del giusto processo sono espressi
anche nella «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali
» con esclusivo riferimento al piano processuale.
Per converso, la denunciata illegittimità costituzionale della norma che, in base al diritto
vivente, non impone alla commissione una specifica modalità di motivazione delle determinazioni
da essa assunte in merito alle prove scritte ed orali, concerne un momento del procedimento
amministrativo che disciplina lo svolgimento degli esami per l’abilitazione alla
professione forense. Essa, quindi, riguarda il profilo sostanziale dei requisiti di validità del
provvedimento di esclusione del candidato, conclusivo di detto procedimento. L’aspetto processuale
degli strumenti predisposti dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti
non è chiamato in gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo.
La disciplina censurata non è quindi idonea a interferire né con il diritto di difesa né con
il principio del contraddittorio e si sottrae all’ambito di applicazione dei parametri invocati
dal rimettente.
Per questi motivi
la Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578
(Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, del decreto-legge 21 maggio
2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione
forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli
17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative
e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento
della professione di avvocato e di procuratore), sollevata, in riferimento agli artt. 24,
primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo
comma, della Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con
le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede dalla Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26
gennaio 2009 (...)».
03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 260
Il particolare meccanismo di decisione
preventiva delle questioni di massima
nella giustizia contabile
(Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 3 dicembre 2008 n. 28653)
Le Sezioni Unite della Cassazione intervengono, ricorrendo al potere di
cui all’art. 363, comma 3, c.p.c., sul particolare meccanismo di risoluzione
preventiva delle questioni di massima operante nella giurisdizione della
Corte dei Conti.
L’art. 1, comma 7, D.L. 453/1993, convertito dalla legge n. 19/1994, stabilisce
che “Le sezioni riunite della Corte dei conti decidono sui conflitti di
competenza e sulle questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali
centrali o regionali, ovvero a richiesta del procuratore generale”.
Le Sezioni Unite sono state investite della seguente questione interpretativa:
se, in presenza di una rimessione della questione di massima da parte del
Procuratore Generale, la sezione giurisdizionale presso cui pende il giudizio
sia tenuta a sospendere il giudizio, o possa anche decidere senza attendere la
pronuncia delle Sezioni Riunite.
Nella specie la sezione giurisdizionale di appello, nonostante la rimessione
della questione di massima alle Sezioni Riunite, aveva deciso senza trasmettere
il fascicolo a queste ultime: le Sezioni Riunite, preso atto di tale
decisione (che peraltro contrastava nel merito con il principio di massima
che, nello stesso giudizio ma in primo grado, le Sezioni Riunite avevano già
affermato), avevano dichiarato l’improcedibilità del giudizio incidentale
sulla questione di massima.
Le Sezioni Unite della Cassazione dichiarano la illegittimità dell’operato
della Sezione giurisdizionale di appello, sottolineando “il carattere non meramente
consultivo ma di decisione vincolante nel giudizio in corso (ancorché
con un ruolo di indicazione ermeneutica a valenza generale) proprio delle pronunce
in sede di risoluzione di questione di massima”, e concludendo che
“l’instaurazione del giudizio dinanzi alle Sezioni Riunite, ove non si voglia
vanificarne la funzione, comporta che a tale organo sia attribuito il potere di
decidere la questione di massima, previa verifica della sua ammissibilità e dunque
anche della sua rilevanza [...] prima della decisione da parte del giudice
dinanzi al quale pende la controversia che ha dato origine alla rimessione”.
Il giudice della causa quindi “non può rifiutare la trasmissione del fascicolo
processuale alle Sezioni Riunite” e “non può decidere senza attendere la
pronuncia di detto organo”.
La decisione merita di essere sottolineata anche perché stabilisce che la
statuizione resa dalle Sezioni Riunite sulle questioni di massima non ha natura
consultiva, ma di “decisione vincolante nel giudizio in corso”: essa pare
dunque equiparabile, ad esempio, alla decisione adottata dalle Sezioni Unite
sul regolamento preventivo di giurisdizione, da cui si distingue per determinare
sempre un effetto sospensivo del giudizio principale.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 261
03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 261
Viene allora da domandarsi se, in luogo di una declaratoria di improcedibilità
del giudizio incidentale sulla questione di massima, le Sezioni
Riunite possano fronteggiare in altro modo la mancata sospensione del giudizio
da parte della Sezione giurisdizionale regionale o di appello.
Si potrebbe ritenere infatti che le Sezioni Riunite debbano decidere
comunque la questione di massima (anche dopo la pronuncia definitiva di
merito emessa a dispetto della regola sancita dalle Sezioni Unite), dal
momento che la pronuncia illegittimamente emessa andrebbe qualificata
come “sentenza condizionata” (analogamente a quella adottata nel processo
civile in pendenza di un regolamento preventivo di giurisdizione, v. Cass.,
SS.UU. 905/1999), e che pertanto, anche se passata in giudicato, questa
sarebbe destinata a essere travolta dalla decisione delle Sezioni Riunite qualora
queste affermino un principio di massima contrario a quello applicato dal
giudice della causa.
Avv. Lorenzo D’Ascia (*)
Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 3 dicembre 2008 n.
28653 – Primo Pres. V. Carbone – Pres. di sez. G. Prestipino – Rel. F. Curcuruto – Regione
siciliana (ct 4603/08, Avv. dello Stato L. D’Ascia) c/ I.F. (Avv. F. Lais) avverso la sentenza
della Corte dei Conti, sez. giurisdizionale di appello per la Regione siciliana, depositata il 24
ottobre 2007, n. 253.
«(…) Ritenuto in fatto
1. È impugnata ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 1, la sentenza con la quale la Corte
dei conti – Sezione giurisdizionale di appello per la Regione siciliana (d’ora innanzi, la
Sezione di appello) riformando la sentenza del Giudice Unico delle pensioni, ha accolto il
ricorso di I.F., ex dipendente della Regione siciliana, diretto ad ottenere la perequazione
automatica della pensione, in base a quanto stabilito dall’art. 36 della L.R. Sicilia 7 marzo
1997, n. 6.
2. La Sezione di appello, per quanto rileva in questa sede, ha ritenuto di non esser vincolata
dalla sentenza con la quale le Sezioni Riunite della Corte dei conti, decidendo su una
questione di massima ad esse deferita dal giudice di primo grado, avevano stabilito che la
normativa regionale invocata dal ricorrente dovesse essere integrata con quella contenuta
nella L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59.
3. La Sezione di appello, inoltre, dando atto che, su iniziativa del Procuratore generale
presso la Corte dei conti, le Sezioni Riunite avevano fissato l’udienza per una nuova decisione
di massima sulla questione, richiedendo alla Sezione il fascicolo processuale, ha ritenuto
di non dover aderire alla richiesta ed ha definito il giudizio disattendendo il principio di
diritto già enunciato dalle Sezioni Riunite.
4. Nella motivazione, per ciò che interessa, la Sezione d’appello ha escluso la possibilità
di applicare l’art. 374 c.p.c., comma 3, e di rimettere ancora una volta la questione alle
262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(*) Avvocato dello Stato.
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Sezioni Riunite, osservando che ritenere vincolante la decisione della questione di massima
non solo per il giudice di primo grado che ne aveva fatto richiesta ma anche per il giudice
d’appello determinerebbe una grave alterazione del sistema delle impugnazioni, risultandone
sostanzialmente svuotata di significato la funzione del giudice d’appello, posto nell’alternativa
fra l’adeguarsi all’orientamento delle Sezioni Riunite o il rimettere ad esse nuovamente
la questione.
5. Le Sezioni Riunite, rilevata la mancanza del fascicolo processuale e la intervenuta
decisione della causa, hanno dichiarato l’improcedibilità del giudizio.
6. La cassazione della sentenza è chiesta con ricorso per un motivo, illustrato da memoria,
nella quale, fra l’altro, si chiede che questa Corte estenda il contraddittorio alla Corte dei
conti ai sensi dell’art. 107 c.p.c.. L’intimato resiste con controricorso.
Diritto
7. La richiesta, formulata dalla parte ricorrente nella memoria, non può essere accolta
poiché – anche a prescindere dalla difficoltà di attribuire alla Corte dei conti la titolarità di
un rapporto giuridico connesso con quello controverso – ciò significherebbe introdurre nel
giudizio di cassazione parti diverse rispetto al giudizio nel quale è stata resa la sentenza
impugnata.
8. L’unico motivo di ricorso denunzia il difetto assoluto di giurisdizione, e il carattere
abnorme della sentenza.
Si sostiene, anzitutto, che la Sezione d’appello, intervenendo nuovamente su una questione
definitivamente decisa dalle Sezioni Riunite, avrebbe pronunziato su controversia
ormai estranea al suo potere giurisdizionale, limitato solo all’applicazione al caso di specie
del principio di diritto già fissato.
Si sostiene, inoltre, che, l’iniziativa del Procuratore Generale presso la Corte dei conti,
aveva definitivamente sottratto alla Sezione d’appello il potere giurisdizionale sulla parte del
giudizio oggetto della nuova rimessione, potendo essa solo applicare al caso di specie il principio
di diritto che sarebbe stato affermato dalle Sezioni Riunite. Quindi, ignorando deliberatamente
la richiesta di trasmissione del fascicolo di causa e decidendo anche sulla questione di
diritto, la Sezione d’appello avrebbe pronunziato in totale carenza di potere giurisdizionale.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: “dica codesta Suprema Corte se,
ai sensi del D.L. n. 453 del 1993, art. 1, comma 7, sia abnorme e comunque emessa in assenza
di potere giurisdizionale la sentenza con cui una sezione giurisdizionale di appello della
Corte dei conti, decida un appello di un giudizio pensionistico, pronunciandosi su una questione
di massima già definita nel corso del primo grado dalle Sezioni Riunite nell’esercizio
della loro funzione nomofilattica, in senso difforme da tale statuizione, e inoltre non tenendo
conto del fatto che anche nel giudizio di appello il Procuratore Generale presso la Corte
dei conti abbia richiesto che la medesima questione di massima venga rimessa alle Sezioni
Riunite della Corte dei conti, la cui segreteria, oltretutto, prima dell’udienza di discussione,
abbia inoltrato alla Sezione Giurisdizionale di appello la richiesta di trasmissione del fascicolo
per la statuizione sulla questione di diritto”.
9. Il ricorso è inammissibile.
9.1. La giurisprudenza di queste Sezioni Unite è costante nel ritenere che, nel sistema
vigente, il ricorso per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti non è incondizionato,
potendo essere sperimentato soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione ma non per
violazione di norme di diritto o per violazione delle norme che regolano il processo davanti
al giudice contabile o che ne disciplinano i poteri (Sez. Un. 17014/2003). In altri termini, il
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03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 263
sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei conti
in sede giurisdizionale è circoscritto al controllo dei limiti esterni della giurisdizione di detto
giudice, e, in concreto, all’accertamento di vizi che attengano all’essenza della funzione giurisdizionale
e non al modo del suo esercizio, talché rientrano nei limiti interni della giurisdizione,
estranei al sindacato consentito, eventuali errori “in iudicando” o “in procedendo” (v.
Sez. Un. 4956/2005; 12726/2005; nello stesso senso, fra le molte, Sez. Un. 22887/2004;
1378/2006; 15900/2006).
9.2. Il D.L. 15 novembre 1993, n. 453, art. 1, comma 7 (Disposizioni in materia di giurisdizione
e controllo della Corte dei conti) convertito, con modificazioni, dalla L. 14 gennaio
1994, n. 19, art. 1, comma 1, dispone, per quanto interessa, che: “Le sezioni riunite della
Corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima deferite dalle
sezioni giurisdizionali centrali o regionali, ovvero a richiesta del procuratore generale”.
9.3. Secondo la parte ricorrente poiché questa disposizione attribuisce esplicitamente
alle Sezioni Riunite il compito di decidere la questione di massima e non di esprimere su di
essa un parere in astratto, il giudice di appello è vincolato a tale decisione anche se emessa
su iniziativa del giudice di primo grado, e deve soltanto fare applicazione del principio di
diritto alla fattispecie sottoposta al suo esame. Inoltre, una volta che il Procuratore Generale
presso la Corte dei conti abbia nuovamente deferito la questione alle Sezioni Riunite, il giudice
di appello deve trasmettere il fascicolo processuale che gli sia stato richiesto e sospendere
il processo in attesa della nuova decisione.
9.4. Sostenere che il giudice di appello è vincolato alla decisione già assunta sulla questione
di massima equivale ad affermare che la regola di giudizio cui egli deve attenersi è
somministrata dalla legge nel significato attribuitole dalle Sezioni Riunite. Il giudice di
appello quindi non perde affatto la potestas judicandi ma deve esercitarla valutando la fattispecie
sottoposta al suo esame secondo il criterio giuridico così fissato. Perciò l’eventuale
inosservanza del principio di diritto espresso dalle Sezioni Riunite configura una violazione
delle regole processuali che disciplinano i rapporti fra due organi della stessa giurisdizione,
e si colloca interamente all’interno di questa.
Del resto – con riguardo a fattispecie simili a quella in esame – non potrebbe seriamente
mettersi in dubbio che, pur facendo un uso scorretto dei suoi poteri, non superi i limiti
esterni della propria giurisdizione il giudice di rinvio che disattenda il principio di diritto stabilito
nella sentenza di annullamento (art. 384 c.p.c.) o il giudice del lavoro che non si uniformi
all’interpretazione del contratto collettivo fornitagli da questa Corte a norma del
D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, o dell’art. 420 bis c.p.c., o la sezione di questa Corte che,
non condividendo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, decida il ricorso anziché
rimetterne a queste la decisione con ordinanza motivata (art. 374 c.p.c., comma 3).
9.5. Considerazioni analoghe devono esser fatte riguardo alla richiesta del Procuratore
generale di nuova rimessione alle Sezioni Riunite, cui – come nella specie – abbia fatto
seguito la fissazione dell’udienza da parte di queste ultime.
Si tratta, infatti, di verificare quali conseguenze ne derivino sul processo pendente dinanzi
al giudice di appello, e, in particolare, di accertare se operi o no il disposto dell’art. 295
c.p.c., e se, inoltre, il detto giudice, richiestone dalle Sezioni Riunite, sia tenuto a trasmettere
ad esse il fascicolo processuale. Anche in tal caso, la risposta a questi interrogativi va quindi
ricercata nelle norme sul processo dinanzi al giudice contabile, la eventuale violazione delle
quali non determina, come messo in luce dalla giurisprudenza (in particolare, sull’insindacabilità
del potere di sospendere il giudizio a norma dell’art. 295 c.p.c., v. Sez. Un. 22887/2004
cit.) alcun superamento dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti.
264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 264
9.6. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile in quanto: “Il sindacato delle Sezioni
Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale
non si estende alla violazione della legge processuale, che attiene al modo di esercizio e non
ai limiti esterni della giurisdizione, e non può, quindi, avere ad oggetto censure relative
all’inosservanza, da parte di una sezione giurisdizionale di appello della Corte dei conti, del
principio di diritto formulato dalle Sezioni Riunite della stessa Corte nel decidere la questione
di massima loro deferita dal giudice di primo grado, ovvero concernenti la mancata
sospensione del giudizio di appello in attesa della nuova decisione sulla questione di massima,
richiesta dal Procuratore generale della stessa Corte, e la mancata trasmissione del fascicolo
processuale alle Sezioni Riunite in vista di tale decisione”.
10. Dichiarato inammissibile il ricorso, questa Corte ritiene tuttavia che la questione
presenti uno specifico profilo di particolare importanza, e che quindi, a norma dell’art. 363
c.p.c., comma 3, così come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, vada pronunziato d’ufficio
il principio di diritto sul punto, nell’interesse della legge.
11. Il D.L. 15 novembre 1993, n. 453, art. 1, comma 7, sopra richiamato, nel disporre
che “Le sezioni Riunite della Corte dei conti decidono ... sulle questioni di massima deferite
dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali, ovvero a richiesta del Procuratore generale”
attribuisce a quest’ultimo il potere di provocare una pronunzia delle Sezioni Riunite,
senza condizionarne l’esercizio ad alcuna previa decisione del giudice dinanzi al quale pende
la causa.
La giurisprudenza del giudice contabile, con particolare riferimento al giudizio pensionistico,
quale quello in esame, ha avuto modo di puntualizzare che, in coerenza ai principi
sistematici in base ai quali nel giudizio pensionistico trovano composizione insieme a quelli
privati interessi generali dell’ordinamento ad un equilibrato adeguamento dei sistemi previdenziali,
il Procuratore generale può e deve intervenire anche attraverso la proposizione di
una questione di massima allorché rilevi un interesse generale che, ove non ben individuato
o trascurato, rimarrebbe privo di tutela non essendo necessario al riguardo il previo consenso
delle parti (Corte dei conti Sez. Riunite 24 settembre 1998, n. 219).
Lo stesso giudice contabile ha precisato, d’altra parte, che poiché la soluzione di questioni
di massima non deve avere carattere astratto ma deve concernere, in un rapporto di
pregiudizialità e connessione, l’ambito di cognizione di giudizi pendenti nei quali la decisione
delle Sezioni Riunite sia destinata a produrre direttamente effetto, la pronuncia del giudice
rimettente intervenuta nelle more della decisione sulla questione di massima deferita
rende improcedibile il relativo giudizio per sopravvenuta carenza di interesse, non potendo
la pronuncia medesima avere più effetto di giudicato sul punto controverso (Corte dei conti
Sez. Riunite, 8 novembre 2007, n. 9; v. anche id. 18 gennaio 1999, n. 2).
Alla luce di tale quadro normativo e giurisprudenziale la decisione della Sezione d’appello
di non trasmettere il fascicolo processuale alle Sezioni Riunite e di decidere la controversia
ha avuto dunque l’effetto di impedire definitivamente sia al Procuratore generale presso
la Corte dei conti che alle Sezioni Riunite della stessa Corte l’esercizio di un potere loro
assegnato dalla legge processuale. La decisione della Sezione d’appello che ha determinato
tali conseguenze è tuttavia priva di fondamento giuridico.
Infatti, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – che, nella sostanza,
ha formulato un giudizio di ammissibilità del ricorso del Procuratore generale, sottolineando
come in materia pensionistica la Procura possa agire solo nell’interesse della legge – la
valutazione dei presupposti per la proposizione da parte del Procuratore generale della questione
di massima e la stessa esatta qualificazione giuridica dell’iniziativa assunta, in man-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 265
03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 265
canza di diversa previsione di legge, non poteva spettare che alle stesse Sezioni Riunite, cui
la questione era stata nuovamente deferita.
Inoltre, per il carattere non meramente consultivo ma di decisione vincolante nel giudizio
in corso (ancorché con un ruolo di indicazione ermeneutica a valenza generale) proprio
delle pronunce in sede di risoluzione di questione di massima (v. Corte dei conti Sez. Riunite
17 novembre 1999 n. 25) l’instaurazione del giudizio dinanzi alle Sezioni Riunite, ove non
si voglia vanificarne la funzione, comporta che a tale organo sia attribuito il potere di decidere
la questione di massima, previa verifica della sua ammissibilità e dunque anche della
sua rilevanza (v. Corte dei conti Sez. Riunite 25/1999 cit.) prima della decisione da parte del
giudice dinanzi al quale pende la controversia che ha dato origine alla rimessione.
12. Può quindi essere enunciato a norma dell’art. 363 c.p.c., nell’interesse della legge,
il seguente principio di diritto:
“Qualora il Procuratore generale presso la Corte dei conti richieda alle Sezioni Riunite
della stessa Corte la soluzione di una questione di massima, il giudice della causa in relazione
alla quale la questione è sollevata non può rifiutare la trasmissione del fascicolo processuale
alle Sezioni Riunite che gliene abbiano fatto richiesta e non può decidere senza attendere
la pronunzia di detto organo”.
13. La natura della questione rende opportuno compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
A norma dell’art. 363 c.p.c., comma 3, pronuncia nell’interesse della legge il principio
di diritto di cui in motivazione. Compensa le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2008 (…)».
266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 266
L’elemento soggettivo nella responsabilità
da illegittimo esercizio della funzione pubblica
(Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 31 luglio 2008 n. 3823)
La vicenda processuale su cui incide la decisione del Consiglio di Stato
attiene al complesso tema del risarcimento danni derivanti da un provvedimento
amministrativo illegittimo. La nostra riflessione si concentra in particolare
sugli elementi riguardanti il profilo soggettivo della responsabilità da illegittimo
esercizio della funzione pubblica e sugli adattamenti che lo schema
aquiliano di cui all’articolo 2043 c.c., in cui ricondurre la responsabilità della
P.A. da lesione dell’interesse legittimo, deve subire per allinearsi alle caratteristiche
dell’oggetto attuale del processo amministrativo.
Il Consiglio di Stato, nel riconoscere la sussistenza della condotta colposa
della Amministrazione che nel caso di specie aveva agito revocando il
provvedimento di concessione per l’apertura delle sale Bingo, stante la
asserita sussistenza di condizioni di inidoneità soggettiva dipese da condanne
a carico dell’amministratore delegato delle società concessionarie
per fatti poi derubricati dal decreto legislativo 74 del 2000, ha ritenuto che
fosse non rispondente ai canoni del buon andamento e della corretta amministrazione
l’azione dei Monopoli di Stato che avevano operato sulla base
di una erronea interpretazione ed applicazione della normativa di cui all’articolo
12 del decreto legislativo 17 marzo 1995 n. 157, richiamato dall’articolo
13, lettera b del bando di gara, nonostante le note informative pervenute
dalla Intendenza della Guardia di Finanza, dall’Ufficio Territoriale del
Governo di Bari, dell’Avvocatura Generale dello Stato fossero orientate nel
senso di riconoscere la legittimità dei poteri di autotutela esercitati dall’amministrazione.
Separati i giudizi tesi ad accertare in primo luogo l’illegittimità del
provvedimento di revoca e, in un separato giudizio, la fondatezza della
domanda di risarcimento presentata dalle concessionarie, il Consiglio di
Stato, riconosciuta dapprima l’illegittimità della revoca della concessione
per l’apertura delle sale da gioco, in riferimento alla questione risarcitoria,
oggetto di cognizione in prima battuta da parte del T.A.R. Marche, ha stabilito
quanto segue.
La colpa della amministrazione va ravvisata “non già nella mera illegittimità
dei provvedimenti di esclusione delle società appellate dalle graduatorie
provinciali per l’assegnazione delle concessioni per l’attivazione delle
sale per il gioco, quanto nell’erronea interpretazione della normativa citata,
erronea interpretazione non ascrivibile ad incertezze contenutistiche e
interpretative della norma stessa, ma riconducibile ad una inescusabile
superficialità circa l’individuazione del suo ambito di applicazione con riferimento
alla situazione di fatto correttamente accertata, ricollegabile ad un
non corretto esercizio del potere discrezionale di cui l’amministrazione era
titolare per il raggiungimento dell’interesse pubblico sotteso al bando di
gara” (1).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 267
03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 267
Diversamente da quanto affermato nella decisione del T.A.R. delle
Marche in primo grado, il Consiglio di Stato ritiene che l’inottemperanza alla
precedente ordinanza cautelare n. 207 del 6 giugno 2002 costituisce non già
elemento che integra ex se il profilo soggettivo dell’illecito, quanto piuttosto
un fatto sintomatico della condotta colposa tenuta dalla amministrazione,
violativa dei principi di correttezza, buon andamento e imparzialità (2).
La definizione degli elementi costitutivi di una condotta colposa della
amministrazione passa necessariamente per la chiarificazione degli assi portanti
di quella che nella pronuncia n. 500 del 1999 della Cassazione si definisce
colpa dell’apparato. Con tale locuzione si intende ricondurre l’illecito
derivante da illegittimo esercizio della funzione pubblica al complesso delle
funzioni che la legge attribuisce alla amministrazione o, al più, al cattivo funzionamento
delle stesse (3). Appare evidente che nella ricostruzione propo-
268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(1) La decisione sopra riportata si pone in evidente contrasto con la sentenza n.
3537/2002 del Consiglio di Stato che in una controversia simile, circa la valutazione da darsi
alle disposizioni di cui all’articolo 12, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 17 marzo 1995 n. 157 ha
ritenuto che “evidente finalità della disposizione è quella di evitare che soggetti i quali, per
la commissione di determinati reati, abbiano dato prova di scarsa affidabilità morale e professionale
possano partecipare alle procedure ad evidenza pubblica e che, in tal modo, possano
perseguire, o nella fase di formazione del contratto o nel corso dell’eventuale successivo
rapporto con la Pubblica Amministrazione, risultati confliggenti con l’interesse pubblico.
La causa di esclusione dalle gare di cui trattasi si configura pertanto quale misura a salvaguardia
del buon andamento dell’azione amministrativa, volta ad impedire in concreto
che l’Amministrazione entri in rapporto con i soggetti in questione”.
(2)Il T.A.R. Marche nel giudizio d primo grado relativo alla domanda di risarcimento
presentata dalle concessionarie del gioco Bingo, in relazione al profilo della colpa
dell’A.A.M.S, ha stabilito quanto segue: “ Nel caso in esame l’Amministrazione Autonoma
dei Monopoli di Stato ha dato avvio ai procedimenti di esclusione delle società ricorrenti
risultate affidatarie della gestione delle sale destiate al gioco del Bingo a causa della mancanza
del requisito di cui al punto 13 del bando di gara, il quale prevedeva l’insussistenza
dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 157 del 1995, come
modificato dal decreto legislativo n. 65 del 2000, cioè l’emissione di sentenza di condanna
passata in giudicato, ovvero di sentenza di cui all’articolo 444 c.p.p., per qualsiasi reato
incidente sulla moralità professionale o per delitti finanziari, omettendo tuttavia di considerare
che con i decreti legislativi n. 74 del 2000 e n. 507 del 1999 si era verificata la depenalizzazione
delle fattispecie di reato ostative alla partecipazione alla gara per l’affidamento
delle concessioni.
La stessa Amministrazione era stata messa sull’avviso dell’erroneità delle proprie
determinazioni che assumevano come presupposti fatti non costituenti più reato all’epoca
dell’emanazione del bando, come indicato anche nel parere pro veritate espresso dal prof.
Fabrizio Lemme inviato all’A.A.M.S. dal legale rappresentante delle ricorrenti in data 4
aprile 20002.
A seguito di richiesta cautelare avanzata dalle ricorrenti, il Tribunale ha ingiunto
all’A.A.M.S. di portare a compimento i procedimenti di esclusione, il cui avvio veniva comunicato
con le note del 21 marzo /20002, e di adottare il provvedimento conclusivo, avuto
riguardo ai motivi di gravame proposti dalle ricorrenti. A tale ingiunzione hanno fatto seguito
i provvedimenti finali di esclusione dalle graduatorie, confermando la motivazione contenuta
nella comunicazione di avvio del procedimento”.
(3) F.G. SCOCA, Per una Amministrazione responsabile, in Giur. Cost., 1999, p. 4045 e ss.
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sta si prescinde dalla connotazione tipicamente soggettiva di colpa, intesa
quale stato psicologico di coscienza e volontà dell’agente, chiaramente non
riferibile ad una persona giuridica.
L’impossibilità di far discendere automaticamente una condotta illecita
della amministrazione, sotto il profilo della colpa, dall’accertata illegittimità
del provvedimento amministrativo, una volta superato il concetto della colpa
in re ipsa, dominante prima della sentenza delle SS.UU. del 1999, induce
l’interprete a rinvenire ulteriori indici sintomatici di una negligenza del potere
pubblico in elementi che, obiettivamente percepibili, in una con l’illegittimità
del provvedimento, conducano ad una effettiva disfunzione dell’azione
pubblica.
L’esistenza di una violazione grave e manifesta di norme di legge, il consolidarsi
di una giurisprudenza chiara e piana sul punto controverso, la partecipazione
dei privati e l’apporto collaborativo manifestato da questi nel procedimento,
il carattere vincolato dall’azione amministrativa, l’univocità della
normativa di riferimento si pongono quali sintomi di una condotta negligente
o, quanto meno, non corretta del potere pubblico, venendo poi onerata l’amministrazione
dell’allegazione degli elementi ascrivibili allo schema dell’errore
scusabile. Pare quindi introdursi una sorta di interversione dell’onere della
prova, trasferendo in capo alla amministrazione l’onere della prova dell’errore
scusabile in presenza di un provvedimento illegittimo (4).
Gli ultimi approdi della giurisprudenza (5) sembrano tuttavia ricomporre
il principio dell’onere della prova in capo al soggetto danneggiato, secondo
lo schema dell’articolo 2043, nella misura in cui, sia pur in un’ottica di
semplificazione, gravano il privato dell’allegazione di elementi, indiziari, da
cui emerga una condotta colposa della amministrazione, spettando poi alla
stessa amministrazione di indicare profili da cui far discendere l’esistenza di
un errore scusabile. Sullo sfondo, in conformità alla pronuncia delle
SS.UU., resta il libero apprezzamento del giudice al quale spetta la parola
definitiva in ordine alla esistenza o meno di una condotta colpevole della
amministrazione (6).
Orbene, l’attribuzione di un potere siffatto al singolo giudice implica evidentemente
l’ammissibilità di una serie di pronunce difformi degli organi
giudicanti investiti delle questioni risarcitorie derivanti dall’illegittimo esercizio
della funzione pubblica, essendo pacifico che l’accertamento di condotte
colpevoli della amministrazione intesa come apparato sia connotato da un
margine di non univocità derivante preliminarmente dalla non univocità della
natura dei criteri suddetti. Coglie nel segno al riguardo quella dottrina che
riconosce che l’utilizzo di criteri siffatti, in particolare per quanto riguarda
l’interpretazione della normativa di riferimento, produce, come conseguenza
logica, il potenziale conflitto delle pronunce dei collegi chiamati ad accerta-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 269
(4) F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, p. 89 e ss., Torino.
(5) Da Consiglio di Stato n. 3169/2001e ss.., Giustamm.it .
(6) Consiglio di Stato n. 2763/2008 da Giustamm.it .
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re le responsabilità civili delle amministrazioni, essendo ogni organo giudicante
caratterizzato dalla propria particolare sensibilità giuridica (7).
Ed allora la necessità di gravare l’interprete di una indagine ulteriore
rispetto al momento dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento
amministrativo, ravvisandosi la colpa della amministrazione nella lesione di
principi di correttezza e buona amministrazione, limiti esterni alla discrezionalità
amministrativa, sembra riecheggiare gli estremi del sindacato sulla
funzione amministrativa che concentra la sanzione del giudice sul momento
di sviamento nell’esercizio del potere, allorquando emergano indici sintomatici
dell’eccesso di potere che a ben guardare rappresentano proprio la violazione
dei principi summenzionati (8). Sul punto si può richiamare la nota
sentenza n. 4239/2001 del Consiglio di Stato che ha sottolineato appunto
come i criteri enunciati dalla Cassazione, nella loro sicura autonomia, presentano
tuttavia alcune evidenti analogie con i tradizionali “vizi” del provvedimento
amministrativo (9). La violazione della regola dell’imparzialità si
sovrappone, in larga misura, al vizio di eccesso di potere, la trasgressione del
principio di buon andamento ha significativi punti di contatto con la violazione
di legge, intesa come mancato rispetto delle norme che specificano i contenuti
e le modalità di esercizio del potere amministrativo.
In particolare, per ciò che concerne il vizio di eccesso di potere, lo stesso
assurge a vizio della funzione, legato alla nozione di irragionevolezza dell’operato
dell’amministrazione, alla luce delle cd. figure sintomatiche dell’assenza
di motivazione, della contraddittorietà intraprocedimentale, della contraddittorietà
fra provvedimenti, della illogicità manifesta del provvedimento.
Spesso l’eccesso di potere si manifesta per il contrasto dell’azione amministrativa
con principi di natura sostanziale, quali l’imparzialità dell’agire, la
disparità di trattamento, la violazione dell’istruttoria. In questi casi il vizio è
intimamente connesso al risultato finale dell’operato dell’amministrazione. La
stessa nozione di apparato, quanto mai rilevante nel caso in controversia,
potrebbe ricomprendere tanto l’ente competente per l’adozione del provvedimento
finale quanto il complesso degli organismi amministrativi che concorrano,
anche e solo nella fase istruttoria o consultiva, all’adozione del provvedimento
finale. Nella decisione che qui si annota l’errata interpretazione della
normativa di riferimento, che avrebbe integrato gli estremi di una condotta
colposa dell’amministrazione, nasce anche dalle relazioni formulate dalle
amministrazioni deputate a rendere pareri in merito alla questione controversa,
le quali adempiono ad una funzione che lo stesso Consiglio di Stato qualifica
come idonea a fornire gli elementi indispensabili in fatto e in diritto affinché
l’amministrazione procedente addivenga ad una decisione corretta.
270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(7) A. ZITO, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni
sulla tutela dell’interesse legittimo, p. 102 e ss., Napoli 2003.
(8) S. TARULLO, Colpa dell’amministrazione e diligenza professionale, in Giustamm.it
(9) MARIO PAGLIARULO e GUGLIELMO SAPORITO, L’amministrazione paga se c’è colpa,
in Giustamm.it .
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Nella decisione del Consiglio di Stato la violazione da parte della amministrazione
dei principi di imparzialità e correttezza andrebbe rinvenuta in una
condotta che, attenta al semplice rispetto formale ed esteriore degli atti che
hanno contribuito alla definizione della volontà della amministrazione, non è
stata orientata allo svolgimento delle opportune valutazioni in ordine alle
norma da applicare, palesandosi tale comportamento superficiale e negligente.
Superficialità e negligenza che hanno connotato l’agire della Amministrazione
dei Monopoli di Stato, nonostante la stessa, come sopra ribadito, si sia specificatamente
attenuta alle indicazioni degli organi deputati a fornire indicazioni al
riguardo, indicazioni che lo stesso Consiglio di Stato definisce indispensabili
per adottare la giusta decisione. Ecco allora che emerge la difficoltà di ricostruire
una responsabilità della amministrazione sulla base di quei criteri non
univoci che la giurisprudenza ha adottato nel momento in cui si doveva accertare
la imputabilità a titolo di dolo o colpa dei danni derivanti dall’illegittimo
esercizio della funzione pubblica, criteri la cui perplessità può determinare conseguenze
imponderabili in tema di certezza del diritto e tutela delle stesse posizioni
dei cittadini chiamati a confrontarsi, oggi più di ieri, con la necessità e gli
effetti del corretto esercizio della azione pubblica.
Dott. Francesco Scittarelli(*)
Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 31 luglio 2008 n. 3823 – Pres. L. Cossu
– Est. C. Saltelli – Ministero dell’Economia e delle Finanze e Amministrazione Autonoma
dei Monopoli di Stato (Avv. dello Stato M. Mari, ct 110272/03) c/ D.P. s.r.l., B.P. s.r.l., e ...
s.r.l. (Avv. V. Biagetti).
«(…) Fatto
Il Tribunale amministrativo regionale delle Marche con la sentenza n. 1542 del 6 dicembre
2002, non definitivamente pronunciando sulle domande proposte dalle società D.P. s.r.l.,
B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l. per l’annullamento delle determinazioni dell’Amministrazione
Autonoma dei Monopoli di Stato in data 21 marzo 2002, prot. n. 04/120670, 04/121987 e
04/121988, recanti la comunicazione di avvio del procedimento di esclusione dalle graduatorie
per la concessione della gestione del gioco del Bingo (ricorso notificato il 20 maggio
2002), e dei successivi provvedimenti direttoriali della stessa amministrazione, prot. n.
04/123911, 04/123912 e 04/123913, di esclusione dalle predette graduatorie provinciali per
le gestione del gioco del Bingo (di cui ai motivi aggiunti notificati il 26 giugno 2002), nonché
per il conseguente risarcimento del danno, annullava tutti i provvedimenti impugnati,
rinviando ad altra udienza la trattazione della domanda risarcitoria.
Il Consiglio di Stato, sezione IV, con la decisione n. 3185 del 18 maggio 2004, respingendo
l’appello proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Amministrazione
Autonoma dei Monopoli di Stato, confermava la illegittimità dei provvedimenti impugnati
per violazione ed errata applicazione dell’articolo 12 del decreto legislativo 17 marzo
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 271
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
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1997, n. 157, richiamato dall’articolo 13, lett. b), del bando di gara, in quanto, per un verso,
i precedenti penali a carico dell’amministratore delegato delle società ricorrenti si riferivano
“…a reati depenalizzati dopo le sentenze irrevocabili di condanna (per effetto del D.Lgs. n.
74 del 10 marzo 2000 e del D.Lgs. n. 507 del 30 dicembre 1999), ma da data anteriore
all’emanazione del bando di gara, risalente al 28 dicembre 2000)”, mentre, per altro verso,
la ricordata disposizione contenuta nell’articolo 12, primo comma, lett. e), del citato decreto
legislativo n. 157 del 1995 (concernente l’esclusione dei soggetti non in regola con gli
obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse) doveva essere riferita “alle situazioni
in atto al momento della domanda e non a situazioni pregresse”.
Con la sentenza n. 1260 del 5 settembre 2007 il Tribunale amministrativo regionale per
le Marche, sez. I, pronunciando sulla domanda risarcitoria proposta dalle predette società
D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l., conseguente alla (già accertata) illegittimità dei ricordati
provvedimenti di esclusione dalle graduatorie provinciali, ha riconosciuto la responsabilità
delle amministrazioni intimate a titolo di colpa e le ha condannate genericamente al risarcimento
del danno, fissando per la relativa determinazione specifici criteri, in relazione ai
quali, “prima di disporre un’eventuale consulenza tecnica o di procedere alla diretta determinazione,
anche in via equitativa” ha invitato l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli
di Stato a formulare entro sei mesi una puntuale proposta; ha quindi ulteriormente rinviato
la trattazione della causa alla pubblica udienza del 3 dicembre 2008.
Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Amministrazione Autonoma dei
Monopoli di Stato, con atto di appello notificato il 1° febbraio 2008, hanno chiesto la riforma
di tale statuizione, deducendone l’erroneità sia con riferimento alla declaratoria di
responsabilità dell’amministrazione, sia con riferimento al danno riconosciuto.
Esse hanno innanzitutto lamentato che inammissibilmente i primi giudici avrebbero
fatto discendere automaticamente la loro responsabilità (con conseguente riconoscimento del
diritto al risarcimento del danno in favore della società ricorrenti) dalla mera accertata illegittimità
dei provvedimenti di esclusione dalle graduatorie provinciali per l’assegnazione
delle concessioni del gioco del Bingo, senza tener conto che, come risultava dalla stessa
documentazione di causa, nessun addebito di colpa, per imprudenza, negligenza e/o imperizia,
poteva esser loro ascritto, avendo esse agito nell’assoluto rispetto dei canoni di imparzialità,
correttezza e buona fede.
Al riguardo le amministrazioni appellanti hanno sottolineato che era del tutto ultroneo
ed ingiustificato, sul piano del fatto oltre che del diritto, il richiamo operato dai primi giudici
alla presunta violazione dell’ordinanza cautelare n. 207 del 6 giugno 2002 (che aveva ordinato
all’amministrazione di concludere l’avviato procedimento di esclusione dalle graduatorie
provinciali tenendo conto degli spiegati motivi di ricorso), giacché i provvedimenti impugnati
(ancorché dichiarati definitivamente illegittimi) trovavano adeguata giustificazione nel
rapporto informativo del Comando generale della Guardia di Finanza del 5 aprile 2002, nel
parere del Ministero dell’Interno in data 29 marzo 2002 ed ancora nel parere dell’Avvocatura
generale dello Stato del maggio 2002, nonché nella pacifica circostanza che il decreto legislativo
n. 74 del 2000 non aveva giammai modificato, né tanto meno abrogato il contenuto
precettivo del decreto legislativo n. 157 del 1995; tutti elementi che costituivano sicuri indici
della correttezza del comportamento tenuto dell’amministrazione, con la conseguenza che
il danno asseritamente subito dalle società per effetto dell’annullamento dei provvedimenti
impugnati non poteva essere considerato iniustum, ma iure datum.
Quanto alla effettiva esistenza e consistenza del danno, le amministrazioni appellanti
hanno osservato che inopinatamente la domanda risarcitoria era stata accolta, atteso che essa
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era assolutamente priva di qualsiasi elemento di prova (tant’è che gli stessi primi giudici –
contraddicendosi – avevano inopinatamente invitato l’Amministrazione Autonoma dei
Monopoli di Stato a formulare una concreta proposta risarcitoria, precisando essi stessi che
la quantificazione delle singoli voci di danno doveva essere ancorata a prove certe, rigorose
e documentali da fornirsi dalle stesse società istanti), così che essa andava respinta.
Con specifico riferimento al quantum del detrimento patrimoniale asseritamente risentito
dalle società appellate, le amministrazioni appellanti hanno rilevato in punto di fatto che,
come risultava dalla documentazione in atti: a) le ricorrenti non erano pronte ad iniziare l’attività
di gioco, dall’inizio del mese di gennaio 2002; b) l’inizio dell’attività presupponeva
l’esito positivo del collaudo delle sale da gioco che sarebbe reso possibile solo in data successiva
al 13 marzo 2002; c) erano errate ed infondate, in quanto prive di qualsiasi supporto
probatorio, le singole voci di danno, individuate come spettanti nella sentenza impugnata,
a titolo di danno emergente, quali i canoni di locazione degli immobili, i costi sopportati
per il mantenimento delle sale, i costi generali di struttura ulteriori rispetto a quelli di mantenimento,
il costo del personale mantenuto in servizio nel periodo dal 21 marzo al 10 luglio
2002, i costi per l’asserita doppia ricerca, selezione e formazione del personale da impiegare
nelle sale da gioco, le penali contrattuali, gli interessi di mora relativi ai contratti di finanziamento,
le maggiori penali (addirittura non corrisposte per una concessione), voci per le
quali non si era neppure tenuto conto della proroga che le stesse società ricorrenti avevano
richiesto per l’effettivo allestimento delle sale necessarie per dare inizio all’attività di gioco;
d) ugualmente sproporzionato, oltre che anch’essa privo di qualsiasi prova, era il riconoscimento
di voci di danno a titolo di lucro cessante, che non poteva coincidere sic et simpliciter
con il mancato guadagno, senza tener conto della incidenza dei costi variabili correlati
all’attività intrapresa dalle stesse società ricorrenti (sia con riferimento al periodo intercorrente
dal gennaio 2002 fino all’effettivo rilascio delle concessioni, sia con riferimento a quello
intercorrente dall’apertura delle sale alla pubblicazione della decisione del Consiglio di
Stato n. 3185 del 2004).
Con atto notificato il 22/25 febbraio 2008 le società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l.,
costituendosi in giudizio, dopo aver dedotto preliminarmente la irricevibilità e/o l’inammissibilità
dell’avverso gravame per violazione dell’articolo 23 bis della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034, ne hanno chiesto il rigetto, spiegando, in via subordinata, anche appello incidentale
relativamente ai capi della sentenza con cui era state in parte respinte alcune richieste
risarcitorie.
Le parti hanno poi illustrato ampiamente con apposite memorie le proprie tesi difensive,
ribadendole nella pubblica udienza di discussione della causa.
Diritto
(...) III. Passando all’esame dell’appello principale proposto dal Ministero dell’economia
e delle finanze e dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, la Sezione è
dell’avviso che esso sia infondato e che debba essere pertanto respinto, alla stregua delle
seguenti osservazioni.
III.1. Secondo le amministrazioni appellanti l’annullamento dei provvedimenti di esclusione
dalla gara (e dalle graduatorie provinciali) per l’assegnazione delle concessioni per la
gestione di sale destinate al gioco del Bingo (di cui alla sentenza n. 1542 del 6 dicembre
2002 del Tribunale amministrativo regionale delle Marche, confermata dalla decisione n.
3185 del 18 maggio 2004 della IV Sezione di questo Consiglio di Stato) non costituirebbe di
per sé prova della loro responsabilità, nemmeno a titolo di colpa, atteso che il loro operato,
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così come del resto emergerebbe dalla documentazione in atti, sarebbe stato improntato al
massimo rigoroso rispetto dei canoni di correttezza, imparzialità e buon andamento.
Sebbene possa convenirsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’accertata
illegittimità dei provvedimenti adottati dall’amministrazione non integra di per sé gli
estremi di una condotta colposa, cui possa collegarsi automaticamente l’obbligo risarcitorio
nei confronti del destinatario dei provvedimenti stessi, dovendo a tal fine prendersi in considerazione
il comportamento complessivo degli organi che sono intervenuti nel procedimento,
il quadro delle norme rilevanti ai fini dell’adozione della statuizione finale, la presenza
di possibili incertezze interpretative in relazione al contenuto prescrittivo delle disposizioni
medesime, onde apprezzare se l’organo procedente sia incorso in violazione delle comuni
regole di buona amministrazione, di correttezza, di imparzialità e buon andamento (ex pluribus,
C.d.S., sez. VI, 21 febbraio 2008; sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500; 19 dicembre 2003,
n. 8363), tuttavia l’applicazione di tali principi al caso di specie non conduce alla tesi propugnata
dalle amministrazioni appellanti, risultando per vero ragionevoli ed immuni da censure
le differenti conclusioni cui è pervenuta la sentenza di primo grado.
Giova al riguardo rilevare che, come si ricava dalla lettura della sentenza del Tribunale
amministrativo regionale delle Marche n. 1542 del 6 dicembre 2002 e dalla decisione della
IV Sezione del Consiglio di Stato n. 3185 del 18 maggio 2004, l’annullamento dei provvedimenti
di esclusione delle società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l. dalle graduatorie provinciali
per l’assegnazione delle concessioni per la gestione delle sale destinate al gioco del
bingo è stata determinata dall’erronea applicazione dell’articolo 12 del decreto legislativo 17
marzo 1997, n. 157, richiamato dall’articolo 13, lett. b), del bando di gara: infatti, per un
verso, i precedenti penali risultati a carico dell’amministratore delegato delle società ricorrenti
riguardavano reati depenalizzati dopo le sentenze irrevocabili di condanna (per effetto
del D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000 e del D.Lgs. n. 507 del 30 dicembre 1999), ma da data
anteriore all’emanazione del bando di gara, risalente al 28 dicembre 2000), mentre, per altro
verso, la disposizione contenuta nell’articolo 12, primo comma, lett. e), del ricordato decreto
legislativo n. 157 del 1995 (che sanciva l’esclusione dei soggetti non in regola con gli
obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse) doveva essere riferita alle situazioni
in atto al momento della domanda e non a situazioni pregresse.
Nella già citata decisione n. 3185 del 18 maggio 2004 la IV Sezione del Consiglio di
Stato, confermando la correttezza della decisione di annullamento dei primi giudici, ha
espressamente sottolineato che “…appare arduo sostenere, come vorrebbe
l’Amministrazione, una ultrattività degli effetti delle condanne subite dall’A., ai fini di cui si
discute (esclusione dalla graduatoria dei soggetti concessionari per la gestione del gioco
Bingo). Come ha, invero, affermato la Corte di Cassazione penale a sezioni unite, nella sentenza
n. 35 del 2001, dopo l’abolizione del principio di ultrattività delle leggi penali tributarie
ad opera dell’art. 24, primo comma, del D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, ed in assenza
di norme disciplinanti il regime transitorio tra la vecchia e la nuova normativa, il problema
dell’individuazione della norma incriminatrice ai fatti anteriormente commessi deve essere
rivolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto intertemporale in materia penale
affermato dall’art. 2 c.p…”; inoltre, sempre secondo la ricordata decisione, “…Tali rilievi
sono determinanti anche al fine della soluzione della questione oggetto del decidere, in quanto
se è vero che il legislatore nel riformare il sistema penale tributario, assumendo come
obiettivo strategico quello di limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente correlati
alla lesione degli interessi fiscali, con rinuncia alla criminalizzazione delle violazioni meramente
formali e preparatorie (cfr. Relazione governativa al D.Lgs. n. 74/2000), ha segnato
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una frattura fra la previdente e l’attuale normativa, tale circostanza diviene ostativa alla tesi
dell’ultrattività degli effetti penali delle condanne anche per quel che riguarda i profili considerati
dall’art. 12 del D.Lgs. n. 157/95, apparendo non più dubitabile che per le fattispecie
criminose oggetto delle condanne riportate sia venuto meno definitivamente il requisito del
disvalore sociale del fatto, che costituisce il fondamento applicativo dell’art. 2 c.p.”.
La ragione dell’annullamento dei provvedimenti impugnati, in definitiva, trova fondamento
non già in un difetto di motivazione ovvero nell’erroneo accertamento ed apprezzamento
dei fatti costituenti il substrato materiale su cui si innestato l’esercizio della funzione
pubblica, quanto piuttosto nella erronea interpretazione di una norma giuridica ed in particolare
dell’applicazione del principio di ultrattività delle leggi penali tributarie, abolito per
effetto dell’articolo 24, primo comma, del D.Lgs., 30 dicembre 1999, n. 507 e dunque nel
cattivo esercizio del potere amministrativo nella individuazione delle cause che avrebbero
potuto determinare per i concorrenti il venir meno della moralità professionale.
Al riguardo le amministrazioni non hanno fornito alcun elemento di prova circa la scusabilità
di tale errore (scusabilità da ricollegare, secondo il ricordato indirizzo giurisprudenziale,
all’esistenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, della sua
incerta formulazione, sulla complessità del fatto o sulla eventuale influenza determinante di
comportamenti di altri soggetti), né hanno dedotto che nel caso di specie, in relazione ai fatti
emersi dall’attività istruttoria, i provvedimenti impugnati non potevano avere altro contenuto
di quello poi ritenuto illegittimo, non potendo ammettersi alcuna automaticità tra le informative
ottenute e gli adottati provvedimenti di esclusione, atteso che le prime dovevano costituire
oggetto di una puntuale ed attenta motivazione volta ad enucleare eventualmente le ragioni
per le quali le sentenze penali definitive, per altro per reati che successivamente il legislatore
non aveva più considerato tali, incidessero effettivamente sulla moralità professionale.
In realtà, i principi di correttezza, imparzialità e buon andamento, idonei ad escludere
una responsabilità risarcitoria dell’amministrazione, non possono ritenersi garantiti col mero
rispetto formale ed esteriore degli atti che hanno contribuito alla formazione della volontà
dell’amministrazione: in particolare, la circostanza che i provvedimenti di esclusione siano
stati adottati sulla scorta di informazioni e pareri resi dall’Ufficio Territoriale del Governo di
Bari, dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Bari e dall’Avvocatura generale
dello Stato, non è di per sé sufficiente al escludere l’imputabilità soggettiva del loro annullamento
alle amministrazioni appellanti, tanto più che tali informazioni e pareri avevano solo
lo scopo di fornire all’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato gli elementi di
fatto e/o di diritto indispensabili per adottare la giusta decisione, senza con ciò esimere l’amministrazione
stessa dal dovere giuridico di svolgere le necessarie ed opportune valutazioni
in ordine alle norme da applicare ed alla loro corretta interpretazione (giungendo eventualmente
anche a conclusioni diverse da quelle suggerite nelle predette informazioni e nei pareri,
assolutamente non vincolanti).
La colpa dell’amministrazione (e per essa dell’Amministrazione Autonoma dei
Monopoli di Stato) è stata quindi correttamente individuata dai primi giudici non già nella
mera accertata illegittimità dei provvedimenti di esclusione delle società appellate dalle graduatorie
provinciali per l’assegnazione delle concessioni per l’attivazione delle sale per il
gioco Bingo, quanto nel fatto che tale annullamento è dipeso da un’erronea interpretazione
ed applicazione della normativa di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 17 marzo 1995,
n. 157 (richiamato dall’articolo 13, lett. b, del bando di gara), erronea interpretazione non
ascrivibile ad incertezze contenutistiche e/o interpretative della norma stessa, ed in definitiva
da una inescusabile superficialità circa il suo ambito di applicazione con riferimento alla
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 275
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situazione di fatto correttamente accertata (e dunque ricollegabile ad un non corretto esercizio
del potere discrezionale di cui l’amministrazione era titolare per il raggiungimento dell’interesse
pubblico sotteso al bando di gara).
In questa ottica il richiamo operato dalla sentenza alla (violazione della) precedente
ordinanza cautelare n. 207 del 6 giugno 2002 costituisce non già l’elemento che integra ex
se il profilo soggettivo dell’illecito, quanto piuttosto un fatto sintomatico della condotta colposa
tenuta dall’amministrazione; per altro proprio la omessa valutazione di tali elementi
costituisce un ulteriore elemento a riscontro dell’infondatezza della tesi dell’asserito rigoroso
rispetto dei principi di correttezza, buon andamento ed imparzialità.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello principale
proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Amministrazione Autonoma
dei Monopoli di Stato, nonché sull’appello incidentale spiegato dalle società D.P. s.r.l., B.P.
s.r.l. e G.G.S. s.r.l., avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche,
sez. I, n. 1260 del 5 settembre 2007, respinge l’appello principale ed accoglie quello incidentale
nei sensi di cui in motivazione.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 maggio 2008 (…)».
276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Le informative prefettizie antimafia: natura,
tipologie ed effetti interdittivi
(Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima,
decisione 9 luglio 2008 n. 6487)
SOMMARIO: 1.- I fatti. 2.- Le tipologie di informative prefettizie antimafia: la disciplina
positiva e l’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia. 3.- L’informativa tipica: la
discrezionalità dell’Autorità prefettizia e il sindacato giurisdizionale. 4.- L’informativa c.d.
atipica. 5.- Le garanzie procedimentali in materia di informative prefettizie antimafia. 6.-
L’informativa prefettizia antimafia e il riparto di giurisdizione alla luce dei recenti arresti
delle Sezioni Unite. 7.- Brevi considerazioni su alcune forme di “elusione” delle finalità
della normativa in materia di informative prefettizie antimafia: la segregazione di quote
societarie in trust.
La prima sezione del T.A.R. del Lazio delinea le differenze sostanziali tra
le diverse tipologie di informative prefettizie, ribadendo il principio, affermato
da univoco orientamento giurisprudenziale, per cui, da un lato, l’informativa
antimafia tipica, adottata ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998, determina
in capo alla parte privata (sia essa persona fisica o giuridica) una situazione
generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica
amministrazione, tanto da esaurire la discrezionalità della medesima
amministrazione destinataria; mentre, dall’altro lato, l’informativa c.d. atipica
di cui all’art. 1-septies, d.l. n. 629/1982 ha un valore meramente endoprocedimentale,
circoscritto all’azione amministrativa della pubblica amministrazione
destinataria. In tali ultime ipotesi, l’amministrazione destinataria
rimane, quindi, titolare di un potere discrezionale in merito alla valutazione
delle informazioni ricevute ai fini dell’affidamento dell’appalto (ovvero della
prosecuzione del rapporto contrattuale). Ne consegue che l’efficacia interdittiva
costituisce conseguenza automatica e diretta solo dell’informativa prefettizia
tipica. Diversamente, a fronte di un’informativa c.d. atipica o supplementare,
l’interdizione dev’essere autonomamente valutata dalla pubblica
amministrazione destinataria. La pronuncia in esame evidenzia, inoltre, che
nella valutazione degli elementi e delle circostanze inerenti i tentativi di infiltrazione
mafiosa, ai sensi dell’art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252/1998 la
discrezionalità dell’autorità prefettizia è più spiccata che nelle altre ipotesi,
atteso che le “infiltrazioni” possono essere dedotte anche da parametri non
predeterminati dalla normativa di settore. La valutazione del Prefetto – precisa
il T.A.R. del Lazio – configura un tipico esercizio di discrezionalità tecnica,
in ragione delle peculiari caratteristiche di tecnica investigativa e poliziesca.
Ciò nonostante, il Collegio puntualizza che, per evitare il travalicamento
in uno “stato di polizia” e salvaguardare i principi di legalità e di certezza
del diritto, le informative prefettizie devono fondarsi, non sul semplice
sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, ma su idonei e spe-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 277
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 277
cifici elementi di fatto che rivelino obiettivamente i sintomi di effettive connessioni
o collegamenti tra l’impresa e le associazioni criminali. Da qui, il
Tribunale Amministrativo conclude che il mero rapporto di parentela, in
assenza di ulteriori specificazioni, non è di per sé solo idoneo a dare conto
del tentativo di infiltrazione mafiosa. In ogni caso, ribadendo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, il Collegio osserva che l’informativa antimafia
può essere sindacata in sede giurisdizionale solo per vizi logici e di congruità
delle notizie assunte e poste a fondamento della medesima informativa.
Tutti questi profili saranno esaminati nel commento che segue, nel tentativo
di far luce sulle complesse problematiche del sistema normativo delle
informative antimafia prefettizie, connotato da diverse oscillazioni interpretative
e incertezze definitorie, addebitabili per lo più all’uso di espressioni
con valenza sociologica più che giuridica.
1.- I fatti.
Il Prefetto di Palermo trasmetteva al Comune di Palermo l’informativa
antimafia del 26 luglio 2006, adottata ai sensi art. 1-septies, d.l. n. 629/1982,
ravvisando in ordine alle Società C. S.r.l. ed E. S.r.l. tentativi di infiltrazioni
mafiose.
In proposito, il Comitato Tecnico Scientifico dell’Ufficio Emergenza
Traffico e Mobilità del Comune evidenziava che l’informativa prefettizia ex
art. 1-septies cit. giustifica(va) ampiamente un provvedimento di diniego dell’affidamento
dell’appalto, in ragione delle peculiari problematiche antimafia
che interessano la città di Palermo.
Di seguito, il Sindaco, nella sua veste di Commissario delegato all’emergenza
traffico, invitava l’Ufficio contratti ad escludere dalla gara ad evidenza
pubblica (indetta per l’appalto di “completamento dei lavori di costruzione
del raddoppio della Circonvallazione di Palermo – II stralcio – lotto B –
da via Altofonte a via Belgio. Progetto dello svincolo di via Perpignano –
Sovrappasso pedonale”) le Società C. S.r.l. ed E. S.r.l.
Pertanto, la Commissione di gara procedeva all’esclusione di dette
Società, rilevando, ulteriormente, la mancanza del requisito della regolarità
contributiva di una delle Società al momento della presentazione dell’offerta.
L’appalto veniva poi aggiudicato ad altra concorrente, l’A. S.p.A. – M.s. c. r.l.
Le Società escluse dalla gara ricorrevano al Tribunale Amministrativo
Regionale del Lazio per l’annullamento, previa sospensiva, di tutti gli atti
amministrativi sfavorevoli adottati dal Comune e dalla Prefettura di Palermo,
deducendo a sostegno del proposto gravame molteplici motivi di illegittimità,
concernenti sia l’informativa prefettizia che l’ulteriore motivo di esclusione
inerente la regolarità contributiva. L’istanza cautelare avanzata dalle
Società veniva poi respinta sia dal Tribunale Amministrativo adito che, in
sede di appello, dal Consiglio di Stato.
In seguito, ad integrazione delle informazioni già inoltrate all’Ente locale,
l’Autorità prefettizia adottava un’ulteriore informativa antimafia ai sensi dell’art.
10, d.P.R. n. 252/98, affermando espressamente che “pur nulla figurando
a carico degli amministratori e dei direttori tecnici delle predette società, risul-
278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 278
tano sussistenti elementi e circostanze oggettive che inducono a ritenere fondatamente
le società medesime condizionate dalla mafia”. Avverso tale nota
prefettizia, le parti private proponevano ricorso per motivi aggiunti.
Con la decisione in commento la prima sezione del T.A.R. del Lazio ha
preliminarmente rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dal
Comune di Palermo, in ragione della mancata notifica della relativa istanza a
tutte le parti in causa ai sensi dell’art. 31, comma 3, legge n. 1034/1971. Il
Collegio ha ritenuto, altresì, infondata l’ulteriore eccezione di inammissibilità
dei ricorsi, principale e per motivi aggiunti, atteso il loro tempestivo deposito.
Sotto altro profilo, il Collegio ha rilevato l’improcedibilità, per sopravvenuta
carenza di interesse, del ricorso principale, già proposto avverso la
prima delle informative antimafia adottate dal Prefetto di Palermo, chiarendo,
sul punto, che il rapporto giuridico controverso dedotto in giudizio è (rectius:
era) strettamente connesso alla seconda delle informative antimafia
(adottata ai sensi art. 10, d.P.R. n. 252/98). Altrimenti detto, l’eventuale accoglimento
del ricorso principale non avrebbe potuto determinare alcuna utilità
alle Società ricorrenti, e ciò con maggior riguardo all’impugnazione proposta
avverso l’informativa prefettizia c.d. atipica. Tuttavia, il Collegio ha
ritenuto che, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso proposto per motivi
aggiunti avverso la successiva informativa prefettizia ex art. 10, d.P.R.
252/98, residuerebbe in capo alle ricorrenti un interesse all’esame del ricorso
introduttivo del giudizio, seppur circoscritto alla censura afferente l’esclusione
dalla gara per mancanza del requisito della regolarità contributiva di
una delle Imprese al momento dell’offerta.
Il Tribunale Amministrativo ha, in conclusione, rigettato il ricorso proposto
per motivi aggiunti, affermando la congruità della motivazione posta a
base dell’informativa antimafia adottata ai sensi dell’art. 10 cit. L’elemento
parentale, dal quale il Prefetto ha desunto il tentativo di infiltrazione mafiosa
nelle imprese, di per sé solo non giustificativo dell’informativa interdittiva,
è stato supportato – in punto di fatto – da ulteriori specifici indizi e circostanze
dai quali può desumersi, ragionevolmente, il tentativo di ingerenze
malavitose nelle Imprese ricorrenti.
È questa la parte della decisione che verrà esaminata nel presente lavoro,
offrendo la stessa spunti di riflessione in ordine al vigente sistema delle informative
antimafia prefettizie, argomento particolarmente carico di implicazioni
che necessitano di un’attenta messa a punto.
2.- Le tipologie di informative prefettizie antimafia: la disciplina positiva e
l’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia
Il sistema delle informative antimafia è disciplinato dal D.Lgs. 8 agosto
1994, n. 490(1), recante Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994,
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 279
(1) C.d. decreto Maroni, emanato in attuazione della delega conferita al Governo dalla
legge 17 gennaio 1994, n. 47. Sulle novità introdotte dal D.Lgs. n. 490/1994, si veda
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 279
COLOMBO-MAGISTRO, La legislazione antimafia, Milano, 1994; FANELLI, La certificazione
antimafia, in Riv. amm., 1996, 469; FORLENZA, La nuova certificazione antimafia, in
Giornale dir. amm., 1995, 36 ss.; GRAZIANO, Appalti pubblici: il nuovo regime delle certificazioni
“antimafia” dopo il D.Lgs. 8 agosto 1994, n. 490, in Riv. trim. app., 1996,
455; INFANTE - MENICHELLI, Origini ed evoluzione della certificazione antimafia, in Dir.
pen. e proc., 1997, 1525; TITOMANLIO, La certificazione antimafia, in Cons. Stato, 1995,
II, 793.
(2) In ordine all’evoluzione legislativa in materia di informative antimafia, si veda
CNEL, Le norme antimafia dal Regno d’Italia al Codice dei Contratti Pubblici, cap. III, 29
ss., in Rapporto su Il contrasto dei fenomeni di illegalità e della penetrazione mafiosa nel
ciclo del contratto pubblico (Assemblea 26 giugno 2008), in www.portalecnel.it; già, CNEL,
Rapporto su Subappalto: legislazione antimafia e politiche di prevenzione (Assemblea 18
luglio 2002), loc. ult. cit.; altresì, CARINGELLA, Legislazione antimafia e appalti pubblici, in
Urb. e app., 1997, 369; ID., L’assetto delegificato della normativa antimafia e la nuova
disciplina del subappalto, in www.giustamm.it; CARINGELLA - DEMARZO, La normativa antimafia,
in La nuova disciplina dei lavori pubblici, Milano, 2003; FRATTASI, Relazione al convegno
organizzato dall’I.G.I. in data 10 luglio 2008 sul tema I tentativi di infiltrazione mafiosa,
le informative tipiche e quelle atipiche o supplementari: il punto della situazione e le prospettive,
in www.igitalia.it; MUTTONI, Informazioni prefettizie antimafia e appalti. Testi, contesti
e Costituzione, in I contratti dello Stato e degli Enti pubblici, 2008, n. 2, 161 ss., ove
ulteriori riferimenti; SUPPA - FURCINITI, Gli appalti pubblici nella legislazione penale e antimafia,
Cacucci Editore, 2001.
(3) Sulla portata dell’art. 247 del Codice sia consentito rinviare a MEZZOTERO, Le disposizioni
di coordinamento finali e transitorie e le abrogazioni, in Il nuovo codice dei contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture. Commentario sistematico a cura di F. SAITTA,
Padova, 2008, 1329 s.
(4) Ci si riferisce all’art. 38, che, nel riprodurre l’art. 75, d.P.R. 554/1999, stabilisce i
requisiti d’ordine generale per la partecipazione alle procedure di affidamento di appalti pub-
280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa
antimafia (successivamente modificato ed integrato dal d.P.R. 3 giugno 1998,
n. 252), il quale ha fortemente innovato la previgente normativa di settore. La
certificazione prodotta dal concorrente è stata sostituita con la trasmissione
diretta alla stazione appaltante, a cura della Prefettura competente per territorio,
della documentazione e delle notizie rilevanti(2).
Il D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti pubblici) non
ha apportato alcuna modifica alla normativa già vigente, disponendo l’art.
247 (normativa antimafia) del Codice che “Restano ferme le vigenti disposizioni
in materia di prevenzione della delinquenza di stampo mafioso e di
comunicazioni e informazioni antimafia”(3).
Così come formulata, la disposizione potrebbe in effetti apparire superflua.
Volendo attribuire un senso proprio alla disposizione normativa, altrimenti
riproduttiva di un principio generale indiscusso – quello della specialità
della normativa antimafia – il quale, pertanto, avrebbe comunque trovato
piena applicazione nel settore degli appalti pubblici, si potrebbe ritenere che
l’espressa ed incondizionata salvezza della normativa antimafia non incorporata
nel Codice sia stata posta per escludere che le disposizioni in materia di
prevenzione del fenomeno mafioso contenute nel Codice stesso(4) possano
avere carattere sostitutivo anziché unicamente integrativo delle disposizioni
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blici, prevedendo quali cause interdittive, per quanto rileva ai fini della c.d. prevenzione antimafia,
quelle connesse alle misure di prevenzione ed alle condanne penali (rispettivamente,
lett. b e c dell’art. 38).
(5) Si veda, a tal proposito, CHINÈ, Le cause di esclusione dalle gare: condanne penali
e informative interdittive. Relazione al convegno organizzato dall’I.G.I. in data 10 giugno
2008, sul tema Codice dei contratti: problemi applicativi dell’art. 38 (cause di esclusione) e
degli articoli 45 (elenchi) e 232 (albi di fiducia). Le soluzioni prospettate nel commentario
di Garofoli e Ferrari, in www.igitalia.it; LILLI, Informativa antimafia atipica: per l’esclusione
serve la motivazione, in Diritto e pratica amministrativa, 2009, 1, 47; in giurisprudenza:
Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, in www.lexitalia.it.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 281
generali in materia di prevenzione della delinquenza di stampo mafioso e di
comunicazioni e informazioni antimafia. Per tale ragione, quindi, il legislatore
ha avvertito la necessità di dettare una disposizione di chiusura, prevedendo
l’espressa salvezza delle vigenti disposizioni in materia di prevenzione
antimafia e di informative prefettizie e, dunque, anche dell’art. 10, comma 7,
lett. c), d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, relativo agli accertamenti disposti dall’autorità
prefettizia al fine di verificare l’eventuale sussistenza di tentativi di
infiltrazione mafiosa nella struttura societaria. Con l’art. 247, dunque, il legislatore
ha inteso ribadire nella sedes materiae più consona (un testo normativo
appositamente dettato per la disciplina degli appalti pubblici) un principio
generalissimo: la perdurante applicabilità delle specifiche disposizioni in
materia di prevenzione della criminalità organizzata e di comunicazioni e certificazioni
antimafia, al fine di escludere dal mercato dei pubblici appalti l’imprenditore
che sia sospettato di legami o condizionamenti mafiosi, mantenendo
così un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa
per contrastare un eventuale utilizzo distorto delle risorse pubbliche.
