RASSEGNA
AVVOCATURA
DELLO STATO
PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO
ANNO LIX – N. 1 GENNAIO-MARZO 2007
COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino
Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca.
DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – Condirettore: Giacomo Arena.
COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello – Vittorio Cesaroni – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli
Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Carlo Sica – Mario Antonio Scino.
HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE NUMERO: Maurizio Borgo - VIncenzo Cardellicchio -
Filippo D’Angelo - Gianni De Bellis - Michele Dipace - Chiara Di Seri - Oscar Fiumara - Fabrizio
Gallo - Andrea Guazzarotti - Valeria Santocchi.
SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi
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La Rassegna è consultabile sul sito: www.avvocaturastato.it
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AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO
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alla Segreteria della redazione eventuali variazioni
di indirizzo
INDICE – SOMMARIO
TEMI ISTITUZIONALI
Discorso dell’avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara in occasione
della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario – Roma, 26 gennaio
2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . .pag. 1
Andrea Guazzarotti, Il rigore della Consulta sulla decretazione d’urgenza:
una camicia di forza per la politica? (Corte Cost., sent. 9-23 maggio
2007 n. 171) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . » 4
Vincenzo Cardellicchio, Fabrizio Gallo, La Stazione unica appaltante provinciale
(S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive . . . . . . . . . . . . . » 26
Maurizio Borgo, Sulla competenza in materia di ricongiungimento familiare
(Trib. Roma, sez. 1° civ., decreto dep. l’8 maggio 2007) . . . . . . . . . . . . . . » 41
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE
Maurizio Fiorilli, Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee
dell’anno 2006 emesse in cause cui ha partecipato l’Italia. . . . . . . . . . . . » 45
1.-Le decisioni
Chiara Di Seri, Le misure cautelari nei confronti di atti legislativi in contrasto
con il diritto comunitario (Corte di giustizia CE, ordd.19 dicembre
2006 e 27 febbraio 2007, nella causa C-503/06) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 209
Gianni De Bellis, Il meccanismo dell’IVA italiana al vaglio della Corte di
Giustizia (Corte di giustizia CE, sent. 15 marzo 2007 nella causa C-35/05) . . . » 221
Giuseppe Fiengo, Un significativo allargamento dell’in house providing
(Corte di giustizia CE, sent. 19 aprile 2007 nella causa C- 295/05) . . . . . . . . . » 254
Valeria Santocchi, L’Italia e le sue seimila discariche abusive (Corte di giustizia
CE, sent. 26 aprile 2007 nella causa C-135/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 267
Glauco Nori, La cosa giudicata nazionale nel diritto comunitario (Corte di
giustizia CE, sent. 18 luglio 2007 nella causa C-119/05) . . . . . . . . . . . . . . . » 289
2.- I giudizi in corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 311
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 341
CONTRIBUTI DI DOTTRINA
Michele Dipace, Responsabilità amministrativa,azione di responsabilità
sociale e principio di parità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 389
Filippo D’Angelo, La pregiudiziale amministrativa nella giurisprudenza:
dall’adunanza plenaria n. 4/2003 alla decisione n. 2822/07 della quinta
sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo apre alla
Cassazione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 412
INDICI SISTEMATICI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 437
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Discorso dell’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara
in occasione della Cerimonia di inaugurazione
dell’anno giudiziario
“Rivolgo a Lei, Signor Presidente della Repubblica, a tutte le Autorità e
a tutti i presenti, alla Suprema Corte e all’intera Magistratura, il saluto mio
personale e dell’intero corpo degli Avvocati e Procuratori dello Stato.
La sua particolare posizione e l’entità del contenzioso che essa tratta
legittimano l’Avvocatura dello Stato a far sentire la sua voce nel momento in
cui si riferisce sullo stato dell’amministrazione della giustizia nel nostro
Paese.
Com’è noto, l’Avvocatura dello Stato rappresenta la Presidenza del
Consiglio dei Ministri in tutti i numerosissimi giudizi in via principale e in
via incidentale dinanzi alla Corte costituzionale; rappresenta lo Stato nei giudizi
innanzi alla Corte di giustizia e al Tribunale di primo grado della C.E. a
Lussemburgo in un vasto contenzioso spesso di grande rilievo (ricordo solo
la nostra vittoria a Lussemburgo sulla vicenda IRAP, che ha evitato rimborsi
insostenibili per le casse dello Stato); e rappresenta tutte le amministrazioni
dello Stato e alcuni enti pubblici ad esse complementari dinanzi ai giudici
ordinari e amministrativi di ogni ordine e grado. In tal modo essa, con l’organicità
e l’esclusività del suo patrocinio, assicura l’unitarietà della difesa
dello Stato moderno, nelle sue molteplici articolazioni, in una visione globale
e non settoriale degli interessi pubblici in gioco.
Il numero degli affari trattati è altissimo. Con un organico estremamente
ridotto (oggi solo 350 legali in tutta Italia) entrano oltre 200.000 nuovi
affari l’anno (215.000 per l’esattezza nel solo 2006) con una progressione
costante di anno in anno, che non tanto ci preoccupa invero per la nostra
capacità di assorbimento, quanto appare un ulteriore indice generale di un
aumento della conflittualità, frutto non ultimo (in un ovvio circolo vizioso)
della lentezza dei processi.
Per limitare i dati alla sola sede di Roma, possiamo ricordare che sono
stati aperti nei nostri uffici nel 2006 oltre 50.000 nuovi affari, che si aggiungono
ad una mole enorme di affari anteriori ancora pendenti (attenzione!
molti singoli affari hanno uno sviluppo complesso che si articola in più gradi
T E M I I S T I T U Z I O N A L I
di giudizio). Riguardo in particolare alla giustizia ordinaria sono state aperte
nel 2006 circa 1.000 cause dinanzi ai Giudici di pace, circa 9.000 dinanzi
ai Tribunali del distretto romano, circa altrettante dinanzi alla Corte d’appello.
Ben 15.000 circa sono le nuove cause in cassazione, in cui lo Stato è
ricorrente o resistente (cioè all’incirca la metà dell’intero nuovo carico della
Corte Suprema).
Per materia la parte del leone, dinanzi alla Suprema Corte, è stata assunta
dal contenzioso tributario su ricorsi dello Stato o dei contribuenti contro le
decisioni delle Commissioni tributarie. In linea più generale parti notevolissime
del contenzioso hanno riguardato il pubblico impiego; la ormai ben
nota legge Pinto sulla durata irragionevole dei processi; la posizione degli
extracomunitari. Ma l’Avvocatura ha curato cause di grande spessore in tutti
i campi del diritto: dagli appalti alle concessioni, dall’urbanistica all’ambiente,
dai beni culturali alle varie forme di responsabilità civile, ecc.ecc..
L’Avvocatura dello Stato fa fronte a questa mole di lavoro con dignità e
buon successo; e non ci fa velo la constatazione che dobbiamo mettere nel
conto fisiologicamente alcune disfunzioni e alcune inevitabili pecche. La
percentuale di vittoria nelle cause è di gran lunga superiore a quella delle
soccombenze.
Ma certamente un migliore servizio l’Avvocatura potrebbe rendere allo
Stato, e alla Giustizia in particolare, se essa fosse dotata di risorse umane e
materiali più idonee, con spese molto modeste in relazione ai risultati che
potrebbero essere raggiunti.
Si parla oggi insistentemente della necessità di un recupero di effettività
ed efficacia (più sinteticamente, di efficienza) del sistema giustizia. Occorre
razionalizzare tale sistema, semplificarlo, modernizzarlo, renderlo più agile
e fruttuoso. E l’Avvocatura dello Stato cerca di fare la sua parte, in piena e
leale collaborazione con tutte le componenti del pianeta giustizia.
L’Avvocatura dello Stato fu tra i primi negli anni settanta a dotarsi di un
sistema informatico, allora ancora allo stato embrionale; così come la Corte
di cassazione fu la prima in Europa a realizzare la massimazione informatica.
Ma finora le procedure informatiche hanno avuto sviluppi importanti ma
settoriali, che consentono una consultazione dall’interno e solo parzialmente
dall’esterno, mentre è necessario promuovere sistemi integrati che dialoghino
fra loro. Così l’Avvocatura dello Stato collabora, nell’ambito della
giustizia civile, con il Ministero della Giustizia, per la realizzazione del processo
civile telematico secondo il progetto detto di “reingegnerizzazione ed
evoluzione degli applicativi del settore civile della giustizia” (con promettenti
risultati già raggiunti in alcune sedi come Bari e Bologna); è stata chiamata
a collaborare con la Corte di cassazione per la sperimentazione di un
sistema automatico di iscrizione a ruolo, di assegnazione e di sviluppo procedurale
dell’affare di competenza della Corte; collabora con gli organi della
giustizia amministrativa nel progetto, finanziato dal CNIPA – Centro nazionale
informatica della P.A., detto Ax A, per l’interscambio di dati sul processo
amministrativo; ha avviato in alcune sedi un progetto di smaterializzazione
dei fascicoli.
2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Sono iniziative che possono aiutare. Ma altre misure di razionalizzazione
potrebbero essere adottate in via legislativa o in via amministrativa:
a) mi riferisco ad una riconsiderazione della effettiva utilità di alcune
delle sedi giudiziarie esistenti, essendo evidente il vantaggio derivante da
una migliore distribuzione delle risorse umane e materiali, perchè difficile
appare attualmente il bilanciamento delle risorse stesse in relazione ai variabili
carichi di lavoro per ciascuna sede, talvolta di dimensioni modeste (come
è noto le sedi dell’Avvocatura devono coincidere con quelle delle sedi delle
Corti d’appello: e guardiamo con apprensione al paventato aumento di
esse!);
b) ricordo l’opportunità di disciplinare lo strumento della “class action”
allo scopo di ridurre i costi processuali e favorire soluzioni rapide ed omogenee,
in materie nelle quali proprio l’Avvocatura dello Stato potrebbe avere
una parte importante;
c) parlo della opportunità di dotare sia le sedi giudiziarie (come si appresta
a fare il Ministero della Giustizia) ma anche l’Avvocatura di personale
amministrativo non togato di profilo medio-alto (i c.d. “assistenti giudiziari”)
che possa svolgere un’attività di supporto e di assistenza specifica al personale
togato;
d) mi riferisco (perché no?) all’opportunità di rimeditare, con un approccio
pragmatico, anche a livello costituzionale, il problema (o il mito?) della
obbligatorietà della motivazione;
e) mi permetto di segnalare l’opportunità di riconsiderare le misure
disposte nell’art. 366 bis c.p.c., che, sia pure dettate nel lodevole intento di
scoraggiare ricorsi per cassazione scarsamente meditati e proposti con molta
leggerezza, hanno però anche l’effetto perverso di rendere ardui altri pur
meritevoli ricorsi avverso decisioni che mal si prestano – per la loro ordinaria
struttura (parlo essenzialmente di quelle delle Commissioni tributarie) -
al rispetto delle scansioni richieste dalla norma suddetta;
f) infine, sempre con riferimento al massiccio contenzioso tributario,
rilevo come pronunce delle SS.U.U. quali quella che sembra rendere vincolante
il giudicato tributario al di là dello specifico anno di imposta e dello
specifico tributo oggetto della causa, producano un effetto moltiplicatore del
contenzioso, poiché (pur in assenza di vincolanti ragioni di principio che
depongano in tal senso) costringono a proporre tutte le impugnazioni onde
evitare preclusioni “a cascata”.
Concludo dichiarando e confermando il pieno e costante impegno
dell’Avvocatura nei confronti della Pubblica Amministrazione, che ci onoriamo
di difendere; nei confronti di cittadini, cui assicuriamo il rispetto della
legalità pur nello svolgimento del nostro compito istituzionale; nei confronti
della Corte Suprema di Cassazione e dell’intera Magistratura, cui garantiamo
la più completa e leale collaborazione.
Grazie, Signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti coloro che mi
hanno ascoltato”.
Corte Suprema di Cassazione – Assemblea generale
Roma, 26 gennaio 2007
TEMI ISTITUZIONALI 3
4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il rigore della Consulta sulla decretazione
d’urgenza: una camicia di forza per la politica?
(Corte Costituzionale, sentenza 9-23 maggio 2007, n. 171)
di Andrea Guazzarotti (*)
SOMMARIO: 1.- La sentenza n. 171 del 2007: l’inizio di un nuovo corso? 2.- Abuso della
decretazione d’urgenza e tutela dei diritti. 3.- Sindacato della Corte e sua effettività. 4.- La
natura atipica della legge di conversione. 5.- L’argomento “procedurale” della specialità
della legge di conversione.
1. La sentenza n. 171 del 2007: l’inizio di un nuovo corso?
È la prima volta che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 171 del
2007, giunge ad annullare una legge di conversione di un decreto-legge per
carenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza. Ad avviso
della Corte, la carenza di tali presupposti non solo non può essere sanata
dalla legge di conversione, ma si risolve senz’altro in un “vizio in procedendo”
di quest’ultima (1). È questa una vera e propria “rottura” compiuta dalla
Corte, finora assai restia a praticare un sindacato così incisivo sull’attività
del potere politico, in generale, delle Camere, in particolare (2). Sono passati
più di dodici anni, infatti, da quando la Corte ha affermato, in astratto,
la praticabilità di un simile sindacato (sent. n. 29/1995), senza che esso sia
mai stato, in concreto, esercitato nelle pur numerose occasioni presentatesi
(*) Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara, Facoltà di
Economia.
(1) C. cost., sent. n. 171/2007, punto 5 del Considerato in diritto.
(2) Sulla sent. n. 171/2007, cfr. i primi commenti di A. CELOTTO, C’è sempre una prima
volta… (La Corte costituzionale annulla un decreto-legge per mancanza dei presupposti),
in www.giustamm.it (secondo il quale la vera ragione per cui la Corte è giunta solo oggi a
un simile passo va ricercata non nella motivazione della sentenza, ma «nel contesto istituzionale
in cui la decretazione d’urgenza si è sviluppata», ossia quello di un suo «abuso radicato
»); R. ROMBOLI, Una sentenza “storica”: la dichiarazione di incostituzionalità di un
decreto-legge per evidente mancanza di presupposti di necessità e urgenza, in www.associazionedeicostituzionalisti.
it , e in corso di pubblicazione su Foro it., 2007, n. 7/8 (che sottolinea
la chiarezza della motivazione, specie laddove distingue il controllo spettante alla
Corte da quello del Parlamento sui requisiti di necessità e urgenza); A. RUGGERI, Ancora una
stretta (seppur non decisiva) ai decreti-legge, suscettibile di ulteriori, ad oggi per vero
imprevedibili, implicazioni a più largo raggio, in www.forumcostituzionale.it; R.
DICKMANN, Il decreto-legge come fonte del diritto e strumento di governo, in www.federalismi.
it; G. DI COSIMO, Tutto ha un limite (la Corte e il Governo legislatore), in corso di pubblicazione.
TEMI ISTITUZIONALI 5
alla Corte (3). Non solo, ma in tale lasso di tempo la Corte non è neppure
apparsa convinta della sua stessa “dottrina” rigorista, come la sentenza n.
171 osserva nel prendere le distanze da alcuni precedenti (4).
Per la sua portata di rottura e per la sua natura non meramente “monitoria”,
dunque, la sentenza n. 171/2007 potrebbe fare il paio con l’illustre precedente
della sentenza n. 360/1996, che ha dichiarato l’incostituzionalità (“in
astratto” e “in concreto”) della reiterazione dei decreti legge. Oggi come
allora, l’effetto che si produce nel lettore è quello di uno spiazzamento.
Come per la reiterazione, infatti, il fenomeno censurato (la decretazione
d’urgenza in assenza dei presupposti ex art. 77 cost., surrettiziamente usata
come “disegno di legge rinforzato ad urgenza garantita”(5)) è talmente diffuso
e radicato che il suo contrasto per via giurisprudenziale assomiglia
molto a una carica contro i mulini a vento. Tuttavia, mentre per la reiterazione
dei decreti legge, lo spiazzamento era appunto dovuto esclusivamente
all’inanità dello sforzo assunto dalla Corte contro la degenerazione delle
prassi politiche, nel nostro caso esso è dovuto anche alla difficoltà di concepire
la legge di conversione quale legge a competenza specializzata o atipica.
Difficoltà, del resto, sottolineata dalla dottrina, per così dire, “classica”
(6). La tesi della Corte, infatti, sebbene non esplicitata fino in fondo nella
sentenza n. 171, conduce a ritenere che il Parlamento non possa adottare, con
la legge di conversione, quelle norme già adottate dal decreto-legge in assenza
di una (originaria) situazione di necessità e urgenza (7). Norme che, inve-
(3) Cfr., tra gli altri, A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge,
Milano 2000, pp. 47 ss.; A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, Milano 2003, pp. 250,
294 ss.
(4) La Corte cita, distaccandosene, le sentt. n. 330/1996, n. 419/2000, 29/2002, nonché,
«sotto un particolare profilo», la famosa n. 360/1996. Quest’ultima, come noto, dichiarando
l’incostituzionalità della reiterazione dei decreti-legge, ha affermato la sanabilità di tale
vizio «quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto
come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo»: punto 6 del
Considerato in diritto. Paradossalmente, nella sent. n. 171/2007, la Corte cita a suo favore,
oltre al leading case n. 29/1995, anche la sent. n. 341/2003, che invece opera una “ecumenica”,
quanto ambigua armonizzazione tra i due filoni giurisprudenziali (al punto 4 del
Considerato in diritto). Sull’andamento ondivago della giurisprudenza costituzionale, cfr.,
tra gli altri, A. CELOTTO, La “storia infinita”: ondivaghi e contraddittori orientamenti sul
controllo dei presupposti del decreto-legge, in Giur. cost. 2002, 133 ss.
(5) A. PREDIERI, Il governo colegislatore, in F. CAZZOLA, A. PREDIERI, G. PRIULLA, Il
decreto legge fra governo e parlamento, Milano, 1975, XX.
(6) L. PALADIN, Articolo 77, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca,
Bologna-Roma, 1977, pp. 66, 84; ID., Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, p. 260;
A.A. CERVATI, Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, in Giur. cost.
1977, pp. 880 ss.; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1984, p. 89.
(7) «(L)e disposizioni della legge di conversione in quanto tali (…) non possono essere
valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del
decreto stesso» (punto 5 del Considerato in diritto).
6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ce, sarebbero adottabili da parte di una qualsiasi altra legge delle Camere
(nonché da un qualsiasi decreto legislativo a ciò espressamente delegato) (8).
Ma sul punto si avrà modo di tornare.
2. Abuso della decretazione d’urgenza e tutela dei diritti
Messo da parte, per il momento, lo spiazzamento di cui sopra, proviamo
ad analizzare per gradi la decisione della Corte. In essa viene data una peculiare
rilevanza al fatto che, oltre all’alterazione delle regole sulla forma di
Governo, l’abuso della decretazione d’urgenza determina un’incidenza negativa
anche sotto il profilo della tutela di diritti (9). È questo un “punto di
forza” della decisione, posto che la tutela dei diritti è ciò che, già in passato,
ha permesso alla Corte di “osare” e di intromettersi nei rapporti tra Governo
e Parlamento, quanto all’uso della decretazione d’urgenza e alle sue distorsioni
(10). Sempre più complicato, invece, è apparso un intervento unicamente
ispirato alla mera esigenza di far rispettare una più netta separazione
tra potere Esecutivo e Legislativo, quanto ad esercizio dei poteri di norma-
(8) Il paradosso è sottolineato da L. PALADIN, Articolo 77, cit., p. 76. Per la contraria
tesi della atipicità, cfr., in particolare, V. ANGIOLINI, Attività legislativa del governo e giustizia
costituzionale, in Riv. di dir. cost., 1996, 242 s., che sottolinea la peculiarità della legge
di conversione «proprio e solamente per il fatto di presupporre un decreto da convertire»,
posto che, considerando invece tale legge al pari di ogni altra, si giungerebbe ad affermare
l’irrilevanza della incostituzionalità o costituzionalità del decreto (affetto dalla carenza dei
requisiti costituzionali ex art. 77 cost.). Ulteriormente diversa è la tesi che configura come
atipica la legge di conversione, negando però la sindacabilità dei requisiti di necessità e
urgenza del decreto-legge, per la natura necessariamente politica della loro valutazione (G.
PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto-legge, Padova 1989, pp. 70 ss., 185 ss.).
(9) Secondo la Corte, risultando in prima battuta l’art. 77 cost. diretto a porre una regola
di riparto «tra organi», «potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l’avallo del
Parlamento con la conversione del decreto, non restino margini per ulteriori controlli», tuttavia
«non si può trascurare di rilevare che la suddetta disciplina è anche funzionale alla
tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso
» (punto 5). Il passo è sottolineato da A. RUGGERI, Ancora una stretta (seppur non decisiva)
ai decreti-legge…, cit., che parla di affiancamento della prospettiva della «forma di
Stato» a quella, più tradizionale, della «forma di Governo».
(10) Cfr. la stessa sent. n. 360/1996 (che sottolinea la maggiore gravità delle conseguenze
«quando il decreto reiterato venga a incidere nella sfera dei diritti fondamentali o –
come nella specie – nella materia penale o sia, comunque, tale da produrre effetti non più
reversibili nel caso di una mancata conversione finale»: punto 4). Cfr. A. SIMONCINI, Corte
e concezione della forma di governo, in Corte costituzionale e processi di decisione politica,
a cura di V. TONDI DELLA MURA, M. CARDUCCI, R.G. RODIO, Torino 2005, p. 254; R.
ROMBOLI, Decreto-legge e giurisprudenza della Corte costituzionale, in L’emergenza infinita,
a cura di A. Simoncini, Macerata 2006, p. 108. Con riguardo all’incisione sui diritti ad
opera dei decreti-legge, isolata resta ancora la rigorosa tesi di L. CARLASSARE, Legge (riserva
di), in Enc. giur. 1990, § 2.2; ID., La “riserva di legge” come limite alla decretazione
d’urgenza, in Scritti in memoria di L. Paladin, II, Napoli 2004, 429 ss., che esclude la decretazione
dalle materie coperte da riserva assoluta di legge.
TEMI ISTITUZIONALI 7
zione primaria (11). Se questo è vero, non può allora non rilevarsi l’ambiguità
dell’atteggiamento della Corte con riguardo alle vicende da cui la questione
di costituzionalità è partita. Vicende di cui brevemente si deve dare conto.
La prima ordinanza del giudice a quo (la Cassazione civile), con cui è
stata originariamente chiamata a decidere la Corte, riguardava un processo,
su azione popolare, mirante alla decadenza del neo-eletto sindaco del comune
di Messina. Immediatamente dopo la sua elezione, infatti, detto sindaco
aveva subìto la condanna definitiva per il delitto di peculato d’uso, costituente
causa di decadenza ai sensi del T.U. delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 2000). Pendente in Cassazione il processo
su tale decadenza, entrava in vigore il decreto-legge n. 80 del 2004, il cui
art. 7, co. 1, lett. a), escludeva proprio che la condanna per il peculato d’uso
costituisse causa di incandidabilità e di decadenza dalla carica di sindaco.
Stante l’evidente eterogeneità di tale norma rispetto al resto del decreto
(12), non v’è bisogno di leggere i dibattiti parlamentari o di ripercorrere
cronache giornalistiche dell’epoca per intuire come si sia trattato di un
intervento legislativo volto ad incidere sull’esito di un processo in corso (da
notare che, in secondo grado, la Corte di appello di Messina aveva dichiarato
decaduto il sindaco, il quale aveva proposto ricorso per Cassazione,
impedendo così il rinnovo delle elezioni e innescando il commissariamento
del comune) (13). La Cassazione, consapevole certo della ritrosia con la
quale la Corte ammette un sindacato su leggi generali e astratte sospettate
di voler influire sull’esito concreto di uno o più processi, ha preferito attaccare
il provvedimento sotto il profilo della palese assenza dei requisiti di
necessità e urgenza, anziché sotto quello, appunto, dell’incisione delle attribuzioni
giurisdizionali ad opera di leggi “ad personam” (14). È a questo
(11) Tra i molti, cfr. A. CELOTTO, La “storia infinita”…, cit., 137; G. DI COSIMO, Tutto
ha un limite…, cit.
(12) Contenente misure di finanza locale, tanto che il Preambolo recita: «Ritenuta la
straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di
assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei
bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica
ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario».
(13) Istruttivo il Resoconto stenografico della seduta al Senato n. 596 del 4 maggio
2004. Cfr. G. D’AMICO, Governo legislatore o Governo giudice? Il decreto-legge n. 80 del
2004 al vaglio della Corte costituzionale, ovvero dell’irresistibile tentazione del legislatore
a farsi giudice in causa propria, in Dir. pubbl., 2004, p. 1131, nt. 42.
(14) Ma il profilo è presente nell’ordinanza: cfr. G. D’AMICO, op. cit., 1119, cui si rinvia
per l’approfondita analisi della prima ordinanza di rinvio. Sulla giurisprudenza costituzionale
in materia di leggi sospettate di incidere sull’esito di processi, cfr. sent. n. 374/2000
e, di recente, ord. n. 352/2006. Riassuntivamente, in dottrina, N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema
costituzionale della magistratura, Bologna 2006, pp. 59 ss. Sulla maggior severità della
Corte di Strasburgo nel giudicare le leggi incidenti sull’esito di processi, cfr. M. MASSA, Le
leggi retroattive sfavorevoli nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
in La responsabilità dello Stato, a cura di F. DAL CANTO, Pisa 2006, 143 ss.
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punto che ci imbattiamo nel primo, emblematico, intervento della Corte
costituzionale: posto che, nel frattempo, il decreto-legge impugnato aveva
ottenuto la conversione in legge (l. 140/2004), la Corte, con ordinanza n.
2/2005, restituisce gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della
rilevanza, specificando che «con tale legge sono state apportate modificazioni
al testo del decreto e sono state altresì enunciate le ragioni della emanazione
della norma censurata».
L’ordinanza è emblematica se confrontata, appunto, con la sentenza n.
171 in commento e con gli esiti “arditi” cui essa giunge. Avendo, infatti, la
Cassazione, giudice a quo, insistito nel riproporre la questione, stavolta trasferendola
sulla legge di conversione, la Corte, da un lato afferma che le
modifiche apportate in sede di conversione non concernono la disposizione
censurata (15); da un altro lato, non prende più in considerazione il fatto che
la legge abbia enunciato le ragioni della norma censurata (16). In altre parole,
a voler leggere l’ordinanza prescindendo dalla successiva decisione della
Corte, la restituzione degli atti si comprende solo collocandola nella prospettiva
di un qualche effetto sanante della legge di conversione (17); la stessa
ordinanza, al contrario, se riletta alla luce della successiva decisione n. 171,
appare come una manovra puramente dilatoria della Corte, posto che il vizio
in procedendo della legge di conversione poteva essere rilevato già in prima
battuta. Detto ancora più chiaramente: se la Corte avesse voluto efficace-
(15) Punto 5 del Considerato in diritto della sent. n. 171/2007.
(16) Cfr. il punto 6 del Considerato in diritto, in cui la Corte imposta la questione come
se si trattasse solo di confutare la giustificazione dell’Avvocatura dello Stato, circa l’afferenza
della disposizione alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza anziché a quella
elettorale, omettendo di dar conto che, in realtà, tale giustificazione è stata data dallo stesso
legislatore, il quale, all’atto di convertire il d.l. n. 80/2004, ha espressamente indicato che le
modificazioni al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali sono apportate
«per chiarire e definire i presupposti e le condizioni rilevanti per il mantenimento delle cariche
pubbliche ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica» (inciso interamente inserito ex
novo dalla legge di conversione all’art. 7, co. 1, del d.l.). Il confronto con l’ordinanza n.
2/2005 avrebbe dovuto, in realtà, imporre un chiarimento circa i poteri del legislatore di
motivare “retroattivamente” – in sede di conversione – i requisiti di necessità e urgenza. Un
terreno, come si intuisce, assai scivoloso, che la Corte ha preferito per ora evitare. Sulla
motivazione dei presupposti di necessità e urgenza, quale onere gravante sul Governo (ed
eventualmente sul Parlamento): L. VENTURA, Motivazione (degli atti costituzionali), in Dig.
disc. pubbl., X, Torino 1995, p. 43; A. RUGGERI, La Corte e le mutazioni genetiche dei decreti-
legge, in Riv. di dir. cost., 1996, p. 289, nt. 47; G. D’AMICO, Governo legislatore o
Governo giudice?..., cit., p. 1129 (che richiama anche l’esigenza del vaglio dei dibattiti parlamentari);
A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., 46 s.
(17) Diversamente R. ROMBOLI, Una sentenza “storica”…, cit., secondo cui l’ordinanza
avrebbe implicitamente negato l’effetto sanante della legge di conversione, altrimenti
essa «avrebbe dovuto dichiarare la manifesta inammissibilità della eccezione e non la restituzione
degli atti». L’ordinanza, in realtà, sembra assai poco ponderata, visto che invita il
giudice a quo a rivalutare la rilevanza della questione, nonostante che la norma impugnata
fosse rimasta intatta dopo la conversione.
TEMI ISTITUZIONALI 9
mente incidere sull’esito del processo a quo (nonché di tutta la vicenda politico-
giuridica ad esso sottesa), gli elementi per valutare la convertibilità o
meno del decreto-legge erano già tutti presenti al momento in cui la Corte ha
pronunciato l’ordinanza n. 2/2005 di restituzione degli atti.
3. Sindacato della Corte e sua effettività
Perché tanto insistere sulla contraddizione della Corte? Perché, se il
“punto di forza” della sentenza è quello di qualificare la problematica dell’abuso
della decretazione ricorrendo alla tematica della tutela dei diritti e la
connessa irreversibilità degli effetti dei decreti legge, appare paradossale che
la fatidica sentenza sia stata pronunciata quasi attendendo che l’irreversibile
“lesione dei diritti” si compisse nei riguardi del “caso a quo”.
L’incostituzionalità del decreto convertito, infatti, viene pronunciata quando
(e forse proprio perché) la decadenza del sindaco in questione ha ormai
perso qualsiasi rilevanza pratica (18), con esito alquanto deludente per gli
elettori e la cittadinanza del comune interessato (19).
L’atteggiamento della Corte, dunque, è spia della tendenza a formulare,
in tema di controllo sull’esercizio dei poteri normativi del Governo, principi
rigorosi cui fa seguito un basso rendimento pratico (20). Già in passato, del
resto, si è evidenziato come un simile sindacato della Corte sia minato in
radice dall’ineffettività proprio riguardo agli esiti irreversibili che i decreti
legge sono in grado di produrre, specie laddove siano in ballo diritti costituzionali
(e specie in materia elettorale) (21). Lo scagliarsi della Corte sui “vizi
in procedendo” della legge di sanatoria, infatti, «chiude le porte della stalla,
dopo che i buoi se ne sono già scappati. Lo scandalo della decretazione
(18) Essendo stato eletto, nel frattempo, un nuovo sindaco, tanto che quasi certamente
il giudizio a quo si concluderà per cessazione della materia del contendere.
(19) Ai quali è stato imposto, dopo la dichiarata decadenza del sindaco e nelle more del
processo, un commissariamento di anomala lunghezza (due anni e mezzo).
(20) A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 250, 294 ss.
(21) Cfr. M. AINIS, Le parole e il tempo della legge, Torino 1996, pp. 200, 204 ss.; F.
CAPORILLI, Decreti-legge in materia elettorale e tutela della sovranità popolare: analisi di
alcune esperienze recenti, in I rapporti tra Parlamento e Governo attraverso le fonti del
diritto, a cura di V. COCOZZA e S. STAIANO, Torino 2001, pp. 335 ss.; A. SIMONCINI, Le funzioni
del decreto-legge, cit., 337 ss. Nota è la vicenda che, nell’ambito dei diritti elettorali,
sub specie referendum abrogativo, ha condotto la Corte, proprio invocando l’irreversibilità
potenziale degli effetti della decretazione, ad ammettere per la prima volta l’impugnabilità
di un atto legislativo (un decreto-legge, appunto) mediante lo strumento del conflitto d’attribuzione
tra poteri dello Stato (sent. n. 161/1995). Resta il problema della difficile estensibilità
di un simile rimedio (certo il più tempestivo) a soggetti non immediatamente inquadrabili
nella nozione di “potere dello Stato” (A. RUGGERI, La Corte e le mutazioni genetiche
dei decreti-legge, cit., 286, nt. 43; A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 259; A.
CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., 179 ss.; A. CELOTTO,
L’«abuso» del decreto-legge, Padova, 1997, 529 ss.).
10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
riguarda l’uso arbitrario dei decreti-legge, ben più che la rivalutazione e l’appropriazione
di tali provvedimenti da parte delle Camere» (22).
Se uno strumento davvero effettivo di controllo sulla decretazione d’urgenza
esiste, esso è, paradossalmente, quello previsto dalla Costituzione: la
possibilità per le Camere (titolari del potere legislativo) di pronunciarsi
immediatamente sul decreto, determinandone la sua decadenza ancor prima
che quegli effetti abbiano in qualche modo a stabilizzarsi (23). È da dubitare,
tuttavia, che il nuovo corso instaurato dalla Corte possa davvero indurre
le Camere a un rigoroso controllo sul decreto-legge e, soprattutto, sulle singole
disposizioni di questo, stante l’omogeneità tra Governo e maggioranza
politica parlamentare, nonché i vantaggi che le stesse componenti della maggioranza
parlamentare possono trarre dalla negoziazione che normalmente
avviene in sede di conversione (24). Per non restare, nella maggior parte dei
casi, lettera morta, la nuova lettura rigorista della Corte dovrà saldarsi, allora,
con un suo atteggiamento assai meno cauto nel sindacare tempestivamente
disposizioni introdotte con la decretazione d’urgenza, specie con riguardo
alla gestione del proprio calendario (25). Con il che, però, la Corte rischia di
portarsi dritta nel “calore politico” di molte vicende sottese alla decretazione
d’urgenza (26). Senza considerare che, in molti casi, gli effetti di un
(22) L. PALADIN, Atti legislativi del Governo e rapporti fra poteri, in Quad. cost. 1996,
pp. 24 s., il quale proseguiva notando che, «(r)ispetto a quegli abusi, (…) le leggi di conversione
rappresentano un falso bersaglio; mentre i veri rimedi vanno ricercati a monte (…),
mediante un sindacato che riesca a colpire i decreti-legge, malgrado la loro provvisoria
vigenza».
(23) Cfr. ancora M. AINIS, op. ult. cit., 225 ss., che approfondisce il rimedio della negata
conversione immediata da parte anche di una sola Camera, il cui effetto caducatorio, anche
su una singola disposizione del decreto-legge, può prodursi a partire dal relativo comunicato
in Gazzetta Ufficiale. Il rimedio, come noto, è più che raro nella prassi parlamentare: cfr. A.
CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., p. 66, nt. 131. Ma cfr. ancora
L. PALADIN, Articolo 77, cit., p. 93, il quale concludeva la sua analisi rilevando come
«(t)utto l’essenziale finisce… per essere rimesso alle libere scelte del Parlamento: dall’accertamento
dei presupposti giustificativi dei decreti-legge, all’attivazione delle responsabilità
governative, fino alla restaurazione dei provvedimenti non convertiti. Ma forse è proprio questo
il risultato ultimo che gli stessi costituenti si proponevano di conseguire».
(24) Cfr. la Relazione della Commissione di studio sulla fattibilità delle leggi, pres.
Basettoni Arleri, in Pol dir. 1981, 608 s., ed evidenziata da A. CELOTTO, L’«abuso» del
decreto-legge, cit., p. 449, nt. 317; R. TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo, interposizione
del Parlamento e sindacato della Corte costituzionale, in Giur. cost. 1988, p. 971,
nt. 95. Dal Rapporto 2006 sullo stato della legislazione predisposto dall’Osservatorio sulla
legislazione della Camera dei deputati la percentuale di modifiche apportate ai decreti-legge
in sede di conversione risulta pari al 90%. Cfr. G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…, cit.
(25) Cfr., tra gli altri, R. TARCHI, op. ult. cit., p. 967.
(26) Si pensi, del resto, a quali critiche o attacchi si sarebbe esposta la Corte se avesse
adottato la decisione in commento… quando andava adottata, ossia durante la legislatura di
centro-destra e durante il “braccio di ferro” tra il decaduto sindaco e la giustizia. Il che spiega,
ulteriormente, l’ambiguità dell’ord. n. 2/2005 sopra evidenziata.
TEMI ISTITUZIONALI 11
annullamento della legge di conversione potrebbero essere assai più dirompenti
e “di sistema” di quanto non sia accaduto con la sentenza n. 171/2007
(27). In alternativa, o piuttosto in aggiunta, tale nuova dottrina dovrà saldarsi
con un atteggiamento anch’esso più rigoroso del Capo dello Stato (specie
in sede di emanazione del decreto-legge, ma, a questo punto, anche in sede
di promulgazione della legge di conversione) (28). Ma ciò, altrettanto e forse
più che per la Corte, rischia di portare il Capo dello Stato nel pieno della contesa
politica (29).
4. La natura atipica della legge di conversione
Vale la pena di tornare, a questo punto, al profilo teorico più delicato
accennato in incipit: quello dell’atipicità della legge di conversione. A seguire
il ragionamento della Corte, non potrebbe infatti tale legge convertire
norme di legge prive di necessità e urgenza: dunque una legge depotenziata
dal punto di vista della c.d. forza “attiva”. Ma cosa succederebbe se il
Parlamento, consapevole dell’assenza di quei requisiti, condivida comunque
l’opportunità politica di introdurre quelle norme? Si dirà che, per fare ciò, le
Camere dovranno seguire la strada ordinaria e partire con un’iniziativa legislativa
diversa e autonoma da quella del d.d.l. governativo di conversione. Ma
se poi il Parlamento inserisse, in tale diverso testo, anche una norma di sanatoria
degli effetti del decreto-legge non convertito, ex art. 77, co. 3, cost.
(30)? Ovvero, più semplicemente, si limitasse ad attribuire effetti parzial-
(27) Si pensi a decisioni che annullino, a distanza di anni, normative strutturali di carattere
economico-sociale, in materia pensionistica o di pubblico impiego, tanto per fare un
esempio.
(28) Cfr., tra gli altri, R. TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo…, cit., p. 964;
G. PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto-legge, cit., pp. 232 ss.; A. RUGGERI, La
Corte e le mutazioni genetiche dei decreti-legge, cit., p. 282, nt. 41 e dottrina ivi cit. Noto,
quanto isolato, il precedente del rinvio presidenziale del d.d.l. di conversione del d.l. n.
4/2002, in cui si critica l’operato delle Camere volto a introdurre emendamenti estranei
all’oggetto della decretazione: cfr. G. D’AMICO, Gli argini della Costituzione ed il “vulcano”
della politica. Brevi considerazioni a riguardo del rinvio presidenziale della legge di
conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4 e del suo “seguito” governativo, in
www.forumcostituzionale.it/.
(29) Vista anche la difficoltà di eleggere un Capo dello Stato estraneo a una qualche
appartenenza politica.
(30) L. PALADIN, Articolo 77, cit., pp. 84 s.; 92 s. (secondo cui anche il ricorso ad una
sanatoria, da parte del Parlamento, con funzioni di “conversione tardiva”, deve ritenersi
ammesso dal 3° comma dell’art. 77 cost.). Parzialmente diverso il discorso fatto da M.
RAVERAIRA, Il problema del sindacato di costituzionalità sui presupposti della “necessità ed
urgenza” dei decreti-legge, in Giur. cost., 1982, I, p. 1442, che sottolinea la differenza tra
«la retroattività automatica della legge di conversione», che può aversi solo in presenza dei
requisiti di necessità e urgenza del decreto convertito, e legge di regolamentazione degli
effetti del decreto decaduto, che incontrerebbe i «normali limiti alla retroattività previsti dall’ordinamento
costituzionale», con speciale riguardo all’art. 3, co. 1, e 25, co. 2, cost. Si è
12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mente retroattivi a quelle disposizioni di legge (31)? Non possono dirsi certo
isolati, infatti, i casi di retroattività delle leggi e nota è la grande “tolleranza”
del sindacato della Corte sul punto. Alcune volte, addirittura, potrebbe essere
la stessa ragionevolezza o il divieto di discriminazioni a far propendere
per la retroattività di una norma, prescindendo da qualsiasi aspetto di “necessità
e urgenza”. Potrà, allora, l’arbitrio o l’errore del Governo “bruciare” tale
possibilità del Parlamento di introdurre discipline retroattive?
Come si vede, per evitare di essere facilmente eluso, il diktat della Corte
dovrebbe procedere verso strade ancora più articolate e impervie di quella
intrapresa con la sent. n. 171/2007. E, tuttavia, già in essa troviamo un segnale
che contraddice simile scenario. Per la Corte, infatti, il discorso sul sindacato
della legge di conversione sembra mutare quando il Parlamento, anziché
limitarsi a confermare i contenuti del decreto-legge, aggiunga nuove
disposizioni: per queste ultime, a quanto pare, non possono darsi gli stessi
limiti costituzionali che gravano sulla mera conversione (32). Ma, così
facendo, la Corte conferma la tesi della legge di conversione come legge
“sostanziale”, priva di atipicità (33). Tanto che, allora, ci si chiede se non sia
più corretto scindere in due, come già da tempo prospettato, la disposizione
che converte una norma del decreto: una stuatuizione vale, appunto, specificamente
a convertire ed è perciò temporalmente limitata al periodo di vigenparlato,
a tal proposito, di «effetti non convalidabili retroattivamente»: A.A. CERVATI,
Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, cit., 878, richiamato da R.
TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo…, cit., p. 977. Questa sembra la tesi condivisa
anche dalla Corte costituzionale (specie nella sent. n. 244 del 1997, secondo cui, premesso
che la legge di sanatoria si differenzia da quella di conversione, si osserva che, se
«resta impregiudicato il potere ulteriore del legislatore di regolare autonomamente situazioni
pregresse», ciò va però fatto «nei limiti in cui è ammissibile una legge retroattiva»). Sul
punto, cfr. A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 276 ss.
(31) Rigorosa la posizione di chi ammette solo una legge retroattiva che ridisciplina,
diversamente, gli oggetti del d.l., negando forme di conversione tardiva mascherata: V.
ANGIOLINI, Attività legislativa del Governo e giustizia costituzionale, cit., 244; ID., La “reiterazione”
dei decreti-legge. La Corte censura i vizi del Governo e difende la presunta virtù
del Parlamento?, in Dir. pubbl., 1997, pp. 115 ss.; A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità…,
cit., 140 ss.
(32) Per la Corte, infatti, le disposizioni della legge di conversione vanno sindacate
assieme a quelle del decreto, «nei limiti… in cui non incidano in modo sostanziale sul contenuto
normativo delle disposizioni del decreto, come nel caso in esame stesso» (punto 5 del
Considerato in diritto).
(33) Una simile contraddizione, del resto, era già rinvenibile tra la sent. n. 29/1995 e la
successiva sent. n. 391/1995, in cui la Corte ha espressamente escluso l’estensione del sindacato
sulla carenza dei presupposti di necessità e urgenza «alle norme che le Camere, in
sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina “aggiunta”
a quella dello stesso decreto». Cfr. la posizione critica di A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri
ordinatori. Lezioni, Torino 2005, 166 ss., ribadita proprio in riferimento alla sent. n.
171/2007 (ID, Ancora una stretta (seppur non decisiva) ai decreti-legge…, cit.); similmente
A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., pp. 123 ss.
TEMI ISTITUZIONALI 13
za precaria del decreto; l’altra statuizione vale, al pari degli emendamenti
aggiuntivi al decreto, a innovare l’ordinamento per il futuro. Solo la prima
statuizione (nella scissione ideale così concepita) può subire il sindacato e
l’annullamento per carenza (evidente) dei requisiti di necessità e urgenza,
mentre la seconda ne dovrà restare esente, al pari dei contenuti “nuovi” della
legge di conversione (34).
Anche con questa più raffinata ricostruzione, tuttavia, non si esce dal
dilemma della libertà di operato del Parlamento: esso potrebbe volere la disciplina
retroattiva per motivi di opportunità politica che prescindono del tutto
dall’esistenza della necessità e urgenza all’epoca dell’emanazione del decreto.
E il dilemma è superabile solo se si accetta che la retroattività della disciplina
del Parlamento (quale tecnica adottata per “coprire” un decreto-legge
totalmente o parzialmente privo di necessità e urgenza) vada valutata assai più
rigorosamente del solito, da parte della Corte. Del resto, nel caso che ha originato
la sentenza n. 171/2007, il rigore della Corte lo si spiega forse proprio
alla luce del fatto che la norma del decreto-legge colpita si dirigeva fin troppo
scopertamente verso di uno specifico processo in corso, per influire sugli
effetti di esso in senso conforme agli interessi politici della maggioranza di
governo. Più che una indiscriminata caducazione delle conversioni legislative
di decreti manifestamente privi dei requisiti di necessità e urgenza, allora,
è lecito interpretare questo nuovo corso della Corte nel senso di una maggiore
attenzione alle cause che conducono il Governo, prima, e il Parlamento,
poi, ad intervenire legislativamente con le modalità dell’art. 77 cost.
5. L’argomento “procedurale” della specialità della legge di conversione
L’impostazione muta solo apparentemente, se si segue l’argomentazione
“procedurale” della Corte: quella secondo cui l’atipicità della legge di conversione
si fonderebbe anche sul peculiare iter legislativo da essa seguito.
Una parte di questo discorso è, a mio avviso, fuorviante, laddove la Corte
invoca le speciali procedure previste dai regolamenti parlamentari (citando
per esteso l’art. 78, co. 4, del Regolamento del Senato, sul controllo preliminare
dell’Assemblea sui requisiti di necessità e urgenza, il cui esito negativo
comporta l’arresto dell’iter legislativo) (35). Si tratta di procedure che non
trovano riscontro nella Costituzione (36) e che dunque potrebbero essere
(34) M. RAVERAIRA, Il problema del sindacato di costituzionalità…, cit., pp. 1465 ss.,
che sottolinea l’indimostrabilità della diversa natura del potere parlamentare di emendamento
e di quello di protrazione degli effetti del decreto-legge (criticando la tesi di F.
SORRENTINO, La Corte costituzionale tra decreto-legge e legge di conversione: spunti ricostruttivi,
in Dir. soc., 1974, 537). La tesi è adesivamente richiamata da ultimo anche da A.
CELOTTO, E. DI BENEDETTO, Art. 77, in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO,
A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino 2006, 1520 s.
(35) Punto 5, in fine, del Considerato in diritto.
(36) Cfr. R. DICKMANN, Il decreto-legge come fonte del diritto e strumento di governo,
cit., p. 6.
14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
liberamente modificate dalle Camere, come infatti è avvenuto, proprio nel
senso di depotenziare il controllo specifico sulla presenza dei requisiti di
necessità e urgenza (37). Dunque, la sola peculiarità rilevante, ai fini della
tesi della specializzazione della fonte “legge di conversione”, è quella immediatamente
fondata sulla Costituzione. Come evidenziato dalla Corte, tale
peculiarità consiste nel fatto che le Camere devono essere subito convocate
per la discussione sul decreto-legge, anche se sciolte. Il che, a sua volta, si
connette con il fatto che la conversione, a differenza di qualsiasi altro iter
legislativo, non è attivabile a discrezione di ciascuna Camera, ma si origina
obbligatoriamente proprio a partire dall’adozione del decreto-legge: «l’immediata
efficacia di questo… condiziona… l’attività del Parlamento in sede
di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa.
Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare
con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui
di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni
aventi efficacia di legge» (38).
Sembra questo, allora, il motivo per cui, nel pensiero della Corte, l’uso
della decretazione quale surrettizio modo di introdurre un disegno di legge
“garantito” (che non lascia alternative al Parlamento circa la scelta se iniziare
o meno la sua discussione, oltre che alla tempistica della sua approvazione)
non potrebbe essere sanato dall’acquiescenza delle Camere. Il paradosso
è però quello che, rilevata giustamente la logica “del fatto compiuto”, la
Corte trascura come tale logica, in assenza di un controllo preventivo o
comunque tempestivo sul decreto-legge, rimane intatta anche dopo la minaccia
di un rigoroso sindacato costituzionale sulla legge di conversione. Se sarà
l’atipicità della legge a far problema, il Parlamento resterà comunque spinto
ad adottare, entro breve termine, un disegno o progetto di legge ordinario che
svolga l’omologa funzione della legge di conversione: gli effetti “irreversibili”
del decreto-legge, infatti, se vi sono, si producono comunque, anche se un
bel giorno arriverà il sindacato della Corte costituzionale a caducare retroattivamente
le norme originarie pur dopo la conversione.
Più a fondo, la Corte, nella cartesiana contrapposizione tra Governo e
Parlamento, trascura di considerare l’estrema difficoltà di imporre al
Parlamento, dall’esterno, un maggior rigore nei confronti della decretazione
(37) Si tratta della nota soppressione, alla Camera, del controllo attribuito alla
Commissione affari costituzionali, sostituito dal parere preventivo del Comitato per la legislazione,
avente per oggetto non più la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza, bensì
quelli di specificità e omogeneità delle disposizioni del decreto, oltre all’osservanza dei
limiti di contenuto previsti dalla legislazione vigente (con speciale riguardo a quelli della l.
n. 400/1988, che, ad es., esclude la materia elettorale): cfr. C. NASI, L’art. 96-bis del regolamento
della Camera ed il procedimento di conversione di decreti legge, in Rass. Parl.,
2/2001, pp. 456 ss., che dà atto dello scarsissimo seguito, nei lavori della Camera, dei rilievi
mossi dal Comitato (p. 473).
(38) Sent. n. 171/2007, punto 5 del Considerato in diritto.
TEMI ISTITUZIONALI 15
d’urgenza (39). Non è, infatti, solo il Governo a trarre vantaggio dal c.d.
“abuso” della decretazione d’urgenza. Finché converrà anche alle componenti
della maggioranza presenti in Parlamento sfruttare le strettoie procedurali
imposte dalla decretazione d’urgenza (stante il potere di negoziazione e,
quasi, di ricatto che in tal modo acquistano le singole componenti anche
ultra-minoritarie della coalizione (40)), non si vede una realistica possibilità
di “moralizzare” l’uso politico delle procedure “eccezionali” legate alla
decretazione stessa (41).
Conclusivamente: non sembra che con questa “camicia di forza” possano
risolversi i problemi della nostra forma di governo, tanto da potersi ipotizzare
che, se rimane questo sistema partitico e questo sistema elettorale, la
decisione della Corte è destinata forse a creare più problemi – specie per la
Corte stessa – che a risolverli (42).
(39) Con un’efficace trattazione congiunta di decretazione d’urgenza e delegazione
legislativa, si è sottolineato che «la Corte incontra maggiori difficoltà nel sanzionare il
Parlamento che non difenda le proprie prerogative piuttosto che il Governo che le usurpi»:
G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…, cit.
(40) Cfr., tra gli altri, C. NASI, L’art. 96-bis del regolamento della Camera…, cit., pp.
483 s.; G. COLAVITTI, Decretazione d’urgenza e forma di governo, in Dir. soc., 1999, pp. 331
ss. Sulla incostituzionalità degli emendamenti completamente eterogenei rispetto al decreto-
legge, che riducono questo a mero “pretesto” per l’approvazione rapida e sicura di un
certo pacchetto di norme frutto di negoziazione, cfr. A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità
sul decreto-legge, cit., pp. 116 ss. e dottrina ivi cit.; più sfumata la posizione di G.
PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto-legge, cit., 195.
(41) Già in questi termini L. PALADIN, Articolo 77, cit., p. 76 (pur riferito all’improbabilità
di una revisione costituzionale che limitasse i poteri di emendamento della legge di
conversione). Sulla convenienza anche per il Parlamento della trasformazione del decretolegge
in un disegno di legge “a corsia preferenziale” e ai connessi esiti paradossali di una
dichiarazione d’incostituzionalità della legge di conversione, cfr. G. PITRUZZELLA, La straordinaria
necessità ed urgenza: una “svolta” della giurisprudenza costituzionale o un modo
per fronteggiare situazioni di “emergenza” costituzionale?, in Le Regioni, 1995, p. 1106.
Cfr. anche A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., 97 s., che
riconduce la sent. 29/1995 proprio alla volontà della Corte di spostare la sua “critica” dal
Governo al Parlamento.
(42) Cfr. G. PITRUZZELLA, La straordinaria necessità ed urgenza…, cit., 1106, scettico
sull’orientamento rigorista della Corte, posto che il rimedio all’abuso dell’art. 77 cost. può
passare soltanto per una riforma delle istituzioni e della politica. In senso non dissimile, R.
TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo…, cit., p. 977; A. PIZZORUSSO, Ai margini
della questione della reiterazione di decreti-legge: osservazioni su alcuni problemi procedurali,
in Giur. cost. 1996, 3201 (che, al di là dei buoni auspici della sent. n. 29/1995 della
Corte, evidenzia come l’art. 77 cost. sia una «soluzione… tecnicamente sbagliata», superabile
solo con riforme volte sia a introdurre procedure parlamentari in cui sia «garantita… la
gestibilità da parte del Governo», sia a limitare la decretazione d’urgenza a «una funzione
puramente derogatoria…, anziché una funzione normativa piena»). Sull’insufficienza della
decisione della Corte n. 171/2007 a far cessare l’abuso della decretazione d’urgenza e la
necessità di riforme costituzionali capaci di incidere sulle cause del fenomeno, cfr. A.
CELOTTO, C’è sempre una prima volta…, cit.; incerto sugli esiti “di sistema” della sentenza
16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Corte Costituzionale, sentenza 9 – 23 maggio 2007 n. 171, nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a) del decreto-legge 29 marzo 2004 n. 80
(Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla
legge 28 maggio 2004, n. 140, promosso dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto
da G. B. ed altri contro R. A. P. ed altri, con ordinanza del 6 aprile 2005, iscritta al
n. 321 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2005 – Pres. F. Bile – Rel. F.
Amirante (avvocati G. Colaiacomo per A. B., C. Matafù per A. N. ed altri; avv. dello
Stato G. Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri).
«Ritenuto in fatto
1.- La Corte di cassazione, prima sezione civile, con ordinanza del 6 aprile 2005, ha
sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80
(Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28
maggio 2004, n. 140.
Premette il giudice a quo che, con sentenza del 13 dicembre 2002, il ricorrente era stato
condannato dalla Corte di appello di Messina alla pena di mesi sei di reclusione ed alla temporanea
interdizione dai pubblici uffici, con i benefici di legge, per i delitti di cui agli artt.
81, 314, secondo comma, e 323 del codice penale, e che la Corte di cassazione, con sentenza
del 5 giugno 2003, aveva rigettato il ricorso proposto dall’imputato avverso detta sentenza
di condanna. Nel frattempo, il ricorrente si era candidato alle elezioni del 25–26 maggio
2003 ed il 29 maggio era stato proclamato sindaco del Comune di Messina. Erano state,
appare anche R. ROMBOLI, Una sentenza “storica”…, cit.; G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…,
cit., secondo cui, in questo caso, non basterà una sola sentenza a far mutare di rotta il
potere politico, a differenza di quanto avvenuto con la sent. n. 360/1996 per la reiterazione
dei decreti-legge.
L’insufficienza degli strumenti procedurali che permettono al Governo di influire efficacemente
sul procedimento legislativo ordinario è una delle cause che viene addotta per
spiegare il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza: cfr., da ultimo, M. CARTABIA,
Legislazione e funzione di Governo, in Riv. di dir. cost., 2006, pp. 93 s., dove, tuttavia, si
nota che il ricorso ad atti governativi di legislazione avviene anche in ordinamenti che offrono
al governo strumenti di controllo parlamentare più potenti, rimandando così anche alle
dinamiche della frammentazione partitica (di coalizione o infrapartitica): pp. 88 ss.
Interessante, a tal proposito, l’analisi comparata di G. COLAVITTI, Decretazione d’urgenza e
forma di governo, cit., pp. 354 ss., in cui si sottolinea come la causa della buona resa del
Parlamento tedesco, quanto ad esercizio della funzione legislativa, risieda in primis nella
coesione tra la maggioranza parlamentare e l’esecutivo (p. 358).
È stato presentato, nella legislatura in corso, un progetto di revisione costituzionale
(A.C. 533, su cui cfr. N. ZANON, Riforma costituzionale: adelante con judicio (… e ragionevole
pessimismo), in www.federalismi.it, p. 6.), il quale, oltre a fare del decreto-legge una
fonte a competenza limitata (alle materie di sicurezza nazionale, pubbliche calamità, norme
finanziarie, adempimento di obblighi comunitari e internazionali), costituzionalizza i limiti
di specificità, omogeneità e immediata applicazione fissati nella l. n. 400/1988, imponendo,
infine, alla legge di conversione il rispetto degli stessi limiti posti al decreto, vietando l’introduzione
di «materie nuove».
quindi, proposte diverse azioni popolari per ottenere la declaratoria di decadenza dell’eletto
dalla carica di sindaco, a seguito della sopravvenuta suddetta sentenza penale irrevocabile
di condanna. I relativi ricorsi riuniti erano stati respinti dal Tribunale di Messina, con sentenza
del 21 luglio 2003, sull’assunto che le norme di cui agli artt. 58, 59, 68 e 70 del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), non consentissero di affermare che la condanna definitiva per il delitto di peculato
d’uso – con irrevocabilità acquisita dopo la nomina a sindaco del candidato – costituisse
causa di decadenza dell’eletto e che, per converso, detta decadenza non potesse conseguire
alla interdizione dai pubblici uffici, con sospensione della pena.
Tale decisione era stata, tuttavia, riformata dalla Corte di appello di Messina che aveva
dichiarato la decadenza dalla carica di sindaco, con sentenza del 3 dicembre 2003.
Avverso detta sentenza era stato proposto ricorso per cassazione ma, prima dell’udienza
di discussione, era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 marzo 2004, il d.l. n.
80 del 2004, il cui art. 7, comma 1, lettere a) e b), aveva modificato l’art. 58, comma 1, lettera
b), del D.Lgs. n. 267 del 2000 (nel senso che dopo il numero «314» erano inserite le
parole «primo comma») e l’art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo (nel senso che
dopo le parole «sentenza di condanna» erano inserite le parole «per uno dei reati previsti dal
medesimo comma»). Con il decreto-legge era stato, quindi, escluso che la condanna per il
peculato d’uso costituisse causa di incandidabilità alla carica di sindaco e, poi, di decadenza
dalla stessa.
La Corte di cassazione, con ordinanza del 17 aprile 2004, ha sollevato, in riferimento
all’art. 77, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del citato art. 7, per
palese insussistenza del requisito del «caso straordinario di necessità e urgenza».
Questa Corte, con ordinanza n. 2 del 2005, ha disposto la restituzione degli atti al giudice
a quo, essendo, medio tempore, intervenuta la legge di conversione n. 140 del 2004 che
ha apportato modifiche al testo del decreto-legge ed ha enunciato le ragioni dell’emanazione
della norma censurata.
La Corte di cassazione ritiene di dover nuovamente sollevare la questione – nell’anzidetta
formulazione – assumendo che il denunciato vizio si è trasferito sulla legge che, pur
nella manifesta carenza dell’anzidetto requisito, ha ugualmente provveduto alla conversione
del decreto-legge.
In punto di rilevanza, la Corte remittente, richiamando la propria precedente ordinanza,
dopo aver affermato l’applicabilità nella Regione siciliana degli artt. 58 e 59 del D.Lgs.
n. 267 del 2000, osserva che il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso per cassazione
hanno carattere assorbente nella disamina dell’impugnazione principale e che le suddette
disposizioni devono essere applicate per la decisione dei motivi stessi. In particolare, con il
secondo motivo si fa questione della latitudine della previsione inabilitante dell’art. 314 cod.
pen. contenuta nel menzionato art. 58, comma 1, lettera b), sostenendosi, in antitesi con la
decisione della Corte territoriale, che il peculato d’uso non sarebbe da comprendere nella
previsione inabilitante del peculato. Con il terzo e quarto motivo, dato per ammesso che la
previsione inabilitante includa l’ipotesi del peculato d’uso, si censura l’opzione interpretativa
adottata dalla Corte d’appello di Messina, per la quale vi sarebbe perfetta corrispondenza
tra previsioni inabilitanti (in termini di ostatività alla carica e di nullità della elezione
avvenuta) e previsioni disabilitanti (in termini di decadenza dell’eletto per la sopravvenienza
del giudicato ostativo).
Da quanto si è detto deriva, ad avviso della Corte remittente, la necessaria e ineludibile
applicazione delle norme sopravvenute nel giudizio di cui si tratta, in quanto l’art. 7 del
TEMI ISTITUZIONALI 17
d.l. n. 80 del 2004, alla lettera a), modificando l’art. 58, comma 1, lettera b), ha escluso dal
novero delle cause ostative alla candidatura la condanna definitiva per il delitto di peculato
d’uso (salva l’ipotesi contemplata dall’art. 58, comma 1, lettera c, non modificato, in cui la
pena irrogata superi i sei mesi), mentre lo stesso art. 7, alla lettera b) – modificando l’art.
59, comma 6, del testo unico nel senso di prevedere esplicitamente che la decadenza dalle
cariche elencate al comma 1 dell’art. 58, per effetto di sentenza di condanna definitiva, operi
soltanto ove la condanna sia intervenuta «per uno dei reati previsti dal medesimo comma»
– ha escluso che la sopravvenuta condanna definitiva a pena non superiore a sei mesi di
reclusione per il delitto di peculato d’uso possa valere come causa di decadenza dalla carica.
Conseguentemente, per effetto del censurato art. 7 si è escluso che l’indicato tipo di condanna
definitiva – corrispondente a quella irrogata nel caso di specie – possa operare tanto
come causa ostativa alla candidatura quanto come causa di decadenza dalla stessa.
Dopo aver negato il carattere di interpretazione autentica delle norme in argomento –
posto che in esse non è dato rinvenire né riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche,
né la imperativa opzione per una di esse, ma soltanto la volontà (esplicitata in rubrica e nel
testo) di modificare le norme previgenti – la Corte remittente osserva che l’applicabilità
della censurata normativa al caso di specie come ius superveniens deriva dal fatto che essa
incide sul regime dei requisiti legali di mantenimento della carica pubblica elettiva «e quindi
sulla sua idoneità a mutarlo con immediata efficacia tanto in malam quanto, come nella
specie, in bonam partem».
A sostegno di tale argomento, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di legittimità
circa la sopravvenienza di condizioni “disabilitanti” (sentenze irrevocabili di condanna)
all’elezione o nomina alla carica elettiva, secondo cui le nuove disposizioni debbono essere
applicate anche ove le situazioni sanzionate si siano verificate prima della entrata in vigore
della legge sopravvenuta. Il principio formulato in tale giurisprudenza appare al remittente
del tutto condivisibile ove evidenzia la ragionevolezza dell’immediata applicazione della
nuova disciplina, perché riguardante le condizioni di mantenimento della carica: ne consegue
che di detto principio deve farsi applicazione anche in riferimento a norme sopravvenute
che – al pari di quella di cui si tratta – rimuovono un pregresso giudizio di indegnità, confinando
nell’ambito della «irrilevanza giuridica» una condanna penale che, in base alle
norme preesistenti, aveva valore di condizione inabilitante.
Quanto osservato con riguardo alla disciplina introdotta dal decreto-legge vale, secondo
il giudice a quo, anche per il testo risultante dalla legge di conversione, visto che la modifica
che ne risulta all’art. 58, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 267 del 2000 è stata riprodotta,
mentre la soppressione della modifica dell’art. 59, comma 6, dello stesso decreto
legislativo è del tutto indifferente rispetto alla fattispecie sub iudice.
Ciò posto, al giudice remittente sembra che la norma denunciata difetti in modo evidente
del necessario requisito per la sua adozione con decreto-legge – la sussistenza del «caso
straordinario di necessità ed urgenza» – e che il vizio di violazione del disposto dell’art. 77,
secondo comma, Cost., attinente al decreto n. 80 del 2004, «dovrà coinvolgere – come vizio
in procedendo – la stessa legge di conversione che abbia provveduto in difetto del […] requisito
» stesso (secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 29 del 1995).
Come evidenziato in occasione del precedente incidente di costituzionalità, la carenza
del detto requisito risulterebbe, anzitutto, dal fatto che il decreto è stato adottato non per
regolare – con lo strumento imposto dall’approssimarsi delle consultazioni elettorali – la
materia delle condizioni ostative alle candidature, in un’ottica (insindacabile) di adeguamento
delle previsioni normative al mutamento delle condizioni politiche, ma soltanto per
18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
escludere dal novero delle cause ostative di cui all’art. 58, comma 1, lettera a), del D.Lgs.
n. 267 del 2000 l’ipotesi di condanna per peculato d’uso, senza che dal testo del provvedimento
sia desumibile la ragione per la quale l’urgenza del provvedere abbia riguardato solo
la prescelta ipotesi.
Sarebbe, inoltre, indicativo anche il preambolo del decreto, ove si collega esplicitamente
l’adozione delle disposizioni urgenti in materia di enti locali «al fine di assicurarne la funzionalità,
con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione,
alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento
di particolari situazioni di dissesto finanziario», senza dichiarare nulla con riguardo alla
straordinaria necessità ed urgenza di modificare i soli artt. 58, comma 1, lettera b), e 59,
comma 6, nel senso di escludere l’ipotesi di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen. dal
novero dei delitti di per sé ostativi alla candidatura.
Infine, sarebbe altrettanto sintomatico il silenzio del provvedimento con riguardo alla
deroga che l’art. 7 del d.l. in esame ha apportato all’art. 15, comma 2, lettera b), della legge
23 agosto 1988, n. 400, là dove fa divieto al Governo di adottare lo strumento del decretolegge
per provvedere nelle materie indicate nell’art. 72, quarto comma, Cost. (tra le quali è
compresa la materia elettorale e nelle quali la citata norma costituzionale prescrive la riserva
di delibera assembleare). D’altra parte, se il Governo ha, nella specie, ritenuto di far
doveroso omaggio all’obbligo di indicare nel preambolo del decreto le circostanze straordinarie
di necessità ed urgenza che ne giustificavano l’adozione (art. 15, comma 1, cit.), tacendo
poi del tutto sulle circostanze che tale adozione imponevano in una materia nella quale
quella stessa legge fa divieto di adottarlo, sarebbe avvalorato in modo evidente «il dubbio
che dette circostanze non potevano essere portate ad emersione essendo esse del tutto estranee
dall’ambito di legittimo esercizio della potestà normativa del Governo».
Il sommario esame del testo e dei lavori preparatori della legge di conversione renderebbero,
poi, palese la consapevolezza, da parte del Parlamento, dell’originaria assenza del
requisito costituzionale per la decretazione di urgenza, riguardo alla disposizione censurata.
Infatti, in primo luogo, non vi sarebbe alcuna coerenza tra la disciplina definitiva adottata in
merito alle modifiche apportate agli artt. 59, comma 3, 61, 64, 254, 256 del D.Lgs. n. 267
del 2000 e quella di cui si discute. Inoltre, l’inserimento delle ragioni giustificatrici dell’intervento
con l’esplicito riferimento all’ordine e alla sicurezza pubblica attesterebbe non già
la consapevolezza dell’esistenza di gravi e indifferibili ragioni di urgenza, quanto piuttosto
la scelta di sottrarre il provvedimento al divieto di cui agli artt. 15, comma 2, lettera b), della
legge n. 400 del 1988 e 72, quarto comma, Cost. Del resto, nel corso dei lavori preparatori,
in diversi interventi è stata denunciata l’assenza del requisito di cui si tratta, sicché è da
escludere che la legge di conversione abbia sanato il vizio originario, secondo quanto affermato
da questa Corte nella sentenza n. 341 del 2003.
2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità, ovvero
per l’infondatezza della questione.
L’Avvocatura sostiene che la disposizione censurata sarebbe volta a superare alcune
difficoltà interpretative ed applicative relative all’art. 58 del D.Lgs. n. 267 del 2000, derivanti
dalla non perfetta corrispondenza esistente tra le ipotesi delittuose ostative alla candidatura
(art. 58) e quelle ostative alla permanenza in carica presso gli organi degli enti locali
(art. 59). Tale corrispondenza sussisteva, invece, prima della modifica normativa apportata
dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475, all’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, poi trasfuso
negli artt. 58 e 59 del testo unico del 2000. La modifica, pertanto, avrebbe soddisfat-
TEMI ISTITUZIONALI 19
to l’esigenza di allineare la previsione sulla ineleggibilità a quella già stabilita, per l’identica
fattispecie penale del peculato, dalla norma sulla decadenza dalla carica (art. 59 t.u.), la
quale limita la sanzione della decadenza dell’eletto alla sola ipotesi di condanna per il delitto
di peculato proprio, previsto nel primo comma dell’art. 314 cod. pen. Così, anche la causa
di ineleggibilità collegata alla condanna definitiva per il reato di peculato è stata limitata alla
sola ipotesi di peculato proprio, con esclusione, quindi, della condanna per peculato d’uso,
di cui all’art. 314, secondo comma, del codice penale.
Parimenti la seconda modifica – ora soppressa dalla legge di conversione – si era proposta
di eliminare alcune “discrasie” e di rimuovere i dubbi interpretativi suscitati, in materia
di decadenza, dalla constatazione che la norma di cui al primo comma dell’art. 59 del
testo unico non prevede la sospensione dell’amministratore in caso di condanna non definitiva
per uno dei reati previsti dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 58 (quindi anche per il
peculato d’uso, in caso di condanna superiore ai sei mesi di reclusione).
Dopo avere escluso, anche alla stregua della giurisprudenza costituzionale sul punto,
che nel caso di specie possa parlarsi di «evidente mancanza» dei presupposti di cui all’art.
77, secondo comma, Cost., l’Avvocatura afferma che la motivazione che sorregge il decreto-
legge, resa esplicita nella relazione governativa di accompagnamento al disegno di legge
di conversione, rende plausibile (o meglio «non manifestamente implausibile») la valutazione
governativa posta a base del ricorso alla decretazione d’urgenza. Essa si sarebbe resa
necessaria per l’esigenza di approntare un organico intervento normativo volto ad assicurare
le indispensabili condizioni di funzionalità a tutti gli enti locali «attraverso la soluzione
di alcune significative problematiche emerse ad inizio dell’anno 2004, in parte riconducibili
alla ancora non compiuta attuazione della riforma del Titolo V, parte seconda, della
Costituzione». In tale contesto, sebbene la mancata approvazione del bilancio di previsione
costituisse la più evidente manifestazione dei gravi problemi di funzionalità degli enti locali,
nondimeno la decretazione d’urgenza in materia tendeva anche a rendere coerenti le
norme sulle cause ostative all’assunzione delle cariche elettive presso gli enti stessi con
quelle sulla decadenza dalle cariche medesime.
Né in senso contrario depongono le aggiunte apportate in sede di conversione al
comma 1 dell’art. 7 in oggetto. Con esse, infatti, il legislatore ha solo esplicitato le finalità
perseguite dalle disposizioni (escludendone l’attinenza alla materia elettorale e, quindi,
all’ambito di applicabilità dell’art. 15, comma 2, lettera b, della legge n. 400 del 1988) e le
ragioni di necessità e urgenza che ne hanno imposto l’adozione con decreto-legge.
Del resto, gli istituti delle cause ostative alla candidatura e delle cause di decadenza
dalle cariche presso gli enti locali, pur essendo connessi alla materia elettorale, in quanto ad
essa funzionalmente collegati, restano, nei loro contenuti, distinti da tale materia, il cui
oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario.
Dagli stessi estratti dei lavori preparatori citati nell’ordinanza di rimessione emerge
come già nella sede referente sia stato posto l’accento sull’attinenza delle disposizioni
all’ordine e alla sicurezza pubblica e le diverse opinioni manifestate al riguardo dimostrano
solo che la questione ha formato oggetto di ampio dibattito, ma non incidono sulla costituzionalità
della scelta della decretazione d’urgenza, per la cui adozione non occorre un consenso
unanime.
3.- Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite, con diversi atti, alcune delle parti
del giudizio principale, formulando richieste analoghe.
In particolare, alcuni ricorrenti hanno concluso per l’inammissibilità della questione
per irrilevanza o, in subordine, per la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione
20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
TEMI ISTITUZIONALI 21
censurata per violazione degli artt. 77, secondo comma, e 72, quarto comma, della
Costituzione.
L’irrilevanza sarebbe desumibile dalle seguenti considerazioni: a) inapplicabilità della
norma impugnata nella Regione siciliana; b) inqualificabilità della stessa come ius superveniens
applicabile, in quanto tale, nel caso di specie.
Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private aderiscono, nella sostanza,
alla prospettazione della Corte remittente, ponendo l’accento sul fatto che la norma in
contestazione, oltre ad essere palesemente priva dei requisiti di straordinarietà ed urgenza,
incidendo sul diritto di elettorato passivo, è univocamente riconducibile alla materia elettorale,
nella quale è da escludere l’utilizzazione di strumenti normativi diversi dalla legge formale
e, in particolare, il ricorso al decreto-legge (viene richiamata la sentenza di questa
Corte n. 161 del 1995), ai sensi dell’art. 72, quarto comma, della Costituzione.
4.- Alle medesime conclusioni pervengono altri ricorrenti del giudizio principale.
Nel relativo atto di costituzione si pone, in particolare, l’accento, quanto all’inammissibilità
della questione per irrilevanza, sulla contrarietà della tesi della Corte remittente –
favorevole alla applicabilità della disposizione denunciata al caso di specie, quale ius superveniens
– rispetto alla teoria del fatto compiuto, la quale, secondo la costante giurisprudenza
della stessa Corte di cassazione, deve governare la verifica dell’applicabilità ai giudizi in
corso delle sopravvenute modifiche legislative non aventi efficacia retroattiva. Nella specie,
infatti, al momento dell’entrata in vigore del d.l. n. 80 del 2004 la decadenza dalla carica si
era già verificata con il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna avvenuto
nel giugno 2003, sicché la disposizione impugnata non è sicuramente applicabile, non
potendo essa influire su un fatto interamente consumatosi, insieme con i suoi effetti, sotto il
vigore della precedente disciplina.
Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private considerano esaustive le
argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e sottolineano che nella disposizione censurata
si ravvisa una mancanza dei presupposti dell’urgenza di evidenza tale da refluire sulla
intervenuta legge di conversione sotto forma di vizio in procedendo.
5.- Con analoghe motivazioni pervengono alle stesse conclusioni, nei rispettivi atti di
costituzione in giudizio, anche altre parti ricorrenti.
Considerato in diritto
1.- La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale, dell’art. 7, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito,
con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, recante modifiche all’art. 58,
comma 1, lettera b), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), per «evidente carenza del caso straordinario di necessità
ed urgenza».
La disposizione censurata è così formulata: «Al testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per chiarire e definire i
presupposti e le condizioni rilevanti per il mantenimento delle cariche pubbliche ai fini dell’ordine
e della sicurezza pubblica, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 58,
comma 1, lettera b), dopo il numero “314” sono inserite le seguenti parole: “primo comma”».
La questione viene proposta nel corso di un giudizio di impugnazione avverso la sentenza
con la quale la Corte di appello di Messina, pronunciando su ricorsi proposti da alcuni
cittadini, aveva dichiarato decaduto dalla carica il sindaco di quella città dopo che era
divenuta definitiva la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti per il reato previsto
dall’art. 314, secondo comma, del codice penale (peculato d’uso).
In punto di rilevanza, la Corte di cassazione osserva, anzitutto, che il rinvio alla legge
statale operato in materia elettorale dall’art. 36 della legge della Regione siciliana 1° settembre
1993, n. 26 (recte: dall’art. 6 della legge della Regione siciliana 26 agosto 1992, n. 7,
come sostituito dal citato art. 36), ha carattere aperto, rendendo quindi applicabile anche a
elezione avvenuta, nella suddetta Regione, la disposizione del testo unico il quale, comunque,
ha carattere meramente ricognitivo e compilativo. In secondo luogo, la remittente
osserva che il principio dell’immediata applicabilità di una nuova disciplina in materia di
cause di incandidabilità e di incompatibilità, affermato costantemente dalla giurisprudenza
in malam partem, cioè nella ipotesi dell’introduzione di nuove cause determinanti le suindicate
conseguenze, deve essere applicato anche in bonam partem, qualora, come nel caso
in oggetto, venga soppressa una causa di incandidabilità.
Nel merito, la Corte remittente rileva che la disposizione censurata è stata inserita in un
decreto che ha ad oggetto materia diversa e, in particolare, aspetti della disciplina di finanza
locale e che la valutazione sulla necessità e urgenza di provvedere contenuta nel preambolo
del decreto si riferisce a tale disciplina e non anche al comma e all’alinea dell’art. 7
impugnato.
La questione era stata già sollevata con riguardo alla disposizione del decreto prima
della sua conversione, ma questa Corte, essendo intervenuta in pendenza del giudizio di
costituzionalità la legge n. 140 del 2004, con la quale sarebbero state anche esplicitate le
ragioni delle modifiche apportate all’art. 58, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 267 del 2000,
aveva restituito gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della disposizione e quindi
della permanenza degli eventuali profili di illegittimità in precedenza denunciati (ordinanza
n. 2 del 2005).
Secondo la Corte remittente, tali profili sussistono perché né la modifica introdotta in
sede di conversione alla disposizione censurata, né la relazione che accompagna il disegno
di legge di conversione danno adeguato conto della ricorrenza della straordinarietà del caso
di necessità e di urgenza.
2.- La questione è ammissibile, essendo non implausibile la motivazione che sorregge
in punto di rilevanza il giudizio della remittente.
3.- Nel merito, la questione è fondata.
È opinione largamente condivisa che l’assetto delle fonti normative sia uno dei principali
elementi che caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale. Esso è correlato
alla tutela dei valori e diritti fondamentali. Negli Stati che s’ispirano al principio della
separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell’amministrazione alla
legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva
direttamente dal popolo.
A questi principi si conforma la nostra Costituzione laddove stabilisce che «la funzione
legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70).
In determinate situazioni o per particolari materie, attesi i tempi tecnici che il normale
svolgimento della funzione legislativa comporta, o in considerazione della complessità della
disciplina di alcuni settori, l’intervento del legislatore può essere, rispettivamente, posticipato
oppure attuato attraverso l’istituto della delega al Governo, caratterizzata da limiti
oggettivi e temporali e dalla prescrizione di conformità a principi e criteri direttivi indicati
nella legge di delegazione.
22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Lasciando da parte tale ultima ipotesi, che qui non interessa, è significativo che l’art.
77 Cost., al primo comma, stabilisca che «il Governo non può, senza delegazione delle
Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria».
Tenuto conto del tenore dell’art. 70 Cost., la norma suddetta potrebbe apparire superflua
se non le si attribuisse il fine di sottolineare che le disposizioni dei commi successivi –
nel prevedere e regolare l’ipotesi che il Governo, in casi straordinari di necessità e d’urgenza,
sotto la sua responsabilità, adotti provvedimenti provvisori con forza di legge, che perdono
efficacia se non convertiti in legge entro sessanta giorni – hanno carattere derogatorio
rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie
nell’ambito delle competenze dello Stato centrale.
4.- È sulla base di siffatti presupposti che questa Corte, con giurisprudenza costante dal
1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà
del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità.
La Corte tuttavia, nell’affermare l’esistenza del suindicato proprio compito, è stata ed
è consapevole che il suo esercizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del
Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni
politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione
di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela
dei quali detto compito è predisposto.
L’espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è
subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia
i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere
singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare,
dall’altro, però, comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo
margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare
con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni
(eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in
relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi.
Ciò spiega perché questa Corte abbia ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità
della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente e
perchè sia intervenuta positivamente soltanto una volta in presenza dello specifico fenomeno,
divenuto cronico, della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996).
5.- Prima di procedere allo scrutinio in concreto occorre risolvere la questione, logicamente
prioritaria, dell’eventuale efficacia sanante della legge di conversione, dal momento
che, come si è detto, dopo che era stata rimessa a questa Corte la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del d.l. n. 80 del 2004, il medesimo è stato
convertito, con modifiche – non concernenti, però, la disposizione censurata – dalla legge n.
140 del 2004.
Sul punto la Corte ha affermato, nella sentenza n. 29 del 1995, il principio secondo cui
il difetto dei requisiti del «caso straordinario di necessità e d’urgenza», una volta intervenuta
la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge.
Il suddetto principio è stato ribadito con la sentenza n. 341 del 2003, mentre con altre
la Corte ha ritenuto di prescindere da tale questione perché era da escludere l’evidente
carenza dei suindicati presupposti (sentenze n. 196 del 2004 e n. 178 del 2004).
Diverso orientamento è stato invece adottato, senza specifica motivazione sul punto,
con le sentenze n. 330 del 1996, n. 419 del 2000 e n. 29 del 2002 e, sotto un particolare profilo,
con la sentenza n. 360 del 1996.
TEMI ISTITUZIONALI 23
La Corte ritiene di dover ribadire il principio per primo ricordato.
Le ragioni che sorreggono siffatto indirizzo sono molteplici.
Se, anzitutto, nella disciplina costituzionale che regola l’emanazione di norme primarie
(leggi e atti aventi efficacia di legge) viene in primo piano il rapporto tra gli organi – sicché
potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l’avallo del Parlamento con la conversione
del decreto, non restino margini per ulteriori controlli – non si può trascurare di rilevare che
la suddetta disciplina è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione
del sistema costituzionale nel suo complesso. Affermare che la legge di conversione sana
in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario
il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo
quanto alla produzione delle fonti primarie.
Inoltre, se si ha riguardo al fatto che in una Repubblica parlamentare, quale quella italiana,
il Governo deve godere della fiducia delle Camere e si considera che il decreto-legge
comporta una sua particolare assunzione di responsabilità, si deve concludere che le disposizioni
della legge di conversione in quanto tali – nei limiti, cioè, in cui non incidano in
modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto, come nel caso in
esame – non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente
da quelle del decreto stesso. Infatti, l’immediata efficacia di questo, che lo rende
idoneo a produrre modificazioni anche irreversibili sia della realtà materiale, sia dell’ordinamento,
mentre rende evidente la ragione dell’inciso della norma costituzionale che attribuisce
al Governo la responsabilità dell’emanazione del decreto, condiziona nel contempo
l’attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria
attività legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con
riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare
del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge.
Del resto, a conferma di ciò, si può notare che la legge di conversione è caratterizzata
nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione
del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché
sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.), e il suo percorso di formazione ha una disciplina
diversa da quella che regola l’iter dei disegni di legge proposti dal Governo (art. 96-bis del
regolamento della Camera e art. 78, comma 4, di quello del Senato). Il testo di quest’ultimo
è così formulato: « Se l’Assemblea si pronunzia per la non sussistenza dei presupposti
richiesti dall’articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla
legislazione vigente, il disegno di legge di conversione si intende respinto. Qualora tale deliberazione
riguardi parti o singole disposizioni del decreto-legge o del disegno di legge di
conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o disposizioni, che si intendono
soppresse».
6.- Tutto ciò premesso, occorre verificare, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci
alla disposizione impugnata, se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà
del caso di necessità e d’urgenza di provvedere.
Sul punto, è opportuno anzitutto rilevare che la determinazione delle cause di incandidabilità
e di incompatibilità attiene alla materia elettorale e non alla materia della disciplina
degli enti locali (v. sentenze n. 104 del 1973, n. 118 e n. 295 del 1994, n. 161 del 1995, n.
141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002).
Ora, mentre l’epigrafe del decreto reca l’intestazione «Disposizioni urgenti in materia
di enti locali», il preambolo è così testualmente formulato: «Ritenuta la straordinaria necessità
ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di assicurarne la fun-
24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione,
alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento
di particolari situazioni di dissesto finanziario».
E, infatti, gli artt. 1, 4, 5 e 6 attengono ai bilanci e in genere alla finanza comunale, l’art.
2 concerne le conseguenze della mancata redazione degli strumenti urbanistici generali e
l’art. 3 disciplina le modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri comunali e
provinciali. Nulla quindi risulta, né dal preambolo né dal contenuto degli articoli, che abbia
attinenza con i requisiti per concorrere alla carica di sindaco.
La norma censurata si connota, pertanto, per la sua evidente estraneità rispetto alla
materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita.
A sua volta, la relazione al disegno di legge di conversione del decreto n. 80 del 2004,
nella parte relativa all’art. 7, enuncia come ragione della modifica apportata agli artt. 58 e
59 del D.Lgs. n. 267 del 2000 l’eliminazione della discrasia che esisteva tra le cause di
sospensione previste dall’art. 58 e quelle di decadenza dalla carica previste dall’art. 59,
discrasia che, peraltro, si era verificata fin dal 1999.
Questa affermazione giustifica la modifica, ma non rende ragione dell’esistenza della
necessità ed urgenza di intervenire sulla norma.
L’utilizzazione del decreto-legge – e l’assunzione di responsabilità che ne consegue per
il Governo secondo l’art. 77 Cost. – non può essere sostenuta dall’apodittica enunciazione
dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione
della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta.
Oltre alla non riferibilità al contesto normativo dell’eliminazione di una causa di incandidabilità
alla carica di sindaco, non si comprende come la medesima attenga all’ordine pubblico
e alla sicurezza. Non è, quindi, pertinente, al riguardo, il richiamo – fatto
dall’Avvocatura dello Stato con riferimento ai lavori parlamentari – alle sentenze di questa
Corte con le quali si affermava l’inerenza all’ordine pubblico e alla sicurezza di una normativa
prevedente nuove cause di incandidabilità o di incompatibilità nell’ambito della lotta
alla criminalità organizzata (sentenze n. 118 e n. 295 del 1994, n. 141 del 1996, n. 132 del
2001 e n. 25 del 2002, già citate).
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del
decreto-legge n. 80 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 140 del 2004.
Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia
di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9
maggio 2007».
TEMI ISTITUZIONALI 25
26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La Stazione unica appaltante provinciale
(S.U.A.P.) di Crotone:
genesi e prospettive evolutive
di Vincenzo Cardellicchio(*) e Fabrizio Gallo (**)
SOMMARIO:1.- Premessa. 2.- Esperienze pregresse. 3.- Programma Calabria e percorsi
attuativi in provincia di Crotone. 4.- Le basi normative. 5.- Gli obiettivi. 6.- La struttura
organizzativa. 7.- I risultati del primo semestre di attività. 8.- Prospettive evolutive.
1. Premessa
Il 16 luglio scorso, il Presidente dell’Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici ha presentato al Senato della Repubblica la relazione annuale 2006
sull’attività dell’Istituzione (1).
Nell’analizzare l’andamento della domanda e dell’offerta nel mercato
dei lavori pubblici, in quella sede, è stata rilevata la tendenza delle
Amministrazioni a bandire gare di piccoli importi e quella delle imprese a
richiedere, per l’esecuzione dei lavori, classifiche di iscrizione basse. In
generale ne emerge un mercato molto frammentato sia sul versante dell’offerta
sia su quello della domanda, tale da indurre a considerare che il settore
dei lavori pubblici non sia stato sfiorato da quella tendenza all’“aggregazione”
che invece ha investito altri importanti settori dell’economia nazionale.
A commento dell’analisi effettuata, è stato sottolineato che, se tutte le
Amministrazioni pagassero lo stesso prezzo, sarebbe possibile ottenere
risparmi nella spesa pubblica per 20 miliardi di euro (2).
Proprio partendo dall’esigenza di aggregazione, è stato dato avvio, a
gennaio 2007, alla Stazione unica appaltante provinciale di Crotone, al termine
di un complesso iter istruttorio.
A distanza di sei mesi dall’attivazione, l’esperienza in questione, pur se
costantemente monitorata con la diretta vigilanza del Prefetto, ha meritato
una doverosa verifica di progetto, per comprenderne pienamente i risultati,
le modalità operative e le prospettive evolutive e, soprattutto, ha necessitato
(*)Già Prefetto di Crotone, attualmente Direttore centrale delle Risorse Umane del
Dipartimento della Pubblica Sicurezza.
(**)Vice Prefetto Aggiunto – Dirigente del Progetto .
(1) V. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture,
Relazione annuale 2006, in www.autoritalavoripubblici.it
(2) V. Lavori pubblici: con gare corrette 20 miliardi di risparmio, in Guida agli enti
locali, p. 9, 28 luglio 2007.
TEMI ISTITUZIONALI 27
di una riflessione di carattere giuridico – amministrativo per acquisire piena
consapevolezza della collocazione dell’istituto nel complesso panorama
sulla razionalizzazione delle stazioni appaltanti.
L’Ufficio della Stazione Unica, ideato dalla Prefettura di Crotone nell’ambito
del “Programma – Calabria”, ha, fin dalla sua costituzione, attirato
l’attenzione dell’opinione pubblica, rinfocolando un costruttivo dibattito sulle
forme organizzative più appropriate per la gestione degli appalti pubblici, più
efficiente, sotto il profilo della funzionalità dell’azione amministrativa e più
efficace, sotto l’aspetto della prevenzione delle infiltrazioni criminali.
L’aperto confronto sull’argomento, nell’ambito del quale sono intervenuti
autorevolmente rappresentanti di enti pubblici (3) e di organizzazioni
sindacali datoriali e dei lavoratori, ha stimolato l’attivazione di esperienze
similari nelle altre province calabresi e la stessa Regione Calabria, con la
L.R. n. 9/2007, all’art. 2, ha previsto la realizzazione di una Stazione unica
appaltante per i contratti pubblici di competenza di quell’Ente (4).
L’esperienza crotonese, come tutte le sperimentazioni, avrebbe potuto
correre il rischio di non riuscire ad ottenere i risultati sperati.
Nel caso di attività innovative, infatti, che tendono a creare nuovi metodi
lavorativi, per ciò stesso più impegnativi, anche temporanee cadute di tensione
possono dare spazio al manifestarsi di vischiosità che, per moto inerziale,
tenderebbero a ricondurre allo status quo ante.
L’analisi dei dati fin qui registrati, dettagliatamente di seguito illustrati,
consente di esprimere un giudizio positivo sui risultati.
Ma vi è di più, la stagione innovativa della Stazione unica appaltante sta
generando ulteriori segnali di accelerazione nella direzione della semplificazione,
dell’efficienza e della trasparenza.
Nella disamina che segue, si partirà dall’analisi delle esperienze pregresse
con i relativi approfondimenti de iure condendo in sede di Commissione
parlamentare sul fenomeno della mafia, si darà conto del quadro storico –
amministrativo in cui l’iniziativa è sorta, si procederà ad un esame delle basi
normative per poi giungere all’individuazione degli obiettivi e della struttura
organizzativa costituita.
Da ultimo, si analizzeranno i risultati del primo semestre di attività e le
prospettive evolutive.
(3) V. Appalti: direttiva Ministro dell’Interno contro infiltrazioni, in www.anci.it. Il
Presidente dell’ANCI, in una nota indirizzata ai sindaci dei Comuni capoluogo del Centro
sud ed ai presidenti delle ANCI regionali ha preannunziato la predisposizione di un modello
di deliberazione consiliare di approvazione di una convenzione per aderire alla Stazione
unica appaltante che i comuni potranno utilizzare qualora ritengano di usufruire dell’iniziativa
prospettata dal Ministero dell’Interno.
(4) V. VINCENZO FOTI, Appalti: stazione unica anche in Calabria, in Edilizia e territorio,
p. 13, 23 giugno 2007.
28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
2. Esperienze pregresse
Il dibattito attorno all’opportunità di riorganizzare la struttura delle stazioni
appaltanti trae origine, alla metà degli anni ’90, da esperienze legislative
della Regione siciliana e trova il suo ambito di maggiore approfondimento
nei lavori e nelle relazioni conclusive delle commissioni parlamentari
d’inchiesta sul fenomeno della mafia.
La previsione di una stazione unica appaltante appare, per la prima volta,
nella legge regionale siciliana n. 10 del 12 gennaio 1993 nella quale si palesava
un sistema organizzativo imperniato su strutture decentrate con un organismo
di raccordo centrale (5).
La normativa in questione, la cui portata, in quegli anni, appariva notevolmente
innovativa, non ebbe nessun riscontro attuativo.
Fu necessario arrivare ad una nuova legge regionale, la n. 7 del 20 agosto
2002, di recepimento della Legge 109/94 (c.d. Legge Merloni) per giungere
ad un’effettiva costituzione del nuovo organismo (6).
In quella Legge, si prevede l’istituzione di un Ufficio regionale per l’espletamento
di gare per l’appalto dei lavori pubblici (UREGA), che si articola
in una sezione centrale e nove sezioni provinciali.
La sezione centrale, composta dai presidenti delle sezioni provinciali,
svolge l’attività di espletamento delle gare di appalto per le opere di interesse
intraprovinciale.
Le sezioni provinciali svolgono l’attività per le gare di interesse provinciale.
La normativa di attuazione è recata dal Decreto del Presidente della
Regione n. 1 del 14 gennaio 2005.
Il valore a base d’asta, a partire dal quale si attiva il sistema accentrato,
è di € 1.250.000,00; l’Amministrazione appaltante può, comunque, richiedere
l’attivazione dell’UREGA anche per importi inferiori alla quota limite.
Con legge 29 novembre 2005 n. 16, le competenze dell’Ufficio regionale
sono state ampliate con l’affidamento delle procedure in materia di finanza
di progetto.
Nel complesso normativo regionale, l’Ufficio unico attiva la propria
competenza a partire dalla ricezione del bando di gara che, dunque, è interamente
predisposto dall’amministrazione appaltante.
L’Ufficio, nel caso di riscontrate irregolarità o illegittimità, può rimandare
il bando all’amministrazione proponente la quale, può però confermare
l’atto impugnato, imponendo all’UREGA di proseguire nelle sue attività.
L’UREGA termina la propria azione con la proposta di aggiudicazione
che deve essere approvata dall’Amministrazione appaltante.
(5) V. Intervista con Giancarlo Ingrao, Presidente UREGA Sezione Messina, in
www.ads.it).
(6) La Legge regionale in questione fu segnalata quale conseguimento di uno dei principali
obiettivi della Giunta regionale pro-tempore (v. comunicato stampa, l’ARS approva il
testo della nuova disciplina sui lavori pubblici, del 19 luglio 2002, in www.diritto.it).
TEMI ISTITUZIONALI 29
I principi ispiratori dell’istituto si rinvengono nell’esigenza di adottare
procedure uniformi e di consentire più efficaci controlli di legalità ma anche
di consentire un’accelerazione della spesa (7).
Le prime considerazioni sull’esperienza della stazione unica appaltante
siciliana, non sembrano, tuttavia favorevoli (8).
Dai dati del settembre 2006, risultavano espletate nei primi otto mesi
dell’anno, solo 37 gare, a fronte di un numero complessivo di 213 nel 2005.
Si è rinvenuta la causa di ciò nella diffidenza degli enti locali verso il
nuovo meccanismo (9).
Le amministrazioni locali, infatti, cercherebbero di sottrarsi alla gestione
regionale riducendo l’importo dei lavori sotto la soglia di € 1.250.000,00,
oppure continuando ad appaltare progetti validati prima dell’entrata in vigore
delle nuove norme legislative (10).
Malgrado ciò, l’esperimento della stazione unica appaltante ha ricevuto
l’attenzione teorica costante soprattutto negli ambienti in cui si ragionava dei
meccanismi diretti a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata
nel settore degli appalti pubblici.
Tutte le commissioni parlamentari d’inchiesta succedutesi tra la fine del
secolo scorso e gli anni recenti si sono occupate della stazione unica appaltante,
rilevandone il carattere di efficace strumento di prevenzione.
Già nel 1999 (11), in quella sede si sottolineava che l’eliminazione di
una miriade di stazioni appaltanti significherebbe cancellare migliaia di contatti
che la mafia può detenere.
Nel 2000 (12), nel valutare l’impatto della Legge della Regione siciliana
n. 10/1993, se ne sottolineava il carattere dirompente che aveva suscitato
meccanismi di rigetto.
Si rimarcava, in quel contesto, il carattere tecnicamente strategico dell’uso
di una sola stazione appaltante per promuovere un’efficace strategia di
prevenzione rispetto ai tentativi di infiltrazione mafiosa.
Il ragionamento sul tema trovò una sua adeguata sistemazione nella relazione
conclusiva della Commissione parlamentare più volte menzionata,
presieduta dall’On. Lumia (13), presentata alle Camere il 7 marzo 2000.
(7) Ibidem.
(8) V. In Sicilia il flop della stazione unica, www.Edilio.it .
(9) Ibidem.
(10) Una forma diffusa di esperimenti di realizzazione di stazioni appaltanti accentrate
di lavori si è realizzata nell’ambito dei progetti integrati territoriali (P.I.T.), finanziati con
i Fondi Strutturali Europei. In quei contesti, attraverso lo strumento convenzionale, sono
stati costituiti uffici unici di gestione dei progetti cui è stata spesso demandata la funzione
di stazione appaltante.
(11) Cfr. Resoconto stenografico della 52^ seduta della Commissione parlamentare sul
fenomeno della mafia, martedì 6 luglio 1999, p. 35, in www.parlamento.it .
(12) Cfr. Resoconto stenografico della seduta della Commissione parlamentare sul
fenomeno della mafia del 29 novembre 2000, p. 6 in www.camera.it.
30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nel documento, si richiamava la necessità che nei territori a rischio si
sviluppasse una sistematica azione di monitoraggio sugli appalti che, in quel
momento, appariva carente.
Si delineò, pertanto, l’esigenza, di razionalizzare il sistema delle stazioni
appaltanti evitandone la frammentazione e si riteneva che, in questo
modo, in primo luogo, si sarebbe potuto eliminare l’inconveniente di affidare
un gravoso incombente di carattere amministrativo ad enti locali spesso
privi di reali ed efficaci strutture tecniche e burocratiche.
Per altro verso, si rimarcava la possibilità di generare opportune sinergie
tra tecnici ed investigatori per rafforzare l’azione di prevenzione contro i
pericoli di infiltrazioni mafiose.
Conclusivamente, si palesava l’esigenza di realizzare, quanto meno a
livello provinciale, una stazione unica appaltante articolata in struttura
amministrativa ed investigativa.
Ancora nel 2002 (14), il Procuratore Distrettuale Antimafia di Palermo
illustrava alcuni meccanismi elusivi messi in atto in Sicilia per fruire di procedure
di gara con criteri di aggiudicazione diversi dal massimo ribasso ed
evidenziava la positività di un’eventuale concentrazione delle procedure di
aggiudicazione in un unico centro di appalto.
L’argomento è quindi giunto anche all’attenzione delle aule parlamentari
(15) attraverso un complesso atto di mozione nel quale si sottolineava la
pericolosità della criminalità mafiosa e, nell’indicare un articolato insieme di
misure atte a perseguire un quadro di maggiore sicurezza, si chiedeva di promuovere
una rivisitazione del sistema degli appalti presenti sul territorio per
arrivare alla drastica diminuzione del numero delle stazioni appaltanti fino
ad arrivare ad un’unica stazione appaltante per ogni provincia.
3. Programma Calabria e percorsi attuativi in provincia di Crotone
La stazione unica appaltante provinciale di Crotone è sorta nell’ambito
delle azioni attuative del Programma Calabria.
Nell’autunno del 2005, dopo l’omicidio del Vice Presidente del
Consiglio regionale della Calabria, On. Fortugno, il Ministro dell’Interno
promosse un’ampia ricognizione della situazione della sicurezza pubblica
nella regione affidandola all’allora Vice Capo della Polizia e Direttore Centrale
della Polizia criminale, Prefetto De Sena.
Tale lavoro ha consentito di compiere un’approfondita analisi sullo stato
della minaccia criminale e di mettere a punto un complesso piano di inter-
(13) V. Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta del fenomeno
della mafia, in www.libreriaeditriceurso.com/relazioneantimafia.html.
(14) Cfr. Resoconto stenografico della 16^ seduta della Commissione Parlamentare sul
fenomeno della mafia del 14 maggio 2002, p. 16 e 17, in www.parlamento.it.
(15) V. Mozione n. 000074 presentata dall’On. Lucidi ed altri, in www.legislazione.
camera.it.
TEMI ISTITUZIONALI 31
venti per potenziare il sistema di sicurezza in Calabria, denominato
“Programma Calabria”.
L’attuazione del “Programma” è stata successivamente affidata alla stesso
Prefetto De Sena, nominato Prefetto di Reggio Calabria e delegato al
coordinamento della Conferenza regionale delle Autorità provinciali di
Pubblica Sicurezza della Regione Calabria.
Il piano attuativo si articola secondo tre linee direttrici.
La prima consiste in una serie di misure urgenti per rafforzare il controllo
del territorio, mediante l’impiego dei reparti prevenzione crimine della
Polizia di Stato e dei reparti operativi dell’Arma dei Carabinieri ed attraverso
la ridefinizione della presenza di alcuni presidi di polizia sul territorio.
Inoltre, le Prefetture hanno accentuato il loro impegno su due temi cruciali:
il monitoraggio e il controllo delle grandi opere pubbliche ed il contrasto
alle estorsioni e alle intimidazioni specialmente nei confronti dei pubblici
amministratori e degli imprenditori.
La seconda linea direttrice del piano è incentrata sulle attività info-investigative,
affidate in buona misura anche a strutture interforze. Proprio grazie
all’alto grado di collaborazione tra le Forze dell’ordine, e tra queste e i servizi
di sicurezza, sono stati colti risultati importanti con la conclusione di numerose
operazioni di polizia giudiziaria contro diversi sodalizi della regione.
Il terzo ambito riguarda interventi a più lungo termine, basati sul coinvolgimento
delle istituzioni locali nei Progetti Integrati Territoriali, ai quali
sono destinate risorse finanziarie aggiuntive.
In sintesi, le tre linee di azione del piano convergono verso un solo obiettivo
di fondo: l’affrancamento delle comunità locali e dei singoli cittadini
dalla pressione criminale, attraverso la sottolineatura della continuità dell’azione
tesa a rendere efficiente e trasparente il sistema pubblico, in modo da
assicurare la “prossimità istituzionale” in un contesto sociale caratterizzato
da inerzie e deficienze burocratiche.
Nell’ambito del “Programma Calabria”, in provincia di Crotone sono
stati definiti dei percorsi attuativi, nati dall’intenzione di combinare le linee
guida fondamentali del “Programma Calabria” con le esigenze del territorio.
Secondo tale intento, i percorsi attuativi ipotizzati muovevano dalla considerazione,
centrale nell’impianto del “Programma”, che l’attività di contrasto
alla criminalità dovesse consistere non solo nella repressione ma anche
in uno sforzo per adeguare l’efficienza della Pubblica Amministrazione alle
esigenze di una realtà complessa.
In questa direzione, è stata progettata l’attivazione di tre nuclei operativi
in tre settori ritenuti cruciali, i contratti pubblici, l’ambiente e la fruizione
di finanziamenti europei, nazionali e regionali.
Agli organismi in questione è attribuita la funzione comune di sostenere,
sotto il profilo informativo e documentale, gli enti locali della provincia,
in particolare quelli di dimensioni più ridotte.
Fra i compiti più rilevanti attribuiti al nucleo operativo in materia di contratti
pubblici vi era la costituzione di una stazione d’appalto unica.
32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
4. Le basi normative
La Stazione Unica Appaltante Provinciale di Crotone è stata costituita
attraverso la stipula di una convenzione, definita ai sensi dell’art. 30 del
D.L.vo 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), tra l’Amministrazione provinciale,
tutti i Comuni della provincia, le due Comunità Montane nonché da
ulteriori enti strumentali e da società pubbliche.
Le basi normative per la realizzazione della struttura sono state rinvenute
anzitutto nell’art. 19 della Legge 109/1994 (legge quadro su lavori pubblici),
oggi trasfuso nell’art. 33 del D.Lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici),
ai sensi del quale le amministrazioni aggiudicatici, sulla base di apposito disciplinare,
possono affidare le funzioni di stazione appaltante ai Servizi integrati
infrastrutture e trasporti (16) ed alle Amministrazioni provinciali.
Prima dell’entrata in vigore della c.d. Legge Merloni, nel nostro ordinamento
era prevista la forma della concessione di committenza attraverso la
quale il concessionario assumeva tutti gli obblighi e le funzioni dell’Amministrazione,
dalla progettazione all’effettuazione delle espropriazioni fino
all’espletamento della gara, fruendo di un compenso pari ad una percentuale
sull’importo dei lavori (17).
La norma della Legge 109/1994 ha successivamente eliminato, per
incompatibilità, l’istituto della concessione di committenza prevedendo una
limitata possibilità di affidamento delle funzioni di stazione appaltante ai due
soli soggetti pubblici prima indicati (18).
Più in generale, in materia di acquisizione di forniture e servizi, il sistema
delineato dalle leggi finanziarie degli ultimi anni ha prefigurato la costituzione
di aggregazioni di enti allo scopo di uniformare e rendere più celeri
gli appalti e, da ultimo, il menzionato art. 33 del D.Lgs. 163/2006 ha tipizzato
al riguardo, la figura della centrale di committenza.
Tale ulteriore istituto è di provenienza schiettamente comunitaria e deriva
dall’esperienza compiuta da numerosi paesi europei negli anni novanta,
relativa alla creazione di strutture centralizzate volte ad ottimizzare la spesa
pubblica in un contesto diffuso di difficoltà di finanza pubblica (19).
All’esito di un’ampia indagine su tali esperienze nazionali, il concetto di
centrale di committenza ha quindi assunto dignità nel diritto europeo con la
direttiva 18/2004/CE del 30 aprile 2004.
(16) Oggi provveditorati interregionali alle opere pubbliche.
(17) V. DANIELA PETTINATO, Affidamento alle centrali di committenza: appalto o concessione?
in www.filodiretto.com.
(18) Ibidem.
(19) V. ENRICO DI IENNO, La “Centrale di Committenza” nella Direttiva Europea
2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio: L’esperienza italiana della CONSIP,
in www.ieopa.it : si evidenzia l’esempio similare della centrale di committenza danese (SKI)
ma soprattutto l’organizzazione degli acquisti francese (UGAP) che opera fin dal 1968 nel
settore di forniture e servizi e l’OGC, struttura inglese attiva nella razionalizzazione delle
attività di procurement pubblico.
TEMI ISTITUZIONALI 33
I connotati normativi della centrale, ai sensi della direttiva in questione,
escludevano qualsiasi possibilità di ingerenza privatistica, qualificando l’istituzione,
invece, come amministrazione aggiudicataria.
Secondo la raffigurazione normativa, la centrale di committenza può
direttamente acquistare forniture e servizi per amministrazioni aggiudicatici
oppure aggiudicare appalti pubblici di lavori, forniture o servizi destinati ad
amministrazioni aggiudicatarie.
Le ragioni di fondo poste a base della previsione normativa attengono
alla razionalizzazione ed al contenimento della spesa, derivanti dalla possibilità
di maggiormente coordinare e controllare le dinamiche d’acquisto.
Proprio le ragioni sopramenzionate, unitamente a quelle già illustrate
nella disamina del dibattito istruttorio in seno alla Commissione parlamentare
antimafia, hanno dato luogo all’esperienza, per alcuni versi pionieristica,
della Stazione unica appaltante provinciale di Crotone.
5. Gli obiettivi
La stazione unica appaltante provinciale è stata promossa, come detto,
dalla Prefettura di Crotone, nell’ambito delle linee guida per il miglioramento
dell’azione della Pubblica Amministrazione e nasce dalla volontà consensuale
degli enti aderenti, non forzati da alcuna norma coattiva.
Essa si prefigge due obiettivi principali:
1. la spersonalizzazione dell’attività amministrativa nel settore degli
appalti pubblici, in modo da fornire un valido strumento di tutela agli Enti
locali contro pressioni e condizionamenti e da ottimizzare, per tale via, l’attività
di prevenzione e contrasto di infiltrazioni criminose;
2. il sostegno amministrativo ai piccoli comuni ed all’intero sistema
delle autonomie locali, attraverso una strutturata azione di partenariato istituzionale,
secondo il principio costituzionale di leale collaborazione.
Il perseguimento effettivo dell’obiettivo ha richiesto il compimento di
quattro azioni:
I – la verifica normativa degli strumenti adottati;
II – la semplificazione;
III – l’allineamento delle procedure;
IV – l’ottimizzazione delle risorse.
In fase di prima applicazione, dal 10 gennaio al 31 dicembre 2007,
l’Ufficio tratta appalti di lavori con importo a base d’asta superiore ad €
100.00,00.
La S.U.A.P. si fonda sul principio dell’autofinanziamento ed infatti le
risorse umane sono messe a disposizione dalla Provincia e dal Comune capoluogo,
mentre gli enti associati contribuiscono attraverso una percentuale
dell’importo del quadro economico dei lavori affidati.
Lo strumento convenzionale mira al massimo coinvolgimento possibile
di enti pubblici di diversa natura e, a tale fine, è ammessa l’adesione successiva
alla sottoscrizione dell’atto.
34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
6. La struttura organizzativa (20)
Il Nucleo operativo per gli appalti, già istituito presso la Prefettura e
composto da un dirigente prefettizio, dal Capo Dipartimento Lavori Pubblici
della Provincia di Crotone, dal dirigente del Settore Lavori Pubblici del
Comune di Crotone e da un funzionario del Provveditorato alle OO.PP,
espleta funzioni di raccordo ed effettua un monitoraggio sistematico sui procedimenti
del S.U.A.P., fondato su elaborazioni informatiche dei dati e teso
ad individuare le prospettive dinamiche della struttura.
Alle riunioni, in relazione agli argomenti trattati, partecipa l’ANCE, allo
scopo di consentire un proficuo confronto tra Amministrazioni aggiudicatrici
e settore delle imprese interessate.
La Stazione unica appaltante provinciale è collocata nell’ambito della
Direzione Generale della Provincia ed è diretta dal Capo Dipartimento
Lavori Pubblici.
L’organigramma è composto da sette unità, di cui quattro provenienti
dalla Provincia e tre dal Comune di Crotone, con competenze prevalenti di
carattere giuridico-amministrativo specialistico.
Con un protocollo d’intesa stipulato tra Prefettura e Provincia, il 15
marzo 2007, è stato inoltre, perfezionato il quadro pattizio di operatività
della Stazione Unica Appaltante, anche sotto il profilo della vigilanza.
A seguito della conclusione dell’intesa, il Dirigente della S.U.A.P. trasmette
alla Prefettura regolarmente, sia su supporto cartaceo sia in formato
digitale, un’agile e completa sintesi delle attività effettuate, sempre aggiornata.
Il Gruppo interforze per il monitoraggio delle Grandi Opere, istituito
presso la Prefettura, è destinatario ultimo della trasmissione dei dati in questione
che vengono analizzati per eventuali richieste ulteriori di documentazione
e di chiarimenti che vengono forniti, anche verbalmente, dal Dirigente
della S.U.A.P. in audizione presso il menzionato Gruppo.
7. I risultati del primo semestre di attività
La Stazione unica appaltante ha ricevuto richieste di attivazione fin dalla
sua costituzione.
Il 23 gennaio i procedimenti avviati erano quattro, divenuti, via via, nove
il 13 febbraio, ventidue il 26 febbraio, trentanove il 27 aprile, per arrivare a
cinquantaquattro il 6 giugno scorso.
All’ultima rilevazione, gli enti richiedenti erano tredici.
(20) La Stazione Unica Appaltante è un modello organizzativo di gestione della contrattualistica
della pubblica Amministrazione e non incide sui profili sostanziali di disciplina
(cfr. ALESSANDRO TOMASETTI, Accordo quadro e centrale di committenza, in www.lerivisteipertestuali.
it ).
TEMI ISTITUZIONALI 35
L’importo complessivo dei progetti posti a base di gara è passato da €
1.135.828,24 del 23 gennaio, ad € 2.254.280,60 del 13 febbraio, per giungere
alla somma di € 22.690.979,90 all’ultima rilevazione.
Fig. 1
Fig. 2
36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Un dato utile per verificare la reattività dell’Ufficio alla mole delle attivazioni,
appare, inoltre, quello concernente la comparazione tra le gare in
trattazione ed i bandi pubblicati.
Alla rilevazione del 23 gennaio scorso, a fronte di quattro gare in trattazione,
non era stato pubblicato alcun bando.
Il 13 febbraio, invece, su nove richieste di attivazione, si era provveduto
alla pubblicazione di un bando, con una percentuale di reattività pari
all’11%.
Tale indice si è incrementato, con il susseguirsi delle rilevazioni, fino ad
arrivare ad una percentuale del 68,5%, registrata il 6 giugno scorso.
Altrettanto significativa è, infine, la comparazione tra gare in trattazione
e gare aggiudicate che consente di rilevare la conclusione di 26 esperimenti
di gara, con una percentuale pari al 48% dei procedimenti attivati.
Gli obiettivi prefissati con la progettazione e costituzione della Stazione
unica appaltante, si possono dire, al momento, conseguiti (21).
Fig. 3
(21) V. Stazione unica appaltante modello per il Paese, in www.strill.it.
A seguito della riunione di verifica tenutasi il 18 luglio 2007, il Prefetto De Sena ha
evidenziato la validità della realizzazione grazie alla quale è stato messo in moto il meccanismo
della “democrazia partecipata”.
TEMI ISTITUZIONALI 37
Il totale, continuo, ricorso al nuovo Ufficio ha davvero allontanato il luogo
di svolgimento delle gare dai soggetti che deliberano la realizzazione dell’opera.
Gli analisti del settore, incaricati di vigilarne l’andamento ai fini preventivi,
hanno a disposizione un quadro chiaro, completo e, soprattutto, esaustivo
e semplice dei procedimenti di gara per lavori pubblici in provincia.
Inoltre, i piccoli comuni avvertono il sollievo derivante dalla circostanza
di non doversi più occupare degli aspetti tecnico-giuridici ed organizzativi
delle gare affidati, peraltro, ad un gruppo di persone dedicate solo a tale
attività e che possono aggiornarsi costantemente.
Gli effetti positivi dell’attività della S.U.A.P. sono tuttavia, ulteriori e, in
qualche caso, imprevisti.
Il timore, espresso da alcuni enti, in fase di negoziazione per la stipula
della convenzione, che i tempi dei procedimenti potessero dilatarsi a causa
della notevole mole di lavoro, non solo non si è avverato ma addirittura si
assiste ad una contrazione temporale, evidenziata dai dati rilevati e percepita
dagli stessi rappresentanti dei Comuni.
L’intero procedimento, dalla progettazione, alla determinazione di indizione
di gara, fino all’aggiudicazione definitiva, va incontro ad un naturale
allineamento, che comporta la diffusione delle buone prassi presso tutti gli
enti aderenti.
Si è pervenuti, inoltre, alla realizzazione di un solo schema tipo di bando
di gara, in relazione al tipo di procedura prescelto, in luogo dei trenta, o più,
in vigore antecedentemente.
Fig. 4
38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
8. Prospettive evolutive
Nel percorso originario del progetto di costituzione della Stazione unica
appaltante era prevista la graduale attivazione delle competenze anche a forniture
e servizi.
Nel primo anno di attività, la S.U.A.P. si occupa, secondo le previsioni
della convenzione istitutiva, di lavori di importo superiore ad € 100.000,00
e tuttavia, già nei primi mesi di operatività, vi sono stati casi di richieste, soddisfatte,
di attivazione per lavori di importo inferiore ed anche per bandi per
servizi e forniture.
La piena, completa ed obbligatoria azione nel campo di servizi e forniture
sarà però implementata a partire dal 1° gennaio 2008, a seguito della stipula
di una nuova convenzione, in cui tali previsioni sono incluse.
Il testo innovativo della convenzione prevede, in primo luogo, l’implementazione
dell’attività della S.U.A.P. a forniture e servizi di importo pari o
superiore a € 100.000,00.
Si tratta di una previsione cautelativa, improntata ad un principio prudenziale,
che fissa una soglia di una certa rilevanza economica, tale da rendere
più agevole il primo impatto delle nuove tipologie di gare da gestire.
Si prevede, poi, l’estensione dei compiti della Stazione Unica Appaltante
anche dal punto di vista qualitativo.
All’art. 3, 1° comma, lett. d) della nuova convenzione, si individua,
quale ulteriore funzione dell’Ufficio unico, quella del monitoraggio dell’esecuzione
del contratto, con particolare riferimento a casi di dilazione e ritardo,
alla richiesta di varianti in corso d’opera, alla formulazione di riserve
nonché ad altre circostanze che possano essere indizi di anomalie.
In effetti, la funzione primaria, riconnessa alla competenza della
Stazione unica appaltante è quella della gestione delle procedure di gara,
dalla predisposizione del bando al completamento della documentazione per
l’aggiudicazione definitiva.
Gli approfondimenti condotti con il Gruppo interforze per il monitoraggio
delle Grandi Opere ha peraltro indotto a ritenere necessario un collettore
di informazioni anche nella fase esecutiva.
Tale funzione, può essere naturalmente disimpegnata proprio dalla
Stazione unica appaltante, divenuta ormai familiare punto di riferimento per
i responsabili unici del procedimento di tutti gli Enti associati.
8.1. Protocollo d’intesa per l’istituzione di un centro elaborazione bandi per
l’aggiudicazione dei servizi di progettazione
Tra le tematiche di cui la Stazione unica appaltante sarà chiamata ad
occuparsi nel nuovo regime, trova un posto di assoluto rilievo la questione
dell’aggiudicazione dei servizi di progettazione.
È ben noto, infatti, che spesso uno dei punti critici nodali in ordine all’efficacia
degli interventi di realizzazione di opere è proprio costituito da una
non adeguata progettazione, dovuta ad incongrua selezione che può anche
nascondere intenti non del tutto trasparenti.
TEMI ISTITUZIONALI 39
La centralizzazione dell’attività di scelta nella Stazione unica appaltante
dovrebbe, per ciò solo, ingenerare positivi riflessi sulla gestione.
Ma a tale atteso risultato, concorrerà fortemente uno strumento d’intesa,
che è stato stipulato tra la Provincia di Crotone e gli ordini professionali di
Architetti, Geometri ed Ingegneri il 18 luglio scorso, nel quale si prevede la
costituzione di un Centro di elaborazione bandi per i servizi di progettazione,
con l’intento espresso di unificare i relativi atti di gara, espungendo da essi ogni
clausola che possa ingenerare discriminazione o sospetti di scarsa trasparenza.
Il protocollo d’intesa, opportunamente condiviso con gli enti associati
alla S.U.A.P., costituirà ulteriore, rilevante, strumento di semplificazione del
sistema, potenziandone la trasparenza.
8.2 Misure di prevenzione delle infiltrazioni criminose
Nell’ambito del Nucleo operativo appalti è stata definita una serie di
clausole di prevenzione di infiltrazioni criminali che, già dal corrente secondo
semestre dell’anno, saranno inserite in tutti i bandi di gara gestiti dalla
Stazione Unica Appaltante.
Le clausole in questione riportano il contenuto di linee guida recentemente
diramate in materia dal Ministro dell’Interno, opportunamente adeguate
alla realtà territoriale, attraverso il qualificato apporto del Gruppo
interforze di monitoraggio delle Grandi Opere.
Si è previsto di applicare il meccanismo di estensione delle informazioni
antimafia ex art. 10, d.P.R. 252/1998, agli appalti di importo superiore ad
€ 250.0000,00, individuando un settore di opere pubbliche, da modificare
periodicamente, in relazione alle indicazioni pervenute dagli approfondimenti
del più volte menzionato Gruppo interforze.
Il Gruppo di monitoraggio sulle Grandi opere ha anche approntato, sulla
base delle prime analisi sui dati forniti dalla Stazione unica appaltante, una
serie di indicatori di anomalie delle procedure di gara.
Gli indicatori in questione sono:
– ribassi eccessivi;
– ribassi con minima dispersione rispetto alla media dei ribassi;
– provenienza delle imprese partecipanti agli esperimenti di gara;
– ricorrenza ipotesi di anomalia ex art. 38, D. Lgs. 163/2006;
– numero partecipanti;
– richieste di avvalimento.
Il meccanismo operativo così strutturato sarà implementato organicamente
nelle funzionalità della Stazione unica appaltante attraverso un’apposita
pattuizione nella nuova convenzione ove si prevede, altresì, che gli enti
associati applicheranno le regole in questione anche agli appalti residuali
direttamente gestiti.
8.3. Innovazioni tecnologiche
L’esperienza della Stazione unica appaltante, si è avviata con una forte
propensione all’utilizzo delle tecnologie telematiche ed informatiche.
40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In atto, è in fase di sperimentazione un sistema di compilazione dei bandi
on-line, messo a disposizione e continuamente aggiornato dalla Stazione
unica appaltante.
Lo strumento, che presenta un’interfaccia utilizzabile contemporaneamente
dalle amministrazioni munite di credenziali, consente al responsabile
unico del procedimento di definire il proprio bando, sulla base degli schemi
elaborati dalla Stazione unica, di approvarlo e di inviarlo all’Ufficio unico
per i conseguenti passaggi.
L’ampliamento dell’oggetto della convenzione a forniture e servizi ha
avviato, inoltre, un’approfondita disamina della questione dell’e-commerce,
con particolare riferimento all’utilizzo del market-place e delle aste on-line,
tale che si può realisticamente prevedere che la nuova branca di attività
nascerà con una connotazione essenzialmente telematica.
8.4. Conclusioni
La Stazione Unica Appaltante, da poco costituita, si avvia a raggiungere
la maturità a tappe forzate.
Il suo necessario irrobustimento, conseguente anche all’ampliamento
delle attività, dovrà essere tale da gestire un flusso di spesa pubblica che si
prevede ingente, in relazione ai fondi che si prevede di poter impegnare con
i Programmi operativi regionali 2007-2013.
Attraverso questo cruciale strumento, si può perseguire l’obiettivo di
un’Amministrazione effettivamente funzionale alle finalità di sviluppo economico
e di efficienza cogliendo, nel contempo, l’auspicato risultato di una
più concreta azione di prevenzione delle infiltrazioni criminali nell’importante
settore dei contratti pubblici.
TEMI ISTITUZIONALI 41
Sulla competenza in materia di
ricongiungimento familiare
(Tribunale di Roma, sezione prima civile, decreto 7-8 maggio 2007)
Il Tribunale di Roma, con riferimento ad un ricorso proposto avverso un
provvedimento di espulsione di una cittadina straniera, madre di figli minorenni
(autorizzata dal Tribunale dei Minorenni ad intraprendere un progetto
di ricongiungimento familiare) ha affermato, disattendendo l’eccezione di
incompetenza, formulata in modo “perplesso” dall’Avvocatura dello Stato,
che “la competenza del Tribunale in composizione monocratica è attribuita
dall’art. 30, comma 6, del D.Lgs. n. 286/98 in ragione della riferibilità della
controversia al “diritto all’unità familiare”, sicché trattandosi di giurisdizione
sui diritti, l’enunciazione degli atti amministrativi oggetto del ricorso è
necessariamente aperta, prevedendo accanto agli atti tipici di questa materia
(diniego del nulla osta al ricongiungimento o del permesso di soggiorno per
motivi di coesione familiare), ogni altro provvedimento dell’autorità amministrativa
che produca i propri effetti sul diritto del singolo a vivere accanto
ai propri familiari”.
Avv. Maurizio Borgo (·)
Tribunale di Roma, sezione prima civile, decreto depositato in data 8 maggio 2007 –
Giudice F. Mangano – O.S. (Avv. A. Balduccelli) c/ Ministero degli Interni, Questura
di Roma (ct. 48578/06, Avv. dello Stato M. Borgo).
«Visto il ricorso depositato il 4 ottobre 2006 e notificato il 31 ottobre 2006 proposto da
S.O., cittadina nigeriana, avverso il decreto di espulsione del Prefetto di Roma emesso in
data 8 agosto 2006 e il conseguente ordine di lasciare il territorio dello Stato emesso dalla
Questura di Roma in pari data e notificato l’8 agosto 2006;
Rilevato che a fondamento della sua richiesta la ricorrente ha dedotto di aver fatto
ingresso in Italia clandestinamente nel 1999; di aver dato alla luce il 20 maggio 2000 una
bambina, riconosciuta anche dal padre; di essere stata condannata con sentenza n.
8681/2005 del Tribunale di Roma alla pena di anni quattro di reclusione per reati attinenti
agli stupefacenti; di aver messo al mondo un altro figlio, nato il 3 settembre 2005, il cui
padre non è noto; di essere stata posta agli arresti domiciliari presso la casa di accoglienza
(…), in ragione della sua seconda maternità; di aver ottenuto in data 15 dicembre 2006, dal
Tribunale di Sorveglianza di Roma (ord. n. 9999/2005) la sospensione dell’esecuzione della
pena sino al 3 settembre 2006, in considerazione della positiva valutazione del suo inserimento
nella casa dì accoglienza ed in vista del ricongiungimento alla prima figlia, allo stato
ospitata presso una casa famiglia e affidata ai Servizi sociali del Comune di Roma con
(·) Avvocato dello Stato in Roma.
42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
decreto del Tribunale per i Minorenni di Roma del 14 aprile 2006, con l’incarico di attuare
con gradualità il ricongiungimento al fratellino; di aver beneficiato dell’indulto a seguito del
d.P.R. n. 241 del 31 luglio 2006, con conseguente estinzione della pena residua ed emissione
dell’ordine di scarcerazione della Procura della Repubblica di Roma in data 8 agosto
2006, cui avevano fatto seguito in pari data i provvedimenti di espulsione già indicati;
Vista la comparsa di costituzione del Ministero degli Interni, Prefettura di Roma e
Questura di Roma, con la quale è stato chiesto che la domanda sia respinta o dichiarata inammissibile,
preliminarmente per l’incompetenza del Tribunale essendo materia attribuita al
Giudice di Pace, e nel merito, in considerazione dell’ingresso illegale della ricorrente nel territorio
italiano, della mancanza di un valido titolo di soggiorno e della accertata responsabilità
per un reato di spaccio di sostanze stupefacenti, con conseguente insussistenza dei requisiti
previsti dalla legge, con particolare riferimento all’art. 28, comma I, del D.Lgs. n. 286/98
ai fini della concessione di un permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare;
Sentito il difensore della S.O. all’udienza del 31 gennaio 2007, la causa veniva trattenuta
in decisione, con la concessione di un termine per il deposito di note che la parte ricorrente
depositava con allegata documentazione, in data 2 aprile 2007;
osserva
Preliminarmente deve essere affermata la competenza del Tribunale, con conseguente
rigetto dell’eccezione di incompetenza, peraltro formulata in termini di “perplessità” da
parte dell’amministrazione convenuta, che ha fatto richiamo alla competenza del giudice di
pace introdotta dalla legge n. 155 del 31 luglio 2005.
La competenza del Tribunale in composizione monocratica è attribuita dall’art. 30,
comma 6 della legge n. 286/1998 in ragione della riferibilità della controversia al ‘diritto
all’unità familiare’, sicché trattandosi di giurisdizione su diritti, l’enunciazione degli atti
amministrativi oggetto del ricorso è necessariamente aperta, prevedendo accanto agli atti
tipici di questa materia (diniego del nulla osta al ricongiungimento o del permesso di soggiorno
per motivi di coesione familiare), ogni altro provvedimento dell’autorità amministrativa
che produca i propri effetti sul diritto del singolo a vivere accanto ai propri familiari.
Pertanto, poiché la ricorrente si duole del provvedimento di espulsione emesso nei suoi
confronti dal Prefetto di Roma, in quanto precluderebbe il completamento del progetto di
ricongiungimento ai due figli minori, intrapreso con l’autorizzazione del Tribunale per i
Minorenni, deve affermarsi la competenza di questo Tribunale a valutare la compatibilità
della sua pretesa con la legislazione in materia di ingresso degli stranieri e con le esigenze
di sicurezza che il provvedimento di espulsione intende perseguire.
Passando a considerare il merito, va premesso che l’oggetto del giudizio si risolve nella
considerazione della efficacia preclusiva che assume per la richiesta di permesso di soggiorno
per motivi di coesione familiare avanzata dalla S.O. con la presente azione, la sua precedente
condanna per il delitto di spaccio di sostanze stupefacenti.
Infatti, ai sensi dell’art. 30, comma I, lett. d), del D.Lgs. n. 286/l998, norma applicabile
alla fattispecie in esame, né l’ingresso clandestino nel territorio dello Stato né la permanenza
in assenza di alcun valido titolo di soggiorno, impedisce il ricongiungimento del genitore
al figlio naturale, nei confronti del quale egli conservi la potestà genitoriale ai sensi
della legge italiana. Questa norma costituisce una applicazione del principio della priorità
dell’interesse del minore, affermato nello stesso D.Lgs. n. 286/98, laddove nell’art. 28,
comma 3 fa espresso richiamo a tal fine della Convenzione dei diritti del fanciullo del 20
novembre 1989 ratificata con legge 27 marzo 1991 n. 176, riconoscendone la prevalenza nel
TEMI ISTITUZIONALI 43
bilanciamento degli interessi considerati ‘in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali
finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti i minori’.
Tanto premesso, nel valutare la rilevanza dei precedenti penali della ricorrente, ai fini
dell’applicazione della fattispecie normativa astrattamente riferibile al caso in esame, va
considerato il D.Lgs. 8 gennaio 2007 n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al
diritto al ricongiungimento familiare), entrato in vigore il 15 febbraio 2007 e applicabile
anche alla fattispecie in oggetto, in ragione della natura sostanziale delle norme introdotte.
In particolare, l’art. 2 del D.Lgs. n. 5/2007 ha aggiunto all’art. 4 comma 3 del D.Lgs.
n. 286/1998 un ulteriore periodo, in virtù del quale lo straniero che chieda il ricongiungimento
familiare non è ammesso in Italia (e quindi non ne è consentito il soggiorno) soltanto
quando “rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza
dello Stato o di uno dei paesi con il quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la libera circolazione’,
senza tipizzare tale ostativa valutazione di pericolosità con la indicazione di
alcuni titoli di reato, ritenuti dal legislatore un indice di particolare propensione criminale
nella disciplina generale dell’ingresso dello straniero nel territorio dello stato contenuta nel
medesimo art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 286/98. Il valore di questa modifica legislativa è quello
di differenziare ai fini dell’ingresso e del soggiorno dello straniero in Italia la posizione
del richiedente per motivi di coesione familiare, rimettendo in questo caso all’interprete il
delicato bilanciamento con i valori di sicurezza nazionale e transnazionale, allo scopo di
valorizzare in misura adeguata al dettato costituzionale e alle Convenzioni internazionali, la
tutela del diritto del singolo alla salvaguardia delle relazioni familiari.
Sulla base di tali parametri normativi, costituiti, da un lato, nell’ ‘arretramento della
condizione preclusiva al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi di coesione
familiare sino al più grave limite rappresentato dall’esistenza di una minaccia concreta e
attuale alla sicurezza dello Stato’ e, dall’altro, nella priorità dell’interesse del minore, la pretesa
della ricorrente a permanere legittimamente nel territorio dello Stato risulta meritevole
di accoglimento.
La condotta testimoniata dalla relazione della associazione (…) che gestisce la casa
famiglia ove è stata inserita la ricorrente con i suoi figli, prossimi a compiere 7 e 2 anni (all.
7 al ricorso) esprime una salda disponibilità verso la responsabilità genitoriale e adeguate
capacità a soddisfare le esigenze dei figli minori, anche con riferimento alla particolare patologia
da cui è affetto il figlio più piccolo (referti allegati nn. 2 e 3 delle note autorizzate).
Inoltre, i minori sono inseriti in un progetto educativo articolato che comprende la frequenza
di istituti scolastici italiani (docc. nn. 11 e 12 allegati al ricorso) e il rafforzamento del
nucleo familiare (madre e due figli) costituitosi da poco meno di un anno con il ritorno della
primogenita, prima allontanata dalla madre e collocata in una diversa casa famiglia. Un progetto
al quale S.O. è in grado di fornire un apporto personale, grazie all’attività lavorativa
intrapresa con l’ausilio dell’associazione (…), che ha anche messo a disposizione della
famiglia O. un appartamento esterno (docc. 9 e 10 allegati al ricorso).
Pertanto, sulla base di tali premesse è possibile escludere che S.O. costituisca una
minaccia concreta e attuale alla sicurezza del paese, formulandosi una prognosi favorevole
al suo inserimento sociale ed al conseguente abbandono di comportamenti criminosi, sicché,
poiché risultano sussistenti i requisiti prescritti dall’art. 30 , comma I lett. d), la domanda
deve essere accolta;
Considerato che, in ragione della natura della causa e della specificità del caso trattato,
deve essere disposta la compensazione delle spese processuali;
P.Q.M.
a) accoglie la domanda proposta da S.O. nei confronti del Ministero dell’Interno e della
Questura di Roma e, per l’effetto, riconosce il diritto della ricorrente ad ottenere il permesso
di soggiorno per ragioni di coesione familiare ai figli minori (…);
b) dispone che la Questura di Roma provveda in conformità;
c) compensa le spese processuali.
Roma, 7 maggio 2007».
44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Le sentenze della Corte di giustizia delle
Comunità europee dell’anno 2006
emesse in cause cui ha partecipato l’Italia
AMBIENTE
– Conservazione degli uccelli selvatici
Sentenza della Corte, sezione seconda, sentenza 9 giugno 2006, nella
causa C-60/05 – WWF Italia c. Regione Lombardia .
Con il loro ricorso dinanzi al giudice del rinvio le parti ricorrenti nella
causa principale mirano ad ottenere l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
della deliberazione n. 14250 della Giunta regionale della
Lombardia, del 15 settembre 2003, riguardante il prelievo venatorio in deroga
di talune quantità di uccelli selvatici appartenenti alle specie fringuello e
peppola per la stagione venatoria 2003/2004. Tale deliberazione è stata
adottata in base all’art. 2, n. 2, della predetta legge regionale n. 18/02.
1. L’art. 9, n. 1, lett. c), della direttiva 79/409, concernente la conservazione
degli uccelli selvatici, impone agli Stati membri, indipendentemente
dalla ripartizione interna delle competenze determinata dall’ordinamento
giuridico nazionale, di garantire, nell’adottare le misure di trasposizione di
tale disposizione, che, in tutti i casi di applicazione della deroga ivi prevista
e per tutte le specie protette, i prelievi venatori autorizzati non superino un
tetto – da determinarsi in base a dati scientifici rigorosi – conforme alla limitazione,
imposta da tale disposizione, dei detti prelievi a piccole quantità.
Infatti, indipendentemente dalla ripartizione interna delle competenze
determinata dall’ordinamento giuridico nazionale, gli Stati membri sono tenuti
a prevedere un quadro legislativo e regolamentare atto a garantire che i prelievi
di uccelli siano effettuati unicamente nel rispetto della condizione relativa
alle «piccole quantità», di cui all’art. 9, n. 1, lett. c), della direttiva, e ciò in
base ad informazioni scientifiche rigorose, qualunque sia la specie interessata.
I L C O N T E N Z I O S O
C O M U N I TA R I O
E D I N T E R N A Z I O N A L E
2. Al fine di consentire alle autorità competenti di ricorrere alle deroghe
previste all’art. 9 della direttiva 79/409, concernente la conservazione degli
uccelli selvatici, solo in modo conforme al diritto comunitario, il quadro
legislativo e regolamentare nazionale deve essere concepito in modo tale che
l’attuazione delle disposizioni in deroga ivi enunciate risponda al principio
di certezza del diritto.
In particolare, queste disposizioni nazionali di recepimento relative alla
nozione di «piccole quantità» enunciata all’art. 9, n. 1, lett. c), della detta
direttiva devono consentire alle autorità incaricate di autorizzare prelievi in
deroga di uccelli di una determinata specie di fondarsi su indici sufficientemente
precisi quanto ai quantitativi massimi da rispettare.
Inoltre, mediante le norme di trasposizione del detto art. 9, n. 1, lett. c),
gli Stati membri sono tenuti a garantire che, indipendentemente dal numero
e dall’identità delle autorità incaricate, nel loro ambito, di dare attuazione a
tale disposizione, il totale dei prelievi venatori autorizzati, per ciascuna specie
protetta, da ciascuna delle dette autorità non superi il tetto di «piccole
quantità» fissato per la detta specie per tutto il territorio nazionale. Così, qualora
l’attuazione di tale disposizione della direttiva sia delegata ad enti infrastatali,
il quadro legislativo e regolamentare applicabile deve garantire che il
totale dei prelievi di uccelli che possono essere autorizzati dalle dette autorità
resti, per tutto il territorio nazionale, entro il limite delle «piccole quantità
» imposto da tale disposizione.
Infine, il detto obbligo incombente agli Stati membri di garantire che i
prelievi di uccelli siano effettuati solo in «piccole quantità», a norma del
citato art. 9, n. 1, lett. c), esige che i procedimenti amministrativi previsti
siano organizzati in modo tale che tanto le decisioni delle autorità competenti
di autorizzazione dei prelievi in deroga, quanto le modalità di applicazione
di tali decisioni siano assoggettate ad un controllo efficace effettuato tempestivamente.
Il quadro procedurale nazionale deve garantire anche che
siano rispettate le condizioni che accompagnano tali decisioni. Un meccanismo
di controllo nell’ambito del quale l’annullamento di una decisione di
autorizzazione di un prelievo in deroga, adottata in violazione dell’art. 9
della direttiva, o la constatazione di una violazione delle condizioni che
accompagnano una decisione di autorizzazione del detto prelievo si abbiano
solo alla scadenza del periodo previsto per l’effettuazione di tale prelievo
priverebbe d’effetto utile il sistema di protezione istituito dalla direttiva.
– Impatto ambientale
Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 novembre 2006, nella causa C-
486/04. Commissione delle Comunità europee contro Italia. .
Con lettere in date 22 agosto e 12 novembre 2001, la Commissione chiedeva
alle autorità italiane informazioni in merito all’applicazione delle procedure
previste dalla direttiva 85/337 a due progetti di impianti industriali
46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
nel territorio del comune di Massafra, ossia un impianto di produzione di
energia elettrica mediante incenerimento di CDR e di biomasse ed un
impianto per la preselezione dei rifiuti solidi urbani e la produzione di CDR.
Le autorità italiane comunicavano di aver escluso i progetti in questione
dalla procedura di valutazione di impatto ambientale in quanto essi rientravano
nella deroga prevista dall’allegato A, lett. l), del DPR del 1996,
come modificato dall’art. 3, primo comma, del DPCM del 1999.
La Commissione, alla luce delle risposte così fornite dal governo italiano,
da essa reputate insoddisfacenti, avviava il procedimento precontenzioso
con una lettera di messa in mora iniziale in data 18 ottobre 2002, integrata
da una lettera dell’11 luglio 2003, con le quali veniva sollevata la questione
degli inadempimenti risultanti dal trattamento riservato all’impianto
industriale di Massafra e dalla normativa italiana stessa.
In seguito, mediante parere motivato in data 16 dicembre 2003, la
Commissione invitava la Repubblica italiana ad adottare le misure necessarie
per conformarsi agli obblighi derivanti dalla direttiva 85/337 entro un
termine di due mesi dalla data di ricevimento del detto parere.
La Commissione, avendo ritenuto insoddisfacente la posizione adottata
dal governo italiano in una lettera del 22 aprile 2004, ha proposto, a norma
dell’art. 226, secondo comma, CE, il presente ricorso.
1. La nozione di smaltimento dei rifiuti ai sensi della direttiva 85/337,
concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti
pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 97/11, è una nozione autonoma
che deve ricevere un significato idoneo a rispondere pienamente all’obiettivo
perseguito da tale atto normativo, il quale – come si evince dall’art.
2, n. 1, della direttiva medesima – consiste nel garantire che, prima della concessione
di un’autorizzazione, i progetti idonei ad avere un impatto ambientale
rilevante, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro
ubicazione, formino oggetto di una valutazione del loro impatto. Di conseguenza,
tale nozione – che non è equivalente a quella di smaltimento dei
rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, relativa ai rifiuti, come modificata dalla
direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350 – deve essere intesa in senso lato
come comprensiva dell’insieme delle operazioni che portano o allo smaltimento
dei rifiuti, nel senso stretto del termine, o al loro recupero.
Pertanto, un impianto per la produzione di energia elettrica mediante incenerimento
di combustibili derivanti da rifiuti e di biomasse che dispone di una
capacità superiore a 100 tonnellate al giorno, rientra nella categoria degli
impianti che effettuano lo smaltimento dei rifiuti non pericolosi mediante incenerimento
o trattamento chimico prevista dall’allegato I, punto 10, della direttiva
85/337. In quanto tale, esso deve essere sottoposto, prima di essere autorizzato,
alla procedura di valutazione del suo impatto ambientale, posto che i
progetti rientranti nel detto allegato I devono essere sottoposti ad una valutazione
sistematica a norma degli artt. 2, n. 1, e 4, n. 1, della detta direttiva.
2. Viene meno agli obblighi che gli incombono in forza della direttiva
85/337, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47
progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 97/11, uno Stato
membro che adotti una normativa nazionale che consenta che i progetti di
impianti di recupero di rifiuti pericolosi e i progetti di impianti di recupero
di rifiuti non pericolosi con capacità superiore a 100 tonnellate al giorno,
rientranti nell’allegato I della detta direttiva, siano sottratti alla procedura di
valutazione di impatto ambientale prevista dagli artt. 2, n. 1, e 4, n. 1, della
medesima direttiva, se sottoposti a procedura semplificata ai sensi dell’art.
11 della direttiva 75/442, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva
91/156 e dalla decisione 96/350.
3. Gli Stati membri hanno la possibilità di fissare i criteri e/o le soglie che
consentono di stabilire quali progetti rientranti nell’allegato II della direttiva
85/337, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti
pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 97/11, debbano costituire
l’oggetto di una valutazione. Tuttavia, il margine discrezionale così conferito
agli Stati membri trova il proprio limite nell’obbligo, enunciato all’art. 2,
n. 1, della detta direttiva, di sottoporre ad una valutazione d’impatto i progetti
idonei ad avere rilevanti ripercussioni sull’ambiente, segnatamente per la loro
natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione. Pertanto, nel fissare tali soglie
e/o criteri, gli Stati membri devono tener conto non soltanto delle dimensioni
dei progetti, ma anche della loro natura e della loro ubicazione. Inoltre, a
norma dell’art. 4, n. 3, della direttiva 85/337, gli Stati membri hanno l’obbligo,
in sede di fissazione delle soglie o dei criteri, di tener conto dei criteri di
selezione pertinenti definiti nell’allegato III della direttiva stessa.
Pertanto, escludendo dalla valutazione di impatto ambientale – che deve
intervenire prima del rilascio del provvedimento dell’autorità o delle autorità
competenti che conferisce al committente il diritto di realizzare il progetto
– i progetti di impianti che effettuano operazioni di recupero dei rifiuti in
base alla procedura semplificata, una normativa nazionale non tiene conto di
tutti i criteri di selezione precisati nell’allegato III della direttiva 85/337. Di
conseguenza, il criterio adottato da tale normativa nazionale, attinente esclusivamente
all’attuazione delle procedure semplificate, inteso a dispensare gli
impianti di recupero dei rifiuti rientranti nell’allegato II, punto 11, lett. b),
della direttiva 85/337 dalla valutazione di impatto ambientale, non soddisfa
le ricordate condizioni della detta direttiva in quanto esso può far sì che
determinati progetti idonei ad avere rilevanti ripercussioni sull’ambiente a
motivo delle loro dimensioni o della loro ubicazione siano sottratti alla verifica
del loro impatto ambientale.
– Scarichi di acque
Sentenza della Corte, 30 novembre 2006, nella causa C-293/05.
Commissione delle Comunità europee contro Italia.
In seguito a una denuncia che le era stata presentata, la Commissione,
con lettera 22 agosto 2001, ha chiesto alla Repubblica italiana di fornirle
48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
informazioni relativamente allo scarico di acque reflue da parte dell’agglomerato
interessato il cui numero di AE è superiore a 15000.
Le autorità italiane hanno informato la Commissione del fatto che un
progetto per la realizzazione di un impianto di depurazione delle acque
reflue, da situarsi in località Torba, presso il comune di Gornate Olona, era
in corso di elaborazione. Esse hanno menzionato gli sforzi effettuati al fine
del completamento del detto progetto e hanno indicato che gli impianti
sarebbero stati operativi nel 2003. Ritenendo che, ai sensi dell’art. 5, n. 5,
della direttiva, le acque reflue urbane derivanti dall’agglomerato interessato
avrebbero dovuto essere assoggettate, entro il 31 dicembre 1998, ad un
trattamento più spinto di quello secondario o equivalente previsto dall’art. 4
di tale direttiva, la Commissione, in data 17 ottobre 2003 e conformemente
al procedimento previsto dall’art. 226 CE, ha inviato alla Repubblica italiana
una lettera di diffida invitandola a presentare le sue osservazioni.
In risposta a tale richiesta, le autorità italiane, con nota 11 febbraio
2004, hanno inviato alla Commissione una lettera del Dipartimento per le
risorse idriche – Direzione per la tutela delle acque interne del Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del territorio, datata 31 dicembre 2003, nonché
una relazione del Consorzio volontario per la tutela, il risanamento e la salvaguardia
delle acque del fiume Olona, datata 19 dicembre 2003.
Ritenendo che questa risposta non fosse soddisfacente, la Commissione,
in data 9 luglio 2004, ha emesso un parere motivato invitando la Repubblica
italiana a prendere tutte le misure per conformarsi agli obblighi derivanti
dall’art. 5, nn. 2 e 5, della direttiva per quanto riguarda l’agglomerato interessato,
entro due mesi dalla notifica di tale parere. Le autorità italiane
hanno risposto al detto parere con lettera 19 ottobre 2004.
Non essendo soddisfatta delle informazioni fornite dalla Repubblica italiana,
la Commissione ha introdotto il presente ricorso.
29. Occorre innanzi tutto ricordare che l’insieme delle acque reflue urbane
che provengono da agglomerati aventi, come l’agglomerato interessato, oltre
10000 AE, e che si riversano in un’area sensibile doveva, ai sensi dell’art. 5, n. 2,
della direttiva, essere sottoposto, a decorrere al più tardi dal 31 dicembre 1998,
ad un trattamento più spinto di quello previsto dall’art. 4 n. 1, della direttiva.
30. Occorre ricordare anche che la Corte ha già dichiarato che è indifferente,
in relazione all’art. 5, n. 2, della direttiva, che le acque reflue urbane
si riversino direttamente o indirettamente in un’area sensibile (v., in particolare,
sentenza 25 aprile 2002, causa C-396/00, Commissione/Italia, Racc.
pag. I-3949, punto 29).
31. Infatti, l’art. 3, n. 1, secondo comma, della direttiva, che riguarda gli
scambi di acque reflue urbane che si immettono in acque recipienti considerate
aree sensibili, e l’art. 5, n. 2, della direttiva, che prescrive che le acque
reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte ad un trattamento
più spinto prima dello scarico in aree sensibili, non fanno alcuna
distinzione a seconda che gli scarichi in un’area sensibile siano diretti o indiretti
(sentenza Commissione/Italia, sopraccitata, punto 30).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49
32. L’obbiettivo della direttiva, ossia proteggere l’ambiente, così come
quello dell’art. 174, n. 2, CE, disposizione che mira ad assicurare un elevato
livello di tutela in materia ambientale, sarebbero compromessi se unicamente
le acque reflue che si riversano direttamente in un’area sensibile fossero
sottoposte ad un trattamento più spinto di quello previsto all’art. 4 n. 1, della
direttiva.
35. Per quanto riguarda l’argomento del governo italiano relativo alle
ingenti risorse finanziarie necessarie per costruire l’impianto di depurazione
richiesto per conformarsi ai requisiti della direttiva, occorre ricordare che,
secondo una costante giurisprudenza, uno Stato membro non può eccepire
difficoltà pratiche o amministrative per giustificare l’inosservanza degli
obblighi e dei termini stabiliti da una direttiva. Lo stesso dicasi per le difficoltà
finanziarie che spetta agli Stati membri superare adottando le misure
adeguate (v. sentenze 5 luglio 1990, causa C-42/89, Commissione/Belgio,
Racc. pag. I-2821, punto 24; 15 maggio 2003, causa C-419/01,
Commissione/Spagna, Racc. pag. I-4947, punto 22, e 16 ottobre 2003, causa
C-433/02, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-12191, punto 22).
APPALTI
– Appalti di forniture
Sentenza della Corte, sezione prima, 11 maggio 2006, nella causa C-
340/04. Carbotermo SpA,Consorzio Alisei e Comune di Busto Arsizio,
AGESP SpA, in presenza di: Associazione Nazionale Imprese Gestione
servizi tecnici integrati (AGESI).
La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione della
direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure
di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (G.U. L 199,
pag. 1).
Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di una controversia che vede
contrapporsi l’impresa Carbotermo S.p.A. (in prosieguo: la «Carbotermo»)
e il consorzio Alisei al comune di Busto Arsizio e all’impresa AGESP S.p.A.
(in prosieguo: la «AGESP») in merito all’affidamento a quest’ultima di un
appalto relativo alla fornitura di combustibili, alla manutenzione, all’adeguamento
normativo e alla riqualificazione tecnologica degli impianti termici
degli edifici del suddetto comune.
La Carbotermo è un’impresa specializzata negli appalti di fornitura di
energia e di gestione di impianti termici, a favore di clienti pubblici e privati.
Il consorzio Alisei è un’impresa che fornisce prodotti energetici e servizi
attinenti alla climatizzazione e al riscaldamento degli edifici. La AGESP
Holding S.p.A. è una società per azioni nata dalla trasformazione, decretata
il 24 settembre 1997, dell’Azienda per la Gestione dei Servizi Pubblici,
impresa speciale del comune di Busto Arsizio. Il capitale sociale della
50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
AGESP Holding appartiene attualmente per il 99,98% al comune di Busto
Arsizio. Gli altri azionisti sono i comuni di Castellanza, Dairago, Fagnano
Olona, Gorla Minore, Marnate e Olgiate Olona, ciascuno dei quali detiene
un’azione. Ai sensi dell’art. 2 del suo statuto, nell’oggetto della AGESP
Holding rientra la gestione di servizi di pubblica utilità nei settori del gas,
dell’acqua, dell’igiene ambientale, dei trasporti, dei parcheggi, dei bagni
pubblici, delle farmacie, dell’energia elettrica e del calore, dei servizi cimiteriali
e della segnaletica stradale. Il Comune di Busto Arsizio ha indetto
una gara per la fornitura di combustibili, nonché per la manutenzione, l’adeguamento
normativo e la riqualificazione tecnologica degli impianti termici
degli edifici comunali. L’importo dell’appalto, stimato nella misura di
EUR 8 450 000 oltre all’imposta sul valore aggiunto (IVA), era ripartito in
EUR 5 700 000 per la fornitura di combustibili (di cui gasolio per 4/5 e
metano per 1/5), EUR 1 000 000 per la manutenzione degli impianti termici
ed EUR 1 750 000 per la riqualificazione e la messa a norma dei suddetti
impianti. La Carbotermo ha presentato un’offerta . Il consorzio Alisei ha
predisposto un’offerta senza tuttavia presentarla entro il termine previsto.
Con sentenza 18 settembre 2003, n. 5316, il Consiglio di Stato ha stabilito
che un ente locale è legittimato ad affidare un appalto a un fornitore
senza ricorrere a una gara d’appalto nell’ipotesi in cui l’ente locale eserciti
sul fornitore un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri
servizi, e il fornitore realizzi la parte più importante della propria attività
con l’ente che lo controlla. Il 21 novembre 2003 il comune di Busto Arsizio
ha deciso, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato di sospendere la
procedura di gara fino al 10 dicembre 2003.
Con deliberazione 10 dicembre 2003, il comune di Busto Arsizio ha
revocato la gara, riservandosi di affidare in seguito l’appalto direttamente
alla AGESP Con deliberazione 18 dicembre 2003, il comune di Busto Arsizio
ha affidato l’appalto in questione direttamente alla AGESP. Esso ha motivato
tale decisione adducendo che la AGESP soddisfaceva i due requisiti stabiliti
dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale per concludere appalti
pubblici senza gara, vale a dire che l’ente locale eserciti sull’ente aggiudicatario
un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e
che il suddetto ente aggiudicatario realizzi la parte più importante della propria
attività con l’ente locale che lo controlla. Nel preambolo di tale decisione
si afferma, da un lato, che il fatto che il comune di Busto Arsizio detenga
il 99,98% del capitale della AGESP Holding, alla quale appartiene per il
100% il capitale della AGESP, attesta un rapporto di subordinazione tra
quest’ultima e il comune in questione. D’altro lato, in detto preambolo si
afferma che la parte largamente maggioritaria del fatturato della AGESP
consegue dall’esercizio di attività per le quali la stessa è titolata in forza di
affidamenti ottenuti direttamente dal comune di Busto Arsizio.
La Carbotermo e il consorzio Alisei hanno impugnato dinanzi al
Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia le deliberazioni che
avevano sospeso la gara e affidato l’appalto in questione alla AGESP.
Dinanzi al summenzionato tribunale le due imprese in questione hanno rile-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51
vato che, nel caso di specie, non ricorrevano le condizioni che rendono inapplicabile
la direttiva 93/36. Da un lato, la AGESP non sarebbe controllata
dal comune di Busto Arsizio in quanto quest’ultimo detiene la sua partecipazione
nella AGESP solo mediante una holding di cui è azionista per il
99,98% e la AGESP conserva l’autonomia di una società per azioni di diritto
privato. Dall’altro lato, la AGESP non svolgerebbe la parte più importante
della sua attività a favore del comune di Busto Arsizio, poiché realizzerebbe
con il comune in questione una quota nettamente inferiore all’80% del
suo fatturato, criterio che si sarebbe dovuto accogliere per analogia con
l’art. 13 della direttiva 93/38.
1. La direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture, osta all’affidamento diretto di un appalto di forniture
e di servizi, con prevalenza del valore della fornitura, a una società per
azioni il cui consiglio di amministrazione possiede ampi poteri di gestione
esercitabili in maniera autonoma e il cui capitale è, allo stato attuale, interamente
detenuto da un’altra società per azioni, della quale è a sua volta socio
di maggioranza l’amministrazione aggiudicatrice.
Non è infatti soddisfatta, in tali circostanze, la condizione relativa all’inapplicabilità
della direttiva 93/36, secondo la quale l’amministrazione
aggiudicatrice esercita sulla società aggiudicataria dell’appalto pubblico in
questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Per valutare tale condizione, è necessario tener conto di tutte le disposizioni
normative e delle circostanze pertinenti. Da quest’esame deve risultare
che la società aggiudicataria è soggetta a un controllo che consente all’amministrazione
aggiudicatrice di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di
una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che
sulle decisioni.
Così non è nel caso in cui il controllo esercitato dall’amministrazione
aggiudicatrice si risolva sostanzialmente nei poteri che il diritto societario
riconosce alla maggioranza dei soci, la qual cosa limita considerevolmente il
suo potere di influire sulle decisioni delle società di cui trattasi. Inoltre, qualora
l’eventuale influenza dell’amministrazione aggiudicatrice venga esercitata
mediante una società holding, l’intervento di un siffatto tramite può
indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice
su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo
capitale.
2. Per valutare la condizione relativa all’inapplicabilità della direttiva
93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici
di forniture, secondo la quale l’impresa cui è stato direttamente affidato un
appalto di fornitura deve svolgere la parte più importante dell’attività con
l’ente pubblico che la detiene, non si deve applicare l’art. 13 della direttiva
93/38, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua
e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti
che operano nel settore delle telecomunicazioni, ai sensi del quale la detta
direttiva non si applica agli appalti di servizi affidati a un’impresa collegata
52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
qualora almeno l’80% della cifra d’affari media realizzata nella Comunità
dall’impresa in questione negli ultimi tre anni in materia di servizi derivi
dalla fornitura di detti servizi alle imprese alle quali è collegata. Questa condizione
è soddisfatta solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata
all’ente che la detiene o agli enti che la detengono, e ogni altra attività
risulta avere solo un carattere marginale.
3. Nel valutare se un’impresa svolga la parte più importante della sua attività
con l’ente pubblico che la detiene, al fine di decidere in merito all’applicabilità
della direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture, si deve tener conto di tutte le attività realizzate da
tale impresa sulla base di un affidamento effettuato dall’amministrazione
aggiudicatrice, indipendentemente da chi remunera tale attività, potendo trattarsi
della stessa amministrazione aggiudicatrice o dell’utente delle prestazioni
erogate, mentre non rileva il territorio in cui è svolta l’attività.
– Appalto di servizi
Sentenza della Corte, sezione prima, 6 aprile 2006, nella causa C-410-04
– Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (ANAV) contro
Comune di Bari, AMTAB Servizio SpA.
La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli
artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE. La questione è sorta nell’ambito di una controversia
tra l’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (in prosieguo:
l’«ANAV»), da un lato, e il Comune di Bari e l’AMTAB Servizio S.p.A. (in
prosieguo: l’«AMTAB Servizio»), dall’altro, concernente l’affidamento a
quest’ultima del servizio di trasporto pubblico sul territorio del detto comune.
L’AMTAB Servizio è una società per azioni il cui capitale sociale è interamente
detenuto dal Comune di Bari, e la cui sola attività consiste nel fornire
un servizio di trasporto pubblico sul territorio di tale comune. Tale
società sarebbe totalmente controllata dal Comune di Bari. L ‘AV rappresenta,
per statuto, le imprese esercenti servizi nazionali e internazionali di trasporto
di passeggeri, nonché attività assimilabili al trasporto, e, in tale
veste, vigila in particolare sul buon andamento del servizio pubblico di trasporto
urbano ed extraurbano, nell’interesse delle società che forniscono
tale servizio. Il Comune di Bari ha avviato una procedura di gara ad evidenza
pubblica al fine di affidare il servizio di trasporto pubblico sul territorio
di tale comune. In seguito alla modifica dell’art. 113, quinto comma, del
D.Lgs. n. 267/2000 da parte dell’art. 14 del D.L. n. 269/2003, il Comune di
Bari ha, con provvedimento 9 ottobre 2003, abbandonato tale procedura di
gara ad evidenza pubblica. Con provvedimento 18 dicembre 2003, il citato
Comune ha affidato direttamente il servizio in questione all’AMTAB
Servizio, per il periodo 1° gennaio 2004-31 dicembre 2012. Con ricorso al
Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, l’ANAV ha chiesto a quest’ultimo
di annullare il citato provvedimento, oltre che tutti gli atti connes-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53
si e consequenziali, lamentando violazione del diritto comunitario, e in particolare
degli artt. 3 CE, 16 CE, 43 CE, 49 CE, 50 CE, 51 CE, 70 CE -
72 CE, 81 CE, 82 CE, 86 CE e 87 CE.
17. È pacifico che le concessioni di servizi pubblici sono escluse dall’ambito
di applicazione della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992,
92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici
di servizi (G.U. L 209, pag. 1) (sentenza Parking Brixen, cit., punto 42).
Essa è stata sostituita dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi
(G.U. L 134, pag. 114), il cui art. 17 prevede esplicitamente l’inapplicabilità
alle concessioni di servizi.
18. Anche se i contratti di concessione di servizi pubblici sono esclusi
dall’ambito applicativo della direttiva 92/50, sostituita dalla direttiva
2004/18, le pubbliche autorità che li concludono sono tuttavia tenute a rispettare
le regole fondamentali del Trattato CE in generale, e il principio di non
discriminazione sulla base della nazionalità in particolare (v., in tal senso,
sentenze 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress, Racc.
pag. I-10745, punto 60; 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc.
pag. I-7287, punto 16; e Parking Brixen, cit., punto 46).
19. Le disposizioni del Trattato specificamente applicabili alle concessioni
di servizi pubblici comprendono in particolare gli artt. 43 CE e 49 CE
(sentenza Parking Brixen, cit., punto 47).
20. Oltre al principio di non discriminazione sulla base della nazionalità,
si applica alle concessioni di servizi pubblici anche il principio della parità
di trattamento tra offerenti, e ciò anche in assenza di discriminazione sulla
base della nazionalità (sentenza Parking Brixen, cit., punto 48).
21. I principi di parità di trattamento e di non discriminazione sulla base
della nazionalità comportano, in particolare, un obbligo di trasparenza che
permette all’autorità pubblica concedente di assicurarsi che tali principi
siano rispettati. L’obbligo di trasparenza posto a carico di detta autorità consiste
nel dovere di garantire, ad ogni potenziale offerente, un adeguato livello
di pubblicità, che consenta l’apertura della concessione di servizi alla concorrenza,
nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione
(v., in tal senso, citate sentenze Telaustria e Telefonadress, punti 61 e
62, e Parking Brixen, punto 49).
22. In linea di principio, l’assenza totale di procedura concorrenziale per
l’affidamento di una concessione di servizi pubblici, come quella di cui alla
causa principale, non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e
49 CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione
e di trasparenza (sentenza Parking Brixen, cit., punto 50).
23. Risulta inoltre dall’art. 86, n. 1, CE che gli Stati membri non possono
mantenere in vigore una normativa nazionale che consenta l’affidamento
di concessioni di servizi pubblici senza procedura concorrenziale, poiché un
simile affidamento viola gli artt. 43 CE o 49 CE o ancora i principi di parità
54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (sentenza Parking
Brixen, cit., punto 52).
24. Tuttavia, nel settore delle concessioni di servizi pubblici, l’applicazione
delle regole enunciate agli artt. 12 CE, 43 CE e 49 CE, nonché dei principi
generali di cui esse costituiscono la specifica espressione, è esclusa se,
allo stesso tempo, il controllo esercitato sul concessionario dall’autorità pubblica
concedente è analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e se
il detto concessionario realizza la parte più importante della propria attività
con l’autorità che lo detiene (sentenza Parking Brixen, cit., punto 62).
25. Una normativa nazionale che riprenda testualmente il contenuto
delle condizioni indicate al punto precedente, come fa l’art. 113, quinto
comma, del D.Lgs. n. 267/2000, come modificato dall’art. 14 del
D.L. n. 269/2003, è in linea di principio conforme al diritto comunitario,
fermo restando che l’interpretazione di tale disciplina deve a sua volta essere
conforme alle esigenze del diritto comunitario.
26. Va precisato che, trattandosi di un’eccezione alle regole generali del
diritto comunitario, le due condizioni enunciate al punto 24 della presente
sentenza devono essere interpretate restrittivamente, e l’onere di dimostrare
l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga
a quelle regole grava su colui che intenda avvalersene (v. sentenze 11 gennaio
2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, Racc. pag. I-1,
punto 46, e Parking Brixen, cit., punto 63).
31. Infatti, la partecipazione, ancorché minoritaria, di un’impresa privata
nel capitale di una società alla quale partecipa pure l’autorità pubblica concedente
esclude in ogni caso che la detta autorità pubblica possa esercitare
su una tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi
(v., in tal senso, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., punto 49).
32. Quindi, se la società concessionaria è una società aperta, anche solo
in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una
struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente
pubblico che la detiene (v., in tal senso, sentenza Coname, cit., punto 26).
33. Alla luce delle considerazioni svolte, la questione pregiudiziale va
risolta dichiarando che gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE, nonché i principi di
parità di trattamento, di non discriminazione sulla base della nazionalità e di
trasparenza non ostano ad una disciplina nazionale che consente ad un ente
pubblico di affidare un servizio pubblico direttamente ad una società della
quale esso detiene l’intero capitale, a condizione che l’ente pubblico eserciti
su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e
che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente
che la detiene.
Sentenza della Corte, sezione prima, 9 febbraio 2006, nelle cause riunite
C-226/04 e C-228/04 – La Cascina Soc. coop. a r.l., Zilch Srl
(C-226/04) contro Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia e
delle Finanze, Pedus Service, Cooperativa Italiana di Ristorazione Soc.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55
coop. a r.l. (CIR), Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni
sul lavoro (INAIL) e Consorzio G. f. M. (C-228/04) contro
Ministero della Difesa, La Cascina Soc. coop. a r.l.
Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art.
29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva del Consiglio 18 giugno
1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva»).
Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che
oppongono le società La Cascina Soc. coop. a r.l (in prosieguo: La
«Cascina») e Zilch Srl (in prosieguo: la «Zilch») nonché il consorzio G. f. M.
(in prosieguo: il «G. f. M.»), al Ministero della Difesa e al Ministero
dell’Economia e delle Finanze italiani, nella loro qualità di amministrazione
aggiudicatrice, relativamente, da un lato, all’esclusione di queste imprese
dalla partecipazione ad una procedura di appalto pubblico di servizi e,
dall’altro, alla conformità con l’art. 29 della direttiva della disposizione
corrispondente della normativa italiana che assicura il recepimento di questa
direttiva nel diritto nazionale.
L’amministrazione aggiudicatrice ha deciso di escludere dalla procedura
La Cascina e il G. f. M., per il fatto che essi non erano in regola con gli
obblighi riguardanti il pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali
a favore dei lavoratori, nonché la Zilch, per il fatto che essa non era in
regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte.
I tre enti in questione hanno chiesto l’annullamento di questa decisione
dinanzi al giudice del rinvio. In particolare, La Cascina e il G. f. M. hanno
fatto valere che il mancato pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali
era stato regolarizzato ex post. Da parte sua, la Zilch ha affermato
che una parte dell’imposta reclamata aveva formato oggetto di sgravio e
che, per quanto riguarda l’altra parte dell’imposta dovuta, essa aveva beneficiato
di un «condono fiscale», in forza di una misura di regolarizzazione
adottata dal legislatore nazionale nel 2002, in base alla quale essa era stata
ammessa al pagamento rateale.
L’amministrazione aggiudicatrice, per contro, ha sostenuto che la regolarizzazione
ex post non significava che le imprese ricorrenti, al momento
della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione
alla gara d’appalto, ossia il 15 gennaio 2003, fossero in regola con i loro
obblighi.
Il giudice del rinvio constata una differenza di formulazione tra l’art. 29
della direttiva e l’art. 12 del decreto n. 157/1995. In effetti, mentre la disposizione
comunitaria prevede la facoltà di escludere dalla partecipazione ad
un appalto un prestatore di servizi «il quale non abbia adempiuto» i suoi
obblighi, la disposizione nazionale esclude colui «che [non è] in regola» con
i suoi obblighi.
19. Con le sue questioni, il giudice del rinvio intende accertare in sostanza,
innanzi tutto, se l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva debba
56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
essere interpretato nel senso che si oppone ad una disposizione nazionale la
quale fa riferimento alla situazione del prestatore di servizi che «non è in regola
» con i suoi obblighi previdenziali o tributari. In secondo luogo, esso si chiede
in quale momento il prestatore di servizi debba fornire la prova del rispetto
dei detti obblighi. In terzo luogo, esso si chiede se un prestatore di servizi, il
quale sia in ritardo nel pagamento dei suoi contributi previdenziali o delle sue
imposte o abbia ottenuto dalle autorità competenti una rateizzazione del pagamento
di questi contributi o imposte o abbia presentato un ricorso amministrativo
o giurisdizionale inteso a contestare l’esistenza o l’importo dei suoi obblighi
previdenziali o dei suoi obblighi tributari, debba o meno essere considerato
nel senso che non ha adempiuto i suoi obblighi previdenziali o tributari ai
sensi dell’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva.
21. L’art. 29 della direttiva prevede sette cause di esclusione dei candidati
dalla partecipazione ad un appalto, che si riferiscono all’onestà professionale,
alla solvibilità o all’affidabilità di questi ultimi. Questa disposizione
lascia l’applicazione di tutti questi casi di esclusione alla valutazione degli
Stati membri, come risulta dall’espressione «può venire escluso dalla partecipazione
ad un appalto (…)», che figura all’inizio della detta disposizione,
e rinvia, sub e) e f), esplicitamente alle disposizioni legislative nazionali.
22. Pertanto, come fa giustamente osservare la Commissione delle
Comunità europee, la disposizione considerata fissa essa stessa i soli limiti
della facoltà degli Stati membri, nel senso che questi non possono prevedere
cause di esclusione diverse da quelle ivi indicate. Tale facoltà degli Stati
membri è limitata anche dai principi generali di trasparenza e di parità di trattamento
(v., in particolare, sentenze 12 dicembre 2002, causa C-470/99,
Universale-Bau e a., Racc. pag. I-11617, punti 91 e 92, nonché 16 ottobre
2003, causa C-421/01, Traunfellner, Racc. pag. I-11941, punto 29).
24. Per quanto riguarda, innanzi tutto, la questione se l’art. 29, primo
comma, lett. e) e f), della direttiva, debba essere interpretato nel senso che si
oppone ad una disposizione nazionale che fa riferimento alla situazione del
prestatore di servizi che «non è in regola» con i suoi obblighi previdenziali
o tributari, questa disposizione offre la facoltà agli Stati membri di escludere
qualunque candidato «il quale non abbia adempiuto i suoi obblighi» relativi
al pagamento dei contributi previdenziali e delle imposte e tasse, «conformemente
alle disposizioni legislative» nazionali.
30. Al fine di determinare il momento in cui occorre collocarsi per valutare
se il candidato abbia adempiuto i suoi obblighi, occorre constatare che, dato
che l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva rinvia alle disposizioni
legislative degli Stati membri al fine di stabilire il contenuto della nozione
«aver adempiuto i suoi obblighi» e il legislatore comunitario non ha voluto procedere
ad un’uniformazione dell’applicazione di tale articolo a livello comunitario,
è coerente ritenere che lo stesso rinvio alle disposizioni nazionali venga
operato per quanto riguarda la determinazione del momento di cui trattasi.
32. Occorre precisare, tuttavia, che i principi di trasparenza e di parità di
trattamento che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti
pubblici, in base ai quali le condizioni sostanziali e procedurali relative alla par-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57
tecipazione ad un appalto devono essere chiaramente definite in anticipo,
richiedono che questo termine sia determinato con una certezza assoluta e reso
pubblico, affinché gli interessati possano conoscere esattamente gli obblighi
procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi obblighi valgano per tutti
i concorrenti. Tale termine può essere fissato dalla normativa nazionale, oppure
questa può affidare tale compito alle amministrazioni aggiudicatrici.
33. Pertanto, si ritiene abbia adempiuto i suoi obblighi il candidato che,
entro il termine di cui sopra al punto 31, abbia effettuato integralmente i
pagamenti relativi ai suoi debiti in materia di previdenza sociale e di imposte
o tasse, con riserva dei casi di regolarizzazione successiva e di presentazione
di un ricorso amministrativo o giurisdizionale che sono trattati ai
punti 34-39 della presente sentenza. Un semplice inizio di pagamento al
momento considerato, o la prova dell’intenzione di pagamento, o ancora la
prova della capacità finanziaria di regolarizzazione al di là di questo momento
non possono essere sufficienti, poiché diversamente verrebbe violato il
principio di parità di trattamento dei candidati.
37. La domanda del giudice del rinvio riguarda, in ultimo luogo, gli
effetti che occorre collegare alla presentazione, da parte di un candidato, di
un ricorso amministrativo o giurisdizionale contro le constatazioni delle
autorità competenti in materia tributaria o previdenziale, al fine di considerare
se tale candidato sia in regola con i suoi obblighi in vista della sua
ammissione a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico.
38. Occorre considerare che il rinvio al diritto nazionale effettuato dall’art.
29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva è valido anche per quanto
riguarda tale questione. Tuttavia, gli effetti della presentazione di un ricorso
amministrativo o giurisdizionale sono strettamente collegati all’esercizio e
alla salvaguardia dei diritti fondamentali relativi alla tutela giurisdizionale, il
cui rispetto è anch’esso assicurato dall’ordinamento giuridico comunitario.
Una normativa nazionale che ignorasse totalmente gli effetti della presentazione
di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sulla possibilità di partecipare
ad una procedura di aggiudicazione di appalto rischierebbe di violare
i diritti fondamentali degli interessati.
40. Occorre quindi risolvere le questioni poste nel senso che l’art. 29,
primo comma, lett. e) e f), della direttiva non si oppone ad una normativa o
ad una prassi amministrativa nazionali in base alle quali un prestatore di servizi
che, alla data di scadenza per la presentazione della domanda di partecipazione
alla gara, non ha adempiuto, effettuando integralmente il pagamento
corrispondente, i suoi obblighi in materia di contributi previdenziali e di
imposte e tasse, può regolarizzare la sua situazione successivamente
– in forza di misure di condono fiscale o di sanatoria adottate dallo Stato, o
– in forza di un concordato al fine di una rateizzazione o di una riduzione
dei debiti, o
– mediante la presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale,
a condizione che provi, entro il termine stabilito dalla normativa o dalla
prassi amministrativa nazionali, di aver beneficiato di tali misure o di un tale
concordato, o che abbia presentato un tale ricorso entro questo termine.
58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
CONCORRENZA
– Aiuti di Stato
Sentenza della Corte, sezione seconda, 10 gennaio 2006, nella causa C-
222/04. Ministero dell’Economia e della Finanza contro Cassa di
Risparmio di Firenze ed altre.
La Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato ha chiesto all’amministrazione
fiscale italiana, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 1745/62,
l’esenzione dalla ritenuta sui dividendi ad essa spettanti per l’esercizio 1998
relativamente alla sua partecipazione nella Cassa di Risparmio di San
Miniato e nella società Casse Toscane S.p.A., alla quale è subentrata la
Cassa di Risparmio di Firenze.
La domanda è stata respinta con la motivazione che la gestione, da parte
di una fondazione bancaria, delle proprie partecipazioni in società bancarie
deve essere considerata un’attività commerciale incompatibile con
l’art. 10 bis della legge n. 1745/62.
Secondo il giudice della causa principale, la Commissione tributaria
regionale di Firenze ha ritenuto che la Fondazione Cassa di Risparmio di
San Miniato, a causa dei suoi scopi di interesse pubblico e utilità sociale in
determinati settori, avesse diritto alla riduzione del 50% dell’imposta sul
reddito delle persone giuridiche ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 601/73, e
che tale riduzione si accompagnasse all’esenzione dalla ritenuta ai sensi
dell’art. 10 bis della legge n. 1745/62, indipendentemente dal fatto che una
fondazione bancaria possa esercitare, non a titolo principale, attività economica
d’impresa.
Sempre secondo il giudice della causa principale, la Commissione tributaria
regionale di Firenze ha richiamato, sul punto, la nuova disciplina
introdotta dalla legge n. 461/98 e dal decreto legislativo n. 153/99, che esplicitamente
prevedrebbe l’applicabilità alle fondazioni bancarie dell’agevolazione
fiscale in questione.
Essa ha ritenuto che, nella vicenda posta alla sua attenzione, non fosse
stata dimostrata la prevalenza di un’attività economica d’impresa sugli
scopi di utilità sociale.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha proposto ricorso in cassazione
contro tale decisione decudendo, in particolare , la violazione dell’art.
10 bis della legge n. 1745/62, dell’art. 6 del DPR n. 601/73 e dell’art.
14 delle disposizioni preliminari al codice civile italiano, ai sensi del
quale le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
Nell’ordinanza di rinvio, la Corte suprema di cassazione rileva che la
decisione della causa principale sulla base del diritto nazionale deve tenere
conto del problema della compatibilità del regime fiscale delle fondazioni
bancarie con il diritto comunitario, in particolare con gli artt. 12 CE, 43 CE
e segg., 56 CE e segg., nonché 87 CE e 88 CE. Essa sottolinea che, secondo
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59
la costante giurisprudenza della Corte, le autorità nazionali devono applicare,
anche d’ufficio, le norme del diritto comunitario, eventualmente disapplicando
le disposizioni nazionali con esse in contrasto.
1. Una volta che una questione pregiudiziale, avente ad oggetto la validità
di una decisione della Commissione, è stata posta d’ufficio dal giudice
del rinvio e non su richiesta di un soggetto che, pur potendo proporre un
ricorso di annullamento avverso la medesima, non lo abbia fatto nei termini
previsti dall’art. 230 CE, la detta questione pregiudiziale non può essere
dichiarata irricevibile a causa di quest’ultima circostanza.
2. La Corte può decidere di non pronunciarsi su una questione pregiudiziale
relativa alla validità di un atto comunitario quando appare manifestamente
evidente che tale valutazione, chiesta dal giudice nazionale, non ha
alcuna relazione con le circostanze concrete o con l’oggetto della causa principale.
3. Nell’ambito del diritto della concorrenza il concetto di «impresa»
comprende qualsiasi ente che eserciti un’attività economica, a prescindere
dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento.
Costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire
beni o servizi su un determinato mercato. Benché, nella maggior parte dei
casi, l’attività economica sia svolta direttamente sul mercato, non è tuttavia
escluso che essa sia il prodotto nel contempo di un operatore in contatto
diretto con il mercato e, indirettamente, di un altro soggetto controllante tale
operatore nell’ambito di un’unità economica che essi formano insieme.
Atale proposito, il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo,
non è sufficiente a configurare un’attività economica del soggetto che
detiene tali partecipazioni, quando tale possesso dà luogo soltanto all’esercizio
dei diritti connessi alla qualità di azionista o di socio nonché, eventualmente,
alla percezione dei dividendi, semplici frutti della proprietà di un
bene. Viceversa, un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in
una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente
o indirettamente alla gestione di essa, dev’essere considerato partecipe dell’attività
economica svolta dall’impresa controllata e, dunque, anche questo
soggetto dev’essere considerato, a tale titolo, un’impresa ai sensi dell’art. 87,
n. 1, CE.
Diversamente, la semplice suddivisione di un’impresa in due enti distinti,
uno con il compito di svolgere direttamente l’attività economica precedente
e il secondo con quello di controllare il primo, intervenendo nella sua
gestione, sarebbe sufficiente a privare della loro efficacia pratica le norme
comunitarie relative agli aiuti di Stato. Ciò consentirebbe al secondo ente di
beneficiare di sovvenzioni o di altri vantaggi concessi dallo Stato o grazie a
risorse statali e di utilizzarle in tutto o in parte a beneficio del primo, sempre
nell’interesse dell’unità economica costituita dai due enti.
Di conseguenza, può essere qualificata come «impresa» ai sensi dell’art.
87, n. 1, CE e, pertanto, essere sottoposta alle norme comunitarie in
materia di aiuti di Stato una persona giuridica configurata come una fonda-
60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zione bancaria che controlla il capitale di una società bancaria, il cui regime
contiene norme le quali configurano un ruolo che va al di là della semplice
collocazione di capitali da parte di un investitore, rendono possibile lo svolgimento
di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario,
e dimostrano pertanto l’esistenza di legami organici e funzionali tra le
fondazioni bancarie e le società bancarie.
4. Una persona giuridica configurata come una fondazione bancaria, la
cui attività si limita al versamento di contributi ad enti senza scopo di lucro,
non può essere qualificata come «impresa» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE.
Infatti, una tale attività ha natura esclusivamente sociale, e non è svolta su un
mercato in concorrenza con altri operatori. Nello svolgere tale attività una
fondazione bancaria agisce come un ente di beneficenza o un’organizzazione
caritativa, e non come un’impresa.
Viceversa, quando una fondazione bancaria, agendo direttamente negli
ambiti di interesse pubblico e utilità sociale, fa uso dell’autorizzazione conferitale
dal legislatore nazionale ad effettuare operazioni finanziarie, commerciali,
immobiliari e mobiliari necessarie e opportune per realizzare gli
scopi che le sono prefissi, essa può offrire beni o servizi sul mercato in concorrenza
con altri operatori, ad esempio in settori come la ricerca scientifica,
l’educazione, l’arte o la sanità.
In tale ipotesi, una siffatta fondazione bancaria dev’essere considerata
come un’impresa, in quanto svolge un’attività economica, nonostante il fatto
che l’offerta di beni o servizi sia fatta senza scopo di lucro, poiché tale offerta
si pone in concorrenza con quella di operatori che invece tale scopo perseguono,
e devono pertanto applicarsi ad essa le norme comunitarie sugli
aiuti di Stato.
5. Il concetto di aiuto è più ampio di quello di sovvenzione, poiché esso
vale a designare non soltanto prestazioni positive, come le sovvenzioni stesse,
ma anche interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente
gravano sul bilancio di un’impresa e che, di conseguenza, senza
essere sovvenzioni in senso stretto, hanno la stessa natura e producono identici
effetti.
Ne deriva che una misura con la quale le autorità pubbliche accordano a
talune imprese un’esenzione fiscale che, pur non comportando un trasferimento
di risorse statali, pone i beneficiari in una situazione finanziaria più
favorevole rispetto agli altri contribuenti costituisce un aiuto di Stato ai sensi
dell’art. 87, n. 1, CE. Allo stesso modo, può costituire un aiuto di Stato una
misura che conceda a talune imprese una riduzione di imposta o un rinvio del
pagamento del tributo normalmente dovuto.
6. Un’agevolazione fiscale concessa a determinate imprese in considerazione
della loro natura giuridica, persona giuridica di diritto pubblico o fondazione,
e dei settori in cui esse svolgono la propria attività, non si applica a
tutti gli operatori economici e non può quindi essere considerata una misura
generale di politica fiscale o economica, per cui essa è selettiva.
7. L’art. 87, n. 1, CE vieta gli aiuti che incidono sugli scambi tra Stati
membri e falsano o minacciano di falsare la concorrenza. Per qualificare una
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61
misura nazionale come aiuto di Stato vietato non è necessario dimostrare
un’incidenza effettiva di tale aiuto sugli scambi tra gli Stati membri e un’effettiva
distorsione della concorrenza, ma basta esaminare se l’aiuto sia idoneo
a incidere su tali scambi e a falsare la concorrenza. In particolare, quando
l’aiuto concesso da uno Stato membro rafforza la posizione di un’impresa
rispetto ad altre imprese concorrenti nell’ambito degli scambi intracomunitari,
questi ultimi devono ritenersi influenzati dall’aiuto. A tale proposito,
il fatto che un settore economico sia stato oggetto di liberalizzazione a livello
comunitario evidenzia un’incidenza reale o potenziale degli aiuti sulla
concorrenza, nonché gli effetti di tali aiuti sugli scambi tra Stati membri.
Non è peraltro necessario che l’impresa beneficiaria partecipi essa stessa
agli scambi intracomunitari. Infatti, quando uno Stato membro concede un
aiuto ad un’impresa, l’attività sul mercato nazionale può essere mantenuta o
incrementata, con la conseguente diminuzione delle possibilità per le imprese
con sede in altri Stati membri di penetrare nel mercato di tale Stato membro.
Inoltre, il rafforzamento di un’impresa che fino a quel momento non
partecipava a scambi intracomunitari può metterla nella condizione di penetrare
nel mercato di un altro Stato membro.
8. Un’esenzione dalla ritenuta sui dividendi spettanti a fondazioni bancarie,
titolari di partecipazioni in società bancarie, le quali perseguono esclusivamente
scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca
scientifica, può essere qualificata come aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87,
n. 1, CE. Infatti, una siffatta misura nazionale comporta un finanziamento
statale. Per di più, essa è selettiva. Infine, una siffatta agevolazione si applica
nel settore dei servizi finanziari che è stato oggetto di un rilevante processo
di liberalizzazione a livello comunitario, che ha accentuato la concorrenza
che già poteva derivare dalla libera circolazione dei capitali prevista dal
Trattato, e può rafforzare, da un lato, in termini di finanziamento e/o di liquidità,
la posizione dell’unità economica, attiva nel settore bancario, costituita
dalla fondazione bancaria e dalla società bancaria, e, dall’altro, la posizione
della fondazione bancaria in un’attività svolta, in particolare, in un settore
sociale, scientifico o culturale.
– Libertà di stabilimento
Sentenza della Corte, sezione terza, 30 marzo 2006, nella causa C-451/03
– Servizi ausiliari dottori commercialisti s.r. contro G.C.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 4 CE, 10 CE, 82 CE, 86 CE e 98 CE in materia di concorrenza, degli
artt. 43 CE, 48 CE e 49 CE in materia di diritto di stabilimento e di libera
prestazione dei servizi, e dell’art. 87 CE in materia di aiuti di Stato.
La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la
società Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti Srl (in prosieguo: l’«ADC
Servizi») e il sig. G.C., notaio, relativamente al rifiuto di quest’ultimo di pro-
62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
cedere all’iscrizione nel registro delle imprese di Milano della decisione
adottata dall’assemblea generale di tale società di modificare lo statuto di
quest’ultima.
Il notaio verbalizzante, ha rifiutato di procedere all’iscrizione di questa
decisione nel registro delle imprese di Milano, ritenendo che la modifica
dello statuto, con la quale si autorizzava la società ad esercitare le dette attività
di assistenza fiscale, fosse incompatibile con l’art. 34 del decreto legislativo
n. 241/97.
1. Il semplice fatto di creare una posizione dominante mediante la concessione
di diritti speciali o esclusivi ai sensi dell’art. 86, n. 1, CE non è, in
sé e per sé, incompatibile con l’art. 82 CE. Uno Stato membro viola i divieti
sanciti da queste due disposizioni solo quando l’impresa di cui trattasi è
indotta, con il mero esercizio di diritti speciali o esclusivi che le sono attribuiti,
a sfruttare abusivamente la sua posizione dominante, o quando questi
diritti sono idonei a creare una situazione in cui l’impresa è indotta a commettere
tali abusi.
2. Allorché, nell’ambito di una questione pregiudiziale, l’insieme degli
elementi dell’attività di cui trattasi nella causa principale si colloca all’interno
di un solo Stato membro, una soluzione può tuttavia risultare utile al giudice
del rinvio, in particolare nell’ipotesi in cui il suo diritto nazionale
imponga di far beneficiare un cittadino del detto Stato membro degli stessi
diritti di cui godrebbe, in base al diritto comunitario, un cittadino di un altro
Stato membro nella medesima situazione. Una tale questione deve quindi
essere dichiarata ricevibile poiché occorre così esaminare se le disposizioni
del Trattato, di cui è chiesta l’interpretazione, si oppongano all’applicazione
di una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nella causa principale,
laddove essa verrebbe applicata a soggetti che risiedono in altri Stati
membri.
3. Gli artt. 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che si
oppongono ad una normativa nazionale che riserva il diritto di esercitare
talune attività di consulenza e di assistenza in materia fiscale esclusivamente
a centri di assistenza fiscale che devono essere costituiti sotto forma di
società di capitali, esercitare la loro attività previa autorizzazione del
Ministero delle Finanze e possono essere costituiti solo dai soggetti indicati
dal decreto legislativo. Infatti, una tale normativa, da un lato, impedisce
totalmente l’accesso al mercato dei servizi di cui trattasi agli operatori economici
stabiliti in altri Stati membri e, dall’altro, limitando la possibilità di
costituire CAF a taluni soggetti che soddisfano condizioni tassative e a taluni
di questi soggetti aventi la loro sede nello Stato membro interessato, è,
infatti, idonea a rendere più difficile, se non ad impedire totalmente, l’esercizio
da parte degli operatori economici provenienti da altri Stati membri del
loro diritto di stabilirsi nello Stato membro di cui trattasi al fine di fornire i
servizi in questione.
4. Una misura con cui uno Stato membro prevede il versamento di compensi
a carico del bilancio dello Stato a favore di talune imprese incaricate
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63
di assistere i contribuenti, per quanto riguarda l’elaborazione e l’invio delle
dichiarazioni tributarie all’amministrazione finanziaria, dev’essere qualificata
come aiuto di Stato a sensi dell’art. 87, n. 1, CE allorché, da un lato, il
livello del compenso eccede quanto necessario per coprire interamente o in
parte i costi originati dall’adempimento, degli obblighi di servizio pubblico,
tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole
per il suddetto adempimento e, dall’altro, il compenso non è determinato
sulla base di un’analisi dei costi che un’impresa media, gestita in modo efficiente
e adeguatamente dotata di mezzi necessari al fine di poter soddisfare
le esigenze di servizio pubblico richieste, avrebbe dovuto sopportare per
adempiere tali obblighi, tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine
di utile ragionevole per l’adempimento di tali obblighi.
Sentenza della Corte, sezione terza, 13 luglio 2006, – V.M. (causa C-
295/04) Contro Lloyd Adriatico Assicurazioni SpA, A.C. (causa C-
296/04) contro Fondiaria Sai SpA, e N. T. (causa C-297/04), P. M. (causa
C-298/04) contro Assitalia SpA.
Le questioni sono state sollevate nell’ambito di azioni di risarcimento
danni proposte dal sig. V.M. contro la Lloyd Adriatico Assicurazioni S.p.A., dal
sig. Cannito contro la Fondiaria Sai S.p.A. e, rispettivamente, dal
sig. Tricarico e dalla sig.ra P.M. contro l’Assitalia S.p.A. per far condannare
le dette compagnie di assicurazioni alla restituzione delle maggiorazioni dei
premi dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile relativa ai
sinistri causati da autoveicoli, natanti e ciclomotori , maggiorazioni versate a
seguito degli aumenti applicati dalle dette società in forza di un’intesa dichiarata
illecita dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato Le domande
di pronuncia pregiudiziale riguardano l’interpretazione dell’art. 81 CE.
1. Gli artt. 81 CE e 82 CE costituiscono disposizioni di ordine pubblico
che devono essere applicate d’ufficio dai giudici nazionali.
2. Un’intesa o una pratica concordata tra compagnie di assicurazioni,
consistente in uno scambio reciproco di informazioni tale da permettere un
aumento dei premi dell’assicurazione responsabilità civile obbligatoria relativa
ai sinistri causati da autoveicoli, natanti e ciclomotori, non giustificato
dalle condizioni di mercato, che costituisce una violazione delle norme
nazionali sulla tutela della concorrenza, può altresì costituire una violazione
dell’art. 81 CE se, in considerazione delle caratteristiche del mercato nazionale
di cui trattasi, appaia sufficientemente probabile che l’intesa o la pratica
concordata in esame possa avere un’influenza diretta o indiretta, attuale o
potenziale, sulla vendita delle polizze della detta assicurazione nello Stato
membro interessato da parte di operatori stabiliti in altri Stati membri e che
tale influenza non sia insignificante.
3. L’art. 81, n. 1, CE produce effetti diretti nei rapporti tra i singoli e
attribuisce direttamente a questi diritti che i giudici nazionali devono tutela-
64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
re. Ne consegue che qualsiasi singolo è legittimato a far valere la nullità di
un’intesa o di una pratica vietata dall’art. 81 CE e, ove sussista un nesso di
causalità tra quest’ultima e il danno subito, a chiedere il risarcimento del
detto danno.
In mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento
giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità di esercizio
di tale diritto, comprese quelle relative all’applicazione della nozione di «nesso
di causalità», purché tali modalità non siano meno favorevoli di quelle che
riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né rendano
praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti
conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).
4. In mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento
giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici
competenti a conoscere dei ricorsi per risarcimento danni fondati su una violazione
delle regole di concorrenza comunitarie e stabilire le modalità procedurali
di tali ricorsi, purché le disposizioni di cui trattasi non siano meno
favorevoli di quelle relative ai ricorsi per risarcimento danni fondati su una
violazione delle norme nazionali in materia di concorrenza (principio di
equivalenza) e le dette disposizioni nazionali non rendano praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di chiedere il
risarcimento del danno causato da un’intesa o da una pratica vietata dall’art.
81 CE (principio di effettività).
5. In mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento
giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire il termine di
prescrizione per chiedere il risarcimento del danno causato da un’intesa o da
una pratica vietata dall’art. 81 CE, purché siano rispettati i principi di equivalenza
e di effettività.
A tale riguardo, è compito del giudice nazionale verificare se una norma
nazionale in virtù della quale il termine di prescrizione per chiedere il risarcimento
del danno causato da un’intesa o da una pratica vietata
dall’art. 81 CE decorre a partire dal giorno in cui tale intesa o tale pratica vietata
è stata posta in essere – in particolare qualora tale norma nazionale preveda
anche un termine di prescrizione breve e tale termine non possa essere
sospeso – renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio
del diritto di chiedere il risarcimento del danno subìto.
6. In mancanza di disposizioni di diritto comunitario in materia, spetta
all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i criteri
che consentono la determinazione dell’entità del risarcimento del danno
causato da un’intesa o da una pratica vietata dall’art. 81 CE, purché siano
rispettati i principi di equivalenza e di effettività.
Pertanto, da un lato, in conformità del principio di equivalenza, se un
risarcimento danni particolare, come il risarcimento esemplare o punitivo,
può essere riconosciuto nell’ambito di azioni nazionali analoghe alle azioni
fondate sulle regole comunitarie di concorrenza, esso deve poterlo essere
anche nell’ambito di queste ultime azioni. Tuttavia, il diritto comunitario non
osta a che i giudici nazionali vigilino affinché la tutela dei diritti garantiti
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65
dall’ordinamento giuridico comunitario non comporti un arricchimento
senza causa degli aventi diritto.
D’altro lato, dal principio di effettività e dal diritto del singolo di chiedere
il risarcimento del danno causato da un contratto o da un comportamento
idoneo a restringere o a falsare il gioco della concorrenza discende che le
persone che hanno subìto un danno devono poter chiedere il risarcimento
non solo del danno reale (damnum emergens), ma anche del mancato guadagno
(lucrum cessans), nonché il pagamento di interessi.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 marzo 2006, nella causa C-
237/04 – Enirisorse SpA contro Sotacarbo S.p.A.
La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra
l’Enirisorse S.p.A. e la Sotacarbo S.p.A. in merito al diniego di quest’ultima
di rimborsare all’Enirisorse il controvalore delle azioni che essa deteneva
nella Sotacarbo al momento del suo recesso dal capitale della Sotacarbo
stessa. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione
degli artt. 43 CE, 44 CE, 48 CE, 49 CE e segg. in materia di libertà di stabilimento
e di libera prestazione dei servizi nonché dell’art. 87 CE.
Ai sensi dell’art. 5 della legge 27 giugno 1985, n. 351 (GURI n. 166 del
16 luglio 1985, pag. 5019; in prosieguo: la «legge n. 351/1985»): L’ENI,
l’ENEL e l’ENEA sono autorizzati a costituire una società per azioni avente
la finalità di sviluppare tecnologie innovative e avanzate nell’utilizzazione
del carbone (arricchimento, tecniche di combustione, liquefazione, gasificazione,
carbochimica ecc.) , che ha assunto la denominazione Sotocarbo
Nel 1992, l’ENI e l’ENEL venivano privatizzate e trasformate in società
per azioni. L’ENI, non più interessata a mantenere la propria partecipazione
nella Sotacarbo, trasferiva tale partecipazione alla propria consociata
Enirisorse. Quest’ultima, in applicazione dell’art. 7, n. 4, della legge
n. 140/1999, esercitava la sua facoltà di recesso dalla Sotacarbo ed effettuava
il versamento di un importo equivalente alle quote non ancora conferite
della sua partecipazione. Contemporaneamente, chiedeva alla Sotacarbo il
rimborso delle sue azioni in proporzione al capitale sociale di quest’ultima.
La Sotacarbo non accoglieva tale richiesta e, il 12 marzo 2001, comunicava
all’Enirisorse che, in occasione dell’assemblea straordinaria del 12
febbraio dello stesso anno, era stato deciso di annullare le azioni
dell’Enirisorse senza procedere al rimborso del loro controvalore.
L’Enirisorse proponeva ricorso dinanzi al Tribunale di Cagliari per ottenere
il rimborso del valore delle azioni controverse. A sostegno del ricorso essa
affermava che l’art. 7, comma 4, della legge n. 140/1999 le riconosceva il diritto
di recedere dalla Sotacarbo e che, conformemente all’art. 2437 del Codice
civile, quest’ultima era tenuta a rimborsarle il valore delle azioni in questione.
L’art. 33 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Supplemento ordinario
alla GURI n. 293 del 14 dicembre 2002; in prosieguo: la «legge
n. 273/2002»), così dispone:
66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
«Al fine di garantire le disponibilità finanziarie necessarie all’attuazione
da parte della Sotacarbo Spa del piano di attività di cui all’articolo 7,
comma 5, della legge 11 maggio 1999, n. 140, i soci della medesima società
sono tenuti al versamento delle quote di capitale non ancora conferite
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e
hanno facoltà di recesso previa rinuncia ad ogni diritto sul patrimonio della
società e previo conferimento delle quote ancora dovute. Le dichiarazioni di
recesso già comunicate alla Sotacarbo Spa ai sensi dell’articolo 7, comma
4, della citata legge n. 140 del 1999, possono essere revocate entro trenta
giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Decorso tale termine,
il recesso si intende perfezionato con piena accettazione da parte del
socio recedente delle condizioni sopra precisate».
In considerazione dell’’entrata in vigore della legge n. 273/2002, adottata
successivamente alla proposizione del ricorso da parte dell’Enirisorse
e, in particolare, dell’art. 33 della medesima legge, l’Enirisorse chiedeva al
detto giudice di sottoporre alla Corte la questione se, in particolare, un
provvedimento come quello previsto dall’art. 33 della menzionata legge
costituisca un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87 CE.
23. (…) la valutazione della compatibilità con il mercato comune di
misure di aiuto o di un regime di aiuti rientra nella competenza esclusiva
della Commissione, che opera sotto il controllo del giudice comunitario (sentenze
21 novembre 1991, causa C-354/90, Fédération nationale du commerce
extérieur des produits alimentaires et Syndicat national des négociants et
transformateurs de saumon, Racc. pag. I-5505, punto 14; 11 luglio 1996,
causa C-39/94, SFEI e a., Racc. pag. I-3547, punto 42, e Piaggio, cit.,
punto 31). Di conseguenza, un giudice nazionale non può, nell’ambito di un
rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE, interrogare la Corte sulla compatibilità
con il mercato comune di un aiuto di Stato o di un regime di aiuti (ordinanza
24 luglio 2003, causa C-297/01, Sicilcassa e a., Racc. pag. I-7849,
punto 47).
24. Tuttavia, la Corte ha altresì reiteratamente affermato che, per quanto
non le spetti di pronunciarsi, nell’ambito di un procedimento promosso ai
sensi dell’art. 234 CE, sulla compatibilità di norme di diritto interno con il
diritto comunitario, né interpretare disposizioni legislative o regolamentari
nazionali, essa è tuttavia competente a fornire al giudice nazionale tutti gli
elementi di interpretazione attinenti al diritto comunitario che gli consentano
di pronunciarsi su tale compatibilità per la definizione della causa per la
quale è adito (v., in particolare, sentenze 15 dicembre 1993, causa C-292/92,
Hünermund e a., Racc. pag. I-6787, punto 8; 3 maggio 2001, causa C-28/99,
Verdonck e a., Racc. pag. I-3399, punto 28; 12 luglio 2001, causa C-399/98,
Ordine degli Architetti e a., Racc. pag. I-5409, punto 48, e 27 novembre
2001, cause riunite C-285/99 e C-286/99, Lombardini e Mantovani,
Racc. pag. I-9233, punto 27).
28. (...) nell’ambito del diritto della concorrenza la nozione di impresa
abbraccia qualsiasi soggetto che eserciti un’attività economica, a prescinde-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67
re dallo status giuridico di tale soggetto e dalle sue modalità di finanziamento
(v., in particolare, sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner e Elser,
Racc. pag. I-1979, punto 21; 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany,
Racc. pag. I-5751, punto 77; 12 settembre 2000, cause riunite da C-180/98 a
C-184/98, Pavlov e a., Racc. pag. I-6451, punto 74, e 10 gennaio 2006, causa
C-222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., Racc. pag. I-289, punto 107).
29. Costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire
beni o servizi su un determinato mercato (sentenze 16 giugno 1987, causa
118/85, Commissione/Italia, Racc. pag. 2599, punto 7; 18 giugno 1998, causa
C-35/96, Commissione /Italia, Racc. pag. I-3851, punto 36; Pavlov e a., cit.,
punto 75, e Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., punto 108).
31. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 25 delle
sue conclusioni, alla Sotacarbo è affidato, in particolare, il compito di sviluppare
nuove tecnologie di impiego del carbone e di prestare servizi di sostegno
specializzato alle amministrazioni, agli enti pubblici e alle società interessate
allo sviluppo di tali tecnologie. Orbene, l’attività economica di
un’impresa generalmente consiste proprio in questo tipo di attività.
D’altronde, la circostanza che la Sotacarbo persegua un fine di lucro non è
contestata.
32. Contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, tale valutazione
non è rimessa in discussione dalla circostanza che la Sotacarbo sia stata
costituita da imprese pubbliche e finanziata con risorse provenienti dallo
Stato italiano per esercitare talune attività di ricerca.
33. Infatti, da un lato, risulta da costante giurisprudenza che le modalità
di finanziamento non sono rilevanti per stabilire se un soggetto eserciti
un’attività economica (v. punto 28 della presente sentenza).
34 Dall’altro, la Corte ha già avuto modo di affermare che la circostanza
che ad un soggetto siano attribuiti taluni compiti di interesse generale non
può impedire che le attività di cui trattasi siano considerate attività economiche
(v., in tal senso, sentenza 25 ottobre 2001, causa C-475/99, Ambulanz
Glöckner, Racc. pag. I-8089, punto 21).
38. (…) affinché una misura possa essere qualificata come aiuto di Stato,
devono ricorrere tutte le condizioni di cui all’art. 87, n. 1, CE (v. sentenze 21
marzo 1990, causa C-142/87, Belgio/Commissione, detta «Tubemeuse»,
Racc. pag. I-959, punto 25; 14 settembre 1994, cause riunite da C-278/92 a
C-280/92, Spagna/Commissione, Racc. pag. I-4103, punto 20; 16 maggio
2002, causa C-482/99, Francia/Commissione, Racc. pag. I-4397, punto 68, e
24 luglio 2003, causa C-280/00, Altmark Trans e Regierungspräsidium
Magdeburg, Racc. pag. I-7747, punto 74).
39. Così, in primo luogo, deve trattarsi di un intervento dello Stato o
effettuato mediante risorse statali. In secondo luogo, tale intervento deve
poter incidere sugli scambi tra Stati membri. In terzo luogo, deve concedere
un vantaggio al suo beneficiario. In quarto luogo, deve falsare o minacciare
di falsare la concorrenza (v. sentenze Altmark Trans e Regierungspräsidium
Magdeburg, cit., punto 75, e 3 marzo 2005, causa C-172/03, Heiser,
Racc. pag. I-1627, punto 27).
68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
42. A tale riguardo occorre ricordare che da costante giurisprudenza
risulta che la nozione di aiuto vale a designare non soltanto prestazioni positive,
ma anche interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente
gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza
essere sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono
identici effetti (v., segnatamente, sentenze 8 novembre 2001, causa
C-143/99, Adria-Wien Pipeline e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke,
Racc. pag. I-8365, punto 38, e Heiser, cit., punto 36).
43. Nella specie, si deve rilevare che le leggi nn. 140/1999 e 273/2002 –
che, come ricordato dall’avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni,
non possono essere considerate isolatamente – istituiscono un regime
derogatorio alle disposizioni di diritto comune che disciplinano il diritto di
recesso degli azionisti di società per azioni, regime derivante, in particolare,
dall’art. 2437 del Codice civile. Infatti, tale disposizione attribuisce il diritto
di recesso esclusivamente agli azionisti contrari alle decisioni riguardanti il
cambiamento di oggetto o di tipo di società, ovvero il trasferimento della
sede sociale all’estero.
46. Orbene, tale diritto non può essere considerato quale aiuto a favore
della Sotacarbo, ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE.
47. Infatti, come giustamente rileva la Commissione, la normativa
nazionale in discussione nella causa principale non attribuisce alcun aiuto
né agli azionisti, che possono recedere eccezionalmente dalla Sotacarbo
senza ottenere il rimborso delle loro azioni, né alla detta società, in quanto
gli azionisti sono autorizzati ma non obbligati a recedere dalla società
anche quando i requisiti previsti al riguardo dal diritto comune non siano
soddisfatti.
48. Ne consegue che la legge n. 273/2002 si limita ad evitare che sul
bilancio della Sotacarbo gravi un onere che, in circostanze normali, non
sarebbe esistito. Pertanto, tale legge disciplina esclusivamente il diritto di
recesso eccezionale concesso agli azionisti di tale società dalla legge
n. 140/1999 senza essere diretta ad alleviare un onere che tale società avrebbe
dovuto normalmente sopportare.
49. A tale proposito occorre aggiungere che, se l’art. 33 della legge
n. 273/2002 avesse escluso il diritto al rimborso anche nel caso di un recesso
esercitato in presenza dei requisiti previsti dall’art. 2437 del Codice civile,
la detta disposizione avrebbe potuto costituire un vantaggio ai sensi dell’art.
87, n. 1, CE. Orbene, dagli atti sottoposti alla Corte non risulta che questo
avvenga.
50. Dal momento che le condizioni previste all’art. 87, n. 1, CE sono
cumulative (v. punto 38 della presente sentenza), non occorre esaminare se
gli altri elementi della nozione di aiuto di Stato ricorrano nella specie.
51. (…) una normativa nazionale come quella oggetto della causa principale,
che accordi ai soci di una società controllata dallo Stato una facoltà,
derogatoria rispetto al diritto comune, di recesso da tale società a condizione
di rinunciare a qualsiasi diritto sul patrimonio della società stessa, non
può essere qualificata come aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87 CE.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69
COOPERAZIONE GIUDIZIARIA
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 2 maggio 2006 , nel procedimento
C-341/04 - Eurofood IFSC Ltd.
L’Eurofood è stata registrata in Irlanda nel 1997 come «company limited
by shares» (società in accomandita per azioni), avente la propria sede statutaria
nell’International Financial Services Center a Dublino. Si tratta di una
società controllata detenuta al 100 % dalla Parmalat SpA, società di diritto
italiano. Il suo scopo principale consisteva nel fornire agevolazioni di finanziamento
alle società del gruppo Parmalat.
In data 24 dicembre 2003, ai sensi del decreto legge 23 dicembre 2003,
n. 347, recante misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi
imprese in stato di insolvenza (GURI n. 298 del 24 dicembre 2003, pag. 4),
il Ministro delle Attività produttive ha ammesso la Parmalat SpA alla procedura
di amministrazione straordinaria, nominando il sig. B. amministratore
straordinario di tale società.
In data 27 gennaio 2004, la Bank of America NA ha chiesto alla High
Court (Irlanda) l’apertura di una procedura di liquidazione coatta («compulsory
winding up by the Court») nei confronti della Eurofood, oltre che la
nomina di un curatore provvisorio. Tale domanda era basata sull’affermazione
dell’insolvenza di tale società.
Il giorno stesso la High Court, sulla base di tale domanda, ha nominato
il sig. F. curatore provvisorio («provisional liquidator»), conferendogli il
potere di prendere possesso di tutti i beni di tale società, di gestirne gli affari,
di aprire un conto bancario a nome della stessa e di ricorrere alle prestazioni
di un consulente.
In data 9 febbraio 2004, il Ministro italiano delle Attività produttive ha
ammesso l’Eurofood alla procedura di amministrazione straordinaria, nominando
il sig. B. amministratore straordinario.
In data 10 febbraio 2004, è stata depositata presso il Tribunale civile e
penale di Parma una domanda tendente a far dichiarare l’insolvenza della
Eurofood. L’udienza è stata fissata per il 17 febbraio 2004, data della quale
il sig. F. è stato informato il 13 febbraio. In data 20 febbraio 2004 tale giudice,
ritenendo che il centro degli interessi principali della Eurofood fosse in
Italia, ha dichiarato la propria competenza internazionale per dichiarare lo
stato di insolvenza di tale società.
Con sentenza 23 marzo 2004, la High Court ha ritenuto che, secondo la
legge irlandese, la procedura di insolvenza nei confronti della Eurofood
fosse stata aperta in Irlanda alla data della domanda presentata a tal fine dalla
Bank of America NA, cioè il 27 gennaio 2004. Ritenendo che il centro degli
interessi principali della Eurofood si trovasse in Irlanda, la High Court ha
ritenuto che la procedura aperta in tale Stato membro fosse quella principale.
Essa ha altresì considerato che le condizioni dello svolgimento della procedura
dinanzi al Tribunale civile e penale di Parma fossero tali da giustificare,
ai sensi dell’art. 26 del regolamento, il rifiuto, da parte dei giudici irlan-
70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
desi, di riconoscere la decisione di tale Tribunale. Constatata l’insolvenza
della Eurofood, la High Court ha ordinato la liquidazione di tale società,
nominando liquidatore il sig. F.
Poiché il sig. B. ha proposto appello contro tale decisione, la Supreme
Court ha ritenuto necessario, prima di pronunciarsi sulla controversia sottopostale,
proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
La Supreme Court ha ritenuto necessario, prima di pronunciarsi sulla
controversia sottopostale, sospendere il giudizio e proporre alla Corte le
seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se, allorché ad un giudice competente viene presentata in Irlanda
una domanda di liquidazione (“winding up”) di una società insolvente e tale
giudice emette, in pendenza dell’emissione di un’ordinanza di liquidazione,
un’ordinanza di nomina di un curatore provvisorio (“provisional liquidator”)
munito del potere di prendere possesso degli attivi della società, amministrare
i suoi affari, aprire un conto corrente bancario e nominare un consulente,
tutto ciò con la conseguenza sul piano giuridico di privare del potere di agire
gli amministratori della società, codesta ordinanza combinata con la presentazione
della domanda costituisca una decisione di apertura della procedura
di insolvenza (“insolvency proceedings”) ai fini dell’art. 16 del regolamento
(…), interpretato alla luce degli artt. 1 e 2 dello stesso.
2) In caso di soluzione negativa della prima questione, se la presentazione,
in Irlanda, dinanzi alla High Court di una domanda di liquidazione coatta
(“compulsory winding up”) di una società ad opera del giudice costituisca
l’apertura della procedura di insolvenza (“insolvency proceedings”) ai fini di
tale regolamento in forza della disposizione legislativa irlandese [art. 220,
n. 2, del Companies Act], ai sensi della quale la liquidazione di una società
inizia alla data di presentazione della domanda.
3) Se l’art. 3 del suddetto regolamento, in combinato disposto con l’art. 16
dello stesso, abbia per effetto che un giudice di uno Stato membro diverso da
quello ove è situata la sede statutaria della società e diverso da quello ove la
società esercita in modo abituale la gestione dei suoi affari secondo modalità
riconoscibili da terzi, ma ove è stata inizialmente aperta la procedura di insolvenza,
sia competente ad aprire la procedura di insolvenza principale.
4) Se, laddove:
a) la sede statutaria di una società madre e della sua controllata sono in
due diversi Stati membri,
b) la controllata esercita in modo abituale la gestione dei suoi interessi
secondo modalità riconoscibili da terzi ed in osservanza completa e regolare
della sua stessa identità societaria nello Stato membro dove è situata la sua
sede statutaria, e
c) la società madre, grazie al suo azionariato ed al potere di nominare gli
amministratori, è in grado di controllare e di fatto controlla la gestione della
controllata,
per determinare il “centro degli interessi principali”, i fattori rilevanti siano
quelli menzionati alla lett. b) supra o, invece, quelli menzionati alla lett. c)
supra.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71
5) Se, quando il fatto di consentire che una decisione giudiziaria o amministrativa
produca effetti giuridici con riguardo a persone o enti i cui diritti ad
un procedimento corretto e ad un dibattimento equo non siano stati osservati
nel prendere una decisione siffatta sia manifestamente contrario all’ordine
pubblico di uno Stato membro, tale Stato membro sia obbligato, a norma dell’art.
17 del suddetto regolamento, a riconoscere una decisione dei giudici di
un altro Stato membro intesa ad aprire la procedura di insolvenza nei confronti
di una società, in una situazione in cui il giudice del primo Stato membro è
convinto che la decisione in questione sia stata emessa nell’inosservanza di tali
principi e, in particolare, laddove il ricorrente nel secondo Stato membro abbia
rifiutato, nonostante sollecitazioni e contrariamente all’ordinanza del giudice
del secondo Stato membro, di fornire al “provisional liquidator” della società,
debitamente nominato conformemente al diritto del primo Stato membro,
copia dei documenti essenziali che sono alla base della domanda».
1. Quando un debitore è una società controllata la cui sede statutaria è
situata in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede la sua società
madre, la presunzione contenuta nell’art. 3, n. 1, seconda frase, del regolamento
n. 1346/2000, secondo la quale il centro degli interessi principali di tale controllata
è collocato nello Stato membro in cui si trova la sua sede statutaria, può
essere superata soltanto se elementi obiettivi e verificabili da parte dei terzi
consentono di determinare l’esistenza di una situazione reale diversa da quella
che si ritiene corrispondere alla collocazione nella detta sede statutaria. Ciò
potrebbe, in particolare, valere per una società che non svolgesse alcuna attività
sul territorio dello Stato membro in cui è collocata la sua sede sociale. Per
contro, quando una società svolge la propria attività sul territorio dello Stato
membro in cui ha sede, il fatto che le sue scelte gestionali siano o possano essere
controllate da una società madre stabilita in un altro Stato membro non è sufficiente
per superare la presunzione stabilita dal regolamento.
2. L’art. 16, n. 1, primo comma, del regolamento n. 1346/2000 dev’essere
interpretato nel senso che la procedura di insolvenza principale aperta da
un giudice di uno Stato membro dev’essere riconosciuta dai giudici degli
altri Stati membri, senza che questi possano controllare la competenza del
giudice dello Stato di apertura. Infatti, la norma sulla priorità contenuta in
tale disposizione, la quale prevede che la procedura di insolvenza aperta in
uno Stato membro sia riconosciuta in tutti gli Stati membri dal momento in
cui essa produce i propri effetti nello Stato di apertura, poggia sul principio
della fiducia reciproca, che ha consentito la creazione di un sistema obbligatorio
di competenze e la correlativa rinuncia da parte degli Stati membri alle
loro norme interne di riconoscimento e di delibazione a favore di un meccanismo
semplificato di riconoscimento e di esecuzione delle decisioni pronunciate
nell’ambito di procedure di insolvenza. Se una parte interessata,
ritenendo che il centro degli interessi principali del debitore sia situato in uno
Stato membro diverso da quello in cui è stata aperta la procedura di insolvenza
principale, intende contestare la competenza ritenuta dal giudice che
ha aperto tale procedura, può utilizzare, davanti ai giudici dello Stato mem-
72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
bro in cui questa è stata aperta, i mezzi di ricorso previsti dal diritto nazionale
di tale Stato membro nei confronti della decisione di apertura.
3. L’art. 16, n. 1, primo comma, del regolamento n. 1346/2000 dev’essere
interpretato nel senso che costituisce una decisione di apertura della procedura
di insolvenza la decisione pronunciata da un giudice di uno Stato
membro investito di una domanda in tal senso, basata sull’insolvenza del
debitore e finalizzata all’apertura di una procedura di cui all’allegato A del
medesimo regolamento, allorché tale decisione comporta lo spossessamento
del debitore e comprende la nomina di un curatore previsto dall’allegato C
al citato regolamento. Tale spossessamento comporta che il debitore perda i
poteri di gestione da lui posseduti sul proprio patrimonio. Infatti, il sistema
che prevede che possa essere aperta una sola procedura principale, la quale
produce i suoi effetti in tutti gli Stati membri nei quali il regolamento è applicabile,
potrebbe essere gravemente perturbato se i giudici dei detti Stati,
investiti contemporaneamente di domande basate sull’insolvenza di un debitore,
potessero rivendicare una competenza concorrente per un periodo prolungato.
Occorre quindi, al fine di assicurare l’efficacia del sistema istituito
dal regolamento, che il principio di riconoscimento previsto da tale disposizione
possa applicarsi appena possibile nel corso della procedura.
4. L’art. 26 del regolamento n. 1346/2000 dev’essere interpretato nel senso
che uno Stato membro può rifiutarsi di riconoscere una procedura di insolvenza
aperta in un altro Stato membro qualora la decisione di apertura sia stata
assunta in manifesta violazione del diritto fondamentale di essere sentito di cui
gode un soggetto interessato da una tale procedura. Anche se le concrete modalità
del diritto di essere sentiti possono variare in funzione della possibile
urgenza della decisione, ogni restrizione all’esercizio di tale diritto dev’essere
adeguatamente giustificata e corredata di garanzie procedurali che assicurino
ai soggetti interessati da una tale procedura l’effettiva possibilità di contestare
i provvedimenti adottati in via di urgenza. Se è vero che spetta al giudice dello
Stato richiesto accertare se, nel corso del procedimento dinanzi al giudice dell’altro
Stato membro, abbia avuto luogo una manifesta violazione del diritto di
essere sentiti, tale giudice non può limitarsi ad utilizzare la propria concezione
dell’oralità della trattazione e del carattere fondamentale che essa riveste nel
suo ordinamento giuridico, ma deve valutare, sulla base dell’insieme delle circostanze,
se i soggetti coinvolti nel procedimento abbiano goduto o meno di
una sufficiente possibilità di essere sentiti.
Sentenza della Corte, Seconda Sezione, 16 febbraio 2006, nel procedimento
C-3/05 - G. V. contro J.M. V.d.H. BV, Banco di Sardegna, San
Paolo IMI SpA.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
36 della Convenzione 27 settembre 1968, concernente la competenza
giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale
(GU 1972, L 299, pag. 32), come modificata dalla convenzione 9 otto-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73
bre 1978, relativa all’adesione del Regno di Danimarca, dell’Irlanda e del
Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU L 304, pag. 1 e –
testo modificato – pag. 77), dalla convenzione 25 ottobre 1982, relativa
all’adesione della Repubblica ellenica (GU L 388, pag. 1), nonché dalla
convenzione 26 maggio 1989, relativa all’adesione del Regno di Spagna e
della Repubblica portoghese (GU L 285, pag. 1; in prosieguo: la
«Convenzione di Bruxelles»).
La domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra il sig. V.,
da una parte, e, dall’altra, la J.M. Van der Hoeven BV , il Banco di Sardegna
e la San Paolo IMI SpA, già Istituto San Paolo di Torino, a proposito dell’esecuzione,
in Italia, di una sentenza pronunciata dall’Arrondissementsrechtbank
’s-Gravenhage (Paesi Bassi), con cui il sig. V. era stato condannato a versare
alla Van der Hoeven la somma di NLG 365 000.
L’art. 36 della Convenzione 27 settembre 1968 concernente la competenza
giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale,
come modificata dalle convenzioni di adesione del 1978, del 1982
e del 1989, deve essere interpretato nel senso che esige una notificazione
regolare della decisione che accorda l’esecuzione, alla luce delle norme procedurali
dello Stato contraente nel quale l’esecuzione è stata chiesta e quindi
che, in caso di notificazione inesistente o irregolare della decisione che
accorda l’esecuzione, la semplice acquisita conoscenza di tale decisione da
parte della persona contro cui l’esecuzione è stata chiesta non basta per far
decorrere il termine fissato al detto articolo.
Infatti, in primo luogo, l’obbligo di notificazione della decisione che
accorda l’esecuzione ha la funzione, da una parte, di tutelare i diritti della
parte contro cui l’esecuzione è stata chiesta e, dall’altra, di permettere, sul
piano probatorio, un computo esatto del termine di opposizione rigoroso e
perentorio previsto da tale disposizione. Questa duplice funzione, unita all’obiettivo
di semplificazione delle formalità alle quali è subordinata l’esecuzione
delle decisioni giurisdizionali rese in altri Stati contraenti, spiega il
motivo per cui la Convenzione sottopone la trasmissione alla parte contro la
quale l’esecuzione è stata chiesta della decisione che accorda l’esecuzione a
condizioni di forma più rigide di quelle applicabili alla trasmissione della
stessa decisione al richiedente. In secondo luogo, se fosse rilevante soltanto
la conoscenza, ad opera della parte contro cui l’esecuzione è stata chiesta,
della decisione che accorda l’esecuzione, ciò rischierebbe di vanificare l’obbligo
di notificazione e renderebbe inoltre più difficile il computo esatto del
termine previsto da tale disposizione, rendendo così impossibile l’applicazione
uniforme delle disposizioni della Convenzione.
DIRITTO D’AUTORE
Sentenza della Corte, sezione terza, 1° giugno 2006, nella causa C-169/05
– Uradex SCRL Union Professionnelle de la Radio et de la Télédistri-
74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
bution (RTD), Société Intercommunale pour la Diffusion de la Télévision
(BRUTELE).
La presente domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione
dell’art. 9, n. 2, della direttiva del Consiglio 27 settembre 1993,
93/83/CEE, per il coordinamento di alcune norme in materia di diritto d’autore
e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla
ritrasmissione via cavo (GU L 248, pag. 15; in prosieguo: la «direttiva»).
La detta domanda è stata presentata nel contesto di un procedimento tra
la Uradex SCRL (in prosieguo: la «Uradex»), da una parte, e, dall’altra,
l’Union Professionnelle de la Radio et de la Télédistribution (in prosieguo:
la «RTD») e la Société Intercommunale pour la Diffusion de la Télévision
(in prosieguo: la «BRUTELE»), in cui la Uradex ha chiesto di ingiungere ai
membri della RTD, e in particolare alla BRUTELE, di cessare la ritrasmissione
via cavo di opere appartenenti al suo repertorio.
La Uradex, società di gestione collettiva dei diritti connessi degli artisti
interpreti ed esecutori, ha chiesto al Tribunal de première instance de
Bruxelles di dichiarare che, ritrasmettendo via cavo, senza licenza da parte
sua e, pertanto, in violazione degli artt. 51 e 53 della legge, le prestazioni
degli artisti interpreti ed esecutori appartenenti al suo repertorio, le società
di diffusione via cavo membri della RTD, e in particolare la Brutele, violano
i diritti connessi gestiti dalla Uradex. Del pari, ha chiesto di intimare a
ciascuna delle società in oggetto la cessazione della ritrasmissione via cavo
delle dette prestazioni.
A seguito del rigetto della sua domanda, la Uradex ha interposto appello
dinanzi alla Cour d’appel de Bruxelles.
Con riguardo a prestazioni sia audiovisive sia non audiovisive, il detto
giudice affermava, anzitutto, che, se è pur vero che le società di gestione collettiva
di diritti connessi dispongono del diritto esclusivo di autorizzare o di
vietare la loro riproduzione via cavo (in prosieguo: il «diritto di ritrasmissione
»), tale diritto, tuttavia, è limitato ai diritti la cui gestione sia stata
attribuita alle dette società.
Inoltre, la Cour d’appel ha affermato che, in materia di prestazioni
audiovisive, la Uradex non può, ai sensi dell’art. 36 della legge, esercitare
il diritto di ritrasmissione via cavo, anche con riguardo ad artisti che
abbiano incaricato la detta società della gestione dei loro diritti. Tale
disposizione, infatti, fisserebbe la presunzione legale che l’artista abbia
ceduto il proprio diritto di ritrasmissione al produttore. Orbene, una società
di gestione collettiva agisce per conto degli artisti interpreti o esecutori
che rappresenta e non può gestire diritti ulteriori rispetto a quelli detenuti
da questi ultimi. Un’autorizzazione della Uradex sarebbe necessaria
solo se, conformemente all’art. 36 della legge, essa confutasse tale presunzione
dimostrando l’esistenza di accordi tra gli artisti interessati ed i produttori
che escludano la cessione del diritto di ritrasmissione o, in difetto,
se rappresentasse produttori di opere audiovisive. Ciò non si verifica nella
specie.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75
L’art. 9, n. 2, della direttiva 93/83, per il coordinamento di alcune norme
in materia di diritto d’autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione
via satellite e alla ritrasmissione via cavo, deve essere interpretato nel
senso che una società di gestione collettiva, qualora sia ritenuta incaricata di
amministrare i diritti di un titolare di diritti d’autore o di diritti connessi che
non abbia affidato la gestione dei propri diritti a una specifica società di
gestione collettiva, può esercitare il diritto del detto titolare di accordare o
negare l’autorizzazione a un cablodistributore di ritrasmettere via cavo una
trasmissione, e, di conseguenza, la gestione da parte della detta società dei
diritti del suddetto titolare non si limita ai loro aspetti pecuniari. Tuttavia,
tale direttiva non osta alla cessione del diritto di ritrasmissione, che può operarsi
sia sulla base di un contratto, sia in virtù di una presunzione legale, e
non osta quindi a che un autore, artista interprete, esecutore o produttore,
perda, in forza di una disposizione nazionale, la propria qualità di «titolare»
di tale diritto ai sensi dell’art. 9, n. 2, della direttiva, con la conseguenza della
dissoluzione di ogni nesso giuridico sussistente in forza della detta disposizione
tra il medesimo e la società di gestione collettiva.
DOGANE
– Accise
Sentenza della Corte, sezione seconda, 5 ottobre 2006, nella causa C-
140/05 – A.V. e Zollamt Klagenfurt.
La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione del
punto 6, n. 2, dell’allegato XIII all’Atto relativo alle condizioni di adesione
della Repubblica ceca, della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro,
della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica
di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della
Repubblica di Slovenia e della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei
Trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GU 2003, L 236, pag. 33; in prosieguo:
l’«Atto di adesione»), nonché degli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE.
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra la
sig.ra A.V. e lo Zollamt di Klagenfurt (Ufficio doganale di Klagenfurt; in
prosieguo: lo «Zollamt») riguardante la franchigia dalle accise applicabili
relativamente all’introduzione in territorio austriaco di 200 sigarette provenienti
dalla Slovenia.
35. In via preliminare, occorre rilevare che la materia delle franchigie
delle accise per l’importazione di merci contenute nel bagaglio personale dei
viaggiatori provenienti da paesi terzi, con particolare riguardo alle sigarette,
è disciplinata dalla direttiva 69/169.
36. Tale direttiva, come indica il suo titolo, persegue l’obiettivo di armonizzare
le franchigie delle imposte sulla cifra d’affari e delle altre imposizio-
76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ni indirette interne riscosse all’importazione nel traffico internazionale di
viaggiatori. Si tratta, come risulta dai suoi ‘considerando’ e da quelli delle
direttive che l’hanno successivamente modificata, di liberalizzare maggiormente
il regime di tassazione delle importazioni nel traffico di viaggiatori
allo scopo di agevolare il detto traffico (sentenza 15 giugno 1999, causa C-
394/97, Heinonen, Racc. pag. I-3599, punto 25).
37. Peraltro, gli Stati membri, nella materia coperta dalla direttiva
69/169, conservano la sola competenza limitata che è loro riconosciuta dalle
stesse disposizioni della direttiva e da quelle che l’hanno modificata (sentenza
9 giugno 1992, causa C-96/91, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-3789,
punto 10 e giurisprudenza ivi citata).
38. Con particolare riguardo alle sigarette, l’art. 4, n. 1, lett. a), della
direttiva 69/169 dispone che la franchigia dalle accise è limitata a 200 sigarette
per il traffico tra paesi terzi e la Comunità. Tuttavia, ai sensi dell’art. 5,
nn. 2 e 8, della direttiva in questione, gli Stati membri restano competenti per
abbassare tale limite secondo le condizioni previste da tali disposizioni.
42. Si pone pertanto la questione di accertare se, prima dell’adesione
della Repubblica di Slovenia all’Unione, la normativa nazionale di cui alla
causa principale, che istituiva la franchigia ridotta a 25 sigarette, potesse
basarsi sulla competenza limitata a disposizione della Repubblica d’Austria
ai sensi dell’art. 5, n. 8, della direttiva 69/169 e se, in seguito alla citata adesione,
tale regolamentazione possa ancora fondarsi su tale competenza, tenuto
conto dell’intervento dell’art. 24 dell’Atto di adesione.
49. In merito all’argomento riferito all’enumerazione di cui all’art. 5,
nn. 1-3, della direttiva 69/169, ove si citano le eccezioni specifiche applicabili
a talune categorie di viaggiatori, occorre notare che, fra tali disposizioni,
unicamente il n. 2 risulta pertinente al caso di specie, poiché concerne importazioni
provenienti da paesi terzi, mentre i nn. 1 e 3 dell’articolo in questione
si riferiscono a merci provenienti da un altro Stato membro.
50. Se è vero che la categoria di viaggiatori, considerata dalla norma
nazionale nella causa principale, costituita dai soggetti che hanno la loro
residenza in Austria, è definita in maniera più ampia rispetto a quelle costituite
dalle persone residenti nelle zone di frontiera, dai lavoratori frontalieri
o dal personale dei mezzi di trasporto utilizzati nel traffico fra i paesi terzi e
la Comunità ai sensi dell’art. 5, n. 2, della direttiva 69/169, la natura specifica
delle categorie considerate da quest’ultima eccezione non osta all’applicazione
dell’eccezione prevista al n. 8 del medesimo articolo ad un’altra
categoria di viaggiatori, definita in maniera più ampia.
51. Tale ultima eccezione, infatti, riveste anche un carattere specifico dal
momento che si applica solo a talune merci elencate tassativamente, in particolare
alle sigarette.
52. Secondo il tenore letterale dell’art. 5, n. 8, della direttiva 69/169, gli
Stati membri hanno la facoltà di ridurre i quantitativi di merci di cui
all’art. 4, n. 1, lett. a) e d), della direttiva in questione, segnatamente di sigarette,
per i viaggiatori che, provenienti da un paese terzo, entrano in uno
Stato membro.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77
53. Occorre constatare che, tenuto conto del carattere generale dei termini
utilizzati, non è possibile basare sul tenore letterale di tale disposizione
un’interpretazione restrittiva, quale quella proposta dalla Commissione,
secondo cui franchigie ridotte, adottate in forza della disposizione in questione,
sarebbero autorizzate unicamente qualora si applicassero a tutti i paesi
terzi, senza distinzione, ed a tutte le categorie di viaggiatori.
54. Il carattere generale del tenore letterale implica al contrario che, nel caso
dei prodotti specifici di cui all’art. 4, n. 1, lett. a) e d), della direttiva 69/169,
segnatamente nel caso delle sigarette, agli Stati membri è riservata un’ampia
facoltà di ridurre i quantitativi delle merci considerate in tale articolo.
56. Quando utilizzano tale facoltà, gli Stati membri sono quindi tenuti a
limitare il più possibile gli effetti negativi che le misure adottate potrebbero
avere sulla realizzazione dello scopo generale della direttiva 69/169 e, pertanto,
a rispettare un ragionevole equilibrio fra tale scopo e l’obiettivo specifico
di cui all’art. 5, n. 8, di questa stessa direttiva.
57. Tale obiettivo specifico deve tener conto della natura particolare dei
prodotti in questione, vale a dire tabacchi lavorati come le sigarette, e del
bene giuridico che la disposizione controversa nella causa principale consente
di tutelare.
65. Risulta quindi che, tenuto conto della limitazione del campo d’applicazione
in funzione delle specificità connesse al rischio di compromettere la
politica fiscale e l’obiettivo di tutela della salute derivante dalla prossimità
dei paesi in questione e dal livello d’imposizione fiscale applicato ai tabacchi
lavorati in questi ultimi, la misura nazionale in oggetto realizza un equilibrio
ragionevole fra lo scopo generale della direttiva 69/169 e lo scopo specifico
di cui all’art. 5, n. 8, di tale direttiva.
66. Riguardo alla situazione della Repubblica di Slovenia dopo l’adesione
all’Unione europea, è pacifico che il livello d’imposizione applicabile in
tale Stato membro ai tabacchi lavorati, sebbene innalzato dopo l’adesione,
resta inferiore a quanto previsto dalla normativa comunitaria in vigore.
67. Pertanto, il rischio specifico che la franchigia limitata a 25 sigarette
si propone di contrastare continua a sussistere, cosicché tale misura può
ancora fondarsi sull’art. 5, n. 8, della direttiva 69/169, letto in combinato
disposto con l’art. 24 dell’Atto di adesione.
68. Ciò posto, nemmeno l’argomento della Commissione secondo il
quale la normativa nazionale di cui alla causa principale sarebbe discriminatoria
può essere accolto.
69. Da quanto precede risulta infatti che, in funzione dei fini perseguiti,
l’ambito di applicazione della normativa nazionale in questione è limitato
alle importazioni provenienti da paesi terzi e dai nuovi Stati membri
limitrofi alla Repubblica d’Austria che, per i tabacchi lavorati, praticano
un livello d’imposizione fiscale inferiore a quello imposto dalla normativa
comunitaria.
70. Pertanto, dato che la situazione di tali paesi terzi e dei nuovi Stati
membri limitrofi alla Repubblica d’Austria non è paragonabile a quella di
altri paesi terzi, il trattamento differenziato che discende dalla detta norma-
78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tiva non può venire considerato discriminatorio relativamente alle importazioni
provenienti da tali paesi terzi e nuovi Stati membri.
72. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza
se gli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE debbano essere interpretati nel senso che
essi ostano ad una normativa nazionale, quale quella in questione nella causa
principale, secondo cui la franchigia dalle accise per le sigarette importate
nel bagaglio personale dei viaggiatori è limitata a 25 unità all’ingresso nel
territorio della Repubblica d’Austria in provenienza da taluni altri Stati
membri, in particolare dalla Repubblica di Slovenia, poiché, in seguito
all’ultimo allargamento dell’Unione europea, tale franchigia non si applica
più ad alcuno Stato terzo, con la sola eccezione della zona franca svizzera del
Samnauntal, mentre generalmente le importazioni di sigarette provenienti da
paesi terzi beneficiano di una franchigia di 200 unità.
74. Dal momento che tale normativa nazionale è giustificata alla luce di
uno degli atti di cui all’art. 24 dell’Atto di adesione, nel caso di specie la misura
transitoria prevista al punto 6, n. 2, dell’allegato XIII a tale Atto, non può
più porsi la questione della compatibilità della normativa in questione con altre
disposizioni di diritto primario, quali gli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE.
75. Occorre, pertanto, rispondere alla seconda questione dichiarando
che gli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE devono essere interpretati nel senso che
non ostano ad una normativa nazionale, quale quella in questione nella
causa principale, secondo cui la franchigia dalle accise per le sigarette
importate nel bagaglio personale dei viaggiatori è limitata a 25 unità all’ingresso
nel territorio della Repubblica d’Austria in provenienza da taluni
altri Stati membri, in particolare dalla Repubblica di Slovenia, nonostante il
fatto che, in seguito all’ultimo ampliamento dell’Unione europea, tale franchigia
ridotta non si applichi più ad alcuno Stato terzo, con la sola eccezione
della zona franca svizzera del Samnauntal, mentre generalmente le
importazioni di sigarette provenienti dai paesi terzi beneficiano di una franchigia
di 200 unità.
Sentenza della Corte, sezione terza, 11 maggio 2006, nel procedimento
C-11/05 – Friesland Coberco Dairy Foods BV, che agisce sotto la denominazione
di «Friesland and Supply Point Ede», contro Inspecteur van
de Belastingdienst/Douane Noord/kantoor Groningen.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
133, lett. e), del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992,
n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario (G.U. L. 302, pag. 1),
come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del
Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700 (G.U. L. 311, pag. 17; in prosieguo: il
«codice doganale»), nonché degli artt. 502, n. 3, e 504, n. 4, del regolamento
(CEE) della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, che fissa talune disposizioni
d’applicazione del regolamento (CEE) del Consiglio n. 2913/92 che
istituisce il codice doganale comunitario (G.U. L. 253, pag. 1), come modi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79
ficato dal regolamento (CE) della Commissione 4 maggio 2001, n. 993
(G.U. L. 141, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento di applicazione»).
Per conseguire gli obiettivi della politica agricola comune, in particolare
per garantire ai produttori di barbabietole e canne da zucchero della
Comunità il mantenimento del posto di lavoro e del tenore di vita, sono state
previste misure atte a stabilizzare il mercato dello zucchero mediante regolamento
(CE) del Consiglio 19 giugno 2001, n. 1260, relativo all’organizzazione
comune dei mercati nel settore dello zucchero (G.U. L. 178, pag. 1).
La Coberco Dairy Foods produce bevande a base di succo di frutta utilizzando
come materie prime concentrati di succhi di frutta, zuccheri, profumi,
minerali e vitamine acquistate presso società stabilite, per talune di esse,
in Stati membri e, per altre, in Stati terzi. La fabbricazione consiste soprattutto
nel mescolare succhi di frutta con acqua e zucchero, nel pastorizzare il
prodotto e successivamente nel condizionarlo.
Detta società presentava, in applicazione dell’art. 132 del codice doganale,
una domanda di autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale
alle autorità doganali olandesi in relazione a tre prodotti: succo di mela
con zuccheri addizionati, succo d’arancia con zuccheri addizionati, zucchero
bianco diverso dallo zucchero di canna. Quanto alle condizioni economiche,
nella detta domanda veniva precisato che con l’utilizzo di materie di
paesi terzi era possibile conservare nella Comunità alcune attività di trasformazione.
Poiché le merci e la trasformazione prevista figurano sotto l’allegato 76,
parte B, del regolamento di applicazione, la pratica veniva trasmessa al
comitato per esaminare se ricorressero le condizioni economiche.
La Commissione depositava dinanzi al comitato un documento di lavoro
dal quale risulta che la Coberco Dairy Foods aveva presentato la domanda
di autorizzazione in ragione della forte concorrenza dei produttori
dell’Europa centrale e orientale. Senza l’applicazione del regime di trasformazione
sotto controllo doganale, la Coberco Dairy Foods avrebbe probabilmente
deciso di trasformare i prodotti in Europa centrale o orientale piuttosto
che nei Paesi Bassi.
Il rappresentante della sezione generale dell’agricoltura della
Commissione ha informato il comitato, da un lato, delle riduzioni delle
garanzie di smaltimento dello zucchero in vista del rispetto degli impegni
internazionali della Comunità e, dall’altro, del fatto che i produttori comunitari
di zucchero erano «sotto pressione» e che importazioni «in franchigia
doganale» nell’ambito del regime di trasformazione sotto controllo doganale
avrebbero aumentato tale pressione. Di conseguenza, la detta direzione
generale non appoggiava tale domanda. Il comitato di conseguenza decideva
che le condizioni economiche non erano nella specie rispettate.
Le autorità doganali dei Paesi Bassi, basandosi su tali conclusioni del
comitato, respingevano la domanda della Coberco Dairy Foods. Il reclamo
proposto da quest’ultima veniva respinto dall’ispettore in data 2 aprile 2004.
La Coberco Dairy Foods adiva quindi il Gerechtshof te Amsterdam con
un ricorso.
80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Alla luce di quanto sopra, il Gerechtshof te Amsterdam, con ordinanza
28 dicembre 2004, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre
alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Come si debba interpretare l’espressione “senza che vengano pregiudicati
gli interessi essenziali dei produttori comunitari di merci affini” di
cui all’art. 133, lett. e), del codice doganale. Se al riguardo si debba esaminare
soltanto il mercato del prodotto finito, o se si debba esaminare anche
la situazione economica delle materie prime nell’ambito di una trasformazione
sotto il regime doganale;
2) se nella valutazione della locuzione “creazione o mantenimento di
attività di trasformazione”, di cui all’art. 502, n. 3, del regolamento di applicazione
rilevi un determinato numero minimo di posti di lavoro, che deve
essere reso possibile mediante le attività in questione. Quali altri criteri valgano
inoltre per l’interpretazione del citato testo del regolamento;
3) alla luce delle soluzioni alla prima e alla seconda questione, se la
Corte di giustizia possa esaminare nell’ambito di un procedimento pregiudiziale
la validità delle conclusioni del comitato;
4) in caso affermativo, se le conclusioni adottate nella specie siano valide,
riguardo sia alla motivazione, sia agli argomenti economici utilizzati;
5) nell’ipotesi in cui la Corte di giustizia non potesse esaminare la validità
delle conclusioni, quale interpretazione debba essere data quindi alla
locuzione “le conclusioni del comitato vengono prese in considerazione
dalle autorità doganali” di cui all’art. 504, n. 4, del regolamento di applicazione,
qualora le autorità doganali in primo grado e/o il giudice nazionale,
in appello, ritengano che le conclusioni del comitato non consentono di
giustificare il rigetto di una domanda di autorizzazione di trasformazione
sotto il regime doganale».
1. Le conclusioni del comitato del codice doganale nell’ambito di una
domanda di autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale in
applicazione dell’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce
un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento
n. 2700/2000, non hanno carattere vincolante per le autorità doganali nazionali
che statuiscono su tale domanda.
2. Le conclusioni del comitato del codice doganale nell’ambito di una
domanda di autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale in
applicazione dell’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce
un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento
n. 2700/2000, non possono costituire oggetto di un esame di validità nell’ambito
dell’art. 234 CE.
3. L’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice
doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000, il
quale detta le condizioni economiche che devono essere soddisfatte affinché
sia concessa un’autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale, fa
riferimento agli «interessi essenziali dei produttori comunitari di merci affini
». A tal proposito, in sede di valutazione di una domanda di autorizzazio-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81
ne di trasformazione sotto controllo doganale in applicazione della detta
norma, deve tenersi conto non soltanto del mercato dei prodotti finiti, ma
anche della situazione economica del mercato delle materie prime utilizzate
per fabbricare i detti prodotti.
4. I criteri da prendere in considerazione per valutare «la creazione o il
mantenimento di attività di trasformazione» ai sensi dell’art. 133, lett. e), del
regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario,
come modificato dal regolamento n. 2700/2000, e dell’art. 502, n. 3, del
regolamento n. 2454/93, che fissa talune disposizioni d’applicazione del
regolamento 2913/92, possono includere il criterio relativo alla creazione, in
ragione delle attività di trasformazione previste, di un numero minimo di
posti di lavoro, ma non si limitano a questo. I detti criteri dipendono, infatti,
dalla natura dell’attività di trasformazione considerata e l’autorità doganale
nazionale incaricata dell’esame delle condizioni economiche ai sensi di queste
due disposizioni deve valutare globalmente ogni elemento pertinente,
compreso quello relativo al numero dei posti di lavoro creati, al valore dell’investimento
realizzato o alla perennità dell’attività prevista.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 9 marzo 2006, nel procedimento
C-293/04 – Beemsterboer Coldstore Services BV contro Inspecteur der
Belastingdienst – Douanedistrict Arnhem.
Nel 1997 la Hoogwegt International ha acquistato alcuni quantitativi di
burro dall’impresa estone AS Lacto Ltd .Tali quantitativi sono stati dichiarati
all’ingresso nei Paesi Bassi dalla Beemsterboer, spedizioniere doganale,
operante per conto della Hoogwegt. L’Estonia è stata indicata come
paese d’origine delle merci, le quali sono state dunque immesse in libera
pratica con applicazione della tariffa preferenziale sulla base del suddetto
Accordo di libero scambio. Per provare l’origine del burro, ciascuna dichiarazione
doganale era accompagnata da un certificato EUR. 1, rilasciato
dalle autorità doganali estoni su richiesta della Lacto.
Nel marzo 2000, in seguito ad indicazioni relative ad una frode riguardante
quantitativi di burro commercializzato tra l’Unione europea e
l’Estonia, una delegazione istituita dalla Commissione delle Comunità europee,
in collaborazione con le autorità doganali nazionali, ha effettuato un
controllo a questo proposito.
Nell’ambito dell’indagine, è emerso che la Lacto non aveva conservato
i documenti originari comprovanti l’origine del burro esportato.
Con decisione in data 14 luglio 2000, l’ispettorato delle dogane di Tallin
(Estonia) ha dichiarato nulli i certificati EUR. 1 e li ha revocati. A seguito di
un reclamo della Lacto presso il servizio delle dogane estoni, la decisione di
revoca dei detti certificati è stata giudicata illegittima per ragioni formali.
Non essendo stato possibile stabilire l’origine del burro, le autorità
doganali olandesi hanno proceduto al recupero a posteriori nei confronti
della Beemsterboer. Vistosi respinto il reclamo da essa proposto contro gli
82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
avvisi di riscossione, la Beemsterboer ha presentato un ricorso dinanzi al
giudice del rinvio.
È in tale contesto che il Gerechtshof te Amsterdam ha deciso di sospendere
il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali.
«1) Se il nuovo testo dell’art. 220, n. 2, initio e lett. b), del (…) [codice
doganale] possa trovare applicazione in un caso in cui la nascita dell’obbligazione
doganale ed il recupero a posteriori abbiano avuto luogo prima dell’entrata
in vigore della detta disposizione.
2) In caso di soluzione affermativa della prima questione: se un certificato
EUR. 1 del quale sia impossibile accertare l’effettiva inesattezza, in
quanto ad un controllo a posteriori l’origine delle merci per le quali il certificato
è stato rilasciato non ha potuto esser confermata, mentre tali merci
per questo solo motivo vengono private del trattamento preferenziale, sia un
“certificato inesatto” ai sensi del nuovo testo dell’art. 220, n. 2, initio e lett.
b), del (…) [codice doganale] e, ove così non fosse, se un interessato possa
invocare vittoriosamente tale disposizione.
3) In caso di soluzione affermativa della seconda questione: su chi gravi
l’onere di provare che il certificato è basato su un’inesatta presentazione dei
fatti da parte dell’esportatore, e/o chi debba provare che le autorità che
hanno rilasciato il certificato [EUR. 1] manifestamente sapevano o avrebbero
dovuto sapere che le merci non potevano beneficiare di un trattamento
preferenziale.
4) In caso di soluzione negativa della prima questione: se un interessato
possa vittoriosamente invocare l’art. 220, n. 2, initio e lett. b), del (…)
[codice doganale] nel testo vigente sino al 19 dicembre 2000, in una fattispecie
in cui non sia possibile stabilire a posteriori che le autorità doganali
hanno rilasciato un certificato EUR. 1 in base a motivi fondati e corretti al
momento del rilascio stesso».
1. L’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un
codice doganale comunitario, nella versione introdotta dal regolamento
n. 2700/2000, si applica ad un’obbligazione doganale che sia sorta e della
quale sia stato avviato il recupero a posteriori prima dell’entrata in vigore del
regolamento n. 2700/2000.
La disposizione di cui trattasi, che disciplina le condizioni alle quali un
debitore viene esonerato dalla riscossione a posteriori dei dazi all’importazione
a seguito di un errore delle autorità doganali, detta una norma sostanziale
e non dovrebbe applicarsi, in linea di principio, a situazioni maturate
anteriormente alla sua entrata in vigore. Tuttavia, le norme comunitarie di
diritto sostanziale possono eccezionalmente essere interpretate come applicabili
a situazioni maturate anteriormente alla loro entrata in vigore qualora
dalla loro formulazione, dalla loro finalità o dalla loro economia complessiva
risulti chiaramente che dev’essere loro attribuita tale efficacia.
A tal riguardo, dall’undicesimo ‘considerando’ del regolamento
n. 2700/2000 risulta che la modifica dell’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doga-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83
nale mirava a esplicitare le nozioni di errore delle autorità doganale e di buona
fede del debitore, nozioni già contenute nella versione originaria del detto articolo.
Pertanto, il nuovo testo dell’art. 200, n. 2, lett. b), del codice doganale
presenta carattere essenzialmente interpretativo.
Inoltre, né il principio della certezza del diritto né il principio del legittimo
affidamento ostano all’applicazione della disposizione in questione a
situazioni maturate anteriormente alla sua entrata in vigore.
2. Qualora, a seguito di un controllo a posteriori, l’origine delle merci
risultante da un certificato di circolazione delle merci EUR. 1 non possa più
essere confermata, tale certificato dev’essere considerato come un «certificato
inesatto» ai sensi dell’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento n. 2913/92,
che istituisce il codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento
n. 2700/2000.
Infatti, qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l’origine
della merce indicata nel certificato EUR. 1, si deve ritenere che essa
sia di origine ignota e che, di conseguenza, il certificato EUR. 1 e la tariffa
preferenziale siano stati concessi indebitamente.
3. L’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento n. 2913/92, che istituisce il
codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento
n. 2700/2000, dev’essere interpretato nel senso che incombe a colui che
invoca il terzo comma del detto articolo fornire le prove necessarie al successo
della sua pretesa. Pertanto, in linea di principio, spetta alle autorità
doganali che tendono ad avvalersi del detto art. 220, n. 2, lett. b), terzo
comma, initio, per procedere al recupero a posteriori, fornire la prova che il
rilascio dei certificati inesatti è imputabile all’inesatta interpretazione dei
fatti da parte dell’esportatore. Tuttavia, qualora, a seguito di una negligenza
imputabile soltanto all’esportatore, le autorità doganali si trovino nell’impossibilità
di fornire la prova necessaria del fatto che il certificato di circolazione
delle merci EUR. 1 è stato rilasciato sulla base della presentazione
esatta o inesatta dei fatti da parte dell’esportatore stesso, incombe al debitore
dei dazi dimostrare che tale certificato rilasciato dalle autorità del paese
terzo si basava su un’esatta presentazione dei fatti.
IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO
Sentenza della Corte (Grande Sezione), 3 ottobre 2006, nel procedimento
C-475/03 – Banca popolare di Cremona Soc. coop. a r.l. contro
Agenzia delle Entrate, Ufficio di Cremona.
La domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra la
Banca popolare di Cremona Soc. coop. a r.l. (in prosieguo: la «Banca popolare
») e l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Cremona, relativamente alla
riscossione di un’imposta regionale sulle attività produttive.
La Banca popolare ha impugnato dinanzi al giudice del rinvio il provvedimento
dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Cremona, con il quale que-
84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
st’ultima le ha rifiutato il rimborso dell’IRAP versata negli anni 1998 e
1999.
La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione dell’art.
33 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in
materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle
imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto:
base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla
direttiva del Consiglio 16 dicembre 1991, 91/680/CEE (G.U. L 376, pag. 1)
(in prosieguo: la «sesta direttiva»).
20. L’istituzione di un sistema comune di IVA è stata realizzata con la
seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte
sulla cifra d’affari – Struttura e modalità d’applicazione del sistema comune
d’imposta sul valore aggiunto (G.U. 1967, n. 71, pag. 1303; in prosieguo: la
«seconda direttiva»), e con la sesta direttiva.
21. Il principio del sistema comune dell’IVA consiste, ai sensi dell’art. 2
della prima direttiva, nell’applicare ai beni ed ai servizi, fino allo stadio del
commercio al minuto, un’imposta generale sul consumo esattamente proporzionale
al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero di transazioni
intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla
fase dell’imposizione.
22. Tuttavia, a ciascun passaggio, l’IVA si può esigere solo previa detrazione
dell’IVAche ha gravato direttamente sul costo dei vari fattori che compongono
il prezzo; il sistema delle detrazioni è disciplinato dall’art. 17, n. 2,
della sesta direttiva, in modo che i soggetti passivi siano autorizzati a detrarre
dall’IVA da essi dovuta gli importi di IVA che hanno già gravato sui beni
o sui servizi a monte e che l’imposta colpisca ogni volta solo il valore
aggiunto e vada, in definitiva, a carico del consumatore finale.
23. Per conseguire lo scopo dell’uguaglianza impositiva della stessa operazione,
indipendentemente dallo Stato membro nel quale viene effettuata, il
sistema comune dell’IVA doveva sostituire, secondo i ‘considerando’ della
seconda direttiva, le imposte sulla cifra d’affari in vigore nei vari Stati membri.
24. In quest’ordine di idee, l’art. 33 della sesta direttiva consente il mantenimento
o l’istituzione da parte di uno Stato membro di imposte, diritti e
tasse gravanti sulle forniture di beni, sulle prestazioni di servizi o sulle
importazioni solo se non hanno natura di imposte sulla cifra d’affari.
25. Per valutare se un’imposta, un diritto o una tassa abbiano la natura
di imposta sulla cifra d’affari, ai sensi dell’art. 33 della sesta direttiva, occorre
in particolare verificare se essi abbiano l’effetto di danneggiare il funzionamento
del sistema comune dell’IVA, gravando sulla circolazione dei beni
e dei servizi e colpendo le transazioni commerciali in modo analogo all’IVA.
26. A tale proposito, la Corte ha precisato che in ogni caso devono essere
considerati gravanti sulla circolazione dei beni e dei servizi allo stesso
modo dell’IVA le imposte, i diritti e le tasse che presentano le caratteristiche
essenziali dell’IVA, anche se non sono in tutto identici ad essa (sentenze 31
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85
marzo 1992, causa C-200/90, Dansk Denkavit e Poulsen Trading, Racc.
pag. I-2217, punti 11 e 14, nonché 29 aprile 2004, causa C-308/01, GIL
Insurance e a., Racc. pag. I-4777, punto 32).
27. Per contro, l’art. 33 della sesta direttiva non osta al mantenimento o
all’introduzione di un’imposta che non presenti una delle caratteristiche
essenziali dell’IVA (sentenze 17 settembre 1997, causa C-130/96, Solisnor-
Estaleiros Navais, Racc. pag. I-5053, punti 19 e 20, nonché GIL Insurance e
a., cit., punto 34).
28. La Corte ha precisato quali siano le caratteristiche essenziali
dell’IVA. Nonostante alcune differenze redazionali, risulta dalla sua giurisprudenza
che tali caratteristiche sono quattro: l’IVA si applica in modo
generale alle operazioni aventi ad oggetto beni o servizi; è proporzionale al
prezzo percepito dal soggetto passivo quale contropartita dei beni e servizi
forniti; viene riscossa in ciascuna fase del procedimento di produzione e di
distribuzione, compresa quella della vendita al minuto, a prescindere dal
numero di operazioni effettuate in precedenza; gli importi pagati in occasione
delle precedenti fasi del processo sono detratti dall’imposta dovuta, cosicché
il tributo si applica, in ciascuna fase, solo al valore aggiunto della fase
stessa, e in definitiva il peso dell’imposta va a carico del consumatore finale
(v., in particolare, sentenza Pelzl e a., cit., punto 21).
29. Al fine di evitare risultati discordanti rispetto all’obiettivo perseguito
dal sistema comune dell’IVA, ricordato ai punti 20-26 della presente sentenza,
ogni confronto delle caratteristiche di un’imposta come l’IRAP con
quelle dell’IVA deve essere compiuto alla luce di tale obiettivo. In questo
contesto deve essere riservata un’attenzione particolare alla necessità che sia
sempre garantita la neutralità del sistema comune dell’IVA.
30. In questo caso, relativamente alla seconda caratteristica fondamentale
dell’IVA, si deve innanzi tutto rilevare che, mentre l’IVA è riscossa in ciascuna
fase al momento della commercializzazione e il suo importo è proporzionale
al prezzo dei beni o servizi forniti, l’IRAP è invece un’imposta calcolata
sul valore netto della produzione dell’impresa nel corso di un certo
periodo. La sua base imponibile è infatti uguale alla differenza che risulta, in
base al conto economico, tra il «valore della produzione» e i «costi della produzione
», come definiti dalla legislazione italiana. Essa comprende elementi
come le variazioni delle rimanenze, gli ammortamenti e le svalutazioni,
che non hanno un rapporto diretto con le forniture di beni o servizi in quanto
tali. L’IRAP non deve pertanto essere considerata proporzionale al prezzo
dei beni o dei servizi forniti.
31. Occorre poi osservare, relativamente alla quarta caratteristica fondamentale
dell’IVA, che l’esistenza di differenze relativamente al metodo per
calcolare la detrazione dell’imposta già pagata non può sottrarre un’imposta
al divieto contenuto nell’art. 33 della sesta direttiva qualora tali differenze
siano più che altro di natura tecnica, e non impediscano che tale imposta funzioni
sostanzialmente nello stesso modo dell’IVA. Per contro, si può collocare
all’esterno dell’ambito applicativo dell’art. 33 della sesta direttiva
un’imposta la quale colpisca le attività produttive in modo tale che non sia
86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
certo che la stessa vada, in definitiva, a carico del consumatore finale, come
avviene per un’imposta sul consumo come l’IVA.
32. In questo caso, mentre l’IVA, attraverso il sistema della detrazione
dell’imposta previsto dagli artt. 17-20 della sesta direttiva, grava unicamente
sul consumatore finale ed è perfettamente neutrale nei confronti dei soggetti
passivi che intervengono nel processo di produzione e di distribuzione
che precede la fase di imposizione finale, indipendentemente dal numero di
operazioni avvenute (sentenze 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida
Gibbs, Racc. pag. I-5339, punti 19, 22 e 23, nonché 15 ottobre 2002, causa
C-427/98, Commissione/Germania, Racc. pag. I-8315, punto 29), lo stesso
non vale per quanto riguarda l’IRAP.
33. Da un lato, infatti, un soggetto passivo non può determinare con precisione
l’importo dell’IRAP già compreso nel prezzo di acquisto dei beni e
dei servizi. Dall’altro, se un soggetto passivo potesse includere tale costo nel
prezzo di vendita, al fine di ripercuotere l’importo dell’imposta dovuta per le
sue attività sulla fase successiva del processo di distribuzione o di consumo,
la base imponibile dell’IRAP comprenderebbe di conseguenza non solo il
valore aggiunto, ma anche l’imposta stessa, cosicché l’IRAP sarebbe calcolata
su un importo determinato a partire da un prezzo di vendita comprendente,
in anticipo, l’imposta da pagare.
34. In ogni caso, anche se si può supporre che un soggetto passivo IRAP
che effettua la vendita al consumatore finale tenga conto, nel determinare il
suo prezzo, dell’importo dell’imposta incorporato nelle sue spese generali,
non tutti i soggetti passivi si trovano nella condizione di poter così ripercuotere
il carico dell’imposta, o di poterlo ripercuotere nella sua interezza (v., in
tal senso, sentenza Pelzl e a., cit., punto 24).
35. Risulta da tutte queste considerazioni che, in base alla disciplina
dell’IRAP, tale imposta non è stata concepita per ripercuotersi sul consumatore
finale nel modo tipico dell’IVA.
36. È vero che la Corte ha dichiarato incompatibile con il sistema armonizzato
dell’IVA un’imposta che era riscossa come una percentuale dell’importo
totale delle vendite realizzate e dei servizi forniti da un’impresa nel
corso di un determinato periodo di tempo, detratto l’importo degli acquisti di
beni e servizi effettuati nel corso dello stesso periodo dalla medesima impresa.
La Corte ha osservato che il tributo in questione era accostabile nei suoi
elementi fondamentali all’IVA e che, nonostante le differenze, esso conservava
il suo carattere di imposta sulla cifra d’affari (v., in tal senso, sentenza
Dansk Denkavit e Poulsen Trading, cit., punto 14).
37. Qui però l’IRAP si distingue dal tributo oggetto di tale sentenza in
quanto quest’ultimo era destinato a ripercuotersi sul consumatore finale,
come risulta dal punto 3 della detta sentenza. Tale tributo era dunque calcolato
a partire da una base imponibile identica a quella utilizzata per l’IVA, ed
era riscosso parallelamente all’IVA.
38. Risulta dalle considerazioni svolte che un’imposta con le caratteristiche
dell’IRAP si distingue dall’IVA in modo tale da non poter essere considerata
un’imposta sulla cifra d’affari, ai sensi dell’art. 33, n. 1, della sesta direttiva.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87
Sentenza della Corte, sezione prima, 6 aprile 2006, nel procedimento C-
245/04 – EMAG Handel Eder OHG contro Finanzlandesdirektion für
Kärnten. EMAG Handel Eder OHG.
La domanda di decisione pregiudiziale riguarda l’interpretazione della
sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte
sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base
imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del
Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L 102, pag. 18; in prosieguo: la
«sesta direttiva»), e in particolare dell’art. 8, n. 1, della stessa, relativo al
luogo di cessione dei beni.
Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra la
EMAG Handel Eder OHG (in prosieguo: la «EMAG»), società stabilita in
Austria, e la Finanzlandesdirektion für Kärnten (direzione delle finanze del
Land Carinzia), concernente la detrazione, da parte della EMAG, dell’imposta
sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») versata a monte.
Nel 1996 e nel 1997, la EMAG ha acquistato metalli non ferrosi dalla K,
anch’essa stabilita in Austria.
A sua volta, la K ha acquistato tali merci presso taluni fornitori stabiliti in
Italia o nei Paesi Bassi (in prosieguo: i «fornitori»). È pacifico che la EMAG
non era a conoscenza dei fornitori della K. Dopo la conclusione di ogni transazione,
la K dava indicazione ai propri fornitori di consegnare tali merci ad uno
spedizioniere, da essa incaricato di recapitarle direttamente, su camion, presso
i locali della EMAG in Austria o presso quelli dei clienti di quest’ultima, sempre
in Austria, in base alle indicazioni fornite alla K dalla EMAG.
La K ha fatturato alla EMAG il prezzo d’acquisto delle merci tra esse
pattuito, maggiorato del 20%, corrispondente all’IVA austriaca. La EMAG
ha quindi chiesto di poter detrarre tale imposta quale IVA pagata a monte.
Il Finanzamt competente nonché la Finanzlandesdirektion für Kärnten
hanno negato tale detrazione, affermando che l’IVA era stata erroneamente
fatturata dalla K alla EMAG. Quest’ultima ha quindi proposto un ricorso
dinanzi al Verwaltungsgerichtshof.
La EMAG sostiene che l’art. 3, n. 8, dell’UStG 1994 non era applicabile
alle cessioni effettuate dalla K a suo favore, poiché l’ordine di spedizione
delle merci verso l’Austria non era dato da essa, ma dalla K. A tale proposito,
essa afferma che non conosceva i fornitori della K, che quest’ultima poteva,
fino alla conclusione di ciascuna cessione, modificare il luogo di destinazione
o il destinatario, cosa che talvolta ha fatto, e inoltre che ogni rischio
di perdita o guasto delle merci era a carico della K fino al loro ricevimento
da parte della EMAG o dei clienti di questa.
La EMAG ritiene dunque che il luogo delle cessioni effettuate dalla K a
suo favore fosse situato in Austria, e di conseguenza che tali cessioni fossero
soggette all’IVA austriaca in capo alla K. Pertanto, la K le avrebbe correttamente
fatturato tale IVA, e legittimamente essa ne avrebbe chiesto la detrazione
quale IVA pagata a monte.
88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Secondo la Finanzlandesdirektion, in una prima fase la K pagava le
merci ai propri fornitori, i quali le mettevano a sua disposizione nei Paesi
Bassi o in Italia. In una seconda fase, la K affidava a taluni spedizionieri il
trasporto delle merci dall’Italia o dai Paesi Bassi verso l’Austria, ove le stesse
erano consegnate alla EMAG o, su suo ordine, ai suoi clienti. La
Finanzlandesdirektion sostiene che il trasporto delle merci era effettuato
dalla K al fine di adempiere il proprio obbligo di cessione nei confronti della
EMAG, e che questa ne era informata.
Considerate tali circostanze, la Finanzlandesdirektion ritiene che l’art. 3,
n. 8, dell’UStG 1994 fosse applicabile alle cessioni effettuate dalla K a favore
della EMAG. Poiché la consegna delle merci agli spedizionieri incaricati
dalla K sarebbe avvenuta in Italia o nei Paesi Bassi, il luogo delle cessioni
effettuate dalla K a favore della EMAG sarebbe stato situato nell’uno o nell’altro
di tali due Stati membri, conformemente a detta disposizione. In applicazione
dell’art. 12, n. 1, punto 1, dell’UStG 1994, la detrazione dell’IVA
pagata a monte sarebbe stata possibile soltanto se le operazioni fatturate fossero
state compiute in Austria. Essendo state tutte le operazioni eseguite in
Italia o nei Paesi Bassi, la EMAG avrebbe erroneamente detratto l’IVApagata
a monte.
Il giudice del rinvio constata che, nella causa dinanzi ad esso pendente, due
distinte cessioni sono state effettuate con un solo spostamento fisico di beni.
Detto giudice ritiene che, ai sensi dell’art. 8, n. 1, lett. a), della sesta
direttiva, il luogo della prima cessione, effettuata dai fornitori italiani o olandesi
a favore della K, si trovi nel luogo di partenza della spedizione o del trasporto
dei beni, vale a dire in Italia o nei Paesi Bassi. Esso si pone, viceversa,
la questione del luogo della seconda cessione, effettuata dalla K a favore
della EMAG.
A tale proposito, il giudice del rinvio ritiene che il testo dell’art. 8, n. 1,
lett. a), prima frase, della sesta direttiva non risolva la questione se il movimento
intracomunitario di beni vada ricollegato soltanto alla prima cessione
o, invece, a tutte e due le cessioni insieme. In tale secondo caso, il giudice si
chiede se il luogo della seconda cessione, effettuata dalla K a favore della
EMAG, sia quello da cui sono effettivamente partiti i beni (nella causa principale,
l’Italia o i Paesi Bassi), o quello in cui è terminata la prima cessione
(nella causa principale, l’Austria).
In tale contesto il Verwaltungsgerichtshof ha sospeso il procedimento, e
ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’art. 8, n. 1, lett. a), prima frase, della sesta direttiva (…) vada
interpretato nel senso che il luogo in cui ha inizio la spedizione o il trasporto
sia rilevante anche nell’ipotesi in cui più imprenditori concludano un contratto
di cessione relativo al medesimo bene e i vari contratti in tal modo conclusi
vengano adempiuti con un unico spostamento della merce.
2) Se più cessioni di beni possano essere considerate come cessioni esenti
intracomunitarie qualora più imprenditori concludano un contratto di cessione
relativo al medesimo bene e i vari contratti in tal modo conclusi vengano
adempiuti con un unico spostamento della merce.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89
3) Se, in caso di soluzione positiva della prima questione, come luogo di
inizio della seconda cessione vada considerato il luogo dal quale è effettivamente
partito il bene, ovvero il luogo in cui la prima cessione finisce.
4) Se per la soluzione delle prime tre questioni sia rilevante stabilire a
chi spetta il potere di disposizione sul bene durante lo spostamento della
merce».
1. Quando due cessioni successive relative agli stessi beni, effettuate a
titolo oneroso tra soggetti passivi che agiscono in quanto tali, danno luogo
ad un’unica spedizione intracomunitaria o ad un unico trasporto intracomunitario
di detti beni, tale spedizione o tale trasporto può essere imputato ad
una sola delle due cessioni, che sarà l’unica esentata ai sensi
dell’art. 28 quater, parte A, lett. a), primo comma, della sesta direttiva
77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri
relative alle imposte sulla cifra di affari, come modificata dalla direttiva del
Consiglio 95/7.
Tale interpretazione vale indipendentemente da quale dei soggetti passivi
– primo venditore, acquirente intermedio o secondo acquirente – possa
disporre dei beni durante la detta spedizione o il detto trasporto.
In primo luogo, anche qualora due cessioni successive producano un
solo movimento di beni, esse devono essere considerate come succedute
l’una all’altra nel tempo. Infatti, l’acquirente intermedio può trasferire al
secondo acquirente il potere di disporre di un bene come un proprietario solo
dopo averlo ricevuto dal primo venditore: dunque, la seconda cessione può
avere luogo soltanto dopo che la prima si sia compiuta. Poiché si considera
che il luogo di acquisto dei beni da parte dell’acquirente intermedio è situato
all’interno dello Stato membro di arrivo della spedizione o del trasporto di
tali beni, sarebbe del tutto illogico ritenere che tale soggetto passivo effettui
la cessione successiva dei medesimi beni a partire dallo Stato membro di partenza
di tale spedizione o di tale trasporto.
In secondo luogo, tale interpretazione consente di raggiungere in modo
semplice l’obiettivo perseguito dal regime transitorio di cui al titolo XVI bis
di tale direttiva, vale a dire il trasferimento del gettito fiscale allo Stato membro
in cui avviene il consumo finale dei beni ceduti.
2. Quando due cessioni successive relative agli stessi beni, effettuate a
titolo oneroso tra soggetti passivi che agiscono in quanto tali, danno luogo
ad un’unica spedizione intracomunitaria o ad un unico trasporto intracomunitario
di detti beni, solo il luogo della cessione a cui tale spedizione o tale
trasporto è imputato è determinato ai sensi dell’art. 8, n. 1, lett. a), della sesta
direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati
membri relative alle imposte sulla cifra d’affari, come modificata dalla direttiva
95/7; esso si considera situato nello Stato membro di partenza di tale
spedizione o trasporto. Il luogo dell’altra cessione è determinato ai sensi dell’art.
8, n. 1, lett. b), della stessa direttiva: si considera che esso si trovi nello
Stato membro di partenza o in quello di arrivo di detta spedizione o di detto
trasporto, a seconda che tale cessione sia la prima o la seconda delle due cessioni
successive.
90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Sentenza della Corte, sezione prima, 30 marzo 2006, nella causa C-
184/04 – Uudenkaupungin kaupunki.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 13, parte C, secondo comma, e 17, n. 6, della sesta direttiva del
Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle
legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari –
Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme
(G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 10 aprile
1995, 95/7/CE (G.U. L 102, pag. 18; in prosieguo: la «sesta direttiva»).
Essa pone sostanzialmente la questione se, alla luce della sesta direttiva,
una rettifica della detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo:
l’«IVA») pagata a monte per i beni d’investimento debba essere accordata
nel caso in cui un bene immobile sia stato inizialmente destinato ad
un’attività esente, per poi essere destinato ad un’attività imponibile, in
seguito all’esercizio del diritto d’opzione ai sensi dell’art. 13, parte C, della
sesta direttiva.
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un’impugnazione proposta
dall’Uudenkaupungin kaupunki (il Comune di Uusikaupunki; in prosieguo:
«Uusikaupunki») avverso una decisione dello Helsingin hallinto-oikeus
(Tribunale amministrativo di Helsinki), con cui quest’ultimo ha respinto il
ricorso proposto da Uusikaupunki contro due decisioni adottate dal
Lounais-Suomen verovirasto (Amministrazione tributaria per la Finlandia
sudoccidentale) sulle domande di rettifica di detrazioni e di rimborso
dell’IVA presentate da Uusikaupunki.
1. L’art. 20 della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari,
dev’essere interpretato nel senso che, fatto salvo il disposto del n. 5 del
medesimo articolo, esso impone agli Stati membri di prevedere una rettifica
delle detrazioni dell’imposta sul valore aggiunto per quanto riguarda i beni
di investimento.
2. L’art. 20 della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari
dev’essere interpretato nel senso che la rettifica da esso prevista è applicabile
anche ad una situazione in cui un bene di investimento venga destinato
in un primo tempo ad un’attività esente da imposta, che non dava diritto a
detrazione, e successivamente, nel corso del periodo di rettifica, è stato
impiegato nel contesto di un’attività assoggettata all’imposta sul valore
aggiunto.
Infatti, l’applicazione del meccanismo di rettifica dipende dalla questione
se sia sorto un diritto a detrazione basato sull’art. 17 della sesta direttiva.
Orbene, l’uso che viene fatto del bene di investimento determina solo la portata
della detrazione iniziale e la portata delle eventuali rettifiche durante i
periodi successivi, ma non incide sulla nascita del diritto alla detrazione. Di
conseguenza, l’uso immediato del bene per operazioni soggette ad imposta
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91
non costituisce, di per sé, una condizione di applicazione del sistema di rettifica
delle detrazioni. Inoltre, la rettifica della detrazione si applica necessariamente
anche quando la modifica del diritto a detrazione dipenda da una
scelta volontaria del contribuente, come ad esempio dall’esercizio dell’opzione
prevista dall’art. 13, parte C, della sesta direttiva.
3. Gli artt. 13, parte C, secondo comma, e 17, n. 6, della sesta direttiva
77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri
relative alle imposte sulla cifra di affari, devono essere interpretati nel senso
che uno Stato membro che accorda ai suoi soggetti passivi il diritto di optare
per l’imposizione della locazione di un immobile non è autorizzato, in
virtù di tali disposizioni, ad escludere la detrazione dell’imposta sul valore
aggiunto per investimenti immobiliari effettuati prima dell’esercizio di tale
diritto di opzione, quando la domanda presentata ai fini di tale opzione non
è stata presentata entro sei mesi a partire dalla messa in servizio di tale
immobile.
Infatti, in quanto i soggetti passivi, in virtù dell’art. 13, parte C, primo
comma, della sesta direttiva, hanno la possibilità di optare per l’imposizione
della locazione di un immobile, l’esercizio di tale opzione deve comportare
non solo l’imposizione della locazione, ma anche la detrazione delle imposte
pertinenti che hanno gravato sul detto immobile a monte. Inoltre, una
restrizione delle detrazioni legate alle operazioni imponibili successiva all’esercizio
del diritto di opzione riguarderebbe non la «portata» del diritto di
opzione che gli Stati membri possono limitare in forza del secondo comma
dell’art. 13, parte C, della sesta direttiva, ma le conseguenze dell’esercizio di
tale diritto. Tale disposizione non autorizza, di conseguenza, gli Stati membri
a limitare il diritto di operare detrazioni previsto dall’art. 17 della sesta
direttiva, né la necessità di rettificare tali detrazioni in virtù dell’art. 20 della
medesima direttiva.
Per quanto riguarda la facoltà concessa agli Stati membri dall’art. 17,
n. 6, secondo comma, della sesta direttiva, essa si applica solo al mantenimento
delle esclusioni della detrazione per quanto riguarda talune categorie
di spese definite con riferimento alla natura del bene o del servizio acquistato
e non con riferimento alla destinazione impressagli o alle modalità di tale
destinazione.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 marzo 2006, nel procedimento
C-210/04 – Ministero dell’Economia e delle Finanze, Agenzia delle
Entrate contro FCE Bank plc.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 2, n. 1, e 9, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977,
77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati
membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta
sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1; in
prosieguo: la «sesta direttiva»).
92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La domanda è sorta nell’ambito di una controversia che vede contrapporsi
il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate
(Roma) (in prosieguo: l’«agenzia») alla FCE Bank plc, società bancaria stabilita
nel Regno Unito (in prosieguo: la «FCE Bank»), in merito al rimborso
di somme versate a titolo d’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo:
l’«IVA») dalla sede secondaria di quest’ultima, stabilita in Italia (in prosieguo:
la «FCE IT»).
La FCE IT è una sede secondaria, situata in Italia, della società FCE
Bank, stabilita nel Regno Unito, il cui oggetto sociale è lo svolgimento di
attività finanziarie che sono esenti dall’IVA.
La FCE IT ha fruito di prestazioni di servizi da parte della FCE Bank in
materia di consulenza, gestione, formazione del personale, trattamento di
dati, nonché di fornitura e gestione di servizi di software. Essa ha chiesto il
rimborso dell’IVA assolta in relazione a tali prestazioni per il quadriennio
1996-1999 sulla base di fatture da essa stessa emesse (operazione cosiddetta
di «autofatturazione»).
A seguito del silenzio-rifiuto opposto dall’amministrazione a tale domanda,
la FCE IT ha adito la Commissione tributaria provinciale di Roma, che
l’ha accolta. L’agenzia ha interposto appello avverso tale decisione deducendo,
da un lato, la prescrizione della domanda per gli anni 1996 e 1997 e, dall’altro,
l’infondatezza della domanda di rimborso per gli anni 1998 e 1999.
Con sentenza 29 marzo/25 maggio 2002, la Commissione tributaria
regionale del Lazio ha respinto l’appello in quanto, da un lato, la prescrizione
non era applicabile, trattandosi di pagamento effettuato in contrasto con
il diritto comunitario, e, dall’altro, la qualificazione come «prestazione di
servizi» non poteva accogliersi nel caso di operazioni realizzate senza corrispettivo
dalla società madre a favore della propria sede secondaria, difettando
il presupposto oggettivo dell’IVA. Il riaddebito dei costi dei servizi
della FCE Bank alla FCE IT rappresentava un’attribuzione dei costi all’interno
di una società.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha proposto
ricorso dinanzi alla Corte suprema di cassazione. Con il motivo di
ricorso si afferma che le prestazioni effettuate dalla FCE Bank sono soggette
a IVA in virtù dell’autonomia soggettiva d’imposta della FCE IT. Infatti, i
versamenti effettuati a favore della società madre dovrebbero essere considerati
un corrispettivo e costituirebbero, per ciò, una base imponibile.
Al contrario, secondo la FCE Bank, la FCE IT non ha personalità giuridica;
essa costituirebbe quindi un mero punto di collegamento ai fini dell’assoggettamento
ad IVA delle attività relative all’oggetto sociale. Inoltre,
l’IVA non sarebbe esigibile, trattandosi di prestazioni effettuate tra due enti
che costituiscono un solo soggetto passivo.
Alla luce di quanto sopra, la Corte suprema di cassazione ha deciso di
sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se gli artt. 2, n. l, e 9, n. 1, della sesta direttiva debbano essere interpretati
nel senso che la filiale di una società avente sede in altro Stato
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93
(appartenente o non all’Unione europea), avente le caratteristiche di una
unità produttiva, possa essere considerata soggetto autonomo, e quindi sia
configurabile un rapporto giuridico tra le due entità, con conseguente soggezione
ad IVA per le prestazioni di servizi effettuate dalla casa madre; se
per la sua definizione possa essere utilizzato il criterio dell’“arm’s length”
di cui all’art. 7, secondo e terzo comma, del modello di convenzione OCSE
contro la doppia imposizione e della convenzione 21 ottobre 1988 tra Italia,
Regno Unito e Irlanda del Nord; se sia configurabile un rapporto giuridico
nell’ipotesi di un “cost-sharing agreement” concernente la prestazione di
servizi alla struttura secondaria; nel caso affermativo, quali siano le condizioni
per ritenere sussistente tale rapporto giuridico; se la nozione di rapporto
giuridico debba trarsi dal diritto nazionale o dal diritto comunitario.
2) Se il riaddebito dei costi di tali servizi alla filiale possa, e in quale
misura, considerarsi corrispettivo dei servizi prestati, ai sensi dell’art. 2
della sesta direttiva, indipendentemente dalla misura del riaddebito e dal
conseguimento di un utile d’impresa.
3) Se, ove si ritengano le prestazioni di servizi tra casa madre e filiale in
principio esenti da IVA per mancanza di autonomia del soggetto destinatario
e conseguente non configurabilità di un rapporto giuridico tra le due
entità, nel caso in cui la casa madre sia residente in altro Stato membro
dell’Unione europea, una prassi amministrativa nazionale che ritenga, in
tale ipotesi, 1’imponibilità della prestazione sia contraria al diritto di stabilimento,
previsto dall’art. 43 del Trattato CE».
32. Da un lato, si deve ricordare che l’art. 2, n. 1, della sesta direttiva
dispone che sono soggette a IVA, in particolare, le prestazioni di servizi
effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che
agisce in quanto tale.
33. D’altro lato, l’art. 4 della sesta direttiva definisce i «soggetti passivi
». Sono tali le persone che esercitano un’attività economica «in modo indipendente
». Il n. 4 dello stesso articolo precisa che l’espressione «in modo
indipendente» esclude dall’imposizione le persone vincolate al rispettivo
datore di lavoro da qualsiasi rapporto giuridico che introduca vincoli di subordinazione
per quanto riguarda, in particolare, le condizioni di lavoro e di
retribuzione e la responsabilità del datore di lavoro (v. sentenza 6 novembre
2003, cause riunite da C-78/02 a C-80/02, Karageorgou e a.,
Racc. pag. I-13295, punto 35).
34. Al riguardo, dalla giurisprudenza della Corte risulta che una prestazione
è imponibile solo quando esista tra il prestatore e il destinatario un rapporto
giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche
prestazioni (v. sentenze 3 marzo 1994, causa C-16/93, Tolsma,
Racc. pag. I-743, punto 14, e 21 marzo 2002, causa C-174/00, Kennemer
Golf, Racc. pag. I-3293, punto 39).
35. Per stabilire l’esistenza di un rapporto giuridico del genere tra una
società non residente e una delle sue succursali al fine di assoggettare all’IVA
le prestazioni fornite, occorre verificare se la FCE IT svolga un’attività econo-
94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mica indipendente. In proposito, si deve esaminare se una succursale come la
FCE IT possa essere considerata autonoma in quanto banca, segnatamente nel
senso che sopporta il rischio economico inerente alla sua attività.
36. Orbene, come l’avvocato generale ha sottolineato al paragrafo 46
delle sue conclusioni, la succursale non sopporta essa stessa i rischi economici
connessi all’esercizio dell’attività di istituto di credito, quali, ad esempio,
il mancato rimborso di un prestito da parte di un cliente. È la banca, in
quanto persona giuridica, a sopportare tale rischio ed è per questo che essa è
soggetta, nello Stato membro di origine, ad un controllo di solidità finanziaria
e di solvibilità.
37. La FCE IT, infatti, in quanto succursale, non dispone di un fondo di
dotazione. Pertanto, il rischio connesso all’attività economica grava integralmente
sulla FCE Bank. La FCE IT risulta quindi dipendente da quest’ultima,
con la quale costituisce un soggetto passivo unico.
38. Tale considerazione non è rimessa in discussione dall’art. 9, n. 1,
della sesta direttiva. Questa norma mira ad individuare il soggetto passivo
nel caso di transazioni effettuate tra la succursale ed i terzi. Essa è dunque
priva di pertinenza in un caso come quello di specie, vertente su transazioni
effettuate tra una società stabilita in uno Stato membro e una delle sue succursali
stabilita in un altro Stato membro.
39. Per quanto riguarda la convenzione OCSE, occorre rilevare che essa
non è pertinente, in quanto vertente sulla fiscalità diretta, laddove l’IVArientra
nelle imposte indirette.
40. Infine, per quanto riguarda l’esistenza di un accordo in merito alla
ripartizione dei costi, si tratta ancora una volta di un elemento irrilevante ai
fini della presente causa, in quanto un tale accordo non è stato negoziato tra
parti indipendenti.
41. (...) gli artt. 2, n. 1, e 9, n. 1, della sesta direttiva devono essere interpretati
nel senso che un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico
distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in un altro Stato membro e
al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non dev’essere considerato
soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di
tali prestazioni.
44. Con la terza questione, il giudice del rinvio domanda se una prassi
amministrativa nazionale che assoggetta all’IVA una prestazione di servizi
fornita da una società madre a una sede secondaria, stabilita in un altro Stato
membro, sia in contrasto con il principio della libertà di stabilimento sancito
dall’art. 43 CE.
50. Come l’avvocato generale ha sottolineato al paragrafo 74 delle sue
conclusioni, la constatazione dell’incompatibilità di una normativa o di una
prassi nazionale con la sesta direttiva dispensa dall’esaminare se siano state
violate le libertà fondamentali previste dal Trattato, tra le quali la libertà di
stabilimento.
51. Come già dichiarato al punto 37 della presente sentenza, infatti, la
succursale di una società non residente è priva di autonomia e non esiste pertanto
alcun rapporto giuridico tra loro. Esse devono essere considerate un
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95
solo ed unico soggetto passivo ai sensi dell’art. 4, n. 1, della sesta direttiva.
La FCE IT non è dunque altro che un elemento della FCE Bank.
52. Risulta da quanto precede che la prassi amministrativa italiana è
incompatibile con la sesta direttiva, senza che occorra pronunciarsi sulla violazione
dell’art. 43 CE.
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 21 febbraio 2006, nel procedimento
C-223/03 – University of Huddersfield Higher Education orporation
contro Commissioners of Customs & Excise.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della
sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte
sulla cifra di affari – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto: base
imponibile uniforme (G.U. L. 145, pag. 1), come modificata con direttiva del
Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L. 102, pag. 18; in prosieguo: la
«sesta direttiva»).
Dalla decisione di rinvio risulta che l’Università fornisce essenzialmente
prestazioni di insegnamento, che sono prestazioni esenti da IVA. Tuttavia,
poiché effettua altresì talune cessioni di beni o prestazioni soggette ad imposta,
l’Università può, in forza del diritto nazionale, ricuperare l’IVA assolta
a monte secondo l’aliquota del suo assoggettamento parziale, la quale nel
1996 era del 14,56% e che successivamente è scesa al 6,04%.
Il giudice a quo rileva che, nel 1995, l’Università decideva di restaurare
due mulini in rovina, sui quali aveva acquistato un diritto reale di usufrutto
(«leasehold»). Tali due mulini sono conosciuti coi nomi di «West Mill» e
d’«East Mill» e si trovano a Canalside, Huddersfield. Poiché l’IVA pagata a
monte sulle spese di ristrutturazione era in ampia parte irrecuperabile in condizioni
normali, l’Università ha cercato un modo di ridurre il suo onere fiscale
o di ritardare il momento in cui la tassa avrebbe dovuto essere assolta.