In ogni caso, è opinione comune che la normativa inerente la disciplina
delle informative antimafia, alla quale l’art. 247 del Codice dei contratti pubblici
compie generale rinvio, si inserisce nel più ampio contesto normativo
delle cause di esclusione dei concorrenti dalle procedure ad evidenza pubblica
di cui all’art. 38 del Codice stesso(5).
L’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 490/1994 dispone testualmente che “le pubbliche
amministrazioni, gli enti pubblici e gli altri soggetti di cui all’art. 1
devono acquisire le informazioni di cui al successivo comma 4, prima di stipulare,
approvare o autorizzare i contratti e subcontratti ovvero prima di
rilasciare o consentire le concessioni o erogazioni indicati nell’allegato 3”.
Il successivo comma 4 sancisce, poi, che “il Prefetto trasmette alle amministrazioni
richiedenti le informazioni concernenti la sussistenza o meno, a
carico di uno dei soggetti indicati nelle lettere d) ed e) dell’allegato 4, delle
cause di divieto o di sospensione dei procedimenti indicate nell’allegato 1,
nonché le informazioni relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa
tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”.
In proposito, l’allegato 1 elenca le cause di divieto, di sospensione
e di decadenza tassativamente previste dall’art. 10, legge n. 575/1965
(Disposizioni contro la mafia).
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Il comma 6 dell’art. 4 cit. prevede, inoltre, che “quando, a seguito delle
verifiche disposte a norma del comma 4, emergono elementi relativi a tentativi
di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni
cui sono fornite le relative informazioni prefettizie non possono stipulare,
approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare,
rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni”.
Analoghe disposizioni sono, inoltre, contenute nell’art. 10, comma 2,
d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione
dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni
antimafia), che ha accorpato in una specie di testo unico regolamentare
le disposizioni in materia di certificazione e documentazione antimafia
contenute in diversi testi, tra cui, in particolare, il citato D.Lgs. n.
490/1994(6).
In particolare, il successivo comma 7 dell’art. 10, d.P.R. 252/98 dispone
che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte:
a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio,
ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di
cui agli artt. 629, 644, 648 bis e 648 ter del codice penale, o dall’art. 51,
comma 3 bis, del codice di procedura penale;
b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle
misure di cui agli artt. 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater, l. n. 575/1965;
c) dagli accertamenti disposti dal Prefetto anche avvalendosi dei poteri di
accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti
ai Prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia.
È evidente che, con il sistema delle informative antimafia, il legislatore
ha inteso accostare alle misure di prevenzione antimafia un altro significativo
strumento di contrasto della criminalità organizzata, consistente nell’esclusione
dell’imprenditore, che sia sospettato di legami o condizionamenti
da infiltrazioni mafiose, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale,
dalla stipula di tutti quei contratti (e dell’accesso ai finanziamenti) che presuppongono
la partecipazione di un soggetto pubblico e l’utilizzo di risorse
della collettività. Si tratta, quindi, di un’azione preventiva che vale ad estromettere
in via definitiva le associazioni a delinquere da un intero settore della
282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(6) Per un commento alla disciplina regolamentare, si veda, in particolare,
ZGAGLIARDICH - MENGOTTI, La nuova certificazione antimafia. Il d.P.R. 252/98 e la nuova
disciplina vigente dal 28 settembre 1998, Milano, 1998; in argomento, ARSÌ, La semplificazione
delle comunicazioni e delle informazioni antimafia (commento al d.P.R. 3 giugno
1998, n. 252), in Giornale dir. amm., 1998, 922; INFANTE - MENICHELLI, Le più recenti vicende
della certificazione antimafia, in Dir. pen. e proc., 1998, 108.
(7) Per approfondimenti, all’attualità, sul fenomeno mafioso, si vedano le relazioni
semestrali al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia, in www.interno.it. In ordine
all’evoluzione sociologica del fenomeno mafioso, con particolare riguardo alla ‘ndrangheta,
si veda, per tutti, GRATTERI - NICASO, Fratelli di sangue, Pellegrini Editore, 2007; con
riguardo ai fatti di mafia in Sicilia ed emersi nel corso dei noti processi contro cosa nostra,
STAJANO, Mafia - L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, 1986. In ordine al
volume di affari degli investimenti dello Stato attraverso gli appalti di opere pubbliche,
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 282
vita economica del Paese(7). Il divieto di contrarre (inteso nel senso lato
appena accennato) costituisce una misura cautelare di tipo spiccatamente preventivo,
che mira a contrastare l’azione del crimine organizzato, colpendo gli
interessi economici delle associazioni, anche a prescindere dal concreto
accertamento in sede penale di uno o più reati che vi siano direttamente connessi,
come in seguito si dirà.
In particolare, dal quadro normativo appena tratteggiato, è dato desumere
che l’art. 4, D.Lgs. n. 490 del 1994 sancisce il divieto di contrattazione con
la p.a., esplicitato anche nella formula del divieto di approvazione o autorizzazione
dei contratti, ove sia maturata a carico dell’impresa una delle due
seguenti circostanze:
a) quando l’informazione prefettizia comunichi la sussistenza a carico
dei soggetti responsabili dell’impresa (così come puntualmente identificati
dalla legge) delle cause di divieto o di sospensione dei procedimenti indicate
nell’allegato 1, D.Lgs. n. 490 del 1994 (ossia le cause di divieto, di sospensione
o di decadenza previste dall’art. 10, legge 31 maggio 1965, n. 575, che,
a sua volta, si riferisce all’applicazione di misure di prevenzione ovvero
all’applicazione provvisoria di provvedimenti giudiziali interdittivi nel corso
del procedimento aperto per l’applicazione delle dette misure);
b) quando la Prefettura trasmetta (alla stazione appaltante) “informazioni
relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa” tendenti a condizionare
le scelte e gli indirizzi delle società od imprese interessate. I tentativi di
infiltrazione mafiosa possono essere desunti da:
– provvedimenti o proposte di provvedimenti, come indicato nelle lett. a)
e b) dell’art. 10, comma 7, d.P.R. n. 252/1998;
– accertamenti prefettizi, come indicato nella successiva lett. c).
La prassi amministrativa sviluppatasi sull’esegesi della normativa contenuta
nel D.Lgs. n. 490/1994 e nel d.P.R. n. 252/1998, e supportata dalla
costante riflessione giurisprudenziale(8), ha delineato tre categorie di infor-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 283
anche a fini statistici, GIAMPAOLINO, Presentazione della Relazione annuale (2007) al
Parlamento, Camera dei Deputati - 9 luglio 2008, in www.autoritalavoripubblici.it.
(8) In ordine alla distinzione fra le tre tipologie di informative antimafia, si vedano, in
giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. VI, 21 ottobre 2005, n. 5952, in Foro amm. CdS, 2005, 10,
3031; Cons. St., sez. IV, 15 novembre 2004, n. 7362, in www.giustizia-amministrativa.it;
Cons. St., sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4065, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez.
IV, 1 marzo 2001, n. 1148, ivi; Sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, ivi; C.G.A., 16 settembre
2002, n. 543, ivi; più di recente, con estrema chiarezza, C.G.A., 28 dicembre 2006, n. 873,
in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948, in Urb. e app., 2007, 975 ss.;
Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit.
In dottrina, in argomento, BOTTO, Antimafia e contratti pubblici: il punto della situazione
e le prospettive. Relazione al convegno organizzato dall’I.G.I. in data 10 luglio 2008 sul
tema I tentativi di infiltrazione mafiosa, le informative tipiche e quelle atipiche o supplementari:
il punto della situazione e le prospettive, in www.igitalia.it; CACACE, Tutela antimafia e
grandi opere, Contenzioso e giurisprudenza, in www.giustizia-amministrativa.it.; CHINÈ, op.
cit.; CIMINI, La nuova documentazione antimafia: le “informazioni” del Prefetto, in Foro it.,
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mative prefettizie:
1.- la prima, ricognitiva di cause di divieto, di per sé interdittive, ai sensi
dell’art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 490/1994, che nel sistema del d.P.R. n.
252/1998 possono identificarsi con “le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione
mafiosa” desunte dalle lett. a) e b) del comma 7 dell’art. 10(9);
2.- la seconda, relativa ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti
a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o delle imprese interessate,
la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del Prefetto e
che nel sistema del d.P.R. n. 252/1998 possono identificarsi negli elementi
emersi dagli accertamenti di cui alla lett. c), comma 7, dell’art. 10, d.P.R. cit.;
tale informativa ha carattere accertativo-costitutivo di elementi relativi a tentativi
di infiltrazione mafiosa nella società interessata;
3.- la terza, relativa alle informazioni cd. atipiche o supplementari (o
aggiuntive), il cui effetto interdittivo è rimesso ad una valutazione autonoma
e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa, prevista
dall’art. 1-septies(10), d.l. 6 settembre 1982, n. 629, convertito con modificazioni
dalla l. 12 ottobre 1982, n. 726 (articolo aggiunto dall’art. 2, legge 15
novembre 1988, n. 486, e richiamato dall’art. 10, comma 9, d.P.R. n.
252/1998), fondata sull’accertamento di elementi e circostanze che “pur
denotando il pericolo di collegamento fra imprese e la criminalità organizzata
non raggiungono la soglia di gravità prevista dall’art. 4, D.Lgs.
490/1994, vuoi perché carenti di alcuni requisiti soggettivi o oggettivi perti-
284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
2002, III, c. 291 ss.; DE GIOIA, L’informativa prefettizia antimafia: per l’atipica l’effetto
interdittivo non è automatico, nota a Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948, in Urb. e
app., 2007, 8, 975 ss.; FILIPPETTI, Le informative antimafia atipiche: l’inderogabile esercizio
della discrezionalità amministrativa, in Il Corriere del Merito, 2006, 10, 1197, ove ulteriori
riferimenti giurisprudenziali; MUTTONI, op. cit.
(9) Osserva, BOTTO, op. cit., che “la natura ricognitiva di tale informativa prefettizia si
evince con estrema chiarezza dalla presenza di provvedimento lato sensu giudiziari, dei
quali il Prefetto si limita a dare notizia alla stazione appaltante richiedente”.
(10) La norma dispone, testualmente, che “L’Alto commissario [per la lotta contro la
delinquenza mafiosa] può comunicare alle autorità competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni,
concessioni in materia di armi ed esplosivi e per lo svolgimento di attività economiche,
nonché di titoli abilitativi alla conduzione di mezzi ed al trasporto di persone o cose,
elementi di fatto ed altre indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità
ammessa dalla legge, dei requisiti soggettivi richiesti per il rilascio, il rinnovo, la sospensione
o la revoca delle licenze, autorizzazioni, concessioni e degli altri titoli menzionati”. In
ordine all’applicazione ratione temporis della norma si veda T.A.R. Calabria, Reggio
Calabria, 21 gennaio 2001, n. 21, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui “Venuta a
cessare la figura dell’Alto Commissario, le cui competenze sono passate dal 1 gennaio 1993
al Ministro dell’Interno e per sua delega ai Prefetti (art. 2, secondo comma quater d.l. 29
ottobre 1991 n. 345 convertito dalla legge n. 410 del 1991), questi ultimi risultano oggi investiti
di un’ulteriore competenza in tema di informativa antimafia, che si aggiunge alle altre
due già considerate. Rispetto a queste, tale terzo ordine di competenze si differenzia per la
natura meramente partecipativa delle notizie e delle indicazioni, i cui effetti sono rimessi
esclusivamente alle valutazioni discrezionali dell’Amministrazione interessata”.
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nenti alle cause di divieto o sospensione, vuoi perché non integranti del tutto
il tentativo di infiltrazione”(11). Ciò in applicazione del più generale principio
di collaborazione tra le pubbliche amministrazioni. Tuttavia, in forza dell’art.
113, R.d. n. 827/1924 (Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e
per la contabilità generale dello Stato), tale informativa, anche se priva di
efficacia interdittiva automatica, “consente l’attivazione degli ordinari poteri
discrezionali di ritiro del contratto da parte della stazione appaltante”(12).
Occorre precisare che, ai sensi dell’art. 1, lett. e), d.P.R. n. 252/1998, la
documentazione relativa ai requisiti antimafia di un soggetto non è richiesta
dall’Amministrazione per provvedimenti e contratti di valore inferiore a trecento
milioni delle vecchie lire, pari ad €. 154.937,07. In buona sostanza,
l’acquisizione dell’informativa antimafia sub 1) e 2) – nell’ambito della
disciplina dettata dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 – è obbligatoria per i contratti
sopra soglia comunitaria (fissata dall’art. 28, comma 1, lett. c), D.Lgs.
n. 163/2006, in €. 5.278.000,00), mentre sussiste un potere discrezionale per
le stazioni appaltanti di richiedere alla Prefettura l’informativa antimafia, di
cui all’art. 10, d.P.R. n. 252/1998, anche nel caso di gara d’appalto di importo
inferiore alla soglia comunitaria, ma non inferiore a trecento milioni delle
vecchie lire (pari ad €. 154.937,07), limite espressamente previsto dal cit. art.
1, lett. e)(13).
3.- L’informativa tipica: la discrezionalità dell’Autorità prefettizia e il sindacato
giurisdizionale.
Come già avvertito, le informative antimafia tipiche – sub 1) e 2) – adottate
ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998, determinano una situazione
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 285
(11) Cfr., Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979, in Appalti Urbanistica Edilizia,
2004, 212 e in www.giustamm.it.
(12) Cfr., Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979 cit.; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio
2002, n. 149, in Foro amm. CdS, 2002, 145; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, in
www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui l’applicazione dell’art. 1-septies cit. ai contratti
ad evidenza pubblica trova riscontro nell’art. 113 R.d. n. 827/1924, a tenore del quale: “per
gravi motivi di interesse pubblico o dello Stato, il Ministro o l’autorità delegata … può negare
l’approvazione dei contratti anche se riconosciuti regolari”.
(13) Si veda, in proposito, Cons. St., sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 240, in Guida al diritto,
2008, n. 9, 72, con nota di GIUNTA, Riconosciuto da giudici di Palazzo Spada il potere
discrezionale dell’amministrazione; da ultimo, Cons. St., sez. V, 19 settembre 2008, n. 4533,
in www.giustamm.it, secondo cui: “Il d.P.R. n. 252/1998 impone, da un lato, l’obbligo assoluto
di acquisire l’informativa antimafia qualora l’importo della gara di appalto superi la
soglia comunitaria (art. 10); dall’altro, esclude la richiesta di tale informativa nel caso di
appalti di importo inferiore a Lire 300 milioni (art. 1 lett. e). Al di là di questi due valori (da
£. 300 milioni alla soglia comunitaria), la normativa non dà alcuna specifica indicazione (se
debba valere il solo certificato camerale antimafia ovvero se sia ammessa, in aggiunta a
questo, la possibilità di richiedere informazioni), per cui, in questa zona non regolamentata,
non può escludersi l’esercizio della discrezionalità della stazione appaltante, nel senso
che la stessa è legittimata a richiedere le informazioni antimafia, e che, una volta formulata
la richiesta, il Prefetto sia tenuto a dare seguito a tale richiesta”.
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generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica
amministrazione, in capo alla quale non residua alcun potere discrezionale in
ordine all’apprezzamento della medesima informativa. In tali ipotesi, l’esclusione
dell’impresa deriva direttamente dall’atto prefettizio. Sicchè, deve ritenersi
che l’informativa prefettizia tipica è un atto immediatamente lesivo, che
– a differenza dell’informativa c.d. atipica – può essere autonomamente
impugnato in sede giurisdizionale, indipendentemente dall’esito della specifica
gara in cui tale informativa sia intervenuta, non dovendosi attendere il
consequenziale provvedimento sfavorevole adottato dall’amministrazione
sulla base dell’informazione (ad esempio, l’esclusione del privato dalla procedura,
la negazione della stipulazione del contratto, l’atto di revoca o recesso
dal contratto o l’atto con il quale si prevede il recupero delle somme erogate
o delle agevolazioni concesse)(14).
Del pari, viene ritenuto immediatamente lesivo e direttamente impugnabile
il provvedimento reiettivo dell’istanza di aggiornamento delle informative,
proposta ai sensi dell’art. 10, comma 8, seconda alinea, d.P.R. n. 252/98,
trattandosi di un procedimento di secondo grado che presuppone l’esercizio
di una discrezionalità tecnica volta alla rivalutazione di una precedente determinazione
in materia di antimafia e che si caratterizza per la natura obbligatoria
della funzione: non costituisce, infatti, propriamente una manifestazione
di autotutela decisoria, essendo principalmente volto alla salvaguardia dell’interesse
di un’impresa a poter instaurare e conservare rapporti economici
e commerciali con le amministrazioni pubbliche(15).
In casi eccezionali, tuttavia, è consentito alla stazione appaltante, a seguito
del ricevimento di un’informativa antimafia tipica, mantenere il rapporto
contrattuale; si tratta di fattispecie straordinarie, nelle quali la cura dell’interesse
pubblico impone di non recedere dal contratto ovvero di situazioni di
emergenza, delle quali dovrà essere data circostanziata prova nella motivazione
dell’atto dell’amministrazione appaltante. Tali eccezionali casi sono, in
genere, ricondotti dalla giurisprudenza all’ipotesi in cui il rapporto contrattuale
sia in corso di esecuzione già da un cospicuo lasso di tempo e sussistano
concrete ragioni che rendano del tutto sconveniente per l’amministrazio-
286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(14) In tal senso, da ultimo, Cons. St., sez. VI 19 agosto 2008, n. 3958, in www.lexitalia.
it, ove il Collegio ha osservato che “l’informativa antimafia ex art. 10, d.P.R. n. 252/1998
non è parte integrante delle procedure di gara, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 bis, l. n.
1034/71, ma resta provvedimento autonomamente lesivo, in quanto incidente sulla capacità
contrattuale e sulla produttività dell’impresa destinataria, interessata alla relativa impugnazione
anche indipendentemente dall’esito della gara stessa, quanto meno sotto il residuale
profilo risarcitorio. L’impugnazione del provvedimento in questione, pertanto, resta sottratta
al regime dell’art. 23 bis, l. n. 1034/71, con particolare riguardo alla dimidiazione dei termini
processuali prevista per i procedimenti abbreviati, dimidiazione che è applicabile solo
agli atti inerenti alla procedura di gara”; nello stesso senso, in motivazione, Cons. St., sez.
VI, 17 luglio 2008, n. 3603, in loc. ult. cit.
(15) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 dicembre 2005, n. 20719, in Foro
amm. Tar, 2005, 12, 4060.
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ne l’interruzione della fornitura, del servizio o dei lavori che formano l’oggetto
del contratto revocando, ad esempio per la difficoltà di trovare un
nuovo contraente o in ragione dell’avanzato stato di esecuzione dei lavori(
16). Ne deriva che, come detto, la motivazione dovrà essere ampia a supporto
di dette circostanze, diversamente dall’opposto caso in cui, in assenza
di queste ultime, non vi siano ragioni per vanificare la portata dell’informazione
interdittiva. In quest’ultimo caso, invero, a giustificare l’adozione del
provvedimento è sufficiente il rinvio alla stessa.
Il fondamento normativo di tale eccezionale potere è generalmente rinvenuto
dalla giurisprudenza nel disposto di cui all’art. 11, comma 3, d.P.R. n.
252/98, il quale prevede il potere di non revocare l’appalto, sebbene il collegamento
dell’impresa con organizzazioni malavitose sia stato accertato, al fine di
tutelare l’interesse pubblico. In ogni caso, rispetto all’eventualità di proseguire
comunque un rapporto con un’impresa sospettata di essere soggetta ad infiltrazioni
mafiose, risulta senz’altro prevalente, come corollario del fondamentale
principio di imparzialità e buona amministrazione, l’opposta esigenza di salvaguardare
l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché di serbare un atteggiamento
di favore per quelle imprese che operano sul mercato in condizioni di assoluta
trasparenza. Il che impone di circoscrivere l’esercizio di tale facoltà alle suindicate
eccezionali ipotesi individuate dalla giurisprudenza (17).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 287
(16) In questi termini, C.G.A., 28 dicembre 2006, n. 873, in www.lexitalia.it; Cons. St.,
sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135, in Foro amm. CdS, 2006, 6, 1819; Cons. St., sez. VI, 30
dicembre 2005, n. 7619, ivi, 2005, 12, 3727; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 4 maggio
2007, n. 4730, in www.neldiritto.it; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 29 gennaio 2004, n.
919, in www.giustizia-amministrativa.it.
(17) In proposito, si veda T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n. 7811, in
Foro amm. Tar, 2005, 6, 2110, ove si sottolinea che il potere riconosciuto in capo alla stazione
appaltante di decidere di proseguire il rapporto con un’impresa sospettata di essere
soggetta ad infiltrazioni mafiose è legittimamente esercitabile solo nell’eventualità, debitamente
dimostrata, di gravi ragioni di interesse pubblico che impediscano la cessazione del
contratto e che legittimino, per l’esistenza di obiettive circostanze di fatto, il sacrificio di un
interesse pubblico fondamentale, quale quello tutelato dalla disciplina antimafia, alla salvaguardia
dell’ordine e della sicurezza pubblica; nello stesso senso, da ultimo, T.A.R.
Campania, Napoli, sez. I, 17 novembre 2008, n. 19674, in www.giustamm.it, ha evidenziato
come il potere discrezionale riconosciuto alla stazione appaltante in presenza di informative
antimafia - con particolare riguardo alle fattispecie tipiche di natura successiva ed a quelle
supplementari atipiche - sia estremamente ridotto, trattandosi di un potere esercitabile solo
in presenza di situazioni che, pur sussistendo controindicazioni antimafia, inducano comunque
ad instaurare o proseguire il rapporto contrattuale o concessorio; le ragioni di tale orientamento
- precisa il Collegio - muovono proprio dalla natura dell’accertamento antimafia e
dall’esigenza di tutelare in via preferenziale, anche tramite l’operatività di meccanismi di
tipo indiziario, la trasparenza e l’immunità del settore dei pubblici appalti da fenomeni invasivi,
anche interposti, da parte della criminalità organizzata. A fungere da contraltare a tale
rigido meccanismo inibitorio v’è la facoltà - posta anche a tutela dell’impresa, ma comunque
pur sempre nell’ottica del perseguimento del pubblico interesse - di non inibire il vincolo
esistente, e ciò a presidio di interessi contingenti che inducono a ritenere la prevalenza di
questo sulle esigenze di tutela antimafia; è in tal senso che s’impone all’Amministrazione di
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Il potere di accertamento delle cause interdittive è demandato, in via
esclusiva, alla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo(18), la cui attività
amministrativa è vincolata sia in ordine all’adozione dell’atto che in merito
all’accertamento dei presupposti in presenza di cause interdittive specificamente
previste dalla legge (indicate nell’allegato 1 al D.Lgs. 490/1994),
mentre è, comunque, vincolata nell’adozione dell’atto, ma è discrezionale
nella valutazione dei presupposti, quando la causa interdittiva consiste nella
presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa desunti da provvedimenti o proposte
di provvedimenti ai sensi dell’art. 10, comma 7, lett. a) e b), ovvero
dagli accertamenti prefettizi effettuati ai sensi dell’art. 10, comma 7, lett. c),
d.P.R. n. 252/1998.
288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
giustificare una scelta siffatta, che, andando in direzione opposta ad esigenze che il legislatore
ha voluto tutelare nella massima forma di anticipazione compatibile con i valori costituzionali
di riferimento, si caratterizza per la sua natura eccezionale, richiedendo all’uopo
una puntuale motivazione, laddove, invece, nella logica di un suo ordinario sviluppo, l’azione
amministrativa imporrebbe l’adozione della misura inibitoria.
(18) In ordine alla competenza territoriale dell’Autorità prefettizia, si veda, in particolare,
T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 aprile 2008, n. 493, in www.giustizia-amministrativa.
it, ove il Collegio afferma che “È illegittima la risoluzione del contratto d’appalto fondata
su una informativa antimafia adottata da un Prefetto diverso da quello della provincia in
cui ha sede la società interessata dalla nota prefettizia”; in senso conforme, T.A.R.
Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2006, n. 6940, in D&G - Dir. e giust., 2006, f. 30, 81,
con nota di FILIPPETTI, Asl e contratti: così si vigila contro i clan; Cons. St., sez. VI, 11 settembre
2001, n. 4724, in Foro it., 2002, III, 290, con nota di CIMINI, cit.; in particolare,
T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 14 luglio 2006, n. 7506, in Foro amm. Tar, 2006, 7-8, 2583,
ha avuto modo di chiarire che “nell’individuare la competenza del Prefetto del luogo ove
l’impresa, l’associazione, la società o il consorzio hanno la sede, devono intendersi per tale
la sede principale e quella secondaria risultanti dai registri (registro delle persone giuridiche;
registro delle imprese) ovvero anche la sede effettiva, se diversa da quelle; cosicché la
competenza del Prefetto è radicata non solo dal criterio del luogo formalmente indicato
quale sede dell’impresa, associazione, società o consorzio, ma anche dal dato sostanziale,
ancorché in ipotesi divergente, del luogo dove quel soggetto ha la sede reale, vale a dire il
centro dell’attività direttiva ed amministrativa, purché di tale circostanza sia data congrua
dimostrazione”; nello stesso senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 17 novembre 2008, n.
19674, in www.giustamm.it e in www.altalex.it. con nota di FILIPPETTI, ove il Collegio ha
osservato che “per quanto quello della sede dell’impresa (previsto dall’art. 10, quinto
comma del d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252), costituisca il criterio generale di competenza in
materia di rilascio di informative antimafia, l’art. 12 del medesimo decreto, in tema di lavori
pubblici, prevede, al quarto comma che «il Prefetto della provincia interessata all’esecuzione
delle opere e dei lavori pubblici di cui all’art. 4, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n.
490/94, è tempestivamente informato dalla stazione appaltante della pubblicazione del
bando di gara e svolge gli accertamenti preliminari sulle imprese locali per le quali il
rischio di tentativi di infiltrazione mafiosa, nel caso di partecipazione ai lavori, è ritenuto
maggiore. L’accertamento di una delle situazioni indicate dall’art. 10, comma settimo, comporta
il divieto dell’appalto o della concessione dell’opera pubblica, nonché del subappalto,
degli altri subcontratti, delle cessioni o dei cottimi, comunque denominati, indipendentemente
dal valore delle opere o dei lavori». Si tratta, quindi, di una norma speciale che
aggiunge, senza tuttavia sostituirlo, al criterio generale di competenza territoriale per sede,
quello, altrettanto territoriale, del luogo di svolgimento dei lavori”.
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Notevole interesse ha, in particolare, suscitato – in dottrina come in giurisprudenza
– l’informativa afferente tentativi di infiltrazione desunti ai sensi
della lett. c), comma 7, dell’art. 10 cit., il quale prevede che le situazioni relative
ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte (anche) “dagli accertamenti
disposti dal Prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di
accertamento delegati dal Ministero dell’Interno, ovvero richiesti ai prefetti
competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia”.
Quest’ultima disposizione attribuisce al Prefetto un potere generale di
investigazione non tipizzato che si aggiunge alle fonti tipiche previste nelle
prime due fattispecie (lettere a) e b) del comma 7, cit.). A conferma di ciò si
pone, peraltro, la disposizione di cui al successivo comma 8 dell’art. 10, il
quale prevede che gli accertamenti prefettizi possono essere compiuti
dall’Autorità prefettizia competente anche nei confronti di soggetti residenti
nel territorio dello Stato e diversi dall’interessato, che risultano poter determinare
in qualche modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa.
Secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, quando i tentativi di
infiltrazione sono desunti ai sensi della lett. c), la discrezionalità dell’Autorità
prefettizia è di latitudine maggiore rispetto ai riscontri effettuati ai sensi della
lett. a) e b), comma 7, art. 10 cit. Si tratta di un’informativa antimafia tipica
che ha ad oggetto tentativi di ingerenza mafiosa desunti sulla base di fatti e
circostanze non preventivamente individuabili nella loro tipicità.
L’ipotesi delle informative prefettizie di cui all’art. 10, comma 7, lett. c)
d.P.R. n. 252/98 è stata, infatti, introdotta dal legislatore proprio allo scopo di
prevenire possibili tentativi di infiltrazione mafiosa anche in quelle situazioni
in cui non sussistano ancora, o non sussistano più, provvedimenti significativi
(di condanna, cautelari o di prevenzione) del tipo di quelli contemplati
alle lett. a) e b) del comma 7 citato, a carico degli organi o dei soggetti indicati
nell’art. 2, d.P.R. n. 252/1998(19). In tal modo, il legislatore ha attribuito
all’Amministrazione prefettizia un ruolo di massima anticipazione dell’azione
di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza,
rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici e
indiziari del pericolo di infiltrazione mafiosa, in ragione della preminente esigenza
di tutelare, anche nella fase istruttoria, l’interesse generale all’ordine
ed alla sicurezza pubblica, con particolare riguardo al settore dei contratti tra
mondo imprenditoriale e Pubblica Amministrazione(20).
Invero, il concetto di “tentativo di infiltrazione mafiosa”, in quanto di matrice
sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato
rispetto all’accertamento operato dal giudice penale, “signore del fatto”.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 289
(19) Cfr., in proposito, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, in
Appalti Urbanistica Edilizia, 2006, 5, 274.
(20) Così, T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, in www.giustizia-
amministrativa.it; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; da ultimo, Cons.
St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512 e T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, 6348,
entrambe in www.lexitalia.it, nonché - con diffusa motivazione - T.A.R. Calabria, Catanzaro,
sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38, in www.neldiritto.it, con annotazione; in dottrina, per tutti,
CACACE, op. cit.
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Da tale enunciazione normativa si desume che il tentativo può corrispondere
a una forma di penetrazione criminale che non presuppone necessariamente
che soggetti con pregiudizi penali o di prevenzione con connotazione
mafiosa siano assurti a cariche sociali di vertice o direttive, abbiano, cioè,
assunto il diretto controllo della compagine societaria, ma che nei confronti
di una società vengano poste in essere ab externo pressioni influenti, tali da
determinarne un effettivo condizionamento. Attraverso la previsione del tentativo
di infiltrazione l’ordinamento si contrappone insomma al fatto che
l’impresa possa essere divenuta strumentale rispetto ad interessi di consorterie
criminali locali, obiettivamente agevolandone il raggiungimento degli
scopi illeciti per il fatto di essere entrate nella loro orbita di influenza.
La figura sintomatica di tale situazione di pericolo è per eccellenza quella
rappresentata dalla presenza di un socio occulto o socio di fatto.
Nell’esperienza giurisprudenziale, tuttavia, non sono mancate esemplificazioni
concrete che ravvisano la sussistenza del tentativo di infiltrazione anche
in altre ipotesi e perfino nel caso in cui l’impresa sia stata vittima di delitti da
parte di un’organizzazione criminale, ad esempio subendone la pressione
estorsiva fino al punto di essere costretta a conformarsi ai voleri del clan che
ne ha il controllo, avendo, dunque, perduto, ovvero risultando fortemente
compromessa, la sua capacità di autodeterminazione. In queste ipotesi è stata
elaborata la figura sintomatica della contiguità soggiacente, che, sebbene
ontologicamente distinguibile da quella, più grave, consistente nella volontaria
sottomissione, indicata come contiguità compiacente, non è meno rilevante
dal punto di vista degli speciali accertamenti del Prefetto, che può appunto
concludersi con l’adozione di un’informazione interdittiva tipica.
Sovente, infatti, la sussistenza del tentativo di infiltrazione prescinde dall’accertamento
della sua genesi, risolvendosi nel mero riscontro del fatto che
l’impresa costituisca comunque uno strumento, anche per interposta persona,
di ingerenza da parte di organizzazioni criminali in specifici rapporti con
l’Amministrazione Pubblica. Sicché, in ragione del ruolo di “avanguardia”
nella prevenzione di pericoli di inquinamento mafioso dell’economia nazionale
attribuito allo strumento dell’informativa, come ritenuto dal T.A.R. del
Lazio nella decisione in commento, l’emissione di una comunicazione prefettizia
ostativa ai sensi del d.P.R. n. 252/98 prescinde dal concreto accertamento
in sede penale di uno o più reati riconducibili ad una consorteria
mafiosa da parte dell’impresa che intenda contrattare con la P.A., in quanto
gli istituti de quibus si basano su un accertamento di grado inferiore e ben
diverso da quello richiesto per l’applicazione della sanzione penale(21).
290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(21) Orientamento pacifico: si vedano, ex pluribus, Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007,
n. 413, in Foro amm. CdS, 2007, 2, 586; Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6555, ivi,
2006, 11, 3081; Cons. St., sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5753, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez.
VI, 29 novembre 2005, ivi, 2005, 11, 3399; Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783, ivi,
2004, 1354; Cons. St., sez. IV, 23 marzo 2004, n. 1507, ivi, 2004, 790; Cons. St., sez. VI, 14
gennaio 2002, n. 149, in Appalti Urbanistica Edilizia, 2002, 232; T.A.R. Campania, Napoli,
sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, in Foro amm. Tar, 2003, 701; Cons. St., sez. VI, 11 set-
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 290
È pacifico, infatti, che per l’adozione dell’informativa antimafia non
occorre né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva infiltrazione
mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa
da parte di associazioni o soggetti mafiosi, essendo sufficiente il
“tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa,
anche se ciò non si è in concreto realizzato(22).
Tale scelta legislativa è coerente con le caratteristiche fattuali e sociologiche
del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in fatti univocamente
illeciti, potendo fermarsi alla soglia della intimidazione, della influenza
e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite(
23). Ne consegue, quale logico corollario, che la valutazione del Prefetto
circa la sussistenza di situazioni di infiltrazione mafiosa (ai sensi dell’art. 4,
comma 4, D.Lgs. n. 490/1994 e dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998) non richiede
la piena prova dell’intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non
richiesto dalla norma, ma deve fondarsi su fatti e vicende aventi valore sintomatico
e indiziario sufficienti a dare contezza dell’esistenza di elementi dai
quali sia deducibile il tentativo di ingerenza mafiosa(24). In altri termini, l’informativa
prefettizia dev’essere sufficientemente motivata, in modo tale da
dimostrare la sussistenza di elementi dai quali possa dedursi, con ogni logica
conseguenza, il tentativo di ingerenza della malavita nell’impresa. Tanto è vero
– come ritenuto dal T.A.R. del Lazio nella decisione in esame – che il mancato
raggiungimento della prova in sede penale non esclude un quadro indiziario
significativo, rimesso al prudente apprezzamento dell’Autorità prefettizia(25).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 291
tembre 2001, n. 4724; da ultimo, chiaramente: Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958,
in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, in Foro amm. CdS, 2008, 5,
1481; Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756, ivi, 2008, 2, 572.
(22) Oltre a T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 9 luglio 2008, n. 6487, in commento, in questo
senso: T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, n. 6348, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez.
VI, 29 febbraio 2008, n. 756, cit., Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, cit.; Cons. St.,
sez. VI, 3 maggio 2007, 1948, in Foro amm. CdS, 2007, 5, 1548; Cons. St., sez. IV, 16 marzo
2004, n. 2783, cit.; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38, cit.; T.A.R.
Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, cit.; Cons. St., sez. IV, 14 gennaio
2002, n. 149, cit.; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit.
(23) Così, espressamente, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 febbraio 2007, n. 1278,
in www.giustizia-amministrativa.it.
(24) Si veda, tra le tante, Cons. St., sez. VI, 23 agosto 2006, n. 4737, in Foro amm. CdS,
2006, 7-8, 2269.
(25) In tal senso, ex pluribus, Cons. St., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5665, in
www.giustamm.it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, 6348, cit.; Cons. St., sez. VI,
19 agosto 2008, n. 3958, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, cit.;
Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 413, cit.; Cons. St., sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5753,
in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2796, loc. ult. cit.; Cons. St., sez.
IV, 23 marzo 2004, n. 1507, cit.; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38,
cit.; si veda, altresì, T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-ter, 21 aprile 2008, n. 3332, in Urb. e app.,
2008, 782 ss., secondo cui “I fatti oggetto di un processo penale, anche in caso di proscioglimento,
non perdono la loro idoneità a fungere da validi elementi di sostegno per un’informativa
antimafia sfavorevole. Infatti, gli elementi che denotano il pericolo di collegamen-
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 291
In particolare, riguardo alla sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione
mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società interessate,
la valutazione rimessa all’autorità prefettizia è connotata dall’utilizzo
di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, tanto da definirsi
tipico esercizio di discrezionalità tecnica, trattandosi di fare applicazione di
regole tecniche e di indagine secondo competenza e correttezza, che esitano
in un atto preordinato ad attribuire certezza legale a determinati fatti(26).
Proprio in quanto la valutazione prefettizia costituisce espressione di
discrezionalità tecnica, si esclude la possibilità per il giudice amministrativo
di svolgere un sindacato pieno e assoluto, non essendo, comunque, impedito
all’autorità giudiziaria di formulare un giudizio di logicità e congruità delle
informazioni assunte e di poter eventualmente rilevare se ictu oculi i fatti riferiti
dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla norma(27).
In senso riduttivo dello spettro del sindacato giurisdizionale, in talune
occasioni la giurisprudenza, allo scopo di tutelare da qualsiasi sospetto di
infiltrazioni mafiose l’attività della pubblica amministrazione, ha precisato
che rimane estraneo a tale ambito l’accertamento della sussistenza dei fatti
assunti a base del provvedimento(28). Tale tesi, tuttavia, oltre a destare fondati
dubbi di costituzionalità, costituendo una siffatta impossibilità di accesso
al fatto un irragionevole vulnus al diritto di difesa per il privato, che rimane
sprovvisto di qualsiasi garanzia di giustiziabilità dell’operato prefettizio in
ordine alla stessa correttezza ed esattezza in fatto degli accertamenti disposti
a suo carico dell’amministrazione, si pone in contrasto con il principio, ormai
acquisito e legislativamente canonizzato, per cui “la piena cognizione del
fatto costituisce attributo proprio di ogni giudice (amministrativo): sia nella
giurisdizione di legittimità, sia in quella esclusiva”(29).
292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
to fra l’impresa e la criminalità organizzata, oggetto dell’informativa antimafia, hanno un
mero valore sintomatico ed indiziario, non dovendo necessariamente assurgere a livello di
prova, anche indiretta”; in quest’ultimo senso, si veda Cons. St., sez. IV, 29 aprile 2004, n.
2615, in Foro amm. CdS, 2004, 1110; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 18 maggio 2005, n.
6504, in Foro amm. Tar, 2005, 5, 1630.
(26) Così, BOTTO, op. cit., il quale qualifica il potere prefettizio in termini di discrezionalità,
in quanto tale sindacabile esteriormente sotto il profilo del rispetto dei canoni di logicità,
coerenza, proporzionalità e ragionevolezza.
(27) Cfr., in tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 4 aprile 2002, n. 1861, in
www.giustizia-amministrativa.it.
(28) In tal senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, ove si precisa che
“riguardo alla sussistenza dei presupposti di fatto assunti a base delle determinazioni, nonché
della loro valutazione ai fini del giudizio sfavorevole formulato, il sindacato del giudice
amministrativo sulla legittimità dell’informativa antimafia non si confonde con un giudizio
di accertamento della sussistenza dei fatti - anche di rilievo penale - assunti a base del
provvedimento”.
(29) In questi termini, POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo.
Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001, II,
16, il quale compiutamente dimostra come l’accertamento del fatto, o dei fatti controversi,
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In ogni caso, è opinione consolidata che le valutazioni dell’autorità prefettizia
rientrano in un ambito di alta discrezionalità (tecnica e non amministrativa)
ed, in quanto tali, non assoggettabili a sindacato giurisdizionale, se
non quando appaiono viziate da manifesta illogicità ed irragionevolezza(30).
Sul fronte della motivazione della informativa, la giurisprudenza ha chiarito
che, al fine di salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto
ed evitare il travalicamento in uno “stato di polizia”, non possono reputarsi
sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture
prive di riscontro fattuale, occorrendo altresì l’individuazione di idonei e specifici
elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete
connessioni o collegamenti con le associazioni mafiose. In buona sostanza, il
tentativo di infiltrazione – di per sé solo sufficiente a giustificare la misura
interdittiva – non può essere desunto dalla sola verifica di attendibilità di un
singolo elemento di fatto pervenuto dalle fonti di informazione, ma deve, al
contrario, desumersi dal quadro complessivo degli elementi segnalati e va
valutato in una visione globale ed unitaria nella situazione del caso concreto(
31). Nell’ambito di tale sindacato, la verifica in ordine alla logicità e
all’esatta percezione dei fatti posti a base della determinazione amministrativa
dev’essere, quindi, compiuta in modo complessivo e non frammentario ed
atomistico, tantoché la valutazione prefettizia deve apparire come il logico
risultato sintetico di un esame globale di tutti gli accertamenti compiuti(32).
La motivazione dell’informativa prefettizia deve, dunque, essere esternata
con rigore logico alla luce di specifici elementi indiziari esitati dall’istruttoria
compiuta, onde fugare ogni dubbio di ragionevolezza e di logicità dell’azione
amministrativa(33), sebbene la giurisprudenza non escluda la legit-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 293
costituisce punto centrale nella dinamica del giudizio di giurisdizione piena, ciò anche in
conseguenza dell’ampliamento dei mezzi di prova ammissibili ex art. 44, T.U. delle leggi sul
Consiglio di Stato di al R.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e, dunque, a seguito dell’estensione dei
poteri istruttori e decisori del giudice amministrativo.
(30) Ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783, in Foro amm. CdS, 2004,
1354; Cons. St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3337, ivi, 2006, 6, 1861; Cons. St., sez. V, 27 giugno
2006, n. 4135, ivi, 2006, 6, 1819; Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6555, ivi, 2006,
11; Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 413, ivi, 2007, 2, 586; Cons. St., sez. VI, 7 marzo
2007, n. 1056, ivi, 2007, 3, 379; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 10 luglio 2003, n. 8138 e
12 giugno 2002, n. 3403, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.; da ultimo, Cons. St.,
sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512 e Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958, entrambe in
www.lexitalia.it.
(31) Così Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, cit.; Cons. St., sez. VI, 6 maggio
2008, n. 2014, in Urb. e app., 2008, 8, 981 s., con nota di SARTORIO, Il sindacato del g.a.
sulla informativa antimafia atipica nei pubblici appalti; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1
luglio 2008, n. 6348, cit.; Cons. St., sez. V, 3 maggio 2007, 1948, cit.; Cons. St., sez. IV, 16
marzo 2004, n. 2783, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, cit.;
Cons. St., sez. IV, 14 gennaio 2002, n. 149; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit.
(32) In questo senso, ex multis, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n.
7811, in Foro amm. Tar, 2005, 6, 2110.
(33) Si veda, a tal proposito, Cons. St., sez. VI, 9 settembre 2008, n. 4306, in www.lexitalia.
it, secondo cui “Anche se è vero infatti che il giudizio penale, anche quando nettamen-
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timità di un’informazione prefettizia che richiami genericamente gli atti di
indagine e, più in generale, l’attività istruttoria disposta dalla Prefettura(34),
la quale – come si dirà – è sottratta all’accesso e che, dunque, transita nella
piena disponibilità del privato solo a seguito della instaurazione del giudizio
amministrativo.
La valutazione prefettizia consiste, in particolare, in un giudizio che,
prendendo le mosse dalla specificità degli eventi accertati ed evidenziati, pervenga
logicamente a dimostrare il nesso tra quei fatti sintomatici e l’esistenza
(o anche il mero pericolo) del condizionamento mafioso. L’informativa,
quindi, deve fondarsi su di un quadro fattuale di elementi che, pur non dovendo
assurgere necessariamente a livello di prova (anche indiretta), siano tali da
far ritenere ragionevolmente, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esistenza
di elementi (anche non penalmente rilevanti) che sconsigliano l’instaurazione
di un rapporto con la pubblica amministrazione (ovvero la sua prosecuzione)(
35), denotando, nel loro insieme, una oggettiva esposizione dell’impresa
a tentativi di condizionamento mafioso.
Sulla base di tali premesse, la giurisprudenza ha chiarito che il rapporto
di parentela, seppur significativo (come quello tra padre e figlio), non è di per
sé solo idoneo a dare conto (automaticamente) del tentativo di infiltrazione,
ma deve essere supportato da ulteriori specifici elementi atti a riscontrare la
presunta infiltrazione(36). Infatti, nel verificare se la sussistenza di un rap-
294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
te formulato in senso contrario, non esclude che l’Amministrazione possa individuare elementi
di sospetto a carico dell’interessato, l’Amministrazione stessa ha in ogni caso il dovere
- essendo il giudice penale signore del fatto - di motivare con il massimo rigore la sua
valutazione sul pericolo di condizionamento mafioso”. In dottrina, sul punto, si veda
SARTORIO, Il sindacato del g.a. sulla informativa antimafia atipica nei pubblici appalti, cit.
(34) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 maggio 2000, n. 1700, in Urb. e
app., 2000, 10, 1137; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; T.A.R. Campania,
Napoli, sez. I, 29 gennaio 2004, n. 919 e 25 marzo 2004, nn. 3218 e 3219, in www.giustiziaamministrativa.
it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, ivi; T.A.R.
Campania, Napoli, sez. I, 24 marzo 2005, n. 2478, ivi; Cons. St., sez. VI, 17 maggio 2006,
n. 2882, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 10 luglio 2006, n. 7386, in Foro amm. Tar,
2006, 7-8, 2606; da ultimo, con riferimento ad un’istanza di aggiornamento delle informative
formulata ai sensi dell’art. 10, comma 8, seconda alinea, d.P.R. n. 252/98, T.A.R. Lazio,
Roma, sez. I-ter, 4 settembre 2008, n. 8050, in www.giustizia-amministrativa.it.
(35) Cfr., Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756, cit.
(36) In merito alle informative inerenti tentativi di infiltrazione mafiosa desunti dall’elemento
parentale, si veda, oltre alla decisione in commento, Cons. St., sez. VI, 12 novembre
2008, n. 5665, cit.; Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958, cit., ove si precisa che “è
legittima una informativa antimafia, secondo la quale sussistono tentativi di infiltrazione
della criminalità organizzata, motivata facendo riferimento: 1) al fatto che il titolare dell’impresa
risulta “gravitare nell’ambito di influenza di nota cosca mafiosa”, essendo stato
deferito all’Autorità Giudiziaria per “estorsione, danneggiamento, violazione della legge
sulle armi, associazione mafiosa ed altro”, a nulla rilevando che con sentenza del Tribunale
- ufficio del Giudice per le indagini preliminari - sia stato prosciolto; 2) agli stretti rapporti
di parentela (nella specie il riferimento era al padre ed al cognato), atteso che spesso nel
settore in questione - secondo dati di comune esperienza - esistono veri e propri sodalizi
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porto di parentela con associati mafiosi possa costituire giustificazione esclusiva
o prevalente dell’informativa prefettizia di cui all’art. 4, D.Lgs. 490/94,
occorre considerare che, sebbene valga la massima d’esperienza secondo cui
detto vincolo di sangue espone il soggetto all’influsso dell’organizzazione,
l’attendibilità dell’inferenza dipende, altresì, da una serie di circostanze che
qualificano il rapporto di parentela, quali, in particolare, l’intensità del vincolo
ed il contesto in cui si inserisce(37).
4.- L’informativa c.d. atipica.
Accanto alle due sopra menzionate tipologie di informative tipiche,
aventi effetti immediatamente preclusivi, la prassi amministrativa, sostenuta
da una giurisprudenza estremamente attenta alle ragioni della prevenzione di
infiltrazioni di tipo mafioso, ammette un terzo tipo di informativa prefettizia
rivolta alla pubblica amministrazione: la informativa c.d. atipica o supplementare
(od aggiuntiva). Come accennato, tale tipo di informativa è fondato
sull’accertamento di elementi che, pur denotanti il pericolo di collegamenti
tra l’impresa e la criminalità mafiosa, non raggiungono la soglia di gravità
prevista dal citato art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 490/1994, sia perché privi di
alcuni requisiti soggettivi od oggettivi pertinenti alle cause di divieto o
sospensione, sia perché non integranti appieno il tentativo di infiltrazione,
che rinviene il suo fondamento nel principio generale di collaborazione tra
pubbliche amministrazioni.
Si tratta, com’è evidente, di una tipologia di informativa prefettizia accomunata
a quella di cui alla lett. c), comma 7, dell’art. 10, d.P.R. n. 252/98 sotto
il profilo della natura non ricognitiva delle fonti da cui desumere la sussistenza
(ovvero il mero pericolo) di condizionamenti mafiosi, non preventivamente
individuabili nella loro tipicità, rispetto alla quale costituisce, tuttavia, un
minor sul versante degli effetti, non riconnettendosi a questo tipo di informativa
un effetto automaticamente impeditivo, rimanendo la stazione appaltante
arbitra di procedere alla sottoscrizione del contratto o meno, pur con adegua-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 295
familiari, tali da rendere non irrilevante - sul piano presuntivo - tali circostanze”; Cons. St.,
sez. VI, 2 maggio 2007, n. 1916, in www.neldiritto.it, ove si è affermato che: “L’informativa
prefettizia antimafia non può trarre valida giustificazione dal solo riferimento ai rapporti di
parentela intercorrenti tra amministratori della società aggiudicataria dell’appalto e criminalità,
qualora tale circostanza non risulti suffragata da riscontri oggettivi che comprovino
l’esistenza in concreto di comportamenti e situazioni dai quali possa desumersi il condizionamento
mafioso”; Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2007, n. 1056, in www.lexitalia.it, secondo
cui: “È illegittima una informativa prefettizia antimafia di cui all’art. 4 del d.lgs. n.
490/1994 che, al fine di provare il tentativo di infiltrazione mafiosa nell’impresa, faccia riferimento
alla circostanza che il titolare della impresa è imparentato (tramite la moglie) con
esponenti della camorra; tale circostanza, infatti, non può essere di per sé prova sufficiente
di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’impresa ove al dato anagrafico non si accompagni
una acclarata frequentazione e comunanza di interessi con ambienti della criminalità
organizzata”.
(37) Cons. St., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5665, cit.
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ta ed idonea motivazione (con evidenti rischi di comportamenti contradditori
o, comunque, non omogenei, da parte delle varie stazioni appaltanti)(38).
Il profilo più problematico concernente le informazioni atipiche attiene
alla fragilità degli elementi che sono in genere rimessi al vaglio delle
Amministrazioni, nel senso che essi appaiono talora incerti, inconcludenti,
riferiti a circostanze accadute in tempi troppo lontani dal rilascio dell’informativa
e, per giunta, non attualizzati. In alcuni casi sono stati rassegnati elementi
inconferenti, in quanto riferiti a vicende estranee o marginali rispetto
al rischio di infiltrazione mafiosa, ancorché venute ad interessare la giustizia
penale. Viene, inoltre, imputata a siffatta tipologia di informative una ontologica
debolezza, che si appunta nella circostanza di rimettere alla stazione
appaltante decisioni delicate ed impegnative sulle quali la stessa Autorità di
pubblica sicurezza ha dovuto, in fondo, glissare, in mancanza di una certa
significatività degli elementi (si suppone che, altrimenti, avrebbe potuto
emettere un’informazione interdittiva, e dunque tipica)(39).
La giurisprudenza ha tentato di sciogliere tali nodi problematici, facendosi
carico di enucleare gli indici sintomatici di concludenza delle informative
atipiche, al fine di presidiare nella giusta misura la garanzia di difesa giurisdizionale
delle imprese a fronte di uno strumento così potente, poiché in
grado di estromettere in via tendenzialmente definitiva l’impresa dal dialogo
con l’amministrazione; profilo, quest’ultimo, che impone una interpretazione
della normativa in esame improntata a necessaria cautela, con riguardo
all’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa(40), anche allo scopo
di non esporre l’amministrazione a fondate pretese risarcitorie da parte dell’impresa
illegittimamente interdetta(41).
296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(38) Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979, cit., ove si rimarca l’estrema labilità del
confine tra l’informativa tipica, che accerta il tentativo di infiltrazione mafiosa, e l’informativa
atipica o di tertium genus.
(39) Estremamente critico in ordine alla legittimità delle informative prefettizie atipiche
è BOTTO, op. cit., il quale evidenzia che tale figura non può trovare alcuno spazio, oltreché
per ragioni d’interpretazione letterale, anche e soprattutto per la totale mancanza di alcun
aggancio al principio di tipicità.
(40) In questo senso, Cons. St., sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135, in Foro amm. CdS,
2006, 6, 1819; Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783, cit.; più di recente, Cons. St., sez.
VI, 7 marzo 2007, n. 1056, cit.; Cons. St., sez. V, 31 maggio 2007, n. 2828, in Foro amm.
CdS, 2007, 5, 1532.
(41) In proposito, Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2008, n. 491, cit., ove il Collegio ha ritenuto
che, in sede di risarcimento dei danni derivanti dall’illegittima risoluzione di un contratto
di appalto, disposta a seguito di una informativa antimafia riguardante una società, va
liquidato, a prescindere dalla esecuzione in forma specifica, oltre che al danno per lucro cessante
a titolo di perdita di chance, anche il c.d. danno esistenziale (nella fattispecie, il diritto
al risarcimento per lesione all’immagine è stato ritenuto sussistente, sia facendo riferimento
all’informativa antimafia atipica, la quale risultava irragionevolmente adottata senza alcun
riferimento alle opposte valutazioni provenienti dalla sede penale, sia facendo riferimento
alla revoca dell’appalto, che su quell’informativa si era “appiattita”); Cons. St., sez. V, 28
marzo 2008, n. 1310, in www.lexitalia.it., ove il Collegio ha ritenuto legittima la condanna
al risarcimento dei danni della Stazione appaltante, in solido con la Prefettura, nel caso in cui
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In particolare, l’elaborazione giurisprudenziale ha chiarito che una tale
situazione, cui non consegue – come detto – un effetto legale di divieto a contrarre,
può ravvisarsi allorquando difettano alcuni dei requisiti oggettivi e
soggettivi dei provvedimenti che costituiscono ex se cause di interdizione
dalla contrattazione ovvero quanto non sussistano gli estremi dei tentativi di
infiltrazione. L’assenza dei predetti elementi specifici non esclude la rilevanza
di altri elementi pur idonei a denotare l’infiltrazione mafiosa, ma valutabili,
per la loro aspecificità, discrezionalmente dall’Amministrazione in ossequio
alle generali esigenze di buon andamento ed imparzialità dell’azione
amministrativa(42). In ogni caso, in sede di emissione di informativa antimafia
atipica, se non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo
a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni
di tipo camorristico o mafioso, non possono tuttavia ritenersi sufficienti
fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro
fattuale, essendo pur sempre richiesta l’indicazione di circostanze obiettivamente
sintomatiche di connessioni o collegamenti con le predette associazioni.
Il parametro valutativo, quindi, non è quello della “certezza”, ma
quello della “qualificata probabilità”(43).
La comunicazione, pertanto, non produce il divieto automatico di contrarre
(né la revoca del provvedimento ed il recesso dal contratto, ai sensi del
comma 6 dell’art. 10, d.P.R. 252/98), ma si limita a fornire all’amministrazione
interessata elementi utili per l’esercizio di ogni eventuale potere discrezionale,
in particolare in vista del successivo ritiro del contratto da parte della
stazione appaltante, ai sensi dell’art. 113, R.d. 23 maggio 1924, n. 827, che
regola un potere discrezionale affatto estraneo al novero delle cause automaticamente
preclusive dell’aggiudicazione di un appalto(44).
Questo potere, secondo parte della dottrina(45), trova fondamento normativo
nell’art. 10, comma 9, d.P.R. n. 252/1998, che richiama l’art. 1-septies,
d.l. 6 settembre 1982, n. 629, convertito in legge, con modificazioni, con
l’art. 1, legge 12 ottobre 1982, n. 726, successivamente integrato dalla legge
15 novembre 1988, n. 486, ai sensi del quale l’Alto commissario antimafia
(le cui competenze, come accennato, sono state nelle more devolute ai
Prefetti) può comunicare alle autorità competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni,
concessioni in materia di armi ed esplosivi e per lo svolgimento
di attività economiche elementi di fatto ed altre indicazioni utili alla valutazione,
nell’ambito della discrezionalità ammessa dalla legge, dei requisiti
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 297
sia stato illegittimamente interrotta la prosecuzione di un appalto sulla base di una informativa
antimafia atipica, in relazione alla quale la decisione di interrompere la prosecuzione
dell’appalto in essere va ascritta anche alla volontà della Stazione appaltante.
(42) In proposito, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2014, cit.
(43) Così, Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, in www.lexitalia.it.
(44) Cfr., in tal senso, Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979, cit.; Cons. St., sez. VI,
14 gennaio 2002, n. 149, cit.; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit.
(45) BOTTO, op. cit.
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soggettivi richiesti per il rilascio, il rinnovo, la sospensione o la revoca delle
licenze, autorizzazioni e degli altri titoli menzionati(46). Ad ogni modo,
occorre precisare che siffatto potere-dovere di informazione non può dirsi
unicamente fondato sul citato art. 1-septies del d.l. 629 del 1982, dovendo
ritenersi espressione di un principio generale, che prevede una collaborazione
reciproca, con correlati obblighi di trasmissione di conoscenze, tra le
diverse amministrazioni pubbliche: la collaborazione reciproca deve ispirare
i rapporti tra lo Stato e gli enti locali e gli altri enti pubblici, soprattutto quando
vengono in gioco informazioni collegate alla tutela della pubblica sicurezza
e di preminenti interessi, come quelli incentrati nella prevenzione e repressione
del crimine mafioso.
L’applicazione dell’art. 1-septies cit. ai contratti ad evidenza pubblica
rinviene poi un preciso elemento di riscontro nell’art. 113, R.d. n. 827/1924,
ai sensi del quale “per gravi motivi di interesse pubblico o dello Stato, il ministro
o l’autorità delegata per l’approvazione può negare l’approvazione ai
contratti anche se riconosciuti regolari”(47). In sostanza, la c.d. informazione
supplementare, pur se non preclude automaticamente ed inderogabilmente
la stipula del contratto con l’aggiudicatario, consente all’amministrazione
appaltante di attivare gli ordinari strumenti di discrezionalità nel valutare
l’avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali alla luce dell’idoneità morale
del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la p.a.,
fino a negare l’approvazione del contratto per ragioni di pubblico interesse
desunte da quanto riferito dal Prefetto(48). Per questa ragione, l’informativa
atipica non necessita di un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello
richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di
tipo camorristico o mafioso e si basa su indizi ottenuti con l’ausilio di particolari
indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di
tempo perché riguardano la valutazione sull’idoneità morale del concorrente
e non producono l’esclusione automatica dalla gara(49).
È pacifico, dunque, che l’informativa c.d. atipica – sub 3) – ex art. 1-septies,
d.l. n. 629/1982, ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto
all’amministrazione cui è indirizzata; per tale ragione, è un atto privo
di autonoma efficacia lesiva, in quanto non comporta effetti preclusivi immediatamente
incidenti nella sfera giuridica dell’impresa, essendo unicamente
diretta a fornire all’amministrazione indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito
della discrezionalità e nell’esercizio dei poteri di autotutela previsti
298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(46) Cfr., in proposito, T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 12 gennaio 2001, n. 21, in
www.giustizia-amministrativa.it.
(47) Si veda, al riguardo, T.A.R. Lazio, sez. III, 6 giugno 1997, n. 1248, in T.A.R., 1997,
I, 2280.
(48) In questi termini, Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit.
(49) Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit.; Cons. St., sez. V, 31 dicembre
2007, n. 6902, in Guida al diritto, 2008, 3, 97; Cons. St., sez. IV, 1 marzo 2001, n. 1148, in
Giur. it., 2001, 1515.
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dalla legge, dei requisiti soggettivi per l’adozione di determinazioni a vari
fini, comprese quelle concernenti l’affidamento di lavori pubblici. Per cui ad
essa è stato riconosciuto carattere di “atipicità”, proprio in quanto dall’adozione
della misura non consegue alcun effetto interdittivo automatico, a differenza
di quanto si verifica per le altre due misure “tipiche” di cui all’art 4,
D.Lgs. n. 490/1994 ed anche in considerazione della molteplicità delle situazioni
che possono dar luogo ad un giudizio negativo(50). Tale funzione meramente
sollecitatoria dell’informativa atipica comporta che questa assume
natura di mero atto interno di un subprocedimento che potrà eventualmente
concludersi con un provvedimento finale della stazione appaltante di esclusione
dalla gara dell’impresa cui si riferisce; ed è dunque solo a quest’ultimo
provvedimento che deve aversi riguardo per l’individuazione tanto dell’interesse
a ricorrere quanto dell’Amministrazione, destinataria della notifica del
ricorso innanzi al giudice amministrativo(51).
A fronte di un’informativa atipica, l’amministrazione destinataria dell’informativa
rimane titolare di un potere discrezionale in merito alla valutazione
delle informazioni ricevute ai fini della prosecuzione o meno del rapporto
negoziale instaurato con la parte privata. Invero, l’amministrazione
conserva una potestà discrezionale, tanto da dover autonomamente valutare
le informazioni prefettizie ricevute senza recedere automaticamente dal contratto
stipulato con la parte privata, con la conseguenza che i provvedimenti
di mantenimento o di risoluzione del rapporto sono comunque il frutto di una
scelta motivata dell’amministrazione contraente attraverso i suoi poteri ordinari(
52). Tuttavia, nella valutazione dell’informativa ricevuta, l’amministra-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 299
(50) Occorre, tuttavia, segnalare che in taluni casi la giurisprudenza ritiene che anche a
fronte di un’informativa atipica la scelta dell’amministrazione sia “fortemente condizionata
(anzi quasi determinata)”: in proposito, si veda Cons. St., sez. VI, 17 maggio 2006, n. 2882,
in www.giustizia-amministrativa.it.
(51) In proposito, si segnala T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 11 ottobre 2006, n. 9222,
ove il Collegio ha chiaramente definito l’informazione antimafia supplementare come “mero
atto interno di sub procedimento”, avente “funzione meramente notiziale” ed ha escluso
anche la sussistenza di un autonomo interesse “di natura morale” a ricorrere contro la sola
informativa prefettizia “atteso il carattere strettamente riservato dell’informativa prefettizia,
cui si aggiunge la sua efficacia meramente informativa”; nello stesso senso, T.A.R.
Campania, Napoli, sez. I, 6 marzo 2006, n. 2618, in Foro amm. Tar, 2006, 3, 1044; Cons.
St., sez. VI, 6 giugno 2003, n. 3163, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 313.
(52) In tal senso, in aggiunta a T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 9 luglio 2008, n. 6487 in
commento, si vedano, tra le più recenti, quanto alla giurisprudenza del Supremo Consesso di
giustizia amministrativa, Cons. St., sez. V, 28 marzo 2008, n. 1310, in www.lexitalia.it; Cons.
St., sez. V, 12 febbraio 2008, n. 491, loc. ult. cit.; Cons. St., sez. VI, 22 giugno 2007, n. 3484,
loc. ult. cit.; Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948, cit.; da ultimo, Cons. St., sez. VI, 25
novembre 2008, n. 5780, cit.; nella giurisprudenza di primo grado, si veda T.A.R. Campania,
Napoli, sez. I, 30 ottobre 2006, n. 9222, in www.giustamm.it, secondo cui l’informativa prefettizia
atipica “è un atto che non ha autonoma efficacia lesiva, in quanto non comporta
effetti preclusivi immediatamente incidenti nella sfera giuridica dell’impresa, ma è unicamente
diretta a fornire all’amministrazione indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito
della discrezionalità e nell’esercizio dei poteri di autotutela previsti dalla legge, dei requisi-
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zione destinataria non può apprezzare i fatti e le circostanze già assunti
dall’Autorità prefettizia, ma deve valutare in via autonoma le condotte
descritte nell’informativa atipica tanto da esternare e rendere chiaro l’iter
logico-motivazionale che ha condotto al provvedimento di esclusione(53).
5.- Le garanzie procedimentali in materia di informative prefettizie antimafia.
La giurisprudenza riconosce uno spazio alquanto ristretto alla partecipazione
del privato in seno al procedimento culminante nell’informativa prefettizia
antimafia; ciò è testimoniato dalle molteplici decisioni che escludono la necessità
della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, legge n. 241/1990
nel caso di adozione di una informativa antimafia e del successivo provvedimento
di revoca del contratto(54), in quanto trattasi di procedimento iniziato
con la domanda dell’impresa di partecipazione alla gara. Invero, sembra più
idoneo a supportare la tesi dell’esonero della fattispecie procedimentale all’esame
dall’adempimento in questione il richiamo, compiuto da una parte della
giurisprudenza, alle esigenze di celerità tipiche della informativa antimafia, che
sono in re ipsa, con la conseguenza che è legittimamente esclusa la partecipazione
del privato al procedimento amministrativo di cui si tratta (55).
300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
ti soggettivi per l’adozione di determinazioni a vari fini, comprese quelle concernenti l’affidamento
di lavori pubblici; all’istituto è stato riconosciuto carattere di “atipicità”, proprio
in quanto dall’adozione della misura non consegue alcun effetto interdittivo automatico, a
differenza di quanto si verifica per la misura “tipica” di cui all’art 4 del D.Lgs. 490/94. Tale
funzione meramente notiziale dell’informativa atipica comporta che questa assume natura
di mero atto interno di un subprocedimento che si conclude con un provvedimento finale di
esclusione dalla gara dell’impresa cui si riferisce; ed è dunque solo a quest’ultimo provvedimento
che deve aversi riguardo per l’individuazione dell’interesse a ricorrere”; conformi,
T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 6 marzo 2006, n. 2618 e T.A.R. Campania, Napoli, sez. VI,
6 giugno 2006, n. 3163, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
(53) Cfr., Cons. St. sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit.
(54) Cfr., ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 11 febbraio 1999, n. 150, in Cons. Stato, 1999,
I, 255; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 maggio 2000, n. 1700, in Urb. e app., 2000, 1137;
Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n.
149, cit.; Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2006, n. 851, in Foro amm. CdS, 2006, 2, 479; Cons.
St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3337, cit.; è rimasta isolata l’opinione espressa da Cons. St.,
sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit., ove si è affermato che anche la revoca dell’aggiudicazione
di un appalto di opere pubbliche per infiltrazioni mafiose dev’essere preceduta dall’avviso
di avvio del procedimento ex art. 7 cit. In dottrina, per approfondimenti, si rinvia a
CACACE, op. cit.; CIMINI, op. cit.; MUTTONI, op. cit.
(55) Si veda, in tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 27 settembre 2004, n. 12586,
in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui l’adozione del provvedimento di revoca di
una aggiudicazione o comunque di un incarico di svolgimento di pubblico servizio, in presenza
di un’informativa prefettizia antimafia sfavorevole, configura un provvedimento non
soltanto fortemente caratterizzato nel profilo contenutistico, ma anche connotato dall’urgenza
del provvedere e coinnestato in un procedimento asseritamene finalizzato alla verifica dei
presupposti per accedere alla contrattazione con gli enti pubblici, con la conseguenza che
non è dovuto l’invio della comunicazione di avvio del procedimento nei confronti della
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 301
L’obbligo della comunicazione di avvio del procedimento è escluso dalla
giurisprudenza anche con riferimento al procedimento di aggiornamento
delle informative di cui all’art. 10, comma 8, seconda alinea, d.P.R. n.
252/98, sul rilievo che nel caso di specie viene in considerazione un procedimento
attivato non d’ufficio, ma su iniziativa di parte, con la conseguenza
che è precluso alla parte istante lamentarsi della mancata comunicazione dell’avvio
di un procedimento cui essa stessa, con la propria iniziativa, ha dato
impulso (56).
Del pari consolidata in giurisprudenza è l’affermazione secondo cui, in
relazione alle informative antimafia, non sussiste l’obbligo di garantire (non
solo la partecipazione, ma anche) la trasparenza, considerate, per un verso, le
esigenze cautelari tipiche di questo procedimento e, per altro verso, le esigenze
di segretezza degli accertamenti di polizia che in siffatto procedimento trovano
collocazione (57). Tale tesi, quanto all’ostensibilità degli atti di indagini
sui quali si fonda l’informativa, trova, peraltro, fondamento positivo nella
previsione recata dall’art. 3, D.M. 10 maggio 1994, n. 415 (in Gazz. Uff., n.
150 del 29 giugno 1994 – recante il Regolamento per la disciplina delle categorie
di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi,
in attuazione dell’art. 24, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241,
recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto
di accesso ai documenti amministrativi), che, per motivi di riservatezza, sottrae
all’accesso le verifiche antimafia.
Pacifica è, dunque, la non ostensibilità delle risultanze istruttorie a monte
dell’informativa, cui ha attinto l’Autorità prefettizia per pervenire al giudizio
sfavorevole formulato a carico dell’impresa, essendo l’accesso escluso per
tutte le parti della documentazione in possesso dell’Amministrazione coperte
da segreto istruttorio, in quanto afferenti a indagini preliminari o procedimenti
penali in corso, o in quanto coinvolgenti, a qualunque titolo, terzi soggetti
interessati dalle informative di polizia di sicurezza; ovvero, ancora,
società destinataria; nello stesso senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 8 aprile 2005, n.
3577, in Foro amm. Tar, 2005, 4, 1156 e, più di recente, Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2006,
n. 851, cit., ove, per escludere l’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento,
il Collegio richiama il carattere spiccatamente cautelare della misura, nella quale esso
sfocia, e che fa rilevare quelle esigenze di celerità, che, nell’esplicita premessa dell’art. 7,
comma 1, rendono giustificata l’omissione della notizia partecipativa altrimenti prescritta;
Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6555, cit., ove il Collegio ha esonerato l’amministrazione
dall’onere di comunicazione di avvio del procedimento, osservando che il procedimento
in materia di tutela antimafia è “caratterizzato da riservatezza ed urgenza”.
(56) In questi termini, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 4 settembre 2008, n. 8050, cit.
(57) In questi termini, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, cit.; nello
stesso senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; Cons. St., sez. IV, 13 settembre
2001, n. 4780, in Foro amm., 2001, 2312; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149,
cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 23 ottobre 2003, n. 13601, in D&G - Dir. e giust., 2004,
1, 94, con nota di ALESIO, Limiti e contenuto del sindacato di legittimità sul certificato antimafia;
T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 28 marzo 2003, n. 279, in Foro amm. Tar, 2003,
1087.
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adducendo specifici motivi ostativi riconducibili ad imprescindibili esigenze
di tutela di accertamenti di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza
organizzata.
Di contro, non v’è unanimità di opinioni in ordine all’accessibilità della
nota informativa antimafia, generalmente, consistente nella formula rituale
con la quale il Prefetto, sulla base delle risultanze in suo possesso (di regola
non esposte al soggetto appaltante), afferma la sussistenza di elementi interdittivi
a carico dell’impresa.
Infatti, una parte della giurisprudenza estende l’inostensibilità alla stessa
nota informativa prefettizia, che viene qualificata come “riservata amministrativa”,
sottratta all’ostensione documentale, in quanto documentazione
concernente, ai sensi dell’art. 24, comma 6, lett. c), legge n. 241/90, l’ordine
pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità, tantoché non è neppure
necessario che l’amministrazione debba motivare l’opposto diniego di
accesso(58).
Secondo un opposto orientamento, la nota informativa prefettizia non
rientra nella categoria dei documenti inaccessibili (per motivi attinenti alla
sicurezza) di cui all’art. 2, D.M. 10 maggio 1994, n. 415, in ragione dell’assunto
che il suddetto decreto ministeriale sottrae all’accesso non già la nota
prefettizia in sé bensì gli atti istruttori che hanno fornito le informazioni di
polizia poste a base del giudizio negativo, di regola non enunciate nella nota
prefettizia di comunicazione all’ente appaltante. Sono quest’ultimi, infatti, a
contenere materiale coperto da segreto istruttorio perché afferente a procedimenti
penali in corso ovvero ad accertamenti di polizia di sicurezza(59). La
nota prefettizia, invece, limitandosi ad indicare la mera sussistenza di elementi
interdittivi a carico dell’impresa risulta, secondo tale tesi, pienamente
ostensibile.
Si tratta, invero, di un’opinione non condivisibile, non persuadendo la
distinzione tra l’accesso alla nota prefettizia e gli altri atti che a monte hanno
determinato la trasmissione dell’informativa antimafia negativa. Sovente,
infatti, la nota di trasmissione dell’informativa antimafia contiene circostanze
utili ai fini della prevenzione e repressione della criminalità organizzata,
tanto da poter compromettere le indagini e vanificare l’operato della polizia
giudiziaria. Pertanto, in forza dell’art. 3, D.M. cit. e dell’art. 24, comma 6,
lett. c), legge n. 241/90, si ritiene preferibile aderire all’orientamento che
302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(58) In questi termini, T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-ter, 21 aprile 2008, n. 3332, cit.;
T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 febbraio 2005, n. 1319, in www.giustizia-amministrativa.
it; nello stesso senso, Cons. St., sez. IV, 29 maggio 2001, n. 2968 e T.A.R. Calabria,
Catanzaro, sez. I, 28 maggio 2001, nn. 857 e 858, ivi.
(59) In questi termini, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 26 febbraio 2008, n. 175, in
www.giustizia-amministrativa.it.; già nello stesso senso, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I,
21 giugno 2007, n. 838 e T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 10 luglio 2007, n. 818, ivi; T.A.R.
Campania, Napoli, sez. V, 15 settembre 2005, n. 14543, ivi, aderendo alla tesi esposta nel
testo, ha ritenuto il D.M. 10 maggio 1994, n. 415 in parte qua disapplicabile, ove illegittimamente
compressivo del diritto di accesso statuito ex lege.
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nega l’accessibilità dell’informativa prefettizia antimafia, quale atto amministrativo
di massima anticipazione di prevenzione e repressione della criminalità
organizzata.
6. L’informativa prefettizia antimafia e il riparto di giurisdizione alla luce
dei recenti arresti delle Sezioni Unite.
Per principio generale, l’avvenuta stipulazione del contratto e la sua esecuzione
non risultano ostative alla emanazione della informativa interdittiva.
Infatti, dall’art. 11, d.P.R. n. 252/1998 si evince chiaramente la possibilità per
l’Amministrazione di stipulare il contratto anche prima di aver ricevuto le
informazioni prefettizie, fatto salvo il potere, in caso di emersione dalla successiva
informativa di elementi relativi ai tentativi di infiltrazione mafiosa, di
“revocare le autorizzazioni e le concessioni o recedere dai contratti” (comma
2)(60), potere, questo, che il successivo comma 3 estende a qualsiasi caso di
accertamento di elementi siffatti “successivamente alla stipula del contratto,
alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto”. Tale disciplina
trova, peraltro, riscontro nel disposto di cui all’art. 113, R.d. n. 827/1924.
A seguito della intervenuta stipulazione del contratto è consentito alla
P.A. sia di agire in autotutela sugli atti della fase procedimentale (ad esempio,
annullando o revocando l’aggiudicazione) e, quindi, di fatto recedere dal
contratto, sia di intervenire direttamente sul contratto recedendo da esso,
sulla base del citato art. 11, d.P.R. n. 252/1998.
Nel caso in cui l’Amministrazione decida di intervenire in autotutela sull’aggiudicazione,
l’impresa pregiudicata potrà tutelarsi davanti al giudice
amministrativo, nei prescritti termini di decadenza, impugnando il provvedimento
di autotutela e nel contempo l’informativa interdittiva che ne costituisce
presupposto. In tal caso, il relativo ricorso, andrà notificato anche all’autorità
prefettizia, presso la sede della competente Avvocatura dello Stato,
qualora l’impresa (come generalmente avviene) intenda contestare le conclusioni
cui è pervenuta tale autorità nella nota informativa negativa(61).
Più complesso è il tema della individuazione dell’organo giurisdizionale
dotato di giurisdizione nel caso in cui la stazione appaltante decida di non
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 303
(60) In riferimento ai rapporti contrattuali già in essere al momento in cui sopraggiunga
l’informativa prefettizia negativa, osserva la giurisprudenza che, benché l’art. 11, comma
3, d.P.R. n. 252/98, sotto il profilo letterale, configuri la revoca in termini di facoltà, tale
potere si caratterizza in termini di obbligatorietà per l’amministrazione, la quale non dispone
della facoltà di sindacare il contenuto dell’informazione prefettizia, poiché la legge
demanda al Prefetto in via esclusiva la raccolta degli elementi e la valutazione circa la sussistenza
del tentativo di infiltrazione mafiosa, cfr.: Cons. St., sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135,
in www.giustamm.it; Cons. St., sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7619, in www.giustizia-amministrativa.
it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, cit.; T.A.R. Campania,
Napoli, sez. I, 30 gennaio 2005, n. 574, in www.lexitalia.it.
(61) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 31 marzo 2008, n. 1644, in Il merito,
2008, 71.
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intervenire sugli atti del procedimento di evidenza pubblica, ponendo in essere
direttamente un atto di recesso dal contratto.
Rispetto all’esercizio di siffatto potere di recesso dal contratto, in quanto
incidente sulla fase esecutiva del rapporto, si potrebbe in tesi prospettare
la giurisdizione dell’a.g.o., conformemente ai principi generali consolidati
che presiedono al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo,
atteso che, generalmente, si ritengono attribuite al giudice amministrativo
le contestazioni relative ad un atto del procedimento di evidenza pubblica
(ad esempio, esclusione dalla gara, aggiudicazione, annullamento e
revoca dell’aggiudicazione), presupposto di un contratto di diritto privato, ed
al giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto direttamente il contratto
stipulato all’esito del relativo procedimento, con riferimento non solo alle
vicende relative all’esecuzione del contratto, ma anche alle patologie ed
all’inefficacia della fattispecie negoziale pur se derivanti da irregolarità/illegittimità
del relativo procedimento(62). Infatti, è costante affermazione della
giurisprudenza della Suprema Corte che “appartengono alla giurisdizione
del giudice ordinario, quale giudice dei diritti, le controversie nascenti dall’esecuzione
di contratti di appalto di opere pubbliche, atteso che tali controversie
hanno ad oggetto posizioni di diritto soggettivo inerenti a rapporti
contrattuali di natura privatistica, nelle quali non hanno incidenza i poteri
discrezionali ed autoritativi della P.A., anche quando quest’ultima si sia
avvalsa della facoltà, conferitale dalla legge, di recedere dal rapporto e pure
nel caso in cui la decisione dell’autorità amministrativa in ordine al rapporto
sia stata adottata nelle forme dell’atto amministrativo, il quale, per questo
suo connotato, non ha natura provvedimentale e non cessa di operare
nell’ambito delle paritetiche posizioni contrattuali delle parti”(63).
304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(62) Secondo l’orientamento, condiviso da entrambi i massimi organi giurisdizionali,
spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere tanto la dichiarazione
di nullità quanto quella di inefficacia o l’annullamento del contratto di appalto, a seguito
dell’annullamento della delibera di scelta dell’altro contraente, adottata all’esito di una
procedura ad evidenza pubblica. Invero, in ciascuno di questi casi la controversia non ha ad
oggetto i provvedimenti riguardanti la scelta suddetta, ma il successivo rapporto di esecuzione
che si concreta nella stipulazione del contratto di appalto, del quale i soggetti interessati
chiedono di accertare un aspetto patologico, al fine di impedirne l’adempimento. In tali casi
le situazioni giuridiche soggettive delle quali si chiede l’accertamento negativo hanno consistenza
di diritti soggettivi pieni ed il giudice è comunque chiamato a verificare la conformità
alla normativa positiva delle regole attraverso cui l’atto negoziale è sorto, ovvero è
destinato a produrre i suoi effetti (in tal senso, Cass. civ., sez. un., 28 dicembre 2007, n.
27169, in www.giustamm.it; Cass. civ., sez. un., 18 luglio 2008, n. 19805, in www.lexitalia.it;
Cons. St., ad. pl., 30 luglio 2008, n. 9, ivi, sia pure con temperamenti con riferimento al giudizio
di ottemperanza).
(63) In questi termini, Cass. civ., sez. un., ord. 22 febbraio 2007, n. 4116, in www.lexitalia.
it, ove ulteriori riferimenti, nonché, ex pluribus, 20 dicembre 2006, n. 27170, in Giust.
civ. Mass., 2006, f. 12, che riconduce l’esercizio da parte della p.a. del potere di sospendere
in via cautelare gli effetti di un contratto di fornitura ad evidenza pubblica - fondato sul presupposto
che dalla sua esecuzione possano essere pregiudicate le finalità pubblicistiche - al
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Astretto rigore, dunque, il recesso dal contratto per effetto di una informativa
interdittiva incide sull’esecuzione del rapporto, con conseguente giurisdizione
civile sulla relativa controversia. Ed in tal senso pareva, inizialmente,
orientata la giurisprudenza amministrativa, sia pur in modo non uniforme(64).
Di recente, tuttavia, la Suprema Corte ha concluso per l’affermazione
della giurisdizione amministrativa in ordine alla controversia nascente dalla
deliberazione dell’ente di recedere dal contratto a seguito di informativa antimafia
negativa, ritenendo che siffatta deliberazione, pur avendo formalmente
ad oggetto l’esercizio del potere di recesso dal contratto, è espressione di
un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il
cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto, ai sensi
dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 252/1998(65).
Secondo la Cassazione, il menzionato potere di recesso dal contratto di
appalto non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione
del contratto, ma è consequenziale all’informativa del Prefetto ai
sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998 e, quindi, costituisce espressione di un
potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l’esigenza di
evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra i soggetti
indicati nell’art. 1, d..P.R. cit., e imprese nei cui confronti emergono sospetti
di collegamenti con la criminalità organizzata. Sicché deve ritenersi che la
posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo sia nei confronti del potere
di recesso o di revoca previsto dall’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 252 del 1998,
sia in relazione all’eventuale provvedimento cautelare di sospensione dei
lavori in funzione della definitiva decisione sui presupposti del recesso. E
poiché il recesso comporta che l’amministrazione sia tenuta esclusivamente
al pagamento delle opere già realizzate, oltre al rimborso delle spese nei limi-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 305
catalogo dell’autotutela privata, la quale, in caso di inesatto adempimento, legittima, ai sensi
dell’art. 1460 c.c., alla sospensione del pagamento del prezzo, con la conseguenza che le
contestazioni che investono l’esercizio di tale forma di autotutela sono sottratte alla giurisdizione
del giudice amministrativo, restando devolute a quella del g.o.
(64) Cfr., Cons. St., sez. VI, 26 ottobre 2005, n. 5981, in Foro amm. CdS, 2005, 10,
3035, ove il Collegio ha sostenuto che il recesso dal contratto, a seguito di un’informativa
prefettizia, non costituisce un provvedimento a carattere autoritativo, incidente su una procedura
di evidenza pubblica, ma si tratta di atto di natura privatistica incidente su rapporti
contrattuali, sempre privatistici, assoggettati alla disciplina antimafia e in cui vi era una specifica
clausola risolutiva per la perdita dei requisiti antimafia.
(65) In tal senso, Cass. civ., sez. un., 29 agosto 2008, n. 21928, in www.lexitalia.it; da
ultimo, Cass. civ., sez. un., 28 novembre 2008, n. 28345, ivi; in dottrina, per approfondimenti,
si rinvia a CERRETO, Recesso della p.a. da un contratto di appalto di lavori pubblici per
effetto di informativa antimafia e riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo,
con osservazioni alla sentenza Cass. S.U. 29 agosto 2008 n. 21928 e spiragli di
razionalizzazione del sistema di riparto sulla sorte del contratto, in www.giustamm.it., il
quale, tuttavia, qualifica il potere di recesso dal contratto non già quale esercizio di una potestà,
ma come un diritto potestativo nei confronti del contraente privato, che eccezionalmente
il legislatore concede all’Amministrazione per prevalenti esigenze di interesse pubblico,
in presenza di un’informativa interdittiva.
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ti dell’arricchimento dell’appaltante, ne consegue che l’intera controversia
sui rapporti tra le parti deve essere devoluta al Giudice amministrativo.
In tal senso, dunque, la Corte di Cassazione fa applicazione del principio
per cui la posizione giuridica soggettiva del contraente privato (beneficiario del
finanziamento o appaltatore), che – una volta individuato quale contraente
della p.a. – è di diritto soggettivo, torna ad essere di interesse legittimo tutte le
volte in cui la “revoca” del finanziamento o dell’affidamento dell’appalto
dipenda dall’esercizio di poteri di autotutela dell’Amministrazione, la quale
intende annullare il provvedimento di concessione del contributo pubblico o di
affidamento dell’appalto in ragione dei vizi di legittimità per contrasto originario
con il pubblico interesse, quale quello in ipotesi di tutela dell’ordine pubblico
nell’ambito della legislazione antimafia. Sicché, in ragione del preminente
interesse pubblico sotteso all’azione amministrativa volta a contrastare il crimine
organizzato, trova giustificazione l’ascrizione, compiuta dalle Sezioni Unite
della Suprema Corte, alla giurisdizione amministrativa delle controversie concernenti
i conseguenti atti di ritiro disposti dalla stazione appaltante, benché
adottati nel corso dell’esecuzione del rapporto negoziale. La determinazione di
recedere dal contratto, assunta successivamente alla sua stipulazione, non ha
connotazione privatistica, ma si tratta di un atto che la P.A. adotta nell’esercizio
di poteri di supremazia relativi alla fase della scelta del contraente e non
nell’ambito della gestione paritetica del rapporto contrattuale(66).
Conclusione, questa, che appare in linea con il consolidato principio giurisprudenziale,
secondo cui la qualificazione del provvedimento amministrativo deve
prescindere dal nomen juris attribuitogli dall’Ammini-strazione (revoca, annullamento,
recesso, ecc.), dovendo essere effettuata sulla base della corretta esegesi
del potere da essa in concreto esercitato, tenuto conto dei presupposti fattuali
e normativi dell’atto, del suo contenuto, nonché del procedimento seguito
dalla p.a.(67). Tanto che va qualificato come annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione,
piuttosto che revoca dell’affidamento dell’appalto, il provvedimento
con il quale la p.a. appaltante, sia pure dopo la stipula del contratto di
appalto, ha annullato l’aggiudicazione della gara facendo ricorso al suo potere
di autotutela per l’asseriti vizi di legittimità nella fase di scelta del contraente.
Prima dei recenti arresti delle Sezioni Unite, la giurisprudenza amministrativa
(sia pure in modo non univoco, per quanto in precedenza detto), sia
pur in modo non univoco, già riconduceva alla propria giurisdizione le controversie
relative ai provvedimenti di revoca di un contratto di appalto adottati
a seguito di una informativa antimafia e che si incentrano sulla legittimità
o meno di quest’ultimo provvedimento, atto dotato di autonoma efficacia lesi-
306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(66) T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 29 dicembre 2008, 6171, in www.lexitalia.it,
con specifico riguardo all’annullamento d’ufficio dell’affidamento dell’appalto, disposto
dall’amministrazione appaltante per anomalia dell’offerta.
(67) Così, chiaramente, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 29 dicembre 2008, n. 6171,
cit.; nello stesso senso, si vedano, Cons. St., sez. IV, 16 ottobre 2001, n. 5468, in Foro amm.,
2001, 2733; Cons. St., sez. IV, 31 ottobre 1996, n. 1183, in Cons. Stato, 1997, II,1869.
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va e funzionalmente distinto rispetto alla determinazione di recedere dal contratto,
incidente sulla serie privatistica, come tale da devolvere alla giurisdizione
del giudice amministrativo in ossequio al generale principio della causa
petendi di cui all’art. 103, Cost.(68). Sotto altro profilo, a sostegno della giurisdizione
amministrativa, analogamente a quanto successivamente affermato
dalle Sezioni Unite, si è sostenuto che la dichiarazione di risoluzione del contratto
di appalto pronunciata dalla stazione appaltante a seguito di informativa
antimafia non costituisce applicazione di una clausola (risolutiva) negoziale,
quanto piuttosto esercizio di un potere di revoca ex art. 4, comma 4, D.Lgs. n.
490/1994, necessitato dal carattere interdittivo della informativa antimafia,
che, incidendo sulla capacità a contrarre con la P.A., non può che operare
sostanzialmente nello stesso modo sia che intervenga a monte che a valle della
stipula del contratto. Da ciò l’affermata appartenenza dell’intera controversia
alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo(69).
7. Brevi considerazioni su alcune forme di “elusione” delle finalità della
normativa in materia di informative prefettizie antimafia: la segregazione di
quote societarie in trust.
Recentemente, la prassi sta registrando delle iniziative tendenti ad aggirare
i divieti imposti dal sistema delle informative antimafia, per lo più caratterizzate
dall’utilizzazione dello strumento della c.d. segregazione patrimoniale
(c.d. gestione fiduciaria o trust) da parte di soggetti, a vario titolo collegati
ad interessi di sodalizi mafiosi, appartenenti alla compagine societaria.
L’indagine, che presuppone la disamina dei profili di compatibilità-interferenza
tra la disciplina delle informative antimafia ed il trust, va condotta
con riguardo alla descrizione della struttura fiduciaria del trust, onde acclarare
se – nonostante la segregazione in trust delle partecipazioni societarie
del socio colpito da informativa antimafia – permanga, di fatto, l’ingerenza
dello stesso nella gestione sociale dell’impresa.
Il trust ha avuto ingresso nel nostro ordinamento attraverso la
Convenzione dell’Aja, approvata l’1 luglio 1985 dalla Conférence de La Haye
de droit international privé, ratificata dall’Italia con la legge n. 364/1989 ed
entrata in vigore nel gennaio del 1992(70). L’istituto nasce nell’ambito dell’evoluzione
giurisprudenziale dell’equity, propria dei sistemi giuridici
(anglosassoni) di common law, la quale costituisce un insieme di principi di
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 307
(68) In tal senso, Cons. St., sez. V, 17 luglio 2008, n. 3603, in www.lexitalia.it.
(69) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 4 maggio 2007, n. 4730, cit.
(70) In argomento, per approfondimenti, tra i tanti contributi della dottrina, si segnala,
in particolare: LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova,
2008; ID., Trusts, Milano, 2008; si veda, altresì, ANELLI, Fiducia e trust, in Trattato del contratto,
a cura di ROPPO, vol. III, 736 ss., Milano, 2006; BARTOLI, Prime riflessioni sull’art.
2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Il Corriere
del merito, 2006, 6, 697 ss.; D’AMBROSIO, Trust interno: così la validità in Italia, in D&G. -
Diritto e Giustizia, 2005, f. 38, 37 ss.; LOPILATO, I trusts interni, in Questioni attuali sul con-
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diritto che intervengono, in via suppletiva, ogniqualvolta l’applicazione dello
stretto diritto risulti in concreto iniqua, operando come criterio di giustizia
che tiene conto delle particolarità del caso di specie e delle correlate circostanze
umane, al fine di realizzare la cd. “giustizia del caso concreto”. Come
segnalato dalla dottrina(71), il trust è una figura giuridica atipica molto controversa,
suscettibile di essere adattata ad una molteplicità di rapporti, certamente
di natura patrimoniale. Il punto di arrivo del complesso dibattito dottrinale
intorno a tale istituto è rappresentato dalla sua qualificazione come
negozio atipico traslativo di diritti (reali, di natura obbligatoria o di aspettativa),
la cui costituzione è ritenuta ammissibile a condizione che esso sia sorretto
da una causa giustificatrice e sia finalizzato a perseguire scopi meritevoli
di tutela alla stregua del nostro ordinamento(72).
Dal punto di vista strutturale, il trust consiste in un rapporto giuridico tra
più soggetti: il settlor (o disponente), il trustee e i beneficiaries. Così che il
settlor dispone di una massa di beni a favore del trustee, il quale ne acquista
la piena proprietà formale (trust property), mentre il trustee si vincola al perseguimento
di un fine a lui soggettivamente estraneo (c.d. trust di scopo) e che
può assumere i contenuti più vari (per lo più, nella prassi, volto a beneficiare
soggetti terzi: beneficiaries o cestuis que trust; in tal caso si parla di trust a
beneficiari determinati). I beneficiaries vantano, pertanto, un diritto di credito
nei confronti del trustee(73), avente ad oggetto: a) il rendiconto della gestione
ad opera del trustee in conformità degli obblighi fiduciari indicati nell’atto
istitutivo del trust; b) il trasferimento dei beni alla cessazione del trust(74).
Secondo la ricostruzione che dell’istituto fornisce la dottrina maggioritaria,
il trust non può identificarsi né con un contratto né con una persona giuridica
né con un ente autonomo, ritenendosi, altresì, che è da rifiutare una
ricostruzione del trust incentrata: a) sulla presunta scissione del diritto di proprietà
in una proprietà formale in capo al trustee e in una proprietà sostanziale
in capo ai beneficiari (c.d. equitable ownership); b) sulla coesistenza in
ordine ai beni costituiti in trust di più diritti reali di contenuto diverso(75).
308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
tratto, approfondimenti tematici e giurisprudenza annotata, Milano, 2004, 383 ss., ove ulteriori
riferimenti dottrinali e rassegna della giurisprudenza pronunciatasi in materia;
MAZZAMUTO, Il trust, in Manuale di diritto privato europeo (Parte VII, Cap. XXXII), a cura
di CASTRONOVO e MAZZAMUTO, Milano, 2007.
(71) Si veda, per tutti, MAZZAMUTO, op. cit.
(72) In tal senso, LUPOI, Il trust, Milano, 2001, 265-267; in giurisprudenza, Trib.
Velletri, ord. 29 giugno 2005, n. 11, in Corr. giur., 5, 2006. Si esclude, poi, che il trust abbia
natura contrattuale: in tal senso, Trib. Napoli, 1 ottobre 2003, in D.&G., Diritto e Giustizia,
2004, f. 8, 92.
(73) In dottrina, LUPOI, op. ult. cit.
(74) Di ciò ha preso atto il Legislatore tributario individuando, ai fini dell’imposizione
sui redditi, due principali categorie di trust: a) trust con beneficiari individuati, i cui redditi
vengono imputati per trasparenza ai beneficiari stessi; b) trust senza beneficiari individuati,
i cui redditi vengono tassati direttamente in capo al trust (si veda, a tal proposito, la disciplina
dettata dalla Legge finanziaria per il 2007, art. 1, comma 74 e ss.).
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Invero, il diritto dei beneficiari nei sistemi di diritto civile (civil law) non
è un diritto reale, ma personale verso il trustee(76). Il settlor affida la proprietà
(formale ed esclusiva) dei beni conferiti in trust al trustee, al quale è
demandata la gestione del patrimonio segregato allo scopo prefigurato dal
medesimo disponente. Così, il trustee, dal canto suo, non è un rappresentante
né un mandatario del settlor, o del beneficiario o del trust(77).
I beni conferiti in trust non si confondono con il patrimonio personale del
trustee, costituendo piuttosto un patrimonio separato (c.d. effetto segregativo),
tantochè il patrimonio segregato in trust non può essere aggredito dai creditori
(né dagli aventi causa) personali del disponente e/o del trustee, formando così
una massa separata e distinta(78). Pertanto, dopo la costituzione del trust, il settlor
non è più titolare di un interesse giuridicamente rilevante, almeno in via
formale, sui beni conferiti in trust. E ciò in ragione del fatto che il patrimonio
segregato entra a far parte della sfera giuridica del trustee. Sicchè, in linea di
principio, il disponente non può influenzare le scelte amministrative del trustee,
salvo il caso in cui lo stesso disponente si sia riservato dei diritti nella qualità
di beneficiario. La posizione del disponente si caratterizza, dunque, per la
perdita definitiva del controllo (formale) sui beni costituiti in trust, nonché per
la mancanza di qualsiasi strumento di tutela azionabile nei confronti del trustee,
qualora questi impieghi i beni per una finalità diversa da quella indicata
dallo stesso disponente. Invero, il trustee gode di discrezionalità nell’esercizio
dei suoi compiti, ma è vincolato al rispetto degli obblighi di carattere fiduciario,
volti alla salvaguardia dell’interesse dei beneficiari. Il vincolo funzionale
che caratterizza la posizione del trustee giustifica la limitazione all’esercizio
del diritto formalmente trasferitogli (ammesso che di un vero e proprio trasferimento
si possa parlare), con l’ulteriore conseguenza di non poter distrarre a
proprio favore le utilità derivate dai beni, che devono essere destinate a favore
dei beneficiari o della finalità programmata.
Il disponente può, comunque, nominare un protector per garantirsi un
controllo pregnante sull’operato del trustee. Infatti, il protector è una persona
(fisica o giuridica) di fiducia del settlor, con il compito di vigilare e verificare
che le indicazioni contenute nell’atto istitutivo del trust siano rispettate.
A tal fine, lo stesso protector ha il potere/dovere di sostituire il trustee,
qualora questi si rendesse inadempiente(79).
Oltre che per mezzo del protector, il disponente può influenzare la
gestione del trust anche attraverso le cd. letters of wishes, ossia le cd. lettere
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 309
(75) Cfr., testualmente, MAZZAMUTO, op. cit.
(76) Così, Corte Giust. CE, 17 maggio 1992, in causa C-294/92, caso Webb v. Webb.
(77) Cfr., Corte Giust. CE, 17 maggio 1992, C-294/92, cit.
(78) In tal senso, si pone l’art. 1, comma 74 e segg., l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge
finanziaria 2007), riconoscendo al trust un’autonoma soggettività tributaria rilevante ai fini
dell’imposta tipica delle società (IRES), degli enti commerciali e non commerciali (sull’interpretazione
di tale norma, si veda la circolare dell’Agenzia delle Entrate, Direzione
Centrale Normativa e Contenzioso, 6 agosto 2007, n. 48/E).
(79) In merito, la dottrina ha precisato che attraverso la figura del protector, istituito dal
disponente nell’atto costitutivo del trust ovvero anche in un momento successivo, è possibi-
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di desiderio, con cui il medesimo disponente può manifestare al trustee le
proprie considerazioni in ordine alla gestione del patrimonio segregato(80).
Se, da un lato, le cd. letters of wishes non sono vincolanti per l’amministrazione
di scopo affidata al trustee, dall’altro lato, non può dubitarsi che il
disponente è legittimato a fare conoscere la propria volontà al trustee nel
corso del trust. La dottrina ha osservato che il disponente può, infatti, instaurare
con il trustee un rapporto di consultazione, anche permanente.
Invero, pur non essendo titolare di rimedi giuridici contro il trustee, il
disponente è legato al medesimo trustee dal rapporto di affidamento (trust),
caratterizzato – per le sue peculiarità – dall’elemento fiduciario(81). Ne deriva
che, il disponente – di fatto ovvero per interposta persona di fiducia (protector
o trustee) – può influenzare la gestione del patrimonio conferito in trust, tanto
che la segregazione di partecipazioni societarie in trust può in concreto, per
come congegnato il relativo atto istitutivo, risultare idonea ad eludere la disciplina
sulle informative antimafia e la finalità, cautelare e preventiva, di estromissione
dal circuito economico di operatori economici “in odore di mafia”.
Invero, come già segnalato, il concetto inerente il tentativo di infiltrazione
mafiosa si presenta tanto sfumato da adattarsi a tutte quelle situazioni,
come quella in esame, in cui sia intangibile il vero contatto (anche giuridico)
tra l’impresa e la criminalità organizzata.
È questo, dunque, il nuovo fronte sul quale il legislatore è chiamato ad
intervenire, in vista della massima garanzia di trasparenza negli affidamenti
degli appalti pubblici (82).
Avv. Alfonso Mezzotero(*)
310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
le controllare la gestione fiduciaria e vigilare sulla fedeltà e sulla diligenza del trustee; per
un’ampia analisi della figura del protector, si rinvia a TARISSI DE JACOBIS, Il Guardiano e la
sua successione, in Trust e attività fiduciaria, 2000, 1, 123 ss.; da ultimo, LUPOI, Istituzioni
del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, 126 ss., secondo cui: “Il
guardiano può svolgere tre distinte tipologie di funzioni: esercitare direttamente poteri
dispositivi o gestionali; prestare o meno il proprio consenso a decisioni assunte dal trustee;
impartire direttive o istruzioni al trustee circa il compimento di specifici atti …. Sono poteri
dispositivi, in via di esempio: revoca e nomina di trustee, nomina o esclusione di beneficiari,
distribuzione anticipata di capitale, individuazione dei beneficiati ai quali corrispondere
reddito …. Alcune leggi considerano i poteri di revoca e nomina del trustee come tipicamente
inerenti le funzioni del guardiano”.
(80) Cfr., in ordine alle cd. lettere di desiderio, LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e
degli affidamenti fiduciari, cit., 69, ove l’A. rileva che oltretutto “Il disponente può riservare a
se stesso, nell’atto istitutivo, qualsiasi potere sul fondo in trust che egli desideri (in inglese:
“riserve powers”), ma il limite da rispettare è quello dell’affidamento del compito al trustee”.
(81) In ordine al rapporto di affidamento tra disponente e trustee, si veda LUPOI, op. ult.
cit., 69.
(82) In argomento, da ultimo, LUPOI, Viaggio nella prassi professionale fra virtuosismi,
errori, fatti e misfatti, in AA.VV., I provessionisti ed il trust, IPSOA, 2008, cap. V, 279 e ss.,
ove l’A. analizza alcune concrete fattispecie di trusts elusive della normativa sulle informative
antimafia.
(*) Avvocato dello Stato. con la collaborazione del dott. Aurelio Schiavone.
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Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, decisione
9 luglio 2008 n. 6487 – Pres. Amodio – Est. Caponigro – C.M.S. S.r.l., E. S.r.l. ed altri
(Avv.ti Bonanno, Calandra, G. Immordino) c/ Ministero dell’Interno, Ufficio Territoriale del
Governo di Palermo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sindaco di Palermo quale
Commissario Delegato all’Ufficio Emergenza Traffico (Avvocatura Generale dello Stato),
Comune di Palermo (Avv. Impinna), C. S. G. S.p.A., in proprio e nella qualità di capogruppo
dell’AT.I. con la M. I. S.c.a.r.l. (Avv. Gallo), M. I. S.c.a.r.l.
1.- L’informativa antimafia adottata ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998 determina
una situazione generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica
amministrazione, contrariamente all’informativa c.d. atipica, di cui all’art. 1 septies d.l. n.
629/1982, che ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto all’amministrazione
cui è indirizzata, la quale rimane titolare di un potere discrezionale circa la valutazione
delle informazioni ricevute ai fini dell’affidamento dell’appalto.
2.- Mentre nell’informativa prefettizia antimafia c.d. atipica ex art. 1 septies, l. n.
629/1982, l’efficacia interdittiva può scaturire da una valutazione autonoma e discrezionale
dell’amministrazione destinataria, nella informativa antimafia ex art. 10, d.P.R. 252/1998
l’efficacia interdittiva discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, per cui la stazione
appaltante, nel caso dell’informativa atipica, conserva una potestà discrezionale e deve
autonomamente valutare le informazioni ricevute senza procedere automaticamente
all’esclusione dell’impresa, laddove, nel caso dell’informativa antimafia ex art. 10, d.P.R. n.
252/1998, la stazione appaltante non ha alcun potere discrezionale atteso che l’esclusione
dell’impresa deriva direttamente dall’atto prefettizio(1).
3.- La stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione di contratti o subcontratti ovvero
la concessione di contributi pubblici per lo svolgimento di attività di natura imprenditoriale
sono impedite da: cause di divieto o di sospensione tassativamente indicate nell’allegato
1 al D.Lgs. n. 490/1994; tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le
scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate.
4.- I tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti da: 1) provvedimenti o
proposte di provvedimenti, come indicato nelle lett. a) e b) dell’art. 10, comma 7, d.P.R. n.
252/1998; 2) accertamenti prefettizi, come indicato nella successiva lett. c).
5.- La discrezionalità nella valutazione dei presupposti a base dell’atto, peraltro, è di
latitudine maggiore nell’ipotesi ex art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252/1998 in quanto
le “infiltrazioni” possono essere dedotte anche da parametri non predeterminati normativamente.
In tal caso, infatti, rientra nel potere discrezionale del Prefetto ogni valutazione
dei fatti e delle circostanze emergenti dall’attività investigativa demandata agli organi di
polizia.
6.- La fase istruttoria del procedimento finalizzato a rendere la certificazione antimafia
e, quindi, anche a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a
condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa si concreta essenzialmente nell’acquisizione
di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso al fine
di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità di un
eventuale utilizzo distorto del danaro pubblico che la normativa di settore mira ad evitare e
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 311
(1) Cfr., fra le tante, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 31 marzo 2008, n. 1644.
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 311
di compiere la conseguente scelta sulla sussistenza o meno dei presupposti previsti dalla
legge per l’adozione della misura inibitoria.
7.- Il collegamento con la disciplina delle misure di prevenzione – che partecipano alla
medesima ratio di quelle in esame, intesa a combattere le associazioni mafiose con l’efficace
aggressione dei loro interessi economici – testimonia il fatto che le preclusioni dettate dalle
richiamate norme di legge costituiscono una difesa molto avanzata dell’autorità pubblica
contro il fenomeno mafioso in quanto gli istituti de quibus si basano su un accertamento di
grado inferiore e ben diverso da quello richiesto per l’applicazione della sanzione penale.
8. La cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come
la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia
e di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici
e indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali(2). In altri termini, le informative
prefettizie in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi
un valore sintomatico e indiziario e mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali
nel tessuto economico imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento
in sede penale di reati(3). Il divieto di contrarre e di rilasciare concessioni o erogazioni, in
definitiva, ha una funzione spiccatamente cautelare ed in quanto tale prescinde dal concreto
accertamento in sede penale di uno o più reati che vi siano direttamente connessi(4).
9. Il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che fanno capo, da un lato, alla presunzione
di innocenza di cui all’art. 27 Cost. ed alla libertà d’impresa costituzionalmente
garantita e, dall’altro, alla efficace repressione della criminalità organizzata ed alla conseguente
neutralizzazione delle imprese infiltrate dal crimine organizzato, dà atto che l’interpretazione
della normativa in esame dev’essere improntata ad una particolare analisi
soprattutto per l’accertamento degli eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a
condizionare le scelte, che richiede l’utilizzo di concetti indeterminati e rimessi alla valutazione
discrezionale dell’autorità prefettizia.
10. Attesa l’autonomia del procedimento amministrativo rispetto a quello giurisdizionale
penale, se, da un lato, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo
a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso, dall’altro, per evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e
salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, non possono ritenersi sufficienti
fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale,
mentre occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici
e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con le predette associazioni(5).
11. La valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento per
quanto attiene alla sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare
le scelte e gli indirizzi delle società interessate, per la specifica natura del giudi-
312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
(2) In senso conforme, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 12 giugno 2002 n. 3403; Cons.
St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724.
(3) Ex pluribus, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756.
(4) Cfr., altresì, Cons. St., sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4065.
(5) In tal senso T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 12 ottobre 2001, n. 4553; T.A.R.
Calabria, Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1957; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II,
12 febbraio 2007, n. 38.
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 312
zio formulato, è connotata dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca
e, pertanto, può definirsi tipico esercizio di discrezionalità tecnica, che esclude la
possibilità per il giudice amministrativo di svolgere un sindacato pieno e assoluto, ma non
impedisce allo stesso di formulare un giudizio di logica e congruità delle informazioni
assunte e di poter eventualmente rilevare se ictu oculi i fatti riferiti dal Prefetto configurino
o meno la fattispecie prevista dalla norma(6).
12. La valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento, per
la specifica natura del giudizio formulato, è sindacabile dal giudice amministrativo solo se
emergano manifesti vizi logici e di congruità con riguardo alle informazioni assunte o alle
deduzioni che da esse sono state tratte(7).
13. Il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori specificazioni, non è di per sé
solo idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione in quanto, a prescindere dall’eventuale
partecipazione del genitore ad organizzazioni di stampo mafioso, non può ritenersi sussistente
un vero e proprio automatismo tra un legame familiare, sia pure tra padre e figlio, e
l’inequivoca volontà dell’organizzazione criminosa di condizionare le scelte e gli indirizzi
sociali e, d’altra parte, se l’eventuale attività pregiudizievole posta in essere da un genitore
dovesse riverberarsi sic et simpliciter sull’attività imprenditoriale di un figlio, quest’ultimo
sarebbe, senza sua colpa, nell’impossibilità di potere svolgere attività costituzionalmente
tutelate(8).
14. Ad ogni modo, quando si tratta di vincoli particolarmente significativi (come quello
esistente tra padre e figlio) dev’essere attentamente valutato ogni ulteriore elemento dai
quali è ragionevole dedurre che sussistano collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità
prefettizia ha individuato dei pregiudizi e le società.
«(…) Fatto
Il Sindaco del Comune di Palermo nella qualità di Commissario delegato all’emergenza
traffico, con nota del 18 ottobre 2006, in riferimento alla procedura di appalto per il “completamento
dei lavori di costruzione del raddoppio della Circonvallazione di Palermo – II
stralcio – lotto B – da via Altofonte a via Belgio. Progetto dello svincolo di via Perpignano
– Sovrappasso pedonale”, ha invitato l’Ufficio Contratti dello stesso Comune ad escludere
l’impresa aggiudicataria e ad invitare la seconda classificata a produrre la documentazione
di rito necessaria per la stipula del contratto.
La determinazione è stata adottata in quanto il Comitato Tecnico Scientifico
dell’Ufficio Emergenza Traffico e Mobilità ha espresso il convincimento che anche l’informativa
prefettizia ai sensi dell’art. 1 septies L. 726/1982 giustifica ampiamente, nell’ambito
del potere discrezionale attribuito dalla legge alle pubbliche amministrazioni, un provvedimento
di diniego dell’affidamento dell’appalto, stante la peculiare rilevanza che la problematica
antimafia riveste nella città di Palermo.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 313
(6) Cfr., T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 4 aprile 2002, n. 1861.
(7) Cfr., T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 19 settembre 2007, n. 7875; T.A.R.
Campania, Napoli, sez. I, 4 maggio 2007, n. 4739.
(8) Cfr., T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171. In ordine all’individuazione
del tentativo di infiltrazione desunto dal rapporto parentale, da ultimo, Cons.
St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958.
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 313
La Commissione di gara, con verbale in data 25 ottobre 2006, ha quindi aggiudicato i
lavori alla ATI (…) S.p.a. di C. (ME) e M.I. s.c. r.l. di Salerno evidenziando altresì l’esistenza
di un ulteriore motivo di esclusione dalla gara per l’ATI ricorrente, per mancanza del
requisito della regolarità contributiva al momento dell’offerta di una delle ditte mandanti.
Di talché, le ricorrenti hanno proposto il presente ricorso, articolato nei seguenti motivi:
– Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 septies L. 726/1982 come aggiunto dall’art.
2 L. 486/1988, dell’art. 10, co. 9, d.P.R. 252/1998 nonché delle circolari del Ministero
dell’Interno 14 dicembre 1994 e 8 gennaio 1996 in materia di informative prefettizie supplementari.
Violazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa. Eccesso di potere sotto i profili della carenza dei presupposti, del travisamento
dei fatti, del difetto o dell’insufficienza della motivazione e dello sviamento.
La determinazione sindacale impugnata si sarebbe limitata a recepire acriticamente le
indicazioni del Comitato Tecnico assumendo la fisionomia di atto meramente applicativo di
una precedente manifestazione di volontà resa in sede consultiva.
Gli elementi di fatto e le indicazioni trasmesse dalla Prefettura di Palermo in ordine alla
società C. ed al suo amministratore se, da un lato, escludevano la sussistenza di cause di
decadenza, dall’altro, non avrebbero potuto legittimamente giustificare una valutazione
negativa dell’impresa.
L’amministrazione avrebbe del tutto omesso di evidenziare le ragioni di pubblico interesse
a base della propria scelta discrezionale, finendo con il riconoscere alla informativa
prefettizia atipica un’efficacia preclusiva automatica che il legislatore ha voluto evitare.
L’esercizio del potere di autotutela avrebbe dovuto seguire la regola generale secondo
cui l’amministrazione deve esplicitare con motivazione ampia, congrua e ragionevole il pubblico
interesse concreto ed attuale al ritiro dell’atto.
– Violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, del combinato disposto dell’art. 1 septies
L. 726/1982 e dell’art. 10, co. 9, d.P.R. 252/1998. Eccesso di potere sotto i profili della
carenza dei presupposti, del travisamento dei fatti, del difetto di motivazione e dello sviamento.
L’informativa antimafia atipica non potrebbe avere ad oggetto le informazioni di cui
all’art. 10 d.P.R. 252/1998, relative a probabili tentativi di infiltrazione mafiosa, ma altri e
diversi elementi o indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità ammessa
dalla legge, dei requisiti soggettivi.
Il Comune di Palermo avrebbe omesso di esprimere una propria autonoma valutazione
degli elementi di fatto forniti dalla Prefettura.
– Violazione dell’art. 7, in combinato disposto con l’art. 21 octies L. 241/1990 e successive
modifiche ed integrazioni. Eccesso di potere sotto i profili del difetto di presupposti
e dello sviamento.
L’amministrazione avrebbe denegato l’affidamento dell’appalto senza previamente
avvisare le società destinatarie e senza avere previamente consentito la relativa partecipazione
procedimentale.
– Violazione e falsa applicazione, sotto ulteriore profilo, dell’art. 1 septies L. 726/1982.
Eccesso di potere sotto i profili del travisamento dei fatti, del difetto di motivazione e dello
sviamento.
La Prefettura avrebbe trasmesso solo parzialmente i dati in suo possesso, non trasmettendo
anche gli elementi a favore degli imprenditori C. e V. V.
– Violazione e falsa applicazione dell’art. 75, lett. e), d.P.R. 554/1999 in relazione
all’art. 3, lett. a), del disciplinare di gara. Carenza di motivazione. Assenza di valutazione
della gravità dell’infrazione.
314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Nessuna norma del bando di gara o del disciplinare avrebbe imposto ai concorrenti di
dichiarare di essere in regola al momento della gara con l’INPS, l’INAIL o la Cassa Edile né
il possesso di tale requisito.
La documentazione acquisita dal Comune avrebbe confermato che la ricorrente era in
regola al momento dell’aggiudicazione e che, al momento della gara aveva un insoluto di
appena un giorno, non quantificato nell’importo, nei confronti dell’INPS; l’amministrazione
non avrebbe effettuato una valutazione della gravità della presunta infrazione.
Con successivo atto dell’8 novembre 2006, la Prefettura di Palermo, in relazione alle
circostanze richiamate nell’atto stesso e tenuto conto che le informazioni ex art. 10 d.P.R.
252/1998 sono da considerare strumenti di prevenzione delle possibili infiltrazioni mafiose
nei pubblici appalti, ha informato il Comune di Palermo che sussistono concreti, concordanti
elementi comprovanti il condizionamento mafioso delle ditte C. ed E.
Le ricorrenti hanno esteso l’impugnativa a tale atto, proponendo i seguenti motivi
aggiunti:
– Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, co. 2 e 7, d.P.R. 252/1998 e 4, co. 4 e 6,
D.Lgs. 490/1994 anche in relazione alla circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento
della pubblica sicurezza – Direzione centrale per gli affari generali n. 559/LEG/240.517.8
del 18 dicembre 1998. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto dei presupposti e
di motivazione.
L’informativa prefettizia riterrebbe le due società ricorrenti permeabili al condizionamento
mafioso soltanto perché gli attuali amministratori sono figli o nipoti dei sigg.ri C. e
V. V., più volte interessati da procedimenti penali, che però, per quanto riguarda la C., non
rivestirebbero più cariche sociali sin dal 18 gennaio 1996 e non sarebbero più neanche soci
dal 4 maggio 2004 e, per quanto riguarda la E. non avrebbero più alcun rapporto già da diversi
anni.
L’unico motivo della presunta permeabilità delle società verrebbe indicato nel fatto, del
tutto asintomatico, del mero rapporto familiare tra i sigg.ri C. e V. V. con i figli, attuali amministratori
delle due società, senza alcuna ipotesi sulla permeabilità dell’attività concreta delle
società ricorrenti a condizionamenti mafiosi.
Al di là del mero rapporto di parentela, non vi sarebbe alcun elemento volto a suffragare
il rischio della permeabilità delle imprese.
Le risultanze investigative e processuali sarebbero elencate in forma parziale e non
darebbero conto né dell’esito processuale delle stesse né dell’assenza di condanna per alcuno
dei reati contestati nell’informativa.
La Prefettura non potrebbe rassegnare circostanze negative senza poi dare conto dell’esito
definitivo delle stesse.
I sigg.ri V., inoltre, avrebbero inoltrato decine di denunce alle Forze dell’Ordine per
respingere tentativi di condizionamento da parte di organizzazioni criminali.
L’Avvocatura dello Stato ha innanzitutto evidenziato che, a seguito dell’emanazione dell’informativa
antimafia tipica, dovrebbe ritenersi l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta
carenza di interesse in quanto dall’eventuale annullamento dell’informativa supplementare
atipica le società ricorrenti non potrebbero conseguire alcuna utilità pratica e, nel merito,
ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso.
Il Comune di Palermo ha anch’esso sostenuto che la nota della Prefettura di Palermo
dell’8 novembre 2006 priva di interesse attuale e concreto l’impugnativa proposta avverso
l’informativa antimafia atipica. In rito, ha anche dubitato della tempestività del deposito del
ricorso ed ha altresì eccepito l’incompetenza territoriale del T.A.R. Lazio indicando come
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 315
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 315
competente il T.A.R. Sicilia, Sede di Palermo. Nel merito, ha contestato la fondatezza delle
censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso.
La C.S.G. S.p.A. ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il
rigetto del ricorso.
Le Società ricorrenti hanno depositato ulteriore memoria a sostegno delle proprie ragioni.
L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1585 pronunciata da questa Sezione
nella camera di consiglio del 4 aprile 2007; il relativo appello è stato respinto con ordinanza
n. 3155 pronunciata dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella camera di consiglio
del 19 giugno 2007.
All’udienza pubblica del 4 giugno 2008, la causa è stata trattenuta per la decisione.
Diritto
1. L’eccezione di incompetenza territoriale del T.A.R. Lazio sollevata dal Comune di
Palermo è inammissibile in quanto la relativa istanza non è stata notificata a tutte le parti in
causa ai sensi dell’art. 31, co. 3, L. 1034/1971.
2. L’eccezione di inammissibilità per tardività del deposito è infondata in quanto risultano
tempestivamente depositati sia il ricorso introduttivo del giudizio sia i motivi aggiunti.
3. L’impugnativa proposta con il ricorso introduttivo del giudizio avverso l’informativa
antimafia c.d. atipica è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
L’informativa antimafia adottata ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 252/1998, infatti, determina
una situazione generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica
amministrazione, contrariamente all’informativa c.d. atipica, di cui all’art. 1 septies D.L.
629/1982 che ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto all’amministrazione
cui è indirizzata che rimane titolare di un potere discrezionale circa la valutazione delle
informazioni ricevute ai fini dell’affidamento dell’appalto.
In altri termini, mentre nell’informativa prefettizia antimafia c.d. atipica ex art. 1 septies
L. 629/1982, l’efficacia interdittiva può scaturire da una valutazione autonoma e discrezionale
dell’amministrazione destinataria, nella informativa antimafia ex art. 10 d.P.R.
252/1998 l’efficacia interdittiva discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, per cui
la stazione appaltante, nel caso dell’informativa atipica, conserva una potestà discrezionale
e deve autonomamente valutare le informazioni ricevute senza procedere automaticamente
all’esclusione dell’impresa, laddove, nel caso dell’informativa antimafia ex art. 10 d.P.R.
252/1998, la stazione appaltante non ha alcun potere discrezionale atteso che l’esclusione
dell’impresa deriva direttamente dall’atto prefettizio.
Va da sé, allora, che, essendo intervenuto a regolare il rapporto tra l’ATI costituenda originaria
aggiudicataria dell’appalto ed il Comune di Palermo l’informativa prefettizia ex art.
10 d.P.R. 252/1998 emanata dalla Prefettura di Palermo in data 8 novembre 2006, l’eventuale
accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio, nella parte in cui è impugnata l’informativa
c.d. atipica, non potrebbe determinare per le ricorrenti alcuna utilità.
Viceversa, ove dovesse risultare fondata l’impugnativa proposta con motivi aggiunti
avverso l’informativa antimafia ex art. 10 d.P.R. 252/1998, residuerebbe in capo alle ricorrenti
un interesse all’esame del ricorso introduttivo del giudizio limitatamente alla censura
con cui è contestato l’ulteriore motivo di esclusione dalla gara per mancanza del requisito
della regolarità contributiva al momento dell’offerta di una delle ditte mandanti.
4. I motivi aggiunti sono infondati e vanno di conseguenza respinti.
L’impugnata nota prefettizia, in esito alle acquisizioni informative da parte degli organi
di polizia, ha informato che, pur nulla figurando a carico degli amministratori e dei diret-
316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 316
tori tecnici delle società C.(...) ed E. S.r.l. (…), risultano sussistenti elementi e circostanze
oggettive che inducono a ritenere fondatamente le società medesime condizionate dalla
mafia.
In effetti, soggiunge la Prefettura, le società C. ed E. sono riconducibili alla famiglia di
imprenditori V. (…) che compartecipa in numerose altre società ed attività imprenditoriali,
composta dai fratelli V. V., F., C. e dai loro figli.
Le predette hanno subito nel tempo le seguenti trasformazioni societarie:
- Società E.S.r.l. con sede in (…).
La società è stata costituita il 12 marzo 1996 con sede a (…) da V. V., S. V. (di V.) e G. V.
(nipote di V.). Amministratore e Direttore tecnico V. V. Nel 2003, il capitale sociale era ripartito
esclusivamente tra i precitati V. e S. con amministratore V. Direttore tecnico G. V., di C.
Dal 2005 ad oggi, le quote della società risultano ripartite tra il già citato S. V. (di V.) e
G. V. (di C.). Amministratore unico G. V.
- Società C. S.r.l. di Palermo.
La società è stata costituita il 30 dicembre 1980 a Palermo dai fratelli V., F. e C. V.,
Amministratore unico C. fino all’anno 1996, successivamente è subentrato come amministratore
C. P.
Il 17 marzo 1998, F. V. ha ceduto le proprie quote ai due fratelli C. e V. Dall’ottobre
2000 Amministratore unico è G. V. di V. Nell’anno 2002, il capitale sociale viene ripartito tra
C. V. e V.V. Dall’aprile 2005, è amministratore unico R. T., mentre le quote societarie sono
attualmente ripartite tra S. V. (di C.) e G. V. (di V.) a seguito di donazione del 4 maggio 2004
da parte dei rispettivi genitori.
Ciò posto, la Prefettura di Palermo ha fatto presente che, ai fini delle richieste di informazioni
ex art. 10, rileva la circostanza che a carico dei componenti della famiglia V., C., F.,
V. e G., risultano gravi pregiudizi per mafia ed è stata accertata una contiguità dei medesimi
con l’organizzazione criminale mafiosa denominata Cosa Nostra.
Lo stesso rapporto di cointeressenze parentali, prosegue l’autorità prefettizia, appare
tanto più significativo ove si consideri, ad esempio, che la C., costituita dai tre fratelli V.,
successivamente alla cessione delle proprie quote da parte di F. ai propri germani (1998), è
rimasta nella esclusiva formale proprietà di C. e V. V. fino alla donazione delle loro quote
sociali ai rispettivi figli e nipoti (2004); passaggio di proprietà che può ragionevolmente ritenersi
essere stato motivato dall’esigenza di evitare ogni possibile riferimento a chi era oggetto
di attenzione da parte degli organi investigativi. Né può essere sottovalutato in proposito
che già nel 2001 la Prefettura aveva reso informazioni interdittive nei confronti della E. e
della Calcestruzzi S.C. (A quella data infatti C. V. deteneva unitamente al fratello V. quote
pari al 50% del capitale sociale della calcestruzzi S. C., di cui era amministratore unico S.
V., figlio di V. C. e V. erano anche intestatari delle quote sociali di E., di cui V. V. era amministratore
unico e G. V. di F. consigliere).
A chiarimento di quanto esplicitato, la Prefettura di Palermo ha indicato le cariche rivestite
da C., V., F. e G. V. ed i pregiudizi risultanti sul loro conto.
Con i motivi aggiunti, le ricorrenti hanno essenzialmente dedotto che il solo motivo
della presunta permeabilità delle società verrebbe indicato nel fatto, del tutto asintomatico,
del mero rapporto familiare tra i sigg.ri C. e V. V. con i figli, attuali amministratori delle due
società, mentre, al di là del mero rapporto di parentela, non vi sarebbe alcun elemento volto
a suffragare il rischio della permeabilità delle imprese; le risultanze investigative e processuali,
inoltre, sarebbero elencate in forma parziale e non darebbero conto né dell’esito processuale
delle stesse né dell’assenza di condanna per alcuno dei reati contestati nell’informa-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 317
03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 317
tiva e, anzi, i sigg.ri V. avrebbero inoltrato decine di denunce alle Forze dell’Ordine per
respingere tentativi di condizionamento da parte di organizzazioni criminali.
Il Collegio osserva in via preliminare che l’art. 4, co. 1, del D.Lgs. 490/1994 – recante
disposizioni attuative della L. 47/1994, in materia di comunicazioni e certificazioni previste
dalla normativa antimafia – dispone che le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e gli
altri soggetti di cui all’art. 1 devono acquisire le informazioni di cui al successivo comma 4
prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti ovvero prima di rilasciare
o consentire le concessioni o erogazioni indicati nell’allegato 3, il cui valore sia superiore
a determinate soglie.
L’art. 4, co. 4, del D.Lgs. 490/1994 a sua volta dispone che il Prefetto trasmette alle
amministrazioni richiedenti le informazioni concernenti la sussistenza o meno, a carico di
uno dei soggetti indicati nelle lettere d) ed e) dell’allegato 4, delle cause di divieto o di
sospensione dei procedimenti indicate nell’allegato 1, nonché le informazioni relative ad
eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi
delle società o imprese interessate.
Il richiamato allegato 1 elenca poi le cause di divieto, di sospensione e di decadenza tassativamente
previste dall’art. 10 della L. 575/1965.
L’art. 4, co. 6, del decreto legislativo citato stabilisce ancora che quando, a seguito delle
verifiche disposte a norma del comma 4, emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione
mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative
informazioni prefettizie non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti,
né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni.
Tale previsione è ripetuta nell’art. 10, co. 2, d.P.R. 252/1998 – regolamento recante
norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle
informazioni antimafia – che, al successivo comma 7, sancisce come le situazioni relative ai
tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte: a) dai provvedimenti che dispongono una
misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno
dei delitti di cui agli artt. 629, 644, 648 bis e 648 ter del codice penale, o dall’art. 51,
comma 3 bis, del codice di procedura penale; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione
di taluna delle misure di cui agli artt. 2 bis, 2 ter, 3 bis e 3 quater della L. 575/1965;
c) dagli accertamenti disposti dal Prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento
delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti ai Prefetti competenti per quelli
da effettuarsi in altra provincia.
Di talché, la stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione di contratti o subcontratti
ovvero la concessione di contributi pubblici per lo svolgimento di attività di natura imprenditoriale
sono impedite da:
1. cause di divieto o di sospensione tassativamente indicate nell’allegato 1 al D.Lgs.
490/1994;
2. tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle
società o imprese interessate.
I tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti da:
- provvedimenti o proposte di provvedimenti, come indicato nelle lett. a) e b) dell’art.
10, co. 7, d.P.R. 252/1998;
- accertamenti prefettizi, come indicato nella successiva lett. c).
L’attività amministrativa, quindi, è vincolata non soltanto in relazione all’adozione dell’atto
ma anche per quanto attiene all’accertamento dei presupposti quando la stipulazione
del contratto o l’erogazione del contributo è negata per la sussistenza di cause interdittive
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specificamente previste dalla legge e cioè per la presenza di cause di divieto o di sospensione
espressamente indicate nell’allegato 1 al D.Lgs. 490/1994, mentre è comunque vincolata
nell’adozione dell’atto ma è discrezionale nella valutazione dei presupposti quando la causa
interdittiva consiste nella presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa desunti da provvedimenti
o proposte di provvedimenti ai sensi dell’art. 10, co. 7, lett. a) e b), ovvero da accertamenti
prefettizi ex art. 10, co. 7, lett. c), d.P.R. 252/1998.
La discrezionalità nella valutazione dei presupposti a base dell’atto, peraltro, è di latitudine
maggiore in tale ultima ipotesi in quanto le “infiltrazioni” possono essere dedotte
anche da parametri non predeterminati normativamente. In tal caso, infatti, rientra nel potere
discrezionale del Prefetto ogni valutazione dei fatti e delle circostanze emergenti dall’attività
investigativa demandata agli organi di polizia.
L’intento del legislatore nella materia de qua è quello di accostare alle misure di prevenzione
antimafia un altro significativo strumento di contrasto della criminalità organizzata,
consistente nell’esclusione dell’imprenditore, che sia sospettato di legami o condizionamento
da infiltrazioni mafiose, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula
di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici che presuppongono la partecipazione
di un soggetto pubblico e l’utilizzo di risorse della collettività (ex multis: Cons.
Stato, VI, 24 ottobre 2000, n. 5710).
Ne consegue che la fase istruttoria del procedimento finalizzato a rendere la certificazione
antimafia e, quindi, anche a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa
tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa si concreta essenzialmente
nell’acquisizione di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso
al fine di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità
di un eventuale utilizzo distorto del danaro pubblico che la normativa di settore mira
ad evitare e di compiere la conseguente scelta sulla sussistenza o meno dei presupposti previsti
dalla legge per l’adozione della misura inibitoria.
In particolare, il collegamento con la disciplina delle misure di prevenzione – che, come
detto, partecipano della medesima ratio di quelle in esame, intesa a combattere le associazioni
mafiose con l’efficace aggressione dei loro interessi economici – testimonia del fatto
che le preclusioni dettate dalle richiamate norme di legge costituiscono una difesa molto
avanzata dell’autorità pubblica contro il fenomeno mafioso in quanto gli istituti de quibus si
basano su un accertamento di grado inferiore e ben diverso da quello richiesto per l’applicazione
della sanzione penale.
È stato chiarito, in sostanza, che la cautela antimafia non mira all’accertamento di
responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione,
inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per
legge, fatti e vicende solo sintomatici e indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità
penali (T.A.R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 n. 3403; Cons. Stato, VI, 11 settembre
2001 n. 4724).
In altri termini, le informative prefettizie in materia di lotta antimafia possono essere fondate
su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e mirano alla prevenzione di
infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico imprenditoriale, anche a prescindere dal
concreto accertamento in sede penale di reati (Cons. Stato, VI, 29 febbraio 2008, n. 756).
Il divieto di contrarre e di rilasciare concessioni o erogazioni, in definitiva, ha una funzione
spiccatamente cautelare ed in quanto tale prescinde dal concreto accertamento in sede
penale di uno o più reati che vi siano direttamente connessi (Cons. Stato, IV, 25 luglio 2001
n. 4065).
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Peraltro, il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che fanno capo, da un lato, alla
presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. ed alla libertà d’impresa costituzionalmente
garantita e, dall’altro, alla efficace repressione della criminalità organizzata ed alla conseguente
neutralizzazione delle imprese infiltrate dal crimine organizzato, dà atto che l’interpretazione
della normativa in esame deve essere improntata ad una particolare analisi soprattutto
per l’accertamento degli eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare
le scelte, che richiede l’utilizzo di concetti indeterminati e rimessi, come detto, alla
valutazione discrezionale dell’amministrazione prefettizia.
Di talché, attesa l’autonomia del procedimento amministrativo rispetto a quello giurisdizionale
penale, se, da un lato, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo
a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso, dall’altro, per evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e salvaguardare
i principi di legalità e di certezza del diritto, non possono ritenersi sufficienti fattispecie
fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, mentre
occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici
e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con le predette associazioni (T.A.R.
Campania, Napoli, III, 12 ottobre 2001 n. 4553; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 23
novembre 2000, n. 1957).
L’informativa antimafia, quindi, deve fondarsi su di un quadro fattuale di elementi che,
pur non dovendo assurgere necessariamente a livello di prova (anche indiretta), siano tali da
far ritenere ragionevolmente, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esistenza di elementi
che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto con la pubblica amministrazione (Cons.
Stato, VI, 29 febbraio 2008, n. 756).
La valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento per quanto
attiene alla sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare
le scelte e gli indirizzi delle società interessate, per la specifica natura del giudizio formulato,
è peraltro connotata dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e
poliziesca e, pertanto, può definirsi tipico esercizio di discrezionalità tecnica, che esclude la
possibilità per il giudice amministrativo di svolgere un sindacato pieno e assoluto, ma non
impedisce allo stesso di formulare un giudizio di logica e congruità delle informazioni assunte
e di poter eventualmente rilevare se ictu oculi i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno
la fattispecie prevista dalla norma (T.A.R. Campania, Napoli, III, 4 aprile 2002 n. 1861).
Pertanto, la valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento, per
la specifica natura del giudizio formulato, è sindacabile dal giudice amministrativo solo se emergano
manifesti vizi logici e di congruità con riguardo alle informazioni assunte o alle deduzioni
che da esse sono state tratte (T.A.R. Campania, Napoli, III, 19 settembre 2007, n. 7875).
La ragione per la quale l’amministrazione ritiene sussistenti concreti e concordanti elementi
comprovanti il condizionamento mafioso delle imprese C. ed E. può essere riassunta
nel fatto che le dette società sono riconducibili alla famiglia di imprenditori V. di (…) e che
a carico di C., V., F. e G. V. risultano gravi pregiudizi per mafia nonché una contiguità con
l’organizzazione criminale mafiosa denominata Cosa Nostra.