In primo luogo ha effettuato e pagato i lavori realizzati sull’West Mill.
Con atto 27 novembre 1995 veniva costituito un trust discrezionale (in prosieguo:
il «trust»). L’atto autentico conteneva disposizioni che riservavano
all’Università il potere di nomina e di revoca dei «trustees». I «trustees»
nominati erano tre ex dipendenti dell’Università e i beneficiari erano
l’Università, qualsiasi studente iscritto in un determinato momento e qualsiasi
associazione di beneficenza. Alla stessa data, l’Università concludeva
con i «trustees» un contratto di garanzia («Deed of Indemnity») in forza del
quale garantiva questi ultimi da ogni responsabilità presente e futura derivante
da varie operazioni.
Il giudice a quo rileva che l’unico fine della costituzione del trust era
quello di rendere possibile la realizzazione del piano di riduzione dell’onere
fiscale proposto per l’East Mill il cui oggetto era il recupero da parte
dell’Università dell’IVA sulle spese di ristrutturazione.
96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Per quanto riguarda l’East Mill, che è l’edificio direttamente interessato
nella causa a qua, dalla decisione di rinvio risulta che, conformemente al
piano proposto dai suoi consulenti fiscali, il 21 novembre 1996 l’Università
optava per la tassazione dell’affitto dell’East Mill e, il 22 novembre 1996,
concedeva tale affitto imponibile al trust per 20 anni. Il contratto di affitto
conteneva una clausola che consentiva all’Università di porvi fine al sesto,
decimo e quindicesimo anno di affitto. Il canone annuo iniziale veniva fissato
nella somma simbolica di GBP 12,50. Alla stessa data, il trust, che aveva
anche optato per la cessione con IVA, concedeva a sua volta all’Università
una sublocazione imponibile per la durata di venti anni meno tre giorni ad
un canone annuo iniziale del simbolico importo di GBP 13 .
Dalla decisione del giudice a quo risulta ancora che, il 22 novembre
1996, l’University of Huddersfield Properties Ltd (in prosieguo:
«Properties»), una società interamente controllata dall’Università non
facente parte dello stesso gruppo IVA ai sensi dell’art. 4, n. 4, secondo
comma, della sesta direttiva, fatturava a quest’ultima un importo di
GBP 3 500 000 più GBP 612 500 di IVA, per i futuri servizi di costruzione
sull’East Mill. Il 25 novembre 1996, la Properties concludeva con
l’Università un contratto in vista della ristrutturazione dell’East Mill.
L’Università regolava la fattura della Properties a una data indeterminata.
Il giudice a quo fa presente che non è stata fornita alcuna prova di una qualsiasi
intenzione della Properties di conseguire un profitto fornendo servizi di
costruzione all’Università e da ciò conclude che quest’ultima non aveva
intenzione che la Properties conseguisse un siffatto profitto.
La Properties incaricava imprenditori terzi ai prezzi di mercato per fornire
all’Università i servizi di costruzione necessari per la ristrutturazione
dell’East Mill.
Nella dichiarazione IVA per il periodo di gennaio 1997, l’Università, la
quale aveva un debito netto di oltre GBP 90 000, evidenziava un rimborso a
suo favore di GBP 515 000, somma che i Commissioners, previa verifica, le
avrebbero pagato senza riserve consentendole di recuperare l’IVA fatturata
dalla Properties.
I lavori sull’East Mill venivano portati a termine da imprenditori terzi il
7 settembre 1998 e in questa stessa data l’Università incominciava ad occupare
l’immobile. Successivamente, i canoni dovuti in forza della locazione e
della sublocazione venivano aumentati fino a raggiungere GBP 400 000 e,
rispettivamente, GBP 415 000 l’anno.
Il giudice a quo rileva che l’utilizzo di un trust nel contesto dell’East Mill
e l’affitto da parte dell’Università al trust avevano il solo obiettivo di facilitare
il piano di riduzione dell’onere fiscale. Rileva inoltre che il solo fine
della sublocazione dell’East Mill da parte del trust all’Università era quello
di agevolare tale piano. Rileva infine che l’Università aveva l’intenzione
di ottenere un risparmio fiscale assoluto ponendo termine alla montatura
IVA posta in essere per l’East Mill entro due o tre anni, o al sesto, decimo e
quindicesimo anno di locazione (ponendo in tal modo anche termine al
pagamento dell’IVA sui canoni di affitto).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97
Il giudice a quo rileva ancora che l’insieme di tali operazioni erano operazioni
effettive, nel senso che esse hanno dato luogo a cessioni di beni o a prestazioni
di servizi realmente effettuati. Non si trattava pertanto di parvenze.
Con lettera 26 gennaio 2000, i Commissioners reclamavano
dall’Università, per il periodo di gennaio 1997, un importo di GBP 612 500 a
titolo di IVA su servizi di costruzione forniti dalla Properties per l’East Mill.
La lettera faceva altresì presente che tale imposta era stata attribuita in modo
non corretto a cessioni di beni o prestazioni imponibili e che si trattava di una
sottovalutazione dell’importo dell’IVA dichiarata.
Il giudice a quo precisa che, in questa stessa lettera, i Commissioners
qualificavano i contratti di affitto conclusi con il trust come «operazioni
inserite» di cui si poteva fare a meno per suffragare la validità delle domande
di recupero di IVA pagata a monte presentate dall’Università. Sulla linea
di tale ragionamento, i Commissioners sono arrivati alla conclusione che
l’IVA pagata a monte e richiesta all’Università dalla Properties era stata
trattata in modo non corretto dall’Università in quanto era stata attribuita a
cessioni di beni o prestazioni imponibili e interamente recuperata.
L’Università presentava ricorso dinanzi al VAT and Duties Tribunal
avverso la rettifica IVA notificata dai Commissioners con lettera 26 gennaio
2000.
Il VAT and Duties Tribunal, Manchester, ha posto alla Corte la seguente
questione pregiudiziale:
«Se, nel caso in cui:
i) un’università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante
qualsiasi fornitura a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile
a un Trust costituito e controllato dall’università;
ii) il Trust rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante
qualsiasi fornitura a tale immobile e concede all’università la sublocazione
dell’immobile;
iii) l’università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione
al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di
svolgere un’attività economica indipendente;
iv) la locazione e il leaseback [retrolocazione] costituivano, nell’intenzione
dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento
dell’IVA con la caratteristica intrinseca di permettere un risparmio fiscale
assoluto in un periodo successivo;
a) la locazione e la sublocazione costituiscano forniture tassabili ai fini
della sesta direttiva;
b) esse costituiscano attività economiche nel senso della seconda frase
dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva IVA».
Costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica
ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e
dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari,
come modificata dalla direttiva 95/7, le operazioni che integrino i criteri
98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate, anche se sono effettuate al
solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico.
Infatti, le nozioni di soggetto passivo e di attività economiche, nonché di
cessioni di beni e di prestazioni di servizi, che definiscono le operazioni
imponibili ai sensi della sesta direttiva, hanno tutte un carattere obiettivo e si
applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di
cui trattasi. A tal proposito, un obbligo dell’amministrazione fiscale di procedere
a indagine per accertare la volontà del soggetto passivo sarebbe contrario
agli scopi del sistema dell’imposta sul valore aggiunto di garantire la
certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’imposta
sul valore aggiunto dando rilevanza, salvo casi eccezionali, alla
natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi.
Se è certamente vero che i criteri menzionati non sono soddisfatti in caso
di frode fiscale, per esempio mediante false dichiarazioni o con l’emissione
di fatture irregolari, resta ciò non di meno che la questione se l’operazione
di cui trattasi sia effettuata al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale non
è pertinente per determinare se siffatta operazione costituisca una cessione di
beni o una prestazione di servizi e un’attività economica.
Sentenza della Corte, sezione terza, 6 luglio 2006, nei procedimenti
riuniti C-439/04 e C-440/04 – A.K. (procedimento C-439/04) contro
Stato belga, e Stato belga (procedimento C-440/04) contro Recolta
Recycling SPRL.
Il giudice del rinvio osserva, anzitutto, che le disposizioni del codice
belga sull’IVA oggetto delle cause principali costituiscono la trasposizione
nell’ordinamento interno dell’art. 2, dell’art. 4, n. 1, dell’art. 5, n. 1, e dell’art.
17, n. 2, della sesta direttiva.
Il detto giudice ricorda quindi che, secondo costante giurisprudenza
della Corte, la sesta direttiva si fonda sul principio di neutralità fiscale, che
tale principio osta, in materia di riscossione dell’IVA, ad una differenziazione
generalizzata tra le transazioni lecite e quelle illecite, ad eccezione dei
casi, estranei alla fattispecie in oggetto, nei quali, a causa di caratteristiche
particolari di talune merci, sia esclusa qualsivoglia concorrenza tra un settore
economico lecito ed uno illecito.
Il giudice del rinvio rileva inoltre che, nel diritto interno, un accordo
finalizzato all’organizzazione di una frode nei confronti di terzi, nella specie
lo Stato belga, i cui diritti sono tutelati da una normativa di ordine pubblico,
presenta una causa illecita ed è colpito da nullità assoluta. Riguardo all’interesse
generale, è sufficiente che una delle parti abbia contrattato per fini illeciti
e non occorre che tali fini siano noti all’altro contraente.
Nella causa C-439/04 la Cour de cassation ricorda che la Cour d’appel
di Liegi ha dichiarato che da un accordo nullo non possono derivare effetti
giuridici, quali la deduzione dell’IVA, quando la causa illecita è la frode
all’imposta stessa, e che il sig. A.K. fa valere, a sostegno del suo motivo di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99
ricorso per cassazione, che l’IVA fatturata dal soggetto passivo per una cessione
di beni può essere portata in deduzione, anche laddove sia operata in
occasione di un accordo viziato, secondo l’ordinamento interno, da nullità
assoluta, e che il diritto alla deduzione permane, ancorché la causa illecita
consista in una frode alla stessa IVA.
Nella causa C-440/04, lo Stato belga afferma, a sostegno del proprio
motivo di ricorso per cassazione, che l’IVA fatturata da un soggetto passivo
per una cessione di beni non può essere portata in detrazione quando la cessione,
ancorché materialmente operata, sia stata effettuata in virtù di un
accordo viziato, secondo l’ordinamento interno, da nullità assoluta, malgrado
la buona fede dell’acquirente.
Ciò premesso, la Cour de cassation decideva di sospendere il procedimento
e di sollevare dinanzi alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:
Nella causa C-439/04:
«1) Se, quando la cessione di beni sia destinata ad un soggetto passivo che
abbia stipulato in buona fede un contratto ignorando la frode commessa dal
venditore, il principio di neutralità fiscale dell’[IVA] osti a che la declaratoria
di nullità del contratto di compravendita, in virtù di una norma di diritto civile
interno che sanziona questo contratto con la nullità assoluta perché contrario
all’ordine pubblico per una causa illecita in capo all’alienante, comporti per il
detto soggetto passivo la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta.
2) Se la soluzione da dare sia diversa qualora la nullità assoluta derivi da
una frode alla stessa [IVA].
3) Se la soluzione da dare sia diversa qualora la causa illecita del contratto
di compravendita, che ne comporta la nullità assoluta per il diritto
interno, sia una frode all’[IVA] nota ad entrambi i contraenti».
Nella causa C-440/04:
«1) Se, quando la cessione di beni sia destinata ad un soggetto passivo che
abbia stipulato in buona fede un contratto ignorando la frode commessa dal
venditore, il principio di neutralità fiscale dell’[IVA] osti a che la declaratoria
di nullità del contratto di compravendita, in virtù di una norma di diritto civile
interno che sanziona questo contratto con la nullità assoluta perché contrario
all’ordine pubblico per una causa illecita in capo all’alienante, comporti per il
detto soggetto passivo la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta.
2) Se la soluzione da dare sia diversa qualora la nullità assoluta derivi da
una frode alla stessa [IVA]».
39. La sesta direttiva stabilisce un sistema comune dell’IVA basato, in
particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili (v., in
particolare, sentenze 26 giugno 2003, causa C-305/01, MKG-Kraftfahrzeuge-
Factoring, Racc. pag. I-6729, punto 38, e 12 gennaio 2006, cause riunite
C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., Racc. pag. I-483, punto 36).
40. La detta direttiva attribuisce un’amplissima sfera di applicazione
all’IVA, ricomprendendo, all’art. 2, relativo alle operazioni imponibili, oltre
100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
alle importazioni di beni, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate
a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce
in quanto tale (sentenza Optigen e a., cit., punto 37).
41. L’analisi delle nozioni di cessioni di beni effettuate da un soggetto
passivo che agisce in quanto tale e di attività economiche dimostra che tali
nozioni, che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della sesta direttiva,
hanno un carattere obiettivo e si applicano indipendentemente dagli scopi
e dai risultati delle operazioni di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza
Optigen e a., cit., punti 43 e 44).
42. Come rilevato dalla Corte al punto 24 della sentenza 6 aprile 1995,
causa C-4/94, BLP Group (Racc. pag. I-983), l’obbligo, da parte
dell’Amministrazione finanziaria, di effettuare indagini per accertare la
volontà del soggetto passivo sarebbe contrario agli scopi del sistema comune
dell’IVA di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni
inerenti all’applicazione dell’imposta dando rilevanza, salvo in casi eccezionali,
alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi.
43. Sarebbe a maggior ragione in contrasto con i detti obiettivi l’obbligo
dell’Amministrazione tributaria – allorché deve accertare se una data
operazione costituisca una cessione effettuata da un soggetto passivo, che
agisce in quanto tale, e un’attività economica – di tener conto dell’intenzione
di un operatore, diverso dal soggetto passivo di cui trattasi, che intervenga
nella stessa catena di cessioni e/o dell’eventuale natura fraudolenta, della
quale il detto soggetto passivo non aveva né poteva avere conoscenza, di
un’altra operazione facente parte di tale catena, precedente o successiva
all’operazione compiuta dal detto soggetto passivo (sentenza Optigen e a.,
cit., punto 46).
44. La Corte, al punto 51 della citata sentenza Optigen e a., ne ha tratto
la conseguenza che operazioni che non siano di per sé inficiate da frodi
all’IVA costituiscono cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo che
agisce in quanto tale e un’attività economica ai sensi degli artt. 2, punto 1, 4
e 5, n. 1, della sesta direttiva, in quanto soddisfano i criteri oggettivi sui quali
sono fondate le dette nozioni, indipendentemente dall’intenzione di un operatore,
diverso dal soggetto passivo di cui trattasi, che intervenga nella medesima
catena di cessioni e/o dall’eventuale natura fraudolenta, della quale il
detto soggetto passivo non aveva e non poteva avere conoscenza, di un’altra
operazione che faceva parte della detta catena di cessioni, precedente o successiva
all’operazione compiuta, dal detto soggetto passivo.
45. La Corte ha precisato che il diritto di dedurre l’IVApagata a monte da
parte di un soggetto passivo che effettua simili operazioni non può neanche
essere compromesso dalla circostanza che, nella catena di cessioni in cui si
inscrivono le dette operazioni, un’altra operazione, precedente o successiva a
quella da esso realizzata, sia inficiata da frode all’IVA senza che tale soggetto
passivo lo sappia o possa saperlo (sentenza Optigen e a., cit., punto 52).
46. Tale conclusione non può variare allorché siffatte operazioni, senza
che il soggetto passivo lo sappia o possa saperlo, vengono compiute nel contesto
di una frode commessa dal venditore.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101
47. Infatti, il diritto a deduzione previsto dagli artt. 17 e seguenti della
sesta direttiva costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in
linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni. Tale diritto va esercitato
immediatamente per tutte le imposte che hanno gravato le operazioni
effettuate a monte (v., in particolare, sentenze 6 luglio 1995, causa C-62/93,
BP Soupergaz, Racc. pag. I-1883, punto 18, e 21 marzo 2000, cause riunite
da C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa e a., Racc. pag. I-1577, punto 43).
48. Il sistema delle deduzioni è inteso a sgravare interamente l’imprenditore
dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività
economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, in tal modo, la neutralità
dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente
dallo scopo o dai risultati delle dette attività, purché queste siano, in
linea di principio, di per sé soggette all’IVA (v., in particolare, sentenze 22
febbraio 2001, causa C-408/98, Abbey National, Racc. pag. I-1361, punto
24, e 21 aprile 2005, causa C-25/03, HE, Racc. pag. I-3123, punto 70).
49. È irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA
pagata a monte, stabilire se l’IVA dovuta sulle operazioni di vendita precedenti
o successive riguardanti i beni interessati sia stata versata o meno all’Erario (v.,
in questo senso, ordinanza 3 marzo 2004, causa C-395/02, Transport Service,
Racc. pag. I-1991, punto 26). In base al principio fondamentale inerente al sistema
comune dell’IVAe risultante dagli artt. 2 della prima e sesta direttiva, l’IVA
si applica a qualsiasi operazione di produzione o di distribuzione, detratta l’imposta
che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del
prezzo (v., in particolare, sentenze 8 giugno 2000, causa C-98/98, Midland
Bank, Racc. pag. I-4177, punto 29; 27 novembre 2003, causa C-497/01, Zita
Modes, Racc. pag. I-14393, punto 37, e Optigen e a., cit., punto 54).
50. In tale contesto, come rilevato dal giudice del rinvio, risulta dalla
costante giurisprudenza che il principio della neutralità fiscale non consente
una distinzione generale fra le operazioni lecite e le operazioni illecite. Ne
deriva che la qualificazione di un comportamento come riprovevole non comporta,
di per sé, una deroga all’imposizione, ma di una tale deroga si tiene
conto solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche
particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza
tra un settore economico lecito e un settore illecito (v., segnatamente,
29 giugno 1999, causa C-158/98, Coffeeshop «Siberië», Racc. pag. I-3971,
punti 14 e 21, nonché 29 giugno 2000, causa C-455/98, Salumets e a., Racc.
pag. I-4993, punto 19). Orbene, è pacifico che ciò non si verifica né con i
componenti informatici né con gli autoveicoli di cui alla causa principale.
51. Alla luce delle suesposte considerazioni, risulta che gli operatori che
adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al
fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte di una frode, che
si tratti di frode all’IVA o di altre frodi, devono poter fare affidamento sulla
liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla deduzione
dell’IVA pagata a monte (v., in tal senso, sentenza 11 maggio 2006,
causa C-384/04, Federation of Technological Industries, Racc. pag. I-0000,
punto 33).
102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
52. Ne consegue che, qualora una cessione sia operata nei confronti di
un soggetto passivo che non sapeva e non poteva sapere che l’operazione
interessata si iscriveva in una frode commessa dal venditore, l’art. 17 della
sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che osta ad una norma di
diritto nazionale secondo cui l’annullamento del contratto di vendita – per
effetto di una disposizione di diritto civile che sanziona tale contratto con la
nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita
perseguita dall’alienante – comporta per il detto soggetto passivo la perdita
del diritto alla deduzione dell’IVA. Al riguardo, è irrilevante la questione se
detta nullità derivi da una frode all’IVA o da altre frodi.
53. Per contro, i criteri oggettivi su cui si fondano le nozioni di cessioni
di beni effettuate da un soggetto passivo in quanto tale e di attività economica
non sono soddisfatti in caso di frode fiscale perpetrata dallo stesso soggetto
passivo (v. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., Racc.
pag. I-0000, punto 59).
54. Infatti, come la Corte ha già dichiarato, la lotta contro la frode, l’evasione
fiscale e gli eventuali abusi è un obiettivo riconosciuto e promosso
dalla sesta direttiva (v., sentenza 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C-
7/02, Gemeente Leusden e Holin Groep, Racc. pag. I-5337, punto 76). Gli
interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto
comunitario (v., in particolare, sentenza 12 maggio 1998, causa C-367/96,
Kefalas e a., Racc. pag. I-2843, punto 20; 23 marzo 2000, causa C-373/97,
Diamantis, Racc. pag. I-1705, punto 33, e 3 marzo 2005, causa C-32/03, Fini
H, Racc. pag. I-1599, punto 32).
55. Se l’Amministrazione tributaria accerta che il diritto alla detrazione è
stato esercitato in modo fraudolento, può chiedere, con effetto retroattivo, il
rimborso degli importi detratti (v., segnatamente, sentenze 14 febbraio 1985,
causa 268/83, Rompelman, Racc. pag. 655, punto 24; 29 febbraio 1996, causa
C-110/94, INZO, Racc. pag. I-857, punto 24, e Gabalfrisa e a., cit., punto 46)
e spetta al giudice nazionale negare il beneficio del diritto a detrazione se è
dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che tale diritto viene invocato in
modo fraudolento o abusivo (v. sentenza Fini H, cit., punto 34).
56. Del pari, un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere
che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in
una frode all’IVA, ai fini della sesta direttiva si deve considerarlo partecipante
a tale frode, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno
beneficio dalla rivendita dei beni.
57. In una situazione del genere, infatti, il soggetto passivo collabora con
gli autori della frode e ne diviene complice.
58. Peraltro, rendendone più difficile la realizzazione, un’interpretazione
siffatta è tale da ostacolare le operazioni fraudolente.
59. Pertanto, spetta al giudice nazionale negare il beneficio del diritto
alla deduzione qualora risulti acclarato, alla luce degli elementi oggettivi,
che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio
acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA,
anche se l’operazione in oggetto soddisfaceva i criteri oggettivi sui quali si
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103
fondano le nozioni di cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo che
agisce in quanto tale e di attività economica.
60. Alla luce delle suesposte considerazioni, le questioni sollevate devono
essere risolte nel senso che, qualora una cessione sia operata nei confronti
di un soggetto passivo che non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione
interessata si iscriveva in una frode commessa dal venditore,
l’art. 17 della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che osta ad
una norma di diritto nazionale secondo cui l’annullamento del contratto di
vendita – in virtù di una disposizione di diritto civile che sanziona tale contratto
con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una
causa illecita perseguita dall’alienante – comporta per il detto soggetto passivo
la perdita del diritto alla deduzione dell’IVA. Al riguardo, è irrilevante
la questione se detta nullità derivi da una frode all’IVA o da altre frodi.
61. Per contro, qualora risulti acclarato, alla luce di elementi oggettivi,
che la cessione è stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che
sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto ad
un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA, spetta al giudice nazionale
negare al detto soggetto passivo il beneficio del diritto alla deduzione.
Sentenza della Corte, sezione terza, 14 settembre 2006, nel procedimento
C-228/05 – Stradasfalti Srl e Agenzia delle Entrate – Ufficio di
Trento.
La Stradasfalti è una società a responsabilità limitata di diritto italiano,
con sede legale in provincia di Trento, che opera nel settore delle costruzioni
stradali.
Essa dispone di veicoli aziendali che non formano oggetto dell’attività
propria dell’impresa, e per il cui acquisto, uso, manutenzione e rifornimento
di carburante non ha potuto beneficiare della detraibilità dell’IVA ad essi
afferente, secondo quanto previsto dalla normativa italiana.
Il 7 luglio 2004 la Stradasfalti, ritenendo tale normativa incompatibile
con le disposizioni della sesta direttiva relative alla detraibilità dell’IVA,
chiedeva all’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Trento la restituzione di circa
EUR 31 340, a titolo di rimborso dell’IVA indebitamente pagata dal 2000 al
2004 per l’acquisto, l’uso, la manutenzione ed il rifornimento di carburante
dei propri veicoli aziendali.
Con varie decisioni adottate il 15 luglio 2004, l’Agenzia delle
Entrate – Ufficio di Trento respingeva tale istanza.
Il 22 novembre 2004, la Stradasfalti proponeva un ricorso alla
Commissione tributaria di primo grado di Trento per ottenere l’annullamento
di tali decisioni ed il rimborso dell’IVA per i periodi considerati.
In tale contesto, la Commissione tributaria di primo grado di Trento ha
deciso di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva (…) in relazione
al n. 2 dello stesso articolo (…) vada interpretato nel senso che:
104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
a) il detto articolo si oppone a considerare “consultazione del comitato
IVA” di cui all’art. 29 della citata direttiva, la semplice notifica da parte di
uno Stato membro dell’adozione di una norma di legge nazionale, come
quella di cui all’attuale art. 19 bis 1 D.P.R. n. 633/72, lett. c) e d) e successive
proroghe, che limita il diritto di detrazione dall’IVA relativa all’impiego
e manutenzione dei beni di cui al paragrafo 2 dell’art. 17, sulla base di
una semplice presa d’atto da parte del comitato IVA;
b) lo stesso si oppone egualmente a considerare come misura ricadente
nel suo campo di applicazione una qualsivoglia limitazione del diritto a fruire
della detrazione IVA connessa all’acquisto, impiego e manutenzione dei
beni sub a) introdotta prima della consultazione del comitato IVA e mantenuta
in vigore attraverso numerose proroghe legislative, ripetutesi a catena
e senza soluzione di continuità da oltre venticinque anni;
c) in caso di risposta affermativa alla questione sub 1 b) si chiede che la
Corte indichi i criteri sulla scorta dei quali si possa determinare l’eventuale
durata massima delle proroghe, in relazione ai motivi congiunturali presi
in considerazione dall’art. 17, n. 7, della sesta direttiva; ovvero che precisi
se l’inosservanza della temporaneità delle deroghe (ripetute nel tempo)
attribuisca al contribuente il diritto a fruire della detrazione;
2) qualora i requisiti e le condizioni della procedura di cui all’art. 17,
n. 7, sopra richiamato, non risultassero rispettati, dica la Corte se l’art. 17,
n. 2, della citata direttiva vada interpretato nel senso che esso si oppone a
che una norma di legge nazionale od una prassi amministrativa adottata da
uno Stato membro dopo l’entrata in vigore della sesta direttiva (1º gennaio
1979 per l’Italia) possa limitare la detrazione dell’IVA connessa all’acquisto,
impiego e manutenzione di determinati autoveicoli, in via oggettiva e
senza limitazioni di tempo».
27. L’art. 17, n. 7, della sesta direttiva prevede una delle procedure di
autorizzazione di misure derogatorie contemplate dalla detta direttiva, accordando
agli Stati membri la facoltà di escludere alcuni beni dal regime delle
detrazioni «fatta salva la consultazione prevista dall’articolo 29».
28. Tale consultazione permette alla Commissione e agli altri Stati membri
di controllare l’uso da parte di uno Stato membro della possibilità di derogare
al regime generale delle detrazioni dell’IVA, verificando, in particolare,
se la misura nazionale di cui trattasi soddisfi la condizione di essere stata
adottata per motivi congiunturali.
29. L’art. 17, n. 7, della sesta direttiva prevede così un obbligo procedurale
che gli Stati membri devono rispettare per potersi avvalere della norma
derogatoria da esso stabilita. La consultazione del comitato IVA risulta essere
un presupposto dell’adozione di qualsiasi misura basata su detta disposizione
(v. sentenza Metropol e Stadler, cit., punti 61-63).
30. L’obbligo di consultare il comitato IVA sarebbe privo di senso qualora
gli Stati membri si limitassero a notificare al medesimo la misura nazionale
derogatoria che intendono adottare senza corredare tale notifica della
minima spiegazione sulla natura e sulla portata della misura. Il comitato IVA
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105
deve essere in grado di deliberare validamente sulla misura ad esso sottoposta.
L’obbligo procedurale previsto all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva presuppone
quindi che gli Stati membri informino tale comitato del fatto che
intendono adottare una misura derogatoria e che gli forniscano informazioni
sufficienti per consentirgli di esaminare tale misura con cognizione di causa.
31. Per contro, l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva non prevede alcun
obbligo quanto al risultato della consultazione del comitato IVA, e in particolare
non impone a tale comitato di pronunciarsi favorevolmente o sfavorevolmente
sulla misura nazionale derogatoria. Nulla impedisce quindi al
comitato IVA di limitarsi a prendere atto della misura nazionale derogatoria
che gli viene comunicata.
32. (...) l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva impone che gli
Stati membri, per rispettare l’obbligo procedurale di consultazione di cui
all’art. 29 della medesima direttiva, informino il comitato IVA del fatto che
intendono adottare una misura nazionale che deroga al regime generale delle
detrazioni dell’IVA e che forniscano a tale comitato informazioni sufficienti
per consentirgli di esaminare la misura con cognizione di causa.
50. Per quanto riguarda la prima questione, sub b), con cui si chiede se
l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva autorizzi uno Stato membro a escludere
taluni beni dal regime di detrazione dell’IVA senza previa consultazione del
comitato IVA, la Corte ha già dichiarato, come è stato osservato sopra al
punto 29, che la consultazione di tale comitato è un presupposto dell’adozione
di qualsiasi misura basata su detta disposizione (v. sentenza Metropol e
Stadler, cit., punti 61-63).
51. Contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, la risposta a tale
questione non può essere dedotta dalla soluzione elaborata dalla Corte nella citata
sentenza Sudholz. Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato segnatamente che
l’art. 27 della sesta direttiva non imponeva al Consiglio di dare la sua autorizzazione
a misure particolari derogatorie prese dagli Stati membri, prima dell’adozione
di tali misure. Tuttavia, la procedura di consultazione prevista all’art. 17,
n. 7, della sesta direttiva, in questione nella fattispecie, non ha il medesimo
oggetto della procedura di autorizzazione prevista all’art. 27 della stessa direttiva.
Non è dunque fondata la tesi del governo italiano secondo cui dalla sentenza
Sudholz, citata, risulterebbe che la soluzione già fornita dalla Corte nella citata
sentenza Metropol e Stadler andrebbe esclusa nella fattispecie.
52. Quanto alla prima questione, sub c), prima parte, con cui si chiede se
l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva autorizzi uno Stato membro ad escludere
taluni beni dal regime di detrazione dell’IVA senza limitazioni temporali, va
ricordato che tale articolo autorizza gli Stati membri a escludere taluni beni
dal regime delle detrazioni «per motivi congiunturali».
53. Tale disposizione autorizza dunque uno Stato membro ad adottare
misure temporanee destinate ad ovviare alle conseguenze di una situazione
congiunturale in cui si trova la sua economia in un determinato momento.
Pertanto, l’applicazione delle misure a cui si riferisce tale disposizione deve
essere limitata nel tempo e, per definizione, le medesime non possono essere
di natura strutturale.
106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
54. Ne consegue che l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva non
autorizza uno Stato membro ad adottare provvedimenti che escludano beni
dal regime delle detrazioni dell’IVAove siano privi di indicazioni quanto alla
loro limitazione temporale e/o facciano parte di un insieme di provvedimenti
di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e a consentire
il rimborso del debito pubblico (v. sentenza Metropol e Stadler, cit.,
punto 68).
55. Pertanto, la prima questione pregiudiziale, sub b) e c), prima parte,
va risolta dichiarando che l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva
dev’essere interpretato nel senso che esso non autorizza uno Stato membro
ad escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni dell’IVA senza previa
consultazione del comitato IVA. La detta disposizione non autorizza nemmeno
uno Stato membro ad adottare provvedimenti che escludano alcuni beni
dal regime delle detrazioni di tale imposta ove siano privi di indicazioni
quanto al loro limite temporale e/o facciano parte di un insieme di provvedimenti
di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e a
consentire il rimborso del debito pubblico.
66. In forza dell’obbligo generale sancito dall’art. 189, terzo comma, del
Trattato CE (divenuto art. 249, terzo comma, CE), gli Stati membri sono
tenuti a conformarsi a tutte le disposizioni della sesta direttiva (v. sentenza
11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz, Racc. pag. I-3795, punto 33).
Qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita conformemente
all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, le autorità tributarie nazionali
non possono opporre ad un soggetto passivo una disposizione che deroga
al principio del diritto alla detrazione dell’IVAenunciato dall’art. 17, n. 1,
della stessa direttiva (v. sentenza Metropol e Stadler, citata, punto 64).
67. Nella controversia principale, anche se il governo italiano sostiene
che le richieste di consultazione del comitato IVA, nel 1999 e nel 2000,
hanno preceduto l’adozione della misura nazionale di proroga della disposizione
derogatoria al principio del diritto a detrazione dell’IVA, è pacifico che
tale disposizione, salvo modifiche di esigua importanza, è stata sistematicamente
prorogata dal governo italiano a partire dal 1980. Essa non può presentare
quindi un carattere temporaneo e non può nemmeno essere considerata
motivata da ragioni congiunturali. Tale misura deve, di conseguenza,
essere considerata parte di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale,
non rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 17, n. 7, della sesta
direttiva. Il governo italiano non può dunque invocare tali misure a discapito
di un soggetto passivo (v., in tal senso, sentenza Metropol e Stadler, cit.,
punto 65).
68. Il soggetto passivo cui sia stata applicata tale misura deve poter ricalcolare
il suo debito IVA conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2,
della sesta direttiva, nella misura in cui i beni e i servizi sono stati impiegati
ai fini di operazioni soggette ad imposta.
69. ( ..) qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata
stabilita conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, le autorità tributarie
nazionali non possono opporre ad un soggetto passivo una disposi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 107
zione che deroga al principio del diritto alla detrazione dell’IVA enunciato
dall’art. 17, n. 1, della medesima direttiva. Il soggetto passivo cui sia stata
applicata tale misura derogatoria deve poter ricalcolare il suo debito IVA
conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2, della sesta direttiva, nella
misura in cui i beni e i servizi sono stati impiegati ai fini di operazioni soggette
ad imposta.
Sulla richiesta di limitazione degli effetti nel tempo della sentenza
70. Il governo italiano ha evocato la possibilità che la Corte, nel caso in
cui dovesse ritenere che le deroghe al diritto a detrazione per gli anni
2000-2004 non siano state introdotte conformemente all’art. 17, n. 7, della
sesta direttiva, limiti nel tempo gli effetti della presente sentenza.
71. Asostegno di tale domanda, il governo italiano invoca il grave danno
per l’erario che può essere causato dalla sentenza della Corte e la tutela del
legittimo affidamento che esso poteva nutrire quanto alla conformità al diritto
comunitario della misura in questione. Esso osserva, a tale riguardo, che
la Commissione, nel 1999 e nel 2000, ha emesso un parere favorevole alle
misure da adottare in attesa dell’approvazione della direttiva che doveva
disciplinare in via organica la materia e che la Commissione non ha mai formulato
alcuna contestazione alla Repubblica italiana circa il mantenimento
della deroga.
72. Si deve rilevare che solo in via eccezionale la Corte, applicando il
principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico
comunitario, può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati
di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione
rapporti giuridici costituiti in buona fede. Per stabilire se si debba limitare
la portata di una sentenza nel tempo, è necessario tener conto del fatto
che, benché le conseguenze pratiche di qualsiasi pronuncia del giudice vadano
vagliate accuratamente, non ci si può tuttavia spingere fino a sminuire l’obiettività
del diritto e compromettere la sua applicazione futura a motivo
delle ripercussioni che la pronuncia può avere per il passato (sentenze 2 febbraio
1988, causa 24/86, Blaizot, Racc. pag. 379, punti 28 e 30, nonché 16
luglio 1992, causa C-163/90, Legros e a., Racc. pag. I-4625, punto 30).
73. Nella fattispecie, se è vero che la Commissione ha avallato la domanda
delle autorità italiane per gli anni in questione nella controversia principale,
dalle osservazioni presentate alla Corte risulta tuttavia che il comitato
IVA, fin dal 1980, ha costantemente segnalato al governo italiano come la
deroga in questione non potesse giustificarsi sulla base dell’art. 17, n. 7,
della sesta direttiva, e che l’atteggiamento più conciliante adottato dal detto
comitato nelle sue riunioni del 1999 e del 2000 si spiega alla luce dell’impegno
assunto dalle autorità italiane di riesaminare la misura a partire dal 1º
gennaio 2001, nonché sulla base delle prospettive allora aperte dalla proposta
della Commissione di modificare la sesta direttiva per quanto concerne il
regime del diritto alla detrazione dell’IVA.
74. Ciò premesso, le autorità italiane non potevano ignorare che una proroga
sistematica, a partire dal 1979, di una misura derogatoria che doveva
essere temporanea e che, in virtù della lettera stessa dell’art. 17, n. 7, della
108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sesta direttiva, poteva essere giustificata solo da «motivi congiunturali», non
era compatibile con tale articolo.
75. Le autorità italiane non possono, di conseguenza, far valere l’esistenza
di rapporti giuridici costituiti in buona fede per chiedere alla Corte di limitare
nel tempo gli effetti della sua sentenza.
76. Inoltre, il governo italiano non è riuscito a dimostrare l’affidabilità
del calcolo in base al quale ha sostenuto dinanzi alla Corte che la presente
sentenza rischierebbe, qualora i suoi effetti non fossero limitati nel tempo, di
comportare conseguenze finanziarie rilevanti.
77. Di conseguenza, non occorre limitare nel tempo gli effetti della presente
sentenza.
Sentenza della Corte, sezione terza, 7 settembre 2006, nel procedimento
C-166/05 – Heger Rudi GmbH e Finanzamt Graz-Stadt.
La Heger è una società con sede in Germania e non dispone di stabilimenti
in Austria. Negli anni 1997 e 1998 essa acquistava contingenti di permessi
di pesca relativi al Gmundner Traun, fiume che scorre nell’Austria
superiore, da una società avente sede in Austria, la Flyfishing Adventure
GmbH . Tali permessi legittimavano i detentori a pescare in specifici tratti
del fiume in determinati periodi dell’anno. La Heger rivendeva i permessi a
numerosi clienti di diversi Stati membri.
In aggiunta al prezzo di vendita dei permessi la Flyfishing fatturava alla
Heger l’IVA austriaca al tasso del 20%, per un totale di ATS 252.000 (circa
EUR 18 300).
Nel dicembre 1999, richiamandosi alle disposizioni di attuazione nell’ordinamento
austriaco dell’ottava direttiva, la Heger chiedeva all’autorità
austriaca competente il rimborso dell’IVA pagata in relazione all’acquisto
di permessi di pesca per gli anni 1997 e 1998.
La domanda veniva respinta in quanto la rivendita dei permessi di pesca
da parte della Heger ai suoi clienti avrebbe costituito una prestazione di servizi
relativa a un bene immobile ubicato in Austria, per la qual cosa non
sarebbe stato possibile procedere al rimborso dell’IVA pagata a monte.
La Heger impugnava la decisione dinanzi al Verwaltungsgerichtshof
[Corte suprema di giustizia amministrativa], il quale decideva di sospendere
il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se l’attribuzione della legittimazione all’esercizio della pesca, attuata
mediante il trasferimento a titolo oneroso di permessi di pesca, costituisca
una “prestazion[e] di servizi relativ[a] a un bene immobile” ai sensi dell’art.
9, n. 2, lett. a), della [sesta direttiva]».
15. (…) l’art. 9, n. 1, della sesta direttiva contiene una regola generale
per determinare il luogo di collegamento fiscale, mentre il n. 2 del medesimo
articolo indica una serie di collegamenti specifici.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 109
16. Con riferimento al rapporto tra i primi due paragrafi dell’art. 9 della
sesta direttiva la Corte ha già dichiarato che non esiste alcuna preminenza del
n. 1 sul n. 2 di tale norma. La questione che si pone in ciascun caso di specie è
se esso rientri in una delle ipotesi menzionate all’art. 9, n. 2, della detta direttiva;
altrimenti esso rientra nell’art. 9, n. 1 (v., in tal senso, sentenze 26 settembre
1996, causa C-327/94, Dudda, Racc. pag. I-4595, punto 21, e 27 ottobre 2005,
causa C-41/04, Levob Verzekeringen e OV Bank, Racc. pag. I-9433, punto 33).
17. Ne consegue che l’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva non può
essere considerato un’eccezione ad una regola generale, da interpretare in
senso restrittivo (v., in tal senso, sentenza 15 marzo 2001, causa C-108/00,
SPI, Racc. pag. I-2361, punto 17).
18. Si deve dunque verificare se un’operazione come quella oggetto
della causa principale può rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 9,
n. 2, della sesta direttiva. Perché la rivendita dei permessi di pesca di cui trattasi
possa essere considerata una prestazione di servizi relativa a un bene
immobile nel senso dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva, occorre per
prima cosa che la cessione di tali diritti costituisca una «prestazione di servizi
» e che le parti di fiume cui si riferiscono i permessi possano essere qualificate
«beni immobili».
19. Come ha osservato l’avvocato generale ai punti 28 e 29 delle conclusioni,
siccome la Repubblica d’Austria non sembra essersi avvalsa della
facoltà, accordata agli Stati membri dall’art. 5, n. 3, della sesta direttiva, di
considerare determinati diritti su beni immobili nonché taluni diritti reali
idonei a conferire al loro titolare un potere d’uso su tali beni come «beni
materiali», la cessione a titolo oneroso dei permessi di pesca oggetto della
causa principale non può essere qualificata cessione di beni ai sensi dell’art.
5, n. 1, della sesta direttiva. Detta cessione costituisce, dunque, una prestazione
di servizi ai sensi dell’art. 6, n. 1, di tale direttiva.
20. Quanto alla nozione di «bene immobile», occorre ricordare che una
delle caratteristiche fondamentali di un tale bene è di essere collegato a una
porzione determinata della superficie terrestre. La Corte ha già affermato in
proposito che un terreno delimitato in modo permanente o addirittura sommerso
dall’acqua può essere qualificato bene immobile (v., in tal senso, sentenza
3 marzo 2005, causa C-428/02, Fonden Marselisborg Lystbådehavn,
Racc. pag. I-1527, punto 34).
21. Diritti di pesca come quelli acquisiti e rivenduti dalla Heger permettono
l’esercizio della pesca in tratti ben precisi del corso d’acqua considerato.
Tali diritti, che riguardano non l’acqua che scorre nel fiume e si rinnova
senza sosta, bensì zone geografiche determinate in cui possono essere esercitati,
sono collegati, quindi, ad una superficie ricoperta d’acqua delimitata
in modo permanente.
22. Ne consegue che le parti di fiume per cui valgono i permessi di pesca
in questione devono essere considerate beni immobili ai sensi dell’art. 9,
n. 2, lett. a), della sesta direttiva.
23. Ciò detto, resta da verificare se il nesso tra il servizio in questione e
i detti beni immobili sia sufficiente. Sarebbe, infatti, contrario all’economia
110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva far rientrare nell’ambito di applicazione
di tale norma speciale ogni prestazione di servizi che presenti un
nesso anche minimo con un bene immobile, visto che i servizi che si riferiscono
in una maniera o nell’altra a un bene immobile sono ben numerosi.
24. È per questo che solo le prestazioni di servizi che presentano un
nesso sufficientemente diretto con un bene immobile rientrano nell’ambito
di applicazione dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva. Un nesso del
genere caratterizza, d’altronde, tutte le prestazioni di servizi elencate in tale
disposizione.
25. I diritti di pesca oggetto della causa principale possono essere esercitati
solo in rapporto al fiume considerato e nei tratti di quest’ultimo menzionati
nei permessi. Il corso d’acqua medesimo rappresenta, dunque, un elemento
integrante dei permessi di pesca e, pertanto, della cessione dei diritti
di pesca. Là dove una prestazione di servizi, come quella oggetto della causa
principale, consiste proprio nella cessione di un diritto d’uso del bene, qui il
fiume, tale immobile costituisce un elemento centrale ed indispensabile della
prestazione. Il luogo di ubicazione dell’immobile corrisponde, inoltre, al
luogo di consumo finale del servizio.
26. Da tutti questi elementi emerge un nesso sufficientemente diretto fra
la cessione dei diritti di pesca e i tratti del corso d’acqua ai quali questi ultimi
si riferiscono. Un servizio come quello fornito dalla Heger è, di conseguenza,
relativo a un bene immobile ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. a), della
sesta direttiva.
27. La questione pregiudiziale dev’essere pertanto risolta nel senso che
il fatto di concedere un diritto di pesca mediante il trasferimento a titolo oneroso
di permessi di pesca costituisce una prestazione di servizi relativa a un
bene immobile ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 14 settembre 2006, nei procedimenti
riuniti da C-181/04 a C-183/04 – Elmeka NE e Ypourgos
Oikonomikon.
Le domande sono state poste nell’ambito di una controversia che oppone
la società Elmeka NE all’Ypourgos Oikonomikon (Ministro delle
Finanze), in merito al rifiuto di quest’ultimo di esentare dal pagamento dell’imposta
sul valore aggiunto operazioni che avevano dato luogo a tariffe di
nolo per il trasporto di combustibili per l’approvvigionamento delle navi.
Il Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato), ha sottoposto alla Corte
le seguenti questioni pregiudiziali, che presentano un’identica formulazione
in ciascuna delle cause da C-181/04 a C-183/04:
«1) Se l’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta direttiva (…) a cui rinvia la
disposizione dell’art. 15, n. 5, di tale direttiva, riguardi il noleggio tanto di
navi d’alto mare che effettuano il trasporto a pagamento di passeggeri quanto
anche di navi usate nell’esercizio di attività commerciali, industriali e
della pesca, o riguardi il noleggio di navi d’alto mare e solo esso, quando, in
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 111
questo secondo caso, la disciplina ai sensi dell’art. 22, n. 1, lett. d), della
legge n. 1642/1986 sia più ampia di quella della direttiva, relativamente alla
categoria delle navi che il noleggio riguarda.
2) Se per l’esenzione dall’imposta, ai sensi del disposto dell’art. 15, n. 8,
della sesta direttiva di cui sopra, sia necessaria la prestazione di un servizio
allo stesso armatore, o se l’esenzione venga accordata anche per un servizio
prestato ad un terzo alla sola condizione che venga realizzato per un bisogno
diretto delle navi menzionate al n. 5 dell’art. 15, e cioè delle navi di cui alle
lettere a) e b) del n. 4 di tale articolo.
3) Se sia consentito o no, e a quali condizioni, secondo le norme e i principi
comunitari che disciplinano l’applicazione dell’[IVA], l’addebitamento
del tributo per un periodo passato qualora la sua mancata ripercussione, per
tale periodo, sulla controparte contrattuale da parte del debitore dell’imposta e,
di conseguenza, il suo mancato versamento al fisco, siano dovuti alla convinzione
del debitore che l’imposta non dovesse essere ripercossa e tale convinzione
sia stata causata da un comportamento dell’amministrazione tributaria».
14. (..) nonostante talune versioni linguistiche dell’art. 15, n. 4, lett. a),
della sesta direttiva si prestino ad interpretazioni discordanti, la struttura e
lo scopo di tale disposizione suggeriscono che il criterio dell’impiego in
alto mare si debba applicare a tutti i tipi di navi menzionati nella detta
disposizione. Dall’intitolazione dello stesso articolo, ossia «Esenzione delle
operazioni all’esportazione fuori della Comunità, delle operazioni assimilate
e dei trasporti internazionali», emerge che le disposizioni di tale articolo
mirano ad esentare dall’IVA, a determinate condizioni, le cessioni di beni
destinati all’approvvigionamento delle navi. L’applicazione del criterio
della navigazione d’alto mare non consente l’esenzione per molte navi adibite
alla navigazione in mare che esercitano attività commerciali, industriali
o della pesca, se queste attività non sono svolte in alto mare. Se si dovesse
intendere che tale disposizione non riguarda soltanto le navi adibite alla
navigazione d’alto mare, il n. 4, lett. b), del medesimo articolo, che prevede
anch’esso un’esenzione del genere per le navi adibite alla pesca costiera,
sarebbe superfluo.
15. Inoltre, l’interpretazione secondo cui l’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta
direttiva si applica alle sole navi adibite alla navigazione d’alto mare, corrisponde
alla giurisprudenza costante della Corte, secondo la quale le esenzioni
dall’IVAdevono essere interpretate in maniera restrittiva, dato che costituiscono
deroghe al principio generale secondo cui l’imposta sulla cifra d’affari
è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto
passivo (v., in particolare, sentenze 26 giugno 1990, causa C-185/89,
Velker International Oil Company, Racc. pag. I-2561, punto 19, e 16 settembre
2004, causa C-382/02, Cimber Air, Racc. pag. I-8379, punto 25).
16. (..) l’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta direttiva, al quale rinvia il n. 5
del medesimo articolo, si applica non soltanto alle navi adibite alla navigazione
d’alto mare e utilizzate nel trasporto a pagamento di passeggeri, ma
anche alle navi adibite alla navigazione d’alto mare che esercitano attività
commerciali, industriali o della pesca.
112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
21. Le operazioni di rifornimento di navi, menzionate all’art. 15, n. 4,
della sesta direttiva, sono esentate in quanto sono equiparate ad operazioni
all’esportazione (v., in tal senso, sentenza Velker International Oil Company,
cit, punto 21).
22. Come, nel caso di operazioni all’esportazione, l’esenzione di diritto
di cui all’art. 15, n. 1, della sesta direttiva si applica esclusivamente alle cessioni
finali di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto al di
fuori della Comunità, così l’esenzione di cui al n. 4 del medesimo articolo si
può applicare unicamente alle cessioni di beni all’armatore che utilizzerà tali
beni per il rifornimento e non può essere pertanto estesa alle cessioni di beni
effettuate in uno stadio commerciale anteriore (v., in tal senso, sentenza
Velker International Oil Company, cit, punto 22).
23. Infatti, l’estensione dell’esenzione agli stadi che precedono la cessione
finale dei beni all’armatore richiederebbe che gli Stati organizzassero
meccanismi di controllo e di sorveglianza per assicurare che i beni ceduti in
esenzione fiscale raggiungano la loro ultima destinazione. Questi meccanismi
si tradurrebbero, per gli Stati e per gli operatori interessati, in costrizioni
inconciliabili con la «corretta e semplice applicazione delle esenzioni» di
cui alla prima frase dell’art. 15 della sesta direttiva (v., in tal senso, sentenza
Velker International Oil Company, cit, punto 24).
24. Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 28 delle sue
conclusioni, le considerazioni che motivano tale sentenza sono applicabili anche
all’esenzione delle prestazioni di servizi ai sensi dell’art. 15, n. 8, della sesta
direttiva. Di conseguenza, per garantire un’applicazione coerente della sesta
direttiva nel suo insieme, l’esenzione prevista da tale disposizione si applica unicamente
alle prestazioni di servizi direttamente fornite all’armatore e non può
pertanto essere estesa a quelle effettuate in uno stadio commerciale anteriore.
25. (...) l’art. 15, n. 8, della sesta direttiva deve essere interpretato nel
senso che l’esenzione da esso prevista riguarda prestazioni di servizi direttamente
fornite all’armatore per sopperire ai bisogni immediati delle navi.
26. Con la terza questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se,
secondo le norme e i principi comunitari che disciplinano l’applicazione
dell’IVA, un atto dell’amministrazione tributaria nazionale che autorizza un
soggetto passivo a non ripercuotere l’IVA sulla sua controparte contrattuale
possa, sebbene tale atto sia illegittimo, far sorgere un legittimo affidamento
del soggetto passivo che osta al pagamento a posteriori della detta imposta.
30. Dalle decisioni di rinvio emerge che sono in causa decisioni provvisorie
del 5 giugno 1997 dell’amministrazione tributaria competente, riguardanti
la riscossione dell’IVA dovuta per gli esercizi 1994 (causa C-183/04),
1995 (causa C-182/04) e 1996 (causa C-181/04), che comportano la revoca
di un documento di esenzione dalla detta imposta precedentemente adottato
dal servizio delle imposte del Pireo.
31. A tal riguardo, secondo costante giurisprudenza della Corte, i principi
della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto fanno parte
dell’ordinamento giuridico comunitario; pertanto devono essere rispettati
dalle istituzioni comunitarie ma anche dagli Stati membri nell’esercizio dei
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 113
poteri loro conferiti dalle direttive comunitarie (v., in particolare, sentenze 3
dicembre 1998, causa C-381/97, Belgocodex, Racc. pag. I-8153, punto 26, e
26 aprile 2005, causa C-376/02, «Goed Wonen», Racc. pag. I-3445, punto
32). Le autorità nazionali sono perciò tenute a rispettare il principio della tutela
del legittimo affidamento degli operatori economici.
32. Per quanto riguarda il principio della tutela del legittimo affidamento
del beneficiario dell’atto favorevole, occorre, in primo luogo, verificare se
gli atti dell’autorità amministrativa abbiano ingenerato fondate aspettative in
capo ad un operatore economico prudente ed accorto (v., in tal senso, sentenze
10 dicembre 1975, cause riunite da 95/74 a 98/74, 15/75 e 100/75, Union
nationale des coopératives agricoles de céréales e a./Commissione e
Consiglio, Racc. pag. 1615, punti 43-45, e 1° febbraio 1978, causa 78/77,
Lührs, Racc. pag. 169, punto 6). Se la risposta a tale quesito dà esito positivo,
occorre, in secondo luogo, accertare la legittimità di tali aspettative.
33. Nel caso di specie, come esposto nelle decisioni di rinvio, l’Elmeka ha
inoltrato al servizio delle imposte del Pireo una domanda volta a sapere se, per
l’attività di rifornimento delle navi, essa era esentata dal pagamento dell’IVA,
ai sensi dell’art. 22 della legge n. 1642/1986, e, in tal caso, in base a quale procedura.
Il detto servizio le ha risposto dichiarando che le polizze di carico
erano esenti dall’IVA conformemente al disposto del detto art. 22, lett. c) e d).
34. Si deve inoltre rilevare che il governo ellenico ha fatto presente, sia
nelle sue osservazioni scritte sia all’udienza, che esiste un’espressa disposizione
di diritto interno che designa l’autorità nazionale competente a rispondere
alle domande poste dai cittadini in ordine a problemi giuridici in materia
di fiscalità.
35. Al riguardo, spetta al giudice nazionale verificare se l’Elmeka, la
quale ha come oggetto sociale l’utilizzo di una nave cisterna con cui effettua
trasporti di prodotti petroliferi per conto di vari noleggiatori, potesse ragionevolmente
presumere che il servizio delle imposte del Pireo fosse competente
a decidere sull’applicazione dell’esenzione alla sua attività.
36. (..) nell’ambito del sistema comune di IVA, le autorità tributarie
nazionali sono tenute a rispettare il principio della tutela del legittimo affidamento.
Spetta al giudice del rinvio valutare se, nelle circostanze delle cause
principali, il soggetto passivo potesse ragionevolmente presumere che la
decisione controversa fosse stata adottata da un’autorità competente.
IMPOSTE E TASSE
– Accise
Sentenza della Corte, sezione terza, 23 novembre 2006, nel procedimento
C-5/05 – Staatssecretaris van Financiën Contro B.F.J.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 7-9 della direttiva del Consiglio 25 febbraio 1992, 92/12/CEE, relativa
114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
al regime generale, alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti
soggetti ad accisa (G.U. L 76, pag. 1), nel testo modificato dalla direttiva
del Consiglio 14 dicembre 1992, 92/108/CEE (G.U. L 390, pag. 124; in
prosieguo: la «direttiva»).
Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra lo
Staatssecretaris van Financiën (segretario di Stato delle Finanze) e il sig. J.
in merito all’applicazione nei Paesi Bassi di accise su vini acquistati da quest’ultimo
in Francia per il fabbisogno sia proprio sia di altri soggetti privati
e spedito nei Paesi Bassi, per conto del medesimo, da parte di un’impresa di
trasporti stabilita in quest’ultimo Stato membro.
25. Con le questioni pregiudiziali, che appare opportuno esaminare congiuntamente,
il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se la direttiva
debba essere interpretata nel senso che, quando un privato, come il sig. J.,
che non operi a titolo commerciale e non persegua scopi lucrativi, acquisti in
uno Stato membro, per il fabbisogno sia personale sia di altri privati, prodotti
soggetti ad accisa, nella specie vino, già immessi al consumo nello Stato
membro medesimo, e ne affidi successivamente, per proprio conto, la spedizione
ad un’impresa di trasporti stabilita in un secondo Stato membro, le
accise siano parimenti dovute in quest’ultimo Stato.
27. Come la Corte ha già avuto modo di rilevare, la direttiva ha inteso
fissare un certo numero di regole quanto alla detenzione, alla circolazione ed
ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa, segnatamente al fine di assicurare
che l’esigibilità delle accise sia identica in tutti gli Stati membri (v. sentenze
EMU Tabac e a., cit supra, punto 22; 5 aprile 2001, causa C-325/99,
Van de Water, Racc. pag. I-2729, punto 39, e 12 dicembre 2002, causa
C-395/00, Cipriani, Racc. pag. I-11877, punto 41).
28. La direttiva stabilisce a tale riguardo – come emerge, in particolare,
dai ‘considerando’ quinto e sesto – una distinzione tra, da un lato, le merci
detenute a fini commerciali, per il trasporto delle quali sono necessari documenti
di accompagnamento e, dall’altro, le merci detenute a fini personali,
per il cui trasporto non è richiesto alcun documento (v., in tal senso, la sentenza
EMU Tabac e a., cit. supra, punti 23 e 24).
29. Pertanto, come emerge parimenti dal settimo ‘considerando’ della
direttiva, ai fini dell’applicazione di quest’ultima i prodotti non detenuti a
fini personali devono essere necessariamente considerati detenuti a fini commerciali.
30. Per quanto attiene a questi ultimi prodotti, sebbene l’art. 6 della
direttiva preveda che l’accisa diviene esigibile all’atto dell’immissione in
consumo dei prodotti in uno Stato membro, non è escluso che, in virtù degli
artt. 7, 9 o 10 della direttiva medesima, l’accisa sia riscossa in seguito in un
altro Stato membro, potendo allora essere rimborsate in virtù dell’art. 7, n. 6,
o dell’art. 10, n. 4, della direttiva medesima, le accise eventualmente corrisposte
nel primo Stato (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra,
punto 42).
31. Per contro, per quanto attiene ai prodotti detenuti a fini personali,
l’art. 8 della direttiva prevede che le accise siano riscosse nello Stato mem-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 115
bro in cui tali prodotti sono stati acquistati (v., in tal senso, sentenza EMU
Tabac e a., cit. supra, punto 24).
33. Come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l’applicazione dell’art.
8 della direttiva implica che siano soddisfatti vari requisiti. Così, i prodotti
soggetti ad accisa devono essere stati acquistati da «privati», i quali
devono averli acquistati «per proprio uso» e devono inoltre averli trasportati
essi stessi. Tali requisiti devono consentire di provare il carattere rigorosamente
personale della detenzione dei prodotti soggetti ad accisa acquistati in
uno Stato membro e successivamente trasportati verso un altro Stato membro
(v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punti 25 e 26).
35. Per quanto attiene al primo di tali requisiti, dal tenore stesso dell’art.
8 della direttiva emerge ictu oculi che essa postula che i prodotti di cui
trattasi siano destinati al fabbisogno personale del privato che li abbia acquistati,
escludendo, quindi, l’acquisto di prodotti da parte di un privato per soddisfare
il fabbisogno di altri privati. Quanto alla detenzione di questi ultimi
prodotti, non si può infatti ritenere che essa rivesta carattere strettamente personale
per il privato che li abbia acquistati.
37. Per quanto attiene al secondo requisito, emerge parimenti dalla locuzione
«trasportati dai medesimi», di cui all’art. 8 della direttiva, che l’applicazione
di tale disposizione esige che i prodotti di cui trattasi siano stati trasportati
personalmente dal privato che li abbia acquistati (v., in tal senso,
sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punto 33).
39. A tal riguardo, occorre rammentare che, come rilevato dalla Corte al
punto 32 della menzionata sentenza EMU Tabac e a., quando il legislatore
comunitario ha voluto prendere in considerazione, nel contesto della direttiva,
l’ipotesi dell’intervento di un terzo nel trasporto dei prodotti, lo ha fatto
in modo espresso con una formula ad hoc, come è accaduto per gli artt. 9,
n. 3, e 10, n. 1 della direttiva medesima.
40. Inoltre, al punto 33 della detta sentenza la Corte ha parimenti rilevato
che nessuna delle versioni linguistiche dell’art. 8 della direttiva prevede
esplicitamente un intervento siffatto e che, al contrario, le versioni danese e
greca lasciano apparire in modo particolarmente chiaro che, affinché i diritti
di accisa siano dovuti nel paese di acquisto, il trasporto dev’essere effettuato
personalmente dall’acquirente dei prodotti soggetti ad accisa.
41. Conseguentemente, in considerazione altresì del tenore dell’art. 8
della direttiva, che non presenta alcuna ambiguità, la Corte ha già avuto
modo di affermare, ai punti 37 e 40 della menzionata sentenza, che tale
disposizione non può trovare applicazione quando l’acquisto e/o il trasporto
di merci soggette ad accisa sia stato effettuato tramite un agente, atteso che
il legislatore comunitario non ha mai inteso prendere in considerazione l’intervento
di un agente nel contesto di tale disposizione.
43. Peraltro, a prescindere dal fatto che l’iniziativa del trasporto provenga
o meno dal privato, si deve necessariamente rilevare che la circostanza
stessa che i prodotti soggetti ad accisa vengano spediti in un altro Stato membro
da un’impresa di trasporti, facilitando la spedizione di quantitativi di prodotti
eccedenti in misura significativa le esigenze del singolo privato che li
116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
abbia acquistati, è sufficiente a dimostrare che la loro detenzione non riveste
il carattere strettamente personale postulato dall’art. 8 della direttiva. A tal
riguardo si deve d’altronde rilevare che, a termini dell’art. 9, n. 2, della direttiva,
sia le modalità di trasporto utilizzate sia i quantitativi trasportati costituiscono
elementi pertinenti per accertare la natura commerciale della detenzione
delle merci di cui al detto art. 8, e, pertanto, il carattere non personale
della medesima.
47. Ne consegue che, come dedotto da tutti i governi che hanno presentato
osservazioni alla Corte, l’art. 8 della direttiva non può trovare applicazione
nel caso in cui, come nella fattispecie oggetto della causa principale, i
prodotti soggetti ad accisa acquistati in un primo Stato membro da un privato,
ancorché per esigenze personali, siano stati spediti in un secondo Stato
membro non dal privato medesimo, bensì da un’impresa di trasporti agente
per conto di questi.
48. Atteso che l’art. 8 della direttiva non può trovare applicazione in una
fattispecie come quella oggetto della causa principale, questa ricade quindi
nella sfera di applicazione degli artt. 7, 9 o 10 della direttiva medesima.
49. (...) l’art. 10 della direttiva, riguardante gli acquisti effettuati da privati
e spediti o trasportati direttamente o indirettamente da parte del venditore
o per conto del medesimo, non può tuttavia trovare applicazione quando,
come nella fattispecie oggetto della causa principale, l’iniziativa del trasporto
non provenga dal venditore, bensì dal privato acquirente delle merci
soggette ad accisa (sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punti 48 e 49).
50. Quanto all’art. 9 della direttiva, dal n. 2 della medesima emerge che
tale disposizione si applica ai prodotti di cui al precedente art. 8, vale a dire
ai prodotti acquistati da un privato per il proprio fabbisogno e dal medesimo
trasportati. Conseguentemente, atteso che dalle suesposte considerazioni
emerge che quest’ultima disposizione non riguarda la fattispecie oggetto
della causa principale, nemmeno il detto art. 9 può, in quanto tale, trovare
applicazione nella specie.
51. Per contro, l’art. 7 della direttiva può trovare applicazione nella fattispecie
oggetto della causa principale, atteso che tale disposizione, a termini
del suo n. 2, riguarda la fattispecie in cui le merci vengano fornite, o siano
destinate ad essere fornite, all’interno di un altro Stato membro ovvero siano
destinate, all’interno di un altro Stato membro, a soddisfare le esigenze di un
operatore che svolga in modo indipendente un’attività economica. Orbene,
tale ipotesi ricorre nel caso di un privato che, come nella specie, non persegua
scopi lucrativi, quando la spedizione delle merci soggette ad accisa
venga effettuata per il tramite di un operatore agente per conto del privato
stesso (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punto 52).
Infatti, come emerge dal punto 29 della presente sentenza, la direttiva si
fonda sul principio che i prodotti non detenuti a fini personali devono essere
necessariamente considerati detenuti a scopi commerciali.
52. Nel caso in cui le accise vengano riscosse, sulla base dell’art. 7 della
direttiva, nello Stato membro in cui i prodotti siano detenuti a scopi commerciali,
laddove siano stati già immessi al consumo in un primo Stato membro, il
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 117
n. 6 di tale disposizione prevede che le accise versate nel primo Stato vengano
rimborsate secondo le disposizioni dell’art. 22, n. 3, della direttiva stessa.
53. Conseguentemente, le questioni pregiudiziali devono essere risolte
dichiarando che la direttiva dev’essere interpretata nel senso che, nel caso in
cui, come nella fattispecie oggetto della causa principale, un privato, che non
agisca a titolo professionale e non persegua scopi lucrativi, acquisti in un
primo Stato membro, per il proprio fabbisogno personale e per quello di altri
privati, prodotti soggetti ad accisa già immessi in consumo in tale Stato
membro e li faccia spedire in un secondo Stato membro, per proprio conto,
da un’impresa di trasporti stabilita in questo stesso secondo Stato, trova
applicazione l’art. 7 della direttiva e non il successivo art. 8, con la conseguenza
che le accise vengono parimenti riscosse in quest’ultimo Stato. A termini
dell’art. 7, n. 6, della direttiva medesima, le accise versate nel primo
Stato verranno, in tal caso, rimborsate conformemente alle disposizioni dell’art.
22, n. 3, della direttiva stessa.
– Imposte dirette
Sentenza della Corte, sezione prima, 30 marzo 2006, nel procedimento
C-46/04 – Aro Tubi Trafilerie SpA contro Ministero dell’Economia e
delle Finanze.
La questione è sorta nell’ambito di una controversia tra la società Aro
Tubi Trafilerie S.p.A. (in prosieguo: l’«Aro Tubi», in qualità di «società
incorporante») e il Ministero dell’Economia e delle Finanze in merito alla
riscossione dell’imposta di registro in occasione di una duplice fusione,
mediante la quale l’Aro Tubi ha incorporato due società, vale a dire, da un
lato, la propria controllata, Aro Tubi Estrusi e Profilati S.p.A. (in prosieguo:
l’«Aro Tubi Estrusi», in qualità di «società incorporata»), e, d’altro lato, la
propria controllante, Fratelli Gaggini S.p.A. (in prosieguo: la «Fratelli
Gaggini», in qualità di «società incorporata»).
L’Aro Tubi è una società per azioni di diritto italiano le cui azioni erano
interamente detenute da un’altra società per azioni di diritto italiano, la
Fratelli Gaggini. L’Aro Tubi, per parte sua, deteneva l’intero pacchetto azionario
di una terza società per azioni di diritto italiano, l’Aro Tubi Estrusi.
Con atto del 19 dicembre 1995, l’Aro Tubi ha incorporato, mediante fusione,
la propria controllata, Aro Tubi Estrusi (fusione cosiddetta «impropria»).
Con il medesimo atto, l’Aro Tubi ha inoltre incorporato la propria controllante,
Fratelli Gaggini (fusione cosiddetta «inversa»). L’Aro Tubi ha così
acquisito il patrimonio sociale della Fratelli Gaggini, che comprendeva,
segnatamente, immobili, brevetti e marchi. Come corrispettivo, gli azionisti
della Fratelli Gaggini si sono visti attribuire l’intero pacchetto azionario
dell’Aro Tubi.
In ragione di queste due fusioni, il 2 gennaio 1996 l’Aro Tubi ha dovuto
versare un’imposta di registro pari all’1% della situazione patrimoniale
118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
delle due società incorporate, l’Aro Tubi Estrusi e la Fratelli Saggini, per un
totale di ITL 54 761 000.
Con istanza del 29 luglio 1996, l’Aro Tubi ha chiesto all’Ufficio Atti
Pubblici di Milano il rimborso dell’imposta di registro versata. A fronte del
silenzio-rifiuto opposto dal fisco a tale istanza, l’Aro Tubi ha proposto ricorso,
contestando la fondatezza dell’imposta. Il ricorso è stato dapprima
accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, ma poi respinto
dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, su appello
dell’Amministrazione finanziaria dello Stato. Avverso la sentenza d’appello
l’Aro Tubi ha proposto ricorso in cassazione.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte, in sostanza, sull’interpretazione
degli artt. 4, 7 e 10 della direttiva del Consiglio 17 luglio 1969,
69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali
(G.U. L 249, pag. 25), come modificata dalle direttive del Consiglio 9 aprile
1973, 73/80/CEE, che fissa le aliquote comuni dell’imposta sui conferimenti
(G.U. L 103, pag. 15), e 10 giugno 1985, 85/303/CEE (G.U. L 156).
24. Con la sua questione, il giudice del rinvio domanda, in sostanza se,
in circostanze quali quelle della causa principale, la direttiva 69/335 osti alla
riscossione, all’atto di una fusione cosiddetta «inversa» – vale a dire di una
fusione mediante incorporazione allorché l’intero pacchetto azionario della
società incorporante è detenuto dalla società incorporanda –, di un’imposta
di registro proporzionale dell’1% prelevata sul valore dell’operazione.
25. A tal fine occorre preliminarmente accertare se l’imposta di registro
di cui trattasi nella causa principale rivesta le caratteristiche di un’«imposta
sui conferimenti» ai sensi degli artt. 1-9 della direttiva 69/335, o se debba
essere qualificata come «imposta simile all’imposta sui conferimenti» ai
sensi dell’art. 10 della direttiva.
26. In proposito, discende da una costante giurisprudenza che la qualificazione
di un’imposta, tassa, dazio o prelievo con riferimento al diritto
comunitario incombe alla Corte in base alle caratteristiche oggettive dell’imposta,
indipendentemente dalla qualificazione che le viene attribuita nel
diritto nazionale (v. sentenza 13 febbraio 1996, cause riunite C-197/94 e C-
252/94, Bautiaa e Société française marittime, Racc. pag. I-505, punto 39).
27. Trattandosi, come nella fattispecie, di un’imposta proporzionale
dell’1% sul valore dei conferimenti in società, occorre considerare che il
fatto generatore dell’imposta risiede proprio nel conferimento e non in una
qualsiasi altra operazione o formalità preventiva, cosicché un’imposta del
genere dev’essere, in via di principio, qualificata come «imposta sui conferimenti
» e non come «imposta simile all’imposta sui conferimenti» ai fini
della direttiva 69/335 (v., in tal senso, sentenza Bautiaa e Société française
maritime, cit., punto 40).
28. Ne deriva che la liceità dell’imposta controversa nella causa principale
dev’essere esaminata alla luce degli artt. 1-9 della direttiva 69/335.
29. Giova anzitutto rammentare che le operazioni soggette, o che possono
essere assoggettate dagli Stati membri, all’imposta sui conferimenti sono
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 119
quelle definite all’art. 4 della direttiva 69/335 (v., in tal senso, segnatamente,
sentenze 18 marzo 1993, causa C-280/91, Viessmann, Racc. pag. I-971,
punto 12; Bautiaa e Société française maritime, cit., punti 31 e 32, nonché
27 ottobre 1998, causa C-152/97, Agas, Racc. pag. I-6553, punti 19 e 20).
30. L’operazione di cui trattasi nella causa principale costituisce una
fusione mediante incorporazione. Una fusione del genere potrebbe interpretarsi,
in via di principio, sia alla luce dell’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva
69/335, sia alla luce dell’art. 4, n. 2, lett. b), della stessa.
31. In tal senso, l’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva 69/335 dispone l’assoggettamento
all’imposta sui conferimenti dell’aumento del capitale sociale
di una società di capitali mediante conferimento di beni di qualsiasi natura.
32. L’art. 4, n. 2, lett. b), della stessa direttiva dispone che gli Stati membri
possono assoggettare all’imposta sui conferimenti l’aumento del patrimonio
sociale di una società di capitali mediante prestazioni effettuate da un
socio che non implicano un aumento del capitale sociale, ma che possono
aumentare il valore delle quote sociali.
33. Orbene, dal raffronto tra queste due norme si desume che l’«aumento
del capitale sociale» ai sensi dell’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva 69/335
implica un aumento formale del capitale sociale per mezzo dell’emissione di
nuove quote sociali, oppure dell’aumento del valore nominale delle quote
sociali esistenti (v., in tal senso, sentenze 15 luglio 1982, causa 270/81,
Felicitas Rickmers-Linie, Racc. pag. 2771, punto 15, e 12 gennaio 2006,
causa C-494/03, Senior Engineering Investments, Racc. pag. I-525,
punto 33).
34. Per contro, e nei limiti in cui il «patrimonio sociale» è definito come
l’insieme dei beni che i soci hanno posto in comune, ivi compresi i frutti di
tali beni (v., in tal senso, sentenza 28 marzo 1990, causa C-38/88, Siegen,
Racc. pag. I-1447, punto 12), l’«aumento del patrimonio sociale» ai sensi
dell’art. 4, n. 2, lett. b), della direttiva 69/335 ricomprende, in linea di principio,
ogni forma di aumento del patrimonio sociale di una società di capitali
(sentenza Senior Engineering Investments, cit., punto 34). Ad esempio, la
Corte ha qualificato come «aumento del patrimonio sociale», ai sensi della
citata norma, un trasferimento di utili (v. sentenza 13 ottobre 1992, causa
C-49/91, Weber Haus, Racc. pag. I-5207, punto 10), un prestito senza interessi
(v., segnatamente, sentenza 17 settembre 2002, causa C-392/00,
Norddeutsche Gesellschaft zur Beratung und Durchführung von
Entsorgungsaufgaben bei Kernkraftwerken, Racc. pag. I-7397, punto 18), un
accollo delle perdite (v. sentenza Siegen, cit., punto 13), la rinuncia a un credito
(v. sentenza 5 febbraio 1991, causa C-15/89, Deltakabel,
Racc. pag. I-241, punto 12).
35. Nella causa principale, è pacifico che la fusione di cui trattasi non
abbia dato luogo a un «aumento del capitale sociale» della società incorporante
(Aro Tubi). Tale fusione non è quindi riconducibile all’art. 4, n. 1, lett.
c), della direttiva 69/335.
36. Essa rientra, tuttavia, nell’ambito di applicazione dell’art. 4, n. 2,
lett. b), della stessa direttiva.
120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
37. In primo luogo, infatti, risulta dall’atto di fusione che la società
incorporata (Fratelli Gaggini), da un lato, non era sovraindebitata e, dall’altro,
deteneva non soltanto azioni della società incorporante (Aro Tubi), ma
anche altri elementi di attivo, quali, ad esempio, immobili, brevetti e marchi.
All’atto della fusione, tali beni sono stati conferiti alla società incorporante
(Aro Tubi). La fusione ha dunque avuto l’effetto di «aumentare il patrimonio
sociale» di quest’ultima.
38. In secondo luogo, considerato tale aumento del patrimonio sociale,
la fusione di cui trattasi nella causa principale poteva «aumentare il valore
delle quote sociali» della società incorporante (Aro Tubi). A seguito della
fusione le azioni di quest’ultima hanno, de facto, più valore.
39. In terzo luogo, la fusione in parola si presenta come una «prestazione
effettuata da un socio» ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. b), della direttiva 69/335.
40. Ne consegue che la fusione in questione configura un conferimento
in società rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4, n. 2, lett. b) della
direttiva 69/335, assoggettabile, in via di principio, all’imposta sui conferimenti.
41. Occorre tuttavia ricordare che l’art. 7, n. 1, della direttiva 69/335
esenta dall’imposta sui conferimenti alcune operazioni che, al 1° luglio
1984, erano assoggettate ad un’aliquota pari o inferiore a 0,50%.
42. Orbene, risulta dalle versioni anteriori della medesima disposizione
(illustrate ai punti 9 e 11 della presente sentenza) che, a tale data, vale a dire
al 1° luglio 1984, le fusioni erano assoggettate a un’aliquota compresa tra lo
0 e lo 0,50% se ricorrevano tre condizioni, vale a dire (i) il conferimento
della totalità del patrimonio di una società di capitali, o di uno o più rami
della sua attività, ad una o più società di capitali in via di creazione o già esistente;
(ii) la remunerazione esclusivamente mediante attribuzione di quote
sociali, e (iii) la sede della direzione effettiva o la sede statutaria delle società
partecipanti all’operazione sul territorio di uno Stato membro.
43. Con riferimento alla fusione in parola, si deve rilevare, in primo
luogo, che una società di capitali, la Fratelli Gaggini, ha conferito tutto il suo
patrimonio ad un’altra società di capitali già esistente, l’Aro Tubi.
44. In secondo luogo, tale conferimento è stato remunerato esclusivamente
mediante attribuzione di azioni della società incorporante (l’Aro
Tubi). Infatti, le azioni proprie che l’Aro Tubi aveva acquisito grazie al patrimonio
della Fratelli Gaggini sono state poi (ri)attribuite ai soci della Fratelli
Gaggini.
45. In terzo luogo, le due società di cui trattasi, l’Aro Tubi e la Fratelli
Gaggini, hanno entrambe sede in Italia.
46. Di conseguenza, la fusione in parola rientra nell’ambito di applicazione
dell’art. 7, n. 1, della direttiva 69/335. Essa è quindi esente e non può
essere assoggettata all’imposta sui conferimenti.
Alla luce di quanto sopra, occorre risolvere la questione sollevata dichiarando
che, in circostanze quali quelle della causa principale, la direttiva
69/335 osta alla riscossione, in occasione di una fusione cosiddetta «inversa
» – vale a dire di una fusione mediante incorporazione, allorché l’intero
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 121
pacchetto azionario della società incorporante è detenuto dalla società incorporanda
–, di un’imposta di registro proporzionale dell’1% prelevata sul
valore dell’operazione.
Sentenza della Corte, sezione terza, 14 settembre 2006, nel procedimento
C-386/04 – Finanzamt München für Körperschaften.
Il Centro di Musicologia Walter Stauffer fondazione riconosciuta di pubblica
utilità ai sensi del diritto italiano, è proprietaria di un immobile adibito
ad uso commerciale sito in Monaco di Baviera.
Il Finanzamt ha assoggettato i redditi che la fondazione percepisce dalla
locazione del detto immobile ad uso commerciale all’imposta sulle società
per l’esercizio fiscale 1997. La fondazione non possiede locali in Germania
per l’esercizio delle sue attività e non ha filiali. I servizi relativi all’affitto
dell’immobile ad uso commerciale sono effettuati da una società tedesca
amministratrice di immobili.
Risulta dallo statuto della fondazione in vigore nel corso dell’esercizio
controverso che essa non ha fini di lucro.
Risulta dalle informazioni fornite dal giudice del rinvio che, nel corso
dell’esercizio controverso, la fondazione ha perseguito obiettivi di interesse
generale ai sensi degli artt. 51-68 dell’AO. Secondo tale giudice, la promozione
degli interessi della collettività ai sensi dell’art. 52 della detta legge
non presuppone che le misure di promozione siano dirette ai cittadini tedeschi.
Ne consegue che la fondazione sarebbe in linea di principio esente dall’imposta
sulle società in forza dell’art. 5, n. 1, punto 9, prima frase, del
KStG, e che non la si dovrebbe assoggettare all’imposta in base ai suoi redditi,
in conformità alla seconda e terza frase della medesima disposizione, in
quanto la locazione non eccederebbe l’ambito della gestione patrimoniale e
non costituirebbe un’operazione di impresa commerciale ai sensi dell’art.
14, n. 1, dell’AO.
Tuttavia, poiché la fondazione ha la sua sede e la sua direzione in Italia,
essa percepisce i suoi redditi locativi in Germania nell’ambito del suo limitato
assoggettamento all’imposta. Ne consegue che occorre dunque applicare
l’art. 5, n. 2, punto 3, del KStG, in conformità al quale l’esenzione fiscale,
che si applica in particolare alle persone giuridiche che perseguono
esclusivamente e direttamente finalità di pubblica utilità, non è valida per i
contribuenti limitatamente soggetti all’imposta. Risulta da tale disposizione
che, in ragione dei redditi locativi che essa percepisce in Germania per la
locazione dell’immobile adibito ad uso commerciale, la fondazione è stata
assoggettata all’imposta sulle società.
14. Con la questione presentata, il Bundesfinanzhof chiede essenzialmente
se le disposizioni del Trattato CE relative al diritto di stabilimento,
alla libera prestazione dei servizi e/o alla libera circolazione dei capitali ostino
a che uno Stato membro, che esenta dall’imposta sulle società i redditi da
122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
locazione percepiti sul territorio nazionale da fondazioni riconosciute di pubblica
utilità, in linea di massima soggette all’imposta illimitatamente se
hanno sede in tale Stato, rifiuti di concedere la stessa esenzione per redditi
dello stesso tipo ad una fondazione di diritto privato riconosciuta di pubblica
utilità in quanto, avendo sede in un altro Stato membro, essa è soggetta
all’imposta sul suo territorio soltanto limitatamente.
15. Occorre ricordare preliminarmente che, se è pur vero che la materia
delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi
devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario
(v., in particolare, sentenze 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx,
Racc. pag. I-2493, punto 16; 10 marzo 2005, causa C-39/04, Laboratoires
Fournier, Racc. pag. I-2057, punto 14, nonché 23 febbraio 2006, causa C-
513/03, Van Hilten-van der Heijden, Racc. pag. I-1957, punto 36).
16. È necessario esaminare, poi, se, considerata la fattispecie in esame,
la fondazione possa avvalersi delle norme relative al diritto di stabilimento,
di quelle relative alla libera prestazione dei servizi e/o di quelle che disciplinano
la libera circolazione dei capitali.
17. La libertà di stabilimento, che l’art. 52 del Trattato attribuisce ai cittadini
della Comunità e che implica per essi l’accesso alle attività non subordinate
ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese,
alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento
per i cittadini del medesimo, comprende, ai sensi dell’art. 58 del Trattato,
per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano
la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio
della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro
di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (sentenze
21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, Racc. pag. I-6161,
punto 35; 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, Racc. pag.
I-10837, punto 30, nonché sentenza 23 febbraio 2006, causa C-471/04,
Keller Holding, Racc. pag. I-2107, punto 29).
18. Secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di stabilimento ai
sensi del Trattato è una nozione molto ampia e implica la possibilità, per un cittadino
comunitario, di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita
economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne
vantaggio, favorendo così l’interpenetrazione economica e sociale nell’ambito
della Comunità nel settore delle attività indipendenti (v., in questo senso,
sentenze 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners, Racc. pag. 631, punto 21, e 30
novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 25).
19. Tuttavia, affinché le disposizioni relative al diritto di stabilimento
possano essere applicate, è in linea di principio necessario che sia assicurata
una presenza permanente nello Stato membro ospitante e, in caso di acquisto
e di possesso di beni immobili, che la gestione di tali beni sia attiva.
Orbene, deriva dalla descrizione dei fatti fornita dal giudice del rinvio che la
fondazione non possiede locali in Germania per l’esercizio delle sue attività
e che i servizi relativi all’affitto dell’immobile ad uso commerciale sono forniti
da una società tedesca amministratrice di immobili.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 123
20. Ne consegue che si deve concludere che le disposizioni che disciplinano
la libertà di stabilimento non trovano applicazione in circostanze quali
quelle in causa al procedimento principale.
21. Occorre stabilire, poi, se la fondazione possa invocare le disposizioni
di cui agli artt. 73 B-73 G del Trattato, riguardanti la libera circolazione
dei capitali.
22. A tale proposito, occorre osservare che il Trattato non definisce le
nozioni di «movimenti di capitali» e di «pagamenti». Tuttavia, secondo una
giurisprudenza costante, poiché l’art. 73 B del Trattato CE riporta in sostanza
il contenuto dell’art. 1 della direttiva 88/361 e anche se quest’ultima è
stata adottata sulla base degli artt. 69 e 70, n. 1, del Trattato CEE (gli articoli
67-73 del Trattato CEE sono stati sostituiti dagli artt. 73 B-73 G del
Trattato CE, divenuti artt. 56 CE-60 CE), la nomenclatura dei «movimenti di
capitali» che è ad essa allegata conserva il valore indicativo che le era proprio
prima della loro entrata in vigore per definire la nozione di movimenti
di capitali, inteso che, conformemente alla sua introduzione, l’elenco che
essa contiene non presenta un carattere esaustivo (v., in particolare, sentenze
16 marzo 1999, causa C-222/97, Trummer e Mayer, Racc. pag. I-1661, punto
21; 5 marzo 2002, cause riunite C-515/99, da C-519/99 a C-524/99 e da C-
526/99 a C-540/99, Reisch e a., Racc. pag. I-2157, punto 30, nonché citata
sentenza Van Hilten-van der Heijden, punto 39).
23. È pacifico che la fondazione, che ha sede in Italia, dispone a Monaco
di un immobile adibito ad uso commerciale che concede in locazione. Tra i
movimenti di capitali enumerati all’allegato I della direttiva 88/361 compaiono,
sotto la rubrica II, intitolata «Investimenti immobiliari», gli investimenti
immobiliari effettuati sul territorio nazionale da non residenti.
24. Ne consegue che, tanto il fatto di essere proprietaria del detto bene
immobile quanto quello di trarne un reddito rientrano nell’ambito della libera
circolazione dei capitali. Ne deriva che non occorre esaminare se la fondazione
agisca in quanto prestatrice di servizi.
25. Ai sensi dell’art. 73 B del Trattato, sono vietate tutte le restrizioni ai
movimenti di capitali tra Stati membri.
26. Allo scopo di determinare se una normativa nazionale, come quella
di cui trattasi nella causa principale, comporti una restrizione alla libera circolazione
dei capitali ai sensi dell’art. 73 B del Trattato, è necessario esaminare
se la sua applicazione produca un effetto restrittivo rispetto alle fondazioni
riconosciute di pubblica utilità stabilite in altri Stati membri, non concedendo
loro, per i redditi da locazione percepiti sul territorio nazionale, l’esenzione
di cui beneficiano le fondazioni dello stesso tipo, che su tale territorio
sono soggette illimitatamente all’imposta.
27. Orbene, il fatto che l’esenzione fiscale sui redditi da locazione si
applichi esclusivamente a favore delle fondazioni riconosciute di pubblica
utilità e soggette illimitatamente all’imposta sul territorio tedesco pone in
una situazione di svantaggio le fondazioni la cui sede è situata in un altro
Stato membro e può costituire un ostacolo alla libera circolazione dei capitali
e dei pagamenti.
124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
28. Da quanto precede risulta che una normativa come quella di cui trattasi
nella causa principale costituisce una restrizione alla libera circolazione
dei capitali vietata, in linea di principio, dall’art. 73 B del Trattato.
29. Occorre, tuttavia, esaminare se simile restrizione possa essere giustificata
sulla base delle disposizioni del Trattato.
30. In proposito, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 73 D, n. 1, lett.
a), del Trattato, le disposizioni dell’art. 73 B non pregiudicano il diritto degli
Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria
che stabiliscono una distinzione tra i contribuenti che non si trovano
nella medesima situazione per quanto riguarda la loro residenza o il luogo di
collocamento del loro capitale.
31. Tuttavia, l’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato, che, in quanto deroga
al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, deve essere
oggetto di interpretazione restrittiva, non può essere interpretato nel senso
che qualsiasi legislazione tributaria che operi una distinzione tra i contribuenti
in base al luogo in cui essi risiedono o allo Stato membro in cui investono
i loro capitali sia automaticamente compatibile con il Trattato. Infatti,
la deroga prevista all’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato subisce essa stessa
una limitazione per effetto dell’art. 73 D, n. 3, dello stesso Trattato, ai sensi
del quale le disposizioni nazionali di cui al n. 1 del medesimo articolo «non
devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione
dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’articolo
73 B». (v. sentenza 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen, Racc.
pag. I-7477, punto 28).
32. Occorre, pertanto, distinguere i trattamenti diseguali, consentiti in
forza dell’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato dalle discriminazioni arbitrarie
e dalle restrizioni dissimulate vietate dal n. 3 del medesimo articolo. Orbene,
dalla giurisprudenza risulta che, perché una normativa tributaria nazionale
quale quella di cui alla causa principale, che opera una distinzione tra le fondazioni
soggette all’imposta illimitatamente e quelle limitatamente soggette
ad essa, possa essere considerata compatibile con le disposizioni del Trattato
relative alla libera circolazione dei capitali, occorre che la differenza di trattamento
riguardi situazioni che non siano oggettivamente paragonabili o sia
giustificata da motivi imperativi di interesse generale, come quello di salvaguardare
la coerenza del regime tributario e l’efficacia dei controlli fiscali
(v., in questo senso, sentenze 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen,
Racc. pag. I-4071, punto 43, e citata sentenza Manninen, punto 29). Inoltre,
per essere giustificata, la differenza di trattamento tra le fondazioni riconosciute
di pubblica utilità e illimitatamente soggette all’imposta sul territorio
tedesco, da un lato, e le fondazioni dello stesso tipo stabilite in altri Stati
membri, dall’altro, non deve eccedere quanto è necessario perché sia raggiunto
l’obiettivo perseguito dalla normativa di cui trattasi.
37. In primo luogo, anche se gli Stati membri hanno il diritto di pretendere
l’esistenza di un nesso sufficientemente stretto tra le fondazioni che essi
riconoscono di pubblica utilità ai fini della concessione di determinati vantaggi
fiscali e le attività che esse esercitano, risulta dall’ordinanza di rinvio
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 125
che l’esistenza di simile nesso non è rilevante per la soluzione della causa
principale.
38. Infatti, l’art. 52 dell’AO ammette che una persona giuridica persegue
fini di pubblica utilità quando la sua attività mira a promuovere, in modo
disinteressato, gli interessi della collettività, ma non contempla distinzioni a
seconda che la detta attività si svolga sul territorio nazionale o all’estero.
39. (...) il diritto comunitario non impone agli Stati membri di disporre
che le fondazioni straniere riconosciute di pubblica utilità nello Stato membro
d’origine beneficino automaticamente dello stesso riconoscimento sul
loro territorio. Infatti, gli Stati membri dispongono al riguardo di un potere
discrezionale che devono esercitare in conformità al diritto comunitario (v.,
in questo senso, sentenza 9 febbraio 2006, causa C-415/04, Kinderopvang
Enschede, Racc. pag. I-1385, punto 23). Essi sono liberi, in tale contesto, di
decidere quali siano gli interessi della collettività che vogliono promuovere,
concedendo vantaggi ad associazioni e fondazioni che perseguono in modo
disinteressato fini legati ai detti interessi.
40. Resta nondimeno il fatto che, qualora una fondazione riconosciuta di
pubblica utilità in uno Stato membro integri anche le condizioni stabilite a
questo scopo dalla legislazione di un altro Stato membro ed abbia come
obiettivo la promozione di identici interessi della collettività, cosa che spetta
alle autorità nazionali di quest’ultimo Stato, ivi incluse le sue giurisdizioni,
valutare, le autorità di tale Stato membro non possono negare alla detta
fondazione il diritto alla parità di trattamento per il solo fatto che essa non ha
sede sul loro territorio.
42. Ne consegue che, in circostanze quali quelle della causa principale,
l’art. 5, n. 2, punto 3, del KStG porta a trattare in modo diverso in ragione
della loro residenza fondazioni che si trovano in una situazione obiettivamente
paragonabile. Ne deriva che simile misura fiscale non può, in linea di
principio, costituire un trattamento diseguale permesso ai sensi
dell’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato, a meno che essa non possa essere
giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v., in questo senso,
citate sentenze Verkooijen, punto 46, e Manninen, punto 29, nonché sentenza
19 gennaio 2006, causa C-265/04, Bouanich, Racc. pag. I-923, punto 38).
43. Al fine di giustificare la differenza di trattamento tra le fondazioni
riconosciute di pubblica utilità e illimitatamente soggette all’imposta sul territorio
tedesco, da un lato, e quelle che non hanno sede in tale Stato membro,
dall’altro, sono state fatte valere dinanzi alla Corte finalità relative in particolare
alla promozione della cultura, alla formazione e all’educazione, all’efficacia
dei controlli fiscali, alla necessità di garantire la coerenza del regime
fiscale nazionale, alla necessità di conservare la base imponibile, nonché alla
lotta contro la criminalità.
48. Pertanto, prima di concedere un’esenzione fiscale a una fondazione,
uno Stato membro è autorizzato ad applicare misure che gli permettono di
verificare con chiarezza e precisione se essa soddisfa le condizioni richieste
dalla legislazione nazionale per beneficiarne e a controllare la gestione effettiva
della detta fondazione sulla base, ad esempio, della presentazione dei
126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
conti annui e di un rapporto di attività. Certo, in caso di fondazioni con sede
in altri Stati membri, può risultare più difficile procedere ai necessari accertamenti.
Tuttavia, si tratta di semplici inconvenienti amministrativi che non
sono sufficienti per giustificare un rifiuto da parte delle autorità dello Stato
di cui trattasi di concedere alle dette fondazioni le stesse esenzioni fiscali
concesse alle fondazioni dello stesso tipo illimitatamente soggette all’imposta
sul suo territorio (v., in questo senso, sentenza 4 marzo 2004, causa C-
334/02, Commissione/Francia, Racc. pag. I-2229, punto 29).
50. Inoltre, le autorità fiscali interessate possono rivolgersi, in forza della
direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa alla reciproca
assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle
imposte dirette (G.U. L. 336, pag. 15), modificata dalla direttiva del Consiglio
16 novembre 2004, 2004/106/CE (G.U. L. 359, pag. 30), alle autorità di un
altro Stato membro per ottenere ogni informazione necessaria per determinare
correttamente l’imposta dovuta da un contribuente, ivi inclusa la possibilità
di concedergli un’esenzione fiscale (v., in questo senso, sentenze 28 ottobre
1999, causa C-55/98, Vestergaard, Racc. pag. I-7641, punto 26, e 26 giugno
2003, causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc. pag. I-6817, punto 42).
51. (…) il governo tedesco fa valere che l’esenzione dall’imposta sulle
società concessa alle fondazioni non aventi sede sul suo territorio in base ai
redditi che esse percepiscono dalla gestione del patrimonio di cui dispongono
in Germania rischia di compromettere la coerenza del regime fiscale
nazionale. Secondo tale governo, l’esenzione sarebbe intesa a eliminare un
obbligo fiscale in ragione delle attività a vantaggio dell’interesse pubblico
che le fondazioni riconosciute di pubblica utilità esercitano. Queste ultime,
assumendosi direttamente la responsabilità del bene comune, si sostituirebbero
allo Stato che potrebbe, in contropartita, concedere loro un vantaggio
fiscale senza violare l’obbligo della parità di trattamento.
52. Al riguardo, va ricordato che la Corte ha ammesso che la necessità
di salvaguardare la coerenza del regime fiscale può giustificare una restrizione
all’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato (sentenze 28
gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, Racc. pag. I-249, punto 28, e 28
gennaio 1992, causa C-300/90, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-305,
punto 21).
53. Tuttavia, perché un argomento fondato su tale giustificazione sia
efficace, è necessario che sia dimostrata l’esistenza di un nesso diretto tra il
beneficio fiscale di cui trattasi e la compensazione di tale beneficio attraverso
un prelievo fiscale determinato (v., in questo senso, sentenze 14 novembre
1995, causa C-484/93, Svensson e Gustavsson, Racc. pag. I-3955, punto
18; 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher, Racc. pag. I-3089, punto 58;
16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. I-4695, punto 29;
Vestergaard, cit., punto 24; 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y, Racc.
pag. I-10829, punto 52).
58. In quarto luogo, il governo tedesco sottolinea che il rifiuto di concedere
l’esenzione fiscale alle fondazioni limitatamente imponibili è giustificato
dalla necessità di conservare la base imponibile.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 127
59. Certo, il riconoscimento di un diritto ad esenzione dall’imposta sulle
società a vantaggio delle fondazioni di pubblica utilità che non hanno sede sul
suo territorio comporterà per la Repubblica federale di Germania una diminuzione
degli introiti fiscali a titolo d’imposta sulle società. Tuttavia, risulta da
costante giurisprudenza che la riduzione degli introiti fiscali non può essere
considerata quale motivo imperativo d’interesse generale che possa essere
invocato per giustificare una misura che è in linea di principio in contrasto con
una libertà fondamentale (v., in questo senso, citata sentenza Verkooijen, punto
59, nonché sentenze 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner, Racc. pag.
I-8147, punto 56; X e Y, cit., punto 50, nonché Manninen, cit., punto 49).
62. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la
questione sottoposta dichiarando che l’art. 73 B del Trattato, letto in combinato
disposto con l’art. 73 D del Trattato, deve essere interpretato nel senso
che osta a che uno Stato membro, il quale esenta dall’imposta sulle società i
redditi da locazione percepiti sul territorio nazionale da fondazioni riconosciute
di pubblica utilità illimitatamente imponibili se hanno sede sul suo territorio,
neghi la stessa esenzione per redditi dello stesso tipo ad una fondazione
di diritto privato riconosciuta di pubblica utilità per il solo motivo che,
avendo sede in un altro Stato membro, essa è imponibile sul suo territorio
soltanto limitatamente.
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 3 ottobre 2006, nel procedimento
C-290/04 – KKP Scorpio Konzertproduktionen GmbH contro
Finanzamt Hamburg-Eimsbüttel.
La Scorpio, avente sede in Germania, è una società organizzatrice di
concerti. Nel 1993 essa ha stipulato un contratto con una persona fisica che
si firmava Europop, la quale ha messo a sua disposizione un gruppo musicale.
Europop era stabilita all’epoca nei Paesi Bassi e non aveva in
Germania né un domicilio, né una dimora abituale, né uno stabilimento. Il
giudice del rinvio rileva di non conoscere la nazionalità di Europop.
Nel primo e nel terzo trimestre del 1993 la Scorpio ha versato a Europop
in totale 438 600 marchi tedeschi (DEM) per prestazioni fornite da quest’ultima.
Su tale somma la Scorpio non ha effettuato la ritenuta alla fonte dell’imposta
prevista dall’art. 50 a, n. 4, punto 1, dell’EStG, sebbene Europop
non avesse prodotto il certificato di esenzione indicato nell’art. 50 d, n. 3,
prima frase, dell’EStG.
Una volta venuta a conoscenza di tali fatti, l’autorità fiscale competente
ha ritenuto la responsabilità della Scorpio ed ha richiesto, con avviso di
accertamento del 21 marzo 1997, il pagamento di una somma di
DEM 70 395,30, pari all’imposta che la Scorpio avrebbe dovuto trattenere
alla fonte sul compenso versato a Europop.
28. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli
artt. 59 e 60 del Trattato CEE debbano essere interpretati nel senso che essi
128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ostano ad una normativa nazionale che fissa una procedura di ritenuta dell’imposta
alla fonte per i compensi di prestatori di servizi non residenti nello
Stato membro in cui i servizi sono stati forniti, mentre il compenso versato
ai prestatori residenti all’interno di tale Stato membro non è sottoposto a tale
ritenuta. Tale giudice chiede alla Corte di pronunciarsi anche sul corollario
di tale normativa, cioè la responsabilità in cui incorre il fruitore di servizi che
non abbia effettuato la ritenuta alla fonte alla quale era tenuto.
29. La normativa in discussione nella causa principale fissa un regime
fiscale differente a seconda che il prestatore di servizi sia stabilito in
Germania o in un altro Stato membro.
30. Si deve in proposito innanzi tutto constatare che, sebbene la materia
delle imposte dirette non rientri, in quanto tale, nelle competenze della
Comunità, gli Stati membri sono comunque tenuti ad esercitare le loro competenze
nel rispetto del diritto comunitario (v., in particolare, sentenza 14
febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker, Racc. pag. I-225, punto 21).
31. Si deve quindi ricordare che, conformemente alla giurisprudenza
della Corte, l’art. 59 del Trattato CEE esige l’eliminazione di ogni restrizione
alla libera prestazione di servizi imposta per il fatto che il prestatore è stabilito
in uno Stato membro diverso da quello in cui è fornita la prestazione
(sentenze 4 dicembre 1986, causa 205/84, Commissione/Germania,
Racc. pag. 3755, punto 25, e 26 febbraio 1991, causa C-180/89, Commissione/
Italia, Racc. pag. I-709, punto 15).
32. Infine, secondo una costante giurisprudenza, l’art. 59 del Trattato CEE
conferisce diritti non soltanto al prestatore di servizi, ma anche al destinatario
degli stessi (v., in particolare, sentenze 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e
26/83, Luisi e Carbone, Racc. pag. 377; 28 gennaio 1992, causa C-204/90,
Bachmann, Racc. pag. I-249; 28 aprile 1998, causa C-158/96, Kohll,
Racc. pag. I-1931; 29 aprile 1999, causa C-224/97, Ciola, Racc. pag. I-2517, e
26 ottobre 1999, causa C-294/97, Eurowings Luftverkehr, Racc. pag. I-7447).
36. La procedura della ritenuta alla fonte e il sistema della responsabilità
che opera come garanzia di essa rappresentano infatti un mezzo legittimo
ed appropriato per garantire la tassazione dei redditi di un soggetto stabilito
al di fuori dello Stato dell’imposizione e per evitare che i redditi in questione
sfuggano alla tassazione sia nello Stato di residenza che in quello in cui i
servizi sono forniti.
37. Inoltre, l’applicazione della ritenuta alla fonte rappresentava un
mezzo proporzionato per garantire la riscossione del credito fiscale dello
Stato dell’imposizione.
42. Occorre innanzi tutto osservare che la Corte è già stata chiamata a
decidere se gli artt. 59 e 60 del Trattato CE ostino ad una normativa fiscale
nazionale che, di regola, consideri, ai fini della tassazione dei non residenti,
i redditi lordi, senza deduzione delle spese professionali, allorché i residenti
sono tassati sui redditi netti, dopo la deduzione di tali spese (sentenza
Gerritse, cit., punto 55).
43. Nella citata sentenza Gerritse la Corte ha innanzi tutto osservato che
le spese professionali di cui si discuteva in tale causa erano direttamente con-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 129
nesse all’attività generatrice dei redditi imponibili, cosicché i residenti e i
non residenti erano sul punto nella medesima situazione. Essa ha quindi
risposto in senso affermativo alla questione pregiudiziale che le era stata
posta, dichiarando che costituisce una discriminazione indiretta sulla base
della nazionalità, in linea di principio contraria agli artt. 59 e 60 del
Trattato CE, una normativa nazionale la quale neghi ai non residenti, in
materia impositiva, la deduzione delle spese professionali concessa invece ai
residenti. Essa non si è tuttavia pronunciata su quale debba essere il momento
della procedura impositiva in cui le spese professionali sostenute da un
prestatore di servizi devono essere dedotte nel caso in cui sia possibile fare
riferimento a più fasi.
44. Pertanto, per poter dare una risposta utile al giudice del rinvio, è
necessario intendere il concetto di «spese professionali economicamente
connesse» nel senso che esso riguarda le spese che sono direttamente connesse,
ai sensi della giurisprudenza inaugurata dalla citata sentenza Gerritse,
all’attività economica generatrice dei redditi imponibili.
45. Il Bundesfinanzhof desidera dunque sapere se gli artt. 59 e 60 del
Trattato CEE ostino anche ad una normativa fiscale nazionale che escluda la
deduzione delle spese professionali dal reddito imponibile nel momento in
cui il debitore del compenso effettua la ritenuta alla fonte dell’imposta, ma
che consenta ai non residenti di essere tassati, in funzione dei redditi netti
percepiti in Germania, secondo una procedura che fa seguito, su loro domanda,
a quella della ritenuta alla fonte, ottenendo così il rimborso dell’eventuale
differenza fra tale importo e quello della ritenuta alla fonte.
46. Muovendo dalla premessa del Bundesfinanzhof, vale a dire l’esistenza,
all’epoca dei fatti di cui alla causa principale, di una procedura di rimborso
che consentiva di prendere in considerazione a posteriori le spese professionali
di un prestatore di servizi non residente, occorre ricordare che, secondo
una costante giurisprudenza della Corte, l’applicazione ai prestatori di
servizi delle normative nazionali dello Stato membro ospitante può impedire,
ostacolare o rendere meno attraenti le prestazioni di servizi qualora essa
comporti spese o oneri amministrativi ed economici supplementari (v. sentenze
15 marzo 2001, causa C-165/98, Mazzoleni e ISA, Racc. pag. I-2189,
punto 24, e 25 ottobre 2001, cause riunite C-49/98, C-50/98, da C-52/98 a
C-54/98 e da C-68/98 a C-71/98, Finalarte e a., Racc. pag. I-7831, punto 30).
48. Nessun argomento è stato proposto per giustificare la normativa nazionale
di cui si discute nella causa principale nella parte in cui la stessa non consente
al destinatario di servizi, debitore del compenso versato ad un prestatore
di servizi non residente, di dedurre, nel momento in cui effettua la ritenuta alla
fonte dell’imposta, le spese professionali direttamente connesse alle attività
svolte dal prestatore di servizi non residente nello Stato membro in cui la prestazione
è effettuata, qualora il prestatore di servizi gliele abbia comunicate.
49. (...) gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE devono essere interpretati nel
senso che ostano ad una normativa nazionale la quale non consente che il
destinatario di servizi, debitore del compenso versato ad un prestatore di servizi
non residente, deduca, nel procedere alla ritenuta dell’imposta alla fonte,
130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
le spese professionali che tale prestatore gli ha comunicato e che sono direttamente
connesse alle sue attività nello Stato membro in cui è effettuata la
prestazione, mentre un prestatore di servizi residente in tale Stato sarebbe
soggetto all’imposta soltanto sui suoi redditi netti, cioè quelli calcolati deducendo
le spese professionali.
50. (...), il Bundesfinanzhof chiede in sostanza se gli artt. 59 e 60 del
Trattato CEE debbano essere interpretati nel senso che non ostano ad una
disciplina nazionale in base alla quale siano deducibili, al momento della
ritenuta alla fonte, soltanto le spese professionali direttamente connesse alle
attività compiute nello Stato membro in cui è effettuata la prestazione, comunicate
al debitore del compenso da parte del prestatore di servizi stabilito in
un altro Stato membro, e in base alla quale altre eventuali spese professionali
possano essere prese in considerazione nell’ambito di una successiva procedura
di rimborso.
51. Si deve risolvere tale questione sulla base delle considerazioni svolte
a proposito della questione precedente e tenendo conto del fatto che la
Corte non dispone di elementi che le consentano di confrontare la situazione
dei prestatori di servizi residenti e non residenti. Orbene, se è vero che le
spese che il prestatore di servizi ha comunicato al proprio debitore devono
essere dedotte al momento della ritenuta alla fonte dell’imposta, gli artt. 59
e 60 del Trattato CEE non ostano al fatto che si possa tenere eventualmente
conto, nell’ambito di una successiva procedura di rimborso, di spese che non
sono direttamente connesse, ai sensi della citata giurisprudenza Gerritse,
all’attività economica generatrice dei redditi imponibili.
54. Occorre preliminarmente ricordare che, secondo una costante giurisprudenza,
in mancanza di provvedimenti di unificazione o di armonizzazione
comunitaria, gli Stati membri restano competenti per determinare i criteri
per la tassazione dei redditi e del patrimonio al fine di evitare, eventualmente
attraverso accordi, la doppia imposizione (v. sentenza 21 settembre
1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, Racc. pag. I-6161, punto 57).
55. Tuttavia, per quanto riguarda l’esercizio del potere impositivo così
ripartito, gli Stati membri devono conformarsi alle regole comunitarie (v., in
tal senso, sentenze Saint-Gobain ZN, cit., punto 58; 12 dicembre 2002, causa
C-385/00, De Groot, Racc. pag. I-11819, punto 94, e 19 gennaio 2006, causa
C-265/04, Bouanich, Racc. pag. I-923, punto 50).
56. Orbene, se è accertato che, come è stato rilevato al punto 15 della
presente sentenza, i redditi ricavati dalle prestazioni artistiche di cui alla
causa principale non erano tassabili in Germania ma soltanto nei Paesi Bassi,
ai sensi della Convenzione fiscale Germania-Paesi Bassi, si deve rilevare,
come ha fatto l’avvocato generale al paragrafo 88 delle sue conclusioni, che
l’obbligo imposto ad un prestatore di servizi residente nei Paesi Bassi di
richiedere all’autorità fiscale tedesca competente il rilascio di un certificato
di esenzione per evitare un’imposizione supplementare dei suoi redditi in
Germania costituisce, come è stato ricordato al punto 44 della presente sentenza,
una restrizione alla libera prestazione dei servizi, a causa degli adempimenti
amministrativi che impone a tale prestatore.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 131
57. Allo stesso modo, l’obbligo imposto ad un fruitore di servizi di produrre
tale certificato di esenzione nel caso sia avviata nei suoi confronti un’azione
di accertamento può dissuadere quest’ultimo dal rivolgersi ad un prestatore
di servizi stabilito in un altro Stato membro. Infatti, come sostiene la
Scorpio, il debitore del compenso deve accertarsi che l’altro contraente abbia
avviato autonomamente la procedura di esenzione o di rimborso (girandogli
l’importo dell’eventuale rimborso) o che l’abbia autorizzato ad avviare tale
procedura in suo favore. Si può temere che il prestatore di servizi stabilito in
un altro Stato membro abbia poco interesse per tali adempimenti, o che non
sia più raggiungibile dopo la conclusione del rapporto contrattuale.
59. Tale ostacolo è tuttavia giustificato dall’obiettivo di garantire il buon
funzionamento della procedura di tassazione alla fonte.
60. Come infatti hanno osservato, in particolare, il governo belga e l’avvocato
generale al paragrafo 90 delle sue conclusioni, sembra importante che
il debitore del compenso possa sottrarsi all’obbligo di prelevare l’imposta
alla fonte solo qualora abbia la certezza che il prestatore di servizi possiede
i requisiti che gli consentono di beneficiare di un’esenzione. Non si può pretendere
che il debitore del compenso verifichi per proprio conto se, in ciascun
singolo caso, i redditi in questione siano o meno esenti sulla base di una
convenzione contro la doppia imposizione. Infine, permettere al debitore del
compenso di sottrarsi unilateralmente alla ritenuta alla fonte potrebbe, in
caso di errore da parte sua, compromettere la riscossione dell’imposta nei
confronti del creditore del compenso.
62. Con tali questioni il Bundesfinanzhof desidera in sostanza sapere se
l’art. 59 del Trattato CEE debba essere interpretato nel senso che esso è
applicabile se il destinatario dei servizi che invoca tale articolo per beneficiare
della libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità è cittadino
di uno Stato membro e stabilito all’interno della Comunità mentre l’altra
parte del contratto, il prestatore di servizi, è stabilito in un altro paese della
Comunità ma è cittadino di uno Stato terzo.
63. Si deve preliminarmente ricordare che, come è stato osservato al
punto 32 della presente sentenza e fissato da una costante giurisprudenza,
l’art. 59 del Trattato CEE conferisce diritti non soltanto al prestatore di servizi,
ma anche al destinatario degli stessi.
64. Se è vero che tali diritti comprendono la libertà del destinatario dei
servizi di recarsi in un altro Stato membro per usufruire di un servizio senza
essere ostacolato da restrizioni (sentenze Ciola, cit., punto 11, e 28 ottobre
1999, causa C-55/98, Vestergaard, Racc. pag. I-7641, punto 20), risulta altresì
in modo costante dalla giurisprudenza della Corte che il destinatario dei
servizi può avvalersi di tali diritti anche qualora né lui né il prestatore dei servizi
compiano uno spostamento intracomunitario (v., in tal senso, sentenze
Eurowings Luftverkehr, cit., punto 34; 6 novembre 2003, causa C-243/01,
Gambelli e a., Racc. pag. I-13031, punti 55 e 57, nonché 14 ottobre 2004,
causa C-36/02, Omega, Racc. pag. I-9609, punto 25).
66. Poiché dunque risulta dalle considerazioni svolte che la Scorpio, assimilata,
in quanto società ai sensi dell’art. 58, primo comma, del Trattato CEE
132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(divenuto art. 58 del Trattato CE, a sua volta divenuto art. 48 CE), ad una persona
fisica cittadina di uno Stato membro, dovrebbe in linea di principio poter
far valere, ai sensi dell’art. 66 del Trattato CEE (divenuto art. 66 del
Trattato CE, a sua volta divenuto art. 55 CE), i diritti conferiti dall’art. 59 del
Trattato CEE, si deve verificare se l’eventuale fatto che Europop, in quanto
prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro, sia un cittadino di uno
Stato terzo osti a che la Scorpio possa far valere tali diritti.
67. A tale proposito si deve osservare che il Trattato CEE stabilisce, dal
momento che il Consiglio non ha dato seguito alla possibilità prevista dal
secondo comma dell’art. 59 del medesimo Trattato, che le disposizioni relative
alla libera prestazione dei servizi si applicano qualora siano soddisfatte
le seguenti condizioni:
– la prestazione deve essere effettuata all’interno della Comunità;
– il prestatore di servizi deve essere cittadino di uno Stato membro e stabilito
all’interno di un paese della Comunità.
68. Ne consegue che il Trattato CEE non estende il beneficio di tali
disposizioni ai prestatori di servizi cittadini di uno Stato terzo, neppure qualora
essi siano stabiliti all’interno della Comunità e la prestazione sia intracomunitaria.
69. Si devono dunque risolvere la seconda questione e la terza questione,
lett. d), dichiarando che l’art. 59 del Trattato CEE deve essere interpretato
nel senso che esso non è applicabile a favore di un prestatore di servizi cittadino
di uno Stato terzo.
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 14 novembre 2006, nel procedimento
C-513/04 – M.K., B.M. e Belgische Staat.
I coniugi K.-M., residenti in Belgio, hanno percepito nel corso degli anni
1995 e 1996 dividendi della società Eurofers SARL stabilita in Francia.
Una parte delle somme percepite corrispondeva al credito d’imposta per
imputazione, per l’ammontare del 50% dei dividendi versati, concesso dalle
autorità fiscali francesi in forza dell’art. 15, n. 3, della convenzione francobelga
a titolo di compensazione dell’imposta sulle società. In conformità
alla detta disposizione, tale credito d’imposta per imputazione è assimilato
ad un reddito da dividendi. I dividendi lordi hanno subito in Francia un prelievo
del 15% mediante ritenuta alla fonte a titolo di imposta sul reddito.
I coniugi hanno dichiarato di aver percepito dalla Eurofers SARL
BEF … e BEF … a titolo, rispettivamente, dei redditi degli anni 1995 e 1996.
Essi hanno chiesto nella loro dichiarazione dei redditi di ottenere il beneficio
del vantaggio fiscale previsto all’art. 19 A, n. 1, della convenzione franco-
belga, corrispondente all’imposta francese alla fonte.
Considerata la soppressione da parte del legislatore belga di tale vantaggio
fiscale, la loro domanda è stata respinta.
Ritenendo che tale diniego del vantaggio fiscale di cui al procedimento
principale avesse per effetto di sottoporre i dividendi di origine francese ad
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 133
una pressione fiscale maggiore di quella esercitata sui dividendi delle società
stabilite in Belgio, i coniugi hanno adito il Rechtbank van eerste aanleg te
Gent, allo scopo di far annullare la decisione dell’amministrazione fiscale
belga che respingeva la loro domanda, invocando in particolare una violazione
dell’art. 73 B, n. 1, del Trattato.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
73 B, n. 1, del trattato CE (divenuto art. 56, n. 1, CE).
15. Occorre preliminarmente ricordare che, in forza di una giurisprudenza
costante, benché la materia delle imposte dirette rientri nella competenza
degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza
nel rispetto del diritto comunitario (sentenze 11 agosto 1995, causa C-80/94,
Wielockx, Racc. pag. I-2493, punto 16; 6 giugno 2000, causa C-35/98,
Verkooijen, Racc. pag. I-4071, punto 32; 4 marzo 2004, causa C-334/02,
Commissione/Francia, Racc. pag. I-2229, punto 21; 15 luglio 2004, causa
C-315/02, Lenz, Racc. pag. I-7063, punto 19, nonché 7 settembre 2004,
causa C-319/02, Manninen, Racc. pag. I-7477, punto 19).
16. Nelle citate sentenze Verkooijen, Lenz e Manninen, la Corte ha ritenuto
che la normativa degli Stati membri in causa stabilisse una differenza di trattamento
tra i redditi derivanti dai dividendi di società aventi sede nello Stato
membro di residenza del contribuente interessato e quelli tratti dai dividendi di
società aventi sede in un altro Stato membro, in quanto negava ai beneficiari
di questi ultimi dividendi i vantaggi fiscali concessi agli altri. Avendo constatato
che la situazione dei contribuenti che percepivano dividendi di società stabilite
in un altro Stato membro non era obiettivamente diversa da quella dei
contribuenti che percepivano dividendi di società stabilite nello Stato membro
in cui erano residenti, la Corte ha dichiarato che le normative di cui si trattava
costituivano un ostacolo alle libertà sancite dal Trattato.
20. In circostanze come quelle della fattispecie, le conseguenze svantaggiose
che l’applicazione di un sistema di imposizione dei redditi, quale il regime
belga di cui alla causa principale, potrebbe comportare derivano dall’esercizio
parallelo da parte di due Stati membri della loro competenza fiscale.
21. Occorre al riguardo ricordare che le convenzioni che prevengono la
doppia imposizione, come quelle previste all’art. 293 CE, servono ad eliminare
o ad attenuare gli effetti negativi per il funzionamento del mercato interno
che derivano dalla coesistenza di sistemi fiscali nazionali richiamata al
punto precedente.
22. Orbene, il diritto comunitario, al suo stato attuale ed in una situazione
come quella di cui alla causa principale, non stabilisce criteri generali per
la ripartizione delle competenze tra Stati membri con riferimento all’eliminazione
della doppia imposizione all’interno della Comunità. Infatti, fatta
eccezione per la direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente
il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati
membri diversi (G.U. L 225, pag. 6), la convenzione 23 luglio 1990 relativa
all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di
imprese associate (G.U. L 225, pag. 10) e la direttiva del Consiglio 3 giugno
134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
2003, 2003/48/CE, in materia di tassazione dei redditi da risparmio sotto
forma di pagamenti di interessi (G.U. L 157, pag. 38), non è stata finora adottata,
nell’ambito del diritto comunitario, alcuna misura di unificazione o di
armonizzazione intesa ad eliminare le situazioni di doppia imposizione.
23. Ne consegue che spetta agli Stati membri adottare le misure necessarie
per prevenire situazioni come quella di cui alla causa principale utilizzando,
in particolare, i criteri di ripartizione seguiti nella prassi fiscale internazionale.
È sostanzialmente questa la finalità della convenzione francobelga,
che effettua una ripartizione della competenza fiscale tra la
Repubblica francese e il Regno del Belgio in simili situazioni. La detta convenzione
non costituisce tuttavia oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale
in esame.
24. Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre
risolvere la questione sollevata nel senso che l’art. 73 B, n. 1, del trattato non
osta alla normativa di uno Stato membro, quale la legislazione fiscale belga,
che, nell’ambito dell’imposta sul reddito, assoggetta alla stessa aliquota
d’imposta uniforme i dividendi di azioni di società stabilite sul territorio del
detto Stato e i dividendi di azioni di società stabilite in un altro Stato membro,
senza prevedere la possibilità di imputare l’imposta prelevata mediante
ritenuta alla fonte in quest’altro Stato membro.
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 12 dicembre 2006, nel procedimento
C-374/04 – Test Claimants in Class IV of the ACT Group
Litigation e Commissioners of Inland Revenue.
La controversia di cui alla causa principale è parte di un contenzioso
del tipo «group litigation» a titolo dell’ACT, costituito da domande di restituzione
e/o di risarcimento proposte contro i Commissioners of Inland
Revenue dinanzi alla High Court of Justice (England & Wales), Chancery
Division, a seguito della citata sentenza Metallgesellschaft e a.
In tale sentenza la Corte, statuendo su questioni pregiudiziali provenienti
dallo stesso giudice nazionale, ha dichiarato, in risposta alla prima questione
sottoposta, che l’art. 43 CE osta alla normativa fiscale di uno Stato
membro che accordi alle società stabilite in tale Stato la possibilità di beneficiare
di un regime fiscale che consenta loro di pagare i dividendi alla loro
capogruppo senza essere tenute al pagamento anticipato dell’imposta sulle
società quando anche la loro società capogruppo sia stabilita in questo stesso
Stato e neghi loro tale possibilità quando la loro società capogruppo
abbia sede in un altro Stato membro.
Nella soluzione alla seconda questione sottoposta in questa stessa
causa, la Corte ha dichiarato che, qualora una controllata con sede in uno
Stato membro sia stata assoggettata all’obbligo di pagare anticipatamente
l’imposta sulle società per i dividendi versati alla sua società capogruppo
avente sede in un altro Stato membro, mentre, in circostanze simili, le controllate
di società capogruppo con sede nel primo Stato hanno potuto opta-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 135
re per un regime fiscale che ha consentito loro di sottrarsi a tale obbligo,
l’art. 43 CE richiede che le società controllate con sede nel detto Stato e le
loro società capogruppo non aventi ivi sede dispongano di un mezzo di
ricorso effettivo per ottenere il rimborso o il risarcimento delle perdite economiche
da esse sofferte, a vantaggio delle autorità dello Stato membro
interessato, in seguito al pagamento anticipato dell’imposta da parte delle
controllate.
Le quattro cause scelte dal giudice del rinvio come cause «pilota» ai fini
del presente rinvio pregiudiziale riguardano domande proposte al tempo
stesso da società residenti e da società non residenti appartenenti allo stesso
gruppo delle società residenti e che hanno percepito dividendi da queste.
Si tratta di dividendi versati tra il 1974 ed il 1998 a società residenti in Italia
(caso del gruppo Pirelli), in Francia (caso del gruppo ESSILOR) e nei Paesi
Bassi (caso dei gruppi BMW e Sony).
Mentre, nel caso del gruppo Pirelli, la società non residente detiene una
partecipazione minoritaria, di almeno il 10%, nella società residente, gli
altri casi riguardano società capogruppo non residenti che controllano al
100% la loro controllata residente. Per quanto riguarda le due società madri
residenti nei Paesi Bassi, la prima è detenuta integralmente da una società
residente in Germania, mentre la seconda è detenuta da una società residente
in Giappone.
30. Con la sua prima questione, lett. a), il giudice del rinvio chiede, in
sostanza, se gli artt. 43 CE e 56 CE ostino ad una normativa di uno Stato
membro, come quella di cui alla causa principale, che, al momento di una
distribuzione di dividendi da parte di una società residente, concede un credito
d’imposta pieno agli azionisti finali beneficiari dei detti dividendi che
risiedono in tale Stato membro o in un altro Stato con cui questo primo Stato
membro ha concluso una CDI che prevede un tale credito d’imposta, ma non
concede alcun credito d’imposta, pieno o parziale, a società beneficiarie di
tali dividendi che risiedono in alcuni altri Stati membri.
31. Risulta dal fascicolo che, piuttosto che sottoporre alla Corte un problema
di disparità di trattamento tra, da una parte, azionisti finali, residenti o
meno, beneficiari di dividendi versati da una società residente e, dall’altra,
società non residenti beneficiarie di tali dividendi, il giudice del rinvio chiede
un’interpretazione del diritto comunitario che gli permetta di valutare la
compatibilità con quest’ultimo del trattamento differenziato a cui sono
assoggettate nel Regno Unito, da una parte, una società residente che beneficia
di un credito d’imposta allorché essa percepisce dividendi di un’altra
società residente e i cui azionisti finali residenti beneficiano anch’essi di un
credito d’imposta quando vengono loro versati dividendi e, dall’altra, una
società non residente che non beneficia nel Regno Unito, salvo in taluni casi
rientranti in convenzioni sulla doppia imposizione, di nessun credito d’imposta
allorché essa percepisce dividendi da una società residente e i cui azionisti
finali, residenti o meno, non hanno nemmeno essi diritto ad un credito
d’imposta.
136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
37. Relativamente al punto se la legislazione nazionale di cui trattasi
nella causa principale rientri nell’ambito dell’art. 43 CE relativo alla libertà
di stabilimento o dell’art. 56 CE relativo alla libera circolazione dei capitali,
occorre sottolineare che la questione sottoposta riguarda provvedimenti
nazionali in materia di assoggettamento ad imposta di dividendi secondo i
quali, indipendentemente dall’entità della partecipazione detenuta dall’azionista
beneficiario, ad una società residente che percepisce dividendi da un’altra
società residente viene concesso un credito d’imposta, mentre, per una
società non residente che percepisce tali dividendi, la concessione di un credito
d’imposta dipende dalle disposizioni di un’eventuale CDI che il Regno
Unito ha concluso con il suo Stato di residenza. Risulta che talune CDI,
come quella conclusa con il Regno dei Paesi Bassi, fanno variare l’entità del
credito d’imposta secondo l’ampiezza della partecipazione detenuta dall’azionista
beneficiario nella società distributrice.
38. Ne deriva che i provvedimenti di cui trattasi possono rientrare nell’ambito
di applicazione tanto dell’art. 43 CE quanto dell’art. 56 CE.
41. Per quanto riguarda, innanzi tutto, l’esame della questione pregiudiziale
sotto il profilo della libertà di stabilimento, le ricorrenti di cui alla causa
principale sostengono che, dal momento che, al di fuori di taluni casi che
rientrano nelle CDI, la legislazione in vigore nel Regno Unito non concede
crediti d’imposta ad una società non residente che percepisce dividendi da
una società residente, né ai suoi azionisti finali, siano essi residenti o meno,
essa limita la libertà di una tale società non residente di costituire controllate
nel detto Stato membro. Rispetto alle società residenti che percepiscono
dividendi da una società residente, una società non residente sarebbe in una
posizione svantaggiata nel senso che, per il fatto che i suoi azionisti non
beneficiano di un credito d’imposta, essa dovrebbe aumentare l’importo dei
suoi dividendi affinché i suoi azionisti ricevano un importo equivalente a ciò
che essi riceverebbero se fossero azionisti di una società residente.
42. A tale riguardo occorre ricordare che la libertà di stabilimento, che
l’art. 43 CE attribuisce ai cittadini della Comunità e che implica per essi l’accesso
alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione
e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello
Stato membro di stabilimento per i propri cittadini, comprende, ai sensi dell’art.
48 CE, per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro
e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale
nel territorio della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello
Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia
(v., in particolare, sentenze 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-
Gobain ZN, Racc. pag. I-6161, punto 35; 13 dicembre 2005, causa C-446/03,
Marks & Spencer, Racc. pag. I-10837, punto 30, nonché Cadbury
Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 41).
43. Per le società, occorre rilevare che la loro sede ai sensi
dell’art. 48 CE serve per determinare, come la cittadinanza delle persone
fisiche, il loro collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato.
Ammettere che lo Stato membro di stabilimento possa liberamente riservare
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 137
un trattamento diverso per il solo fatto che la sede di una società si trova in
un altro Stato membro svuoterebbe quindi di contenuto l’art. 43 CE (v., in tal
senso, sentenze 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia,
Racc. pag. 273, punto 18; 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank,
Racc. pag. I-4017, punto 13; Metallgesellschaft e a., cit., punto 42, e Marks
& Spencer, cit., punto 37). La libertà di stabilimento mira dunque ad assicurare
il beneficio del trattamento nazionale nello Stato membro ospitante, vietando
ogni discriminazione fondata sul luogo della sede delle società (v., in
tal senso, citate sentenze Commissione/Francia, punto 14, e Saint-Gobain
ZN, punto 35).
46. Per determinare se una disparità di trattamento fiscale sia discriminatoria,
occorre tuttavia verificare se, in considerazione della misura nazionale
di cui trattasi, le società interessate si trovino in una situazione obiettivamente
comparabile. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, la discriminazione
consiste nell’applicazione di norme diverse a situazioni analoghe
ovvero nell’applicazione della stessa norma a situazioni diverse (v. sentenze
14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker, Racc. pag. I-225, punto 30,
e 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank
49. In considerazione di ciò, occorre ricordare che i dividendi distribuiti
da una società ai suoi azionisti possono essere oggetto, da una parte, di
un’imposizione a catena se sono tassati, innanzi tutto, in capo alla società
distributrice, in quanto utili realizzati, e, in seguito, in capo ad una società
madre, a titolo dell’imposta sugli utili, e dall’altra, di una doppia imposizione
allorché sono tassati, innanzi tutto, in capo alla società distributrice e, in
seguito, in capo all’azionista finale, a titolo dell’imposta sul reddito.
50. Spetta ad ogni Stato membro organizzare, in osservanza del diritto
comunitario, il proprio sistema d’imposizione di utili distribuiti e definire, in
tale ambito, la base imponibile nonché il tasso d’imposizione che vengono
applicati, in capo alla società distributrice e/o in capo all’azionista beneficiario,
purché siano assoggettati all’imposta nel detto Stato.
51. In forza dell’art. 293 CE, gli Stati membri avvieranno fra loro, per
quanto occorra, negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini, l’eliminazione
della doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità.
Tuttavia, a prescindere dalla convenzione 23 luglio 1990, 90/436/CEE, relativa
all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili
di imprese associate (G.U. L 225, pag. 10), nessuna misura di unificazione o
di armonizzazione diretta ad eliminare le doppie imposizioni è stata adottata
nell’ambito comunitario, e gli Stati membri non hanno stipulato, in forza
dell’art. 293 CE, nessuna convenzione multilaterale in materia (v., in tal
senso, sentenze 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly, Racc. pag. I-2793,
punto 23; 5 luglio 2005, causa C-376/03, D., Racc. pag. I-5821, punto 50, e
7 settembre 2006, causa C-470/04, N, Racc. pag. I-7409, punti 43).
53. Soltanto per le società degli Stati membri che detengono nel capitale
di una società di un altro Stato membro una partecipazione minima del
25%, l’art. 4 della direttiva 90/435, letto in combinato disposto con l’art. 3
della stessa, nella sua versione iniziale applicabile al tempo dei fatti di cui
138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
alla causa principale, impone a ogni Stato membro di esonerare gli utili che
una società madre residente percepisce da una controllata residente in un
altro Stato membro o di autorizzare tale società madre a dedurre dall’importo
della sua imposta la frazione dell’imposta della controllata relativa a tali
utili e, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato
membro di residenza della controllata.
54. Il solo fatto che spetta agli Stati membri, per le partecipazioni che
non rientrano nell’ambito della direttiva 90/435, determinare se, ed in quale
misura, l’imposizione a catena nonché la doppia imposizione degli utili
distribuiti debbano essere evitate e introdurre, a tale effetto, in modo unilaterale
o mediante CDI concluse con altri Stati membri meccanismi che mirino
a prevenire o ad attenuare tale imposizione a catena e tale doppia imposizione
non significa che è consentito loro applicare misure contrarie alle
libertà di circolazione garantite dal Trattato.
55. Pertanto, uno Stato membro, allorché adotta un sistema per prevenire
o attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione nel caso di
dividendi versati a residenti da società residenti, deve concedere un trattamento
equivalente ai dividendi versati a residenti da società non residenti (v.,
in tal senso, sentenze 15 luglio 2004, causa C-315/02, Lenz,
Racc. pag. I-7063, punti 27-49, e 7 settembre 2004, causa C-319/02,
Manninen, Racc. pag. I-7477, punti 29-55).
56. Infatti, nell’ambito di tali sistemi, la situazione di azionisti residenti
in uno Stato membro che percepiscano dividendi da una società stabilita in
questo stesso Stato è analoga a quella di azionisti residenti nel detto Stato che
percepiscano dividendi da una società stabilita in un altro Stato membro, in
quanto sia i dividendi di origine nazionale sia quelli di origine estera possono
costituire oggetto, da una parte, nel caso di società azioniste, di un’imposizione
a catena, e dall’altra, nel caso di azionisti finali, di una doppia imposizione
(v., in tal senso, citate sentenze Lenz, punti 31 e 32, nonché
Manninen, punti 35 e 36).
57. Tuttavia, se la situazione di tali azionisti dev’essere considerata analoga
per quanto riguarda l’applicazione agli stessi della legislazione fiscale
del loro Stato membro di residenza, questo non è necessariamente il caso, per
quanto riguarda l’applicazione della legislazione fiscale dello Stato membro
di residenza della società distributrice, delle situazioni in cui si trovano gli
azionisti beneficiari residenti in tale Stato membro e gli azionisti beneficiari
residenti in un altro Stato membro.
58. Infatti, qualora la società distributrice e l’azionista beneficiario non
risiedano nello stesso Stato membro, lo Stato membro di residenza della
società distributrice, vale a dire lo Stato membro della fonte degli utili, non
si trova, per quanto riguarda la prevenzione o l’attenuazione dell’imposizione
a catena e della doppia imposizione, nella stessa posizione dello Stato
membro di residenza dell’azionista beneficiario.
59. A tale riguardo occorre considerare, da una parte, che richiedere che
lo Stato di residenza della società distributrice assicuri che gli utili distribuiti
ad un azionista non residente non siano colpiti da un’imposizione a catena
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 139
o da una doppia imposizione, esonerando tali utili dall’imposta in capo alla
società distributrice o concedendo al detto azionista un beneficio fiscale corrispondente
all’imposta versata su tali utili da parte della società distributrice,
significherebbe infatti che il detto Stato debba rinunciare al suo diritto di
assoggettare ad imposta un reddito generato da un’attività economica esercitata
nel suo territorio.
60. D’altra parte, per quanto riguarda un meccanismo che mira a prevenire
o ad attenuare la doppia imposizione attraverso la concessione di un
beneficio fiscale all’azionista finale, è necessario rilevare che normalmente
lo Stato membro di residenza di quest’ultimo è nella migliore posizione per
valutare la capacità contributiva personale del detto azionista (v., in tal senso,
citate sentenze Schumacker, punti 32 e 33, nonché D., punto 27). Parimenti,
per le partecipazioni che rientrano nella direttiva 90/435, l’art. 4, n. 1, di quest’ultima
impone allo Stato membro della società madre che percepisce utili
distribuiti da una controllata residente in un altro Stato membro, e non a quest’ultimo
Stato, di evitare l’imposizione a catena, astenendosi dall’assoggettare
ad imposta tali utili o assoggettandoli ad essa pur autorizzando la società
madre a dedurre dall’importo della sua imposta la frazione dell’imposta
della controllata relativa a tali utili e, eventualmente, l’importo della ritenuta
alla fonte prelevata dallo Stato membro di residenza della controllata.
63. Una disparità sussiste tuttavia tra le società beneficiarie residenti e le
società beneficiarie non residenti per quanto riguarda la possibilità per le
dette società beneficiarie di effettuare una distribuzione di dividendi ai loro
azionisti finali in un quadro normativo che prevede per questi ultimi un credito
d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta sulle società versata
dalla società che ha generato gli utili distribuiti. È chiaro che la detta possibilità
è riservata alle società residenti.
64. Orbene, è nella sua qualità di Stato di residenza dell’azionista che
questo stesso Stato membro, allorché una società residente distribuisce dividendi
ai suoi azionisti finali residenti, concede a questi ultimi un credito
d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta sulle società versata
anticipatamente dalla società che ha generato gli utili distribuiti al momento
della distribuzione dei detti dividendi.
65. Per quanto riguarda l’applicazione dei meccanismi che mirano a prevenire
o ad attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione, la posizione
di uno Stato membro in cui risiedono sia le società distributrici sia gli
azionisti finali non è pertanto analoga a quella di uno Stato membro in cui
risiede una società che distribuisce dividendi ad una società non residente
che li versa, a sua volta, ai suoi azionisti finali, nel senso che quest’ultimo
Stato agisce, in via di principio, solo in qualità di Stato della fonte degli utili
distribuiti.
66. Soltanto se, in quest’ultimo caso, una società residente in uno Stato
membro distribuisce dividendi ad una società residente in un altro Stato
membro e gli azionisti di quest’ultima società, dal canto loro, risiedono in
questo primo Stato, incombe a quest’ultimo, in quanto Stato di residenza dei
detti azionisti, in conformità del principio enunciato nelle citate sentenze
140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Lenz e Manninen, come ricordato al punto 55 della presente sentenza, di
vigilare affinché i dividendi che tali azionisti percepiscono da una società
non residente siano soggetti ad un trattamento fiscale equivalente a quello
riservato ai dividendi che un azionista residente percepisce da una società
residente.
70. Orbene, se lo Stato membro di residenza della società generatrice
degli utili da distribuire decide di esercitare la sua competenza fiscale non soltanto
sugli utili generati in tale Stato, ma anche sul reddito che proviene dal
detto Stato percepito dalle società beneficiarie non residenti, è il solo esercizio
da parte di questo stesso Stato della sua competenza fiscale che, indipendentemente
da ogni imposizione in un altro Stato membro, genera un rischio
di imposizione a catena. In tale caso, affinché le società beneficiarie non residenti
non si trovino di fronte ad una limitazione della libertà di stabilimento
vietata, in via di principio, dall’art. 43 CE, lo Stato di residenza della società
distributrice deve vigilare affinché, in relazione al meccanismo previsto dal
suo diritto nazionale allo scopo di prevenire o attenuare l’imposizione a catena,
le società azioniste non residenti siano assoggettate ad un trattamento
equivalente a quello di cui beneficiano le società azioniste residenti.
71. Spetta al giudice nazionale decidere, in ciascun caso, se tale obbligo
sia stato rispettato, tenendo conto, eventualmente, delle disposizioni della
CDI che il detto Stato membro ha concluso con lo Stato di residenza della
società azionista (v., in tal senso, sentenza 19 gennaio 2006, causa C-265/04,
Bouanich, Racc. pag. I-923, punti 51-55).
72. Risulta da quanto precede che una legislazione di uno Stato membro
che, nell’ambito di una distribuzione di dividendi da parte di una società residente
e in mancanza di una CDI, concede alle sole società beneficiarie residenti
un credito d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta sulle
società versata, in anticipo, dalla società generatrice degli utili distribuiti,
riservando al tempo stesso ai soli azionisti finali residenti la concessione di
tale credito d’imposta, non costituisce una discriminazione vietata dall’art.
43 CE.
73. Dal momento che le considerazioni formulate ai punti precedenti si
applicano nello stesso modo alle società azioniste non residenti che hanno
percepito dividendi sulla base di una partecipazione che non conferisce loro
una sicura influenza sulle decisioni della società distributrice residente e non
permette loro di indirizzarne le attività, una tale legislazione non limita nemmeno
la libera circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 56 CE.
74. Occorre dunque risolvere la prima questione lett. a), nel senso che
gli artt. 43 CE e 56 CE non ostano a che uno Stato membro, al momento di
una distribuzione di dividendi da parte di una società residente nel detto
Stato, conceda alle società beneficiarie dei detti dividendi che risiedono
anch’esse nel detto Stato un credito d’imposta corrispondente alla frazione
dell’imposta versata dalla società distributrice sugli utili distribuiti, ma non
lo conceda alle società beneficiarie che risiedono in un altro Stato membro e
che non sono assoggettate all’imposta in questo primo Stato a titolo di tali
dividendi.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 141
75. Con la sua prima questione, lett. b)-d), il giudice del rinvio chiede,
in sostanza, se gli artt. 43 CE e 56 CE ostino al fatto che uno Stato membro
applichi CDI concluse con altri Stati membri in forza delle quali, al momento
di una distribuzione di dividendi da parte di una società residente, le società
beneficiarie residenti in taluni Stati membri non beneficiano di un credito
d’imposta, mentre alle società beneficiarie residenti in determinati altri Stati
membri viene concesso un credito d’imposta parziale.
76. In tale ambito, esso chiede anche se sia possibile che uno Stato membro
applichi una disposizione di una CDI, detta di «limitazione dei benefici
», in forza della quale esso non concede alcun credito d’imposta ad una
società residente nell’altro Stato membro contraente se quest’ultima è controllata
da una società residente in un terzo Stato con cui il primo Stato membro
ha concluso una CDI che, al momento di una distribuzione di dividendi,
non prevede alcun credito d’imposta per la società beneficiaria residente nel
terzo Stato, e se rilevi, a tal riguardo, il fatto che la società beneficiaria residente
sia controllata da una società residente in uno Stato membro o in un
paese terzo.
77. Per i motivi esposti nei punti 37-40 della presente sentenza, occorre
esaminare i provvedimenti nazionali di cui trattasi nella causa principale
sotto il profilo sia della libertà di stabilimento sia della libera circolazione dei
capitali.
81. A tale riguardo occorre ricordare che, in mancanza di provvedimenti
di unificazione o di armonizzazione comunitaria diretti ad eliminare le
doppie imposizioni, gli Stati membri restano competenti a determinare i criteri
d’imposizione dei redditi al fine di eliminare, se del caso mediante convenzioni,
le doppie imposizioni. In tale contesto gli Stati membri sono liberi,
nell’ambito delle convenzioni bilaterali, di stabilire gli elementi di collegamento
per la ripartizione della competenza fiscale (v. citate sentenze Gilly,
punti 24 e 30; Saint-Gobain ZN, punto 57; D., punto 52, e Bouanich,
punto 49).
82. Le ricorrenti di cui alla causa principale denunciano la disparità di trattamento
inflitta a società non residenti nel Regno Unito, per il fatto che le CDI
concluse dal detto Stato membro con taluni altri Stati membri prevedono un
credito d’imposta per le società residenti dei detti Stati membri, mentre le CDI
concluse dal Regno Unito con altri Stati membri non ne prevedono.
83. Per determinare se una tale disparità di trattamento sia discriminatoria,
occorre verificare se, riguardo ai provvedimenti di cui trattasi, le società
non residenti interessate si trovino in una situazione obiettivamente analoga.
87. Le situazioni in cui il Regno Unito concede un credito d’imposta a
società residenti nell’altro Stato contraente che percepiscono dividendi da
una società residente nel Regno Unito sono quelle in cui quest’ultimo si è
altresì riservato il diritto di assoggettare ad imposta tali società a titolo di tali
dividendi. L’aliquota di imposizione che, in un tale caso, il Regno Unito può
applicare varia a seconda delle circostanze, in particolare a seconda che una
CDI preveda un credito d’imposta pieno o parziale. Esiste dunque una diretta
connessione tra il diritto ad un credito d’imposta e l’aliquota d’imposta
142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
che una tale CDI prevede (v., in tal senso, sentenza 25 settembre 2003, causa
C-58/01, Océ Van der Grinten, Racc. pag. I-9809, punto 87).