La situazione descritta appare idonea a configurare in concreto la fattispecie astratta
prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori
specificazioni, non è di per sé solo idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione in
quanto, a prescindere dall’eventuale partecipazione del genitore ad organizzazioni di stampo
mafioso, non può ritenersi sussistente un vero e proprio automatismo tra un legame familiare,
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sia pure tra padre e figlio, e l’inequivoca volontà dell’organizzazione criminosa di condizionare
le scelte e gli indirizzi sociali e, d’altra parte, se l’eventuale attività pregiudizievole posta in
essere da un genitore dovesse riverberarsi sic et simpliciter sull’attività imprenditoriale di un
figlio, quest’ultimo sarebbe, senza sua colpa, nell’impossibilità di potere svolgere attività costituzionalmente
tutelate (T.A.R. Campania, Napoli, III, 22 febbraio 2003, n. 1171).
Purtuttavia, quando si tratta di vincoli particolarmente significativi (come quello esistente
tra padre e figlio) deve essere attentamente valutato ogni ulteriore elemento e, nel caso
di specie, accanto all’elemento parentale vi sono altri elementi dai quali è ragionevole dedurre
che sussistano collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato
dei pregiudizi e le due società.
In particolare: per quanto concerne E. S.r.l., la Società risulta costituita nel 1996 da V.
V., il figlio S. ed il nipote G., nel 2003 il capitale sociale era ripartito tra V. e S. V. e dal 2005
le quote sono ripartite tra S. (di V.) V. e G. (di C.) V.; per quanto concerne C., la società è
stata costituita nel 1980 da V., F. e C.V., nell’anno 2002 il capitale sociale è ripartito tra C. e
V. V. ed attualmente le quote societarie sono ripartite tra S. (di C.) e G. (di V.) V. a seguito di
donazione del 4 maggio 2004 da parte dei rispettivi genitori.
Da tale quadro fattuale, è possibile evincere la presenza “storica” in entrambe le società
di V. V. e, in specie in relazione a C., di C.V. e la circostanza che attualmente i predetti non
siano più titolari di quote societarie, ripartite in epoca molto recente tra loro figli e, per quanto
riguarda C., a seguito di donazione da parte dei genitori, non può portare logicamente ad
escludere che il loro collegamento con le società sia ancora attuale e persistente.
La questione centrale della controversia, allora, riguarda la sussistenza o meno di elementi
pregiudizievoli sul conto di V. e C. V., tali da giustificare l’adozione dell’interdittiva
antimafia ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 252/1998.
Le censure avanzate dalle ricorrenti sono indubbiamente corpose in quanto mirano a
dimostrare che i pregiudizi ai quali l’informativa antimafia fa riferimento sono in realtà privi
di significato essendo stati i procedimenti a carico di C. e V. V. archiviati o comunque definiti
in modo tale da non accertare loro responsabilità.
Sotto tale profilo, le doglianze sono pertinenti e congrue in quanto danno anche conto
del fatto che l’informativa in parte qua non si presenta aggiornata; esse, tuttavia, si rivelano
insufficienti a rendere irragionevole e illogica o anche viziata per travisamento dei fatti la
determinazione assunta dall’autorità prefettizia.
In primo luogo, occorre osservare – sebbene tale considerazione di per sé sola non
sarebbe sufficiente a dare conto di specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e
rivelatori di concrete connessioni con la criminalità organizzata – che i predetti soggetti, pur
preso atto che i relativi procedimenti non si sono conclusi con l’accertamento di responsabilità,
sono stati comunque coinvolti in una molteplicità di vicende anche in relazione a fatti
di tipo associativo ed ai sensi della normativa antimafia.
Nel caso di specie, però, assumono fondamentale rilievo, al fine di integrare la fattispecie
astratta prevista dalla norma e di determinare il passaggio della valutazione compiuta
dalla Prefettura dalla semplice congettura ad un’ipotesi ragionevole di interdizione antimafia
poiché basata su specifici elementi fattuali sintomatici, le dichiarazioni rese da taluni collaboratori
di giustizia.
In particolare:
dalle dichiarazioni rese da S.G.B. alla Procura della Repubblica di Palermo il 5 maggio
1995 “… Era presente alla discussione anche il V. C. che mi fu ritualmente presentato come
uomo d’onore dal P. in altra occasione e che era dal S. per una sua gara. Preciso che il V. potè
assistere alla discussione proprio perché uomo d’onore e dunque per lui non c’erano segreti …”;
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dalle dichiarazioni rese da P.L.C. alla D.D.A. Procura Repubblica Palermo: il 22 luglio
1996 “… Conosco V. C. quale imprenditore di sicuro riferimento; ricordo che mi rivolsi al
V. per avere “protezione” per un lavoro a C. S. Il V. parlò con chi di competenza e successivamente
ho saputo che il mio socio B.ha pagato circa lire 5 milioni”; in data 8 agosto 1996
“… Quando Cosa Nostra decise di gestire gli appalti pubblici, il V. era stato candidato a tale
operazione, prima del S. Vorrei precisare che questo episodio me lo ha raccontato direttamente
lui, una volta quando ci venne a trovare in via S. Addirittura in quell’occasione mi raccontò
anche che il V. C. aveva un terreno vicino a quello di Totò Riina, che conosceva personalmente,
e secondo me lui è uno dei pochi che può vantare tale conoscenza, e tale conoscenza
si può comprendere dal fatto che il V. si permette di andare a fare lavori in tutta la
Sicilia con i suoi mezzi senza avere nemmeno la preoccupazione di avere incidenti. Ricordo
anche che gli S., che avevano una vera e propria adorazione per il V., lo avevano soprannominato
il “Papà” e sono stati proprio loro a presentarmelo quando io non avevo ancora la mia
attività d’impresa”. “(…) Il V. conosce tutti, tutti e tutto – tutti e tutto dell’ambiente mafioso,
del gotha mafioso di (…)” Il V. era un soggetto che aveva rapporti con mafiosi, ma non
dal calibro, di piccolo calibro, perché C.V. per la sua posizione era forse uno dei pochi che
conosceva secondo me Totò Riina, cioè è uno dei pochi che ha avuto rapporti con personaggi
molto più in alto di quelli che potevo avere io, o chiunque altro. “Ha avuto la possibilità
di conoscere questi personaggi che era difficile conoscere nel mondo imprenditoriale, non
era facile, cioè il massimo che potevano arrivare ogni imprenditore era o il mafioso del luogo
o … massimo S., ma arrivare ai vertici di Brusca, di Riina, arrivavano solo pochi ristretti e
uno di questi era V., che aveva questo rapporto, che aveva con questi grossi personaggi
mafiosi.”; in data 15 dicembre 1998 “ (…) Dei fratelli V. il più intraprendente è senz’altro
C. con il quale peraltro avevo un rapporto particolarmente stretto, al punto che egli non esitava
a confidarmi che la sua impresa disponeva la diretta protezione della fazione dei corleonesi
di Cosa Nostra e dello stesso Salvatore Riina (…)”.
Il provvedimento prefettizio di interdizione antimafia soggiunge che anche A. S. ha
dichiarato di avere più volte incontrato C. V. – una volta in compagnia dell’allora latitante
Giovanni Brusca – in quanto faceva parte di quel gruppo di ditte che si aggiudicavano lavori
con l’avallo di “Cosa Nostra” e che il V. era stato accreditato presso l’Organizzazione
(dalla quale non era ben visto in un primo momento), grazie all’intervento del noto F. Pastoia
… (già uomo di fiducia di Bernardo Provenzano), successivamente suicidatosi in carcere.
Sulla base di tali convergenti dichiarazioni – tenuto anche conto della eccezionale delicatezza
della situazione ambientale in cui si innesta la fattispecie – la valutazione effettuata
dall’autorità amministrativa circa la sussistenza di concreti e concordanti elementi comprovanti
il condizionamento mafioso delle Società non può dirsi irragionevole o illogica.
Né può sminuire il valore indiziario delle richiamate dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia la circostanza, sostenuta con i motivi aggiunti, che al sig. V. tali dichiarazioni non
sono mai state contestate e che egli non è mai stato imputato di reati ex art. 416 bis c.p. atteso
che, come più volte evidenziato, la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità,
ma rappresenta la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione,
rispetto alla quale assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici e indiziari, al
di là dell’individuazione di responsabilità penali.
L’argomentazione secondo cui i sigg.ri V. avrebbero inoltrato decine di denunce alle
Forze dell’Ordine per respingere tentativi di condizionamento da parte di organizzazioni criminali,
infine, non può viziare la logicità e la congruenza della determinazione adottata in
quanto, a prescindere dall’esame del contenuto delle stesse, non sono comunque idonee a
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 323
porre nel nulla gli elementi indiziari sulla cui base l’interdizione antimafia è stata adottata.
5. Di qui, l’infondatezza dell’impugnativa proposta con motivi aggiunti cui segue l’improcedibilità
per sopravvenuta carenza di interesse dell’impugnativa proposta con il ricorso
introduttivo del giudizio, non potendo le ricorrenti trarre alcun vantaggio dall’eventuale
accoglimento della stessa anche relativamente alla censura con cui è contestato l’ulteriore
motivo di esclusione dalla gara, vale a dire la mancanza del requisito della regolarità contributiva
al momento dell’offerta di una delle ditte mandanti.
6. Sussistono giuste ragioni, considerata la peculiarità della fattispecie, per disporre la
compensazione delle spese del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Prima Sezione di Roma, dichiara
improcedibile l’impugnativa proposta con il ricorso introduttivo del giudizio e respinge l’impugnativa
proposta con i motivi aggiunti.
Dispone la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 giugno 2008 (…)».
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324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Il concetto di atto politico non “giustiziabile”
(Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima,
sentenza 31 dicembre 2008 n. 12539)
Con la sentenza in rassegna, il T.A.R., nel condividere l’eccezione in rito
sollevata dall’Avvocatura dello Stato, ha dichiarato inammissibile il ricorso
di controparte (l’Unione degli atei ed agnostici razionalisti, sedicente “confessione
religiosa di segno “negativo”) , ritenendo che il provvedimento
impugnato (nella specie la deliberazione del 27 novembre 2003 con la
quale il Consiglio dei Ministri si era rifiutato di avviare le trattative finalizzate
alla stipula dell’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost.) rientri nella categoria
degli “atti politici” sottratti in assoluto al sindacato giurisdizionale ex
art. 31 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, sul rilievo che il Governo è libero di
assumere le più ampie determinazioni nella materia dei rapporti con le confessioni
religiose (materia che la Costituzione innalza al rango di elemento
fondativo della collettività), salva la responsabilità politica nei confronti del
Parlamento e, in ultima analisi, del corpo elettorale, con la conseguenza che
la confessione religiosa che aspiri alla stipula dell’intesa è titolare non già di
una situazione soggettiva qualificata, e dunque di una pretesa “giustiziabile”
alla conclusione dell’intesa, bensì di un’aspirazione di mero fatto; pertanto
una sentenza impositiva (attraverso l’effetto conformativo del giudicato) dell’obbligo
di intraprendere una trattativa preordinata alla stipulazione di
un’intesa ovvero, nel caso estremo, di stipulare l’intesa stessa, contrasterebbe
con l’assetto dei poteri delineato dalla Carta Fondamentale”.
Avv. Giovanni Palatiello(*)
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, sentenza
31 dicembre 2008 n. 12539 – Pres. G. Giovannini – Rel. M. A. di Nezza – Unione degli atei
ed agnostici razionalisti (Uaar) (Avv. F. Leurini) c/ Consiglio dei ministri e Presidenza del
Consiglio dei Ministri (ct. 8073/04, Avv. dello Stato G. Palatiello) e nei confronti di Tavola
Valdese, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno,
Unione delle comunità ebraiche italiane,Unione cristiana evangelica battista in Italia,
Chiesa evangelica luterana in Italia, Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, Unione
buddhista in Italia.
«(…) Fatto e diritto
Con ricorso notificato il 3 febbraio 2004, ritualmente depositato, l’Unione degli atei ed
agnostici razionalisti (UAAR), esponendo di essere un’associazione privata costituita tra atei
ed agnostici per il raggiungimento di una serie di scopi (indicati dall’art. 2 dello statuto) –
quali la “promozione della conoscenza delle teorie atee e agnostiche e di ogni concezione
razionale del mondo della vita e dell’uomo”; il “sostegno alle istanze pluralistiche nella
divulgazione delle diverse concezioni del mondo e nel confronto fra di esse, opponendosi
(*)Avvocato dello Stato.
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all’intolleranza, alla discriminazione e alla prevaricazione”; il “superamento del principio
della libertà di religione in favore del principio del pari trattamento da parte degli stati e delle
loro articolazioni di tutte le scelte filosofiche e concezioni del mondo, comprese […] quelle
non religiose”; la riaffermazione, nella concreta situazione italiana, della completa laicità
dello Stato lottando contro le discriminazioni giuridiche e di fatto, aperte e subdole, contro
atei ed agnostici, pretendendo l’abolizione di ogni privilegio accordato alla religione cattolica
e promuovendo la stessa abrogazione dell’articolo 7 della Costituzione che fa propri i
Patti lateranensi fra Stato italiano e Vaticano” – e di far parte delle associazioni Internazional
Humanist and Ethical Union e Fédération Humaniste Européenne, riconosciute a livello
internazionale (da Onu, Unisco, Unicef, ecc.), premettendo altresì di aver più volte domandato
allo Stato italiano di stipulare un’intesa ai sensi dell’art. 8, 3° comma, della
Costituzione, ha chiesto l’annullamento della deliberazione del 27 novembre 2003, con cui
il Consiglio dei ministri si è rifiutato di intraprendere le trattative propedeutiche a detta stipulazione,
sul rilievo dell’impossibilità di applicare l’invocata norma costituzionale a fattispecie
nelle quali non venisse in considerazione una “confessione religiosa”.
Asostegno del gravame la ricorrente – ricordata la vicenda del precedente annullamento,
a seguito di ricorso straordinario deciso con d.P.R. 1 febbraio 2001, di una determinazione
di analogo tenore assunta da un organo reputato incompetente (il Sottosegretario di
Stato alla Presidenza del Consiglio) e vantata la titolarità di una posizione di interesse legittimo
all’inizio delle trattative – si è anzitutto soffermata sulla propria natura di “confessione
religiosa”.
Tale carattere discenderebbe direttamente dalla protezione accordata ad ateismo e agnosticismo
dall’art. 19 Cost. sulla tutela della libertà religiosa e dalle finalità perseguite da essa
istante, soggetto collettivo “che raggruppa persone che condividono un medesimo credo – di
segno negativo – in materia di religione e che si sono associate allo scopo di diffondere le proprie
convinzioni religiose e di difenderle di fronte a prassi o a provvedimenti discriminatori”.
Sarebbe in particolare errata l’opinione del Governo di considerare l’ “ateismo organizzato”
estraneo all’ambito applicativo dell’art. 8 Cost., disposizione che sarebbe incentrata su
un “fatto di fede” e su un “contenuto religioso di tipo positivo”, laddove l’ateismo e l’agnosticismo
sarebbero rispettivamente, nella loro essenza, “negazione della religione” e “indifferenza
al fenomeno religioso”. E tanto alla luce di una serie di elementi, quali: a) l’equivalenza
di tipo logico ancor prima che giuridico, dal punto di vista dello Stato laico, del convincimento
di chi afferma e di chi al contrario nega l’esistenza di un Essere trascendente; b)
la portata del principio di eguaglianza formale espresso dall’art. 3 Cost. e del conseguente
divieto di porre in essere trattamenti discriminatori (come sarebbe quello di impedire la fruizione
della posizione di favore riconosciuta alle confessioni stipulatarie di intese); c) il contenuto
concreto delle intese raggiunte con alcune confessioni acattoliche, posto che anche
un’associazione di atei ed agnostici sarebbe pienamente legittimata, alla stessa stregua di una
confessione religiosa, a insegnare nelle scuole la propria concezione del mondo, a rendere
conforto umanistico in strutture ospedaliere o carcerarie (humanist counselling), ad accedere
al sistema dell’informazione; d) l’esperienza di altri paesi, come ad esempio il Belgio, ove
esisterebbero rapporti di collaborazione tra Stato e associazioni umanitarie; e) i principi
enunciati da atti internazionali, aventi una valenza quantomeno sul piano interpretativo,
come la dichiarazione n.11 annessa al Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997.
La ricorrente ha pertanto contestato l’interpretazione restrittiva data dal Consiglio dei
Ministri all’art. 8 Cost., dolendosi della mancata verifica della sussistenza, in concreto, di
quell’unità ideologica e organizzativa idonea a qualificare in senso tecnico una qualsiasi confessione
religiosa.
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In aggiunta a tali rilievi – partitamene ripresi nei motivi prospettanti i vizi di eccesso di
potere per travisamento dei fatti (n. 5 ric.), per difetto di istruttoria, non risultando acquisiti
né il parere del ministero dell’Interno, previsto dalla prassi, né quello della Commissione
consultiva sulla libertà religiosa istituita dal d.P.C.M. 14 marzo 1997 (n. 6 ric.) e per sviamento
(n. 11 ric.), nonché la violazione dei principi costituzionali di eguaglianza (n. 9 ric.)
e di laicità dello Stato (n. 10 ric.) – , essa si è ancora doluta della violazione così dell’art. 1,
comma 1, lett. ii, legge 12 gennaio 1001, n. 13, stante la mancata approvazione del diniego
con decreto del Presidente della Repubblica (n. 4 ric.), come dell’art. 3 legge 241 del 1990,
in ragione del rinvio per relationem al parere, asseritamene tautologico, dell’Avvocatura erariale
(n. 7), come pure degli artt. 2, 3, comma 1, e 18 Cost., coincidendo la negazione della
specifica identità della ricorrente con il disconoscimento della causa associativa del gruppo
sociale e dunque con la lesione della libertà di associazione (n. 8 ric.).
Si è costituita in resistenza l’amministrazione, che, difesasi anche nel merito, ha tuttavia
eccepito in limine il difetto assoluto di giurisdizione ai sensi dell’art. 31 r.d. 26 giugno
1924, n. 1054: l’impugnativa riguarderebbe infatti una determinazione rientrante nella categoria
degli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”,
presentandone entrambi i requisiti, soggettivo (in quanto adottato dall’organo cui compete la
funzione di indirizzo politico e di direzione della cosa pubblica) e oggettivo (le “intese” non
potrebbero essere assimilate a accordi di tipo negoziale, suscettibili di scrutinio sotto il profilo
della conformità a preesistenti regole giuridiche o a principi di buona amministrazione,
ma sarebbero atti riconducibili esclusivamente alla sfera di libertà riconosciuta al Governo
in materia religiosa).
Successivamente, depositata dalla ricorrente una memoria di replica alle argomentazioni
della difesa erariale, alla suindicata udienza di discussione la causa è stata trattenuta in
decisione.
2.Il ricorso è inammissibile, apparendo meritevole di condivisione l’eccezione in rito
sollevata dalla difesa erariale.
2.1.Valga in proposito rammentare che nel definire la portata applicativa dell’art. 31 r.d.
26 giugno 1924, n. 1054 (“il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è
ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell’esercizio del potere
politico”), la giurisprudenza amministrativa ha chiarito come gli “atti politici” costituiscano
“espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali
dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti”,
essendo parimenti “liberi nella scelta dei fini” (a differenza dei provvedimenti amministrativi,
i quali, “anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati
ai fini posti dalla legge”), e ha precisato come essi siano “caratterizzati da due profili: l’uno
soggettivo, dovendo provenire l’atto da organo di pubblica amministrazione, seppure preposto
in modo funzionale e, nella specifica vicenda, all’indirizzo e alla direzione al massimo
livello della cosa pubblica, e l’altro oggettivo, dovendo riguardare la costituzione, la salvaguardia
e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata
applicazione” (Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209).
In sintesi, secondo questo orientamento non sono soggetti a controllo giurisdizionale
“solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo
costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in
ordine ai quali l’intervento del Giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario
nell’ambito di altri poteri” (così Cons. Stato, sez. IV, n. 209/2007 cit.; v. anche Cons.
Stato, sez. VI, 22 gennaio 2002, n. 360, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397, nonché, da ultimo,
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sez. IV, 13 marzo 2008, n. 1053, sull’inammissibilità dell’impugnazione dei provvedimenti
governativi, assunti successivamente all’emanazione del decreto del Presidente della
Repubblica di scioglimento delle Camere e della delibera del Consiglio dei ministri di fissazione
della data delle elezioni, volti a disciplinare il procedimento delle operazioni elettorali,
sul rilievo che tali atti, costituenti adempimenti conseguenti al decreto di indizione dei
comizi elettorali, vadano appunto qualificati alla stregua di atti politici).
Riguardata dallo speculare punto di vista della posizione legittimante (scil. all’accesso
alla tutela giurisdizionale), di fronte ad atti politici non insorge, in capo ad eventuali interessati,
alcuna situazione giuridica soggettiva tutelabile, ciò che si traduce, in termini processualistici,
in difetto assoluto di giurisdizione.
2.2. Venendo al caso concreto, l’art. 8 della Costituzione, enunciato al 1° comma il principio
che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” e riconosciuto
alle “confessioni religiose diverse dalla cattolica” il “diritto di organizzarsi secondo i
propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano” (2° comma),
stabilisce al successivo 3° comma, oggi in rilievo, che “i loro rapporti con lo Stato sono regolati
per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
In una delle sue prime sentenze la Corte costituzionale ebbe ad operare la distinzione
“fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e
la organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato”, distinzione che,
“evidente dal punto di vista logico, trova nettamente fissato il suo positivo fondamento giuridico
negli artt. 8 e 19 della Costituzione” (la prima, inserita nei “principi fondamentali” e
l’altra nel titolo dei rapporti civili e, più specificamente, nella parte relativa ai diritti di
libertà).
La Corte, ritenuto in particolare che a fronte della dichiarazione di libertà di esercizio
del culto in quanto tale (art. 19) il legislatore costituente “non ha mancato di considerare le
confessioni religiose anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro organizzazione
secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato” (art. 8)
attraverso “intese con le relative rappresentanze”, ha chiarito che “la istituzione di tali rapporti,
essendo diretta ad assicurare effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre che agevolazioni
di vario genere, riveste, per ciò stesso, carattere di facoltà e non di obbligo”, non
potendosi escludere “che si abbia il caso di una confessione religiosa che tali rapporti con lo
Stato non intenda promuovere, rinunziando a tutto ciò che a suo favore ne conseguirebbe, e
limitandosi al libero esercizio del culto quale è garantito dalla Costituzione” ovvero occorrendo
considerare “più concretamente, il caso di rapporti che si intenda ma che, per una
ragione qualsiasi, non si riesca a regolare” (sent. n. 59 del 24 novembre 1958).
Tali affermazioni (al di là della terminologia adoperata, derivando il riferimento ai
“culti acattolici” dalle norme oggetto di quel giudizio, come segnalato da Corte cost. n. 195
del 1993) sono ancora attuali, valendo a definire i limiti del potere giurisdizionale nel senso
che, come esattamente rilevato dalla difesa erariale, il Governo (cui la 1. n. 400 del 1988 ha
intestato l’attribuzione in disamina) è libero di assumere le più ampie determinazioni nella
materia dei rapporti con le confessioni religiose, salva la responsabilità politica nei confronti
del Parlamento e, in ultima analisi, del corpo elettorale, con la conseguenza che la confessione
religiosa che aspiri alla stipula dell’intesa è titolare non già di una situazione soggettiva
qualificata, e dunque di una pretesa “giustiziabile” alla conclusione dell’intesa, sibbene di
un’aspirazione di mero fatto.
In buona sostanza, una decisione giurisdizionale impositiva (attraverso l’effetto conformativo
del giudicato) dell’obbligo di intraprendere una trattativa finalizzata alla stipulazio-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 327
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ne di un’intesa ovvero, nel caso estremo, di stipulare l’intesa stessa, contrasterebbe con l’assetto
dei poteri delineato dalla Costituzione, a nulla valendo opporre in contrario (v. mem.
24 ottobre 2008 ric.): a) il difetto di presupposto oggettivo per la configurabilità nella specie
di un atto politico, poiché, al contrario, è proprio la Costituzione che prende in considerazione
il fenomeno religioso in tutte le sue espressioni, anche di segno negativo, e in tal
modo lo innalza al rango di elemento fondativo della collettività; b) né il collegamento con
un iter legislativo finalizzato al recepimento ex latere publico dell’intesa, trattandosi di argomentazione
accessoria insuscettibile di incidere sulle conclusioni innanzi esposte; c) né infine,
men che meno, la pretesa lesione dell’interesse religioso delle minoranze (alla tutela del
quale sarebbe preordinata la norma costituzionale in disamina), stante il fondamentale e
inviolabile diritto di libertà religiosa garantito dalla Costituzione stessa.
Giova osservare, a quest’ultimo riguardo, che il principio di laicità dello Stato non è
certo vulnerato dalla mancata stipulazione di un’intesa, tenuto conto della giurisprudenza
costituzionale che riconosce alle confessioni acattoliche il diritto di fruire anche di benefici
derivanti dalla legislazione statale allorquando essi siano finalizzati ad agevolare l’effettivo
godimento del ridetto diritto di libertà religiosa. Significativa in tal senso è la decisione della
Corte costituzionale n. 195 del 1993, secondo cui, rispetto all’assegnazione di benefici di tal
genere, ciascuna confessione religiosa – che tale risulti non in base a mera autoqualificazione,
ma a precedenti riconoscimenti, allo statuto o almeno alla comune considerazione – è
idonea a rappresentare gli interessi religiosi dei suoi appartenenti, indipendentemente dal suo
status e senza possibilità di discriminazione, stante l’eguale libertà di tutte le confessioni
davanti alla legge (nella specie si trattava dell’attribuzione, con legge regionale, di aree riservate
e di contributi finanziari per la realizzazione di edifici di culto, attribuzione reputata
ragionevolmente condizionata e proporzionata alla presenza nel territorio comunale della
confessione che richiedeva i benefici, ma che non poteva essere negata alle confessioni acattoliche
che non avessero ancora stipulato l’intesa con lo Stato o che fossero prive di statuto
organizzativo ai sensi del 2° comma dell’articolo 8 Cost.).
Risulta pertanto come l’iniziativa della ricorrente si sia collocata nell’ambito di un procedimento
di natura politica, non già di natura amministrativa, con conseguente insussistenza
di situazioni giuridiche soggettive individuali azionabili in sede giurisdizionale.
2.3.Da quanto detto sortisce la palese ininfluenza tanto delle deduzioni dell’UAAR
circa la propria natura confessionale quanto delle doglianze di tipo procedurale parimenti
proposte con l’atto introduttivo della controversia, non potendo in particolare trarsi argomenti,
a sostegno della tesi dell’associazione istante, dall’esito del ricorso straordinario (l’annullamento
per incompetenza postulando, nell’ottica della ricorrente, un implicito riconoscimento
della giurisdizione), alla luce dell’insuscettibilità del decreto decisorio di divenire res
iudicata.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 31 r.d.n. 1054 del
1924.
La peculiarità della questione consente peraltro di ravvisare giusti motivi per disporre
l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima, definitivamente pronunciando,
dichiara il ricorso inammissibile. (…)
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 novembre 2008».
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Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, udienza
del 5 novembre 2008 – Memoria nell’interesse della Presidenza del Consiglio dei
Ministri con l’Avvocatura Generale dello Stato (ct. 8073/04, Avv. dello Stato G. Palatiello)
nel giudizio promosso da Unione degli Atei ed Agnostici Razionalisti – UAAR.
«(…) Fatto e svolgimento del processo
Con il ricorso in trattazione, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (d’ora in
poi UAAR), associazione non riconosciuta di “atei ed agnostici” costituita con atto notarile
del 13 marzo 1991, chiede l’annullamento della delibera del Consiglio dei Ministri in data
27 novembre 2003 (e della conseguente nota del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio in data 5 dicembre 2003), con la quale il Governo, recependo e facendo proprio il
parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha deciso di non avviare le trattative finalizzate
alla conclusione dell’intesa ai sensi dell’art. 8, comma 3, della Costituzione, ritenendo,
in sostanza, che la professione dell’ateismo non possa essere assimilata ad una “confessione
religiosa” nell’accezione recepita dal legislatore costituente.
A sostegno del gravame l’UAAR deduce violazione dell’art. 1, comma 1, lett. ii) della
Legge 12 gennaio 1991, n. 13 poiché l’impugnato diniego sarebbe stato esternato con mera
nota del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e non invece con decreto del
Presidente della Repubblica, che sarebbe, invece, richiesto per tutti gli atti per i quali è intervenuta
la deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Nel merito si sostiene che, contrariamente a quanto opinato dalla Presidenza del
Consiglio, l’UAAR avrebbe natura di vera e propria confessione religiosa ex art. 8, comma
3, della Costituzione.
Dall’erronea interpretazione del disposto costituzionale sarebbe poi conseguita l’omissione
dell’istruttoria circa l’idoneità della richiedente a stipulare l’intesa con lo Stato.
In particolare, i prescritti pareri della Direzione Generale Affari di Culto presso il
Ministero dell’Interno e della Commissione Consultiva sulla libertà religiosa, istituita presso
la Presidenza del Consiglio sarebbero stati illegittimamente “surrogati”, in via del tutto
“anomala” dal parere dell’Avvocatura dello Stato, organo diverso da quelli normalmente
coinvolti nel procedimento di intesa.
Gli atti impugnati non motiverebbero autonomamente la decisione di non dare corso alla
trattativa finalizzata all’intesa, limitandosi a rinviare al parere reso dall’Avvocatura dello Stato.
La negazione della specifica identità “confessionale” dell’UAAR si tradurrebbe nella
violazione del diritto di associarsi liberamente; risulterebbero, altresì, violati il principio di
uguaglianza di cui agli artt. 3, comma 1, ed 8, comma 1, Cost. rispetto alle altre confessioni
religiose, nonché il principio costituzionale di laicità dello Stato.
La discussione del ricorso è stata fissata per l’udienza pubblica del 5 novembre 2008.
Il ricorso è inammissibile e, comunque, infondato per le seguenti ragioni in punto di
Diritto
1) In via pregiudiziale: difetto assoluto di giurisdizione ex art. 31 r.d. 26 giugno 1924, n.
1054.
L’impugnata delibera con la quale il Consiglio dei Ministri ha deciso di non avviare le
trattative per la stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost. è un atto politico sottratto al sindacato
giurisdizionale ex art. 31 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054.
1.1) Al riguardo si osserva, innanzitutto, che la questione della insindacabilità della
decisione del Governo di non stipulare l’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost. non è affat-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 329
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to preclusa dal d.P.R. 1 febbraio 2001 con il quale il Presidente della Repubblica, in accoglimento
del ricorso straordinario presentato dall’UAAR in data 18 giugno 1996, ha annullato
(esclusivamente sotto il profilo dell’incompetenza) il precedente diniego del 20 febbraio
1996 adottato con nota del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, senza la previa deliberazione
del Consiglio dei Ministri, richiesta dall’art. 2, comma 3, lett. l) della Legge n.
400/1988 per “gli atti concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione”.
Ed invero, il decreto decisorio del ricorso al Capo dello Stato – non avendo natura di
sentenza (cfr., ex multis; Cons. St., VI, 4 aprile 2008, n. 1440; Cons. St. IV, n. 2320 dell’11
maggio 2007; V, n. 641 del 15 febbraio 2007; VI, n. 5393 del 22 settembre 2003;: Corte di
Cassazione 1012 del 28 gennaio 2002)– non è neppure idoneo ad impedire il riesame in sede
giurisdizionale di questioni di rito eventualmente già delibate, per implicito, dall’autorità
decidente in sede straordinaria tra le stesse parti; tale effetto preclusivo è, infatti, proprio
esclusivamente del giudicato in senso sostanziale ex artt. 2909 c.c. ed artt. 324, 329, 337, e
395 c.p.c., e non anche, quindi, del decreto decisorio del ricorso al Presidente della
Repubblica, che non ha natura di giudicato, ma di mero provvedimento amministrativo.
Peraltro, il d.P.R. 1 febbraio 2001 ha riguardato il precedente diniego adottato in data
20 febbraio 1996 dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e, dunque, non può, in
ogni caso, spiegare alcuna efficacia preclusiva ex judicato nella presente controversia, avente
ad oggetto un atto nuovo e del tutto diverso, appunto la delibera del Consiglio dei Ministri
del 27 novembre 2003.
1.2) Ciò chiarito, va rammentato che l’art. 31 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 esclude l’impugnabilità
in sede giurisdizionale degli atti politici, definiti dalla stessa legge come quegli
“atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
Perché un determinato atto possa essere considerato “politico” deve, dunque, rispondere
a due requisiti, uno soggettivo e l’altro oggettivo.
È cioè necessario che l’atto o il provvedimento sia emanato dal “Governo”, ossia
dall’Autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione, al
massimo livello, della cosa pubblica, nell’esercizio nel potere per sua natura politico, anziché
nell’esercizio di attività meramente amministrativa” (così, T.A.R. Lazio, sez. III, 16
novembre 2007, n. 11271).
Con riguardo al requisito oggettivo è stato precisato che gli atti politici costituiscono
espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali
dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (si veda
la decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 14 aprile 2001, n. 340, nonché Cons. Stato, sez.
V, 23 gennaio 2007, n. 209) e che essi sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi,
anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini
posti dalla legge (cfr. Cass., S.U., 25 giugno 1993, n. 7075; id., 13 novembre 2000, n. 1170).
Rimangono, quindi, sottratti al controllo giurisdizionale tutti gli atti con cui si realizzano
scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare
come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del giudice determinerebbe un’interferenza
del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (in termini v. Cass. S.U., 18 maggio
2006 n. 11623).
1.3.) Nella fattispecie, il provvedimento impugnato presenta tutti i caratteri dell’atto
politico “non giustiziabile” ex art. 31 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054..
1.3.1.) Quanto al profilo soggettivo, esso è stato adottato dal Consiglio dei Ministri al
quale compete la funzione di indirizzo politico e di direzione, al massimo livello, della cosa
pubblica (v. art. 95 Cost.).
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1.3.2) Sul versante oggettivo, giova rammentare che l’art. 8, comma 3, Cost. (a mente
del quale i rapporti delle confessioni religiose “con lo Stato sono regolati per legge sulla
base di intese con le relative rappresentanze) è norma sulla produzione giuridica, cioè una
norma sulle fonti, parallela a quella prevista dall’art. 7 cpv. Cost. per le modifiche della legge
di esecuzione dei Patti Lateranensi (Balladore Pallieri; Mortati; A. Ravà; d’Avack).
Le intese, perciò, sono, rispetto alla legge di cui costituiscono il fondamento, una “condizione
di legittimità costituzionale”, “un presupposto autorizzativo” diretto “a “togliere un
limite all’esercizio del potere legislativo” (Finocchiaro).
Se, dunque, le intese sono dirette all’emanazione di una legge, esse non sono negozi che
debbano essere valutati sotto il profilo della conformità a preesistenti regole giuridiche o a
principi di buona amministrazione, come accadrebbe se fossero accordi stipulati a livello
burocratico, ma sono accordi che possono (e devono) essere valutati esclusivamente sotto il
profilo dell’opportunità politica (Finocchiaro).
Ne consegue che, il Governo ben potrebbe rifiutarsi di addivenire alle intese, così come,
dopo averle raggiunte, ben potrebbe astenersi dall’esercitare l’iniziativa occorrente per
l’emanazione della legge.
Il Governo (salva l’eventuale responsabilità politica nei confronti del Parlamento) è
libero di determinarsi come meglio crede nella materia dei rapporti con le confessioni regionali
(o sedicenti tali) e la Costituzione, al fine di salvaguardare la sfera di libertà
dell’Esecutivo, non consente a nessun altro potere di sindacare le sue scelte in tale materia.
La norma costituzionale, infatti, non prevede l’assoluta necessità di una legislazione
sulle confessioni religiose; questa interviene solo se il Governo valuti positivamente l’opportunità
delle intese, se le intese effettivamente si raggiungano e se, infine, il Parlamento, condividendo
l’opportunità della regolamentazione per legge dei rapporti e condividendo il
merito delle intese raggiunte, recepisca queste in una legge.
La confessione religiosa che aspiri alla stipula dell’intesa (e, tramite essa, alla regolamentazione
per legge dei suoi rapporti con lo Stato) non è, dunque, portatrice di alcuna situazione
soggettiva giuridicamente qualificata, ma, tutt’al più, di un’aspirazione di mero fatto,
a cui l’ordinamento non appresta alcuna protezione; così come accade nel caso di qualunque
altro cittadino che auspichi un dato intervento legislativo: non può certo dirsi che questi sia
titolare di una pretesa “giustiziabile” a che il Governo eserciti il potere di iniziativa legislativa
in una certa direzione e con riguardo ad una certa materia; ebbene la stessa regola vale
per le confessioni religiose acattoliche: esse hanno certamente il diritto di organizzarsi
secondo i propri statuti (art. 8. comma 2, Cost.), ma il carattere religioso non conferisce loro
alcuna pretesa giustiziabile alla stipula dell’intesa (e alla adozione della legge di recepimento)
di cui al terzo comma dell’art. 8; e ciò proprio in ragione del supremo principio di uguaglianza
di cui all’art. 3 Cost., che impedisce allo Stato, tanto più se laico, di apprestare trattamenti
di favore alle confessioni rispetto agli altri soggetti che reclamino l’esercizio dell’iniziativa
legislativa in un dato settore della vita sociale, diverso da quello “religioso”.
L’impugnato rifiuto di addivenire alla stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost. è,
dunque, anche sul piano oggettivo, un “atto politico”, un atto, cioè, palesemente estraneo alla
funzione amministrativa, costituente, invece, espressione di quella libertà (politica) che la
Costituzione repubblicana riconosce al Governo nella materia religiosa.
Tale libertà (in quanto costituzionalmente garantita) non tollera interferenze da parte del
potere giudiziario: sarebbe, invero, abnorme la sentenza che “annullasse” il diniego di stipula
dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.; imponendo, in virtù del c.d. effetto conformativo del
giudicato, al Governo di riesaminare la questione o, peggio, di concludere l’intesa con una
data confessione religiosa.
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Di qui la manifesta inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione ex
art. 31 r.d. 1054/1924.
1.3.3) Né a diversa conclusione potrebbe pervenirsi nell’ipotesi in cui si ritenesse che
la presente controversia – avendo ad oggetto questioni inerenti diritti fondamentali, insuscettibili
di “degradazione” da parte dei pubblici poteri (cfr., ex multis, Cass. S.U., 8 novembre
2006, n. 23735) – sia devoluta alla cognizione dell’A.G.O., tradizionalmente giudice dei
diritti, vieppiù se costituzionalmente garantiti.
L’insindacabilità degli atti politici di cui all’art. 31 r.d. 1054/1924 presenta, infatti,
carattere assoluto e vale, quindi, tanto nei confronti del G.A. quanto nei confronti
dell’A.G.O..
L’eventuale devoluzione della presente controversia al Tribunale ordinario non potrebbe,
di certo, comportare un diverso trattamento processuale rispetto a quello previsto dalla
legge per il caso in cui a decidere la causa fosse l’adito T.A.R.
2) Il ricorso è comunque infondato nel merito.
2.1) L’UAAR deduce, innanzitutto, violazione dell’art. 1, comma 1, lett. ii) della Legge
12 gennaio 1991, n. 13 poiché l’impugnato diniego sarebbe stato esternato con mera nota del
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e non invece con decreto del Presidente
della Repubblica, che sarebbe, invece, richiesto per tutti gli atti per i quali è intervenuta la
deliberazione del Consiglio dei Ministri.
La censura è priva di pregio.
2.1.1) Come si desume dalla rubrica della legge n. 13/1991, e come, del resto, è confermato
dall’esame delle tipologie provvedimentali richiamate nell’art. 1 legge cit., l’emanazione
mediante decreto del Presidente della Repubblica è prevista esclusivamente per “gli atti
amministrativi”, e non invece, per gli atti oggettivamente politici, come quello in esame, tradizionalmente
connotati da un’assoluta libertà di forme.
È vero che nella specie vi è stata la deliberazione del Consiglio dei Ministri (ciò, peraltro,
era necessario, stante la natura politica della questione) ma è parimenti incontestabile
che il diniego di stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, rimane sottratto alla formalità della
emanazione mediante d.P.R., richiesta dalla legge n. 13/1991 soltanto per gli atti oggettivamente
amministrativi.
2.1.2) Sotto altro profilo, giova evidenziare che, nell’attuale assetto dei pubblici poteri,
la c.d. “emanazione” è atto di competenza del Presidente della Repubblica, connotato da una
funzione di controllo dell’opportunità politica e, lato sensu, della legittimità costituzionale
dei provvedimenti dell’Esecutivo.
Sennonché, nella specie il Consiglio dei Ministri ha assunto una “determinazione negativa”;
ha, cioè, deliberato di non stipulare alcuna intesa ex art. 8, comma 3, Cost. con l’UAAR .
A fronte di siffatta decisione di segno negativo (con cui il Governo, si ripete, non ha
contratto alcun vincolo, sia pure solo sul piano politico, nei confronti di alcuno) non era
affatto necessaria la formalità dell’emanazione mediante decreto del Presidente della
Repubblica, per la semplice ragione che non v’era alcuna determinazione da sottoporre al
previo vaglio presidenziale; né è sostenibile che il Presidente della Repubblica, se coinvolto
nel procedimento, avrebbe potuto sollevare obiezioni sulla mancata stipula dell’intesa ex art.
8, comma 3, Cost.: la decisione se stipulare o meno è, infatti, riservata dalla Costituzione al
Governo ed il Presidente della Repubblica non può interloquire al riguardo; egli deve essere
consultato solo in merito all’intesa eventualmente già stipulata dall’Esecutivo.
Del resto, con riguardo agli accordi internazionali (fenomeno giuridico, per certi versi,
simile alle intese con le confessioni acattoliche che la Costituzione mostra di collocare in una
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sfera giuridica che non è quella dell’ordinamento statuale, ma è quella di un ordinamento
che viene creato, di volta in volta, dall’incontro della volontà dello Stato e delle comunità
acattoliche) nessuno ha mai sostenuto che la ratifica presidenziale ex art. 87, comma 8,
Cost. (ed eventualmente quella Parlamentare ex art. 80 Cost.) sia richiesta anche per la decisione
del Governo di non stipulare alcun trattato; solo quando si addivenga alla stipula di
un trattato internazionale, occorre il coinvolgimento del Presidente della Repubblica (ed,
eventualmente delle Camere); se non è stato concluso alcun accordo la ratifica presidenziale
non serve.
Gli stessi principi non possono non valere per le intese ex art. 8, comma 3, Cost. (che,
come gli accordi internazionali, si inseriscono in un ordinamento esterno a quello statuale):
il vaglio del Presidente della Repubblica è necessario solo se il Consiglio dei Ministri abbia
stipulato l’intesa; se il Governo non ha stipulato alcunché, il controllo presidenziale non ha
senso alcuno.
3) Al di là dei descritti aspetti formali, nel ricorso si sostiene, poi, che, contrariamente
a quanto opinato dalla Presidenza del Consiglio, l’UAAR avrebbe natura di vera e propria
confessione religiosa ex art. 8, comma 3, della Costituzione.
In sostanza, l’UAAR sostiene la tesi della “piena parità di diritti tra coloro che professano
una religione e coloro che non la professano, con la conseguenza che la libertà di culto
includerebbe anche la libertà di professarsi atei o agnostici”.
Sulla prima parte di siffatta affermazione può senz’altro convenirsi, rinvenendo essa
radice nei principi fondamentali di cui agli articoli 3, 19 e 21 della Costituzione, in particolare
per quanto attiene alla libertà di coscienza e di scelta religiosa.
Non vi è dubbio, infatti, – e lo conferma la giurisprudenza della Corte costituzionale di
cui alle sentt. 59 del 1958 e 195 del 1993, nonché soprattutto n. 117 del 1979 – che nel diritto
inviolabile di libertà religiosa deve farsi rientrare anche la corrispondente “libertà negativa”
di non credere, e che tale libertà debba trovare possibilità di esplicazione al pari della
libertà di fede religiosa.
Simile conclusione, in effetti, può trovare giustificazione anche sul diverso fondamento
della libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., che indubbiamente ricomprende
anche la libertà di opinione religiosa del non credente.
Per contro, non appare condivisibile la conseguenza a cui giunge l’associazione de qua
muovendo da tale premessa, e cioè che anche il principio di libertà di culto possa ritenersi
connotato da uguale ampiezza in senso “negativo”, al punto da ammettersi l’applicabilità –
in via estensiva – dell’art. 8 della Costituzione anche in relazione ad entità non qualificabili
come “confessioni religiose” in senso tradizionale
La possibilità, ivi contemplata, di addivenire ad una regolamentazione bilaterale dei
rapporti mediante la conclusione di “intese” è infatti espressamente riservata alle “confessioni
religiose diverse dalla cattolica”.
Orbene, pacificamente per “confessione religiosa”, singolarmente considerata, va inteso
un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra più persone che lo rendono manifesto
nella società umana tramite una propria particolare struttura istituzionale (così PEYROT,
in Novissimo Digesto delle Discipline Pubblicistiche, voce “Confessioni religiose diverse
dalla cattolica”).
Del resto “religione”, nel senso che il fenomeno ha acquisito nel corso dei secoli, è quel
complesso di dottrine e di riti costruito intorno al presupposto dell’esistenza di un Essere trascendente,
che sia in rapporto con gli uomini, al quale è dovuto rispetto, obbedienza ed
anche, secondo talune di queste dottrine, amore.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 333
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La definizione di “confessioni religiose” rilevante sul piano giuridico è, allora, quella
di comunità sociali stabili, dotate di organizzazione e normazione proprie (sia pur minime)
e aventi una propria ed originale concezione del mondo, basata sull’esistenza di un Essere
trascendente, in rapporto con gli uomini, al quale si deve deferenza ed ossequio.
La connotazione oggettiva voluta dal Costituente nel quadro dell’art. 8, comma 2, è
dunque chiaramente individuata da un contenuto religioso di tipo positivo, di per sé ontologicamente
riconducibile ad una species autonoma e diversificata, se non addirittura opposta,
a quella della negazione della religione, che contraddistingue l’ateismo, ovvero a quella di
indifferenza al fenomeno religioso, tipica dell’agnosticismo.
Non a caso, del resto, la Corte costituzionale, sia pur esprimendosi a proposito del
diverso tema delle formule di giuramento (sent. n. 58 del 1960) ha precisato che “l’ateismo
comincia là dove finisce la vita religiosa”.
In altre parole, dunque, la professione dell’ateismo o dell’agnosticismo – seppur certamente
da ammettersi al pari di quella religiosa quanto al diritto di libero esercizio in qualsiasi
forma, individuale o associata, purché non integrante riti contrari al buon costume (così si
esprimeva l’Assemblea Costituente – pag. 2773 e segg. – a proposito della libertà di esercizio
del culto religioso) – non può, per definizione, essere regolata in modo analogo a quanto
esplicitamente disposto dalla fonte costituzionale per le sole “confessioni religiose”.
I circoli ateistici (come il ricorrente) che mirano ad affermare una concezione del
mondo senza Dio non sono, dunque, una “confessione religiosa”; con riguardo al dettato
costituzionale, si tratta di un fenomeno del tutto estraneo alle norme dell’articolo 8 Cost.,
ricadente, semmai, nell’ambito delle previsioni degli artt.. 18, 19 e 21 Cost.
Simile conclusione, proprio perché fondata sul rilievo di una differenziazione oggettiva
tra le fattispecie in discorso, non comporta profili di disparità di trattamento, essendo
ovviamente ragionevole una disciplina diversa in riferimento a situazioni effettivamente tutt’altro
che coincidenti.
La conclusione stessa trova conforto in una precisazione contenuta nell’ordinanza n. 15
del 1961 della Corte costituzionale, secondo la quale l’art. 8 della Cost. “in nessun modo può
essere messo in relazione con la pretesa del singolo rivolta al riconoscimento del diritto della
propria libertà di coscienza e di fede”: altro dunque è la libertà di scelta di una fede religiosa
ovvero dell’ateismo (parimenti tutelata), altro è invece la disciplina che la Costituzione
stessa ha previsto per i rapporti con le sole “confessioni religiose”, in ragione di un particolare
rilievo oggettivo delle stesse nel quadro dei principi costituzionali.
Al risultato di ritenere esclusa dalla sfera applicativa dell’art. 8 Cost. la fattispecie che
qui interessa si perviene anche, del resto, tenendo conto che proprio la Corte costituzionale,
nella propria giurisprudenza in subiecta materia, si è sempre limitata (cfr. sent. n. 195 del
1993) ad affermare la difformità alla Costituzione delle possibili discriminazioni “in danno
dell’una o dell’altra fede religiosa”, siccome contrastanti con il diritto di libertà e con il principio
di uguaglianza: con ciò dunque presupponendo, a monte di ogni eventuale discriminazione,
la ricorrenza di quel connotato positivo di “confessione religiosa” da parte del soggetto
giuridico discriminato che per il caso dell’associazione propugnatrice di ateismo od agnosticismo
non può mai sussistere.
A quanto sin qui esposto deve aggiungersi, infine, che la richiedente UAAR si autodefinisce
(cfr. “Statuto” e “Tesi” in www.uaar.it) “organizzazione filosofica non confessionale”, che
“si propone di rappresentare le concezioni del mondo razionaliste, atee o agnostiche, come le
organizzazioni filosofiche confessionali rappresentano le concezioni del mondo di carattere religioso”:
con ciò autoqualificandosi essa stessa al di fuori dell’ambito delle confessioni religiose.
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 335
Rispetto a queste ultime, del resto, la UAAR, in quanto associazione composita che raccoglie
aderenti tanto alle teorie atee che a quelle agnostiche, difetta di quel requisito di unicità
ideologica ed organizzativa che caratterizza in senso tecnico qualsiasi confessione religiosa.
4.) Alla luce delle considerazioni che precedono risultano prive di pregio anche le censure
sub 6) ed 11) dell’atto introduttivo, formulate sul presupposto, del tutto erroneo, che
l’associazione ricorrente sia una “confessione religiosa”.
5.) Del pari infondato è il motivo sub 7) con cui si denuncia un presunto vizio di motivazione.
Contrariamente a quanto ex adverso sostenuto, gli atti impugnati illustrano in modo
compiuto ed esauriente l’iter logico giuridico seguito dal Governo per addivenire alle determinazioni
censurate, come, del resto, dimostrato dalle ampie argomentazioni spese in ricorso
dall’UAAR..
Quanto al rinvio al parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, è appena il caso di evidenziare
che la motivazione per relationem è pienamente legittima quando l’atto richiamato
sia reso disponibile alla parte (v. art. 3, comma 3, legge 241/1990).
Nella specie, l’UAAR, a seguito di istanza di accesso in data 5 novembre 2003, ha ricevuto
copia, tra gli altri atti, anche del parere reso sulla questione dalla Scrivente (v. pagg. 6
e 7 del ricorso).
Di qui la manifesta infondatezza della censura in esame.
6.) La censura sub 8) è decisamente fuor d’opera poiché il diniego di stipula dell’intesa
ex art. 8, comma 3, Cost. non tocca minimamente il diritto di associarsi liberamente ex art.
18 Cost. che rimane impregiudicato, così come è pacifico che all’UAAR spettano le garanzie
di cui agli artt. 19 e 21 Cost., che nulla hanno a che fare con le intese ex art. 8, comma
3, Cost.
7.) Del pari non conferenti sono le doglianze sub 9) e 10).
La negazione della presunta identità “confessionale” dell’UAAR non comporta profili
di disparità di trattamento, essendo ovviamente ragionevole una disciplina diversa in riferimento
a situazioni effettivamente tutt’altro che coincidenti.
Anche il principio di laicità dello Stato è invocato a sproposito: esso riguarda i rapporti
tra confessioni religiose e lo Stato e, dunque, non ha alcuna attinenza con i circoli ateisti
che non sono confessioni religiose.
Per tali ragioni, si conclude affinché, contrariis reiectis, il ricorso sia dichiarato inammissibile,
ovvero, in subordine, infondato. Con ogni statuizione consequenziale, anche in
ordine alle spese di lite.
Roma, 17 ottobre 2008 – L’Avvocato dello Stato Giovanni Palatiello».
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336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Verso un’intensificazione dei profili
di responsabilità penale per falso
del progettista “abilitato” in materia di D.i.a.
(Corte di Cassazione penale, sezione terza,
sentenza 21 ottobre 2008-19 gennaio 2009, n. 1818)
Con la sentenza in commento la Terza Sezione della Suprema Corte di
Cassazione ha stabilito che il progettista abilitato, che nella relazione di
accompagnamento alla D.i.a. affermi falsamente la conformità delle opere da
eseguire ai vigenti strumenti urbanistici, commette il delitto di falsità ideologica
in certificati punito dall’art. 481 c.p. (1).
A tale conclusione il Supremo Collegio è giunto attraverso un complesso
(ma esaustivo) iter argomentativo, fondato sostanzialmente sul riconoscimento,
da un lato, della qualifica di persona esercente un servizio pubblica
necessità in capo al progettista abilitato e, dall’altro, della natura di “certificato”
(e dunque di atto fidefacente) della relazione tecnica di accompagnamento
alla D.i.a. .
L’annotata pronuncia assume quindi particolare interesse in quanto,
affrontando le tematiche sopra evidenziate, consente di analizzare i più recenti
orientamenti giurisprudenziali inerenti alla rilevanza penale delle condotte
di “falsa asseverazione” poste in essere dal cd. “progettista abilitato”.
La vicenda
I fatti oggetto della sentenza in commento prendono le mosse dalla condotta
di un tecnico, il quale – in qualità progettista di lavori edili da effettuare
su immobile situato nel centro storico di un Comune dell’Alta Italia –
aveva affermato, nella sua relazione tecnica di accompagnamento alla D.i.a.,
che le opere da eseguire fossero conformi agli strumenti urbanistici all’epoca
vigenti.
A seguito di controlli effettuati dalla Pubblica Amministrazione, si
riscontrava però che le affermazioni contenute nella predetta relazione di
asseveramento fossero non conformi al vero.
Sulla base di tali elementi fattuali, veniva dunque richiesto dalla Procura
della Repubblica il rinvio a giudizio del progettista per rispondere del reato
previsto dall’art. 481 c.p. in relazione ai doveri fissati dall’art. 29 del d.P.R.
6 giugno 2001 n. 380 in tema di “responsabilità del progettista per le opere
subordinate a denunzia di inizio attività”.
(1) Ai sensi dell’art. 481 c.p. è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa
da euro 51 a euro 516, chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di
un altro servizio di pubblica necessità, attesti falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto
è destinato a provare la verità.
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Sia il Tribunale, prima, che la Corte d’Appello, successivamente, ritenendo
fondata l’accusa mossa al progettista, condannavano quest’ultimo alla
pena di un mese di reclusione.
Avverso la sentenza del Giudice di secondo grado, l’imputato proponeva
ricorso per Cassazione per erronea applicazione della legge, deducendo, fra
l’altro, l’errata applicazione dell’art. 29 d.P.R. 380/01.
In particolare, il ricorrente lamentava l’irrilevanza penale delle eventuali
falsità contenute nella relazione di accompagnamento alla D.i.a. in virtù
dell’impossibilità di ricomprendere tale atto fra i “certificati” o comunque fra
gli atti fidefacenti, non essendo la predetta relazione documento destinato a
provare l’oggettiva verità di ciò che in esso era affermato ma solo una manifestazione
di intenzione e di giudizio da parte del suo autore.
La Corte di Cassazione tuttavia, esaminato il ricorso, lo rigettava, ritenendo
priva di censure la motivazione della Corte territoriale.
Le motivazioni della sentenza della Cassazione e la qualifica del progettista
abilitato
L’annotata sentenza, come sottolineato in apertura, appare pregevole in
quanto ribadisce con precisione taluni significativi aspetti inerenti all’attività
svolta dal progettista in sede di presentazione di una D.i.a.
In primo luogo, infatti, il giudice di legittimità sembrerebbe aver confermato
l’orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui il progettista
assume, all’interno del procedimento in esame, la qualifica di persona esercente
un servizio di pubblica necessità ex art. 359 c.p. .
Ed invero, tale precisazione da parte della Corte è da ritenersi tutt’altro
che priva di risvolti sul piano della sussistenza della responsabilità penale del
progettista.
L’art. 481 c.p. punisce difatti esclusivamente colui il quale ponga in essere
una falsità ideologica in certificati commessa nell’esercizio di una professione
forense, sanitaria o (come nel caso di specie) di altro servizio di pubblica
necessità.
Pertanto, solo ove si riconosca al progettista la qualifica di persona “esercente
un servizio di pubblica necessità”, potrà ritenersi integrato, in presenza
degli altri elementi previsti dalla norma, il reato punito dall’art. 481 c.p. .
Viceversa, in mancanza di tale qualifica soggettiva, il falso commesso
dal progettista esulerebbe dal raggio d’azione della fattispecie delittuosa in
esame.
Al riguardo, si osserva che la giurisprudenza della Corte di Cassazione,
anche di recente, ha ribadito che il progettista o, comunque, il tecnico tenuto
a predisporre la documentazione attestante la conformità degli interventi edilizi
ai vigenti strumenti urbanistici (fra i quali certamente rientra anche la
relazione di accompagnamento alla D.i.a.) rivestano la qualifica di soggetti
esercenti un servizio di pubblica necessità.
Posto difatti che, ai sensi dell’art. 359 c.p., sono persone esercenti un servizio
di pubblica necessità anche coloro i quali svolgono professioni il cui esercizio
sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando
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338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
dell’opera di essi il privato sia per legge obbligato a valersi (come nel caso del
progettista in materia di D.i.a.), ne deriva che il progettista debba considerarsi
un soggetto esercente un servizio di pubblica necessità proprio in considerazione
del fatto che sia il progetto sia la relazione presentata dal tecnico sono atti
professionali che, per legge, richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati
a chi non sia autorizzato all’esercizio della professione specifica (2).
Alla stessa conclusione, del resto, è possibile pervenire sulla base della
semplice interpretazione letterale del testo dell’art. 29 del d.P.R. 380/01.
Difatti, come ribadito anche dalle condivisibili motivazioni della sentenza
in commento, il terzo comma del citato art. 29 (dal cui esame secondo la
Corte non è possibile prescindere) prevede espressamente che “per le opere
realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista
assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai
sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale”.
A nostro avviso, sulla base di quanto sinora osservato, pare dunque agevole
poter concludere sul punto sostenendo che il progettista abilitato o
comunque il tecnico tenuto a predisporre la documentazione di accompagnamento
alla D.i.a. possa pacificamente essere considerato un soggetto esercente
un servizio di pubblica necessità e, quindi, un soggetto al quale è astrattamente
ascrivibile il reato di cui all’art. 481 c.p. .
(segue) La natura giuridica della relazione tecnica di accompagnamento
della D.i.a.
Chiarito l’aspetto concernente l’individuazione della qualifica da attribuire al
progettista abilitato, rimane comunque il non facile compito di individuare se la
relazione di accompagnamento alla D.i.a. abbia o meno natura di “certificato”.
Difatti, solo nel caso in cui si ritenga che la relazione di accompagnamento
sia ricompresa all’interno della categoria dei certificati, l’eventuale
assenza di veridicità delle affermazioni in essa contenute configurerebbe
un’ipotesi di falsità punita dall’art. 481 c.p. .
La norma penale prevede infatti che la falsa attestazione di fatti dei quali
l’atto sia destinato a provare la verità sia contenuta all’interno di un certificato.
Ebbene, tale problematica risulta, ad oggi, tanto rilevante quanto – purtroppo
– ancora aperta e priva di una risoluzione definitiva.
Dalla disamina della giurisprudenza degli ultimi vent’anni si evince difatti
chiaramente l’esistenza di un’ampia varietà di posizioni in merito all’individuazione
dell’esatta natura della relazione di accompagnamento della D.i.a. .
Ed invero, secondo un primo (e per la verità minoritario) orientamento
giurisprudenziale, sarebbe da escludersi che la relazione di accompagnamento
alla D.i.a. predisposta dal progettista possa avere natura di certificato,
ossia di atto contenente una “dichiarazione di scienza”, intendendosi con tale
espressione l’attestazione di fatti e dati che sono noti all’esercente un servi-
(2) In tal senso, Cass. pen., 9 marzo 2006, n. 8303, in CED Cass. pen. 233564. O ancora,
in passato, Cass. pen., 7 maggio 1986, n. 9821, in Cass. Pen., 1988, p. 1416.
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 339
zio di pubblica necessità in quanto provenienti da altri documenti o dalle sue
conoscenze tecniche.
In particolare, a sostegno di tale opinione, si argomenta che la relazione
allegata alla D.i.a. rifletterebbe, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva
ma una semplice intenzione e, per quanto riguarda l’eventuale attestazione
dell’assenza di vincoli, solamente un giudizio espresso dall’agente, quindi
non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri.
In altri termini, la relazione allegata alla denuncia di inizio di attività edilizia
non avrebbe natura di “certificato” in quanto, a differenza di quest’ultimo,
non sarebbe destinata a provare l’oggettiva verità di ciò che in essa è affermato
ma esclusivamente – come già detto – a manifestare, per la sua parte progettuale,
un’intenzione e non una realtà oggettiva, mentre, per ciò che concerne
l’eventuale attestazione di assenza di vincoli, solo un giudizio dell’agente (3).
Seguendo tale impostazione, la relazione costituirebbe, dunque, un atto
avente non la funzione di attestare una verità storica o scientifica ma solo
quella rendere nota alla P.A. l’intenzione, da parte del dichiarante, di realizzare
le opere in essa descritte ed ancora inesistenti (4).
Ne discende pertanto che, sulla base di tali “benevole” e penalisticamente
“più miti” premesse, il professionista che, nella suddetta relazione di corredo,
si renda responsabile di una falsa asseverazione non risponderà del
delitto previsto dall’art. 481 c.p. .
Tuttavia, a nostro avviso (come del resto anche della sentenza in commento),
il succitato orientamento pare non esente da critiche.
È infatti da ritenersi ragionevole (se non addirittura doveroso) prendere
le mosse, ai fini di un corretto inquadramento della problematica in esame,
da una preliminare disamina della normativa di riferimento, costituita, nel
caso di specie, dai commi primo e sesto dell’art. 23 d.P.R. 380/01 e dal
comma terzo dell’art. 29 dello stesso testo di legge.
Ed invero, ai sensi dell’art. 23 è previsto, da un lato, che la D.i.a. sia
accompagnata “da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato
che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici
approvati e
non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti” (I
com.), mentre dall’altro, che “il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale…in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informi
l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine di appartenenza” (VI com.).
L’art. 29, al terzo comma, prevede invece che “per le opere realizzate
dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la
qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli
articoli 359 e 481 del codice penale”.
Ebbene, dalla lettura coordinata delle norme testé indicate, possono formularsi
talune considerazioni.
(3) Cass. pen., 26 aprile 2005, n. 23668, in Cass. Pen., 2006, p. 1463. Nello stesso
senso, in passato, Cass. pen., 2 ottobre 1978, n. 11565.
(4) Cass. pen., 3 maggio 2005, n. 24562, in Cass. Pen., 2006, p. 3676.
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340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
Dall’impianto normativo in esame emergerebbe infatti, secondo il
Supremo Collegio, un “sostanziale affidamento” riposto dall’ordinamento
sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso
che – come evidenziato anche dalla pronuncia in commento – “quella
relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente territoriale ed
offre le garanzie di legalità e correttezza dell’intervento”.
Ed è proprio partendo da questo “affidamento” che la condotta del professionista
abilitato finirebbe per assumere la rilevanza pubblicistica di cui al
terzo comma dell’art. 29, che – inevitabilmente – si ripercuote anche su altre
disposizioni normative quali quelle di cui al primo ed al sesto comma dell’art.
23 del d.P.R. 380/01.
In particolare, con specifico riferimento alla disposizione contenuta nel
sesto comma dell’art. 23, secondo la quale – in caso di “falsa attestazione”
del professionista – la P.A. competente è tenuta ad inoltrare segnalazione di
reato all’autorità giudiziaria, il Supremo Collegio ha avuto modo di argomentare
nel senso che tale previsione normativa conferirebbe ulteriore valore alla
relazione del progettista, che finirebbe pertanto per essere un atto non solo
idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio attività, ma anche atto dotato di
piena autonomia e di valore pubblicistico.
Difatti, parafrasando il complesso apparato motivazionale sviluppato in
sentenza, proprio la costruzione della D.i.a. come atto a controllo successivo ai
sensi del combinato disposto dei citati artt. 23 e 29, intensificando la delega di
potestà pubblica a soggetti qualificati (come il progettista abilitato), rafforzerebbe
anche il valore fidefacente della relazione del progettista, che – così ragionando
– assumerebbe addirittura “valore sostitutivo e quindi certificativo”.
Del resto, a conferma della correttezza di tale impostazione, basti considerare
che solo un atto definitivo e in sé compiuto (come la relazione di
“asseverazione” della D.i.a.) può originare la responsabilità penale per chi la
esegua in difformità.
Sarebbe infatti assai strano e soprattutto in controtendenza rispetto al cd.
“principio di materialità del diritto penale”, riassunto nel brocardo latino
“cogitationis poenam nemo patitur”, ricollegare una sanzione penale ad un
comportamento o ad un atto non ancora definitivo o comunque non ancora
pienamente efficace e, dunque, non ancora percepibile nel mondo esterno
come autonomo e completo.
Pertanto, riepilogando sul punto, sembrerebbe non sussistere alcun dubbio
circa il riconoscimento alla relazione di accompagnamento della D.i.a.
della natura di “certificato”, con tutte le conseguenze di tipo penalistico legate
ad un’eventuale falsificazione di tale atto.
Ne deriverebbe dunque, in adesione alle conclusioni sviluppate della
Corte che il progettista, che ponga in essere un’asseverazione falsa, potrà
essere ritenuto responsabile del reato di “falsità ideologica in certificati”, previsto
e punito dall’art. 481 c.p. (5).
(5) Cfr., anche, Cass. pen., 6 maggio 2004, n. 21639, in CED 229184; Cass. pen., 8
marzo 2000, Bonvecchio; Cass. pen., 23 aprile 1993, n. 5298, in Cass. pen., 1995, p. 54.
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IL CONTENZIOSO NAZIONALE 341
A favore di tale conclusione sembra peraltro militare anche l’utilizzo, da
parte del Legislatore, di determinati termini, come il verbo “asseverare” di
cui al terzo comma dell’art. 23 del d.P.R. 380/01.
Nella lingua italiana, infatti, “asseverare” vuol dire letteralmente “affermare
con solennità”, e cioè porre in essere una dichiarazione di particolare
rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto a verità
e/o ad affidabilità del contenuto.
A conferma della fondatezza delle tesi qui sostenute depone anche un’altra
recente pronuncia del Supremo Collegio.
In tale occasione, la Corte, decidendo in tema di concessione edilizia, ha
difatti statuito che “trattandosi di concessione edilizia e non di D.i.a., la
documentazione e la eventuale relazione presentata dai tecnici progettisti
non aveva valore probante e fidefacente assoluto, in quanto si tratta di documentazione
finalizzata soltanto ad illustrare e chiarire i termini tecnici fattuali
della richiesta medesima” (6).
Il citato passaggio motivazionale, pur se stringato, appare comunque
privo di perplessità nel ritenere, per un verso, privi di valore di certificazione
(prima del vaglio positivo dell’ente pubblico) i documenti e le attestazioni
allegate alla domanda di concessione, mentre, per altro verso, dotata di
autonoma efficacia (e quindi di valore certificativo) la documentazione allegata
alla domanda di inizio attività.