88. Pertanto, la concessione di un credito d’imposta ad una società non
residente che percepisce dividendi da una società residente, come quello previsto
in talune CDI concluse dal Regno Unito, non può essere considerata
come un’agevolazione che possa essere separata dal resto della convenzione,
ma ne costituisce parte integrante e contribuisce al suo equilibrio generale
(v., in tal senso, sentenza D., cit., punto 62).
89. Lo stesso dicasi per le disposizioni delle CDI che sottopongono la
concessione di un tale credito d’imposta alla condizione che la società non
residente non sia detenuta, direttamente o indirettamente, da una società residente
in uno Stato membro o in un paese terzo con cui il Regno Unito ha concluso
una CDI che non prevede un credito d’imposta.
90. Infatti, anche se tali disposizioni si riferiscono alla situazione di una
società non residente in uno degli Stati membri contraenti, esse si applicano
soltanto a soggetti residenti in uno dei detti Stati membri e, contribuendo al
loro equilibrio generale, costituiscono parte integrante delle CDI interessate.
91. Il fatto che tali diritti e obblighi reciproci si applichino soltanto a
soggetti residenti in uno dei due Stati membri contraenti è una conseguenza
inerente alle convenzioni bilaterali volte a prevenire la doppia imposizione.
Ne consegue che, per quanto riguarda l’imposizione dei dividendi versati da
una società residente nel Regno Unito, una società residente in uno Stato
membro che ha concluso con il Regno Unito una CDI che non prevede un
credito d’imposta non si trova nella stessa situazione di una società residente
in uno Stato membro che ha concluso una CDI che lo prevede (v., in tal
senso, sentenza D., cit, punto 61).
92. Ne deriva che le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento
non ostano al fatto che il diritto ad un credito d’imposta previsto
in una CDI conclusa da uno Stato membro con un altro Stato membro per
società residenti in quest’ultimo Stato che percepiscono dividendi da una
società residente nel primo Stato non sia esteso a società residenti in un terzo
Stato membro con cui il primo Stato ha concluso una CDI che non prevede
un tale diritto.
93. Dal momento che una tale situazione non comporta una discriminazione
nei confronti di società non residenti che percepiscono dividendi da
una società residente, la conclusione tratta al punto precedente vale anche a
proposito delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei
capitali.
94. Avuto riguardo alle considerazioni che precedono occorre risolvere
la prima questione, lett. b)-d), nel senso che gli artt. 43 CE e 56 CE non ostano
al fatto che uno Stato membro non estenda il diritto ad un credito d’imposta,
previsto in una CDI conclusa con un altro Stato membro per società
residenti in quest’ultimo Stato che percepiscono dividendi da una società
residente nel primo Stato, a società residenti in un terzo Stato membro con
cui esso ha concluso una CDI, che non prevede un tale diritto per società
residenti in questo terzo Stato.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 143
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 12 settembre 2006, nel procedimento
C-196/04 – Cadbury Schweppes plc, Cadbury Schweppes
Overseas Ltd contro Commissioners of Inland Revenue.
La CS, società residente, è la madre del gruppo Cadbury Schweppes,
costituito da società stabilite nel Regno Unito, in altri Stati membri
dell’Unione europea e in paesi terzi. Il gruppo comprende, in particolare,
due controllate irlandesi, vale a dire la Cadbury Schweppes Treasury
Services (in prosieguo: la «CSTS») e la Cadbury Schweppes Treasury
International (in prosieguo: la «CSTI»), che la CS detiene indirettamente
attraverso un gruppo di controllate a capo delle quali si trova la CSO.
La CSTS e la CSTI, che sono state costituite in seno all’IFSC, all’epoca dei
fatti della causa principale erano soggette ad un’aliquota d’imposta del 10%.
Le attività della CSTS e della CSTI consistono nel raccogliere fondi e
nel metterli a disposizione delle controllate del gruppo Cadbury Schweppes.
Secondo la decisione del rinvio, la CSTS è andata a sostituirsi ad un’organizzazione
precedente similare che comprendeva una società di Jersey.
Triplice lo scopo della sua costituzione: in primo luogo, ovviare a un problema
tributario avvertito dai contribuenti canadesi titolari di azioni preferenziali
della CS; in secondo luogo, evitare di dover ottenere l’autorizzazione
delle autorità del Regno Unito a prestiti per l’estero e, in terzo luogo, ridurre
le trattenute alla fonte sui dividendi versati nella struttura di gruppo,
avvalendosi della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente
il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di
Stati membri diversi (G.U. L. 225 pag. 6). Sempre secondo tale decisione, i
detti tre obiettivi ben avrebbero potuto essere raggiunti se la CSTS fosse
stata costituita conformemente alla legislazione del Regno Unito e ivi avesse
avuto sede.
La CSTI è una controllata della CSTS. Secondo il giudice remittente,
essa è stata costituita in Irlanda per sfuggire all’applicazione di certe disposizioni
fiscali del Regno Unito in materia di cambio.
Stando alla decisione di rinvio, è certo che la CSTS e la CSTI sono state
stabilite a Dublino unicamente perché le loro attività di finanziamento del
gruppo Cadbury Schweppes potessero beneficiare del regime fiscale
dell’IFSC.
Tenuto conto dell’aliquota fiscale applicata alle società costituite nel
detto Centro, gli utili conseguiti dalla CSTS e dalla CSTI risultavano soggetti
a un «livello inferiore di tassazione» nel senso della legislazione sulle
SEC. Le autorità fiscali britanniche ritenevano che, a titolo dell’esercizio
contabile 1996, non sussistesse per queste controllate nessuna delle condizioni
di esenzione dalla detta
23. In primo luogo, si domanda se, nello stabilire e finanziare società in
un altro Stato membro al solo scopo di beneficiare di un sistema tributario
più favorevole di quello in vigore nel Regno Unito, la CS abbia abusato delle
libertà fondamentali istituite dal Trattato CE.
144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
24. In secondo luogo, qualora, così facendo, la CS abbia solo esercitato
effettivamente le dette libertà, il giudice remittente si domanda se nelle circostanze
di specie la legislazione sulle SEC debba essere considerata una
restrizione all’esercizio di tali libertà o una discriminazione.
25. In terzo luogo, qualora la suddetta legislazione debba essere considerata
restringere le libertà consacrate dal Trattato, il giudice remittente si
domanda se l’eventualità che la CS non paghi più tasse di quelle che la CSTS
e la CSTI avrebbero pagato se fossero state stabilite nel Regno Unito permetta
di escludere l’esistenza di una tale restrizione. Si chiede anche se rilevino
le divergenze sotto dati profili tra le regole di calcolo del debito fiscale per i
redditi della CSTS e della CSTI e quelle comunemente applicate alle controllate
di CS stabilite nel Regno Unito, nonché il fatto che non vi è sgravio
fiscale per le perdite di una SEC sugli utili di un’altra SEC o su quelli della
CS e delle sue controllate nel Regno Unito, sgravio invece possibile se la
CSTS e la CSTI fossero state stabilite in tale Stato membro.
26. In quarto luogo, ove si dovesse ritenere che la legislazione sulle SEC
comporti una discriminazione, si domanda se occorra fare un confronto tra i
fatti della causa principale e l’ipotesi della creazione da parte della CS di
controllate nel Regno Unito o in uno Stato membro che non applica un’aliquota
fiscale inferiore nel senso della detta legislazione.
27. In quinto luogo, qualora questa integri una discriminazione o una
restrizione alla libertà di stabilimento, il giudice remittente si domanda se la
legislazione sulle SEC possa essere giustificata da motivi di lotta all’evasione
fiscale, dato che intende prevenire la riduzione o la distrazione degli utili
imponibili nel Regno Unito; e, in caso di risposta affermativa, se tale normativa
sia davvero una misura proporzionata, tenuto conto della sua finalità e
delle deroghe all’imposizione di cui possono beneficiare attraverso il «motive
test» le società che, diversamente dalla CS, riescono a dimostrare di non
perseguire l’obiettivo di evadere le tasse.
29. Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli
artt. 43 CE, 49 CE e 56 CE ostino a una legislazione fiscale nazionale, come
quella oggetto della causa principale, che prevede, in determinate circostanze,
di tassare la società madre per gli utili realizzati da una SEC.
30. Tale questione deve ritenersi far riferimento anche all’art. 48 CE che,
ai fini dell’applicazione delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di
stabilimento, assimila ai cittadini comunitari, di cui all’art. 43 CE, le società
costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi
sede sociale, amministrazione centrale ovvero stabilimento principale all’interno
della Comunità.
31. È giurisprudenza costante che rientrano nell’ambito di applicazione
materiale delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento
le disposizioni nazionali che si applicano alla detenzione da parte di un
cittadino, nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro, di
una partecipazione tale da conferirgli una sicura influenza sulle decisioni
della società e da consentirgli di indirizzarne le attività (v., in tal senso,
sentenze 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, Racc. pag. I-2787, punto
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 145
22, nonché 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y, Racc. pag. I-10829,
punto 37).
34. Prima di esaminare la legislazione sulle SEC alla luce degli artt. 43
CE e 48 CE occorre rispondere al quesito preliminare del giudice del rinvio,
se cioè il fatto per una società stabilita in uno Stato membro di costituire e di
finanziare società in un altro Stato membro al solo scopo di beneficiare del
regime fiscale più favorevole quivi in vigore costituisca un abuso della libertà
di stabilimento.
35. Certo, i cittadini di uno Stato membro non possono tentare, grazie
alle possibilità offerte dal Trattato, di sottrarsi abusivamente all’impero delle
loro leggi nazionali, né possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente
del diritto comunitario (sentenze 7 febbraio 1979, causa 115/78, Knoors,
Racc. pag. 399, punto 25; 3 ottobre 1990, causa C-61/89, Bouchoucha, Racc.
pag. I-3551, punto 14, e 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros, Racc.
pag. I-1459, punto 24).
36. Un cittadino comunitario, persona fisica o giuridica, non può, tuttavia,
essere privato della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo
perché ha inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti dalle norme in vigore
in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede (v., in tal senso, sentenza
11 dicembre 2003, causa C-364/01, Barbier, Racc. pag. I-15013, punto 71).
37. Quanto alla libertà di stabilimento, la Corte ha già dichiarato che la
circostanza che la società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di
una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di
tale libertà (v., in tal senso, sentenze Centros, cit., punto 27, e 30 settembre
2003, causa C-167/01, Inspire Art, Racc. pag. I-10155, punto 96).
38. (...) il fatto che la CS abbia deciso di costituire la CSTS e la CSTI
nell’IFSC al fine di beneficiare del favorevole regime fiscale che tale stabilimento
comporta non costituisce di per sé un abuso e quindi non preclude
alla CS la possibilità di invocare gli artt. 43 CE e 48 CE (v., in tal senso, citate
sentenze Centros, punto 18, e Inspire Art, punto 98).
39. Verifichiamo, ora, se gli artt. 43 CE e 48 CE ostino all’applicazione
di una normativa come quella sulle SEC.
41. La libertà di stabilimento, che l’art. 43 CE attribuisce ai cittadini
della Comunità e che implica per essi l’accesso alle attività non subordinate
ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse
condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i
cittadini di questo, comprende, ai sensi dell’art. 48 CE, per le società costituite
a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale,
l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio della Comunità,
il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante
una controllata, una succursale o un’agenzia (v., in particolare, sentenze
21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, Racc. pag. I-6161,
punto 35; Marks & Spencer, cit., punto 30, nonché 23 febbraio 2006, causa
C-471/04, Keller Holding, Racc. pag. I-2107, punto 29).
42. Anche se, alla lettera, intendono specificamente assicurare il beneficio
del trattamento nazionale nello Stato di stabilimento, le disposizioni del
146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Trattato relative alla libertà di stabilimento vietano parimenti che lo Stato
d’origine intralci lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio cittadino
o di una società costituita secondo la propria legislazione (v., in particolare,
sentenze 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. I-4695,
punto 21, nonché Marks & Spencer, cit., punto 31).
43. Nel caso di specie, è pacifico che la legislazione sulle SEC comporta
una disparità di trattamento fra le società residenti in funzione del livello
di tassazione applicato alla società in cui esse detengono una partecipazione
tale da assicurargliene il controllo.
49. È giurisprudenza costante in materia che un’eventuale agevolazione
fiscale risultante dalla tassazione poco elevata alla quale viene assoggettata
una controllata stabilita in uno Stato membro diverso da quello nel quale è
stata costituita la società madre non può consentire a quest’ultimo di riservare,
in cambio, alla società madre un trattamento fiscale meno favorevole (v.,
in tal senso, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia,
Racc. pag. 273, punto 21; v. anche, per analogia, sentenze 26 ottobre 1999,
causa C-294/97, Eurowings Luftverkehr, Racc. pag. I-7447, punto 44, nonché
26 giugno 2003, causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc.
pag. I-6817, punto 52). L’esigenza di impedire la riduzione del gettito tributario
non rientra né tra gli obiettivi enunciati all’art. 46, n. 1, CE, né tra le
ragioni imperative di interesse generale suscettibili di giustificare una restrizione
a una libertà prevista dal Trattato (v., in tal senso, sentenze 3 ottobre
2002, causa C-136/00, Danner, Racc. pag. I-8147, punto 56, nonché Skandia
e Ramstedt, cit., punto 53).
50. Risulta altresì dalla giurisprudenza che la mera circostanza che una
società residente crei uno stabilimento secondario, per esempio una controllata,
in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di
frode fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una
libertà fondamentale garantita dal Trattato (v., in tal senso, sentenze ICI, cit.,
punto 26; 26 settembre 2000, causa C-478/98, Commissione/Belgio, Racc.
pag. I-7587, punto 45; X e Y, cit., punto 62, nonché 4 marzo 2004, causa C-
334/02, Commissione/Francia, Racc. pag. I-2229, punto 27).
51. Per contro, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento
è ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio
finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato membro interessato
(v., in tal senso, sentenze ICI, cit., punto 26; 12 dicembre 2002, causa C-
324/00, Lankhorst-Hohorst, Racc. pag. I-11779, punto 37; De Lasteyrie du
Saillant, cit., punto 50, nonché Marks & Spencer, cit., punto 57).
52. Nel valutare il comportamento del soggetto imponibile si deve tener
particolarmente presente l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento
(v., in tal senso, citate sentenze Centros, punto 25, e X e Y, punto 42).
53. Trattasi dell’obiettivo di permettere a un cittadino di uno Stato membro
di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi
le sue attività e favorire così l’interpenetrazione economica e sociale nel
territorio della Comunità nel settore delle attività indipendenti (v. sentenza 21
giugno 1974, causa 2/74, Reyners, Racc. pag. 631, punto 21). La libertà di sta-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 147
bilimento intende, a tal fine, permettere a un cittadino comunitario di partecipare,
in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro
diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio (sentenza 30
novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 25).
54. Tenuto conto di questo obiettivo di integrazione nello Stato membro
ospite, la nozione di stabilimento di cui alle disposizioni del Trattato relative
alla libertà di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica
per una durata di tempo indeterminata, mercè l’insediamento in pianta stabile
in un altro Stato membro (v. sentenze 25 luglio 1991, causa C-221/89,
Factortame e a., Racc. pag. I-3905, punto 20, nonché 4 ottobre 1991, causa C-
246/89, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-4585, punto 21). Essa presuppone,
pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello
Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale.
55. Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche
abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico
di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente
artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale
imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.
56. Al pari delle pratiche abusive di cui al punto 49 della sentenza Marks
& Spencer, cit., che consisterebbero nell’organizzare trasferimenti di perdite,
all’interno di un gruppo di società, in direzione delle società stabilite negli
Stati membri che applicano le aliquote fiscali maggiori ed in cui, di conseguenza,
è maggiore il valore fiscale delle perdite, il tipo di comportamenti
descritti al punto precedente è tale da violare il diritto degli Stati membri di
esercitare la propria competenza fiscale in relazione alle attività svolte sul
loro territorio e da compromettere, così, un’equilibrata ripartizione del potere
impositivo tra gli Stati membri (v. sentenza Marks & Spencer, cit., punto 46).
57. Ciò considerato, si deve accertare se la restrizione alla libertà di stabilimento
derivante dalla legislazione sulle SEC possa essere giustificata da
motivi di lotta alle costruzioni di puro artificio e, eventualmente, se sia proporzionata
a tale obiettivo.
65. Alla luce di quanto sopra, perché la legislazione sulle SEC sia conforme
al diritto comunitario, la tassazione da essa prevista non deve trovare
applicazione se, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la costituzione
di una SEC corrisponde a una realtà economica.
66. Tale costituzione deve corrispondere a un insediamento reale che
abbia per oggetto l’espletamento di attività economiche effettive nello Stato
membro di stabilimento, come risulta dalla giurisprudenza richiamata ai
punti 52-54 della presente sentenza.
68. Se la verifica dei detti elementi portasse a constatare che la SEC corrisponde
a un’installazione fittizia che non esercita alcuna attività economica
effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento, la creazione di
tale SEC dovrebbe essere ritenuta costruzione di puro artificio. Potrebbe
essere questo il caso, in particolare, di una società «fantasma» o «schermo»
(v. sentenza 2 maggio 2006, causa C-341/04, Eurofood IFSC, Racc. pag. I-
3813, punti 34 e 35).
148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
71. Visti gli elementi forniti dalla società residente, le competenti autorità
nazionali hanno la possibilità, per ottenere le informazioni necessarie
sulla reale situazione della SEC, di ricorrere ai meccanismi di collaborazione
e di scambio d’informazioni tra amministrazioni fiscali nazionali istituiti
da strumenti giuridici come quelli menzionati dall’Irlanda nelle sue osservazioni
scritte, vale a dire la direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977,
77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti
degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (G.U. L. 336, pag. 15), e,
con riferimento alla presente controversia, la convenzione 2 giugno 1976 tra
Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e Irlanda volta ad evitare
la doppia imposizione e a prevenire l’evasione dell’imposta sui redditi e sui
capital gains.
72. Nella fattispecie, spetta al giudice del rinvio verificare se, come
sostiene il governo del Regno Unito, il «motive test», quale definito dalla
legislazione sulle SEC, si presti ad un’interpretazione che permetta di limitare
l’applicazione della tassazione prevista da tale legislazione alle costruzioni
puramente fittizie o se, al contrario, i criteri sui quali poggia tale test
comportino che, quando nessuna delle eccezioni previste da questa stessa
legislazione trova applicazione e la volontà di ottenere una diminuzione dell’imposta
nel Regno Unito appare tra le ragioni principali della costituzione
della SEC, alla società madre residente si applichi la detta legislazione nonostante
l’assenza di elementi oggettivi nel senso dell’esistenza di una montatura
siffatta.
73. Nella prima ipotesi, la legislazione sulle SEC dovrebbe essere considerata
compatibile con gli artt. 43 CE e 48 CE.
74. Nella seconda ipotesi contraria agli artt. 43 CE e 48 CE.
75. Tutto ciò considerato, la questione pregiudiziale dev’essere risolta
dichiarando che gli artt. 43 CE e 48 CE vanno interpretati nel senso che ostano
all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato
membro, degli utili realizzati da una SEC stabilita in un altro Stato allorché
tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile
nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di
puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta.
L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa
ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza
di motivazioni di natura fiscale, la SEC è realmente impiantata nello
Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive.
– Imposta di registro
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 26 ottobre 2006 – Comunità europea
contro Belgio – Causa principale e questioni pregiudiziali.
L’esecuzione di un contratto concluso nel 1993 tra la Commissione e la
MCFE SA è stata oggetto di una controversia dinanzi al Tribunal de première
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 149
instance de Bruxelles (Tribunale di primo grado di Bruxelles). Con sentenza
pronunciata dal detto Tribunale il 25 gennaio 1994, esso condannava la
Commissione a pagare alla MCFE, a titolo di provvisionale, l’importo di BEF
10 845 935, pari a ECU 269 589, maggiorato degli interessi e delle spese.
Con lettera 14 giugno 1994, l’esattore del nono Ufficio del registro di
Bruxelles invitava la Commissione a pagare la somma di BEF 325 470 a
titolo di imposta di registro, in conformità alla suddetta condanna. Il 2 agosto
1995, l’Administration de l’Enregistrement belge (Amministrazione del
Registro belga; in prosieguo: l’«Amministrazione») intimava alla
Commissione di pagare entro quindici giorni il suddetto importo, aumentato
di un’ammenda per pagamento in ritardo, nonché degli interessi di legge
e delle spese.
Il 15 gennaio 1996 l’esattore del nono Ufficio del registro di Bruxelles
invitava la Commissione a pagare, entro il 25 gennaio 1996, un importo
complessivo pari a BEF 363 470 ed emetteva un’ingiunzione di pagamento
nei confronti di quest’ultima.
Con lettera raccomandata 19 gennaio 1996, la Commissione, nella persona
del suo legale, rispondeva all’amministrazione di ritenersi esente dall’imposta
di registro, nonché da qualsiasi diritto indiretto, ai sensi dell’art. 3
del Protocollo. Il 25 gennaio 1996 l’Amministrazione replicava che l’imposta
in questione non andava considerata alla stregua di una tassa sull’acquisto
di beni di consumo, bensì come rimunerazione di un servizio giudiziario.
Con lettera 28 aprile 1997, il legale della Commissione veniva informato
che la posizione dell’amministrazione in materia era stata confermata da
una decisione ministeriale del 18 aprile 1997.
Il 15 luglio 1997 la Commissione ha proposto opposizione avverso l’ingiunzione
del 15 gennaio 1996 ed ha citato lo Stato belga dinanzi al Tribunal
de première instance de Bruxelles, nell’ambito di un procedimento diretto
all’annullamento di tale ingiunzione.
Con sentenza 6 giugno 2001, il Tribunal de première instance de
Bruxelles ha dichiarato l’opposizione all’ingiunzione ricevibile, ma infondata,
ed ha respinto l’istanza della Commissione. Tale giudice ha statuito
che l’imposta di registro addebitata alla Commissione non costituisce la
mera rimunerazione di servizi di utilità generale ai sensi dell’art. 3, terzo
comma, del Protocollo, dato che si tratta di un’imposta destinata a far fronte
agli oneri generali dei pubblici poteri. Al contrario, siffatti diritti non
rientrerebbero nel prezzo da pagare per i servizi della società per azioni
MCFE e troverebbero origine nella decisione giurisdizionale recante condanna
della Commissione. Pertanto, l’esenzione richiesta da quest’ultima
non dovrebbe essere concessa. Inoltre, il detto giudice ha considerato
superfluo sollevare una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia
dato che, a suo avviso, non esisteva «alcun ragionevole dubbio» in
merito all’esclusione di tali diritti dal beneficio dell’art. 3, secondo comma,
del Protocollo.
Con atto depositato presso la cancelleria della Cour d’appel de
Bruxelles il 14 settembre 2001, la Commissione ha impugnato tale sentenza.
150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
17. Occorre osservare, in via preliminare, che il giudice del rinvio, presentando
le circostanze della controversia sottopostagli, osserva che il
Tribunal de première instance de Bruxelles ha considerato l’imposta di registro
oggetto della causa principale un’imposta indiretta, il che non è stato
contestato dalle parti nei procedimenti nazionali. Il giudice del rinvio stesso
ha dichiarato che «la Comunità europea e lo Stato belga non concordano sull’interpretazione
da dare all’art. 3, secondo e terzo comma, del Protocollo sui
privilegi e sulle immunità della Comunità». Neppure i governi belga ed italiano,
né, tanto meno, la Commissione, nelle osservazioni prodotte dinanzi
alla Corte, hanno rimesso in discussione tale qualificazione. Pertanto, è in
tale contesto che saranno esaminate le questioni sottoposte alla Corte in
merito all’interpretazione delle disposizioni dell’art. 3, secondo e terzo
comma, del Protocollo.
18. Con tale questione, che occorre esaminare per prima, il giudice del
rinvio chiede se un’imposta come l’imposta di registro costituisca la mera
rimunerazione di servizi di utilità generale, ai sensi dell’art. 3, terzo comma,
del Protocollo, per la quale non è concessa nessuna esenzione.
21. Come la Corte ha già avuto occasione di rilevare, la distinzione fra
un’imposta destinata a far fronte agli oneri generali della pubblica amministrazione
e una tassa che costituisce la contropartita di un determinato servizio
è ammessa espressamente dall’art. 3 del Protocollo. In proposito, la Corte
ha precisato che la stessa nozione di contropartita di un determinato servizio
presuppone che il servizio sia prestato, o quanto meno possa esserlo, a coloro
che pagano la tassa (sentenza 28 marzo 1996, causa C-191/94, AGF
Belgium, Racc. pag. I-1859, punti 25 e 26).
22. Anche ammettendo che tale criterio sia l’elemento determinante per
stabilire la distinzione menzionata al punto precedente, occorre constatare
che è poco probabile che il detto criterio sia soddisfatto nel caso di specie,
dato che l’imposta oggetto della causa principale può essere posta a carico di
persone che non hanno affatto richiesto di usufruire dei servizi dell’istituzione
giudiziaria dello Stato membro interessato o che neppure hanno avuto
l’intenzione di farlo. Come osservato dal governo belga, anche se, ai sensi
della normativa in esame nella causa principale, il pagamento dell’imposta
di registro può essere reclamato sia al convenuto sia al ricorrente, in pratica
il detto pagamento, in linea di principio, è sempre reclamato per prima alla
parte soccombente.
23. Inoltre, il criterio della contropartita di un servizio reso non è l’unico
criterio decisivo in questa fattispecie.
24. Infatti, in conformità ad una costante giurisprudenza della Corte, sviluppata
in un settore del diritto comunitario in cui esiste una nozione analoga
a quella in causa in questa fattispecie, ossia la nozione di «diritti di carattere
remunerativo», di cui all’art. 12, n. 1, lett. e), della direttiva del
Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla
raccolta di capitali (G.U. L. 249, pag. 25), un diritto il cui importo aumenta
direttamente e senza limiti in proporzione all’importo nominale sul quale è
applicato non può, di per sé, costituire un’imposta a carattere remunerativo
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 151
di un servizio reso. L’importo di tale imposta sarà generalmente privo di correlazione
con le spese concretamente affrontate dall’amministrazione a fronte
della realizzazione dell’atto in esame (v., in questo senso, in particolare,
sentenze 21 settembre 2000, causa C-19/99, Modelo, Racc. pag. I-7213,
punto 33, e 21 giugno 2001, causa C-206/99, SONAE, Racc. pag. I-4679,
punto 34).
25. Da tale giurisprudenza risulta che la qualificazione di un’imposta
come rimunerazione di un servizio di utilità generale è subordinata all’esistenza
di un nesso diretto e proporzionale tra il costo reale di tale servizio e
l’imposta assolta da chi ne ha beneficiato, ossia una correlazione tra il prezzo
pagato da quest’ultimo come contropartita di un particolare servizio ed il
costo concreto che la prestazione di tale servizio ha causato all’amministrazione.
26. Tale criterio del nesso diretto e proporzionale tra il servizio reso e la
rimunerazione pagata, che può essere applicato all’art. 3, terzo comma, del
Protocollo, in questa fattispecie non è soddisfatto.
27. È infatti pacifico che, da una parte, l’importo dell’imposta di registro
in esame nella causa principale aumenta direttamente e senza limiti in proporzione
all’importo della somma da pagare a titolo della condanna pronunciata
dal giudice nazionale competente, senza che sia considerato il costo
reale del servizio reso dall’istituzione giudiziaria. Manca quindi la necessaria
correlazione tra gli importi pagati ed il servizio reso. Inoltre, il fatto che
l’imposta di registro sia prelevata solo in caso di condanna, mentre il costo
reale del servizio reso dall’istituzione giudiziaria dovrebbe essere lo stesso
in caso di rigetto, conferma che la detta imposta non è destinata a coprire il
costo reale del servizio.
28. D’altra parte, come dichiarato dal Tribunal de première instance de
Bruxelles, l’imposta in esame è destinata a far fronte agli oneri generali dei
pubblici poteri. Pertanto, gli importi pagati per assolvere tale imposta non
sono concretamente destinati a finanziare il servizio pubblico della giustizia.
29. Di conseguenza, occorre risolvere la seconda questione nel senso che
un’imposta come l’imposta di registro non costituisce una mera rimunerazione
di servizi di utilità generale ai sensi dell’art. 3, terzo comma, del
Protocollo.
30. (...) il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 3, secondo
comma, del Protocollo debba essere interpretato nel senso che un’imposta
come l’imposta di registro rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione.
31. Per risolvere tale questione è necessario rilevare che, a differenza
dell’art. 3, primo comma, del Protocollo, che dispone l’esenzione incondizionata
e generale delle Comunità, nonché dei loro averi, delle loro entrate e
dei loro beni, da qualsiasi imposta indiretta a livello nazionale, l’immunità
fiscale prevista dal secondo comma dello stesso articolo non è illimitata.
Quest’ultima disposizione prevede, a determinate condizioni da essa chiaramente
elencate, l’abbuono o il rimborso dell’importo dei diritti indiretti e
delle tasse sulla vendita gravanti sui beni che le Comunità acquistano per
152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
loro uso ufficiale. La Corte ha interpretato l’art. 3, secondo comma, del
Protocollo nel senso che nel suo ambito di applicazione rientra ogni forma di
acquisto, compresa la fruizione di prestazioni di servizi, che sia necessario
per l’assolvimento del compito delle Comunità (vedi sentenza AGF
Belgium, cit., punto 36).
32. La più significativa delle condizioni elencate dall’art. 3, secondo
comma, del Protocollo, evidenziata due volte in tale disposizione, è quella
secondo cui i diritti e le tasse indiretti devono essere inclusi nel prezzo dei
beni e dei servizi oggetto dei contratti stipulati dalle Comunità.
36. Occorre infatti rilevare, in primo luogo, che la natura e l’impatto di
imposte nazionali come l’imposta di registro di cui alla causa principale non
devono essere ricercati e individuati solo in funzione dell’applicazione di tali
imposte alla Comunità, bensì tenendo conto del loro ambito di applicazione
complessivo, ossia nei confronti di tutte le persone fisiche e giuridiche che,
effettivamente o potenzialmente, sono o possono divenire parti di una procedimento
dinanzi alle corti o ai tribunali dello Stato membro interessato. I
procedimenti giudiziari che coinvolgono la Comunità dinanzi ai giudici
nazionali, infatti, costituiscono solamente una parte minima della totalità dei
procedimenti che danno origine all’assolvimento di siffatte imposte.
37. Dal fascicolo risulta che tali imposte sono dovute nell’ipotesi in cui
un rapporto giuridico tra persone fisiche o giuridiche dia luogo ad un’azione
in giudizio da cui scaturisca una decisione giurisdizionale che comporta la
condanna al pagamento di una somma di denaro. Pertanto, sono compresi
non solo i rapporti contrattuali, ma anche i rapporti extracontrattuali di qualsiasi
natura, nell’ambito dei quali non si può includere la somma di denaro
relativa alla condanna nel prezzo d’acquisto di un bene o di un servizio.
38. In secondo luogo, occorre osservare che le imposte indirette possono
essere considerate comprese nel prezzo degli acquisti effettuati dalle
Comunità, ai sensi dell’art. 3, secondo comma, del Protocollo, solo se sono
prevedibili e il loro importo può essere calcolato anticipatamente con una
certa precisione, affinché le autorità nazionali possano procedere al loro
abbuono o rimborso su istanza delle istituzioni comunitarie.
39. Ebbene, l’esecuzione di un contratto non dà sistematicamente origine
a controversie tra le parti e, in ogni caso, la probabilità che una controversia
sorga non può essere valutata nella fase della stipulazione del contratto.
Peraltro, l’oggetto e la portata di tali eventuali controversie rimangono incerti
ed esse non necessariamente saranno risolte in sede giurisdizionale, dato
che la via stragiudiziale costituisce un’altra possibile modalità di soluzione.
Infine, l’esito di un’eventuale azione in giudizio è altrettanto incerto, come
l’importo della condanna inflitta ad una delle parti. Di conseguenza, il prezzo
del contratto non può includere, quali imposte indirette rimborsabili, un
elemento futuro incerto ed impreciso come l’imposta di registro oggetto
della causa principale.
42. Per quanto riguarda, in terzo luogo, l’argomento vertente sull’interpretazione
dell’art. 3, secondo comma, del Protocollo alla luce della finalità
di tale articolo, occorre ricordare che l’immunità fiscale necessaria all’assol-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 153
vimento dei compiti della Comunità, di cui quest’ultima gode in forza dell’art.
291 CE, è concessa «alle condizioni definite dal Protocollo».
Un’interpretazione alla luce del contesto e della finalità di una disposizione
non può avere il risultato di privare di qualsiasi effetto utile la formulazione
chiara e precisa di tale disposizione (v., in questo senso, per quanto riguarda
i privilegi e le immunità della Banca centrale europea, sentenza 8 dicembre
2005, causa C-220/03, BCE/Germania, Racc. pag. I-10595, punto 31).
43. In ogni caso, anche ammettendo che l’esenzione dall’imposta di
registro oggetto della causa principale costituisca un vantaggio finanziario a
favore della Comunità, occorre constatare che la Commissione non ha fornito
alcun elemento decisivo atto a dimostrare che il pagamento di tali imposte
sia idoneo a minare l’indipendenza della Comunità e ad ostacolare il suo
buon funzionamento.
LAVORO
Sentenza della Corte, sezione seconda, 26 ottobre 2006, nella causa
C-371/04 – Commissione delle Comunità europee, contro Repubblica
italiana.
Con il ricorso in esame, la Commissione delle Comunità europee chiede
alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo preso in
considerazione l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite in un altro
Stato membro da un lavoratore comunitario dipendente nel settore del pubblico
impiego italiano, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in
forza degli artt. 10 CE, 39 CE e 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio
15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori
all’interno della Comunità (G.U. L 257, pag. 2; in prosieguo: il «regolamento
»).
16. In proposito risulta da una giurisprudenza costante che, in forza dell’art.
39 CE, qualora, assumendo personale per posti che non rientrano nella
sfera d’applicazione del n. 4 di tale disposizione, un ente pubblico di uno
Stato membro stabilisca di prendere in considerazione le attività lavorative
svolte in precedenza dai candidati presso una pubblica amministrazione, tale
ente non può, nei confronti di cittadini comunitari, operare alcuna distinzione
a seconda che tali attività siano state esercitate nello Stato membro cui
appartiene il detto ente o in un altro Stato membro (v., in particolare, sentenze
23 febbraio 1994, causa C-419/92, Scholz, Racc. pag. I-505, punto 12; 12
maggio 2005, Commissione/Italia, cit., punto 14, e 23 febbraio 2006, causa
C-205/04, Commissione/Spagna, non pubblicata nella Raccolta, punto 14).
17. Per quanto riguarda l’art. 7 del regolamento, occorre ricordare che
tale articolo costituisce solamente una particolare espressione del principio
di non discriminazione – sancito dall’art. 39, n. 2, CE – nel campo specifico
delle condizioni di impiego e di lavoro e che, pertanto, esso deve essere
154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
interpretato allo stesso modo di quest’ultimo articolo (sentenza Commissione/
Spagna, cit., punto 15).
18. Dall’insieme di tale giurisprudenza si evince che il rifiuto di riconoscere
l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite nell’esercizio di
un’attività analoga presso un’amministrazione pubblica di un altro Stato
membro da cittadini comunitari successivamente impiegati nel settore pubblico
italiano, con la motivazione che i detti cittadini non avrebbero superato
alcun concorso prima di esercitare la loro attività nel settore pubblico di
tale altro Stato, non può essere ammesso dato che, come ha osservato l’avvocato
generale al paragrafo 28 delle sue conclusioni, non tutti gli Stati
membri assumono i dipendenti del loro settore pubblico in questo solo modo.
La discriminazione può essere evitata solo tenendo conto dei periodi di attività
analoga svolta nel settore pubblico di un altro Stato membro da una persona
assunta conformemente alle condizioni locali.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 7 settembre 2006, nel procedimento
C-53/04 – C.M., G.S. e Azienda Ospedaliera Ospedale San
Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate.
I ricorrenti nella causa principale sono stati impiegati, con la qualifica
di «operatore tecnico cuoco», presso l’azienda ospedaliera in virtù di una
serie di contratti a tempo determinato, gli ultimi dei quali conclusi nel corso
del gennaio 2002 per una durata di sei mesi.
Tali assunzioni sono state effettuate sulla base di una graduatoria redatta
in esito ad una selezione pubblica, indetta nel 1998 dall’azienda ospedaliera
per l’assunzione di personale a tempo determinato con la qualifica di
«operatore tecnico cuoco», selezione alla quale i ricorrenti nella causa principale
avevano partecipato con successo.
Gli ultimi contratti a durata determinata, giunti a scadenza nel corso del
luglio 2002, non sono stati rinnovati dall’azienda ospedaliera, la quale ha
proceduto al licenziamento formale dei ricorrenti nella causa principale,
quando questi si sono presentati al loro posto di lavoro alla scadenza dei
rispettivi contratti.
I lavoratori hanno impugnato l’atto di licenziamento, chiedendo, da un
lato, di dichiarare, in applicazione del D.Lgs. n. 368/2001, la sussistenza di
un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’azienda ospedaliera,
decorrente dalla data d’inizio dei primi rapporti di lavoro in corso al
momento dell’entrata in vigore di tale decreto legislativo, e, dall’altro, di
condannare tale azienda al pagamento delle retribuzioni dovute e al risarcimento
del danno subito.
Nella fattispecie, il giudice del rinvio constata, per ciascuno dei casi
controversi dinanzi ad esso, che sono trascorsi otto giorni tra la data di scadenza
del penultimo contratto concluso con l’azienda ospedaliera e quella
di inizio dell’ultimo contratto. Orbene, l’art. 5, terzo comma, del D.Lgs.
n. 368/2001 prevede che, qualora un lavoratore venga riassunto a termine
«entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 155
durata fino a sei mesi», il secondo contratto si considera automaticamente
concluso a tempo indeterminato.
L’azienda ospedaliera sostiene che l’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 non è
applicabile al caso di specie, poiché l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 vieta
alle amministrazioni pubbliche di concludere contratti di lavoro a tempo
indeterminato.
Il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’accordo quadro debba essere
interpretato nel senso che esso osti ad una normativa nazionale che esclude,
in caso di abuso risultante dall’utilizzo di una successione di contratti o
di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro
rientrante nel settore pubblico, che questi ultimi siano trasformati in contratti
o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre una tale trasformazione
è prevista per quanto riguarda i contratti e i rapporti di lavoro conclusi
con un datore di lavoro appartenente al settore privato.
51. (...) quando, come nel caso di specie, il diritto comunitario non prevede
sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati comunque accertati abusi,
spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una
siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato,
ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la
piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro (sentenza
Adeneler e a., cit., punto 94).
52. Anche se le modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento
giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia
procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno
favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna
(principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente
difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico
comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 14 dicembre
1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12, nonché
Adeneler e a., cit., punto 95).
53. Ne consegue che, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una
successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare
una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei
lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze
della violazione del diritto comunitario. Infatti, secondo i termini
stessi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri
devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado
di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva» (sentenza Adeneler
e a., cit., punto 102).
54. Non spetta alla Corte pronunciarsi sull’interpretazione del diritto
interno, compito che incombe esclusivamente al giudice del rinvio, il quale
deve, nella fattispecie, determinare se i requisiti ricordati ai tre punti precedenti
siano soddisfatti dalla normativa nazionale pertinente. Tuttavia la
Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario,
precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua interpretazio-
156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ne (v. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a.,
Racc. pag. I-1609, punti 76 e 77). Atal riguardo occorre rilevare che una normativa
nazionale quale quella controversa nella causa principale, che prevede
norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo
determinato, nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore
a causa del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una
successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, sembra
prima facie soddisfare i requisiti ricordati ai punti 51-53 della presente sentenza.
56. Tuttavia, spetta al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni
di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36, secondo
comma, prima frase, del D.Lgs. n. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato
a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della
pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di
lavoro a tempo determinato.
57. (...), si deve risolvere la questione sollevata dichiarando che l’accordo
quadro deve essere interpretato nel senso che esso non osta, in linea di
principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante
dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo
determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico,
che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato,
mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di
lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora
tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e,
se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti
a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore
pubblico.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 7 settembre 2006, nel procedimento
C-180/04 – A.V. contro Azienda Ospedaliera Ospedale San
Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle
clausole 1, lett. b), e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), che figura in
allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa
all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato
(G.U. L 175, pag. 43).
La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il
sig. A.V. e il suo datore di lavoro, l’Azienda Ospedaliera Ospedale San
Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate (in prosieguo:
l’«azienda ospedaliera»), in ordine al mancato rinnovo del contratto di
lavoro che lo vincolava a tale datore di lavoro.
Il lavoratore è stato assunto in qualità di cuoco dall’azienda ospedaliera
in forza di due successivi contratti a tempo determinato, il primo per il
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 157
periodo 5 luglio 200 -4 gennaio 2002 e il secondo, firmato il 2 gennaio 2002,
che prolungava tale periodo sino all’11 luglio 2002.
Il secondo contratto del ricorrente nella causa principale non è stato
rinnovato alla sua scadenza dall’azienda ospedaliera e quest’ultima ha proceduto
al formale licenziamento dell’interessato al momento in cui egli si è
presentato sul posto di lavoro al termine del detto contratto.
Il lavoratore ha impugnato la decisione di licenziamento dinanzi al
Tribunale di Genova, chiedendo a quest’ultimo, da una parte, di dichiarare,
sulla base del D.Lgs. n. 368/2001, la sussistenza di un rapporto lavorativo a
tempo indeterminato con l’azienda ospedaliera e, dall’altra, di condannare
l’azienda stessa al pagamento delle retribuzioni dovute e al risarcimento del
danno subito.
L’azienda ospedaliera fa valere che l’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 è
inapplicabile nel caso di specie, in quanto l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001
vieta alle pubbliche amministrazioni di stipulare contratti di lavoro a tempo
indeterminato.
Il giudice del rinvio ritiene che il D.Lgs. n. 368/2001 non abbia abrogato
l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale avrebbe il carattere di una lex
specialis risultante dai principi costituzionali in materia di funzionamento e
di organizzazione dei pubblici servizi.
Esso si basa, a questo proposito, sulla sentenza 13 marzo 2003, n. 89,
della Corte costituzionale, da cui risulterebbe che l’art. 36, n. 2, prima frase,
del D.Lgs. n. 165/2001 è conforme ai principi costituzionali di uguaglianza
e di buon andamento dell’amministrazione sanciti rispettivamente agli
artt. 3 e 97 della Costituzione italiana. La Corte costituzionale ha considerato
che il principio fondamentale in forza del quale l’accesso agli impieghi
nella pubblica amministrazione avviene mediante concorso, in applicazione
dell’art. 97, terzo comma, della detta Costituzione, rende legittima la disparità
di trattamento esistente tra i lavoratori del settore privato e quelli della
pubblica amministrazione in caso di accertamento di un’illegalità nella conclusione
di contratti successivi a tempo determinato.
Tuttavia, secondo il giudice del rinvio, è escluso che il legislatore italiano
abbia inteso, mediante il D.Lgs. n. 165/2001, attuare la direttiva 1999/70. Esso
si chiede se il sistema istituito dall’art. 36 del detto decreto legislativo comprenda
«norme equivalenti per la prevenzione degli abusi» ai sensi della clausola 5,
punto 1, dell’accordo quadro. Inoltre, se si doveva riconoscere che la
Repubblica italiana non ha effettuato una trasposizione completa di tale direttiva,
dato che essa l’avrebbe trasposta unicamente per quanto riguarda i rapporti
di lavoro nel settore privato, il giudice nazionale si chiede se la detta direttiva
attribuisca ai singoli un diritto specifico alla conversione del loro rapporto
di lavoro ovvero se, alla luce delle specificità dell’organizzazione del lavoro
nel settore pubblico e, pertanto, dell’impossibilità di applicare a quest’ultimo
le disposizioni del D.Lgs. n. 368/2001, un tale inadempimento possa determinare
solo diritti a un indennizzo nei confronti dello Stato membro inadempiente,
conformemente alla giurisprudenza instaurata dalla sentenza 19 novembre
1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a. (Racc. pag. I-5357).
158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
42. (...) l’accordo quadro dev’essere interpretato nel senso che non osta,
in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di
abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di
lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore
pubblico, che questi ultimi siano trasformati in contratti o in rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per
quanto riguarda i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di
lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un’altra
misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo
abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un
datore di lavoro rientrante nel settore pubblico.
LIBERE PROFESSIONI
– Regimi nazionali relativi alla tariffa degli onorari di avvocato
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 5 dicembre 2006, nei procedimenti
riuniti C-94/04 e C-202/04 – F.C. contro R.P. in F., e S.M., C.C.
contro R.M.
Le domande di pronuncia pregiudiziale riguardano l’interpretazione
degli artt. 10 CE, 49 CE, 81 CE e 82 CE.
Tali domande sono state proposte nell’ambito di controversie tra due
avvocati e i relativi clienti per il pagamento degli onorari.
Dal provvedimento del giudice del rinvio risulta che, nell’ambito della
controversia ad esso sottoposta, si pone il problema di determinare se, qualora
sia dimostrata l’esistenza di un accordo tra le parti relativamente alla
remunerazione forfettaria dell’avvocato, tale presunto accordo, concluso
per la somma complessiva di ITL 1 850 000, possa essere, nonostante la normativa
italiana, ritenuto valido, in quanto una sua sostituzione d’ufficio con
un compenso per l’avvocato calcolato sulla base della tariffa non sarebbe
conforme alle norme comunitarie in materia di concorrenza.
Il giudice del rinvio osserva inoltre che, nel caso in cui un professionista
non residente in Italia fornisse una prestazione di servizi legali ad un
destinatario residente in tale Stato membro sulla base di un contratto soggetto
alla legge italiana, la prestazione di servizi legali sarebbe soggetta al
divieto assoluto di derogare ai compensi determinati dalla tariffa. Pertanto,
in tal caso, dovrebbe essere applicato l’importo minimo obbligatorio. Tale
divieto avrebbe dunque l’effetto di ostacolare l’accesso di altri avvocati al
mercato dei servizi italiano.
31. Si deve dunque verificare se le disposizioni del Trattato in materia
di libera prestazione dei servizi, la cui interpretazione è richiesta dal summenzionato
giudice, ostino all’applicazione di una normativa nazionale
come quella in esame nella causa principale, nella misura in cui essa sia
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 159
applicabile a soggetti residenti in Stati membri diversi dalla Repubblica
italiana.
44. (...) i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se gli artt. 10 CE,
81 CE e 82 CE ostino all’adozione, da parte di uno Stato membro, di un
provvedimento normativo che approvi, sulla base di un progetto elaborato da
un ordine professionale forense come il CNF, una tariffa che fissi un limite
minimo per gli onorari degli avvocati e a cui, in linea di principio, non sia
possibile derogare né per le prestazioni riservate agli avvocati, né per quelle,
come le prestazioni di servizi stragiudiziali, che possono essere svolte
anche da altri operatori economici non vincolati da tale tariffa.
45. Si deve preliminarmente osservare che, interessando l’intero territorio
di uno Stato membro, tale tariffa è in grado di pregiudicare il commercio
tra gli Stati membri ai sensi degli artt. 81, n. 1, CE e 82 CE (v., in tal senso,
sentenze 17 ottobre 1972, causa 8/72, Vereniging van Cementhandelaren/
Commissione, Racc. pag. 977, punto 29; 10 dicembre 1991, causa
C-179/90, Merci convenzionali porto di Genova, Racc. pag. I-5889, punti 14
e 15, e 19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino, Racc. pag. I-1529,
punto 33).
46. Secondo costante giurisprudenza, sebbene di per sé gli artt. 81 CE e
82 CE riguardino esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni
legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, è pur vero che
tali articoli, in combinato disposto con l’art. 10 CE, che instaura un dovere
di collaborazione, obbligano gli Stati membri a non adottare o mantenere in
vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei ad
eliminare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese
(v., in particolare, ordinanza 17 febbraio 2005, causa C-250/03, Mauri,
Racc. pag. I-1267, punto 29, e giurisprudenza ivi citata).
47. La Corte ha in particolare dichiarato che si è in presenza di una violazione
degli artt. 10 CE e 81 CE qualora uno Stato membro imponga o agevoli
la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 81 CE, o rafforzi gli
effetti di tali accordi, o revochi alla propria normativa il suo carattere pubblico
delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni di
intervento in materia economica (ordinanza Mauri, cit., punto 30, e giurisprudenza
ivi citata).
48. A tale proposito, la circostanza che uno Stato membro affidi ad
un’organizzazione professionale composta di avvocati, come il CNF, l’elaborazione
di un progetto di tariffa per gli onorari non appare, nelle circostanze
della causa principale, tale da poter affermare che tale Stato abbia revocato
alla tariffa infine adottata il suo carattere statale, delegando ad avvocati la
responsabilità di assumere decisioni in materia.
53. Per le ragioni indicate ai punti 50 e 51 della presente sentenza, non
può essere nemmeno contestato allo Stato in questione di imporre o di favorire
la conclusione, da parte del CNF, di intese in contrasto con l’art. 81 CE,
o di rinforzarne gli effetti, né di imporre o di favorire abusi di posizione
dominante in contrasto con l’art. 82 CE o di rafforzarne gli effetti (v., in tal
senso, sentenza Arduino, cit., punto 43, e ordinanza Mauri, cit., punto 37).
160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
54. (…) gli artt. 10 CE, 81 CE e 82 CE non ostano all’adozione, da parte
di uno Stato membro, di un provvedimento normativo che approvi, sulla base
di un progetto elaborato da un ordine professionale forense quale il CNF, una
tariffa che fissi un limite minimo per gli onorari degli avvocati e a cui, in
linea di principio, non sia possibile derogare né per le prestazioni riservate
agli avvocati né per quelle, come le prestazioni di servizi stragiudiziali, che
possono essere svolte anche da qualsiasi altro operatore economico non vincolato
da tale tariffa.
55. (...) la Corte d’appello di Torino chiede in sostanza se l’art. 49 CE
osti ad una disciplina che vieta in maniera assoluta di derogare convenzionalmente
agli onorari minimi determinati da una tariffa, come quella di cui
trattasi nella causa principale, per prestazioni che sono al tempo stesso di
natura giudiziale e riservate agli avvocati.
56. Si deve ricordare che l’art. 49 CE impone non solo l’eliminazione di
qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un
altro Stato membro in base alla sua cittadinanza, ma anche la soppressione
di qualsiasi restrizione, anche qualora tale restrizione si applichi indistintamente
ai prestatori nazionali e a quelli di altri Stati membri, quando sia tale
da vietare o rendere più difficili le attività del prestatore stabilito in un altro
Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi (v., in particolare,
sentenze 29 novembre 2001, causa C-17/00, De Coster,
Racc. pag. I-9445, punto 29, nonché 8 settembre 2005, cause riunite
C-544/03 e C-545/03, Mobistar e Belgacom Mobile, Racc. pag. I-7723,
punto 29).
57. Inoltre, la Corte ha già affermato che l’art. 49 CE osta all’applicazione
di qualsiasi normativa nazionale che abbia l’effetto di rendere la prestazione
di servizi tra Stati membri più difficile della prestazione di servizi
puramente interna ad uno Stato membro (v. citate sentenze De Coster,
punto 30, e giurisprudenza ivi citata, nonché Mobistar e Belgacom Mobile,
punto 30).
58. Ora, il divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari,
come previsto dalla legislazione italiana, può rendere più difficile l’accesso
degli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana
al mercato italiano dei servizi legali, ed è in grado quindi di ostacolare l’esercizio
delle loro attività di prestazione di servizi in quest’ultimo Stato
membro. Tale divieto si rivela pertanto una restrizione ai sensi
dell’art. 49 CE.
59. Il detto divieto, infatti, priva gli avvocati stabiliti in uno Stato membro
diverso dalla Repubblica italiana della possibilità di fornire, chiedendo onorari
inferiori a quelli tariffari, una concorrenza più efficace nei confronti degli
avvocati stabiliti permanentemente nello Stato membro in questione, i quali
dispongono, per tale ragione, di una maggiore facilità di crearsi una clientela
rispetto agli avvocati stabiliti all’estero (v., per analogia, sentenza 5 ottobre
2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I-8961, punto 13).
60. Allo stesso modo, il divieto citato limita la scelta dei destinatari di
servizi in Italia, poiché questi ultimi non possono ricorrere ai servizi di avvo-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 161
cati stabiliti in altri Stati membri che potrebbero offrire in Italia le loro prestazioni
ad un prezzo inferiore ai minimi tariffari.
61. Tuttavia, un simile divieto può essere giustificato qualora risponda a
ragioni imperative di interesse pubblico, purché sia idoneo a garantire il conseguimento
dello scopo perseguito e non vada oltre quanto necessario per il
raggiungimento di questo (v., in particolare, sentenze 5 giugno 1997, causa
C-398/95, SETTG, Racc. pag. I-3091, punto 21, e Servizi Ausiliari Dottori
Commercialisti, cit., punto 37).
64. A tal riguardo si deve osservare che la tutela, da un lato, dei consumatori,
in particolare dei destinatari dei servizi giudiziali forniti da professionisti
operanti nel settore della giustizia, e, dall’altro, della buona amministrazione
della giustizia sono obiettivi che rientrano tra quelli che possono
essere ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare
una restrizione della libera prestazione dei servizi (v., in tal senso,
sentenze 12 dicembre 1996, causa C-3/95, Reisebüro Broede,
Racc. pag. I-6511, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché 21 settembre
1999, causa C-124/97, Läärä e a., Racc. pag. I-6067, punto 33), alla
duplice condizione che il provvedimento nazionale di cui si discute nella
causa principale sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito
e non vada oltre quanto necessario per raggiungere l’obiettivo medesimo.
65. Spetta al giudice del rinvio determinare se, nella causa principale, la
restrizione della libera prestazione dei servizi creata dalla normativa nazionale
rispetti tali condizioni. A tal fine, detto giudice dovrà tenere conto degli
elementi indicati nei punti seguenti.
66. Egli dovrà pertanto verificare, in particolare, se vi sia una relazione
tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli
avvocati e se, in particolare, la determinazione di tali onorari minimi costituisca
un provvedimento adeguato per il raggiungimento degli obiettivi
perseguiti, vale a dire la tutela dei consumatori e la buona amministrazione
della giustizia.
68. Dovrà anche essere tenuto conto delle peculiarità sia del mercato in
questione, le quali sono state ricordate al punto precedente, che dei servizi in
esame e, in particolare, del fatto che, in materia di prestazioni di avvocati, vi
è in genere un’asimmetria informativa tra i «clienti-consumatori» e gli avvocati.
Infatti, gli avvocati dispongono di un elevato livello di competenze tecniche
che i consumatori non necessariamente possiedono, cosicché questi
ultimi incontrano difficoltà per valutare la qualità dei servizi loro forniti [v.,
in particolare, la Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali, contenuta
nella comunicazione della Commissione 9 febbraio 2004,
COM(2004) 83 def., pag. 10].
69. Il giudice del rinvio dovrà tuttavia verificare se alcune norme professionali
relative agli avvocati, in particolare norme di organizzazione, di qualificazione,
di deontologia, di controllo e di responsabilità siano di per sé sufficienti
per raggiungere gli obiettivi della tutela dei consumatori e della
buona amministrazione della giustizia.
162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
LIBERTÀ FONDAMENTALI
– Libera prestazione dei servizi
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 3 ottobre 2006, nel procedimento
C-452/04 – Fidium Finanz AG contro Bundesanstalt für
Finanzdienstleistungsaufsicht.
La questione è sorta nell’ambito di un ricorso presentato dalla Fidium
Finanz AG , società avente sede in Svizzera, avverso una decisione della
Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (Ufficio federale di controllo
dei servizi finanziari) con cui tale autorità le ha vietato di concedere, a
titolo professionale, crediti a clienti residenti in Germania perché non disponeva
dell’autorizzazione richiesta dalla legislazione tedesca.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 49 CE, 56 CE e 58 CE.
1. Risulta dalla formulazione degli artt. 49 CE e 56 CE, nonché dalla
loro collocazione in due diversi capi del titolo III del Trattato, che, pur essendo
strettamente collegate, tali disposizioni sono destinate a disciplinare
situazioni diverse e che hanno ciascuna un ambito di applicazione diverso. È
vero che non può escludersi che, in taluni casi specifici, in cui una disposizione
nazionale si riferisce contemporaneamente alla libera prestazione dei
servizi e alla libera circolazione dei capitali, essa sia idonea ad ostacolare
simultaneamente l’esercizio di queste due libertà.
A tale proposito, non può essere sostenuto che, in tali condizioni, le
disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi si applicano in subordine
rispetto a quelle che disciplinano la libera circolazione dei capitali.
Quando un provvedimento nazionale si riferisce contemporaneamente
alla libera prestazione dei servizi e alla libera circolazione dei capitali, occorre
esaminare in quale misura il detto provvedimento pregiudichi l’esercizio
di tali libertà fondamentali e se, nelle circostanze della causa principale, una
di esse prevalga sull’altra. L’esame del provvedimento di cui trattasi va effettuato,
in linea di principio, con riferimento ad una sola delle due libertà fondamentali
qualora risulti che, nel caso di specie, una delle due è affatto
secondaria rispetto all’altra e può esserle ricollegata.
2. Un regime nazionale in forza del quale uno Stato membro assoggetta
ad autorizzazione preliminare l’esercizio dell’attività di concessione di crediti
a titolo professionale, sul suo territorio, da parte di una società con sede
in uno Stato terzo, e in forza del quale una tale autorizzazione dev’essere
negata, in particolare, quando la detta società non ha la sua direzione generale
o una succursale su tale territorio, avendo l’effetto di ostacolare l’accesso
al mercato finanziario di uno Stato membro delle società aventi sede in
Stati terzi, pregiudica in modo preponderante l’esercizio della libera prestazione
dei servizi ai sensi degli artt. 49 e seguenti.
Poiché gli effetti restrittivi di un siffatto regime sulla libera circolazione
dei capitali sono soltanto una conseguenza ineluttabile della restrizione
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 163
imposta nei riguardi delle prestazioni di servizi, non occorre esaminare la
compatibilità di tale regime con gli artt. 56 CE e seguenti.
Una società con sede in uno Stato terzo non è legittimata a valersi degli
artt. 49 CE e seguenti. Infatti, contrariamente al capo del Trattato relativo
alla libera circolazione dei capitali, quello riguardante la libera prestazione
dei servizi non comporta alcuna disposizione che estenda il beneficio delle
sue disposizioni ai prestatori di servizi cittadini di uno Stato terzo e residenti
al di fuori dell’Unione europea, poiché l’obiettivo di quest’ultimo capo è
di garantire la libera prestazione dei servizi a favore dei cittadini di Stati
membri.
– Libera circolazione delle persone
Sentenza della Corte, sezione prima, 27 aprile 2006, nel procedimento
C-441/02 – Commissione delle Comunità europee, sostenuta da:
Repubblica italiana contro Repubblica federale di Germania.
A seguito dell’esame di diverse decine di petizioni e denunce inoltrate al
Parlamento europeo e alla Commissione da parte di cittadini italiani residenti
nel Land del Baden-Württemberg riguardo a provvedimenti adottati
nei loro confronti dalle autorità tedesche per motivi di ordine pubblico e
aventi effetto sul loro diritto di soggiorno in Germania, la Commissione, per
mezzo di una lettera di diffida dell’8 luglio 1998, ha richiamato l’attenzione
della Repubblica federale di Germania sulla compatibilità di certe disposizioni
legali e prassi amministrative con le disposizioni del diritto comunitario
relative al diritto di soggiorno negli Stati membri.
Nella sua risposta del 26 settembre 2000, il governo tedesco ha negato
l’esistenza di una prassi amministrativa contraria al diritto comunitario
dichiarandosi pronto a verificare l’eventuale necessità di apportare certe
chiarificazioni in alcuni settori specifici della normativa nazionale.
La Commissione, non essendo stata informata che tali chiarificazioni
fossero state apportate e ritenendo, altresì, che le verifiche annunciate per
determinare la necessità di procedere a tali chiarificazioni sarebbero state
sicuramente insufficienti a porre rimedio agli addebiti da essa formulati, ha
deciso di proporre il presente ricorso.
1. Nell’ambito di un procedimento per inadempimento, la Commissione
ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza dell’inadempimento contestato
e fornire alla Corte gli elementi necessari alla verifica, da parte di quest’ultima,
dell’esistenza di tale inadempimento, senza potersi basare su alcuna
presunzione.
Per quanto riguarda, in particolare, una censura avente ad oggetto l’attuazione
di una disposizione nazionale, la dimostrazione di un inadempimento
di Stato richiede la produzione di elementi di prova di natura specifica
rispetto a quelli abitualmente presi in considerazione nell’ambito di un
164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ricorso per inadempimento avente unicamente ad oggetto il contenuto di una
disposizione nazionale. Pertanto, l’inadempimento può essere dimostrato
soltanto mediante una dimostrazione sufficientemente documentata e circostanziata
della prassi rimproverata alle autorità amministrative e/o giudiziarie
nazionali e attribuibile allo Stato membro di cui trattasi.
Inoltre, se un comportamento di uno Stato consistente in una prassi
amministrativa in contrasto con gli obblighi del diritto comunitario può essere
idoneo a costituire un inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, occorre
che tale prassi amministrativa presenti un certo grado di costanza e di generalità.
2. Il ricorso da parte di un’autorità nazionale alla nozione di ordine pubblico,
in quanto deroga al principio fondamentale della libera circolazione
delle persone, presuppone, in ogni caso, oltre alla perturbazione dell’ordine
sociale insita in qualsiasi infrazione della legge, l’esistenza di una minaccia
effettiva ed abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali della collettività.
Viene meno al riguardo agli obblighi ad esso incombenti in forza degli
artt. 39 CE, 3 della direttiva 64/221, per il coordinamento dei provvedimenti
speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati
da motivi d’ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica,
e 10 della direttiva 73/148, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento
e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri all’interno della
Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi, uno Stato
membro che stabilisca che, nel caso in cui si tratti di cittadini comunitari
aventi una carta di soggiorno a tempo indeterminato, solo «gravi» motivi di
ordine pubblico possano giustificare un’espulsione. Una siffatta normativa
nazionale suscita infatti un dubbio in merito alla corretta considerazione
delle prescrizioni del diritto comunitario riguardo ai cittadini comunitari
aventi una carta di soggiorno a tempo determinato.
Sentenza della Corte, sezione prima, 19 gennaio 2006, nel procedimento
C-330/03 – Colegio de Ingenieros de Caminos, Canales y Puertos
Contro Administración del Estrado, con l’intervento di G.M.I.
Il sig. G.M.I. è in possesso di un diploma di laurea in ingegneria civile
idraulica conseguito in Italia, il quale consente, in tale Stato, di esercitare la
professione di ingegnere civile in ambito idraulico. Il 27 giugno 1996 egli ha
chiesto al Ministero spagnolo per la Promozione dello Sviluppo il riconoscimento
del suo diploma al fine di poter accedere, in Spagna, alla professione
di ingegnere civile.
Il citato Ministero ha riconosciuto il diploma del sig. G.M.I. e lo ha autorizzato
ad accedere alla professione di ingegnere civile in Spagna senza
alcuna condizione preliminare.
Il Colegio ha impugnato tale provvedimento dinanzi all’Audiencia
Nacional (Tribunale spagnolo con competenze speciali e giurisdizione su
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 165
tutto il territorio nazionale). Nel corso del procedimento, esso ha insistito
sulla differenza fondamentale tra la professione di ingegnere civile in
Spagna e quella di ingegnere civile in ambito idraulico in Italia, sia sul
piano dei contenuti della formazione che su quello delle attività abbracciate
da ciascuna di tali professioni.
Con decisione 1° aprile 1998, l’Audiencia Nacional ha respinto il ricorso,
in particolare poiché il diploma di ingegneria civile ad indirizzo idraulico
consentirebbe, in Italia, di accedere alla medesima professione svolta da
un ingegnere civile in Spagna. D’altra parte, tale giudice ha osservato che
la formazione ricevuta dal titolare del citato diploma in ingegneria comprendeva
le materie fondamentali richieste in Spagna per il settore dell’ingegneria
di cui si discute.
La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli
artt. 3, primo comma, lett. a), e 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 21
dicembre 1988, 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di riconoscimento
dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali
di una durata minima di tre anni (G.U. 1989, L 19, pag. 16; in prosieguo:
la «direttiva»), oltre che degli artt. 39 CE e 43 CE.
1. La direttiva 89/48, relativa ad un sistema generale di riconoscimento
dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali
di una durata minima di tre anni, non osta al fatto che, quando il titolare di
un diploma ottenuto in uno Stato membro richieda l’autorizzazione per accedere
ad una professione regolamentata in un altro Stato membro, le autorità
di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente, se il titolare del
diploma lo chiede, limitando la portata dell’autorizzazione alle sole attività
alle quali il diploma in questione dà accesso nello Stato membro in cui è
stato conseguito.
2. Gli artt. 39 CE e 43 CE non ostano a che, quando il titolare di un
diploma ottenuto in uno Stato membro richiede l’autorizzazione preliminare
per accedere ad una professione regolamentata in un altro Stato membro,
questo Stato membro non consenta l’accesso parziale alla detta professione,
limitato all’esercizio di una o più attività comprese da quest’ultima, qualora
le lacune nella formazione in possesso dell’interessato rispetto a quella
necessaria nello Stato membro ospitante possano essere effettivamente colmate
con misure di compensazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva
89/48, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione
superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima
di tre anni.
Viceversa, gli artt. 39 CE e 43 CE ostano a che il detto Stato membro
non accordi tale accesso parziale quando l’interessato lo richieda e quando
le differenze tra gli ambiti di attività siano così rilevanti che sarebbe in realtà
necessario seguire una formazione completa, a meno che il detto diniego
di accesso parziale non sia giustificato da ragioni imperative di pubblico
interesse, le quali siano adeguate a garantire la realizzazione dell’obiettivo
che perseguono e non eccedano ciò che è necessario per ottenerlo.
166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Sentenza della Corte, sezione seconda, 7 settembre 2006, nel procedimento
C-470/04 – N. contro Inspecteur van de Belastingdienst Oost/kantoor
Almelo.
La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli
artt. 18 CE e 43 CE.
Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra N e
l’Inspecteur van de Belastingdienst Oost/kantoor Almelo (in prosieguo:
l’«inspecteur») relativamente ad un provvedimento di quest’ultimo che ha
dichiarato inammissibile il reclamo di N contro la cartella esattoriale per
l’imposta sul reddito e i contributi previdenziali per l’anno 1997.
Ai sensi dell’art. 3 della legge sull’imposta sul reddito (Wet op de inkomstenbelasting)
del 1964 (in prosieguo: la «WIB»), l’imposta di un contribuente
nazionale è calcolata sul reddito imponibile, che comprende, in particolare,
ai sensi dell’art. 4 di tale legge, i redditi da partecipazioni rilevanti.
Ai sensi dell’art. 20a, n. 1, lett. b), della WIB, l’importo totale ricavato
dalla cessione di azioni che fanno parte di una partecipazione costituisce un
reddito da partecipazione rilevante. Ai sensi del n. 3 di tale articolo, si ha
una partecipazione rilevante quando il contribuente detiene, direttamente o
indirettamente, il 5% del capitale di una società.
Con la terza e la quinta questione il giudice del rinvio chiede in sostanza
se l’art. 43 CE debba essere interpretato nel senso che esso non consente
ad uno Stato membro di istituire un regime di tassazione delle plusvalenze
in caso di trasferimento del domicilio fiscale di un contribuente al di fuori
di tale Stato membro, come nella vicenda di cui alla causa principale.
21. Con le sue due prime questioni, che vanno esaminate insieme, il giudice
del rinvio chiede, in sostanza, quali disposizioni del Trattato CE siano
applicabili a una vicenda come quella di cui alla causa principale. Più specificamente,
il giudice a quo desidera ottenere un chiarimento sui rapporti esistenti
tra le libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione
europea e la libertà di stabilimento.
22. A tale proposito, occorre ricordare che l’art. 18 CE, il quale enuncia
in chiave generale il diritto, per ogni cittadino dell’Unione, di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, trova una specifica
applicazione nell’art. 43 CE (sentenza 29 febbraio 1996, causa C-193/94,
Skanavi e Chryssanthakopoulos, Racc. pag. I-929, punto 22).
23. Di conseguenza, è solo nella misura in cui l’art. 43 CE non trova
applicazione a tutta la vicenda di cui alla causa principale che deve essere
valutato alla luce dell’art. 18 CE ciò che non rientra nell’ambito applicativo
dell’art. 43 CE.
Sull’applicabilità dell’art. 43 CE
24. Si deve verificare se il semplice status di azionista unico delle proprie
società consenta a N di avvalersi dell’art. 43 CE.
26. A tale proposito, e conformemente ad una consolidata giurisprudenza,
va ricordato che la nozione di «stabilimento» ai sensi dell’art. 43 CE è molto
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 167
ampia, e implica la possibilità, per un cittadino comunitario, di partecipare, in
maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso
dal proprio Stato di origine (sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94,
Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 25). Più specificamente, la Corte ha affermato
che una partecipazione pari al 100% del capitale di una società avente la
propria sede in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede il titolare di
tale partecipazione fa senza dubbio rientrare tale contribuente nell’ambito di
applicazione delle disposizioni del Trattato relative al diritto di stabilimento (v.
sentenza 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, Racc. pag. I-2787, punto 21).
27. Può quindi avvalersi della libertà di stabilimento il cittadino comunitario
che risieda in uno Stato membro e che detenga nel capitale di una
società stabilita in un altro Stato membro una partecipazione tale da conferirgli
una sicura influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di
indirizzarne le attività: ciò è sempre il caso di chi detenga il 100% delle
quote (v., in tal senso, sentenza Baars, cit., punti 22 e 26).
28. Si deve in proposito rilevare che la situazione alla base della causa
principale è quella di un cittadino comunitario il quale risiede, dopo il trasferimento
della propria residenza, in uno Stato membro, e che detiene la totalità
delle azioni di alcune società aventi sede in un altro Stato membro. Ne
consegue che, dopo tale trasferimento, la situazione di N rientra nel campo
di applicazione dell’art. 43 CE (v., in tal senso, sentenza 21 febbraio 2006,
causa C-152/03, Ritter-Coulais, Racc. pag. I-1711, punto 32).
30. Le prime due questioni devono dunque essere risolte dichiarando che
può avvalersi dell’art. 43 CE un cittadino comunitario, come il ricorrente
nella causa principale, il quale risieda, dopo il trasferimento della propria
residenza, in uno Stato membro, e detenga la totalità delle azioni di società
aventi sede in un altro Stato membro.
51. Per contro, quanto all’obbligo di costituire una garanzia per ottenere
una sospensione del pagamento dell’imposta normalmente dovuta, sebbene
tale garanzia agevoli senza dubbio la riscossione di tale imposta nei confronti
di un soggetto residente all’estero, essa va al di là di ciò che è strettamente
necessario per garantire il funzionamento e l’efficacia di un tale regime
fiscale, basato sul principio di territorialità. Esistono infatti mezzi meno
restrittivi nei confronti delle libertà fondamentali.
52. Come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 113 delle sue
conclusioni, il legislatore comunitario ha già adottato taluni provvedimenti
di armonizzazione, i quali perseguono in sostanza il medesimo obiettivo. In
concreto, la direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa
alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore
delle imposte dirette (G.U. L 336, pag. 15), come modificata dalla direttiva
del Consiglio 16 novembre 2004, 2004/106/CE (G.U. L 359, pag. 30),
permette ad uno Stato membro di chiedere alle autorità competenti di un
altro Stato membro tutte le informazioni che gli sono necessarie per determinare
correttamente l’imposta sul reddito (sentenze 28 ottobre 1999, causa
C-55/98, Vestergaard, Racc. pag. I-7641, punto 26, e 26 giugno 2003, causa
C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc. pag. I-6817, punto 42).
168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
53. Inoltre, la direttiva del Consiglio 15 marzo 1976, 76/308/CEE, relativa
all’assistenza reciproca in materia di ricupero dei crediti risultanti da
operazioni che fanno parte del sistema di finanziamento del Fondo europeo
agricolo di orientamento e di garanzia, nonché di prelievi agricoli e di dazi
doganali (G.U. L 73, pag. 18), come modificata dalla direttiva del Consiglio
15 giugno 2001, 2001/44/CE (G.U. L 175, pag. 17), prevede che uno Stato
membro possa chiedere l’assistenza di un altro Stato membro per il recupero
dei crediti relativi a talune imposte, tra le quali quelle sul reddito e sul
capitale.
54. Infine, in tale contesto, può essere considerato proporzionato all’obiettivo
perseguito soltanto un sistema di riscossione dell’imposta sul reddito
derivato da titoli mobiliari che tenga interamente conto delle diminuzioni
di valore che possono intervenire successivamente al trasferimento della
residenza del contribuente interessato, a meno che tali riduzioni di valore
non siano già state considerate nello Stato membro ospitante.
55. (…) l’art. 43 CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a
che uno Stato membro istituisca un regime impositivo sulle plusvalenze nel
caso di trasferimento di residenza di un contribuente al di fuori di tale Stato
membro come quello di cui alla causa principale, il quale condizioni la
sospensione del pagamento di tale imposta alla costituzione di garanzie e
non tenga interamente conto delle riduzioni di valore che possono intervenire
successivamente al cambio di residenza dell’interessato e che non sono
state considerate dallo Stato membro ospitante.
67. Di conseguenza, la quarta questione deve essere risolta dichiarando
che un ostacolo causato dalla costituzione di una garanzia imposta in violazione
del diritto comunitario non può essere eliminato con effetto retroattivo
dal semplice svincolo di tale garanzia. La natura dell’atto sulla base del quale
la garanzia è stata svincolata non ha alcun rilievo per tale valutazione.
Qualora lo Stato membro preveda il pagamento di interessi di mora in occasione
della restituzione di una garanzia imposta in violazione del diritto
interno, tali interessi sono altresì dovuti nel caso di violazione del diritto
comunitario. Spetta poi al giudice del rinvio valutare, in conformità alle linee
guida fornite dalla Corte, e nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività,
l’esistenza di una responsabilità dello Stato membro interessato per il
danno causato dall’obbligo di costituire tale garanzia.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 26 ottobre 2006, nella causa
C-371/04 – Commissione delle Comunità europee, contro Repubblica
italiana.
La Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare
che la Repubblica italiana, non avendo preso in considerazione l’esperienza
professionale e l’anzianità acquisite in un altro Stato membro da un
lavoratore comunitario dipendente nel settore del pubblico impiego italiano,
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 10 CE,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 169
39 CE e 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968,
n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della
Comunità (G.U. L 257, pag. 2; in prosieguo: il «regolamento»).
12. Facendo riferimento alle sentenze 15 gennaio 1998, causa C-15/96,
Schöning-Kougebetopoulou (Racc. pag. I-47); 12 marzo 1998, causa
C-187/96, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-1095); 30 novembre 2000,
causa C-195/98, Österreichischer Gewerkschaftsbund (Racc. pag. I-10497),
e 12 maggio 2005, causa C-278/03, Commissione/Italia (Racc. pag. I-3747),
la Commissione fa valere che il principio della parità di trattamento dei lavoratori
comunitari, che deriva dagli artt. 39 CE e 7, n. 1, del regolamento, osta
a che i periodi di impiego svolti da uno di tali lavoratori in un analogo settore
di attività in uno Stato membro non siano presi in considerazione dall’amministrazione
di un altro Stato membro nella determinazione delle condizioni
d’esercizio dell’attività lavorativa, quali la retribuzione, il grado o la carriera,
mentre si tenga conto dell’esperienza maturata nel pubblico impiego di
quest’ultimo Stato.
13. Alla luce di tale giurisprudenza, nella causa in esame la Repubblica
italiana avrebbe violato le disposizioni in questione non avendo tenuto conto
dell’esperienza e dell’anzianità acquisite in altri Stati membri da lavoratori
dipendenti nel settore del pubblico impiego italiano, in particolare nei settori
pubblici dell’istruzione e della sanità.
14. Al contrario, il governo italiano sostiene che l’obbligo incombente
alle autorità pubbliche di uno Stato membro di riconoscere, per determinati
fini, periodi di lavoro svolti in precedenza in un altro Stato membro è subordinato
alla presenza di due condizioni cumulative: da una parte, i settori delle
attività svolte nei due Stati membri devono essere analoghi e, dall’altra, l’attività
svolta nell’altro Stato membro dev’essere riconducibile al servizio
pubblico.
16. In proposito risulta da una giurisprudenza costante che, in forza dell’art.
39 CE, qualora, assumendo personale per posti che non rientrano nella
sfera d’applicazione del n. 4 di tale disposizione, un ente pubblico di uno
Stato membro stabilisca di prendere in considerazione le attività lavorative
svolte in precedenza dai candidati presso una pubblica amministrazione, tale
ente non può, nei confronti di cittadini comunitari, operare alcuna distinzione
a seconda che tali attività siano state esercitate nello Stato membro cui
appartiene il detto ente o in un altro Stato membro (v., in particolare, sentenze
23 febbraio 1994, causa C-419/92, Scholz, Racc. pag. I-505, punto 12; 12
maggio 2005, Commissione/Italia, cit., punto 14, e 23 febbraio 2006, causa
C-205/04, Commissione/Spagna, non pubblicata nella Raccolta, punto 14).
17. Per quanto riguarda l’art. 7 del regolamento, occorre ricordare che
tale articolo costituisce solamente una particolare espressione del principio
di non discriminazione – sancito dall’art. 39, n. 2, CE – nel campo specifico
delle condizioni di impiego e di lavoro e che, pertanto, esso deve essere
interpretato allo stesso modo di quest’ultimo articolo (sentenza
Commissione/Spagna, cit., punto 15).
170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
18. Dall’insieme di tale giurisprudenza si evince che il rifiuto di riconoscere
l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite nell’esercizio di
un’attività analoga presso un’amministrazione pubblica di un altro Stato
membro da cittadini comunitari successivamente impiegati nel settore pubblico
italiano, con la motivazione che i detti cittadini non avrebbero superato
alcun concorso prima di esercitare la loro attività nel settore pubblico di
tale altro Stato, non può essere ammesso dato che, come ha osservato l’avvocato
generale al paragrafo 28 delle sue conclusioni, non tutti gli Stati
membri assumono i dipendenti del loro settore pubblico in questo solo modo.
La discriminazione può essere evitata solo tenendo conto dei periodi di attività
analoga svolta nel settore pubblico di un altro Stato membro da una persona
assunta conformemente alle condizioni locali.
Sentenza della Corte, sezione prima, 9 novembre 2006, nel procedimento
C-520/04 – P.M.T. contro Uudenmaan verovirastro (Ufficio delle
Imposte di Uudenmaa).
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 18 CE e 39 CE, nonché della direttiva del Consiglio 28 giugno 1990,
90/365/CEE, relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non
salariati che hanno cessato la propria attività professionale (G.U. L 180,
pag. 28).
Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di un procedimento avviato
dalla sig.ra P.M.T., cittadina finlandese collocata a riposo, residente in
Spagna all’epoca dei fatti della causa principale, in merito all’imponibilità,
in Finlandia, della pensione di vecchiaia corrispostale da un ente finlandese.
Sino al 1998, la sig.ra P.M.T. risiedeva in Finlandia dove svolgeva attività
lavorativa in qualità di psichiatra infantile nell’ambito del servizio pubblico
finlandese. Nel 1998 beneficiava del prepensionamento e si trasferiva
in Belgio. Nel 1999, collocata definitivamente a riposo, si stabiliva permanentemente
in Spagna.
I redditi della sig.ra P.M.T. consistono in un’unica pensione di vecchiaia
corrispostale dal Kuntien Eläkevakuutus (assicurazione pensionistica comunale).
Per effetto della convenzione conclusa tra la Repubblica di Finlandia
e il Regno di Spagna in materia di doppie imposizioni, la detta pensione di
vecchiaia, corrisposta a seguito di attività lavorativa svolta nel settore pubblico,
è imponibile unicamente in Finlandia.
1. Non possono invocare la libera circolazione garantita dall’art. 39 CE
quei soggetti che abbiano svolto tutta la loro attività lavorativa nello Stato
membro di cui sono cittadini avvalendosi del diritto di soggiorno in un altro
Stato membro solamente dopo il collocamento a riposo, senza alcuna intenzione
di ivi esercitare un’attività lavorativa dipendente.
2. L’art. 18 dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa
nazionale in base alla quale l’imposta sui redditi relativa alla pensione
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 171
di vecchiaia versata dall’ente dello Stato membro di cui trattasi ad un soggetto
residente in un altro Stato membro supera, in taluni casi, l’imposta che
sarebbe dovuta nell’ipotesi in cui il soggetto medesimo fosse residente nel
primo Stato membro, qualora la detta pensione costituisca la totalità o quasi
totalità dei redditi di tale soggetto.
Una normativa nazionale che svantaggi determinati cittadini nazionali
solo per aver esercitato la loro libertà di circolazione e di soggiorno in un
altro Stato membro provoca infatti una disparità di trattamento contraria ai
principi che sono alla base dello status di cittadino dell’Unione, vale a dire
la garanzia di un medesimo trattamento giuridico nell’esercizio della propria
libertà di circolazione.
È vero che, in materia di imposte dirette, la situazione dei residenti e
quella dei non residenti non sono di regola paragonabili. Tuttavia i pensionati
non residenti, nei limiti in cui la pensione di vecchiaia corrisposta in uno
Stato membro costituisce la totalità o quasi la totalità dei loro redditi, si trovano
oggettivamente, per quanto riguarda l’imposta sui redditi, nella stessa
situazione dei pensionati residenti in tale Stato che percepiscono una pensione
di vecchiaia identica.
NE BIS IN IDEM
Sentenza della Corte, sezione prima, 28 settembre 2006, nel procedimento
C-467/04 – G.F.G., J.M.L.A.G., G.C.B., J.d.L.C., F.M.G., J.A. H. M.,
Sindicatura Quiebra.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione, da
una parte, dell’art. 54 della convenzione di applicazione dell’Accordo di
Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica
Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica
francese, relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere
comuni (G.U. 2000, L 239, pag. 19), firmata a Schengen il 19 giugno 1990
(in prosieguo: la «CAAS»), e, dall’altra, dell’art. 24 CE. Tale domanda è
stata presentata nell’ambito di un procedimento penale a carico dei
sigg. G.F.G., J.M.L.A.G., C.B., d.L.C., F.M.G. e H.M., nonché della
Sindicatura Quiebra, sospettati di aver immesso sul mercato spagnolo olio
d’oliva di contrabbando. Secondo l’Audiencia Provincial de Málaga, da
indizi razionali emerge che, in una data non precisata dell’anno 1993, gli
azionisti e i gestori della società Minerva hanno deciso di introdurre attraverso
il porto di Setúbal (Portogallo) olio d’oliva lampante (cioè raffinato)
originario della Tunisia e della Turchia, che non era stato oggetto di una
dichiarazione presso le autorità doganali. La merce sarebbe stata successivamente
trasportata con autocarri da Setúbal a Málaga (Spagna). Gli
imputati avrebbero ideato un sistema di falsa fatturazione volto a far credere
che l’olio fosse originario della Svizzera. Il Supremo Tribunal de Justiça
(Portogallo), nella sua sentenza pronunciata sull’appello proposto contro
172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
la sentenza del Tribunal de Setúbal, ha giudicato che l’olio lampante introdotto
in Portogallo proveniva in dieci casi dalla Tunisia e in un caso dalla
Turchia, e che quantitativi inferiori a quelli realmente introdotti erano stati
dichiarati alle autorità doganali portoghesi. Il Supremo Tribunal de Justiça
ha assolto per prescrizione due degli imputati nella causa per la quale era
stato adito, i quali sono perseguiti anche nella controversia principale.
L’Audiencia Provincial de Málaga spiega che essa deve pronunciarsi sulla
questione se esista un reato di contrabbando o se, al contrario, un tale reato
è inesistente con riferimento all’autorità di cosa giudicata della sentenza
del Supremo Tribunal de Justiça, o al fatto che le merci sono in libera pratica
nel territorio comunitario.
23. Conformemente al detto art. 54, una persona non può essere perseguita
in uno Stato contraente per i medesimi fatti per i quali è già stata «giudicata
con sentenza definitiva» in un altro Stato contraente, a condizione che,
in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso
di esecuzione attualmente o non possa più essere eseguita.
25. Così, il principio ne bis in idem, sancito all’art. 54 della CAAS, va
applicato ad una decisione delle autorità giudiziarie di uno Stato contraente
con la quale un imputato viene definitivamente assolto per insufficienza di
prove (sentenza Van Straaten, cit., punto 62).
26. La controversia principale pone la questione se lo stesso accada per
quanto riguarda un’assoluzione definitiva per prescrizione del reato che ha
dato luogo al procedimento penale.
27. È pacifico che l’art. 54 della CAAS ha lo scopo di evitare che una
persona, a causa del fatto che esercita il suo diritto alla libera circolazione,
sia sottoposta a procedimento penale per i medesimi fatti sul territorio di più
Stati membri (v. sentenze 11 febbraio 2003, cause riunite C-187/01 e
C-385/01, Gözütok e Brügge, Racc. pag. I-1345, punto 38, e sentenza pronunciata
in data odierna, Van Straaten, cit., punto 57). Esso assicura la pace
civica delle persone che, dopo essere state assoggettate a procedimento penale,
sono state giudicate con sentenza definitiva. Queste devono poter circolare
liberamente senza dover temere nuovi procedimenti penali per i medesimi
fatti in un altro Stato contraente.
29. Certo, in materia di termini di prescrizione non vi è stata un’armonizzazione
delle legislazioni degli Stati contraenti. Tuttavia, nessuna disposizione
del titolo VI del Trattato sull’Unione europea, relativo alla cooperazione
di polizia e giudiziaria in materia penale, i cui artt. 34 e 31 sono stati
indicati come fondamento normativo degli artt. 54-58 della CAAS, né
dell’Accordo di Schengen o della stessa CAAS assoggetta l’applicazione
dell’art. 54 di quest’ultima all’armonizzazione o, quanto meno, al ravvicinamento
delle legislazioni penali degli Stati membri nel settore delle procedure
di estinzione dell’azione penale (sentenza Gözütok e Brügge,
cit.,punto 35) e, più in generale, all’armonizzazione o al ravvicinamento
delle legislazioni penali di questi (v. sentenza 9 marzo 2006, causa C-436/04,
Van Esbroeck, Racc. pag. I-2333, punto 29).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 173
30. Occorre aggiungere che il principio ne bis in idem, sancito dall’art.
54 della CAAS, implica necessariamente che esista una fiducia reciproca
degli Stati contraenti nei confronti dei loro rispettivi sistemi di giustizia
penale e che ciascuno di essi accetti l’applicazione del diritto penale vigente
negli altri Stati contraenti, anche quando il ricorso al suo diritto nazionale
condurrebbe a soluzioni diverse (sentenza Van Esbroeck, cit., punto 30).
31. La decisione quadro 2002/584 non osta all’applicazione del principio
ne bis in idem nel caso di un’assoluzione definitiva per prescrizione del
reato. L’art. 4, punto 4, della medesima, fatto valere dal governo olandese
nelle osservazioni presentate alla Corte, consente all’autorità giudiziaria dell’esecuzione
di rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo in particolare
se l’azione penale è caduta in prescrizione secondo la legislazione dello
Stato membro di esecuzione e i fatti rientrano nella competenza di tale Stato
membro in virtù del suo proprio diritto penale. L’attuazione di tale facoltà
non è subordinata all’esistenza di una sentenza basata sulla prescrizione dell’azione
penale. L’ipotesi secondo cui la persona ricercata è stata giudicata
con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro è disciplinata
dall’art. 3, punto 2, della detta decisione quadro, decisione che enuncia un
motivo di non esecuzione obbligatoria del mandato di arresto europeo.
33. Dalle considerazioni che precedono risulta che occorre risolvere la
prima questione nel senso che il principio ne bis in idem, sancito all’art. 54
della CAAS, si applica a una decisione di un giudice di uno Stato contraente,
pronunciata in seguito all’esercizio di un’azione penale, con cui un imputato
viene definitivamente assolto in ragione della prescrizione del reato che
ha dato luogo al procedimento penale.
35. A tal riguardo, emerge chiaramente dalla lettera dell’art. 54 della
CAAS che possono trarre beneficio dal principio ne bis in idem solo le persone
che sono state giudicate con sentenza definitiva una prima volta.
49. In virtù dell’art. 24 CE, devono essere soddisfatte tre condizioni perché
prodotti provenienti da paesi terzi siano considerati in libera pratica in
uno Stato membro. A tale effetto, sono considerati tali i prodotti per i quali,
in primo luogo, siano state adempiute le formalità di importazione, in secondo
luogo, siano stati riscossi in tale Stato membro i dazi doganali e le tasse
di effetto equivalente esigibili e, in terzo luogo, che non abbiano beneficiato
di un ristorno totale o parziale di tali dazi e tasse.
50. L’accertamento da parte di un giudice di uno Stato membro che il
reato di contrabbando contestato ad un imputato è prescritto non modifica la
qualificazione giuridica dei prodotti in questione.
51. Il principio ne bis in idem vincola i giudici di uno Stato contraente
solo in quanto esso osta a che un imputato che è già stato giudicato con sentenza
definitiva in un altro Stato contraente venga perseguito una seconda
volta per i medesimi fatti.
52. (…) il giudice penale di uno Stato contraente non può considerare
una merce in libera pratica sul suo territorio per il solo fatto che il giudice
penale di un altro Stato contraente ha accertato, a proposito di tale medesima
merce, che il reato di contrabbando è prescritto.
174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
54. L’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione della nozione di
«medesimi fatti» ai sensi dell’art. 54 della CAAS è quello dell’identità dei
fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete
inscindibilmente collegate tra loro (v. sentenza Van Esbroeck, cit., punto 36).
55. Per quanto riguarda, più in particolare, una situazione come quella in
oggetto nella causa principale, occorre rilevare che essa è idonea a costituire
un tale insieme di fatti.
56. Tuttavia, la valutazione definitiva in proposito spetta ai giudici
nazionali competenti, che debbono accertare se i fatti materiali di cui trattasi
costituiscano un insieme di fatti inscindibilmente collegati nel tempo,
nello spazio nonché per oggetto (v. sentenza Van Esbroeck, cit., punto 38).
57. Risulta da quanto precede che l’immissione sul mercato di una merce
in un altro Stato membro, successiva alla sua importazione nello Stato membro
che ha pronunciato l’assoluzione, costituisce un comportamento idoneo
a far parte dei «medesimi fatti» ai sensi dell’art. 54 della CAAS.
Sentenza della Corte, sezione prima, 28 settembre 2006, nel procedimento
C-150/05 – J.L.V.S. e Staat der Nederlanden, Repubblica italiana.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
54 della convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14
giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della
Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione
graduale dei controlli alle frontiere comuni (G.U. 2000, L 239,
pag. 19; in prosieguo: la «CAAS»), firmata a Schengen (Lussemburgo) il 19
giugno 1990.
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia pendente
tra il sig. V.S., da un lato, e lo Staat der Nederlanden e la Repubblica italiana,
dall’altro, in merito alla segnalazione nel Sistema d’informazione
Schengen (in prosieguo: il «SIS»), effettuato dalle autorità italiane, della
condanna penale irrogata nei suoi confronti in Italia per traffico di stupefacenti,
ai fini della sua estradizione.
Dall’ordinanza di rinvio risulta che il sig. V.S., nel periodo intorno al 27
marzo 1983, è stato trovato in possesso di una partita di circa 5 chilogrammi
di eroina, che tale eroina era diretta dall’Italia ai Paesi Bassi e che il sig. V.S.
ha disposto, tra il 27 ed il 30 marzo 1983, di una quantità pari a 1 000 grammi
di tale partita di eroina.
L’interessato è stato perseguito nei Paesi Bassi, in primo luogo, per aver
importato dall’Italia, con il sig. A.Y., il 26 marzo 1983 o comunque in tale
periodo, un quantitativo di circa 5 500 grammi di eroina, in secondo luogo
per aver disposto di una quantità di circa 1 000 grammi di eroina nei Paesi
Bassi nel periodo tra il 27 ed il 30 marzo 1983 circa, e, in terzo luogo, per
aver detenuto armi da fuoco e munizioni nei Paesi Bassi durante il mese di
marzo 1983. Con sentenza 23 giugno 1983, l’Arrondissementsrechtbank te’
s-Hertogenbosch (Paesi Bassi) ha assolto il sig. V.S. dal capo di accusa rela-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 175
tivo all’importazione di eroina, ritenendo tale fattispecie non provata in
modo legale e convincente, e lo ha condannato per gli altri due capi ad una
pena detentiva di 20 mesi.
In Italia, il sig. V.S. è stato giudicato, insieme ad altri, per essere stato in
possesso, intorno al 27 marzo 1983, ed aver esportato nei Paesi Bassi a più
riprese, con il sig. K.C., un rilevante quantitativo di eroina, per un peso complessivo
di circa 5 chilogrammi. Con sentenza pronunciata in contumacia il 22
novembre 1999 dal Tribunale ordinario di Milano, il sig. V.S. e altri due imputati
sono stati condannati per tali reati ad una pena detentiva di dieci anni, ad
un’ammenda di 50 milioni di lire italiane ed alle spese del procedimento.
La causa principale oppone il sig. V.S. allo Staat der Nederlanden e alla
Repubblica italiana. Il giudice del rinvio attesta una segnalazione relativa al
sig. V.S. la cui regolarità è al centro della controversia e che deve essere esaminata
alla luce della CAAS. Con ordinanza 16 luglio 2004, la Repubblica
italiana è stata chiamata in causa nella controversia principale.
Dinanzi al giudice del rinvio, la Repubblica italiana ha respinto gli argomenti
del sig. V.S. secondo cui, ai sensi dell’art. 54 della CAAS, egli non
avrebbe dovuto essere giudicato dallo o in nome dello Stato italiano e tutti
gli atti collegati a tale giudizio sarebbero illegali. Secondo la Repubblica italiana,
con la sentenza 23 giugno 1983, per quanto riguarda il capo d’accusa
relativo all’importazione di eroina, non si è giudicata la colpevolezza del sig.
VS., in quanto l’interessato è stato assolto dal detto capo d’accusa. Il sig.
V.S. non sarebbe stato giudicato per tale reato ai sensi dell’art. 54 della
CAAS. Inoltre, la Repubblica italiana ha fatto valere di non essere vincolata
dall’art. 54 della CAAS, considerata la sua dichiarazione ai sensi dell’art. 55,
n. 1, initio e lett. a), della stessa convenzione. Quest’ultimo motivo è stato
respinto dal giudice del rinvio.
41. A tale riguardo, la Corte al punto 27 della sentenza 9 marzo 2006,
causa C-436/04, V.E. (Racc. pag. I-2333), ha constatato che dal testo dell’art.
54 della CAAS, che ricorre alla locuzione «i medesimi fatti», risulta
che tale disposizione si riferisce all’aspetto materiale dei fatti in causa,
restando esclusa la loro qualificazione giuridica.
43. Il principio «ne bis in idem», sancito dall’art. 54 della CAAS, implica
necessariamente che esista una fiducia reciproca degli Stati contraenti nei
confronti dei loro rispettivi sistemi di giustizia penale e che ciascuno di essi
accetti l’applicazione del diritto penale vigente negli altri Stati contraenti,
anche quando il ricorso al proprio diritto nazionale condurrebbe a soluzioni
diverse (sentenza V.E., cit., punto 30).
44. Ne deriva che l’eventualità di qualificazioni giuridiche divergenti dei
medesimi fatti in due Stati contraenti diversi non può ostare all’applicazione
dell’art. 54 della CAAS (sentenza V.E., cit., punto 31).
45. Tali constatazioni sono ulteriormente corroborate dalla finalità dell’art.
54, consistente nell’evitare che una persona, per il fatto di aver esercitato
il suo diritto alla libera circolazione, sia sottoposta a procedimento penale
per i medesimi fatti sul territorio di più Stati contraenti (sentenza V.E., cit.,
punto 33 e giurisprudenza ivi citata).
176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
46. Tale diritto alla libera circolazione è efficacemente tutelato soltanto
qualora l’autore di un atto sappia che, una volta condannato e scontata la
pena – o, se del caso, una volta definitivamente assolto in uno Stato membro
–, può circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover temere di
essere perseguito in un altro Stato membro nel cui ordinamento giuridico tale
atto integri una distinta infrazione (v. sentenza Van Esbroeck, cit., punto 34).
47. Orbene, data l’assenza di armonizzazione delle legislazioni penali
nazionali, un criterio fondato sulla qualificazione giuridica dei fatti o sull’interesse
giuridico tutelato sarebbe tale da creare altrettanti ostacoli alla libertà
di circolazione nello spazio Schengen quanti sono i sistemi penali esistenti
negli Stati contraenti (sentenza Van Esbroeck, cit., punto 35).
48. Stando così le cose, l’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione
dell’art. 54 della CAAS è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi
come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate
tra loro (sentenza Van Esbroeck, cit., punto 36).
53. (...) l’art. 54 della CAAS dev’essere interpretato nel senso che:
– il criterio pertinente ai fini dell’applicazione del citato articolo è quello
dell’identità dei fatti materiali, inteso come esistenza di un insieme di fatti
inscindibilmente collegati tra loro, indipendentemente dalla qualificazione
giuridica di tali fatti o dall’interesse giuridico tutelato;
– per quanto riguarda i reati relativi agli stupefacenti, non viene richiesto
che siano identici i quantitativi di droga di cui trattasi nei due Stati contraenti
interessati né i soggetti che si presume abbiano partecipato alla fattispecie
nei due Stati;
– i fatti punibili consistenti nell’esportazione e nell’importazione degli
stessi stupefacenti e perseguiti in diversi Stati contraenti della detta convenzione
devono in via di principio essere considerati come «i medesimi fatti»
ai sensi di tale art. 54, sebbene la valutazione definitiva in proposito spetti ai
giudici nazionali competenti.
54. Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente
se il principio del ne bis in idem, sancito all’art. 54 della CAAS, sia applicabile
ad una decisione dell’autorità giudiziaria di uno Stato contraente che
assolve un imputato per insufficienza di prove.
56. La proposizione principale contenuta nell’unica frase che costituisce
l’art. 54 della CAAS non fa alcun riferimento al contenuto della sentenza
passata in giudicato. È solo nella proposizione subordinata che l’art. 54 della
CAAS menziona l’ipotesi di una condanna disponendo che, in tal caso, il
divieto di procedimento penale è sottoposto a una condizione specifica.
Qualora la regola generale enunciata nella proposizione principale fosse
applicabile solo alle sentenze di condanna, sarebbe superflua la precisazione
secondo cui la regola speciale è applicabile in caso di condanna.
58. Ora, non applicare tale articolo ad una decisione definitiva di assoluzione
per insufficienza di prove avrebbe l’effetto di pregiudicare l’esercizio del diritto
alla libera circolazione (v., in tal senso, sentenza Van Esbroeck, cit., punto 34).
59. Inoltre, l’avvio di un procedimento penale in un altro Stato contraente
per i medesimi fatti comprometterebbe, nel caso di un’assoluzione defini-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 177
tiva per insufficienza di prove, i principi della certezza del diritto e del legittimo
affidamento. Infatti, l’imputato dovrebbe temere nuovi procedimenti
penali in un altro Stato contraente, sebbene gli stessi fatti siano già stati definitivamente
giudicati.
60. Occorre aggiungere che, nella sua sentenza 10 marzo 2005, causa
C-469/03, Miraglia (Racc. pag. I-2009, punto 35), la Corte ha dichiarato che
il principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 54 della CAAS, non si applica
a una decisione delle autorità giudiziarie di uno Stato membro che dichiara
chiusa una causa dopo che il Pubblico Ministero ha deciso di non proseguire
l’azione penale per il solo motivo che è stato avviato un procedimento
penale in un altro Stato membro a carico dello stesso imputato e per gli stessi
fatti, senza alcuna valutazione nel merito. Ora, senza che sia necessario
pronunciarsi, nel procedimento in esame, sul problema se un’assoluzione
non fondata su una valutazione del merito possa rientrare nell’ambito di
applicazione di tale articolo, si deve constatare che un’assoluzione per insufficienza
di prove si fonda su una siffatta valutazione.
PRESTAZIONE SERVIZI
Sentenza della Corte, sezione seconda, 6 aprile 2006 – Agip Petroli SpA
contro Capitaneria di porto di Siracusa, Capitaneria di porto di Siracusa
– Sezione staccata di Santa Panagia, Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
3, n. 3, del regolamento (CEE) del Consiglio 7 dicembre 1992, n. 3577,
concernente l’applicazione del principio della libera prestazione dei servizi
ai trasporti marittimi fra Stati membri (cabotaggio marittimo) (G.U. L 364,
pag. 7; in prosieguo: il «regolamento»).
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la
Agip Petroli S.p.A. (in prosieguo: la «Agip Petroli»), da una parte, e la
Capitaneria di porto di Siracusa, la Capitaneria di porto di Siracusa – Sezione
staccata di Santa Panagia (in prosieguo: la «capitaneria») e il Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, dall’altra, in merito ad una decisione con cui la
capitaneria ha negato ad una nave cisterna, battente bandiera greca, l’autorizzazione
ad effettuare una tratta di cabotaggio insulare tra Magnisi e Gela.
12. Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se, nel
settore del trasporto marittimo di merci all’interno degli Stati membri, la
nozione di «viaggio che segue o precede» il viaggio di cabotaggio (in prosieguo:
il «viaggio internazionale») di cui all’art. 3, n. 3, del regolamento
comprenda solo il viaggio con carico a bordo o se possa essere estesa all’ipotesi
di un viaggio in zavorra.
13. In via preliminare, occorre ricordare che l’obiettivo di liberalizzazione
perseguito dal regolamento (ce) del Consiglio 7 dicembre 1992, n. 3577,
178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
come risulta in particolare dal terzo e dal quarto ‘considerando’ del medesimo,
e che mira all’abolizione delle restrizioni alla prestazione dei servizi di
trasporto marittimo all’interno degli Stati membri, non è ancora pienamente
compiuto. Uno dei limiti alla liberalizzazione prevista dal regolamento
riguarda il cabotaggio insulare. Infatti, mentre gli artt. 1 e 3, n. 1, del detto
regolamento precisano che, in linea di principio, prevalgono le condizioni
stabilite dal diritto dello Stato di bandiera, l’art. 3, n. 2, del regolamento prevede
un’eccezione in materia di cabotaggio insulare, stabilendo che, per le
navi che effettuano questo tipo di trasporto, tutte le questioni relative all’equipaggio
sono disciplinate dal diritto dello Stato ospitante. Il principio dell’applicazione
delle norme dello Stato di bandiera alla composizione dell’equipaggio
è tuttavia previsto all’art. 3, n. 3, del regolamento, qualora il cabotaggio
insulare sia preceduto o seguito da un viaggio internazionale effettuato
da una nave di oltre 650 tonnellate lorde.
14. Per quanto riguarda la nozione di «viaggio internazionale», occorre
rilevare innanzi tutto che l’art. 3, n. 2, del regolamento si limita a richiedere
che il viaggio di cabotaggio sia preceduto o seguito da un viaggio internazionale,
senza fornire alcuna indicazione né sulla nozione stessa di «viaggio» né
sull’eventuale presenza di carico a bordo per le navi di oltre 650 tonnellate
lorde.
15. Di conseguenza, e poiché il regolamento non contiene alcuna definizione
della nozione di «viaggio» né alcun elemento che faccia supporre che
il legislatore comunitario abbia inteso consentire che si tenga conto di criteri
supplementari, quali la necessità di un carico a bordo o l’esistenza di
un’autonomia funzionale e commerciale del viaggio internazionale, occorre
intendere tale nozione come comprendente, in linea di principio, qualsiasi
viaggio a prescindere dalla presenza di un carico a bordo.
16. Tale interpretazione è del resto conforme all’obiettivo del regolamento,
che è quello di attuare la libera prestazione dei servizi nel cabotaggio
marittimo alle condizioni e con riserva delle deroghe da esso previste (v., in
particolare, sentenza 20 febbraio 2001, causa C-205/99, Analir e a.,
Racc. pag. I-1271, punto 19). Infatti, essa consente la piena applicazione dell’art.
3, n. 3, del regolamento che, prescrivendo dal canto suo l’applicazione
delle norme dello Stato di bandiera, si inserisce nel diretto prolungamento di
tale obiettivo.
17. Tale interpretazione è peraltro confortata anche dalla pratica nel trasporto
marittimo, in cui risulta usuale che talvolta vengano effettuati viaggi
in zavorra.
18. Tuttavia, nonostante tale constatazione, non possono essere ammessi
viaggi in zavorra intrapresi abusivamente allo scopo di aggirare le norme
previste dall’art. 3 del regolamento e l’obiettivo del regolamento medesimo,
quale ricordato al punto 13 della presente sentenza.
19. A questo proposito occorre rilevare che, secondo una giurisprudenza
costante, gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente
del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 12 maggio 1998,
causa C-367/96, Kefalas e a., Racc. pag. I-2843, punto 20; 23 marzo 2000,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 179
causa C-373/97, Diamantis, Racc. pag. I-1705, punto 33, e 21 febbraio 2006,
causa C-255/02, Halifax e a., Racc. pag. I-1609, punto 68).
20. Infatti, l’applicazione della normativa comunitaria non può estendersi
fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a
dire le operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali,
bensì al solo scopo di aggirare le norme previste dal diritto comunitario
(v. in tal senso, in particolare, sentenze 11 ottobre 1977, causa 125/76, Cremer,
Racc. pag. 1593, punto 21; 3 marzo 1993, causa C-8/92, General Milk
Products, Racc. pag. I-779, punto 21, e Halifax e a., cit., punto 69).
21. I giudici nazionali possono pertanto tener conto, basandosi su elementi
obiettivi, del comportamento abusivo dell’interessato per negargli
eventualmente la possibilità di fruire delle disposizioni di diritto comunitario
invocate. Al riguardo essi debbono tuttavia tener presenti le finalità perseguite
dalle disposizioni di cui trattasi (v. sentenza Diamantis, cit., punto 34
e giurisprudenza ivi citata).
23. L’accertamento di una pratica abusiva del genere richiede, da un lato,
che il viaggio internazionale in zavorra, nonostante l’applicazione formale
delle condizioni di cui all’art. 3, n. 3, del regolamento, abbia come risultato
che l’armatore fruisca, per tutte le questioni relative all’equipaggio, dell’applicazione
delle norme dello Stato di bandiera in spregio dell’obiettivo dell’art.
3, n. 2, del regolamento, il quale consiste nel consentire l’applicazione
delle norme dello Stato ospitante a tutte le questioni relative all’equipaggio
nel caso del cabotaggio insulare. D’altro lato, deve altresì risultare da un
insieme di elementi oggettivi che lo scopo essenziale di tale viaggio internazionale
in zavorra è quello di evitare l’applicazione dell’art. 3, n. 2, del regolamento,
a vantaggio di quella del n. 3 del medesimo articolo (v., in tal senso,
sentenza Halifax e a., cit., punto 86).
24. Spetta al giudice del rinvio verificare, conformemente alle norme
nazionali sull’onere della prova, ma senza che venga compromessa l’efficacia
del diritto comunitario, se gli elementi costitutivi di un comportamento
abusivo sussistano nella causa principale (v. sentenze 21 luglio 2005, causa
C-515/03, Eichsfelder Schlachtbetrieb, Racc. pag. I-7355, punto 40, e
Halifax, cit., punto 76).
Sentenza della Corte, sezione prima, 9 febbraio 2006 – La Cascina Soc.
coop. a rl, Zilch Srl (C-226/04) contro Ministero della Difesa, Ministero
dell’Economia e delle Finanze, Pedus Service, Cooperativa Italiana di
Ristorazione Soc. coop. a rl (CIR), Istituto nazionale per l’assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e Consorzio G. f. M. (C-228/04)
contro Ministero della Difesa, La Cascina Soc. coop. a rl,
Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art.
29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva del Consiglio 18 giugno
1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1)
180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che
oppongono le società La Cascina Soc. coop. a rl e Zilch Srl nonché il consorzio
G. f. M. (in prosieguo: il «G. f. M.»), al Ministero della Difesa e al
Ministero dell’Economia e delle Finanze italiani, nella loro qualità di amministrazione
aggiudicatrice, relativamente, da un lato, all’esclusione di queste
imprese dalla partecipazione ad una procedura di appalto pubblico di
servizi e, dall’altro, alla conformità con l’art. 29 della direttiva della disposizione
corrispondente della normativa italiana che assicura il recepimento
di questa direttiva nel diritto nazionale.
20. Al fine di fornire una soluzione utile a tali questioni, occorre rilevare,
in via preliminare, che le direttive comunitarie relative agli appalti pubblici
hanno per oggetto il coordinamento delle procedure nazionali in materia.
Per quanto riguarda più in particolare gli appalti pubblici di servizi, il
terzo considerando della direttiva enuncia che gli obiettivi definiti al primo
e secondo ‘considerando’ «(…) richiedono il coordinamento delle procedure
per l’aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi».
21. In tale contesto di coordinamento, l’art. 29 della direttiva prevede
sette cause di esclusione dei candidati dalla partecipazione ad un appalto, che
si riferiscono all’onestà professionale, alla solvibilità o all’affidabilità di
questi ultimi. Questa disposizione lascia l’applicazione di tutti questi casi di
esclusione alla valutazione degli Stati membri, come risulta dall’espressione
«può venire escluso dalla partecipazione ad un appalto (…)», che figura
all’inizio della detta disposizione, e rinvia, sub e) e f), esplicitamente alle
disposizioni legislative nazionali.
22. Pertanto, come fa giustamente osservare la Commissione delle
Comunità europee, la disposizione considerata fissa essa stessa i soli limiti
della facoltà degli Stati membri, nel senso che questi non possono prevedere
cause di esclusione diverse da quelle ivi indicate. Tale facoltà degli Stati
membri è limitata anche dai principi generali di trasparenza e di parità di trattamento
(v., in particolare, sentenze 12 dicembre 2002, causa C-470/99,
Universale-Bau e a., Racc. pag. I-11617, punti 91 e 92, nonché 16 ottobre
2003, causa C-421/01, Traunfellner, Racc. pag. I-11941, punto 29).
23. Di conseguenza, l’art. 29 della direttiva non prevede in materia una
uniformità di applicazione delle cause di esclusione ivi indicate a livello
comunitario, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare
affatto queste cause di esclusione, optando per la partecipazione più ampia
possibile alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, o di inserirle
nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a
seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico
o sociale prevalenti a livello nazionale. In tale ambito, gli Stati membri
hanno il potere di alleviare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti dall’art.
29 della direttiva.
24. Per quanto riguarda, innanzi tutto, la questione se l’art. 29, primo
comma, lett. e) e f), della direttiva, debba essere interpretato nel senso che si
oppone ad una disposizione nazionale che fa riferimento alla situazione del
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 181
prestatore di servizi che «non è in regola» con i suoi obblighi previdenziali
o tributari, questa disposizione offre la facoltà agli Stati membri di escludere
qualunque candidato «il quale non abbia adempiuto i suoi obblighi» relativi
al pagamento dei contributi previdenziali e delle imposte e tasse, «conformemente
alle disposizioni legislative» nazionali.
26. Il legislatore italiano ha fatto uso della facoltà che gli conferisce
l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva, introducendo le due cause
di esclusione di cui trattasi nell’art. 12, lett. d) ed e), del decreto legislativo
n. 157/1995. Il giudice del rinvio si chiede tuttavia, innanzi tutto, se, con
l’impiego dell’espressione «che non sono in regola con gli obblighi (…)»,
tale disposizione non sia più permissiva e non conferisca un più ampio margine
di manovra alle autorità nazionali rispetto alla formula utilizzata
all’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva.
30. Al fine di determinare il momento in cui occorre collocarsi per valutare
se il candidato abbia adempiuto i suoi obblighi, occorre constatare che,
dato che l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva rinvia alle disposizioni
legislative degli Stati membri al fine di stabilire il contenuto della
nozione «aver adempiuto i suoi obblighi» e il legislatore comunitario non ha
voluto procedere ad un’uniformazione dell’applicazione di tale articolo a
livello comunitario, è coerente ritenere che lo stesso rinvio alle disposizioni
nazionali venga operato per quanto riguarda la determinazione del momento
di cui trattasi.
31. Spetta quindi alle norme nazionali determinare fino a che momento
o entro quale termine gli interessati devono aver effettuato i pagamenti corrispondenti
ai loro obblighi oppure, per quanto riguarda le altre situazioni
considerate dal giudice del rinvio e che sono trattate ai punti 34-39 della presente
sentenza, aver provato che le condizioni per una regolarizzazione a
posteriori sono soddisfatte. Tale termine può essere, in particolare, la data
limite per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, la data
di spedizione della lettera di invito a presentare un’offerta, la data limite
della presentazione delle offerte dei candidati, la data di valutazione delle
offerte da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o, ancora, il momento
che precede immediatamente l’aggiudicazione dell’appalto.
32. Occorre precisare, tuttavia, che i principi di trasparenza e di parità di
trattamento che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti
pubblici, in base ai quali le condizioni sostanziali e procedurali relative alla
partecipazione ad un appalto devono essere chiaramente definite in anticipo,
richiedono che questo termine sia determinato con una certezza assoluta e
reso pubblico, affinché gli interessati possano conoscere esattamente gli
obblighi procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi obblighi valgano
per tutti i concorrenti. Tale termine può essere fissato dalla normativa
nazionale, oppure questa può affidare tale compito alle amministrazioni
aggiudicatrici.
34. In terzo luogo, la domanda del giudice del rinvio riguarda, in sostanza,
la questione se possano essere considerate compatibili con l’art. 29,
primo comma, lett. e) e f), della direttiva una normativa o una prassi ammi-
182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
nistrativa nazionali che conferiscono ai prestatori di servizi, al fine della loro
ammissione a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, la possibilità
di regolarizzare a posteriori la loro situazione in materia tributaria e
previdenziale, in applicazione di misure di sanatoria o di condono fiscale
adottate dallo Stato membro di cui trattasi o in forza di un concordato inteso
ad una rateizzazione o a una riduzione dei debiti.
36. Pertanto, una normativa o una prassi amministrativa nazionali secondo
cui, in caso di misure di sanatoria o di condono fiscale nonché in seguito
ad un concordato, i candidati interessati sono considerati in regola con i loro
obblighi al fine della loro ammissione ad una procedura di aggiudicazione di
un appalto, non è incompatibile con l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della
direttiva, a condizione che, entro il termine indicato al punto 31 della presente
sentenza, possano fornire la prova di aver beneficiato di misure di sanatoria
o di condono fiscale o di un concordato relativamente ai loro debiti.
38. Occorre considerare che il rinvio al diritto nazionale effettuato dall’art.
29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva è valido anche per quanto
riguarda tale questione. Tuttavia, gli effetti della presentazione di un ricorso
amministrativo o giurisdizionale sono strettamente collegati all’esercizio e
alla salvaguardia dei diritti fondamentali relativi alla tutela giurisdizionale, il
cui rispetto è anch’esso assicurato dall’ordinamento giuridico comunitario.
Una normativa nazionale che ignorasse totalmente gli effetti della presentazione
di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sulla possibilità di partecipare
ad una procedura di aggiudicazione di appalto rischierebbe di violare
i diritti fondamentali degli interessati.
39. Tenuto conto di questo limite, spetta quindi all’ordinamento giuridico
nazionale determinare se la presentazione di un ricorso amministrativo o
giurisdizionale comporti effetti che obbligano l’amministrazione aggiudicatrice
a considerare che il candidato interessato è in regola con i suoi obblighi,
finché non sia emessa una decisione definitiva, ai fini della sua ammissione
alla procedura di aggiudicazione di appalto, a condizione che un tale
ricorso sia presentato entro il termine indicato al punto 31 della presente sentenza.
PRODOTTI ALIMENTARI
Sentenza della Corte, sezione quarta, 7 settembre 2006, nel procedimento
C-489/04 – A.J., Weinhaus Kiderlen contro Land Baden-
Württemberg.
Il ricorrente nella causa principale vende olio d’oliva al dettaglio con il
metodo detto «bag in the box». A tal fine, l’olio è versato dall’imbottigliatore
in un sacchetto di plastica a due strati («bag»), della capacità di cinque
litri e recante una indicazione di origine e un sigillo di controllo. Il sacchetto
è munito di un tappo speciale ad apertura unica la cui membrana dev’essere
perforata prima che possa essere versato l’olio. Tale sacchetto di pla-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 183
stica viene inserito in un vaso di terracotta («box») dal quale sporge unicamente
un tubo per versare il prodotto. A partire da questo insieme (il «bag
in the box»), il cliente ottiene il quantitativo di olio desiderato, che viene
versato in un recipiente da lui stesso portato o acquistato in loco nel negozio.
Le indicazioni sull’origine, la qualità ed il prezzo dell’olio possono essere
lette dal cliente sull’etichetta che il ricorrente nella causa principale ha
apposto sul vaso di terracotta.
Il Landratsamt Ravensburg, Amt für Veterinärwesen und Verbraucherschutz
(Ufficio per le questioni veterinarie e la tutela dei consumatori dell’amministrazione
del distretto di Ravensburg ha ingiunto al ricorrente di
cessare lo smercio dell’olio d’oliva secondo il metodo sopra descritto. Il
Landratsamt Ravensburg ha precisato che discende dall’art. 2, primo
comma, del regolamento n. 1019/2002 che l’olio d’oliva poteva essere venduto
ai consumatori solo preimballato in confezioni della capacità massima
di cinque litri.
Il ricorrente ha allora intentato dinanzi al Verwaltungsgericht
Sigmaringen un’azione di accertamento, chiedendo a quest’ultimo giudice
di dichiarare che il regolamento n. 1019/2002 non gli vieta di continuare a
vendere olio d’oliva utilizzando il metodo detto «bag in the box». Egli ha in
particolare asserito che il regolamento n. 1019/2002 non disciplina la vendita
dell’olio d’oliva sfuso, ma soltanto la vendita dell’olio di oliva confezionato
e che, di conseguenza, il suo art. 2 non contiene un divieto di vendita
dell’olio di oliva sfuso, ma unicamente le prescrizioni relative alla commercializzazione
dell’olio d’oliva imballato.
Poiché il regolamento n. 1019/2002 è stato adottato a integrazione della
direttiva 2000/13, quest’ultima continuerebbe ad applicarsi negli ambiti non
specificamente disciplinati da tale regolamento. Orbene, l’art. 14 della
direttiva 2000/13 ammetterebbe la possibilità di una presentazione al consumatore
finale di prodotti alimentari non preconfezionati, incaricando gli
Stati membri di adottare le modalità secondo le quali le indicazioni obbligatorie
devono essere fornite.
L’interpretazione proposta dal ricorrente nella causa principale è contestata
dal Landratsamt Ravensburg. Quest’ultimo sostiene che l’art. 2,
primo comma, del regolamento n. 1019/2002 contiene un divieto di presentare
al consumatore finale l’olio d’oliva non imballato.
Il Verwaltungsgericht Sigmaringen ha sottoposto alla Corte le seguenti
questioni pregiudiziali:
«1) Se gli artt. 1-12 del regolamento n. 1019/2002 (…) debbano essere
interpretati nel senso che recano una disciplina applicabile anche alla presentazione
ai consumatori finali di oli d’oliva e di oli di sansa di oliva non
confezionati.
2) Se l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 (…) debba
essere interpretato nel senso che impone un divieto di presentare ai consumatori
finali oli d’oliva e oli di sansa d’oliva non confezionati.
3) Eventualmente, se l’art. 2, primo comma, del regolamento
n. 1019/2002 (…) debba essere interpretato restrittivamente, nel senso che
184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
esso impone sì un divieto di presentare al consumatore finale oli d’oliva ed
oli di sansa d’oliva non confezionati, ma che questo divieto non riguarda la
vendita di tali oli non confezionati, effettuata con il sistema “bag in box”».
24. (...) il fondamento normativo del regolamento n. 1019/2002 è costituito
dall’art. 35 bis del regolamento n. 136/66, il cui n. 1, primo comma, dispone
che per i prodotti di cui all’art. 1 dello stesso regolamento possono essere
stabilite norme di commercializzazione riguardanti, in particolare, la classificazione
per qualità, l’imballaggio e la presentazione. I prodotti elencati da quest’ultima
disposizione, fra i quali figurano l’olio di oliva e l’olio di sansa di
oliva, sono tutti individuati attraverso designazioni delle merci e numeri tariffari
con cui figurano nella nomenclatura combinata. Tali prodotti non sono né
definiti né distinti secondo considerazioni connesse al loro imballaggio.
25. I prodotti considerati più in particolare dal regolamento n. 1019/2002
sono specificati all’art. 1, n. 1, di tale regolamento. Sono gli oli d’oliva e gli
oli di sansa di oliva, di cui ai punti 1, lett. a) e lett. b), 3 e 6 dell’allegato del
regolamento n. 136/66, in cui essi sono classificati in relazione a caratteristiche
qualificative e indipendentemente dal modo della loro commercializzazione,
vale a dire imballati o sfusi.
26. Al fine, in particolare, di garantire l’autenticità degli oli d’oliva, il
regolamento n. 1019/2002 ha stabilito norme di commercializzazione relative
all’imballaggio di tali oli. Così, l’art. 2, primo comma, di tale regolamento
dispone che gli oli sono presentati al consumatore finale preimballati in
imballaggi la cui capacità non superi i cinque litri e che siano muniti di un
sistema di chiusura che perde la sua integrità dopo la prima utilizzazione.
Tali imballaggi recano, inoltre, un’etichettatura conforme alle disposizioni di
cui agli artt. da 3 a 6 del regolamento n. 1019/2002.
27. Tali norme si applicano a tutti gli oli di cui all’art. 1, n. 1, del regolamento
n. 1019/2002 e prevedono una sola eccezione, esplicitamente menzionata
all’art. 2, secondo comma, di tale regolamento. Tale eccezione, che non
riguarda del resto l’obbligo di presentare gli oli in un imballaggio, ma unicamente
la capacità di tali imballaggi, autorizza gli Stati membri a fissare, in funzione
dell’organismo interessato, una capacità massima dei detti imballaggi
superiore a cinque litri per gli oli destinati al consumo in collettività.
28. Risulta da tutte le considerazioni che precedono che, al di fuori dell’eccezione
di cui al punto precedente, gli oli d’oliva e gli oli di sansa di oliva
possono essere presentati ai consumatori finali solo se rispettano le norme
stabilite dall’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002, e in particolare
l’obbligo di imballaggio a cui si riferisce tale disposizione. Infatti, ai
sensi dell’art. 35 bis, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 136/66, quando
sono state adottate norme di commercializzazione, i prodotti cui si applicano
possono essere commercializzati soltanto conformemente a tali norme.
29. Tale interpretazione non si trova infirmata dalla riserva contenuta
nell’art. 1, n. 1, del regolamento n. 1019/2002, secondo la quale le norme di
commercializzazione degli oli di oliva e degli oli di sansa di oliva sono stabilite
«[f]erme restando le disposizioni della direttiva 2000/13/CE».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 185
30. Ai sensi del primo ‘considerando’ del regolamento n. 1019/2002, le
norme specifiche in materia di etichettatura introdotte da tale regolamento
integrano quelle previste dalla direttiva 2000/13, che sono disposizioni di
carattere generale e orizzontale, applicabili a tutti i prodotti alimentari
immessi in commercio. Di conseguenza, il riferimento alla direttiva 2000/13
contenuto all’art. 1, n. 1, del regolamento n. 1019/2002 non può essere compreso
nel senso che esso sia diretto a stabilire una deroga o una dispensa
rispetto alle norme specifiche di tale regolamento in materia di etichettatura
degli oli d’oliva e degli oli di sansa di oliva, ma va invece inteso nel senso
che esso mira a garantire, oltre al rispetto delle dette norme specifiche, l’osservanza
delle norme di carattere più generale stabilite dalla direttiva
2000/13.
32. Per contro, l’art. 14 della direttiva 2000/13, fatto valere dal ricorrente
nella causa principale, nella misura in cui autorizza gli Stati membri ad
adottare le modalità secondo le quali devono essere apposte sui prodotti presentati
in imballaggi non preconfezionati le indicazioni di cui agli artt. 3 e 4,
n. 2, della stessa direttiva, non è pertinente, in quanto, da una parte, l’art. 2,
primo comma, del regolamento n. 1019/2002 vieta una tale presentazione
degli oli d’oliva e degli oli di sansa di oliva e, dall’altra, gli Stati membri
rimangono competenti solo in ordine alla capacità massima degli imballaggi
destinati alle collettività.
33. (...) il regolamento n. 1019/2002 e, in particolare, il suo art. 2, primo
comma, devono essere interpretati nel senso che gli oli d’oliva e gli oli di
sansa di oliva possono essere presentati al consumatore finale solo imballati
secondo le prescrizioni di tale disposizione.
35. Il ricorrente nella causa principale ha affermato che il procedimento
detto «bag in the box» sarebbe tale da garantire al consumatore una tutela
analoga a quella offerta da una limitazione di vendita dell’olio d’oliva alla
sola vendita dell’olio preimballato. Per questo motivo il giudice del rinvio si
chiede se le particolarità di questo modo di commercializzazione possano
ostare al suo divieto.
38. (...) l’art. 35 bis, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 136/66
dispone che, quando sono state adottate norme di commercializzazione, i
prodotti ai quali esse si applicano possono essere commercializzati soltanto
conformemente a dette norme.
39. Ne consegue che un modo di commercializzazione degli oli d’oliva
e degli oli di sansa di oliva dev’essere valutato in riferimento alle condizioni
stabilite dall’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 e dev’essere
considerato incompatibile con tale regolamento ove tali condizioni non
siano rispettate.
40. Nella fattispecie, è giocoforza constatare che, secondo il modo di
commercializzazione utilizzato dal ricorrente nella causa principale, l’acquisto
di olio d’oliva e di olio di sansa di oliva da parte del consumatore finale
presuppone che essi siano travasati sul luogo di acquisto, a partire da un contenitore
aperto o da aprire, in un recipiente acquistato o portato dallo stesso
consumatore.
186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
41. Ora, a seguito della necessità di tale travaso, un siffatto modo di
commercializzazione non permette di soddisfare l’obbligo imposto dall’art.
2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002, secondo il quale l’olio
d’oliva dev’essere presentato al consumatore finale, ossia messo in vendita,
in un imballaggio provvisto di un sistema di chiusura che perde la sua
integrità dopo la prima utilizzazione.
43. Allo stesso modo, non si può affermare, come ha fatto la
Commissione delle Comunità europee, che un modo di commercializzazione
come quello controverso nella causa principale dovrebbe essere considerato
lecito nella misura in cui i recipienti nei quali è versato l’olio soddisfano
le condizioni relative alla capacità massima, al sistema di chiusura e all’etichettatura,
previste all’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002.
L’apposizione di un sistema di chiusura adeguato sul recipiente solo al
momento della sua consegna al consumatore finale non è tale da soddisfare
all’obiettivo perseguito con l’imposizione di tale sistema, in quanto i rischi
di pregiudizio all’autenticità dell’olio d’oliva e dell’olio di sansa di oliva si
collocano ad uno stadio anteriore a tale consegna.
45. (...) l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 dev’essere
interpretato nel senso che vieta un modo di commercializzazione, come
quello utilizzato dal ricorrente nella causa principale, che non soddisfi le
condizioni stabilite da tale disposizione.
Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 novembre 2006, nel procedimento
C-315/05 – Lidl Italia Srl contro Comune di Arcole (VR).
La Jürgen Weber GmbH produce in Germania una bevanda alcolica,
denominata «amaro alle erbe», sulla cui etichetta viene indicato un titolo
alcolometrico volumico di 35%.
Le competenti autorità sanitarie regionali italiane prelevavano cinque
campioni di tale bevanda in un punto di vendita, appartenente alla rete della
Lidl Italia, situato a Monselice.
Dalle analisi di tali campioni, effettuate in laboratorio il 17 marzo 2003,
risultava un titolo alcolometrico volumico effettivo del 33,91%, inferiore a
quello menzionato nell’etichetta del prodotto interessato.
Successivamente, la Lidl Italia chiedeva una controperizia. A tal fine,
altri campioni del prodotto controverso venivano prelevati e le analisi di
questi ultimi, effettuate da un laboratorio il 20 novembre 2003, rivelavano
un titolo alcolometrico volumico effettivo che, per quanto più elevato, e cioè
del 34,54%, era sempre inferiore a quello figurante sull’etichetta del detto
prodotto.
Con verbale del 3 luglio 2003, le competenti autorità sanitarie regionali
contestavano alla Lidl Italia la violazione dell’art. 12, n. 3, lett. d), del
decreto legislativo n. 109/92, in quanto il titolo alcolometrico volumico effettivo
della bevanda in questione era inferiore a quello figurante sulla sua etichetta,
tenendo conto del margine di tolleranza dello 0,3%.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 187
Al termine di un procedimento amministrativo, il Comune di Arcole, con
provvedimento del suo direttore generale del 23 dicembre 2004, constatava
l’esistenza di un’infrazione e, ai sensi dell’art. 18, n. 3, del decreto legislativo
n. 109/92, ingiungeva alla Lidl Italia di pagare una sanzione amministrativa
pecuniaria di EUR 3 115.
La Lidl Italia proponeva ricorso contro tale provvedimento amministrativo
dinanzi al Giudice di pace di Monselice.
Questi, ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se la direttiva 2000/13/CE (…), per quanto riguarda i prodotti preconfezionati
di cui all’articolo 1 della [detta] direttiva (…), debba essere
interpretata nel senso che gli obblighi normativi in essa previsti, ed in particolare
quelli di cui agli articoli 2, 3 e 12, debbano essere considerati imposti
esclusivamente al produttore dell’alimento preconfezionato.
2) In caso di risposta affermativa al primo quesito, se gli articoli 2, 3 e
12 della direttiva 2000/13/CE debbano essere interpretati nel senso che
escludono che il semplice distributore, situato all’interno di uno Stato membro,
di un prodotto preconfezionato (come definito dall’articolo 1 della
direttiva 2000/13/CE) da un operatore situato in uno Stato membro diverso
dal primo – possa essere considerato responsabile di una violazione contestata
da un’Autorità pubblica, consistente nella differenza tra il valore
(nella fattispecie titolo alcolometrico) indicato dal produttore sull’etichetta
del prodotto alimentare preconfezionato e venga di conseguenza sanzionato
anche se lo stesso (il semplice distributore) si limita a commercializzare
il prodotto alimentare così come consegnato dal produttore dell’alimento
stesso».
35. Con le sue due questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il
giudice del rinvio chiede sostanzialmente se gli artt. 2, 3 e 12 della direttiva
2000/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa
di uno Stato membro, come quella controversa nella causa principale, che
prevede la possibilità per un operatore, stabilito in tale Stato membro, che
distribuisce una bevanda alcolica destinata ad essere consegnata come tale,
ai sensi dell’art. 1 della detta direttiva, e prodotta da un operatore stabilito in
un altro Stato membro, di essere considerato responsabile di una violazione
di detta normativa, constatata da una pubblica autorità, derivante dall’inesattezza
del titolo alcolometrico volumico indicato dal produttore sull’etichetta
di detto prodotto, e di subire conseguentemente una sanzione amministrativa
pecuniaria, mentre si limita, nella sua qualità di semplice distributore, a
commercializzare tale prodotto così come a lui consegnato dal produttore.
36. L’art. 2, n. 1, della direttiva 2000/13 vieta in particolare che l’etichettatura
e le modalità con le quali essa è effettuata inducano l’acquirente in
errore su una delle caratteristiche dei prodotti alimentari.
37. Questo divieto generale è concretizzato all’art. 3, n. 1, di detta direttiva
che contiene un elenco tassativo di indicazioni che devono obbligatoriamente
figurare nell’etichetta dei prodotti alimentari destinati ad essere consegnati
come tali al consumatore finale.
188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
38. Per quanto riguarda le bevande con contenuto alcolico superiore
all’1,2% in volume, come la bevanda denominata «amaro alle erbe» di cui
trattasi nella causa principale, il punto 10 di detta disposizione impone l’indicazione
del titolo alcolometrico volumico effettivo nell’etichetta delle
bevande stesse.
39. Le modalità per l’indicazione del titolo alcolometrico volumico, di
cui all’art. 12, secondo comma, della direttiva 2000/13, sono disciplinate
dalla direttiva 87/250, il cui art. 3, n. 1, prevede un margine di tolleranza in
più o in meno dello 0,3%.
40. Se discende così dal combinato disposto degli artt. 2, 3 e 12 della
direttiva 2000/13 che l’etichettatura di talune bevande alcoliche, come quella
di cui trattasi nella causa principale, deve indicare, salvo un certo margine
di tolleranza, il titolo alcolometrico volumico effettivo di queste ultime,
non è meno vero che tale direttiva, contrariamente ad altri atti comunitari che
impongono obblighi in materia di etichettatura (v., in particolare, la direttiva
controversa nella causa C-40/04, in cui è stata pronunciata la sentenza 8 settembre
2005, Yonemoto, Racc. pag. I-7755), non designa l’operatore che
deve adempiere tale obbligo in materia di etichettatura e non contiene neppure
alcuna norma ai fini della designazione dell’operatore che può essere
considerato responsabile in caso di violazione di detto obbligo.
42. D’altro canto, secondo una giurisprudenza costante, ai fini dell’interpretazione
di una norma di diritto comunitario si deve tener conto non soltanto
del suo tenore letterale, ma anche del sistema e del contesto della
norma e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (v., in questo
senso, in particolare, sentenze 17 settembre 1997, causa C-83/96, Dega,
Racc. pag. I-5001, punto 15, e 13 novembre 2003, causa C-294/01,
Granarolo, Racc. pag. I-13429, punto 34).
43. Orbene, da un esame sistematico degli artt. 2, 3 e 12 della direttiva
2000/13, del contesto in cui essi si collocano nonché degli obiettivi perseguiti
da tale direttiva risulta una serie sufficiente di indizi concordanti che consentono
di giungere alla conclusione che la direttiva stessa non osta ad una
normativa nazionale, come quella controversa nella causa principale, ai sensi
della quale un distributore può essere considerato responsabile di una violazione
dell’obbligo in materia di etichettatura imposto da dette disposizioni.
44. Infatti, per quanto riguarda, in primo luogo, il sistema delle citate
disposizioni della direttiva 2000/13 e il contesto nel quale esse si collocano,
è importante rilevare che altre disposizioni di tale direttiva si riferiscono ai
distributori nell’ambito dell’adempimento di taluni obblighi in materia di etichettatura.
46. Per quanto riguarda la disposizione, identica a quella di tale punto 7,
di cui all’art. 3, n. 1, punto 6, della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978,
79/112/CEE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri
concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati
al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità (G.U. 1979, L 33,
pag. 1), direttiva abrogata e sostituita dalla direttiva 2000/13, la Corte ha già
dichiarato che tale disposizione ha come obiettivo principale quello di con-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 189
sentire che i responsabili del prodotto, tra i quali, oltre ai produttori e ai condizionatori,
si trovano anche i venditori, siano facilmente identificabili dal
consumatore finale affinché quest’ultimo possa, se del caso, comunicare loro
le sue critiche positive o negative relative al prodotto acquistato (v., in questo
senso, citata sentenza Dega, punti 17 e 18).
47. Per quanto riguarda, in secondo luogo, la finalità della direttiva
2000/13, sia dal sesto ‘considerando’ di tale direttiva sia dal suo art. 2 discende
che essa è stata concepita con l’intento di informare e tutelare il consumatore
finale dei prodotti alimentari, segnatamente per quanto concerne la natura,
l’identità, le qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l’origine
o la provenienza e il modo di fabbricazione o di ottenimento di questi
prodotti (v., per quanto riguarda la direttiva 79/112, citata sentenza Dega,
punto 16).
48. La Corte ha dichiarato che, se una materia non è disciplinata da una
direttiva a causa dell’armonizzazione incompleta che essa comporta, gli Stati
membri restano in linea di principio competenti a prescrivere norme in materia,
purché tuttavia tali norme non siano tali da compromettere seriamente il
risultato prescritto dalla direttiva di cui trattasi (citata sentenza Granarolo,
punto 45).
49.Orbene, una normativa nazionale, come quella controversa nella
causa principale, che prevede, in caso di violazione di un obbligo in materia
di etichettatura imposto dalla direttiva 2000/13, la responsabilità non solo dei
produttori ma anche dei distributori non è assolutamente tale da compromettere
il risultato prescritto da tale direttiva.
51. Questa conclusione non può essere rimessa in discussione dall’argomento,
sollevato dalla Lidl Italia sia dinanzi al giudice del rinvio sia dinanzi
alla Corte, secondo il quale il diritto comunitario imporrebbe il principio
della responsabilità esclusiva del produttore per quanto riguarda l’esattezza
delle indicazioni figuranti nell’etichetta dei prodotti destinati ad essere consegnati
come tali al consumatore finale, principio che risulterebbe anche
dalla direttiva 85/374.
52. Al riguardo, si deve innanzi tutto constatare che il diritto comunitario
non sancisce un siffatto principio generale.
54. Per quanto riguarda poi la direttiva 85/374, è giocoforza constatare
che tale direttiva non è pertinente nel contesto di una situazione come quella
di cui trattasi nella causa principale.
55. Infatti, la responsabilità del distributore per infrazioni alla normativa
in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, che espone detto distributore
in particolare al pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie, è
estranea al campo di applicazione specifico del regime di responsabilità
oggettiva istituito dalla direttiva 85/374.
56. Pertanto, gli eventuali principi in materia di responsabilità che la
direttiva 85/374 comporterebbe non sono trasponibili nel contesto degli
obblighi in materia di etichettatura prescritti dalla direttiva 2000/13.
57. In ogni caso, la direttiva 85/374 prevede effettivamente, al suo art. 3,
n. 3, una responsabilità, per quanto limitata, del fornitore nella sola ipotesi in
190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
cui il produttore non possa essere individuato (sentenza 10 gennaio 2006,
causa C-402/03, Skov e Bilka, Racc. pag. I-199, punto 34).
58. Infine, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante
della Corte relativa all’art. 10 CE, pur conservando la scelta delle sanzioni,
gli Stati membri devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto
comunitario siano punite, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in
forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili
per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa
un carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo (v., in particolare, sentenza
3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02,
Berlusconi e a., Racc. pag. I-3565, punto 65 e giurisprudenza ivi citata).
59. Nei limiti così posti dal diritto comunitario, spetta in linea di principio
al diritto nazionale fissare le modalità secondo le quali un distributore
può essere considerato responsabile di una violazione dell’obbligo in materia
di etichettatura imposto dagli artt. 2, 3 e 12 della direttiva 2000/13 e, in
particolare, disciplinare la ripartizione delle responsabilità rispettive dei vari
operatori che intervengono nell’immissione in commercio del prodotto alimentare
considerato.
RICORSI
– pregiudiziale
Sentenza della Corte, sezione terza, 13 luglio 2006 – V.M. (causa C-
295/04) contro Lloyd Adriatico Assicurazioni SpA, A.C. (causa C-
296/04) contro Fondiaria Sai SpA, e N.T. (causa C-297/04), P.M. (causa
C-298/04) contro Assitalia SpA,
Nell’ambito della collaborazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita
dall’art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale cui è stata sottoposta
la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione
giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa,
sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale ai fini della pronuncia della propria
sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza,
quando le questioni pregiudiziali sollevate vertono sull’interpretazione
del diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire.
Tuttavia, in ipotesi eccezionali, spetta alla Corte esaminare le condizioni
in presenza delle quali è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la
propria competenza. Il rifiuto di statuire su una questione pregiudiziale sollevata
da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti manifestamente
che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta da tale giudice non
ha alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto della causa principale, quando
il problema è di natura teorica o quando la Corte non dispone degli elementi
di fatto e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni
che le vengono sottoposte.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 191
– Ricorso per inadempimento
Sentenza della Corte, sezione seconda, 26 ottobre 2006, nella causa
C-371/04 – Commissione delle Comunità europee, contro Repubblica
italiana.
8. Occorre ricordare, in via preliminare, che la Corte può esaminare
d’ufficio se ricorrano i presupposti previsti dall’art. 226 CE per la proposizione
di un ricorso per inadempimento (v., tra le altre, sentenze 31 marzo
1992, causa C-362/90, Commissione/Italia, Racc. pag. I-2353, punto 8; 27
ottobre 2005, causa C-525/03, Commissione/Italia, Racc. pag. I-9405, punto
8, e 4 maggio 2006, causa C-98/04, Commissione/Regno Unito,
Racc. pag. I-4003, punto 16).
9. In proposito si deve sottolineare che il procedimento precontenzioso ha
lo scopo di dare allo Stato membro interessato la possibilità di conformarsi agli
obblighi che gli derivano dal diritto comunitario o di sviluppare un’utile difesa
contro gli addebiti formulati dalla Commissione (sentenza 2 febbraio 1988,
causa 293/85, Commissione/Belgio, Racc. pag. 305, punto 13, e ordinanza 11
luglio 1995, causa C-266/94, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-1975, punto
16). La regolarità di tale procedimento costituisce così una garanzia essenziale,
prevista dal Trattato CE a tutela dei diritti dello Stato membro di cui trattasi.
Solo quando tale garanzia è rispettata il procedimento in contraddittorio
dinanzi alla Corte può consentire a quest’ultima di stabilire se lo Stato membro
sia effettivamente venuto meno agli obblighi che la Commissione sostiene
esso abbia violato (ordinanza Commissione/Spagna, cit., punti 17 e 18). In particolare,
nel procedimento precontenzioso la lettera di diffida ha lo scopo di
circoscrivere l’oggetto del contendere e di fornire allo Stato membro, invitato
a presentare le sue osservazioni, i dati che gli occorrono per predisporre la propria
difesa (sentenza 5 giugno 2003, causa C-145/01, Commissione/Italia,
Racc. pag. I-5581, punto 17).
– Appello
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 12 settembre 2006, nel procedimento
C-131/03 – Philips Morris International Inc. ed altri contro
Commissione delle Comunità europee.
Nell’ambito della lotta contro il contrabbando di sigarette destinate alla
Comunità europea, la Commissione approvava, il 19 luglio 2000, «la proposizione
di un’azione civile, in nome della Commissione, diretta contro alcuni
produttori americani di sigarette». Essa decideva inoltre d’informarne il
Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) secondo le procedure
previste ed autorizzava il proprio presidente, nonché il membro della
Commissione responsabile del bilancio, a dare istruzioni al servizio giuridico
per l’adozione dei necessari provvedimenti.
192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il 3 novembre 2000 la Comunità europea, rappresentata dalla Commissione
ed «agendo in nome proprio ed in nome degli Stati membri che essa ha
la capacità di rappresentare», proponeva un’azione civile contro diverse
società appartenenti al gruppo Philip Morris (in prosieguo: il «gruppo
Philip Morris») e al gruppo Reynolds (in prosieguo: il «gruppo Reynolds»)
nonché contro la società Japan Tobacco, Inc. (in prosieguo: la «Japan
Tobacco»), dinanzi alla United States District Court, Eastern District of New
York, una giurisdizione federale degli Stati Uniti d’America (in prosieguo: la
«District Court»).
Nell’ambito di tale azione (in prosieguo: la «prima azione»), la
Comunità deduceva la partecipazione delle ricorrenti, imprese produttrici di
tabacco, ad un sistema di contrabbando per l’introduzione e la distribuzione
di sigarette sul territorio della Comunità europea. La Comunità mirava,
in particolare, ad ottenere il risarcimento del danno derivante da tale sistema
di contrabbando e consistente, principalmente, nella perdita dei dazi
doganali e dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) che sarebbero stati versati
in caso di regolare importazione, nonché la pronuncia di ingiunzioni dirette
a far cessare il comportamento delittuoso.
La Comunità fondava le proprie domande su una legge federale statunitense,
il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act del 1970
(legge sul riciclaggio dei proventi del crimine; in prosieguo il «RICO»),
nonché su alcune teorie di common law, vale a dire le teorie della common
law fraud, della public nuisance e dell’unjust enrichment. Il RICO si propone
di combattere la criminalità organizzata, in particolare facilitando la perseguibilità
dei reati commessi dagli operatori economici. A tal fine esso conferisce
legittimazione ad agire alle parti civili. Per incentivare le azioni civili,
il RICO prevede che l’attore possa ottenere un risarcimento corrispondente
al triplo del danno effettivamente subìto (treble damages).
La causa è ancora pendente innanzi ai giudici americani. La Philps
Morris International inc. e la R.J. Reynolds Tobacco Holdings Inc. ed associate
hanno presentato ricorso nelle cause T-377/00, T-379/00 e T-380/00,
diretto all’annullamento della decisione della Commissione di proporre la
prima azione, nonché, nelle cause T-379/00 e T-380/00, diretto all’annullamento
di un’eventuale decisione del Consiglio in merito.
Con separati atti, depositati nella cancelleria del Tribunale il 29 gennaio
2001, il Consiglio e la Commissione hanno sollevato, per ognuna di tali
cause, un’eccezione di irricevibilità ai sensi dell’art. 114 del regolamento di
procedura del Tribunale.
Le eccezioni di irricevibilità della Commissione sono fondate ciascuna
su un unico motivo, vertente sul fatto che gli atti impugnati non potrebbero
formare oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE. Alcuni
intervenienti fanno inoltre valere che le ricorrenti non sarebbero direttamente
ed individualmente interessate dagli atti impugnati e che non avrebbero
interesse ad agire.
Con riguardo all’unico motivo dedotto dalla Commissione, gli argomenti
delle parti riguardano tre aspetti della questione della ricevibilità dei pre-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 193
senti ricorsi. In primo luogo, le parti sviluppano argomenti relativi alla natura
delle decisioni della Commissione 19 luglio 2000 e 25 luglio 2001 (in prosieguo:
gli «atti impugnati»). In secondo luogo, esse procedono all’analisi
dei differenti effetti che tali atti possono produrre. In terzo luogo, esse discutono
determinate considerazioni di ordine generale svolte dalla
Commissione a fondamento della propria posizione.
49. In via preliminare occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza,
dagli artt. 225 CE, 58, primo comma, dello Statuto della Corte di
giustizia e 112, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura della Corte risulta che
un ricorso avverso una sentenza del Tribunale deve indicare in modo preciso gli
elementi contestati della sentenza di cui si chiede l’annullamento nonché gli
argomenti di diritto dedotti a specifico sostegno di tale domanda (v., in particolare,
sentenze 4 luglio 2000, causa C-352/98 P, Bergaderm e Goupil/Commissione,
Racc. pag. I-5291, punto 34; 8 gennaio 2002, causa C-248/99 P,
Francia/Monsanto e Commissione, Racc. pag. I-1, punto 68, e 6 marzo 2003,
causa C-41/00 P, Interporc/Commissione, Racc. pag. I-2125, punto 15).
50. Non risponde dunque ai requisiti di motivazione stabiliti da queste
disposizioni un ricorso di impugnazione che si limiti a ripetere o a riprodurre
pedissequamente i motivi e gli argomenti già presentati dinanzi al Tribunale,
ivi compresi gli argomenti di fatto da questo espressamente disattesi (v., in particolare,
ordinanza 25 marzo 1998, causa C-174/97 P, FFSA e a./Commissione,
Racc. pag. I-1303, punto 24, e sentenza Interporc/Commissione, cit., punto
16). Infatti, un’impugnazione di tal genere costituisce in realtà una domanda
diretta ad ottenere un semplice riesame del ricorso presentato dinanzi al
Tribunale, il che esula dalla competenza della Corte (v. ordinanza 26 settembre
1994, causa C-26/94 P, X/Commissione, Racc. pag. I-4379, punto 13, e
sentenza Bergaderm e Goupil/Commissione, cit., punto 35).
51. Tuttavia, qualora un ricorrente contesti l’interpretazione o l’applicazione
del diritto comunitario effettuata dal Tribunale, i punti di diritto esaminati
in primo grado possono essere di nuovo discussi nel corso di un’impugnazione
(v. sentenza 13 luglio 2000, causa C-210/98 P, Salzgitter/Commissione,
Racc. pag. I-5843, punto 43). Infatti, se un ricorrente non potesse così basare
l’impugnazione su motivi e argomenti già utilizzati dinanzi al Tribunale, il procedimento
d’impugnazione sarebbe privato di una parte di significato (v., in
particolare, ordinanza FNAB e a./Consiglio, punti 30 e 31, nonché sentenze 16
maggio 2002, causa C-321/99 P, ARAP e a./Commissione, Racc. pag. I-4287,
punto 49, e Interporc/Commissione, cit., punto 17).
54. Per quanto riguarda la prima parte di tale motivo, come giustamente
ricordato dal Tribunale al punto 77 della sentenza impugnata, per costante
giurisprudenza costituiscono atti o decisioni che possono essere oggetto di
un ricorso di annullamento soltanto i provvedimenti che producono effetti
giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi di chi li impugna, modificando
in misura rilevante la situazione giuridica di questo (v., in particolare,
sentenza IBM/Commissione, citata, punto 9; ordinanza 4 ottobre 1991,
causa C-117/91, Bosman/Commissione, Racc. pag. I-4837, punto 13, e sen-
194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tenza 9 dicembre 2004, causa C-123/03 P, Commissione/Greencore,
Racc. pag. I-11647, punto 44).
55. Pertanto, diversamente da quanto sostengono le ricorrenti, sono
esenti dal controllo giurisdizionale previsto dall’art. 230 CE non solo gli atti
preparatori, ma tutti gli atti che non producono effetti giuridici vincolanti
idonei ad incidere sugli interessi del singolo, quali gli atti confermativi e gli
atti di mera esecuzione (v., in particolare, sentenza 1° dicembre 2005, causa
C-46/03, Regno Unito/Commissione, Racc. pag. I-10167, punto 25), le semplici
raccomandazioni e pareri (sentenza 23 novembre 1995, causa C-476/93
P, Nutral/Commissione, Racc. pag. I-4125, punto 30) e, in linea di principio,
le istruzioni di servizio (v. sentenza Francia/Commissione, cit., punto 9).
56. Quindi il Tribunale non è incorso in un errore di diritto deducendo
dalla circostanza che le decisioni controverse non producevano effetti giuridici
vincolanti ai sensi dell’art. 230 CE che esse non erano suscettibili di formare
oggetto di un ricorso, senza limitare la portata di tale soluzione ai soli
atti preparatori.
58. Quanto alla seconda parte, nei limiti in cui essa non si confonde con
la terza, la quarta e la quinta, occorre constatare che il Tribunale ha giustamente
rilevato, al punto 47 della citata sentenza Commissione/Germania,
che se il fatto di adire un giudice è un atto indispensabile per ottenere una
decisione giurisdizionale vincolante, di per sé non determina in maniera definitiva
gli obblighi delle parti della controversia, di modo che, a fortiori, la
decisione di avviare un’azione giurisdizionale non modifica, di per sé, la
situazione giuridica controversa.
61. Quanto alla terza parte, ancora una volta a ragione il Tribunale ha
dichiarato, al punto 105 della sentenza impugnata, che l’applicazione, da
parte del giudice, delle proprie norme procedurali costituisce una delle conseguenze
necessariamente connesse al fatto di adire qualsiasi organo giurisdizionale
e non può essere qualificata come effetto giuridico, ai sensi dell’art.
230 CE, della decisione di proporre un ricorso.
62. Va aggiunto che la possibilità di qualificare le decisioni controverse
della Commissione come atti giuridici impugnabili ai sensi della giurisprudenza
di cui al punto 54 di questa sentenza non può essere fatta dipendere
dalla circostanza che se la Commissione avesse adito un giudice di uno Stato
membro sarebbe stato possibile un rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE nell’ambito
del procedimento così avviato.
64. Aproposito della quarta parte del primo motivo, il Tribunale ha interpretato
correttamente la citata sentenza Spagna/Commissione (punti 12-20),
specificando che da tale sentenza risulta che la decisione di avviare l’esame
degli aiuti di Stato produce effetti giuridici ai sensi dell’art. 230 CE. Infatti,
dalla valutazione e dalla qualificazione degli aiuti considerati, e dalla scelta
della procedura che ne risulta, derivano determinate conseguenze giuridiche.
Il mero fatto che la Commissione, attraverso le decisioni controverse, abbia
operato una scelta relativa al procedimento da avviare contro le ricorrenti,
escludendo in tal modo altri procedimenti, non può, di per sé, costituire un
effetto giuridico nel senso previsto dal detto articolo.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 195
66. Riguardo alla quinta parte del motivo, come ha giustamente rilevato
il Tribunale, se le decisioni controverse, come ogni atto di un’istituzione,
implicano in via accessoria una decisione del loro autore quanto alla propria
competenza ad adottarle, siffatta decisione non può tuttavia essere qualificata,
di per sé, come effetto giuridico vincolante ai sensi dell’art. 230 CE, come
interpretato dalla giurisprudenza.
67. Per quanto riguarda l’utilizzo di risorse di bilancio, implicitamente
autorizzato dalle decisioni controverse per avviare e seguire le azioni in
esame, è sufficiente constatare che tale circostanza non incide sull’accertamento
del fatto se le dette decisioni producano effetti giuridici vincolanti
idonei ad incidere sugli interessi delle ricorrenti modificando significativamente
la loro situazione giuridica.
74. Le ricorrenti affermano che il Tribunale le ha private della tutela giurisdizionale
effettiva e ha commesso un errore di diritto avendo considerato,
al punto 123 della sentenza impugnata, che il criterio pertinente in tale materia
è l’accesso al giudice piuttosto che l’esistenza di ricorsi effettivi, cui fa
riferimento la giurisprudenza. A tale riguardo, esse fanno valere la sentenza
25 luglio 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio
(Racc. pag. I-6677, punto 39).
75. Inoltre, il fatto che la Corte, nelle sentenze Unión de Pequeños
Agricultores/Consiglio, cit. (punto 40), e 2 aprile 1998, causa C-321/95 P,
Greenpeace Council e a./Commissione (Racc. pag. I-1651), abbia menzionato
l’esistenza di un sistema completo di rimedi giurisdizionali e di procedimenti
inteso a garantire il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni,
senza tuttavia includervi l’art. 288 CE, dimostrerebbe l’inesattezza della
tesi, enunciata dal Tribunale al punto 123 della sentenza impugnata, secondo
cui non è in contrasto con l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva
il fatto di non considerare ricevibile un ricorso di annullamento a causa
della possibilità di proporre un ricorso per responsabilità extracontrattuale
sulla base del detto articolo. Per di più, la mera incompetenza delle istituzioni
comunitarie non farebbe sorgere la responsabilità extracontrattuale della
Comunità, così che un ricorso per risarcimento non basterebbe a fornire alle
ricorrenti un’effettiva tutela giurisdizionale.
76. La Commissione sostiene che il principio della effettiva tutela giurisdizionale
garantisce la tutela contro gli atti delle istituzioni comunitarie idonei
a violare i diritti e le libertà riconosciute dal diritto comunitario, ossia gli
atti che producono effetti giuridici sugli interessati. Orbene, a suo avviso le
decisioni controverse non costituiscono atti di questo genere.
79. Anzitutto occorre dichiarare che il Tribunale, al punto 123 della
sentenza impugnata, si è giustamente fondato sul principio che i provvedimenti
che non producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere
sugli interessi dei singoli non possono formare oggetto di un ricorso di
annullamento.
80. È vero che, come ricordato al punto 121 della detta sentenza,
mediante gli artt. 230 CE e 241 CE, da un lato, e l’art. 234 CE, dall’altro, il
Trattato istituisce un sistema completo di rimedi giuridici e di procedimenti
196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
inteso ad affidare alla Corte di giustizia il controllo della legittimità degli atti
delle istituzioni (v. citate sentenze Les Verts/Parlamento, punto 23; Foto-
Frost, punto 16, e 6 dicembre 2005, causa C-461/03, Gaston Schul Douaneexpediteur,
Racc. pag. I-10513, punto 22).
81. Tuttavia, rimane il fatto che, sebbene il requisito relativo agli effetti
giuridici vincolanti, idonei ad incidere sugli interessi del ricorrente modificando
significativamente la sua situazione giuridica, debba essere interpretato
alla luce del principio di una tutela giurisdizionale effettiva, tale interpretazione
non può condurre ad escludere questo requisito senza eccedere le
competenze attribuite dal Trattato ai giudici comunitari (v., per analogia,
quanto al requisito secondo cui la persona fisica o giuridica ricorrente deve
essere individualmente interessata dall’atto impugnato, sentenza Unión de
Pequeños Agricultores/Consiglio, cit., punto 44).
82. Il Tribunale ha avuto ancora una volta ragione quando ha dichiarato,
al punto 123 della sentenza impugnata, che anche se i singoli non possono
proporre un ricorso di annullamento contro siffatte misure, essi non sono
però privati dell’accesso al giudice, poiché resta aperta la via del ricorso per
responsabilità extracontrattuale, previsto negli artt. 235 CE e 288, secondo
comma, CE se un simile comportamento è di natura tale da far sorgere la
responsabilità della Comunità.
83. Siffatto ricorso non fa parte del sistema di controllo della validità
degli atti comunitari che producono effetti giuridici vincolanti idonei ad
incidere sugli interessi del ricorrente, ma è a disposizione quando una parte
ha subito un danno dovuto al comportamento illegittimo di un’istituzione.
84. Inoltre, la circostanza che magari le ricorrenti non siano in grado di
dimostrare l’esistenza di un comportamento illegittimo da parte delle istituzioni
comunitarie, o del danno lamentato, o ancora del nesso causale tra siffatto
comportamento e siffatto danno subito, non significa che gli sarà negata
la tutela giurisdizionale effettiva.
86. Le ricorrenti sottolineano che nessuna disposizione del Trattato e
nessun atto di diritto derivato legittima la Comunità ad intentare un’azione
giudiziaria fuori dall’ordinamento giuridico comunitario, né autorizza
la Commissione ad adottare un atto esecutivo per la riscossione dei dazi
doganali e dell’IVA. A tale riguardo, le ricorrenti osservano che l’art. 211
CE non è una norma generale di autorizzazione che rende irrilevante
l’art. 7 CE. Quindi, dato che le decisioni controverse sarebbero manifestamente
illegittime, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare i ricorsi di annullamento
ricevibili, in conformità alla citata sentenza IBM/Commissione.
87. Quanto alla citata ordinanza FNAB e a./Consiglio, richiamata dal
Tribunale ai punti 87 e 88 della sentenza impugnata, le ricorrenti affermano
che la Corte, quando al punto 40 di tale ordinanza si è rifatta ai «criteri di
ricevibilità espressamente fissati dal Trattato», si riferiva ai requisiti relativi
all’interesse diretto ed individuale menzionati all’art. 230, quarto comma,
CE, a prescindere dal fatto che, in circostanze eccezionali, provvedimenti
sprovvisti anche della più vaga apparenza di regolarità possano formare
oggetto di ricorsi di annullamento.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 197
88. Ad ogni modo, le ricorrenti sostengono che il Tribunale ha applicato
in modo errato la giurisprudenza risultante, tra l’altro, dalle sentenze 9 ottobre
1990, Francia/Commissione, citata, e 16 giugno 1993, causa C-325/91,
Francia/Commissione (Racc. pag. I-3283), ed ha commesso una violazione
di una forma sostanziale non avendo riunito la questione della ricevibilità al
merito.
89. La Commissione ritiene, in primo luogo, che questo motivo sia irricevibile
in quanto gli argomenti sviluppati sono solo la ripetizione di quelli
che erano stati sollevati in primo grado.
90. In secondo luogo, essa osserva che, dinanzi al Tribunale, le parti legittimate
a ricorrere ex art. 230, secondo comma, CE, sulle cui prerogative istituzionali
incide direttamente una presa di posizione unilaterale della
Commissione sulla sua competenza, hanno sostenuto molto chiaramente il
diritto della Commissione di adottare le decisioni controverse. La stessa
Commissione avrebbe inoltre ricordato le prerogative in materia di rappresentanza
della Comunità conferitele dall’art. 282 CE, che costituirebbe un’applicazione
del principio generale secondo cui solo la Commissione è autorizzata
a rappresentare la Comunità dinanzi ai tribunali. Nella replica all’istanza di
rigetto presentata dinanzi alla District Court, la Commissione si sarebbe fondata
sull’art. 211 CE, oltre che su altri articoli del Trattato. Quindi, posto che
la Commissione, per lo meno a priori, dispone della competenza in questione,
non si può sostenere che ci sia incompetenza manifesta, né che le decisioni
controverse siano prive della più vaga apparenza di regolarità.
91. In terzo luogo, quanto alla citata ordinanza FNAB e a./Consiglio, e
all’argomento delle ricorrenti secondo cui il Tribunale avrebbe dovuto riunire
la questione della ricevibilità al merito, la Commissione ricorda che, per
poter contestare una decisione, il singolo deve anzitutto dimostrare che essa
abbia prodotto taluni effetti giuridici definitivi, il che non sarebbe avvenuto.
93. Inoltre, non è necessario pronunciarsi sul punto se dalla citata sentenza
IBM/Commissione risulti che, in circostanze eccezionali, i ricorsi di
annullamento diretti contro misure prive della più vaga apparenza di regolarità
debbano essere dichiarati ricevibili. Occorre infatti constatare che, palesemente,
tale situazione non si riscontra nel caso di specie.
94. Basta infatti rilevare che, in proposito, l’art. 211 CE prevede che la
Commissione vigila sull’applicazione delle disposizioni del Trattato e delle
disposizioni adottate in virtù di esso; che, conformemente all’art. 281 CE, la
Comunità ha personalità giuridica e che l’art. 282 CE – il quale, sebbene il
suo disposto si limiti agli Stati membri, costituisce l’espressione d’un principio
generale – precisa che la Comunità possiede la capacità giuridica e a
tal fine è rappresentata dalla Commissione.
95. Per quanto riguarda la censura secondo la quale il Tribunale avrebbe
dovuto riunire la valutazione dell’eccezione di irricevibilità al merito, si deve
dichiarare che, contrariamente a quanto accadeva nelle sentenze citate dalle
ricorrenti, la valutazione della fondatezza dell’eccezione di irricevibilità sollevata
dinanzi al Tribunale non dipendeva, nel caso di specie, da quella che
doveva essere svolta sui motivi di merito fatti valere dalle ricorrenti.
198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
97. Le ricorrenti affermano che, concludendo che la District Court poteva
dirimere tutte le controversie relative alla competenza della Commissione ad
avviare i procedimenti in questione negli Stati Uniti, il Tribunale ha optato per
una soluzione in contrasto con l’art. 292 CE e con il sistema dei Trattati.
98. L’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario sarebbe infatti
compromessa da qualsiasi sistema extracomunitario in base al quale la
Comunità e le sue istituzioni risultassero vincolate da una particolare interpretazione
delle norme di diritto comunitario nell’esercizio delle loro competenze
interne (v., in particolare, pareri 14 dicembre 1991, n. 1, Racc. pag.
I-6079, punti 41-46, e 18 aprile 2002, n. 1, Racc. pag. I-3493, punto 45). Ciò
si verificherebbe se la District Court decidesse sulla competenza della
Commissione ad intentare azioni in uno Stato terzo per recuperare dazi doganali
ed IVA che si ritiene non siano stati versati.
99. La Commissione rammenta, innanzi tutto, che l’art. 292 CE riguarda
gli Stati membri e non essa stessa.
100. Essa afferma poi che la Comunità non cerca di sostituire alla Corte
la District Court in qualità di arbitro di questioni di diritto comunitario. Tutti
gli argomenti relativi alla legittimazione ed alla competenza della
Commissione suscettibili di essere presentati dalle ricorrenti dinanzi alla
District Court sarebbero trattati da essa allo stesso modo di qualsiasi altra
questione preliminare risultante da un’azione civile proposta contro di esse
dalla Comunità. Quando risulta necessario tener conto del diritto comunitario
al fine dell’applicazione delle disposizioni del suo ordinamento giuridico,
la District Court raccoglierebbe tutte le informazioni a tal fine richieste.
101. Quanto alla scelta del giudice, per la Commissione si tratterrebbe di
una questione di strategia. Essa farebbe in modo di intentare azioni o intervenire
nei procedimenti nello Stato in cui si sono svolte le attività incriminate
o in cui avrà luogo l’esecuzione. La District Court sarebbe il giudice competente
per la giurisdizione cui sono assoggettate una o più ricorrenti e in cui
hanno avuto luogo le attività illecite. Pertanto, si tratterebbe del giudice che
si trova nella posizione migliore per ottenere l’auspicata effettiva esecuzione
della sentenza.
102. Occorre dichiarare che, contrariamente a quanto sostengono le
ricorrenti, la decisione di un giudice statunitense sulla competenza della
Commissione ad intentare dinanzi ad esso un’azione giudiziaria non è idonea
a vincolare la Comunità e le sue istituzioni, nell’esercizio delle loro competenze
interne, ad una particolare interpretazione delle norme di diritto
comunitario. Infatti, come osservato dall’avvocato generale al paragrafo 90
delle conclusioni, siffatta decisione sarebbe vincolante solamente in relazione
ad uno specifico procedimento.
– Mancata esecuzione del giudicato ( art. 228 CE )
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 18 luglio 2006, nella causa C-
119/04 – Commissione delle Comunità europee contro Italia.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 199
La Corte di giustizia con sentenza 26 giugno 2001 in causa Commissione
delle Comunità Europee contro Italia in causa C- 212/99 ha dichiarato
e statuito «La Repubblica italiana, non avendo assicurato il riconoscimento
dei diritti quesiti agli ex lettori (…), divenuti collaboratori [ed esperti]
linguistici, riconoscimento invece garantito alla generalità dei lavoratori
nazionali, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art.
[39 CE]» Con lettera 31 gennaio 2002 la Commissione ha ricordato
alle autorità italiane la necessità di conformarsi agli obblighi derivanti
dalla citata sentenza Commissione/Italia. Con lettere 10 aprile, 8 luglio e 16
ottobre 2002 dette autorità hanno risposto a tale lettera di sollecito comunicando
alla Commissione i seguenti elementi:
– copia di una lettera, del 27 marzo 2002, con la quale il Ministro
dell’Istruzione, Università e Ricerca italiano invitava le Università interessate
a conformarsi a quanto stabilito dalla citata sentenza
Commissione/Italia, entro un termine di 45 giorni;
– l’informazione relativa agli atti adottati dalle dette Università per «assicurare
agli ex lettori (…) il riconoscimento dell’anzianità del servizio prestato,
sulla base di quanto stabilito dalla sentenza della Corte di giustizia»;
– spiegazioni sul contenuto e sugli effetti delle decisioni prese da ciascuna
di dette Università.
In seguito a tali comunicazioni la Commissione ha chiesto alle autorità
italiane, con lettera 11 dicembre 2002, chiarimenti sul metodo e sui criteri
applicati dalle Università interessate per calcolare l’ammontare degli
aumenti di retribuzione concessi agli ex lettori inseriti dal 1994 nel ruolo di
nuova istituzione dei collaboratori ed esperti linguistici.
Il governo italiano ha risposto a tale domanda con lettera 24 gennaio
2003, comunicando alla Commissione un’ipotesi di accordo riguardante il
CCNL – secondo biennio economico 2000-2001, stipulato il 18 dicembre
2002 fra l’agenzia governativa di negoziazione dei contratti di lavoro del
pubblico impiego (ARAN) e le organizzazioni sindacali del personale universitario.
Tale progetto conteneva una specifica normativa per i collaboratori
ed esperti linguistici (ex lettori), al fine di «rispettare la sentenza della Corte
di giustizia del 26 giugno 2001 nella causa C-212/99».
Ritenendo che tali misure non dimostrassero che era stato posto fine
all’inadempimento, il 30 aprile 2003 la Commissione ha inviato alla
Repubblica italiana un parere motivato nel quale concludeva che, non avendo
adottato tutti i provvedimenti che l’esecuzione della citata sentenza
Commissione/Italia comporta, tale Stato membro era venuto meno agli
obblighi ad esso incombenti in forza dell’art. 39 CE. La Commissione ricordava
al detto Stato membro che, se la controversia fosse stata portata dinanzi
alla Corte, essa avrebbe proposto la condanna di quest’ultimo ad una
penalità. Inoltre, il detto parere motivato prevedeva che la Repubblica italiana
adottasse i provvedimenti necessari per conformarsi al parere stesso
entro un termine di due mesi a partire dalla sua notifica.
In risposta al detto parere motivato il governo italiano ha fatto pervenire
alla Commissione svariati documenti, fra i quali figuravano in particola-
200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
re le lettere 16 giugno e 12 novembre 2003, con cui venivano comunicati a
quest’ultima, rispettivamente, la versione definitiva del CCNL, concluso il
13 maggio 2003, e gli adempimenti che le amministrazioni competenti intendevano
adottare a breve scadenza. Il 28 gennaio 2004 tale governo ha trasmesso
alla Commissione una copia del decreto legge n. 2/2004.
Alla luce di quanto sopra la Commissione, ritenendo che la Repubblica
italiana non avesse dato piena esecuzione alla citata sentenza
Commissione/Italia, ha deciso di proporre il presente ricorso.
25. In via preliminare, occorre ricordare che uno Stato membro non può
eccepire disposizioni, prassi o situazioni del suo ordinamento giuridico interno
per giustificare l’inosservanza degli obblighi risultanti dal diritto comunitario
(v., in particolare, sentenze Commissione/Italia, cit., punto 34, e 9 settembre
2004, causa C-195/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7857,
punto 82).
26. Pertanto, non può essere accolto l’argomento fatto valere dalla
Repubblica italiana secondo il quale il problema del riconoscimento dei
diritti quesiti degli ex lettori dev’essere valutato alla luce del sistema italiano
di regolamentazione del rapporto di lavoro, sistema fondato sulla contrattazione
collettiva.
27. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante, la data di riferimento per
valutare l’esistenza di un inadempimento ai sensi dell’art. 228 CE si colloca alla
scadenza del termine fissato nel parere motivato emesso in forza della detta
disposizione (v. sentenze 12 luglio 2005, causa C-304/02, Commissione/
Francia, Racc. pag. I-6263, punto 30, e 14 marzo 2006, causa C-177/04,
Commissione/Francia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20).
29. Come risulta dai punti 21 e 22 della citata sentenza
Commissione/Italia, il principio di parità di trattamento previsto
all’art. 39 CE imponeva che gli ex lettori, che sono stati vincolati da un contratto
di lavoro a tempo determinato, conservassero, al momento della sostituzione
di tale contratto con un contratto a tempo indeterminato, tutti i loro
diritti quesiti sin dalla data della loro prima assunzione. Tale garanzia aveva
conseguenze non solo sotto il profilo degli aumenti di retribuzione, ma anche
sull’anzianità e sul versamento, da parte del datore di lavoro, dei contributi
previdenziali.
30. Risulta dagli atti che, in esecuzione della citata sentenza
Commissione/Italia, la Repubblica italiana ha attuato, in una prima fase, i
seguenti provvedimenti:
– all’Università di Milano, un contratto collettivo relativo ai collaboratori
ed esperti linguistici, firmato il 27 novembre 1999, aveva previsto che
l’attività esercitata da questi ultimi in quanto lettori di lingua straniera dovesse
essere presa in considerazione per determinarne la retribuzione. In seguito,
tale Università, con lettera 7 maggio 2002, ha informato il governo italiano
del fatto che le retribuzioni dei collaboratori ed esperti linguistici erano
state aumentate e che gli arretrati di retribuzione erano stati calcolati sulla
base di un massimale di 450 ore annue di insegnamento;
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 201
– all’Università di Pisa, con decisioni del direttore amministrativo, in
data 13 marzo 2002, e del rettore, in data 10 maggio 2002, gli ex lettori beneficiano
degli arretrati di retribuzione in base a tre fasce di anzianità;
– una decisione del direttore amministrativo dell’Università «La
Sapienza» di Roma, in data 17 maggio 2002, ha stabilito che l’anzianità degli
ex lettori fosse calcolata sulla base di 400 ore annue di insegnamento;
– l’Università di Palermo ha annunciato, con lettera 27 maggio 2002, che
stava per procedere all’adeguamento della retribuzione degli ex lettori sulla
base dei calcoli che erano in corso;
– con decisione del rettore dell’Istituto universitario orientale di Napoli,
in data 20 maggio 2002, i collaboratori ed esperti linguistici hanno beneficiato
degli arretrati di retribuzione calcolati sulla base di 318 ore annue di
insegnamento;
– una decisione del direttore amministrativo dell’Università della
Basilicata, in data 22 maggio 2002, ha fissato l’anzianità dei collaboratori ed
esperti linguistici in relazione a cinque fasce e ad una base forfetaria di 400
ore annue di insegnamento.
31. Questi provvedimenti non potevano essere considerati come sufficienti
né come definitivi ai fini dell’esecuzione della citata sentenza
Commissione/Italia, e lo stesso governo italiano non li ha considerati tali.
33. Poiché la Commissione ha concluso per la condanna della
Repubblica italiana al pagamento di una penalità, occorre accertare se l’inadempimento
contestato sia perdurato sino all’esame dei fatti da parte della
Corte (v. citate sentenze 12 luglio 2005, Commissione/Francia, punto 31, e
14 marzo 2006, Commissione/Francia, punto 21).
34. Il 14 gennaio 2004 la Repubblica italiana ha adottato il decreto legge
n. 2/2004 il cui scopo era quello di fornire il quadro normativo e finanziario
necessario perché ciascuna delle Università interessate fosse finalmente in
grado di procedere alla ricostruzione precisa della carriera degli ex lettori.
35. Il quadro normativo stabilito dal decreto legge n. 2/2004 è fondato
su due principi in forza dei quali, salvo trattamenti eventualmente più favorevoli:
– la ricostruzione della carriera degli ex lettori è effettuata prendendo
come parametro di riferimento la retribuzione dei ricercatori confermati a
tempo parziale;
– tale retribuzione è riconosciuta agli ex lettori proporzionalmente al
numero di ore di lavoro fornite, tenendo conto del fatto che l’impegno pieno
corrisponde a 500 ore annue di insegnamento.
38. Alla luce di quanto precede, la Corte non è in grado, sulla base degli
elementi forniti dalla Commissione, di constatare il carattere inadeguato dei
parametri indicati ai punti 36 e 37 della presente sentenza, tanto più che
risulta chiaramente che la loro applicazione non osta a che, in casi particolari,
la ricostruzione della carriera degli ex lettori possa essere effettuata sulla
base di trattamenti più favorevoli.
39. Non può pertanto ritenersi che il decreto legge n. 2/2004 abbia fornito
un quadro normativo scorretto per mettere ciascuna delle Università
202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
interessate in grado di procedere alla ricostruzione precisa della carriera
degli ex lettori.
40. Resta da verificare se le azioni condotte dalle Università interessate
dopo l’adozione del decreto legge n. 2/2004 abbiano raggiunto gli obiettivi
annunciati.
41. Secondo la giurisprudenza della Corte, spetta alla Commissione, nell’ambito
del presente procedimento, fornire alla Corte gli elementi necessari
per stabilire il livello di esecuzione da parte di uno Stato membro di una
sentenza di condanna per inadempimento (sentenza 4 luglio 2000, causa
C-387/97, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-5047, punto 73). Inoltre, dato
che la Commissione ha fornito sufficienti elementi da cui risulta la persistenza
dell’inadempimento, spetta allo Stato membro interessato contestare in
modo approfondito e particolareggiato i dati prodotti e le conseguenze che
ne derivano (sentenza 12 luglio 2005, Commissione/Francia, cit., punto 56).
42. Occorre constatare che, oltre alle dichiarazioni delle Università interessate
attestanti che il riconoscimento completo dei diritti quesiti degli ex
lettori era stato effettuato, il governo italiano ha presentato prospetti dettagliati
relativi all’attuazione di tale riconoscimento in ciascuna delle dette
Università.
44. Tuttavia, i dati forniti alla Corte non possono rimettere in discussione
le informazioni menzionate al punto 42 della presente sentenza.
45. Di conseguenza, non esistono elementi sufficienti per permettere alla
Corte di concludere che, alla data dell’esame dei fatti da parte di quest’ultima,
l’inadempimento persista.
46. Quindi, l’irrogazione di una penalità non si giustifica.
47. Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dichiarare che,
non avendo assicurato, alla data di scadenza del termine impartito nel parere
motivato, il riconoscimento dei diritti quesiti agli ex lettori, divenuti collaboratori
ed esperti linguistici, mentre tale riconoscimento era garantito alla
generalità dei lavoratori nazionali, la Repubblica italiana non ha attuato tutti
i provvedimenti che l’esecuzione della citata sentenza Commissione/Italia
comportava ed è pertanto venuta meno agli obblighi che le incombono in
forza dell’art. 228 CE.
– Pregiudiziale
Sentenza della Corte, Grande Sezione, 5 dicembre 2006, procedimenti
riuniti C-94/04 e c-202/04 – F.C. contro R.P. in F.
25. Per quanto riguarda le eccezioni di irricevibilità sollevate
dall’avv. C., si deve ricordare che le questioni relative all’interpretazione del
diritto comunitario proposte dal giudice nazionale nell’ambito del contesto
di diritto e di fatto che egli individua sotto la propria responsabilità, del quale
non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di
rilevanza (v. sentenza 15 maggio 2003, causa C-300/01, Salzmann,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 203
Racc. pag. I-4899, punti 29 e 31). Il rigetto, da parte della Corte, di una
domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora
appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario
richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale,
qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte
non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in
modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenze
13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I-2099,
punto 39, e 15 giugno 2006, causa C-466/04, Acereda Herrera,
Racc. pag. I-5341, punto 48).
26. Ebbene, tale presunzione di rilevanza non può essere messa in
discussione dalla semplice circostanza che una delle parti nella causa principale
contesti taluni fatti, come quelli rilevati al punto 22 della presente sentenza,
di cui non spetta alla Corte verificare l’esattezza e dai quali dipende la
definizione dell’oggetto della controversia.
27. Si deve pertanto rilevare che, come risulta dalla decisione di rinvio,
la causa principale riguarda la necessità di determinare se l’accordo concluso
tra una cliente e il suo avvocato, relativamente al compenso forfettario di
quest’ultimo, esista e debba essere ritenuto valido, in quanto la sua sostituzione
d’ufficio con un calcolo del compenso dell’avvocato sulla base della
tariffa vigente nello Stato membro interessato non sarebbe conforme alle
norme comunitarie in materia di concorrenza.
28. Si deve a tale proposito rilevare che non appare manifesto che l’interpretazione
delle regole comunitarie richiesta dal giudice del rinvio sia
priva di ogni rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale, né
che le questioni relative all’interpretazione di tali regole siano ipotetiche.
29. Pertanto, anche qualora si ritenesse non dimostrata l’esistenza dell’accordo
di cui trattasi nella causa principale, non si può escludere che l’interpretazione
del diritto comunitario richiesta dal giudice del rinvio, che può
consentire a quest’ultimo di valutare la compatibilità della tariffa con le
norme sulla concorrenza fissate dal Trattato, possa essere utile a tale giudice
per decidere la controversia ad esso sottoposta. Essa, infatti, riguarda essenzialmente
la liquidazione degli onorari di avvocato che, come rilevato al
punto 5 della presente sentenza, è compiuta dall’autorità giudiziaria mantenendosi,
salvo eccezioni, nei limiti massimo e minimo previamente fissati
dal Ministro della Giustizia.
30. Per quanto infine riguarda più specificamente le questioni relative
all’interpretazione dell’art. 49 CE, sebbene sia pacifico che tutti gli elementi
della controversia sottoposta al giudice del rinvio sono limitati all’interno
di un unico Stato membro, una risposta può tuttavia essere utile al giudice
del rinvio, in particolare nel caso in cui il diritto nazionale imponga, in un
procedimento come quello in esame, di riconoscere ad un cittadino italiano
gli stessi diritti di cui godrebbe nella medesima situazione, in base al diritto
comunitario, un cittadino di uno Stato diverso dalla Repubblica italiana (v.,
in particolare, sentenza 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari
Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 29).
204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– Procedimento di infrazione
Sentenza della Corte, 30 novembre 2006, nella causa C-293/05 –
Commissione delle Comunità europee contro Italia.
19. (...) secondo una costante giurisprudenza, in un ricorso per inadempimento
la fase precontenziosa del procedimento ha lo scopo di offrire allo
Stato membro interessato l’opportunità, da un lato, di conformarsi agli obblighi
ad esso incombenti in forza del diritto comunitario e, dall’altro, di far
valere utilmente i suoi motivi di difesa contro gli addebiti formulati dalla
Commissione (v., in particolare, sentenza 24 giugno 2004, causa C-350/02,
Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. I-6213, punto 18 e giurisprudenza ivi
richiamata).
20. La regolarità di tale procedimento costituisce una garanzia essenziale
prevista dal Trattato CE non soltanto a tutela dei diritti dello Stato membro
di cui trattasi, ma anche per garantire che l’eventuale procedimento contenzioso
verta su una controversia chiaramente definita (v., in particolare,
citata sentenza Commissione/Paesi Bassi, punto 19 e giurisprudenza ivi
richiamata).
21. L’oggetto di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 226 CE è pertanto
determinato dalla fase precontenziosa del procedimento prevista dalla medesima
disposizione. Il parere motivato della Commissione ed il ricorso devono
essere basati sui medesimi motivi e mezzi, di modo che la Corte non può
esaminare una censura che non sia stata sollevata nel parere motivato, il
quale deve contenere un’esposizione coerente e particolareggiata delle ragioni
che hanno indotto la Commissione al convincimento che lo Stato membro
interessato sia venuto meno ad un obbligo ad esso incombente in forza del
Trattato (v., in tal senso, citata sentenza Commissione/Paesi Bassi, punto 20
e giurisprudenza ivi richiamata).
22. In pratica, l’avvio di un procedimento di infrazione nei confronti di
uno Stato membro è preceduto da una fase informale nel corso della quale la
Commissione cerca di ottenere tutte le informazioni che essa ritiene necessarie
al fine, e quindi prima, di procedere, eventualmente, all’invio di una lettera
di diffida.
23. Nella fattispecie, dopo aver analizzato le informazioni contenute
nella denuncia ad essa presentata, la Commissione ha chiesto alle autorità
italiane di fornirle un certo numero di chiarimenti. Lo scambio di lettere che
ne è conseguito costituisce precisamente questa fase preliminare al procedimento
d’infrazione propriamente detto, il quale ha avuto inizio formalmente
con l’invio della lettera di diffida, in data 17 ottobre 2003.
24. In tale contesto, non si può utilmente sostenere che il riferimento, nella
lettera di diffida, ad un articolo della direttiva di cui non è stata fatta menzione
nella fase preliminare, ha posto la Repubblica italiana nell’impossibilità di
adempiere i suoi obblighi o di far valere utilmente i suoi motivi di difesa.
25. Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana secondo
cui il termine che è stato ad essa impartito nel parere motivato era insuffi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 205
ciente, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte, il duplice
scopo perseguito dalla fase precontenziosa del procedimento (v. punto 19
della presente sentenza) impone alla Commissione di concedere agli Stati
membri un termine ragionevole per rispondere alla lettera di diffida e per
conformarsi al parere motivato o, eventualmente, per preparare la propria
difesa. Per valutare la ragionevolezza del termine impartito, si deve tener
conto del complesso delle circostanze caratterizzanti la fattispecie (v. sentenze
2 febbraio 1988, causa 293/85, Commissione/Belgio, Racc. pag. 305,
punto 14, e 28 ottobre 1999, causa C-328/96, Commissione/Austria, Racc.
pag. I-7479, punto 51).
26. Nella fattispecie, la Repubblica italiana ha avuto un termine di circa
sei anni per conformarsi alle disposizioni dell’art. 5, nn. 2 e 5, della direttiva,
ossia dal 31 dicembre 1998, data limite dell’adempimento stabilita da
tale direttiva, al 9 settembre 2004, data di scadenza del termine fissato nel
parere motivato.
Sentenza della Corte, prima sezione, 27 aprile 2006, nel procedimento
C-441/02 – Commissione delle Comunità europee c. Repubblica di
Germania.
La lettera di diffida inviata dalla Commissione allo Stato membro e poi
il parere motivato emesso dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 CE delimitano
la materia del contendere, che quindi non può più essere ampliata. Di
conseguenza, il parere motivato e il ricorso della Commissione devono vertere
sugli stessi addebiti già mossi nella lettera di diffida che apre il procedimento
precontenzioso.
Tuttavia, non si potrà esigere in ogni caso una perfetta coincidenza tra
l’esposizione degli addebiti nella lettera di diffida, il dispositivo del parere
motivato e le conclusioni del ricorso, quando l’oggetto della controversia
non sia stato ampliato o modificato ma, al contrario, semplicemente ridotto.
TELECOMUNICAZIONI
Sentenza della Corte, sezione terza, 18 luglio 2006, nel procedimento
C-339/04 – Nuova società di telecomunicazioni SpA e Ministero delle
Comunicazioni, ENI SpA.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 10 aprile 1997, 97/13/CE,
relativa ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di
licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazione (G.U. L 117,
pag. 15). Questa domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra
la Nuova società di telecomunicazioni S.p.A. (in prosieguo: la «NST») e il
Ministero delle Comunicazioni in merito al versamento di un canone per l’uso
206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
privato di una rete di telecomunicazioni. Con le sue due questioni, il Consiglio
di Stato chiede in sostanza se l’art. 11 della direttiva 97/13 osti a una normativa
nazionale, quale quella di cui alla causa principale, la quale assoggetta
una società titolare di una licenza individuale per l’esercizio di una rete pubblica
di telecomunicazioni, per la quale ha versato un contributo in base a
quanto disposto dal detto articolo, al versamento di un contributo aggiuntivo
in relazione all’uso privato della detta rete. Il governo italiano asserisce che
la direttiva 97/13 non si applica alle reti o ai servizi di telecomunicazione privati,
bensì unicamente a reti o a servizi di telecomunicazione pubblici. Di conseguenza,
esso ritiene che la detta direttiva non osti alla riscossione di un contributo
aggiuntivo, quale il secondo contributo di cui alla causa principale,
riguardo all’uso privato di una rete di telecomunicazioni.
26. A tale proposito occorre costatare che, ai sensi dell’art. 1, n. 1, della
direttiva 97/13, quest’ultima riguarda le procedure connesse alla concessione
di autorizzazioni ai fini della prestazione di servizi di telecomunicazione,
senza distinguere tra le reti aperte al pubblico e le reti private.
27. Inoltre, l’art. 7, n. 2, di detta direttiva autorizza gli Stati membri a
prevedere un sistema di licenze individuali per la creazione e la fornitura di
reti di telecomunicazione pubbliche nonché di altre reti che prevedano l’utilizzo
di frequenze radio.
28. Di conseguenza detta direttiva si applica, in linea di principio, non
solo alle reti e ai servizi pubblici di telecomunicazione, bensì anche alle reti
private di telecomunicazione che non siano state aperte al pubblico e siano
riservate a un circolo chiuso di utenti nonché ai servizi forniti su tali reti private.
30. Atale riguardo occorre ricordare che, conformemente al quinto ‘considerando’
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 30 giugno
1997, 97/33/CE, sull’interconnessione nel settore delle telecomunicazioni e
finalizzata a garantire il servizio universale e l’interoperabilità attraverso
l’applicazione dei principi di fornitura di una rete aperta (ONP) (G.U. L 199,
pag. 32), il termine «pubblico» va riferito a qualsiasi rete o servizio messo a
disposizione del pubblico affinché sia utilizzato dai terzi.
31. Inoltre, dall’art. 2, punto 2, secondo comma, della direttiva del
Consiglio 28 giugno 1990, 90/387/CEE, sull’istituzione del mercato interno
per i servizi delle telecomunicazioni mediante la realizzazione della fornitura
di una rete aperta di telecomunicazioni (G.U. L 192, pag. 1), nella versione
modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 ottobre
1997, 97/51/CE (G.U. L 295, pag. 23), si evince che con «rete pubblica
di telecomunicazione» si intende una rete di telecomunicazione «utilizzata,
in tutto o in parte, per fornire servizi di telecomunicazione a disposizione del
pubblico».
32. Ne discende che una rete quale quella di cui alla causa principale,
che è stata messa a disposizione del pubblico dopo essere stata usata unicamente
a fini privati, deve essere considerata come una rete pubblica di telecomunicazione
ai sensi della direttiva 97/13.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 207
33. Di conseguenza, una rete di telecomunicazioni di tal genere nonché
tutti i servizi forniti tramite quest’ultima rientrano integralmente nella sfera
di applicazione di questa direttiva.
35. A questo proposito occorre rilevare che gli Stati membri non possono
riscuotere, per le procedure di autorizzazione, tasse o canoni diversi da
quelli previsti dalla direttiva 97/13 (v., in tal senso, sentenza Albacom e
Infostrada, cit., punto 41).
37. Ebbene, dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni presentate alla
Corte si evince che il secondo contributo è stato calcolato conformemente ai
criteri previsti dal codice prima della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni,
i quali non corrispondevano a quelli previsti dall’art. 11 della
direttiva 97/13.
38. L’art. 11 della direttiva 97/13 osta a una normativa nazionale, quale
quella di cui alla causa principale, la quale assoggetta il titolare di una licenza
individuale per l’esercizio di una rete pubblica di telecomunicazioni, per
la quale ha versato un contributo in base a quanto disposto dal detto articolo,
al versamento di un contributo aggiuntivo in relazione all’uso privato
della detta rete e calcolato in base a criteri che non corrispondono a quelli
previsti dal citato articolo.
Avv. Maurizio Fiorilli
208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Le misure cautelari nei confronti
di atti legislativi in contrasto
con il diritto comunitario
(Corte di Giustizia delle Comunità europee,
ordinanze 19 dicembre 2006 e 27 febbraio 2007)
L’ordine di sospensione della L. Reg. Liguria n. 36/2006
Il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione contro
l’Italia ai sensi dell’art. 226 T.C.E., avente ad oggetto la L. Reg. Liguria, n.
36/2006 per violazione dell’art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979,
79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, ha visto
l’instaurazione del procedimento cautelare (C-503/06 R).
La Commissione ha infatti presentato, ai sensi degli artt. 242-243 T.C.E.,
una domanda di provvedimenti provvisori intesa ad ottenere, nei confronti
della Repubblica italiana, un’ingiunzione ad adottare le misure necessarie
per sospendere l’esecuzione della legge nella parte controversa.
Aparere della Commissione la legge n. 36/2006 rimetterebbe sostanzialmente
in vigore una disciplina anteriore, vale a dire la legge n. 34/2001
(Attuazione dell’articolo 9 della direttiva comunitaria 79/409/CEE del 2
aprile 1979 sulla conservazione degli uccelli selvatici) rispetto alla quale le
autorità italiane avevano in precedenza ammesso la contrarietà alla Dir.
79/409; inoltre, con riguardo all’urgenza, si sottolinea che la prosecuzione
della caccia agli storni, come consentita dalla legge n. 36, rischi di causare
un danno grave e irreparabile al patrimonio faunistico e ornitologico.
Con ordinanza in epigrafe (1) il Presidente della Corte ha ingiunto, a titolo
conservativo, all’Italia di sospendere l’esecuzione della legge contestata fino
alla pronuncia dell’ordinanza che ponga fine al procedimento sommario (2).
La tutela cautelare nei confronti degli atti legislativi
L’art. 242 T.C.E. stabilisce che “i ricorsi proposti alla Corte di giustizia
non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, la Corte può, quando reputi che le
(1) Per un primo commento STEFUTTI, Ancora sul prelievo venatorio in deroga.
Ingiunta da Bruxelles la sospensione della L.R. 31 ottobre 2006 n. 36 della Regione Liguria,
in www.dirittoambiente.com.
(2) Il procedimento cautelare potrà concludersi con un’ordinanza di proroga dell’efficacia
del provvedimento cautelare fino alla pronuncia sul merito del ricorso ovvero di revoca
dello stesso.
LE DECISIONI
circostanze lo richiedano, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto
impugnato” (3).
Il potere di adottare provvedimenti sospensivi è stato dalla Corte riconosciuto
anche in capo ai giudici nazionali con riferimento ai provvedimenti
nazionali di esecuzione di atti comunitari di cui risulta contestata la validità
ai sensi dell’art. 234 T.C.E.
Oltre alla sospensione degli atti delle istituzioni, la Corte può disporre
provvedimenti provvisori atipici. Infatti, in virtù dell’art. 243 T.C.E., “la
Corte di giustizia, negli affari che le sono proposti, può ordinare i provvedimenti
provvisori necessari” (4). Nella prassi i provvedimenti provvisori si
sostanziano in un’ingiunzione con cui si chiede agli Stati membri di sospendere
l’applicazione di determinati atti.
Anche per la concessione dei provvedimenti provvisori, che segue lo
stesso iter procedurale previsto per la sospensiva di cui all’art. 242 T.C.E.,
occorre la previa instaurazione di un giudizio di merito innanzi alla Corte,
chiamata a giudicare della validità di un atto ovvero l’inadempimento dello
Stato rispetto agli obblighi del Trattato. In sede comunitaria non è infatti possibile
proporre una istanza cautelare ante causam.
L’art. 84, n. 2 del regolamento di procedura della Corte di Giustizia, consente
invece al Presidente di “accogliere una domanda di provvedimenti
provvisori anche prima che l’altra parte abbia presentato le sue osservazioni”,
con la possibilità che tale provvedimento possa essere successivamente
modificato o revocato anche d’ufficio.
La lettura dell’ordinanza 19 dicembre 2006 consente di evidenziare i
presupposti di un provvedimento cautelare inaudita altera parte.
L’adozione di un tale provvedimento risulta subordinata ad una valutazione
sommaria sulla non infondatezza degli argomenti addotti dalla parte a
sostegno del ricorso (fumus boni iuris) e sulla sussistenza di circostanze che
giustifichino la necessaria urgenza della concessione del provvedimento
provvisorio immediato (periculum in mora), nonché ad un bilanciamento di
interessi, la “buona amministrazione della giustizia” e gli obiettivi che l’atto
controverso si propone di raggiungere, che non devono essere “seriamente”
pregiudicati dalla ritardata applicazione.
La possibilità per il giudice comunitario di ordinare la sospensione di un
atto legislativo che si assume in contrasto con il diritto comunitario costituisce
210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(3) Per una breve ricostruzione sulla tutela cautelare innanzi al giudice comunitario sia
consentito rinviare al mio Ancora sul divieto di circolazione nel Land Tirolo (Corte Ce, ord.
30 luglio 2003, 2 ottobre 2003, 27 aprile 2004), in questa Rivista, 2006, II, 109.
(4) Le disposizioni degli artt. 242-243 T.C.E. sono riprodotte in maniera analoga nell’articolo
III-379 della Costituzione europea che stabilisce che: «I ricorsi proposti alla Corte
di giustizia dell’Unione europea non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, la Corte può, quando
reputi che le circostanze lo richiedono, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto
impugnato. La Corte di giustizia dell’Unione europea, nelle cause che le sono proposte, può
ordinare le misure provvisorie necessarie».
un potere di non poco rilievo se si considera che, nel diritto interno, fino a non
molto tempo fa, al giudice costituzionale non era consentito adottare un simile
provvedimento in pendenza di una questione di legittimità costituzionale,
sia che questa fosse stata proposta in via incidentale, sia in via principale.
L’art. 9 della legge n. 131 del 2003, modificando l’art. 35 della legge n.
87/1953, ha introdotto, limitatamente al giudizio in via principale, un potere
d’ufficio di sospensione dell’atto impugnato, qualora la sua esecuzione
«possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico
o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un
pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini» (5).
In sede di conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni l’art. 40 della legge
n. 87/1953 attribuisce poi espressamente alla Corte il potere di disporre, con
ordinanza motivata, la sospensione degli atti oggetto del conflitto in presenza
di gravi ragioni (6).
In proposito l’art. 28 delle norme integrative per i giudizi innanzi alla
Corte precisa che la sospensione può essere richiesta in qualsiasi momento,
anche all’udienza di discussione, e che viene concessa con un provvedimento
adottato in camera di consiglio uditi i rappresentanti delle parti, che possono
presentare documenti e memorie.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 211
(5) Per un’analisi dei presupposti e i limiti del potere di sospensione di cui all’art. 35 si
vedano, CARETTI, Il contenzioso costituzionale, in FALCON (a cura di), Stato, regioni ed enti
locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, 2003, PINELLI, Art. 9, in AA.VV., Legge “La Loggia”,
Commento alla legge 5 giugno 2003 n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione,
Rimini, 2003, LAMARQUE, Articolo 9, in CAVALERI - LAMARQUE (a cura di), L’attuazione del
nuovo Titolo V, parte seconda, della Costituzione. Commento alla legge “La Loggia” (Legge
5 giugno 2003, n. 131), Torino, 2004, DRAGO, I ricorsi in via d’azione tra attuazione del Titolo
V e giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 2004, 4815. Sull’ammissibilità dell’istanza
cautelare proposta dalla regione nei confronti di una legge statale si veda di recente Corte cost.
ordinanza 22 giugno 2006, n. 245, in www.giurcost.org, con nota di MILAZZO, L’impugnativa
regionale del “codice dell’ambiente”: un’occasione per qualche riflessione sulla struttura ed
i limiti del potere di sospensione delle leggi nell’ambito dei giudizi in via d’azione introdotti
dalle regioni, in corso di pubblicazione in Le Regioni, 2007, I.
(6) Nell’accertamento delle «gravi» ragioni che, nei conflitti di attribuzione tra Stato e
Regioni, legittimano la sospensione dell’atto impugnato la Corte dà rilievo, oltre all’incidenza
dell’atto sui rapporti giuridici cui si riferisce, anche alla sussistenza del fumus boni iuris: sul
punto si vedano PIZZORUSSO, La tutela cautelare nei giudizi costituzionali sui conflitti tra enti,
in I processi speciali (Studi offerti a V. Andrioli), Napoli, 1979, 304 e segg., AZZENA,
Irreparabilità del danno e «gravi ragioni» per la sospensione nei conflitti di attribuzione fra
Stato e Regioni, in Le Regioni, 1980, 143 e segg., MOR, La sentenza sospesa, in Le Regioni,
1980, 1023 e segg., VOLPE, Garanzie costituzionali. Art. 137, in Commentario alla
Costituzione a cura di Branca, Bologna-Roma, 1981, GRASSI, Il giudizio costituzionale sui
conflitti di attribuzione tra Stato e regioni e tra regioni, Milano, 1985, 287 e segg. La valutazione
della configurabilità del rimedio cautelare anche nei conflitti di attribuzione tra poteri
resta è ritenuta dalla Corte «impregiudicata» ma in concreto manca una espressa statuizione
sulla configurabilità del rimedio (così Corte cost. 5 giugno 1997, n. 171, in www.giurcost.org
con nota di LOLLI, La sospensione cautelare di atti impugnati nel conflitto fra poteri: ancora
un’occasione mancata dalla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1997, 1735 e segg.).
Diversamente una legge ritenuta incostituzionale, in ragione di una presunzione
di legittimità riconosciuta in ossequio al principio del favor legislatoris,
continua a produrre medio tempore i suoi effetti. Conseguentemente
le disposizioni di un atto legislativo illegittimo non potranno essere disapplicate
da alcun organo dello Stato, essendo riservato al giudice a quo il potere
di “sospenderne” l’applicazione sollevando la questione di legittimità e
disponendo la sospensione del processo in corso (7).
Gli effetti eventualmente prodotti sono destinati ad essere irreversibili,
nonostante l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità, in presenza
dei c.d. diritti quesiti, e quando siano, per loro natura, irreversibili (come
risulterebbe nel caso di specie).
È pur vero che la parte potrà aver ottenuto la sospensione degli atti pregiudizievoli,
adottati in esecuzione della legge della cui costituzionalità si
dubita, secondo l’ordinario procedimento cautelare. Ciò peraltro non esclude
la possibilità che sia rimessa alla Corte la questione di legittimità.
Il giudice costituzionale ha infatti più volte ribadito che il giudice amministrativo
ben può sollevare la questione di legittimità in sede cautelare, sia
quando non provveda sulla relativa domanda, sia quando conceda la relativa
misura, «purché tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte a suo
fondamento, nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in
quella sede il giudice amministrativo fruisce: con la conseguenza che la questione
di legittimità è inammissibile – oltre che, ovviamente, se la misura è
espressamente negata (ordinanza n. 82 del 2005) – quando essa sia concessa
sulla base di ragioni, quanto al fumus boni juris, che prescindono dalla non
manifesta infondatezza della questione stessa (sentenza n. 451 del 1993)»
viceversa quando la misura cautelare è fondata, quanto al fumus, sulla non
manifesta infondatezza la «potestas judicandi non può ritenersi esaurita (…)
dovendosi in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato
ritenere di carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio
cautelare dopo l’incidente di costituzionalità» (8).
Il rilevato favor legislatoris risulta invece parzialmente oscurato laddove
l’illegittimità sia contestata, come nel caso di specie, con ricorso diretto a
livello comunitario: in presenza dei presupposti in precedenza enunciati, l’esecuzione
dell’atto legislativo oggetto di una questione comunitaria sarà
212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(7) Sulla sorte degli atti amministrativi adottati in esecuzione di una disposizione di
legge poi dichiarata incostituzionale si veda CERRI, Corso di giustizia costituzionale,
Milano, 1994, 228.
(8) Così da ultimo Corte cost., ord. 25 gennaio 2006, n. 25. Tali principi sono richiamati
anche in molte pronunce del giudice amministrativo (da ultimo Cons. Stato, VI, ord, 24
marzo 2000, n. 1431) in cui si precisa che «il giudice che intenda sospendere un provvedimento
basato su una legge sospetta di incostituzionalità, deve sollevare contestualmente
incidente di legittimità costituzionale e sospendere l’atto impugnato in via provvisoria fino
all’esito della definizione dell’incidente medesimo», così confermando la pregiudizialità
della questione di legittimità costituzionale.
posticipata al termine del giudizio cautelare ovvero, laddove la misura sia
confermata, alla soluzione della causa nel merito.
L’ottemperanza alla decisione cautelare
Al di là del tenore formale del dispositivo (ordine ovvero dichiarazione
di sospensione), è da escludere che le ordinanze cautelari adottate dalla Corte
di Giustizia abbiano efficacia diretta nell’ordinamento nazionale e che dunque
siano idonee a produrre l’effetto sospensivo a prescindere da un atto formale
dello Stato che ne riproduca il dispositivo.
Si deve pertanto ritenere che la decisione della Corte, che impone la
sospensione dell’atto impugnato, abbia un’efficacia di mero accertamento analoga
alla sentenza pronunciata nell’ambito del procedimento d’infrazione (9) e
che, in caso di inadempienza da parte dello Stato destinatario della stessa, la
Corte possa emanare ex art. 228 T.C.E. a carico dello Stato membro inadempiente
una sentenza di condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria (10).
Nel caso di specie, in ottemperanza alla decisione cautelare il governo
ha adottato il D.L. 27 dicembre 2006, n. 297 recante «disposizioni urgenti
per il recepimento delle direttive comunitarie 2006/48/CE e 2006/49/CE e
per l’adeguamento a decisioni in ambito comunitario relative all’assistenza a
terra negli aeroporti, all’Agenzia nazionale per i giovani e al prelievo venatorio
», esercitando il potere sostitutivo di cui all’art. 120 Cost., così come
disciplinato dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (11).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 213
(9) Gli effetti della sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia nell’ambito del procedimento
d’infrazione sono disciplinati dall’art. 228 T.C.E., secondo cui «quando la Corte
di giustizia riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso
incombenti in virtù del presente trattato, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta»: si tratta dunque di una sentenza
meramente dichiarativa, senza possibilità di esecuzione coattiva mediante l’individuazione
delle misure atte a far cessare l’inadempimento. Gli Stati sono comunque tenuti a
prendere i provvedimenti conseguenti in virtù del principio di leale collaborazione sancito
dall’art. 10 T.C.E. (diffusamente sul punto TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2001,
245). Il Trattato non fa alcun riferimento al termine entro cui debba essere eseguita la sentenza:
tuttavia, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, l’esecuzione deve concludersi
in tempi brevi per garantire l’immediata ed uniforme applicazione del diritto comunitario.
(10) La previsione di una sanzione pecuniaria per l’ipotesi che uno Stato membro non
abbia adottato le misure necessarie a dare esecuzione alla sentenza che riconosce l’inadempimento
è stata introdotta dal Trattato di Maastricht: pertanto, in sede di reiterazione della
procedura di infrazione, la Commissione preciserà l’importo della somma forfetaria o della
penalità di mora che lo Stato potrà essere condannato a versare. In ordine alla quantificazione
delle sanzioni la Commissione ha adottato le Comunicazioni n. 96/C 242/07 del 21 agosto
1996 e n. 97/C 63/02 del 28 febbraio 1997 (cfr. in proposito, TESAURO, Diritto comunitario,
Padova, 2001, 247).
(11) Si veda in proposito CALINI, Un nuovo intervento sostitutivo dello Stato sulle
Regioni per violazione della normativa comunitaria: il D.L. 27 dicembre 2006, n. 297 e
l’“esecuzione” dell’ordinanza del 19 dicembre 2006 del Presidente della Corte di giustizia
dell’Unione europea, in www.giustamm.it, nonché per il precedente esercizio del potere soL’art.
4 stabiliva infatti che «in esecuzione dell’ordinanza del Presidente
della Corte di giustizia delle Comunità europee 19 dicembre 2006, in causa
C-503/06, è sospesa l’applicazione della legge della regione Liguria 31 ottobre
2006, n. 36».
Si trattava dunque di una sospensione temporalmente limitata, la cui
durata non risultava legata solo all’esito della decisione conclusiva della
Corte di Giustizia sulla domanda cautelare, ma anche all’approvazione della
relativa legge-provvedimento di conversione.
Il 30 dicembre 2006 il governo italiano ha presentato le proprie osservazioni
scritte nell’ambito del procedimento cautelare, comunicando di aver impugnato
innanzi alla Corte costituzionale la legge regionale, già prima che fosse
introdotta la fase cautelare della procedura di inadempimento, e concludendo
nel senso della revoca dell’ordinanza cautelare in quanto non più necessaria.
L’art. 4 del D.L. è stato poi convertito senza modificazioni dalla legge
23 febbraio 2007 n. 15.
Il 27 febbraio il Presidente della Corte si è espresso con un’ordinanza di
non luogo a provvedere sul mantenimento della sospensione per mancanza
di oggetto, in considerazione del fatto che la legge regionale impugnata si
applicava alla stagione venatoria 2006/2007, conclusasi il 31 gennaio 2007.
Dott.ssa Chiara Di Seri (*)
Corte di Giustizia delle Comunità europee, ordinanza del Presidente della Corte 19
dicembre 2006(•) nel procedimento C-503/06 R - Domanda di sospensione dell’esecuzione
e di provvedimenti provvisori ai sensi degli artt. 242 CE e 243 CE, proposta il
13 dicembre 2006 - Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana.
«(...) Il Presidente della Corte, sentito il primo avvocato generale, sig.ra J. Kokott, ha
pronunciato la seguente ordinanza.
1.- Con il suo ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di
ordinare alla Repubblica italiana di prendere i provvedimenti necessari per sospendere l’applicazione
della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della dero-
214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
stitutivo per l’adeguamento alla medesima direttiva 79/409/CEE in materia di conservazione
della fauna selvatica ID., D.L. 16 agosto 2006, n. 251: il primo “tentativo” di intervento
sostitutivo a seguito della legge 5 giugno 2003, n. 131, in www.giustamm.it e BILANCIA,
Obblighi comunitari sulla caccia: un decreto legge prevede un intervento sostitutivo
“urgente” e l’abrogazione di leggi regionali in contrasto, in www.federalismi.it. In generale
sul potere sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, Cost., si veda il recente studio
di FONTANA, Alla ricerca di uno statuto giuridico dei poteri sostitutivi ex art. 120, comma 2
Cost., in Nuovi rapporti Stato-Regione dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, MODUGNO
– CARNEVALE (a cura di), Milano, 2003.
(*) Dottoranda di ricerca presso la Scuola dottorale Interuniversitaria Internazionale in
Diritto europeo, Storia e Sistemi giuridici dell’Europa, Università degli Studi di Roma Tre.
(•) Lingua processuale: l’italiano.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 215
ga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea
della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici (Bollettino ufficiale
della Regione Liguria 2 novembre 2006, n. 16, pag. 697; in prosieguo: la «legge regionale
n. 36/2006»), fino alla pronuncia della sentenza di merito.
2.- La Commissione ha anche chiesto, ai sensi dell’art. 84, n. 2, del regolamento di procedura,
che tale domanda sia provvisoriamente accolta prima ancora che l’altra parte abbia
presentato le sue osservazioni, fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del procedimento
sommario.
3.- Tali domande sono state proposte nell’ambito di un ricorso per inadempimento ai
sensi dell’art. 226 CE, presentato dalla Commissione il 13 dicembre 2006 e finalizzato a far
dichiarare che, poiché la Regione Liguria ha adottato ed applicato una normativa che autorizza
deroghe al regime di protezione degli uccelli selvatici senza rispettare le condizioni fissate
dall’art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione
degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1), la Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi ad essa incombenti ai sensi di tale disposizione.
Contesto normativo
4.- La direttiva 79/409 ha per obiettivo la protezione, la gestione e la regolazione di
tutte le specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo degli
Stati membri a cui si applica il Trattato. A tal fine, essa impone agli Stati membri di istituire
un regime generale di tutela che preveda, in particolare, il divieto di uccidere, di catturare
o di disturbare gli uccelli indicati al suo art. 1 e di distruggere i nidi.
5.- L’art. 9 della direttiva 79/409 così prevede:
«1. Sempre che non vi siano altre soluzioni soddisfacenti, gli Stati membri possono
derogare agli articoli 5, 6, 7 e 8 per le seguenti ragioni;
a) – nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica,
– nell’interesse della sicurezza aerea,
– per prevenire gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque,
– per la protezione della flora e della fauna;
b) ai fini della ricerca e dell’insegnamento, del ripopolamento e della reintroduzione
nonché per l’allevamento connesso a tali operazioni;
c) per consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la
detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità.
2. Le deroghe dovranno menzionare:
– le specie che formano oggetto delle medesime,
– i mezzi, gli impianti e i metodi di cattura o di uccisione autorizzati,
– le condizioni di rischio e le circostanze di tempo e di luogo in cui esse possono esser fatte,
– l’autorità abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite sono realizzate e a decidere
quali mezzi, impianti e metodi possano essere utilizzati, entro quali limiti, da quali persone,
– i controlli che saranno effettuati.
3. Gli Stati membri inviano ogni anno alla Commissione una relazione sull’applicazione
del presente articolo.
4. In base alle informazioni di cui dispone, in particolare quelle comunicatele ai sensi del
paragrafo 3, la Commissione vigila costantemente affinché le conseguenze di tali deroghe non
siano incompatibili con la presente direttiva. Essa prende adeguate iniziative in merito».
6.- Lo storno (sturnus vulgaris), essendo una specie indicata nella parte 2, come modificata
dalla direttiva del Consiglio 8 giugno 1994, 94/24/CE (G.U. L 164, pag. 9), dell’allegato
II alla direttiva 79/409, può essere cacciato, ai sensi dell’art. 7, n. 3, della direttiva stessa,
soltanto negli Stati membri per i quali è menzionato. Dal momento che la Repubblica italiana
non rientra fra tali Stati membri, l’eventuale caccia a tale specie deve, per essere lecita,
assumere la forma di una deroga e rispettare le condizioni fissate a tale proposito dall’art.
9 della direttiva 79/409.
7.- La legge regionale n. 36/2006 dispone quanto segue:
«Art. 1 (Disposizioni in materia di conservazione degli uccelli selvatici)
1. Per la stagione venatoria 2006/2007 è autorizzato, sentito l’Istituto Nazionale per la
Fauna Selvatica, per le ragioni previste dall’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea della
direttiva comunitaria 79/409/CEE (…), il prelievo in deroga di esemplari appartenenti alla
specie storno (Sturnus vulgaris) al fine di prevenire gravi danni alle colture olivicole, presenti
nella Regione, con le seguenti modalità:
a) mezzi di prelievo autorizzati: fucile a canna liscia con non più di tre colpi, non sono
consentiti richiami né vivi né elettroacustici;
b) modalità di prelievo: da appostamento fisso o temporaneo, oppure in forma vagante;
c) luogo di applicazione e periodo: su tutto il territorio regionale dalla data di entrata
in vigore della presente legge al 31 gennaio 2007;
d) limite massimo di prelievo giornaliero per soggetto autorizzato: n. 10 capi;
e) limite massimo di prelievo stagionale per soggetto autorizzato: n. 90 capi;
f) giornate aperte al prelievo: tutte le giornate in cui è consentita la caccia alla migratoria
con l’esclusione di martedì e venerdì;
g) controllo: monitoraggio attraverso la certificazione dei prelievi realizzata mediante
apposita scheda di rilevazione.
2. Il prelievo è autorizzato ai cacciatori in possesso del tesserino venatorio regionale
che ne facciano richiesta alla Amministrazione provinciale di competenza e che risultino
essere in possesso dell’apposita scheda di prelievo predisposta dalla Regione, rilasciata dalle
Province.
3. I prelievi devono essere annotati sull’apposita scheda per il prelievo in deroga; entro
il 31 marzo 2007, le schede devono essere restituite alle Province competenti, le quali provvedono,
entro il 30 aprile 2007, ad inviare alla Regione i dati riassuntivi relativi ai prelievi
effettuati.
4. Le funzioni di controllo sono esercitate dai soggetti di cui all’articolo 27 della legge
157/1992.
5. La presente legge regionale è dichiarata urgente ed entra in vigore il giorno stesso
della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione.
È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e farla osservare come legge della
Regione Liguria».
Sulla domanda di pronuncia inaudita altera parte
8.- Ai sensi dell’art. 84, n. 2, del regolamento di procedura, il presidente della Corte
può accogliere provvisoriamente la domanda cautelare anche prima che l’altra parte abbia
presentato le sue osservazioni.
Sul fumus boni iuris
9.- Secondo la Commissione, la legge regionale n. 36/2006 rimette sostanzialmente in
vigore una disciplina anteriore, vale a dire la legge della Regione Liguria 5 ottobre 2001, n.
34, Attuazione dell’articolo 9 della direttiva comunitaria 79/409/CEE del 2 aprile 1979 sulla
216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 217
conservazione degli uccelli selvatici (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 10 ottobre
2001, n. 10), come modificata dalla legge della Regione Liguria 13 agosto 2002, n. 31
(Bollettino ufficiale della Regione Liguria 28 agosto 2002, n. 12) (in prosieguo: la «legge
regionale n. 34/2001 modificata»).
10.- Per quanto riguarda la legge regionale n. 34/2001 modificata, le autorità italiane
avrebbero ammesso la sua contrarietà alla direttiva 79/409. La Commissione precisa a tale
proposito che, in seguito a contatti con le autorità italiane nell’ambito di una procedura di
infrazione relativa a tale legge regionale, quest’ultima legge è stata abrogata e sostituita
dalla legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 35, Attuazione dell’articolo 9 della
direttiva comunitaria 79/409 del 2 aprile 1979 sulla conservazione degli uccelli selvatici.
Misure di salvaguardia per le zone di protezione speciale (Bollettino ufficiale della Regione
Liguria 2 novembre 2006, n. 16, pag. 692; in prosieguo: la «legge regionale n. 35/2006»),
che, ad un primo sommario esame, sembra alla Commissione conforme alle disposizioni
della direttiva 79/409.
11.- Tuttavia, il giorno stesso dell’adozione della legge regionale n. 35/2006, il
Consiglio regionale della Liguria avrebbe adottato la legge regionale n. 36/2006, la quale
contiene, secondo la Commissione, sostanzialmente gli stessi elementi di incompatibilità
con l’art. 9 della direttiva 79/409 contenuti nella legge regionale n. 34/2001 modificata.
12.- La Commissione osserva in proposito, in particolare, che non sarebbe stata verificata
l’inesistenza di altre soluzioni accettabili, che mancherebbe una giustificazione specifica
della necessità di autorizzare il prelievo di un certo numero di esemplari di una determinata
specie al fine di proteggere l’olivicoltura e che la deroga all’art. 9 della direttiva
79/409 effettuata dalla legge regionale n. 36/2006 non sarebbe, contrariamente a quanto
impone il diritto comunitario, di natura eccezionale e specifica. Pertanto la legge regionale
n. 36/2006 autorizzerebbe, come la legge regionale n. 34/2001 modificata, la continuazione
di una pratica regolare della caccia ad uccelli protetti dalla direttiva 79/409.
13.- Poiché la Repubblica italiana, in questa fase del procedimento, non ha ancora
potuto presentare le sue osservazioni sulla domanda cautelare della Commissione, non è al
momento possibile decidere se la Commissione abbia sufficientemente dimostrato, sia in
diritto che in fatto, il fondamento di tale domanda.
14.- Tuttavia, a prima vista gli argomenti presentati dalla Commissione non sembrano
privi di fondamento. Infatti, sebbene la legge regionale n. 36/2006 sia formulata in termini
più precisi della legge regionale n. 34/2001 modificata, resta tuttavia il fatto che essa autorizza
il prelievo venatorio di esemplari appartenenti alla specie degli storni sulla base di condizioni
definite in modo piuttosto ampio, senza che siano indicate le ragioni per le quali è
ritenuto necessario proteggere in tal modo l’olivicoltura della Regione Liguria.
15.- Si deve in proposito osservare che, nonostante alcune precisazioni per quanto
riguarda, in particolare, i metodi di prelievo e i limiti massimi del prelievo stesso, la legge
regionale n. 36/2006 autorizza la caccia agli storni su tutto il territorio della Regione
Liguria, per tutta la stagione venatoria 2006/2007 e da parte di tutti i cacciatori in possesso
del permesso di caccia regionale.
Sull’urgenza
16 .- La legge regionale n. 36/2006, essendo stata dichiarata urgente, ha iniziato a produrre
i suoi effetti dal momento della pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione
Liguria, e continuerà a produrli fino al 31 gennaio 2007. Eventuali provvedimenti cautelari,
per non essere privi di efficacia, dovranno dunque essere disposti prima di tale data.
218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
17.- A ciò si deve aggiungere il fatto che la protezione degli uccelli di cui alla direttiva
79/409 è ritenuta una materia in cui la gestione del patrimonio comune è affidata, per il rispettivo
territorio, agli Stati membri (sentenza 8 giugno 2006, causa C 60/05, WWF Italia e a.,
non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 24). È pacifico che ogni attività di caccia è idonea
a perturbare la fauna selvatica e che essa può, in numerosi casi, condizionare lo stato di
conservazione delle specie considerate, indipendentemente dall’ampiezza dei prelievi ai quali
essa dà luogo. L’eliminazione periodica di individui alimenta infatti, tra le popolazioni oggetto
di caccia, uno stato di allerta permanente che ha conseguenze nefaste su molteplici aspetti
delle loro condizioni di vita (sentenza 19 gennaio 1994, causa C 435/92, Association pour
la protection des animaux sauvages e a., Racc. pag. I 67, punto 16).
18.- Sembra dunque, sulla base delle informazioni disponibili in questa fase del procedimento,
che la prosecuzione della caccia agli storni, come consentita dalla legge regionale n.
36/2006, rischi di causare un danno grave e irreparabile al patrimonio faunistico e ornitologico.
Sul bilanciamento degli interessi
19.- Mentre è sufficientemente dimostrata, ai fini del presente procedimento, la realtà
di un danno grave e irreparabile, a prima vista non appare, per contro, che la sospensione
dell’applicazione della legge regionale n. 36/2006 fino alla pronuncia dell’ordinanza di
chiusura del presente procedimento sommario possa compromettere gravemente l’obiettivo
perseguito da tale legge. Infatti, come è stato rilevato al punto 14 della presente ordinanza,
la lettura delle disposizioni della legge regionale n. 36/2006 non consente di individuare con
precisione le ragioni per le quali è ritenuto necessario raggiungere l’obiettivo perseguito
mediante la deroga prevista da tale legge.
20.- Sulla base di quanto sopra, e tenuto conto delle particolarità della controversia, in
particolare delle condizioni di applicabilità ratione temporis della legge regionale n.
36/2006, come rilevata al punto 16 della presente ordinanza, appare necessario, nell’interesse
di una buona amministrazione della giustizia, ordinare alla Repubblica italiana di sospendere
l’applicazione di tale legge per la stagione venatoria 2006/2007 fino alla pronuncia dell’ordinanza
di chiusura del presente procedimento sommario.
Per questi motivi, il presidente della Corte così provvede:
1) La Repubblica italiana sospenderà l’applicazione della legge della Regione Liguria
31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della deroga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi
dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione
degli uccelli selvatici, fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del presente procedimento
sommario.
2) Le spese sono riservate».
Corte di Giustizia delle Comunità europee, ordinanza del Presidente della Corte 27
febbraio 2007(•) nel procedimento C-503/06 R - Domanda di sospensione dell’esecuzione
e di provvedimenti provvisori ai sensi degli artt. 242 CE e 243 CE, proposta il 13
dicembre 2006 - Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana.
(•) Lingua processuale: l’italiano.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 219
«Il Presidente della Corte, sentito l’avvocato generale, sig.ra J. Kokott, ha emesso la
seguente ordinanza.
1.- Con il ricorso in oggetto la Commissione delle Comunità europee chiede alla
Corte di ordinare alla Repubblica italiana di prendere i provvedimenti necessari per
sospendere l’applicazione della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36,
Attivazione della deroga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9,
comma 1, lettera a), terzo alinea, della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli
uccelli selvatici (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 2 novembre 2006, n. 16, pag.
697; in prosieguo: la «legge regionale n. 36/2006»), fino alla pronuncia della sentenza di
merito.
2.- La Commissione ha anche chiesto, ai sensi dell’art. 84, n. 2, del regolamento di procedura,
che tale domanda sia provvisoriamente accolta prima ancora che l’altra parte abbia
presentato le sue osservazioni, fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del procedimento
sommario.
3.- Tali domande sono state proposte nell’ambito di un ricorso per inadempimento ai
sensi dell’art. 226 CE, presentato dalla Commissione il 13 dicembre 2006 e finalizzato a far
dichiarare che, poiché la Regione Liguria ha adottato e applicato una normativa che autorizza
deroghe al regime di protezione degli uccelli selvatici senza rispettare le condizioni fissate
dall’art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione
degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1), la Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi ad essa incombenti ai sensi di tale disposizione.
Procedimento
4.- Con ordinanza 19 dicembre 2006, causa C-503/06 R, Commissione/Italia (non pubblicata
nella Raccolta), il presidente della Corte ha ordinato alla Repubblica italiana, in via
cautelare, di sospendere l’applicazione della legge regionale n. 36/2006 fino alla pronuncia
dell’ordinanza di chiusura del presente procedimento sommario.
5.- La Repubblica italiana ha presentato osservazioni scritte sulla domanda di provvedimenti
provvisori con telefax del 30 dicembre 2006.
6.- In tali osservazioni, il governo italiano informa la Corte che il Consiglio dei Ministri
della Repubblica italiana ha approvato, in data 22 dicembre 2006, il testo di un decreto legge
avente ad oggetto, tra l’altro, l’adozione dei provvedimenti necessari affinché la Repubblica
italiana si adegui alla citata ordinanza Commissione/Italia (decreto legge 27 dicembre 2006,
n. 297, Disposizioni urgenti per il recepimento delle direttive comunitarie 2006/48/CE e
2006/49/CE e per l’adeguamento a decisioni in ambito comunitario relative all’assistenza a
terra negli aeroporti, all’Agenzia nazionale per i giovani e al prelievo venatorio; Gazzetta
ufficiale della Repubblica italiana n. 299 del 27 dicembre 2006).
7.- L’art. 4 di tale decreto legge statuisce che, «in esecuzione dell’ordinanza
[Commissione/Italia, citata], è sospesa l’applicazione della legge della Regione Liguria 31
ottobre 2006, n. 36». In conformità al suo art. 7, il detto decreto legge è entrato in vigore il
giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, ossia il 27
dicembre 2006.
8.- Il governo italiano precisa che l’utilizzazione di un atto statale di decretazione d’urgenza
per sospendere l’efficacia di una legge regionale, ossia di un atto legislativo che esso
descrive come l’espressione più alta dell’autonomia politica delle regioni, non ha molti precedenti
nell’ordinamento interno.
9.- Tale governo fa inoltre presente di aver deciso, in data 12 dicembre 2006 – quindi
prima della presentazione del ricorso in esame – di contestare la costituzionalità della legge
regionale n. 36/2006 dinanzi alla Corte costituzionale, e ciò per le stesse ragioni fatte valere
dalla Commissione nella sua domanda di provvedimenti provvisori.
10.- Di conseguenza, il governo italiano suggerisce alla Corte, senza tuttavia formulare
una domanda formale in tal senso, di non dar corso ulteriormente al procedimento in
esame, revocando la citata ordinanza Commissione/Italia, in quanto non più necessaria.
11.- Su invito della Corte, la Commissione ha comunicato, con lettera pervenuta in cancelleria
il 1° febbraio 2007, di non aver osservazioni da formulare in merito ad un’eventuale
decisione di non luogo a provvedere. Il governo italiano, a sua volta invitato a pronunciarsi
in proposito, non si è espresso.
Sul seguito del procedimento
12.- Dalle osservazioni del governo italiano emerge che esso, in sostanza, condivide i
motivi per cui la Commissione ritiene che la legge regionale n. 36/2006 sia in contrasto con
la direttiva 79/409.
13.- Tuttavia, dato che la normativa impugnata si applicava alla stagione venatoria
2006/2007 e che tale stagione si è conclusa il 31 gennaio 2007, la questione vertente sulla
necessità di mantenere, oltre tale data, il provvedimento che sospende l’applicazione della
legge regionale n. 36/2006, adottato con la citata ordinanza Commissione/Italia, è divenuta
priva d’oggetto.
Per questi motivi, il presidente della Corte così provvede
1) Non vi è luogo a provvedere sul mantenimento della sospensione dell’applicazione
della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della deroga per la stagione
venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea, della
direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici, disposta con ordinanza 19
dicembre 2006, causa C-503/06 R, Commissione/Italia.
2) Le spese sono riservate».
220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il meccanismo dell’IVA italiana
al vaglio della Corte di Giustizia
(Corte di Giustizia delle Comunità europee,
seconda sezione, sentenza 15 marzo 2007)
La sentenza 15 marzo 2007 di seguito riportata unitamente alle osservazioni
del Governo italiano, assume un particolare rilievo in quanto la Corte
di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi dalla Corte di Cassazione non
solo sul meccanismo del rimborso ex art. 38 ter del d.P.R. n. 633/72 (che
recepisce l’ottava direttiva in materia di IVA, la n. 79/1072/CEE), ma anche
sul rapporto cedente-cessionario (o prestatore-committente) così come configurato
ai fini IVA nel sistema italiano.
La Corte ha sostanzialmente condiviso la posizione del Governo italiano,
salvo un punto che ha formato oggetto di dibattito in udienza. Si tratta
del problema se il cessionario-committente, ancorché non soggetto passivo
dell’imposta, in caso di erronea applicazione dell’IVA su una operazione
esente o non imponibile, possa agire contro lo Stato nell’ipotesi in cui non
riesca a recuperare dal cedente-prestatore l’imposta indebitamente assolta.
La Corte ha aderito alla tesi della Commissione che sosteneva la soluzione
affermativa.
Avv. Gianni De Bellis
Corte di Giustizia delle Comunità europee – Osservazioni del Governo della Repubblica
italiana nella causa C-35/05 - Reemtsma Cigarettenfabriken Gmbh c/ Ministero
dell’Economia e delle Finanze, promossa dalla Corte di Cassazione, Sezione
Tributaria, con ordinanza 19 gennaio 2005 n. 1015 (ct. 23902/05, Avv. dello Stato G.
De Bellis).
«Con ordinanza 19 gennaio 2005 n. 1015, la Corte di Cassazione ha chiesto alla Corte
di Giustizia di pronunciarsi ex art. 234 CE sulle seguenti questioni pregiudiziali:
1) se gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 79/1072/CEE del 6 dicembre
1979, nella parte in cui subordinano il rimborso a favore del cessionario o committente non
residente all’utilizzazione dei beni e servizi per il compimento di operazioni soggette ad
imposta, debbano essere interpretati nel senso che anche l’IVA non dovuta ed erroneamente
addebitata in rivalsa e versata all’erario sia rimborsabile; in caso di risposta affermativa,
se sia contraria alle citate disposizioni della direttiva una norma nazionale che escluda
il rimborso del cessionario/committente non residente in considerazione della non detraibilità
dell’imposta addebitata e versata benché non dovuta;
2) se, in generale, possa ricavarsi dalla disciplina comunitaria uniforme la qualità di
debitore di imposta, nei confronti dell’erario, del cessionario/committente; se sia compatibile
con tale disciplina, e in particolare coi principi di neutralità dell’IVA, di effettività e di
non discriminazione, la mancata attribuzione, nel diritto interno, al cessionario/committente
che sia soggetto IVA, e che la legislazione nazionale considera come destinatario degli
obblighi di fatturazione e di pagamento dell’imposta, di un diritto al rimborso nei confron-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 221
ti dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; se sia contraria
al principi di effettività e di non discriminazione, in tema di rimborso di IVA riscossa in violazione
del diritto comunitario, una disciplina nazionale - ricavata dall’interpretazione
datane dai giudici nazionali - che consente al cessionario/committente di agire solo nei confronti
del cedente/prestatore del servizio, e non nei confronti dell’erario, pur nell’esistenza
nell’ordinamento nazionale di un caso simile, costituito dalla sostituzione nel campo delle
imposte dirette, nel quale entrambi i soggetti (sostituto e sostituito) sono legittimati a chiedere
il rimborso all’erario.
La questione è stata sollevata nell’ambito di un giudizio tributario che vede contrapposti
la società Reemtsma Cigarettenfabriken Gmbh (in seguito “la società”) con sede in
Germania e il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
La società aveva chiesto all’Amministrazione Finanziaria italiana il rimborso delle
somme di £ 37.236.165 (€ 19.230,87) e £ 138.785.860 (€ 71.676,91) che asseriva avere
indebitamente corrisposto nel 1994 a titolo di IVA su operazioni che avrebbero dovuto essere
invece non imponibili in base all’art. 7 comma 4 lettera d) del Decreto del Presidente della
Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (1) (di seguito “il d.P.R. 633/72”). Trattavasi di servizi
di promozione pubblicitaria e marketing resi da un soggetto italiano alla società (soggetto
passivo IVA con sede in altro stato della Comunità).
Non avendo ricevuto risposta, la società proponeva un ricorso giurisdizionale davanti
alle Commissioni Tributarie che respingevano le sue domande sia in primo che in secondo
grado.
La società ricorreva allora alla Corte di Cassazione la quale riteneva indispensabile, per
potersi pronunciare sulla questione sottoposta al suo esame, formulare alla Corte di
Giustizia i quesiti suesposti.
In linea di fatto la Corte di Cassazione precisa che non è contestato in giudizio:
a) che la società abbia la propria sede in Germania e che sia priva di una stabile organizzazione
in Italia;
b) che le operazioni in relazione alle quali chiedeva il rimborso dell’IVA avrebbero
dovuto essere esenti dal tributo.
IL PRIMO QUESITO
La Società aveva fondato la sua domanda di rimborso sull’art. 38 ter del d.P.R. 633/72,
il quale dispone al comma 1:
Esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti - I soggetti domiciliati e residenti negli
Stati membri della Comunità economica europea, senza stabile organizzazione in Italia e
senza rappresentante nominato ai sensi del secondo comma dell’art. 17, assoggettati all’imposta
nello Stato in cui hanno il domicilio o la residenza, che non hanno effettuato operazioni
in Italia, ad eccezione delle prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie non
imponibili ai sensi dell’art. 9, nonché delle prestazioni indicate all’art. 7, quarto comma, lettera
e), possono ottenere, in relazione a periodi inferiori all’anno, il rimborso dell’imposta, se
detraibile a norma dell’art. 19, relative ai beni mobili e ai servizi importati o acquistati, sem-
222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Recante “Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”, pubblicato nella G.U.R.I.
11 novembre 1972, n. 292, S.O.
preché di importo complessivo non inferiore a lire duecentocinquantamila. Se l’importo complessivo
relativo ai periodi infrannuali risulta inferiore a lire duecentocinquantamila il rimborso
spetta annualmente, sempreché di importo non inferiore a lire trentacinquemila.
L’art. 38 ter è stato introdotto in Italia per recepire le disposizioni contenute negli artt. 2 e
5 della direttiva 79/1072/CEE (di seguito “l’ottava direttiva”), i quali a loro volta prevedono:
Art. 2- Ciascuno Stato membro rimborsa ad ogni soggetto passivo non residente all’interno
del Paese, ma residente in un altro Stato membro, alle condizioni stabilite in appresso,
l’imposta sul valore aggiunto applicata a servizi che gli sono resi o beni mobili che gli
sono ceduti all’interno del Paese da altri soggetti passivi, o applicata all’importazione di
beni nel Paese, nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni
di cui all’articolo 17, paragrafo 3, lettere a) e b) della direttiva 77/388/CEE o delle
prestazioni di servizi di cui all’articolo 1, lettera b).
Art. 5- Ai fini della presente direttiva il diritto al rimborso dell’imposta è determinato
conformemente all’articolo 17 della direttiva 77/388/CEE, quale si applica nello Stato
membro del rimborso.
La presente direttiva non si applica alle cessioni di beni esentate o che possono essere
esentate ai sensi dell’articolo 15, punto 2, della direttiva 77/388/CEE.
Con il primo quesito il giudice remittente chiede in sostanza alla Corte se il meccanismo
previsto dai citati articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva, possa essere utilizzato per ottenere
il rimborso dell’imposta non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa (come è avvenuto
nel giudizio a quo).
Il Governo italiano ritiene che al quesito debba essere data risposta negativa.
Lo scopo delle disposizioni citate infatti, come risulta dal secondo “considerando” dell’ottava
direttiva, è quello di “evitare che un soggetto passivo residente all’interno di uno
Stato membro sia gravato in via definitiva dell’imposta che gli è stata fatturata in un altro
Stato membro per cessioni di beni o prestazioni di servizi o che è stata versata per importazioni
in questo altro Stato membro, e si trovi così assoggettato ad una doppia imposizione”.
Si tratta pertanto di un particolare meccanismo che ha la finalità di impedire che l’IVA
assolta da un soggetto IVA con sede in uno Stato membro per una operazione posta in essere
in altro Stato membro, non venga a gravare nei suoi confronti allorché egli avrebbe potuto
dedurla (in Italia si usa il termine detrazione) ai sensi dell’art. 17 della direttiva
77/388/CEE qualora fosse stato residente nello Stato dell’operazione.
Nella fattispecie si discute invece di rimborso dell’imposta a cui l’operazione è stata
erroneamente assoggettata. La sola circostanza che il rimborso sia stato chiesto dal committente
della prestazione, soggetto con sede in altro Stato membro (come tale destinatario,
però ad altri fini, degli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva) non appare motivo idoneo a far rientrare
la fattispecie nel particolare regime previsto dall’art. 38 ter del d.P.R. 633/72 (che ha
recepito gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva).
Ovviamente, la procedura di rimborso ex art. 38 ter non potrà essere utilizzata dalla
società nemmeno per ottenere il rimborso ai sensi degli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva, in
quanto manca il diritto alla detrazione dell’IVA pagata, che costituisce il presupposto indispensabile
per l’accoglimento dell’istanza di rimborso.
Come infatti evidenzia correttamente il giudice remittente (che richiama la sentenza
Genius 13 dicembre 1989 in causa C-342/87, a cui si è adeguata la giurisprudenza della stessa
Corte di Cassazione) “l’erronea indicazione in fattura, e conseguenti addebito e versamento
all’erario, di un’IVA in tutto o in parte non dovuta, mentre impone al cedente/prestatore
del servizio il pagamento dell’imposta, non attribuisce al cessionario o committente
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 223
(che non siano consumatori finali, ma soggetti all’imposta) il diritto alla detrazione, salva la
possibilità, da esercitarsi nelle forme stabilite dal legislatore nazionale, di apportare le
necessarie rettifiche, in modo che sia evitata ogni possibilità di danno all’erario”.
In conclusione la società non può invocare la procedura di cui agli articoli 2 e 5 dell’ottava
direttiva né per ottenere il rimborso dell’imposta indebitamente fatturata, né (eventualmente)
per ottenere il rimborso per l’imposta in quanto non detratta.
La seconda parte del primo quesito, in quanto presuppone una soluzione positiva alla
prima parte, non necessita di risposta.
IL SECONDO QUESITO
Con il secondo quesito il giudice remittente formula in realtà tre diverse domande e
precisamente:
a) se il concessionario–committente possa ritenersi debitore di imposta sulla base della
disciplina comunitaria dell’IVA;
b) se sia compatibile con tale disciplina una normativa nazionale che da un lato considera
il cessionario-committente destinatario degli obblighi di fatturazione e pagamento dell’imposta,
dall’altro gli neghi il diritto al rimborso nei confronti dell’erario nel caso di addebito
e di versamento di imposta non dovuti;
c) se nel caso suddetto una disciplina nazionale, quale quella vigente in Italia, che consenta
al cessionario-committente di agire nei soli confronti del cedente prestatore (e non
anche dell’erario) per ottenere la restituzione dell’IVA indebitamente versata, sia contraria
ai principi di effettività e non discriminazione in tema di rimborso dell’IVA riscossa in violazione
del diritto comunitario, tenuto conto del diverso sistema previsto invece da disposizioni
nazionali in tema di rimborso di imposte dirette.
In relazione al quesito 2-a), il Governo Italiano ritiene che ai fini della vertenza sia sufficiente,
per il giudice remittente, sapere se nel caso sottoposto al suo esame il committente
(la società) della prestazione di servizi che avrebbe dovuto essere esente da imposta (rectius:
non imponibile) possa ritenersi debitore di imposta.
In linea di fatto non è contestato che la fattura con l’IVA indebita è stata emessa dal
prestatore (un soggetto passivo IVA italiano) il quale ha sua volta ha ottenuto dalla società
il pagamento del corrispettivo pattuito oltre all’IVA esposta in fattura.
A tale riguardo occorre ricordare che a norma dell’art. 21 par. 1 della direttiva
77/388/CEE (nel testo vigente all’epoca dei fatti, il 1994, prima della sua sostituzione avvenuta
con l’art. 1 della direttiva 2000/65/CE) l’imposta sul valore aggiunto è dovuta:
1. In regime interno:
a) dai soggetti passivi che eseguono un’operazione imponibile diversa da quelle previste
dall’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), eseguite da un soggetto passivo residente all’estero.
Quando l’operazione imponibile è effettuata da un soggetto passivo residente all’estero gli
Stati membri possono adottare disposizioni secondo cui l’imposta è dovuta da una persona
diversa. A tale scopo possono in particolare essere designati un rappresentante fiscale o il
destinatario dell’operazione imponibile. Gli Stati membri possono altresì prevedere che una
persona diversa dal soggetto passivo sia tenuta in solido al versamento dell’imposta.
b) ……….
c) da chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in una altro documento
che ne fa le veci.
La normativa nazionale di recepimento è contenuta nell’art. 17 comma 1 del d.P.R.
633/72. Tale disposizione, sempre nel testo in vigore del 1994, prevedeva:
224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Soggetti passivi. - L’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e
le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario, cumulativamente per
tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art. 19, nei modi e nei
termini stabiliti nel titolo secondo.
Pertanto la qualità di soggetto passivo del tributo era attribuita esclusivamente al
cedente-prestatore, il quale era tenuto ad emettere la fattura ed a versare la corrispondente
imposta, ancorché il relativo onere venisse a gravare sul cessionario-committente per effetto
della traslazione.
Ed è proprio questo che è avvenuto nella fattispecie, dove la fattura è stata regolarmente
emessa dal prestatore e l’imposta relativa (erroneamente applicata) addebitata in rivalsa
alla società committente.
In tale situazione, il soggetto passivo del tributo è soltanto il prestatore italiano, cioè il
soggetto previsto dalla norma contenuta nell’art. 17 comma 1 del d.P.R. 633/72 e nell’art.
21 paragrafo 1 della direttiva 77/388/CEE.
Al quesito 2-a) si ritiene pertanto che debba essere risposto nel senso che in un caso
come quello di specie, la società committente non può ritenersi debitrice di imposta ancorché
ne venga ad essere incisa.
Ne consegue che la somma da quest’ultima indebitamente versata a titolo di IVA non
dovrà essere richiesta all’erario, bensì dovrà essere richiesta in restituzione al prestatore,
configurandosi una ripetizione di indebito civilistica fra due parti private.
Ai fini dell’accoglimento della domanda infatti, il giudice adito dovrà esaminare il contenuto
del contratto per risalire alla volontà delle parti allo scopo di verificare se il prezzo
pattuito era da ritenersi comprensivo o meno dell’eventuale IVA dovuta e di valutare (sempre
con criteri civilistici), l’incidenza e gli effetti dell’errore commesso.
La soluzione al quesito 2-a) nei termini suesposti esclude la necessità di rispondere ai
quesiti 2-b) e 2-c), i quali presuppongono a loro volta una situazione in capo alla società
(obbligo di fatturazione e versamento dell’imposta) che è pacificamente non sussistente.
In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte rispondere ai quesiti sottoposti
al suo esame affermando che:
1) gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 79/1072/CEE del 6 dicembre
1979, nella parte in cui subordinano il rimborso a favore del cessionario o committente non
residente all’utilizzazione dei beni e servizi per il compimento di operazioni soggette ad
imposta, debbono essere interpretati nel senso che non sono applicabili per ottenere il rimborso
dell’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario;
2) in un caso come quello esaminato nel giudizio a quo, la società committente non può
ritenersi debitrice di imposta ancorché ne venga ad essere incisa e conseguentemente non
può far valere nei confronti dell’erario il diritto al rimborso dell’IVA versata dal soggetto
passivo.
Roma, 26 maggio 2005 – Avvocato dello Stato Gianni De Bellis».
Corte di Giustizia delle Comunità europee, causa C-35/05 - Udienza 30 marzo 2006 -
Intervento orale del Governo italiano (Avv. dello Stato G. De Bellis).
«Signor Presidente, signori Giudici, signor Avvocato Generale.
Il Governo italiano, nel leggere le osservazioni depositate dalla Commissione, era
orientato a non chiedere la discussione orale della causa.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 225
La Commissione suggeriva infatti di rispondere al primo quesito nello stesso senso proposto
dal Governo italiano, e cioè nel senso della non utilizzabilità del meccanismo di rimborso
di cui agli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva in un caso come quello di specie, di imposta
versata per un’operazione che non era imponibile,
Così come la Commissione concordava anche sulla soluzione da dare alla prima questione
del secondo quesito; il cessionario di un bene non è di norma soggetto passivo d’imposta.
Stessa soluzione appariva per la seconda questione relativa al meccanismo di rimborso
previsto in Italia.
E così si condivideva in particolare il punto 46 dove la Commissione afferma:
il principio della neutralità dell’imposta e il divieto di ingiustificati arricchimenti
impongono ad uno stato membro l’obbligo di rimborsare l’IVA non dovuta nei confronti del
soggetto passivo che l’abbia erroneamente fatturata e pagata;
ed ancora i punti da 48 a 50:
La commissione ritiene che gli Stati Membri siano liberi di scegliere la procedura che
ritengono idonea ad assicurare tale rimborso, con l’unico limite che tali disposizioni rispettino
il principio di effettività. In tale contesto, un sistema secondo il quale soltanto il prestatore
di beni/servizi sia legittimato a richiedere all’autorità delle entrate il rimborso delle
imposte pagate e non dovute non sembra, di per sé, in contrasto con il diritto Comunitario.
Inoltre tale sistema sembra particolarmente adeguato e coerente nel campo dell’IVA,
tenuto conto del sistema previsto in ambito comunitario. Infatti, dal momento che il prestatore
di servizi è, in linea generale, il soggetto responsabile ai fini dell’imposta, questi è l’unico
che potrebbe essere tenuto al pagamento dell’IVA e l’unico legato da un rapporto giuridico
con l’autorità delle entrate. Sembra del tutto ragionevole, pertanto, ritenere che sia
l’unico soggetto legittimato ad agire nei confronti dell’autorità delle entrate per ottenere il
rimborso di quanto abbia versato indebitamente.
Sennonché la Commissione aggiunge poi che “tuttavia, laddove il recupero delle
somme indebitamente pagate attraverso questo meccanismo divenga «impossibile o eccessivamente
difficile» […] e il rischio di riduzione del gettito fiscale sia stato completamente
eliminato, gli Stati Membri debbono predisporre strumenti adeguati per evitare che si possa
produrre un ingiustificato arricchimento per l’autorità delle entrate a danno del destinatario
dei beni o servizi”.
Il Governo italiano non ritiene corretta tale affermazione, per una serie di motivi.
In primo luogo l’ultima affermazione appare in contrasto con la precedente.
Se il rapporto tra cedente e cessionario (così come tra prestatore e committente) è di
tipo privatistico, significa che il cessionario può chiedere al cedente non la restituzione
dell’IVAindebitamente applicata all’operazione, bensì una riduzione del prezzo di cessione,
corrispondente all’importo dell’IVA.
La questione tributaria, relativa cioè al fatto se si trattava di una operazione imponibile
o meno, dovrà essere risolta dal giudice civile incidenter tantum. Lo stesso giudice dovrà
poi valutare il contesto del contratto, l’effettiva volontà dei contraenti e la rilevanza, nell’ambito
dell’accordo raggiunto, della non applicabilità dell’IVA.
Se questa è la situazione, non si vede per quale motivo del credito civilistico del cessionario
debba essere chiamato a rispondere l’erario.
Trattandosi di un credito civilistico (e non IVA) nessun problema di rispetto del principio
di effettività si pone.
In altri termini, se il cessionario non è soggetto passivo del tributo, non potrà mai agire
nei confronti dello Stato per il rimborso.
226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In secondo luogo, se si volesse aderire alla tesi della Commissione, alla possibilità per
il cessionario di pretendere il rimborso del tributo dall’erario dovrebbe essere contrapposta
la possibilità inversa per l’Erario di pretendere il tributo dal cessionario.
Secondo la Commissione la deroga opererebbe in presenza di 2 presupposti:
1) quando il cedente ha versato l’IVA non dovuta;
2) quando il cessionario non è riuscito ad ottenerne il rimborso dal cedente.
In tale caso, secondo la Commissione, il danno del cessionario e l’ingiustificato arricchimento
dell’erario giustificherebbero l’azione di rimborso, di norma non consentita.
Ma allora rovesciamo la situazione. Ipotizziamo che venga considerata esente o non
imponibile una cessione che doveva essere invece soggetta ad IVA.
Lo Stato dovrebbe recuperare l’IVAsolo nei confronti del cedente, unico soggetto passivo.
Qualora però ciò non fosse possibile (perché ad esempio il cedente si è estinto o è insolvente)
seguendo la tesi della Commissione lo Stato potrebbe pretendere il pagamento
dell’IVA non assolta al cessionario, il quale si sarebbe arricchito in modo ingiustificato
acquistando il bene ad un prezzo inferiore.
Ma una simile possibilità è esclusa dalla sesta direttiva, come si deduce dall’art. 21 n.
3 che autorizza gli Stati Membri a prevedere “che una persona diversa dal debitore dell’imposta
sia responsabile in solido per il versamento dell’imposta”.
Cioè gli Stati possono prevedere una responsabilità solidale, ma se non lo fanno (e il
caso in esame non è uno di questi), nulla possono pretendere dal cessionario.
È opportuno precisare che il meccanismo delle imposte dirette è proprio questo: il rimborso
possono chiederlo sia il sostituto che il sostituito. Ma il fisco può agire verso entrambi.
Anche questo argomento dimostra quindi come la tesi della Commissione sia in contrasto
con il sistema risultante dall’art. 21 della sesta direttiva.
Per completezza si ritiene opportuno precisare che in Italia in base alla giurisprudenza
della Corte di Cassazione il cedente può chiedere il rimborso dell’IVA erroneamente versata
o mediante una variazione della fattura, ovvero mediante una richiesta di rimborso da presentare
entro un termine adeguato.
In quest’ultimo caso dovrà ovviamente dimostrare, come avete affermato nella sentenza
19 settembre 2000 in causa C- 454/98, di avere eliminato qualsiasi danno per l’erario.
Inoltre appare difficile ipotizzare un contrasto di giudicati tra il giudice civile, nel rapporto
cedente-cessionario, e il giudice tributario, nel rapporto cedente-fisco.
La possibilità che le due diverse giurisdizioni possano pervenire a soluzioni difformi
circa il regime IVA applicabile all’operazione, è esclusa dal fatto che l’organo di vertice di
entrambe è costituito dalla stessa Corte di Cassazione.
Infatti le sentenze di secondo grado sia dei giudici tributari che dei giudici civili sono
impugnabili in cassazione per i medesimi motivi (tra cui la violazione o errata applicazione
della legge).
In conclusione il Governo italiano ribadisce di essere d’accordo sulle osservazioni della
Commissione, ad esclusione però della parte in cui vorrebbe consentire una deroga al principio
derivante dall’art. 21 della sesta direttiva, secondo cui il soggetto passivo del tributo è
solo il cedente.
Un breve accenno alle osservazioni della parte privata, che sostiene la tesi secondo cui
la sentenza Genius del 1989 che aveva stabilito l’importante principio secondo cui è deducibile
ai sensi dell’articolo 17 della sesta Direttiva soltanto l’IVA che sia effettivamente
dovuta per quella operazione, sarebbe stata superata nella sentenza Beruhard del 17 settembre
1997 in causa C-141/96.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 227
Non riteniamo corretta tale affermazione la quale si fonda sul punto 28 della sentenza,
che contiene una semplice argomentazione a sostegno della soluzione del quesito.
La giurisprudenza Genius è invece ribadita a chiare lettere nella successiva sentenza 19
settembre 2000 in causa C-454/98 come correttamente evidenziato dalla Commissione.
Escluso perciò il diritto della società alla deduzione di un’IVA erroneamente indicata
in fattura, viene meno ogni possibilità di avvalersi del meccanismo di rimborso previsto nell’ottava
direttiva in quanto, come la Corte ha affermato nella sentenza 13 luglio 2000 C-
136/95 (Monte dei Paschi), ai punti 20 e 21, la sua finalità è quella di “armonizzare il diritto
al rimborso, quale è sancito dall’articolo 17 n. 3 della sesta direttiva”.
In conclusione nel caso di caso di specie il soggetto passivo del tributo era la società
italiana in quanto prestatore, che aveva emesso la fattura, e non invece la parte privata di
questo giudizio che, in quanto committente, viene a trovarsi nella stessa situazione di una
operazione interna, erroneamente assoggettata ad IVA.
Così come il cessionario-committente interno, essa non ha diritto né al rimborso né alla
detrazione dall’erario, bensì soltanto al rimborso nei confronti del cedente-prestatore di
quanto pagato in più. Grazie.
Avvocato dello Stato Gianni De Bellis».
Conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston presentate l’8 giugno 2006 (1) - Causa
C-35/05 - Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH c/ Ministero delle Finanze.
«1. La questione sollevata dalla Corte Suprema di Cassazione italiana nella presente
causa riguarda le modalità secondo le quali un soggetto passivo può recuperare l’IVA pagata
a un prestatore di servizi che l’abbia erroneamente fatturata e versata all’erario.
2. Ai sensi della sesta direttiva (2), sostanzialmente, il cedente o prestatore che fatturi
l’IVA al cliente deve versarne il relativo importo all’erario, indipendentemente dal fatto che
essa dovesse o meno essere fatturata. Inoltre, ai sensi della citata direttiva, il soggetto passivo
può dedurre l’imposta fatturatagli sulle sue forniture o prestazioni ricevute a monte dall’imposta
che deve versare sulle sue operazioni a valle.
3. Per giurisprudenza costante (3), il diritto di dedurre l’imposta pagata a monte non si
applica all’imposta che sia dovuta in quanto menzionata sulla fattura ma che, altrimenti, non
sarebbe stata dovuta. In tali circostanze, tuttavia, il diritto nazionale deve prevedere una possibilità
di rettifica degli importi fatturati (e/o dedotti) erroneamente.
4. Inoltre, il diritto a deduzione in forza della sesta direttiva si applica unicamente qualora
il soggetto passivo effettui un’operazione imponibile nello Stato membro in cui ha
228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Lingua originale: l’inglese.
(2) Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di
imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. 1977, L 145, pag. 1, più volte modificata;
in prosieguo: la «sesta direttiva»).
(3) V. sentenze 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding (Racc. pag. 4227), 19 settembre
2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth (Racc. pag. I-6973) nonché 6 novembre 2003,
cause riunite da C-78/02 a C-80/02, Karageorgou (Racc. pag. I-13295), di cui si parlerà più estesamente
infra, ai paragrafi 11 e segg.
pagato l’imposta a monte, e sia pertanto tenuto al versamento dell’imposta a valle, dalla
quale può dunque dedurre l’imposta pagata a monte.
5. Nel caso di specie, il soggetto passivo al quale è stata erroneamente fatturata l’IVA
(su prestazioni consistenti nel fornirgli servizi pubblicitari) non effettuava operazioni a valle
nello stesso Stato membro. Tale situazione rientra di regola nell’ambito di applicazione dell’ottava
direttiva IVA (4), in forza della quale l’imposta assolta a monte non viene dedotta
dall’imposta a valle, bensì rimborsata al soggetto passivo.
6. Il giudice nazionale desidera in sostanza sapere se, in tali circostanze, (a) l’IVA fatturata
e pagata erroneamente possa essere rimborsata ai sensi dell’ottava direttiva, anche ove non sia
deducibile a norma della sesta direttiva, e (b) al soggetto passivo non residente debba essere conferito
il diritto di agire direttamente nei confronti dell’autorità tributaria che ha riscosso l’imposta,
o se sia sufficiente che egli sia legittimato ad agire indirettamente, rivolgendosi al prestatore
che aveva fatturato l’imposta (e che, a sua volta, potrebbe agire contro l’autorità tributaria).
Normativa e giurisprudenza comunitarie in materia di IVA
La situazione interna ad uno Stato membro in forza della sesta direttiva
7. L’art. 21, n. 1, della sesta direttiva, all’epoca dei fatti di causa (5), per quanto qui rileva
così disponeva:
«L’imposta sul valore aggiunto è dovuta in regime interno: (a) dal soggetto passivo che
effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile (…); (c) da chiunque indichi
l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci; (…)».
8. L’art. 17, n. 2 (6) così dispone, per quanto qui rileva:
«Nella misura in cui i beni ed i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette
ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre all’imposta di cui è debitore:
(a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per i beni che gli sono o gli saranno
forniti e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo debitore
dell’imposta all’interno del paese [(7)]; (…)».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 229
(4) Ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle
legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta
sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese (G.U. L 331, pag. 11).
(5) L’attuale testo dell’art. 21 si rinviene nell’art. 28 octies della stessa direttiva, introdotto dalla
direttiva del Consiglio 16 dicembre 1991, 91/680/CEE, che completa il sistema comune di imposta sul
valore aggiunto e modifica, in vista della soppressione delle frontiere fiscali, la direttiva 77/388/CEE
(G.U. L 376, pag. 1), a sua volta modificata in più occasioni. La presente fattispecie riguarda l’IVA
pagata nel 1994. La disposizione contenuta all’epoca nell’art. 21, n. 1, lett. c), coincide oggi con l’art.
21, n. 1, lett. d). Ho scelto di esporre le disposizioni della sesta direttiva non nel loro ordine numerico
(che in ogni caso non è più l’ordine secondo il quale appaiono nella direttiva) bensì in un ordine che
mi pare di maggiore aiuto per una più rapida comprensione della normativa nel presente contesto.
(6) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 septies, anch’esso introdotto dalla direttiva 91/680, e
anch’esso modificato.
(7) Nella versione applicabile all’epoca dei fatti, l’inciso «all’interno del paese» o un suo equivalente,
introdotto dalla direttiva 91/680, appariva riferito all’obbligo del fornitore in diverse versioni
linguistiche, ivi comprese l’inglese, la francese, l’italiana e la spagnola. Nella versione tedesca, invece,
tale inciso si riferiva al luogo in cui l’imposta risultava dovuta o assolta, e nella versione olandese
si riferiva al luogo della prestazione. La direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE, che modifi9.
Ai sensi dell’art. 18, n. 1, lett. a) (8), al fine di esercitare il suo diritto a deduzione il
soggetto passivo deve essere in possesso di una fattura, redatta ai sensi dell’art. 22, n. 3, lett.
b) (9). Tale disposizione impone che la fattura indichi distintamente il prezzo al netto dell’imposta
e l’imposta corrispondente per ogni aliquota diversa, nonché ogni esenzione.
10. Ai sensi dell’art. 20, n. 1, lett. a), la deduzione iniziale deve essere rettificata secondo
le modalità fissate dagli Stati membri, in particolare «quando la deduzione è superiore o
inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto».
La giurisprudenza sulla sesta direttiva
11. La causa Genius Holding (10), che costituisce la causa pilota, riguardava una situazione
in cui un subappaltatore aveva erroneamente fatturato l’IVA a un appaltatore principale.
Ai sensi della normativa nazionale allora vigente, autorizzata in conformità alla sesta
direttiva, l’imposta in realtà era dovuta soltanto dall’appaltatore principale sull’importo da
esso fatturato al suo committente. Ci si chiedeva pertanto se il diritto a deduzione si applicasse
all’imposta che era dovuta, in conformità all’art. 21, n. 1, lett. c), esclusivamente per
il fatto di essere indicata sulla fattura.
12. La Corte ha esaminato la lettera dell’art. 17, n. 2, lett. a), in particolare laddove essa
si discostava sia dal tenore testuale della norma che aveva preceduto tale articolo, vale a dire
l’art. 11, n. 1, lett. a), della seconda direttiva del Consiglio (11), sia da quello dell’art. 17, n.
2, lett. a), della proposta della Commissione di sesta direttiva (12). La Corte ne ha concluso
che l’esercizio del diritto a detrazione è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire
alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’IVA o versate in quanto erano
230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ca la direttiva 77/388/CEE e introduce nuove misure di semplificazione in materia di imposta sul valore
aggiunto – Campo di applicazione delle esenzioni e relative modalità pratiche di applicazione (G.U.
L 102, pag. 18), entrata in vigore il 1° gennaio 1996, ha in seguito allineato tutte le versioni linguistiche
a quella tedesca. Di conseguenza, la versione italiana dell’art. 17, n. 2, lett. a), è attualmente così
formulata: «l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta all’interno del paese per i beni che gli sono
o saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo» (il corsivo
è mio).
(8) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 septies, non più modificato a partire dalla direttiva
91/680.
(9) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 nonies, nella versione introdotta dalla direttiva 91/680,
applicabile all’epoca dei fatti; successivamente modificato.
(10) Cit. supra, nota 3.
(11) Seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Struttura e modalità di
applicazione del sistema comune di imposta sul valore aggiunto (G.U. L 71, pag. 1303). Ai sensi dell’art.
11, n. 1, lett. a), della stessa: «Nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati per i bisogni
della sua impresa, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: (a) l’imposta
sul valore aggiunto che gli viene fatturata per i beni che gli sono forniti e per i servizi che gli
sono prestati» (il corsivo è mio).
(12) – G.U. 1973, C 80, pag. 1. L’art. 17, n. 2, lett. a) della proposta così disponeva: «Quando i
beni ed i servizi sono destinati ad essere impiegati per i bisogni delle proprie attività soggette ad imposta,
il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: (a) l’imposta sul valore
aggiunto che gli viene fatturata ai sensi dell’art. 22, n. 3), per i beni che gli sono forniti e per i servizi
che gli sono prestati» (il corsivo è mio).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 231
dovute. Tale interpretazione era inoltre corroborata dalla necessità per il titolare di essere in
possesso di una fattura recante l’importo dell’imposta corrispondente a ogni operazione e
dall’esistenza di un meccanismo di rettifica applicabile qualora la deduzione iniziale fosse
stata superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo aveva diritto (13).
13. Dopo aver sottolineato che «spetta agli Stati membri contemplare nei rispettivi
ordinamenti giuridici interni la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata
purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede», la Corte ha statuito che
«l’esercizio del diritto di detrazione (…) non si estende all’imposta dovuta esclusivamente
per il fatto di essere indicata nella fattura» (14). Il meccanismo della deduzione non era pertanto
applicabile, tuttavia doveva essere predisposto un meccanismo di correzione o rettifica
in modo da ripristinare la situazione qualora l’errore fosse stato commesso in buona fede.
14. Nelle sue conclusioni, invece, l’avvocato generale Mischo aveva affermato (15)
che, per salvaguardare il principio di neutralità dell’IVA, tale imposta avrebbe dovuto far
sorgere un diritto a deduzione, a meno che (in circostanze idonee a far sospettare una frode)
il cedente o prestatore che l’aveva fatturata non l’avesse poi versata alle autorità tributarie.
15. La causa Schmeink & Cofreth (16) riguardava anch’essa una situazione in cui
l’IVA era stata fatturata per errore. In quel caso, tuttavia, gli importi erroneamente fatturati
lo erano stati, in realtà, non in buona fede bensì fraudolentemente. Ciononostante, la Corte
ha ritenuto che non dovesse necessariamente essere soddisfatto il criterio della buona fede
per ottenere una rettifica, sempreché fosse eliminato qualunque rischio di perdita del gettito
fiscale. Essa ha statuito come segue:
«1) Allorché colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente
il rischio di perdite di entrate fiscali, il principio della neutralità dell’imposta sul valore
aggiunto richiede che l’imposta indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza
che una tale regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso
tale fattura.
(2) Spetta agli Stati membri definire il procedimento in base al quale l’imposta sul
valore aggiunto indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, purché la regolarizzazione
non sia lasciata al potere discrezionale dell’amministrazione fiscale».
16. Nella sentenza Karageorgou (17), la Corte ha esaminato una situazione in cui un
importo indicato come IVA su una fattura emessa da una persona che forniva servizi allo
Stato non poteva in realtà essere qualificato come IVA. Ciò era dovuto al fatto che le persone
interessate ritenevano erroneamente di prestare i loro servizi come lavoratori autonomi,
mentre, in realtà, si era in presenza di un rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente.
La Corte, nel solco della giurisprudenza Genius Holding e Schmeink & Cofreth, ha
dichiarato che l’art. 21, n. 1, lett. c) non osta al rimborso di un importo del genere. In caso
(13) V. punti 12-16 della sentenza.
(14) Punti 18 e 19, nonché dispositivo della sentenza.
(15) Come anche la Commissione nelle sue osservazioni; la Corte aveva invece seguito l’approccio
preconizzato dai governi dei Paesi Bassi, tedesco e spagnolo. V., in particolare, paragrafi 17-27
delle conclusioni.
(16) Cit. alla nota 3, punti 58 e 59.
(17) Cit. alla nota 3 della sentenza.
di regolarizzazione dell’importo in tal modo riportato, che in nessun caso può costituire
IVA, non vi è alcun rischio di perdita di entrate fiscali nell’ambito del regime dell’IVA.
Ancora una volta la Corte ha rilevato che la sesta direttiva non prevede espressamente tali
casi, e ha dichiarato che, fino a quando tale lacuna non sarà colmata dal legislatore comunitario,
spetta agli Stati membri il compito di ovviarvi (18).
17. Un’altra sentenza, menzionata nelle osservazioni presentate nella presente causa,
riguardava circostanze di fatto leggermente diverse. Si tratta della causa Langhorst (19),
nella quale un agricoltore aveva venduto dei suini ad alcuni commercianti di bestiame.
Anziché essere lui a rilasciare ai commercianti una fattura per il prezzo, erano stati questi
ultimi a trasmettergli note di credito per quel prezzo, sul quale avevano erroneamente calcolato
l’IVA ad un’aliquota superiore a quella applicabile. La Corte ha dichiarato che una
tale nota di credito poteva essere considerata un documento che «fa le veci di una fattura»
e che il destinatario della nota (nella fattispecie, l’agricoltore) doveva essere considerato
come la persona che aveva effettivamente indicato l’IVA in quel documento, ai sensi dell’art.
21, n. 1, lett. c), cosicché era debitore dell’importo indicato (20).
Luogo delle prestazioni pubblicitarie
18. L’art. 9 della sesta direttiva contiene norme in merito al luogo in cui si considera
avvenuta una prestazione di servizi ai fini della direttiva. L’art. 9, n. 2, lett. e), così dispone:
«Il luogo delle seguenti prestazioni di servizi, rese (…) a soggetti passivi stabiliti nella
Comunità, ma fuori del paese del prestatore, è quello in cui il destinatario ha stabilito la sede
della sua attività economica o ha costituito un centro di attività stabile nel quale si è avuta
la prestazione di servizi o, in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile, il luogo
del suo domicilio o della sua residenza abituale: (…)
– Prestazioni pubblicitarie, (…)».
19. Ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. b) (21), «[il] destinatario di un servizio di cui all’art.
9, paragrafo 2, lett. e), prestato da un soggetto passivo residente all’estero» è debitore
dell’IVA sul servizio di cui trattasi (22). «Tuttavia, gli Stati membri possono stabilire che il
prestatore sia tenuto in solido al pagamento dell’imposta».
Rimborsi nell’ambito delle prestazioni transfrontaliere ai sensi dell’ottava direttiva
20. L’art. 17, n. 2, lett. a), della sesta direttiva, precedentemente illustrato (23), riguarda la
deduzione dell’IVApagata a monte dall’imposta da versarsi a valle all’interno dello stesso Stato
membro. Per le altre situazioni, l’art. 17, nn. 3 e 4 (24), così dispone, per quanto qui di rilievo:
«3. Gli Stati membri accordano altresì ad ogni soggetto passivo la deduzione o il rimborso
dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 2 nella misura in cui i beni e i servizi
sono utilizzati ai fini:
232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(18) Punti 42 e 48-53 della sentenza.
(19) Sentenza 17 settembre 1997, causa C-141/96 (Racc. pag. I-5073).
(20) V. punti 8, 9, 24, 27 e 28 della sentenza.
(21) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 octies, nella versione introdotta dalla direttiva 91/680 e
in vigore all’epoca dei fatti; successivamente modificato.
(22) Tale meccanismo è noto come «tassazione inversa» o «autofatturazione».
(23) Al paragrafo 8.
(24) V. art. 28 septies.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 233
(a) di sue operazioni (…) effettuate all’estero che darebbero diritto a deduzione [(25)]
se fossero effettuate all’interno del paese; (…)».
4. Il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 3 viene effettuato:
– A favore dei soggetti passivi che non sono stabiliti all’interno del paese ma che sono
stabiliti in un altro Stato membro, secondo le modalità di applicazione stabilite dalla [ottava
direttiva], (…)».
21. L’art. 2 dell’ottava direttiva così dispone:
«Ciascuno Stato membro rimborsa ad ogni soggetto passivo non residente all’interno
del paese, ma residente in un altro Stato membro, alle condizioni stabilite in appresso, l’imposta
sul valore aggiunto applicata a servizi che gli sono resi o beni mobili che gli sono
ceduti all’interno del paese da altri soggetti passivi, o applicata all’importazione di beni nel
paese, nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui
all’articolo 17, paragrafo 3, lettere a ) (…)» della sesta direttiva.
22. Ai sensi dell’art. 5 della stessa direttiva:
«Ai fini della presente direttiva il diritto al rimborso dell’imposta è determinato conformemente
all’articolo 17 [della sesta direttiva], quale si applica nello Stato membro del
rimborso. (…)».
Effetti della normativa sulle prestazioni transfrontaliere
23. In forza delle disposizioni citate, qualora un soggetto stabilito nello Stato membro
A fornisca beni o presti servizi ad un destinatario commerciale (26) stabilito in uno Stato
membro B, che non sia soggetto ad IVA nello Stato membro A in quanto non vi svolge operazioni
imponibili a valle, il principio generale è che il destinatario commerciale ha diritto
al rimborso dell’IVA fatturatagli dal prestatore nello Stato membro A, e non avrà su tali prestazioni
alcuna imposta a monte da dedurre dalla sua imposta a valle nello Stato membro B.
24. Nelle specifiche situazioni in cui si applica invece il meccanismo dell’autofatturazione
(ad esempio nel caso di prestazione di servizi pubblicitari, che si ritiene siano forniti
nello Stato membro B, e non nello Stato membro A), il prestatore non dovrebbe fatturare
l’IVA sulla prestazione nello Stato membro A. Al contrario, il destinatario commerciale è
debitore dell’IVA sulla prestazione ricevuta nello Stato membro B, e può dedurre l’imposta
pagata a monte dall’imposta a valle cui è tenuto nello Stato membro B.
25. Qualora, ciononostante, il prestatore fatturi l’IVA al destinatario commerciale nello
Stato membro A(come se la prestazione fosse avvenuta nello Stato membro A), in una situazione
in cui avrebbe dovuto applicarsi il meccanismo dell’autofatturazione (poiché si reputa
che la prestazione abbia avuto luogo nello Stato membro B), l’IVA è stata fatturata erroneamente.
È esattamente quanto avvenuto nella fattispecie.
26. Ove il destinatario commerciale paghi quindi l’IVA erroneamente fatturata e il prestatore
la versi, debitamente, alle autorità tributarie nello Stato membro A, allora – a meno
(25) Questa nota non riguarda la versione italiana della direttiva.
(26) Per evitare continue ripetizioni, userò il termine «destinatario» o «destinatario commerciale
» per indicare il soggetto passivo che acquisti beni o servizi soggetti a imposta e che li usi ai fini
delle proprie operazioni imponibili a valle, in modo da distinguere tale soggetto dal destinatario che
sia consumatore finale.
che e fintanto che il destinatario commerciale non riesca a farsi rimborsare (a) sia dal prestatore
(b) sia dalle autorità tributarie dello Stato membro A l’IVA erroneamente pagata –
l’operazione non è «neutrale dal punto di vista dell’IVA» per il destinatario commerciale, e
le autorità tributarie dello Stato membro A hanno riscosso l’IVA indebitamente.
La causa principale
Contesto di fatto e processuale
27. I fatti di causa, come risultano dall’ordinanza di rinvio nonché dalle osservazioni
presentate alla Corte, possono essere riassunti nel modo seguente.
28. La Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH (in prosieguo: la «Reemtsma») è una
società avente la sede principale in Germania. Non possiede una sede stabile in Italia.
29. Nel 1994 una società italiana ha fornito alla Reemtsma servizi pubblicitari e di marketing,
sui quali ha applicato l’IVA per un importo totale di LIT 175 022 025 (27).
30. Si trattava, come risulta dall’ordinanza di rinvio, di servizi esenti da IVA, cosicché
erroneamente l’imposta è stata menzionata in fattura e pagata, dapprima dalla Reemtsma
alla società italiana, e poi da quest’ultima alle autorità tributarie.
31. Sembra emergere dalla normativa citata (28) che i servizi non fossero esenti strictu
sensu, ma si reputava fossero stati forniti in Germania, dove la Reemtsma aveva sede,
conformemente all’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva. Ciononostante, sempre per errore
l’IVAera stata fatturata e pagata in Italia. Poiché trovava applicazione il meccanismo dell’autofatturazione,
era in realtà la Reemtsma ad essere debitrice dell’IVA in Germania.
32. La Reemtsma ha chiesto il rimborso parziale dell’IVA di cui trattasi. Non è chiaro
perché sia stato chiesto un rimborso soltanto parziale, probabilmente perché i servizi acquistati
non erano destinati unicamente alle operazioni della Reemtsma imponibili a valle. In
tale situazione, sorgerebbe un diritto solo parziale al rimborso (29).
33. A fronte del diniego di rimborso oppostole dalle autorità tributarie, la Reemtsma ha
adito l’autorità giudiziaria.
34. Il ricorso presentato dalla Reemtsma è stato respinto tanto in primo grado quanto
in appello, con la motivazione che il pagamento dell’imposta si riferiva a servizi non rientranti
tra quelli soggetti ad IVA, essendo stati forniti ad una persona che rivestiva la qualità
di soggetto passivo in un altro Stato membro.
35. Avverso la sentenza d’appello la Reemtsma ha proposto ricorso dinanzi alla Corte
Suprema di Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione di alcune disposizioni
del diritto nazionale (30), nonché omessa motivazione.
36. La Corte Suprema di cassazione, nutrendo dubbi sull’interpretazione della normativa
italiana alla luce delle sentenze della Corte Genius Holding, Langhorst, Schmeink &
234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(27) Pari, all’incirca, a EUR 91 000.
(28) Art. 7, quarto comma, lett. d) e e), del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del
1972 (in prosieguo: il «d.P.R. 633/1972»).
(29) Sentenza 13 luglio 2000, causa C-136/99, Monte dei Paschi di Siena (Racc. pag. I-6109).
(30) Art. 19 del d.P.R. 633/1972, che stabilisce il diritto a deduzione, e art. 38 bis dello stesso
decreto, relativo al rimborso, sostanzialmente, di ogni eccedenza dell’imposta versata rispetto a quella
dovuta. L’art. 38 ter provvede in merito al rimborso, conformemente all’ottava direttiva, ai soggetti
stabiliti in un altro Stato membro, dell’IVA che sarebbe stata detraibile ai sensi dell’art. 19.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 235
Cofreth e Karageorgou, si è rivolta alla Corte di giustizia sottoponendole in via pregiudiziale
le seguenti questioni:
(1) Se gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva (…), nella parte in cui subordinano il rimborso
a favore del cessionario o committente non residente all’utilizzazione dei beni e servizi
per il compimento di operazioni soggette ad imposta, debbano essere interpretati nel
senso che anche l’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario
sia rimborsabile; in caso di risposta affermativa, se sia contraria alle citate disposizioni della
direttiva una norma nazionale che escluda il rimborso del cessionario/committente non residente
in considerazione della non detraibilità dell’imposta addebitata e versata benché non
dovuta.
(2) Se, in generale, possa ricavarsi dalla disciplina comunitaria uniforme la qualità di
debitore di imposta, nei confronti dell’erario, del cessionario/committente; se sia compatibile
con tale disciplina, e in particolare coi principi di neutralità dell’IVA, di effettività e di
non discriminazione, la mancata attribuzione, nel diritto interno, al cessionario/committente
che sia soggetto IVA, e che la legislazione nazionale considera come destinatario degli
obblighi di fatturazione e di pagamento dell’imposta, di un diritto al rimborso nei confronti
dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; se sia contraria ai
principi di effettività e di non discriminazione, in tema di rimborso di IVA riscossa in violazione
del diritto comunitario, una disciplina nazionale – ricavata dall’interpretazione datane
dai giudici nazionali – che consente al cessionario/committente di agire solo nei confronti
del cedente/prestatore del servizio, e non nei confronti dell’erario, pur nell’esistenza nell’ordinamento
nazionale di un caso simile, costituito dalla sostituzione nel campo delle imposte
dirette, nel quale entrambi i soggetti (sostituto e sostituito) sono legittimati a chiedere il
rimborso all’erario».
37. Hanno presentato osservazioni scritte la Reemtsma, il governo italiano e la
Commissione. All’udienza, svoltasi il 30 marzo 2006, hanno presentato osservazioni orali il
governo italiano e la Commissione.
Valutazione
Sulla prima questione
38. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio domanda in sostanza se l’impostazione
adottata dalla giurisprudenza a far tempo dalla sentenza Genius Holding con riferimento
alle deduzioni ai sensi della sesta direttiva debba essere seguita anche con riferimento
ai rimborsi ai sensi dell’ottava direttiva.
39. Prima di risolvere tale questione, è tuttavia necessario esaminare i dubbi sollevati
dalla Reemtsma in merito al perdurare della validità dei principi stabiliti nella sentenza
Genius Holding.
I principi stabiliti nella sentenza Genius Holding sono tuttora validi?
40. A parere della Reemtsma, la decisione della Corte nella sentenza Genius Holding
non era giustificata dal tenore testuale dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva ed è
stata, per giunta, superata dalla sentenza Langhorst. Essa fa riferimento al passaggio di quest’ultima
sentenza in cui la Corte ha dichiarato che, se il soggetto passivo, considerato come
colui che ha indicato l’IVA nella nota di credito, non fosse debitore dell’importo indicato,
«parte dell’IVA indicata nel documento facente le veci di fattura non dovrebbe essere pagata
dal soggetto passivo, pur se (…) tale IVA avrebbe potuto essere detratta per intero dal
236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
destinatario dei beni o dei servizi (…)» (31). Ciò implica, a parere della Reemtsma, un capovolgimento
di quanto dichiarato nella sentenza Genius Holding e un ritorno a un diritto a
deduzione onnicomprensivo. La Reemtsma afferma che il diritto a deduzione è lo strumento
principale per garantire l’applicazione del principio fondamentale di neutralità dell’IVA,
e che gli Stati membri non hanno la facoltà di porre limiti a tale diritto (32).
41. La Reemtsma rimarca inoltre le differenze rispetto alla sentenza Karageorgou.
Sebbene la motivazione teorica di quella sentenza sia valida, essa scaturisce da un contesto
di fatto diverso (33). Nel presente caso, l’importo in questione non può essere, al contempo,
IVA che il prestatore che ha emesso la fattura è tenuto a pagare ai sensi dell’art. 21, n.
1, lett. c), e «non IVA» dal punto di vista del destinatario della prestazione.
42. Per parte mia, non posso condividere la tesi secondo la quale la sentenza Langhorst
metterebbe in discussione la validità della statuizione contenuta nella sentenza Genius Holding.
43. Il passaggio dal quale la Reemtsma inferisce che la Corte abbia capovolto il proprio
orientamento fa parte della soluzione della seconda questione sollevata nella causa
Langhorst: se il soggetto passivo che non abbia contestato l’indicazione, figurante in una
nota di credito facente le veci di una fattura, di un importo IVA superiore a quello dovuto in
base alle operazioni imponibili, possa essere considerato la persona che ha indicato tale
importo e se sia, quindi, debitore dell’importo indicato, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c),
della sesta direttiva.
44. A tale questione la Corte ha dato la medesima soluzione (affermativa) preconizzata
dall’avvocato generale Léger, che aveva fondato ampiamente la propria analisi sulla sentenza
Genius Holding (34). In tali circostanze, mi pare difficile intravedere un ripudio della
sentenza Genius Holding nella motivazione della Corte, che semplicemente segue il ragionamento
dell’avvocato generale, sebbene con una formulazione molto più breve e omettendo
ogni menzione di quella sentenza. Peraltro, la sentenza Genius Holding è stata successivamente
seguita, del tutto chiaramente, tanto nella sentenza Schmeink & Cofreth quanto
nella sentenza Karageorgou.
45. Quanto alla frase «avrebbe potuto essere detratta per intero dal destinatario dei beni
o dei servizi», contenuta nella sentenza Langhorst, mi pare chiaro che la Corte non stava
dicendo che il destinatario avrebbe potuto avere il diritto di dedurre l’imposta erroneamente
fatturata. La Corte stava piuttosto considerando l’ipotesi che egli potesse di fatto averla
dedotta, e che avrebbe potuto presentarsi un’opportunità di frode qualora il prestatore non
fosse stato debitore dell’intero importo indicato.
46. Ciò premesso, condivido ampiamente l’opinione della Reemtsma sotto un aspetto.
È illogico considerare un importo erroneamente fatturato al contempo come IVA, che deve
essere pagata dal prestatore ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, e come
«non IVA», non deducibile da un destinatario commerciale ai sensi dell’art. 17, n. 2, lett. a).
(31) Punti 27 e 28 della sentenza.
(32) La Reemtsma cita le sentenze 21 settembre 1988, causa 50/87, Commissione/Francia (Racc.
pag. 4797, punti 16 e 17), e 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz (Racc. pag. I-3795, punto 27).
(33) In quel contesto, infatti, l’importo fatturato non era affatto correttamente qualificabile come
IVA, in quanto il prestatore era in realtà un dipendente: v. supra, paragrafo 16.
(34) V. paragrafi 52 e segg. delle conclusioni.
47. La tesi della Reemtsma riecheggia ampiamente l’analisi proposta alla Corte dalla
Commissione e dall’avvocato generale Mischo nella causa Genius Holding, secondo cui
l’IVA che dev’essere pagata dal prestatore in forza dell’art. 21, n. 1, lett. c), dovrebbe anche
essere considerata imposta «dovuta o assolta» ai sensi dell’art. 17, n. 2, lett. a). Essa dovrebbe
pertanto essere deducibile da un destinatario commerciale (sempre che si eviti ogni frode,
escludendo i casi in cui risulti che l’importo di cui trattasi in realtà non è stato pagato).
48. Quest’analisi, lo confesso, mi sembra preferibile, in termini di coerenza e di semplicità
del sistema, rispetto all’impostazione infine adottata dalla Corte nella sentenza
Genius Holding. Mi chiedo anche se una tale soluzione non sarebbe stata maggiormente in
sintonia con la più recente giurisprudenza della Corte in materia di frodi a carosello.
49. La frode a carosello è certamente una situazione diversa, nella quale l’IVA è correttamente
fatturata attraverso una catena di cessioni, ma viene fraudolentemente sottratta al fisco
in uno o più passaggi. Tuttavia, nella sentenza Optigen (35) la Corte ha dichiarato che, qualora
un soggetto passivo effettui operazioni che soddisfano i criteri obiettivi sanciti dalla sesta
direttiva, il suo diritto di dedurre l’IVApagata a monte non può essere compromesso dalla circostanza
che, nella catena di cessioni, un’altra operazione, precedente o successiva, sia inficiata
da frode all’IVA, senza che tale soggetto passivo lo sappia o possa saperlo. È irrilevante, ai
fini del diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA pagata a monte, stabilire se l’IVA su operazioni
precedenti o successive riguardanti i beni interessati sia stata versata o meno all’erario.
50. Ritengo che, posto che il diritto a deduzione rimane impregiudicato in circostanze
del genere, il sistema sarebbe più coerente se tale diritto rimanesse impregiudicato anche in
circostanze come quelle della causa Genius Holding. Inoltre, la Corte ha espressamente
dichiarato che la possibilità di rettifica ai sensi dell’art. 20, n. 1, lett. a), della sesta direttiva
dipende dalla dimostrazione della buona fede, in origine, da parte della persona che ha
emesso la fattura (36), oppure, secondo la sentenza Schmeink & Cofreth, dal fatto che sia
stato eliminato qualunque rischio di perdita di gettito fiscale (37). Una condizione del genere
avrebbe potuto applicarsi, mutatis mutandis, ove il destinatario avesse mantenuto un diritto
a deduzione, piuttosto che un diritto a rettifica.
51. Ciò nondimeno, non propongo alla Corte di riconsiderare la propria statuizione
nella sentenza Genius Holding. Questa statuizione si fonda su principi interpretativi accettati
e consegue, pur se attraverso una procedura più macchinosa, lo stesso risultato della tesi
propugnata dall’avvocato generale, risultato che sembra manifestamente corretto in termini
di neutralità dell’IVA. Inoltre, essa costituisce giurisprudenza costante da più di quindici
anni, cosicché ogni sovvertimento oggi comporterebbe presumibilmente un indesiderabile
scompiglio nella prassi IVA degli Stati membri.
52. Ciò detto, non mi pare possano trarsi conclusioni utili dal fatto che il principio sancito
nella sentenza Genius Holding sia stato applicato a circostanze diverse nella sentenza
Karageorgou. Passerò quindi ad esaminare ora se tale principio debba applicarsi anche a
situazioni disciplinate dall’ottava direttiva.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 237
(35) Sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03 (Racc. pag. I-
0000; v., in particolare, punti 51-54).