In altre parole, solo la relazione allegata alla D.i.a. e non anche quella
allegata alla richiesta di concessione edilizia (oggi, permesso di costruire)
assume la veste di “certificato”.
Ne discende dunque che, in presenza dei succitati riscontri di carattere
normativo e giurisprudenziale, sembra evidente l’esistenza di una serie di
elementi interpretativi sulla cui base è possibile desumere la volontà del
Legislatore di ricomprendere la relazione di accompagnamento alla D.i.a. nel
novero dei “certificati”, ovvero di quegli atti destinati a provare l’oggettiva
verità di ciò che in essi è affermato, con tutte le suesposte conseguenze sotto
il profilo penalistico.
Conclusioni
Dall’esame della giurisprudenza di legittimità degli ultimi due decenni
emerge, come visto, una varietà di posizioni.
Da un lato, infatti, la giurisprudenza maggioritaria, sulla cui scia si colloca
anche la sentenza in commento, afferma con decisione che la relazione
in oggetto rientri nel novero dei “certificati”, ovvero di quei documenti attestanti
fatti e dati che sono noti all’esercente un servizio di pubblica necessità
in quanto provenienti da altri documenti o dalle sue conoscenze tecniche (7).
Dall’altro lato, invece, non mancano alcune pronunce tendenti ad escludere
che la relazione di accompagnamento alla D.i.a. presenti natura di “cer-
(6) Cass. pen., 24 gennaio 2008, n. 9118.
(7) Cass. pen., 6 maggio 2004, n. 21639, in CED 229184.
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342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
tificato”, trattandosi di atto diretto esclusivamente a manifestare un’intenzione
e non una realtà oggettiva (8).
Al riguardo, giova tuttavia considerare che la presenza di alcuni elementi,
come il tenore letterale delle norme di riferimento; l’utilizzo di determinati
termini in sede normativa (vedi, ad es., l’uso del verbo “asseverare”); una
lettura coordinata e sistematica degli artt. 23 e 29 del d.P.R. 380/01; la comparazione
fra l’istituto della D.i.a. e quello della concessione edilizia (ora,
permesso di costruire); nonché la costruzione della D.i.a. come atto a controllo
successivo da parte della P.A., costituisce un valido supporto a sostegno
della tesi, a nostro avviso condivisibile, secondo la quale la relazione di
accompagnamento alla D.i.a. rappresenti a tutti gli effetti un atto riconducibile
nel novero dei “certificati”.
Ne deriva, pertanto che, seguendo tale maggioritario orientamento, la falsa
attestazione realizzata in sede di relazione di “asseverazione” della D.i.a. dal
progettista abilitato (soggetto pacificamente esercente un servizio di pubblica
necessità) possa ben integrare gli estremi del reato di cui all’art. 481 c.p. .
È utile infine rilevare che il conferimento alla relazione allegata alla
D.i.a. della natura di “certificato”, accrescendo in tal modo la “natura pubblicistica”
di tale strumento di pianificazione del territorio, rappresenta un ulteriore
passo in avanti verso una “recessione”, sempre crescente, del ruolo
dello Stato in materia urbanistica.
Il riconoscimento alla D.i.a. della natura di atto fidefacente a prescindere
dal controllo della P.A. (contrariamente a quanto previsto in materia di
concessione edilizia) rafforza infatti quel concetto di “delega di potestà pubblica”
in favore di determinati soggetti qualificati che ha connotato negli ultimi
anni, in maniera crescente, la figura della denunzia di inizio attività.
Delega che comunque, a nostro avviso, se, da un lato, costituisce un tassello
importante verso la realizzazione di quella che potremmo definire “liberalizzazione
urbanistica”, dall’altro lato, invece, conferendo maggiore potere
al privato cittadino e maggiore valore agli atti da lui predisposti, richiede
parallelamente una maggiore tutela, anche sotto il profilo penalistico, contro
la falsificazione di tali atti, dotati di propria autonomia ed efficacia a prescindere
dal controllo da parte della Pubblica Amministrazione.
Dott. Francesco Emanuele Salamone(*)
Corte di Cassazione penale, sezione terza, sentenza 21 ottobre 2008 – 19 gennaio
2009, n. 1818 – Pres. Grassi – Rel. Marini – P.M. Montagna.
«(Omissis)
Avverso la sentenza emessa in data 19 marzo 2008 dalla Corte di Appello di Trento,
che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trento del 16 maggio 2007, ha appli-
(8) Cass. pen., 26 aprile 2005, n. 23668, in Cass. Pen., 2006, p. 1463.
(*) Cultore di Diritto dell’Economia nell’Università di Modena e Reggio Emilia,
Associate Lemme Avvocati Associati.
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cato al Sig. B. le circostanze attenuanti generiche e ridotto a venti giorni di reclusione la pena
inflitta in primo grado per il reato previsto dagli artt. 481 c.p. e 29 del d.P.R. 6 giugno 2001,
n. 380, con sospensione condizionale della pena, non menzione della condanna, e revoca del
beneficio dell’indulto.
Fatto di reato commesso il 24 gennaio 2006. (Omissis)
Rileva
Il Sig. B., quale progettista di lavori edili da effettuare su immobile situato nel centro
storico del Comune di Lasino, ha sottoscritto la relazione tecnica di asseverazione che
accompagna la D.i.a., in essa affermando che le opere da eseguire erano conformi ai vigenti
strumenti urbanistici. Tale affermazione è stata ritenuta non conforme al vero, ed il
Pubblico ministero ha disposto il rinvio a giudizio del progettista per rispondere del reato
previsto dall’art. 481 c.p. in relazione ai doveri fissati dall’art. 29 del d.P.R. 6 giugno 2001,
n. 380. (Omissis)
Ricorre per cassazione la Difesa del Sig. B.
Con unico e articolato motivo lamenta violazione dell’art. 606, lett. b) c.p.p. in relazione
agli artt. 481 c.p. e 29 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, nonché violazione dell’art. 606, lett.
e) c.p.p. per manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Tali violazioni atterrebbero
a plurimi profili:
a) erronea non applicazione dei principi fissati dalla sentenza Giordano della Quinta
Sezione Penale. Non solo la sentenza oggi impugnata utilizzerebbe in modo non coerente i
termini “asseverazione”, “dichiarazione di scienza”, “attestazione”, ma si sarebbe distaccata
in modo superficiale e non convincente dai principi interpretativi affermati con la citata decisione
della Corte di cassazione. (Omissis)
Osserva
A) La disciplina fondamentale, che viene richiamata nelle decisioni assunte nel caso in
esame e che si pone a fondamento di parte della giurisprudenza richiamata anche dal ricorrente,
è rappresentata dagli artt. 23 e 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
In particolare, l’art. 23 (così sostituito dal D.Lgs. n. 301 del 2002) ha ad oggetto la
“Disciplina della denuncia di inizio attività” e, nei commi che qui rilevano, stabilisce quanto
segue:
“1. Il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio
attività, almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico
la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e
dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi
vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie.
“2,...
“3. Qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela
compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta
giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non
sia favorevole, la denuncia è priva di effetti.
“4”. .....
“5. La sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia di inizio attività da
cui risulti la data di ricevimento della denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del
progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente
necessari.
“6. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine
indicato al comma 1 sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifi-
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ca all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa
attestazione del professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine
di appartenenza.. È comunque salva la .facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività,
con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa
urbanistica ed edilizia.
“7. Ultimato l’intervento, il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di
collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con il quale si attesta la conformità
dell’opera al progetto presentato con la denuncia di inizio attività”. Osserva la Corte che la
disposizione in parola non lascia dubbi, nel suo significato letterale, oltre che, come si dirà,
nella sua “ratio”, che il professionista “abilitato” abbia un duplice obbligo: a) formare una
relazione preventiva in cui si assume l’onere di “asseverare”: la conformità delle opere agli
strumenti urbanistici approvati e la mancanza di contrasto con quelli adottati e con i regolamenti
edilizi, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie; b) rilasciare
al termine dei lavori (ove non lo faccia altro tecnico che se ne assume la responsabilità)
un certificato di collaudo circa la conformità di quanto realizzato al progetto iniziale.
Osserva poi la Corte che il termine “asseverare” ha nel vocabolario della Lingua italiana
il significato di “affermare con solennità”, e cioè di porre in essere una dichiarazione di
particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto a
verità/affidabilità del contenuto.
Il successivo art. 29, che titola “Responsabilità del titolare del permesso di costruire,
del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per
le opere subordinate a denuncia di inizio attività”, nella parte che qui interessa prevede:
“1. Il titolare del permesso di costruire , il committente e il costruttore...
“2. Il direttore dei lavori...
“3. Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista
assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli
articoli 359 e 481 del codice penale. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di
cui all’articolo 23, comma 1, l’amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine
professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari”.
Osserva la Corte che la disciplina prevista dal comma terzo dell’art. 29 non può, non
essere letta in coerenza con l’art. 23 sopra ricordato e che in tale contesto assume valore
decisivo la circostanza che al progettista abilitato venga attribuita la qualità di “persona
esercente un servizio di pubblica necessità”, ai sensi degli artt. 359 e 481 c.p.
B) La lettura coordinata delle due norme consente così di giungere ad alcune conclusioni
essenziali:
a) la decisione del committente e del suo professionista di non sollecitare mediante richiesta
di permesso di costruire il preventivo controllo dell’ente pubblico, e di procedere piuttosto
con D.i.a. porta con sé una particolare assunzione di responsabilità del progettista stesso;
b) tale responsabilità trova fondamento nel particolare affidamento che l’ordinamento
pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che
quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente territoriale ed offre le
garanzie di legalità e correttezza dell’intervento;
c) muovendo da quell’affidamento, la condotta del professionista abilitato assume una specifica
rilevanza pubblicistica (art. 29, comma terzo) che incide sulle previsioni dei commi primo
e sesto dell’art. 23 che precede. In particolare, merita qui richiamare la disposizione contenuta
nel sesto comma dell’art. 23, che in caso di “falsa attestazione” del professionista stesso prevede
l’obbligo per l’ente territoriale di inoltrare segnalazione di reato all’autorità giudiziaria;
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d) non vi è dubbio che la “falsa attestazione” in parola, riferita dal comma sesto alle
“condizioni stabilite”, è quella prevista dal primo comma del medesimo art. 23;
e) la previsione della segnalazione all’autorità giudiziaria va letta anche con riferimento alle
disposizioni contenute nel comma settimo dell’art. 23 e nel comma secondo dell’art. 29, in
quanto la responsabilità del direttore dei lavori per la difformità delle opere edificate rispetto
a quelle contenute nel progetto iniziale allegato alla D.i.a rafforza il valore della relazione
del progettista, che integra la dichiarazione stessa di inizio attività, come atto dotato di
piena autonomia e di valore pubblicistico: solo un atto definitivo e in sé compiuto può originare
la responsabilità penale per chi esegue in difformità;
f) in altri termini, la costruzione della D.i.a. come atto a controllo successivo rafforza
concetto di delega di potestà pubblica al soggetto qualificato, con dichiarazione del progettista
che assume valore sostitutivo e quindi “certificativo”;
g) tale carattere della dichiarazione del progettista trova conferma e non smentita nella
circostanza che in presenza di “vincolo” ulteriore rispetto agli ordinari strumenti urbanistici
il termine di trenta giorni previsto dal primo comma inizia a decorrere dal rilascio dell’atto
di assenso da parte dell’amministrazione comunale;
h) l’insieme delle disposizioni fin qui ricordate, ed in particolare il chiaro dettato del
comma sesto dell’art. 23, impone di considerare che l’intervento dell’ente amministrativo
che prevenga l’effettuazione dei lavori mediante un tempestivo controllo seguito da immediato
ordine di non procedere non esclude la rilevanza penale della condotta di falsa attestazione
posta in essere dal progettista.
C) Così esaminato il testo degli artt. 23 e 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e ricostruita
la “ratio” delle disposizioni in esse contenute, la Corte deve rilevare che alcune delle
decisioni di legittimità che sono state richiamate nell’ambito del presente procedimento o
che appaiono assumere rilievo ai fini della presente decisione risultano, in realtà, riferite a
situazioni di fatto diverse da quella oggi in evidenza e a questa non rapportabili.
È il caso della sentenza della Seconda Sezione Penale n. 3628/2006, Pinto (rv 235934),
che ha affermato la non rilevanza penale, ai fini del contestato art. 481 c.p., di quelle parti
delle attestazioni del privato che contengono giudizi e convincimenti soggettivi; tale valutazione
si riferisce a documenti che, al di là della qualificazione loro attribuita, in realtà costituivano
meri “studi di fattibilità” ed erano privi del supporto documentale che era richiesto
dalla normativa in vigore.
È poi il caso della sentenza di questa Sezione n. 8303/2006, Cardini e altro (rv 233564),
che, nell’affermare la qualità di esercente un servizio di pubblica necessità del professionista,
ha affrontato il caso di dichiarazione di conformità delle opere già eseguite in base a concessione
edilizia.
È, ancora, il caso della sentenza della Quinta Sezione Penale, n. 21639/2004, P.G. in
proc. Pizzini (rv 229184), che ha affrontato il caso di presentazione della D.i.a. per opere in
realtà già realizzate ma prospettate come ancora da avviare.
D) Vanno così esaminate due sentenze di segno non coincidente che contengono motivazioni
rilevanti ai fini della presente decisione. La prima è la più volte citata sentenza
Giordano (Sezione Quinta Penale, n. 23668 del 26 aprile-23 giugno 2005, rv 231906) e la
seconda è la sentenza di questa Sezione n. 9118 del 24 gennaio-28 febbraio 2008, Masucci
e altri, rv 238999.
D.1) La sentenza Giordano era chiamata ad intervenire su una contestazione di “falsa
attestazione” del professionista in sede di relazione che accompagnava la D.i.a., con riferimento
alla tipologia delle opere da realizzare, alla conformità delle stesse agli strumenti
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 345
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urbanistici, all’assenza di vincoli. Richiamata una precedente e assai risalente decisione conforme
della medesima Sezione (n. 11565 del 28 giugno-2 ottobre 1978, Ortenzi), la sentenza
esclude che l’attestazione del professionista abbia natura di “certificato”. La motivazione
non affronta l’esegesi delle disposizioni contenute nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 ed afferma
che non può avere natura certificativa la relazione allegata alla denuncia di inizio attività
“riflettendo essa, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva ma una semplice
intenzione e, per quanto riguarda l’eventuale attestazione dell’assenza di vincoli, un giudizio
espresso dall’agente, non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri (che, in
quanto tali, dovrebbero già essere, tuttavia, nella disponibilità della pubblica amministrazione
competente), ma suscettibile di derivare soltanto – come verificatosi nella specie – da
un convincimento puramente oggettivo, poco importa, ai fini penalistici, se dovuto o meno
a difetto di diligenza nella effettuazione delle opportune verifiche fattuali e normative”.
Questa Corte ritiene che la motivazione si fondi su un basilare fraintendimento della
normativa specifica in materia edilizia, come dimostra il passaggio in cui opera un riferimento,
incluso tra parentesi, alla circostanza che la pubblica amministrazione già dovrebbe possedere
le informazioni che il professionista le fornisce. Tale inciso dimostra che non si è
compresa la fondamentale differenza tra richiesta di concessione – ora permesso di costruire
– e D.i.a., e non si è avuto riguardo alle conseguenza che solo per questa seconda forma
di domanda la legge riconduce alla falsa attestazione; conseguenze che sono definite in
modo chiaro dagli artt. 23, comma sesto e 29, comma terzo d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 con
esplicito riferimento all’obbligo per l’ente pubblico di inoltrare segnalazione di reato all’autorità
giudiziaria.
La decisione in parola sembra, a parere di questa Corte, non solo contrastare con le citate
disposizioni del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ma incorrere in un vizio logico allorché confonde
la esistenza dei presupposti del reato con quello che è soltanto un tema probatorio: la
sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in presenza di attestazioni che contengono una
parte di valutazione.
D.2) Il principio posto a fondamento della sentenza Giordano, che questa Corte non
condivide per le ragioni appena esposte, sembra essere superato dalla più recente giurisprudenza,
come dimostra, con ragionamento “a contrario” la richiamata sentenza n. 9918/2008,
Masucci e altri di questa Sezione. Decidendo in tema di accusa di falsa attestazione contenuta
nella relazione tecnica del progettista ad una domanda di concessione edilizia, la sentenza
afferma (pag. 3): “trattandosi di concessione edilizia e non di Dia, la documentazione
e la eventuale relazione presentata dai tecnici progettisti non aveva valore probante e
fidefacente assoluto...”.
Pur nella sua sinteticità il passaggio motivazionale e indiscutibile nel ritenere che non
hanno valore di certificazione i documenti e le attestazioni allegate alla domanda di concessione,
che non assume efficacia se non dopo il vaglio positivo dell’ente pubblico, mentre a diverse
conclusioni deve giungersi per la domanda di inizio attività, dotata di autonoma efficacia.
(Omissis)
Alla luce delle considerazioni che precedono tutti i motivi di ricorso appaiono infondati.
Alla reiezione del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 21 ottobre 2008 (…)».
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A.G.S. – Parere dell’11 novembre 2008 n. 130954.
Tributi speciali catastali. Soggettività passive degli enti locali (consultivo
2905/08, avvocato A.L. Caputi Iambrenghi).
«(…) codesta Agenzia chiede di conoscere se, anche ai tributi speciali
catastali di recente introduzione e relativi ai seguenti servizi:
presentazione in catasto dei tipi mappali (art. 8 L. n. 679/1969);
dichiarazione di nuova costruzione (art. 28 R.D.L. n. 652/1939);
dichiarazione di variazione (art. 20 R.D.L. n. 652/1939),
si possa estendere la esenzione già prevista in favore delle Regioni,
Province, Comuni ed Enti di beneficenza dall’articolo unico della Legge n.
228 del 15 maggio 1954.
Riferisce codesta Agenzia che, sulla base di una prassi pluridecennale, la
esenzione contenuta nell’articolo unico della legge citata, è stata applicata a
tutti i servizi esistenti alla data di entrata in vigore della legge n. 228/1954 e,
più precisamente, ai diritti ed ai compensi di cui alla legge 17 luglio 1951, n.
575 e successive disposizioni di proroga. Per gli adempimenti sopra indicati
non era previsto alcun pagamento diritti o compensi.
Le perplessità attengono, quindi, alla estensione della esenzione a fattispecie
che, si ripete, sono state introdotte da successive disposizioni legislative.
Sul quesito formulato, questa Avvocatura Generale osserva.
1.- I tributi speciali catastali acquistano siffatta denominazione con l’entrata
in vigore del D.L. 31 luglio 1954 n. 533, convertito, con modificazioni,
dalla Legge 26 settembre 1954, n. 869.
Prima dell’entrata in vigore del citato Decreto, detti tributi rientravano
nella generale categoria dei diritti, proventi e compensi posti a carico dei cittadini
per l’erogazione, da parte delle Amministrazioni dello Stato o di altri
Enti Pubblici, di servizi di varia natura.
In particolare, con riguardo alla materia catastale, la normativa di riferimento
era contenuta nella legge 17 luglio 1951, n. 575 e successive disposizioni
di proroga.
Orbene, l’art. 1, comma 1, del D.L. n. 533/1954 testualmente recita:
“Tutti i diritti, proventi e compensi, comunque denominati, istituiti a carico
dei cittadini o di enti per essere erogati ai dipendenti delle Amministrazioni
P A R E R I D E L C O M I T A T O
C O N S U L T I V O
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 347
dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono soppressi, ad eccezione
di quelli previsti dalle allegate tabelle”.
Il successivo art. 2 recita ancora: “Tutti i diritti proventi e compensi che
in base all’articolo precedente sono mantenuti in vigore, assumono la denominazione
di tributi speciali e sono versati entro 30 giorni dalla loro riscossione
in apposito capitolo da istituirsi nel bilancio delle Entrate con la denominazione
“tributi speciali, diritti e compensi”.
Per quanto di rilievo in questa sede, con riferimento ai tributi speciali
catastali, le norme citate attuano un intervento che è al tempo stesso di mantenimento
in vigore e di recepimento normativo, sicché può sostenersi che vi
sia continuità se non addirittura identità tra “... i diritti e compensi di cui alla
legge 17 luglio 1951 n. 575 e successive disposizioni di proroga” (secondo
la formulazione dell’art. unico della Legge esonerativa 228/1954) ed i tributi
speciali istituiti dal D.L. n. 533/1954.
In altri termini, nella categoria dei tributi speciali il legislatore del 1954
innesta la pregressa normativa di cui alla legge 575/1951, che, pertanto, rimane
in vigore, con la relativa esenzione, in quanto i servizi catastali ed i connessi
diritti, (di cui alla ridetta Legge n. 575/1951), risultano ora specificamente
elencati nella tabella A allegata al D.L. n. 533/1954.
2.- Il problema dell’ estensione della esenzione ai servizi di nuova istituzione,
non può che essere risolto nell’ambito di tale quadro normativo di riferimento.
L’introduzione di nuovi servizi è avvenuta con l’art. 1, comma 13 della
D.L. n. 323/1996 che così recita: “Il titolo III della tabella A allegata al
Decreto P.R. 26 ottobre 1972 n. 648, è sostituito dalla tabella B allegata al
presente decreto”.
Il tenore e la ratio della disposizione non sembrano ostativi ad una estensione
della esenzione di cui alla ridetta Legge 228/1954, la quale risulta infatti
compatibile con una lettura delle nuove norme tanto di natura esegetica,
quanto logico-sistematica.
Per un verso, infatti, il D.L. n. 323/1996 si è limitato ad implementare il
titolo III della Tabella A allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 648, che, a sua
volta, ha sostituito la tabella A allegata al D.L. 533/1954.
Si registra, pertanto, ancora una volta, una indiscutibile continuità normativa,
ponendosi il citato D.L. 323/1996, a valle dell’originario intervento
istitutivo dei tributi speciali.
Ne discende che, se la normativa di cui Legge 575/1951 e la relativa
esenzione sono state innestate nel D.L. n. 533/1954, non si vede la ragione
per escludere dall’esenzione i servizi catastali di più recente istituzione, ma
di identica natura giuridica, in quanto costituiscono, si ripete, mere implementazioni
della originaria tabella A allegata al più volte citato D.L.
533/1954.
Le considerazioni che precedono consentono di prescindere dalla precedente
consultazione resa da questa Avvocatura Generale, avente n. 11185/03 e citata
da codesta Agenzia nella nota a riscontro, anche in considerazione del diverso
contesto emergenziale (eventi sismici del novembre 1980, febbraio 1981 e
marzo 1982 e relativi territori interessati) che la stessa presupponeva (…)».
348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 348
A.G.S. – Parere del 9 dicembre 2008 n. 143108.
Tenuta informatizzata dei registri da parte dei depositari autorizzati di
prodotti energetici e di bevande alcoliche (consultivo 29951/08, avvocato G.
Albenzio).
« 1.- (…) codesta Agenzia chiede parere in merito alla possibilità di rendere
obbligatoria la tenuta informatizzata dei registri da parte dei depositari
autorizzati di prodotti energetici e di bevande alcoliche, perché coerente con
la trasmissione telematica dei dati contabili ormai riconosciuta dalla L. n. 59
del 1997 (art. 15) e perché renderebbe i sistemi di controllo più efficaci ed
agevoli (soprattutto con riguardo al settore fiscale).
Si riferisce che sono state adottate dal Direttore dell’Agenzia le determinazioni,
datate 26 settembre 2007, con le quali sono stati stabiliti tempi e
modalità per la presentazione esclusivamente in forma telematica dei dati
relativi alla contabilità degli operatori, qualificati come depositari autorizzati,
con decorrenza per il settore dei prodotti energetici dal 1° giugno 2008 e
per il settore degli alcoli dal 1° ottobre 2008; per i prodotti energetici le scritturazioni
contabili sono quelle indicate dalla circolare 335 del 1992, per le
bevande alcoliche i registri sono individuati dal D.M. 27 marzo 2001, n. 153,
ai sensi dell’art. 26, comma 3, del regolamento n. 153 del 2001: “….con
provvedimento del Direttore dell’Agenzia da pubblicarsi nella Gazzetta
Ufficiale vengono rideterminate e aggiornate le modalità tecniche di accertamento
e di contabilizzazione dei prodotti alcolici sottoposti al regime delle
accise o a vigilanza fiscale”.
2.- Per rispondere al quesito posto, questa Avvocatura Generale ritiene
utile partire da un’analisi ricostruttiva delle disposizioni del decreto legislativo
7 marzo 2005, n. 82, noto anche come “Codice dell’Amministrazione
digitale”, per poterne in tale direzione, comprendere l’eventuale applicabilità
ai registri sopraindicati.
Il menzionato Codice ha ad oggetto i documenti informatici, definiti
all’art. 20 come “rappresentazioni informatiche di atti, fatti, o dati giuridicamente
rilevanti” e la gestione informatica degli stessi, vale a dire “l’insieme
delle attività finalizzate alla registrazione e segnatura di protocollo, nonché
alla classificazione, organizzazione, assegnazione, reperimento e conservazione
dei documenti amministrativi formati o acquisiti dalle amministrazioni,
nell’ambito del sistema di classificazione d’archivio adottato, effettuate
mediante sistemi informatici”.
L’idea-guida del legislatore è quella di trasformare atti e documenti cartacei
in virtuali.
Tant’è vero che le pubbliche amministrazioni sono tenute ad organizzare
la propria attività utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione
per realizzare, da una parte, quegli obiettivi di efficienza, efficacia,
economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione che
devono ispirare l’attività della P.A., e dall’altra, una vera e propria interazione
tra le pubbliche amministrazioni e i privati.
L’articolo 43, di conseguenza, disciplina dettagliatamente la riproduzione
e la conservazione dei documenti: “I documenti degli archivi, le scritture
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 349
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 349
contabili, la corrispondenza ed ogni atto, dato o documento di cui è prescritta
la conservazione per legge o regolamento, ove riprodotti su supporti informatici
sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, se la riproduzione sia
effettuata in modo da garantire la conformità dei documenti agli originali e
la loro conservazione nel tempo, nel rispetto delle regole tecniche di cui
all’art. 71”. (Quanto sancito non compromette in nessun modo la validità di
tutti quei documenti già conservati mediante riproduzione su supporto fotografico,
su supporto ottico o con altro processo idoneo a garantire la conformità
dei documenti agli originali).
La conservazione dei documenti informatici, quindi, pienamente riconosciuta
a livello normativo, garantisce non solo l’identificazione certa del soggetto
che ha formato il documento e l’integrità del documento, ma anche la
leggibilità e l’agevole reperibilità dei documenti e delle informazioni identificative,
inclusi i dati di registrazione e di classificazione originari.
La tenuta in modalità informatica dei documenti è poi riconosciuta come
pienamente valida anche dall’art. 15 della L. n. 59 del 1997: “gli atti, i dati
e i documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti
informatici o telematici…..nonché la loro archiviazione e trasmissione
con strumenti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”.
I documenti informatici, però, dovranno essere custoditi e controllati con
modalità tali da ridurre al minimo i rischi di distruzione, perdita, accesso non
autorizzato o non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.
L’adozione di tale forma di detenzione dei registri, dunque, è prevista dalla
normativa di riferimento e perciò, può ben parlarsi di una sua concreta utilizzazione,
in alternativa alle attuali modalità di tenuta delle scritturazioni contabili.
L’eventuale “obbligatorietà” della tenuta informatizzata dei registri potrà
essere prevista solo con un espresso intervento legislativo dell’autorità competente,
mancando allo stato attuale una disposizione che ne preveda l’applicabilità.
3.- Per quanto riguarda, infine, il problema dello strumento giuridico,
attraverso il quale regolamentare il regime della tenuta informatizzata, si
potrebbe procedere - con riguardo sia al settore dei prodotti energetici che a
quello delle bevande alcoliche -, ai sensi dell’art. 21, comma 5, del D.Lgs. n.
82 del 2005 (“Gli obblighi fiscali relativi ai documenti informatici ed alla
loro riproduzione su diversi tipi di supporto sono assolti secondo le modalità
definite con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze,
sentito il Ministro delegato per l’innovazione e le tecnologie”), con un decreto
del Ministero dell’economia e delle finanze che disciplini l’emissione, la
conservazione ed esibizione dei documenti sotto forma di documenti informatici
rilevanti ai fini delle accise e delle imposte di consumo (…)».
A.G.S.- Parere dell’11 dicembre 2008 n. 144804.
Art. 12 comma 9 del D.Lgs. n. 42 del 2004 – Applicabilità ai beni già
appartenenti ad Ente pubblico economico trasformato in società con apposito
atto normativo in vigenza del D.Lgs. n. 490 del 1999 (consultivo
13373/08, avvocato P. Palmieri).
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04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 350
«Con riferimento alla questione sottoposta alla Scrivente (…) e successivamente
acquisita la documentazione richiesta ai fini di una più compiuta
valutazione, si espongono le seguenti considerazioni.
Dagli atti esaminati emerge che la società [X] s.r.l. – costituita ex lege
con D.Lgs. 79/99 in seno al gruppo Enel s.p.a. e titolare del diritto di proprietà
su di un immobile sito in Palermo – ad essa conferito dalla stessa Enel e
già a quest’ultima appartenente sin dal periodo precedente alla sua trasformazione
in società per azioni – ha sollevato contestazioni circa la giuridica sussistenza
di un preteso obbligo – affermato dall’Assessorato regionale per i
Beni Culturali – in capo alla stessa di attivarsi per la verifica della sussistenza
dell’interesse culturale del citato immobile, ai sensi dell’art. 12 comma 2
D.Lgs. 42/04, obbligo che le deriverebbe, a parere della riferita
Amministrazione, sia dalla circostanza che il bene risultava vincolato ope
legis ai sensi dell’art. 4 della legge 1089/1939, ora art. 10 comma 1 D.Lgs.
42/2004 (cfr. nota Assessorato BB. CC. AA. Regione Siciliana prot. 3674/A
del 24 ottobre 2006), sia, correlativamente, dalla ritenuta operatività delle
norma di cui all’art. 12 comma 9 D.Lgs. 42/04, la quale fa salva l’applicazione
delle disposizioni di tutela culturale “anche qualora i soggetti cui i beni
appartengano mutino in qualunque modo la loro natura giuridica”.
La società [X] dopo avere manifestato contrario avviso rispetto alle
deduzioni formulate dalla Soprintendenza di Palermo, si è poi sottoposta
spontaneamente alla procedura di verifica ex art. 12 del Codice Urbani.
L’Avvocatura Distrettuale ha comunque sottoposto la questione all’attenzione
di questo G.U. sottolineando l’opportunità di un chiarimento sul punto
e sollecitando una rimeditazione della soluzione già accolta dall’Ufficio
Legislativo del Ministero con parere in data 13 febbraio 2006 con riferimento
al caso di una compravendita di un bene già appartenuto alle Ferrovie dello
Stato (con cui si conclude che le SS.PP.AA, acquistando la soggettività giuridica
per effetto del perfezionamento del procedimento costitutivo senza che
rilevi alcun intervento concessorio da parte dello Stato si collocano nella
sfera di libertà e di autonomia dei soggetti privati e, dunque, non possono
essere assimilate, in via interpretativa ai soggetti di cui all’art. 4 della legge
del 1939 (oggi artt. 10 comma 1 e 12 comma 1 del Codice e, in ogni caso per
l’inefficacia ratione temporis della normativa in esame rispetto alle trasformazioni
già attuate in data antecedente al D.Lgs. n. 42 del 2004).
L’Ufficio Legislativo, interpellato sul punto, non ha inviato osservazioni
scritte pur facendo presente, per le vie brevi, la generale rilevanza e l’attualità
della questione anche con riferimento al caso di altri enti privatizzati.
Con riferimento al caso concreto prospettato dall’Assessorato in indirizzo
non può che rilevarsi l’intervenuta cessazione della materia del contendere
tenuto conto che la società [X] si è sottoposta spontaneamente alla procedura
di verifica. Il contenzioso, pertanto, potrebbe eventualmente sorgere nel
caso in cui, all’esito della procedura di verifica la società de qua contesti il
valore culturale del bene immobile de quo.
Peraltro, tenuto conto degli aspetti generali sollevati dall’Avvocatura di
Palermo si ritiene opportuno formulare alcune considerazioni data la rilevanza
della soluzione della questione delineata, volta a chiarire il regime giuri-
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04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 351
dico applicabile ad immobili già appartenenti ad enti pubblici, che siano stati
sottoposti a privatizzazione in data anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 42 del 2004, ovvero ad immobili conferiti dalle società risultanti dalla privatizzazione,
a società a queste collegate.
Giova premettere, in linea generale, che nel sistema delineato dalla legge
Bottai (legge n. 1089 del 1934) il bene culturale era assoggettato al regime di
vincolo per il solo fatto di rivestire certe caratteristiche nonché in ragione dell’appartenenza
a soggetto pubblico.
Vigente tale normativa i beni immobili di proprietà dello Stato e degli
enti territoriali, in caso di presenza di un interesse storico-artistico, fanno
parte del demanio pubblico rispettivamente ex art. 822 e 824 c.c.
Analogamente, gli immobili di proprietà degli enti pubblici non territoriali
o degli “enti o istituti legalmente riconosciuti” fanno parte del loro patrimonio
e sono soggetti a vincolo ope legis per il solo fatto di presentare interesse
storico artistico ecc. (ex art. 4 della l. n. 1089 del 1939).
Anche con il successivo Testo Unico delle disposizioni in materia di beni
culturali e ambientali approvato con il D.Lgs. n. 490 del 1999 la presunzione
ex lege (art. 5) sopravvive per le medesime tipologie di beni (questa volta
indicati nell’art. 2 comma 1) lett. a). Muta peraltro, l’indicazione soggettiva
degli enti i cui beni sono assoggettati a presunzione ope legis, indicati questa
volta oltre alle “regioni, province, comuni” nonché negli “altri enti pubblici
e persone giuridiche private senza fini di lucro”.
L’appartenenza del bene a soggetto pubblico o privato senza fine di
lucro o, invece privato con fine di lucro, dunque, si riflette immediatamente
sulla individuazione delle modalità di sottoposizione a vincolo che, nei due
casi, segue modalità diverse e ne rappresenta il tratto discriminante. Se, come
si è visto poc’anzi, per i soggetti definiti pubblici l’assoggettamento a tutela
avviene ex lege, per i privati (in senso stretto), occorre un provvedimento ad
hoc dell’Amministrazione: i beni appartenenti a questi ultimi, infatti, sono
sottoposti a regime di tutela solo se presentano un interesse particolarmente
importante e previa notifica del provvedimento di dichiarazione avente carattere
costitutivo a quel fine.
In ogni caso, tanto nel vigore della legge del ‘39 quanto del successivo
D.Lgs n. 490 del 1999 (che, all’art. 5 recepisce nella sostanza il contenuto
dell’art. 4 della legge n. 1089 del 1939), l’attributo culturale non è una caratteristica
attribuita al bene da un provvedimento dell’Amministrazione bensì
una connotazione intrinseca del bene che presenta una delle tipologie di interesse
indicate dalla legge .
Peraltro, attraverso l’obbligo di fornire l’elenco descrittivo dei beni di
loro appartenenza, tali soggetti concorrono all’identificazione dei beni culturali
compito al quale, nel caso di beni appartenenti a soggetti privati o società
commerciali, provvede il solo Ministero mediante lo strumento della
dichiarazione.
Sia nel sistema delineato dall’art. 4 della legge Bottai che di quello disciplinato
dal D.Lgs. n. 490 del 1999 continua, invero, ad affermarsi il principio
del carattere meramente dichiarativo dell’elenco descrittivo (che avrebbe
dovuto essere fornito al Ministero ex art. 5 D.Lgs. n. 490 del 1999 ed
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ancor prima, ex art. 4 legge 1089 del 1939) e della non necessità di una ricognizione
del valore costitutivo delle qualità storico-artistiche del bene. La
non inclusione del bene nell’elenco ovvero nei successivi aggiornamenti,
dunque, secondo tale sistema, non costituisce ostacolo all’applicazione della
disciplina di tutela sempreché le cose – appartenenti ai soggetti individuati
come pubblici o a persone giuridiche private senza fine di lucro – siano di
autore non più vivente e risalenti ad oltre cinquanta anni (ex art. 5 comma 5
e art. 2 comma 6, D.Lgs. n. 490/99).
Il sistema, peraltro, era fonte di non poche incertezze sul piano fattuale
sia per la sottrazione all’obbligo dell’inserimento in elenchi delle cose mobili
o immobili di proprietà dello Stato o degli enti territoriali – per i quali non
era previsto alcun meccanismo di individuazione quanto meno fino all’entrata
in vigore del d.P.R. 283 del 2000 – sia per la generale inosservanza dell’obbligo
ex art. 5 T.U. sopra richiamato, da parte di molti enti pubblici.
Pertanto, riprendendo quanto affermato dalla relazione di accompagnamento
al Codice vigeva una “presunzione generale di culturalità” solo in parte attenuata
dagli atti di declaratoria , recanti la dichiarazione di interesse storico,
artistico, ecc. talvolta emessi dall’Amministrazione.
A ciò si aggiunga anche l’incertezza giurisprudenziale riferita al carattere
presuntivo della sussistenza di un interesse culturale ritenuto meritevole di
tutela ex lege, non mancando pronunce volte ad affermare anche in relazione
ai beni pubblici, la necessità di un atto costitutivo di riconoscimento statale
del carattere culturalmente pregiato ai sensi dell’art. 1 della legge 1089/1934
(v. in particolare: Cons. di St. 1479 del 1998 con cui si afferma che il valore
storico ed artistico diretto su un bene demaniale, imposto ex lege n. 1089 del
1939, non scaturisce automaticamente in forza di legge ma richiede, per la
sua configurabilità, la preventiva adozione di un atto formale avente valore
costitutivo; e Cons. di St. 678 del 2000 ove si chiarisce che l’art. 4 della legge
del 1939 (poi riprodotto nel successivo art. 5 e disciplinante la assoggettabilità
ex lege al regime di tutela), da un lato, fissa una autonomia della tutela
vincolistica dei beni rispetto alla loro inclusione negli elenchi, dei quali si
ribadisce la natura dichiarativa, dall’altro, non esclude la necessità di un
provvedimento costitutivo nel limitato significato del carattere pregiato del
bene pubblico, con conseguente sottoposizione del bene al regime protettivo;
ma contra v. Cass. Sez. I n. 6522 del 2003 secondo cui, nella vigenza della
legge n. 1089 del 1939, l’interesse storico-artistico di un bene di proprietà
dello Stato la cui presenza ne determina l’inclusione nel demanio pubblico e
l’assoluta inalienabilità non postula formali e specifici provvedimenti
dell’Amministrazione ed è riscontrabile pure in assenza di tali provvedimenti,
sulla scorta delle intrinseche qualità e caratteristiche del bene evincibili,
peraltro, anche dagli atti e comportamenti posti in essere dall’autorità amministrativa
nella gestione dello stesso).
Di qui l’affermata necessità di procedere ad accertamento dell’interesse
culturale non solo in relazione ai beni privati ma anche con riferimento ai
beni appartenenti ad enti pubblici. Ciò anche in maggiore armonia con quanto
indicato dallo stesso codice civile che all’art. 822 c.c. che ricomprende nel
demanio pubblico, oltre agli immobili di proprietà statale, anche quelli di
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 353
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 353
proprietà degli enti territoriali che siano stati “riconosciuti” di interesse storico
e artistico.
Si fa strada, dunque, l’idea dell’utilità di un atto di riconoscimento – sia
pure dal carattere meno pregnante della dichiarazione che precede la ricognizione
costitutiva del carattere di interesse del bene di proprietà privata – ma
che, tuttavia, da un lato risponda alla esigenza dell’ente proprietario di gestire
correttamente il bene de quo e, dall’altro, consenta la percezione del regime
vincolistico da parte del privato che entri in contatto con tali beni .
L’introduzione dell’obbligo di verifica ad opera del Testo unico più
recente sembra dunque, volto proprio al fine di porre fine a tali incertezze
obbligando i soggetti pubblici a procedere ad una effettiva ricognizione del
loro patrimonio culturale, e d’altro canto, sottoponendo detti beni a tutela
fino alla effettiva ricognizione dell’interesse culturale del bene ovvero fino
alla sua declassificazione nel caso di esito negativo della verifica.
Prima con l’art. 27 del D.L. 269 del 2003 e immediatamente dopo con
l’art. 12 del Codice Urbani (D.Lgs. n. 42 del 2004) viene, dunque, fissato un
nuovo procedimento diretto a verificare – in modo certo e definitivo – l’interesse
culturale del patrimonio culturale pubblico.
Nel nuovo regime normativo sono sottoposti automaticamente al regime
di tutela i beni ultracinquantennali di autore non più vivente appartenenti agli
enti pubblici (territoriali e non) e alle persone giuridiche private senza scopo
di lucro, ma la situazione di vincolo è sempre a carattere interinale in attesa
che venga effettuata una apposita verifica (d’ufficio o su istanza di parte),
all’esito della quale o si rileverà in modo espresso il carattere culturale del
bene sottoposto al particolare regime di tutela (in particolare all’autorizzazione
alla vendita) ovvero si considererà il bene sottratto a tale regime con la conseguente
disponibilità e libera alienabilità da parte del soggetto proprietario.
Nelle more, le cose appartenenti ai soggetti di cui al comma 1 dell’art. 10
(ovvero enti pubblici in genere e enti privati senza scopo di lucro) sono inalienabili
fino alla conclusione della procedura di verifica e, per quel che qui
più interessa, è sottoposta al regime dell’autorizzazione ex art. 56 comma 1
lett. b) l’alienazione dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici non
territoriali o a persone giuridiche private senza scopi di lucro.
Come già disponeva la legge del 1939 così anche il testo unico del 1999
contemplava due regimi di tutela a seconda della natura pubblica o privata
del bene culturale ma nulla prevedeva con riferimento ai beni appartenenti
agli enti privatizzati .
A fronte del processo sempre più intenso di privatizzazione degli enti
pubblici, già nel corso della XIII legislatura, il Governo aveva presentato un
disegno di legge volto alla sottoposizione dei beni appartenenti a società
nascenti da privatizzazione al regime proprio dei soggetti privati ma con contestuale
imposizione dei diretti vincoli di tutela, quanto meno per un periodo
temporalmente limitato (quattro anni) onde consentire, medio tempore, l’intervento
dell’Amministrazione.
Anche se il disegno di legge non completò il suo iter, i principi innovativi
dello stesso sono fatti propri con il D.Lgs n. 42 del 2004, il cui art. 12 comma
9 stabilisce che le disposizioni del presente articolo si applicano alle cose di
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cui al comma 1 (cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni,
agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente e istituto pubblico
e a persone giuridiche private senza fine di lucro), anche qualora i soggetti cui
esse appartengono “mutino in qualunque modo la loro natura giuridica”.
La disposizione, dunque, pur risolvendo ogni dubbio per il caso di trasformazione
successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004 (1
maggio 2004), presenta dubbi interpretativi in relazione ai casi di enti pubblici
già trasformati in società commerciali al momento dell’entrata in vigore
del Codice Urbani.
Alla luce delle premesse suesposte, al fine di individuare una possibile
soluzione, a parere di questo G.U. merita più attenta riflessione il profilo relativo
alla qualificazione soggettiva dell’Ente del cui mutamento di natura si
tratti, anche a fronte dell’argomento volto a sottrarre alla procedura di verifica
ex art. 12 D.Lgs. n. 42 /04 le società di diritto privato. In effetti, riflettendo
sul dato testuale del decreto Urbani, l’art. 12 D.Lgs. n. 42 /2004 assoggetta
alla procedura di verifica le cose immobili e mobili indicate nell’art. 10
comma 1 ovvero, come detto sopra, appartenenti allo Stato alle regioni agli
altri enti territoriali, nonché ad ogni altro ente o istituto pubblico e a persone
giuridiche private senza fine di lucro in tal modo implicitamente escludendo
– anche attraverso il mancato richiamo del comma 3 dell’art. 10 – i soggetti
privati con fini di lucro, ovvero, le società commerciali.
Si osserva che la tesi fondata sul dato formale della natura giuridica del
soggetto sottoposto a verifica troverebbe conforto – oltre che nel dato letterale
della disposizione – proprio nel già menzionato precedente parere reso,
su analoga fattispecie, dall’Ufficio Legislativo del Ministero per i Beni e le
attività culturali (prot. 3933 del 13 febbraio 2006) con cui si escludeva l’applicabilità
degli obblighi inerenti la verifica a società collegata al gruppo
FF.SS. proprio in ragione della natura ormai privata della società cui il bene
risultava conferito.
L’orientamento espresso in quella sede da detto Ufficio, siccome recepito
e sviluppato per il caso di specie dalla Enel s.p.a. (v. nota Assessorato
BB.CC.AA. Regione siciliana prot. 59665 del 18 giugno 2007), si fonda sul
precedente reso in materia dal Consiglio di Stato con riferimento al caso delle
banche di interesse nazionale (Cons. di St. Sez. VI del 20 febbraio 1998 n.
176), nonché sulla considerazione che l’assimilazione di taluni soggetti privati
alle istituzioni pubbliche discende dal fatto che detti enti ripetono la loro
personalità giuridica da un atto costitutivo dello Stato, a differenza, pertanto,
delle società per azioni, la cui soggettività è acquisita per effetto diretto del
loro procedimento costitutivo.
Si osserva, al riguardo, che, con riferimento in particolare al caso di enti
pubblici privatizzati, l’argomentazione utilizzata dalla giurisprudenza richiamata
dal predetto parere sembra piuttosto andare a favore della tesi opposta,
tenuto conto che le società nascenti da detti enti sono costituite quali
SS.PP.AA. non certo dalla volontà dei soci bensì, direttamente, in virtù di un
atto normativo.
Non vi è dubbio, peraltro, che il riferimento alla natura giuridica dell’ente
assoggettato a verifica deve intendersi in senso sostanziale e non mera-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 355
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 355
mente formale, come del resto si arguisce dallo stesso parere UL sopra menzionato.
Occorre cioè verificare, di volta in volta, se dietro la veste formale di
società commerciale vi sia un soggetto che, operando secondo rilevanti deroghe
rispetto al modello codicistico abbia natura sostanzialmente pubblica.
Con riferimento al caso dell’Enel si osserva al riguardo che, dapprima
configurato quale ente pubblico economico, l’ Enel S.p.a. ha assunto forma
societaria con il D.L. 11 luglio 1992 n. 333 ovvero attraverso un provvedimento
normativo, al di fuori di uno specifico atto di autonomia negoziale
nonché in assenza di pluralità di soci.
Il Decreto legge istitutivo pone vincoli incompatibili con i poteri tipici
degli associati privati stabilendo le regole cui deve attenersi l’azionista pubblico
e subordinandolo alle direttive del Presidente del Consiglio (v. art. 15
comma 3 del 333 del 1992).
E’ noto che dopo le prime oscillazioni giurisprudenziali tra la tesi privatistica
delle società per azioni a capitale pubblico (SS.UU. 4989 del 1995) e
la tesi pubblicistica, è prevalso l’orientamento volto ad escludere che la veste
formale di società per azioni sia idonea a trasformare la natura pubblica di
soggetti che, in mano al controllo maggioritario dell’azionista pubblico,
siano comunque affidatari di rilevanti interessi pubblici.
Giova, a tale riguardo, il richiamo a Corte cost. n. 466 del 1993 ove si
sottolinea il progressivo attenuarsi della dicotomia Ente pubblico-società privata
in relazione sia all’impiego crescente dello strumento della S.p.a. per il
perseguimento di fini pubblici che agli orientamenti emersi in sede comunitaria,
favorevoli ad una nozione sostanziale di società di diritto pubblico.
La Corte ha altresì sottolineato come la natura societaria sia in realtà una
forma “neutra” non necessariamente determinante ai fini della identificazione
della natura pubblica o privata di un determinato ente e che, pertanto, detta
forma così come il perseguimento di uno scopo pubblicistico non è in contraddizione
con il fine societario lucrativo, come descritto dall’art. 2247 c.c.
(in tal senso anche sia pure con riferimento alla distinta materia dei pubblici
appalti: sentenza del Consiglio di stato n. 4711 del 2002, proprio con riferimento
al caso di Enel S.p.a. e delle società da essa controllate ha concluso
per la persistente natura pubblicistica di Enel S.p.a. – nonché delle società
dalla medesime controllate sulla base dei penetranti poteri di controllo mantenuti
dallo Stato su detta società concludendo per la sussistenza di tutti e tre
gli indici richiesti dalla nota giurisprudenza comunitaria nella definizione di
organismo pubblico; v. anche Cass. Penale sent. n. 3132 del 1995; Corte dei
Conti sez. Lombardia, 22 febbraio 2006 n. 114; v. anche parere A.G.S. del 21
aprile 1987 a firma dell’Avvocato Generale, previa consultazione del
Comitato Consultivo, con cui si affermava la necessità, per le banche di interesse
nazionale, di fornire gli elenchi dei beni, di loro appartenenza, che presentassero
interesse storico, artistico ecc. ai sensi della legge del 1939 proprio
facendo leva sulla presenza di rilevanti controlli e condizionamenti da
parte dell’Autorità statale incompatibili con la veste formale (SS.PP.A.) di
dette banche).
A parere di questo G.U. dunque, è possibile ritenere che, finché lo Stato
attraverso l’espressa previsione di poteri in favore del Ministro del Tesoro
356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 356
abbia mantenuto poteri di controllo sulla gestione della società condizionandone
la gestione ed indirizzandola verso obiettivi di interesse generale, la stessa
non può non considerarsi quale soggetto assimilabile ad un ente pubblico.
Tale regime, per quanto concerne Enel S.p.a., può ritenersi in esistenza
quanto meno fino all’attuazione dell’art. 2 comma 1 del D.L. n. 332 del 1994
con cui si dispone che negli statuti delle società controllate direttamente o
indirettamente dallo Stato anche nel settore delle fonti energetiche sia prevista,
prima di ogni altro atto che determini la perdita del controllo, una clausola
che attribuisca al Ministero del tesoro la titolarità di poteri speciali .
Segna, dunque, la perdita formale del controllo il D.P.C.M. del 17 settembre
1999 con cui viene individuata la stessa Enel S.p.a. tra le società di cui all’art.
2 D.L. 332 del 1994.
Ad analoghe conclusioni si dovrebbe pervenire per tutte le società costituite
da Enel S.p.a. per le finalità indicate nel D.L. n. 79 del 1999 – Decreto
Bersani (tra le quali, peraltro, sulla base di ricerche effettuate dalla Scrivente,
non sembrerebbe potersi ricomprendere la [X] trattandosi di mera società
immobiliare di diritto privato attualmente compartecipata da Enel S.p.a.).
In ogni caso, quanto meno con riferimento al caso dell’Enel S.p.a., non
vi è dubbio che, pur accogliendo la tesi sostanzialistica del mutamento di
natura dell’ente, tale evenienza si sia verificata in ogni caso in data antecedente
l’entrata in vigore dell’ art. 12 del D.Lgs. n. 42 del 2004.
Ciò pone un problema di efficacia temporale della disposizione in esame
che, per quanto sopra accennato, potrebbe intendersi come riferita ai soli casi
di mutamento intervenuto in data successiva al 1 maggio 2004 (entrata in
vigore del codice Urbani).
Quanto al primo comma dell’art. 12, il riferimento alle cose di cui all’art.
10 comma 1 ovvero appartenenti ai soli soggetti ivi indicati (con esclusione,
dunque, delle cose appartenenti a privati, indicate nella diversa disposizione
di cui all’art. 10 comma 3), fa sì che gli enti o istituti pubblici già trasformati
in S.p.a. alla data di entrata in vigore del Codice Urbani si sottraggono
all’applicazione diretta della procedura di verifica. Anche il ricorso ad una
tesi sostanzialistica di tale trasformazione rende non percorribile, quanto
meno per il caso di Enel S.p.a., la tesi fondata sull’assimilazione di detto ente
ai soggetti indicati nell’art 10 comma 1 e, di conseguenza, l’ipotesi della
diretta applicabilità della procedura di verifica, tenuto conto che, come sopra
esposto, la perdita di poteri maggioritari di controllo da parte del Ministero
del Tesoro è antecedente all’entrata in vigore delle norme in esame. La conclusione
peraltro, dovrebbe essere diversa per quegli enti trasformati in S.p.a.
in cui lo Stato conservi ancora un controllo maggioritario e che, pertanto,
potrebbero ancora oggi ritenersi assimilabili alle categorie di cui all’art. 10
comma 1, in quanto privatizzati in senso formale e non sostanziale.
Tornando al caso in esame, pur non potendosi procedere ad una diretta
assimilazione tra Enel S.p.a. ed enti pubblici assoggettati a procedura di verifica,
tuttavia, occorre tenere conto dei principi di fondo che hanno ispirato
costantemente anche a fronte dell’art. 9 Cost. la normativa dei beni culturali.
Da un lato, dunque, occorre osservare – secondo le considerazioni della
stessa Avvocatura richiedente – che la normativa statale di tutela del patrimo-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 357
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 357
nio culturale assume ad oggetto elettivo ed esclusivo della propria disciplina
il bene culturale, nella sua intrinseca ed oggettiva essenza, più che il dato
soggettivo della sua appartenenza.
A parere della Scrivente il vincolo ex lege che – come si è potuto constatare
attraverso l’esame delle normative di tutela succedutesi nel tempo – assisteva
il bene fin da epoca anteriore alla trasformazione dell’ente pubblico in
soggetto privato non può essere vanificato dalla vicenda della privatizzazione.
Non può cioè ritenersi che il bene, già considerato di interesse culturale
ed assistito, al momento dell’appartenenza all’ente pubblico, da una presunzione
ope legis di culturalità, perda tale connotazione e, per effetto di specifici
provvedimenti normativi (nel caso in esame la legge 359 del 1992 che ha
costituito l’Enel in S.p.a. o il successivo D.Lgs. 79/99) dettati da specifiche
esigenze di politica economica, finisca per l’essere assimilato ad un mero
bene di carattere economico, strumentale agli scopi sociali dell’impresa, liberamente
alienabile e svincolato da ogni regime di tutela (se non ove intervenga
un provvedimento dichiarativo da parte della competente Autorità).
Aderire a tale soluzione significherebbe, in definitiva, accettare l’idea che
alla privatizzazione dell’ente pubblico corrisponda, sul piano della tutela dei
beni culturali, una lacuna del sistema vincolistico dei beni facenti parte del
patrimonio di quell’ente. Una volta sottratti al vincolo operante ex lege detti
beni sarebbero, pertanto, lasciati nella piena disponibilità dei privati proprietari
sino alla successiva eventuale dichiarazione di interesse da parte della
P.A., con ogni evidente nocumento per l’integrità del patrimonio artistico e
culturale nazionale.
Occorre piuttosto considerare, anche alla luce della interpretazione fornita
dalla più autorevole giurisprudenza formatasi negli anni intorno a tali
norme che lo spirito della normativa di tutela del patrimonio culturale – tanto
nella legge del 1939 quanto nei successivi testi unici – è sempre stato orientato
ad offrire il più alto grado di protezione ai beni mobili e immobili di proprietà
pubblica, che rivestano un interesse culturale rilevante, sancendone
quanto più possibile il regime vincolato ex lege.
Anche in aderenza al dettato costituzionale di cui all’art. 9 Cost., dunque,
le connotazioni del bene dovrebbero rimanere insite nel bene culturale in
quanto tale ovvero in quanto segnato ab origine dalle caratteristiche proprie
descritte dalle normative succedutesi nel tempo.
Ciò tanto più ove si tenga conto che il sistema era completato e reso funzionale
– data la vastità dei beni presi a riferimento – da un lato, proprio dal
potere-dovere sostitutivo degli enti non territoriali, chiamati a fornire gli
elenchi dei beni aventi le caratteristiche volute dalla normativa di riferimento
e che sono rimasti per lo più inadempienti a detto obbligo; dall’altro, come
sopra evidenziato, dalla “presunzione di culturalità” ovvero dal valore meramente
dichiarativo dell’elenco, il vincolo operando comunque in ragione dell’appartenenza
all’ ente pubblico inteso in senso più ampio (nel concetto di
enti e istituti legalmente riconosciuti di cui all’art. 4 della legge 1 giugno
1939 n. 1089 essendosi sempre ricompresi anche quelli pubblici economici
(tra i quali, prima della privatizzazione, lo stesso Enel) siccome enti “ che,
pur svolgendo vera e propria attività imprenditoriale, hanno natura pubbli-
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04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 358
cistica e come tali sono tenuti ad indirizzare la propria condotta alla salvaguardia
dei primari interessi della collettività, tra cui quello relativo alla
tutela dei beni di interesse storico ed artistico, non meno degli altri enti pubblici”
(Cons. Stato, VI, n. 640/1995).
I beni in questione, del resto, non sono mai stati sottoposti a procedura di
declassificazione né sembra potersi ricavare tale conseguenza dalle normative
che hanno determinato la privatizzazione di determinati enti. Se, come è
noto, il provvedimento di declassificazione è considerato atto di stretta competenza
ministeriale – essendo frutto della discrezionalità tecnica del
Ministero valutare in un determinato momento storico se, un certo bene, non
risponde più al prevalente interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale
– non si vede come si possa ritenere tale volontà implicitamente espressa,
sia pure in sede legislativa, in provvedimenti normativi improntati ad evidenti
finalità di carattere politico economico che nulla dispongono in ordine
al regime dei beni appartenenti a detti soggetti.
Pertanto, se da un lato il tenore letterale delle disposizioni di cui al
D.Lgs. n. 42/2004 porta con difficoltà a ritenere Enel S.p.a. o le società da
essa integralmente controllate e dedicate alle finalità previste dal decreto n.
79/99 direttamente assoggettate alla procedura di verifica ex art. 12 comma 1
e 10 comma 1, dall’altro, tuttavia, quanto sopra considerato rende altrettanto
inaccettabile l’opposta tesi di considerare la S.p.a. nascente da una vicenda
di privatizzazione svincolata da qualsivoglia normativa di tutela sul bene
fino alla dichiarazione di interesse culturale operata dall’Amministrazione.
Tra le tesi contrapposte, dunque, si potrebbe concludere – come sembra
fare il parere dell’U.L. già menzionato – nel senso che i beni in questione,
ove in possesso delle loro caratteristiche di bene culturale, le conservino
anche con il passaggio al patrimonio della neo-istituita S.p.a. ma siano pur
sempre assoggettati al regime proprio dei beni culturali appartenenti a soggetti
privati (quindi al mero obbligo di denuncia ai fini della prelazione)
oppure, come sembra preferibile date le suesposte premesse, accogliere una
posizione che, ancorandosi sia al dato obiettivo della valenza culturale del
bene sia al fatto della sottoposizione di Enel al regime pubblicistico dei beni
ad esso appartenenti in data anteriore alla sua privatizzazione, ritenga estensibile
a tali situazioni il regime di tutela di cui all’art. 12 comma 9, ovvero
consideri assoggettabili a verifica tutti i beni di proprietà di società commerciali
già costituenti soggetti pubblici sottoposti alla disciplina di tutela in data
antecedente l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 490 del 1999.
Tale ultima tesi appare alla Scrivente più conforme al sistema ed in armonia
con il rilievo costituzionale attribuito alla materia in esame dall’art. 9 Cost.
L’espressione utilizzata dall’art. 12 comma 9 nel disciplinare le conseguenze
del mutamento giuridico dei soggetti cui le cose appartengono non
sembra essere di ostacolo alla tesi qui esposta.
In effetti, se da un lato l’art. 12 delinea una nuova procedura di verifica
tuttavia è possibile affermare che il comma 9 della medesima disposizione,
nel far salvi i mutamenti soggettivi dei proprietari di beni di interesse culturale,
ai fini del mantenimento ope legis del regime vincolistico si riferisca –
quale espressione di un principio già insito nel sistema – a tutti i casi di muta-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 359
04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 359
mento del regime giuridico del soggetto proprietario di beni culturali anche
se già verificatosi alla data di entrata in vigore del Codice Urbani.
Il comma 9 della disposizione in argomento, dunque, non farebbe che
chiarire definitivamente un principio già insito nel sistema facendo sì che le
caratteristiche intrinseche del bene non si perdano nel passaggio dall’una
all’altra normativa.
Si è pienamente consapevoli che una conclusione siffatta, che dà valenza
retroattiva alle specifiche disposizioni transitorie di cui all’art. 12 comma
9 D.Lgs. n. 42 del 2004, appartenga ad una possibile ricostruzione interpretativa
che, in caso di controversia sul punto – possibile anche in relazione a
questioni di validità di atti traslativi dei beni in questione medio tempore
compiuti – potrebbe trovare una possibile smentita sulla base del tenore letterale
della disposizione (che, dicendo “mutino in qualunque modo la loro
natura giuridica” sembra voler escludere gli enti che tale natura abbiano già
mutato) e dare luogo ad un inevitabile contenzioso con gli enti interessati
dagli esiti assai incerti, nel caso in cui codesta Amministrazione intenda portarla
a compimento attraverso ulteriori atti ed iniziative.
D’altra parte, non sembra possibile ignorare la spontanea sottoposizione
alla procedura di verifica da parte delle società interessate che sembra deporre
a favore della bontà degli argomenti utilizzati considerando altresì, sul
piano dell’opportunità e dell’interesse pubblico, che detta soluzione consentirebbe
all’Amministrazione di sottoporre a verifica – e, in tal modo di recuperare
nell’alveo della protezione – beni di significativa importanza culturale
chiarendo una volta per tutte, attraverso l’attivazione della procedura di
verifica, l’effettivo interesse del patrimonio immobiliare di detti enti.
Quanto alle successive determinazioni eventualmente assumibili da
codesta P.A. in conseguenza dei principi suesposti, si rimette alla valutazione
del Ministero – anche nella consapevolezza della linea interpretativa finora
seguita in ossequio al più volte menzionato parere dell’Ufficio Legislativo
ed al rispetto del principio della tutela dell’affidamento dei terzi in buona
fede – se, in concreto, limitare tali ulteriori determinazioni (eventualmente
inerenti possibili declaratorie per nullità degli atti di vendita effettuati da
società solo formalmente privatizzate, in deroga all’effettivo regime di tutela),
ai casi di particolare rilevanza culturale del bene risultante quanto meno
comprovata da dichiarazioni del Ministero ovvero delle competenti
Sovrintendenze.
Ciò anche in considerazione del sopra richiamato indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, diretto a rileggere la presunzione di culturalità dei
beni appartenenti ad enti pubblici (ex art. 4 legge 1089/ 1934 ovvero ex art.
5 D.Lgs. n. 490/99) come non escludente la necessità di un provvedimento
“costitutivo” (sia pure nel limitato significato del carattere pregiato del bene
pubblico) (…)».
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04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 360
ALESSANDRO D’ADDA, «Nullità parziale e tecniche di adattamento del
contratto», Cedam, Padova 2008.
Plasmare il più possibile le potenzialità funzionali delle regole in materia
di nullità parziale del contratto, adeguandone gli effetti alle nuove esigenze
della realtà socio-economica: è questo lo scopo che si propone Alessandro
D’Adda (docente associato di Istituzioni di diritto privato all’Università
Cattolica del Sacro Cuore) nella sua indagine sulla nullità parziale come possibile
strumento di adattamento del contratto.
L’autore, in altri termini, si propone di fornire un’interpretazione evolutiva
delle norme sulla nullità per fornire una convincente risposta al fenomeno,
sempre più frequente, degli squilibri contrattuali ai danni delle “parti deboli”.
Data l’inidoneità dei mezzi tradizionali (rescissione, risoluzione, annullamento),
l’esegeta deve preoccuparsi di rendere funzionali le disposizioni
vigenti alla nuove frontiere teleologiche dell’invalidità negoziale, rimedio
sempre più “preoccupato della ricostruzione e non della distruzione del negozio;
pensato, più che per negare…per conformare il contenuto del contratto”.
L’opera si divide in sei capitoli, in un coerente percorso che parte dal problema
e tenta di offrire delle soluzioni, non sempre appaganti.
Convincenti sono le premesse che l’autore pone nel capitolo introduttivo:
“Il problema: conformazione del contratto e nullità parziale”.
Segue, nei capitoli II e III (“Giudizio di nullità parziale e struttura del
contratto”; “Tra volontà delle parti e comparazione obiettiva di interessi”),
l’indispensabile e pregiudiziale analisi sulle letture tradizionali dell’art. 1419
c.c.. “solo una volta accertato secondo quali canoni si moduli il giudizio di
nullità parziale si potrà valutare il grado di compatibilità tra il regime ordinario
di nullità parziale e le nuove nullità”.
L’elaborazione dottrinale si trasforma in un lungo salto nel passato: si
susseguono le elencazioni classificatorie, con profili comparativi (vedi riferimenti
alla Blue pencil rule inglese e alla nullità parziale nel BGB) e con i
consueti problemi irrisolti, vecchi tre quarti di secolo: cosa si intende per
clausola? Il giudizio di “sufficienza del resto” deve riguardarsi in modo soggettivo
o oggettivo? Tale giudizio va inteso in senso strutturale o con riguardo
agli interessi delle parti?
R E C E N S I O N I
05 recensioni.qxp 06/04/2009 15.17 Pagina 361
D’Adda suggerisce un “frazionamento del giudizio di invalidità parziale”:
ad una prima fase demolitoria farebbe seguito l’adattamento del contratto,
risultante dalla caducazione, ad un nuovo equilibrio negoziale degli interessi
che sia rispettoso di quello originario; “Invero non mancano nel sistema
norme che si preoccupano del venir meno dell’equilibrio negoziale e di
ripristinarlo” (il riferimento è all’art. 1464 c.c.), con lo scopo di ridisegnare
il contenuto negoziale non già in modo giusto, bensì conforme al disegno
delle parti.
Uno scopo, però, frustrato dall’alternativa secca imposta dall’art. 1419:
caducazione dell’intero contratto o conservazione del residuo senza modifiche.
L’autore è tornato al punto di partenza e sembra quasi rassegnarsi: non vi
sono altre strade rispetto al giudizio sulla perdurante utilità del contratto ad
onta dell’eliminazione di una parte del suo contenuto: “Se senza clausola il
contratto non regge, la sua sorte ne verrà irrimediabilmente segnata”.
Né barlumi di speranza provengono dalla antica teoria dell’ “inefficacia
in senso stretto”: i patti abusivi, quando non sono nulli per espressa previsione
del legislatore, lo sono per contrarietà a norme imperative di protezione.
Nullità di protezione testuali e virtuali sono dunque accomunate dal problema
di svincolarsi dalla “roulette russa” dell’art. 1419, quando all’invalidità
di un patto abusivo conseguano carenze strutturali.
È questo il cuore dell’opera, in cui D’Adda si sofferma sulla presunta
impossibilità di ricostruire una disciplina efficace per tutte le invalidità di
protezione, confutando l’asserita necessità di “adeguare il regime della nullità
agli scopi che l’invalidità commina”: in fondo tutte le norme imperative
di protezione, pur rispondendo a rationes diverse, hanno caratteri dogmatici
comuni “poiché sottraggono alle parti la disponibilità di un regolamento
disapprovato in quanto squilibrato”. Un’intuizione, questa, che consente
all’autore di superare il primo gradino della sua scalata.
E così, dopo una divagazione sul rapporto tra “Regole di trasparenza ed
invalidità del contratto” (capitolo V), si torna sul tema principale del libro:
alla comminazione della nullità di patti essenziali può conseguire una correzione
del contratto che tuteli in modo adeguato il contraente debole?