(36) Sentenza Genius Holding, punto 18.
(37) Sentenza Schmeink & Cofreth, punti 56-63.
Il principio sancito dalla sentenza Genius Holding è applicabile nel contesto dell’ottava
direttiva?
53. Il giudice nazionale rileva che la ragione del divieto di deduzione ai sensi della
sesta direttiva, nel caso di erronea indicazione in fattura di un’imposta non dovuta, non consiste
nel far gravare definitivamente l’onere del tributo sul destinatario commerciale, che
sarebbe stato altrimenti autorizzato alla deduzione, bensì piuttosto nella necessità di evitare
l’evasione fiscale. Ai sensi dell’ottava direttiva, invece, la finalità di limitare il diritto al rimborso
ai casi in cui sarebbe stata concessa la deduzione in forza della sesta direttiva è diversa.
Essa consiste nell’escludere i destinatari sui quali deve gravare l’onere del tributo (vuoi
in quanto sono consumatori finali, vuoi perché le loro cessioni a monte sono utilizzate per
operazioni esenti). Data questa diversa finalità, non è chiaro se debba trovare applicazione
lo stesso approccio.
54. Anche la Reemtsma rileva la differente finalità. Ne conclude che sia inappropriato
vietare un rimborso ai sensi dell’ottava direttiva laddove il motivo della non deducibilità ai
sensi della sesta direttiva sarebbe stato semplicemente che l’imposta è stata fatturata per
errore.
55. Il governo italiano sottolinea invece che il presente caso riguarda un rimborso
dell’IVA erroneamente applicata ad una prestazione. A suo parere, non può trovare applicazione
il procedimento di cui agli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva in quanto non ricorre la condizione
secondo la quale l’imposta sarebbe stata deducibile se il destinatario fosse stato residente
in Italia (38).
56. Secondo la Commissione, dalla sentenza Debouche (39) risulta che l’ottava direttiva
non ha lo scopo di pregiudicare il regime introdotto dalla sesta direttiva. Come l’avvocato
generale Tesauro ha affermato nelle conclusioni presentate in quella causa (40), il rimborso
dell’IVA a favore di soggetti passivi non residenti all’interno del paese risponde alla
medesima logica e, quindi, va sottoposto alle stesse regole applicabili alla deduzione cui
procede il soggetto passivo residente nel paese. Ciò è confermato dall’orientamento seguito
dalla Corte nella sentenza Monte dei Paschi di Siena (41), che ha applicato le regole in
materia di deduzione pro rata di cui all’art. 17, n. 5, della sesta direttiva a un rimborso in
forza dell’ottava direttiva.
57. Su questo punto, condivido le conclusioni cui pervengono il governo italiano e la
Commissione.
58. Sotto il profilo formale, i riferimenti all’art. 17 della sesta direttiva contenuti negli
artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva sono chiari. L’art. 2 conferisce un diritto al rimborso «nella
misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui all’articolo
17, paragrafo 3, lettera a) (…)» della sesta direttiva. L’art. 5 dispone espressamente che «il
rimborso dell’imposta è determinato conformemente all’articolo 17 [della sesta direttiva],
quale si applica nello Stato membro del rimborso».
238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(38) V. art. 17, n. 3, lett. a), della sesta direttiva.
(39) Sentenza 26 settembre 1996, causa C-302/93 (Racc. pag. I-4495, punto 18).
(40) Paragrafo 7, terzo comma, a pag. I-4500.
(41) Citata supra, alla nota 29.
59. Inoltre, adottando il medesimo criterio interpretativo letterale accolto nella sentenza
Genius Holding (42), si può rilevare che l’art. 17, n. 3, della proposta della Commissione
di sesta direttiva faceva riferimento, così come l’art. 17, n. 2, lett. a), di quella proposta,
all’IVA «fatturata» a un soggetto passivo, ma il testo è stato modificato, per cui ora si parla
di IVA «di cui al paragrafo 2» – mentre «fatturata» è divenuto «dovuta o assolta».
60. Peraltro, la giurisprudenza citata dalla Commissione depone nel senso di un trattamento
parallelo.
61. Ciò che è forse più importante, comunque, è che la coerenza tra il sistema del rimborso
e quello della deduzione sembra auspicabile come questione di principio, salvo che vi
sia qualche differenza nella natura di una catena transfrontaliera di cessioni che imponga un
trattamento differenziato. Ma non sembra che non ve ne siano.
62. Vero è che il meccanismo del rimborso previsto dall’ottava direttiva non è identico
al meccanismo della deduzione ai sensi della sesta direttiva. Ciò nonostante, vi è un considerevole
parallelismo tra le situazioni disciplinate dalle due direttive.
63. Ipotizziamo che X e Y siano soggetti passivi, dei quali X sia il cedente o prestatore
nell’ambito di un’operazione e Y il destinatario commerciale. In una situazione limitata
ad un singolo Stato membro, X fattura l’IVA a Y, che deduce il corrispondente importo dall’imposta
a valle di cui è debitore.
64. Qualora X sia stabilito in uno Stato membro A, e Y, stabilito in uno Stato membro
B, non effettui operazioni imponibili nello Stato membro A, può verificarsi o la situazione
(a), nella quale Y, in forza dell’ottava direttiva, ottiene un rimborso dell’IVA fatturata nello
Stato membro A, e l’importo dell’IVA che egli fattura ai suoi clienti e che deve versare al
fisco nello Stato membro B è calcolato sull’intero prezzo netto al quale egli effettua la propria
prestazione, oppure la situazione (b), nella quale trova applicazione il meccanismo di
autofatturazione di cui alla sesta direttiva: X non fattura l’IVA e Y diviene debitore dell’IVA
sulla cessione o prestazione nello Stato membro B, ma può anche dedurla. In entrambi i casi
la catena continua poi normalmente.
65. Qualora X erroneamente fatturi l’IVA a Y sull’operazione, se Y paga la fattura e X
versa il relativo importo alle autorità tributarie, allora, in conformità al principio sancito
dalla sentenza Genius Holding, ove la situazione sia limitata a un singolo Stato membro
(Stato membro A):
– X deve restituire a Y l’importo erroneamente fatturato;
– le autorità tributarie devono rimborsare l’importo a X; e
– Y deve escludere tale importo dalla sua deduzione [oppure, se è già stato dedotto, rettificare
la propria deduzione in conformità all’art. 20, n. 1, lett. a), della sesta direttiva].
66. Qualora X e Y siano stabiliti in Stati membri diversi, il primo e il secondo di tali
requisiti rimangono applicabili. Tuttavia, sia in forza dell’ottava direttiva (43) sia nell’ambito
del meccanismo di autofatturazione della sesta direttiva (44), Y non avrebbe mai potuto
dedurre l’IVA fatturata da X, in quanto nessuna delle due situazioni consente una dedu-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 239
(42) V. supra, paragrafo 12.
(43) Con riferimento a cessioni o prestazioni effettuate nello Stato membro A.
(44) Con riferimento a cessioni o prestazioni che si reputano effettuate nello Stato membro B.
240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zione in quanto tale. L’equivalente, pertanto, è che Y non abbia diritto ad alcun rimborso.
Ancora una volta, la catena continuerà normalmente.
67. In entrambi gli scenari, la neutralità dell’IVA è preservata (45) attraverso strumenti
che sono sostanzialmente paralleli (quantunque, come già detto, più complessi di quanto
avverrebbe se la deduzione o il rimborso, a seconda dei casi, fossero consentiti).
68. Si può inoltre rilevare che anche la disposizione nazionale in discussione nella
causa Genius Holding imponeva un meccanismo di autofatturazione, sebbene si trattasse di
un meccanismo autorizzato dal Consiglio in forza dell’art. 27 della sesta direttiva anziché di
un meccanismo del genere di cui si occupa l’ottava direttiva (46). Si potrebbe ritenere strano
che il principio sotteso a tale sentenza dovesse applicarsi ad un tipo di situazione di autofatturazione
e non ad un altro.
69. Ritengo pertanto che l’approccio assunto dalla Corte nella sentenza Genius Holding
con riferimento alle deduzioni ai sensi della sesta direttiva debba essere mantenuto anche
rispetto ai rimborsi di cui all’ottava direttiva.
Sulla seconda questione
70. Nel caso in cui un destinatario commerciale, che si trovi in una situazione come
quella della Reemtsma (vale a dire, nel mio esempio, nella situazione di Y), non abbia il
diritto a un rimborso ai sensi dell’art. 17, nn. 3 e 4, della sesta direttiva nonché delle disposizioni
dell’ottava direttiva, il giudice nazionale desidera sapere, in sostanza, se sia sufficiente
che gli sia conferito un diritto a pretendere la restituzione nei confronti del prestatore
(nel mio esempio, X) che ha fatturato l’imposta e che potrebbe, a sua volta, agire nei confronti
delle autorità tributarie che l’hanno riscossa, o se debba essergli concesso il diritto di
agire direttamente nei confronti delle autorità tributarie.
71. La questione, come hanno sottolineato il governo italiano e la Commissione, si
pone sotto tre profili, che possono riassumersi come segue:
(a) il destinatario della cessione o della prestazione può essere considerato, in linea
generale, debitore dell’IVA su un’operazione?
(b) è compatibile con il sistema comunitario dell’IVA (e con i principi di neutralità,
effettività ed equivalenza o non discriminazione) il fatto che una normativa nazionale non
conferisca al destinatario un’azione nei confronti delle autorità tributarie nel caso in cui
l’IVA, pur non essendo dovuta, sia stata fatturata e pagata?
(c) è rilevante il fatto che altre norme nazionali (nel settore della tassazione diretta)
consentano un’azione congiunta di entrambe le parti nei confronti delle autorità tributarie in
circostanze grosso modo analoghe?
72. Affronterò questi tre profili nell’ordine.
Può il destinatario della cessione o della prestazione essere considerato in generale
debitore dell’IVA su un’operazione?
73. Come sottolinea la Reemtsma, l’art. 21, n. 1, lett. a), della sesta direttiva (47) consente
agli Stati membri di prevedere che, oltre al cedente o prestatore, «una persona diver-
(45) In quanto X restituisce l’importo a Y e poi a sua volta lo reclama alle autorità tributarie dello
Stato membro A.
(46) V. punto 5 della sentenza.
(47) Nella versione applicabile nel 1994.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 241
sa dal soggetto passivo sia tenuta in solido al versamento dell’imposta». L’art. 22, n. 8 (48),
attribuisce agli Stati membri la facoltà di stabilire «altri obblighi che essi ritengano necessari
ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi». È pertanto compatibile
con la sesta direttiva il fatto che il destinatario della cessione o della prestazione sia
uno dei debitori dell’IVA.
74. D’altra parte, come osserva il governo italiano, sebbene il diritto comunitario permetta
che il destinatario sia considerato solidalmente responsabile dell’imposta, il diritto italiano
non conteneva una disposizione del genere nel 1994 (a differenza di quanto avviene
oggi).
75. Inoltre, come correttamente rileva la Commissione, il primo comma dell’art. 21, n.
1, lett. a), della sesta direttiva sancisce la regola generale secondo la quale è in via di principio
il prestatore ad essere responsabile del pagamento dell’IVA ed obbligato nei confronti
delle autorità tributarie. Le uniche eccezioni sono quelle specificate nelle altre disposizioni
dell’art. 21, n. 1 (in particolare, il meccanismo dell’autofatturazione nelle operazioni
transfrontaliere) o autorizzate dal Consiglio sulla base dell’art. 27 della sesta direttiva (con
previsione, in tali casi, di un meccanismo di autofatturazione in specifiche circostanze all’interno
dello Stato membro (49)).
76. Concordo pertanto con il governo italiano e con la Commissione. Ha ragione la
Reemtsma allorché sottolinea che, in determinate circostanze, gli Stati membri possono
disporre che il destinatario sia solidalmente responsabile con il prestatore, e nelle situazioni
in cui si applica il meccanismo dell’autofatturazione è sempre il destinatario ad essere debitore.
Ciò nonostante, si tratta di eccezioni alla regola generale, secondo la quale è il prestatore
ad essere tenuto, nei confronti delle autorità tributarie, a versare l’IVA su una determinata
operazione. Di conseguenza, in via di principio, solo il prestatore può agire nei confronti
di tali autorità per recuperare l’imposta versata erroneamente.
77. Vero è che, qualora, per qualunque ragione, si applichi un meccanismo di autofatturazione,
è il destinatario ad essere debitore dell’IVA sull’operazione. Il destinatario sarà
pertanto, in linea di principio, legittimato a pretendere la restituzione (50) nei confronti delle
autorità tributarie di qualunque imposta versata erroneamente. Sembra peraltro che, nella
fattispecie che ha dato luogo alla causa principale, abbia effettivamente trovato applicazione
il meccanismo dell’autofatturazione ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. e), cosicché la
Reemtsma dovrebbe essere sia tenuta al versamento dell’imposta sia legittimata a chiedere
la restituzione di qualsiasi imposta versata erroneamente. Tuttavia, si ricordi che tale meccanismo
dà luogo a un rapporto tra la Reemtsma e le autorità tributarie del suo Stato membro,
vale a dire la Germania, e non quelle dello Stato membro in cui il prestatore ha erroneamente
fatturato e versato l’IVA, vale a dire l’Italia.
78. Ritengo pertanto che la prima parte della seconda questione debba essere risolta nel
senso che, in via di principio, solo il prestatore dev’essere considerato, nei confronti delle
autorità tributarie, debitore dell’IVAsu una determinata operazione, e, di conseguenza, legit-
(48) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 nonies.
(49) Come la norma nazionale in discussione nella causa Genius Holding.
(50) Uso qui il termine «restituzione» in senso generico, per mantenerlo distinto dalla specifica
procedura di «rimborso» di cui all’ottava direttiva.
timato a pretendere la restituzione dell’imposta pagata per errore. Qualora, eccezionalmente,
in forza di disposizioni comunitarie o nazionali autorizzate, il debitore sia un’altra persona,
tale persona può domandare la restituzione, nei confronti delle autorità tributarie verso
le quali era obbligata, di qualunque imposta erroneamente pagata.
È ammissibile che il diritto nazionale non conferisca al destinatario della cessione o
della prestazione un’azione nei confronti delle autorità tributarie nel caso in cui l’IVA, pur
non essendo dovuta, sia stata fatturata e pagata?
79. In Italia, in circostanze in cui non è percorribile né la via della deduzione in forza
della sesta direttiva né quella del rimborso in forza dell’ottava direttiva, il prestatore che
abbia erroneamente fatturato e riscosso l’IVA su un’operazione, versandola poi alle autorità
tributarie, può, a quanto consta, domandare la restituzione del relativo importo alle stesse
autorità, mentre il destinatario, nell’ambito della medesima operazione, può chiedere la
restituzione di tale importo soltanto mediante un’azione civile di ripetizione nei confronti
del prestatore.
80. I dubbi del giudice nazionale in merito a tale sistema processuale riguardano i principi
di equivalenza (o non discriminazione) e di effettività in diritto comunitario. La più
recente statuizione in merito a tali principi è rinvenibile nella sentenza MyTravel (51): «In
mancanza di disciplina comunitaria in materia di domande di rimborso delle imposte, spetta
all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere
dei quali tale diritto possa esercitarsi, purché essi rispettino i principi di equivalenza e di
effettività, vale a dire, non siano meno favorevoli di quelli che riguardano casi analoghi di
natura interna e non rendano praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento
giuridico comunitario»
81. La Reemtsma ritiene che, in ossequio al principio di effettività, si debba riconoscere
al destinatario un’azione diretta nei confronti delle autorità tributarie. In caso contrario,
potrebbero configurarsi almeno due situazioni di potenziale conflitto con tale principio: da
un lato, il prestatore potrebbe essere insolvente a fronte dell’azione avviata dal destinatario
nei suoi confronti, d’altro lato, il prestatore potrebbe vedersi obbligato a rimborsare il destinatario
dinanzi al giudice civile ma poi risultare soccombente nei confronti delle autorità tributarie
dinanzi al giudice tributario.
82. La Commissione si richiama alle statuizioni della Corte, segnatamente nella sentenza
Schmeink & Cofreth, secondo cui gli Stati membri devono prevedere le modalità per rimediare
agli errori nella fatturazione dell’IVA, ivi incluse le modalità di rettifica della fattura e
di restituzione dell’imposta pagata erroneamente. Tale dovere, essa afferma, deriva tanto dal
principio di neutralità quanto dal divieto di arricchimento indebito (nella fattispecie, da parte
delle autorità tributarie). Gli Stati membri possono scegliere la procedura che ritengono più
opportuna, purché il principio di effettività sia rispettato. Una situazione in cui, di regola, soltanto
il prestatore, in quanto debitore dell’imposta, può chiedere la restituzione da parte delle
autorità tributarie, mentre il destinatario della prestazione può chiederla al prestatore nell’ambito
di un’azione di diritto civile, appare in via di principio accettabile. Tuttavia, e sempre che
sia escluso qualunque rischio di perdita del gettito fiscale, il principio di effettività può imporre
che al destinatario sia attribuita la facoltà di agire nei confronti delle autorità tributarie ove
242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(51) Sentenza 6 ottobre 2005, causa C-291/03 (Racc. pag. I-0000), punto 17.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 243
un recupero dell’importo attraverso la procedura ordinaria si riveli «praticamente impossibile
o eccessivamente difficile» (ad esempio, nel caso della Reemtsma, qualora il suo prestatore
di servizi italiano abbia cessato di esistere). Infine, il principio di non discriminazione
imporrebbe allo Stato membro che abbia concesso un’azione nei confronti delle autorità tributarie
al destinatario stabilito all’interno del suo territorio di conferire il medesimo diritto di
azione al destinatario stabilito in un altro Stato membro.
83. Il governo italiano concorda con la Commissione nei limiti in cui questa riconosce
la legittimità del sistema istituito in Italia. Esso è invece in disaccordo con l’ulteriore tesi
della Commissione, secondo la quale il destinatario dev’essere legittimato ad agire per la
restituzione direttamente nei confronti delle autorità tributarie qualora, per qualunque ragione,
una sua azione civile nei confronti del prestatore non possa essere esperita.
84. Ciò nonostante, ritengo che l’analisi svolta dalla Commissione sia assolutamente
convincente.
85. In primo luogo, il sistema di rimedi processuali applicabile in Italia, come innanzi
descritto, appare in via di principio compatibile con la normativa e con la giurisprudenza in
materia di sistema comunitario dell’IVA. Se il prestatore, che abbia erroneamente fatturato e
riscosso l’IVA su una determinata operazione, versandola poi alle autorità tributarie, può
domandare la restituzione del relativo importo da parte di tali autorità, e il destinatario nell’ambito
della medesima operazione è legittimato a recuperare tale importo dal prestatore
mediante un’azione civile, allora i principi di neutralità dell’IVA e di effettività della tutela
giurisdizionale con riferimento al recupero dell’imposta pagata erroneamente sono rispettati.
86. In secondo luogo, un sistema del genere è, in via di principio, sufficiente. In tutte
le situazioni in cui esso può produrre l’esito preconizzato – restituzione integrale alla persona
sulla quale ha inciso l’onere dell’imposta pagata erroneamente – è superfluo prevedere
qualunque altro rimedio aggiuntivo a favore del destinatario nei confronti delle autorità tributarie.
Di conseguenza, non occorre prevedere un’azione diretta in favore del destinatario
nei confronti delle autorità tributarie, del genere di quella che la Reemtsma sembra aver tentato
di esperire, a meno che il sistema di rimedi di base sia stato messo in moto ma, a causa
di circostanze di fatto indipendenti dal merito dell’azione (52), non abbia prodotto l’esito
normale.
87. In terzo luogo, possono verificarsi casi in cui, appunto, tale esito non si produce. In
queste ipotesi, affinché siano rispettati i principi di neutralità dell’IVA e di effettività è
necessario che sia praticabile qualche altra soluzione. È difficile immaginare altra soluzione
che non sia quella di permettere al destinatario, sul quale ha inciso l’intero onere dell’IVA
fatturata erroneamente, di agire direttamente nei confronti delle autorità tributarie, le quali,
se dovessero trattenere l’IVA così riscossa, risulterebbero indebitamente arricchite.
88. Sotto questo profilo, all’udienza sono stati discussi due punti.
89. Da un lato, la Commissione ha affermato che tali casi sono estremamente rari, ed è
improbabile che possano incidere in maniera rilevante sul sistema procedurale di base, laddove
invece il governo italiano ha asserito che essi possono considerarsi molto meno rari.
Ritengo tuttavia che la frequenza del manifestarsi di tali casi non debba assumere alcuna
(52) Ad esempio, l’insolvenza del prestatore.
244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
rilevanza. Ciò che importa è che, ogniqualvolta situazioni del genere si verifichino, esse
debbono essere trattate in ossequio ai principi di neutralità ed effettività.
90. D’altro lato, il governo italiano ha sostenuto che un rimedio per prevenire l’indebito
arricchimento da parte delle autorità tributarie, nell’ipotesi di IVA pagata per errore,
dovrebbe essere predisposto soltanto ove vi fosse anche un corrispondente rimedio per prevenire
l’indebito impoverimento dell’erario nell’ipotesi di omesso pagamento di un’IVA
effettivamente dovuta. Con ciò sembra volersi affermare che, altrimenti, vi sarebbe una
qualche forma di indebito arricchimento a favore del destinatario. Tale argomento mi pare
però frutto di un fraintendimento. Qualora il prestatore abbia fatturato l’IVA al destinatario
e l’abbia da lui riscossa, ma abbia poi omesso di versarla alle autorità tributarie, non vi è
alcun indebito arricchimento in capo al destinatario (pur potendovi essere effettivamente
indebito arricchimento e/o frode in capo al prestatore). Se il prestatore non ha né fatturato
l’IVA al destinatario su un’operazione imponibile, né l’ha dunque riscossa da lui, ove il
destinatario sia a sua volta un soggetto imponibile, egli non avrà alcuna IVA da dedurre e
non si sarà dunque indebitamente arricchito – e/o, indipendentemente dal fatto che sia un
destinatario commerciale oppure un consumatore finale, egli può essere a sua volta implicato
in una frode ai danni del fisco. In quest’ultima situazione, giustamente la normativa
nazionale potrà prevedere l’applicazione di sanzioni penali e il pagamento coercitivo dell’importo
di cui trattasi.
91. Infine, concordo con la Commissione sul fatto che il principio di equivalenza impone
allo Stato membro, che conferisca al destinatario stabilito sul proprio territorio un’azione
diretta di ripetizione nei confronti delle autorità tributarie, di riconoscere il medesimo
diritto di azione al destinatario stabilito in un altro Stato membro. Dinanzi alla Corte, tuttavia,
non è stato precisato se ciò sia quanto avviene in Italia.
92. Ritengo pertanto che, qualora l’IVA su una determinata operazione, pur non essendo
dovuta, sia stata fatturata e pagata alle autorità tributarie da un prestatore di servizi o fornitore
di beni – che sarebbe stato il debitore se l’IVA fosse stata dovuta – è in via di principio
sufficiente, in ossequio ai principi di neutralità dell’IVA e di effettività delle norme
nazionali relative alla restituzione delle imposte riscosse in contrasto con il diritto comunitario,
che vi siano procedimenti nazionali mediante i quali tale soggetto può domandare la
restituzione del relativo importo alle dette autorità, e che il destinatario dell’operazione sia
legittimato a recuperare l’importo nei confronti del prestatore mediante un’azione civile.
Ove però l’esito favorevole di un’azione civile del genere sia precluso in ragione di circostanze
di fatto indipendenti dal merito dell’azione, il diritto nazionale deve predisporre, in
ossequio al principio di neutralità dell’IVA, al principio di effettività e al divieto di indebito
arricchimento in capo alle autorità tributarie, procedure mediante le quali il destinatario
sul quale ha inciso l’onere dell’importo erroneamente fatturato possa recuperare tale importo
nei confronti delle autorità tributarie. In ogni caso, ove un’azione sia esperibile da parte
del destinatario nell’ambito di una tale transazione che sia stabilito all’interno dello Stato
membro di cui trattasi, essa deve essere esperibile anche da parte del destinatario che sia stabilito
in un altro Stato membro.
È rilevante ai fini della valutazione il fatto che altre norme nazionali nel settore della
tassazione diretta consentano un’azione congiunta di entrambe le parti nei confronti delle
autorità tributarie, in circostanze grosso modo analoghe?
93. A quanto consta, qualora l’imposta sui redditi sia stata erroneamente trattenuta alla
fonte dal datore di lavoro e versata alle autorità tributarie, il diritto italiano consente tanto al
datore di lavoro quanto al lavoratore dipendente di domandarne la restituzione alle autorità
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 245
tributarie. Il giudice del rinvio si chiede se la previsione di una tale legittimazione ad agire,
individuale o congiunta, in quella situazione, a fronte di una sua mancata previsione a favore
del prestatore e del destinatario della prestazione in una situazione IVA del tipo in discussione
nella causa principale, non sia in contrasto con il principio di equivalenza o di non
discriminazione sancito dal diritto comunitario.
94. La Commissione, pur sottolineando che la Corte non è stata edotta in modo esauriente
sulle norme italiane in materia di tassazione diretta, ritiene in generale che una situazione
in quel settore non sia equiparabile ad una situazione nell’ambito dell’IVA. In quest’ultimo
settore, è in via di principio soltanto il prestatore ad avere un rapporto giuridico
diretto con le autorità tributarie. In realtà, l’intero sistema della tassazione diretta è del tutto
indipendente da quello dell’IVA. Poiché il principio di non discriminazione riguarda soltanto
situazioni tra loro comparabili, esso non viene rilievo nel presente caso.
95. A tale proposito, sono del tutto d’accordo con la Commissione.
Conclusione
96. Alla luce delle considerazioni innanzi esposte, ritengo che le questioni sollevate
dalla Corte Suprema di Cassazione debbano essere risolte nel modo seguente:
(1) Gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 79/1072/CEE devono essere interpretati
nel senso che l’IVA che sia dovuta soltanto in quanto indicata in fattura non dà diritto
al rimborso ai sensi delle disposizioni di tale direttiva.
(2) In via di principio, soltanto il prestatore di servizi o il fornitore di beni dev’essere
considerato, nei confronti delle autorità tributarie, debitore dell’IVA su un’operazione, e, di
conseguenza, legittimato a pretendere la restituzione dell’imposta pagata per errore.
Qualora, eccezionalmente, in forza del diritto comunitario o di disposizioni nazionali autorizzate,
il debitore sia un’altra persona, tale persona può domandare la restituzione, nei confronti
delle autorità tributarie verso le quali era obbligata, di qualunque imposta erroneamente
pagata.
(3) Qualora l’IVA su una determinata operazione, pur non essendo dovuta, sia stata fatturata
e pagata alle autorità tributarie da un prestatore di servizi o fornitore di beni – che
sarebbe stato il debitore se l’IVAfosse stata dovuta – è in via di principio sufficiente, in ossequio
ai principi di neutralità dell’IVA e di effettività delle norme nazionali relative alla restituzione
delle imposte riscosse in contrasto con il diritto comunitario, che vi siano procedimenti
nazionali mediante i quali tale soggetto può domandare la restituzione del relativo
importo alle dette autorità, e che il destinatario dell’operazione sia legittimato a recuperare
lo stesso importo nei confronti del prestatore mediante un’azione civile. Ove però l’esito
favorevole di un’azione civile del genere sia precluso in ragione di circostanze di fatto indipendenti
dal merito dell’azione, il diritto nazionale deve predisporre, in ossequio al principio
di neutralità dell’IVA, al principio di effettività e al divieto di indebito arricchimento in
capo alle autorità tributarie, procedure mediante le quali il destinatario sul quale ha inciso
l’onere dell’importo erroneamente fatturato possa recuperare tale importo nei confronti
delle autorità tributarie. In ogni caso, ove un’azione sia esperibile da parte del destinatario
nell’ambito di una tale transazione che sia stabilito all’interno dello Stato membro di cui
trattasi, essa deve essere esperibile anche da parte del destinatario che sia stabilito in un altro
Stato membro.
(4) Il fatto che la normativa nazionale attribuisca un’azione, nei confronti delle autorità
tributarie, per la restituzione di un importo erroneamente trattenuto e pagato, a titolo di
imposta diretta, in favore tanto della parte che ha effettuato la trattenuta quanto della parte
246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sul cui reddito la trattenuta è stata effettuata, non rileva, in via di principio, in sede di valutazione
della compatibilità con il principio di equivalenza di una situazione in cui soltanto
il prestatore di servizi o fornitore di beni – e non il destinatario nell’ambito di un’operazione
– può chiedere la restituzione alle autorità tributarie di un importo fatturato e pagato per
errore a titolo di IVA.
Corte di giustizia delle Comunità europee, seconda sezione, Sentenza 15 marzo 2007
nel procedimento C-35/05 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte
Suprema di Cassazione, con ordinanza 23 giugno 2004, pervenuta in cancelleria il 31
gennaio 2005, nella causa tra Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH e Ministero delle
Finanze – Pres. di sez. C.W.A. Timmermans – Rel. G. Arestis - Avv. gen. E. Sharpston
(Avv. dello Stato G. De Bellis).
«1.- La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 2 e 5
dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari –
Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti
all’interno del paese (G.U. L 331, pag. 11; in prosieguo: l’«ottava direttiva»).
2.- Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra la società
Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH (in prosieguo: la «Reemtsma») e il Ministero delle
Finanze in merito al rifiuto di quest’ultimo di rimborsare parzialmente alla detta società
l’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») applicata a prestazioni di promozione
pubblicitaria e di marketing fornitele in Italia.
CONTESTO NORMATIVO
La normativa comunitaria
3.- L’art. 2 dell’ottava direttiva dispone quanto segue:
«Ciascuno Stato membro rimborsa ad ogni soggetto passivo non residente all’interno
del paese, ma residente in un altro Stato membro, alle condizioni stabilite in appresso, l’imposta
sul valore aggiunto applicata a servizi che gli sono resi o beni mobili che gli sono
ceduti all’interno del paese da altri soggetti passivi, o applicata all’importazione di beni nel
paese, nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui
all’articolo 17, paragrafo 3, lettere a) e b), della direttiva 77/388/CEE o delle prestazioni di
servizi di cui all’articolo 1, lettera b)».
4.- L’art. 5, primo comma, dell’ottava direttiva così prevede:
«Ai fini della presente direttiva il diritto al rimborso dell’imposta è determinato conformemente
all’articolo 17 della direttiva 77/388/CEE, quale si applica nello Stato membro
del rimborso».
5 .- Ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977,
77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle
imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile
uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 14 dicembre
1992, 92/111/CEE (G.U. L 384, pag. 47; in prosieguo: la «sesta direttiva»):
«[I]l luogo delle seguenti prestazioni di servizi, rese a (...) soggetti passivi stabiliti nella
Comunità, ma fuori del paese del prestatore, è quello in cui il destinatario ha stabilito la sede
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 247
della sua attività economica o ha costituito un centro di attività stabile per il quale si è avuta
la prestazione di servizi o, in mancanza di tale sede o di tale centro d’attività stabile, il luogo
del suo domicilio o della sua residenza abituale: (…)
– prestazioni pubblicitarie; (…)».
6.- L’art. 17 della sesta direttiva è così formulato:
«1. Il diritto a deduzione nasce quando l’imposta deducibile diventa esigibile.
2. Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad
imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore:
a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per i beni che gli sono o gli saranno
forniti e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo; (…)
3. Gli Stati membri accordano altresì ad ogni soggetto passivo la deduzione o il rimborso
dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 2 nella misura in cui i beni e i servizi
sono utilizzati ai fini:
a) di sue operazioni relative alle attività economiche di cui all’articolo 4, paragrafo 2,
effettuate all’estero, che darebbero diritto a deduzione se fossero effettuate all’interno del
paese; (…)».
7.- Ai sensi dell’art. 21, punto 1, della sesta direttiva:
«L’imposta sul valore aggiunto è dovuta:
1) in regime interno:
a) dai soggetti passivi che eseguono una cessione di beni o una prestazione di servizi
imponibile, diversa dalle prestazioni di servizi di cui alla lettera b). Quando la cessione dei
beni o la prestazione di servizi imponibile è effettuata da un soggetto passivo non residente
all’interno del paese, gli Stati membri possono prendere disposizioni intese a stabilire che
l’imposta sia dovuta da una persona diversa. A tale scopo possono in particolare essere designati
un rappresentante fiscale o il destinatario della cessione dei beni o della prestazione di
servizi (…) Gli Stati membri possono inoltre prevedere che una persona diversa dal soggetto
passivo sia solidalmente tenuta ad assolvere l’imposta;
b) dal destinatario di un servizio di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e) o dal destinatario,
registrato ai fini dell’imposta sul valore aggiunto all’interno del paese, di un servizio
di cui all’articolo 28 ter, parti C, D e E, quando il servizio è prestato da un soggetto passivo
residente all’estero; tuttavia, gli Stati membri possono prevedere che il prestatore sia
tenuto in solido a pagare l’imposta;
c) da chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in un altro documento
che ne fa le veci».
La normativa nazionale
8.- Il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, recante istituzione
e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto (Supplemento ordinario alla GURI n. 1
dell’11 novembre 1972, pag. 1; in prosieguo: il «d.P.R. n. 633/72»), adottato in attuazione
dell’ottava direttiva, all’art. 17, primo comma, stabilisce quanto segue:
«Soggetti passivi – L’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e
le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario, cumulativamente per
tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art. 19, nei modi e nei
termini stabiliti nel titolo secondo».
9.- L’art. 19, secondo comma, del medesimo decreto così prevede:
«Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi
afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta (…)».
10.- L’art. 38 ter del d.P.R. n. 633/72 è così formulato:
«I soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della Comunità economica europea,
che non si siano identificati direttamente ai sensi dell’articolo 35 ter e che non abbiano
nominato un rappresentante ai sensi del secondo comma dell’art. 17, assoggettati all’imposta
nello Stato in cui hanno il domicilio o la residenza, che non hanno effettuato operazioni
in Italia, ad eccezione delle prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie non
imponibili ai sensi dell’art. 9, nonché delle prestazioni indicate all’art 7, quarto comma, lettera
d), possono ottenere, in relazione a periodi inferiori all’anno, il rimborso dell’imposta,
se detraibile a norma dell’art. 19, relativa ai beni mobili e ai servizi importati o acquistati,
sempreché di importo complessivo non inferiore a duecento euro (…)».
CAUSA PRINCIPALE E QUESTIONI PREGIUDIZIALI
11.- I fatti quali risultano dall’ordinanza di rinvio sono riassumibili come segue.
12.- La Reemtsma è una società con sede in Germania e non ha alcun centro di attività
stabile in Italia. Nel 1994 una società italiana ha fornito a detta impresa prestazioni di promozione
pubblicitaria e marketing, fatturando a quest’ultima l’importo complessivo di
ITL 175 022 025 a titolo di IVA.
13 .- L’IVA è stata posta a carico della Reemtsma e versata all’erario italiano.
14.- La Reemtsma ha quindi chiesto il rimborso parziale di due somme versate a titolo
di IVA relative all’anno 1994, ritenendo di averle indebitamente corrisposte, poiché le prestazioni
in questione erano state effettuate nei confronti di un soggetto passivo d’imposta
stabilito in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana, nella fattispecie in
Germania, cosicché l’IVA risultava dovuta in quest’ultimo Stato membro.
15.- Le autorità fiscali italiane hanno rifiutato tale rimborso e la Reemtsma ha contestato
detto rifiuto dinanzi ai giudici italiani. Il suo ricorso è stato respinto sia in primo grado sia in
appello, con la motivazione che le fatture emesse erano relative a prestazioni di promozione
pubblicitaria e di marketing non soggette ad IVA per mancanza del presupposto territoriale in
quanto effettuate nei confronti di soggetti passivi imponibili in altro Stato membro.
16.- La Reemtsma ha quindi adito la Corte Suprema di Cassazione che, ritenendo dipendere
la soluzione della causa dall’interpretazione di norme e principi comunitari, ha deciso di
sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva (…), nella parte in cui subordinano il rimborso
a favore del cessionario o committente non residente all’utilizzazione dei beni e servizi
per il compimento di operazioni soggette ad imposta, debbano essere interpretati nel
senso che anche l’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario
sia rimborsabile; in caso di risposta affermativa, se sia contraria alle citate disposizioni della
[detta] direttiva una norma nazionale che escluda il rimborso del cessionario/committente
non residente in considerazione della non detraibilità dell’imposta addebitata e versata benché
non dovuta.
2) Se, in generale, possa ricavarsi dalla disciplina comunitaria uniforme la qualità di
debitore di imposta, nei confronti dell’erario, del cessionario/committente; se sia compatibile
con tale disciplina, e in particolare coi principi di neutralità dell’IVA, di effettività e di
non discriminazione, la mancata attribuzione, nel diritto interno, al cessionario/committente
che sia soggetto IVA, e che la legislazione nazionale considera come destinatario degli
obblighi di fatturazione e di pagamento dell’imposta, di un diritto al rimborso nei confronti
dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; se sia contraria ai
248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
principi di effettività e di non discriminazione, in tema di rimborso di IVA riscossa in violazione
del diritto comunitario, una disciplina nazionale – ricavata dall’interpretazione datane
dai giudici nazionali – che consente al cessionario/committente di agire solo nei confronti
del cedente/prestatore del servizio, e non nei confronti dell’erario, pur nell’esistenza nell’ordinamento
nazionale di un caso simile, costituito dalla sostituzione nel campo delle imposte
dirette, nel quale entrambi i soggetti (sostituto e sostituito) sono legittimati a chiedere il
rimborso all’erario».
SULLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI
Sulla prima questione
17.- Con la prima questione il giudice a quo chiede, in sostanza, se gli artt. 2 e 5 dell’ottava
direttiva debbano essere interpretati nel senso che l’IVAnon dovuta ed erroneamente
fatturata al destinatario delle prestazioni, poi versata all’erario dello Stato membro del
luogo di tali prestazioni, possa essere rimborsata.
18.- In via preliminare, occorre rilevare che il sistema comune dell’IVA non prevede
espressamente il caso in cui tale imposta venga fatturata per errore.
19.- Le parti della causa principale non contestano che le prestazioni effettuate a favore
della Reemtsma, consistenti in servizi di promozione pubblicitaria e di marketing, fossero
esenti da IVA. Secondo l’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva, infatti, il luogo delle prestazioni
di servizi pubblicitari, rese a destinatari stabiliti nella Comunità, ma fuori del paese
del prestatore, è quello in cui il destinatario ha stabilito la sede della sua attività economica
o ha costituito un centro di attività stabile per il quale si è avuta la prestazione di servizi.
Nella causa principale, le prestazioni in questione si reputano effettuate in Germania.
20.- Quanto all’art. 2 dell’ottava direttiva, esso stabilisce che ogni soggetto passivo
residente in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova il luogo delle prestazioni ha
diritto al rimborso dell’IVA applicata a servizi che gli sono stati resi all’interno dello Stato
membro ove detto luogo si trova ai fini delle operazioni di cui all’art. 17, n. 3, lett. a), della
sesta direttiva. Ai sensi dell’art. 5, primo comma, dell’ottava direttiva, il rimborso è determinato
conformemente all’art. 17 della sesta direttiva, quale si applica nello Stato membro
del rimborso.
21.- La Reemtsma osserva che il fatto che il diritto al rimborso sia limitato unicamente
all’IVA detraibile non significa che l’imposta indebitamente fatturata e versata all’erario
non possa essere rimborsata. Infatti, l’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, come interpretato
dalla Corte nella sentenza 17 settembre 1997, causa C-141/96, Langhorst
(Racc. pag. I-5073), contrasterebbe con il principio secondo cui il diritto a detrazione si
applica solamente alle imposte dovute. Detta società considera che il diritto di detrarre l’imposta
è uno degli strumenti principali che permettono di garantire il principio della neutralità
dell’IVA e, di conseguenza, non può subire limitazioni.
22.- Il governo italiano e la Commissione delle Comunità europee sostengono, invece,
che non vi è ragione d’invocare gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva per chiedere il rimborso
dell’IVA erroneamente fatturata, poiché manca il diritto di detrazione dell’imposta versata
di cui all’art. 17, n. 2, della sesta direttiva. La sentenza 13 dicembre 1989, causa C-342/87,
Genius Holding (Racc. pag. 4227), deporrebbe infatti in senso contrario al diritto di detrarre
l’IVA indebitamente fatturata e versata all’erario.
23.- In via preliminare, occorre ricordare che, al punto 13 della citata sentenza Genius
Holding, la Corte ha rilevato che l’esercizio del diritto a detrazione è limitato soltanto alle
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 249
imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’IVA o
versate in quanto dovute. In tal senso, la Corte ha dichiarato che tale diritto a detrazione non
si estende all’IVA dovuta, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, esclusivamente
per il fatto di essere indicata nella fattura (v., in particolare, sentenza Genius Holding,
cit., punto 19). A tale riguardo, la Corte ha ulteriormente confermato detta giurisprudenza
nelle sentenze 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strobel
(Racc. pag. I-6973, punto 53), e 6 novembre 2003, cause riunite da C-78/02 a C-80/02,
Karageorgou e a. (Racc. pag. I-13295, punto 50).
24.- In tale contesto, occorre verificare se la giurisprudenza citata al punto precedente
trovi applicazione nell’ambito dell’ottava direttiva.
25.- In proposito occorre ricordare che l’ottava direttiva non ha lo scopo di mettere in
discussione il sistema attuato dalla sesta direttiva (v., in particolare, sentenza 26 settembre
1996, causa C-302/93, Debouche, Racc. pag. I-4495, punto 18).
26.- Inoltre, l’ottava direttiva è intesa a stabilire le modalità di rimborso dell’IVA versata
in uno Stato membro ad opera di soggetti passivi stabiliti in un altro Stato membro. La
sua finalità è quindi di armonizzare il diritto al rimborso qual è sancito dall’art. 17, n. 3,
della sesta direttiva (v., in particolare, sentenza 13 luglio 2000, causa C-136/99, Monte dei
Paschi di Siena, Racc. pag. I-6109, punto 20). Come risulta, infatti, dal punto 19 della presente
sentenza, gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva rinviano esplicitamente all’art. 17 della
sesta direttiva.
27.- Ciò posto, dal momento che il diritto a detrazione, ai sensi del citato art. 17, non
può essere esteso anche all’IVA erroneamente addebitata e versata all’erario, occorre rilevare
che questa stessa IVAnon può formare oggetto di rimborso in forza delle disposizioni dell’ottava
direttiva.
28.- Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione
dichiarando che gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva devono essere interpretati nel senso che
l’IVA non dovuta ed erroneamente fatturata al destinatario delle prestazioni, poi versata
all’erario dello Stato membro del luogo di tali prestazioni, non può formare oggetto di rimborso
in forza delle dette disposizioni.
Sulla seconda questione
29.- Con la sua seconda questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se, in una
situazione quale quella della causa principale, è sufficiente che il destinatario di servizi
abbia il diritto di chiedere il rimborso dell’IVA al prestatore che ha indebitamente fatturato
detta imposta, il quale, a sua volta, potrebbe chiederne il rimborso all’autorità tributaria, o
se tale destinatario debba poter rivolgere la sua richiesta direttamente a tale autorità. La presente
questione si suddivide in tre parti.
30.- In primo luogo, il giudice a quo domanda se il destinatario di servizi possa essere
considerato, in maniera generale, come il debitore dell’IVA nei confronti delle autorità tributarie
dello Stato membro del luogo delle prestazioni.
31 .- In proposito occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. a), della sesta
direttiva, «l’imposta sul valore aggiunto è dovuta (…) in regime interno (…) dai soggetti
passivi che eseguono una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile, diversa
dalle prestazioni di servizi di cui alla lettera b)». Detto art. 21 stabilisce, dunque, la regola
di principio secondo la quale solo il prestatore è tenuto a versare l’IVA ed ha obbligazioni
nei confronti delle autorità tributarie. Tuttavia, talune eccezioni a detta regola sono elencate
tassativamente dalla stessa disposizione, mentre altre possono essere autorizzate dal
Consiglio dell’Unione europea sulla base dell’art. 27 della sesta direttiva. In tal senso, quan-
250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 251
do una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile viene effettuata da un soggetto
passivo non residente all’interno del paese, gli Stati membri possono adottare disposizioni
con le quali prevedono che l’imposta sia dovuta da un altro soggetto, che può essere
il destinatario dei servizi imponibili.
32.- Ora, benché in una situazione come quella della causa principale, ove trova applicazione
il meccanismo di trasferimento dell’obbligazione tributaria di cui all’art. 9, n. 2,
lett. e), della sesta direttiva, la Reemtsma avrebbe potuto chiedere il rimborso dell’IVA in
quanto debitrice dell’imposta, si ricordi che, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo
77 delle sue conclusioni, tale meccanismo dà luogo a un rapporto tra la Reemtsma e
le autorità tributarie dello Stato membro di stabilimento, nel caso di specie la Repubblica
federale di Germania, e non le autorità dello Stato membro in cui il prestatore ha indebitamente
fatturato e versato l’IVA, vale a dire la Repubblica italiana.
33.- Occorre, pertanto, risolvere la prima parte della seconda questione dichiarando
che, ad eccezione dei casi espressamente previsti dalle disposizioni di cui all’art. 21, punto
1, della sesta direttiva, solo il prestatore dev’essere considerato debitore dell’IVA nei confronti
delle autorità tributarie dello Stato membro del luogo delle prestazioni.
34.- In secondo luogo, il giudice del rinvio chiede alla Corte se il sistema comune
dell’IVA e i principi di neutralità, effettività e non discriminazione ostino a una legislazione
nazionale, quale quella in esame nella causa principale, che non conferisce al destinatario di
servizi un diritto al rimborso dell’IVA da parte dell’autorità tributaria nel caso in cui tale
imposta, non dovuta, sia stata comunque versata dal detto destinatario all’autorità tributaria
dello Stato membro del luogo delle prestazioni.
35.- La Reemtsma osserva che il principio di effettività implica che la legislazione
nazionale non ostacoli l’esercizio del diritto al rimborso delle somme versate a titolo di IVA
in violazione della relativa normativa vigente. Tale principio, infatti, potrebbe essere leso a
causa dell’insolvenza del prestatore o di eventuali giudicati contraddittori fra giudice civile
e giudice tributario.
36.- Al contrario, la Commissione ritiene accettabile un sistema fiscale quale quello
realizzato in Italia, in cui, da un lato, solamente il prestatore può, in linea di principio, chiedere
il rimborso dell’IVA alle autorità tributarie e, dall’altro, il destinatario dei servizi è
legittimato a reclamare la somma indebitamente corrisposta al prestatore secondo le regole
del diritto civile. In proposito, gli Stati membri sarebbero liberi di scegliere la procedura che
ritengano idonea ad assicurare tale rimborso, purché il principio di effettività sia rispettato.
L’attuazione di tale principio potrebbe, in tal senso, imporre che il destinatario della prestazione
di servizi possa agire direttamente nei confronti di dette autorità qualora il rimborso
dovesse rivelarsi praticamente impossibile o eccessivamente difficile.
37.- A tal proposito occorre rilevare che, in mancanza di disciplina comunitaria in
materia di domande di rimborso delle imposte, spetta all’ordinamento giuridico interno di
ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possano essere
presentate, purché i requisiti in questione rispettino i principi di equivalenza e di effettività,
vale a dire, non siano meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi di
natura interna e non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile l’esercizio
dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (v., in particolare, sentenze
17 giugno 2004, causa C-30/02, Recheio – Cash & Carry, Racc. pag. I-6051, punto 17, e 6
ottobre 2005, causa C-291/03, MyTravel, Racc. pag. I-8477, punto 17).
38.- Si deve altresì ricordare che la sesta direttiva non contiene alcuna disposizione
relativa alla regolarizzazione, da parte di chi emette la fattura, dell’IVA indebitamente fat252
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
turata. La sesta direttiva definisce solo, all’art. 20, le condizioni che devono essere soddisfatte
affinché la detrazione delle imposte a monte possa essere regolarizzata presso il destinatario
della cessione di beni o della prestazione di servizi. Alla luce di queste considerazioni,
spetta in via di principio agli Stati membri determinare le condizioni in cui l’IVA indebitamente
fatturata può essere regolarizzata (v. sentenza Schmeink & Cofreth e Strobel, cit.,
punti 48 e 49).
39.- Alla luce della giurisprudenza citata nei due punti precedenti, si deve riconoscere
che, in via di principio, un sistema come quello in discussione nella causa principale, in cui,
da un lato, il prestatore che ha versato erroneamente l’IVA alle autorità tributarie è legittimato
a chiederne il rimborso e, dall’altro, il destinatario dei servizi può esercitare un’azione
civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore, rispetta i principi di
neutralità ed effettività. Tale sistema, infatti, consente a detto destinatario gravato dell’imposta
erroneamente fatturata di ottenere il rimborso delle somme indebitamente versate.
40.- Giova inoltre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di
una specifica disciplina comunitaria, in forza del principio dell’autonomia processuale degli
Stati membri, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le
modalità procedurali per garantire la salvaguardia dei diritti di cui i soggetti godono ai sensi
dell’ordinamento comunitario (v., in particolare, sentenze 16 maggio 2000, causa C-78/98,
Preston e a., Racc. pag. I-3201, punto 31, nonché 19 settembre 2006, cause riunite C-392/04
e C-422/04, i-21 Germany e Arcor, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 57).
41.- In proposito, come correttamente fatto valere dalla Commissione, se il rimborso
dell’IVA risulta impossibile o eccessivamente difficile, segnatamente in caso d’insolvenza
del prestatore, detti principi possono imporre che il destinatario di servizi sia legittimato ad
agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie. Gli Stati membri
devono dunque prevedere gli strumenti e le modalità procedurali necessari per consentire a
detto destinatario di recuperare l’imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il
principio di effettività.
42.- Pertanto, occorre risolvere la seconda parte della seconda questione dichiarando
che i principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano ad una legislazione
nazionale, quale quella in esame nella causa principale, secondo cui soltanto il prestatore di
servizi è legittimato a chiedere il rimborso delle somme indebitamente versate alle autorità
tributarie a titolo di IVA, mentre il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica
di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore. Tuttavia, nel caso in cui il rimborso
dell’IVAdivenga impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere,
in ossequio al principio di effettività, gli strumenti necessari per consentire a tale
destinatario di recuperare l’imposta indebitamente fatturata.
43.- In terzo luogo, il giudice remittente domanda alla Corte se i principi di equivalenza
e non discriminazione ostino a una legislazione nazionale, come quella in esame nella
causa principale, che consente al destinatario di servizi di agire solo nei confronti del prestatore,
e non nei confronti delle autorità tributarie, pur esistendo nel sistema nazionale delle
imposte dirette un caso in cui, nell’ipotesi di riscossione indebita, sia il soggetto incaricato
della riscossione sia il soggetto inciso possono agire nei confronti di tali autorità.
44.- A tal proposito è sufficiente rilevare che, secondo costante giurisprudenza della
Corte, il divieto di discriminazione non è che un’espressione specifica del principio generale
di uguaglianza nel diritto comunitario, il quale impone che situazioni analoghe non siano
trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a
meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato (v., in particolare, sentenze
18 maggio 1994, causa C-309/89, Codorniu/Consiglio, Racc. pag. I-1853, punto 26, e 17
luglio 1997, causa C-354/95, National Farmers’ Union e a., Racc. pag. I-4559, punto 61).
45.- Nel caso di specie, il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun
rapporto con quello dell’IVA. Di conseguenza, la soluzione relativa alla seconda parte della
seconda questione non è inficiata dalla normativa nazionale in materia di imposizione diretta.
SULLE SPESE
46.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar
luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) Gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in
materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla
cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi
non residenti all’interno del paese, devono essere interpretati nel senso che l’imposta
sul valore aggiunto non dovuta ed erroneamente fatturata al destinatario delle prestazioni,
poi versata all’erario dello Stato membro del luogo di tali prestazioni, non può formare
oggetto di rimborso ai sensi di tali disposizioni.
2) Ad eccezione dei casi espressamente previsti dalle disposizioni di cui all’art. 21, punto
1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione
delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema
comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla
direttiva del Consiglio 14 dicembre 1992, 92/111/CEE, solo il prestatore dev’essere considerato
debitore dell’imposta sul valore aggiunto nei confronti delle autorità tributarie.
3) I principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano ad una legislazione
nazionale, quale quella in esame nella causa principale, secondo cui soltanto il prestatore
di servizi è legittimato a chiedere il rimborso delle somme indebitamente versate alle
autorità tributarie a titolo di imposta sul valore aggiunto, mentre il destinatario dei servizi
può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore.
Tuttavia, nel caso in cui il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto divenga impossibile o
eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere, in ossequio al principio di effettività,
gli strumenti necessari per consentire a tale destinatario di recuperare l’imposta
indebitamente fatturata. Tale soluzione non è inficiata dalla normativa nazionale in materia
di imposizione diretta».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 253
254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Un significativo allargamento
dell’in house providing
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, seconda sezione,
sentenza 19 aprile 2007)
La Corte di Giustizia di Lussemburgo, con la sentenza del 19 aprile
2007, resa in causa pregiudiziale C-295/05 (Ademfo c/o Tragsa) ha stabilito
che le direttive comunitarie sugli appalti pubblici “non ostano ad un regime
giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA, che le consente,
in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo
interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare
operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalla direttiva
in parola, dal momento che, da un lato le amministrazioni pubbliche interessate
esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato
su propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più
importante della sua attività con amministrazioni di cui trattasi”
La novità e l’importanza della decisione non è tanto nel fatto che la Corte
abbia richiamato i noti principi degli appalti in house (a partire dalla sentenza
Teckal del novembre 1999), quanto nella circostanza che li abbia applicati
in relazione ad una società che opera nell’interesse di più amministrazioni
pubbliche e presenta una struttura organizzativa tipica delle imprese.
La Transformación Agraria SA è infatti una società statale spagnola, che
presta servizi essenziali in materia di sviluppo rurale e conservazione dell’ambiente
e al cui capitale partecipano enti locali. La Tragsa si occupa di
realizzare ogni tipo di attività, lavori e prestazioni di servizi inerenti l’agricoltura,
il settore zootecnico, lo sviluppo rurale, la conservazione dell’ambiente
fisico e naturale, l’acquicoltura e la pesca nonché “le attività necessarie
al miglioramento e all’utilizzo e della gestione di risorse naturali, segnatamente
l’esecuzione di opere di conservazione e valorizzazione del patrimonio
storico spagnolo nelle campagne”.
In quanto strumento esecutivo e servizio tecnico dell’amministrazione la
Tragsa è tenuta ad effettuare in via esclusiva, direttamente o per il tramite
delle sue controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’Amministrazione generale
dello Stato, nelle materie che costituiscono l’oggetto sociale della società
e, segnatamente quelli che hanno carattere urgente o che sono stati ordinati
in seguito alla constatazione di situazioni urgenti…
Quale corrispettivo per i lavori, l’assistenza tecnica, le consulenze e le forniture
e la prestazione di servizi ad essa affidati la Tragsa e le sue filiali ricevono
(dalle amministrazioni che affidano i lavori) un importo corrispondente alle
spese da loro sostenute, in applicazione di un sistema tariffario predeterminato.
In altre parole la Corte di Giustizia ha ritenuto che non viola le direttive
sugli appalti né crea distorsioni della concorrenza il fatto che le amministrazioni
pubbliche si attrezzino per (auto)produrre attività e servizi che potrebbero
in alternativa costituire prestazioni da richiedere al mercato degli appalti.
La premessa dell’operazione è che l’amministrazione disponga di “fabbriIL
CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 255
che,scorte, officine o servizi tecnici ed industriali idonei alla realizzazione
delle opere progettate”. In tale contesto l’attività di un’impresa pubblica
costituisce strumento lecito di razionalizzazione degli interventi e utile paragone
per la conoscenza dei costi effettivi del settore degli appalti.
A questo punto vanno fatte alcune considerazioni su “casa nostra”.
Sono note le difficoltà di mantenere in vita in Italia il sistema delle partecipazioni
pubbliche e delle gestioni indirette, soprattutto nell’ambito delle
realtà regionali e locali. Ma che cosa differenzia il sistema italiano, spesso
oggetto di contestazioni in sede comunitaria, da quello francese o spagnolo?
Probabilmente il fatto che spesso le imprese pubbliche italiane, nate sul
modello delle partecipazioni statali, sono scatole vuote, meri momenti di
intermediazione, mentre le realtà “in house” di altri Paesi sono strutture tecnicamente
attrezzate di uomini e mezzi.
A partire dagli anni ’80 si è assistito in Italia al progressivo svuotamento
delle funzioni tecniche ed operative delle amministrazioni pubbliche,
sostitute da improbabili affidamenti ad imprese esterne. Progettazioni, lavori,
manutenzioni e tutto ciò che fa esperienza e capacità tecnica di gestione è
stato progressivamente allocato al di fuori delle strutture amministrative,
troppo ingessate nei loro regolamenti ed incapaci di operare con la duttilità
e la rapidità delle imprese private.
Oggi è arrivato forse il momento di invertire questa tendenza; i regolamenti
sono stati aboliti, l’impiego pubblico è stato contrattualizzato e le
amministrazioni potrebbero ricominciare ad assumere i tecnici e ad acquistare
mezzi, per autoprodurre come “imprese pubbliche” attività e servizi concreti
a vantaggio diretto delle collettività nazionali e locali. Il drenaggio di
una piccola parte della spesa (quella che le amministrazioni statali e locali
non riescono a spendere per i tanti appalti e lavori loro affidati) potrebbe
garantire un’occupazione produttiva, oltretutto a costo zero.
Avv. Giuseppe Fiengo
Corte di Giustizia delle Comunità europee, seconda sezione, sentenza 19 aprile 2007(*)
nel procedimento C-295/05 – Pres. di sez. C.W.A. Timmermans – Rel. G. Arestis –
Avv. gen. L.A. Geelhoed – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal
Tribunal Supremo (Spagna), con ordinanza 1° aprile 2005, pervenuta in cancelleria il
21 luglio 2005, nel procedimento tra Asociación Nacional de Empresas Forestales
(Asemfo) e Transformación Agraria SA (Tragsa), Administración del Estado.
«1 .- La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda la questione di accertare se, alla
luce dell’art. 86, n. 1, CE, uno Stato membro possa attribuire ad un’impresa pubblica uno
(*) Lingua processuale: lo spagnolo.
256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
status giuridico che le consenta di realizzare operazioni senza essere assoggettata alle direttive
del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1), 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che
coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (G.U. L 199,
pag. 1) e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori (G.U. L 199, pag. 54), e se il regime in parola sia in contrasto con
tali direttive.
2.- Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra l’Asociación
Nacional de Empresas Forestales (in prosieguo: l’«Asemfo») e l’Administración del Estado
relativamente ad una denuncia concernente il regime giuridico di cui gode la
Transformación Agraria SA (in prosieguo: la «Tragsa»).
CONTESTO NORMATIVO
La normativa comunitaria
3.- L’art. 1 della direttiva 92/50 era così formulato:
«Ai fini della presente direttiva s’intendono per:
a) “appalti pubblici di servizi” i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra
un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice (…)
b) “amministrazioni aggiudicatrici”, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto
pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico. (…)».
4.- L’art. 1 della direttiva 93/36 prevedeva quanto segue:
«Ai fini della presente direttiva si intendono per:
a) “appalti pubblici di forniture”, i contratti a titolo oneroso, aventi per oggetto l’acquisto,
il leasing, la locazione, l’acquisto a riscatto con o senza opzione per l’acquisto di prodotti,
conclusi per iscritto fra un fornitore (persona fisica o giuridica) e una delle amministrazioni
aggiudicatrici definite alla lettera b). La fornitura di tali prodotti può comportare,
a titolo accessorio, lavori di posa e installazione;
b) “amministrazioni aggiudicatrici”, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto
pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico. (...)».
5.- L’art. 1 della direttiva 93/37 era così formulato:
«Ai fini della presente direttiva:
a) gli “appalti pubblici di lavori” sono contratti a titolo oneroso, conclusi in forma scritta
tra un imprenditore e un’amministrazione aggiudicatrice di cui alla lettera b), aventi per
oggetto l’esecuzione o, congiuntamente, l’esecuzione e la progettazione di lavori relativi ad
una delle attività di cui all’allegato II o di un’opera di cui alla lettera c) oppure l’esecuzione,
con qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione
aggiudicatrice;
b) si considerano “amministrazioni aggiudicatrici” lo Stato, gli enti pubblici territoriali,
gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici
territoriali o di tali organismi di diritto pubblico. (…)».
La normativa nazionale
La legislazione sui pubblici appalti
6.- La legge 18 maggio 1995, n. 13, relativa ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni
(BOE 19 maggio 1995, n. 119, pag. 14601), nella sua versione codificata dal
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 257
regio decreto legislativo 16 giugno 2000, n. 2 (BOE 21 giugno 2000, n. 148, pag. 21775; in
prosieguo: la «legge 13/1995»), all’art. 152 recita quanto segue:
«1. L’amministrazione può realizzare opere avvalendosi dei suoi servizi interni e delle
sue risorse di personale o di materiali, ovvero della collaborazione con imprese private, in
quest’ultimo caso purché il valore economico delle opere in questione sia inferiore a (…),
ove ricorra una delle seguenti condizioni:
a) Quando l’amministrazione dispone di fabbriche, scorte, officine o servizi tecnici o
industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate, nel qual caso di norma si deve
fare uso di siffatti strumenti. (…)».
7.- L’art. 194 della legge 13/1995 dispone che:
«1. L’amministrazione può fabbricare beni mobili avvalendosi dei suoi servizi interni
e delle sue risorse di personale e di materiali, oppure in collaborazione con imprese private,
in quest’ultimo caso purché l’importo dei lavori sia inferiore agli importi massimi previsti
dall’art. 177, n. 2, ove ricorra una delle seguenti condizioni:
a) Quando l’amministrazione dispone di fabbriche, scorte, officine o servizi tecnici o
industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate, nel qual caso di norma si deve
fare uso di siffatti strumenti. (…)».
Il regime giuridico della Tragsa
8.- La costituzione della Tragsa è stata autorizzata dall’art. 1 del regio decreto 21 gennaio
1977, n. 379 (BOE 17 marzo 1977, n°65, pag. 6202).
9.- Il regime giuridico della Tragsa istituito da tale regio decreto ha subito successive
modifiche, fino all’adozione della legge 30 dicembre 1997, n. 66, recante misure fiscali,
amministrative e sociali (BOE 31 dicembre 1997, n. 313, pag. 38589), quale modificata
dalle leggi 30 dicembre 2002, n. 53 (BOE 31 dicembre 2002, n. 313, pag. 46086), e 30
dicembre 2003, n. 62 (BOE 31 dicembre 2003, n. 313, pag. 46874 ; in prosieguo : la «legge
66/1997»).
10.- Ai sensi dell’art. 88 della legge 66/1997, intitolato «Regime giuridico»:
«1. [La Tragsa] è una società statale (…) che presta servizi essenziali in materia di sviluppo
rurale e conservazione dell’ambiente, conformemente alle disposizioni della presente legge.
2. Le comunità autonome possono partecipare al capitale sociale della Tragsa tramite
l’acquisto di azioni, la cui vendita deve essere autorizzata dal Ministero delle Finanze, su
proposta del Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione e del Ministero
dell’Ambiente.
3. La Tragsa si occupa di:
a) realizzazione di ogni tipo di attività, lavori e prestazioni di servizi inerenti all’agricoltura,
al settore zootecnico, alle foreste, allo sviluppo rurale, alla conservazione e difesa
dell’ambiente fisico e naturale, all’acquicoltura e alla pesca, nonché delle attività necessarie
al miglioramento dell’utilizzo e della gestione delle risorse naturali, segnatamente l’esecuzione
di opere di conservazione e di valorizzazione del patrimonio storico spagnolo nelle
campagne (…);
b) elaborazione di studi, piani, progetti e ogni genere di consulenza e assistenza tecnica
e formazione in materia di agricoltura, foreste, sviluppo rurale, tutela e miglioramento
dell’ambiente, acquicoltura e pesca, conservazione della natura, nonché in materia di utilizzo
e gestione delle risorse naturali;
c) attività agricola, del settore zootecnico, forestale e del settore dell’acquicoltura e
commercializzazione dei prodotti derivanti da dette attività, amministrazione e gestione di
258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
fattorie, montagne, centri agricoli, forestali, ambientali o di tutela della natura, nonché la
gestione di spazi e risorse naturali;
d) promozione, sviluppo e adattamento di nuove tecniche, nuove attrezzature e sistemi
a carattere agricolo, forestale, ambientale, per l’acquicoltura o la pesca, per la tutela della
natura e sistemi diretti ad un utilizzo ragionato delle risorse naturali;
e) fabbricazione e commercializzazione di beni mobili che presentano tale carattere;
f) prevenzione e lotta contro le calamità e le malattie vegetali e animali e contro gli
incendi forestali, nonché realizzazione di lavori e compiti di sostegno tecnico a carattere
urgente;
g) finanziamento della costruzione o dell’uso di infrastrutture agricole, ambientali e
delle attrezzature delle popolazioni rurali, nonché costituzione di società e partecipazione in
società già costituite che hanno obiettivi in relazione con l’oggetto sociale dell’impresa;
h) realizzazione, su richiesta di terzi, di azioni, lavori, assistenza tecnica, consulenza e
prestazioni di servizi in ambito rurale, di agricoltura, foreste e ambiente, all’interno e al di
fuori del territorio nazionale, direttamente o attraverso le sue controllate.
4. In quanto strumento esecutivo e servizio tecnico dell’amministrazione, la Tragsa è
tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle sue controllate, i
lavori ad essa attribuiti dall’Amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome
e dagli organismi pubblici da esse dipendenti, nelle materie che costituiscono l’oggetto
sociale della società e, segnatamente, quelli che hanno carattere urgente o che sono stati
ordinati in seguito alla constatazione di situazioni urgenti. (…).
5. Né la Tragsa né le sue controllate possono partecipare alle procedure di aggiudicazione
di appalti disposte dalle amministrazioni pubbliche di cui sono strumenti. Tuttavia, in
mancanza di offerenti, alla Tragsa può essere affidata l’esecuzione dell’attività oggetto della
gara di pubblico appalto.
6. L’importo delle opere di ampia portata, dei lavori, dei progetti, degli studi e delle forniture
realizzati per mezzo della Tragsa è stabilito applicando alle parti eseguite le tariffe corrispondenti,
le quali devono essere fissate dall’amministrazione competente. Le tariffe in parola
sono calcolate in modo da riflettere i costi di realizzazione effettivi e la loro applicazione
alle parti eseguite ha la funzione di giustificativo dell’investimento o dei servizi realizzati.
7. I contratti per lavori, forniture, consulenza e assistenza e servizi che la Tragsa e le
sue controllate stipulano con terzi sono assoggettati alle disposizioni della [legge 13/1995],
per quanto riguarda la pubblicità, le procedure di aggiudicazione e le relative modalità, a
condizione che l’importo degli appalti sia uguale o superiore a quelli fissati agli artt. 135,
n. 1, 177, n. 2, e 203, n. 2 della [detta legge]».
11.- Il regio decreto 5 marzo 1999, n. 371, che stabilisce il regime della Tragsa (BOE
16 marzo 1999, n. 64, pag. 10605), precisa il regime giuridico, economico e amministrativo
di tale società e delle sue controllate nei rapporti con le amministrazioni pubbliche in
materia di azione amministrativa sul territorio nazionale o al di fuori di esso, nella loro qualità
di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di tali amministrazioni.
12.- Secondo l’art. 2 del regio decreto 371/1999, il capitale sociale della Tragsa è detenuto
totalmente da soggetti di diritto pubblico.
13.- L’art. 3 del detto regio decreto, intitolato «Regime giuridico», dispone quanto
segue:
«1. La Tragsa e le sue controllate rappresentano uno strumento esecutivo interno e un
servizio tecnico dell’amministrazione generale dello Stato e delle amministrazioni di ognuna
delle comunità autonome interessate.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 259
I vari dipartimenti o ministeri delle comunità autonome delle amministrazioni pubbliche
in questione, così come gli organismi pubblici da esse dipendenti e gli enti di qualsiasi
natura ad esse connessi ai fini della realizzazione dei loro piani d’intervento, possono incaricare
la Tragsa o le sue controllate dei lavori e delle attività necessarie per l’esercizio delle
loro competenze e missioni, nonché dei lavori e delle attività complementari o accessorie
conformemente al regime stabilito dal presente regio decreto.
2. La Tragsa e le sue controllate devono realizzare i lavori e le attività loro affidati dall’amministrazione.
Tale obbligo concerne, esclusivamente, gli incarichi loro affidati in
quanto strumento esecutivo interno e servizio tecnico nelle materie rientranti nel suo oggetto
sociale.
3. Gli interventi urgenti decisi nell’ambito di catastrofi o calamità di qualsiasi genere
ad esse affidati dall’amministrazione competente hanno per la Tragsa e le sue controllate
carattere, oltre che obbligatorio, prioritario.
Nelle situazioni di urgenza, in cui le autorità pubbliche debbano agire immediatamente,
queste ultime potranno disporre direttamente della Tragsa e delle sue controllate e ordinare
gli interventi necessari ad assicurare la tutela più efficace possibile delle persone e dei
beni, nonché il mantenimento dei servizi.
A tal fine, la Tragsa e le sue controllate saranno integrate ai dispositivi esistenti di prevenzione
dei rischi ed ai piani di intervento, e dovranno attenersi ai protocolli d’applicazione.
In situazioni di tal genere, se richieste, dovranno mobilitare tutti i mezzi di cui dispongono.
4. Nell’ambito dei loro rapporti di collaborazione o cooperazione con altre amministrazioni
o enti di diritto pubblico, le amministrazioni pubbliche possono proporre i servizi della
Tragsa e delle sue controllate, considerate come loro strumento esecutivo interno, affinché
le dette altre amministrazioni o enti di diritto pubblico le utilizzino quale loro strumento esecutivo
interno (…).
5. (…) Le funzioni di organizzazione, sorveglianza e controllo della Tragsa e delle sue
controllate sono esercitate dal Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione
e dal Ministero dell’Ambiente.
6. I rapporti della Tragsa e delle sue filiali con le amministrazioni pubbliche, nella loro
qualità di strumento interno e servizio tecnico, hanno natura strumentale e non contrattuale.
Pertanto, a tutti gli effetti, essi hanno carattere interno, dipendente e subordinato».
14.- L’art. 4 del regio decreto 371/1999, intitolato «Regime economico», è formulato
nel modo seguente:
«1. Conformemente all’art. 3 del presente regio decreto, quale corrispettivo per i lavori,
l’assistenza tecnica, le consulenze, le forniture e la prestazione di servizi ad essa affidati,
la Tragsa e le sue filiali ricevono un importo corrispondente alle spese da loro sostenute,
in applicazione del sistema tariffario stabilito nel presente articolo (…).
2. Le tariffe sono calcolate e applicate sulla base di parti di esecuzione ed in modo da
riflettere i costi effettivi e complessivi di realizzazione di queste ultime, sia diretti, sia indiretti.
(…).
7. Le nuove tariffe, la modificazione di quelle esistenti, così come le procedure, i meccanismi
e le formule di revisione sono adottati da ogni amministrazione pubblica di cui la
Tragsa e le sue controllate costituiscono strumento interno e servizio tecnico. (…)».
15.- Infine, l’art. 5 del regio decreto 371/1999, intitolato «Regime amministrativo d’intervento
», prevede quanto segue:
«1. Gli interventi obbligatori affidati alla Tragsa o alle sue controllate sono oggetto, a
seconda dei casi, di progetti, relazioni o altri documenti tecnici (…)
260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
2. Prima di definire l’incarico, gli organi competenti approvano tali documenti e seguono
le procedure obbligatorie, gli adempimenti formali tecnici, giuridici, di bilancio e di controllo
e approvazione della spesa.
3. L’incarico relativo ad ogni intervento obbligatorio è comunicato formalmente alla
Tragsa o alle sue controllate dall’amministrazione, per mezzo di una richiesta contenente,
oltre alle informazioni utili, la denominazione dell’amministrazione, il termine per la realizzazione,
il suo importo, la voce di bilancio corrispondente e, se del caso, le annualità sulle
quali il finanziamento è ripartito e il rispettivo importo afferente, nonché il direttore designato
per l’intervento da realizzare. (…)».
CAUSA PRINCIPALE E QUESTIONI PREGIUDIZIALI
16.- I fatti, come risultano dalla decisione di rinvio, possono essere riassunti nella
maniera seguente.
17.- Il 23 febbraio 1996 la Asemfo ha presentato una denuncia nei confronti della
Tragsa, diretta a far constatare l’abuso di quest’ultima della propria posizione dominante sul
mercato spagnolo dei lavori, dei servizi e progetti forestali, a causa del mancato rispetto
delle procedure di aggiudicazione previste dalla legge 13/1995. Secondo detta associazione,
lo speciale regime della Tragsa le consentirebbe di effettuare un grande numero di operazioni
su incarico diretto dell’amministrazione, in violazione dei principi relativi all’aggiudicazione
degli appalti pubblici ed alla libera concorrenza, con la conseguenza di eliminare qualsiasi
concorrenza sul mercato spagnolo. In quanto impresa pubblica ai sensi del diritto
comunitario, la Tragsa non potrebbe godere di un trattamento privilegiato relativamente alle
disposizioni sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, adducendo il pretesto che si tratterebbe
di un servizio tecnico dell’amministrazione.
18.- Con decisione dell’autorità competente del 16 ottobre 1997, la denuncia in questione
è stata respinta, con la motivazione che la Tragsa sarebbe un servizio interno dell’amministrazione,
privo di autonomia decisionale e obbligato a realizzare i lavori commissionati. Operando
detta società fuori dal mercato, la sua attività non sarebbe soggetta al diritto della concorrenza.
19.- Tale decisione è stata oggetto di ricorso da parte dell’Asemfo dinanzi al Tribunal
de Defensa de la Competencia (Tribunale spagnolo competente per le questioni di concorrenza).
Con sentenza 30 marzo 1998 detto giudice ha respinto il ricorso in parola, considerando
che le opere realizzate dalla Tragsa sono eseguite dall’amministrazione stessa e che,
pertanto, si potrebbe configurare una violazione del diritto della concorrenza solo in caso di
un operato autonomo di tale società.
20.- L’Asemfo ha proposto un ricorso avverso tale sentenza dinanzi all’Audiencia
Nacional (Tribunale spagnolo competente per l’intero territorio in determinati ambiti penali
amministrativi e della legislazione sociale), che, a sua volta, ha confermato la decisione
di primo grado con sentenza 26 settembre 2001.
21.- L’Asemfo ha proposto ricorso per cassazione avverso detta decisione dinanzi al
Tribunal Supremo (Corte di cassazione spagnola), sostenendo che la Tragsa, in qualità di
impresa pubblica, non potrebbe essere qualificata come servizio interno dell’amministrazione,
posizione che le consentirebbe di derogare alle disposizioni relative all’aggiudicazione
degli appalti pubblici, e che il regime giuridico della società di cui trattasi, quale definito
all’art. 88 della legge 66/1997, sarebbe incompatibile con la normativa comunitaria.
22.- Dopo aver constatato che la Tragsa costituisce un ente di cui dispone l’amministrazione
e che detta società si limita ad eseguire gli ordini delle amministrazioni pubbliche,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 261
senza poterli rifiutare né stabilire i prezzi e i costi dei suoi interventi, il Tribunal Supremo
ha espresso dei dubbi sulla compatibilità del regime giuridico della Tragsa con il diritto
comunitario alla luce della giurisprudenza della Corte sull’applicabilità alle imprese pubbliche
delle disposizioni di quest’ultimo in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici e
libera concorrenza.
23.- Inoltre, ricordando che, nella sentenza 8 maggio 2003, causa C-349/97,
Spagna/Commissione (Racc. pag. I-3851), la Corte, relativamente alla Tragsa, ha dichiarato
che detta società va considerata come un modo diretto di agire da parte dell’amministrazione,
il giudice del rinvio precisa che, nella controversia ad esso sottoposta, vi sono circostanze
di fatto di cui la decisione in parola non ha tenuto conto, quali la considerevole partecipazione
dell’impresa pubblica al mercato delle opere di natura agricola, che causa una
distorsione rilevante dello stesso, per quanto l’operato di tale impresa sia de iure estraneo al
mercato, poiché, dal punto di vista giuridico, sarebbe l’amministrazione medesima ad esercitare
l’attività.
24.- In tale contesto, il Tribunal Supremo ha deciso di sospendere il procedimento e di
sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se, ai sensi dell’art. 86, n. 1, del Trattato CE, sia ammissibile che uno Stato membro
[dell’Unione europea] attribuisca con legge ad un’impresa pubblica uno status giuridico
che le consenta di realizzare opere pubbliche senza essere assoggettata alla disciplina
generale sugli appalti della pubblica amministrazione aggiudicati mediante gara quando non
sussistano circostanze speciali di urgenza o interesse generale, indipendentemente se superino
o meno la soglia economica prevista dalle direttive comunitarie a tal proposito.
2) Se un tale regime giuridico sia compatibile con quanto stabilito nelle direttive 93/36
(…) e 93/37(…), nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 1997,
97/52/CE [G.U. L 328, pag. 1] e nella direttiva della Commissione [13 settembre 2001,]
2001/78/CE, che modifica le direttive precedenti – normativa recentemente coordinata dalla
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE [relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture
e di servizi (G.U. L 134, pag. 114)].
3) Se le affermazioni della sentenza (…) Spagna/Commissione siano applicabili in ogni
caso alla Tragsa e alle sue filiali, anche qualora si tenga in considerazione la restante giurisprudenza
della Corte in materia di appalti pubblici, e si consideri che l’amministrazione
affida alla Tragsa un elevato numero di opere, le quali sono sottratte al regime della libera
concorrenza e che tale circostanza potrebbe comportare una distorsione significativa del
mercato rilevante».
SULLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI
Sulla ricevibilità
25.- La Tragsa, il governo spagnolo e la Commissione delle Comunità europee contestano
la competenza della Corte a statuire sulla domanda di pronuncia pregiudiziale e avanzano
dubbi sulla ricevibilità delle questioni sottoposte dal giudice del rinvio facendo appello
a diversi argomenti.
26.- Innanzitutto, tali questioni verterebbero unicamente sulla valutazione di provvedimenti
nazionali e, pertanto, non rientrerebbero nella sfera di competenza della Corte.
27.- In secondo luogo, dette questioni sarebbero ipotetiche in quanto dirette a dirimere
problemi non pertinenti ed estranei alla soluzione della causa principale. Se il solo motivo
262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
richiamato dall’Asemfo consiste nella violazione delle norme relative all’aggiudicazione
degli appalti pubblici, tale violazione non consentirebbe di per sé di affermare che Tragsa
abusi di una posizione dominante sul mercato. Inoltre, non parrebbe che la Corte possa essere
indotta ad interpretare le direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici nell’ambito
di un procedimento nazionale diretto ad accertare se la società in parola abbia abusato
di un’asserita posizione dominante.
28.- Infine, l’ordinanza di rinvio non conterrebbe alcuna informazione relativa al mercato
rilevante né alla pretesa posizione dominante della Trasga rispetto ad esso. La decisione
in parola non riporterebbe neanche un’analisi dettagliata sulla questione dell’applicabilità
dell’art. 86 CE e non menzionerebbe nulla circa l’applicazione combinata di quest’ultimo
con l’art. 82 CE.
29.- Occorre in primo luogo ricordare che, secondo costante giurisprudenza, benché,
nell’ambito di un procedimento ex art. 234 CE, non spetti alla Corte pronunciarsi sulla compatibilità
di norme del diritto interno con disposizioni del diritto comunitario, posto che l’interpretazione
delle norme nazionali incombe ai giudici nazionali, la Corte è comunque competente
a fornire a questi ultimi tutti gli elementi d’interpretazione propri del diritto comunitario
che consentano loro di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa
comunitaria (sentenza 19 settembre 2006, causa C-506/04, Wilson, Racc. pag. I-
0000, punti 34-35 e giurisprudenza ivi citata).
30.- In secondo luogo, secondo giurisprudenza altrettanto costante, nell’ambito della
cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali stabilita dall’art. 234 CE, spetta esclusivamente
al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità
dell’emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze
di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado
di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte.
Pertanto, dal momento che le questioni poste dei giudici nazionali riguardano l’interpretazione
di una norma del diritto comunitario, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire
(v., in particolare, sentenze 1º aprile, causa C-286/02, Bellio F.lli, Racc. pag. I-3465,
punto 27, e 14 dicembre 2006, causa C-217/05, Confederación Española de Empresarios de
Estaciones de Servicio, Racc. pag. I-0000, punti 16-17 e giurisprudenza ivi citata).
31.- In terzo luogo, secondo una giurisprudenza consolidata, il rigetto di una domanda
presentata da un giudice nazionale è possibile solo qualora appaia in modo manifesto che
l’interpretazione del diritto comunitario chiesta da tale giudice non ha alcuna relazione con
l’effettività o con l’oggetto della causa principale, oppure qualora il problema sia di natura
ipotetica o la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una
soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza 23 novembre 2006, causa
C-238/05, Asnef-Equifax e Administración del Estado, Racc. pag. I-0000, punto 17 e giurisprudenza
ivi citata).
32.- Inoltre, la Corte ha altresì dichiarato che l’esigenza di giungere ad un’interpretazione
del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo
definisca il contesto di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso
spieghi almeno l’ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate (sentenze 9 novembre
2006, causa C-205/05, Nemec, Racc. pag. I-0000, punto 25, e Confederación Española de
Empresarios de Estaciones de Servicio, cit., punto 26 e giurisprudenza ivi citata).
33.- A tal proposito, secondo la giurisprudenza della Corte, è indispensabile che il giudice
nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie
di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioIL
CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 263
ni e il diritto nazionale applicabile alla controversia (sentenze Nemec, cit., punto 26, e 5
dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-0000, punto 38).
34.- Nella causa principale, se è pur vero che la Corte non può pronunciarsi sulla compatibilità,
in quanto tale, del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario, nulla
le impedisce di fornire gli elementi interpretativi tratti dal diritto comunitario che consentiranno
al giudice a quo di decidere esso stesso sulla compatibilità del regime giuridico della
Tragsa con il diritto comunitario.
35.- In tale contesto, occorre verificare se, alla luce della giurisprudenza citata ai precedenti
punti 31-33 della presente sentenza, la Corte dispone degli elementi di fatto e di
diritto necessari per di rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte.
36.- Riguardo alla seconda e terza questione, va osservato che la decisione di rinvio
espone, sinteticamente ma con precisione, gli antefatti della causa principale e le disposizioni
rilevanti del diritto nazionale applicabile.
37.- Da detta decisione, infatti, risulta chiaramente che la controversia di cui trattasi è
sorta in seguito ad una denuncia dell’Asemfo relativa al regime giuridico della Tragsa, dal
momento che quest’ultima, a giudizio della ricorrente nella causa principale, poteva eseguire
un gran numero di lavori per diretto incarico da parte dell’amministrazione, e senza il
rispetto delle previsioni in materia di pubblicità stabilite nelle direttive relative all’aggiudicazione
degli appalti pubblici. Nell’ambito di tale procedimento, l’Asemfo sostiene altresì
che, in quanto impresa pubblica, la Tragsa non potrebbe godere di un trattamento privilegiato
relativamente alle disposizioni sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, adducendo il
pretesto che si tratterebbe di un servizio tecnico dell’amministrazione.
38.- Inoltre, nell’ambito della seconda e terza questione, la decisione di rinvio, con riferimento
alla giurisprudenza della Corte, espone, da un lato, i motivi per cui il giudice a quo
chiede l’interpretazione delle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici,
nonché, dall’altro, il nesso fra la normativa comunitaria pertinente e la legislazione nazionale
applicabile in materia.
39.- Quanto alla prima questione, relativa alla circostanza di accertare se il regime della
Tragsa sia in contrasto con l’art. 86, n. 1, CE, occorre ricordare che, secondo tale articolo, gli
Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle
imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del
trattato CE, specialmente a quelle contemplate dagli artt. 12 CE e da 81 CE a 89 CE incluso.
40.- Dalla chiara formulazione dell’art. 86, n. 1, CE risulta che detta disposizione non
ha portata autonoma, nel senso che essa va letta in combinato con le previsioni rilevanti nel
caso di specie del Trattato.
41.- Dalla decisione di rinvio discende che la disposizione pertinente considerata dal
giudice del rinvio è l’art. 86, n. 1, CE, in combinato con l’art. 82 CE.
42.- A tale proposito va constatato che nella decisione di rinvio non vi sono indicazioni
precise riguardo all’esistenza di una posizione dominante, al relativo sfruttamento abusivo
di quest’ultima da parte della Tragsa e all’impatto di detta posizione sul commercio fra
Stati membri.
43.- Inoltre, pare che, con la prima questione, il giudice del rinvio consideri, in sostanza,
le operazioni idonee ad essere qualificate come appalti pubblici, presupposto sul quale,
in ogni caso, la Corte è invitata a pronunciarsi nell’ambito della seconda questione.
44.- Da quanto precede risulta, quindi, che, contrariamente al caso della seconda e terza
questione, la Corte non dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per di rispondere
utilmente alla prima questione.
264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
45.- Ne consegue che, se la prima questione va dichiarata irricevibile, la domanda di
pronuncia pregiudiziale è ricevibile per quanto riguarda le due altre questioni.
Nel merito
Sulla seconda questione
46.- Con la seconda questione, il giudice a quo chiede alla Corte se le direttive 93/36 e
93/37, come modificate dalle direttive 97/52, 2001/78 e 2004/18, ostino ad un regime giuridico
come quello di cui gode la Tragsa, che le consente di realizzare operazioni senza essere
assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola.
47.- In via preliminare, va constatato che, nonostante i richiami operati dal giudice del
rinvio alle direttive 97/52, 2001/78 e 2004/18, tenuto conto sia del contesto e della data dei
fatti della causa principale, sia della natura delle attività della Tragsa quale precisata
all’art. 88, n. 3, della legge 66/1997, occorre esaminare detta seconda questione alla luce
delle previsioni stabilite nelle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici,
vale dire, le direttive 92/50, 93/36 e 93/37, pertinenti nel caso di specie.
48.- A tale riguardo, giova ricordare che, secondo le definizioni di cui all’art. 1,
lett. a), delle direttive citate al punto precedente, un appalto pubblico di servizi, di forniture
o di lavori presuppone l’esistenza di un contratto a titolo oneroso, stipulato in
forma scritta tra, da un lato, un prestatore di servizi, un fornitore o un imprenditore e,
dall’altro, un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi dello stesso art. 1, lett. b), delle
dette direttive.
49.- Nel caso di specie va constatato innanzitutto che, ai sensi dell’art. 88, nn. 1 e 2,
della legge 66/1997, la Tragsa è una società statale al cui capitale sociale possono partecipare
anche le comunità autonome. Il medesimo art. 88, n. 4, e l’art. 3, n. 1, primo comma,
del regio decreto 371/1999 precisano che la Tragsa è strumento esecutivo interno e servizio
tecnico dell’amministrazione generale dello Stato e delle amministrazioni di ognuna delle
comunità autonome interessate.
50.- Inoltre, come risulta dagli artt. 3, nn. 2-5, e 4, nn. 1, 2 e 7, del regio decreto
371/1999, la Tragsa deve realizzare gli incarichi ad essa affidati dall’amministrazione generale
dello Stato, dalle comunità autonome e dagli enti pubblici da queste ultime dipendenti,
nelle materie rientranti nel suo oggetto sociale, senza aver la possibilità di fissare liberamente
il costo dei suoi interventi.
51.- Infine, secondo l’art. 3, n. 6, del detto regio decreto, i rapporti della Tragsa con gli
enti pubblici in questione, rappresentando tale società uno strumento esecutivo interno e un
servizio tecnico di queste ultime, non hanno natura contrattuale, bensì, sotto tutti gli aspetti,
carattere interno, dipendente e subordinato.
52.- L’Asemfo sostiene che il rapporto giuridico che discende dagli ordini ricevuti dalla
Tragsa, nonostante esso abbia formalmente carattere unilaterale, sarebbe nella realtà dei
fatti, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, un legame contrattuale incontestabile
con l’accomandatario. A tale proposito, l’Asemfo fa riferimento alla sentenza 12 luglio
2001, causa C-399/98, Ordine degli Architetti e a. (Racc. pag. I-5409). In siffatto contesto,
benché la Tragsa sembri agire su ordine delle amministrazioni pubbliche, essa sarebbe in
effetti contraente dell’amministrazione, così che dovrebbero essere applicate le norme relative
all’aggiudicazione degli appalti pubblici.
53.- A tale riguardo occorre ricordare che, al punto 205 della sentenza Spagna/
Commissione, cit., la Corte, in un contesto diverso da quello della causa principale, ha
dichiarato che la Tragsa, nella sua veste di ente strumentale e di servizio tecnico dell’amministrazione
spagnola, è tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite
delle proprie controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’amministrazione generale dello Stato,
dalle comunità autonome e dagli organismi pubblici da esse dipendenti.
54.- Giova osservare che, se la Tragsa non dispone di alcun margine di libertà, né in
merito al seguito da dare ad un incarico da parte delle amministrazioni competenti in parola,
né quanto alle tariffe applicabili alle sue prestazioni, il che spetta al giudice del rinvio
accertare, la condizione per applicare le direttive di cui trattasi relativa all’esistenza di un
contratto non è soddisfatta.
55.- In ogni caso, va ricordato che, secondo costante giurisprudenza della Corte, il
ricorso alla gara d’appalto, conformemente alle direttive relative all’aggiudicazione degli
appalti pubblici, non è obbligatorio, anche quando il contraente è un ente giuridicamente
distinto dall’amministrazione aggiudicatrice, qualora due condizioni siano soddisfatte. Da
un lato, l’amministrazione pubblica, che è un’amministrazione aggiudicatrice, deve esercitare
sull’ente distinto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi
e, dall’altro, l’ente di cui trattasi deve svolgere la parte più importante della sua attività
con l’ente o gli enti pubblici che lo detengono (v. sentenze 18 novembre 1999, causa
C-107/98, Teckal, Racc. pag. I-8121, punto 50; 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle
e RPL Lochau, Racc. pag. I-1, punto 49; 13 gennaio 2005, causa C-84/03,
Commissione/Spagna, Racc. pag. I-139, punto 38; 10 novembre 2005, causa C-29/04,
Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705, punto 34, e 11 maggio 2006, causa C-340/04,
Carbotermo e Consorzio Alisei, Racc. pag. I-4137, punto 33).
56.- Di conseguenza, occorre verificare se le due condizioni richieste dalla giurisprudenza
citata al punto precedente siano soddisfatte relativamente alla Tragsa.
57.- Per quanto riguarda la prima condizione, attinente al controllo dell’amministrazione
pubblica, dalla giurisprudenza della Corte risulta che il fatto che l’amministrazione
aggiudicatrice detenga, da sola o insieme ad altri enti pubblici, l’intero capitale di una società
aggiudicataria potrebbe indicare, pur non essendo decisivo, che l’amministrazione aggiudicatrice
in questione esercita su detta società un controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi (sentenza Carbotermo e Consorzio Alisei, cit., punto 37).
58.- Nella causa principale, dagli atti risulta, e con riserva di verifica da parte del giudice
del rinvio, che il 99% del capitale sociale della Tragsa è detenuto dallo Stato spagnolo stesso,
per mezzo di un’impresa di partecipazione e di un fondo di garanzia, e che quattro comunità
autonome, ognuna delle quali in possesso di un’azione, detengono l’1% di detto capitale.
59.- Atale riguardo, non può essere accolta la tesi secondo la quale la condizione di cui
trattasi sarebbe soddisfatta solamente rispetto agli appalti effettuati su incarico dello Stato
spagnolo, con esclusione di quelli oggetto di incarichi delle comunità autonome, rispetto
alle quali la Tragsa dovrebbe essere considerata come un terzo.
60.- Pare, infatti, discendere dagli artt. 88, n. 4, della legge 66/1997 e 3, nn. 2-6, e 4,
nn. 1 e 7, del regio decreto 371/1999 che la Tragsa è tenuta ad eseguire gli incarichi ad essa
affidati dalle amministrazioni pubbliche, comunità autonome incluse. Sembra altresì evincersi
da tale normativa nazionale che, come per ciò che concerne lo Stato spagnolo, nell’ambito
delle sue attività con queste ultime in quanto strumento esecutivo interno e servizio tecnico,
la Tragsa non ha la possibilità di stabilire liberamente il costo dei suoi interventi e che
i suoi rapporti con le dette comunità non sono di natura contrattuale.
61.- Sembra quindi che la Tragsa non possa essere considerata come un terzo rispetto
alla comunità autonome che detengono una parte del suo capitale sociale.
62.- Per quanto riguarda la seconda condizione, relativa alla circostanza che la parte
essenziale dell’attività della Tragsa dev’essere realizzata con l’ente o gli enti pubblici che
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 265
266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
controllano detta società, dalla giurisprudenza risulta che, nel caso in cui diversi enti locali
detengano un’impresa, la condizione in parola può essere soddisfatta qualora l’impresa in
questione svolga la parte più importante della propria attività non necessariamente con questo
o quell’ente locale ma con tali enti complessivamente considerati (sentenza Carbotermo
e Consorzio Alisei, cit., punto 70).
63.- Come risulta dal fascicolo, nella causa principale la Tragsa realizza mediamente
più del 55% della sua attività con le comunità autonome e circa il 35% con lo Stato. Appare
dunque che la parte più importante dell’attività della società di cui trattasi è realizzato con
gli enti e gli organismi pubblici che la controllano.
64.- Alla luce di quanto precede, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio,
va rilevato che le due condizioni richieste dalla giurisprudenza citata al punto 55 della
presente sentenza ricorrono nel caso di specie.
65.- Dalle considerazioni che precedono risulta che occorre risolvere la seconda questione
dichiarando che le direttive 92/50, 93/36 e 93/37 non ostano ad un regime giuridico
quale quello di cui gode la Tragsa, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in
qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche,
di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in
parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su
tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro,
la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni
di cui trattasi.
Sulla terza questione
66.- Alla luce della soluzione data alla seconda questione sottoposta dal giudice del rinvio,
non occorre risolvere la terza questione.
SULLE SPESE
67.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar
luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
Le direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina
le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993,
93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori,
non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA,
che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo
interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni
senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da
un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo
analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza
la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi».
L’Italia e le sue seimila discariche abusive
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza, sentenza 26 aprile
2007, nella causa C-135/05)
Una nuova condanna per inadempimento alla normativa comunitaria,
inflitta all’Italia il 26 aprile 2007 dalla Corte di Giustizia europea, conferma
l’attualità del “problema discariche” nel nostro Paese.
La condanna dell’Unione europea interviene, infatti, in un momento in cui
la cronaca ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica la condizione di
emergenza, ormai “assunta a sistema”, della Regione Campania: i quasi venti
anni di commissariamento governativo inducono ad escludere che si possa
continuare a parlare di situazione emergenziale, trattandosi, al contrario, di una
situazione permanente e patologica, causata da interventi compromissori e non
effettivamente risolutivi. È chiaro, quindi, come la pronuncia della Corte di
Giustizia di Lussemburgo si innesti in contesto nazionale dove la questione dei
rifiuti è particolarmente sentita ed è vivo il dibattito sull’argomento, contribuendo
a renderne rilevante l’analisi; del resto i diversi profili di interesse che
si evincono dalla lettura della decisione si uniscono agli effetti pratici che nella
realtà interna la sua attuazione è destinata a produrre.
Con riferimento ai primi profili, di natura prevalentemente giuridico-istituzionale,
la pronuncia della Corte di Giustizia si caratterizza per aver confermato
la legittimità, nelle procedure di inadempimento, dell’approccio
cosiddetto orizzontale, che permette alla Commissione di effettuare una contestazione
generica, non circoscritta ad ipotesi specifiche, ma di procedere
alla contestazione di un sistema di diritto interno nel suo complesso, così
come elaborato ed attuato dallo Stato membro per il perseguimento degli
obiettivi di una direttiva comunitaria. In tale contesto la Corte di Giustizia è
stata conseguentemente indotta a ridefinire il concetto di onere della prova
gravante sulla Commissione. Principi importarti del diritto comunitario,
anche se le soluzioni non sempre appaiono condivisibili.
Per quanto riguarda gli effetti è inevitabile, a fonte di una declaratoria di
inadempimento che riguarda, nel suo complesso, l’esistenza (vera o presunta)
nel nostro Paese di quasi seimila discariche abusive, fare riferimento a
quegli interventi urgenti che nel periodo di due mesi, concesso dalla
Commissione in una lettera inviata al Ministero degli Affari Esteri l’8 maggio
2007, dovranno essere attuati per scongiurare l’attivazione della procedura
ex art. 228 Trattato (CE), che provocherebbe l’irrogazione di pesanti
sanzioni a carico dello Stato membro reiteratamente inadempiente (1).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 267
(1) Anche se va ricordato come recentemente la Corte di Giustizia nella sentenza del
18 luglio 2006, causa 119/04 (Commissione c/ Repubblica Italiana) abbia concluso, nonostante
si trattasse di un procedimento avviato dalla Commissione ex art. 228 CE e sia stato
Tuttavia prima di affrontare questi aspetti particolari è utile illustrare,
attraverso un breve resoconto delle fasi precontenziosa e contenziosa, le
diverse problematiche poste all’attenzione del giudice comunitario, per poi
scendere nel merito delle soluzioni giuridiche ed amministrative dallo stesso
adottate e/o proposte.
La fase precontenziosa
La vicenda giudiziaria scaturisce da una serie di articoli di stampa, reclami,
interrogazioni parlamentari e soprattutto da un rapporto del Corpo
Forestale dello Stato (di seguito indicato come CFS), in conseguenza del
quale la Commissione dell’Unione Europea, nel 2003, decide di verificare
l’effettivo rispetto da parte dello Stato italiano della direttiva 75/442/CEE,
come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, della direttiva 91/689/CEE e
della direttiva 1999/31/CE. Il coacervo dei dati, sia pure non sempre univoci,
offre infatti alla Commissione un’immagine non confortante del sistema
presente in Italia e ritiene pertanto, in data 11 luglio 2003, di dover inviare
direttamente al Governo italiano una lettera di costituzione in mora.
La fonte principale della Commissione nelle sue contestazioni risulta
essere proprio il rapporto del CFS (2). Tale rapporto arriva a conclusione di
un lavoro che ha visto lo svolgimento di tre censimenti effettuati a partire dal
1986 e che mostrano una situazione generale allarmante. Infatti il primo censimento
evidenzia l’esistenza di 5.978 discariche abusive. Nel secondo, eseguito
nel 1996, si scende a 5.422, ma a fronte di un numero inferiore di
Comuni monitorati (6.802 contro i 6.890 del primo censimento). Infine il
terzo censimento rileva la presenza di 4.866 (3) discariche abusive di cui
1.765 totalmente nuove, in quanto non risultanti dai precedenti rilievi.
Più dettagliatamente dal rapporto (4) emerge che la situazione italiana è
riassumibile così come è raffigurato a lato.
Senza sminuire la gravità di tali dati, si possono fare alcune osservazioni.
In primis, come si evince dai grafici riportati, l’indagine riguarda le sole
Regioni a statuto ordinario a causa dell’assenza del CFS in quelle a statuto
speciale; in secondo luogo, il censimento si riferisce quasi esclusivamente ad
aree extraurbane e montane, con evidente carenza di completezza derivante
dall’esclusione delle aree urbane; infine nel rapporto il concetto di abbandono
di rifiuti viene spesso assimilato a quello di discarica abusiva.
L’aspetto più particolare della vicenda riguarda, tuttavia, la posizione
istituzionale della “Guardia Forestale”, intesa come corpo amministrativo
268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
riconosciuto l’inadempimento dello Stato membro, per la non applicazione di sanzioni. Per
alcune considerazioni al riguardo M. BORRACCETTI, La sentenza ex art. 228CE: il persistente
inadempimento di uno Stato membro può non essere sanzionato, in Dir. comunitario,
2006, 3, 513 ss.
(2) Pubblicato il 22 ottobre 2002.
(3) Di cui 705 contenenti rifiuti pericolosi.
(4) Il rapporto è reperibile al sito www.corpoforestale.it
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 269
270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
incaricato a svolgere storicamente particolari compiti sul territorio, tra i quali
anche quelli afferenti alla tutela dell’ambiente e alla polizia giudiziaria per i
connessi reati. Venuta meno l’originaria allocazione del Corpo presso il
Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, proprio nel periodo in cui viene
redatto il rapporto amministrativo del quale si discute, la vocazione istituzionale
del Corpo Forestale pende tra la tradizionale fedeltà all’istituzione statale
e le vocazioni regionalistiche che derivano dal nuovo titolo V della
Costituzione. Sta di fatto che il rapporto non riceve alcuna asseverazione né
dalle Regioni (competenti nella gestione amministrativa in tema di rifiuti) né
dal Ministero dell’Ambiente, individuato dalle direttive comunitarie e dai
relativi atti di recepimento nel diritto interno come “autorità nazionale” in
materia di disciplina dei rifiuti. Viene inviato per conoscenza alla commissione
parlamentare sui rifiuti che in quel periodo operava in sede bicamerale
e semplicemente “pubblicato su internet”.
Relativamente alla portata limitata del rapporto del CFS alle sole
Regioni a statuto ordinario, va ad ogni modo sottolineato come la
Commissione dell’Unione Europea precisi di essere in possesso di informazioni
altrettanto allarmanti riguardo alle Regioni a statuto speciale. In particolare
per la Regione Sicilia si constata, sulla base del “Piano delle bonifiche
delle aree inquinate” (5) presentato dalla stessa Regione, la presenza di
159 discariche abusive, di cui almeno 17 contenenti rifiuti pericolosi, 164 siti
con rifiuti abbandonati, di cui 14 contenenti rifiuti pericolosi, e 24 depositi
di rifiuti non autorizzati. Nella provincia di Bolzano preoccupa la presenza
di tre discariche. Analoghe apprensioni emergono per la Sardegna dove si
ricorda la discarica abusiva di Mores (SS), utilizzata illegalmente dal
Comune, di decine di discariche nel Comune di Olbia, e infine di due siti nell’area
di Portoscuso (CA) contenenti scorie di batterie esauste e un bacino di
fanghi rossi derivanti dalla produzione di alluminio.
Sulla base di questi dati la Commissione UE contesta, quindi, all’Italia
una serie di violazioni delle norme comunitarie: gli artt. 4, 8, 9 della direttiva
75/442/CEE; l’art. 2, paragrafo 1 della direttiva 91/689/CEE; l’art. 14, lettere
a), b), c) della direttiva 1999/31/CE.
Il primo gruppo di disposizioni si riferisce all’adozione, da una parte, di
misure adeguate per assicurare il corretto recupero e smaltimento dei rifiuti
senza pericolo per la salute dell’uomo e per l’ambiente, e di misure necessarie
per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti;
e dall’altra di disposizioni che consentano la consegna dei rifiuti ad un raccoglitore
pubblico o privato, munito all’uopo di idonea autorizzazione.
La seconda violazione riguarda la necessità della predisposizione di
misure per consentire l’esatta identificazione e catalogazione dei rifiuti pericolosi
nei luoghi dove sono messi in discarica.
(5) Reperibile al sito www. regione. sicilia. it/presidenza/ucomrifiuti/Piano/piano_index.htm
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 271
L’ultima disposizione citata dalla Commissione riguarda il funzionamento
delle discariche già operative sul territorio nazionale al momento dell’entrata
in vigore della direttiva comunitaria, con particolare riferimento alla
presentazione di piani di riassetto per garantire la loro conformazione al
sopravvenuto diritto comunitario.
Il Ministero dell’Ambiente, nel rispondere alla lettera di messa in mora
della Commissione, rileva che, tra le discariche identificate dal Corpo
Forestale dello Stato, 3.212 non erano più attive e che nella maggior parte
dei casi si trattava di mero abbandono di rifiuti e non discariche vere e proprie
ed informa altresì la Commissione che avrebbe iniziato presso le
Regioni e le Province un’attività di sensibilizzazione diretta a reperire i dati
necessari (6).
Non ritenendo sufficienti queste argomentazioni viene inviato dagli uffici
comunitari, il 19 dicembre 2003, un parere motivato in cui vengono riproposti
gli stessi addebiti della messa in mora. A tale parere non segue alcuna
osservazione delle autorità italiane (Ministero dell’Ambiente) nel termine
perentorio di due mesi indicato dalla Commissione, che decide quindi la proposizione
del ricorso giurisdizionale.
Fase contenziosa
Nel ricorso giurisdizionale la Commissione argomenta in maniera puntuale
le proprie contestazioni, per evidenziare l’intervenuta violazione del
diritto comunitario da parte dello Stato italiano. In particolare per l’art. 4
direttiva 75/442/CEE si sottolinea come lo Stato italiano sia andato oltre il
potere discrezionale riconosciuto agli Stati membri per la realizzazione degli
obiettivi della direttiva. La presenza di innumerevoli discariche abusive (la
Commissione non ritiene che sia un problema solo di numeri, di quantificazione,
ma contesta l’esistenza stessa di discariche abusive) denota una persistente
situazione di irregolarità che le Autorità italiane non provvedono a
correggere. Nello specifico, alla Commissione appare insufficiente il fatto
che ci si limiti ad un’attività di “sensibilizzazione” delle collettività regionali
e locali per l’individuazione delle aree da bonificare, senza operare un’attività
concreta e risolutiva della violazione. Inoltre viene ribadita la rilevanza
del mero abbandono di rifiuti, perché in palese contrasto con il comma 2
dell’art. 4 che vieta l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato
dei rifiuti.
A conferma della violazione dell’art. 8 si considerano insufficienti lo
strumento del sequestro e l’avvio di un procedimento penale a carico del
(6) In verità si faceva riferimento anche a specifiche realtà territoriali come il Piemonte
che non aveva tra i siti da bonificare quelli identificati dal Corpo forestale dello Stato e
all’impegno di questa Regione, della Puglia e dell’Umbria ad intraprendere iniziative di
bonifica.
272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
gestore della discarica abusiva, poiché quest’ultimo non sarebbe costretto
con tali misure all’immediato smaltimento nei modi conformi alla direttiva.
La violazione dell’art. 9 è considerata in re ipsa, nella presenza, cioè, di
discariche “abusive” che in quanto tali non sono munite della dovuta autorizzazione.
Altresì per la violazione dell’art. 2, paragrafo 1, della direttiva sui rifiuti
pericolosi rileva il carattere “abusivo” delle discariche, che, sottratte al
controllo delle autorità per quanto concerne il flusso di rifiuti pericolosi in
esse presenti, presuntivamente non assolverebbero agli specifici obblighi di
catalogazione e identificazione previsti dalla normativa comunitaria.
Infine relativamente all’art. 14, lettere a), b) e c), della direttiva sulle
discariche, la Commissione UE deduce dall’assenza di informazioni, richieste
con la messa in mora e il parere motivato, la mancanza dei piani di riassetto
che i gestori delle discariche, già autorizzate alla data di entrata in vigore
della direttiva (16 luglio 2001), avrebbero dovuto presentare entro il 16
luglio 2002 e dai quali sarebbe conseguita una decisione delle autorità sul
proseguimento o meno della loro attività.
La novità dell’approccio al tema delle discariche, effettuato dalla
Commissione, sembra smuovere il Ministero dell’Ambiente, che sia pure
inutilmente – essendo oramai scaduto il termine fissato nel parere motivato
– attiva una serie di tavoli con le regioni e alcune ispezioni del Nucleo
Ecologico dell’Arma dei Carabinieri per accertare lo stato effettivo della
situazione ambientale messa in luce dal rapporto del CFS. Questa massa di
dati, sia pure incompleti, introdotti nel giudizio solo in sede di controreplica,
non viene presa in esame dalla Corte di Giustizia, anche se è destinata a
ridurre notevolmente l’impatto del fenomeno nel suo complesso. Diviene
comunque rilevante nella fase di esecuzione della sentenza (vedi oltre).
Sul piano strettamente giuridico, in risposta alle tesi svolte dalla
Commissione il Governo italiano propone una serie di obiezioni, i cui cardini
sono rappresentati dalla richiesta di inammissibilità del ricorso e dalla
dimostrazione del mancato assolvimento dell’onere probandi in relazione a
specifiche discariche gravante sulla Commissione.
Nel fondare le proprie accuse principalmente sul rapporto del CFS, la
Commissione avrebbe finito per formulare delle contestazioni generiche e
indeterminate. L’assenza di puntuali contestazioni e il riferimento esclusivo
a dati riassuntivi della situazione di ciascuna Regione, senza indicazione dei
soggetti detentori, dei gestori delle discariche e dei proprietari dei siti d’abbandono,
rendono concretamente arduo fornire una valida e soddisfacente
risposta alle accuse mosse. Tra l’altro la presenza di cospicui errori, quali
l’inclusione di situazioni di abbandono di rifiuti, in verità già rimossi o di
aree per le quali erano stati disposti gli interventi necessari (sequestro, emissione
delle ordinanze sindacali e avviamento di procedimenti di bonifica),
palesano una sostanziale inattendibilità di questa fonte di prova, con la conseguenza
di considerare non solo dubbia la legittimità, per impedimento al
corretto esercizio del diritto di difesa, dell’approccio cosiddetto orizzontale
prescelto nel caso di specie, ma del tutto infondato, perché non provato nel
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 273
suo insieme, il ricorso presentato avverso l’Italia. In via subordinata vengono
espressamente messi in risalto i risultati soddisfacenti che l’attività di
“sensibilizzazione” delle collettività locali ha prodotto, affinché se ne riconosca
la giusta utilità; si ritorna ad insistere sulla distinzione tra “abbandono
di rifiuti” e “discarica abusiva” per evidenziare come l’abbandono, sebbene
rappresenti una violazione del diritto comunitario, non richieda necessariamente
un’attività di bonifica, indispensabile, invece, in presenza di vere e
proprie discariche. Infine si precisa che le discariche sottoposte a sequestro
penale sarebbero state soggette a interventi di bonifica e messa in sicurezza
solo al termine del processo penale.
La decisione della Corte
Le argomentazioni esposte dallo Stato italiano non sono sembrate sufficienti
ad evitare la condanna. La Corte di Giustizia, soffermandosi sull’inammissibilità
del ricorso e confermando un orientamento già espresso in passato
(7), ritiene innanzi tutto legittima la tecnica impiegata dalla Commissione
nella contestazione degli addebiti e consistente nell’approccio cosiddetto
orizzontale.
È possibile, a giudizio della Corte, contestare la violazione del diritto
comunitario anche senza la necessità di riferirsi a situazioni puntuali e circoscritte,
ma avendo di mira una “prassi amministrativa” generalizzata e consolidata
che porti ad una persistente condizione di inadempimento.
L’approvazione mostrata nei riguardi dell’approccio orizzontale viene giustificata
ribadendo che nel Trattato (CE) non si rileverebbero ostacoli “ad un
esame complessivo di un numero rilevante di situazioni in base alle quali la
Commissione ritenga che uno Stato membro sia stato inadempiente, in modo
ripetuto e prolungato, agli obblighi ad esso incombenti ai sensi del diritto
comunitario” (8). In sostanza tale presa di posizione finisce per tradursi nell’idea
che oggetto del giudizio sia una valutazione complessiva del sistema
italiano di gestione e controllo dei rifiuti (9), per saggiarne l’adeguatezza e
l’efficacia in termini di tutela della salute umana e dell’ambiente.
Un’ulteriore argomentazione presentata, poi, per rafforzare la convinzione
della validità di tale metodo è rappresentata dall’evidenziare i vantaggi
che se ne possono trarre e consistenti in un controllo più efficace, perché
volto all’individuazione e alla correzione di inefficienze strutturali presenti
negli Stati membri, e meno gravoso…
(7) Sentenza 6 ottobre 2005, causa C-502/03, Commissione c/ Grecia; Sentenza 29
marzo 2007, causa C-423/05, Commissione c/ Francia.
(8) Punto 20 della sentenza.
(9) M. ONIDA, Procedure d’infrazione concernenti il diritto comunitario ambientale:
recenti sviluppi e considerazioni sulla situazione italiana, in Rivista giuridica dell’ambiente,
2006, 6, 1137 ss., parla a questo proposito di violazione “strutturale” della disciplina
comunitaria sui rifiuti.
274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La constatazione della ricevibilità del ricorso consente al giudice comunitario
di affrontare il secondo problema sottoposto alla sua attenzione: l’assolvimento
dell’onere della prova da parte della Commissione. La questione
si pone poiché secondo un principio generale spetta a quest’ultima, che agisce
per inadempimento contro uno Stato membro, provare l’esistenza di
detto inadempimento.
Nel caso di specie vengono considerati sufficienti a dimostrare il rispetto
di tale principio i rapporti del CFS, i documenti provenienti dalle autorità
regionali e le inchieste delle commissioni parlamentari, nonostante ne sia stata
messa in dubbio più volte nell’iter procedurale l’attendibilità, spettando a quel
punto allo Stato l’onere di confutare “in modo sostanziale e dettagliato” i dati
forniti dalla Commissione. A giustificazione di questa conclusione si richiama
altro principio, quello della leale cooperazione previsto dall’art. 10 del Trattato
(CE), che dovrebbe indurre gli Stati membri ad effettuare i controlli in concreto
necessari così da facilitare i compiti istituzionalmente spettanti alla
Comunità. In verità il giudizio della Corte su questo punto non convince.
Benché la scelta di condividere il modus operandi della Commissione risulti
discutibile per la necessità di trasformare prima o poi l’approccio orizzontale
in un approccio verticale, rimane, al contrario, indiscutibile che la Commissione
non può essere dispensata dal provare la fondatezza degli addebiti formulati.
Dalle motivazioni espresse in sentenza sembra emergere, invece, un’inversione
dell’onere della prova a carico dello Stato membro, perché spetta a quest’ultimo
confutare accuse che presentano un certo grado di incertezza.
L’incertezza è la conseguenza dei dubbi sollevati sin dall’inizio della
fase precontenziosa dal Ministero dell’Ambiente circa l’affidabilità delle
fonti di prova impiegate. I diversi errori di censimento che hanno portato a
conteggiare più volte lo stesso sito, la menzione di una serie di siti già bonificati,
la ricomprensione di luoghi in cui non è presente alcuna discarica,
risultano sufficienti a far dubitare della inequivocabile esistenza di un
“numero rilevante di situazioni” di inadempimento, presupposto, tra l’altro,
dello stesso approccio orizzontale. In realtà, quindi, la Corte considera provata
un’accusa che muove da dati inesatti, finendo per riconoscere una posizione
di privilegio alla Commissione nella dialettica processuale. Così decidendo,
infatti, si convalida l’idea che sia sufficiente sollevare una contestazione
generica e fondata su elementi imprecisi, per pretendere dalla controparte
una accurata replica volta a mostrarne l’insussistenza.
A suffragio di queste osservazioni vale rilevare ulteriormente che la
Corte di Giustizia omette di affrontare il problema delle discariche abusive
sottoposte a sequestro penale, inserite anch’esse nell’elenco fornito dal CFS.
Poiché la funzionalizzazione di questa misura alle esigenze di accertamento
dei reati impedisce l’adozione di qualunque intervento, di bonifica o di
messa in sicurezza, fino al completamento del procedimento, non si ritiene
esauriente una semplice constatazione della violazione degli obblighi comunitari
a causa dell’immutabilità dei luoghi, necessaria nelle more del procedimento
penale, ma sarebbe stata auspicabile una maggiore attenzione del
giudice comunitario al problema, vista la necessità di contemperare esigenIL
CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 275
ze di accertamento penale con esigenze di tutela ambientale e di rispetto
della disciplina comunitaria. Al contrario l’autorità giudicante preferisce
bypassare il problema, evitando di addentrarsi in una questione che, forse,
avrebbe richiesto una trattazione e una soluzione più flessibile.
Nell’esaminare il merito della controversia, dopo aver escluso l’inammissibilità
del ricorso e valutato positivamente l’assolvimento dell’onere della
prova della Commissione con conseguente necessità per lo Stato italiano di
confutare gli elementi probatori presentati a suo carico, la Corte di Giustizia
giunge inevitabilmente ad affermare la fondatezza delle accuse mosse.
In dettaglio viene sottolineato come la persistente situazione di degrado
dell’ambiente, comprovata dalle stesse affermazioni dell’Italia sull’esistenza
di siti di abbandono di rifiuti e di discariche non conformi alle direttive
comunitarie, palesa un abuso di quel potere discrezionale conferito agli Stati
membri nel recepimento delle direttive comunitarie, per cui non è apparso
sufficiente evocare la libertà degli Stati membri nell’attuazione degli obiettivi
previsti dall’art. 4 della direttiva rifiuti per escludere la non conformità
alla stessa. La violazione delle altre disposizioni è l’espressione concreta
della convinzione che la Commissione abbia assolto anche su tali punti il
proprio onere probandi.
Verso una nuova condanna in tema di “discariche esistenti”
Per quanto concerne la direttiva rifiuti e la direttiva sui rifiuti pericolosi la
condanna della Corte viene motivata sulla base della mancata confutazione, in
primo luogo, dell’esistenza di alcune discariche abusive, prive della dovuta
autorizzazione e incapaci di fornire le necessarie garanzie circa il corretto
smaltimento e recupero dei rifiuti; in secondo luogo, sull’assenza di argomentazioni
volte a contestare le affermazioni e i numeri forniti (700 discariche abusive
contenenti rifiuti pericolosi) dalla Commissione per dimostrare che le
autorità italiane conoscono il flusso dei rifiuti pericolosi in esse depositate.
Tale censura serve anche per affermare l’avvenuta violazione dell’art. 14
direttiva 1999/31/CE. In merito a questa violazione, tuttavia, si può constatare
un aspetto ulteriore. La Corte, dopo aver rilevato che i piani di riassetto
per le discariche già attive all’epoca dell’entrata in vigore della direttiva non
sono stati in tutti i casi necessari presentati, precisa come tra i piani presentati
solo alcuni sono stati oggetto di approvazione.
In proposito risulta interessante richiamare quanto statuisce la normativa
nazionale.
L’art. 17 D.Lgs. 36/2003 (10) prevede, conformemente all’art. 14 della
direttiva 1999/31/CE, la presentazione di un piano di adeguamento entro sei
mesi dalla data di entrata in vigore del decreto (27 marzo 2003) da parte degli
operatori già attivi. Una lettura attenta di questa disposizione consente, però,
(10) Si tratta del decreto che ha recepito la direttiva 1999/31/CE sulle discariche.
276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
di rilevare l’assenza di un termine entro il quale il procedimento amministrativo,
attivato con la presentazione del piano, debba concludersi. Ciò ha indotto
le autorità regionali, competenti in materia, a sentirsi legittimate a rinviare
le decisioni sull’approvazione o sul rigetto dei piani e, in tale caso, anche sull’immediata
chiusura dei siti relativi, trascurando che la data del 16 luglio
2009, ai sensi dell’art. 17, 4° comma, rappresenta solo il termine entro il quale
dovranno essere ultimati i lavori di adeguamento già autorizzati. Quindi, come
rilevato dal giudice europeo ad un’inerzia degli operatori, che non hanno presentato
nel termine dovuto i piani di adeguamento, si è sommata un’inerzia
delle autorità competenti ad approvare i relativi piani. Tale inerzia è palesemente
colpevole perché crea un immediato danno all’ambiente: discariche che
si sarebbero dovute chiudere “subito” (per inadeguatezza e/o impossibilità del
piano di risanamento) continuano a depositare rifiuti fino all’epoca in cui
sarebbero dovuti finire lavori mai autorizzati e/o autorizzabili.
Il richiamo all’art. 17 D.Lgs. 36/2003 tuttavia consente anche di ricordare
l’esistenza di una ulteriore procedura d’infrazione ormai giunta alla fase contenziosa
(11), volta a far dichiarare un nuovo inadempimento dell’Italia alla
direttiva 1999/31/CE. La Commissione in questo caso rimprovera, da una
parte, il tardivo recepimento della direttiva, recepimento intervenuto dopo due
anni dalla scadenza prevista, e dall’altra la discordanza dell’art. 17 all’art. 14,
lett. d, direttiva 1999/31/CE relativo alle discariche di rifiuti pericolosi.
In merito alla prima accusa è inevitabile rilevare che la tardività sia un
dato di fatto, inconfutabile, al quale non può porsi rimedio, genera, quindi,
perplessità la scelta della Commissione di agire in un momento nel quale l’inadempimento
è stato sanato e per il quale non sarebbe possibile andare oltre
la mera dichiarazione.
Ben diverso sarebbe il caso di contestazioni puntuali, legate al tenore letterale
e contenutistico delle diverse disposizioni. Atal proposito non sembra,
tuttavia, che la contestata violazione dell’art. 14, lett. d si possa vedere in
questa ottica. La mancata applicazione di alcune disposizioni della direttiva
sulle discariche, prevista per il 2002, ai titolari delle discariche di rifiuti pericolosi
già operativi alla data di entrata in vigore della medesima direttiva,
risulta essere una conseguenza del tardivo recepimento. Non solo questo ha
impedito il rispetto di quella data, ma ha reso necessario prevedere all’interno
del decreto una serie di disposizioni transitorie che consentissero agli
interessati un adattamento graduale alla nuova normativa.
Ciò nonostante a giudizio della Commissione il fatto che l’art. 17 del
D.Lgs. 36/2003 preveda che entro il 27 settembre 2003 siano presentati piani
di adeguamento, non garantisce l’applicazione delle disposizioni della direttiva
comunitaria che, in verità, dovevano già risultare rispettate. Nell’ottica
della Commissione, infatti, la presentazione di un piano manifesta semplice-
(11) Causa C-442/06.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 277
mente l’intento futuro di conformarsi alla direttiva, ma non assicura che a
partire da quel momento vengano di fatto adottate le misure necessarie per
adattarsi ad essa.
A prescindere dalle argomentazioni di parte e dall’esito di questa vicenda,
rimane difficile pensare che essa non sia la diretta conseguenza del procedimento
che ha portato alla sentenza in commento, seguendo la logica
degli inadempimenti “a catena”. Da qui il riconoscimento di un ruolo non
secondario rivestito dalla recente pronuncia della Corte di Giustizia, che, tra
l’altro, per gli aspetti trattati e le soluzioni proposte potrà influire considerevolmente
sul futuro contenzioso comunitario.
Gli sviluppi successivi alla decisione della Corte
Nel tentativo di dare una panoramica completa è sembrato doveroso anche
dar conto della fase successiva alla sentenza, quella della sua attuazione.
Nei mesi immediatamente successivi alla condanna si sono susseguite
una serie di riunioni tra i Ministeri competenti e le Regioni volte a definire
le modalità di attuazione della stessa. Gli sforzi sono stati diretti a raccogliere
dati da presentare a Bruxelles l’11 giugno 2007, dai quali emergesse la
risoluzione, o la risoluzione in un futuro prossimo, di tutte quelle situazioni
alle quali fa riferimento il rapporto del CFS e sul quale si basa fondamentalmente
il giudizio della Corte di Giustizia.
È importante sottolineare come la raccolta di semplici dati ha rappresentato
un problema. La difficoltà principale è consistita nel reperire dati certi
che mostrassero quante discariche risultavano bonificate, quante erano da
bonificare, ma soprattutto i tempi per le bonifiche in itinere o per le rimozione
di rifiuti in itinere.
Le Regioni hanno precisato che gli ostacoli nello svolgimento dell’attività
di monitoraggio derivavano dall’imprecisione caratterizzante il rapporto
del CFS (12) e dal fatto che si trattava di un rapporto non recente. La difficoltà
in questione è stata anche motivata da un’evidente differenza di problematiche,
riscontrate nell’esecuzione delle attività di bonifica e dipendenti
dalle diverse realtà regionali. Ogni Regione, non si tratta della semplicistica
differenziazione tra Nord e Sud, ha mostrato la necessità di confrontarsi
con problemi legati alla conformazione geografica del proprio territorio (la
presenza di ghiacciai, di dirupi montani etc.), alla realtà economica (alcune
Regioni hanno lamentato problemi di budget) e sociale (la gestione di alcune
discariche da parte della malavita) interna.
Inoltre le autorità regionali hanno mostrato l’adozione di diverse prassi
interne, finalizzate all’individuazione di siti da bonificare. In alcuni casi si è
pensato di procedere, contrariamente all’urgenza del momento, a ispezioni
(12) Alcune Regioni hanno dichiarato di non aver trovato alcuna discarica nei luoghi
indicati nel rapporto.
278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
per verificare lo stato di discariche chiuse da oltre vent’anni secondo la normativa
vigente all’epoca. Le argomentazioni fornite al riguardo hanno fatto
leva sulla necessità di eseguire accertamenti per verificare se si trattasse di
siti inquinati, con la conseguente necessità, in caso positivo, di procedere alla
relativa bonifica.
In merito a quest’aspetto l’Amministrazione centrale ha fatto notare che
l’avvenuta chiusura in conformità alla normativa allora vigente, tale da poter
far parlare di una chiusura “a norma”, consente di escludere tali siti dal novero
delle discariche attive, aventi bisogno di immediata bonifica. In senso
contrario si rischierebbe di procedere ad accertamenti inutili e dispendiosi,
in un momento in cui bisogna fornire rapidamente una risposta alla
Comunità, eliminando tutte le situazioni che rappresentano, attualmente, una
violazione del diritto comunitario. Proprio in considerazione della difformità
delle misure adottate da ciascuna Regione è stata prospettata una soluzione:
la convocazione della Conferenza Stato-Regioni. È , infatti, nella sede
istituzionale opportuna che si potrà studiare e definire una procedura uniforme
applicabile a tutti in futuro che sappia conciliare esigenze di uniformità
con le esigenze autonomistiche delle Regioni.
Durante la riunione svoltasi a Bruxelles l’11 giugno 2007 (13), diversi
sono stati gli argomenti di discussione. La Commissione ha esordito ricordando
il carattere orizzontale della procedura, caratterizzata dal fatto che,
sebbene il punto di partenza sia stato rappresentato da una serie di casi specifici,
il risultato al quale si arriva è consistito in una dichiarazione generale
di mancato rispetto del diritto comunitario da parte dello Stato italiano, puntualizzando
la necessità di predisporre un sistema generale di controllo del
territorio e prospettando l’eventualità di un nuovo censimento.
Dal canto suo il Governo italiano ha precisato che nell’attività di adempimento
alla sentenza del giudice comunitario risulta necessario trasformare
l’approccio orizzontale in un approccio verticale, procedendo alla risoluzione
di tutti quei casi che erano stati inseriti nel rapporto del CFS. Le argomentazioni
proposte a suffragio di questa tesi sono consistite nell’esigenza di
garantire la certezza del diritto, ed evitare sia un’attività di monitoraggio sull’intero
territorio nazionale impossibile, illimitata nel tempo e inutile, a fronte
del monitoraggio già eseguito costantemente dalle autorità regionali.
Dopo lunga discussione la Commissione è sembrata d’accordo nel procedere
preliminarmente ad una ricognizione dei casi evidenziati nel rapporto
e di quelli indicati nel corso della procedura, approvando lo schema di raccolta
ed analisi predisposti dal Ministero dell’Ambiente. Quest’ultimo è
stato designato per inviare formalmente alla Commissione alla fine di giugno
lo schema esaminato, illustrando congiuntamente l’apparato normativo
(13) Vedi verbale sommario della riunione redatto dal MAE – Direzione Generale per
l’Integrazione Europea in data 14 giugno 2007.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 279
e organizzativo predisposto per reprimere e prevenire le violazioni accertate.
Mentre per la trasmissione dei dati relativi alla condizione delle singole realtà
regionali è stato dato tempo fino ad ottobre.
A partire da quel momento saranno note le situazioni problematiche per
le quali è stato proposto dalla Commissione un monitoraggio trimestrale che
consenta un controllo costante sulle discariche ed i siti ancora da bonificare.
In ultimo si è presentato un ulteriore schema di raccolta dati, concernente
le discariche già autorizzate il 16 luglio 2001 o autorizzate tra il 16 luglio 2001
e il 27 marzo 2003, per mostrare quanti piani di adeguamento siano stati presentati,
quanti approvati e quanti discariche siano state chiuse (per mancato
rispetto del termine o per la non approvazione del piano). A tal proposito la
Commissione ha manifestato l’opportunità di un intervento normativo che
acceleri l’esecuzione dei piani di adeguamento, così da influire anche sulla
procedura attualmente in corso per violazione della direttiva 1999/31/CE.
Come si vede la sentenza della Corte di Giustizia emessa sui dati del
Corpo Forestale dello Stato (un minino di prudenza sarebbe stato d’obbligo)
ha posto l’Italia in una situazione di difficoltà e debolezza di fronte alle pretese
(non tutte convincenti quanto a pertinenza e fondatezza) della
Commissione UE. “Riusciranno i nostri eroi”– a ribaltare questa situazione?
La questione è nelle mani del Ministero dell’Ambiente ma soprattutto nel
coordinamento delle Regioni, vere autorità di gestione del settore.
Dott. Valeria Santocchi (*)
Corte di Giustizia delle Comunità europee, terza sezione, sentenza 26 aprile 2007, nella
causa C-135/05 – Ricorso per inadempimento proposto il 22 marzo 2005 – Pres. A.
Rosas – Rel. J. Klucka – Avv. gen. M. Poiares Maduro – Commissione delle Comunità
europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo),
“1.- Con il suo ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di
constatare che, non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari:
– per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo
e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente
e per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti;
– affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o
ad un’impresa che effettua le operazioni di smaltimento o di recupero, oppure provveda egli
stesso al recupero o allo smaltimento conformandosi alle disposizioni della direttiva del
Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (G.U. L 194, pag. 39), come modificata
dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (G.U. L 78, pag. 32; in prosieguo:
la «direttiva 75/442»);
(*) Università di Roma – Tor Vergata; ammessa alla pratica forense presso
l’Avvocatura dello Stato.
280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– affinché tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano operazioni di smaltimento
siano soggetti ad autorizzazione dell’autorità competente;
– affinché in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi,
questi ultimi siano catalogati e identificati; e
– affinché, in relazione alle discariche che hanno ottenuto un’autorizzazione o erano
già in funzione alla data del 16 luglio 2001, il gestore della discarica elabori e presenti per
l’approvazione dell’autorità competente, entro il 16 luglio 2002, un piano di riassetto della
discarica comprendente le informazioni relative alle condizioni per l’autorizzazione e le
misure correttive che ritenga eventualmente necessarie; e affinché, in seguito alla presentazione
del piano di riassetto, le autorità competenti adottino una decisione definitiva sull’eventuale
proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che
non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori
e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano, la Repubblica italiana è
venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva
75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa
ai rifiuti pericolosi (G.U. L 377, pag. 20), e dell’art. 14, lett. a),c), della direttiva del
Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti (G.U. L 182, pag. 1).
Contesto normativo
– La direttiva 75/442
2.- L’art. 4 della direttiva 75/442 prevede quanto segue:
«Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano ricuperati
o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che
potrebbero recare pregiudizio all’ambiente (…). Gli Stati membri adottano inoltre le misure
necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti».
3.- L’art. 8 della direttiva 75/442 impone agli Stati membri di adottare le disposizioni
necessarie affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico,
o ad un’impresa che effettua le operazioni previste nell’allegato II A o II B di tale direttiva,
oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni
di detta direttiva.
4.- L’art. 9, n. 1, della direttiva 75/442 dispone che, ai fini dell’applicazione, in particolare,
dell’art. 4 della stessa direttiva, tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano le operazioni
di smaltimento di rifiuti debbono ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente incaricata
di attuare le disposizioni di tale direttiva. L’art. 9, n. 2, precisa che dette autorizzazioni
possono essere concesse per un periodo determinato, essere rinnovate, essere accompagnate
da condizioni e obblighi, o essere rifiutate segnatamente quando il metodo di smaltimento previsto
non è accettabile dal punto di vista della protezione dell’ambiente.
– La direttiva 91/689
- L’art. 2 della direttiva 91/689 così dispone:
«1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie per esigere che in ogni luogo in cui
siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi, questi ultimi siano catalogati e identificati.
(…)».
– La direttiva 1999/31
6.- Ai sensi dell’art. 14, lett. a), c), della direttiva 1999/31:
«Gli Stati membri adottano misure affinché le discariche che abbiano ottenuto un’autorizzazione
o siano già in funzione al momento del recepimento della presente direttiva
possano rimanere in funzione soltanto se (. . . )
a) entro un anno dalla data prevista nell’articolo 18, paragrafo 1 [vale a dire entro il 16
luglio 2002], il gestore della discarica elabora e presenta all’approvazione dell’autorità competente
un piano di riassetto della discarica comprendente le informazioni menzionate nell’articolo
8 e le misure correttive che ritenga eventualmente necessarie al fine di soddisfare
i requisiti previsti dalla presente direttiva, fatti salvi i requisiti di cui all’allegato I, punto 1;
b) in seguito alla presentazione del piano di riassetto, le autorità competenti adottano
una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni in base a detto piano
e alla presente direttiva. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per far chiudere al
più presto, a norma dell’articolo 7, lettera g), e dell’articolo 13, le discariche che, in forza
dell’articolo 8, non ottengono l’autorizzazione a continuare a funzionare;
c) sulla base del piano approvato, le autorità competenti autorizzano i necessari lavori
e stabiliscono un periodo di transizione per l’attuazione del piano. Tutte le discariche preesistenti
devono conformarsi ai requisiti previsti dalla presente direttiva, fatti salvi i requisiti
di cui all’allegato I, punto 1, entro otto anni dalla data prevista nell’articolo 18, paragrafo
1 [ossia entro il 16 luglio 2009]».
7.- Ai sensi dell’art. 18, n. 1, della detta direttiva, gli Stati membri adottano le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla stessa entro
due anni a decorrere dalla sua entrata in vigore [vale a dire, entro il 16 luglio 2001] e ne
informano immediatamente la Commissione.
Procedimento precontenzioso
8.- A seguito di varie denunce, di interrogazioni parlamentari, di articoli di stampa,
nonché della pubblicazione, avvenuta il 22 ottobre 2002, di un rapporto del Corpo forestale
dello Stato (in prosieguo: il «CFS»), che evidenziava l’esistenza di un gran numero di discariche
illegali e non controllate in Italia, la Commissione ha deciso di controllare l’osservanza
da parte di detto Stato membro degli obblighi ad esso incombenti ai sensi delle direttive
75/442, 91/689 e 1999/31.
9.- Tale rapporto completava la terza fase di un procedimento avviato nel 1986 dal CFS
al fine di contabilizzare le discariche illegali nei territori boschivi e montagnosi delle
Regioni a statuto ordinario in Italia (vale a dire la totalità delle regioni italiane, eccetto il
Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta). Un
primo censimento, avvenuto nel 1986, aveva riguardato 6890 degli 8104 comuni italiani e
aveva consentito al CFS di accertare l’esistenza di 5978 discariche illegali. Un secondo censimento,
effettuato nel 1996, aveva riguardato 6802 comuni e aveva rivelato al CFS l’esistenza
di 5422 discariche illegali. Dopo il censimento del 2002, il CFS ha ancora catalogato
4866 discariche illegali, 1765 delle quali non figuravano nei precedenti studi. Secondo il
CFS, 705 tra le dette discariche abusive contenevano rifiuti pericolosi. Per contro, il numero
delle discariche autorizzate era soltanto di 1 420.
10.- I risultati di quest’ultimo censimento sono riassunti dalla Commissione come segue:
Regione - Numero di discariche abusive - Superficie delle discariche abusive
(m²) - Discariche attive/non attive Discariche bonificate/non bonificate
– Abruzzo 3611 016 139111 / 25070 / 291
– Basilicata 152222 83040 / 11243 / 109
– Calabria 4471 655 47981 / 36619 / 428
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 281
282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– Campania 225445 22240 / 18537 / 188
– Emilia Romagna 380254 398189 / 19159 / 321
– Lazio 426663 535120 / 306110 / 316
– Liguria 305329 507145 / 16058 / 247
– Lombardia 5411 132 233124 / 417159 / 382
– Marche 244364 78170 / 17441 / 203
– Molise 84199 36014 / 7013 / 71
– Piemonte 335270 776114 / 221119 / 216
– Puglia 5993 861 622440 / 15937 / 562
– Toscana436545 005107 / 329154 / 282
– Umbria 15771 51033 / 12461 / 96
– Veneto 1745 482 52726 / 14850 / 124
– Totale 486616 519 7901 654 / 3 2121 030 / 3836
11.- Benché i dati forniti dal CFS riguardino soltanto le quindici regioni italiane a statuto
ordinario, la Commissione dichiara di voler perseguire, nel procedimento in esame, la
Repubblica italiana per la totalità delle discariche abusive esistenti sul suo territorio. Infatti,
la Commissione disporrebbe di informazioni da cui risulterebbe che la situazione è analoga
nelle regioni a statuto speciale.
12.- Detta istituzione rinvia, al riguardo, al piano di gestione dei rifiuti della Regione
Siciliana, notificato alla Commissione il 4 marzo 2003 e al quale è allegato il piano di bonifica
delle zone inquinate della regione in questione. Tale piano evidenzierebbe l’esistenza di
numerose discariche abusive, di siti di rifiuti abbandonati, di depositi di rifiuti non autorizzati
e di siti non specificati, di cui alcuni conterrebbero rifiuti pericolosi.
13.- Lo stesso varrebbe per le Regioni Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e
Sardegna, in relazione alle quali la Commissione completa la descrizione della situazione
complessiva in Italia mediante documenti ufficiali provenienti dalle autorità di dette regioni
e mediante rapporti delle commissioni parlamentari di inchiesta, nonché attraverso articoli
di stampa.
14.- A titolo di esempio, la Commissione menziona una discarica situata nella località
«Cascina Corradina» nel comune di San Fiorano, che inizialmente ha costituito oggetto di
un procedimento distinto, successivamente riunito al procedimento in esame ai fini del
ricorso dinanzi alla Corte.
15.- In base a tutte queste informazioni la Commissione, conformemente all’art. 226
CE, con lettera dell’11 luglio 2003, ha invitato il governo italiano a presentare le sue osservazioni
a tale riguardo.
16.- Non avendo ottenuto dalle autorità italiane alcuna informazione che consentisse di
concludere che era stato posto fine agli inadempimenti addebitati, la Commissione, con lettera
del 19 dicembre 2003, ha emanato un parere motivato, invitando la Repubblica italiana ad
adottare i provvedimenti necessari per conformarsi ad esso entro due mesi dalla sua notifica.
17.- La Commissione non ha ricevuto alcuna risposta al detto parere motivato. Di conseguenza,
essa ha proposto il ricorso in esame.
Sul ricorso
Sulla ricevibilità
18.- Il governo italiano sostiene che il ricorso della Commissione dovrebbe essere
dichiarato irricevibile a causa della genericità e dell’indeterminatezza dell’inadempimento
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 283
addebitato, che impedirebbe a detto governo di presentare una difesa precisa tanto in fatto
quanto in diritto. In particolare, la Commissione non avrebbe individuato i detentori o i
gestori delle discariche né i proprietari dei siti sui quali i rifiuti sono stati abbandonati.
19.- La Commissione ritiene, per contro, di poter esaminare, in un unico procedimento,
la questione dello smaltimento dei rifiuti sulla totalità del territorio italiano. Siffatto
approccio, da essa qualificato «orizzontale», consentirebbe, da un lato, di individuare e di
correggere più efficacemente i problemi strutturali sottesi all’asserito inadempimento della
Repubblica italiana e, dall’altro, di alleggerire i sistemi di controllo del rispetto del diritto
comunitario in materia ambientale. A questo proposito, la Commissione rinvia alle conclusioni
dell’avvocato generale Geelhoed, relative alla causa C-494/01, Commissione/Irlanda
(sentenza 26 aprile 2005, Racc. pag. I-3331).
20.- Anzitutto, occorre evidenziare che, fatto salvo l’obbligo della Commissione di
soddisfare l’onere della prova gravante su di essa nell’ambito della procedura prevista dall’art.
226 CE, il Trattato CE non contiene alcuna norma che si opponga all’esame complessivo
di un numero rilevante di situazioni, in base alle quali la Commissione ritenga che uno
Stato membro sia stato inadempiente, in modo ripetuto e prolungato, agli obblighi ad esso
incombenti ai sensi del diritto comunitario.
21.- Si desume poi da costante giurisprudenza che una prassi amministrativa può costituire
oggetto di un ricorso per inadempimento, qualora risulti in una certa misura costante e generale
(v., specificamente, sentenza Commissione/Irlanda, cit. , punto 28 e giurisprudenza ivi citata).
22.- Infine, occorre ricordare che la Corte ha già dichiarato ricevibili ricorsi della
Commissione proposti in contesti analoghi, in cui quest’ultima deduceva precisamente una
violazione strutturale e generalizzata degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442 da parte di uno
Stato membro (sentenza 6 ottobre 2005, causa C-502/03, Commissione/Grecia, non pubblicata
nella Raccolta) e una violazione di tali medesimi articoli, nonché dell’art. 14 della direttiva
1999/31 (sentenza 29 marzo 2007, causa C-423/05, Commissione/Francia, non pubblicata
nella Raccolta).
23.- Di conseguenza, il ricorso della Commissione è ricevibile.
Nel merito
Sull’onere della prova
24.- Il governo italiano sostiene che le fonti di informazione sulle quali la ricorrente
fonda il suo ricorso sarebbero prive di credibilità in quanto, da un lato, i rapporti del CFS
non sono stati elaborati in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
territorio, che sarebbe l’unica autorità nazionale competente rispetto all’ordinamento giuridico
comunitario, e, dall’altro, gli atti delle commissioni parlamentari di inchiesta o gli articoli
di stampa costituirebbero non confessioni, ma soltanto fonti generiche di prova, la cui
fondatezza dev’essere dimostrata da chi le invoca.