L’indagine perviene finalmente alle sue conclusioni: “la scelta del legislatore
di imporre la salvezza del contratto depurato dalla clausola invalida
– oggi riaffermata dall’art. 36 del codice del consumo, non sempre assicura
la conservazione del contratto”. E allora si impone un’alternativa: non quella
dell’applicazione analogica dell’art. 1339 c.c.., come pure taluno sostiene,
perché ciò produrrebbe un allargamento a dismisura delle fonti eteronome del
regolamento contrattuale, in totale spregio della sacra autonomia negoziale
delle parti. Né, per legittimare la sostituzione, basta invocare l’art. 1374 c.c.,
che dispone un’integrazione del regolamento negoziale per sua natura inapplicabile
alle parti predisposte dai contraenti.
La tecnica di adattamento del contratto suggerita dall’autore è quella
della “sostituzione dispositiva”: essa consiste nell’applicare al contratto proprio
quelle regole dispositive che sono state abusivamente derogate. Ciò alla
stregua di quanto avveniva, ad esempio, nella previgente disciplina sul contratto
usurario.
362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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L’autore, in fine, sembra voler dire: l’ordinamento concede ai privati uno
spazio in cui esplicare la propria autonomia; una volta che essi esorbitano da
questo spazio derogando “in malo modo” alle norme dispositive, ecco che
queste ultime tornano in vita.
Soluzione ardita, che lo stesso D’Adda ammette non essere applicabile in
tutti i concreti casi di patto abusivo. Ma al libro resta il merito di aver approfondito
una tematica “calda”, quella dello “svecchiamento” della nullità e
della sua disciplina normativa.
Dott. Alessandro Nastri(*)
RECENSIONI 363
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
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UNIVERSITÀ DI PISA E UNIVERSITÀ DI FERRARA
Esperimenti di giustizia costituzionale:
il processo simulato sull’aggravante
dell’immigrazione clandestina
a cura di Emanuela Brugiotti(*)
Introduzione
In collaborazione fra il Dottorato di ricerca in Tutela dei diritti e Giustizia
costituzionale dell’Università di Pisa ed il Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale
dell’Università di Ferrara, si è ripetuto nel corso del 2008 il felice
esperimento didattico della simulazione di un giudizio di costituzionalità.
Quest’anno l’argomento della simulazione è stato la cd. aggravante di clandestinità,
prevista all’art. 1, comma 1 lett. f), del recente Decreto legge 23 maggio
2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica. Tale
disposizione modifica il Codice penale, inserendovi all’art. 61, comma 1, il
numero 11-bis, a tenore del quale il reato è da considerarsi aggravato «se il fatto
è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale».
I rispettivi dottorandi delle due facoltà, previamente suddivisi nei diversi
ruoli di giudice remittente, parte privata, parte civile, Avvocatura dello
Stato e Corte costituzionale, hanno affrontato le diverse questioni che la suddetta
modifica legislativa ha posto all’attenzione non solo degli studiosi, ma
della stessa opinione pubblica.
Con questa breve introduzione si illustreranno i punti fondamentali che
sono stati trattati nel corso del processo simulato per darne un quadro sintetico,
così da facilitare la lettura degli atti processuali per l’approfondimento
delle diverse questioni.
D O T T R I N A
(*)Avvocato, Dottoranda in Giustizia costituzionale – Università di Pisa.
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Con ordinanza depositata il 20 settembre 2008 il Tribunale di Pisa-
Ferrara (all.1), sezione prima penale, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co.
1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008 n. 125,
per violazione degli artt. 3, 10 co. 2, 13, 25 co. 2, 27 co. 1 e 3, 35 co. 4, 77 e
117 co. 1 della Costituzione.
In particolare, sulla rilevanza il giudice a quo ha osservato, innanzitutto,
come l’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. preveda una circostanza aggravante
comune, inerente alla persona del colpevole, che trova, quindi, applicazione
per tutti i reati, compresi quelli colposi, una volta che ne sia accertata la sussistenza.
Il Tribunale rimettente ha precisato, inoltre, che anche in presenza di
eventuali circostanze attenuanti, «per operare il bilanciamento ed il conseguente
giudizio di equivalenza o prevalenza [il giudice] dovrebbe preliminarmente
e pregiudizialmente valutare la sussistenza dell’aggravante contestata
e quindi applicare la disposizione di dubbia costituzionalità».
Infine, è stato evidenziato come ulteriore effetto dell’aggravante sarebbe
l’inapplicabilità della sospensione dell’esecuzione della pena, secondo quanto
previsto dall’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p. e come «secondo la prevalente
interpretazione giurisprudenziale (Cass., Sez. I, 6 luglio 2005, Posada
Suescun), perché operi l’accennato effetto preclusivo è sufficiente il giudizio
di sussistenza dell’aggravante, anche se gli effetti di questa, quanto all’aggravamento
di pena, siano poi neutralizzati in ragione del bilanciamento con le
attenuanti».
In via preliminare, il Tribunale Pisa-Ferrara ha poi eccepito che la disposizione
oggetto del giudizio violerebbe l’art. 77, co. 2, Cost., in quanto adottata
dal Governo con decreto-legge (poi convertito in legge) in difetto dei
requisiti di cui al suddetto parametro costituzionale. Infatti, da un lato non
sarebbe ravvisabile collegamento alcuno, in punto di straordinarietà, necessità
e urgenza, tra le premesse di cui all’epigrafe e al preambolo del provvedimento
e la previsione dell’aggravante di cui alla disposizione denunciata –
relativa a reati già presenti nell’ordinamento – e, dall’altro, le circostanze
indicate nel preambolo stesso non potrebbero obiettivamente ritenersi “casi
straordinari di necessità e urgenza”.
Nel merito, il giudice a quo ha ritenuto che la circostanza aggravante
comune prevista dalla disposizione impugnata sia di natura soggettiva, legata
ad uno status amministrativo – quello di straniero non regolarmente presente
sul territorio dello Stato – e, quindi, in alcun modo in connessione
obiettiva con la fattispecie di reato.
Pertanto, lo stesso Tribunale ha reputato che la circostanza di cui all’art.
3 della Costituzione, in quanto farebbe derivare da una mera condizione soggettiva
l’applicazione automatica di effetti penali, «a prescindere dall’apprezzamento
giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto».
Inoltre, la disposizione in oggetto violerebbe l’art. 3 della Costituzione
anche perché «finisce con il prevedere irragionevolmente un diverso trattamento
per i cittadini italiani e stranieri presenti regolarmente sul territorio
366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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italiano rispetto ai cosiddetti clandestini o “irregolari”, a prescindere dalle
loro concrete condotte criminali e/o dalle modalità di esecuzione delle stesse
» introducendo, in questo modo, una «sorta di diversa qualità dell’azione
a seconda di chi la commetta», in palese violazione del principio costituzionale
d’eguaglianza, che «non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino
e quella dello straniero» (sentenza n. 62 del 1994).
Ulteriori profili di incostituzionalità della disposizione in oggetto sono
stati rinvenuti nella violazione dell’art. 13 Cost., in quanto l’aumento di pena
fino ad un terzo rispetto alla pena del reato base comprime eccessivamente e
irragionevolmente la libertà personale; dell’art. 25, co. 2, Cost., che «nel sancire
un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un
fatto impedisce che possa punirsi la mera pericolosità sociale presunta»; dell’art.
27, commi 1 e 3, Cost., «ponendosi in contrasto con il principio di personalità
della responsabilità penale, il quale esclude che la pena possa essere
aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale o di difesa
sociale, indipendentemente dalla valutazione della effettiva personalità del
condannato; con il principio di proporzionalità della pena, il quale postula la
congruità della risposta punitiva rispetto alla gravità concreta del fatto; oltrechè
con le finalità rieducative della pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione
di pene eccessivamente severe in rapporto all’effettiva entità del reato
commesso e della reale tendenza a delinquere». Nell’ordinanza di rimessione
sono stati sollevati, inoltre, dubbi sulla legittimità costituzionale anche in
riferimento agli artt. 10, co. 2, e 117, co. 1, della Costituzione. La disparità di
trattamento introdotta da detta disposizione, infatti, si risolverebbe in una
«irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale
e condizione personale, in violazione di molteplici disposizioni e trattati
internazionali».
Infine, il giudice a quo ha valutato la disposizione denunciata in violazione
dell’art. 35 della Costituzione, configurando essa una discriminazione
tra cittadini italiani e cittadini stranieri. L’art. 35 Cost. tutelerebbe, infatti,
l’emigrazione in generale, quindi, tanto dei cittadini italiani all’estero, quanto
dei cittadini stranieri in Italia.
Così delimitato l’oggetto del giudizio costituzionale nel processo simulato,
i dottorandi, rispettivamente nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato, della
parte civile e della parte privata, hanno redatto gli atti di intervento e successivamente
le memorie conclusionali ai fini di confutare o sostenere quanto
argomentato dal Tribunale (simulato) di Pisa e Ferrara.
In particolare, l’Avvocatura dello Stato (all. 2) ha chiesto che la questione
sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
La difesa erariale, infatti, ha evidenziato in via preliminare ed assorbente
come la questione sia manifestamente inammissibile per difetto di motivazione
«posto che il giudice a quo non ha dato conto di avere operato alcun
tentativo di pervenire a un’interpretazione conforme alla Costituzione della
normativa di riferimento», secondo quanto richiesto dalla consolidata giurisprudenza
costituzionale sul punto ai sensi della quale, in particolare, il sindacato
di costituzionalità potrebbe essere esperito solo se «fosse rimasto
risolvere la controversia al suo esame sulla base della disciplina vigente, in
DOTTRINA 367
06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 367
conformità alla interpretazione che di questa dà la giurisprudenza costituzionale
e quella della Corte di Cassazione» (ordinanza n. 129 del 2007).
Secondo l’Avvocatura dello Stato, inoltre, non solo il tentativo di interpretazione
della norma conforme a costituzione era doveroso, ma vieppiù
possibile. Nell’atto di costituzione, infatti, si è sostenuto che «anche per le
aggravanti comuni l’automaticità dell’applicazione dell’aumento di pena è
subordinata e condizionata a un’interpretazione della norma che consente al
giudice un accertamento in ordine al maggior disvalore del fatto circostanziato
o a una maggiore pericolosità del soggetto agente» (così sarebbe ad esempio
nel caso della circostanza aggravante prevista dall’art. 61, co. 1, n. 9 c.p.)
e che in tale ottica si sarebbe dovuto muovere il giudice a quo nell’interpretare
la disposizione denunciata.
La stessa difesa erariale, inoltre, ha prospettato un’interpretazione conforme
della norma impugnata. In base ad una lettura sistematica dell’aggravante,
alla luce della distinzione tra soggetti e stranieri e tra immigrati irregolari
e immigrati illegali, prevista dal T.U. sull’immigrazione e dalle regole
comunitarie concernenti il libero transito dei cittadini comunitari, si è dedotto
che la condizione di illegalità sul territorio nazionale di cui alla disposizione
denunciata si estenderebbe a tutti i soggetti non cittadini e che questa
sarebbe «subordinata al fatto di essere già stati colpiti, al momento della
commissione del reato aggravato dalla circostanza in esame, da un provvedimento
di espulsione ministeriale, prefettizia o giudiziaria, da un foglio di via
obbligatorio, da un ordine di allontanamento o da un altro provvedimento
amministrativo o giudiziario previsto dalla legge che imponga il loro allontanamento
dal territorio nazionale».
Così interpretata, la nuova circostanza aggravante, da un lato, non intenderebbe
punire lo status di clandestino dell’autore del reato, ma «la sua
volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli nel
rispetto della legge, a tutela dell’interesse generale» e, dall’altro, sarebbe
frutto di una «scelta politica legislativa non irragionevole né discriminatoria,
operando un contemperamento fra i diversi interessi in conflitto».
La difesa erariale ha reputato, inoltre, infondata la questione sollevata
con riferimento anche agli altri parametri indicati nell’ordinanza di remissione
del Giudice a quo.
In particolare, in riferimento all’art. 77 Cost. si è osservato che, alla luce
della giurisprudenza costituzionale, da un lato il vizio invocato può reputarsi
sussistente soltanto qualora risulti evidente e, dall’altro, per valutare l’esistenza
dei casi straordinari di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione
quali requisiti per l’adozione di decreti legge «è necessario tener conto degli
«indici intrinseci ed estrinseci alla 6 disposizione impugnata». Ciò premesso,
risulta evidente per l’Avvocatura dello Stato come nella fattispecie in oggetto
il vizio di legittimità costituzionale denunciato sia insussistente.
Quanto al merito, la difesa erariale ha ricordato che secondo la costante e
consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, l’art. 25, co. 2, Cost.,
«demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena,
delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio»,
scelta che potrebbe essere sindacata in punto di legittimità costituzionale solo
368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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se manifestamente irragionevole, poiché altrimenti il controllo si tradurrebbe
in una «inammissibile ingerenza nelle scelte politiche del legislatore».
Tuttavia, secondo la stessa difesa non può essere mosso un sindacato di
ragionevolezza nei confronti della norma impugnata per diverse ragioni.
In primo luogo, infatti, non è apparso possibile «invocare genericamente
delle alternative alla scelta attuata dal legislatore, poiché, così facendo, si
invade il campo della discrezionalità riservata ad esso»; inoltre, non è sembrato
sufficiente richiamare la sentenza n. 78 del 2007 della Corte costituzionale
per sostenere che le funzioni retributiva, preventiva e rieducativa della pena
non possano trovare bilanciamenti e graduazioni diverse a seconda che il legislatore
persegua il prioritario obiettivo della difesa sociale o piuttosto quello
della risocializzazione del reo, quando siano rispettati i diritti fondamentali.
Inoltre, non solo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.
61, co. 1, n. 11-bis, avanzata dalla stessa Avvocatura, non farebbe derivare
effetti penali sulla base di una mera condizione soggettiva, secondo quanto al
contrario sostenuto dal giudice a quo, ma lo stesso codice penale accoglierebbe
il principio, fatto salvo dalla giurisprudenza costituzionale, in virtù del
quale «alla determinazione della pena concorrono non solo considerazioni
relative alla gravità del reato (ex art. 133, co. 1, c.p.), espressive del disvalore
della condotta, bensì anche valutazioni non immediatamente legate al
“fatto”, inerenti alla personalità del reo (ex art. 133, co. 2, c.p.)».
Infine, non potrebbe essere considerata manifestamente irragionevole «la
scelta del legislatore di prevedere una più intensa sanzione in ragione del
disvalore sociale riconosciuto alla condotta di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p.»,
in considerazione del fatto che, in ragione dell’imponente fenomeno dei flussi
migratori degli ultimi anni, l’opzione legislativa è stata il frutto di una
risposta politica «a fronte dell’aumentata percezione sociale della pericolosità
del fenomeno in questione, ferma restando la garanzia del controllo del
giudice sull’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura».
La difesa erariale ha concluso ritenendo, da un lato, infondate le censure
relative agli artt. 10, co. 2, e 117, co. 1, Cost., in quanto «non viene introdotta
dalla disposizione in oggetto un’“aggravante d’autore” né tanto meno si
crea un’irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine
nazionale e condizione sociale», e, dall’altro, inconferente quella relativa
all’art. 13 Cost., perché sostenuta in relazione all’art. 656, co. 9, lett. a) c.p.p.,
disposizione sulla quale non è stato sollevato dal Tribunale remittente dubbio
alcuno di legittimità costituzionale.
La parte privata, costituitasi in giudizio (all. 3), ha condiviso pienamente
le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione, chiedendo, quindi, che la
norma denunciata venga dichiarata costituzionalmente illegittima.
In particolare, secondo la suddetta difesa la nuova circostanza aggravante
violerebbe gli artt. 25, co. 2, e 3 Cost. in quanto l’eventuale aumento di
pena «venendo a dipendere non già dalla gravità oggettiva del fatto o da considerazioni
sulla concreta pericolosità sociale del condannato, quanto dal
mero status soggettivo di clandestinità del reo, poggia sull’infondato ed irragionevole
assunto criminologico secondo il quale l’immigrato clandestino
sarebbe, per ciò solo, spiccatamente propenso a delinquere».
DOTTRINA 369
06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 369
La norma impugnata, pertanto, sarebbe in evidente contrasto con i principi
di materialità e offensività di cui all’art. 25, co. 2, Cost.
L’applicazione della nuova circostanza aggravante sarebbe poi in palese
violazione del principio d’eguaglianza poiché produrrebbe necessariamente
un irragionevole diverso trattamento sanzionatorio, venendo la medesima
condotta diversamente punita «a seconda che l’autore del reato si trovi in territorio
nazionale regolarmente o irregolarmente».
Sempre secondo la difesa dell’imputato, inoltre, l’art. 61, co. 1, n. 11-bis
c.p. violerebbe l’art. 27, co. 3, Cost., in quanto in contrasto «sia con le finalità
costituzionali della pena, sia con il principio di proporzionalità della sanzione
rispetto al fatto, che della funzione risocializzante rappresenta un
implicito corollario».
Infine, la disposizione denunciata comprimerebbe eccessivamente il
diritto alla libertà personale di cui all’art. 13 Cost., dal momento che «almeno
nel suo nucleo irriducibile [esso] deve essere garantito anche a coloro che
non sono forniti di un regolare permesso di soggiorno».
A sua volta costituitasi in giudizio, la parte civile (all. 4) nel giudizio a
quo, ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile o comunque
infondata.
La stessa ha sostenuto, infatti, in primo luogo, come il Tribunale remittente
non abbia sufficientemente motivato in punto di rilevanza, dal momento
che il giudizio di sussistenza dell’aggravante è un giudizio discrezionale
del giudice del dibattimento, «il quale può ben valutare che la circostanza de
qua non assurga in realtà ad aggravante del reato, non essendo invero necessario
pensare che l’esistenza della condizione di straniero “illegale” si configuri
sempre e comunque come circostanza che determina la maggiore gravità
del fatto imputato e potendosi, invece, alle volte ritenere che la detta circostanza
non incida in alcun modo sulla gravità del reato».
In secondo luogo, si è osservato che tutti i profili di illegittimità addotti
sarebbero in realtà collegati in quanto tutti derivanti «dall’erroneo presupposto
interpretativo secondo cui l’art. 61, n. 11-bis c.p. troverebbe automatica
ed indiscriminata applicazione a carico degli stranieri irregolari che abbiano
commesso un reato, “a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa
la concreta pericolosità sociale del soggetto”».
Al contrario, mediante una interpretazione costituzionalmente orientata,
il giudice a quo avrebbe dovuto ritenere, anche in considerazione di quanto
stabilito dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 192 del 2007 in
materia di recidiva reiterata, che la disposizione oggetto del giudizio impone
al giudice, «un’analisi in concreto circa le modalità con cui lo straniero ha
perpetrato l’illegittima permanenza nello Stato, in modo da applicare l’aggravamento
di pena ogni qual volta la condotta risulti sintomatica di una pericolosa
indifferenza ai beni protetti se non addirittura di sprezzo per l’ordinamento
». Il fatto che il giudice a quo abbia omesso di valutare tale opzione
ermeneutica è sufficiente, a parere della parte civile, perché la Corte dichiari
inammissibile la questione.
Infine, come l’Avvocatura dello Stato, anche la parte civile ha ritenuto
non fondate le eccezioni di incostituzionalità in riferimento all’art. 77 Cost.
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Successivamente, come di rito, le parti hanno depositato le rispettive
memorie conclusionali.
Con il suddetto atto, la difesa erariale ha contestato quanto sostenuto
dalla parte privata in relazione alla supposta violazione del principio d’eguaglianza,
per il fatto di produrre l’aggravante un irragionevole diverso trattamento
sanzionatorio tra soggetti che pongono in essere la medesima condotta
materiale, poiché ragionando in tal senso si finirebbe per «mettere in
discussione l’esistenza stessa delle aggravanti».
Parimenti infondata sarebbe la censura sotto il profilo della ragionevolezza,
laddove si rimprovera all’aggravante in questione l’inidoneità nel raggiungimento
del fine di contenere l’immigrazione clandestina, in quanto in tal modo
si opererebbe un sindacato nel merito di una scelta politica del legislatore.
L’Avvocatura dello Stato ha poi ribadito che, stante l’interpretazione
conforme a Costituzione proposta nel proprio atto di intervento, l’aggravante
prevista dalla disposizione denunciata non sanziona assolutamente lo status
di clandestino bensì, diversamente, la disobbedienza ad un ordine legale
di allontanamento dal territorio nazionale.
La parte privata, invece, ha reputato innanzitutto prive di fondamento le
osservazioni della parte civile sulla rilevanza, dal momento che «la legge
impone al giudice, una volta sussistenti gli elementi costitutivi della circostanza,
di applicare quest’ultima, non prevedendo spazio alcuno di discrezionalità
valutativa».
Sempre secondo la parte privata sarebbero prive di fondamento sia l’eccezione
riguardante il mancato tentativo di interpretazione conforme da parte
del giudice a quo, in quanto la circostanza aggravante in oggetto non darebbe
spazio per alcuna «discrezionalità valutativa» sia le possibili interpretazioni
conformi della normativa in oggetto prospettate dalla parte civile e
dall’Avvocatura dello Stato, in quanto « o erroneamente estendono in via
analogica quanto stabilito da questa Corte in materia di recidiva reiterata o
perché basate su una insussistente distinzione, che sarebbe posta dal T.U. in
materia di immigrazione, tra stranieri irregolari e stranieri illegali».
La parte civile, infine, ha insistito sull’errata interpretazione della norma
impugnata operata dal giudice a quo e sul mancato tentativo di interpretazione
conforme da parte dei quest’ultimo. In particolare, si è evidenziato che
l’eventuale aggravamento di pena non deriverebbe dal mero status di clandestino,
bensì dal fatto che il soggetto avrebbe già dimostrato «disprezzo per le
regole giuridiche del nostro ordinamento non rispettando le norme in materia
di ingresso e in materia di soggiorno sul nostro territorio nazionale».
Da questa breve introduzione agli atti del processo simulato in oggetto si
evince come la questione sia di particolare interesse in quanto coinvolgente
argomenti di sicura rilevanza nel nostro ordinamento giuridico, tra l’altro
sempre più predisposto ad aprirsi alle influenze della giurisprudenza delle
Corti europee, soprattutto in tema di tutela dei diritti fondamentali.
Il bilanciamento fra la discrezionalità del legislatore, il principio di ragionevolezza,
il diritto di uguaglianza ed il dovere di interpretazione conforme
in capo al giudice a quo, sono i nodi fondamentali attraverso cui si snodano
le diverse argomentazioni delle parti nonché la motivazione della decisione
della Corte costituzionale similata (all. 5).
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La stessa, infatti, in via preliminare ha ritenuto non fondata la censura
mossa dal giudice remittente in merito all’art. 77 in quanto, come più volte
affermato «il sindacato sull’esistenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza,
che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge – e il Parlamento
a convertirli – può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti
stessi. Nella specie, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla
disposizione impugnata deve ritenersi non sussistente il denunciato vizio».
Successivamente ha ritenuto la questione ammissibile riguardo al mancato
tentativo di interpretazione conforme.
Secondo la Corte costituzionale, invero, «pur in mancanza di una esplicita
indicazione dell’esperimento di detto tentativo, a voler leggere correttamente
l’ordinanza di promovimento non si può che osservare come il
Tribunale rimettente abbia in verità tentato di dare alla disposizione impugnata
una lettura costituzionalmente orientata». Viene, quindi, rilevanza ad
una sorta di “interpretazione conforme implicita” compiuta dal giudice a quo
nell’ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Si tenga presente, inoltre, che l’assunto argomentativo del giudice remittente
parte tutto dal presupposto interpretativo che il termine “soggetto” ed il
termine “illegalmente” siano da intendersi esclusivamente come “extracomunitario”
e “irregolarmente”.
I Giudici della Consulta non hanno ritenuto, invece, condivisibili, i tentativi
di interpretazione conforme proposti dall’Avvocatura dello Stato e dalla
parte civile.
In primo luogo, alla Corte non è parso estensibile quanto dalla stessa
sostenuto nella sentenza n. 192 del 2007, merito alla recidiva reiterata: a
parere della Corte simulata «la discrezionalità, per il giudice, nell’applicare
o meno l’aumento di pena nel caso della recidiva reiterata» – infatti – «si è
potuta riconoscere riconducendo tale istituto alla figura generale della recidiva
prevista dall’art. 99, co. 1, c.p., il che implica, di conseguenza, che «la
struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata
». «Diversamente, l’art. 61 c.p., nel disciplinare le circostanze aggravanti
comuni, tra le quali è stata ora inserita quella di cui alla disposizione oggetto
del presente giudizio, non lascia al giudice alcuna possibilità di operare
valutazioni discrezionali sul “se” applicare l’aggravante, essendo questi libero
solamente nello stabilire la misura dell’aumento di pena»
In secondo luogo, i Giudici hanno respinto l’interpretazione dell’aggravante
in oggetto, dedotta dalla difesa erariale, in quanto «i sensi degli artt. 235 e
312 c.p. e degli artt. 13, co. 13 e 13-bis, e 14, co. 5-ter e 5-quater, del T.U. in
materia di disciplina dell’immigrazione, lo straniero che viola un provvedimento
d’allontanamento dal territorio nazionale commette un illecito penale. Di
conseguenza, la condotta che secondo l’interpretazione prospettata dall’Avvocatura
integrerebbe la condizione d’illegalità prevista dalla disposizione oggetto
del presente giudizio integrerebbe altresì, a seconda di quale tipo di provvedimento
d’allontanamento sia stato violato, le diverse fattispecie di reato cui si
è fatto riferimento. Poiché, però, ai sensi dell’art. 61, co. 1, c.p. le circostanze
aggravanti comuni possono aggravare il reato solo quando non ne siano elementi
costitutivi o circostanze aggravanti speciali, se si seguisse l’interpretazio-
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ne proposta dalla difesa erariale l’art. 61, co. 1, n. 11-bis non potrebbe mai essere
applicato, dovendosi se del caso contestare uno dei suddetti reati».
Tuttavia, pur condividendone il risultato, si osserva che la Corte non abbia
forse dato conto nella propria motivazione anche dell’altro presupposto posto
a fondamento dell’interpretazione prospettata dall’Avvocatura, ovvero il termine
“soggetto”, «utilizzato dal legislatore in luogo di quello di “straniero”,
previsto invece dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione giuridica dello straniero».
Secondo la difesa erariale, infatti, « la scelta non è ovviamente casuale,
dato che l’art. 1 T.U. indica con il termine straniero sia il cittadino di Stato
non appartenente all’Unione Europea (extra-comunitario), sia la persona
priva di cittadinanza (apolide).
Con il sostantivo “soggetto”, perciò, secondo la difesa erariale il legislatore
avrebbe voluto estendere l’ambito di applicabilità della disposizione non
solo agli extracomunitari ed agli apolidi, ma anche a tutte le altre persone che
non hanno cittadinanza italiana».
In tal modo, se ai sensi dell’art. 61, co. 1, c.p. la circostanza in oggetto
non sarebbe applicabile agli extracomunitari e agli apolidi, in quanto il fatto
previsto dalla norma costituisce autonoma figura di reato ai sensi degli artt.
235 e 312 c.p. e degli artt. 13, co. 13 e 13-bis, e 14, co. 5-ter e 5-quater, del
T.U. in materia di disciplina dell’immigrazione, lo stesso sarebbe, invece,
applicabile ai cittadini comunitari. Si verrebbe, quindi, a configurare probabilmente
un rapporto di specialità / sussidiarietà fra norme penali.
La Corte ha proseguito, quindi, rinvenendo «il vizio di illegittimità costituzionale
per mancanza di ragionevolezza [della norma in oggetto] poiché
assumendo a sintomo di pericolosità sociale la presenza irregolare sul territorio
nazionale – «grave problema sociale, umanitario ed economico che
implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze
generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche
diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti
che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione» lo
ha definito questa Corte nella recente sentenza n. 22 del 2007 – si stabilisce
una norma assolutamente eccentrica rispetto alla logica del sistema delle circostanze,
che impone al giudice un aumento di pena in presenza di un fatto
assolutamente privo di una maggiore carica offensiva».
Inoltre, secondo i Giudici la norma «si pone in contrasto innanzitutto con
il principio d’eguaglianza – poiché fatti aventi lo stesso disvalore penale sono
puniti irragionevolmente in maniera diversa – e, poi,con la funzione rieducativa
della pena». Quest’ultima, in particolare, sarebbe “obliterata” nella
norma in esame «da una palese eccedenza del sacrificio della libertà personale
in proporzione all’offesa recata dalla condotta punibile».
La Corte costituzionale simulata, è giunta, così, ad accogliere l’eccezione
di costituzionalità sottoposta al suo giudizio, dichiarando l’illegittimità
costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co.
1, lett. f) del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio
2008, n. 125.
DOTTRINA 373
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Inoltre, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, i Giudici costituzionali
hanno dichiarato l’illegittimità in via consenguenziale, anche all’art.
656, co. 9, lett. a), c.p.p., come modificato dall’art. 2, lett. m), della legge 24
luglio 2008, n. 125, « limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante
di cui all’articolo 61, primo comma, 11-bis), del medesimo codice»
perché, una volta caducata la disposizione oggetto del presente giudizio, questa
non ha alcuna autonomia applicativa (cfr. sentenza n. 24 del 2004)».
ALLEGATI: 1.- Repubblica italiana – Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale –
Procedimento n. 1234/2008 Registro Generale Notizie di Reato – n. 567/2008 Registro
Generale Tribunale. 2.- Avvocatura Generale dello Stato – Corte costituzionale – Atto di
intervento per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. 3.- Corte costituzionale – R.G.
1/2008 – Udienza 4 novembre 2008 – Memoria illustrativa. parte privata 4.- Corte costituzionale
Atto di costituzione ai sensi dell’art. 25, II co., l. 11 marzo 1953, n. 87, e dell’art. 3,
norme integrative parte civile. 5.- Corte costituzionale, sentenza 1 dicembre 2008 n. 411.
(All.1)
Repubblica italiana – Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale –
Procedimento n. 1234/2008 Registro Generale Notizie di Reato – n. 567/2008 Registro
Generale Tribunale – nei confronti di: 1) Mohamed Vucumbrè, nato in Senegal il 5 gennaio
1983, domiciliato in Pisa-Ferrara, Via Buia, 56 (Avv.ti Viviana Zanetti, Costanza Bianchi,
Alberto Randazzo); 2) Carmine Sfruttatori, nato a Bergamo il 20 marzo 1954, residente in
Pisa-Ferrara, Via De Destinis, 64 (Avv.ti Michele Ghedini e Rolando Bossi).
Imputati
A) del delitto previsto e punito dagli artt. 113, 589 c.p. perché, in cooperazione tra loro,
per colpa, cagionavano la morte di Gerolamo Sfortunati; in particolare Mohamed Vucumbrè,
nell’eseguire alcuni lavori di giardinaggio per conto di Carmine Sfruttatori, impiegava una
falciatrice elettrica con cavo logoro e non munito di congruo isolamento quale tubo o guaina,
posizionando detto cavo, per un tratto, anche sulla pubblica via; Carmine Sfruttatori consentiva
al Mohamed l’impiego di detto utensile pericoloso e l’allaccio al proprio impianto
elettrico, privo di interruttore differenziale e non rispondente a numerose altre prescrizioni
antinfortunistiche per il settore degli impianti elettrici negli edifici civili; Gerolamo
Sfortunati, transitando per la via De Destinis, veniva accidentalmente in contatto con il cavo
elettrico in tensione, rimanendo folgorato.
B) Per il solo Mohamed Vucumbrè con l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. per
aver commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale, in quanto cittadino
straniero in possesso di un permesso di soggiorno scaduto.
In Pisa-Ferrara, il 20 agosto 2008.
Parti civili costituite
Addolorata Rossi in Sfortunati, Elena Sfortunati, Francesco Sfortunati, rappresentate e
difese dagli Avvocati Donato Messineo e Marco Croce.
«Il Tribunale in composizione monocratica riunito in camera di consiglio nella persona
del Giudice Dott.ssa Chiara Testafine ha pronunziato la seguente ordinanza
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Premesso in fatto:
- che Mohamed Vucumbrè e Carmine Sfruttatori erano rinviati a giudizio per il reato
indicato in epigrafe;
- che Addolorata Rossi in Sfortunati, Elena Sfortunati, Francesco Sfortunati (rispettivamente
moglie e figli di Gerolamo Sfortunati) si costituivano tempestivamente parti civili, per
il ristoro dei danni subiti;
- che Mohamed Vucumbrè ha reso dichiarazioni di contenuto confessorio;
- che il Pubblico Ministero ha ritualmente contestato a Mohamed Vucumbrè l’aggravante
di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008
n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125;
- che Mohamed Vucumbrè risulta in effetti privo del necessario permesso di soggiorno
e quindi, al momento del fatto, si trovava “illegalmente sul territorio nazionale”, in quanto
entrato in Italia con permesso di soggiorno annuale per motivi di lavoro scaduto in data 11
ottobre 2007 e non rinnovato;
- che Mohamed Vucumbrè è stato identificato con certezza in base ai documenti dallo
stesso esibiti ed ai rilievi foto-segnaletici eseguiti;
- che Mohamed Vucumbrè, pur essendo di fatto presente da un periodo apprezzabile nel
territorio italiano (vedi deposizione dei testi Don Gino Findibene e del Maresciallo Carlo
Vigilante), non risulta avere riportato alcuna condanna, né risultano pendenti a suo carico
procedimenti penali; non è stato destinatario di alcun provvedimento di espulsione (vedi
informazioni della Questura) e si mantiene svolgendo lavori quali giardiniere, facchino,
muratore;
- che questo tribunale dubita della legittimità costituzionale dell’aggravante di cui
all’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92,
convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, in relazione agli articoli 3; 10,
comma secondo; 13; 25, comma secondo; 27, commi primo e terzo; 35, comma quarto; 77
e 117, comma primo, della Costituzione;
Ritenuto, quanto alla rilevanza:
- che, come esposto, all’imputato Mohamed Vucumbrè è stata ritualmente contestata
l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23
maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125;
- che Mohamed Vucumbrè risulta in effetti privo del necessario permesso di soggiorno
e quindi, al momento del fatto, si trovava “illegalmente sul territorio nazionale”;
- che, trattandosi di “circostanza aggravante comune”, “inerente alla persona del colpevole”,
trova applicazione, ex artt. 61 e 118 c.p., per tutti i reati, compresi quelli colposi e, in
caso di concorso o cooperazione colposa, deve essere valutata “soltanto riguardo alla persona
cui si riferisce”;
- che, in sede di esecuzione della pena, troverebbe altresì applicazione l’articolo 656,
comma 9, lett. a), c.p.p. secondo cui, dopo la novella introdotta dall’art. 2, lett. m), della già
accennata L. 24 luglio 2008 n. 125, “la sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 non
può essere disposta: a) nei confronti di condannati [...] per i delitti in cui ricorre l’aggravante
di cui all’articolo 61, primo comma, 11-bis), del medesimo codice [ndr, c.p.]”;
- che l’eventuale mancata applicazione dell’aumento di pena in virtù della concessione
delle attenuanti, in particolare quelle di cui all’art. 62-bis c.p., impone, comunque, ai fini di
un corretto svolgimento del giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p., di considerare
nel computo la citata aggravante ex art. 61, n. 11-bis, c.p.;
DOTTRINA 375
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- che quindi, anche in presenza di eventuali circostanze attenuanti, questo giudice, per
operare il bilanciamento ed il conseguente giudizio di equivalenza o prevalenza, dovrebbe
preliminarmente e pregiudizialmente valutare la sussistenza dell’aggravante contestata e
quindi applicare la disposizione di dubbia costituzionalità;
- che l’effetto dell’aggravante de qua è rappresentato non solo dall’aumento della pena
(che, come si è detto, potrebbe essere eventualmente neutralizzabile in sede di giudizio di
bilanciamento), ma anche dalla conseguente inapplicabilità della sospensione dell’esecuzione
della pena, in applicazione del “nuovo” testo dell’articolo 656, comma 9, lett. a), c.p.p.;
- che, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale (Cass., Sez. I, 6 luglio
2005, Posada Suescun), perché operi l’accennato effetto preclusivo è sufficiente il giudizio
di sussistenza dell’aggravante, anche se gli effetti di questa, quanto all’aggravamento di
pena, siano poi neutralizzati in ragione del bilanciamento con le attenuanti;
- che la disposizione di dubbia costituzionalità, in relazione alla rituale contestazione
dell’aggravante operata dal Pubblico Ministero ed alle risultanze di fatto come esposte in
premessa, trova applicazione nel presente giudizio, ha incidenza nel suo esito e l’eventuale
accoglimento della questione di costituzionalità determinerebbe un mutamento nel quadro
normativo di riferimento;
- che, quindi, il giudizio “non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione
della questione di legittimità costituzionale”.
Ritenuto, quanto alla non manifesta infondatezza:
In via preliminare
- che l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L.
23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, viola
l’art. 77, secondo comma, Cost. il quale dispone che solo in casi straordinari di necessità e
d’urgenza il Governo può adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con
forza di legge, da presentare il giorno stesso alle Camere per la conversione;
- che in riferimento alla decretazione d’urgenza la Corte ha infatti affermato il principio
secondo cui il difetto, in capo al decreto legge, dei requisiti della straordinarietà, necessità
e urgenza di cui al citato art. 77, secondo comma, Cost., una volta intervenuta la conversione,
si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge, escludendo con ciò,
l’eventuale efficacia sanante di quest’ultima, dal momento che “affermare che tale legge di
conversione sana in ogni caso i vizi del decreto, significherebbe attribuire in concreto al
legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del
Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (sentenze nn. 29 del
1995, 171 del 2007 e 128 del 2008);
- che, infatti, nonostante l’epigrafe del provvedimento reciti “Misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica” e il preambolo chiarisca che si è “Ritenuta la straordinaria
necessità e urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo più
efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale
e alla criminalità organizzata”, nessun collegamento, in punto di straordinarietà, necessità
e urgenza, è tuttavia ravvisabile tra tali premesse e la previsione dell’aggravante di cui
all’art. 61 n. 11-bis c.p. relativa a reati già presenti nell’ordinamento, ed il cui collegamento
con il fenomeno della immigrazione illegale non è oggettivo ma esclusivamente legato
allo status del reo;
- che a tal proposito la Corte costituzionale, nella sentenza 2 febbraio 2007, n. 22, con
riferimento al problema della immigrazione clandestina, ha affermato che “si tratta di un
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grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa
non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili
o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e
di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione”;
- che, peraltro, le circostanze indicate nel preambolo del decreto non possono obiettivamente
ritenersi “casi straordinari di necessità e urgenza”, e anzi – a tacersi della generale
disomogeneità dell’intero provvedimento – lo stesso preambolo addirittura contrasta con la
ratio che ispira il resto delle misure adottate.
Ritenuto inoltre:
- che l’art. 61, n. 11-bis, c.p., come introdotto dal D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito
con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, introduce un aggravante comune
(applicabile alla generalità dei reati, compresi quelli colposi), di natura soggettiva, legata ad
uno status amministrativo (straniero non regolarmente presente sul territorio dello Stato);
- che nel caso di specie, considerata la natura colposa del reato, le concrete modalità del
fatto, la condotta processuale pienamente collaborativa del Vucumbrè, l’assenza di precedenti
penali od anche solo di altri procedimenti pendenti, lo svolgimento di attività lavorativa,
non può formularsi, in concreto, una prognosi di pericolosità sociale;
- che la condizione soggettiva di straniero presente illegalmente sul territorio nazionale
(e, quindi la violazione delle relative prescrizioni di carattere amministrativo) non risulta
essere in alcun modo in connessione obbiettiva con la fattispecie di reato (come invece
avviene, ad esempio, per le aggravanti ex 589, comma secondo, c.p., relative alla violazioni
delle norme sulla circolazione stradale o sugli infortuni sul lavoro);
- che l’imputato Vucumbrè, pur avendo avuto nella causazione dell’evento una responsabilità
pari, se non minore, del concorrente Sfruttatori può, all’esito del giudizio, essere
condannato ad una pena maggiore per effetto della contestata aggravante (con l’ulteriore,
deteriore, conseguenza di non poter fruire, a differenza del coimputato, della sospensione
dell’ordine di esecuzione ex 656, comma nono, lettera a) c.p.p.);
- che l’aggravante contestata all’imputato Mohamed Vucumbrè è dovuta al solo fatto
che è uno straniero illegalmente presente nel territorio nazionale e quindi l’aggravamento
della pena è collegato al solo status amministrativo (straniero senza permesso di soggiorno),
a prescindere dal nesso esistente tra lo status amministrativo e la condotta penale;
- che l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. viola quindi il principio di ragionevolezza
sancito dall’art. 3 della Costituzione in quanto fa conseguire da una mera condizione
soggettiva l’automatica applicazione di effetti penalmente rilevanti, a prescindere dall’apprezzamento
giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto;
- che questa applicazione automatica di effetti penali denota una presunzione di pericolosità
sganciata da un parametro obiettivo di riferimento, che dovrebbe essere offerto, come
già detto, quantomeno da un accertamento giudiziale eventualmente rivelatore dell’inclinazione
a delinquere;
- che al riguardo, la Corte costituzionale, nella già citata sentenza 2 febbraio 2007, n.
22, ha rilevato che la condizione di straniero irregolare in quanto tale non può essere associata
a una presunzione di pericolosità e con questo il giudice delle leggi evidenzia l’impossibilità
di far conseguire da una mera condizione soggettiva l’automatica applicazione di
effetti penalmente rilevanti, a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta
pericolosità sociale del soggetto;
- che la “condizione soggettiva” del “mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza
nel territorio dello Stato […] di per sé, non è univocamente sintomatica [...] di una par-
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ticolare pericolosità sociale” (così, testualmente, Corte cost. 16 marzo 2007 n. 78, che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio
dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure
alternative da essi previste, osservando in motivazione che: “un simile divieto contrasta con
gli stessi principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla scorta dei principi costituzionali
della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e
27, terzo comma, della Costituzione), non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento
sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale”);
- che, anche con riferimento alla recidiva reiterata (e, quindi alla accertata commissione
di plurimi precedenti reati) la Corte costituzionale ha chiarito che l’aumento di pena è in
ogni caso facoltativo escludendo, con una interpretazione costituzionalmente orientata, ogni
automatismo o presunzione assoluta di pericolosità sociale ed evidenziando che “il giudice
applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo
episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di
commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen.
– sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo”
(vedi Corte Cost. 14 giugno 2007 n. 192); di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra
con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio
di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’articolo 69, quarto comma, c.p.
– unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente
idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede;
mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo
con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti;
- che è evidente che in questo caso si è ritenuto che il divieto di prevalenza delle attenuanti
non può operare automaticamente per effetto della sola commissione del reato da
parte di chi era recidivo, ma che esso deve essere subordinato alla concreta contestazione
dell’aggravante operata discrezionalmente dal giudice;
- che con riguardo al caso oggetto della presente ordinanza, l’aggravante della condizione
di straniero che si trova illegalmente sul territorio nazionale, come la recidiva, è circostanza
fondata su uno status soggettivo del reo; tuttavia, a differenza dell’aggravante della
recidiva reiterata, l’ipotesi di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. non postula la commissione di un
reato, ma una situazione costituente una mera violazione di legge; in altri termini, il fatto che
il reo già in passato abbia commesso un reato può certo deporre in alcuni casi per una accresciuta
pericolosità dello stesso, rafforzando talora il disvalore penale della condotta posta
successivamente in essere, ma lo stesso non può affermarsi con riguardo all’aggravante di
cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., dato che la condizione di straniero che si trova illegalmente sul
territorio nazionale è una circostanza tendenzialmente irrilevante ai fini del disvalore dell’azione,
desunta dagli elementi della gravità del reato e della capacità a delinquere del reo;
- che l’aggravante in questione viola l’art. 3 della Costituzione anche sotto un ulteriore
profilo in quanto finisce con il prevedere irragionevolmente un diverso trattamento per i
cittadini italiani e stranieri presenti regolarmente sul territorio italiano rispetto ai cosiddetti
clandestini o “irregolari”, a prescindere dalle loro concrete condotte criminali e/o dalle
modalità di esecuzione delle stesse, introducendo una sorta di diversa qualità dell’azione a
seconda di chi le commetta, e per il solo fatto che tale soggetto sia anche autore di un illecito
amministrativo totalmente slegato dalla condotta criminale;
378 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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- che questa differenza di trattamento è infatti unicamente imperniata sulle qualità personali
dell’autore del fatto, cioè su elementi soggettivi che mal si attagliano ad un diritto
penale imperniato sul disvalore oggettivo del fatto;
- che, come è stato già chiarito, “per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia
della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i
problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può
risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari
degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto
partecipi di una determinata comunità politica ma in quanto esseri umani” (sul punto vedi
Corte Cost. sentenza 10 aprile 2001, n. 105, paragrafo 4 della parte motiva);
- che la Corte costituzionale con sentenza 24 febbraio 1994, n. 62, ha altresì affermato
che: “quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo, qual è nel caso la
libertà personale, il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni
fra la posizione del cittadino e quella dello straniero”; come del resto, espressamente
affermato anche nell’art. 2 del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero,
il quale prevede che: “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello
Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di
diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale
generalmente riconosciuti”;
- che da ultimo, in motivazione, la Corte costituzionale, con sentenza 16 maggio 2008,
n. 148, ha inoltre affermato che: “lo straniero è anche titolare di tutti i diritti fondamentali
che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (si vedano, per tutte, le sentenze n. 203
del 1997, n. 252 del 2001, n. 432 del 2005 e n. 324 del 2006). In particolare, per quanto qui
interessa, ciò comporta il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza,
espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di
tutte le posizioni soggettive. Peraltro, come questa Corte ha più volte affermato, «la regolamentazione
dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata
alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità
pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in
tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il
quale possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità
a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli
» (si vedano, per tutte, la sentenza n. 206 del 2006 e, da ultimo, l’ordinanza n. 361
del 2007)” ;
- che il carattere irragionevole di questa differenziazione si fonda altresì sul dato che la
pena più severa prevista per i reati commessi dagli stranieri che si trovano illegalmente sul
territorio nazionale non trova alcuna apprezzabile giustificazione nel quadro dei valori e
principi di una democrazia personal-solidaristica e non è nemmeno ravvisabile in ragione di
una presunta maggiore lesività dei fatti o, quantomeno, di una connessione con le ragioni
costitutive dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma che incrimina il reato-base;
- che, quand’anche lo status di irregolare sul territorio nazionale sia apprezzato come
dimostrativo di una maggiore intensità della “ribellione” all’ordinamento da parte del soggetto,
esso, per non dare luogo ad aumenti di pena irragionevoli, irrazionali, e sproporzionati,
andrebbe almeno diversamente valutato a seconda che discenda (seguendo la tipizzazione
di cui all’art. 13, comma secondo, del D.lgs. 286/1998, “Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) da: a)
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ingresso nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera; b) soggiorno nel territorio
dello Stato senza aver richiesto il relativo permesso nei termini prescritti; c) mancato
rinnovo del permesso di soggiorno, ovvero riguardi un cittadino comunitario le cui condizioni
di ingresso e soggiorno sono regolate dal D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, “Attuazione della
direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare
e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”;
- che quindi la disposizione, sancendo un aumento di pena per qualsiasi reato commesso
dal soggetto che genericamente si trovi “illegalmente” sul territorio dello Stato equipara
situazioni obbiettive assai diverse, rivelandosi intrinsecamente irragionevole;
- che, in sintesi, se anche ammettessimo che lo status amministrativo di irregolare denotasse
una condizione di “pericolosità”, essa dovrebbe essere valutata caso per caso in riferimento
a ciascuna delle tre citate situazioni non assimilabili tra loro, pena la mancanza di
ragionevolezza e proporzionalità di un’aggravante che, concepita per attribuire maggiore
gravità ad un fatto in ragione della maggiore pericolosità del soggetto, finirebbe, in caso di
applicazione automatica, con il prescindere completamente dalla valutazione circa la concreta
pericolosità di detto soggetto;
- che pertanto, in stretta connessione con quanto sopra affermato, l’aggravante in questione
si pone in contrasto anche con l’art. 13 della Costituzione, in quanto l’aumento di
pena fino ad un terzo rispetto alla pena del reato base, in uno con l’irragionevole e irrazionale
impossibilità, giusto il “nuovo” art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., di accedere alla
sospensione dell’esecuzione della pena, senza che vi possa essere un qualsiasi discrezionale
apprezzamento da parte dell’organo giurisdizionale, comprime eccessivamente, ed in modo
irragionevole e irrazionale, la libertà personale;
- che, infatti, nella stigmatizzazione punitiva della irregolarità del soggiorno in sé, tale
aggravante distorce la funzione dello strumento penale, piegato a sottolineare irragionevolmente
disvalori soggettivi anziché la maggiore rilevanza negativa di forme di aggressione a beni
giuridici, tale da giustificare una più intensa compressione del diritto alla libertà personale;
- che l’aumento di pena previsto nell’art. 61 n. 11-bis c.p. viola anche l’art. 25, comma
secondo, Cost., che sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione
di un fatto, impedendo così che si punisca la mera pericolosità sociale presunta o l’atteggiamento
interiore del reo;
- che l’aggravante in questione sposta infatti il fulcro del giudizio penale dal fatto
all’autore, dato che, rispetto alle aggravanti comuni si deve accertare se esse rispondono o
meno al principio di offensività (v. sentenze nn. 265 del 2005 e 519 del 2000 della Corte
costituzionale);
- che, infatti, per una evenienza del tutto estranea al fatto di reato e di per sé non rivelatrice
di pericolosità sociale si stabilisce un aumento di pena, con previsione di una “aggravante
di autore”, in violazione del principio di offensività, “desumibile dall’articolo 25,
secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi
alla dignità umana” e limite alla discrezionalità legislativa in materia penale (sul punto
vedi Corte cost. 10 luglio 2002, n. 354);
- che infatti il giudice delle leggi ha evidenziato l’indissolubile legame che deve sussistere
tra sanzione penale e commissione di un fatto offensivo nella sentenza 18 luglio 1989,
n. 409, laddove afferma che: “il legislatore non è sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici
ma deve, oltre che ancorare ogni previsione di reato ad una reale dannosità
sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto del rango costituzionale della (con
la pena sacrificata) libertà personale l’ambito del penalmente rilevante”;
380 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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- che l’aggravante in questione viola altresì l’articolo 27, commi primo e terzo, della
Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale,
il quale esclude che la pena possa essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione
generale o di difesa sociale, indipendentemente dalla valutazione della effettiva personalità
del condannato; con il principio di proporzionalità della pena, il quale postula la congruità
della risposta punitiva rispetto alla gravità concreta del fatto; oltreché con la finalità rieducativa
della pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione di pene eccessivamente severe in
rapporto all’effettiva entità del reato commesso e della reale tendenza a delinquere;
- che questa recrudescenza sanzionatoria non trae infatti fondamento da una ipotetica
peculiare, e più intensa, capacità a delinquere del reo, da ragioni cioè che potrebbero giustificare
il più grave regime punitivo nell’ottica di maggiori bisogni rieducativi dell’autore;
- che, anzi, questo irragionevole inasprimento sanzionatorio si scontra frontalmente con
il monito espresso dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza 2 febbraio 2007, n. 22,
secondo cui: “Occorre tuttavia riconoscere che il quadro normativo in materia di sanzioni
penali per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, risultante
dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi legislativi
successivi a pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da
rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza
e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa”;
- che, come già esposto, la mera carenza del titolo giustificativo del soggiorno sul territorio
nazionale è circostanza di per sé irrilevante ai fini della gravità del fatto e della capacità
a delinquere;
- che la medesima condotta materiale è punita diversamente a seconda di una condizione
soggettiva che viene elevata senza ragionevole motivo a presunzione legale astratta ed
automatica di pericolosità sociale, e che la detta aggravante non lascia emergere alcun nesso
tra l’indistinta massa dei reati che una persona che si trova illegalmente sul territorio nazionale
può commettere e il sottostante giudizio di maggiore pericolosità presunta, a cui è affidata
la funzione di giustificare una pena più severa;
- che tale aggravante si pone altresì in contrasto con numerose disposizioni internazionali
violando conseguentemente l’articolo 10, comma secondo, della Costituzione, il quale
dispone che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità
delle norme e dei trattati internazionali”, e l’art. 117, comma primo, della Costituzione, il
quale prevede che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato e dalle Regioni “nel rispetto
della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali”;
- che, infatti, la disparità di trattamento introdotta con tale “aggravante d’autore”, proprio
perché priva di qualsiasi collegamento con il fatto di reato e non ancorata ad un concreto
giudizio di pericolosità, si risolve in una irragionevole discriminazione tra persone in base
alla loro origine nazionale e condizione personale, in violazione di molteplici disposizioni e
trattati internazionali, tra i quali in particolare:
- l’art. 2 della Dichiarazione universale del diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 il quale afferma che: “Ad ogni individuo
spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione
alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione
politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra
condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico
o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene”;
DOTTRINA 381
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- l’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali, ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a
Parigi il 20 marzo 1952), il quale prevede che: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti
nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione,
in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni
politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza
nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”;
- l’art. 2, comma primo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato con
legge 25 ottobre 1977, n. 881 (ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti
economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16
e il 19 dicembre 1966), nel quale si afferma che: “Ciascuno degli Stati parti del presente
Patto si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio
e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza
distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l’opinione
politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica,
la nascita o qualsiasi altra condizione”, nonché l’art. 25, comma secondo, del medesimo
patto il quale prevede che: “Tutti gli individui sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto,
senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. A questo riguardo,
la legge deve proibire qualsiasi discriminazione e garantire a tutti gli individui una tutela
eguale ed effettiva contro ogni discriminazione, sia essa fondata sulla razza, il colore, il
sesso la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale
o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”;
- che il novellato art. 61 n. 11-bis c.p. viola più in generale anche l’art. 35 della
Costituzione il quale “riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla
legge nell’interesse generale”;
- che secondo una lettura aggiornata della Costituzione, confermata anche da autorevole
dottrina, l’art. 35 tutela l’emigrazione in generale, e cioè sia l’emigrazione dei cittadini italiani
all’estero, sia l’emigrazione dei cittadini stranieri in Italia;
- che tale aggravante configurandosi come discriminatoria limita quindi anche la libertà
di circolazione e soggiorno dei lavoratori stranieri sul territorio nazionale, e quindi la
libertà di emigrazione dei cittadini stranieri in Italia;
- che in definitiva, dunque, questo Tribunale ritiene rilevante e non manifestamente
infondata in riferimento agli articoli 3; 13; 10, comma secondo; 25, comma secondo; 27,
commi primo e terzo; 35, comma quarto, 77 e 117, comma primo, della Costituzione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett.
f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125.
P. Q. M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87. Dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotto
dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla
L. 24 luglio 2008 n. 125, in riferimento agli 3; 13; 10, comma secondo; 25, comma secondo;
27, commi primo e terzo; 35, comma quarto, 77 e 117, comma primo, della Costituzione.
Ordina la sospensione del procedimento in attesa della decisione.
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Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del
Consiglio dei Ministri e che essa venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti.
Pisa-Ferrara, 20 settembre 2008 - Il Giudice Dott.ssa Chiara Testafine».
(dottorandi Francesca Biondi, Nicola Grigoletto, Luigi Nannipieri, Rodrigo Brito).
(All. 2)
Avvocatura Generale dello Stato – Ecc.ma Corte costituzionale – Atto di intervento
per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore,
(Avvocatura generale dello Stato), nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
introdotto dal Tribunale di Pisa-Ferrara con l’ordinanza emessa il 20 settembre 2008, nel
procedimento penale n. 568/2008 a carico di Mohamed Vucumbrè e Carmine Sfruttatori.
«Fatto e Diritto
1. (Omissis) La questione è inammissibile e, nel merito, manifestamente infondata.
2. In via preliminare e assorbente, questa Avvocatura evidenzia che la questione risulta
prima facie manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, posto che il giudice a
quo non ha dato conto di avere operato alcun tentativo di pervenire a un’interpretazione conforme
alla Costituzione della normativa di riferimento.
Secondo giurisprudenza costante di codesta Ecc.ma Corte, il giudice investito del giudizio
principale, «prima di rimettere gli atti alla Corte, ha il dovere di tentare di individuare
una interpretazione conforme alla Costituzione della norma denunciata» (ordinanza n. 427
del 2005, che si pone in continuità con precedenti pronunce, tra cui, ex aliis, le n. 356 del
1996 e n. 301 del 2003). In ossequio al principio di conservazione degli atti giuridici, infatti,
nessuna disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo
perché suscettibile di essere interpretata in contrasto con precetti costituzionali, ma deve
esserlo soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a
Costituzione (cfr., tra le più recenti, le ordinanze nn. 89 e 115 del 2005, 85 e 464 del 2007).
Il giudice remittente, invece, si è sottratto a tale obbligo, non avendo verificato la percorribilità
di una soluzione ermeneutica differente ed essendosi limitato a formulare le proprie
censure senza fornire un’adeguata motivazione dell’iter logico-giuridico seguito,
soprattutto con riferimento ai possibili significati ulteriori della norma (sul punto si vedano,
tra le altre, le ordinanze n. 372 del 1999 e n. 456 del 1992).
Il sindacato di costituzionalità in relazione al merito della questione potrebbe essere
esperito solo se fosse «rimasto infruttuoso il doveroso tentativo del giudice remittente di
risolvere la controversia al suo esame sulla base della disciplina vigente, in conformità alla
interpretazione che di questa dà la giurisprudenza costituzionale e quella della Corte di cassazione
» (così l’ordinanza n. 129 del 2007).
Alla luce di quanto esposto e in relazione alla costante e monolitica giurisprudenza di
codesta Ecc.ma Corte, lo scrutinio nel merito delle questioni sollevate risulta indubbiamente
precluso, a causa dell’omessa attività ermeneutica del giudice.
3. Nella denegata ipotesi in cui codesta Ecc.ma Corte dovesse, invece, in contrasto con
la giurisprudenza pregressa, ritenere la questione ammissibile, questa difesa osserva come
essa risulti manifestamente infondata per le ragioni che si espongono di seguito.
DOTTRINA 383
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Innanzitutto, pur ritenendo assorbenti gli esposti rilievi di inammissibilità, la scrivente
Avvocatura sottolinea come fosse nel concreto possibile, oltre che doveroso, il tentativo di
interpretazione conforme a Costituzione del testo normativo oggetto del presente giudizio.
Quella che il giudice remittente dà per scontata non rappresenta, infatti, l’unica lettura possibile
del vigente quadro normativo.
Proprio i principi e i valori che vengono richiamati nell’atto di promovimento e che
ormai senza dubbio alcuno permeano il nostro ordinamento giuridico, ancor prima che l’ambito
penale, avrebbero dovuto spingere il giudice a quo ad interpretare la disposizione in considerazione
degli stessi, così come è stato fatto dalla giurisprudenza di legittimità nonché da
quella di codesta Ecc.ma Corte in considerazione di altre circostanze aggravanti, che per la
loro formulazione letterale avrebbero potuto porsi in contrasto con il dettato costituzionale.
Anche per le aggravanti comuni l’automaticità dell’applicazione dell’aumento di pena
è subordinata e condizionata a un’interpretazione della norma che consente al giudice un
accertamento in ordine al maggior disvalore del fatto circostanziato o a una maggiore pericolosità
del soggetto agente.
Ad esempio, nel caso dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 9 c. p. («l’avere commesso il
fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a
un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto») – qualificata come aggravante
comune soggettiva perché concerne la qualità personale del colpevole (Cass. Pen.
8/5/1981 su Rep. Foro It. 1981, 391) – non basta che il soggetto possieda la qualifica di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di ministro di culto, ma occorre che il
giudice accerti anche “l’abuso” e l’intenzionalità dell’agente di usare il potere oltre i limiti
legali. La ratio dell’aggravante risiede nell’esigenza di tutela del corretto svolgimento dell’attività,
a rilevanza pubblica, da parte di alcuni soggetti.
Inoltre, proprio l’interpretazione data da codesta Ecc.ma Corte in merito alla circostanza
aggravante della recidiva reiterata avrebbe dovuto costituire per il giudice a quo uno spunto
tale da spingerlo alla ricerca di una diversa interpretazione della norma in oggetto.
La recidiva, infatti, è circostanza personale ed “estrinseca”, ovvero indipendente dalla
condotta sanzionata dal nuovo reato. Anche per la recidiva reiterata si è posto il problema
della sua compatibilità costituzionale laddove se ne fosse prevista l’obbligatoria ed automatica
applicazione in riferimento all’art. 69 c. 4 c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge n.
251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee –
vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva
reiterata, prevista dall’art. 99 c. 4 c.p. Questo perché «la norma denunciata avrebbe introdotto
una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso
concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria
offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa
della pena – introducendo un “automatismo sanzionatorio”, correlato ad una presunzione
iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato». In realtà la corretta interpretazione
della norma ha consentito a codesta Ecc.ma Corte di affermare che «il giudice
applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo
episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione
dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto
il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile
sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al
regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base
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dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di
per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario,
non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata
elisione automatica delle circostanze attenuanti» (cfr. la sentenza n. 192 del 2007).
Si tenga altresì presente che la disciplina dell’imputazione delle circostanze aggravanti
(art. 59 c.p.) ha subito con la legge n. 19 del 1990 una profonda modifica. Il legislatore è,
infatti, intervenuto sull’art. 59 c.p., trasformando il regime d’imputazione da oggettivo in
soggettivo, facendo in modo che le circostanze aggravanti, per essere imputabili, devono
essere volute o quanto meno la loro esistenza deve essere ignorata per colpa o ritenuta inesistente
per errore determinato da colpa.
Per effetto di questa modifica, il principio “nulla poena sine culpa” è stato esteso anche
alle circostanze aggravanti; per far sì che queste possano essere applicate, dunque, occorre
un coefficiente soggettivo, costituito dalla loro conoscenza o almeno dalla loro colpevole
ignoranza. Deve, quindi, potersi muovere un rimprovero, nei termini specificati, all’autore
del reato circostanziato.
Si deve, a questo punto, esaminare la circostanza aggravante introdotta all’art. 61 c. 1
n. 11-bis c.p.: «se il fatto è commesso da un soggetto che si trova illegalmente sul territorio
italiano».
Per circoscrivere e meglio definire la portata della norma in esame, è necessario partire
dal termine “soggetto”, utilizzato dal legislatore in luogo di quello di “straniero”, previsto
invece dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione giuridica dello straniero. La scelta non è ovviamente casuale, dato che l’art.
1 t.u. indica con il termine straniero sia il cittadino di Stato non appartenente all’Unione
Europea (extra-comunitario), sia la persona priva di cittadinanza (apolide).
Con il sostantivo “soggetto”, perciò, il legislatore ha voluto estendere l’ambito di applicabilità
della disposizione non solo agli extracomunitari ed agli apolidi, ma anche a tutte le
altre persone che non hanno cittadinanza italiana.
Occorre inoltre stabilire l’esatto significato dell’avverbio “illegalmente”, che è ben
diverso da quello “irregolarmente” usato con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 12 c.
5-bis del t.u. Tale articolo, infatti,utilizza espressioni quali “ingresso illegale” (c. 3) e “condizione
di illegalità” per indicare ogni attività diretta a favorire l’ingresso o la permanenza
degli stranieri commessa “in violazione delle norme del presente testo unico”.
Le norme del testo unico, tuttavia, non trovano applicazione nei confronti dei cittadini
comunitari, se non in quanto ad essi più favorevoli, per espressa previsione dell’art. 1 c. 2
dello stesso t.u.
Ed allora, l’avverbio “illegalmente” di cui all’art. 61 c.p. non assume qui lo stesso significato
di quello utilizzato con riferimento al reato di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina, proprio in quanto inapplicabile ai cittadini comunitari, i quali invece sono
ricompresi nella previsione della circostanza aggravante de qua.
Del resto, i cittadini comunitari godono del diritto al libero transito all’interno della
stessa UE e ben possono entrare in Italia attraverso le frontiere interne, senza essere sottoposti
a controlli e senza avere specifici titoli autorizzativi del Paese ospitante.
La loro presenza fisica sul suolo statuale, dunque, è sempre regolare, a meno che non
intervenga nei loro confronti uno specifico provvedimento di allontanamento da parte delle
autorità amministrative (ad esempio da parte del Prefetto nei casi di pericolosità del cittadino
comunitario) o giudiziarie (ad esempio ex art. 235 o 312 c.p., come modificati dall’art. 1
del d.l. n. 92 del 2008).
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La condizione di illegalità sul territorio nazionale da parte di un cittadino comunitario
dipende, quindi, dall’esistenza al momento del fatto-reato di un provvedimento di allontanamento
già adottato nei suoi confronti a norma della legge.
Applicando questo stesso principio con riferimento agli stranieri, si può affermare
anche per essi che la condizione di illegalità è subordinata al fatto di essere già stati colpiti,
al momento della commissione del reato aggravato dalla circostanza in esame, da un provvedimento
di espulsione ministeriale, prefettizia o giudiziaria, da un foglio di via obbligatorio,
da un ordine di allontanamento o da un altro provvedimento amministrativo o giudiziario
previsto dalla legge che imponga il loro allontanamento dal territorio nazionale.
Così interpretata, la circostanza aggravante non potrà essere contestata allo straniero
che, sebbene irregolarmente soggiornante (ad esempio perché privo di permesso di soggiorno),
non sia stato comunque raggiunto da un provvedimento, legalmente dato, con il quale
gli si ordinava di allontanarsi dal suolo statale.
In altri termini, ciò che la norma punisce non è lo status di clandestino dell’autore del
reato, ma la sua volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli nel
rispetto della legge, a tutela dell’interesse generale.
Questa Avvocatura evidenzia, inoltre, come lo stesso interesse generale sia posto
espressamente dal legislatore costituzionale come limite alla libertà di emigrazione dall’art.
35 della Costituzione.
Tale interpretazione della norma oggetto del presente giudizio consente di ritenerla fondata
su una scelta di politica legislativa non irragionevole né discriminatoria, operando un
contemperamento fra i diversi interessi in conflitto. Così come affermato da questa Corte è
richiesto «il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza, espressione
del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni
soggettive. Peraltro, come questa Corte ha più volte affermato, “la regolamentazione dell’ingresso
e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione
di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine
pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione
e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in
materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione,
soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli” (si vedano,
per tutte, la sentenza n. 206 del 2006 e, da ultimo, l’ordinanza n. 361 del 2007)» (così la
sentenza n. 148 del 2008).
Peraltro, questa Avvocatura sottolinea nuovamente come ciò sia un’ulteriore riprova
che un’interpretazione conforme a Costituzione della norma in oggetto non solo era doverosa
da parte del giudice a quo, ma vieppiù possibile.
4. In secondo luogo, è certamente infondata l’affermazione dell’insussistenza dei requisiti
prescritti dall’art. 77 Cost. perché sulla materia potesse legiferarsi mediante lo strumento
della decretazione d’urgenza.
Sulla base dell’indirizzo giurisprudenziale di codesta Ecc.ma Corte, inaugurato con la
sentenza n. 29 del 1995 e recentemente confermato dalla sentenza n. 171 del 2007, sarà sussistente
il vizio invocato qualora «risulti evidente» il difetto dei presupposti di legittimità
della decretazione d’urgenza (che, una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio
in procedendo della relativa legge), tanto da menomare «l’assetto delle fonti normative».
La richiamata giurisprudenza ha affermato che, per valutare la sussistenza del requisito
della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza di provvedere, è necessario tener conto
degli «indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata», valutando se né dall’epi-
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grafe, né dal preambolo, né dal contenuto degli articoli risulti alcunché che «abbia attinenza
» con il contenuto della disposizione impugnata.
In tal senso occorre rilevare, quanto ai requisiti intrinseci, che il decreto legge reca
l’epigrafe «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»; nel preambolo si legge, fra l’altro,
«Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare
un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati
all’immigrazione illegale…».
Quanto ai requisiti estrinseci, occorre, anzitutto, evidenziare che, con provvedimento
del 25 luglio scorso, il Consiglio dei Ministri ha deliberato l’estensione all’intero territorio
nazionale della dichiarazione dello stato di emergenza derivante dal persistente ed eccezionale
afflusso di cittadini extracomunitari, al fine di potenziare le attività di contrasto e di
gestione del fenomeno. Tale estensione è stata ritenuta necessaria in quanto i centri di accoglienza
delle tre Regioni Sicilia, Calabria e Puglia, oggetto della precedente delibera di stato
di emergenza (D.P.C.M. del 14 febbraio 2008), erano ormai insufficienti a contenere l’alto
numero di arrivi.
Nel primo semestre del 2008, secondo i dati del Ministero degli Interni, i clandestini
sbarcati in Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna sono stati 10.611, mentre nello stesso periodo
del 2007 erano stati 5.380. I dati complessivi riferiti al 20 luglio scorso registrano arrivi per
13.102 unità. Se il trend manifestato nel primo semestre dovesse permanere nei prossimi
mesi, si possono prevedere, per la fine dell’anno, arrivi complessivi per circa 30.000 persone.
La ricettività dei centri di identificazione ed espulsione risulta, al 28 luglio di quest’anno,
pari a 1.191 posti, con un’attuale presenza nelle strutture di 765 persone ed una restante
disponibilità di 426. Inoltre, presso i CDA e i CARA risultano disponibili, al 28 luglio, 6.655
posti, ai quali si devono aggiungere i 762 di Lampedusa che portano la capienza massima a
7.417 posti.
Appare evidente la situazione di eccezionale pressione migratoria che giustifica l’utilizzo
della decretazione d’urgenza.
Le disposizioni oggetto del presente giudizio sono altresì inquadrate in un più ampio
disegno di politica di sicurezza, il cd. “pacchetto sicurezza”, che, fra l’altro, ha previsto l’utilizzo
di 3.000 militari in servizi di ordine e sicurezza pubblica.
Per tali motivi, attesa la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 77 Cost., si ritengono
infondate le motivazioni addotte a supporto della denunciata illegittimità del provvedimento
in oggetto, che è stato adottato per rispondere ad una situazione di emergenza sociale diffusa.
5. Inoltre, va presa in considerazione la costante e consolidata giurisprudenza di codesta
Ecc.ma Corte, confermata finanche nella recentissima sentenza n. 324 del 2008, secondo
cui il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25 c. 2 Cost. – in base al quale «nessuno
può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso» – «demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena,
delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio» (ex plurimis, tra
le ultime, si vedano le sentenze n. 161 del 2004, n. 49 del 2002 e n. 508 del 2000; e le ordinanze
n. 164 del 2007, n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998).
Rientrando il processo di selezione dei beni da tutelare nell’ambito della discrezionalità
valutativa del legislatore penale, un controllo della Corte che entrasse troppo nel merito
delle opzioni di tutela compiute da quest’ultimo rischierebbe di tradursi in una inammissibile
ingerenza nelle scelte politiche del legislatore. A tale riguardo va preliminarmente rammentato
che, a norma dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, «il controllo di legittimità della
Corte costituzionale (…) esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso
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del potere discrezionale del Parlamento»: questi limiti di sindacato, ovviamente, non possono
non valere anche in materia penale.
Pertanto, le particolari esigenze di tutela della collettività vengono apprezzate dal legislatore
in rapporto ad una serie molteplice di elementi, storicamente mutevoli e frutto di scelte
di politica criminale non censurabili in sede di controllo di legittimità costituzionale delle
leggi, a meno che non si tratti di opzioni manifestamente irragionevoli.
Sulla base della giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, egualmente consolidata e
costante, la manifesta irragionevolezza può essere rilevata o a seguito di confronto con tertia
comparationis omogenei o in esito alla constatazione di una contraddizione intrinseca
della norma censurata.
Nella fattispecie oggetto del presente giudizio, secondo questa difesa erariale, non
ricorre né la prima né la seconda ipotesi.
Sotto il primo aspetto, per muovere un sindacato sulla ragionevolezza dell’esercizio
della discrezionalità legislativa non appare possibile invocare genericamente delle alternative
alla scelta attuata dal legislatore, poiché, così facendo, si invade il campo della discrezionalità
riservata ad esso; occorre, invece, dimostrare che detta scelta è incoerente rispetto al
sistema in cui si inserisce (ex aliis, sent. n. 161 del 2004).
Alla luce di tale premessa, non può non risultare di sicura evidenza l’assoluta carenza
di motivazione dell’ordinanza di rimessione in ordine alla mancata indicazione di tertia comparationis
da cui far discendere l’acclaramento dell’invocata irragionevolezza della scelta
legislativa. Viene omessa, innanzitutto, una valutazione sistematica delle norme che prevedono
sanzioni penali per violazioni di provvedimenti amministrativi in materia di sicurezza
pubblica.
Anzi, argomenti a suffragio della coerenza della norma impugnata rispetto al settore
ordinamentale in cui la stessa è inserita sono ravvisabili nel quadro normativo in materia di
sanzioni penali per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale,
come risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni e, in particolare,
per le novità introdotte dallo stesso d.l. n. 92 del 2008, convertito in legge n. 125 del 2008:
da una simile valutazione complessiva non è difficile cogliere una generale tendenza all’inasprimento
del regime sanzionatorio per una pluralità di condotte penalmente rilevanti ascrivibili
al fenomeno dell’immigrazione clandestina, espressivo di un disvalore sociale il cui
unico interprete è il legislatore penale.
In assenza di univoche indicazioni normative utilizzabili quali tertia comparationis,
non supplisce il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione alla sentenza di codesta
Ecc.ma Corte n. 78 del 2007, nella quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale degli
artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e
sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ove interpretati nel senso
che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del
permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da essi previste,
per contrasto con i principi costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione
rieducativa della pena.
In particolare, il richiamo a tale pronuncia non vale a dimostrare l’esistenza di un quadro
normativo rispetto al quale il nuovo art. 61 n. 11-bis c.p. verrebbe a porsi come scelta
discrezionale macroscopicamente incoerente laddove si pongano in evidenza le diversità esistenti
fra il sistema legislativo di individuazione delle figure criminose sanzionate e l’ordinamento
penitenziario in ordine alle finalità perseguite. Sebbene esista un’insopprimibile
comunanza di principi ispiratori, non può sostenersi che funzione retributiva, funzione pre-
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ventiva e funzione rieducativa non possano trovare bilanciamenti e graduazioni diverse a
seconda che il legislatore persegua il prioritario obiettivo della difesa sociale o piuttosto
quello della risocializzazione del reo, pur nell’imprescindibile rispetto dei diritti fondamentali
riconosciuti e tutelati non solo dal nostro ordinamento, ma anche da quello comunitario
e internazionale.
Quanto alla contestazione mossa dal rimettente secondo la quale l’irragionevolezza dell’aggravante
di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. deriverebbe dall’applicazione di effetti penali
sulla base di una mera condizione soggettiva del soggetto, di una presunzione di pericolosità
sganciata da una valutazione di parametri obiettivi, questa difesa erariale eccepisce, oltre
a ciò che è stato in precedenza esposto, quanto segue.
La constatazione non tiene conto del noto principio accolto dal nostro codice penale, e
fatto salvo dalla giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, in virtù del quale alla determinazione
della pena concorrono non solo considerazioni relative alla gravità del reato (ex art.
133 c. 1 c.p.), espressive del disvalore della condotta, ma anche valutazioni non immediatamente
legate al “fatto”, inerenti alla personalità del reo (ex art. 133 c. 2) quali, fra gli altri, il
carattere del reo, la condotta e la vita del reo antecedenti al reato, l’abitualità a delinquere,
nonché le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. La previsione espressa di
questi ulteriori indici, volta ad estendere la valutazione giudiziale del fatto oggettivo alla personalità
del reo ed alla sua capacità a delinquere, non svolge soltanto una funzione prognostica,
diretta ad accertare la potenzialità criminosa del soggetto in una prospettiva di prevenzione
sociale, ma, nell’ambito di una rilettura costituzionalmente orientata, risponde al
tempo stesso ad una funzione di graduazione della colpevolezza e di rieducazione del reo. In
particolare, consolidati orientamenti giurisprudenziali, costituenti un vero e proprio diritto
vivente, riconducono al criterio legislativo relativo alla vita ed alla condotta del reo, antecedenti
al reato, valutazioni in merito alla carriera scolastica o a manifestazioni genericamente
devianti, come l’uso di droghe, l’alcolismo o il rifiuto dell’attività lavorativa.
Un contrasto con la Costituzione, tutt’al più, sarebbe ravvisabile laddove il legislatore,
nel fondare la colpevolezza, si riferisse in misura preponderante al complesso dei comportamenti
antecedenti al fatto attraverso i quali il soggetto avrebbe colpevolmente plasmato la
propria personalità (cd. colpevolezza per la condotta di vita) o al carattere dell’agente (cd.
colpevolezza per carattere), subordinandovi la valutazione del fatto commesso; ipotesi, questa,
che risulta esclusa per la norma impugnata, in quanto, come in precedenza evidenziato
al punto 3 del presente atto, ciò che la norma punisce non è lo status di clandestino dell’autore
del reato, ma la sua volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli
nel rispetto della legge, a tutela dell’interesse generale.
Né ha valore decisivo, ai fini della declaratoria di incostituzionalità della norma in questione,
la considerazione del remittente secondo cui l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis
c.p., per il solo fatto di determinare una disparità di trattamento fra gli autori dello stesso reato
in ragione della qualità di straniero che si trova illegalmente sul territorio dello Stato, sarebbe
per ciò stesso contraria al canone della ragionevolezza, ben potendo accadere nell’attuale
sistema penale – proprio in ragione dell’art. 133 c. 2. c.p. e della disciplina delle aggravanti
che si riferiscono alla persona del reo – che ad una stessa condotta criminale tenuta da più soggetti
corrisponda un diverso disvalore e, pertanto, un diverso trattamento sanzionatorio.
Passando ad una valutazione che investa la ragionevolezza intrinseca della norma impugnata,
e dunque la coerenza tra il contenuto della norma e la finalità perseguita attraverso la
sua previsione, la disposizione in esame si presenta immune dal denunciato vizio di costituzionalità.
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Deve ritenersi, infatti, non manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di prevedere
una più intensa sanzione in ragione del disvalore sociale riconosciuto alla condotta di
cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. Orbene, un’ingiustificata sproporzione fra l’entità della sanzione
(aumento di un terzo della pena principale) e l’illegale presenza dello straniero è esclusa
dalla ratio stessa della norma impugnata, dal momento che le pressanti esigenze di difesa
sociale ed ordine pubblico connesse all’imponente fenomeno dei flussi migratori dell’epoca
presente postulano necessariamente una complessa opera di bilanciamento dei valori in
gioco. La sicurezza si configura senza dubbio come una delle condizioni per il pieno ed effettivo
svolgimento delle fondamentali libertà costituzionali (libertà personale, libertà di manifestazione
del pensiero, etc.) e costituisce uno dei valori fondamentali riconosciuti anche nell’ambito
del diritto comunitario e della CEDU. Pertanto, la stessa si inserisce a pieno titolo
in un’operazione di bilanciamento fra valori ed interessi costituzionalmente riconosciuti.
Non può, quindi, risultare macroscopicamente irrazionale la scelta legislativa in questione
ove si consideri il collegamento ad una risposta politica che il legislatore ha ritenuto
di attuare, in questo come in altri casi, a fronte dell’aumentata percezione sociale della pericolosità
del fenomeno in questione, ferma restando la garanzia del controllo del giudice sull’esistenza
dei presupposti per l’applicazione della misura (si veda, a tal proposito, la sentenza
n. 236 del 2008),
Pertanto, non si può certo chiedere a codesta Ecc.ma Corte di «esprimere valutazioni
sull’efficacia della risposta repressiva penale rispetto a comportamenti antigiuridici che si
manifestino nell’ambito del fenomeno imponente dei flussi migratori dell’epoca presente,
che pone gravi problemi di natura sociale, umanitaria e di sicurezza» (sentenza n. 236 del
2008). In particolare, codesta Ecc.ma Corte si è espressa nel senso di dover escludere di
poter procedere, nella specifica materia dell’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel
territorio nazionale, ad impostare «un nuovo assetto delle sanzioni penali stabilite dal legislatore
» anche in ragione della mancanza, nell’attuale quadro normativo in subiecta materia
di «precisi punti di riferimento che possano condurre a sostituzioni costituzionalmente obbligate
» (sentenza n. 22 del 2007).
Quanto finora esposto al fine di escludere la manifesta irragionevolezza della norma
impugnata risulta, inoltre, assorbente in merito alle censure mosse dal remittente in ordine
alla presunta lesione dei principi di offensività, personalità della responsabilità penale e funzione
rieducativa della pena, anche in considerazione della possibilità di dare alla normativa
in esame una lettura conforme a Costituzione, come già esposto da questa Avvocatura al
punto 3 del presente intervento.
6. Si rivelano conseguentemente infondati i richiami alle norme internazionali ai sensi
degli artt. 10 c. 2 e 117 c. 1 Cost., in quanto, come ampiamente evidenziato, non viene introdotta
dalla disposizione in oggetto un’“aggravante d’autore” né tanto meno si crea un’irragionevole
discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e condizione sociale.
In particolare, discutibile appare il richiamo all’art. 2 della Dichiarazione universale del
diritti dell’uomo, il quale genericamente afferma il principio di eguaglianza formale in relazione
ai «diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione». L’art. 3 della medesima
fonte tutela altresì il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, riconoscendolo
come un valore sicuramente rilevante nell’ambito dell’ordinamento internazionale. Peraltro,
l’art. 29 della stessa Dichiarazione ammette limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà,
purché siano stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e
della libertà degli altri, nonché l’ordine pubblico e il benessere generale in una società democratica.
Anche con riferimento all’articolo richiamato, non può non rinvenirsi l’importanza
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delle esigenze alla base delle misure la cui legittimità viene vagliata in questa sede, le quali
costituiscono il frutto di un complesso bilanciamento tra i valori in gioco.
Analoghe argomentazioni valgono con riferimento all’invocato art. 14 della
Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, che sancisce
il divieto di discriminazione, ma contestualmente riconosce e tutela, all’art. 5, il diritto
alla libertà ed alla sicurezza.
Risulta altresì infondata la censura basata sul Patto internazionale sui diritti civili e politici,
il quale, all’art. 9, riconosce ad ogni individuo il diritto alla sicurezza e all’art. 12 sancisce
che «ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla
libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio» e, al successivo
art. 13, che «uno straniero che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato parte del presente
Patto non può esserne espulso se non in base a una decisione presa in conformità della
legge». Le disposizioni appena menzionate rappresentano un’ulteriore dimostrazione di
come, anche a livello internazionale, sia possibile, a determinati fini, distinguere tra la situazione
giuridica di chi si trova in uno Stato legalmente e di chi, al contrario, vi si trova illegalmente
e giustifica un differente trattamento delle due situazioni, pur nel rispetto dei diritti
fondamentali riconosciuti a ciascun individuo.
È d’uopo, peraltro, rilevare che tutte le disposizioni internazionali richiamate dal giudice
remittente fanno riferimento all’ingiustificato conculcamento di diritti fondamentali,
quasi ad intendere che l’immigrazione clandestina debba essere considerata alla stregua dei
diritti fondamentali tutelati dalle fonti menzionate.
Si tenga conto, infine, del fatto che il diritto alla sicurezza è espressamente richiamato
da tutte le Carte internazionali dei diritti, tra cui l’art. 5 della CEDU, che lo contempla esplicitamente
e lo pone quale fondamento di limitazioni ex lege ad alcuni diritti in essa affermati.
Anche di recente, la Corte di Strasburgo, nella decisione Bagarella c. Italia del 15 gennaio
2008, ha fornito un esempio di come, in determinate ipotesi, sia imprescindibile bilanciare
i valori coinvolti, tenendo in considerazione anche la sicurezza pubblica, la difesa dell’ordine
e la prevenzione dei reati.
In tal senso, dunque, tutti i dubbi di costituzionalità basati sull’art. 10 c. 2 e sull’art. 117
c. 1 Cost. risultano infondati, immotivati e carenti di interpretazione sistematica.
7. In conclusione, è inconferente la censura di incostituzionalità basata sull’invocato
parametro dell’art. 13 Cost., essendo la stessa sostenuta in relazione a una norma che non è
oggetto del presente giudizio: l’argomentazione si riferisce, infatti, esclusivamente all’art.
656 c. 9 lett. a) c.p.p., sul quale non è stato sollevato dal remittente dubbio alcuno di legittimità
costituzionale.
P.Q.M.
si chiede che la questione di illegittimità costituzionale come indicata in epigrafe sia
dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.
Roma, 11 ottobre 2008 – Avvocato dello Stato Gianluca Belfiore – Avvocato dello Stato
Emanuela Brugiotti – Avvocato dello Stato Giuseppe Marino - Avvocato dello Stato Sabrina
Ragone».
(All.3)
Ecc.ma Corte costituzionale – R.G. 1/2008 – Udienza 4 novembre 2008 – Memoria
illustrativa del Sig. Mohamed Vucumbrè, nato in Senegal il 5 gennaio 1983, residente a
Pisa-Ferrara in via Buia n. 56, elettivamente domiciliato a Roma, in via Azzeccagarbugli n.
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15, presso lo studio degli Avv.ti Alberto Randazzo e Viviana Zanetti che lo rappresentano e
difendono come da procura speciale a margine del presente atto nel giudizio di legittimità
costituzionale promosso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa-Ferrara
nella persona della Procuratore della Repubblica, Dott.ssa Chiara Testafine, con ordinanza
depositata il 20 settembre 2008
«PARTE PRIMA
In fatto (omissis)
PARTE SECONDA
In diritto
La questione sollevata dal giudice rimettente è rilevante. Essendo stato accertato, da un
lato, che la condotta penalmente rilevante è stata posta in essere in vigenza del decreto-legge
n. 92 del 2008 e, dall’altro, che il Sig. Mohamed Vucumbrè – al momento del fatto – si trovava
illegalmente sul territorio italiano, il giudice remittente, nel procedimento di definizione
sia della responsabilità penale che del quantum della pena, è tenuto ad applicare l’aggravante
di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p. La determinazione della sanzione da irrogare in concreto
risulta, infatti, subordinata al bilanciamento, ex art. 69 c.p., delle possibili circostanze attenuanti
con l’aggravante di clandestinità oggetto di questo giudizio.
Inoltre, non sarebbe in grado di incidere sulla sussistenza della rilevanza nemmeno
l’eventuale mancata applicazione dell’aumento di pena derivante da un giudizio di prevalenza
o equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto l’aggravante, in quanto l’inasprimento
della sanzione rappresenta solo uno degli effetti penalmente rilevanti della misura introdotta
dal decreto-legge n. 92 del 2008. In applicazione del nuovo articolo 656, nono comma,
lett. a) c.p.p., infatti, al semplice giudizio di sussistenza della circostanza di clandestinità
consegue, per il condannato, l’automatico effetto processuale della esclusione dall’istituto
della sospensione dell’esecuzione della pena.
Ne deriva, quindi, che il giudizio penale che vede imputato il Sig. Vucumbrè non può
proseguire senza che venga risolta da codesta Corte la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 61, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008, n.
92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008, n. 125.
In via preliminare, si eccepisce la violazione dell’art. 77 Cost. per la evidente mancanza
dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza atti a giustificare l’adozione da parte
del Governo di provvedimenti normativi aventi valore di legge.
Anche volendo ritenere che la necessità ed urgenza siano da individuare nell’aumento
dei fenomeni di illegalità diffusa, appare opinabile la riconduzione di questi ultimi all’immigrazione
clandestina. L’inserimento in via d’urgenza nel corpo dell’art. 61 c.p. della c.d.
“aggravante di clandestinità” sarebbe giustificabile soltanto nell’ipotesi in cui fosse possibile
dimostrare, come in un’equazione perfetta, che all’aumentare dei clandestini sul territorio
italiano siano – come diretta conseguenza – accresciuti i reati. L’urgenza potrebbe ammettersi
solo provando che il soprannumero di reati rispetto al passato sia dovuto all’aumentare
dei soggetti privi di regolare permesso di soggiorno sul territorio della Repubblica e che la
condizione di clandestinità abbia – in questi casi – abbia stimolato a tenere una condotta
penalmente rilevante.
Tuttavia, l’aumento di entrambi i fenomeni (reati ed immigrazione, appunto) non appare
in qualche modo (o, comunque, sempre) collegato: si tratterebbe piuttosto di due elementi
da considerare autonomi e indipendenti l’uno dall’altro e, quindi, da disciplinare in modo
altrettanto autonomo e indipendente.
392 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
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Pertanto, che l’aggravante prevista nel decreto-legge in parola appare non idonea al raggiungimento
dello scopo (e, per questo aspetto, l’atto legislativo appare viziato da irragionevolezza)
anche qualora quest’ultimo fosse, puramente e semplicemente, quello di voler contrastare
(e voler efficacemente sanzionare) l’aumento di fenomeni di rilevanza penale (a prescindere
dallo status dei soggetti attivi).
In ogni caso, nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione si
evince che “il fine specifico” del provvedimento è quello “di affrontare in via di urgenza
taluni problemi di ordine e sicurezza pubblica, beni primari purtroppo pregiudicati da taluni
gravissimi fenomeni in continua espansione”, tra cui “la spinta criminogena di una immigrazione
irregolare senza controlli adeguati in ordine alla sussistenza dei requisiti per ottenere
un soggiorno legale nel territorio dello Stato”. Inoltre, pur con la consapevolezza che
lo strumento del decreto-legge non possa “risolvere tutti i problemi dianzi evidenziati”, gli
autori dello stesso specificano che esso “viene utilizzato a cagione della straordinaria necessità
e urgenza di arginare le difficoltà più significative, in attesa di una più compiuta rivisitazione
della normativa regolante i fenomeni sopra brevemente riportati, da funzionalizzare
con disegni di legge di iniziativa governativa di prossima presentazione”. Alla luce di quanto
detto, non si ritiene sufficientemente motivata la presenza dei suddetti requisiti di necessità
e urgenza in riferimento allo stretto legame che si adduce tra il verificarsi di eventi criminogeni
e la presenza dei clandestini sul territorio italiano; come è noto, la carenza di giustificazione
in relazione alle circostanze di fatto è sufficiente a determinare un difetto di
legittimità costituzionale di un decreto legge (da ultimo, sent. n. 128 del 2008).
Quanto al merito, aderendo in toto a quanto ottimamente prospettato dal giudice rimettente
circa l’incompatibilità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art.
1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24
luglio 2008, n. 125, questa memoria intende soffermarsi ed approfondire solamente alcuni
dei profili di incostituzionalità che costituiscono il thema decidendum eccepiti nell’ordinanza
e – in particolare – le argomentazioni riguardanti la violazione degli artt. 3, 13, 25, secondo
comma e 27, terzo comma, della Costituzione.
1. La nuova circostanza aggravante víola sia il diritto di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. sia
i princìpi di materialità ed offensività del fatto prescritti dall’art. 25, secondo comma, Cost.
L’eventuale aumento di pena, venendo a dipendere non già dalla gravità oggettiva del
fatto o da considerazioni sulla concreta pericolosità sociale del condannato, quanto dal mero
status soggettivo di clandestinità del reo, poggia sull’infondato ed irragionevole assunto criminologico
secondo il quale l’immigrato clandestino sarebbe, per ciò solo, spiccatamente
propenso a delinquere. Si tratta, quindi, di una presunzione di “maggiore rischio” che si
pone in tensione innanzitutto rispetto all’art. 25, secondo comma, Cost. che, circoscrivendo
l’esercizio della potestà sanzionatoria dello Stato al solo verificarsi di fatti criminosi, ovvero
a quei comportamenti umani percepibili esteriormente, esclude la punibilità per “modi di
essere” del soggetto (il c.d. diritto penale d’autore).
Appare di tutta evidenza come la circostanza aggravante in oggetto, applicandosi a prescindere
da qualsiasi collegamento con il fatto e a prescindere da qualsiasi valutazione concreta
circa la natura delinquenziale del reo, faccia leva unicamente su di un modo di essere
del condannato (lo status amministrativo di immigrato irregolare da cui il legislatore fa
discendere, in modo pressoché automatico, la sua maggiore pericolosità sociale) determinando,
in palese violazione dei principi di materialità e di offensività (sentt. nn. 519 del 2000,
354 del 2002, 265 del 2005), effetti penali rilevanti. Si tratta, quindi, di una aggravante infor-
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mata a canoni propri non solo del “diritto penale d’autore” ma anche del tristemente famoso
“diritto penale del nemico”, in quanto la disposizione in esame – perseguendo esclusivamente
finalità di “difesa sociale” – di fatto mira alla neutralizzazione del diverso, del nemico,
la cui pericolosità viene presunta sulla base della sua sola appartenenza etnico-razziale.
Una supposizione che in passato questa Corte ha fermamente rifiutato quando ha asserito che
la condizione di clandestinità, derivante dal mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza
nel territorio dello Stato o dall’inosservanza dell’ordine di allontanamento dato dal
questore, non è di per sé univocamente sintomatica di una particolare pericolosità sociale
(sent. 78 del 2007; in tal senso questa Corte si è espressa anche nella sent. n. 22 del 2007).
Ciò premesso, l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., mostra rilevantissimi profili
di incompatibilità con l’art. 3 Cost. nella misura in cui la sua applicazione finisce necessariamente
per produrre – a parità di condotta materiale – un irragionevole diverso trattamento sanzionatorio
tra immigrati clandestini e cittadini italiani-immigrati con permesso di soggiorno. Il
medesimo comportamento criminale, infatti, viene ad essere punito in modo diverso a seconda
che l’autore del reato si trovi in territorio nazionale regolarmente o irregolarmente.
Da tutto ciò, ne deriva che la disposizione in esame, operando una discriminazione legata
ad una mera appartenenza razziale, víola palesemente il diritto all’uguaglianza davanti alla legge
(art. 3 Cost.) la cui titolarità appartiene a tutti gli esseri umani – cittadini o stranieri che siano –
senza alcuna possibilità di distinzione (sentt. nn. 62 del 1994, 105 del 2001 e 148 del 2008).
L’aggravante di clandestinità rivela, poi, ulteriori aspetti di incompatibilità con l’art.
3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. A tal proposito non si comprende quale sia lo
scopo della previsione del decreto-legge di cui si discute, non essendo possibile, infatti,
instaurare una correlazione diretta tra la condizione di clandestino e la commissione di un
reato. Qualora, poi, lo scopo del decreto-legge fosse quello di arginare il fenomeno della
immigrazione clandestina, appare evidente come la previsione normativa dell’art. 61,
comma 11-bis, non possa utilmente raggiungere il suddetto – opinabile – obiettivo.
L’ordinamento italiano, prevedendo una aggravante per la clandestinità, consente la commisurazione
di una pena sproporzionata nel contesto del sistema giuridico penale italiano e non
è invece in grado di svolgere una funzione di deterrente (della quale peraltro non se ne intravede
la necessità) al fine di ostacolare il fenomeno migratorio; un soggetto extracomunitario,
infatti, non è tenuto – né presumibilmente potrebbe agevolmente riuscirci, qualora anche
lo volesse – a conoscere la legislazione italiana.
L’eccessivo carico di pena derivante dallo status di clandestino víola, inoltre, anche
l’intangibile valore della dignità umana, nella misura in cui si presuma che i clandestini
siano, per loro natura e per il solo fatto di essere tali, dei malfattori degni di punizione più
severa rispetto a chi clandestino non è. Come autorevole dottrina sostiene, la dignità è da
intendere come meta-valore insuscettibile di costituire oggetto di bilanciamento, essendo
esso stesso criterio di bilanciamento tra valori in gioco.
2. L’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., così come modificato a seguito degli interventi
legislativi già citati, víola l’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto si pone in contrasto
sia con le finalità costituzionali della pena sia con il principio di proporzionalità della sanzione
rispetto al fatto, che della funzione risocializzante rappresenta un implicito corollario.
Con giurisprudenza costante, questa Corte ha avuto modo di precisare che, sebbene la
valutazione della congruenza fra reati e pene rientri nel potere discrezionale del legislatore
(sentt. nn. 29 del 1979, 102 del 1985, 341 del 1994, 287 del 2002), tuttavia il Parlamento non
è arbitro assoluto delle sue scelte criminalizzatrici: esse, infatti, possono essere censurate da
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questa Corte per violazione del criterio di ragionevolezza e per indebita compressione del
diritto fondamentale di libertà costituzionalmente riconosciuto (sent. n. 409 del 1989; similmente
sentt. nn. 343 e 422 del 1993). Lo scrutinio di costituzionalità, quindi, può investire il
merito delle scelte del Parlamento qualora l’opzione legislativa vada a contrastare con il
principio di eguaglianza sotto il profilo dell’arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza
(sentt. nn. 287 del 2002, 531 e 508 del 2000).
La previsione di una circostanza aggravante legata esclusivamente allo status soggettivo
del reo (l’essere un immigrato clandestino) rappresenta una previsione normativa intrinsecamente
irragionevole per incongruità del mezzo rispetto al fine e, quindi, censurabile da
questa Corte in riferimento al combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
La legittimità dell’aggravante di clandestinità deve essere verificata rispetto alle diverse
funzioni che la Costituzione assegna alla pena. Sebbene, infatti, “in uno Stato evoluto” la
finalità risocializzante rappresenti “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano
[la pena] nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta
previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”, lo scopo della sanzione
penale non si esaurisce esclusivamente in una mera tensione rieducativa del condannato
(sent. 313 del 1990). Detta finalità, infatti, deve “contemperarsi con le altre funzioni che la
Costituzione assegna alla pena medesima”, ovvero la prevenzione generale, la difesa sociale
e la prevenzione speciale (sent. 78 del 2007 che richiama le sentt. nn. 257 del 2006 e 306
del 1993; anche sent. n. 264 del 1974). Si tratta di una “armonica coesistenza” tra le funzioni
che determina l’impossibilità di stabilire a priori “una gerarchia statica ed assoluta” tra
tutte le finalità della pena costituzionalmente protette “che valga una volta per tutte ed in
ogni condizione” (sentt. nn. 306 del 1993 e 257 del 2006). A parere di questa Corte, infatti,
le “differenti contingenze, storicamente mutevoli, che condizionano la dinamica dei fenomeni
delinquenziali, comportano logicamente la variabilità delle corrispondenti scelte di politica
criminale che il legislatore è chiamato a compiere: così da dar vita ad un sistema normativamente
«flessibile», proprio perché potenzialmente idoneo a plasmare i singoli istituti
in funzione delle diverse esigenze che quelle scelte per loro natura coinvolgono. Da qui l’impossibilità
di stabilire, ex ante, un punto di equilibrio dogmaticamente «cristallizzato» tra le
diverse funzioni che il sistema penale, nel suo complesso, è chiamato a soddisfare nel quadro
dei valori costituzionali” (sent. n. 257 del 2006).
E, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, può concretamente parlarsi di una
sostanziale non elusione delle funzioni costituzionali della pena solamente allorquando “il
sacrificio dell’una sia il «minimo indispensabile» per realizzare il soddisfacimento dell’altra,
giacché soltanto nel quadro di un sistema informato ai paradigmi della «adeguatezza e
proporzionalità» delle misure (…) è possibile sindacare la razionalità intrinseca (e, quindi,
la compatibilità costituzionale) degli equilibri normativi prescelti dal legislatore”.
Ne deriva, quindi, che il “legislatore può – nei limiti della ragionevolezza – far tendenzialmente
prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna
di esse ne risulti obliterata” (sentt. nn. 257 del 2006 e 306 del 1993).
Ciò premesso, l’aggravante di clandestinità, innanzitutto, manca nel soddisfare la finalità
rieducativa espressamente richiamata dall’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto un aumento di
pena – non ancorato al maggiore disvalore del fatto o alla più accentuata pericolosità del soggetto
– finisce per frustrare qualsiasi intento di risocializzazione del reo. A parere di questa Corte,
infatti, “la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale «provocata dalla previsione
di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito» produce
... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della
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Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato
di detenzione” (sentt. nn. 343 del 1993, 409 del 1989, 341 del 1994 e 22 del 2007).
L’irrogazione di una pena più severa come conseguenza dell’applicazione di una aggravante
legata alla condizione personale dell’autore ed indipendente da un più elevato coefficiente
di offensività del fatto – e che comporta l’automatico effetto preclusivo alla sospensione condizionale
della pena – non soddisfa nemmeno la finalità special-preventiva della punizione.
Una sanzione sproporzionata per eccesso rispetto alla colpevolezza finisce, infatti, per essere
vissuta come un “sopruso” dal condannato, come un meccanismo persecutorio di “neutralizzazione”
diretto all’immigrato clandestino in quanto nemico della società, ostacolandone non
solo la rieducazione ma anche l’adesione ai valori sottesi alla norma penale violata.
L’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., poi, non riesce a raggiungere alcun risultato
apprezzabile nemmeno sul piano della prevenzione generale. Se è vero che l’effetto dissuasivo
della comminatoria penale non deriva tanto dalla minaccia di una sanzione esemplare,
quanto piuttosto dalla certezza e prontezza della pena, l’applicazione di una punizione
“aggravata” e sproporzionata rispetto all’illecito non produrrà gli effetti deterrenti sperati, ma
l’esito controproducente di generare, da un lato, ostilità nei confronti del sistema di giustizia
penale e dell’ordinamento positivo e, dall’altro, sentimenti di solidarietà verso i condannati.
Per quanto attiene, invece, alla difesa sociale, non vi è dubbio che la circostanza aggravante
in oggetto assolva pienamente a tale funzione mirando, di fatto, a salvaguardare la collettività
da una classe di soggetti, gli immigrati clandestini, che la legge presume essere
socialmente pericolosi. Quella introdotta nell’art. 61, n. 11 c.p. è, infatti, una presunzione di
pericolosità che, discriminando – come abbiamo già evidenziato – sulla base della sola
appartenenza etnico-razziale, ottempera alla finalità più negativa della pena, ovvero quella
della neutralizzazione e della deterrenza in vista della difesa sociale.
In conclusione, quindi, se l’esercizio della discrezionalità legislativa in materia penale
deve ispirarsi al principio di armonica coesistenza, secondo cui le “scelte risulteranno non
irragionevoli e rispettose del precetto dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, allorquando,
pur privilegiando l’una o l’altra delle suddette finalità, il sacrificio che si arreca ad
una di esse risulti assolutamente necessario per il soddisfacimento dell’altra e, comunque,
purché nessuna ne risulti obliterata” (sent. n. 78 del 2007), allora la circostanza aggravante
legata allo status di clandestinità del reo risulta viziata per irrazionalità ed irragionevolezza
in quanto, nel soddisfare una delle funzione della pena che la Costituzione protegge (quella
della difesa sociale), finisce per annichilire ed obliterare le rimanenti (la risocializzazione,
la special-prevenzione e la general-prevenzione).
3. In relazione all’art. 13 Cost., occorre rilevare come, rientrando la libertà personale nell’alveo
dei diritti inviolabili dell’uomo, sia da riconoscere un “nucleo irriducibile di tutela” in capo
a ciascun individuo, a prescindere da qualsivoglia condizione personale a quest’ultimo riconducibile.
A dimostrazione della necessità di offrire un livello minimo di protezione dei diritti
fondamentali (la cui tutela non può soffrire limitazioni di carattere prettamente amministrativo
quale, appunto, l’assenza di un regolare permesso di soggiorno), è possibile ricordare quanto
la Corte ha avuto modo di affermare nella sent. n. 252 del 2001 in riferimento alla salvaguardia
del bene-salute. Secondo quanto si legge nella decisione richiamata, “la legge prevede …
un sistema articolato di assistenza sanitaria per gli stranieri, nel quale viene in ogni caso assicurato
a tutti, quindi anche a coloro che si trovano senza titolo legittimo sul territorio dello
Stato, il «nucleo irriducibile» del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost.”; pertanto, “lo
straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni
che risultino indifferibili e urgenti, secondo i criteri indicati dall’art. 35, comma 3 citato, trat-
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tandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito” (sul punto si veda
anche la sent. n. 432 del 2005, ove si afferma che “sullo specifico versante del diritto alla salute,
questa Corte ha reiteratamente puntualizzato che «il diritto ai trattamenti sanitari necessari
per la tutela della salute è “costituzionalmente condizionato” dalle esigenze di bilanciamento
con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di “un nucleo
irrinunciabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della
dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano
appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto” [….] Questo “nucleo irriducibile” di
tutela della salute quale diritto della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri,
qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno
nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso
»”). Com’è noto, i diritti fondamentali sono da collocare tutti su un medesimo piano, non
essendo configurabile un diritto che sia – come dire – “più fondamentale” di un altro; applicando
tale ragionamento al caso in esame, è possibile ritenere come il comma 11-bis che si
vuole aggiungere all’art. 61 possa comportare un’eccessiva compressione del bene-libertà personale
che, come detto, almeno nel suo nucleo irriducibile, deve essere garantito anche a coloro
che non sono forniti di un regolare permesso di soggiorno (peraltro, come si legge nella sent.
n. 432 del 2005, “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il principio costituzionale
di uguaglianza non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello
straniero solo quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo (v., fra le
tante, la sentenza n. 62 del 1994): così da rendere legittimo, per il legislatore ordinario, introdurre
norme applicabili soltanto nei confronti di chi sia in possesso del requisito della cittadinanza
– o all’inverso ne sia privo – purché tali da non compromettere l’esercizio di quei fondamentali
diritti”).
Inoltre, sembra presumersi che la pericolosità di un soggetto possa astrattamente
apprezzarsi solo in riferimento alla presenza, o meno, di un titolo legale che autorizzi il soggetto
stesso a permanere sul territorio italiano; a tal proposito, considerare lo status di soggetto
clandestino (rilevante solo sul piano prettamente amministrativo) quale elemento che,
aprioristicamente e in mancanza di una verifica caso per caso, possa attestare la pericolosità
sociale di un individuo appare palesemente contrario ai principi che informano il nostro ordinamento
(tra cui quello della presunzione di non colpevolezza; è utile, a tal proposito, riportare
quanto dalla Corte affermato nella sent. n. 62 del 1994: “Per quanto sia opportuno ribadire
ancora una volta che, quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo,
quale è nel caso la libertà personale, il principio costituzionale di eguaglianza in generale
non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero, va tuttavia
precisato che inerisce al controllo di costituzionalità sotto il profilo della disparità di
trattamento considerare le posizioni messe a confronto, non già in astratto, bensì in relazione
alla concreta fattispecie oggetto della disciplina normativa contestata”).
Conclusioni
Voglia questa Ecc.ma Corte costituzionale, per i motivi di cui in narrativa e per le diverse
ed ulteriori ragioni prospettate dal giudice remittente nell’ordinanza depositata il 20 ottobre
2008, accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata e dichiarare l’illegittimità
dell’art. 61, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008,
n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008, n. 125.
Con riserva di ulteriori e successive difese, all’esito dell’instaurazione del contraddittorio
con le parti che la Corte riterrà legittimate all’intervento nel presente giudizio.
Pisa-Ferrara, 11 ottobre 2008 - Alberto Randazzo, Viviana Zanetti».
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(All.4)
Corte costituzionale – Roma - Atto di costituzione ai sensi dell’art. 25, II co., l. 11
marzo 1953, n. 87, e dell’art. 3, norme integrative – dei signori Addolorata Rossi in
Sfortunati, Elena Sfortunati, Francesco Sfortunati, rappresentati e difesi, anche disgiuntamente,
dagli avv. Marco Croce, Donato Messineo e Valentina Petri, per mandato speciale in
calce al presente atto, elettivamente domiciliati in Roma presso lo studio dei medesimi, sito
in Via degli Orfanelli n. 3, 00100 Roma, nel procedimento per la risoluzione della questione
di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis, c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f),
d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla l. 24 luglio 2008 n. 125, in riferimento
agli 3; 13; 10, comma secondo; 25, comma secondo; 27, commi primo e terzo; 35,
comma quarto; 77; e 117, comma primo, della Costituzione.
« (Omissis) Con ordinanza del 20 settembre 2008, n. 567, il Tribunale di Pisa-Ferrara,
sez. I penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis, c.p.,
come introdotto dall’art. 1, lett. f), del d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni
dalla l. 24 luglio 2008 n. 125, ai cui sensi il reato è aggravato “se il fatto è commesso
da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale”. L’atto di rimessione ha addotto
vari profili, quali la mancanza dei presupposti per la decretazione d’urgenza, l’introduzione
di un automatismo legislativo sanzionatorio in materia penale legato al mero status amministrativo
di taluni soggetti, l’irragionevole discriminazione determinata a carico degli stranieri
cc.dd. “irregolari”, l’arbitraria compressione della libertà personale di costoro, l’introduzione
di un’aggravante “d’autore” slegata da precise offese a beni giuridici tutelati, il contrasto
con il carattere personale della responsabilità penale (necessariamente connessa alla
gravità del fatto commesso ed alla capacità a delinquere del reo), la violazione di obblighi
internazionali in tema di condizione giuridica dello straniero, la violazione di un preteso
diritto costituzionale all’immigrazione.
Invero, la questione di legittimità costituzionale sollevata appare manifestamente inammissibile,
e comunque nel merito risulta infondata.
A) Sulla manifesta inammissibilità.
A .1. Sull’assenza di rilevanza
Preliminarmente sembra opportuno effettuare alcune considerazioni in merito alla rilevanza
della questione nel giudizio a quo che non sembra essere stata sufficientemente motivata
dal giudice rimettente.
Secondo quanto sostenuto dal Tribunale di Pisa-Ferrara la questione va ritenuta rilevante
per una serie di ragioni. In particolare, la norma di cui all’art. 61, comma 11 bis si configurerebbe
come una “circostanza aggravante comune” perciò applicabile a tutti i reati, compresi
quelli colposi; inoltre, secondo il giudice rimettente, in sede di esecuzione della pena
troverebbe necessariamente applicazione il disposto dell’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.
così come modificato dall’art. 2, lett. m) della citata l. 125/2008, in forza del quale si produce
un effetto preclusivo alla fruibilità del beneficio della sospensione della pena previsto dal
comma 5 del medesimo art. 656 c.p.p. in considerazione dell’inapplicabilità del suddetto
beneficio ai delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, comma 11 bis c.p.
Secondo l’impostazione fatta propria dal giudice a quo, inoltre, anche qualora non si
facesse luogo alle circostanze aggravanti, in ragione del giudizio di prevalenza delle attenuanti
consentito dall’art. 69 c.p., il giudice sarebbe comunque tenuto a valutare la sussistenza
dell’aggravante di clandestinità e quindi costretto ad applicare la norma impugnata.
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In ultimo luogo, poi, la necessità di applicazione della norma in oggetto sarebbe determinata
anche dall’impossibilità di fruire della sospensione della pena prevista dall’art. 656,
comma 5, c.p.p., in ragione del fatto che, secondo una certa giurisprudenza, l’effetto preclusivo
determinato dal comma 9 del citato articolo 656 c.p.p. si configura come diretta conseguenza
del giudizio di sussistenza dell’aggravante, anche qualora «gli effetti di questa, quanto
all’aggravamento di pena, siano poi neutralizzati in ragione del bilanciamento con le
attenuanti» (Si v. pag. 4 dell’ordinanza).
Ebbene, le ragioni esposte dal giudice rimettente a sostegno della rilevanza della questione
non sembrano invero fondate.
In primo luogo, infatti, va osservato che il giudizio di sussistenza dell’aggravante è un
giudizio discrezionale del giudice del dibattimento (si v., in proposito Cass., sez. II,
182081/1989, secondo cui «il giudizio di comparazione delle circostanze è rimesso alla
discrezionalità del giudice…»), il quale può ben valutare che la circostanza de qua non
assurga in realtà ad aggravante del reato, non essendo invero necessario pensare che l’esistenza
della condizione di straniero “illegale” si configuri sempre e comunque come circostanza
che determina la maggiore gravità del fatto imputato e potendosi, invece, alle volte,
ritenere che la detta circostanza non incida in alcun modo sulla gravità del reato.
Quanto fin qui osservato comporta la possibilità che in alcuni giudizi la sussistenza
della circostanza possa esser ritenuta rilevante, ma non invece che lo sia indipendentemente
dalla valutazione della sua configurabilità come elemento di maggior gravità del delitto. Se
così è, dunque, il giudice rimettente non ha specificato di ritenere la detta condizione, sicuramente
posseduta dall’imputato, come elemento in grado di aggravare la fattispecie delittuosa,
non motivando quindi la rilevanza della questione oggetto del sindacato di codesta
Corte per il caso al suo esame.
Detto ciò, va altresì considerato che anche la rilevanza dovuta all’applicabilità della
norma preclusiva del beneficio di sospensione della pena non appare adeguatamente motivata
dall’ordinanza di rimessione.
Perché si determini l’effetto preclusivo di cui all’art. 656, comma 9, c.p.p., infatti, è
necessario che il giudice valuti l’effettiva ricorrenza della circostanza aggravante generica,
non essendo invece sufficiente il semplice possesso della qualità di “immigrato illegale”. In
altre parole, per determinare l’operatività del divieto di cui al citato art. 656 c.p.p., risulta
condizione prodromica e imprescindibile che il giudice abbia materialmente valutato la sussistenza
dell’aggravante, la quale, quindi, in quanto concretamente operante, deve aver prodotto
conseguenze sulla pena irrogata.
Questa interpretazione discende dal fatto che, seppur con riguardo alla recidiva – ossia
ad una circostanza personale ed “estrinseca” e indipendente dalla condotta sanzionata dal
reato e quindi paragonabile alla situazione de qua – la giurisprudenza ha affermato che «il
divieto di sospendere l’esecuzione delle pene detentive brevi in caso di recidiva è subordinato
non già alla qualità di “recidivo” del condannato, bensì alla circostanza che la recidiva (…)
sia stata “applicata”, cioè effettivamente valutata in quanto circostanza aggravante soggettiva
ed abbia perciò prodotto conseguenze concrete sulla pena irrogata» (così, ex multis, Cass.,
sez. IV, 26 giugno 2007; nonché Cass. Sez. I, 16 novembre 2006). Ancora con riguardo alla
medesima circostanza, inoltre, la giurisprudenza ha precisato inequivocabilmente che «in
tema di sospensione dell’esecuzione della pena (…) deve escludersi l’operatività della nuova
disciplina restrittiva introdotta dall’art. 9 l. 5 dicembre 2005 n. 251 in mancanza dell’espressa
contestazione (…) nel giudizio di cognizione e del suo riconoscimento in tale sede ovvero
quando la recidiva (…) non sia stata applicata perché, nel giudizio di comparazione, sono
state dichiarate prevalenti le circostanze attenuanti» (così Cass., sez. I, 28 settembre 2006).
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Come già accennato, la giurisprudenza citata si riferisce ad una circostanza aggravante in
tutto simile a quella menzionata dall’art. 61, comma 11 bis, ossia ad una circostanza estrinseca
e indipendente dalla condotta del reo, con la conseguenza di rendere ragionevole la necessità di
una sua applicazione analogica anche all’aggravante dovuta alla qualità di immigrato illegale.
Da quanto detto emerge chiaramente, quindi, che l’esistenza della qualità di immigrato
irregolare in capo all’imputato non comporta l’automatica necessità che tale circostanza agisca
come aggravante del delitto, con la conseguenza che, ove la circostanza non abbia aggravato
il reato, anche il divieto di sospensione della pena di cui al 656, comma 9, lett. a) c.p.p
non possa ritenersi operante.
Conseguentemente, stante l’assenza di motivazione dell’ordinanza di rimessione sul
punto, deve ritenersi che la medesima ordinanza sia priva di una necessaria condizione di
procedibilità del giudizio di costituzionalità e che la questione con la stessa sollevata debba
esser dichiarata inammissibile.
A.2. Sull’omesso tentativo di interpretazione adeguatrice.
1. In disparte l’asserita violazione dell’art. 77 Cost., i restanti profili di illegittimità
addotti, pur numerosi, sembrano intimamente collegati: essi, infatti, derivano tutti dall’erroneo
presupposto interpretativo secondo cui l’art. 61, n. 11-bis, c.p. troverebbe automatica ed
indiscriminata applicazione a carico degli stranieri irregolari che abbiano commesso un
reato, “a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale
del soggetto”. Ed infatti, il Tribunale ha ritenuto che il legislatore del 2008 abbia introdotto
una presunzione assoluta di pericolosità sociale, legata al mero accertamento dell’illegittima
presenza di taluni soggetti sul territorio italiano. Secondo il rimettente, a fronte di tale
accertamento, effettuato alla stregua di dati obiettivi, non residuerebbero margini di discrezionalità
giudiziaria nell’applicazione dell’aggravante.
Ricostruita in questi termini, la disciplina di cui all’art. 61, n. 11-bis, c.p. è stata considerata
in contrasto con l’esigenza, costituzionalmente imposta, che (l’an ed il quantum del)la
sanzione penale trovi(no) collegamento con il disvalore oggettivo della condotta lesiva di
beni giuridici tutelati. Il rischio di discriminazioni irragionevoli sarebbe in re ipsa, poiché
l’applicazione del precetto opererebbe – per così dire – ‘meccanicamente’, a prescindere
dalle peculiarità delle concrete vicende.
Inoltre, l’automatismo sanzionatorio, ricollegandosi ad una condizione soggettiva del
reo, finirebbe per punire una cerchia di persone in quanto tali, per la mera appartenenza ad
un determinato genus, secondo le suggestioni di un diritto penale basato sul “tipo di autore”,
affatto incompatibile con il carattere pluralista del vigente ordinamento costituzionale.
Del pari, le limitazioni apportate alle libertà fondamentali – vere (art. 13 Cost.) o presunte
(libertà di “immigrazione” ex art. 35 Cost.) – degli stranieri irregolari non troverebbero
giustificazione nell’esigenza di perseguire contro-interessi rilevanti, poiché per definizione
la concreta sussistenza di tali contro-interessi (neutralizzazione della pericolosità sociale
dei rei attraverso la rieducazione) sarebbe sottratta al sindacato del giudice.
Il filo rosso che lega le sintetizzate censure è costituito dalla tesi per cui l’applicazione
dell’aggravante opererebbe alla stregua di una “presunzione legale astratta ed automatica di
pericolosità sociale” che non ammette prova contraria.
Come anticipato, però, è proprio tale comune presupposto argomentativo che si appalesa
erroneo, di modo che, caduto questo, necessariamente vengono meno tutti i profili addotti.
Invero, la tesi che l’aggravante c.d. “di clandestinità” di cui all’art. 61, n. 11-bis, c.p.
avrebbe introdotto un automatismo sanzionatorio costituisce il frutto di una singolare inver-
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sione metodologica. Il significato da attribuire alla disposizione di recente introduzione, dettata
per un’ipotesi particolare, è stato ricostruito dal Tribunale in modo del tutto avulso dal
contesto, senza tener conto del tessuto normativo circostante, ed in specie dei principi generali
dell’ordinamento penale, taluni dei quali dotati di copertura costituzionale. Invero, tali
principi sono stati chiamati in causa dal rimettente solo in un secondo momento, quale parametro
di legittimità costituzionale, senza prima apprezzare la loro idoneità a conformare il
regime applicativo dell’aggravante che ci occupa, in modo da armonizzarla coerentemente
nel sistema. Le innovazioni legislative non cadono mai in uno spazio vuoto di diritto, ma si
inseriscono in una struttura preesistente, e si lasciano conformare dalle sue linee portanti.
La realtà è che il Tribunale avrebbe potuto e dovuto prendere in considerare proprio quelle
stesse norme costituzionali che esso ha richiamato, ma non già per rivolgersi alla Corte,
bensì – in un momento logicamente preliminare – per offrire un’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’aggravante de qua. Il principio di conservazione dei valori giuridici
fonda un vero e proprio dovere dell’autorità giudiziaria di attribuire alla legge, fra quelli possibili,
un significato compatibile con la Costituzione, e nella giurisprudenza costituzionale è
ormai consolidato il principio che le questioni proposte vanno dichiarate inammissibili se il
giudice a quo ha omesso il tentativo di interpretazione adeguatrice delle disposizioni sospettate
di incostituzionalità. Tale soluzione, giustificata da Corte cost. n. 356 del 1996 con il rilievo
che “in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché
è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché
è impossibile darne interpretazioni costituzionali”, è stata successivamente applicata dalla
medesima Corte con crescente regolarità (v. ad esempio, di recente, le ordd. nn. 34, 35, 57,
64, 94, 125, 143, 187, 193, 244 e 272 del 2006, e la sent. n. 103 del 2007).
Il rilievo meriterebbe di essere considerato anche nella presente controversia: paradossalmente,
in tal senso depone proprio la giurisprudenza costituzionale richiamata dal rimettente
a supporto della tesi dell’illegittimità costituzionale dell’aggravante in commento.
Ed infatti – come si vedrà in dettaglio più avanti – l’ordinanza del giudice a quo ha
richiamato varie sentenze in cui la Corte avrebbe esercitato il proprio sindacato su discipline
simili a quella recata dall’art. 61 n. 11-bis, c.p.: ora, dal punto di vista sostanziale, i confronti
proposti dal Tribunale appaiono spesso pertinenti, epperò essi inducono a conclusioni
diverse, tanto è vero che le sentenze richiamate dal Tribunale hanno per lo più dichiarato
(non la fondatezza, ma) l’inammissibilità delle questioni sottoposte alla Corte (v. ad esempio
quanto si dirà più avanti circa la disciplina della recidiva c.d. “reiterata”).
2. La corretta impostazione della questione richiede una breve premessa di ordine sistematico.
L’art. 61, n. 11-bis, c.p., come introdotto dal d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito
con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, ha introdotto un’aggravante comune (applicabile
alla generalità dei reati, compresi quelli colposi) di natura soggettiva, legata allo status
amministrativo di straniero non regolarmente presente sul territorio dello Stato.
In generale, è dato notorio, oggetto di diffuso accoglimento, che lo sforzo di tipizzazione
della fattispecie penale, grazie alla previsione di elementi accessori del fatto, abbia lo
scopo di realizzare l’adeguamento della pena al caso concreto. Se tale è la ragion d’essere
dell’istituto delle circostanze, è chiaro che, in fase applicativa, si rende necessario il filtro del
giudice, che verifichi, nel caso concreto, la rispondenza del caso della vita al giudizio di
disvalore astrattamente tipizzato dal legislatore nel prevedere la particolare circostanza
aggravante. Tale operazione non è mai neutra e non può esaurirsi in un riscontro di tipo notarile,
ma implica sempre la verifica in concreto da parte del giudice che la circostanza indicata
dalla norma abbia effettivamente aggravato la condotta.
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Invero, l’applicazione dell’aggravamento di pena presuppone sempre la valutazione del
giudice sul maggiore disvalore espresso dal fatto di reato siccome circostanziato dagli elementi
astrattamente tipizzati dalla norma. Schematicamente, può dirsi che la comminazione
dell’aggravamento di pena costituisce l’esito di un’operazione scandita in due fasi: in primo
luogo, il giudice deve accertare che il caso della vita rientri nella circostanza tipizzata dalla
norma; successivamente il giudice stesso deve verificare la possibilità di formulare in concreto
il giudizio di disvalore necessario per l’aggravamento della pena.
Tale duplice articolazione dell’intervento giudiziario risulta talora scolpita in modo particolarmente
evidente alla stregua dello stesso dato testuale: è questo il caso dell’art. 61, n.
9, c.p. (“l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti
a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un
culto”), poiché al giudice si richiede espressamente di accertare – oltre alla sussistenza della
qualifica soggettiva – anche “l’abuso” e l’intenzionalità dell’agente di usare il potere oltre i
limiti legali. Allo stesso modo, nel caso dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p. (“l’avere
commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di
relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità”), anch’essa qualificata
come aggravante comune soggettiva, è lo stesso tenore letterale ad indicare il versus
dell’indagine richiesta al giudice, trattandosi di accertare in concreto non solo la qualità personale
dell’agente ma anche l’abuso della stessa e i rapporti tra colpevole e offeso.
Per contro, in tutta una serie di casi il legislatore non ha esplicitato la direzione verso cui
deve muoversi l’analisi del giudice circa il modo in cui la condizione soggettiva tipizzata abbia
– eventualmente – aggravato la condotta. In questi casi, il giudice dovrà attingere alle risorse
dell’interpretazione logico-sistematica per individuare i criteri onde condurre l’accertamento
richiesto: a tal fine, egli dovrà prendere le mosse dalla particolare ratio dell’aggravante che di
volta in volta viene in considerazione, e verificarne la ricorrenza nel caso di specie.
Si consideri, a titolo di esempio, il regime della recidiva reiterata, di cui all’art. 99, c. 4
c.p., quale risulta a seguito della riforma apportata dalla l. n. 251 del 2005. La disposizione
prevede oggi che “se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena,
nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due
terzi”. La lettera della disposizione presenta dunque una decisa somiglianza con l’art. 61, n.
11-bis, c.p.: in ambo i casi, non si offre al giudice alcun criterio per valutare se ed in che
misura il fatto indicato dal legislatore esprima un disvalore tale da giustificare l’aggravamento
della pena.
Solo apparentemente tale dato potrebbe indurre a ritenere che gli aggravamenti di pena
previsti, rispettivamente, nell’art. 61, n. 11-bis e nell’art. 99, c. 4, c.p. siano automatici ed
obbligatori. In tal senso depongono, del resto, alcune affermazioni del giudice delle leggi,
che ha già avuto modo di pronunciarsi a proposito della recidiva reiterata – ma con argomenti,
lo si vedrà, facilmente estensibili anche all’aggravante di clandestinità.
Corte cost. n. 192 del 2007, nel definire una più complessa questione, avente ad oggetto
taluni limiti legislativi al (giudizio di bilanciamento nel) concorso di circostanze eterogenee,
ha dichiarato inammissibili i dubbi di legittimità costituzionale prospettati da alcuni giudici
– sia pure in relazione ad un’altra disposizione (art. 69, c. 4, c.p.) – poiché i rimettenti,
nel sottoporre la particolare questione alla Corte, avevano preso le mosse dal presupposto
argomentativo che l’aggravamento di pena previsto dall’art. 99, c. 4, c.p. andasse applicato
in ogni caso, senza tener conto delle “peculiarità del caso concreto”.
Appare significativo rilevare che la Corte, nell’occasione, ha alluso alla possibilità che
l’applicazione dell’aggravante sia “discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli
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effetti della commisurazione della pena”. Quanto agli elementi che potrebbero giustificare
tale “esclusione”, la Corte ha fatto riferimento a “precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente
significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto”. L’affermazione della Corte,
ben al di là del suo specifico oggetto, risulta densa di implicazioni sistematiche, poiché suggerisce
di escludere l’illegittimità costituzionale delle aggravanti cc.dd. ‘soggettive’ fin tanto
che il fatto menzionato dalla norma sia sintomatico di una maggiore pericolosità sociale del
reo anche solo potenziale, e la portata delle norma medesima possa essere circoscritta dal
sindacato in concreto del giudice.
Ora, poiché la sent. n. 192 del 2007 è stata richiamata dal Tribunale di Pisa-Ferrara nell’ordinanza
di rimessione della presente questione alla Corte, a supporto della censura di
irragionevolezza dell’aggravante di clandestinità, merita richiamarne ampiamente il passaggio
conclusivo. Il giudice delle leggi vi ha rilevato che “l’assenza di indirizzi consolidati
sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata;
conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla
data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della
novella) – è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa
in modo contrastante nelle prime decisioni in materia. Pertanto, la mancata verifica preliminare
– da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti
dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta
a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento
di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità
alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze n.
32 del 2007, n. 244, n. 64 e n. 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate”.
Tale precedente offre indicazioni estremamente utili per la definizione dell’odierna vicenda.
Ed infatti, i riportati rilievi sono stati formulati dal giudice delle leggi in relazione ad una
situazione normativa in tutto e per tutto simile a quella qui esaminata. Anche nel caso di specie
la Corte è chiamata a decidere una questione avente ad oggetto una disciplina di recentissima
introduzione, passibile di diverse interpretazioni, sulla quale, per forza di cose,
manca un “diritto vivente”; ed anche nel caso di specie appare opportuno consentire che
l’esercizio della funzione giurisdizionale approdi a soluzioni interpretative in grado di ‘accogliere’
la novità legislativa e razionalizzarne le implicazioni in armonia con i principi generali
del sistema – mentre la più traumatica soluzione costituita dalla declaratoria di illegittimità
costituzionale dovrebbe essere presa in considerazione solo in via successiva ed eventuale,
per il caso in cui si affermi un “diritto vivente” in contrasto con il parametro costituzionale.
Ciò appare maggiormente da ritenere se si segue l’orientamento affermato dal giudice
costituzionale nella sent. n. 355 del 2006, secondo cui il dovere del giudice di sperimentare
la possibilità di un’interpretazione conforme alla Costituzione (a pena di inammissibilità
della questione) “impone di fondarsi non già esclusivamente su una singola – peraltro non
univoca – espressione verbale ma sulla trasparente ratio dell’intera disciplina per verificare
se quella espressione sia tale da impedire una lettura sistematica, che sia rispettosa dei valori
costituzionali”.
3. Le superiori conclusioni sembrano corroborate dall’esame delle vicende che condussero
la Corte costituzionale a dichiarare nella sent. n. 58 del 1995 “l’illegittimità dell’art. 86,
primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo
unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga[va]
il giudice a emettere, senza l’accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità
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sociale, contestualmente alla condanna, l’ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei
confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82,
commi 2 e 3, del medesimo testo unico”. La disposizione che costituì allora oggetto della
richiamata additiva, pur esulando dalla materia delle circostanze del reato, presenta indubbi
addentellati con la questione qui esaminata: nella sua formulazione originaria, infatti, l’art.
86, d.p.R. n. 309 del 1990, si limitava a disporre l’espulsione dello straniero condannato per
reati in materia di stupefacenti, una volta scontata la pena, senza ulteriori precisazioni.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, talvolta abbracciato dalla stessa
Corte di Cassazione (v. ad esempio sent. 10 luglio 1993, n. 319, Medrano, in Riv. dir. int.,
1994, 530 ss.), la formulazione letterale della disposizione non ostava all’applicazione della
disciplina generale prevista dall’art. 31, c. 2, l. n. 663 del 1986, alla cui stregua “tutte le
misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso
il fatto è persona socialmente pericolosa”. Tale orientamento non riconosceva rilievo
decisivo all’omessa previsione, nel cit. art. 86, di una concreta verifica dell’esito della rieducazione:
la portata espansiva dei principi generali era ritenuta tale da colmare occasionali
silenzi del legislatore.
Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria era orientata nel senso che il ridetto art. 86
derogasse alla disciplina generale ed imponesse al giudice l’applicazione automatica dell’ordine
di espulsione, senza un concreto giudizio di pericolosità sociale del condannato.
La Corte costituzionale ha dedicato attenzione a siffatto contrasto giurisprudenziale,
tanto che l’intervento additivo si è reso necessario proprio in ragione della mancata affermazione
di un “diritto vivente” conforme a Costituzione: nella sent. n. 58 del 1995 è stato, infatti,
notato che “il giudice rimettente contesta la legittimità costituzionale di un “principio di
diritto” enunciato dalla Corte di cassazione in una sentenza di annullamento, con rinvio, di
una precedente decisione dello stesso Tribunale di Roma, con la quale a un cittadino marocchino,
condannato per cessione di sostanza stupefacente, era stata concessa la sospensione
condizionale della pena. Ponendosi in una posizione contraria rispetto ad altre decisioni
della stessa Corte di cassazione, per le quali l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione
prevista dall’art. 86, primo comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 comporta l’accertamento
giudiziale della pericolosità sociale del condannato, la sentenza di annullamento
con rinvio enuncia il “principio di diritto” secondo il quale la predetta misura di sicurezza
dell’espulsione, eseguibile a pena espiata, dev’essere ordinata con la sentenza di condanna
come conseguenza automatica della commissione del reato di cui all’art. 73 dello stesso
testo unico, con l’effetto di costituire giuridico ostacolo, per l’art. 164, secondo comma, n.
2, c.p., alla concessione della sospensione condizionale della pena. Così interpretato, il citato
art. 86, primo comma, si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione”. La precisazione
della Corte, secondo cui la disposizione oggetto del giudizio si poneva in contrasto con la
Costituzione (non già in sé e per sé, ma solo perché) “così interpretat[a]” fa emergere chiaramente
come il giudice delle leggi si sia risolto ad intervenire sul testo, per così dire, in via
‘sussidiaria’, solo a fronte della mancata affermazione nella giurisprudenza di legittimità di
una diversa interpretazione compatibile con la Costituzione, evidentemente reputata dalla
Consulta praticabile e più corretta. La somiglianza della disciplina normativa allora sottoposta
al vaglio della Corte con quella che forma oggetto del presente giudizio induce a ritenere
che per l’art. 61, n. 11-bis, c.p. debbano valere analoghi rilievi, sino a ritenere che la questione
sollevata vada dichiarata inammissibile per non avere il giudice a quo verificato la
possibilità di un’interpretazione adeguatrice, tesa ad espandere l’applicazione dei principi
generali alla richiamata aggravante.
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4. L’ordinamento costituzionale non tollererebbe una presunzione assoluta di pericolosità
sociale dello straniero illegittimamente presente nel territorio statale; per contro, nulla
osta a che il legislatore prescriva che tale elemento sia preso in considerazione ai fini della
valutazione della pericolosità sociale di colui che, nel momento in cui ha delinquito, versava
già in una situazione – per così dire – di ‘conflitto’ con l’ordinamento.
Da questo punto di vista, occorre notare che l’aggravante di clandestinità non risulta
affatto un corpo estraneo rispetto alle logiche del sistema codicistico, ed anzi, per certi versi,
sembra dare coerente sviluppo a consolidate tendenze. Si consideri, infatti, che anche in altri
casi il legislatore non irragionevolmente assume a sintomo di spiccata pericolosità sociale il
fatto che il reo al momento della consumazione dell’illecito penale stesse già sottraendosi al
potere coercitivo dello Stato, perciò stesso ponendosi in una condizione di (doppia) illegalità:
così, ad esempio, l’art. 61, n. 6, c.p. ha riguardo al caso di chi abbia “commesso il reato
durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un
ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedete reato”; e l’art. 7, l.
n. 575 del 1965 (come sostituito dall’art. 6, d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991,
e successivamente modificato dall’art. 7, l. n. 228 del 2003 e dall’art. 14, l. n. 146 del 2006)
dispone che “le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 336, 338, 353, 377, terzo
comma, 378, 379, 416, 416-bis , 424, 435, 513-bis , 575, 600, 601 , 602, 605, 610, 611, 612,
628, 629, 630, 632, 633, 634, 635, 636, 637, 638, 640-bis , 648- bis, 648-ter, del codice penale
sono aumentate da un terzo alla metà e quelle stabilite per le contravvenzioni di cui agli
articoli 695, primo comma, 696, 697, 698, 699 del codice penale sono aumentate nella misura
di cui al secondo comma dell’articolo 99 del codice penale se il fatto è commesso da persona
sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo
previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione”.