25.- La Commissione, al contrario, considera che i rapporti elaborati dal CFS costituiscono
una fonte di informazioni affidabili e privilegiate in materia ambientale. Infatti, il CFS
costituirebbe una forza di polizia dello Stato ad ordinamento civile che ha il compito, in particolare,
di difendere il patrimonio forestale italiano, di tutelare l’ambiente, il paesaggio e
l’ecosistema, nonché di esercitare attività di polizia giudiziaria al fine di vigilare sul rispetto
delle normative nazionali e internazionali in materia.
26.- A tale riguardo si deve ricordare che, nell’ambito di un procedimento per inadempimento
ai sensi dell’art. 226 CE, spetta alla Commissione provare la sussistenza dell’asserito
inadempimento. Ad essa spetta fornire alla Corte gli elementi necessari affinché questa accerti
l’esistenza di siffatto inadempimento, senza potersi basare su alcuna presunzione (sentenza
25 maggio 1982, causa 96/81, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1791, punto 6).
27.- Tuttavia, gli Stati membri sono tenuti, a norma dell’art. 10 CE, ad agevolare la
Commissione nello svolgimento del suo compito, che consiste, in particolare, ai sensi dell’art.
211 CE, nel vigilare sull’applicazione delle norme del Trattato, nonché delle disposizioni
adottate dalle istituzioni in forza dello stesso Trattato (sentenza Commissione/Irlanda,
cit., punto 42 e giurisprudenza ivi citata).
28.- In una simile prospettiva, si deve tener conto del fatto che, nel verificare la corretta
applicazione pratica delle disposizioni nazionali destinate a garantire la concreta attuazione
della direttiva, tra cui quelle adottate nel settore dell’ambiente, la Commissione, che non
dispone di propri poteri di indagine in materia, dipende in ampia misura dagli elementi forniti
da eventuali denuncianti, da organizzazioni private o pubbliche attive sul territorio dello
Stato membro interessato, nonché da questo stesso Stato membro (v., in tal senso, sentenza
Commissione/Irlanda, cit., punto 43 e giurisprudenza ivi citata).
29.- A tal riguardo, i rapporti elaborati dal CFS e da commissioni parlamentari d’inchiesta
o documenti ufficiali provenienti, in particolare, da autorità regionali possono essere
considerati, quindi, come valide fonti d’informazione per l’avvio, da parte della
Commissione, del procedimento di cui all’art. 226 CE.
30.- Ne discende, in particolare, che, quando la Commissione ha fornito elementi sufficienti
a far emergere determinati fatti verificatisi sul territorio dello Stato membro convenuto,
spetta a quest’ultimo confutare in modo sostanziale e dettagliato i dati forniti dalla
Commissione e le conseguenze che ne derivano (sentenza Commissione/Irlanda, cit. , punto
44 e giurisprudenza ivi citata).
31.- In simili circostanze, infatti, spetta innanzi tutto alle autorità nazionali effettuare i
controlli in loco necessari, in uno spirito di cooperazione leale, conformemente al dovere di
ogni Stato membro, ricordato al punto 27 della presente sentenza, di facilitare l’adempimento
del compito generale della Commissione (sentenza Commissione/Irlanda, cit. , punto 45
e giurisprudenza ivi citata).
32.- Pertanto, quando la Commissione si richiama a denunce circostanziate, dalle quali
emergono ripetuti inadempimenti alle disposizioni della direttiva, spetta allo Stato membro
interessato confutare in modo concreto i fatti affermati in tali denunce. Del pari, quando la
Commissione ha fornito elementi sufficienti a far risultare che le autorità di uno Stato membro
hanno posto in essere una prassi reiterata e persistente contraria alle disposizioni di una
direttiva, spetta a tale Stato membro confutare in modo sostanziale e dettagliato i dati in tal
modo forniti, nonché le conseguenze che ne derivano (sentenza Commissione/Irlanda, cit.,
punti 46 e 47, nonché giurisprudenza ivi citata). Tale obbligo incombe agli Stati membri in
virtù del dovere di leale cooperazione, enunciato all’art. 10 CE, durante tutto il procedimento
di cui all’art. 226 CE. Orbene, risulta dal fascicolo che le autorità italiane non hanno
cooperato pienamente con la Commissione ai fini dell’istruzione della presente causa nella
fase del procedimento precontenzioso.
Sulla violazione degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva
91/689 e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva 1999/31
– Argomenti delle parti
33.- Per confutare le censure dedotte dalla Commissione, il governo italiano, fondandosi
sulle informazioni che ha potuto ottenere presso le amministrazioni regionali, provinciali,
284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 285
nonché presso il Nucleo Operativo Ecologico dell’Arma dei Carabinieri, sostiene anzitutto
che i dati forniti dalla Commissione sono inconsistenti e non corrispondono alla situazione
reale in Italia. Esso contesta, in particolare, il numero di «discariche abusive» censite dalla
Commissione in quanto quest’ultima, in primo luogo, avrebbe conteggiato talune discariche
più volte, in secondo luogo, avrebbe qualificato come discariche abusive semplici depositi o
siti con rifiuti in abbandono, di cui una parte starebbe per essere bonificata o in cui i rifiuti
sarebbero già stati rimossi e, in terzo luogo, avrebbe travisato il loro grado di pericolosità,
poiché la maggior parte di tali discariche sarebbe sotto controllo o sotto sequestro.
34.- Il governo italiano ricorda, poi, i progressi recenti che la Repubblica italiana ha
realizzato nell’attuazione degli obblighi derivanti dalle direttive 75/442, 91/689 e 1999/31.
35.- La Commissione sostiene, in primo luogo, che il governo italiano non fornisce
informazioni in senso contrario, provenienti da una fonte di livello paragonabile alle proprie.
In secondo luogo, benché la Commissione prenda atto del fatto che i rifiuti sono stati
rimossi da talune discariche, essa sostiene che le situazioni che stanno per essere regolarizzate
sono in numero notevolmente minore di quelle per le quali le autorità nazionali non
hanno avviato alcuna azione per rimediare al loro carattere abusivo.
– Giudizio della Corte
36.- Anzitutto, risulta da giurisprudenza costante che l’esistenza di un inadempimento
dev’essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla
scadenza del termine stabilito nel parere motivato e che la Corte non può tenere conto dei
mutamenti successivi, quand’anche essi costituiscano un’attuazione corretta delle norme di
diritto comunitario che sono oggetto del ricorso per inadempimento (v. , in tal senso, sentenze
11 ottobre 2001, causa C-111/00, Commissione/Austria, Racc. pag. I-7555, punti 13 e
14; 30 gennaio 2002, causa C-103/00, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-1147, punto 23; 28
aprile 2005, causa C-157/04, Commissione/Spagna, non pubblicata nella Raccolta, punto
19; e 7 luglio 2005, causa C-214/04, Commissione/Italia, non pubblicata nella Raccolta,
punto 14).
37.- Successivamente, per quanto riguarda più specificamente la valutazione della violazione
da parte di uno Stato membro dell’art. 4 della direttiva 75/442, occorre ricordare che
quest’ultimo prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie per assicurare che i
rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti
o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente, senza peraltro precisare il
contenuto concreto delle misure che devono essere adottate per assicurare tale obiettivo.
Tuttavia, ciò non toglie che tale disposizione vincola gli Stati membri quanto all’obiettivo
da raggiungere, pur lasciando agli stessi un potere discrezionale nella valutazione della
necessità di tali misure (sentenza 9 novembre 1999, causa C-365/97, Commissione/Italia,
detta «San Rocco», Racc. pag. I-7773, punto 67). Non è quindi possibile, in via di principio,
dedurre direttamente dalla mancata conformità di una situazione di fatto agli obiettivi
fissati all’art. 4 di tale direttiva che lo Stato membro interessato sia necessariamente venuto
meno agli obblighi imposti da questa disposizione. Nondimeno, è pacifico che la persistenza
di una tale situazione di fatto, in particolare quando comporta un degrado rilevante dell’ambiente
per un periodo prolungato senza intervento delle autorità competenti, può rivelare
che gli Stati membri hanno abusato del potere discrezionale che questa disposizione
conferisce loro (sentenza San Rocco, cit. , punti 67 e 68).
38.- A tale riguardo, occorre constatare che la fondatezza delle censure addebitate alla
Repubblica italiana risulta chiaramente dal fascicolo. Infatti, benché le informazioni fornite
da tale governo abbiano permesso di constatare che il rispetto in Italia degli obiettivi previsti
dalle disposizioni del diritto comunitario che costituiscono l’oggetto dell’inadempimento
è migliorata nel corso del tempo, tali informazioni rivelano tuttavia che, alla scadenza del
termine fissato nel parere motivato, persisteva una generale mancanza di conformità delle
discariche a siffatte disposizioni.
39.- Per quanto riguarda la censura relativa alla violazione dell’art. 4 della direttiva
75/442, è pacifico che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, vi era sul territorio
italiano un considerevole numero di discariche in cui i gestori non avevano garantito
il riciclaggio o lo smaltimento dei rifiuti in modo tale da non mettere in pericolo la salute
dell’uomo e da non utilizzare procedimenti o metodi che potessero recare pregiudizio
all’ambiente, nonché un considerevole numero di siti di smaltimento incontrollato di rifiuti.
A titolo d’esempio, come risulta dall’allegato 1 alla controreplica del governo italiano,
quest’ultimo ha ammesso l’esistenza, constatata durante un controllo a livello locale a seguito
del censimento effettuato dal CFS, di 92 siti interessati da abbandono di rifiuti nella
Regione Abruzzo.
40.- L’esistenza di una tale situazione per un periodo prolungato di tempo ha necessariamente
per conseguenza un degrado rilevante dell’ambiente.
41.- Quanto alla censura relativa alla violazione dell’art. 8 della direttiva 75/442, è
accertato che, alla scadenza del termine impartito, le autorità italiane non hanno garantito
che i detentori di rifiuti procedessero essi stessi allo smaltimento o al recupero dei rifiuti o
li consegnassero ad un raccoglitore o ad un’impresa incaricata di effettuare tali operazioni,
conformemente alle disposizioni della direttiva 75/442. A tale riguardo, risulta dall’allegato
3 alla controreplica del governo italiano che le autorità italiane hanno recensito almeno 9 siti
con tali caratteristiche nella Regione Umbria e 31 nella Regione Puglia, in provincia di Bari.
42.- Per quanto riguarda la censura relativa alla violazione dell’art. 9 della direttiva
75/442, non è contestato che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, numerose
discariche erano in funzione senza aver ottenuto l’autorizzazione delle autorità competenti.
Lo testimoniano, in particolare, così come risulta chiaramente dall’allegato 3 alla controreplica
del governo italiano, i casi di abbandono di rifiuti già menzionati ai punti 39 e 41
della presente sentenza, ma anche la presenza di almeno 14 discariche abusive nella Regione
Puglia, in provincia di Lecce.
43.- Per quanto riguarda la censura relativa al fatto che le autorità italiane non hanno
garantito la catalogazione o l’identificazione dei rifiuti pericolosi in ogni discarica o luogo
in cui questi ultimi fossero depositati, ossia quella relativa alla violazione dell’art. 2 della
direttiva 91/689, è sufficiente rilevare che il governo di detto Stato membro non presenta
argomenti e prove specifiche al fine di contraddire le affermazioni della Commissione. In
particolare, esso non nega l’esistenza sul suo territorio, al momento della scadenza del termine
fissato nel parere motivato, di almeno 700 discariche abusive contenenti rifiuti pericolosi,
che non sono quindi sottoposti ad alcuna misura di controllo. Ne consegue che le autorità
italiane non possono conoscere il flusso di rifiuti pericolosi depositati in tali discariche
e che, pertanto, l’obbligo di catalogarli ed identificarli non è stata rispettato.
44.- Infine, ciò vale anche per la censura relativa alla violazione dell’art. 14 della direttiva
1999/31. Nella fattispecie, il governo italiano ha segnalato esso stesso che 747 discariche
che si trovano sul proprio territorio nazionale avrebbero dovuto costituire oggetto di un
piano di riassetto. Orbene, l’esame dell’insieme dei documenti forniti in allegato alla controreplica
del governo italiano rivela che, alla scadenza del termine impartito, tali piani
erano stati presentati solo per 551 discariche e che solo 131 piani erano stati approvati dalle
competenti autorità. Peraltro, così come giustamente fa notare la Commissione, detto gover-
286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 287
no non ha precisato quali fossero le azioni intraprese per quanto riguarda le discariche i cui
piani di riassetto non erano stati approvati.
45.- Ne consegue che la Repubblica italiana è venuta meno, in modo generale e persistente,
agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, dell’art.
2, n. 1, della direttiva 91/689 e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva 1999/31. Di conseguenza,
il ricorso della Commissione è fondato.
46.- Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre dichiarare che, non
avendo adottato tutti i provvedimenti necessari:
– per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo
e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente
e per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti;
– affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o
ad un’impresa che effettua le operazioni di smaltimento o di recupero, oppure provveda egli
stesso al recupero o allo smaltimento conformandosi alle disposizioni della direttiva 75/442;
– affinché tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano operazioni di smaltimento
siano soggetti ad autorizzazione dell’autorità competente;
– affinché in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi,
questi ultimi siano catalogati e identificati; e
– affinché, in relazione alle discariche che hanno ottenuto un’autorizzazione o erano
già in funzione alla data del 16 luglio 2001, il gestore della discarica elabori e presenti per
l’approvazione dell’autorità competente, entro il 16 luglio 2002, un piano di riassetto della
discarica comprendente le informazioni relative alle condizioni per l’autorizzazione e le
misure correttive che ritenga eventualmente necessarie; e affinché, in seguito alla presentazione
del piano di riassetto, le autorità competenti adottino una decisione definitiva sull’eventuale
proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che
non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori
e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano, la Repubblica italiana è
venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva
75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva 91/689 e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva
1999/31.
Sulle spese
47.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è
condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto
domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce:
1) Non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari:
– per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo
e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente
e per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti;
– affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o
ad un’impresa che effettua le operazioni di smaltimento o di recupero, oppure provveda egli
stesso al recupero o allo smaltimento conformandosi alle disposizioni della direttiva del
Consiglio 15 luglio 1975,
75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo
1991, 91/156/CEE;
– affinché tutti gli stabilimenti o imprese che effettuano operazioni di smaltimento
siano soggetti ad autorizzazione dell’autorità competente;
– affinché in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi,
questi ultimi siano catalogati e identificati; e
– affinché, in relazione alle discariche che hanno ottenuto un’autorizzazione o erano già
in funzione alla data del 16 luglio 2001, il gestore della discarica elabori e presenti per l’approvazione
dell’autorità competente, entro il 16 luglio 2002, un piano di riassetto della discarica
comprendente le informazioni relative alle condizioni per l’autorizzazione e le misure
correttive che ritenga eventualmente necessarie; e affinché, in seguito alla presentazione del
piano di riassetto, le autorità competenti adottino una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento
delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che non ottengano
l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori e stabilendo un
periodo di transizione per l’attuazione del piano, la Repubblica italiana è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, come modificata
dalla direttiva 91/156/CEE, dell’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 12 dicembre
1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva del
Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese».
288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La cosa giudicata nazionale
nel diritto comunitario
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 18 luglio 2007,
nella causa C-119/05)
“Se, in forza del principio del primato del diritto comunitario immediatamente
applicabile, costituito nella specie… dalla decisione … di intimazione
del recupero dell’aiuto….sia giuridicamente possibile e doveroso il recupero
dell’aiuto da parte dell’amministrazione interna nei confronti di un privato
beneficiario, nonostante la formazione di un giudicato civile affermativo
dell’obbligo incondizionato di pagamento dell’aiuto medesimo”.
Era questo il quesito sottoposto dal Consiglio di Stato alla Corte di
Giustizia.
Il secondo quesito era solo una variante.
La Corte, dopo una ricostruzione dettagliata della vicenda giudiziaria, ha
risolto la questione con una motivazione piuttosto scarna: “Risulta inoltre da
una giurisprudenza costante che il giudice nazionale incaricato di applicare,
nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto comunitario ha
l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza,
di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione
nazionale” (n. 61).
Sono richiamati diversi precedenti, nessuno dei quali, peraltro, riguarda
il giudicato.
La sentenza è coerente con i principi, da tempo fissati dalla Corte di
Giustizia circa i rapporti tra ordinamenti (1).
Negli spazi di competenza comunitaria sono venuti meno i poteri degli
Stati, le cui norme non possono più trovarvi applicazione.
Dal principio suddetto la Corte nel dispositivo ha tratto la conclusione
che “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto
nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il
principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 289
(1) Per aver messo in rapporto non gli ordinamenti ma le norme per circa un ventennio
la Corte costituzionale ha incontrato difficoltà a coordinarsi con la giurisprudenza della
Corte di Giustizia..
È solo ponendo la questione in termini di rapporto tra norme che la Corte costituzionale
ha potuto ritenere che una norma nazionale successiva potesse abrogare una norma comunitaria
precedente (v. sentenza 7 marzo 1964, n.14, Costa c. Enel, in Foro it. 1964, I 465).
Il Trattato di Roma, come ormai nessuno più dubita, ha comportato limiti alla sovranità
nazionale e per questo già nel redigere l’art. 11 Cost. era risultato chiaro che ne sarebbe derivata
la nascita di un ordinamento.
tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto
con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune
è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee
divenuta definitiva”.
Se una misura possa essere classificata come aiuto, se questo sia comunitariamente
rilevante e non in contrasto con l’ordinamento comunitario
sono tutti accertamenti di competenza della Comunità.
Nessuna norma nazionale, nemmeno quella sul giudicato, può, di conseguenza,
secondo la Corte di Giustizia neutralizzare gli effetti di una decisione
presa in materia dalla Commissione.
Questa conclusione non è del tutto coordinata con la premessa.
La premessa, dalla quale la Corte è partita, è fondata sul rapporto tra
norme, che corrisponde a quello tra gli ordinamenti in cui sono inserite.
La conclusione investe, invece, il rapporto tra un atto comunitario (decisione
della Commissione) ed un atto nazionale (sentenza passata in giudicato) (2).
In questo caso non ha più rilievo la norma, applicata la decisione, ma
l’atto comunitario di per sé, la cui legittimità non è stata contestata.
La Corte non ha richiamato un suo precedente, che riguardava il giudicato.
La Corte ha avuto occasione di affrontare la questione della efficacia di
un giudicato nazionale in un caso di lodo arbitrale non più impugnabile
secondo il diritto statale (3).
Il lodo aveva accertato la validità di un contratto, di cui una parte voleva
sostenere la invalidità per violazione dell’art. 85 CE (oggi art. 81), non
dedotta davanti all’arbitro, dopo che il giudicato si era formato.
“… si deve sottolineare che, allo spirare di tale termine, norme di procedura
nazionali che limitano la possibilità di impugnare per nullità un lodo
arbitrale successivo che sviluppa un lodo arbitrale interlocutorio avente natura
di decisione definitiva per il motivo che quest’ultimo è rivestito dell’autorità
di cosa giudicata si giustificano in virtù dei principi che stanno alla base
del sistema giurisdizionale nazionale, quali il principio della certezza del
diritto e quello del rispetto della cosa giudicata che ne costituisce l’espressione”
(n. 46).
290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(2) Per individuare quale dei due atti prevalga si deve fare ugualmente applicazione di
due norme, una comunitaria ed una nazionale. Sennonché queste sono applicate in via
mediata, dopo l’emissione degli atti per determinarne gli effetti che debbono prevalere, e
non in via diretta, prima delle emissione di atti, per individuare quale delle due deve disciplinare
la fattispecie sostanziale.
La distinzione, anche se discutibile, viene fatta perché può riuscire utile successivamente.
(3) Sentenza 1 giugno 1999, Eco Swiss China Tine Lmt c. Benetton International NV,
C-126/97, in Foro it.1999, IV, 470.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 291
“ In tali condizioni, il diritto comunitario non impone ad un giudice
nazionale di disapplicare siffatte norme, anche se ciò è necessario per poter
esaminare, nell’ambito del procedimento d’impugnazione per nullità diretto
contro il lodo arbitrale successivo, se un contratto la cui validità giuridica è
stata stabilita dal loro arbitrale interlocutorio sia tuttavia nullo poiché in contrasto
con l’art. 85 del Trattato” (n. 47).
La conclusione, tratta dalla Corte, è stata che “... in base al diritto comunitario
non si devono disapplicare le norme di diritto processuale nazionale...
anche se ciò è necessario per poter esaminare, nell’ambito del procedimento
di impugnazione per nullità del lodo diretto contro il lodo arbitrale successivo,
se un contratto la cui validità giuridica è stata stabilita dal lodo arbitrale
interlocutorio sia tuttavia nullo poiché in contrasto con l’art. 85 del Trattato”
(n. 48).
Anche in questo caso la norma comunitaria riguardava la concorrenza.
Non sembra che il coordinamento tra le due sentenze possa essere ricercato
nel fatto che nella sentenza del 1999 il giudicato si era formato su di un
lodo arbitrale e non su una sentenza dell’autorità giudiziaria.
La Corte in quella sentenza aveva rilevato (n. 34) “... che un collegio
arbitrale convenzionale non costituisce una ‘giurisdizione nazionale ’di uno
Stato membro ai sensi dell’art. 177 del Trattato perché per le parti contraenti
non vi è alcun obbligo, né di diritto né di fatto, di affidare la soluzione delle
proprie liti a un arbitrato e perché le autorità pubbliche dello Stato membro
interessato non sono implicate nella scelta della via dell’arbitrato né sono
chiamate a intervenire d’ufficio nello svolgimento del procedimento dinanzi
all’arbitro” (4).
La ragione del mancato richiamo non sembra che possa essere trovata in
questi caratteri dell’arbitrato, che, secondo quanto rilevato dalla Corte di
Giustizia, lo renderebbe meno garantito delle sentenze dei giudici, almeno
sotto alcuni profili.
Se si fosse temuto il pericolo che, attraverso la via contenziosa, fossero
aggirati i divieti comunitari, il rischio sarebbe stato maggiore per i lodi, piuttosto
che per le sentenze di organi giurisdizionali, per i caratteri dell’arbitrato,
rilevati dalla Corte di Giustizia.
L’argomento, inoltre, non sarebbe coerente con i principi che la Corte ha
sempre seguito nel delimitare i suoi poteri nei rapporti con gli ordinamenti
nazionali.
Il giudicato va riferito al sistema processuale in conformità al quale si
forma.
(4) Questa posizione, poi sempre confermata, è stata assunta dalla Corte di Giustizia
con la sentenza 23 marzo 1982, Nordsee causa 102/81, in Racc. 1095 (n.10) con una motivazione
non convincente. Per una critica v. NORI, La nuova disciplina dell’arbitrato nell’ordinamento
comunitario, in Giust. Civ., 1996, 3076.
292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Se un ordinamento lo collega ai lodi arbitrali ed alle sentenze, la Corte
non potrebbe fare distinzioni perché il giudicato è nozione di diritto interno
che individua anche gli atti che lo producono.
Può, invece, tenere conto degli effetti che, secondo la disciplina nazionale,
sono in grado di produrre nell’ordinamento comunitario.
La Corte ha ripetutamente insistito sulla mancanza di una sua competenza
a risolvere questioni di solo diritto interno.
Dalla sentenza non si ricava se la Corte abbia dato rilievo al fatto che gli
aiuti di Stato vengono erogati in base a normative apposite, soggette ad
applicazioni ripetute, mentre i singoli contratti sono lasciati alla iniziativa
episodica delle parti.
Le ragioni che hanno ispirato la sentenza, almeno per il momento, possono
essere lasciate da parte. Interessa, invece, rilevare che la Corte ha
richiamato la sua giurisprudenza di principio, con la quale la sentenza si è
allineata, ma non ha ritenuto utile richiamare un suo precedente nel quale,
proprio in materia di giudicato, aveva dato una soluzione diversa.
Le specificità del caso, sul quale la Corte si è pronunciata, suggerisce
alcune osservazioni.
L’aiuto è stato concesso ai sensi della legge n. 183/1976 che disciplinava
interventi straordinari nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976-1980.
A seguito dell’entrata in vigore di questa legge nessun intervento era
consentito alla Commissione ai sensi degli artt. 85 e ss. CE (secondo la
numerazione in vigore all’epoca).
Un suo intervento sarebbe stato possibile ai sensi dell’art. 226 CE (già art.
169), qualora se ne fossero verificate le condizioni. Poiché nessuna iniziativa in
questo senso è stata assunta, la questione non merita di essere affrontata.
La situazione non era mutata con la emissione dell’atto di concessione
del beneficio (5).
La sola costituzione del credito corrispondente, fino a che non ne fossero
stati realizzati in concreto gli effetti economici, non consentiva l’applicazione
dell’art. 87 (6).
Perché costituisca aiuto, la misura deve essere tale da creare all’impresa
una posizione di favore che incida sugli scambi tra Stati membri.
Un credito, al quale non faccia seguito il pagamento o qualsiasi operazione
finanziaria che consenta all’impresa di realizzarlo in tutto o in parte,
(5) Non è necessario distinguere tra l’ipotesi di concessione senza comunicazione alla
Commissione o senza attenderne la decisione.
(6) La formulazione di alcune sentenze della Corte di Giustizia potrebbe orientare
diversamente. Se, peraltro, si tengono presenti le situazioni di fatto, si verifica che, anche
quando è richiamato l’atto di concessione, quello che ha avuto rilievo è stata la esecuzione
della misura.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 293
eventualmente anche in via indiretta, non modifica la posizione concorrenziale
dell’impresa.
Dopo la concessione del beneficio tra l’Amministrazione e la Società è
insorto un contenzioso che si è concluso con una sentenza, passata in giudicato,
che ha riconosciuto alla Società il credito senza condizioni.
La sentenza, in quanto atto di accertamento e titolo esecutivo non più
contestabile, ha prodotto i suoi effetti tanto che è stata eseguita.
L’aiuto, ai sensi dell’art. 87 CE, è diventato rilevabile quando la Società
ha riscosso il suo credito, perché in quel momento ha potuto utilizzare la
somma ricevuta per la sua attività imprenditoriale.
La decisione della Commissione, nel disporre la restituzione, non ha toccato
la sentenza nella sua struttura di atto, che è rimasta integra e produttiva
di effetti tanto da dar luogo ad un aiuto a seguito della sua esecuzione (7).
La decisione della Commissione è intervenuta solo dopo che la sentenza
è stata eseguita disponendo la restituzione dell’aiuto.
La decisione ha, dunque, inciso non sull’atto, ma solo sulla definitività
dei suoi effetti (8), perché in contrasto con la normativa comunitaria che
vuole che, quando un aiuto sia stato concesso illegittimamente, sia poi recuperato
(9).
(7) L’ipotesi che si fa nel testo è quella dell’aiuto per il quale non sia stato seguito il
procedimento di cui all’art.87 CE. In caso di omissione la questione della restituzione non
dovrebbe proporsi perché fino all’esito positivo del procedimento l’aiuto non andrebbe
erogato.
(8) Nella sentenza la deroga all’autorità della cosa giudicata, come si è visto, è stata
disposta “nei limiti in cui l’applicazione…impedisce il recupero di un aiuto..”.
(9) Nella sentenza 30 settembre 2003, C-224/01, Kobler c.Republik Osterreich, in cui
un giudicato è stato preso in esame come possibile atto, comunitariamente illecito, con il
conseguente dovere di risarcimento a carico dello Stato nei confronti dei singoli danneggiati,
si trova ribadito (n. 39) quanto desumibile dai principi da tempo enunciati dalla Corte:
“Occorre considerare tuttavia che il riconoscimento del principio della responsabilità dello
Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado non ha di per sè come
conseguenza di rimettere in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata di
una tale decisione. Un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non
ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha
dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata.
Infatti, il ricorrente in un’azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo,
la condanna di quest’ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia
rimessa in discussione l’autorità di cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale
che ha causato il danno. In ogni caso il principio della responsabilità dello Stato inerente
all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione
della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”.
294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La restituzione di quanto è stato già pagato presuppone che sia configurabile
un indebito.
Nel caso in esame, non essendo venuto meno il titolo giurisdizionale
nazionale, in esecuzione del quale il pagamento era stata effettuato, un indebito
non era configurabile per diritto interno.
La somma pagata era soggetta a restituzione, in quanto in violazione di
una decisione della Commissione. L’indebito, pertanto, era di diritto comunitario,
come tale prevalente sul credito fondato sul diritto nazionale.
La questione - vale la pena di ripeterlo - non investe il rapporto tra norme
comunitarie e norme nazionali, ma tra un atto comunitario, non impugnato,
ed un atto nazionale, costituito da una sentenza non più impugnabile.
È un principio comunitario, anche esso consolidato, che gli effetti di un
atto di una istituzione comunitaria non possono essere neutralizzati da un
atto di un’autorità statale, qualunque questa sia.
Secondo un altro principio, ugualmente acquisito da tempo, il giudice
comunitario non ha giurisdizione diretta sugli atti nazionali (10). Può solo
accertare la loro inefficacia per assicurare l’integrità dell’ordinamento comunitario
(11).
È quello che ha fatto la sentenza che si annota, che si è limitata a dichiarare
la inefficacia di un giudicato nei limiti in cui neutralizzava gli effetti di
una decisione della Commissione.
La situazione sulla quale la Corte di Giustizia si è pronunciata nel suo
precedente, già richiamato, era diversa.
Era in discussione la validità di un contratto, non giudicata da un arbitro
sotto il profilo comunitario, perché la questione non era stata sollevata dalle
parti.
Anche ad ammettere che la questione potesse essere affrontata d’ufficio,
non averlo fatto non integrava una infrazione comunitaria.
Prima di tutto perché, non costituendo l’arbitro giurisdizione nazionale
secondo la giurisprudenza della Corte, la violazione dell’art. 234 CE restava
esclusa per definizione. In secondo luogo perché l’arbitro avrebbe comunque
costituito una giurisdizione non di ultima istanza, quindi non tenuta a rimettere
la questione alla Corte di Giustizia.
Se il contratto in contestazione violasse o no l’art. 85 CE non era stato
accertato da nessuno.
(10) Fa eccezione l’art.14 del protocollo SEBC che al terzo comma consente al
Governatore di una banca centrale, sollevato dall’incarico, di impugnare il provvedimento
davanti alla Corte di Giustizia “per violazione del trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa
all’applicazione del medesimo”. Legittimato al ricorso è anche il Consiglio direttivo .
(11) Tra le numerose sentenze è sufficiente richiamare Wilhelm, 13 febbraio 1969,
causa 14/68, n. 8 e 9, in Racc. p.1.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 295
La questione verteva appunto sulla possibilità di superare un giudicato
interno per rendere la questione ancora giudicabile, eventualmente anche
dalla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 CE.
La intangibilità della cosa giudicata assicurava la coerenza dell’ordinamento
interno, evitando che un giudice statale riesaminasse una questione
già decisa, sempre da un giudice statale, con un provvedimento non impugnato.
Poiché quella intangibilità realizzava un interesse tutelato da un principio
dell’ordinamento comunitario, la Corte ha ritenuto che non potesse
essere pregiudicata (12).
Tanto meno c’era una decisione comunitaria, di qualsiasi natura, che
avesse già deciso della illegittimità del contratto.
Alla Corte era stato richiesto se il diritto comunitario consentisse di
superare un giudicato nazionale per far decidere ad un giudice nazionale se
ricorresse la nullità di un contratto, non sollevata nel giudizio concluso con
un giudicato che, per le ragioni già viste, non aveva violato l’art. 234 CE.
La situazione era, dunque, molto diversa da quella decisa con la sentenza
che si annota.
In primo luogo perché, se la norma comunitaria fosse stata violata, non
era stato accertato da nessuno, tanto meno da una istituzione comunitaria.
In secondo luogo perché il superamento del giudicato aveva come effetto
non di impedire una decisione di merito della Corte di Giustizia, proposto
direttamente davanti ad essa, ma solo di consentire ad un giudice nazionale
di affrontare la questione, rimettendola eventualmente alla Corte di Giustizia
ex art. 234.
La questione si incrocia con un’altra, di carattere più generale, che qualche
volta è affiorata davanti alla Corte, senza che questa, a quanto risulta,
l’abbia affrontata nei suoi termini generali.
Per brevità si può ridurre a queste tre domande:
– se le parti non sollevano la questione comunitaria, può il giudice
affrontarla d’ufficio?
– se non se la propone, si ha infrazione comunitaria, in particolare se è
giudice di ultima istanza?
– una volta che non sia stata proposta e si sia formato il giudicato nei
limiti delle contestazioni insorte, può la questione essere sollevata al di là del
giudicato?
– in quale forma, se il giudicato si è formato in ultima istanza?
Se la risposta alle ultime due domande fosse positiva, i problemi che
insorgerebbero non sarebbero di poco conto.
(12) Diversa questione è se la formazione di un titolo nazionale definitivo, una volta
che dalla Commissione fosse ritenuto in contrasto con l’ordinamento comunitario, costituisca
infrazione, perseguibile ai sensi dell’art.226 CE.
La questione non è sorta per cui non è il caso di affrontarla.
296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Con la sentenza del 1999 la Corte di Giustizia ha dato una risposta, sia
pure in forma implicita.
Il giudicato realizza il principio Comunitario della certezza del diritto.
Non può, pertanto, essere superato quando l’interesse da perseguire non
sia quello di assicurare l’adempimento di un concreto obbligo comunitario,
ma solo di consentire ad un giudice nazionale di accertare se una violazione
ci sia o non ci sia stata.
Nel primo caso il giudicato entra in rapporto con un giudizio diretto
davanti alla Corte di Giustizia. Nel secondo il superamento del giudicato si
realizza all’interno dell’ordinamento nazionale per consentire al giudice statale
di accertare se una violazione c’è stata, con la sola possibilità, e non con la
certezza, che la Corte sia investita in via incidentale ai sensi dell’art. 234 CE.
Può sorgere, peraltro, una questione connessa.
La Corte non ha naturalmente affrontato la questione, di solo diritto interno,
se l’aiuto fosse stato erogato in conformità alla legge, ma si è limitata a rilevare
che era stato dichiarato comunitariamente illegittimo dalla Commissione
per violazione del terzo codice degli aiuti di Stato alla siderurgia.
La violazione del diritto comunitario poteva essere vista nella legge, perché
non conforme alla disciplina comunitaria, o nel provvedimento di concessione,
perché non conforme alla legge stessa.
Per limitare l’indagine agli aspetti più interessanti, viene presa in considerazione
l’ipotesi che sia la legge ad essere contraria alla normativa comunitaria.
La Corte ha sempre ribadito che da una violazione comunitaria nasce la
responsabilità di chi l’ha commessa per i danni prodotti.
La sua giurisprudenza ha subito una evoluzione, condizionata dagli sviluppi
dei rapporti tra la Comunità Economia e gli Stati membri.
Il principio si trova enunciato per la prima volta nella sentenza Humblet
(13), nella quale è stata accertata la responsabilità dello Stato per il trattamento
tributario praticato ad un cittadino belga in violazione dell’art. 86 del
Trattato CECA.
Attraverso sentenze intermedie, che hanno sempre confermato il principio,
si è arrivati alla ben nota sentenza Francovic (14), dove la responsabilità è stata
accertata in un caso di mancata attuazione di una direttiva comunitaria.
Secondo la Corte “... il principio della responsabilità dello Stato per
danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili
è inerente al sistema del Trattato” (n. 35).
La particolarità della sentenza sta nel fatto che su di un illecito, visto nella
mancata attuazione di una direttiva, si è fondata la responsabilità per danni
verso i soggetti che con l’attuazione direttiva avrebbero acquistato dei diritti.
(13) 16 dicembre 1960, causa 6/60 in Racc. 1960, 1093.
(14) Sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, in Racc. 1991.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 297
La sentenza, come noto, ha suscitato una serie di commenti perché, esaminando
la questione dal punto di vista del diritto costituzionale interno, si è visto
un caso di responsabilità connessa all’attività legislativa, sia pure in quanto
omessa (15).
Come è stato subito rilevato, la Corte in questo modo ha voluto utilizzare
tutti gli strumenti, disponibili secondo il diritto comunitario, per indurre
gli Stati alla osservanza delle direttive (16).
(15) I costituzionalisti hanno tradizionalmente ritenuto che dall’esercizio della potestà
legislativa, in considerazione della sua natura, andasse esclusa qualsiasi forma di responsabilità
che non fosse politica. V. in particolare MORTATI, Appunti per uno studi sui rimedi giurisdizionali
contro comportamenti omissivi del legislatore, in Foro it., 1970, V, c. 153.
(16) Come noto, è in vista di questo fine che è stata individuata la figura delle direttive
dettagliate, distinte dalla figura generale per la possibilità di trovare applicazione diretta.
Per la sua funzione sanzionatoria nei confronti dello Stato ne è stata prevista la efficacia
verticale, che non consente l’applicazione nei confronti di quei soggetti estranei alla violazione
del diritto comunitario.
Per i limiti di applicabilità collegati alla efficacia solamente verticale delle direttive
dettagliate, da più parti è stata prospetta la violazione del diritto di uguaglianza. Rapporti del
tutto simili finivano con l’avere discipline notevolmente diverse per la qualità di uno dei
soggetti cosicché chi aveva come controparte una pubblica amministrazione riceveva tutele
maggiori da chi si trovava in rapporto con privati.
Questione collegata era quella delle c.d. discriminazioni a rovescio. Le maggiori tutele
previste dalla normativa comunitaria, in quanto applicate ai rapporti di rilievo comunitario,
non erano applicate ai rapporti che si esaurivano nell’ambito dell’ordinamento statale.
Era dubbio che vi si potesse vedere la violazione del principio di uguaglianza.
Il principio di uguaglianza è enunciato nell’art.3 Cost., che è norma di diritto interno,
rivolta al legislatore nazionale.
La sua violazione può, di conseguenza, essere riscontrata solo quando è lo stesso ordinamento
nazionale a provocare differenze di trattamento irragionevoli.
L’art. 3 non potrebbe vedersi violato mettendo a raffronto una norma interna, di per sé
costituzionalmente legittima, con una norma comunitaria che, in quanto inserita in un ordinamento
diverso, non può essere valutata alla stregua dell’art. 3 Cost.
Le norme, per il fatto di essere inserite in ordinamenti diversi, rispondono ad esigenze
ed interessi anche essi diversi cosicché non potrebbero essere messe a raffronto in base al
principio di ragionevolezza poiché i criteri seguiti dai due ordinamenti, nel disciplinare i
rapporti, non sono necessariamente gli stessi.
La Corte costituzionale (sentenza n. 443/1997) ha superato questa difficoltà riscontrando
la illegittimità costituzionale non nella violazione dell’art.3 Cost., ma nella irragionevolezza
della disciplina della concorrenza per il mancato adeguamento della normativa interna
a quella comunitaria: “.. in assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario,
il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in
298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il recupero di un aiuto già utilizzato, per esempio, per un certo investimento
industriale, può provocare a chi lo ha ricevuto uno squilibrio finanziario
rilevante.
Ci si deve domandare se l’impresa possa chiedere di essere risarcita dei
danni corrispondenti.
L’illecito è sicuramente comunitario poiché è la normativa comunitaria
che è stata violata.
Per lo Stato, che ha emesso l’atto, la difesa non sarebbe facile perché è
suo dovere vigilare sull’osservanza della normativa comunitaria da parte di
tutti i suoi organi (17).
Una volta accertato il rapporto causale tra atto e danni, la responsabilità
non potrebbe, pertanto, essere evitata.
Si potrebbe obiettare che l’attività legislativa non può essere fonte di
responsabilità civile, ma solo politica, utilizzando le argomentazioni per le
quali la dottrina costituzionale ha ritenuto che dall’attività legislativa non
potrebbe nascere una responsabilità civile.
Non è, peraltro, necessario richiamarle perché la questione è di diritto
interno.
La responsabilità, che si sta esaminando, è, invece, di diritto comunitario.
La Corte di Giustizia già con la sentenza Humblet, dopo aver enunciato
nella massima di non avere il potere “di ingerirsi direttamente nella legislazione
e l’amministrazione degli Stati membri”, dichiarando nulli gli atti degli
Stati, ha concluso che “ove in una sua sentenza… accerti che un atto legislativo
od amministrativo degli organi di uno Stato membro contrasta col
diritto comunitario, l’art. 86 del Trattato CECA impone a tale Stato tanto di
revocare l’atto di cui trattasi quanto di riparare gli illeciti effetti che ne possono
essere derivati. Tale obbligo deriva dal Trattato e dal Protocollo i quali,
a seguito della loro ratifica, hanno forza di legge negli Stati membri e prevalgono
sul diritto interno” (n. 2).
Per l’ordinamento comunitario la responsabilità è dello Stato, nella sua
struttura unitaria. Le sue articolazioni e la collocazione gerarchica dei suoi
atti dipendono dal diritto interno sul quale la Comunità non può interferire.
rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di
adeguamento del diritto interno ai principi stabiliti dal trattato agli artt.30 e seguenti; opera,
quindi, nel senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti
che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che equivale a dire
che nel giudizio di eguaglianza affidato a questa Corte non possono essere ignorati gli effetti
discriminatori che l’applicazione dei diritto comunitario è suscettibile di provocare”.
(17) Secondo l’art.10 CE “Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale
e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato
ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 299
Per questo nella sentenza Humblet l’atto legislativo viene posto sullo
stesso piano di quello amministrativo, in quanto la distinzione, che è di diritto
interno, anche se di livello costituzionale, non è rilevante per l’ordinamento
comunitario (18).
Nel caso in esame la legge, che ha trovato applicazione, è atto dello Stato
per il quale il singolo interessato, in quanto estraneo al suo procedimento di
formazione, non può incontrare nessuna responsabilità, nemmeno concorrente.
Si può vedere una sua responsabilità nel fatto di avere richiesto il beneficio?
Per rispondere in senso affermativo bisognerebbe attribuire ai singoli il
dovere di verificare, prima di richiedere un beneficio, se la legge che lo prevede
sia comunitariamente legittima.
Questo dovere di diligenza non sembra desumibile dall’ordinamento
comunitario.
Non sarebbe facile desumerlo nemmeno dall’ordinamento interno, qualora
quest’ultimo fosse ritenuto applicabile, eventualità da escludere perché,
secondo le premesse dalle quali si è partiti, la responsabilità è di diritto
comunitario, senza contaminazioni col diritto interno.
Sarebbe proponibile, pertanto, un’azione per danni da parte di chi, dopo
aver ricevuto, naturalmente in base ad una legge nazionale, un beneficio,
definito poi come aiuto illecito da parte della Commissione CE, si veda
costretto a restituirlo e per questa restituzione imprevista possa provare di
aver ricevuto un danno (19).
Il diritto risarcitorio non incontrerebbe ostacoli nel diritto interno.
Questi non sarebbero configurabili già per il primato del diritto comunitario
su quello interno.
Secondo un principio, ormai riconosciuto anche dalla Corte costituzionale
italiana dopo la sentenza Granital (20), nelle materie assegnate alla
Comunità lo Stato ha perso in corrispondenza i suoi poteri sovrani. Di con-
(18) Per l’ordinamento comunitario – la Corte di Giustizia lo ha ribadito ripetutamente,
anche se non sempre in termini espressi – il diritto costituzionale è pur sempre diritto
interno cosicché il suo rango, fissato dal diritto interno, non è rilevante sul piano comunitario
dove ogni atto, in quanto riferibile allo Stato, è preso in considerazione come tale, senza
considerare la sua collocazione gerarchica. Diverse Corte costituzionali, come noto, compresa
quella italiana, hanno dimostrato in diverse occasioni di non concordare.
(19) L’ipotesi non è improbabile. Si pensi al caso in cui un piano industriali, con tutti
gli investimenti che comporta, sia stato varato proprio per la presenza dei benefici. La restituzione
può comportare uno squilibrio nella situazione finanziaria di un’impresa fino a metterne
in pericolo la sopravvivenza.
(20) Sentenza n. 170/84.
300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
seguenza, gli effetti delle norme comunitarie non possono essere neutralizzati
da atti di diritto interno (21).
Non potrebbe opporsi che per la natura della potestà legislativa, come
delineata nella Costituzione, una responsabilità per danni dall’esercizio di
quella potestà non è configurabile.
L’argomento non sarebbe rilevante perché la responsabilità, di cui si tratta,
è fondata sul diritto comunitario e conseguente alla sua violazione.
Come si è visto, l’attività amministrativa e quella legislativa è posta
sullo stesso piano dalla giurisprudenza comunitaria ed ormai si può dire che
questa equiparazione costituisca un principio ricorrente nelle sentenze della
Corte di Giustizia.
Le eventuali perplessità di diritto interno dovrebbero essere accantonate.
Quelle che residuassero dovrebbe trovare risposta presso la Corte di
Giustizia.
Ostacoli non si desumono nemmeno dalla disciplina comunitaria sugli
aiuti di Stato.
Potrebbe sorgere il dubbio che, attraverso il risarcimento del danno, le
imprese ottengano, sia pure ad altro titolo ed eventualmente solo in parte, lo
stesso beneficio economico portato dall’aiuto.
Questa eventualità è da escludersi.
L’aiuto pone l’impresa beneficiaria in un posizione privilegiata rispetto
alle altre, che si trovano in concorrenza, e per questo è vietato.
Il recupero ha come obiettivo di ripristinare la posizione iniziale di parità.
Il risarcimento del danno rimetterebbe l’impresa nella stessa posizione
di partenza, evitando che la sua capacità concorrenziale sia pregiudicata da
una iniziativa dello Stato, comunitariamente illegittima.
Attraverso il risarcimento si verrebbe a ricostituire il mercato concorrenziale
tutelato dalla normativa comunitaria.
Il risarcimento dovrebbe, naturalmente, non superare il danno subito.
Solo se fosse superiore la normativa comunitaria sugli aiuti di Stato verrebbe
violata di nuovo.
Ma questo effetto sarebbe dovuto al modo improprio nel quale la normativa
rilevante viene applicata, ma non alla normativa stessa.
Per prevenirlo andrebbe attivato un controllo sulle sentenza, o sugli
eventuali atti di transazione.
Nel caso in esame una responsabilità del genere, anche ad ammetterla in
linea di principio, non sembra configurabile.
Al momento della richiesta del contributo la Commissione non si era
ancora pronunciata.
La decisione di incompatibilità era, invece, già intervenuta quanto la
Società ha proposto l’azione giudiziaria per avere il pagamento.
(21) Il principio ha trovato la sua formulazione espressa nell’art.10 CE, già richiamato.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 301
Lo Stato ha resistito ed ha provveduto all’adempimento solo in base al
giudicato.
È stata la stessa Società a procurarsi il danno, sempre che un danno fosse
rilevabile.
Lo Stato da parte sua, resistendo in giudizio, ha cercato di evitarlo per
cui nessun responsabilità gli può essere addossata.
Da questo precedente le imprese interessate dovrebbero trarre come
insegnamento, che, dopo aver richiesto un beneficio, utilizzarlo senza che la
Commissione si sia pronunciata, può comportare difficoltà finanziarie se, a
distanza di tempo, il beneficio dovesse essere neutralizzato.
La prudenza dovrebbe essere maggiore quando il beneficio, che integra
l’aiuto, si protrae nel tempo e, fidando su di esso, si siano fatti piani di investimento.
Non si dovrebbe comunque insistere sulla domanda quando l’aiuto sia
stato già dichiarato illecito dalla Commissione.
Avv. Glauco Nori
Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza 18 luglio 2007,
nella causa C-119/05 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal
Consiglio di Stato con ordinanza 22 ottobre 2004, pervenuta in cancelleria il 14 marzo
2005 - Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c/ Lucchini SpA, già
Lucchini Siderurgica SpA – Pres. V. Skouris – Rel. K. Schiemann – Avv. Gen. L.A.
Geelhoed (per il Governo italiano Avv. dello Stato P. Gentili).
«1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sui principi di diritto comunitario
applicabili alla revoca di un atto nazionale di concessione di aiuti di Stato incompatibili con
il diritto comunitario, adottato in applicazione di una pronuncia giurisdizionale nazionale
che ha acquistato autorità di cosa giudicata.
2. Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di un ricorso proposto dalla società di diritto
italiano Lucchini SpA (già Siderpotenza SpA, successivamente Lucchini Siderurgica SpA,
in prosieguo: la «Lucchini») contro la decisione del Ministero dell’Industria, del Commercio
e dell’Artigianato (in prosieguo: il «MICA») che ha disposto il recupero di un aiuto di Stato.
Il MICA è subentrato ad altri enti in precedenza incaricati della gestione degli aiuti di Stato
nella regione del Mezzogiorno (in prosieguo, collettivamente: le «autorità competenti»).
Contesto normativo
La normativa comunitaria
3. L’art. 4, lett. c), del Trattato CECA vieta le sovvenzioni o gli aiuti concessi dagli
Stati membri, in qualunque forma, nei settori industriali del carbone e dell’acciaio.
4. A partire dal 1980, a fronte di una crisi sempre più acuta e generalizzata del settore
siderurgico in Europa, è stata adottata, in base all’art. 95, primo e secondo comma, del
Trattato CECA, una serie di misure in deroga a tale divieto assoluto e incondizionato.
5. In particolare, la decisione della Commissione 7 agosto 1981, n. 2320/81/CECA,
recante norme comunitarie per gli aiuti a favore dell’industria siderurgica (GU L 228, pag.
302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
14; in prosieguo: il «secondo codice»), ha adottato un secondo codice degli aiuti di Stato alla
siderurgia. Scopo del detto codice era di permettere la concessione di aiuti per il risanamento
delle imprese siderurgiche e la riduzione delle loro capacità produttive al livello della
domanda prevedibile, disponendo nel contempo la soppressione graduale di tali aiuti entro
scadenze prefissate, sia per quanto riguarda la loro notifica alla Commissione (30 settembre
1982) e loro autorizzazione (1° luglio 1983) che per la loro erogazione (31 dicembre 1984).
Tali termini sono stati prorogati, per quanto riguarda la notifica, al 31 maggio 1985, per
quanto riguarda l’autorizzazione, al 1º agosto 1985, e, per quanto riguarda il versamento, al
31 dicembre 1985, mediante la decisione della Commissione 19 aprile 1985, n.
1018/85/CECA, che modifica la decisione 2320/81 (GU L 110, pag. 5).
6. Il secondo codice prevedeva una procedura obbligatoria di approvazione da parte
della Commissione di tutti gli aiuti progettati. In particolare, il suo art. 8, n. 1, così disponeva:
«Alla Commissione sono comunicati in tempo utile perché presenti le sue osservazioni
i progetti intesi ad istituire o modificare aiuti (…). Lo Stato membro interessato può dare
attuazione alle misure prospettate soltanto previa autorizzazione della Commissione e conformandosi
alle condizioni da essa stabilite».
7. La decisione della Commissione 27 novembre 1985, n. 3484/85/CECA, recante
norme comunitarie per gli aiuti a favore della siderurgia (GU L 340, pag. 1; in prosieguo:
il «terzo codice»), ha sostituito il secondo codice e ha istituito un terzo codice degli aiuti alla
siderurgia per consentire una nuova deroga, più limitata, dal 1º gennaio 1986 al 31 dicembre
1988, al divieto previsto all’art. 4, lett. c), del Trattato CECA.
8. Ai sensi dell’art. 3 del terzo codice, la Commissione poteva, in particolare, autorizzare
aiuti generali a favore dell’adattamento degli impianti alle nuove disposizioni di legge
in materia di tutela dell’ambiente. L’ammontare degli aiuti concessi non poteva superare il
15% in equivalente sovvenzione netto delle spese d’investimento.
9. L’art. 1, n. 3, del terzo codice precisava che gli aiuti potevano essere concessi soltanto
in conformità delle procedure dell’art. 6 e non potevano dar luogo a pagamenti posteriori
al 31 dicembre 1988.
10. L’art. 6, nn. 1, 2 e 4, del terzo codice era formulato nei termini seguenti:
«1. Alla Commissione sono comunicati, in tempo utile affinché possa pronunciarsi al
riguardo, i progetti intesi ad istituire o a modificare aiuti (…). Essa è informata nello stesso
modo dei progetti intesi ad applicare al settore siderurgico regimi di aiuti sui quali essa si è
già pronunciata sulla base delle disposizioni del trattato CEE. Le notifiche dei progetti di
aiuto di cui al presente articolo devono essere effettuate entro il 30 giugno 1988.
2. Alla Commissione sono comunicati in tempo utile affinché possa pronunciarsi al
riguardo, e al più tardi entro il 30 giugno 1988, tutti i progetti di intervento finanziario
(assunzioni di partecipazioni, conferimenti di capitale o misure simili) da parte di Stati
membri, enti territoriali o organismi che utilizzano a tal fine risorse pubbliche, a favore di
imprese siderurgiche.
La Commissione accerta se questi interventi contengono elementi di aiuto (…) ed
eventualmente ne valuta la compatibilità con le disposizioni degli articoli da 2 a 5 della presente
decisione. (…)
4. Se, dopo aver invitato gli interessati a presentare le loro osservazioni, la
Commissione rileva che un aiuto non è compatibile con le disposizioni della presente decisione,
essa informa lo Stato membro interessato della propria decisione. La Commissione
decide al più tardi entro tre mesi dal ricevimento delle informazioni necessarie per potersi
pronunciare sull’aiuto in questione. Qualora uno Stato membro non si conformi a tale decisione,
si applicano le disposizioni dell’articolo 88 del trattato CECA. Lo Stato membro
interessato non può dar esecuzione alle misure progettate di cui ai paragrafi 1 e 2 se non previa
approvazione della Commissione e conformandosi alle condizioni da essa stabilite».
11. Il terzo codice è stato sostituito, a partire dal 1º gennaio1989 e fino al 31 dicembre
1991, da un quarto codice, istituito con la decisione della Commissione 1º febbraio 1989, n.
322/89/CECA, recante norme comunitarie per gli aiuti a favore della siderurgia (GU L 38,
pag. 8), che riproduceva segnatamente l’art. 3 del terzo codice.
12. Dopo la scadenza del Trattato CECA, il 23 luglio 2002, anche agli aiuti di Stato nel
settore siderurgico si applica il regime previsto dal Trattato CE .
La normativa nazionale
13. La legge 2 maggio 1976, n. 183, sulla disciplina dell’intervento straordinario nel
Mezzogiorno (GURI n. 121 dell’8 maggio 1976; in prosieguo: la «legge n. 183/1976»)
prevedeva, in particolare, la possibilità di concedere agevolazioni finanziarie sia in conto
capitale sino al 30% dell’importo degli investimenti, che in conto interessi, per la realizzazione
di iniziative industriali nel Mezzogiorno.
14. L’art. 2909 del codice civile italiano, intitolato «Cosa giudicata», dispone quanto
segue:
«L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra
le parti, i loro eredi o aventi causa».
15. Stando al giudice a quo, questa disposizione copre il dedotto e il deducibile.
16. A livello processuale, essa preclude nuovi processi relativamente a controversie
sulle quali un altro organo giurisdizionale si sia già pronunciato in via definitiva.
La causa principale e le questioni pregiudiziali
La domanda di aiuti della Lucchini
17. Il 6 novembre 1985, la Lucchini presentava alle autorità competenti una domanda
di agevolazioni finanziarie, ai sensi della legge n. 183/1976, per l’ammodernamento di taluni
impianti siderurgici. A fronte di un investimento complessivo di ITL 2 550 milioni, la
Lucchini chiedeva la concessione di un contributo in conto capitale di ITL 765 milioni
(ovvero il 30% della spesa) e di un contributo in conto interessi su un finanziamento di ITL
1 020 milioni. L’istituto di credito incaricato di istruire la domanda di finanziamento prevedeva
un prestito della somma richiesta per una durata di dieci anni al tasso d’interesse agevolato
del 4,25%.
18. Con lettera del 20 aprile 1988, le autorità competenti notificavano alla
Commissione il progetto di aiuto a favore della Lucchini, a norma dell’art. 6, n. l, del terzo
codice. Secondo la notifica, tale aiuto riguardava un investimento volto al miglioramento
della tutela ambientale. Il valore del contributo in conto interessi sul prestito di ITL 1 020
milioni veniva indicato in ITL 367 milioni.
19. Con lettera del 22 giugno 1988, la Commissione chiedeva informazioni integrative
sulla natura dell’investimento sovvenzionato nonché le condizioni esatte (tasso, durata) del
prestito richiesto. La lettera invitava inoltre le autorità competenti a indicare se gli aiuti
erano concessi in applicazione di un regime generale a favore della tutela dell’ambiente per
agevolare l’adattamento degli impianti a eventuali nuove norme in materia, specificando le
norme di cui si trattava. A tale lettera le autorità competenti non davano risposta.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 303
304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
20. Il 16 novembre 1988, all’approssimarsi della scadenza del termine fissato al 31
dicembre di quello stesso anno dal terzo codice per l’erogazione degli aiuti, le autorità competenti
decidevano di accordare provvisoriamente alla Lucchini un contributo in conto capitale
di ITL 382,5 milioni, ovvero il 15% dell’importo degli investimenti (in luogo del 30%
previsto dalla legge n. 183/76), da erogare entro il 31 dicembre 1988, come prescritto dal
terzo codice. Il contributo in conto interessi veniva invece negato in quanto esso avrebbe
portato l’importo totale degli aiuti accordati oltre la soglia del 15% prevista dal detto codice.
Ai sensi dell’art. 6 del terzo codice, l’adozione del provvedimento definitivo di concessione
dell’aiuto veniva subordinata all’approvazione della Commissione e non veniva effettuato
alcun pagamento da parte delle autorità competenti.
21. La Commissione, non essendo in grado, in mancanza di chiarimenti da parte delle
autorità competenti, di valutare immediatamente la compatibilità degli aiuti progettati con
le norme del mercato comune, avviava nei confronti delle stesse il procedimento ex art. 6,
n. 4, del terzo codice e le informava in proposito con lettera del 13 gennaio 1989. Al riguardo
veniva pubblicata una comunicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee
del 23 marzo 1990 (GU L 73, pag. 5).
22. Con telex del 9 agosto 1989 le autorità competenti fornivano informazioni supplementari
riguardo agli aiuti di cui trattasi. Con lettera del 18 ottobre 1989 la Commissione
comunicava a tali autorità che la loro risposta non era soddisfacente in quanto continuavano
a mancare diverse informazioni. La Commissione segnalava inoltre che, in mancanza di
una risposta adeguata entro il termine di quindici giorni lavorativi, essa avrebbe potuto legittimamente
adottare una decisione definitiva in base alle sole informazioni in suo possesso.
Quest’ultima lettera non riceveva risposta.
La decisione della Commissione 90/555/CECA
23. Con decisione 20 giugno 1990, 90/555/CECA, riguardante taluni progetti di aiuti
delle autorità italiane a favore delle Acciaierie del Tirreno e di Siderpotenza (N195/88 –
N200/88) (GU L 314, pag. 17), la Commissione dichiarava incompatibili con il mercato
comune tutti gli aiuti previsti a favore della Lucchini, ritenendo che non fosse stato dimostrato
che ricorressero i presupposti necessari per la deroga di cui all’art. 3 del terzo codice.
24. La decisione veniva notificata alle autorità competenti il 20 luglio 1990 e pubblicata
nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee il 14 novembre 1990. La Lucchini non impugnava
tale decisione entro il termine di un mese previsto dall’art. 33, terzo comma, del
Trattato CECA.
Il procedimento dinanzi al giudice civile
25. Prima dell’adozione della decisione 90/555, la Lucchini, preso atto del mancato
versamento dell’aiuto, il 6 aprile 1989 citava in giudizio le autorità competenti dinanzi al
Tribunale civile e penale di Roma affinché venisse dichiarato il suo diritto all’erogazione
dell’intero aiuto originariamente richiesto (ovvero un contributo di ITL 765 milioni in
conto capitale e di ITL 367 milioni in conto interessi).
26. Con sentenza 24 giugno 1991, dunque successivamente alla decisione 90/555, il
Tribunale civile e penale di Roma dichiarava che la Lucchini aveva diritto all’erogazione dell’aiuto
di cui trattasi e condannava le autorità competenti al pagamento delle somme reclamate.
La sentenza si fondava interamente sulla legge n. 183/1976. Né il Trattato CECA, né il
terzo o il quarto codice, né la decisione della Commissione 90/555 erano citati dalle parti
dinanzi al Tribunale civile e penale di Roma e il giudice non vi faceva riferimento d’ufficio. Il
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 305
secondo codice era stato citato dalle autorità competenti, ma l’organo giurisdizionale di cui
trattasi non ne aveva tenuto conto in quanto non più in vigore all’epoca dei fatti.
27. Le autorità competenti impugnavano la sentenza dinanzi alla Corte d’appello di
Roma. Esse eccepivano il difetto di giurisdizione del giudice civile, sostenevano che non
incombeva loro alcun obbligo all’erogazione dell’aiuto e affermavano per la prima volta, in
via subordinata, che tale obbligo sussisteva, in virtù dell’art. 3 del terzo codice, solo fino a
concorrenza del limite del 15% dell’investimento.
28. Con sentenza 6 maggio 1994, la Corte d’appello di Roma respingeva l’appello e
confermava la sentenza del Tribunale civile e penale di Roma.
29. Con nota del 19 gennaio 1995 l’Avvocatura Generale dello Stato analizzava la sentenza
d’appello e concludeva per la sua correttezza tanto sotto il profilo della motivazione
quanto dell’applicazione del diritto. Di conseguenza, le autorità competenti non la impugnavano
in cassazione. La sentenza d’appello, non essendo stata impugnata, passava in giudicato
il 28 febbraio 1995.
30. Poiché l’aiuto permaneva non versato, il 20 novembre 1995, su ricorso della
Lucchini, il Presidente del Tribunale civile e penale di Roma ingiungeva alle autorità competenti
di pagare gli importi dovuti alla Lucchini. Il decreto era dichiarato provvisoriamente
esecutivo e nel febbraio 1996 la Lucchini, nel persistere dell’inadempimento, otteneva il
pignoramento di alcuni beni del MICA, in particolare di autovetture di servizio.
31. L’8 marzo 1996, con decreto n. 17975 del direttore generale del MICA, venivano
pertanto accordati alla Lucchini un contributo di ITL 765 milioni in conto capitale e di ITL
367 milioni in conto interessi, in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Roma.
Il decreto precisava che tali aiuti avrebbero potuto essere revocati, in tutto in parte, tra l’altro,
«in caso di decisioni comunitarie sfavorevoli in merito alla concedibilità ed erogabilità
delle agevolazioni finanziarie». Il 22 marzo 1996 venivano versati tali aiuti, per un importo
di ITL l 132 milioni, cui si aggiungeva la somma di ITL 601,375 milioni, corrisposta il 16
aprile 1996, a titolo di interessi legali.
Lo scambio di corrispondenza tra la Commissione e le autorità italiane
32. Con nota del 15 luglio 1996 rivolta alle autorità italiane la Commissione osservava
che, malgrado la decisione 90/555:
«(...) a seguito di una sentenza della Corte d’Appello di Roma in data 6 maggio 1994,
la quale, in spregio ai più elementari principi del diritto comunitario, avrebbe stabilito il
diritto per [la Lucchini] di vedersi riconosciuta la concessione degli aiuti già dichiarati
incompatibili dalla Commissione, [le autorità competenti], non avendo giudicato opportuno
ricorrere in Cassazione, [hanno] concesso, nell’aprile di quest’anno, i predetti aiuti incompatibili
con il mercato comune».
33. Le autorità competenti rispondevano con nota in data 26 luglio 1996 osservando
che gli aiuti erano stati concessi «fatto salvo il diritto di ripetizione».
34. Con nota del 16 settembre 1996, n. 5259, la Commissione esprimeva il parere che le
autorità competenti, versando alla Lucchini aiuti già dichiarati incompatibili con il mercato
comune dalla decisione 90/555, avessero violato il diritto comunitario ed invitava le medesime
autorità a recuperare gli aiuti di cui trattasi entro un termine di quindici giorni e a comunicarle,
entro il termine di un mese, le concrete misure adottate per conformarsi a tale decisione. In caso
contrario, la Commissione si proponeva di accertare l’inadempimento ai sensi dell’art. 88 del
Trattato CECA ed invitava dunque le autorità competenti a presentare, entro dieci giorni lavorativi,
eventuali nuove osservazioni ai sensi dell’art. 88, n. l, del Trattato CECA.
La revoca dell’aiuto
35. Con decreto 20 settembre 1996, n. 20357, il MICA revocava il precedente decreto
8 marzo 1996, n. 17975, e ordinava alla Lucchini di restituire la somma di ITL 1 132
milioni, maggiorata di interessi nella misura del tasso di riferimento, nonché la somma di
ITL 601,375 milioni, maggiorata della rivalutazione monetaria.
Il procedimento dinanzi al giudice del rinvio
36. Con ricorso del 16 novembre 1996, la Lucchini impugnava il decreto n. 20357
dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio. Con sentenza 1º aprile 1999 quest’ultimo
accoglieva il ricorso della Lucchini, ritenendo che la potestà della pubblica amministrazione
di rimuovere i propri atti invalidi per vizi di legittimità o di merito incontrasse,
nella specie, il limite costituito dal diritto all’erogazione dell’aiuto accertato dalla Corte
d’appello di Roma con sentenza passata in giudicato.
37. L’Avvocatura Generale dello Stato, per conto del MICA, il 2 novembre 1999 proponeva
appello dinanzi al Consiglio di Stato, deducendo, in particolare, un motivo secondo
il quale il diritto comunitario immediatamente applicabile, comprendente sia il terzo codice
che la decisione 90/555, doveva prevalere sull’autorità di cosa giudicata della sentenza della
Corte d’appello di Roma.
38. Il Consiglio di Stato constatava la sussistenza di un conflitto tra tale sentenza e la
decisione 90/555.
39. Secondo il Consiglio di Stato, risulta evidente che le autorità competenti avrebbero
potuto e dovuto tempestivamente eccepire l’esistenza della decisione 90/555 nel corso
della controversia risolta dalla Corte d’appello di Roma, controversia nella quale, fra l’altro,
si discuteva in ordine alla legittimità della mancata erogazione del contributo per la necessità
di attendere l’approvazione della Commissione. In tali condizioni, avendo poi le autorità
competenti rinunciato ad impugnare la sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di
Roma, non vi sarebbe dubbio che la predetta sentenza sia passata in giudicato, e che l’area
dei fatti coperta dal giudicato sia estesa alla compatibilità comunitaria della sovvenzione,
quantomeno con riferimento alle decisioni comunitarie preesistenti al giudicato. Gli effetti
del giudicato sarebbero quindi astrattamente invocabili anche con riguardo alla decisione
90/555, intervenuta prima della conclusione della controversia.
40. Alla luce di quanto sopra, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il processo
e di sottoporre alla Corte le due questioni pregiudiziali seguenti:
«1) Se, in forza del principio del primato del diritto comunitario immediatamente applicabile,
costituito nella specie [dal terzo codice], dalla decisione [90/555], nonché dalla
[nota] n. 5259 (...), di intimazione del recupero dell’aiuto – atti tutti alla stregua dei quali è
stato adottato l’atto di recupero impugnato nel presente processo (ossia il decreto n. 20357
[...]) – sia giuridicamente possibile e doveroso il recupero dell’aiuto da parte dell’amministrazione
interna nei confronti di un privato beneficiario, nonostante la formazione di un
giudicato civile affermativo dell’obbligo incondizionato di pagamento dell’aiuto medesimo.
2) Ovvero se, stante il pacifico principio secondo il quale la decisione sul recupero dell’aiuto
è regolata dal diritto comunitario ma la sua attuazione ed il relativo procedimento di recupero,
in assenza di disposizioni comunitarie in materia, è retta dal diritto nazionale (principio
sul quale cfr. Corte di Giustizia 21 settembre 1983 in causa 205215/82 Deutsche
Milchkontor [e a.], Racc. pag. 2633), il procedimento di recupero non divenga giuridicamente
impossibile in forza di una concreta decisione giudiziaria, passata in cosa giudicata
306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 307
(art. 2909 cod. civ.) che fa stato fra privato ed amministrazione ed obbliga l'amministrazione
a conformarvisi".
Sulla competenza della Corte
41. Va osservato preliminarmente che la Corte resta competente a pronunciarsi su questioni
pregiudiziali relative all’interpretazione e all’applicazione del Trattato CECA, nonché
degli atti emanati sulla scorta di quest’ultimo, anche qualora tali questioni le siano sottoposte
dopo la scadenza del Trattato CECA. Benché, in tali circostanze, non venga più fatta
applicazione dell’art. 41 del Trattato CECA per conferire una competenza alla Corte, sarebbe
contrario allo scopo e alla coerenza sistematica dei Trattati nonché incompatibile con la
continuità dell’ordinamento giuridico comunitario che la Corte non fosse abilitata a garantire
l’uniforme interpretazione delle norme connesse al Trattato CECA che continuano a produrre
effetti anche dopo la scadenza di quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza 22 febbraio
1990, causa C221/88, Busseni, Racc. pag. I495, punto 16). Del resto, la competenza della
Corte a questo proposito non è stata contestata da nessuna delle parti che hanno presentato
osservazioni.
42. Per altri motivi, la Lucchini contesta tuttavia la ricevibilità della domanda di pronuncia
pregiudiziale. Le eccezioni da essa sollevate in proposito vertono sull’insussistenza
di una norma comunitaria da interpretare, sull’incompetenza della Corte ad interpretare una
sentenza di un giudice nazionale o l’art. 2909 del codice civile italiano, nonché sull’ipoteticità
delle questioni pregiudiziali.
43. A tale proposito, occorre ricordare che, nell’ambito di un procedimento ex art. 234
CE, basato sulla netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, ogni valutazione
dei fatti di causa rientra nella competenza del giudice nazionale. Parimenti, spetta
esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi
la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari
circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in
grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla
Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto
comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a pronunciarsi (v., in particolare, sentenze
25 febbraio 2003, causa C326/00, IKA, Racc. pag. I1703, punto 27, 12 aprile 2005,
causa C145/03, Keller, Racc. pag. I2529, punto 33, e 22 giugno 2006, causa C419/04,
Conseil général de la Vienne, Racc. pag. I5645, punto 19).
44. Tuttavia, la Corte ha altresì dichiarato che, in ipotesi eccezionali, essa può esaminare
le condizioni in cui è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza
(v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 1981, causa 244/80, Foglia, Racc. pag. 3045,
punto 21). Il rifiuto di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale
è possibile solo qualora risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto
comunitario non ha alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto della causa principale,
qualora il problema sia di natura ipotetica oppure qualora la Corte non disponga degli elementi
di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le sono
sottoposte (v., in particolare, sentenze 13 marzo 2001, causa C379/98, PreussenElektra,
Racc. pag. I2099, punto 39; 22 gennaio 2002, causa C390/99, Canal Satélite Digital, Racc.
pag. I607, punto 19, e Conseil général de la Vienne, cit., punto 20).
45. Occorre rilevare che così non è nel caso di specie.
46. È infatti manifesto che la presente domanda di pronuncia pregiudiziale verte su
norme di diritto comunitario. Nel caso di specie si chiede alla Corte non di interpretare il
diritto nazionale o una sentenza di un giudice nazionale, bensì di precisare i limiti entro i
quali i giudici nazionali sono tenuti, in forza del diritto comunitario, a disapplicare il diritto
nazionale. Ne risulta pertanto che le questioni sollevate sono in relazione con l’oggetto della
controversia, come definito dal giudice a quo, e che la soluzione delle questioni sollevate
può essere utile a quest’ultimo per consentirgli di disporre o meno l’annullamento dei provvedimenti
adottati per il recupero degli aiuti di cui trattasi.
47. La Corte è pertanto competente a statuire sulla presente domanda di pronuncia pregiudiziale.
Sulle questioni pregiudiziali
48. Con le questioni sollevate, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice a quo
domanda in sostanza se il diritto comunitario osti all’applicazione di una disposizione del diritto
nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità
di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di
un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il
mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva.
49. In tale contesto va ricordato anzitutto che, nell’ordinamento giuridico comunitario,
le competenze dei giudici nazionali sono limitate sia per quanto riguarda il settore degli aiuti
di Stato sia relativamente alla dichiarazione d’invalidità degli atti comunitari.
Sulle competenze dei giudici nazionali in materia di aiuti di Stato
50. In materia di aiuti di Stato, ai giudici nazionali possono essere sottoposte controversie
nelle quali essi siano tenuti ad interpretare e ad applicare la nozione di aiuto di cui all’art. 87,
n. 1, CE, segnatamente al fine di valutare se un provvedimento statale, adottato senza seguire
il procedimento di controllo preventivo di cui all’art. 88, n. 3, CE, debba o meno esservi soggetto
(sentenze 22 marzo 1977, causa 78/76, Steinike & Weinlig, Racc. pag. 595, punto 14, e
21 novembre 1991, causa C354/90, Fédération nationale du commerce extérieur des produits
alimentaires et Syndicat national des négociants et transformateurs de saumon, Racc. pag.
I5505, punto 10). Analogamente, al fine di poter determinare se una misura statale attuata senza
tener conto della procedura di esame preliminare prevista dall’art. 6 del terzo codice dovesse
esservi o meno assoggettata, un giudice nazionale può essere indotto a interpretare la nozione
di aiuto di cui all’art. 4, lett. c), del Trattato CECA e all’art. 1 del terzo codice (v., per analogia,
sentenza 20 settembre 2001, causa C390/98, Banks, Racc. pag. I6117, punto 71).
51. Per contro, i giudici nazionali non sono competenti a pronunciarsi sulla compatibilità
di un aiuto di Stato con il mercato comune.
52. Emerge infatti da una giurisprudenza costante che la valutazione della compatibilità
con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti rientra nella competenza esclusiva
della Commissione, che opera sotto il controllo del giudice comunitario (v. sentenze
Steinike & Weinlig, cit., punto 9; Fédération nationale du commerce extérieur des produits
alimentaires et Syndicat national des négociants et transformateurs de saumon, cit., punto 14,
nonché 11 luglio 1996, causa C39/94, SFEI e a., Racc. pag. I3547, punto 42).
Sulle competenze dei giudici nazionali per quanto riguarda la dichiarazione d’invalidità
degli atti comunitari
53. Sebbene in linea di principio i giudici nazionali possano trovarsi ad esaminare la validità
di un atto comunitario, non sono però competenti a dichiarare essi stessi l’invalidità degli
atti delle istituzioni comunitarie (sentenza 22 ottobre 1987, causa 314/85, FotoFrost, Racc.
308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 309
pag. 4199, punto 20). La Corte è quindi la sola competente a dichiarare l’invalidità di un atto
comunitario (sentenze 21 febbraio 1991, cause riunite C143/88 e C92/89, Zuckerfabrik
Süderdithmarschen e Zuckerfabrik Soest, Racc. pag. I415, punto 17, nonché 10 gennaio
2006, causa C344/04, IATAe ELFAA, Racc. pag. I403, punto 27). Del resto, tale competenza
esclusiva risultava altresì esplicitamente dall’art. 41 del Trattato CECA.
54. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante, una decisione adottata dalle istituzioni
comunitarie che non sia stata impugnata dal destinatario entro il termine stabilito dall’art.
230, quinto comma, CE diviene definitiva nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze 9
marzo 1994, causa C188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, Racc. pag. I833, punto 13, e
22 ottobre 2002, causa C241/01, National Farmers’ Union, Racc. pag. I9079, punto 34).
55. La Corte ha altresì escluso la possibilità che il beneficiario di un aiuto di Stato
oggetto di una decisione della Commissione direttamente indirizzata soltanto allo Stato
membro in cui era residente questo beneficiario, che avrebbe potuto senza alcun dubbio
impugnare tale decisione e che ha lasciato decorrere il termine perentorio all’uopo prescritto
dall’art. 230, quinto comma, CE, possa utilmente contestare la legittimità della decisione
dinanzi ai giudici nazionali nell’ambito di un ricorso proposto avverso i provvedimenti
presi dalle autorità nazionali in esecuzione di tale decisione (citate sentenze TWD
Textilwerke Deggendorf, punti 17 e 20, nonché National Farmers’ Union, punto 35). Gli
stessi principi si applicano necessariamente, mutatis mutandis, nell’ambito d’applicazione
del Trattato CECA.
56. Se ne deve pertanto concludere che correttamente il giudice a quo ha deciso di non
sottoporre alla Corte una questione concernente la validità della decisione 90/555, decisione
che la Lucchini avrebbe potuto impugnare nel termine di un mese dalla pubblicazione in
forza dell’art. 33 del Trattato CECA, cosa che si è astenuta dal fare. Per gli stessi motivi
non può essere accolto il suggerimento della Lucchini che chiede alla Corte, in subordine,
di esaminare eventualmente d’ufficio la validità della medesima decisione.
Sulla competenza dei giudici nazionali nella causa principale
57. Dalle considerazioni sin qui svolte emerge che né il Tribunale civile e penale di
Roma né la Corte d’appello di Roma erano competenti a pronunciarsi sulla compatibilità
degli aiuti di Stato richiesti dalla Lucchini con il mercato comune e che né l’uno né l’altro
di questi organi giurisdizionali avrebbe potuto constatare l’invalidità della decisione 90/555,
che aveva dichiarato tali aiuti incompatibili con il detto mercato.
58. A questo proposito, si può del resto rilevare che né la sentenza della Corte d’appello
di Roma, di cui si fa valere l’autorità di cosa giudicata, né la sentenza del Tribunale civile e
penale di Roma si pronunciano esplicitamente sulla compatibilità con il diritto comunitario
degli aiuti di Stato richiesti dalla Lucchini e tanto meno sulla validità della decisione 90/555.
Sull’applicazione dell’art. 2909 del codice civile italiano
59. Stando al giudice nazionale, l’art. 2909 del codice civile italiano osta non solo alla
possibilità di dedurre nuovamente, in una seconda controversia, motivi sui quali un organo
giurisdizionale si sia già pronunciato esplicitamente in via definitiva, ma anche alla disamina
di questioni che avrebbero potuto essere sollevate nell’ambito di una controversia precedente
senza che ciò sia però avvenuto. Da siffatta interpretazione della norma potrebbe conseguire,
in particolare, che a una decisione di un giudice nazionale vengano attribuiti effetti
che eccedono i limiti della competenza del giudice di cui trattasi, quali risultano dal diritto
comunitario. Come ha osservato il giudice a quo, è chiaro che l’applicazione di tale
norma, così interpretata, impedirebbe nel caso di specie l’applicazione del diritto comunitario
in quanto renderebbe impossibile il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione
del diritto comunitario.
60. In tale contesto va ricordato che spetta ai giudici nazionali interpretare le disposizioni
del diritto nazionale quanto più possibile in modo da consentirne un’applicazione che
contribuisca all’attuazione del diritto comunitario.
61. Risulta inoltre da una giurisprudenza costante che il giudice nazionale incaricato di
applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto comunitario ha l’obbligo
di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa,
qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (v., in particolare,
sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punti 2124; 8 marzo
1979, causa 130/78, Salumificio di Cornuda, Racc. pag. 867, punti 2327, e 19 giugno
1990, causa C213/89, Factortame e a., Racc. pag. I2433, punti 1921).
62. Come dichiarato al punto 52 della presente sentenza, la valutazione della compatibilità
con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti è di competenza
esclusiva della Commissione, che agisce sotto il controllo del giudice comunitario. Questo
principio è vincolante nell’ordinamento giuridico nazionale in quanto corollario della preminenza
del diritto comunitario.
63. Le questioni sollevate vanno pertanto risolte nel senso che il diritto comunitario
osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice
civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui
l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto
con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata
con decisione della Commissione divenuta definitiva.
Sulle spese
64. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar
luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale,
come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa
giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un
aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il
mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee
divenuta definitiva».
310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Causa C-462/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Competenza
giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in
materia civile e commerciale – Art. 6, n. 1 e art. 1 del regolamento (CE)
del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/01 – Ordinanza del 7 novembre
2006, depositata in data 20 novembre 2006, notificata il 2 marzo
2007, della Cour de cassation, chambre sociale – Francia (cs. 12453/07,
avv. dello Stato W. Ferrante).
IL FATTO
La questione pregiudiziale è sorta in una causa proposta da un lavoratore
dipendente dinanzi al giudice di uno Stato membro (Francia) contro due
società appartenenti al medesimo gruppo e di cui una – quella che ha assunto
per prima il dipendente, rifiutando successivamente di reintegrarlo – è
domiciliata in tale Stato membro e l’altra, per il quale l’interessato ha lavorato
successivamente e che l’ha licenziato, è domiciliata in un altro Stato
membro (Regno Unito).
In particolare, l’attore ha chiesto di condannare in solido le due società
che, in base ad una clausola del suo contratto di lavoro erano da considerarsi
sue co-datrici di lavoro, al risarcimento danni a titolo di indennità per il
licenziamento.
IL QUESITO
Se la norma sulla competenza speciale di cui all’art. 6, n. 1, del regolamento
(CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la
competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni
in materia civile e commerciale, in forza del quale una persona domiciliata
nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta, ‘in caso di pluralità
di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è
domiciliato, sempre che tra le domande esista un nesso così stretto da rendere
opportuna una trattazione unica ed una decisione unica onde evitare il
rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni
incompatibili’, sia applicabile alla causa intentata da un dipendente dinanzi
al giudice di uno Stato membro contro due società appartenenti al medesimo
gruppo e di cui una – quella che ha assunto il dipendente per il gruppo rifiutando
successivamente di reintegrarlo – è domiciliata in tale Stato membro e
l’altra, per il conto della quale l’interessato ha lavorato da ultimo in stati terzi
e che l’ha licenziato, è domiciliata in un altro Stato membro, posto che l’attore
invoca una clausola del contratto di lavoro per sostenere che le due convenute
erano sue co-datrici di lavoro, alle quali egli chiede il risarcimento
per il licenziamento, o se invece l’art. 18, n. 1, del regolamento, in forza del
quale, in materia di contratti individuali di lavoro, la competenza è discipli-
I GIUDIZI IN CORSO
ALLA CORTE DI GIUSTIZIA CE
nata dalla sezione 5, capo II, escluda l’applicazione dell’art. 6, n. 1, cosicché
ognuna delle due società dev’essere convenuta dinanzi al giudice dello Stato
membro in cui è domiciliata.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«(…) Il giudice di primo grado (conseil des prud’hommes), su richiesta
delle società convenute, si è dichiarato incompetente.
Il giudice di secondo grado ha invece accolto il ricorso con il quale l’attore
ha contestato la summenzionata decisione, rinviando le parti dinanzi al
giudice di primo grado ritenuto dotato di competenza giurisdizionale.
Il Giudice rimettente (Cassazione francese) ha ritenuto di non poter decidere
la controversia, senza aver prima sottoposto alla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee la sopra esposta questione pregiudiziale relativa all’interpretazione
dell’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 22 dicembre
2000, n. 44/2001.
In particolare, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di chiarire se alla
controversia in oggetto debba applicarsi l’art. 6, n. 1 del succitato regolamento
o se invece l’art. 18, in forza del quale in materia di contratti di lavoro
individuali la competenza è disciplinata dalla sezione 5, capo II, dello
stesso regolamento, escluda l’applicazione dell’art. 6, n. 1, comportando che
ognuna delle due società debba essere convenuta dinanzi ad un giudice dello
Stato membro in cui è domiciliata.
Ai sensi dell’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) n. 44/2001, una persona
domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta, “in
caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi
di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un nesso così
stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed una decisione unica
onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere
a decisioni incompatibili”.
L’art. 18, n. 1, sezione 5, capo II dello stesso regolamento stabilisce invece
che, “salva l’applicazione dell’art. 4 e l’art. 5, punto 5, la competenza in
materia di contratti di lavoro individuali è disciplinata dalla presente sezione”.
Ai sensi dell’art. 19, “il datore di lavoro domiciliato nel territorio di uno
Stato membro può essere convenuto: davanti a giudici dello Stato membro in
cui è domiciliato, o, in un altro Stato membro: a) davanti al giudice del luogo
in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo
luogo in cui la svolgeva abitualmente, o, b) qualora il lavoratore non
svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese,
davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la
quale è stato assunto”.
Ciò premesso, il Governo italiano ritiene che l’art. 6 n. 1 del regolamento,
che consente di convenire presso uno stesso giudice più convenuti domiciliati
in Stati membri diversi in caso di connessione tra le domande proposte
nei loro confronti, trovi applicazione anche in caso di contratto di lavoro
benché questo sia autonomamente disciplinato dalla sezione 5 dello stesso
regolamento.
312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Infatti, benché l’art. 18 in materia di contratti individuali di lavoro stabilisca
che la competenza è disciplinata dalla sezione 5, capo II, dello stesso
regolamento, facendo salve solo le disposizioni contenute negli artt. 4 e 5, n.
5, va in ogni caso considerato che, la regola prevista dall’art. 6, n. 1, rappresenta
un criterio di modificazione della competenza per ragioni di connessione
che rendono “opportuna una trattazione unica ed una decisione unica
onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere
a decisioni incompatibili”.
Si tratta di una norma che stabilisce un criterio di individuazione della
competenza giurisdizionale eccezionale rispetto a quello generale del domicilio
del convenuto di cui all’art. 2 dello stesso Regolamento, con un campo
di applicazione “trasversale”, in quanto le ragioni ispiratrici (opportuna trattazione
e decisione unica per evitare il rischio di giudicati incompatibili)
possono riguardare tutti i tipi di controversie, non escluse quelle in materia
di lavoro.
Nella specie, l’art. 6, comma 1, del Regolamento citato giustifica l’eventualità
che, in una controversia in cui siano presenti più convenuti, uno di
essi possa essere distolto dal suo giudice naturale e citato dinanzi al giudice
dello Stato in cui l’altro convenuto ha il domicilio, esclusivamente nell’ipotesi
in cui tra le cause sussista un vincolo di connessione tale da rendere
opportuna una trattazione e una decisione unica per evitare soluzioni che
potrebbero essere tra loro contrastanti se le cause fossero decise separatamente
(in questi termini sentenza 27 ottobre 1998, causa C-51/97, Réunion
européenne e altri).
A tal fine appare sufficiente rilevare che, stante l’identità del petitum tra
le domande, qualora le due controversie fossero separatamente instaurate
dinanzi a giudici diversi, l’attore potrebbe anche ottenere due diverse pronunce
favorevoli e, pertanto, conseguire per ben due volte la medesima
indennità di licenziamento.
Alla luce di tali considerazioni, se è vero che, in base al dato meramente
testuale, per le controversie relative ai contratti individuali di lavoro la
competenza va individuata ai sensi delle norme della sezione 5, del
Regolamento in questione, che fanno salva l’applicazione dei soli articoli 4
e 5 n. 5 e non anche dell’art. 6 n. 1, deve tuttavia ritenersi che tale ultima
disposizione costituisca un principio generale applicabile a tutte le controversie
con una pluralità di parti e riguardanti domande con un nesso così
stretto da renderne opportuna una trattazione unica.
Nella fattispecie in esame è pacifico che, in base all’art. 13 del contratto
di lavoro, la società con sede nel Regno Unito, che ha assunto il dipendente
a decorrere dal 1 aprile 1984 senza soluzione di continuità rispetto all’impiego
alle dipendenze della società con sede in Francia appartenente al
medesimo gruppo, ha riconosciuto i diritti di anzianità del dipendente sin dal
1977 come se il suo impiego presso quest’ultimo datore di lavoro non si
fosse mai interrotto, precisando che i diritti attribuiti al dipendente stesso in
forza del primo contratto di lavoro, ivi compresa l’indennità in caso di licenziamento,
permangono anche ai sensi del secondo contratto.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 313
Appare evidente quindi la stretta correlazione delle domande proposte
nei confronti dei due convenuti, domiciliati in due diversi Stati membri, che
suggerisce di concludere per una loro trattazione unitaria innanzi ad uno
stesso giudice in applicazione dell’art. 6, n. 1 del regolamento.
Diversamente opinando, nelle controversie di lavoro i due giudici aditi
potrebbero pervenire a soluzioni completamente incompatibili tra di loro,
con conseguente pregiudizio della certezza del diritto.
Non vi è, quindi, motivo per non ritenere che, anche le controversie con
una pluralità di convenuti aventi ad oggetto un rapporto di lavoro dipendente
debbano essere trattate da un unico giudice scelto sulla base del combinato
disposto degli artt. 6 e 19 del summenzionato regolamento.
Trattandosi di competenza derogatoria rispetto alla regola generale del
domicilio del convenuto, in linea di principio la norma dovrebbe considerarsi
di stretta interpretazione.
L’estensione analogica della disposizione in questione si giustifica però
in ragione della posizione debole del lavoratore rispetto a quella del datore
di lavoro e quindi sulla base di altro principio affermato dalla giurisprudenza
comunitaria in base al quale la funzione di tutela del contraente ritenuto
economicamente più debole e giuridicamente meno esperto implica che le
norme sulla competenza speciale possano essere estese a favore di quelle
persone per le quali tale protezione appare giustificata (argomentando a contrario
rispetto a quanto affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza del
26 maggio 2005, causa C-77/04, che ha invece escluso l’estensione analogica
di un criterio di competenza eccezionale nei rapporti tra due imprese di
assicurazione).
Appare incontestabile nel caso di specie, oltre all’interesse generale a
scongiurare la possibilità di decisioni contrastanti su domande strettamente
collegate, l’esigenza di favorire il lavoratore nel consentirgli di proporre analoghe
domande nei confronti di più datori di lavoro appartenenti al medesimo
gruppo innanzi allo stesso giudice anziché innanzi a più giudici diversi.
In applicazione di tali principi, entrambe le domande andranno proposte
e trattate da un solo giudice individuato ai sensi dell’articolo 6 n. 1 con possibilità
di attrarre presso il giudice del luogo così individuato anche la
domanda che, in base al criterio generale del domicilio del convenuto, avrebbe
dovuto essere proposta davanti al giudice di un altro Stato membro.
In subordine, deve ritenersi che anche volendo escludere, sulla base del
mero dato letterale, l’applicazione dell’art. 6, n. 1 del regolamento anche le
norme previste dalla sezione 5 conducono nella fattispecie alla medesima
conclusione.
In particolare, l’art. 19, n. 2 lett. b) prevede che il lavoratore che non
abbia svolto la propria attività in un solo paese, come è il caso del ricorrente
nella causa principale, possa convenire il datore di lavoro davanti al giudice
del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la quale è stato
assunto.
Anche tale norma risponde all’esigenza di favorire la parte del rapporto
ritenuta più debole, consentendole di adire un unico giudice qualora l’attivi-
314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tà lavorativa sia stata svolta in più paesi ed indicando il luogo in cui il lavoratore
è stato assunto che, nel caso di specie è da individuarsi in Francia.
Anche in applicazione di tale norma quindi, legittimamente il lavoratore
ha convenuto anche la seconda società appartenente al medesimo gruppo e
domiciliata nel Regno Unito innanzi al giudice francese.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel
senso che la norma sulla competenza speciale di cui all’art. 6, n. 1, del regolamento
(CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/2001, in forza della
quale una persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere
convenuta, in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice del luogo
in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista
un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed una
decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione
separata, di giungere a decisioni incompatibili, sia applicabile alla causa
intentata da un dipendente dinanzi al giudice di uno Stato membro contro
due società appartenenti al medesimo gruppo e di cui una – quella che ha
assunto il dipendente per il gruppo rifiutando successivamente di reintegrarlo
– è domiciliata in tale Stato membro e l’altra per conto della quale l’interessato
ha lavorato da ultimo in stati terzi e che l’ha licenziato, è domiciliata
in un altro Stato membro, posto che l’attore invoca una clausola del contratto
di lavoro per sostenere che le due convenute erano sue co-datrici di
lavoro, alle quali egli chiede il risarcimento per il licenziamento.
In subordine, deve ritenersi che anche in applicazione dell’art. 19, n. 2
lett. b) il lavoratore che non abbia svolto la propria attività in un solo paese
possa convenire il datore di lavoro davanti al giudice del luogo in cui è
situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto.
Roma, 14 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-463/06 (domanda pregiudiziale) – Competenza giurisdizionale,
riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale
– Art. 9, n. 1 lett. b, del regolamento (CE) del Consiglio del 22
dicembre 2000, n. 44/2001 – Ordinanza del 26 settembre 2006, depositata
il 20 novembre 2006, notificata il 2 marzo 2007, del
Bundesgerichtshof – Germania (cs. 12788/07, avv. dello Stato W.
Ferrante).
IL FATTO
Il ricorrente, domiciliato in Germania, ha agito nei confronti di una compagnia
assicurativa con sede in Olanda, per chiedere il risarcimento dei danni
conseguenti un incidente automobilistico avvenuto in Olanda, provocato da
un assicurato della compagnia convenuta.
Il giudice di primo grado, del luogo del domicilio del ricorrente, ha
dichiarato l’azione irricevibile per difetto di giurisdizione in capo ai giudici
tedeschi; la decisione è stata riformata dai giudici di appello che hanno affermato
la giurisdizione del giudice del luogo di residenza del danneggiato.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 315
Proposto dalla compagnia assicurativa ricorso per cassazione avverso la
sentenza di secondo grado, è stata sollevata la questione pregiudiziale.
IL QUESITO
Se il rinvio effettuato nell’articolo 11, n. 2, del regolamento (CE) del
Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale,
il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile
e commerciale (in prosieguo il regolamento) all’articolo 9, n. 1, lett. b), del
regolamento debba essere inteso nel senso che la persona lesa può proporre
un’azione diretta contro l’assicurazione dinanzi al giudice del luogo dello
Stato membro in cui è domiciliata, qualora una siffatta azione diretta sia consentita
e l’assicuratore sia domiciliato nel territorio di uno Stato membro.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«(…) La disciplina regolamentare in materia assicurativa, quasi identica
a quella contenuta nella Convenzione di Bruxelles, stabilisce, nei casi
in cui sia l’assicurato ovvero il contraente o il beneficiario della polizza a
promuovere l’azione nei confronti dell’assicuratore, la possibilità di convenire
in giudizio l’assicuratore oltre che dinanzi ai giudici dello Stato in
cui quest’ultimo è domiciliato (articolo 9, n. 1 lett. a)), anche davanti al
giudice del luogo in cui è domiciliato l’attore, per i casi in cui l’assicuratore
abbia il domicilio in uno Stato membro (articolo 9, n. 1, lett. b) del
regolamento).
A fronte di tali previsioni, che coprono tutti i settori assicurativi, il regolamento
contempla alcuni fori supplementari, per quanto di interesse, con
riferimento all’ipotesi di assicurazione della responsabilità civile, prevedendo
che sia competente anche il giudice del luogo in cui si è verificato l’evento
dannoso (articolo 10) nonché il giudice presso il quale è stata proposta l’azione
esercitata dalla persona lesa contro l’assicurato (articolo 11, n. 1).
L’articolo 11, n. 2 dispone che sono applicabili all’azione diretta proposta
dalla persona lesa contro l’assicuratore gli articoli 8, 9 e 10.
La Corte rimettente espone che in Germania vi sono due diverse interpretazioni
dell’articolo 11 n. 2, nella parte in cui rinvia all’articolo 9, n. 1,
lettera b) del regolamento che dispone testualmente: “L’assicuratore domiciliato
nel territorio di uno Stato membro, può essere convenuto: ... b) in un
altro Stato membro, davanti al giudice del luogo in cui è domiciliato l’attore
qualora l’azione sia proposta dal contraente dell’assicurazione, dall’assicurato
o da un beneficiario”.
Secondo la tesi dominante le norme dovrebbero essere interpretate nel
senso di negare la competenza giurisdizionale del foro del domicilio della
persona lesa, in quanto l’azione diretta non rientrerebbe nella materia assicurativa,
ai sensi dell’articolo 8 del regolamento, poiché nel diritto internazionale
privato tedesco, l’azione diretta corrisponde ad un’azione per fatto illecito
extracontrattuale ed è sottoposta al relativo statuto, mentre l’articolo 9,
n. 1 lettera b) del regolamento sarebbe applicabile, secondo la sua formula-
316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zione e la sua collocazione sistematica, soltanto alla materia assicurativa e
dunque rientrerebbe nell’ambito contrattuale.
Applicando tali presupposti, “il beneficiario” nell’ambito di un contratto
di assicurazione sarebbe soltanto il soggetto che beneficia del contratto
assicurativo e non la persona lesa dal sinistro stradale.
Tale interpretazione, non sarebbe condivisa, da quella parte della dottrina
tedesca che ritiene che il rinvio dell’articolo 11, n. 2, all’articolo 9, n. 1
lett. b) del regolamento dovrebbe far affermare la giurisdizione in capo al
giudice del domicilio della persona lesa.
I giudici rimettenti, dichiarandosi favorevoli a questa interpretazione
affermano che la stessa sarebbe conforme alla volontà del legislatore e risulterebbe
chiaramente espressa nel considerando 16 bis della direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, 2005/14/CE, che integra
la direttiva 16 maggio 2000, n. 2000/26/CE in materia di assicurazione
della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, nel
quale si legge: “Ai sensi del combinato disposto dell’articolo 11, paragrafo
2, e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (CE) n. 44/2001
del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale,
il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale
... la parte lesa può citare in giudizio l’assicuratore della responsabilità
civile nello Stato membro in cui essa è domiciliata”.
Alla luce di questa disposizione la persona lesa dovrebbe essere equiparata
al “beneficiario”.
Ciò premesso, il Governo italiano ritiene che al quesito posto alla Corte
debba darsi risposta positiva alla luce dell’intera disciplina comunitaria.
Nel regolamento in esame, le norme sulla competenza sono ispirate
all’esigenza di proteggere la parte socialmente più debole e pertanto l’applicazione
di queste disposizioni, come più volte ribadito dalla Corte di
Giustizia, deve essere compiuta ispirandosi a tale canone ermeneutico (cfr.
sentenza 14 luglio 1983, in causa 201/82, Gerling nella quale la Corte di giustizia,
con riferimento alle norme sulla competenza in materia di assicurazione
della Convenzione di Bruxelles, ha affermato la necessità di interpretarle
nell’ottica di tutelare il soggetto più debole).
Inoltre, per avvalorare questa posizione, deve richiamarsi il considerando
n. 13 del regolamento, nel quale è espressamente indicato che nei contratti
di assicurazione, come in quelli di consumo e di lavoro, è “opportuno tutelare
la parte più debole con norme in materia di competenza più favorevoli
ai suoi interessi rispetto alle regole generali”.
Nel caso di specie, parte debole è il danneggiato e negli ordinamenti in
cui è riconosciuta la possibilità di azione diretta nei confronti della compagnia
di assicurazione del danneggiante, negare la possibilità per la parte lesa
di agire in giudizio dinanzi al giudice del luogo del proprio domicilio significherebbe
privare, in questo tipo di rapporto, la parte debole della particolare
tutela riconosciuta del regolamento.
Anche da punto di vista letterale, inoltre, l’articolo 11 n. 2 del regolamento
dispone, come detto, che sia applicabile all’azione diretta proposta
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 317
dalla persona lesa contro l’assicuratore (negli ordinamenti che consentono
tale azione) l’intero articolo 9.
Al riguardo, come correttamente rilevato dall’ordinanza di rimessione,
atteso che il rinvio contenuto nell’art. 11 n. 2 determina l’applicazione alla
persona lesa della disciplina di cui all’art. 9 in ordine al luogo in cui l’assicuratore
può essere convenuto in giudizio, non è necessario che detta parte
lesa sia espressamente menzionata tra i soggetti che rivestono la qualità di
“attore”.
La finalità della norma è appunto quella distendere anche al danneggiato
la disciplina prevista per “l’attore” che sia contraente, assicurato o beneficiario.
Peraltro, l’interpretazione della dottrina dominante tedesca, secondo la
quale nel diritto internazionale privato tedesco, l’azione diretta corrisponde
ad un’azione per fatto illecito extracontrattuale ed è sottoposta al relativo statuto,
mentre l’articolo 9, n. 1 lettera b) del regolamento sarebbe applicabile,
secondo la sua formulazione e la sua collocazione sistematica, soltanto alla
materia assicurativa e dunque rientrerebbe nell’ambito contrattuale, non è
condivisibile poiché la disciplina contenuta nel regolamento concernente l’esigenza
di tutelare la parte debole del rapporto, essendo collocata in una
fonte sovraordinata, prevarrebbe comunque rispetto alle disposizioni non
conformi contenute nella legge di diritto internazionale privato di uno Stato
membro.
Anche la legislazione italiana prevede la possibilità di esperire azione
diretta da parte del danneggiato per sinistri causati dalla circolazione di veicoli
o natanti, nei confronti dell’assicuratore per il risarcimento del danno
(articolo 144 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, codice delle
assicurazioni private).
Il richiamato codice delle assicurazioni private però, pur contenendo un
capo (capo V, articolo 151 e ss.) relativo al risarcimento del danno derivante
da sinistri avvenuti all’estero, non detta norme sulla giurisdizione o sulla
competenza.
Nella giurisprudenza italiana non si rinvengono precedenti editi relativi
alla fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia. Deve rilevarsi,
tuttavia, come la dottrina sia unanimamente concorde nell’affermare
che il criterio di collegamento che consente di convenire l’assicuratore che
ha sede in un altro Stato membro, davanti al giudice del luogo in cui è domiciliato
l’attore “può essere utilizzato anche dalla parte lesa che agisce in
confronto dell’assicuratore con l’azione diretta” (cfr. P. VITTORIA, La competenza
giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, 2005, pag. 177
ss.; F.P. MANSI, Il giudice italiano e le controversie europee, 2004, pag. 184
e ss.; G. CAMPEIS, A. DE PAULI, La disciplina europea del processo civile italiano,
2005, pag. 118 e ss.).
In conclusione, dall’esame complessivo della normativa comunitaria
(formulazione degli articoli 9 e 11 del regolamento; considerando n. 13 del
regolamento; sentenza della Corte di Giustizia Gerling; considerando n. 16
318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
bis della direttiva 2005/14/CE che, nelle premesse di un atto normativo comunitario,
successivo rispetto all’emanazione del regolamento, sembra ritenere
pacifica l’interpretazione dell’art. 11, paragrafo 2, nel senso che la parte lesa
possa citare in giudizio l’assicuratore nello Stato membro in cui essa è domiciliata),
pare potersi concludere nel senso che il rinvio dell’art. 11 n. 2 all’art.
9 n. 1 lett. b) sia da intendersi anche al soggetto danneggiato.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito affermando
che il rinvio effettuato nell’articolo 11, n. 2, del regolamento n.
44/2001/CE all’articolo 9, n. 1, lett. b) dello stesso regolamento debba essere
inteso nel senso che la persona lesa può proporre un’azione diretta contro
l’assicurazione dinanzi al giudice del luogo dello Stato membro in cui è
domiciliata, qualora una siffatta azione diretta sia consentita e l’assicuratore
sia domiciliato nel territorio di uno Stato membro.
Roma, 14 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-14/07 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Notificazione e
comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali
in materia civile o commerciale – Art. 8, n. 1, del regolamento
(CE) del Consiglio 29 maggio 2000, n. 1348 – Ordinanza del 21 dicembre
2006, depositata il 22 gennaio e notificata il 2 marzo 2007, del
Bundesgerichtshof – Germania (cs. 12789/07, avv. dello Stato W.
Ferrante).
IL FATTO
L’attrice, una società tedesca, ha notificato un atto di citazione alla convenuta,
una società inglese, per il risarcimento del danno derivante dall’esecuzione
di un contratto avente ad oggetto un progetto edilizio che la convenuta
avrebbe dovuto realizzare per la città di Berlino.
Nel contratto era stato stabilito che il progetto sarebbe stato redatto in
lingua tedesca e che la corrispondenza tra le parti e le istituzioni pubbliche
sarebbe avvenuta in lingua tedesca.
La convenuta si è rifiutata di ricevere la notifica dell’atto di citazione in
quanto solo questo e non anche gli allegati erano stati tradotti in lingua inglese.
L’articolo 8, par. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 29 maggio
2000, n. 1348 consente infatti al destinatario della notificazione di rifiutare
di ricevere l’atto oggetto della notificazione qualora questo sia redatto in una
lingua diversa da una delle seguenti: a) la lingua ufficiale dello Stato membro
richiesto, oppure, qualora lo Stato membro richiesto abbia più lingue
ufficiali, la lingua o una delle lingue del luogo in cui deve essere eseguita la
notificazione; b) una lingua dello Stato membro mittente compresa dal destinatario.
I QUESITI
1.- Se l’articolo 8, par. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 29
maggio 2000, n. 1348, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 319
Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale,
debba essere interpretato nel senso che il destinatario non può
rifiutare di ricevere l’atto oggetto di una notificazione se i relativi allegati
sono redatti in una lingua diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro
richiesto ovvero da una delle lingue dello Stato membro mittente compresa
dal destinatario;
2.- In caso di soluzione negativa, se l’art. 8, par. 1, lett. b) del regolamento
debba essere interpretato nel senso che il destinatario comprende la lingua
dello Stato membro mittente allorquando abbia già convenuto con l’istante,
nell’esercizio della propria attività commerciale, che la corrispondenza sia
scambiata in quella lingua;
3.- In caso di ulteriore soluzione negativa, se l’art. 8, par. 1, del regolamento
debba essere interpretato nel senso che esso non legittima il rifiuto di ricevere
documenti allegati all’atto notificato che siano redatti in una lingua diversa
dalla lingua ufficiale dello Stato membro richiesto (ovvero da una delle lingue
dello Stato membro mittente compresa dal destinatario), se nell’esercizio
della sua attività commerciale egli ha convenuto e stipulato che la corrispondenza
sia scambiata nella lingua dello Stato mittente e gli allegati notificati
rientrino in questo scambio di corrispondenza e siano redatti in quella lingua.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«(…) Il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che l’art. 8,
n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso
che il destinatario può rifiutare di ricevere l’atto oggetto di una notificazione
se i relativi allegati sono redatti in una lingua diversa dalla lingua ufficiale
dello Stato membro richiesto ovvero da una lingua dello Stato mittente
compresa dal destinatario.
La predetta norma, che impone di tradurre l’atto da notificare in una lingua
compresa dal destinatario della notificazione, è volta a tutelare gli interessi
di quest’ultimo (considerando n. 10 del regolamento n. 1348/2000/CE),
consentendogli di conoscere il contenuto della domanda e delle ragioni su
cui essa si fonda e di predisporre le proprie eventuali difese nel modo che
ritenga più opportuno.
Se lo scopo della norma è quello di assicurare l’esercizio del diritto di difesa
e di rendere effettiva la garanzia del contraddittorio tra le parti, al fine di
darne piena attuazione occorrerà interpretarla nel senso che l’onere della traduzione
non investe soltanto l’atto giudiziario o stragiudiziale che viene notificato,
ma anche tutti i documenti ad esso allegati e contestualmente notificati.
Un dato testuale sembra sorreggere questa interpretazione. L’articolo 8,
par. 2, del regolamento stabilisce che, qualora il destinatario rifiuti di ricevere
l’atto a norma del par. 1, l’organo che cura la notificazione restituisce al
mittente “la domanda e i documenti di cui si chiede la traduzione”.
L’uso del sostantivo plurale consente di ritenere che la traduzione richiesta
nelle ipotesi contemplate dall’articolo 8, par. 1, deve essere completa,
riguardando tutti i documenti di cui si chiede la notificazione, e cioè l’atto
giudiziario o stragiudiziale con i relativi allegati.
320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Al destinatario della notificazione deve quindi essere riconosciuto il
diritto di rifiutare l’atto anche quando i requisiti di traduzione previsti dall’art.
8, par. 1, del regolamento non siano soddisfatti limitatamente ad uno o
più documenti allegati.
Troveranno peraltro applicazione anche ai documenti allegati i principi
espressi da Corte di giustizia, 8 novembre 2005, causa C-443, Leffler, secondo
cui l’articolo 8, par. 1, del regolamento va interpretato nel senso che qualora
il destinatario di un atto lo abbia rifiutato perché non redatto in una lingua
ufficiale dello Stato membro richiesto o in una lingua dello Stato membro
mittente che il destinatario comprende, il mittente ha la possibilità di
rimediarvi inviando la traduzione dell’atto ovvero, come in questo caso, dei
documenti ad esso allegati.
È vero che nel formulario allegato al citato regolamento, da utilizzare
per le istanze di notifica in altri Stati membri ex art. 4, n. 3, sono richieste
indicazioni sul tipo di atto e sulla lingua da utilizzare solo con riferimento
all’atto notificando e non anche in relazione ai suoi allegati, per i quali è sufficiente
che ne sia indicato il numero.
È anche vero però che, secondo il diritto tedesco, gli allegati cui l’attore
si riferisce nell’atto di citazione fanno parte integrante dell’atto notificando
e costituiscono un unicum tanto che se l’atto viene notificato senza gli allegati
la notifica è da ritenersi nulla.
Ne deriva che il pieno rispetto del principio del contraddittorio non può
essere garantito che richiedendo la traduzione di tutti gli atti e documenti
notificati al fine di rendere intelligibile al destinatario ogni elemento della
domanda, ivi compresi i documenti allegati all’atto di citazione e solo parzialmente
riprodotti in quest’ultimo, sui quali la domanda medesima si fonda
e che non fossero previamente noti al convenuto, come è stato accertato nel
caso di specie dal giudice del rinvio pregiudiziale.
In ordine al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 8, n. 1
lett. b) del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso
che non si può presumere che il destinatario comprenda la lingua dello Stato
membro mittente solo perché ha convenuto e stipulato con l’istante, nell’esercizio
della sua attività commerciale, che la corrispondenza sia scambiata
in quella lingua.
Il potere di rifiutare un atto redatto in una lingua diversa da quella conosciuta
dal destinatario della notificazione non sembra possa venir meno per
il solo fatto che le parti abbiano convenuto di utilizzare quella lingua nello
scambio della loro corrispondenza.
Va in primo luogo escluso che tale convenzione costituisca un elemento
indiziario certo ed univoco su cui fondare una presunzione legale di conoscenza
di quella lingua da parte del destinatario della notificazione.
Questi infatti potrebbe semplicemente essersi assunto l’onere di far tradurre
i documenti redatti nella lingua dell’altro contraente, a lui sconosciuta.
Non può quindi ritenersi senz’altro soddisfatto il requisito di cui all’articolo
8. par. 1, lett b), che consente di notificare l’atto in una lingua dello
Stato membro mittente che sia “compresa dal destinatario”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 321
Al riguardo è lecito dubitare del fatto che gli accordi sulla scelta convenzionale
di una lingua possano vincolare il contraente all’uso della stessa
anche nella fase patologica del rapporto contrattuale, soprattutto allorquando
il conflitto tra le parti si trasferisca in sede giurisdizionale, facendo sorgere
la necessità di attuare in modo pieno il diritto di difesa ed il principio
del contraddittorio cui è finalizzata la disposizione contenuta nell’articolo 8,
par. 1 del regolamento.
Sembra quindi difficile sostenere che la clausola contrattuale sull’uso di
una lingua possa produrre gli effetti di una rinuncia preventiva del contraente
ad avvalersi della garanzia prevista dall’articolo 8, par. 1 del regolamento
che gli assicura di ricevere un atto giudiziario o stragiudiziale che sia tradotto,
unitamente ai suoi allegati, in una lingua da lui compresa.
L’esclusione di una presunzione legale di conoscenza della lingua da
parte del destinatario della notificazione non preclude comunque al giudice
nazionale di accertare caso per caso se, alla luce degli accordi negoziali
intervenuti tra le parti e di altri elementi indizianti, possa essere affermato
con una ragionevole certezza e nel rispetto del principio della buona fede che
l’atto notificato deve ritenersi redatto in una lingua che il destinatario comprende.
In ordine al terzo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 8, n. 1 del
regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che esso
legittima, in ogni caso, il destinatario a rifiutare di ricevere allegati in lingua
diversa da quella ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da una delle
lingue dello Stato membro mittente da lui compresa anche se, nell’esercizio
della sua attività commerciale, egli ha convenuto e stipulato che la corrispondenza
sia scambiata in quella lingua.
Il giudice del rinvio si chiede se la tutela del destinatario, cui è deputata
la norma di cui all’art. 8 n. 1 del regolamento, debba ritenersi prioritaria in
ogni caso o solo in presenza di contratti transnazionali tra esercenti attività
commerciali e consumatori finali nei quali sia stabilito che la corrispondenza
sia scambiata nella lingua dell’imprenditore, in ragione della particolare
posizione del consumatore che si configura come soggetto debole rispetto
all’imprenditore e che necessita di speciale tutela.
In realtà, sebbene il regolamento n. 1348/2000/CE sia finalizzato alla
semplificazione ed accelerazione della procedura di notificazione degli atti
in materia civile o commerciale per favorire il buon funzionamento del mercato
interno (secondo considerando), le esigenze di garanzia del principio del
contraddittorio e del diritto di difesa non possono comunque essere compresse
nemmeno nei rapporti tra due esercenti attività commerciale, come nella
fattispecie in esame.
Il rifiuto di ricevere la notificazione potrebbe considerarsi “abusivo” solo
nel caso in cui gli allegati siano integralmente trascritti nell’atto giudiziario
tradotto nella lingua del destinatario o qualora i medesimi allegati siano già
noti nel loro complesso al destinatario, a prescindere dalla notificazione, in
quanto rientranti interamente nello scambio di corrispondenza avvenuta tra le
parti, per loro volontà effettuata nella lingua dello Stato mittente.
322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Entrambe queste due condizioni non si sono però verificate nel caso di
specie, come appurato dal giudice del rinvio e pertanto il rifiuto del destinatario
di ricevere l’atto deve ritenersi legittimo. Sotto tale profilo, la seconda
parte del terzo quesito, presupponendo circostanze di fatto che sono state
escluse dal giudice del rinvio, deve ritenersi irricevibile perché irrilevante ai
fini della decisione.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
affermando che l’art. 8, n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba
essere interpretato nel senso che il destinatario può rifiutare di ricevere l’atto
oggetto di una notificazione se i relativi allegati sono redatti in una lingua
diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da
una lingua dello Stato mittente compresa dal destinatario.
Il Governo Italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo
quesito affermando che l’art. 8, n. 1 lett. b) del regolamento n.
1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che non si può presumere
che il destinatario comprenda la lingua dello Stato membro mittente solo
perché ha convenuto e stipulato con l’istante, nell’esercizio della sua attività
commerciale, che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua.
Il Governo Italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il terzo quesito
affermando che l’art. 8, n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba
essere interpretato nel senso che esso legittima, in ogni caso, il destinatario
a rifiutare di ricevere allegati in lingua diversa da quella ufficiale dello Stato
membro richiesto ovvero da una delle lingue dello Stato membro mittente da
lui compresa anche se, nell’esercizio della sua attività commerciale, egli ha
convenuto e stipulato che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua.
Roma, 14 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-68/07 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Regolamento
(CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201 – Ordinanza del 7 febbraio
2007, depositata in data 12 febbraio 2007, notificata il 21 marzo
2007, del Högsta Domstolen – Svezia (cs. 14222/07, avv. dello Stato W.
Ferrante).
IL FATTO
La vicenda riguarda il contenzioso sorto in merito alla sussistenza della
giurisdizione del giudice svedese in ordine alla causa di divorzio intentata da
una cittadina svedese residente in Francia, sposata con un cittadino cubano
residente a Cuba, considerando che la vita matrimoniale si era svolta in
Francia, dove la coppia, durante la convivenza coniugale, aveva avuto la
residenza comune.
IL QUESITO
Nel caso in cui il convenuto in una causa di divorzio non abbia la sua
residenza abituale nel territorio di uno Stato membro e non sia neppure cittadino
di uno Stato membro, se l’istanza di divorzio possa essere esaminata
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 323
da un giudice di uno Stato membro che non è competente ai sensi dell’art. 3
del regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201, anche se un
giudice di un altro Stato membro può essere competente in applicazione di
una delle norme di competenza indicate dall’art. 3.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
« (...) Le norme che entrano in gioco (e in apparente conflitto) a proposito
della determinazione del giudice competente sono:
– gli artt. 3 (Competenza generale in materia di divorzio), 6 (Carattere
esclusivo della competenza giurisdizionale di cui agli articoli 3, 4 e 5), 7
(Competenza residua) del regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre
2003, n. 2201, che individua i criteri per la determinazione della competenza
delle autorità giurisdizionali degli Stati membri sulle questioni inerenti al
divorzio, alla separazione personale dei coniugi e all’annullamento del
matrimonio, in base alle quali nella fattispecie in esame sussisterebbe la giurisdizione
del giudice francese;
– l’art. 2, n. 2 del capo 3 della legge svedese su determinati rapporti giuridici
internazionali riguardanti il matrimonio e la tutela, in base al quale
sarebbe competente il giudice svedese.
Infatti, applicando l’articolo 3 del regolamento 2201/2003 la causa di
divorzio potrebbe essere correttamente intentata solo avanti al giudice francese,
atteso che l’attrice pur essendo svedese risiede in Francia da oltre un
anno; si realizza pertanto l’ipotesi di cui al comma 1, lett. a, secondo alinea
(ultima residenza abituale dei coniugi, in cui uno di essi risiede ancora), nonché
l’ipotesi di cui al comma 1, lett. a, quinto alinea (residenza abituale dell’attore
se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima
della domanda).
In base alla norma di conflitto svedese la causa potrebbe invece validamente
incardinarsi avanti al giudice svedese, competente se il ricorrente è un
cittadino svedese e ha la sua residenza abituale in Svezia o ha avuto in passato
la sua residenza in Svezia a partire al compimento del diciottesimo anno
di età.
Ciò premesso, la Suprema Corte svedese chiede alla Corte di Giustizia
se il complesso delle norme contenute nel regolamento 2201/2003/CE non
consenta di incardinare la causa di divorzio davanti al giudice di uno Stato
membro diverso da quello individuabile attraverso i criteri di cui all’articolo
3, allorché il convenuto non abbia la residenza abituale nel territorio di uno
Stato membro e non sia neppure cittadino di uno Stato membro.
Così inquadrato l’oggetto del rinvio pregiudiziale, si osserva che effettivamente
l’attuale configurazione delle norme del regolamento
2201/2003/CE rende dubbia la soluzione in una vicenda quale quella segnalata
dal giudice svedese.
L’incertezza deriva dal tenore dell’articolo 6 del regolamento che, intitolato
“Carattere esclusivo della competenza giurisdizionale di cui agli articoli
3, 4 e 5”, stabilisce che il coniuge che risiede abitualmente nel territorio
di uno Stato membro, ovvero ha la cittadinanza di uno Stato membro, può
324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
essere convenuto in giudizio davanti alle autorità giurisdizionali di un altro
Stato membro soltanto in forza degli articoli 3, 4 e 5.
Orbene, da tale norma parrebbe di dover desumere, a contrario, la non
esclusività della competenza giurisdizionale individuata ai sensi dell’articolo
3 del regolamento, allorché il coniuge convenuto non risieda abitualmente
nel territorio di alcuno Stato membro ovvero non abbia la cittadinanza di
alcuno Stato membro, come nel caso di specie, essendo il convenuto un cittadino
cubano, ritornato a vivere a Cuba dopo la separazione.
Tale ultima situazione è contemplata dall’art. 7, comma 2 del regolamento
che però disciplina l’ipotesi del convenuto non cittadino UE e non residente
nell’UE in combinazione con quella dell’attore cittadino di uno Stato
membro ma residente in un altro Stato membro (e fin qui la norma sarebbe
calzante) che intenda invocare le norme sulla competenza in vigore in quest’ultimo
Stato membro (e cioè, nel caso di specie, la Francia mentre l’attrice
cittadina svedese residente in Francia intende invece invocare le norme
nazionali svedesi sulla competenza).
Può concludersi quindi che la fattispecie in esame non è specificatamente
disciplinata in via esclusiva dal regolamento 2201/2003/CE e che pertanto
lo stesso non osta all’applicazione delle norme nazionali che conducano
all’individuazione di un giudice di altro Stato membro rispetto a quello individuabile
in base all’art. 3 del regolamento medesimo.
Un ulteriore conforto a tale tesi si trae dal tenore dell’Allegato al Libro
Verde sulla legge applicabile e sulla giurisdizione in materia di divorzio del
14 marzo 2005, in base al quale “L’articolo 6 specifica che il coniuge che sia
abitualmente residente in uno Stato membro o abbia la nazionalità di uno
Stato membro... può essere convenuto in giudizio in un altro Stato membro
unicamente in forza delle regole sulla giurisdizione del Regolamento e non
in base alle norme nazionali sulla giurisdizione”.
Ciò sembra autorizzare il ricorso alle norme nazionali sulla giurisdizione
in ogni altro caso in cui non si verifichino le condizioni previste dal medesimo
articolo 6 (cioè che il convenuto sia cittadino di uno Stato membro o
sia residente in uno Stato membro).
Inoltre, in occasione dell’attuale negoziazione di una modifica al regolamento
2201/2003/CE, nella parte illustrativa delle modifiche proposte dalla
Commissione, si legge che “L’articolo 6 è soppresso. La consultazione pubblica
ha rivelato infatti che tale previsione può causare confusione. È inoltre
superflua in quanto gli articoli 3, 4 e 5 descrivono in quali circostanze un tribunale
ha competenza esclusiva...”.
Nella vigenza del citato art. 6 può comunque escludersi che tale norma
preveda una competenza esclusiva in relazione alla fattispecie in esame,
restando ferma la possibilità di invocare le norme nazionali, che non si atteggiano
come contrastanti con quelle comunitarie ma meramente complementari
ad esse.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il Governo italiano propone
quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso di ritenere che, nel
caso in cui il convenuto in una causa di divorzio non abbia la sua residen-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 325
za abituale nel territorio di uno Stato membro e non sia neppure cittadino
di uno Stato membro, l’istanza di divorzio possa essere esaminata da un
giudice di uno Stato membro che non è competente ai sensi dell’art. 3 del
regolamento 2201/2003/CE, ma che è competente in base alle norme nazionali
dello Stato membro dell’attore anche se un giudice di un altro Stato
membro può essere competente in applicazione di uno dei criteri di collegamento
indicati dall’art. 3.
Roma, 30 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Cause riunite C-128/07, C-129/07, C-130/07, C-131/07 (domande di pronuncia
pregiudiziale) – M.A. ed altri c/ Agenzia delle Entrate di Latina
– Ordinanze emesse il 26 gennaio 2007 dalla Commissione Tributaria
Provinciale di Latina (ct. 21789/07, avv. dello Stato W. Ferrante).
IL FATTO
La questione trae origine da quattro ricorsi analoghi proposti avverso il
silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di Latina in ordine ad istanza di
rimborso.
A tale ufficio i ricorrenti avevano chiesto il rimborso della somma che
asserivano esser loro stata illegittimamente trattenuta a titolo di IRPEF
(Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) sulla somma ricevuta nel 2002
(nel 2003 per il Ciampi) dal proprio datore di lavoro nell’ambito di un piano
aziendale diretto ad incentivare l’esodo anticipato dei lavoratori.
I ricorrenti precisavano che in base all’articolo 19 comma 4 bis del
d.P.R. 917/86 tale indennità era sottoposta ad una tassazione agevolata – il
50% di quella normalmente gravante sul TFR (Trattamento di fine rapporto)
– per i soggetti che avevano superato i 50 anni di età, se donne , ed i 55 anni
se uomini.
Poiché i ricorrenti avevano all’epoca un’età compresa tra i 50 e 55 anni,
lamentavano l’ingiustificata disparità di trattamento con le lavoratrici che,
nella loro stessa situazione, avrebbero potuto usufruire dell’agevolazione
fiscale.
I QUESITI
1.- Se la sentenza C-207/04 debba essere interpretata nel senso che il
legislatore italiano avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di
età vantaggioso previsto per le donne.
2.- Se nel caso in esame si deve statuire che agli uomini a partire dai 50
anni devono applicarsi sulle somme di incentivazione all’esodo l’aliquota
pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R..
3.- Se, considerato che gli importi versati dal contribuente per IRPEF
non costituiscono elemento della retribuzione non essendo pagati dal datore
di lavoro in ragione del rapporto di lavoro, e considerato che l’importo ver-
326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sato, per favorire l’incentivazione, dal datore di lavoro al lavoratore non ha
natura retributiva, sia conforme al diritto comunitario statuire che la differenza
di età , 50 anni per le donne e 55 per gli uomini, sia contraria al diritto
comunitario ritenuto che la Direttiva n. 79/7 consente agli Stati membri di
mantenere limiti di età diversi per il pensionamento.
4.- Se l’interpretazione del diritto comunitario (Direttiva del Consiglio 9
febbraio 1976, 76/207/CEE che vieta la discriminazione fondata sul sesso)
osta o non osta all’applicazione della norma nazionale da cui ha tratto spunto
il caso portato all’esame della Corte, significando a questo giudice nazionale
l’incompatibilità della norma interna (art. 17 ora 19 comma 4 bis d.P.R.
917/86) ovvero la compatibilità.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
La sentenza C-207/04
La pretesa dei ricorrenti «risulterebbe avvalorata alla luce della sentenza
della Corte di giustizia del 21 luglio 2005, causa 207/04, Vergani che ha
ritenuto il citato articolo 19, comma 4 bis non conforme alla direttiva
76/207/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento
fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione
e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.
Con la predetta sentenza, la Corte ha preliminarmente escluso che la predetta
disposizione possa essere ricondotta nell’ambito dell’art. 141 del
Trattato, che afferma il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di
sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un
lavoro di pari valore, richiamando la propria giurisprudenza che qualifica la
retribuzione come l’insieme di “tutti i vantaggi, in contanti o in natura, attuali
o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente, dal datore di lavoro
al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, in forza di un contratto
di lavoro, di disposizioni di legge ovvero a titolo volontario” (sent. 6 febbraio
1996, causa C-457/93).
Atteso che l’incentivo all’esodo proviene dallo Stato, con uno sgravio
fiscale, e non dal datore di lavoro, la disposizione non rientra, secondo la
Corte, nell’ambito di applicazione dell’art. 141 del Trattato bensì in quello
della Direttiva 76/207/CEE, volta ad attuare negli Stati membri il principio
della parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici, ed in particolare dell’art.
5 che impone la parità di trattamento anche con riguardo alle condizioni
inerenti al licenziamento.
Secondo la Corte, l’agevolazione fiscale costituisce infatti una condizione
di licenziamento, dovendo il termine “licenziamento” ricomprendere anche la
cessazione del rapporto di lavoro conseguente ad un’interruzione volontaria
del rapporto medesimo (sentenza 16 febbraio 1982, causa 19/81, Burton).
Rispetto alla predetta agevolazione, il divieto di trattamento non discriminatorio
non può essere giustificato, secondo la Corte, invocando la deroga
prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a) della Direttiva 79/7/CEE, relativa alla graduale
attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne
in materia di sicurezza sociale, secondo cui la direttiva non pregiudica la
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 327
facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione la fissazione
del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di
fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni.
Secondo la citata sentenza C-207/04, infatti, la disciplina derogatoria in
quanto eccezionale deve essere interpretata restrittivamente, riferendosi soltanto
alla fissazione dell’età del pensionamento per la corresponsione delle
pensioni di vecchiaia e di anzianità ed alle conseguenze che ne derivano per
altre prestazioni previdenziali mentre non è applicabile ad un’agevolazione
fiscale che non costituisce una prestazione previdenziale.
La normativa nazionale.
A norma dell’articolo 19, comma 4 bis, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n.
917 (introdotto dal 1° gennaio 1998 dall’articolo 5 del Decreto Legislativo 2
settembre 1997, n. 314) “Per le somme corrisposte in occasione della cessazione
del rapporto al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori che abbiano
superato l’età di 50 anni se donne e di 55 anni se uomini, di cui all’articolo
17, comma 1, lettera a), l’imposta si applica con l’aliquota pari alla
metà di quella applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e
delle altre indennità e somme indicate alla richiamata lettera a) del comma
1 dell’articolo 17”.
Al riguardo si precisa che l’articolo 36, comma 23, del decreto legge 4
luglio 2006, n. 223 (convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della
legge 4 agosto 2006, n. 248) ha abrogato il comma 4 bis dell’articolo 19 del
TUIR (Testo Unico delle imposte sui redditi), come si legge in relazione illustrativa,
“anche al fine di eliminare i profili di incompatibilità con la normativa
comunitaria, evidenziati dalla Corte di Giustizia Europea con la sentenza
C-207/04”.
La stessa norma, tuttavia, precisa che la disciplina di cui al predetto
comma 4 bis continua ad applicarsi con riferimento alle somme corrisposte in
relazione a rapporti di lavoro cessati prima della data di entrata in vigore del
presente decreto (4 luglio 2006), nonché con riferimento alle somme corrisposte
in relazione a rapporti di lavoro cessati in attuazione di atti o accordi,
aventi data certa, anteriori alla data di entrata in vigore dello stesso decreto.
Al fine di eliminare i profili di incompatibilità della normativa nazionale
con quella comunitaria, il legislatore italiano ha ritenuto opportuno abrogare
il comma 4 bis dell’art. 19 del TUIR, facendo salvi però i diritti di coloro
che avevano già contrattato un piano incentivato di esodo.
Posto quindi che la norma ritenuta non conforme al diritto comunitario
è stata definitivamente espunta dall’ordinamento giuridico italiano, in ossequio
alla citata sentenza C-207/04, il giudice del rinvio pregiudiziale, chiede
alla Corte di giustizia una “interpretazione autentica” della propria sentenza
C-207/04 al fine di stabilire entro quali limiti la stessa possa avere effetti
retroattivi in relazione alle situazioni sorte precedentemente.
Non viene però denunciata espressamente l’eventuale non conformità ai
principi comunitari della normativa transitoria prevista con la richiamata
disposizione abrogatrice, che viene invece ritenuta “ininfluente”.
328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La normativa comunitaria.
L’articolo 141 CE dispone:
1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della
parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile
per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o
trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente
o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al
lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.
La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:
a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo
sia fissata in base a una stessa unità di misura,
b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia
uguale per uno stesso posto di lavoro.
3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251
e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che
assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità
di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi
compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o
per un lavoro di pari valore.
4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e
donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta
a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi
specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte
del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle
carriere professionali.
La direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità
di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al
lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di
lavoro, all’art. 5, paragrafo 1 dispone:
L’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto
riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento,
implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime
condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso.
Per completezza, si fa presente che, a decorrere dal 15 agosto 2009, è
stata disposta l’abrogazione della direttiva 76/207/CEE ad opera della direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 n. 2006/54/CE,
riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di
trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.
La direttiva 79/7/CEE recante “Direttiva del Consiglio relativa alla graduale
attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le
donne in materia di sicurezza sociale”, all’articolo 7 paragrafo 1 dispone:
La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di
escludere dal suo campo di applicazione:
a) la fissazione dei limiti di età per la concessione della pensione di vec-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 329
chiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni;
….
La risposta ai quesiti.
Possono essere trattati congiuntamente i primi due quesiti, con i quali il
giudice del rinvio chiede sostanzialmente se dalla sentenza C-207/04 della
Corte si possa far derivare un obbligo per il legislatore italiano di estendere
anche agli uomini il limite di età più vantaggioso previsto per le donne (50
anni anziché 55), al fine di poter fruire del trattamento fiscale più favorevole
per la tassazione dell’incentivo all’esodo anticipato, applicando l’aliquota
pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R..
Il Governo italiano ritiene che ad entrambi i quesiti debba essere data
risposta negativa.
Con la sentenza n. 207/04, la Corte di Giustizia si è limitata ad affermare
l’illegittimità di limiti differenti, tra uomini e donne, per poter fruire delle
modalità di tassazione più favorevoli, senza affermare che il legislatore italiano
avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di età più vantaggioso
previsto per le donne.
In sostanza, dalla pronuncia dell’organo di giustizia comunitario non è
desumibile alcun principio interpretativo che possa vincolare il legislatore
nazionale.
La sentenza, infatti, non definisce i termini e le modalità di applicazione
dell’agevolazione fiscale.
Peraltro, l’adeguamento alla statuizione della Corte potrebbe anche consistere
nell’applicazione alle donne lavoratrici del limite di età più sfavorevole
(55 anni) al fine di poter accedere al beneficio fiscale.
Tale applicazione eliminerebbe egualmente la disparità di trattamento tra
uomini e donne senza però attribuire ai lavoratori maschi l’agevolazione
reclamata dai ricorrenti nelle cause principali.
Proprio in considerazione del fatto che il principio enunciato dalla Corte
potrebbe condurre a due soluzioni diverse (agevolazioni previste per tutti a
50 anni di età, ovvero spettanti solo a chi, uomo o donna, ha compiuto 55
anni di età), si ritiene che debba escludersi la possibilità che il giudice nazionale,
chiamato a giudicare in relazione a situazioni sorte in epoca anteriore
alla sentenza della Corte di Giustizia, possa applicare il trattamento più favorevole
agli uomini che avessero compiuto i 50 anni al momento della percezione
dell’incentivo all’esodo.
In tal senso è stata adottata la Circolare n. 10/E del 16 febbraio 2007 che,
nell’interpretare il regime transitorio introdotto dalla legge n. 248/2006 di
conversione del decreto legge n. 223/2006, ha chiarito che le disposizioni più
favorevoli di cui all’abrogato comma 4 bis dell’art. 19 del TUIR possono
continuare ad essere applicate alle somme corrisposte in relazione a rapporti
di lavoro cessati prima del 4 luglio 2006 oppure cessati successivamente
purché in attuazione di atti o accordi aventi data certa anteriore al 4 luglio
2006, “fermi restando i requisiti di età previsti dall’abrogato comma 4 bis
dell’art. 19 del TUIR”.
330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Né può ritenersi che il giudice nazionale possa disapplicare la normativa
transitoria interna applicando direttamente la direttiva 76/207/CEE.
Com’è noto, perché possa ipotizzarsi una applicazione diretta delle direttive
comunitarie è necessario che si tratti di direttiva “autoapplicativa”, che
sia scaduto il termine per gli Stati membri per provvedere al recepimento
della stessa e che la direttiva preveda veri e propri diritti in capo ai singoli
individui e non mere norme programmatiche rivolte agli Stati membri.
Ebbene, nel caso di specie può essere certamente escluso che la richiamata
direttiva attribuisca direttamente ai lavoratori uomini di età compresa tra i
50 e i 55 anni il diritto all’agevolazione fiscale della riduzione alla metà dell’aliquota
applicabile normalmente al TFR per incentivare l’esodo anticipato.
La direttiva medesima si limita a fissare il principio di parità di trattamento
tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la
promozione, la formazione professionale, le condizioni di lavoro, la previdenza
sociale (art. 1) e le condizioni inerenti al licenziamento (art. 5),
lasciando ampi margini agli Stati membri per rendere effettivo tale principio.
Peraltro, va sottolineato che il diverso trattamento fiscale di cui all’abrogato
art. 19 comma 4 bis in realtà derivava direttamente dalla diversa età pensionabile,
fissata – del tutto legittimamente alla luce dell’art. 7, paragrafo 1
lettera a) della direttiva 79/7/CEE – per gli uomini a 65 anni e per le donne a
60 (art. 1 e tabella 1 del Decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 503).
L’agevolazione fiscale ora soppressa – il cui scopo era quello di incentivare
la cessazione anticipata del rapporto di lavoro per quei lavoratori che
hanno raggiunto un’età prossima a quella prevista per la pensione di vecchiaia
– spettava in sostanza a tutti coloro, uomini o donne, che avessero un
tempo residuo di lavoro, prima di ottenere la pensione di vecchiaia, pari o
inferiore a dieci anni.
Sebbene la Corte abbia interpretato restrittivamente la facoltà derogatoria
degli Stati membri di cui al citato art. 7, paragrafo 1, lett. a), che consente
di escludere dal campo di applicazione della direttiva la fissazione del
limite dell’età pensionabile “e le conseguenze che possono derivare per altre
prestazioni”, appare necessario circoscrivere l’efficacia della sentenza C-
207/04 – non avendo la stessa indicato una soluzione vincolante – nell’obbligo
dello Stato di adeguare la propria legislazione al principio nella stessa
enunciato.
Cosa che è puntualmente accaduta con l’abrogazione della norma censurata,
sebbene necessariamente accompagnata da un regime transitorio che
rendesse intangibile la disciplina delle fattispecie già realizzate nel vigore
della norma abrogata.
Sarebbe stato invero irragionevole elevare per entrambi i sessi il limite
di età a 55 anni, con conseguente obbligo per le donne di età compresa tra i
50 e i 55 anni, che avessero beneficiato dell’incentivo fiscale all’esodo, di
restituire le somme percepite in eccesso per effetto dell’applicazione dell’aliquota
pari alla metà rispetto a quella normalmente applicata, con evidente
compromissione del loro affidamento nell’accettare la cessazione anticipata
del rapporto di lavoro a quelle – e non ad altre – condizioni.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 331
All’opposto, abbassare per entrambi i sessi il limite di età a 50 anni comporterebbe
il proliferare di istanze di rimborso di tutti gli uomini di età compresa
tra i 50 e i 55 anni che avrebbero potuto usufruire dell’agevolazione
fiscale, sebbene in questo caso non vi sarebbe da tutelare alcun affidamento,
con oneri aggiuntivi per l’erario privi della necessaria copertura finanziaria
che, in ossequio ai vincoli di bilancio, deve accompagnare tutte le leggi che
comportino nuovi oneri per lo Stato.
La via intermedia adottata dal legislatore italiano di far salvi i rapporti
pregressi, con abrogazione ex nunc della disposizione censurata dalla Corte,
appare quindi la più idonea a contemperare i contrapposti interessi.
Quanto al terzo e al quarto quesito, pare che la Commissione Tributaria
Provinciale di Latina riproponga alla Corte questioni già affrontate con la
sentenza C-207/04, in relazione alle quali, ove ritenute ammissibili, non possono
che richiamarsi le osservazioni già esposte in quella sede.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
affermando che la sentenza C-207/04 debba essere interpretata nel
senso che il legislatore italiano non avrebbe dovuto estendere anche agli
uomini il limite di età vantaggioso previsto per le donne.
Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito
nel senso che, nel caso in esame, agli uomini di età compresa tra i 50 e
i 55 anni, non deve applicarsi sulle somme di incentivazione all’esodo l’aliquota
pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R..
Il Governo italiano ritiene che il terzo e il quarto quesito si sostanzino in una
riproposizione di questioni già risolte dalla Corte con la sentenza C-207/04.
Roma, 2 luglio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-504/07 (Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica
italiana) – Ricorso notificato il 20 febbraio 2007 – Art. 3, par. 1, direttiva
92/57/CEE del Consiglio del 24 giugno 1992 – Prescrizioni minime
di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili (ottava
direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, paragrafo 1, della direttiva
89/391/CEE) (ct. 8231/07, avv. dello Stato W. Ferrante).
IL RICORSO
La Commissione delle Comunità Europee ha adito la Corte di Giustizia
delle Comunità Europee allo scopo di far constatare che: “ non recependo correttamente
in diritto italiano l’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 92/57/CEE
del Consiglio del 24 giugno 1992, riguardante le prescrizioni minime di sicurezza
e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili (ottava direttiva
particolare ai sensi dell’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) la
Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in virtù dell’articolo
3.1 della direttiva”.
IL CONTRORICORSO DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
“(…) L’art. 3 della citata direttiva dispone:
“1. Il committente o il responsabile dei lavori designa uno o più coordi-
332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
natori in materia di sicurezza e di salute, quali sono definiti all’articolo 2,
lettere e) ed f), per un cantiere in cui sono presenti più imprese.
2. Il committente o il responsabile dei lavori controlla che sia redatto,
prima dell’apertura del cantiere, un piano di sicurezza e di salute conformemente
all’articolo 5, lettera b).
Previa consultazione delle parti sociali, gli Stati membri possono derogare
al primo comma, tranne nel caso in cui si tratti di lavori che comportano
rischi particolari quali sono enumerati all’allegato II”.
Il Governo italiano precisa che la direttiva in questione è stata recepita
nell’ordinamento nazionale con il decreto legislativo del 14 agosto 1996 n.
494 che, all’articolo 3, commi 3 e 4, dispone:
“3. Nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese, anche non
contemporanea, il committente o il responsabile dei lavori, contestualmente
all’affidamento dell’incarico di progettazione, designa il coordinatore per la
progettazione in ognuno dei seguenti casi:
a) nei cantieri la cui entità presunta del cantiere è pari o superiore ai
200 uomini-giorno;
b) nei cantieri i cui lavori comportano rischi particolari elencati nell’allegato
II.
4. Nei casi di cui al comma 3, il committente o il responsabile dei lavori,
prima dell’affidamento dei lavori, designa il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori, che deve essere in possesso dei requisiti di cui all’articolo 10”.
Secondo la Commissione, la direttiva non prevede alcuna eccezione all’obbligo
di designare i coordinatori, riguardando la possibilità di deroga solo la
redazione, prima dell’apertura del cantiere, di un piano di sicurezza e salute.
Nella legislazione italiana invece, l’obbligo di designare i coordinatori
sarebbe limitato ai casi di cui al citato articolo 3, comma 3 lettere a) e b),
ovvero ai cantieri la cui entità è pari o superiore a 200 uomini-giorno e a
quelli i cui lavori comportano i rischi particolari elencati nell’allegato II.
Peraltro, come dedotto dalle autorità italiane nella procedura precontenziosa,
i cantieri non rientranti nelle due suddette categorie, sono comunque
coperti dall’applicazione del decreto legislativo n. 626/1994, il cui art. 7 ha
recepito l’obbligo generale di coordinamento posto in capo ai datori di lavoro,
quando in un cantiere siano presenti più imprese, dall’art. 6, paragrafo 4,
della direttiva 89/391/CEE del Consiglio del 12 giugno 1989.