L’art. 61, n. 11-bis, se adeguatamente interpretato, si inserisce dunque armonicamente
nell’impianto del codice ed esprime una disciplina dotata di intima di razionalità, poiché
impone al giudice di condurre un’analisi in concreto circa le modalità con cui lo straniero ha
perpetrato l’illegittima permanenza nello Stato, in modo da applicare l’aggravamento di
pena ogni qual volta la condotta risulti sintomatica di una pericolosa indifferenza ai beni
protetti se non addirittura di sprezzo per l’ordinamento.
In definitiva, il fatto che il giudice a quo non abbia valutato tale opzione ermeneutica,
che appare idonea a frustrare i surriferiti dubbi di legittimità, preclude l’esame nel merito
della questione.
B) Sulla non manifesta infondatezza
Per ciò che attiene alla denunciata mancanza dei presupposti di straordinaria necessità
e urgenza che hanno portato all’emanazione tramite decreto legge della disciplina di cui ci
si occupa, basterà qui richiamarsi succintamente alla ormai consolidata giurisprudenza di
codesta eccellentissima Corte: a partire dalla sentenza n. 29/1995 il sindacato su tali presupposti
è sì possibile, ma nella misura del controllo “dell’evidente mancanza” degli stessi. Una
verifica, quindi, per linee esterne, che non può giungere sino a sindacare il merito della scelta
governativa, cosa espressamente vietata, peraltro, dall’art. 27 della legge n. 87 del 1953.
Ebbene, considerando l’attuale situazione del nostro paese è ben evidente come la scelta
normativa effettuata rientri pienamente nell’ambito della legittima gamma delle possibilità
di apprezzamento discrezionale dell’organo che procede alla normazione: i continui sbarchi
di migranti che proprio in questo periodo hanno subito un incremento notevole, il problema
del sovraffollamento nei centri di accoglienza, l’aumento – corroborato dalle statisti-
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che dell’ISTAT – dell’immigrazione clandestina, la diffusa percezione di insicurezza dei cittadini,
consentono sicuramente di considerare come scelta politica legittima quella di provare
a disinnescare il fenomeno anche per il tramite dell’aggravante in questione, pure attraverso
la decretazione d’urgenza.
Anche da un punto di vista per così dire oggettivo, la disposizione censurata si inserisce
in un contesto di azione coerente, che ha visto l’estensione dello stato di emergenza
all’intero territorio nazionale attraverso la deliberazione del Consiglio dei Ministri del
25/7/2008 proprio per il persistente ed eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari.
Dal punto di vista formale, cioè quello degli indici intrinseci ed estrinseci della straordinaria
necessità e urgenza dei casi che consentono l’adozione per decreto legge della disposizione
impugnata, è possibile con certezza asserire che il provvedimento non presentava alcun vizio,
recando nell’epigrafe “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” e nel preambolo l’inciso
“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare
un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati
all’immigrazione illegale”, dimostrando così una coerenza che rende assolutamente legittima
costituzionalmente la scelta di intervenire sulla materia tramite decretazione d’urgenza.
Per ciò che attiene invece alla violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo
della ragionevolezza, il rimettente denuncia il fatto che la disposizione censurata farebbe
conseguire “da una mera condizione soggettiva l’automatica applicazione di effetti penalmente
rilevanti, a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità
sociale del soggetto” (pag. 7 dell’ordinanza).
Ebbene, posto quanto argomentato in relazione alla manifesta inammissibilità della
questione, che qui si richiama integralmente, l’interpretazione conforme a Costituzione suggerita
consente di considerare costituzionalmente non illegittima l’aggravante sancita dall’art.
61, n. 11-bis c.p.
Inoltre, anche qualora si considerasse che la disposizione impugnata non sia suscettibile
di altre interpretazioni costituzionalmente orientate, essa non sarebbe comunque incostituzionale
dal momento che quanto argomentato a proposito dei requisiti di straordinaria
necessità e urgenza consentirebbe comunque di pervenire al rigetto della questione: il sindacato
di ragionevolezza è comunque un sindacato di legittimità, che si deve arrestare laddove
la scelta appaia comunque riconducibile alla discrezionalità del Legislatore (nel caso di specie
del Governo esercitante la sua potestà normativa d’urgenza, nonché del Legislatore “di
conversione”) nel valutare la diversità di situazioni, anche personali, che legittimano la
diversità di trattamento. Sembrerebbe questo uno dei casi paradigmatici in cui un sindacato
di legittimità verrebbe a trasformarsi in uno di merito: la valutazione e dei requisiti che
hanno richiesto l’intervento e della forma stessa dell’intervento è in realtà una valutazione
che deve essere lasciata agli organi titolari dell’indirizzo politico, potendo essere sindacata
solo in caso di manifesta irragionevolezza. Gli indici formali e sostanziali richiamati in precedenza,
in particolare l’entità del fenomeno migratorio e la percezione di insicurezza che da
tale fenomeno il cittadino trae, consentono di considerare quella di cui si dibatte una political
question, risolvibile in una pluralità di modi diversi purché tali modi non urtino con assoluta
evidenza contro i “paletti” costituzionali. L’apprezzamento discrezionale operato, in
ragione della diversità di situazione che caratterizza il soggetto presente illegalmente sul territorio,
può essere dunque considerato, alla luce della situazione che legittima l’intervento
per il tramite della decretazione d’urgenza, costituzionalmente non illegittimo.
Sono da considerarsi manifestamente infondate anche le censure che si basano sugli art.
25, comma 2, e 27, commi 1 e 3, Cost.: ciò si dimostra, in primo luogo, accedendo all’inter-
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pretazione proposta in sede di contestazione dell’inammissibilità della questione che qui si
richiama integralmente; in secondo luogo, anche qualora tale interpretazione non fosse consentita
dalla lettera della disposizione, la stessa non sarebbe incostituzionale, essendo libero
il Legislatore di apprezzare come maggiormente pericoloso e maggiormente meritevole di
sanzione penale un soggetto che non rispetta le regole inerenti la permanenza sul territorio
nazionale, cosa che potrebbe ragionevolmente essere utilizzata come indice per dimostrare
l’ostilità dello stesso verso le regole dell’ordinamento giuridico italiano.
Passando all’esame degli altri motivi di incostituzionalità segnalati, non pertinente
appare il richiamo come parametro dell’art. 13 Cost., dal momento che la libertà personale
viene limitata non già per la presenza illegale sul territorio, ma a causa della commissione di
un reato, così come avviene per tutti gli altri soggetti presenti sul territorio nazionale. Non si
vede quindi che cosa il succinto richiamo, peraltro quasi immotivato, del parametro indicato
vorrebbe dimostrare. Anche da questo punto di vista la questione appare dunque manifestamente
infondata.
Nessun pregio può poi essere attribuito al richiamo come parametro del giudizio degli
artt. 10, comma 2, e 117 comma 1, Cost.: a parere del rimettente, infatti, la disparità di trattamento
introdotta con tale “aggravante d’autore”, proprio perché priva di qualsiasi collegamento
con il fatto di reato e non ancorata ad un concreto giudizio di pericolosità, si risolverebbe
in una irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e
condizione personale, in violazione di molteplici disposizioni e trattati internazionali (v. pag.
13 dell’ordinanza di rimessione).
Ebbene, queste censure si dimostrano assolutamente prive di fondamento giacché,
come si è ampiamente dimostrato in sede di contestazione della manifesta inammissibilità
della questione, richiamando qui integralmente quanto già dedotto, il legislatore non ha
introdotto alcuna aggravante d’autore. Per tacere del fatto che la giurisprudenza costituzionale
inaugurata dalle sentenze 348 e 349 del 2007 non autorizza a considerare automatica
l’estensione ad ogni trattato della “dignità” di norma interposta: sul punto l’ordinanza di
rimessione tace del tutto, non spiegando perché i trattati richiamati vadano a integrare il
“blocco di costituzionalità” (tale assenza potrebbe fors’anche essere apprezzata come vizio
della motivazione).
Appare infine del tutto non pertinente il richiamo all’art. 35 della Costituzione, disposizione
che è chiaramente volta a disciplinare la libertà di emigrazione dei cittadini italiani verso
gli altri Stati, emigrazione possibile “salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale”,
non già un generico (e inimmaginabile) diritto all’emigrazione di ciascun individuo verso
lo Stato italiano che, a voler essere rigorosi, dovrebbe allora poter essere azionato dal migrante
anche nei confronti dello Stato di origine che non gli permettesse l’emigrazione, con ciò
dimostrandosi l’assurdità dell’asserzione contenuta nell’ordinanza di rimessione.
Per questi motivi
Voglia codesta ecc.ma Corte dichiarare manifestamente inammissibile, ovvero, in
subordine, dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
prospettata dall’ord. n. 567 del 2008 del Tribunale di Pisa-Ferrara.
Catania-Pisa-Roma, 11 ottobre 2008.
Avv. Marco Croce, Avv. Donato Messineo, Avv. Valentina Petri
Mi rappresentino e difendano, anche disgiuntamente, davanti alla Corte Costituzionale,
nel procedimento di legittimità costituzionale sollevato dall’ordinanza n. 567 del 2008 del
Tribunale di Pisa-Ferrara, con ogni più ampia facoltà di legge, gli avv. Marco Croce, Donato
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Messineo, Valentina Petri, presso il cui studio sito in Via degli Orfanelli n. 3, 00100 Roma,
eleggo domicilio.
Addolorata Rossi in Sfortunati – Elena Sfortunati – Francesco Sfortunati
Vere ed autentiche le superiori firme – Avv. Donato Messineo».
(All.5)
Corte costituzionale, sentenza 1 dicembre 2008 n. 411 – Pres. Giulia Vaccari –
Giudici: Elena Innocenti, Alberto Evangelisti, Matteo Motroni, Sara Lorenzon, Alessandro
Giaconia, Daniele Chinni, Pietro Faraguna, Elisabetta Lanza, Peter Lewis Geti, Elisabetta Di
Stefano – nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n.11-bis c.p., come
introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (Misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, promosso
dal Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale, con ordinanza del 20 settembre
2008, iscritta al n. 209 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2008.
«Visti gli atti di costituzione di M.V., di A.R. ed altri nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4 novembre 2008 il Giudice relatore Peter Lewis Geti,
sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Daniele Chinni;
uditi gli avvocati Viviana Zanetti e Alberto Randazzo per M.V., Valentina Petri per A.R.
ed altri e l’avvocato dello Stato Emanuela Brugiotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto (omissis)
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f),
del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito,
con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, per violazione degli artt. 3, 10 co. 2,
13, 25 co. 2, 27 co. 1 e 3, 35 co. 4, 77 e 117 co. 1 della Costituzione.
2.- In via preliminare occorre affrontare la censura mossa dal giudice rimettente in relazione
all’art. 77 Cost., essendo vizio relativo alla fonte utilizzata.
La questione non è fondata.
La giurisprudenza di questa Corte (ex aliis, sentenze n. 128 del 2008, n. 171 del 2007 e
n. 29 del 1995) ha più volte affermato che il sindacato sull’esistenza dei presupposti della
necessità e dell’urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge 11 – e il
Parlamento a convertirli – può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti
stessi. Nella specie, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione
impugnata deve ritenersi non sussistente il denunciato vizio.
La norma censurata non si connota, infatti, per l’evidente estraneità rispetto alle ragioni
di necessità ed urgenza di cui all’intestazione del decreto («Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica»), al preambolo dello stesso («Ritenuta la straordinaria necessità ed
urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo più efficiente per
contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità
organizzata») nonché alla relazione d’accompagnamento della legge di conversione, in
specie laddove il Governo afferma che «il fine specifico» del provvedimento è quello «di
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affrontare in via di urgenza taluni problemi di ordine e sicurezza pubblica, beni primari purtroppo
pregiudicati da taluni gravissimi fenomeni in continua espansione», tra cui «la spinta
criminogena di una immigrazione irregolare senza controlli adeguati in ordine alla sussistenza
dei requisiti per ottenere un soggiorno legale nel territorio dello Stato» e che lo strumento
del decreto-legge «viene utilizzato a cagione della straordinaria necessità e urgenza di
arginare le difficoltà più significative, in attesa di una più compiuta rivisitazione della normativa
regolante i fenomeni sopra brevemente riportati, da funzionalizzare con disegni di
legge di iniziativa governativa di prossima presentazione».
Nella consapevolezza che l’esercizio del sindacato di questa Corte «non sostituisce e
non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede
di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi
su un piano diverso» (sentenza n. 171 del 2007), deve osservarsi che la non evidente
mancanza dei presupposti è suffragata anche dagli indici estrinseci, avendo fatto riferimento
la difesa erariale, nella memoria conclusiva, all’eccezionalità del flusso migratorio e ai
dati del Ministero dell’Interno sulla connessione fra immigrazione illegale ed aumento dei
fenomeni criminosi, i quali, se non valgono per ciò solo a rendere costituzionalmente legittima
la norma adottata dal Governo, possono però essere ritenuti sufficienti per l’adozione
di provvedimenti ex art. 77 Cost.
3.– La questione è ammissibile, nonostante le eccezioni proposte dall’Avvocatura dello
Stato e dalla parte civile in relazione al supposto mancato esperimento del tentativo di interpretazione
conforme da parte del giudice a quo.
3.1.– Pur in mancanza di una esplicita indicazione dell’esperimento di detto tentativo,
a voler leggere correttamente l’ordinanza di promovimento non si può che osservare come
il Tribunale rimettente abbia in verità tentato di dare alla disposizione impugnata una lettura
costituzionalmente orientata.
In tal senso devono leggersi le riflessioni compiute dal giudice a quo laddove tenta
infruttuosamente di estendere in via analogica 12 alla circostanza di cui all’art. 61, co. 1, n.
11-bis c.p. le indicazioni interpretative fornite dalla giurisprudenza costituzionale in materia
di recidiva reiterata, per poi procedere ad un tentativo di interpretazione che permetta di
distinguere le diverse ipotesi, previste dalla normativa, di illegittima presenza sul territorio
da parte di cittadini stranieri. In merito il giudice a quo rileva come «quand’anche lo status
di irregolare sul territorio nazionale sia apprezzato come dimostrativo di una maggiore intensità
della “ribellione” all’ordinamento da parte del soggetto, esso, per non dare luogo ad
aumenti di pena irragionevoli, irrazionali, e sproporzionati, andrebbe almeno diversamente
valutato a seconda che discenda (seguendo la tipizzazione di cui all’art. 13, comma secondo,
del D.lgs. 286/1998, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero”) da: a) ingresso nel territorio dello Stato
sottraendosi ai controlli di frontiera; b) soggiorno nel territorio dello Stato senza aver richiesto
il relativo permesso nei termini prescritti; c) mancato rinnovo del permesso di soggiorno,
ovvero riguardi un cittadino comunitario le cui condizioni di ingresso e soggiorno sono
regolate dal D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, “Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa
al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri”».
Il Tribunale di Pisa-Ferrara ha ritenuto, pertanto, che a voler ammettere che lo status di
irregolare sul territorio nazionale possa essere legittimamente assunto dal legislatore come
elemento dimostrativo di una maggiore pericolosità sociale ciò dovrebbe accadere, per non
violare il principio d’eguaglianza, tenendo distinte le varie ipotesi dalle quali detto status
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discende. È di tutta evidenza che tale condizioni non potessero essere ricavate dalla disposizione
denunciata utilizzando i consueti canoni interpretativi e, pertanto, era scelta obbligata
per il giudice rimettente, in presenza di un dubbio di costituzionalità, sollevare la questione
dinanzi a questa Corte.
4.– Proprio i tentativi esperiti confermano come in questo caso sia la stessa lettera della
disposizione ad opporsi «ad un’esegesi di tale disposizione condotta secondo i canoni dell’interpretazione
costituzionalmente conforme: tale circostanza segna il confine, in presenza
del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale
» (sentenza n. 219 del 2008). Non sono condivisibili, infatti, le supposte interpretazioni
costituzionalmente orientate prospettate dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte civile,
perché prive di fondamento giuridico.
4.1.– Non è, innanzitutto, estensibile in via analogica alla disposizione oggetto del presente
giudizio quanto questa Corte ha avuto modo di sostenere nella sentenza n. 192 del 2007.
In quella occasione questa Corte aveva potuto escludere l’automatismo applicativo
della recidiva reiterata, cui prima facie condurrebbe l’avvenuta utilizzazione nell’art. 99, co.
4, c.p., «con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente
(«è») – in luogo della voce verbale «può», che compariva nel testo precedente [alla modifica
legislativa apportata dall’art. 4 della l. n. 251 del 2005], e che figura tuttora nei primi
due commi dello stesso art. 99 c.p., con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva
aggravata» facendo leva sul fatto che la nuova formulazione normativa può essere letta
«anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività,
esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e
reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al
secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché
variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale
del giudice di applicare o meno l’aumento stesso». La discrezionalità, per il giudice,
nell’applicare o meno l’aumento di pena nel caso della recidiva reiterata, pertanto, si è potuta
riconoscere riconducendo tale istituto alla figura generale della recidiva prevista dall’art.
99, co. 1, c.p., il che implica, di conseguenza, che «la struttura della recidiva resti quella –
indubbiamente facoltativa – ivi contemplata».
Diversamente, l’art. 61 c.p., nel disciplinare le circostanze aggravanti comuni, tra le
quali è stata ora inserita quella di cui alla disposizione oggetto del presente giudizio, non
lascia al giudice alcuna possibilità di operare valutazioni discrezionali sul “se” applicare
l’aggravante, essendo questi libero solamente nello stabilire la misura dell’aumento di pena.
Pertanto, il giudice rimettente ha correttamente ritenuto che, una volta accertata la presenza
illegale dello straniero sul territorio nazionale al tempo della commissione del fatto, l’aggravante
prevista dall’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. doveva obbligatoriamente essere contestata e,
se del caso, applicata.
Quanto ora detto vale, peraltro, anche a superare l’eccezione d’inammissibilità della
questione per carente motivazione in punto di rilevanza mossa dalla parte civile.
4.2.– Analogamente, la disposizione denunciata non è suscettibile di essere interpretata
secondo quanto proposto dall’Avvocatura dello Stato, secondo la quale la condizione di illegalità
sul territorio nazionale di cui all’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. «è subordinata al fatto di essere
già stati colpiti, al momento della commissione del reato aggravato dalla circostanza in
esame, da un provvedimento di espulsione ministeriale, prefettizia o giudiziaria, da un foglio di
via obbligatorio, da un ordine di allontanamento o da un altro provvedimento amministrativo o
giudiziario previsto dalla legge che imponga il loro allontanamento dal territorio nazionale».
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Ai sensi degli artt. 235 e 312 c.p. e degli artt. 13, co. 13 e 13-bis, e 14, co. 5-ter e 5-
quater, del T.U. in materia di disciplina dell’immigrazione, lo straniero che viola un provvedimento
d’allontanamento dal territorio nazionale commette un illecito penale. Di conseguenza,
la condotta che secondo l’interpretazione prospettata dall’Avvocatura integrerebbe
la condizione d’illegalità prevista dalla disposizione oggetto del presente giudizio integrerebbe
altresì, a seconda di quale tipo di provvedimento d’allontanamento sia stato violato, le
diverse fattispecie di reato cui si è fatto riferimento. Poiché, però, ai sensi dell’art. 61, co. 1,
c.p. le circostanze aggravanti comuni possono aggravare il reato solo quando non ne siano
elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, se si seguisse l’interpretazione proposta
dalla difesa erariale l’art. 61, co. 1, n. 11-bis non potrebbe mai essere applicato, dovendosi
se del caso contestare uno dei suddetti reati.
Si deve allora osservare che, poiché nell’interpretazione di una disposizione è necessario
attribuirvi un significato che, prima ancora che costituzionalmente conforme, sia coerente
con l’ordinamento – ciò che certo non sarebbe seguendo la lettura della difesa erariale,
giacché sarebbe presente nell’ordinamento una norma insuscettibile di qualsivoglia applicazione
- non può che affermarsi che la disposizione oggetto del presente giudizio non può
essere interpretata secondo quanto proposto dall’Avvocatura.
5.– È allora evidente che la disposizione denunciata deve interpretarsi nel senso di cui
all’ordinanza di promovimento, e cioè nel senso che l’aggravante vada riferita indistintamente
a tutti gli stranieri che siano clandestini al momento della commissione del fatto criminoso.
È questa pertanto la norma sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi.
6.– Così definita, la questione è fondata.
6.1.– L’aggravante di cui alla disposizione oggetto del presente giudizio ha i caratteri di
aggravante comune, in quanto applicabile a qualsiasi reato, sia esso doloso o colposo, e , ai
sensi dell’art. 70 c.p., soggettiva, in quanto contestabile a chi al momento del fatto era presente
sul territorio nazionale pur in mancanza di un titolo abilitativo all’ingresso o al soggiorno.
Le circostanze incidono sulla gravità del reato o rilevano come indici della capacità a
delinquere del soggetto, comportando una modificazione, quantitativa o qualitativa, della
pena. Esse si inquadrano nella struttura della norma giuridica penale, integrandosi con gli
elementi costitutivi del reato e così determinando la configurazione della fattispecie del reato
circostanziato, normativamente autonoma: in questo modo le circostanze consentono una
migliore tipizzazione della fattispecie penale e parimenti una migliore indicazione legale del
disvalore del fatto, con conseguente ampliamento della cornice di pena edittale entro cui il
giudice può muoversi nella commisurazione giudiziale della stessa.
6.2.– Questa Corte ha già precisato che «l’art. 25 Cost., quale risulta dalla lettura sistematica
a cui fanno da sfondo […] l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula
un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione
normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice […]» (sentenza n. 263
del 2000) di modo che, appunto, «il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente
della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere
fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo
di un bene o interesse oggetto della tutela penale (“offensività in astratto”) e dell’applicazione
giurisprudenziale (“offensività in concreto”) quale criterio interpretativoapplicativo affidato
al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in
pericolo il bene o l’interesse tutelato» (sentenza n. 265 del 2005).
Ne consegue che, da un lato, la fattispecie di reato deve essere espressiva, già nell’astratta
previsione legale, dell’offesa a un bene giuridico penalmente tutelato e che, dall’al-
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tro, un aggravamento della pena può essere giustificato solamente da una maggiore offesa al
bene giuridico stesso. Al riguardo la Corte, sin dalla sentenza n. 26 del 1979, ha con giurisprudenza
costante affermato che «la configurazione delle fattispecie criminose e le valutazioni
sulla congruenza fra i reati e le pene appartengono alla politica legislativa; salvo però
il sindacato giurisdizionale sugli arbitrii del legislatore, cioè sulle sperequazioni che assumano
una tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate» (v. anche, tra le decisioni più
recenti, sentenze n. 313 del 1995, n. 217 del 1996 e n. 287 del 2001, nonché ordinanze nn.
110 e 323 del 2002, n. 172 del 2003 e n. 158 del 2004).
6.3.– Questo é appunto il caso della norma impugnata che, nello stabilire una circostanza
aggravante comune, di tipo soggettivo, irragionevolmente reputa di maggior gravità l’offesa
arrecata ad un bene giuridico qualora il fatto sia commesso da un soggetto che si trovi
illegalmente sul territorio nazionale.
6.3.1.– Il codice penale, come detto, prevede più d’una circostanza di tipo soggettivo.
Tuttavia, il legislatore legittimamente assume queste circostanze come elementi che aggravano
l’offensività del reato o perché si pongono in un nesso di strumentalità rispetto alla
commissione dello stesso, come nel caso delle circostanze di cui all’art. 61, nn. 9 e 11, c.p.,
o perché considerate espressione di una maggiore pericolosità sociale del reo, come nel caso
dell’istituto della recidiva ex art. 99 c.p.
È di tutta evidenza che la disposizione oggetto del presente giudizio è affatto assimilabile
alle circostanze soggettive del primo tipo, poiché il mero fatto di trovarsi illegalmente
sul territorio nazionale non ha alcuna connessione contenutistica o teleologica con la condotta
punita, di talché non può certo sostenersi che sia in grado di aumentare il disvalore penale
del fatto, in rispetto del principio di offensività.
Una qualche analogia è riscontrabile con l’istituto della recidiva, poiché in tal caso la
situazione soggettiva dell’autore del reato è presa in considerazione in quanto tale, a prescindere
da qualsivoglia nesso funzionale o contenutistico con la condotta che si intende punire.
Ma al riguardo, oltre a quanto si è già detto circa la facoltatività, per il giudice, di comminare
l’aumento di pena in caso di recidiva – discrezionalità che invece non viene riconosciuta, come
nel caso in esame, quando si tratti di circostanze aggravanti comuni – deve osservarsi che l’art.
99 c.p. fonda la valutazione di pericolosità sul riferimento al compimento di atti che abbiano
concretamente leso o messo in pericolo beni protetti dall’ordinamento penale e di cui sia stata
accertata giudizialmente la relativa responsabilità. La disposizione oggetto del presente giudizio,
invece, comporta obbligatoriamente l’aumento di pena in ragione della commissione di un
mero illecito amministrativo, anche non formalmente accertato o contestato.
È sotto quest’ultimo aspetto che si profila il vizio di illegittimità costituzionale per mancanza
di ragionevolezza poiché assumendo a sintomo di pericolosità sociale la presenza irregolare
sul territorio nazionale – «grave problema sociale, umanitario ed economico che
implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine
e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla
pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il
fenomeno dell’immigrazione» lo ha definito questa Corte nella recente sentenza n. 22 del
2007 – si stabilisce una norma assolutamente eccentrica rispetto alla logica del sistema delle
circostanze, che impone al giudice un aumento di pena in presenza di un fatto assolutamente
privo di una maggiore carica offensiva.
6.3.2.– Deve osservarsi, inoltre, che insieme alla violazione del combinato disposto
degli artt. 25, co. 2, e 3 Cost., la disposizione oggetto del presente giudizio, proprio in ragione
di quanto si è sinora detto, si pone in contrasto innanzitutto con il principio d’eguaglian-
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za – poiché fatti aventi lo stesso disvalore penale sono puniti irragionevolmente in maniera
diversa – e, poi, con la funzione rieducativa della pena.
La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha già avuto modo di evidenziare come il
legislatore possa, nel determinare la quantità della pena, tener conto delle finalità di prevenzione
generale e di difesa sociale della stessa anche, se del caso, facendo prevalere l’una
piuttosto che l’altra, purché, però, «nessuna ne risulti obliterata» (sentenza n. 78 del 2007).
È ciò che, invece, accade con la previsione dell’aggravante in esame, poiché la funzione rieducativa
della pena «viene pregiudicata da una palese eccedenza del sacrificio della libertà
personale in proporzione all’offesa recata dalla condotta punibile» (sentenza n. 22 del 2007;
v. anche sentenze n. 343 del 1993 e n. 313 del 1990).
7.– Per tutte queste ragioni, la questione è fondata in riferimento agli artt. 3, 25, co. 2,
Cost., e 27, co. 3, Cost.
Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati nell’ordinanza
introduttiva del presente giudizio.
8.– In via consequenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la
dichiarazione di illegittimità costituzionale deve estendersi anche all’art. 656, co. 9, lett. a),
c.p.p., come modificato dall’art. 2, lett. m), della legge 24 luglio 2008, n. 125, limitatamente
alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’articolo 61, primo comma,
11- bis), del medesimo codice» perché, una volta caducata la disposizione oggetto del presente
giudizio, questa non ha alcuna autonomia applicativa (cfr. sentenza n. 24 del 2004).
Per questi motivi
la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis
c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f) del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge
24 luglio 2008, n. 125.
Dichiara ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale
consequenziale dell’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p., come modificato dall’art. 2, lett. m),
della legge 24 luglio 2008, n. 125, limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante
di cui all’articolo 61, primo comma, 11-bis), del medesimo codice».
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-
bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f) del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge
24 luglio 2008, n. 125, in riferimento all’art. 77 Cost.
Così deciso in Pisa-Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Sapienza-
Consulta, il 4 novembre 2008.
F.to:Giulia Vaccari, Presidente; Daniele Chinni, Redattore; Paola Di Giuseppe,
Cancelliere.
Depositata in cancelleria il 1° dicembre 2008.
Il Direttore della Cancelleria F.to: Di Giuseppe».
DOTTRINA 413
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06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 414
1. ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI
ROBERTO ANTILLO, Considerazioni critiche e spunti di riflessione sul sistema
delle notifiche a mezzo posta (art. 7 della legge 20 novembre 1982 n. 890,
come modificato dall’art.36, co.2-quater e 2-quinques della legge 28 febbraio
2008 n.31) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,275
DIEGO AROCCHI, Applicabilità della normativa della regione Friuli Venezia
Giulia in materia di lavori pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,159
GIUSEPPE ARPAIA, Clausola compromissoria nulla per contrasto con norme
imperative ed inserzione automatica di clausole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,281
MASSIMO BACHETTI, ALESSANDRABRUNI, TULLIOMATTEO RUBERA, Le forze multinazionali
all’estero e l’ immunità penale dei militari: il caso “Calipari”. . . . » III,184
MAILA BEVILACQUA, La responsabilità ambientale da cosa in custodia . . . . . . . » I,347
ROBERTO BIN, La leale collaborazione nel nuovo Titolo V della Costituzione
(intervento al Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo
Titolo V della Costituzione”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,34
MAURIZIO BORGO, Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è compatibile con
le regole comunitarie sugli appalti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,5
BENEDETTO BRANCOLI BUSDRAGHI, Diritto comunitario e lavoratori distaccati:
dopo Ruffert, l’accento è sui servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,178
EMANUELA BRUGIOTTI, Il processo simulato. Esperimenti di giustizia costituzionale:
l’aggravante della clandestinità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,365
VALERIA CAMILLI , La natura giuridica degli enti fiera . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . » III,214
VALERIA CAMILLI, RITA TUCCIO, dossier: Ingresso - soggiorno dello straniero
e tutela dell’ordine pubblico: il problema dell’effetto delle precedenti condanne
penali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,133
I N D I C I S I S T E M A T I C I
A N N U A L I
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 415
FLORIANA CERNIGLIA, Le vicende e le prospettive del federalismo fiscale in
Italia (relazione per il Convegno “Gli strumenti di politica economica nel
nuovo Titolo V della Costituzione”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,64
MARIA ANTONIA CHIECO, Violazione alla concorrenza - Imputazione responsabilità
in caso di successione di imprese: il caso tabacchi italiani. . . . . . . . » I,114
CINZIA F. CODUTI, La centralità del rischio nella concessione di servizio pubblico.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,298
ROBERTO COLLACCHI, Annotazione dei dati nel casellario imprese: disapplicazione
della delibera di esclusione dalla gara di appalto.. . . . . . . . . . . . . . » I,289
SARA D’AMARIO, Appalti pubblici: tutela delle informazioni riservate e diritto
ad un equo processo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,203
LORENZO D’ASCIA, Il particolare meccanismo di decisione preventiva delle
questioni di massima nella giustizia contabile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,261
FEDERICO DINELLI, Ancora “organi dello Stato con personalità giuridica”?. . . » I,188
AURELIANA DI MATTEO, Sull’affidamento diretto di servizi di trasporto sanitario,
ad associazioni di volontariato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,162
PIERLUIGI DI PALMA, L’illegittimità costituzionale della Legge regionale della
Lombardia n. 29/07 sul trasporto aereo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,234
CHIARA DI SERI, Sul principio di non discriminazione uomo-donna in materia
di benefici fiscali di incentivo all’esodo dei lavoratori . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,60
FABRIZIO FEDELI, La sussidiarietà nell’articolo 118 della Costituzione (intervento
al Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo
V della Costituzione”). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,41
WALLY FERRANTE, Condanna dell’Italia per la differente età pensionabile tra
uomini e donne pubblici dipendenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,50
WALLY FERRANTE, Sufficienza del voto alfanumerico negli esami di abilitazione:
un’unica via interpretativa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,248
GIUSEPPE FIENGO, Limiti alla capacità giuridica per le imprese pubbliche che
gestiscono servizi pubblici locali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,167
MAURIZIO FIORILLI, Sentenze rese dalla Corte di giustizia nell’anno 2007,
cause che hanno interessato l’Italia. Breve sintesi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,15
OSCAR FIUMARA, Discorso dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione
della Cerimonia di inaugurazione dell’ anno giudiziario. Corte Suprema di
Cassazione, 25 gennaio 2008. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,1
416 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 416
OSCAR FIUMARA, Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione
della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2009. Corte di
Cassazione, 30 gennaio 2009. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,1
OSCAR FIUMARA, Saluto dell’Avvocato Generale dello Stato al Presidente
uscente della Corte costituzionale Franco Bile e al nuovo giudice
Giuseppe Frigo. Corte costituzionale, udienza del 4 novembre 2008 . . . . . . » III,1
OSCAR FIUMARA, Saluto dell’Avvocato Generale dello Stato al nuovo Presidente
della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick e al nuovo giudice
Alessandro Criscuolo. Corte costituzionale, udienza del 18 novembre 2008 . . . » III,4
OSCAR FIUMARA, PAOLO GENTILI, Aspetti giuridici del multilinguismo -
Intervento dell’Avvocato Generale al convegno “Per il multilinguismo
nell’Unione europea – La parità delle lingue nell’Unione europea”, tenutosi
nella sede della Accademia della Crusca. Firenze, 10 maggio 2008. . . . » I,11
RICCARDO GAI, Alcune riflessioni sulla tutela giurisdizionale nei confronti
delle Autorità amministrative indipendenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,364
FLAMINIA GIOVAGNOLI, Applicazione del principio “Chi inquina paga”.
L’onere finanziario dello smaltimento dei rifiuti causati dal naufragio di
una petroliera. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,96
DAVIDE GIOVANNELLI, Lex est araneae tela: l’esercizio della giurisdizione
U.S.A. e l’accertamento delle violazioni dello ius in bello. . . . . . . . . . . . . . . » I,262
CAROLINA LAYEK, Appalti pubblici: legittimazione ad agire singulatim da
parte di imprese membri di una associazione temporanea . . . . . . . . . . . . . . » III,86
CAROLINA LAYEK, Il diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee . . » IV, 68
DIMITRIS LIAKOPOULOS, GIUSEPPE MANCINI, La direttiva n. 2005/56/CE e la
nuova disciplina comunitaria delle fusioni transfrontaliere di società di
capitali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,7
DIMITRIS LIAKOPOULOS, MAURO ROMANI, La pubblicità ingannevole nel diritto
internazione e comunitario. Aspetti giuridici ed evoluzione della disciplina. . . » IV, 9
GREGORIO MATTERA, Intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi
di informazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,378
ALFONSO MEZZOTERO, Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie
ed effetti interdittivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,277
ALFONSO MEZZOTERO, GIUSEPPE ZUCCARO, La notificazione delle sentenze di
primo grado all’amministrazione statale costituita personalmente ex art.
417 bis c.p.c.: la Cassazione non persuade. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,208
INDICI SISTEMATICI 417
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 417
GIULIAMICIO, Valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e privati. . pag. IV,90
ANDREA MORRONE, Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V
della Costituzione (intervento al Convegno “Gli strumenti di politica economica
nel nuovo Titolo V della Costituzione”). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,9
ADOLFO MUTARELLI, MICHELE GERARDO, dossier: Operatività della prescrizione
in tema di ricorso per il ristoro della irragionevole durata del processo
(cd. Legge Pinto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,175
ALESSANDRO NASTRI, Inderogabilità del foro erariale (anche a fronte di una
eccezione incompleta). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,181
ALESSANDRO NASTRI, Obbligo di motivazione sulla valutazione delle prove di
concorso: il punteggio alfanumerico non basta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,226
ALESSANDRO NASTRI, Recensione ad: Alessandro D’Adda, Nullità parziale e
tecniche di adattamento del contratto, Cedam, Padova 2008. . . . . . . . . . . . . » IV,361
GLAUCO NORI, Parzialità della contestazione nella condanna dell’Italia sul
condono IVA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,151
GLAUCO NORI, Presentazione al Convegno “Gli strumenti di politica economica
nel nuovo Titolo V della Costituzione”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,1
GIOVANNI PALATIELLO, Il concetto di atto politico non “giustiziabile” . . . . . . . . » IV, 324
SARA PALERMO, Qualità dell’aria: diritto di un terzo vittima di danni alla
salute alla predisposizione di un piano d’azione. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . » IV,117
MARIAELENA PANACCI, Gli studi di settore dalla Finanziaria del 2007 a quella
del 2008: quali novità?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,287
FLAVIA PIQUÈ, I reati ambientali: le problematiche emerse di recente in materia
di sequestro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,244
MAURO PRINZIVALLI, EMANUELA PAZZANO, L’accertamento del nesso causale e
la conseguente responsabilità del Ministero passa attraverso un giudizio
controfattuale: “L’azione ipotizzata ed omessa avrebbe impedito l’evento?”
La Corte d’appello di Torino sottopone a critica i recenti indirizzi giurisprudenziali
maturati in seno alle S.U. in tema di danno da emotrasfusione . . » II,296
ALBERTO QUADRIO CURZIO, Riflessioni sul principio di sussidiarietà per lo
sviluppo italiano (relazione per il Convegno “Gli strumenti di politica economica
nel nuovo Titolo V della Costituzione”). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,93
DANIELE ROSATO, Concessioni e appalti di servizi tra diritto comunitario e
diritto nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,107
418 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 418
DANIELE ROSATO, I servizi pubblici locali alla luce della recente riforma: un
passo avanti verso la concorrenza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,71
FRANCESCO EMANUELE SALAMONE, Verso un’intensificazione dei profili di
responsabilità penale per falso del progettista “abilitato” in materia di
D.i.a. (Cassaz., sez. III, sent. 21 ottobre 2008-19 gennaio 2009, n. 1818) . . . . » IV,336
VALERIA SANTOCCHI, dossier: L’autorizzazione del Prefetto agli Istituti di vigilanza » I,77
FRANCESCO SCITTARELLI, L’elemento soggettivo nella responsabilità da illegittimo
esercizio della funzione pubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,267
SUSANNA SCREPANTI, Il sindacato del Giudice amministrativo sulle valutazioni
tecniche e sui poteri sanzionatori dell’Autorità garante della concorrenza
e del mercato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,393
GIUSEPPE STUPPIA, L’inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione
nei procedimenti cautelari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,184
LILIANA TESSAROLI, dossier: Nuove aperture negli appalti in house e nelle
società miste. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,32
STEFANO VARONE, Sul recupero dei benefici previdenziali post-sisma . . . . . . . . » IV,212
ALESSANDRO ZUCCARO, Dalla procedura d’ infrazione al terzo decreto correttivo
del Codice dei contratti. Verso un project financing di quinta generazione. . » II,319
2. SENTENZE
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE
Sent. 4 ottobre 2007 nella causa C-492/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,90
Sent. 29 novembre 2007 nella causa C-119/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,168
Sent. 11 dicembre 2007 nella causa C-280/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,124
Sent. 13 dicembre 2007 nella causa C-465/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,84
Ord. 16 gennaio 2008 nelle cause riunite da C-128/07 a C-131/07 . . . . . . . . . . » IV, 62
Sent. 14 febbraio 2008 nella causa C-450/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,207
Sent. 3 aprile 2008 nella causa C-346/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,194
Sent. 24 giugno 2008 nella causa C-188/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,102
Sent. 1° luglio 2008 nelle cause riunite C-39/05 P e C-52/05 P . . . . . . . . . . . . . » IV,76
Ord. 10 luglio 2008 nella causa C-156/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,91
Sent. 17 luglio 2008 nella causa C-371/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,65
Sent. 17 luglio 2008 nella causa C-132/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,153
Sent. 25 luglio 2008 nella causa C-237/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,121
Sent. 13 novembre 2008 nella causa C-46/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,52
GIUDIZI IN CORSO
Causa C-445/06, Libera circolazione delle merci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,216
Causa C-226/07, Fiscalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,225
INDICI SISTEMATICI 419
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 419
Causa C-275/07, Risorse proprie delle Counità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. II,228
Causa C-317/07, Ambiente e consumatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,235
Causa C-343/07, Agricoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,94
Causa C-375/07, Unione doganale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,239
Causa C-415/07, Aiuti di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,101
Causa C-444/07, spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,105
Causa C-446/07, Agricoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,130
Causa C-509/07, Ravvicinamento delle legislazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,243
Causa C-509/07, Ravvicinamento delle legislazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,134
Causa C-523/07, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,246
Causa C-538/07, Diritto delle imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,250
Causa C-561/07, Ravvicinamento delle legislazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,138
Cause riunite C-570/07 e C-571/07, Libertà di stabilimento . . . . . . . . . . . . . . . » II,254
Causa C-573/07, Diritto delle imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,59
Causa C-14/08, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,259
Cause C-69/08, Politica sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,143
Causa C-138/08, Libera prestazione dei servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,108
Causa C-141/08 Politica commerciale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,151
Causa riunite C-155/08 e C-157/08, Libera prestazione dei servizi. . . . . . . . . . . . » IV,157
Causa C-158/08, Libera circolazione delle merci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,116
Cause riunite da C-175/08 a C-179/08, Giustizia e affari interni . . . . . . . . . . . . . . » III,123
Causa C-196/08, Libera prestazione dei servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,131
Causa C-218/08, Ambiente e consumatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,134
Causa C-261/08, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,138
Causa C-297/08, Ambiente e consumatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,142
Causa C-334/08, Risorse proprie delle Comunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,164
Causa T-53/08, Aiuti di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,156
CORTE COSTITUZIONALE
Sent. 23 novembre 2007 n. 401 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,166
Sent. 14 dicembre 2007 n. 431 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,181
Sent. 1 agosto 2008 n. 325 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,212
Sent. 1 agosto 2008 n. 326 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,168
Sent. 24 ottobre 2008 n. 351 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,247
Sent. 30 gennaio 2009 n. 18 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,234
Sent. 30 gennaio 2009 n.20 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,248
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. I penale, sent. 8 settembre 2006 n. 29855 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,256
Sez. III penale, sent. 12 giugno 2007 n. 22826 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,258
SS.UU., ord. 20 giugno 2007 n. 14293 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 186
SS.UU., sent. 8 febbraio 2008 n. 3004 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,205
Sez. lav., sent. 22 febbraio 2008 n. 4690 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,234
Sez. I penale, sent. 24 luglio 2008 n. 31171 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,200
Sez. III civ., ord. 7 agosto 2008 n. 21413 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,182
SS.UU., sent. 3 dicembre 2008 n. 28653 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,261
420 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 420
CORTE D’ASSISE DI ROMA
Sez. III, sent. 25 ottobre 2007 – 3 gennaio 2008 n.21 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I,269
Sez. III, sent. 25 ottobre 2007 n. 21(*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» III,200
ARBITRO UNICO
Lodo Napoli 24-26 novembre 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,282
CORTE D’APPELLO DI CAMPOBASSO
Sent. 28 marzo 2008 n.74 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,212
CONSIGLIO DI STATO
Sez.VI, dec. 27 giugno 2007 n.3704 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,291
Sez. IV, sent. 5 settembre 2007 n. 4647 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,100
Sez.V, sent. 15 gennaio 2008 n. 36 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,299
Sez. VI, sent. 8 febbraio 2008 n. 415 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,151
Ad. Plen., sent. 3 marzo 2008 n.1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,42
Sez. VI, sent. 13 marzo 2008 n. 1031 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,154
Sez. IV, sent. 31 luglio 2008 n. 3823 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,267
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA CAMPANIA
Napoli, sez. V, sent. 2 settembre 2008, n. 9992 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,227
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO
Roma, sez. III ter, sent. 1 aprile 2008 n. 2779 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,215
Roma, sez. I, sent. 9 luglio 2008 n. 6487 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,277
Roma, sez. I, sent. 31 dicembre 2008 n. 12539 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,324
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER L’UMBRIA
Perugia, sez. I, sent. 6 giugno 2007 n. 505 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,156
3. ARGOMENTI
AMBIENTE E CONSUMATORI – Reati ambientali – Sequestro di siti inquinati –
Effetti sul decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno
ambientale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,258
AMBIENTE E CONSUMATORI – Reati ambientali – Sequestro di siti inquinati –
Incidenza sulla cessazione della permanenza del reato di omessa bonifica . . » I,258
AMBIENTE E CONSUMATORI – Reati ambientali – Sequestro di siti inquinati –
Incidenza sulla cessazione della permanenza del reato di omessa bonifica
– Responsabilità dello Stato italiano di fronte alla Comunità europea . . . . . . » I,258
(*)Già pubblicata in questa Rassegna, 2008, n. 1, p. 262, con nota di DAVIDE GIOVANNELLI,
Lex est araneae tela: l’esercizio della giurisdizione U.S.A. e l’accertamento delle violazioni
nello ius in bello.
INDICI SISTEMATICI 421
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 421
AIUTI DI STATO – Calamità pubbliche e protezione civile – Provvidenze adottate
a seguito degli eventi sismici nella Regione Molise tra i mesi di ottobre e
novembre 1992 – Sospensione del versamento dei contributi previdenziali
– Limitazione, con norma autoqualificata interpretativa, del beneficio ai soli
datori di lavoro privati – Conseguente esclusione del beneficio per i lavoratori
dipendenti – Non fondatezza – Inammissibilità – Manifesta
inammissibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,212
CLAUSOLA COMPROMISSORIA – Arbitrato – Collegialità dell’organo giudicante
– Inserimento di diritto della parola “arbitrato” in luogo di “arbitro unico”
nella clausola compromissoria – Artt. 1419, 2° co., e 1339, c.c. – Principio
di conservazione del negozio giuridico . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . » I,282
COMUNITÀ EUROPEE – Appalti pubblici – Direttiva 89/665/CEE – Procedura di
ricorso in materia di aggiudicazione di appalti pubblici – Soggetti ammessi
ad accedere alle procedure di ricorso – Associazione temporanea offerente
– Diritto di ciascuno dei membri di una associazione temporanea di
proporre ricorso a titolo individuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,90
COMUNITÀ EUROPEE – Appalti pubblici – Ricorso – Direttiva 89/665/CEE –
Ricorso efficace – Nozione – Equilibrio tra il principio del contraddittorio
e il diritto al rispetto dei segreti commerciali – Tutela, da parte dell’organo
responsabile dei ricorsi, della riservatezza delle informazioni fornite dagli
operatori economici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,207
COMUNITÀ EUROPEE – Direttiva 75/442/CEE – Gestione dei rifiuti – Nozione
di rifiuti – Principio “chi inquina paga” – Detentore – Precedenti detentori
– Produttore del prodotto causa dei rifiuti – Idrocarburi e olio pesante –
Naufragio – Convenzione sulla responsabilità civile per i danni dovuti a
inquinamento da idrocarburi – FIPOL . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,96
COMUNITÀ EUROPEE – Direttiva 76/207/CEE – Parità di trattamento tra uomini
e donne – Indennità di esodo – Agevolazione fiscale concessa ad un’età
differente a seconda del sesso dei lavoratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,60
COMUNITÀ EUROPEE – Direttiva 96/62/CE – Valutazione e gestione della qualità
dell’aria ambiente – Fissazione dei valori limite – Diritto di un terzo
vittima di danni alla salute alla predisposizione di un piano d’azione . . . . . . .» IV,117
COMUNITÀ EUROPEE – Fusioni transfrontaliere delle società di capitali –
Direttiva 2005/56/CE – Fusione di imprese – Registrazione di società –
Partecipazione dei lavoratori – Regime fiscale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,7
COMUNITÀ EUROPEE – Impugnazione – Accesso ai documenti delle istituzioni
– Regolamento (CE) n. 1049/2001 – Pareri giuridici . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,68
COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato - Art. 10 CE – Sesta direttiva
IVA – Obblighi in regime interno – Controllo delle operazioni imponibili
– Condono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,153
422 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 422
COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Art. 141 CE – Politica
sociale – Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori
di sesso femminile – Nozione di “retribuzione” – Regime pensionistico dei
dipendenti pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,50
COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Direttiva 92/50/CEE –
Artt. 11 e 15, n. 2 – Appalti pubblici di servizi – Aggiudicazione dei servizi
informatici del Comune di Mantova – Aggiudicazione diretta senza previa
pubblicazione di un bando di gara . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,65
COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Violazione della direttiva
92/50/CEE che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di servizi – Aggiudicazione di un appalto senza bando di gara –
Aggiudicazione dei servizi di trasporto sanitario in Toscana . . . . . . . . . . . . » II,168
COMUNITÀ EUROPEE – Libera prestazione dei servizi – Art. 49 CE ––
Restrizioni – Direttiva 96/71/CE – Distacco dei lavoratori nell’ambito di
una prestazione di servizi – Procedure di aggiudicazione di appalti pubblici
di lavori – Tutela previdenziale dei lavoratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,194
COMUNITÀ EUROPEE – Pubblicità abusiva – Ravvicinamento delle legislazioni
– Concorrenza – Restrizione alla concorrenza – Pubblicità comparativa –
Protezione del consumatore – Azione giudiziaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,9
COMUNITÀ EUROPEE – Rinvio pregiudiziale – Direttiva 85/337/CEE –
Valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati
– Realizzazione di una strada a Milano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,90
COMUNITÀ EUROPEE – Servizio di interesse generale e servizio di interesse
economico generale – Servizio pubblico – Competitività – Coesione economica
e sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,71
CONCORRENZA – Appalti pubblici – Competenze Stato–Regioni – Principio
leale collaborazione – Violazione – Insussistenza – Tutela della concorrenza
– Competenza statale – Competenza regionale – Limiti . . . . . . . . . . . . . . » I,166
CONCORRENZA – Appalti pubblici – Esecuzione di contratto di appalto di lavori
di opere pubbliche – Risoluzione di controversia devoluta ad arbitro
unico – Nullità della clausola compromissoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,282
CONCORRENZA – Appalti pubblici – Leggi regionali – Illegittimità costituzionale
– Sussistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,181
CONCORRENZA – Applicazione di sanzioni in caso di successione di imprese –
Principio della responsabilità personale – Enti dipendenti dalla stessa autorità
pubblica – Diritto nazionale che qualifica come fonte di interpretazione
il diritto comunitario della concorrenza – Questioni pregiudiziali –
Competenza della Corte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,124
INDICI SISTEMATICI 423
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 423
CORTE COSTITUZIONALE - Giudizio di legittimità costituzionale in via principale
– Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale e per il contenimento
e la razionalizzazione della spesa pubblica di cui al d.l. n. 223 del
2006, sia nel testo originario sia in quello risultante dalle modifiche apportate
in sede di conversione – Ricorso delle Regioni Veneto, Sicilia, Friuli-
Venezia Giulia e Valle d’Aosta – Trattazione separata delle questioni concernenti
l’art. 13 – Riserva a separate pronunce della decisione sulle altre
questioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,168
CORTE COSTITUZIONALE – Partecipazioni pubbliche – Società a capitale pubblico
o misto costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche
regionali o locali per la produzione di beni e servizi strumentali – Obbligo
di operare esclusivamente con gli enti pubblici costituenti o partecipanti e
correlativo divieto di operare nel libero mercato – Ricorso delle Regioni
Veneto e Friuli-Venezia Giulia – Questione sollevata in riferimento all’art.
119 Cost. - Prospettazioni generiche in quanto prive di autonome argomentazioni
– Inammissibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,168
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Avvocato e procuratore – Esami di abilitazione
all’esercizio della professione – Obbligo di motivazione del voto verbalizzato
in termini alfanumerici – Esclusione in base al “diritto vivente”.
(Art. 22, c. 9°, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito
in legge 22 novembre 1934, n. 36; artt. 17 bis, 22, 23 e 24, c. 1°, del
regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37). Non fondatezza. . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 248
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Enti pubblici – Destinazione della pubblicità -
Natura giuridica degli enti fiera – Esclusione della natura pubblicistica dell’ente
– Non soggezione all’art. 41 del d.lgs. 177/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,215
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Fermo amministrativo – Carenza di potere di
AGEA – Questione di giurisdizione - Natura di amministrazione statale di
AGEA – Limiti interni della giurisdizione – Inammissibilità . . . . . . . . . . . . » I,205
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Giurisdizione – Procedimenti cautelari – Regolamento
preventivo di giurisdizione – Inammissibilità del ricorso . . . . . . . . . . » I,186
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Giustizia amministrativa – Disapplicazione –
Dati casellario imprese – Annotazione – Impugnazione – Giudizio di annullamento
– Doppia impugnativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,291
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Giustizia contabile – Risoluzione preventiva
delle questioni di massima – La statuizione delle SS.UU. è vincolante –
Art.363, co.3, c.p.c. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,261
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Procedimento penale – Reato commesso fuori dal
territorio – Giurisdizione italiana – Carenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,269
424 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 424
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Procedimento penale – Reato commesso fuori
dal territorio – Giurisdizione italiana – Carenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. III,200
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Pubblica amministrazione – Concorsi – Motivazione
degli atti concorsuali di valutazione delle prove orali o scritte. . . . . . . . . » III,227
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Pubblica amministrazione – Questioni processuali
– Rappresentanza in giudizio in primo grado a mezzo di dipendente
della P.A. – Conferimento all’amministrazione pubblica della difesa diretta
– Notifica della sentenza di primo grado direttamente allo stesso dipendente
– Decorrenza del termine breve per la proposizione dell’appello -
Mancanza della sede dell’amministrazione nella circoscrizione del giudice
adito – Mancata elezione del domicilio in detta circoscrizione da parte del
dipendente – Possibilità di notifica della sentenza di primo grado presso la
cancelleria del giudice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,234
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Rapporti tra Governo e “confessioni religiose” –
Rifiuto di avvio di trattative volte alla stipula dell’intesa di cui all’art.8,
co.3, Cost. – Difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 31 R.D. 1054/24 –
Atto di natura politica e non amministrativa – Inammissibilità . . . . . . . . . . . . » .IV, 324
GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Regolamento di competenza – Competenza territoriale
per foro erariale – Irrilevanza dell’incompletezza della relativa
eccezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,182
LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE - Stranieri – Ingresso-soggiorno – Tutela
dell’ordine pubblico – Permesso di soggiorno – Diniego del rinnovo per
condanna penale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,151
LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI – Avvocatura dello Stato – Patrocinio erariale
– Affidamento dei servizi legali – Compatibilità con la normativa comunitaria
– Istituto Poligrafico dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,5
LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI – Concessione di servizio pubblico –
Procedura di affidamento – Patrimonio stradale – Servizio di gestione,
manutenzione e sorveglianza – Centralità del rischio di gestione . . . . . . . . . . » I,299
LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI – Inadempimento di uno Stato – Diritto di stabilimento
– Professione di operatore della vigilanza – Servizi di vigilanza
privata – Giuramento di fedeltà alla Repubblica italiana – Autorizzazione
prefettizia – Sede operativa – Numero minimo di personale – Versamento
di una cauzione – Controllo amministrativo dei prezzi dei servizi forniti . . . . » I,84
PROCEDURA – Informative prefettizie antimafia – Tipica e c.d. supplementare
atipica (o aggiuntiva) – Differenze – Effetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 277
PROCEDURA – Irragionevole durata del processo (L.Pinto) – Operatività della
prescrizione dei ricorsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,175
INDICI SISTEMATICI 425
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 425
PROCEDURA – Processo amministrativo – Pubblica amministrazione – Responsabilità
da illegittimo esercizio della funzione pubblica . . . . . . . . . . . . pag. IV, 267
TRASPORTI – Norme della Regione Lombardia – Trasporto aereo – Previsione
di un rappresentante nominato dalla Regione nel comitato di coordinamento
degli aeroporti, in contrasto con le norme comunitarie che non inseriscono
tra i soggetti ammessi a partecipare a tale organo consultivo i rappresentanti
dei governi regionali; coordinamento aeroportuale – Attribuzione alla
Regione del compito di concorrere a definire i parametri di coordinamento,
in contrasto con le norme comunitarie che attribuiscono tale ruolo allo
Stato membro e con le norme statali sulla istituzione e le competenze
dell’E.N.A.C.; concessioni di gestione aeroportuale – Attribuzione alla
Regione del potere di emanare direttive relative alle nuove convenzioni
sottoscritte fra gestore aeroportuale ed ENAC, aventi valore di linee guida
vincolanti – Contrasto con il Codice della navigazione che attribuisce le
competenze medesime al Ministero dei trasporti e all’ENAC e prevede un
ruolo solo consultivo delle Regioni.(Artt. 3, 4 e 9 della legge della Regione
Lombardia 9 novembre 2007, n. 29). Illegittimità costituzionale . . . . . . . . . » IV,234
4. PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI
A.G.S. – Parere del 5 novembre 2005 n. 146882.
Soggetti passivi dei tributi speciali catastali – Natura del termine per l’azione
di accertamento in tema di tributi speciali catastali e tasse ipotecarie
(consultivo 50705/04, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,309
A.G.S. – Parere del 21 gennaio 2008 n. 8612.
Utilizzo improprio di gasolio agricolo ad uso agevolato. Provvedimento di
confisca degli autoveicoli (consultivo 28129/07, avvocato G. Albenzio) . . . . . . » I,311
A.G.S. – Parere del 21 gennaio 2008 n. 8694.
Causa contro Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero delle
Comunicazioni. Decisione Consiglio di Stato del 16 ottobre 2007, n. 5413/07
(contenzioso 21860/00, avvocato A. De Stefano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,313
A.G.S. – Parere del 28 gennaio 2008 n. 11867.
D.Lgs. 18 settembre 2006, n. 267: “Norme di attuazione dello Statuto speciale
della Regione Sardegna concernente modifiche al decreto del Presidente
della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250 in materia di demanio e patrimonio”
– Trasferimento all’Ente Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena di
beni immobili dismessi dallo Stato (consultivo 25855/06, avvocato M. Fiorilli). . » I,316
A.G.S. – Parere del 5 febbraio 2008 n. 16175.
Applicazione interessi sui debiti delle società concessionarie di autostrade
nei confronti dello Stato in conseguenza della operatività della garanzia statale
in favore delle società medesime per il pagamento delle rate di mutui e di
426 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 426
obbligazioni diverse effettuato dal soppresso Fondo Centrale di Garanzia
(consultivo 41464/07, avvocato C. Linda) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I,320
A.G.S. – Parere del 19 febbraio 2008 n. 22979.
Riscossione coattiva dei tributi comunali mediante ingiunzione fiscale ai
sensi del Regio decreto 14 aprile 1910 n. 639. Possibilità di iscrizione di ipoteca
legale ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. 602/1973 e trattamento tributario
(consultivo 13635/07, avvocato C. Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,323
A.G.S. – Parere del 19 febbraio 2008 n. 23172.
Contenzioso in materia di invalidità civile – Nuove problematiche sorte in
relazione ai giudizi incardinati in data successiva al 1 aprile 2007 (consultivo
47758/07, avvocato M.Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,5
Ministero dell’Interno – Circolare del 29 febbraio 2008 n. 557/PAS/
2731/10089.d(1)
Corte di Giustizia delle Comunità europee – Sent. 13 dicembre 2007 nella
causa C-465/05 (Commissione c/ Repubblica italiana), concernente l’ordinamento
della sicurezza privata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,103
A.G.S. – Parere del 17 marzo 2008 n. 35666.
Legge 27 dicembre 2006, n. 296: “Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, art. 1, commi da 250 a 258 recanti
nuove norme in materia di demanio marittimo (consultivo 2566/08, avvocato
C. Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,325
A.G.S. – Parere del 20 marzo 2008 n. 37023.
Utilizzo della garanzia nelle operazioni di transito comunitario (consultivo
2571/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,329
A.G.S. – Parere del 9 aprile 2008 n. 45266.
Mutui erogati da Enti, Istituti, fondi e casse previdenziali per l’acquisto di
case di abitazione – Applicabilità degli artt. 15,17 e 18 del d.P.R. n. 601/1973
– Art. 2, comma 1 bis del DL n. 220/2004, convertito con modificazioni dalla
L. n. 257/2004 (consultivo 40285/07, avvocato A.L. Caputi Iambrenghi) . . . . . » I,330
A.G.S. – Parere del 10 aprile 2008 n. 46819.
Apparecchiature semaforiche (consultivo 3330/08, avvocato F.M. Patierno) » I,331
A.G.S. – Parere del 14 aprile 2008 n. 48170.
Assegnazione ore di sostegno scolastico per situazione di handicap (contenzioso
43171/07, avvocato S. Varone) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,334
A.G.S. - Comunicazione di servizio del 23 aprile 2008 n. 48, prot. 54340 –
Circolare del 23 aprile 2008 n. 19, prot. 54346.
Contenzioso in materia di invalidità civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,5
INDICI SISTEMATICI 427
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 427
A. G. S. – Parere del 9 maggio 2008 n. 62026.
Fondo per il soddisfacimento dei debiti dei partiti e movimenti politici in
attuazione dell’art. 6 bis della legge 3 giugno 1999, n. 157 (consultivo
27769/07, avvocato G. Palmieri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I,337
A.G.S. – Parere del 14 maggio 2008 n. 65178.
Applicazione della sanzione della confisca dei motocicli o ciclomotori utilizzati
per commettere reati, introdotta con l’art. 5 bis L. 17 agosto 2005, n.
168 (consultivo 5255/08, Procuratore dello Stato A.Vitale) . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,339
A.G.S. – Parere del 26 maggio 2008 n. 70457.
Liquidazione degli usi civici su terre private gravate (consultivo 16254/08,
avvocato F. Lettera) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,344
A.G.S. – Parere del 7 giugno 2008 n. 75402.
Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL) –
Registrazione e utilizzo da parte di una società privata di un marchio suscettibile
di ingenerare confusione (ISPESL) – Possibilità di instaurazione di
azioni a tutela del marchio e di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. (consultivo
9940/08, avvocato G. d’Elia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,265
A.G.S. – Parere del 19 giugno 2008 n. 80615.
Art. 14, co.3, D.Lgs. n. 252 del 5 dicembre 2005 (consultivo 14850/08,
avvocato A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,269
A.G.S. – Parere del 26 giugno 2008 n. 83419.
Trattamento dati sensibili attinenti lo stato di salute dell’interessato –
Sospensione o revoca della patente militare e/o della patente civile (consultivo
40716/07, avvocato M. Greco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,273
A.G.S. – Parere del 3 luglio 2008 n. 86285.
Liquidazione enti disciolti – Art. 1, c. 91 legge 23 dicembre 2005, n. 266
come sostituito dall’art. 1, c. 486 legge 27 dicembre 2006 n. 296. Accordo con
l’INPDAP (consultivo 13463/08, avvocato A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,276
A.G.S. – Parere del 29 luglio 2008 n. 95295.
Fondo Immobili Pubblici - Esclusione dal conferimento di porzioni immobiliari
ai sensi dell’art. 4 del D.L. 351/2001 (consultivo 47020/07, avvocato A.L.
Caputi Iambrenghi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,278
A.G.S. – Parere del 6 agosto 2008 n. 97937.
Accordo di Cooperazione ed Unione Doganale CEE/San Marino. Potere di
accertamento e sanzionatorio nei confronti della Repubblica di San Marino
(consultivo 14909/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,282
A.G.S. – Parere del 26 agosto 2008 n. 102376.
Applicabilità dell’art. 12, comma 5, prima parte, del D.Lgs. n. 472/97 alle
c.d. imposte istantanee (consultivo 12265/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . » III,233
428 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 428
A.G.S. – Parere del 22 settembre 2008 n. 110090.
Art. 36 legge 31/08. Disposizioni in materia di riscossione (consultivo
21110/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,238
A.G.S. – Parere del 24 settembre 2008 n. 111007.
Interpretazione dell’art. 7, 6° co. D.L. 248/07 convertito in legge 31/08
(consultivo 25247/08, avvocato A. Palatiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,241
A.G.S. – Parere del 24 settembre 2008 n. 111028.
Richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di decadenza
dall’incarico dirigenziale di livello generale ex art. 3 comma 7 l. 145/2002
– Ricorso al Tribunale Civile di Roma, sez. lavoro, in materia di decadenza
dall’incarico dirigenziale di livello generale ex art. 3 comma 7 legge
145/2002. Richiesta patrocinio proposta transattivi (consultivo 43615/07,
avvocato G. Fiengo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,243
Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro – Parere del 2 ottobre 2008
n. 24046 (reso dall’Avvocatura distrettuale di Catanzaro in via ordinaria).
Istanza di aggiornamento informative antimafia ex art. 10, comma 8, d.P.R.
3 giugno 1998, n. 252 (consultivo 6845/08, avvocato A. Mezzotero) . . . . . . . . . . . » III,251
A.G.S. – Parere del 13 ottobre 2008 nn. 118846 – 118848 (reso dall’Avvocatura
Generale in via ordinaria).
Istanza di aggiornamento di informative antimafia ex art. 10, comma 8,
d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252 (consultivo 36675/08, avvocato M. Borgo) . . . . . . . » III,264
A.G.S. – Parere del 14 ottobre 2008 (reso dall’Avvocatura Generale in via
ordinaria).
Portata applicativa dell’art. 802 codice navigazione (consultivo 7657/08,
avvocato P. Di Palma) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,265
A.G.S. – Parere del 20 ottobre 2008 n. 121176.
Spettanza dell’indennizzo ex lege 210/92 in caso di patologia non ascrivibile
a categoria tabellare (consultivo 34657/08, avvocato M. Russo) . . . . . . . . . . » III,270
A.G.S. – Parere del 23 ottobre 2008 n. 123287.
Riparazione per ingiusta detenzione. Spettanza o meno degli interessi per
il tardivo pagamento di quanto dovuto a titolo di indennizzo per effetto dell’ordinanza
n. 232/2005 della Corte di Appello – Sezione Penale di Roma
(contenzioso 14372/05, avvocato M. Borgo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,271
Comunicazione di servizio n. 117 – Circolare del 28 ottobre 2008 n. 44,
prot. 124807 e 124812.
Condanna dell’Amministrazione e criteri di calcolo di interessi legali e
rivalutazione monetaria sul capitale dovuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,273
A.G.S. – Parere dell’11 novembre 2008 n. 130954.
Tributi speciali catastali. Soggettività passive degli enti locali (consultivo
2905/08, avvocato A.L.Caputi Iambrenghi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,347
INDICI SISTEMATICI 429
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 429
A.G.S. – Parere del 9 dicembre 2008 n. 143108.
Tenuta informatizzata dei registri da parte dei depositari autorizzati di prodotti
energetici e di bevande alcoliche (consultivo 29951/08, avvocato G.
Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,349
A.G.S. – Parere dell’11 dicembre 2008 n. 144804.
Art.12 co.9 D.Lgs. n.42 del 2004 – Applicabilità ai beni già appartenenti
ad Ente pubblico economico trasformato in società con apposito atto normativo
in vigenza del D.Lgs. 490 del 1999 (consultivo 13373/08, avvocato P.
Palmieri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,350
430 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008
06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 430
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Finito di stampare nel mese di aprile 2009
Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A.
Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma
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