Ciò premesso, il Governo italiano rileva, innanzitutto, che, da un punto
di vista strettamente formale, la situazione di inadempienza rilevata dalla
Commissione deriva – come la stessa Commissione riconosce – da un equivoco
linguistico in quanto, nella versione italiana della direttiva, la parola
“comma” è stata interpretata ed utilizzata secondo l’uso corrente in Italia e
non secondo l’accezione comunitaria mentre al predetto termine “comma”,
presente nella direttiva, si sarebbe dovuta associare l’accezione corrispondente
al termine “periodo” ovvero “capoverso”.
Infatti, secondo, la terminologia comunitaria, il “paragrafo” corrisponde
al termine italiano “comma” mentre il “comma” corrisponde al termine italiano
“periodo” o “capoverso”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 333
Pertanto, la possibilità di deroga al “comma” 1, secondo il legislatore
comunitario si riferiva ad una certa parte della norma e secondo il legislatore
italiano ad un’altra parte della norma.
Al riguardo si può certamente concordare con la considerazione della
Commissione secondo cui “differenze nella struttura della tecnica legislativa
utilizzata dagli Stati membri non possono tradursi in differenze nel recepimento
di una direttiva comunitaria”, ma va nel contempo sottolineato che
le versioni della direttiva nelle singole lingue nazionali vengono elaborate a
cura dei pertinenti servizi del Consiglio U.E. e dallo stesso convalidate all’esito
di un processo di controllo che vede la partecipazione dei c.d. giuristi
linguisti, che sono specialisti nella tecnica terminologico-giuridica.
Ne consegue, da una parte, l’evidente buona fede del legislatore nazionale
nel recepire la direttiva sulla base di un testo siffatto e dall’altra l’impossibilità
di emendare il testo di recepimento, nello specifico il decreto
legislativo n. 494/96, fino alla pubblicazione e alla notifica di una specifica
ed ufficiale nota di rettifica che riallinei il testo della versione italiana della
direttiva alle altre versioni linguistiche.
In mancanza di siffatta rettifica, non si ritiene possibile iniziare una procedura
di modifica del citato D.Lgs. n. 494/96.
Sul piano sostanziale occorre, invece, rilevare che le considerazioni di
merito della Commissione appaiono poco condivisibili.
Infatti, la Commissione sostiene che intendimento della direttiva è quello
di consentire agli Stati membri di derogare, a determinate condizioni, unicamente
alla disposizione in base alla quale il committente deve controllare
che sia redatto, da parte del coordinatore, prima dell’apertura del cantiere, un
piano di sicurezza e coordinamento mentre, invece, il legislatore italiano ha
derogato (come del resto la legittima lettura, secondo le accezioni nazionali,
dei termini usati nel testo della direttiva autorizza a ritenere corretto) all’obbligo
stesso di designare il coordinatore.
Riguardo a ciò si osserva, in primo luogo, che la deroga prevista nel D.Lgs.
n. 494/96 concerne, effettivamente, la designazione del coordinatore ma solo
nel caso di cantieri di entità piuttosto ridotta (non superiore a 200 uomini-giorno)
e sempreché i relativi lavori non comportino i rischi particolari elencati nell’allegato
II, vale a dire, ad esempio, cantieri – peraltro frequenti – di semplice
ristrutturazione di un appartamento di 100 mq. adibito a civile abitazione che
necessiti di: adeguamento dell’impianto elettrico alla vigente normativa, esecuzione
di un nuovo bagno di servizio con relative opere murarie e conseguente
adeguamento dell’impianto idraulico, esecuzione di impianto termico, preparazione
delle superfici e conseguente tinteggiatura di pareti e soffitti, revisione di
infissi interni ed esterni ed arrotatura e lucidatura dei pavimenti.
Nella fattispecie di cui sopra, la designazione dei coordinatori costituirebbe,
solo ed esclusivamente, un ulteriore aggravio di adempimenti burocratici
– contrario a quel principio che mira alla semplificazione delle disposizioni
vigenti – nonché di costi, assolutamente non giustificati, che nulla
aggiungerebbero alla sicurezza dei lavoratori, rispetto a quanto già previsto
dal richiamato decreto legislativo n. 626/94.
334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In tali casi infatti, le concrete esigenze di sicurezza, rispetto al rischio –
caratteristico dei cantieri – di interferenza o incompatibilità tra le operazioni
condotte dalle singole imprese per mancato coordinamento “esterno”, hanno
certamente entità ridotta, come riconosciuto anche dalle parti sociali che sul
punto, come richiesto dalla direttiva, sono state consultate e si sono ritrovate
d’accordo all’atto della trasposizione.
In secondo luogo, c’è da chiedersi quale vantaggio per la tutela dei lavoratori,
comporta – seguendo il pensiero della Commissione – l’obbligo di
designare un coordinatore per un cantiere per il quale, pur in presenza di più
imprese, si ritenga tuttavia non necessaria la redazione di un piano di sicurezza
e coordinamento.
In effetti, il vero valore aggiunto dell’intervento del coordinatore consiste
proprio nel fatto che questi – mediante la redazione del piano di sicurezza
e coordinamento – stabilisce le regole applicabili al cantiere interessato,
tenendo conto, se del caso, delle attività che vengono effettuate sul luogo.
Su questo punto, la Commissione obietta, osservando che, in aggiunta
alla redazione del piano, al coordinatore incombono altre funzioni ed obblighi
ritenuti rilevanti a fini della sicurezza dei lavoratori.
A tale proposito, si deve osservare che i compiti “residui” del coordinatore
non appaiono di importanza tale da giustificare sempre e necessariamente
la nomina e la presenza di una figura professionale “esterna alle imprese
esecutrici” operanti in cantieri di entità veramente modesta, quali quelli che
beneficiano della deroga contestata dalla Commissione.
Occorre, invece, prendere atto che in un siffatto contesto operativo,
anche in assenza di un obbligo di nomina del coordinatore, non mancano
strumenti di sicurezza adeguati.
Infatti, non solo restano fermi gli obblighi del committente (o del
responsabile operante in suo nome) di sorveglianza riguardo alle attività
svolte dalle imprese per suo conto, ma, soprattutto, la corretta gestione dei
rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori risulta garantita dall’applicazione,
da parte di ogni singolo datore di lavoro, delle disposizioni del Titolo 1
del D.Lgs. n. 626/94, che traspone in dettaglio gli obblighi individuati dalla
direttiva “quadro” 89/391/CEE a carico di tale soggetto.
Ciò vale, da un lato, per la predisposizione di eventuali misure di coordinamento
la cui necessità può – e deve – essere rilevata in esito alla valutazione,
cui ciascuna impresa è obbligata, dei rischi decorrenti dalle proprie
attività – tra i quali vengono di norma messi in conto anche quelli dovuti alla
compresenza, interferenza ed incompatibilità delle operazioni – rischi che
saranno presenti con entità proporzionale alle corrispondenti dimensioni del
cantiere, e, dall’altro, per la messa a punto delle corrispondenti procedure di
sicurezza che ognuna delle imprese operanti è obbligata ad individuare,
applicare e tenere sotto controllo.
Si ribadisce, in definitiva, che nel quadro derogatorio considerato dal
legislatore italiano (cantieri di entità inferiore a 200 uomini-giorno) l’obbligo
di designazione dei coordinatori rappresenta un mero aggravio di costi
per il committente e non comporta un concreto beneficio in termini di incre-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 335
mento dei livelli di sicurezza rispetto a quelli conseguibili dall’applicazione
puntuale delle disposizioni del D.Lgs. n. 626/94 di recepimento della direttiva
89/391/CEE.
Si evidenzia, comunque, che ai fini della tutela della sicurezza dei lavoratori,
in piena aderenza agli inderogabili principi ispiratori della direttiva
92/57/CEE, il D.Lgs. n. 494/96 impone l’obbligo della designazione dei
coordinatori oltre che nel caso di cantieri di entità pari o superiore ai 200
uomini-giorno anche a quelli i cui lavori comportano i rischi particolari di
cui all’allegato II del citato D.Lgs. n. 494/96.
Considerata infatti l’elevata frequenza con cui sono presenti sui cantieri
– indipendentemente dalla loro entità – taluni dei lavori di che trattasi (si
ponga ad esempio mente a quelli che comportano una esigenza legale di sorveglianza
sanitaria, quali quelli che richiedono la movimentazione manuale
di carichi pesanti, quelli che espongono sistematicamente ad elevati livelli di
rumorosità, ecc.) di fatto risulta estremamente improbabile il concretizzarsi
di situazioni che integrino le condizioni per la pratica applicazione della contestata
deroga.
Il Governo italiano conclude pertanto nel senso che l’art. 3, paragrafo 1
della direttiva 92/57/CEE è stato correttamente recepito nell’ordinamento
nazionale dall’art. 3, commi 3 e 4 del decreto legislativo n. 494/1996, sia dal
punto di vista formale che sostanziale, anche tenuto conto delle garanzie per
la sicurezza e la salute dei lavoratori comunque assicurate dal decreto legislativo
n. 626/1994 che ha recepito la direttiva 89/391/CEE.
Roma, 28 marzo 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
LA MEMORIA DI CONTROREPLICA DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«(…) Con la presente memoria, il Governo italiano intende controdedurre
alle argomentazioni esposte dalla Commissione delle Comunità europee
con la memoria di replica del 16 maggio 2007.
Per quanto concerne la giustificazione formale alle modalità di recepimento
dell’art. 3 della citata direttiva 92/57/CEE, si ribadisce che il riferimento
della possibilità di deroga all’obbligo di nominare un coordinatore per
la sicurezza anziché all’obbligo di redigere un piano di sicurezza e di salute
è dovuto ad un equivoco linguistico e, segnatamente, al diverso significato
che nel gergo comunitario riveste la parola “comma” rispetto a quello rivestito
nella terminologia giuridica italiana.
La stessa Commissione, al punto 5 della memoria di replica è costretta,
per fugare ogni possibile confusione, a parlare di “sottoparagrafo” per indicare
il concetto di “comma” proprio del diritto comunitario e il concetto di
“periodo” o “capoverso” proprio del diritto italiano.
Quanto alla mancata contestazione di quanto affermato dalla Commissione
al punto 18 del ricorso, si osserva che il legislatore italiano, nel recepire
una direttiva comunitaria, non ha l’onere di verificare la congruità della
traduzione italiana con la versione linguistica degli altri Paesi – ed in particolare
quella tedesca, quella danese, quella spagnola, quella francese, quella
greca, quella olandese, quella portoghese o quella svedese – atteso che il
336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
diritto di ogni Stato membro di esprimersi nella propria lingua e di essere
destinatario di atti normativi o giurisdizionali provenienti dalle Istituzioni
comunitarie tradotti nella propria lingua implica la non necessità di conoscere
le due lingue ufficiali dell’U.E. e tanto meno le lingue degli altri Stati
membri.
Peraltro, proprio dall’esame comparato delle altre traduzioni, si evince
che l’art. 3 della direttiva 92/57/CEE si prestava senz’altro ad una possibile
erronea interpretazione, tanto è vero che la versione linguistica inglese è
stata oggetto di rettifica che ha modificato l’espressione “paragraph” in
quella di “subparagraph”, come ricordato dalla Commissione al punto 13
della memoria di replica e al punto 19 del ricorso.
Quindi, partendo dalla premessa che nel diritto comunitario gli articoli si
dividono i “paragrafi” e i paragrafi si dividono in “commi”, qualora un articolo
non sia composto da un unico paragrafo, come è il caso dell’art. 3 della
direttiva 92/57/CEE, esigenza di chiarezza vorrebbe che il riferimento fosse
fatto sia al paragrafo, sia al comma onde evitare ogni possibile equivoco
generato dalla diversa accezione attribuita ai suddetti termini nel diritto
interno dei singoli Stati membri.
La rettifica della versione italiana dell’art. 3 dovrebbe essere quindi nel
senso che “gli Stati membri possono derogare al paragrafo 2, primo comma …”
Non si può mettere in dubbio la buona fede del legislatore italiano nel
recepire la direttiva 92/57/CEE secondo le regole ermeneutiche del diritto
nazionale.
Anche dal punto di vista sostanziale la procedura d’infrazione in atto non
sembra giustificata.
Quanto al primo e secondo ordine di argomenti addotti dal Governo italiano
a sostegno del corretto recepimento della direttiva e contestati dalla
Commissione, attinenti alla applicabilità della deroga ai soli cantieri di ridotte
dimensioni e i cui lavori non comportino i rischi particolari di cui all’allegato
II del D.Lgs. n. 494/1996 nonché all’intento di evitare ulteriori adempimenti
amministrativi e costi non giustificati, si osserva che il primo e il
secondo considerando della direttiva 92/57/CEE, richiamano l’art. 118A del
Trattato (ora art. 137) che, in relazione all’obiettivo di cui al paragrafo 1, lettera
a) di promuovere il miglioramento dell’ambiente di lavoro, per proteggere
la sicurezza e la salute dei lavoratori, dispone che possono essere adottate,
mediante direttive, le prescrizioni minime applicabili progressivamente,
tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno
Stato membro (art. 137, paragrafo 2 lettera b).
Tale disposizione prescrive inoltre che tali direttive c.d. “sociali” evitino
di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare
la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese (testualmente
ribadito nel secondo considerando della direttiva 92/57/CEE).
Orbene, ritenere che vi sia un obbligo inderogabile di nominare un coordinatore
esterno in tutti i cantieri in cui siano presenti più imprese a prescindere
dalle dimensioni del cantiere medesimo e dall’esistenza di concreti pericoli
per la sicurezza e la salute dei lavoratori non può che comportare gravo-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 337
si oneri amministrativi e finanziari tali da poter compromettere la costituzione
e lo sviluppo delle piccole e medie imprese.
Si sottolinea inoltre che l’inderogabilità dell’obbligo è comunque prevista
dalla normativa italiana per i lavori che espongano i lavoratori a rischi di
seppellimento o di sprofondamento a profondità superiore a 1,5 metri o di
caduta dall’alto da altezza superiore a 2 metri, nonché per i lavori che espongono
i lavoratori a sostanze chimiche o biologiche pericolose per la salute o
a radiazioni ionizzanti, per i lavori in prossimità di linee elettriche aeree, per
i lavori che espongano ad un rischio di annegamento, per i lavori in pozzi,
sterri sotterranei e gallerie, per i lavori subacquei con respiratori, per i lavori
in cassoni ad aria compressa, per i lavori comportanti l’uso di esplosivi,
per i lavori di montaggio o smontaggio di elementi prefabbricati pesanti
(allegato II del D.Lgs. n. 494/1996 richiamato dall’art. 3, comma 3 lettera b)
al fine di escludere per tali lavori l’applicabilità della deroga).
Dal richiamato elenco, si evince chiaramente che i cantieri per i quali è
consentito omettere la nomina del coordinatore per la sicurezza rivestono
una natura assolutamente residuale, considerato altresì che è sufficiente la
ricorrenza di una delle due condizioni elencate dall’art. 3, comma 3 per ritenere
obbligatoria tale nomina: l’entità del cantiere pari o superiore a 200
uomini-giorno ovvero la sussistenza di rischi particolari elencati nell’allegato
II.
Quindi anche un piccolissimo cantiere i cui lavori rientrino nell’elenco
di cui allegato II ovvero un cantiere di dimensione superiore a quella indicata
nella citata norma in cui sia esclusa la ricorrenza dei rischi particolari per
la sicurezza e la salute dei lavoratori soggiacciono comunque all’obbligo di
nominare un coordinatore.
Né può ritenersi che la definizione di coordinatore per la sicurezza,
rispettivamente, durante la progettazione e la realizzazione dell’opera, come
enunciata dall’art. 2, paragrafo 1, lettere e) e f) della direttiva 92/57/CEE, che
indica “qualsiasi persona fisica o giuridica incaricata dal committente …”
consenta di designare anche un dipendente dell’impresa (senza quindi ulteriori
costi) salvaguardando realmente la sicurezza dei lavoratori.
Appare evidente infatti la carenza di indipendenza ed autonomia del
dipendente-coordinatore, il quale avrà concrete remore ad adottare provvedimenti
particolarmente onerosi per il datore di lavoro o che addirittura
sospendano i lavori in attesa dell’adeguamento delle misure di sicurezza, con
conseguenti ingenti pregiudizi economici per il datore di lavoro che potrebbe
con ogni probabilità assumere provvedimenti di ritorsione nei confronti
del dipendente.
La giurisprudenza italiana è infatti giunta ad escludere la concorrente
responsabilità del coordinatore-dipendente, limitando la responsabilità al
committente o al responsabile dei lavori, sul presupposto che la posizione di
subordinazione del dipendente gli impedisce sostanzialmente di assumere
provvedimenti a garanzia della sicurezza dei lavoratori ma pregiudizievoli
per il datore di lavoro senza temere conseguenze sulla propria posizione
lavorativa.
338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
È evidente quindi che la nomina di un coordinatore esterno all’impresa
nei casi di cantieri di entità ridotta o i cui lavori escludano la sussistenza di
rischi particolari per la sicurezza dei lavoratori si traduce in un vincolo
amministrativo, finanziario e giuridico ingiustificato e tale da ostacolare la
crescita e lo sviluppo delle piccole e medie imprese.
Quanto al terzo e quarto ordine di argomenti invocati dal Governo italiano
e confutati dalla Commissione, riguardanti la particolare pregnanza dell’obbligo
di redigere il piano di sicurezza e salute rispetto agli altri compiti
del coordinatore e l’esistenza di altra normativa, il D.Lgs. n. 626/1994, che
già assicura ampiamente la sicurezza nei cantieri in cui sono compresenti più
imprese, a prescindere dalla nomina di un coordinatore, si osserva che gran
parte degli altri compiti del coordinatore sono enucleati mediante rinvio ai
principi generali di prevenzione in materia di norme di sicurezza e di salute
previsti dalla direttiva 89/391/CEE, recepita nell’ordinamento italiano con il
richiamato D.Lgs. n. 626/1994.
In tal senso, si veda l’art. 4, paragrafo 1 della direttiva 92/57/CEE,
richiamato dall’art. 5, paragrafo 1, lettera a) per attribuire ai coordinatori,
durante la progettazione dell’opera, il compito di coordinare l’applicazione
delle disposizioni di cui all’art. 4 che, a loro volta, pongono a carico del
responsabile dei lavori e, se del caso, del committente l’onere di prendere in
considerazione i principi in materia di sicurezza di cui alla citata direttiva
89/391/CEE.
Anche l’art. 6, paragrafo 1, lettera b), primo trattino della direttiva
92/57/CEE richiama, quali compiti dei coordinatori, la verifica circa la
coerente applicazione, da parte dei datori di lavoro, dei principi di cui all’art.
8 che, a sua volta, concerne l’ “applicazione dell’articolo 6 della direttiva
89/391/CEE”.
Analogamente, l’art. 6, paragrafo 1, lettera d) della direttiva 92/57/CEE
prevede che i coordinatori organizzino tra i datori di lavoro la cooperazione
e il coordinamento delle attività in vista della protezione dei lavoratori e
della prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali nocivi alla salute
nonché la loro reciproca informazione, come previsto all’art. 6, paragrafo 4
della direttiva 89/391/CEE.
Non può quindi concordarsi con la Commissione laddove afferma, al
punto 30 della memoria di replica e ai punti 25 e 27 del ricorso, che l’art. 7
del D.Lgs. n. 626/1994 non assicuri un grado di coordinamento dei lavori nei
cantieri in cui non sono designati coordinatori tale da coprire anche le specifiche
disposizioni di cui agli articoli 4, 5 e 6 della direttiva 92/57/CEE che,
come si è visto, richiamano in gran parte le misure di prevenzione dei rischi
dei lavoratori nei cantieri in cui siano compresenti più imprese già previste
dalla direttiva 89/391/CEE, correttamente recepita nell’ordinamento italiano
con il citato D.Lgs. n. 626/1994.
In particolare, l’articolo 6, paragrafo 4 della direttiva 89/391/CEE prevede
espressamente che, quando in uno stesso luogo di lavoro sono presenti i
lavoratori di più imprese, i datori di lavoro devono cooperare all’attuazione
delle disposizioni relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute e, tenuto
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 339
conto della natura delle attività, coordinare i metodi di protezione e di prevenzione
dei rischi professionali e informarsi reciprocamente circa tali
rischi, informandone i propri lavoratori e i loro rappresentanti.
Dal canto suo, l’art. 7 del D.Lgs. 626/1994, nel recepire la predetta direttiva,
prevede in capo ai datori di lavoro tutta una serie di oneri di verifica,
informazione e cooperazione all’attuazione delle misure di prevenzione e
protezione dai rischi sul lavoro e, in modo specifico, al comma 2 lettera b)
dispone che i datori di lavoro coordinino gli interventi di protezione e prevenzione
dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente
anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle
diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva.
Pertanto, nel ricordare, come si è già detto, che ai sensi dell’art. 137,
paragrafo 2, lettera b) del Trattato, le direttive, nel dettare le prescrizioni
minime applicabili, debbono tener conto delle condizioni e delle normative
tecniche già esistenti in ciascuno Stato membro, non può non concludersi
che il D.Lgs. 626/1994 già appresta una tutela compiuta per garantire la sicurezza
e la salute dei lavoratori nei cantieri in cui siano presenti più imprese,
ponendo a carico dei datori di lavoro oneri e responsabilità, a prescindere
dalla nomina di un coordinatore esterno.
Quanto al quinto ordine di argomenti avanzati dal Governo italiano e
ritenuto non convincente dalla Commissione circa la frequenza di cantieri di
“entità ridotta” con conseguente diffusa applicabilità della deroga all’obbligo
di nominare un coordinatore, basti rilevare che se è vero che i piccoli cantieri
costituiscono in Italia un fenomeno esteso è anche vero che la lettera
dell’art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 494/1996 – “il committente o il responsabile
dei lavori … designa il coordinatore per la progettazione in ognuno dei
seguenti casi:” (richiamati dal comma 4 con riferimento al coordinatore per
l’esecuzione dei lavori) – implica l’obbligo di nominare un coordinatore
qualora ricorrano alternativamente una delle due condizioni: cantieri di rilevanti
dimensioni ovvero cantieri i cui lavori comportano i rischi particolari
elencati nell’allegato II.
Pertanto, considerata l’enorme diffusione di cantieri i cui lavori comportino
i predetti rischi, a prescindere dalla loro dimensione, appare evidente
che la possibilità di derogare all’obbligo di nominare un coordinatore resta
circoscritta in Italia ad un numero ristrettissimo di casi.
Alla luce di quanto sopra esposto, si richiamano le conclusioni già rassegnate
al punto 28 del controricorso.
Roma, 28 giugno 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S.- Parere del 2 gennaio 2007, n. 4 (*).
Validità della nomina a membro di commissione del concorso interno
per titoli ed esami (per l’accesso alla qualifica di primo dirigente del Corpo
Forestale dello Stato) di un consigliere comunale. Effetti sugli atti del procedimento
(consultivo 45306/06, avvocato P. Marchini).
«[Il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali – Corpo
forestale dello Stato] chiede a questa avvocatura di esprimere un parere circa
la regolarità della procedura concorsuale, sospesa prima delle prove orali,
con riferimento alla nomina di un componente della commissione di esami
che riveste lo status di consigliere comunale nel Comune di Perugia.
Inquadramento normativo e qualificazione della fattispecie
L’art. 8, lett. d) del D.Lgs. n. 29/93, sostituito dall’art. 6. D.Lgs. 23
dicembre 1993. n. 546 e abrogato dall’art. 43. comma 1, D.Lgs. 31 marzo
1998, n. 80. (abrogazione riconfermata dall’art. 72, comma 1, lett. T) D.Lgs.
30 marzo 2001, n. 165 che ha abrogato l’intero provvedimento) dispone che:
“I procedimenti di selezione per l’accesso e per la progressione del personale
nei pubblici uffici sono definiti nel rispetto dei seguenti criteri fondamentali...
d) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata
competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni,
docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo
di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche
politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni
ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”.
L’art. 9, comma secondo, del d.P.R 9 maggio 1994, n. 487 stabilisce:
“Le commissioni esaminatrici di concorso sono composte da tecnici
esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti tra funzionari delle ammi-
I P A R E R I
D E L C O M I T A T O
C O N S U LT I V O
(*) Parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato in via ordinaria.
nistrazioni, docenti ed estranei alle medesime e non possono farne parte, ai
sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546, i componenti
dell’organo di direzione politica dell’amministrazione interessata,
coloro che ricoprano cariche politiche o che siano rappresentanti sindacali o
designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni
professionali. Almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni
di concorso, salva motivata impossibilità, è riservato alle donne, in conformità
all’art. 29 del sopra citato decreto legislativo. Nel rispetto ditali principi,
esse, in particolare, sono cosi composte...”
L’art. 35 del D.Lgs. n. 165 del 2001 dispone:
“Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano
ai seguenti principi:.., e) composizione delle commissioni esclusivamente
con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti
tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che
non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione,
che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali
o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni
professionali”.
Non pare possa nutrirsi dubbio che si tratti di divieto di nomina (il
Consiglio di Stato, nella sentenza n. 4056/2002, si esprime in termini di
“divieto di accesso ad un pubblico ufficio”) a membro di commissione di
concorso, organo collegiale a natura perfetta e reale.
Si può anche qualificare la fattispecie come divieto di accesso, ciò che
rileva è che ne deriva un divieto di nomina da parte della p.a. ed un correlato
obbligo di astensione.
La questione si risolve nello stabilire se tale divieto sia superabile o
meno a seconda dei casi concreti.
Per risolvere il problema è necessario, quindi, analizzare la natura del
divieto.
Tale indagine deve muovere dalla natura della norma che detto divieto
pone: se essa è imperativa il divieto sarà assoluto e non suscettibile di deroga
se, viceversa, la norma è dispositiva o suppletiva essa potrà essere derogata
in relazione al caso concreto.
Afavore della prima opzione mutano tanto le espressioni usate dal legislatore,
quanto le sue intenzioni.
Innanzitutto, non può dubitarsi che il principio della “apoliticità” delle
commissioni di concorso sia di natura fondamentale perché, secondo la
Corte Costituzionale, di derivazione costituzionale (art. 97, primo e terzo
comma ed art. 117, terzo comma del nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale
n. 3 del 18 ottobre 2001) (1).
342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Corte Cost. n. 453/1990: “Il principio d’imparzialità è destinato, pertanto, a riflettersi
anche sulla composizione delle commissioni giudicatrici nei concorsi pubblici, in quanto
organi dell’amministrazione destinati a garantire la realizzazione ditale principio nella
L’originario art. 8 del D.Lgs. n. 29/1993 attribuiva al criterio di esclusione
dei titolari di cariche politiche natura di “criterio fondamentale”.
La norma è stata poi trasposta nell’art. 35, comma terzo, lett. e) del
D.Lgs. n. 165 del 2001 senza, tuttavia, che venisse ribadita l’indole “fondamentale”
del principio (e non più criterio).
L’omissione, va detto, non pare significativa atteso che ai sensi del terzo
comma dell’art. 1 del D.Lgs. n. 165/2001 “Le disposizioni del presente decreto
costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione”
e che “Le disposizioni del presente decreto disciplinano l’organizzazione
degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche ... nel rispetto dell’articolo 97, comma
primo, della Costituzione”.
Che si tratti di principio inderogabile è ancora confermato dal fatto che
il divieto in questione costituisce riflesso del principio informatore della
riforma del pubblico impiego e della dirigenza, in particolare: si tratta del
“principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione
e gestione dall’altro” affermato dall’art. 4 del D.Lgs. , n. 165 del 2001 ed
imposto dalla legge delega n. 421 del 23 ottobre 1992, art. 2 lett. g) la cui
direttiva impone di “prevedere la separazione tra i compiti di direzione politica
e quelli di direzione amministrativa”.
La non interferenza della politica sull’amministrazione, quale attuazione
di imparzialità, viene calata dallo stesso art. 97 Cost. nella fattispecie del
concorso che deve essere pubblico (terzo comma).
Non resta, dunque, che riconoscere la assolutezza del divieto e, quindi,
la sua inderogabilità.
Natura della carica politica
Che il consigliere comunale rivesta una carica politica, è assunto che non
merita di essere dimostrato tanto appare ovvio: sostenere il contrario significherebbe
negare natura di organo politico al consiglio comunale.
Si tratta di vedere, piuttosto, se il divieto consenta di distinguere tra cariche
politiche.
Tale indagine, sotto un profilo strettamente interpretativo, non sembrerebbe
permessa se, come abbiamo detto, il divieto ha carattere assoluto; ciò perché
attraverso una possibile distinzione verrebbe ad eludersi il limite stesso.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 343
provvista delle persone cui affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche. Ma questo non
comporta anche – stante l’indissolubile collegamento esistente, pure nell’ambito degli enti
locali, tra livello “amministrativo” e livello di “governo” – che le commissioni di concorso
non possano essere formate attraverso una scelta operata dall’organo rappresentativo dell’ente
ed eventualmente, anche con l’adozione di meccanismi (quali il voto limitato o la
maggioranza qualificata) destinati a garantire la partecipazione alla decisione delle minoranze
presenti nell’organo. Comporta, invece, che, nella formazione delle commissioni, il carattere
esclusivamente tecnico del giudizio debba risultare salvaguardato da ogni rischio di
deviazione verso interessi di parte o comunque diversi da quelli propri del concorso, il cui
obbiettivo non può essere altro che la selezione dei candidati migliori”.
344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Invero, il legislatore, non distinguendo tra cariche politiche, intende riferirsi
a qualsiasi soggetto portatore di interessi politici che, a causa di essi,
ricopra incarichi politici.
Tale interpretazione è stata condivisa dal TAR Sardegna con la seguente
motivazione:“la definizione estremamente ampia, non può essere circoscritta
ai soli componenti dell’organo di direzione politica della medesima
amministrazione che indice il concorso, stante la seconda specificazione
della norma; né ai soli soggetti che ricoprano cariche “elettive” avendo il
legislatore preferito utilizzare una formula volutamente più estesa di “carica
politica” e ciò al fine di evitare che siano deputati alla scelta, in sede di
pubblico concorso, soggetti che, in qualsiasi modo, potrebbero non garantire
una posizione di terzietà ed imparzialità”.
Come si dirà oltre, il Consiglio di Stato (n. 6526/2003) ha riformato tale
sentenza con una motivazione che non sembra persuasiva.
Merita consenso, quindi, la circolare della Presidenza del Consiglio dei
Ministri n. 7181 del 9 ottobre 1996 che inscrive nell’alveo delle cariche politiche
anche quella elettiva di consigliere comunale.
Non è condivisibile, invece, anche la tesi del Consiglio di Stato, espressa
con altra sentenza (n. 4056/2002), tesa a relativizzare la definizione di
“carica politica” e a limitarla, ai fini che qui interessano, alla sola carica
direttiva “all’interno dei partiti”.
Tale interpretazione oltreché arbitraria perché ultra legem, appare anche
contra legem e sorretta da motivazione contraddittoria.
La sentenza n. 4056 del Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato ha sostenuto che:
“seguendo la tesi proposta dall’originario ricorrente, ed accolta dal
T.A.R., la previsione relativa agli amministratori dell’Ente che ha bandito il
concorso rimarrebbe priva di ogni significato, risultando pleonastica in
quanto assorbita da quella relativa ai soggetti che ricoprono cariche politiche.
Sotto il concorrente profilo dell’indagine della volontà del legislatore,
si osserva che se questi avesse inteso riferire il divieto sancito con la previsione
relativa ai soggetti che ricoprono cariche politiche agli amministratori
di tutti gli Enti territoriali non avrebbe certamente stabilito, in aggiunta a
tale precetto, anche l’ulteriore, ma superflua, limitazione riferita ai componenti
dell’organo di direzione politica dell’amministrazione che ha indetto il
concorso”.
In disparte l’obiezione che il legislatore ben potrebbe rafforzare il divieto
posto per ciascun componente dell’organo di direzione politica dell’amministrazione
(categoria ristretta) estendendolo ai titolari di cariche politiche
in genere, anche elettive, (categoria più ampia), non è affatto vero che la
prima categoria è sempre ricompresa nella seconda: basti pensare, ad esempio,
alla nomina giudiziale (quindi non politica) di un commissario straordinario
alla guida di un ente locale.
La contraddittorietà della motivazione del Consiglio di Stato è lampante
allorché, dopo aver affermato la sostanziale coincidenza delle due categorie,
ne riconosce la profonda differenza sia sul piano ontologico, sia su quello
degli “interessi sottesi ai due precetti”:
“Che alle due previsioni considerate debba riconoscersi un distinto, ed
autonomo, ambito applicativo risulta, inoltre, imposto, oltre che dalle segnalate
ragioni logiche, anche dal rilievo che i diversi interessi sottesi ai due precetti
postulano l’individuazione di due differenti categorie quali destinatarie
dei relativi divieti”.
La sezione ha poi cura anche di precisare quali siano le due differenti
rationes che presidiano i due divieti:
“il divieto risulta sancito sia nei riguardi delle persone che compongono
l’organo di direzione politica dell’amministrazione, delle quali si teme un’ingerenza
nel reclutamento del personale amministrativo nei confronti del
quale vengono, in concreto, esercitate le funzioni di indirizzo, sia nei riguardi
dei soggetti che ricoprono cariche politiche, delle quali si intende evitare
un’attività di condizionamento dell’imparziale gestione del concorso direttamente
riferibile alla loro appartenenza partitica”.
Ma se è vero che si tratta di due distinte ed autonome categorie di soggetti,
la contraddizione non consente di farle coincidere.
La indubbia “appartenenza partitica” del consigliere comunale è sufficiente
a porre in pericolo la imparzialità del concorso sia nei confronti degli
altri commissari (aspetto non considerato dal g.a.), sia nei confronti dei candidati.
Tale pericolo viene eliminato dal legislatore ex ante in astratto e non
ex post in concreto, volendosi evitare che venga rimessa all’Amministrazione
o al giudice la singola soluzione.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 6526 del 2003.
Con tale pronuncia il Consiglio di Stato sembra adottare una tesi meno
restrittiva del proprio precedente del 2002:
“Occorre, per l’operatività della disposizione che vieta la nomina a componenti
delle commissioni esaminatrici di soggetti che rientrano nella categoria
di coloro che ricoprono cariche politiche, che vi sia comunque un qualche
elemento di possibile incidenza tra l’attività esercitabile da colui che
ricopre tali cariche (politiche, sindacali o professionali) e l’attività dell’ente
che indice il concorso, altrimenti la disposizione verrebbe a generalizzare in
modo eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto di imparzialità
anche nei confronti di soggetti che non gestiscono alcun potere rilevante e
perciò inidonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita
dell’ente che indice la selezione. Detto elemento di collegamento, in mancanza
di criteri legali, può essere rinvenuto nella sfera di influenza dell’attività
svolta dal soggetto ricoprente cariche politiche, sindacali o professionali,
per cui se questa in astratto è idonea a riverberare i suoi effetti anche sull’ente
che indice la selezione, l’incompatibilità deve ritenersi sussistente,
altrimenti deve escludersi”.
Viene disattesa la tesi che limita la carica politica a quella direttiva in un
partito politico, ma il consesso introduce quell’indagine sulla sfera di
influenza che, a nostro avviso, la norma non consente.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 345
Vizio di costituzione dell’organo collegiale ed effetti sul procedimento.
L’atto di nomina è da ritenersi illegittimo per violazione di norma imperativa.
Quale collegio perfetto e reale, la commissione risulta di conseguenza
illegittimamente costituita e sfornita delle relative attribuzioni in concreto,
con derivata invalidità di tutte le operazioni da essa compiute.
Come la mancanza di regolare costituzione del collegio (ad es. per difetto
di quorum strutturale) vizia e pone nel nulla tutta la attività svolta, così a
non minore effetto soggiace l’attività di un organo collegiale illegittimamente
costituito (che è vizio più grave del difetto di quorum strutturale).
L’atto di autotutela, oltrechè doveroso per i motivi esposti, si mostra
anche opportuno atteso che l’eventuale nomina dei vincitori potrebbe essere
impugnata dai candidati esclusi esponendo l’Amministrazione all’alea di un
annullamento giudiziale non improbabile alla stregua della non persuasiva
giurisprudenza, peraltro non consolidata, del Consiglio di Stato.
Giurisprudenza nemmeno condivisa dai TAR le cui sentenze sono state
annullate.
Per tali ragioni, si è del parere che tutte le operazioni della commissione
di concorso vengano rinnovate, previo annullamento dell’atto di nomina
della commissione di concorso, e previo, naturalmente, nuovo decreto di
nomina di altra commissione secondo i dettami della legge».
A.G.S. – Parere del 5 gennaio 2007, n. 1466.
Ravvedimento operoso in materia di imposta di consumo sull’energia
elettrica (consultivo 64227/05, avvocato G. Mandò).
«1. Codesta Direzione chiede il parere della Scrivente in ordine al trattamento
sanzionatorio applicabile con riferimento ad ipotesi in cui il contribuente
non abbia provveduto al tempestivo versamento a conguaglio
dell’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica in effetti dovuta in
relazione al precedente anno (nella specie segnalata di quella relativa
all’anno 2003, con dichiarazione presentata nel 2004), a seconda che : a)
la prescritta dichiarazione, successivamente (e tempestivamente) presentata,
sia inesatta (e cioè, infedele) in coerenza con il minor versamento già
effettuato; b) ovvero la stessa dichiarazione sia stata “regolarizzata”(e
quindi sia fedele nel suo contenuto) e in coerenza con la stessa, il contribuente
provveda entro il termine per la dichiarazione anche al versamento
della differenza di tributo dovuto e non corrisposto nel termine prescritto
per il pagamento.
2. Si premette che ai sensi dell’art. 55 co. 1 del T.U. n. 504/1995, l’accertamento
e la liquidazione di imposta di consumo e.e. sono fatti dal competente
ufficio, sulla base della dichiarazione di consumo annuale da presentarsi
dal fabbricante entro il giorno 20 del mese di febbraio dell’anno
successivo a quello cui si riferisce e che, ex successivo art. 56, i fabbricanti
versano l’imposta in rate di acconto entro il 16 di ciascun mese sulla base
346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dei consumi dell’anno precedente e sono tenuti al versamento del conguaglio
entro il 16 del mese di febbraio dell’anno successivo a quello cui si
riferisce e sulla base dei dati consuntivi sono rideterminate le rate di acconto.
Il successivo art. 59 prevede la sanzione pecuniaria tra il doppio ed il
decuplo dell’imposta evasa o che si è tentato di evadere, a carico del fabbricante
che (in particolare) “omette o redige in modo incompleto o inesatto
le dichiarazioni di cui all’art. 55,co. 1 e 3).
Ciò premesso e con riferimento all’ipotesi di cui al punto 1.a) – ossia
omesso, totalmente o parzialmente, pagamento (entro il 16 febbraio dell’anno
successivo) del tributo in effetti dovuto, in coerenza con infedele
dichiarazione del fabbricante rettificata dall’amministrazione – ritiene questa
Avvocatura generale che la pur opinabile questione debba essere risolta
nel senso della applicazione soltanto dalla sanzione pecuniaria rapportata
al tributo evaso o di cui si è tentata la evasione di cui al predetto art. 59.
In tal caso (prescindendo dalla non decisiva circostanza dell’anteriorità del
pagamento del conguaglio di imposta rispetto alla dichiarazione), l’insufficiente
versamento dell’imposta è, giuridicamente e logicamente, soltanto
la “conseguenza” normale della infedeltà della dichiarazione. Detta infedeltà
trova la sua punizione nella sanzione pecuniaria ex art. 59 citato, rapportata
all’imposta evasa o che si è tentato di evadere e perciò anche al tributo
che non si è pagato o si è tentato di non pagare mediante la non veritiera
dichiarazione. Una autonoma e concorrente sanzionabilità del mancato
(totalmente o parzialmente) pagamento, non può fondatamente farsi
discendere dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997; tale disposizione colpisce
con la sanzione del 30% di ogni importo non versato colui che non esegue,
in tutto o in parte, i versamenti diretti (periodici, di conguaglio o a
saldo) dell’imposta risultante dalla dichiarazione e non può riferirsi al
caso di omesso o tardivo pagamento di tributo dovuto (anziché sulla base
della dichiarazione presentata dal contribuente, emendata degli eventuali
errori materiali o di calcolo rilevati in sede di suo controllo) in base all’accertamento
ed alla conseguente liquidazione operati dall’ufficio in sede di
rettifica della dichiarazione infedele.
Con riferimento all’ipotesi di cui sub 1.b) che precede – e cioè nel caso
in cui il contribuente, dopo l’insufficiente versamento operato entro il 16
febbraio, provveda a presentare entro il successivo giorno 20 la dichiarazione
ritenuta “fedele” e contestualmente o successivamente provveda al
pagamento dell’imposta dovuta in base alla stessa – si ritiene, per le medesime
ragioni esposte al precedente punto 3 – che vada applicata (unicamente)
la sanzione del 30% di cui al citato art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997,
salve – qualora ne ricorrano i presupposti - le riduzioni previste nell’art.
13, in particolare lett. a) e b) del D.Lgs. n. 472 del 1997. Giova precisare
che la riduzione prevista nella richiamata lett. b), è applicabile se regolarizzazione
avviene entro il termine di presentazione della dichiarazione
relativa all’anno nel corso del quale la violazione stessa è stata commessa
(…)».
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 347
A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3243.
Sicurezza sul lavoro. Potere di accesso all’alloggio di rappresentanza
del Prefetto. Decreto legislativo n. 626/1994 (consultivo 24198/05, avvocato
Giovagnoli – interim avvocato M. Borgo).
«Codesta Amministrazione ha chiesto alla Scrivente un parere in merito
alla possibilità per i rappresentanti dei lavoratori di accedere, nell’ambito
delle competenze loro attribuite dalla legge, agli alloggi di rappresentanza
dei Prefetti, al fine di verificarne la rispondenza alle prescrizioni di cui al
decreto legislativo n. 626 del 1994.
Al proposito, questo Generale Ufficio ritiene che, ferma restando l’esigenza
del rispetto della normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro
anche con riferimento agli alloggi di rappresentanza dei Prefetti, allo specifico
quesito, sopra sintetizzato, debba darsi risposta negativa alla luce delle
considerazioni che seguono.
Giova rilevare, al riguardo, che la norma che definisce i poteri dei rappresentanti
dei lavoratori per la sicurezza è l’art. 19 del decreto legislativo n.
626 del 1994.
Tale norma attribuisce al rappresentante per la sicurezza il potere di
“accedere ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni” (art. 19,
comma 1°, lett. a).
Il legislatore, quindi, ha attribuito il diritto di accesso al rappresentante
dei lavoratori non rispetto a qualsiasi luogo di lavoro ma solo rispetto a quei
luoghi “in cui si svolgono le lavorazioni”.
Ne discende che, per delimitare l’oggetto del diritto di accesso del rappresentante
per la sicurezza, non basta accertare che l’alloggio di rappresentanza
del Prefetto costituisca “luogo di lavoro” per alcuni lavoratori (in particolare,
come evidenzia codesta Amministrazione, per quelli che procedono
all’inventario degli arredi o che verificano lo stato di conservazione degli
stessi), ma è necessario effettuare una seconda verifica finalizzata ad accertare
se in tale luogo di lavoro si svolgano le “lavorazioni”.
È il concetto di “lavorazione”, pertanto, che assume rilievo determinante
per circoscrivere il campo di applicazione dell’art. 19, comma 1°, lett. a)
del D.Lgs. n. 626 del 1994.
Orbene, ad avviso della Scrivente, per “lavorazione” deve intendersi un
processo produttivo che sia stabile e duraturo: altrimenti opinando, infatti, si
arriverebbe al risultato, tanto paradossale quanto inaccettabile, di considerare
“accessibile” dal rappresentante per la sicurezza qualsiasi locale in cui si
svolga, anche se in maniera del tutto occasionale e limitata, un “frammento”
della prestazione lavorativa di un qualsiasi lavoratore.
Già sotto il profilo letterale, quindi, gli alloggi di rappresentanza dei
Prefetti non possono essere ricondotti nell’ambito dell’art. 19, comma 1°
lett. a) del D.Lgs. n. 626/94, perché, pure ad ammettere che essi saltuariamente
costituiscano luogo di lavoro per alcuni dipendenti, deve, tuttavia,
escludersi che si tratti di locali in cui si svolge una “lavorazione” nel senso
sopra precisato.
348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ciò non vuole certo dire che i lavoratori che accedono agli alloggi di rappresentanza
dei Prefetti non abbiano diritto a lavorare in condizioni di sicurezza;
a tutela di questo loro diritto, tuttavia, non è attivabile lo strumento di
protezione previsto dall’art. 19, comma 1, lett. a), costituito dalla possibilità
di accesso dei rappresentanti per la sicurezza.
Oltre al citato argomento letterale, la risposta negativa al quesito si
impone alla luce di considerazioni di carattere sistematico.
Preme rilevare, sotto tale profilo, che con il D.Lgs. n. 626 del 1994 il
legislatore ha inteso tutelare la sicurezza dei lavoratori limitando, a tal fine,
la libertà di impresa e di iniziativa economica del datore di lavoro.
Si tratta di un intervento normativo che trova il suo fondamento costituzionale
nell’art. 41 Cost.: tale norma, dopo aver proclamato che l’iniziativa
economica privata è libera (comma 1°), aggiunge, al comma 2°, che essa non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
In tal modo, la norma costituzionale rende possibili interventi legislativi,
quale quello che si è attuato con il decreto legislativo n. 626 del 1994,
volti a comprimere la libertà di iniziativa economica al fine di tutelare la
sicurezza dei lavoratori.
Gli alloggi di rappresentanza dei Prefetti costituiscono, tuttavia, non solo
e non tanto luoghi in cui si esplica la libertà di iniziativa economica del datore
di lavoro, quanto, e soprattutto, luoghi destinati a soddisfare le esigenze
abitative dei Prefetti che in essi dimorino.
In altri termini, prima di essere locali in cui si esplicano, occasionalmente,
frammenti di attività lavorativa di alcuni dipendenti, essi costituiscono luoghi
di privata dimora, riconducibili alla nozione costituzionale di domicilio.
La norma costituzionale che protegge tali locali dagli accessi esterni non
è, quindi, il citato art. 41 Cost, ma l’art. 14 Cost. che tutela il domicilio.
Giova sottolineare, sotto questo profilo, che la nozione costituzionale di
domicilio, secondo la tesi prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza,
si identifica con la nozione penalistica di domicilio, quale risulta descritta
dall’art. 614 c.p.
Tale norma, in relazione al delitto di violazione di domicilio, comprende
tre diverse realtà spaziali e cioè: a) l’abitazione; b) gli altri luoghi di privata
dimora; c) le appartenenze di questi.
Alla luce della predetta nozione di “domicilio”, non pare, quindi, esservi
dubbio sul fatto che in esso rientri anche l’alloggio di rappresentanza del
Prefetto, trattandosi di un luogo di privata dimora che svolge, per chi vi soggiorna,
le stesse funzioni dell’abitazione.
Ai sensi dell’art. 14 Cost., il domicilio è inviolabile e in esso “non si possono
eseguire ispezioni e perquisizioni se non nei casi e nei modi stabiliti dalla
legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”.
Una previsione, questa ultima, il cui tenore, unitamente alle argomentazioni,
più sopra illustrate, induce ad escludere la possibilità per i rappresentanti
dei lavoratori di accedere, nell’ambito delle competenze loro attribuite
dalla legge, agli alloggi di rappresentanza dei Prefetti.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 349
Il che non significa, preme ribadirlo, che i lavoratori che svolgono occasionalmente
la loro prestazione negli alloggi di rappresentanza, non abbiano
diritto a condizioni di lavoro sicure; tale diritto certamente sussiste ma ad
esso non corrisponde la possibilità per i rappresentati dei lavoratori di esercitare
il potere di accesso riconosciuto dall’art. 19, comma 1, lett. a) del
D.Lgs. n. 626/1994.
Alla luce di quanto esposto, la richiesta di accesso dei rappresentati dei
lavoratori per la sicurezza non può essere accolta in quanto gli alloggi di rappresentanza
dei Prefetti non costituiscono luoghi di lavoro in cui si svolgono
le lavorazioni ai sensi dell’art. 19 D.Lgs n. 626 del 1994, ma locali riconducibili
alla nozione costituzionale di domicilio, come tali inviolabili se non nei
casi previsti dalla legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria (....)».
A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3245.
Applicazione delle disposizioni di cui all’art. 20, comma 1, della legge
n. 241 del 1990 ai procedimenti di competenza dell’Ufficio nazionale per il
servizio civile (consultivo 48161/06, avvocato F. Varrone).
«1. Codesto Ufficio nazionale ha chiesto parere circa l’applicabilità o
meno della disciplina del silenzio assenso ex art. 20 della legge n. 241 del
1990 (come successivamente modificata) a due procedimenti di sua competenza,
e precisamente:
1) al procedimento disciplinato mediante circolare 2 febbraio 2006 di
accreditamento ed iscrizione in albo degli enti di servizio civile nazionale; e
2) del procedimento, ora regolato dagli allegati al decreto 3 agosto 2006
del Ministro della solidarietà sociale, per la valutazione e la selezione dei
singoli progetti presentati dagli enti accreditati ed iscritti.
Preliminarmente si rileva che il citato art. 20, al comma 4, prevede la
possibilità di escludere l’applicazione delle “disposizioni del presente articolo”
mediante un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta
del Ministro della funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti;
ciò a prescindere dalla interpretazione più o meno estensiva (e quindi
suscettibile di divergenti letture) — delle espressioni “difesa nazionale” e
“pubblica sicurezza”, pure utilizzate in quel comma 4. Un d.P.C.M. potrebbe
essere emanato e pubblicato nell’arco di poche settimane, anche perché
non pare che il citato comma 4 preveda atti aventi natura di regolamento.
D’altro canto, l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 (come sostituito nel
2005) al comma 2 consente di stabilire mediante regolamento termini più
ampi di quello di novanta giorni previsto dal successivo comma 3; tra i molti,
cfr. il recente d.P.R. 23 dicembre 2005 n. 303 relativo al Segretariato generale
della Presidenza del Consiglio.
Ancora giova segnalare la decisione Cons. Stato, V, 22 giugno 2004 n.
4355 che riconosce all’autorità amministrativa il potere di annullare l’assenso
silenzioso, e però qualora sussistano “i presupposti per emanare un atto di
autotutela”…Tale orientamento giurisprudenziale è confermato dall’art. 20
350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
comma 3 della legge n. 241 del 1990 (come sostituito nel 2005). Sicché in
linea di massima la preoccupazione di codesto ufficio appare giustificata.
Nel frattempo, codesto Ufficio potrebbe ricorrere all’espediente empirico
di comunicare ai soggetti che hanno presentato istanze di accreditamento
o progetti non ancora esaminati un atto negativo “allo stato attuale della
istruttoria in corso”; tale atto potrebbe contenere una riserva di più completo
esame dell’istanza o del progetto.
Altra osservazione preliminare concerne il procedimento di valutazione
e selezione dei singoli progetti. Esso presenta, come ritenuto in ordinanza
cautelare n. 3956/06 del Consiglio di Stato, i connotati di una procedura concorsuale
preceduta da una “prima fase” di delibazione —sulla base della
documentazione esibita (“scheda — progetto”, etc.) — della ammissibilità
del progetto alla valutazione e selezione; la “seconda fase” infatti si sostanzia
in una comparazione tra i progetti reputati ammissibili e si conclude con
la formazione ed approvazione di una graduatoria.
Appare pertanto opportuno rendere il punto 4.6 del “prontuario” allegato
al citato D.M. 3 agosto 2006 coerente con gli anzidetti connotati, prevedendo
una modalità di pubblicità della graduatoria e riservando le comunicazioni
individuali alle determinazioni di inammissibilità / esclusione del
progetto presentato. In particolare, in esito alla “seconda fase” non dovrebbero
più adottarsi singoli provvedimenti per comunicare a ciascun soggetto
presentatore di progetto il punteggio ad esso attribuito, essendo esaustiva la
comunicazione della graduatoria.
2. Per quanto concerne il procedimento di iscrizione in albo degli enti
del servizio civile, codesto Ufficio ha riferito che l’accertamento della sussistenza
dei requisiti di cui all’art. 3 della legge n. 64 del 2001 in taluni casi
risulta particolarmente complesso, con notevole difficoltà a concludere il
procedimento entro il termine di novanta giorni.
In proposito, questa Avvocatura generale sarebbe orientata a ritenere che
l’espressione “istanza per il rilascio di provvedimenti amministrativi” non
comprenda anche l’iscrizione in albi; non sarebbe infatti appropriato raffigurare
il “rilascio” di una iscrizione. Peraltro, sul punto non constano precedenti
giurisprudenziali specifici. Inoltre, l’art. 5 comma I del D.Lgs. n. 77 del
2002 reca una formulazione non precisa: anziché disporre “l’Ufficio nazionale
per il servizio civile cura la tenuta dell’albo nazionale” (cfr. anche l’art.
2 di detto D.Lgs. ), la norma individua negli “enti” e nelle “organizzazioni”
il soggetto che logicamente precede il verbo “possono”.
Comunque, l’art. I del citato D.Lgs. n. 77 del 2002 definisce il servizio
civile nazionale modalità operativa concorrente e alternativa di difesa dello
Stato, con mezzi ed attività non militari”. Tale definizione non può ritenersi
superata per effetto della soppressione del servizio militare “di leva”, e trova
radice istituzionale nel dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 Cost. Sicché,
con buone probabilità del sito favorevole può valorizzarsi l’insegnamento
della Corte costituzionale secondo cui “la previsione contenuta nel primo
comma dell’art. 52 della costituzione, che raffigura la difesa della Patria
come dovere del cittadino ha un’estensione più ampia dell’obbligo di presta-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 351
re il servizio militare potendo essere adempiuta anche attraverso attività di
impegno sociale non armato; in questo contesto il servizio civile tende a
porsi come forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di
difesa della Patria”.
Del resto, il procedimento in questione è volto a selezionare soggetti i cui
fini istituzionali debbono essere corrispondenti a quelli di cui all’art. i della
legge 6 marzo 2001 n. 64, quali la difesa della Patria con mezzi ed attività non
militari, realizzazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale, salvaguardia
e tutela del patrimonio della Nazione. formazione dei giovani. etc.
Un discorso a parte deve essere fatto per l’iscrizione nell’albo di singole
amministrazione (anche dotate di autonomia). Premesso che tra codesto
ufficio e la singola amministrazione non è ravvisabile rapporto intersoggettivo,
e che la valutazione di accreditamento sarebbe circoscritta ai dati organizzativi,
detta iscrizione potrebbe essere superflua e comunque sarebbe
quasi automatica.
3. Le considerazioni esposte nel par. 2 possono in prima approssimazione,
valere anche per il procedimento di valutazione e selezione dei singoli
progetti; occorre tuttavia evidenziare alcune rilevanti peculiarità.
Anzitutto, il rilevato carattere concorsuale del procedimento condurrebbe
a ritenere che silenzio assenso non possa formarsi sulla singola istanza
alias candidatura, dovendo prodursi un atto amministrativo “plurimo” (graduatoria).
D’altro canto, però, la prequalificazione dei soggetti iscritti nell’albo
nazionale potrebbe ingenerare, qualora insorgesse controversia, qualche
difficoltà: è infatti prevedibile che il soggetto presentatore di progetto
non positivamente classificato (o addirittura valutato negativamente o escluso)
tenda a far valere l’anzidetta prequalificazione come affidamento rafforzato
dal silenzio sullo specifico progetto.
Parrebbe pertanto prudente ricorrere — ove ve ne sia necessità — all’espediente
empirico cui si è accennato nel par. I, per i progetti aggiungendo “per
l’insieme dei progetti presentati sarà emesso atto amministrativo plurimo».
A.G.S. - Parere del 13 febbraio 2007, n. 18543.
Inapplicabilità dell’art. 4 comma 2 bis l. 168/05 al concorso notarile e
alle altre procedure concorsuali a numero chiuso (consultivo 43036/06,
avvocato W. Ferrante).
“Con riferimento all’avviso manifestato da codesto Ministero della
Giustizia con la nota del 30 ottobre 2006, circa l’applicabilità della norma in
oggetto al concorso notarile, richiamando il parere dell’Ufficio Legislativo
dello stesso Ministero del 10 ottobre 2005, acquisito con la nota del 22
dicembre 2006, si rappresenta quanto segue.
Nel ricordare quanto già evidenziato con la Circolare dell’Avvocato
Generale n. 48/2006, trasmessa sia al Ministero della Giustizia che alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri con nota del 31 luglio 2006 n. 88759-
88760-88764 P, si osserva che il citato parere dell’Ufficio Legislativo non fa
352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
alcun riferimento all’applicabilità al concorso notarile dell’art. 4 comma 2
bis comma 2 bis, d.l. 30 giugno 2005 n. 115 convertito nella legge 17 agosto
2005 n. 168 - recante “elezioni degli organi degli ordini professionali e
disposizioni in materia di abilitazioni professionali”, in base al quale “conseguono
ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale
concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso,
che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando,
anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da
parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali
o di autotutela”.
Come è noto, il Consiglio di Stato ha affermato l’inapplicabilità della
predetta norma alle procedure concorsuali a numero chiuso, ed in particolare
al concorso notarile, nonostante i ricorrenti, in virtù di provvedimenti cautelari,
avessero superato sia le prove scritte, sia le prove orali e fossero già
stati nominati notai (Consiglio di Stato, sez. IV, decisioni nn. 4582, 4583,
4584 e 4585 del 18 luglio 2006, nn. 5743, 5744 del 2 ottobre 2006 e 6170
del 16 ottobre 2006, n. 6807 del 21 novembre 2006).
Il Consiglio di Stato ha precisato che sia sul piano letterale, sia su quello
sistematico “risulta evidente la necessità di applicare la normativa in rassegna
in modo costituzionalmente orientato e quindi rifiutandone interpretazioni
estensive che ne minerebbero irrimediabilmente la ragionevolezza. In
questa ottica è infatti da rilevare che tra le procedure di stampo idoneativo e
quelle concorsuali o selettive propriamente dette sussiste una radicale ed
ontologica differenziazione”.
Nelle citate decisioni, il Consiglio di Stato ha inoltre precisato che “l’applicazione
del comma 2 bis anche ai concorsi (come quello notarile) per il
conferimento di posti a numero limitato è impraticabile perché lede – oltre
alle garanzie di difesa dell’Amministrazione – la posizione degli altri concorrenti,
i quali hanno diritto ad ottenere dal giudice una pronuncia di merito
che accerti definitivamente se l’ammissione (o la rinnovata valutazione
delle prove) del loro antagonista fosse o meno legittima”.
È stato inoltre confermato il definitivo abbandono dell’orientamento
fondato sul c.d. principio dell’assorbimento, per effetto del superamento
delle prove scritte ed orali, risalente all’isolata pronuncia dello stesso
Consiglio di Stato n. 2191/2001, già superata dalla decisione della medesima
sezione n. 2794/2004.
Con riferimento all’esame di abilitazione forense, il Consiglio di Stato,
con la sentenza n. 1791 del 6 aprile 2006, nel ricordare i principi consolidati
della strumentalità e provvisorietà della misura cautelare, la cui doverosa
esecuzione non comporta acquiescenza, ha dovuto ammettere che gli stessi
“sono completamente ribaltati per volontà e per effetto dell’art. 4 comma 3
della legge 168/2005” e che “l’art. 4 comma 2 bis legge 168/05 sovverte, per
legge, inoltre, il su ricordato principio della continenza del rimedio cautelare,
che non può, di regola, comportare effetti ulteriori (che eventualmente
sono determinati solo dalla successiva fase di esecuzione) rispetto a quelli
determinati dall’esito positivo del giudizio di merito …”.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 353
Pertanto, il Consiglio di Stato, pur prendendo atto delle conseguenze
derivanti dalla predetta norma in relazione agli esami di abilitazione professionale,
dichiarando l’improcedibilità dell’appello dell’amministrazione in
presenza delle circostanze previste dalla predetta disposizione, ne ha arginato
gli effetti, escludendone l’applicazione ai concorsi ed alle procedure selettive
a numero chiuso.
Com’è noto, il Consiglio di Stato ha emesso numerosi decreti cautelari
provvisori ex art. 3 legge 205/2000 per tentare di contenere il fenomeno scatenato
dalla norma in questione che, come prevedibile, ha fatto crescere a
dismisura il contenzioso, atteso che la possibilità di poter beneficiare velocemente
di una “seconda chance” di valutazione, sovente in assenza di anonimato,
si è accompagnata alla speranza di omettere sia il processo di merito,
sia, soprattutto, il giudizio di impugnazione che costituiva precedentemente
il principale ostacolo per i ricorrenti, stante il consolidato orientamento
del Consiglio di Stato contrario alle aperture di alcuni TAR in tema di
insufficienza del voto numerico, di sindacabilità del giudizio tecnico discrezionale
della commissione esaminatrice, di infungibilità dei membri della
commissione, di incongruità dei tempi di correzione ed in relazione ad altre
censure ricorrenti e costantemente disattese dal Giudice di secondo grado.
Va ricordato inoltre che, anche in relazione all’applicazione dell’art. 4,
comma 2 bis della legge n. 168/05 all’esame di abilitazione alla professione
forense, con l’ordinanza n. 479/06 del 28 luglio 2006, il Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato d’ufficio questione
di legittimità costituzionale della predetta norma per violazione degli
artt. 3, 24, 25, 101, comma 2, 104 comma 1, 111 comma 2 e 113 Cost.
Secondo l’ordinanza di rimessione del C.G.A.R.S., la norma in questione
si traduce in un’inammissibile compromissione del diritto di difesa dell’amministrazione
e degli eventuali controinteressati, non garantendo l’effettività
del contraddittorio (art. 24 Cost.) e comportando la preclusione del giudizio
di merito e del giudizio di impugnazione. La predetta norma si pone
inoltre in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), venendo in
rilievo il pari interesse delle parti ad evitare che, ove il provvedimento sia in
concreto adottato in difformità dallo schema legale, “si abbia una ingiustificata,
e non altrimenti rimediabile, violazione dell’iter processuale: la misura
cautelare, strumentale ad un’azione di merito avente un mero contenuto nella
norma, avulsa dal giudizio di merito, comporta la violazione del principio di
eguaglianza e del principio di ragionevolezza”.
In base alla predetta norma, trova infatti applicazione, per una certa categoria
di controversie e senza alcuna giustificazione, un rito diverso da quello
applicabile nella generalità dei casi, che potrebbe esaurirsi – in alcune ipotesi
ed in altre no, solo per ragioni temporali, come tali del tutto contingenti
- nella fase cautelare e per giunta in unico grado. La predetta disposizione
finisce infatti per privilegiare chi riesce ad ottenere più velocemente l’esecuzione
dei provvedimenti cautelari, per ragioni del tutto casuali, pur in presenza
delle medesime censure. Ne deriva quindi l’evidente disparità di trattamento
in situazioni del tutto identiche ed il totale svilimento del corretto ed
354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
equanime procedimento di accesso alla professione forense, con evidente
danno, in definitiva, all’interesse pubblico che il delicato esercizio della professione
forense sia conferito a soggetti selezionati con una procedura idonea
ad accertarne le qualità richieste, in modo trasparente ed imparziale.
Inoltre, secondo il C.G.A.R.S., la norma, in base alla quale il fatto storico
dell’avvenuto superamento delle prove scritte e orali impedisce la proposizione
del gravame, o ne vanifica gli effetti se già proposto e non ancora
deciso, viola sia l’art. 113 Cost., in base al quale la “tutela giurisdizionale
non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti”, sia l’art. 25 Cost. che prevede il giudice naturale
precostituito per legge, atteso che il ricorso innanzi ad un T.A.R. incompetente
e scelto per la sua giurisprudenza favorevole - sebbene contrastante
con quella del giudice d’appello - rende inoperante ogni rimedio, ivi compreso
il regolamento di competenza.
Va inoltre osservato che la ricostituzione di una sorta di anonimato nella
ricorrezione delle prove (che talvolta i T.A.R. nemmeno impongono) e l’intento
di garantire la par condicio rispetto a tutti coloro che superano esami
di abilitazione e concorsi per le vie ordinarie, appaiono nella sostanza impraticabili,
considerato che tutti gli elaborati sono contrassegnati da un numero
identificativo, recano il voto riportato e sono nella piena disponibilità dei
componenti della Commissione oltre che degli stessi ricorrenti che possono
agevolmente ottenerne copia con una semplice istanza di accesso.
Si veda in proposito la sentenza del Consiglio di Stato del 14 ottobre
2005 n. 5709, in base alla quale la ricorrezione delle prove scritte e l’ammissione
alle prove orali in esecuzione prima di un’ordinanza cautelare e poi di
una sentenza di primo grado non esprimono acquiescenza alla decisione del
T.A.R. ma costituiscono per il Ministero e la Commissione d’esame comportamenti
necessitati dall’obbligo di dare esecuzione dapprima all’ordinanza
cautelare del Tribunale territoriale e poi alla sentenza di primo grado.
Nella predetta pronuncia, emessa in relazione all’esame di avvocato,
viene chiarito che “l’Amministrazione ha poi il dovere di tutelare la par condicio
degli esaminandi che verrebbe compromessa quando taluni candidati
vengono sottoposti a non previste prove di appello, vengono sottratti alla
propria commissione naturale e si avvantaggiano in quanto la ripetizione di
talune attività comporta una dilatazione di tempi che si traduce in maggior
tempo di preparazione. La improcedibilità per cessazione della materia del
contendere o per sopravvenuta carenza di interesse , ove non ne siano evidenti
i presupposti …, si traduce in una palese violazione del diritto di difesa
di una delle parti nel giudizio”.
Alla luce di quanto sopra, si ritiene quanto mai opportuno, sulla scorta
del consolidato orientamento del Consiglio di Stato, escludere l’applicazione
della norma in questione al concorso notarile ed alle altre procedure concorsuali
a numero chiuso, considerate le delicate funzioni pubbliche svolte
dal notaio e la necessità che l’accesso ai pubblici impieghi venga assicurato
nel rispetto del principio costituzionale della selezione dei migliori in modo
trasparente ed imparziale.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 355
Pertanto, qualora il Ministero della Giustizia intenda discostarsi dal suesteso
parere, sarà necessario attivare la procedura di cui all’art. 12 legge
103/79, in base al quale le divergenze che insorgono tra l’Avvocatura dello
Stato e l’amministrazione, circa l’instaurazione di un giudizio o la resistenza
nel medesimo, sono risolte dal Ministro con determinazione non delegabile.
Considerati i possibili risvolti del presente parere in ordine ai concorsi
pubblici banditi da altre amministrazioni, lo stesso viene trasmesso anche
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per il Coordinamento
Amministrativo, cui era stata già inviata, con nota n. 31 luglio 2006 –
88759 P, la Circolare dell’Avvocato Generale n. 48/06, per la sua eventuale
diffusione a tutte le amministrazioni pubbliche interessate ... (1)».
A.G.S. – Parere del 20 febbraio 2007, n. 21716
Decreti liquidazione compensi per attività di assistenza e difesa di soggetti
ammessi al gratuito patrocinio (consultivo 3822/07, avvocato C. Colelli).
«Sono stati notificati presso la Scrivente numerosi decreti ingiuntivi
contenenti la condanna di codeste Amministrazioni alla corresponsione dell’importo
liquidato ad avvocati per l’attività di assistenza e difesa di soggetti
ammessi al gratuito patrocinio.
Il ricorso alla via giurisdizionale ai fini del soddisfacimento del credito,
secondo quanto appreso dalle comunicazioni scritte fatte pervenire dalle
controparti, sarebbe stato determinato dall’eccessiva dilatazione dei tempi di
pagamento dei suddetti decreti, causata dai recenti tagli cui sono stati sottoposti
i fondi destinati alle c.d. “spese di giustizia”.
A tale proposito la Scrivente non può non richiamare l’attenzione di
codesti Dipartimenti sull’innegabile aggravio economico che deriva all’erario
dall’emissione dei menzionati decreti ingiuntivi, che, oltre all’importo
corrispondente alla somma liquidata ex art. 82 del testo unico approvato con
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recano la condanna di codeste Amministrazioni
al pagamento degli interessi legali e delle spese della procedura monitoria.
Posto che alcun dubbio, in punto di diritto, può essere sollevato sulla
sussistenza del credito azionato, atteso che la richiesta trova fondamento nei
decreti di liquidazione dei compensi emessi dall’autorità giudiziaria, si invitano
codeste Amministrazioni all’adozione di ogni utile provvedimento al
fine di prevenire l’insorgenza di ulteriori contenziosi in materia.
Quanto alla gestione del contenzioso già in corso, si rappresenta che
quest’Avvocatura – che, in prima battuta, ha cautelativamente proposto
opposizione ai detti decreti – a seguito di più approfondito esame della que-
356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Sull’argomento si segnala l’articolo di STEFANO VARONE, Il contenzioso in materia
di procedure di abilitazione professionale dopo l’entrata in vigore dell’art. 4, co. 2bis, legge
17 agosto 2005, n. 168, pubblicato in questa Rassegna, 2006, n. 2, 402.
stione, ritiene non conforme all’interesse pubblico coltivare tali giudizi e
proporre nuove opposizioni.
Come osservato, non sono individuabili ragioni sostanziali di contestazione
del credito attivato in sede monitoria, posto, come detto, che la richiesta
trova fondamento nei decreti di liquidazione dei compensi emessi dall’autorità
giudiziaria.
Tuttavia, proprio la sussistenza di un provvedimento giudiziale contenente
la liquidazione del credito e l’individuazione del soggetto tenuto all’adempimento
dello stesso (sulla base delle indicazioni contenute nell’art. 185
del citato testo unico) potrebbe far sorgere delle perplessità sulla legittimità
del ricorso da parte del creditore alla procedura monitoria e sulla conseguente
acquisizione di un nuovo titolo giudiziale, contenente la condanna al pagamento
delle medesime somme.
Al fine di chiarire la problematica appena accennata e necessario rispondere
ad un duplice ordine di quesiti:
1) Se il decreto di liquidazione dei compensi ex art. 82 del testo unico n.
115 del 2002 possa essere qualificato come titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.
2) In caso positivo, se possa ritenersi sussistente un interesse giuridicamente
apprezzabile all’acquisizione di un nuovo titolo.
Nel sistema antecedente all’entrata in vigore del testo unico del 2002
sulle spese di giustizia i provvedimenti oggetto del presente esame erano
disciplinati dall’art. 12 della legge 217 del 1990 (Istituzione del patrocinio a
spese dello Stato per i non abbienti), a norma del quale il giudice titolare del
procedimento nel quale gli stessi avevano prestato la loro opera provvedeva
alla liquidazione dei compensi spettanti ai difensori con decreto motivato,
avverso il quale era possibile proporre ricorso secondo le modalità stabilite
dall’art. 29 della legge n. 794 del 1942.
Sulla natura di tale provvedimento la giurisprudenza non risulta che
abbia mai preso esplicitamente posizione.
Il medesimo rimedio di cui all’art. 29 citato era, tuttavia, previsto
anche per i decreti (motivati) di liquidazione dei compensi spettanti ai soggetti
disciplinati dalla legge 319 del 1980, ossia periti, consulenti tecnici,
interpreti e traduttori per l’opera eseguita a richiesta dell’autorità giudiziaria,
a cui la Suprema Corte aveva esplicitamente attribuito natura di titolo
esecutivo.
L’analoga formulazione delle norme contenenti la disciplina dei due tipi di
provvedimenti e l’identità del rimedio esperibile avverso gli stessi, avrebbe
potuto far ritenere che gli stessi avessero anche la medesima natura e che, dunque,
anche il decreto ex art. 12 citato fosse qualificabile come titolo esecutivo.
A tale conclusione non consegue, tuttavia, necessariamente una risposta
negativa al quesito di cui al punto 2).
La Suprema Corte, affrontando una questione analoga a quella oggetto del
presente parere (legittimità del ricorso alla procedura monitoria) con riferimento
ai decreti di cui all’art. 11 della legge 319/80, ha, infatti, evidenziato che “…
il generale principio secondo cui il creditore il quale abbia ottenuto pronuncia
di condanna del debitore ha esaurito il diritto di azione e non può per difetto di
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 357
interesse … ulteriormente richiedere un decreto ingiuntivo contro il medesimo
debitore per lo stesso titolo e lo stesso oggetto, …, soffre deroga quante
volte, pur in presenza di una domanda rivolta al giudice per la condanna
del convenuto al pagamento di una somma di denaro sulla base di un
titolo giudiziale esistente, tale domanda, lungi dal risultare diretta ad ottenere
una duplicazione del titolo già conseguito, si palesi ammissibile, in
presenza del relativo interesse, per essere la situazione giuridica fatta valere,
la quale non abbia già trovato esaustiva tutela, suscettibile di permettere
il conseguimento di un ulteriore utile risultato rispetto alla lesione
denunziata” (v. Cass. n. 135/2001, in cui, in applicazione dell’enunciato
principio, è stato ritenuto ammissibile il ricorso alla procedura monitoria in
relazione al fatto che il decreto ingiuntivo, contrariamente al decreto ex art.
11 legge 319 del 1980, costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale;
nello stesso senso Cass. n. 7354/2004).
Sulla scorta della citata giurisprudenza – sicuramente estensibile al caso
in esame – non può, quindi, in linea di principio, essere escluso il diritto del
creditore, pur in possesso di un titolo esecutivo, di procurarsi un titolo ulteriore,
qualora ciò sia finalizzato a rafforzare gli strumenti di tutela del diritto
azionato.
A tale conclusione pare alla Scrivente che debba a maggior ragione
pervenirsi nell’attuale sistema normativo, delineato dal Testo Unico sulle
spese di giustizia, dall’esame del quale emergono elementi che parrebbero
escludere la stessa qualificabilità dei decreti di cui infra come titoli esecutivi.
L’art. 82 del testo unico del 2002 stabilisce che l’onorario e le spese spettanti
al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento,
che il successivo art. 171 – rubricato “Effetti del decreto di pagamento”
– definisce “titolo di pagamento della spesa in tutte le fattispecie previste
dal presente testo unico”.
La portata di tale definizione può essere colta tenendo conto del fatto
che gli artt. 173 e ss. disciplinano in modo analitico le modalità di pagamento
delle spese in conto dell’erario, tra cui rientrano ovviamente le spese per
il patrocinio dei non abbienti, e parrebbe dover essere intesa nel senso che
il decreto di liquidazione costituisca titolo per ottenere il pagamento secondo
le modalità disciplinate dal T.U., con esclusione dell’efficacia di titolo
esecutivo ex art. 474 c.p.c.
Né a diversa conclusione può indurre il dettato dell’art. 170 del T.U.
Tale articolo disciplina il procedimento di opposizione al decreto di
liquidazione e, al terzo comma, contempla la possibilità per il giudice di
“sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto”, dovendo presumibilmente
tale esecutività essere riferita all’idoneità del decreto di essere eseguito
secondo le modalità di cui agli artt. 173 e ss.
Tale è, peraltro, l’opzione interpretativa adottata dall’Amministrazione
della Giustizia (v. nota prot. 5356 INT del 18 luglio 2007 della Dirigenza
delle Cancellerie del Tribunale Ordinario di Roma), che ha esplicitamente
escluso che i decreti di liquidazione dei compensi dei difensori di soggetti
ammessi al patrocinio statale (così come quelli degli ausiliari del magistrato,
358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dei custodi giudiziari, etc.) possano essere portati ad esecuzione forzata
secondo le modalità di cui al codice di procedura civile.
Sulla base di quanto esposto, quindi, non pare opportuno proporre opposizione
ai decreti ingiuntivi di cui si discute al solo fine di contestare la sussistenza
del relativo interesse.
La Scrivente si asterrà, quindi, per il futuro, dall’assumere tale iniziativa,
al fine di evitare un inutile aggravio di spese ed oneri, salvo che sussistano
ulteriori motivi di opposizione che codeste Amministrazioni vorranno di
volta in volta comunicare.
Pare opportuno in conclusione richiamare l’attenzione sull’individuazione
del soggetto tenuto al pagamento.
Come già accennato la disciplina di tale aspetto è contenuta nell’art. 185
del T.U. del 2002, il quale stabilisce che le aperture di credito per i pagamenti
dei decreti di liquidazione dei compensi spetti al Ministero della Giustizia
per le attività prestate nei giudizi penali e civili, al Ministero della Difesa per
quelle relative ai processi davanti alla Magistratura Militare e al Ministero
dell’Economia e delle Finanze per gli oneri relativi ai giudizi dinnanzi alle
Commissioni Tributarie.
Può tuttavia accadere che i giudici emettano il decreto ingiuntivo ponendone
l’ammontare a carico solidale di più Amministrazioni, delle quali una
soltanto è dotata di legittimazione passiva.
In particolare, nei casi di cui al presente parere, i decreti ingiuntivi sono
stati più volte emessi congiuntamente nei confronti del Ministero della
Giustizia (effettivamente tenuto alla corresponsione) e contro il Ministero
dell’Economia e delle Finanze.
In tale ipotesi, in via di principio, occorrerebbe proporre opposizione al
fine di far valere il solo difetto di legittimazione passiva di quest’ultimo
(potrebbero, ovviamente, verificarsi ipotesi in senso inverso).
Al fine, tuttavia, di evitare un inutile proliferazione di contenziosi,
pare opportuno e conforme al pubblico interesse che il Ministero individuato
quale competente dal citato art. 185 provveda all’integrale pagamento
di quanto ingiunto in un’ottica di leale collaborazione tra Amministrazioni
statali.
La presente nota è inviata agli Uffici legislativi anche per segnalare
che il testo unico del 2002, mentre all’art. 98, comma 3, all’art. 112,
comma 1 e all’art. 127, comma 3, consente una iniziativa del’“ufficio
finanziario” volta ad ottenere la revoca dell’ammissione al patrocinio a
spese dello Stato (in precedenza, art. 10, comma 2, della legge n. 217 del
1990), non prevede all’art. 170 la possibilità di una opposizione dell’amministrazione
destinataria del “decreto di pagamento” (o dello stesso “ufficio
finanziario”).
Considerata la consistenza complessiva dei pagamenti ordinati e il principio
del contraddittorio (art. 111 Cost.), una siffatta mera possibilità – da
esercitarsi peraltro solo in casi eccezionali – potrebbe essere esplicitamente
riconosciuta e disciplinata (…)».
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 359
A.G.S. - Parere del 26 febbraio 2007, n. 24832.
Accademia dei Georgofili. Uso gratuito o agevolato della sede di proprietà
demaniale (consultivo 40863/06, avvocato A. Palatiello) (*).
«(…) L’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Firenze ha domandato il
parere della Scrivente in merito alla richiesta di pagamento di canoni avanzata
dall’Agenzia del Demanio (...) all’Accademia dei Georgofili per l’uso
dell’immobile demaniale “ex Torre de Pulci” nel compendio della Galleria
degli Uffizi, in Firenze. La nota anzidetta illustra la questione, richiama i
precedenti pareri in argomento, sottolinea la natura sostanzialmente statale
dell’Ente, esprime l’avviso della gratuità dell’uso, riconosciuta da nota del
12 novembre 1933 n. 113759 del Ministero delle Finanze – P.G.S., sul presupposto
della natura statale dell’Accademia affermata dal R.D. 21 agosto
1897, n. 304 e non contraddetta dalla successiva qualificazione di “ente
morale”, di cui al R.D. 6 giugno 1932, n. 767. Di contrario avviso si è
mostrata l’Agenzia del Demanio, Filiale della Toscana, che alla luce della
normativa sopravvenuta, ed in particolare di quella degli anni Ottanta e
seguenti, sostiene la debenza del canone, sia pure nella misura ridotta di cui,
oggi, all’art. 11 del d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296 (10% del valore locativo
di mercato).
È stato acquisito il punto di vista della Direzione di Coordinamento
Staff-Normativa dell’Agenzia del Demanio, che, con nota 7 dicembre 2006,
n. 36889, ha ribadito il convincimento della “necessaria onerosità del godimento
dell’immobile sia pure a canone agevolato, in coerenza con il comportamento
assunto nei riguardi degli “enti morali”, ma non esclude la propria
disponibilità ad una “possibile soluzione transattiva della controversia”. Da
ultimo, con la nota del 20 dicembre 2006, n. 24308, in conclusiva sintesi,
l’Avvocatura Distrettuale richiama la “singolare peculiarità sia della natura
ed evoluzione storica dell’Accademia, sia del rapporto d’uso, assentito a suo
tempo a titolo gratuito e perpetuo con formale provvedimento amministrativo
mai revocato” in forza del quale la posizione dell’Accademia sarebbe del
tutto diversa da quella degli altri “enti morali” fruitori di immobili demaniali
(in specie, di quelli calendati, insieme con l’Accademia dei Georgofili, nel
d.P.R. 6 novembre 1984, n. 834).
La questione è stata portata all’esame del Comitato Consultivo di cui
all’art. 25 legge 3 aprile 1979, n. 103, per la delicatezza che essa presenta
coinvolgendo due Enti (Agenzia e Accademia) entrambi affidati al patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato ex art. 43 T.U. n. 1611/1933, come modificato
dalla legge n. 103/79 ed entrambi portatori, ciascuno nel proprio ambito,
di interessi anche statali; in particolare, l’Accademia, che fruisce di finan-
360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) L’Accademia dei Georgofili ha proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, che
è stato istruito dall’Agenzia del Demanio ed è all’esame del Consiglio di Stato per l’acquisizione
del parere prescritto ai sensi dell’art. 11, d.P.R. n. 1199/71.
ziamenti statali, non si presenta, nei rapporti di dare-avere, come un soggetto
del tutto “estraneo” allo Stato, così come di certo tale non si presenta
l’Agenzia, che dello Stato, nell’ambito delle sue attribuzioni, cura gli interessi.
In buona sostanza, né ai debiti dell’Accademia né ai crediti
dell’Agenzia è estraneo lo Stato, che può trovarsi a dover fornire la provvista
per l’adempimento dei primi e cioè per il recupero dei secondi, in una
sorta di partita di giro che tale resta pur nel diaframma apparentemente (ma
non economicamente) costituito dall’intervento di diverse soggettività formali.
Il rilievo rende particolarmente doverosa l’indicazione della migliore
via iuris per il superamento del contrasto, cui occorre pervenire, in caso di
res dubia, attraverso reciproche concessioni.
Si tratta dunque di stabilire se l’Accademia dei Georgofili abbia diritto
all’uso gratuito dell’immobile demaniale nel quale ha la propria sede, in
Firenze, “Torre de Pulci”, o se invece debba pagare il canone di concessione
sia pure nella misura ridotta pari a non meno del 10% del valore locativo di
mercato.
Ritiene il Comitato Consultivo che l’Accademia dei Georgofili non è
ente-organo dello Stato: in tali sensi negativi è anche l’interpretazione corrente,
posto che il D.P.C.M. 25 agosto 1995 di attribuzione del patrocinio
dell’Avvocatura ex art. 43 cit. non avrebbe senso se l’ente fosse un’amministrazione
(autonoma) statale perché in tal caso fruirebbe del patrocinio
necessario ex art. 1 R.D. cit.. L’Accademia è dunque un ente non economico
che certamente svolge attività di rilevante interesse pubblico nel campo degli
studi, delle ricerche, del progresso scientifico, etc. (artt. 1 e 2 dello Statuto,
di cui al d.m. 15 ottobre 1999), ma che è collocato tra le istituzioni culturali,
private e pubbliche, distinte dello Stato, elencate nella tabella di cui al
d.P.R. 6 novembre 1984, n. 834, e ammesse al contributo annuale dello Stato.
L’inquadramento dell’ente tra le istituzioni culturali comportò, all’epoca
della vigenza della legge 11 luglio 1986, n. 390, una posizione preferenziale
nell’assegnazione di immobili del demanio statale (art. 1, comma 1°, lett. A)
della legge citata), al “canone ricognitivo annuo non inferiore a lire centomila
e non superiore al 10 per cento di quello determinato … sulla base dei
valori in comune commercio” (art. 1, comma 1°, penultimo periodo). La gratuità
era però confermata solo ove prevista da disposizioni di legge (art. 2, c.
2). Con legge 23 dicembre 1998, n. 448, vennero dettate norme organiche
per l’utilizzo di beni immobili appartenenti a qualsiasi titolo allo Stato; in
particolare, l’art. 19, c. 10 bis, ha disposto la possibilità di assegnare in concessione
“anche gratuitamente” i beni statali nel rispetto di alcuni principi, tra
cui “l’utilizzo dei beni ai fini di interesse pubblico o di particolare rilevanza
sociale”, secondo quanto stabilito con regolamento da emanare ai sensi dell’art.
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Il regolamento è stato
adottato con d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296. In esso si distinguono i “beneficiari
a titolo gratuito”, elencati nell’art. 10, dai “soggetti beneficiari a canone
agevolato”, calendati nell’art. 11, intendendosi per canone agevolato minimo
il dieci per cento del valore di mercato (art. 12), che oggi è, appunto,
rivendicato provvisoriamente dall’Agenzia. E dunque il problema si riduce al
quesito “se l’Accademia dei Georgofili sia ricompresa tra gli enti di cui
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 361
all’art. 10 ovvero dell’art. 11 del d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296”; l’altra
possibilità, che cioè essa non rientri in nessuno dei due elenchi, non è considerato
dell’Agenzia, ma è radicalmente sostenuta dall’Ente con l’unico argomento
della propria natura statale. Ma l’argomento non è condivisibile, stante
l’elencazione dell’Accademia tra le istituzioni culturali ammesse al contributo
ordinario dello Stato (art. 1 legge 2 aprile 1980, n. 123) accanto, peraltro,
ad una serie di enti che certo non possono considerarsi organi statali. Né
può farsi rientrare l’Accademia tra gli enti di cui all’art. 10 regolamento citato:
l’elencazione dell’art. 10 è evidentemente tassativa e di stretta interpretazione,
perché comporta eccezione alla regola generale della corrispettività.
Né l’Accademia è assimilabile alle Università statali il cui fine primario è
l’insegnamento per il perseguimento dei titoli di studio; ben si addice invece
all’Accademia la collocazione tra le “istituzioni … non aventi scopo di lucro
… che perseguono in ambito nazionale fini di rilevante interesse nel campo
della cultura … e della ricerca” di cui alla lett. g) dell’art. 11.
Allo stato della normativa risulta pertanto dovuto dall’Accademia il
canone agevolato di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 296 del 2005.
Ciò detto in astratto, va tuttavia considerata la realtà del rapporto per
come si è evoluto nella sua lunga esistenza (dal 1897 ad oggi). Certamente
sulla gratuità l’Accademia ha legittimamente fatto affidamento: la “concessione
gratuita”, di cui all’atto ministeriale 12 novembre 1933, non è stata mai
revocata; certo, vi è stata richiesta di canoni dagli anni Ottanta in poi, ma al
rifiuto dell’Accademia non vi fu coerente revoca del titolo di “concessione
gratuita”: istituto sostanziale ed unitario, nel quale non è possibile distinguere
la “concessione” dalla “gratuità”, quasi si trattasse di due provvedimenti
distinti. Può, è vero, dubitarsi dell’esigenza del “contraris actus”, ma è altresì
vero che le revoche di atti formali non possono consistere in meri comportamenti
concludenti, né la richiesta di canone è sufficiente a determinare il
provvedimento formale, così come, nel diritto comune, la richiesta di pigione
ad un comodatario gratuito non fa venir meno il comodato se questo è
retto da formale contratto, né a novarlo in locazione.
La dubbiezza oggettiva della questione è vieppiù appesantita dal comportamento
tenuto dall’Accademia in tutto il periodo della sua fruizione del
bene: l’Accademia ha sempre provveduto alla manutenzione, ed in particolare
dichiara, nella nota 16 marzo 2006 diretta all’Avvocatura Distrettuale
dello Stato in indirizzo, di aver provveduto a proprie spese “a restaurare e
ristrutturare l’intero immobile … (di cui ha) poi sempre sostenuto i costi
della manutenzione, anche straordinaria, compresi quelli relativi ai danni
causati dall’ultimo conflitto mondiale e dalla alluvione del 1966”; risulta poi
che l’Accademia ha ottenuto il versamento di L. 3.550 milioni in favore
dell’Erario da parte della Compagnia di Assicurazione Fondiaria per i danni
subiti dall’immobile a seguito dell’attentato dinamitardo del 27 maggio
1993, in virtù di polizza accesa a spese esclusive dell’Ente.
Tutto ciò parrebbe in contrasto con la logica dell’ordinaria onerosità dell’uso,
in presenza della quale non tutte le spese di manutenzione sono a carico
dell’usuario.
In conclusione, tenute presenti le cennate peculiarità del caso di specie,
362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
il Comitato Consultivo di questa Avvocatura ha ritenuto di auspicare una
soluzione transattiva delle reciproche pretese che, per il passato e cioè fino
all’entrata in vigore del regolamento del 2005, tenga conto delle evidenziate
ragioni di dubbio e di legittimo affidamento, nonché delle spese sostenute
dall’Accademia, così drasticamente rideterminandosi a saldo e stralcio il
“quantum” dovuto e che, per il futuro conduca alla determinazione del corrispettivo
tenendosi conto anche degli oneri di manutenzione a carico esclusivo
dell’Accademia e della contabilizzazione del valore aggiunto che l’immobile
ha ricevuto per effetto degli interventi straordinari fatti dall’Ente e
del rimborso delle somme ottenute dall’Erario per la ricordata polizza di
assicurazione: e ciò in un quadro di leale collaborazione, nel perseguimento
dei diversi ma non contrapposti interessi pubblici a ciascuno dei due Enti
affidati.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel cui “patrimonio” in definitiva
ridondano gli effetti economici della auspicata transazione, vorrà dare
un cenno di condivisione».
A.G.S. – Parere del 6 marzo 2007, n. 29057.
Contributi universitari per gli studenti stranieri dell’Accademia di belle
Arti di Brera (consultivo 43149/06, avvocato G. Aiello).
«(…) è stato chiesto l’avviso della Scrivente in merito alla compatibilità,
con la vigente normativa, della diversificazione dei contributi posti a carico
degli studenti per l’iscrizione all’Accademia di Brera in ragione del possesso
o meno dello “status” di cittadino comunitario.
Pur in assenza di specifiche disposizioni regolanti il caso di specie, si
concorda nel ritenere che l’applicazione del differenziato regime di tasse universitarie
per gli studenti extracomunitari incontra il limite dei principi affermati
dall’art. 39 del D.Lgs. n. 286 del 25 luglio 1998, recante il Testo Unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero.
Ai sensi della richiamata disposizione è stabilito, infatti, che “in materia
di accesso all’istruzione universitaria e dei relativi interventi per il diritto
allo studio è assicurata la parità di trattamento tra lo straniero ed il cittadino
italiano, nei limiti e con le modalità di cui al presente articolo”.
In particolare, il terzo comma prevede che sono disciplinati con il regolamento
di attuazione “c) l’erogazione di borse di studio, sussidi e premi agli
studenti stranieri, anche a partire da anni di corso successivi al primo, in
coordinamento con la concessione delle provvidenze prevista dalla normativa
vigente in materia di diritto allo studio universitario e senza obbligo di
reciprocità; d) i criteri per la valutazione della condizione economica dello
straniero ai fini dell’uniformità di trattamento in ordine alla concessione
delle provvidenze di cui alla lettera c)”.
Inoltre, atteso che, ai sensi dell’art. 43 del testo citato, integra la fattispecie
di discriminazione qualunque comportamento implicante l’imposizione
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 363
di “condizioni più svantaggiose” allo straniero soggiornante in Italia soltanto
“in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionalità”, deve concludersi che la
suddetta diversificazione del regime contributivo universitario a carico degli
extracomunitari potrebbe venire a configurarsi quale atto di portata discriminatoria
e di disparità di trattamento nell’accesso all’istruzione universitaria
quand’anche si consideri che il diverso onere contributivo non elide in toto
il diritto all’accesso alla formazione universitaria, essendo sufficiente che lo
renda più gravoso».
A.G.S. – Parere del 14 marzo 2007, n. 32868(*)
Proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area di
Tuvixeddu – Tuvumannu in Cagliari ex art. 138 D.Lgs. n. 42 del 2004 (consultivo
10475/07, avvocato M. Borgo).
«Con nota del 2 marzo 2007, prot. n. 4222 P (…), l’Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Cagliari ha chiesto alla Scrivente di esprimersi in
ordine alla legittimità della composizione della Commissione regionale di
cui all’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04, così come istituita e costituita con deliberazione
della Giunta Regionale della Sardegna n. 51/12 del 12 novembre
2006.
Al proposito, si rappresenta quanto segue.
In via preliminare, questo Generale Ufficio rileva come la Corte
Costituzionale si sia pronunciata, di recente, sulla natura e sulla portata delle
attribuzioni spettanti alla Regione Sardegna in materia di tutela dell’ambiente
e dei beni culturali.
Con la sentenza 10 febbraio 2006, n. 51, la Consulta ha, infatti, dichiarato
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, 4,
commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, dalla legge della Regione Sardegna 25
novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione
paesaggistica e la tutela del territorio regionale), sollevate dal
Presidente del Consiglio dei ministri in relazione agli articoli 3, 97 e 117,
secondo comma, lettera s), della Costituzione, agli articoli 3 e 4 della legge
costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché
alla «disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio».
Nella predetta pronuncia, si legge che “il ricorrente (N.d.E.: il
Presidente del Consiglio dei Ministri) non ha in alcun modo dato conto né
della presenza, in tema di tutela paesaggistica, di apposite norme di attuazione
dello statuto speciale della Regione Sardegna, né della stessa esistenza
di una risalente legislazione della medesima Regione in questo specifico
ambito (legge della Regione Sardegna 22 dicembre 1989, n. 45, recante
364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) Parere reso dall’Avvocatura Generale in via ordinaria.
“Norme per l’uso e la tutela del territorio regionale”) e di cui le disposizioni
impugnate nel presente giudizio rappresentano una parziale modificazione
ed integrazione; le ripetute affermazioni contenute nel ricorso, secondo
le quali le disposizioni impugnate sarebbero illegittime perché «eccedono
dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d’autonomia,
ponendosi in contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera s) della
Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di
tutela dell’ambiente e dei beni culturali», anzitutto non prendono in considerazione
che il Capo III del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme
di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma della
Sardegna), intitolato “Edilizia ed urbanistica”, concerne non solo le funzioni
di tipo strettamente urbanistico, ma anche le funzioni relative ai beni culturali
e ai beni ambientali; infatti, l’art. 6 dispone espressamente, al comma
1, che «sono trasferite alla Regione autonoma della Sardegna le attribuzioni
già esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica
istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n. 765 ed attribuite al
Ministero dei beni culturali ed ambientali con decreto-legge 14 dicembre
1974, n. 657, convertito in legge 29 gennaio 1975, n. 5, nonché da organi
centrali e periferici di altri ministeri». Al tempo stesso, il comma 2 del medesimo
art. 6 del d.P.R. n. 480 del 1975 prevede puntualmente che il trasferimento
di cui al primo comma «riguarda altresì la redazione e l’approvazione
dei piani territoriali paesistici, di cui all’art. 5 della legge 29 giugno
1939, n. 1497». Tenendo presente che le norme di attuazione degli statuti
speciali possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse
espressioni statutarie che delimitano le sfere di competenza delle Regioni ad
autonomia speciale e non possono essere modificate che mediante atti adottati
con il procedimento appositamente previsto negli statuti, prevalendo in
tal modo sugli atti legislativi ordinari (secondo quanto ha più volte affermato
questa Corte: si vedano, fra le molte, le sentenze n. 341 del 2001, n. 213
e n. 137 del 1998), è evidente che la Regione Sardegna dispone, nell’esercizio
delle proprie competenze statutarie in tema di edilizia ed urbanistica,
anche del potere di intervenire in relazione ai profili di tutela paesisticoambientale.
Ciò sia sul piano amministrativo che sul piano legislativo (in
forza del cosiddetto “principio del parallelismo” di cui all’art. 6 dello statuto
speciale), fatto salvo, in questo secondo caso, il rispetto dei limiti
espressamente individuati nell’art. 3 del medesimo statuto in riferimento alle
materie affidate alla potestà legislativa primaria della Regione (l’armonia
con la Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico della
Repubblica e il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali,
nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della
Repubblica). A tale ultimo riguardo, va osservato che il legislatore statale
conserva quindi il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della
Regione speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come “riforme
economico-sociali”: e ciò anche sulla base – per quanto qui viene in
rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni culturali”, di cui all’art. 117, secondo
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 365
comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio
quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza
che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati
in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del
legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria
nella materia “edilizia ed urbanistica” (v. sentenza n. 536 del 2002).
Invece, come questa Corte ha più volte affermato, il riparto delle competenze
legislative individuato nell’art. 117 della Costituzione deve essere riferito
ai soli rapporti tra lo Stato e le Regioni ad autonomia ordinaria, salva
l’applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,
peraltro possibile solo per le parti in cui le Regioni ad autonomia ordinaria
disponessero, sulla base del nuovo Titolo V, di maggiori poteri rispetto alle
Regioni ad autonomia speciale. In questo quadro costituzionale di distribuzione
delle competenze, il legislatore nazionale è intervenuto con il recente
codice dei beni culturali e del paesaggio (approvato con il decreto legislativo
22 gennaio 2004, n. 42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”), il cui art. 8 è
esplicito nel dichiarare che «restano ferme le potestà attribuite alle Regioni
a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti
e dalle relative norme di attuazione»”.
Alla luce delle superiori affermazioni dei giudici costituzionali, non può
che affermarsi che la Regione Sardegna ben avrebbe potuto istituire la
Commissione regionale di cui all’art. 137 del Codice dei beni culturali, anziché
con atto amministrativo, con un atto legislativo, non potendosi, all’evidenza,
attribuire al prefato articolo 137 il carattere di norma di riforma economico-
sociale.
A quanto sopra, si aggiunga che la disciplina delle Commissioni regionali
previste dall’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04 compete, in via generale, alla
potestà legislativa delle Regioni, vertendo in materia di autonomia organizzativa
regionale; tale competenza è stata espressamente riconosciuta dallo
stesso Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nel parere, reso
dall’Ufficio Legislativo con nota del 25 gennaio 06, prot. n. UDC 2042 in
sede di esame, da parte della Conferenza Unificata Stato-Regioni, dello schema
di decreto legislativo correttivo del Codice dei beni culturali (schema che
sarebbe poi diventato il D.Lgs. n. 157/06), ha espressamente affermato che
“la previsione sulla formazione delle commissioni regionali di cui all’art.
137 mirava ad una migliore qualificazione di tali organi, ma si riconosce sin
d’ora la spettanza regionale della disciplina di tali organismi”.
Aconferma di quanto sopra, si evidenzia che una Regione a statuto ordinario,
la Regione Toscana, ha, di recente, promulgato la legge regionale 29
giugno 2006, n. 26 con la quale ha provveduto, per legge, alla istituzione
delle commissioni regionali ex art. 137 del Codice dei beni culturali, come
modificato dal D.Lgs. n. 157/06, dettando una propria disciplina in proposito;
legge che, per quanto consta a questo Generale Ufficio, non risulta essere
stata impugnata davanti alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 127,
comma 1, Cost.
366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ciò premesso in ordine alla natura ed alla portata delle attribuzioni spettanti
alla Regione Sardegna in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali
nonché in ordine alla competenza, in via generale, delle Regioni a dettare
una disciplina legislativa con riferimento alle Commissioni regionali di
cui all’art. 137 del Codice dei beni culturali, è possibile passare alla valutazione
della legittimità, o meno, della composizione della Commissione
regionale di cui all’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04, così come istituita e costituita
con deliberazione della Giunta Regionale della Sardegna n. 51/12 del
12 novembre 2006.
La Regione Sardegna, che ben avrebbe potuto, per le ragioni più sopra
illustrate, dettare, come fatto dalla Regione Toscana, una propria disciplina
legislativa in ordine alla Commissione regionale di cui all’art. 137 del
Codice dei beni culturali, ha preferito procedere alla istituzione della predetta
commissione secondo le previsioni della norma statale.
L’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04, come riformulato dal D.Lgs. n. 157/06,
dispone che: “1. Ciascuna regione istituisce una o più commissioni con il
compito di formulare proposte per la dichiarazione di notevole interesse
pubblico degli immobili indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo
136 e delle aree indicate alle lettere c) e d) del comma 1 del medesimo
articolo 136.
2. Di ciascuna commissione fanno parte di diritto il direttore regionale,
il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio ed il soprintendente
per i beni archeologici competenti per territorio, nonché due dirigenti
preposti agli uffici regionali competenti in materia di paesaggio. I restanti
membri, in numero non superiore a quattro, sono nominati dalla regione
tra soggetti con qualificata, pluriennale e documentata professionalità ed
esperienza nella tutela del paesaggio, eventualmente scelti nell’ambito di
terne designate, rispettivamente, dalle università aventi sede nella regione,
dalle fondazioni aventi per statuto finalità di promozione e tutela del patrimonio
culturale e dalle associazioni portatrici di interessi diffusi individuate
ai sensi dell’articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349. Decorsi infruttuosamente
sessanta giorni dalla richiesta di designazione, la regione procede
comunque alle nomine.
3. Fino all’istituzione delle commissioni di cui ai commi 1 e 2, le relative
funzioni sono esercitate dalle commissioni istituite ai sensi della normativa
previgente per l’esercizio di competenze analoghe”.
Orbene, esaminando la Deliberazione della Giunta Regionale della
Sardegna n. 51/12 del 12 novembre 2006 alla luce delle disposizioni, contenute
nell’art. 137 del Codice dei beni culturali, sembra potersi pervenire ad
un’affermazione di piena legittimità del predetto atto deliberativo.
Con riferimento alla composizione della Commissione regionale, la predetta
Delibera ha previsto, in ossequio alla previsione contenuta nella prima
parte del secondo comma dell’art. 137, che ne facciano parte, quali membri
di diritto, il direttore regionale, il soprintendente per i beni architettonici e
per il paesaggio ed il soprintendente per i beni archeologici competenti per
territorio, nonché due dirigenti preposti agli uffici regionali competenti in
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 367
materia di paesaggio (nel caso di specie, il Direttore Generale dell’Assessorato
della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e
Sport o un dirigente dello stesso Assessorato suo delegato ed il Direttore del
Servizio Tutela del Paesaggio competente per territorio o un suo delegato).
Quanto ai restanti quattro componenti della Commissione, gli stessi sono
stati autonomamente nominati dalla Giunta Regionale senza la previa designazione
delle terne da parte dei soggetti, menzionati nel secondo comma
dell’art. 137.
Aquesto ultimo proposito, si osserva che, contrariamente a quanto affermato
dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, la formulazione
letterale dell’art. 137 del Codice (come modificato dal D.Lgs. n. 157/06)
risulta perfettamente congruente all’intenzione del legislatore (espressa nella
relazione di accompagnamento del D.Lgs., da ultimo menzionato) di rimettere
alla valutazione discrezionale della Regione la decisione se richiedere le
terne ovvero procedere alla nomina prescindendo da tale adempimento; ed
invero, l’espressione “eventualmente scelti nell’ambito di terne designate”,
utilizzata dalla norma statale, sta a significare che la richiesta di designazione
di terne, nell’ambito delle quali scegliere i quattro componenti della
Commissione, costituisce una facoltà attribuita alla Regione che potrà decidere
liberamente se avvalersene o meno.
Né la predetta interpretazione risulta sconfessata dal fatto che la norma
di cui sopra prosegua affermando che “Decorsi infruttuosamente sessanta
giorni dalla richiesta di designazione, la regione procede comunque alle
nomine”.
Quest’ultima previsione deve essere interpretata nel senso che, ove la
Regione abbia deciso di esercitare, in senso positivo, la facoltà di richiedere,
ai soggetti menzionati dal comma 2 dell’art. 137, la designazione delle terne,
dovrà, poi, attendere lo spirare infruttuoso del termine di sessanta giorni al
fine di procedere autonomamente alle predette nomine; e ciò si spiega con il
fatto che, essendosi, la Regione, autolimitata nel proprio operare, con la scelta
di avvalersi della facoltà, sopra menzionata, non può, poi, procedere alle
nomine medesime prescindendo dalla predetta designazione, se non nel caso
in cui i soggetti, cui è attribuita la predetta designazione, non vi abbiano
provveduto nel termine previsto dalla legge.
Quanto agli ulteriori profili, oggetto dei pareri, resi dall’Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Cagliari in ordine alla pratica in argomento, questo
Generale Ufficio si riserva ogni valutazione in ordine all’opportunità di
procedere ad un riesame degli stessi non appena perverrà la documentazione
di corredo alle note degli Uffici periferici dell’Amministrazione dei Beni
Culturali, cui l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari ha dato riscontro
con le predette consultazioni».
A.G. S. – Parere del 15 marzo 2007, n. 33252.
Assistenza tecnica dell’Agenzia del Demanio nel processo dinanzi alle
Commissioni tributarie (consultivo 40972/06, avvocato F. Favara).
368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
«Come noto, l’art. 12 del D.Lgs 31 dicembre 1992 n. 546, al comma 1
prevede che l’“ufficio del Ministero delle Finanze” e l’“ente locale” impositore
stiano in giudizio di persona, senza necessità di essere patrocinati da un
“difensore abilitato” (non riguarda lo “ius postulandi” l’art. 11 comma 2 del
medesimo D.Lgs. ), e al comma 4 dispone che soltanto nel giudizio dinanzi
alle Commissioni tributarie regionali l’anzidetto “ufficio” può essere assistito
dall’Avvocatura dello Stato.
La nota a riferimento pone due quesiti, e precisamente:
1) se l’Agenzia del Demanio possa, dopo la trasformazione in ente pubblico
economico, continuare a stare in giudizio di persona senza assistenza
di un difensore abilitato;
2) se la predetta Agenzia possa essere patrocinata dall’Avvocatura dello
Stato anche dinanzi alle Commissioni tributarie provinciali.
In ordine al primo quesito si osserva preliminarmente che l’Agenzia del
Demanio non è ente impositore di tributi o contributi (art. 2 del D.Lgs. 31
dicembre 1992 n. 546, come modificato nel 2001). Cionondimeno, non di
rado essa è destinataria di ricorsi proposti alle commissioni tributarie avverso
atti recanti richieste di pagamento di canoni; ricorsi per i quali il Giudice
tributario è carente di giurisdizione. Peraltro, anche in controversie siffatte
sussiste l’esigenza di una attività defensionale dell’Agenzia.
Tale attività può essere validamente svolta, ad avviso di questa
Avvocatura generale, da “funzionari” (così art. 15 comma 3 del citato D.Lgs.)
dell’Agenzia; e ciò non soltanto quando il valore della lite è inferiore all’equivalente
di lire 5 milioni (art. 12 comma 5 del citato D.Lgs. ). Giova premettere
che le disposizioni – anche di portata generale (quale l’art. 82 comma
terzo c.p.c.) – che impongono nell’interesse del funzionamento della
Giustizia l’onere di avvalersi dei “servizi legali” di un patrocinatore abilitato
sono, ancorché giustificate da detto interesse, di stretta interpretazione in
quanto limitano una capacità delle persone (non rileva se fisiche o giuridiche).
L’art. 57 del D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 300 ha istituito le agenzie fiscali
“per la gestione delle funzioni esercitate” da dipartimenti o uffici del
Ministro delle Finanze, e ad esse ha trasferito “ i relativi rapporti giuridici,
poteri e competenze”. Tra questi il potere – dovere di difendere a mezzo di
propri “funzionari” gli interessi della “parte” Stato (cfr. Corte cost., 1 febbraio
2006 n. 31, par. 2) nei giudizi dinanzi alle Commissioni tributarie.
Tale compito è così svolto da anni dalle Agenzie, senza che siano insorti
dubbi interpretativi. Occorre aggiungere che alle Agenzie non è consentito
farsi assistere nei predetti giudizi da professionisti privati “abilitati” ai
sensi del comma 2 del menzionato art. 12; esse possono solo optare per il
patrocinio della Avvocatura dello Stato.
La non – necessità, anzi la non – possibilità, dell’affidamento a professionisti
privati della cosiddetta “assistenza tecnica” nei giudizi in questione
è stata prevista per tutti gli uffici del già Ministero delle Finanze, quindi
anche per quelli devoluti all’Agenzia del Demanio. Tale assunto è del resto
condiviso da tale Agenzia, la quale ora solleva qualche dubbio soltanto con
riguardo alla sopravvenuta sua trasformazione in ente pubblico economico.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 369
Sennonché, non pare che detta trasformazione, incidente sul versante della
organizzazione, si sia riverberata – nel silenzio della legge sul punto – anche
sulla “gestione delle funzioni esercitate” e, per quanto qui interessa, abbia
fatto venir meno l’anzidetto potere – dovere.
Occorre aggiungere, per quanto attiene ai giudizi dianzi alle
Commissioni tributarie provinciali, che sin qui si è considerato il caso “normale”
che vede l’Agenzia nella veste di resistente a ricorso proposto da un
soggetto reputato debitore. Qualora invece l’Agenzia del Demanio intenda
proporre ricorso avverso atto di ente locale impositore, appare opportuno –
per prudenza – che essa si avvalga, per le liti di valore superiore all’equivalente
di lire 5 milioni, del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Nel caso
insorgesse una vertenza tra Agenzia del demanio ed altra Agenzia fiscale,
questa Avvocatura generale sarebbe a disposizione per la ricerca di una composizione,
In assenza della quale emergerebbe una situazione di conflitto di
interessi.
Un atteggiamento prudenziale è consigliabile anche quanto agli appelli
alla Commissione tributaria regionale che l’Agenzia intendesse proporre, in
via principale o incidentale. Per prevenire ogni questione relativa al patrocinio
è bene che nel secondo grado l’Agenzia del Demanio ( almeno di norma)
si avvalga dell’Avvocatura dello Stato.
Risposta affermativa deve darsi anche al secondo quesito.
L inciso “nel giudizio di secondo grado” contenuto nell’art. 12 comma 4
del citato D.Lgs. n. 546 del 1992 appare incompatibile con – e perciò implicitamente
abrogato dal – sopravvenuto art. 72 del D.Lgs. n. 300 del 1999;
tale art. 72 non pone alcun limite alla possibilità di avvalersi del patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato.
Peraltro poiché l’Agenzia del Demanio dispone di uffici decentrati in
sedi nelle quali non v’è ufficio dell’Avvocatura dello Stato, considerazioni di
carattere pratico dovrebbero consigliare di preferire, quanto meno per i giudizi
svolgentesi in dette sedi, la difesa a mezzo di “funzionario”
dell’Agenzia».
A.G.S. – Parere del 30 marzo 2007 n. 41082.
Cartolarizzazione alloggi di servizio (consultivo 8711/07, avvocato P.
Gallo).
«(…) codesta Direzione Generale ha richiesto la corretta interpretazione
dell’art. 26, comma 11 quater, 1egge n. 326/2003, nella parte in cui esclude
dall’alienazione – secondo le modalità e le condizioni previste al capo I del
decreto legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla
legge 23 novembre 2001, n. 410 –, gli alloggi che “sono occupati da soggetti
ai quali sia stato notificato, anche eventualmente a mezzo ufficiale giudiziario,
il provvedimento amministrativo di recupero forzoso”.
Secondo codesta Direzione Generale, infatti, il tenore della disposizione
in esame sarebbe tale da escludere l’alienabilità di 140 unità abitative, i cui
370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
utenti sono stati raggiunti dalla notifica di un provvedimento di recupero forzoso,
anteriormente all’entrata in vigore della 1egge n. 326/2003.
Contrariamente a quanto precede, invece, l’Ufficio Legislativo del Ministero
della Difesa ha ritenuto, con nota del 20 luglio 2006 prot. 8/31288, che il
suddetto limite non possa considerarsi più sussistente, in considerazione del
tenore dell’art. 4 quater, del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, che nell’interpretare
le parole “non ubicati nelle infrastrutture militari” dell’art. 26, comma
11 quater, primo periodo, d.l. n. 269/2003, avrebbe chiarito che il criterio di
riferimento dell’alienabilità o meno degli alloggi sarebbe esclusivamente
costituito dalla loro destinazione o meno al diretto e funzionale servizio di
basi, impianti ed installazioni militari; in una tale prospettiva, pertanto, le
specifiche ipotesi di esclusione dalla vendita di cui all’art. 26, comma 11
quater cit., sarebbero state in sostanza dirette a chiarire, prima della stessa
norma interpretativa, gli alloggi che erano da considerare necessari in base
ai criteri oggettivi segnatamente indicati.
In questo senso lo stesso Ufficio legislativo ha rilevato, inoltre, che una
interpretazione diversa porterebbe alla situazione difficilmente sostenibile
per cui un alloggio che non costituisce infrastruttura militare e che non è ad
essa ritenuto funzionale risulterebbe comunque inalienabile per il solo fatto
di essere stato interessato da un provvedimento di recupero forzoso, anche se
adottato molti anni addietro e mai portato ad esecuzione dalla stessa
Amministrazione, in contrasto con i principi di efficienza ed economicità cui
deve sempre ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione.
Un tale avviso è stato poi ribadito e confermato dall’Ufficio Legislativo
con successiva nota del 9 novembre 2006 prot. 8/46177, con cui si è comunque
invitata codesta Direzione Generale a formulare una eventuale richiesta
di parere alla Scrivente Avvocatura Generale dello Stato.
Ciò premesso, si ritiene che l’avviso espresso dall’Ufficio Legislativo
del Ministero della Difesa non possa essere condiviso, stante l’attuale tenore
delle vigenti disposizioni. In particolare, secondo la tesi sopra esposta,
l’incidenza dell’art. 4 quater del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 (aggiunto
dalla legge di conversione 23 febbraio 2006, n. 51) non sarebbe solo limitato
all’interpretazione delle parole “non ubicati nelle infrastrutture militari”
contenute nell’art. 26, comma 11 quater alinea, cit., bensì varrebbe ad abrogare
anche il periodo successivo contenuto nel medesimo comma e recante
la triplice indicazione di immobili sottratti alle operazioni di cartolarizzazione,
segnatamente indicati con le lettere a), b) e c).
Una tale conclusione non pare tuttavia essere autorizzata atteso che:
– il secondo periodo dell’art. 26, comma 11 quater, cit. appare autonomo
e non una mera specificazione esemplificativa del dettato di cui al primo
periodo. Esso infatti intende escludere dalle operazioni di cartolarizzazione,
sulla base di valutazioni espressione di discrezionalità legislativa, determinate
categorie di immobili che già non rientrano nel novero di quelli “posti al
diretto e funzionale servizio di basi, impianti o installazioni militari, ai sensi
dell’articolo 5, comma 1, della legge 18 agosto 1978, n. 497” (art. 4 quater
d.l. n. 273/2005 cit.). Posto quindi che la disposizione in esame, nella sua tri-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 371
plice articolazione, non è una mera esemplificazione o specificazione della
disposizione di cui al periodo che precede, essa continua a sopravvivere
all’interpretazione autentica dell’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. e, stante il
suo tenore letterale, continua ad escludere dalle procedure di alienazione in
parola le unità abitative i cui utenti sono stati raggiunti dalla notifica di un
provvedimento di recupero forzoso, anteriormente all’entrata in vigore della
1egge n. 326/2003;
– l’interpretazione suggerita dall’Ufficio Legislativo del Ministero della
Difesa appare anche andare oltre i confini dell’interpretazione autentica operata
dall’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. Secondo tale avviso, infatti, l’art.
4 quater d.l. n. 273/2005 cit. avrebbe invero interpretato autenticamente l’intero
art. 26, comma 11 quater, cit., mentre è lo stesso art. 4 quater d.l. n.
273/2005 cit. a restringere la propria interpretazione solo alle parole “non
ubicati nelle infrastrutture militari” contenute nell’art. 26, comma 11 quater
alinea, cit., lasciando per il resto inalterata (e non interpretata) le restante
parte dell’art. 26, comma 11 quater cit.
Per quanto concerne infine l’osservazione secondo la quale la diversa
interpretazione condurrebbe all’incoerenza di ritenere inalienabile un immobile
che si trovi nelle situazioni indicate nell’art. 26, comma 11 quater,
secondo periodo, cit., sebbene espressamente non posto al diretto e funzionale
servizio dell’Amministrazione militare, è da rilevare che una tale conclusione
appare incoerente solo se si muove dal presupposto, non condiviso
dalla Scrivente, che unico ed esclusivo presupposto per l’alienabilità degli
immobili sia allo stato offerto dalla disposizione di interpretazione autentica
di cui all’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit.
Al contrario, se non si condivide il suddetto presupposto, dovrà invece
rilevarsi che l’esclusione dall’alienazione in parola degli immobili di cui
alle categorie indicate dall’art. 26, comma 11 quater, lett. a), b) e c), cit.,
risponde a scelte discrezionali del legislatore, di cui non resta che prendere
atto e la cui congruenza non è in ogni caso sindacabile a livello amministrativo
».
A.G.S. – Parere del 14 aprile 2007, n. 46456.
S. s.p.a. – Ordine del giorno dell’assemblea ordinaria degli azionisti -
Individuazione dell’organo competente per la redazione del progetto di
bilancio dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2006 e della relazione accompagnatoria
(consultivo 16024/07, avvocato G. D’Amato).
«Nel perdurare della mancata nomina del commissario straordinario e del
subcommissario previsti dal comma 504 dell’art. 1 della legge 296/06, il collegio
sindacale di S. ha convocato (per il 12 aprile in prima convocazione e
per il 17 aprile in seconda convocazione ) l’assemblea della S. s.p.a. (unico
azionista codesto Ministero) con il seguente ordine del giorno: “individuazione
dell’organo competente per la redazione del progetto di bilancio dell’esercizio
chiuso al 31 dicembre 2006 e della relazione accompagnatoria”.
372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Per il che viene chiesto di conoscere “l’orientamento” della Scrivente
circa la possibilità per l’assemblea di deliberare su tale ordine del giorno.
La citata legge 296/06 (finanziaria 2007), entrata in vigore il 1 gennaio
2007, testualmente prevede ai commi 503 e 504 dell’art. l:
“Il Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministero
dell’ambiente e della tutela “del territorio e del mare, sentito il Ministero
delle infrastrutture, é autorizzato a procedere entro “centottanta giorni dalla
data di entrata in vigore della presente legge alla trasformazione della “S.
s.p.a., al fine di renderla strumentale alle esigenze e finalità del Ministero
dell’ambiente e “della tutela del territorio e del mare, anche procedendo a
tale scopo alla fusione per incorporazione “con altri soggetti, società e organismi
di diritto pubblico” che svolgono attività nel medesimo settore della S.
“Per la realizzazione delle finalità di cui al comma 503, alla data di
entrata in vigore della presente legge, gli organismi di amministrazione della
S. sono sciolti e sono nominati un “Commissario straordinario e un subcommissario,
con decreto del Ministero dell’economia e delle “finanze, su proposta
del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito
il “Ministero delle infrastrutture”.
Lo scioglimento degli organismi di amministrazione della S. è stato disposto
quindi non per motivi di sfiducia, inerzia o malfunzionamento di questi come
avviene in via di controllo sostitutivo in sede amministrativa, ma a livello legislativo,
per la realizzazione delle finalità di cui al comma 503, cioè in vista della
trasformazione della società, per adeguarla alla nuova missione strumentale
assegnatale, anche attraverso fusione per incorporazione con altri soggetti.
Non è prevista, di conseguenza, la ricostituzione dell’organo ed il ripristino
della gestione ordinaria entro una data prefissata o al termine dei compiti
specificamente assegnati al commissario straordinario; si è inteso invece
sopprimere l’organo come tale, sul presupposto che le operazioni implicate
dalla prevista trasformazione (da attuare, secondo la previsione di legge,
entro il 1 luglio p. v.), che potrebbero portare anche all’estinzione della
società in forza di fusione per incorporazione con altri soggetti, più agevolmente
e snellamente sarebbero state poste in essere da un organo straordinario
monocratico specificamente deputato.
Si è disposta, pertanto, una modifica statutaria, non dissimile, in un certo
senso, alla messa in liquidazione della società.
In riscontro alla nota del 12 gennaio del Collegio sindacale di S., che
comunicava la sua presa d’atto dell’avvenuto scioglimento del consiglio di
amministrazione e di volersi conformare alle disposizioni degli artt. 2385 e
2386 C.C., codesto Ministero raccomandava allo stesso Consiglio, nelle
more dell’emanazione del provvedimento di nomina del commissario straordinario
e del subcommissario, “di voler salvaguardare l’integrità patrimoniale
della società attenendosi a quanto previsto dall’art. 2386 C.C. nel caso di
cessazione degli amministratori compiendo nel frattempo gli atti di ordinaria
amministrazione ritenuti necessari”.
La linea in tal modo seguita in sede applicativa da codesto Ministero
intende quindi escludere che il permanere del preesistente organo ammini-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 373
strativo (di cui si ignora quale sarebbe stata l’ordinaria scadenza) sino alla
nomina dell’organo straordinario sia compatibile con la disposizione del
sopra riportato comma 504. Non si è ritenuta, in altri termini, una subordinazione
dell’operatività della stessa disposizione all’emanazione del provvedimento
amministrativo di nomina dell’organo straordinario, né si è ipotizzata
un’applicazione analogica della disposizione del comma secondo dell’art.
2385 C.C. (che pure era stato richiamato dal Collegio sindacale) concernente
il caso di cessazione degli amministratori per scadenza del termine.
Può tuttavia ritenersi che nell’art. 2385, comma 2, trovi espressione un
principio generale dell’ordinamento in materia societaria: quello della contestualità
tra cessazione dell’organo amministrativo e sostituzione del medesimo,
per evitare vuoti di potere suscettibili di pregiudicare la funzione
gestionale.
Per tale verso la norma provvedimento dettata con il comma 504, a
volerla intendere nel senso che abbia disposto il commissariamento della
società con effetto immediato rinviando ad un successivo provvedimento
amministrativo la nomina del Commissario straordinario, troverebbe per
certo un’irragionevole applicazione nel momento in cui venga ritardata oltre
misura la nomina del Commissario con esclusione, nel contempo, di una procrastinazione
della cessazione dei precedenti amministratori (ciò a non voler
dubitare, nell’accennata ipotesi interpretativa, della legittimità della norma
stessa, in quanto consenta un ritardo indefinito di tale nomina).
Non può comunque sottacersi che un recupero in sede applicativa del
principio espresso dal comma secondo dell’art. 2385 c.c. porrebbe, allo stato,
sul piano pratico, un problema di legittimità degli atti medio tempore (tre
mesi e mezzo) compiuti dal collegio sindacale (di cui si ignora il rilievo)
oltre a creare, in ipotesi, problemi di rapporto con i precedenti amministratori
esclusi ex abrupto dalla gestione.
In ogni caso, per quanto concerne lo specifico problema della redazione
del bilancio dell’esercizio chiuso il 31 dicembre 2006, è da considerare che
al collegio sindacale è istituzionalmente affidato il controllo della società
(nella specie anche il controllo contabile ex art. 2409 bis, comma terzo, c.c.)
e quando la legge eccezionalmente ed in via transitoria gli affida compiti di
gestione (art. 2386 u.c.) ne limita i poteri al compimento degli atti di ordinaria
amministrazione. Tale ultima disposizione codicistica, di carattere eccezionale
e di stretta interpretazione, non sembra che, per ragioni di compatibilità,
possa intendersi estesa a ricomprendere il potere di redazione del
bilancio, atto che assolve alla finalità di trasparenza e di leale informazione
dei soci (nella specie solo codesto Ministero) e dei terzi circa le vicende
patrimoniali ed economiche della società, oggetto specifico dell’attività di
controllo dello stesso collegio sindacale. Non è dato rinvenire precedenti
giurisprudenziali al riguardo (tale non potrebbe ritenersi quello, comunque
negativo, della Corte d’Appello di Catanzaro n. 440/02, che ha annullato la
delibera assembleare di approvazione di un bilancio redatto dal collegio sindacale
sul presupposto dell’insussistenza in tale materia di un potere sostitutivo
ex art. 2406 c.c. in caso di inerzia degli amministratori; non v’è pronun-
374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zia della Corte di Cassazione sul punto, essendo stata dichiarata assorbita la
relativa impugnazione in ragione dell’accoglimento di pregiudiziali motivi
di censura; v. Cass. 1034/07).
Ne consegue che legittimamente, anche al fine di sottrarre a personali
responsabilità i suoi componenti, il collegio sindacale ha convocato l’assemblea
per rendere edotto formalmente l’azionista della situazione di stallo. Ciò
in linea, del resto, con quanto previsto dall’ultimo comma del più volte
richiamato art. 2386.
Né il collegio sindacale avrebbe potuto mettere direttamente all’ordine
del giorno la nomina degli amministratori, tenuto conto delle ineludibili previsioni
della legge 296/07 in ordine alla natura ed alle modalità di nomina
dell’organo amministrativo.
Alla stregua di quanto sopra considerato e pur nella consapevolezza
delle accennate difficoltà pratiche e di principio, ritiene comunque la
Scrivente che, ove non si ritenga di disertare l’Assemblea nella previsione di
poter effettivamente addivenire in tempi ristretti alla nomina del commissario
straordinario, l’indicazione richiesta dall’ordine del giorno non potrebbe
che essere riferita al consiglio di amministrazione già in carica.
Ciò in base ad un principio di coerenza dell’ordinamento e ad una lettura
della norma del comma 504 costituzionalmente orientata, nel senso che
essa postuli una necessaria contestualità tra l’efficacia dello scioglimento
degli organismi amministrativi della società direttamente da essa disposto e
la nomina del commissario in via amministrativa, di tal ché tale ultimo provvedimento
amministrativo si ponga come presupposto condizionante la
piena operatività del provvedimento da essa stessa norma recato».
A.G.S. – Parere del 17 aprile 2007 n. 47332.
Art. 15 e seguenti del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Estinzione anticipata
del finanziamento agevolato da parte del soggetto finanziato – (consultivo
1952/07, avvocato G. Albenzio)
«1. Codesta Agenzia sottopone all’esame di questa Avvocatura generale
la circolare n. 6 del 2006 emanata in seguito a parere reso in relazione alla
sentenza della Corte di Cassazione n. 11165 del 2005, sulla inapplicabilità
del trattamento previsto dagli artt. 15 e seguenti del d.P.R. n. 601 del 1973
nei casi in cui nel contratto stipulato tra l’istituto creditizio ed il soggetto
finanziato sia apposta una clausola che a quest’ultimo riconosce la facoltà di
estinguere il debito anche prima del decorso di diciotto mesi.
Codesta Agenzia riferisce, facendole proprie, perplessità manifestate dal
Consiglio notarile sulla estensione dell’ambito operativo della citata circolare
anche ai casi di finanziamenti regolati dal Testo unico bancario (D.Lgs. n.
385 del 1993), caratterizzati dalla inderogabilità delle clausole che consentono
al soggetto finanziato di restituire anticipatamente la somma mutuata.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 375
Premesso che al par. 2, lett. e, del precedente parere della Scrivente (cs.
26777/06) era stata fatta riserva di approfondire il profilo oggetto delle
osservazioni del Consiglio Notarile “in occasione di specifica vicenda” e
considerato che il detto parere si era mosso nell’ambito segnato dall’oggetto
della decisione della Suprema Corte [“nei limiti indicati nella motivazione
(“il beneficio non è applicabile a quelle convenzioni che, pur prevedendo
una durata del finanziamento superiore a diciotto mesi, contengono una clausola
che consenta al soggetto finanziato di risolvere anticipatamente il rapporto
attraverso l’estinzione del debito prima che decorra la durata minima
stabilita dalla norma”), il disposto della sentenza non pare possa essere
disatteso dagli uffici di codesta Agenzia; ciò allo stato della giurisprudenza,
in attesa di ulteriori pronunce da parte della Suprema Corte”], appare
opportuno ritornare sull’argomento per fornire a codesta Agenzia elementi
utili per l’esercizio dei propri poteri istituzionali.
2. Riesaminata l’intera problematica relativa all’oggetto, ritiene la
Scrivente di poter svolgere alcune considerazioni di principio.
A) Profilo civilistico: la facoltà di estinzione anticipata dei mutui bancari.
Secondo principio generale espresso nell’art. 1184 cod. civ., il termine
per l’adempimento dell’obbligazione si presume stabilito a favore del debitore.
Ciò significa che (in difetto di diverse pattuizioni) è sempre in facoltà
del debitore l’adempimento anticipato.
Per quanto invece concerne specificamente il contratto di mutuo, l’art.
1816 cod. civ. – norma essa pure non cogente, essendo consentite diverse
pattuizioni – dispone che il termine per la restituzione é stabilito a favore di
entrambe le parti, con la precisazione (significativa dell’interesse del creditore
al rispetto del termine nel caso di mutuo oneroso) che torna invece applicabile
il principio espresso nell’art. 1184 se il mutuo è a titolo gratuito.
Quanto alla normativa di settore per gli enti creditizi, il T.U. D.Lgs. n.
385 del 1993 (che ha superato le precedenti distinzioni e limitazioni soggettive
per l’esercizio dell’attività bancaria), nell’art. 40 relativo al credito fondiario
– richiamato nell’art. 42 e nell’art. 44 per quanto rispettivamente concerne
il credito alle opere pubbliche, il credito agrario, nonché il credito peschereccio,
ove i relativi finanziamenti siano garantiti da ipoteca su immobili –
stabilisce che i debitori hanno facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o
in parte, il proprio debito, solo corrispondendo alla banca un compenso onnicomprensivo
“contrattualmente stabilito...” per l’anticipata estinzione.
L’art. 125 dello stesso T.U., per il credito al consumo (cioè a favore di
consumatore, tale ritenendo la “persona fisica che agisce per scopi estranei
all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”) prevede
che la facoltà di adempiere in via anticipata (come quella di recedere dal contratto)
senza penalità spetta unicamente al consumatore – senza possibilità di
patto contrario – il quale ha inoltre diritto a un’equa riduzione del costo complessivo
del credito nel caso di esercizio di detta facoltà. Ciò alle condizioni
di cui al comma 4 del citato art. 125 [tra le altre: che il finanziamento sia
ricompreso nei limiti di importo inferiore e superiore stabiliti dal CICR (lett.
376 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
a); non sia rimborsabile in unica soluzione entro diciotto mesi con il solo
eventuale addebito di oneri non calcolati in forma di interessi (lett. c); non
sia destinato all’acquisto, conservazione, restauro o miglioramento di un
immobile (lett. e)].
Non interessa qui il credito al consumo. Ai fini del presente parere,
occorre soffermarsi sui finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da
ipoteca su immobili, che rientrano nell’ampia nozione di credito fondiario
(art. 38 T.U. citato), nonché sui finanziamenti a medio e lungo termine per
credito alle opere pubbliche, credito agrario e credito peschereccio se garantiti
da ipoteca su immobili. Operazioni che, da un lato, per la presenza della
garanzia, interessano l’ambito operativo di codesta Agenzia (servizi di pubblicità
immobiliare), e, d’altro lato, per la “durata contrattuale” dell’operazione
di finanziamento, possono in astratto rientrare nell’ambito previsionale
dell’art. 15 del d.P.R. 601 del 1973.
Come accennato, la normativa bancaria attribuisce al debitore la facoltà
di adempiere anticipatamente, senza stabilire alcun limite temporale, l’esercizio
di tale facoltà, salva la previsione di un compenso contrattualmente stabilito,
in ragione dell’interesse del creditore al termine contrattualmente fissato
per l’adempimento (compenso che, con la parziale novellazione dell’art.
40 citato ad opera dell’art. 6 D.Lgs. n. 342 del 1999, il legislatore si preoccupa
di contenere). Di qui l’esigenza dell’inserimento nel contratto di una
clausola disciplinatrice dell’ipotesi di estinzione anticipata del mutuo, in
funzione non già dell’attribuzione convenzionale al debitore di una tale
facoltà di adempimento anticipato, ma della definizione delle conseguenze
economiche dell’esercizio dell’anzidetta facoltà (derivante dalla legge).
Nella linea legislativa di riconoscimento, nei contratti bancari, di un
diritto potestativo del debitore ad estinguere il mutuo anticipandone l’adempimento,
si iscrive anche l’art. 7 del recente D.L. 31 gennaio 2007 n. 7 convertito
nella legge 2 aprile 2007 n. 40.
Con riguardo ai contratti di mutuo per l’acquisto della prima casa, in
deroga all’art. 40 (ed in analogia all’art. 125) del T.U.L.B., questo art. 7 vieta
la stipulazione anche successiva (sancendone la nullità) di clausole che
comunque stabiliscano penali o prestazioni a carico del mutuatario che
richieda l’estinzione anticipata. Sicché non è più necessario considerare la
facoltà di adempimento anticipato nel testo contrattuale.
I commi 5 e seguenti dello stesso art. 7, oltre che le disposizioni degli
artt. 6 e 8, esse pure espressive di un favor debitoris, rendono chiaro che la
nuova disciplina è riferita a mutui erogati da soggetto esercente attività bancaria.
Dei mutui bancari non finalizzati all’acquisizione della prima casa, in
ordine ai quali fosse stato pattuito un termine in favore del creditore, l’art. 8
stabilisce la portabilità, con esclusione di qualsiasi preclusione all’esercizio
della facoltà di surrogazione; e con riguardo a tutti i tipi di mutuo bancario
l’art. 6 allevia il regime delle spese inerenti alla cancellazione dell’ipoteca.
Da un punto di vista civilistico, il concetto di durata contrattuale, riferito
ad un’operazione di finanziamento, può definirsi – quando è concordato
un piano di ammortamento o è stabilita una restituzione a rate – in relazione
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 377
a detto piano ovvero alla scadenza dell’ultima rata di restituzione. Tale durata
non rimane alterata né relativizzata dalla previsione nel contratto delle
condizioni economiche dell’eventuale esercizio della facoltà di estinzione
anticipata spettante al debitore, che non a caso possono anche rapportarsi al
“tempo residuo di ammortamento” (cfr. delibera CICR 9 febbraio 2000 in
G.U. 22 febbraio 2000 n. 43).
La (eventuale) considerazione contrattuale di una facoltà di un adempimento
anticipato, con effetto estintivo del rapporto, non rende il contratto
privo di termine (per la cui essenzialità nel mutuo v. art. 1817) ma riguarda
l’adempimento delle obbligazioni che dal contratto derivano e che possono
esaurire il rapporto ante tempus (cioè prima del “tempo contrattuale” convenuto).
Concettualmente un’estinzione anticipata può definirsi tale proprio
perché si realizza prima del termine finale contrattualmente stabilito di durata
dell’operazione, termine la cui rilevanza non viene meno, come emerge
dalla eventuale previsione di un onere ad essa estinzione correlato.
L’adempimento anticipato, che estingue il rapporto per esaurimento del
suo contenuto legale (nel caso del mutuo, l’obbligo di integrale restituzione)
è ben diverso dal recesso da un contratto di durata; questo non postula un’anticipazione
di adempimento ma fa cessare il rapporto senza esaurirne i previsti
contenuti, semplicemente anticipandone il termine di scadenza e riducendone
i contenuti stessi.
Da quanto sinora esposto discende, conclusivamente, che devono riconoscersi:
a) la titolarità, in capo a chi sia debitore in base a contratto di finanziamento
posto in essere con soggetto esercente attività bancaria, di una
facoltà di adempimento anticipato (il cui esercizio può essere oneroso o
meno a seconda del tipo e dello scopo del finanziamento) che deriva direttamente
dalla legge e non dal contratto; b) l’irrilevanza della considerazione
negoziale di tale facoltà (non soggetta a limiti temporali di esercizio) ai fini
dell’individuazione della durata contrattuale di un’operazione di finanziamento,
la quale prescinde dalla possibilità di un adempimento anticipato.
B) Profilo fiscale: il beneficio di cui agli artt. 15-18 del d.P.R. n. 601 del 1973.
È necessario, ora, verificare il contenuto specifico della norma di agevolazione
di cui al citato art. 15 e lo spazio applicativo della medesima in
relazione all’attuale disciplina delle attività bancarie, che ha radicalmente
innovata rispetto a quella previgente sia sul piano soggettivo che su quello
oggettivo.
Prima di soffermarsi sul tema, occorre aver presente che l’art. 26 del
d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 prevede trattamenti differenziati per gli interessi
ed altri proventi in relazione alla “scadenza non inferiore a diciotto
mesi” (od invece inferiore). È notorio che nel corso dell’ultimo anno si è
discusso della convenienza o meno di eliminare o almeno ridurre l’anzidetta
differenza di trattamento. Poiché il crinale attinente alla durata è al presente
utilizzato da più norme tributarie, un eventuale intervento del legislatore
dovrebbe essere portato congiuntamente sulle disposizioni che quel crinale
utilizzano.
378 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
All’epoca dell’introduzione dell’agevolazione poi trasfusa negli artt. 15
e seguenti del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 601, le operazioni relative a
“finanziamenti a medio e lungo termine” potevano essere effettuate soltanto
da alcuni istituti di credito o da separate sezioni o gestioni; ed infatti l’art.
15 in esame si limita a considerare solo tali enti tra i destinatari della norma.
Chiarì la Corte di Cassazione che le agevolazioni tributarie per il credito a
medio e lungo termine previste dall’art. 15 “sono condizionate al concorso
di due presupposti: l’uno di carattere oggettivo, costituito dalla natura delle
operazioni (finanziamenti a medio e lungo termine ed altri ad essi strumentalmente
collegati); l’altro, di carattere soggettivo, consistente nella provenienza
del finanziamento o da aziende o istituti di credito o loro sezioni o
gestioni speciali, da enti cioè istituzionalmente finalizzati all’esercizio del
credito e quindi da imprese bancarie alle quali nell’ordinamento vigente
della funzione è esclusivamente attribuita” (Cass. 28 novembre 1984, n.
6183; Commiss. trib. centrale 13 luglio 1989 n. 4997). L’agevolazione era
dunque ricondotta nel novero di quelle c.d. miste, accordate con riguardo ad
operazioni definite sia per il loro oggetto sia in quanto provenienti da determinati
soggetti (che all’epoca, appunto, erano tuttavia i soli legittimati a
compierle). Con l’evoluzione della normativa di settore, l’art. 15 mostra
tutto il peso degli anni; ed invero, una volta aperta la possibilità di compiere
operazioni di finanziamento a medio e lungo termine (D.Lgs. 1 settembre
1993, n. 385: ad es., art. 106) e meno il legame tra la raccolta del risparmio
e l’esercizio del credito che, vigente il R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, costituiva
l’essenza dell’azienda di credito (Cass. SS.UU. 9 dicembre 1985, n.
6178, sicché la qualità di banca o istituto di credito andava negata ai soggetti
che non svolgevano entrambe le attività: Cass. SS.UU. 10 gennaio 1986,
n. 62), l’art. 15 in esame, per come la norma è strutturata, nel sistema vigente
del credito, se interpretato secondo la originaria finalità di collegamento
con l’istituto finanziatore, finirebbe alternativamente o con l’accordare l’agevolazione
ad alcuni soltanto dei soggetti operanti nel settore (mentre la
disposizione all’epoca, voleva che tutti i soggetti operanti fruissero dell’agevolazione),
con conseguente grave sospetto di incoerenza costituzionale;
oppure, con il riconoscere, attraverso una lettura conformativa (peraltro
piuttosto ardita), il beneficio a tutti i finanziamenti di medio e lungo termine,
così trasformandosi l’agevolazione da “mista” (come il legislatore l’ha
voluta) ad “oggettiva”. In ambedue i casi la norma acquista un significato ed
una portata diversi dal precetto originariamente formulato. La terza opzione
ermeneutica, coerente con l’evoluzione del sistema, porterebbe alla negazione
della sopravvivenza della stessa agevolazione, da considerarsi implicitamente
abrogata con la fine di quell’esclusiva, ovvero “confermata” solo nei
casi espressamente previsti (come quello di cui all’art. 2 D.L. 3 agosto 2004,
n. 220, conv. in legge 19 ottobre 2004, n. 257). È allora evidente la necessità
di un intervento legislativo, in occasione del quale potrà adeguatamente
chiarirsi anche il problema oggi all’esame.
3. In attesa dell’auspicato intervento del legislatore, ferma restando la
potestà di codesta Agenzia di scegliere fra le opzioni ermeneutiche sopra evi-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 379
denziate quella che sia valutata più rispondente al corretto esercizio dei compiti
istituzionali affidati, ritiene questa Avvocatura di poter soltanto segnalare
che, seguendo la seconda delle opzioni ermeneutiche sopra delineate (e
che appare rispondere alle esigenze segnalate dal Consiglio Notarile), verrebbe
dato rilievo alla durata effettiva del rapporto negoziale e non a quella
stabilita astrattamente dall’accordo contrattuale, così che le clausole
generali dianzi passate in rassegna (in particolare, quella che consente al
debitore in ogni momento di restituire l’importo finanziato) non avrebbero
effetti al fine dell’attribuzione del beneficio ex art. 15 citato se non nel
momento in cui ricevessero concreta applicazione (in particolare, quando il
debitore si avvalesse effettivamente della facoltà di estinzione anticipata, nel
rispetto della ratio degli art. 40 e 125 del T.U.B., caratterizzata dal favor
debitoris).
In quest’ultima eventualità, il beneficio già concesso dovrebbe essere
revocato, con obbligo di pagamento della maggiore imposta, al momento
della annotazione della formalità di estinzione, atteso che in questo caso verrebbe
meno la finalità dell’agevolazione che tende ad alleviare, sul piano
fiscale, il peso economico del vincolo di durata di un rapporto di finanziamento
a medio e lungo termine (questo in via generale riferito, anche dall’art.
26 citato, ad un tempo superiore ai diciotto mesi, cfr. Cass. N. 11240
del 1994).
La rilevanza della durata effettiva del rapporto è, però, contrastante
con la prassi applicativa delle disposizioni agevolative in materia, in riferimento
sia al precedente regime di abbonamento ex legge n. 1228 del
1962 sia all’attuale, come espresso dalle circolari e risoluzioni degli uffici
finanziari competenti (Min. Finanze, Dir. Gen. Tasse e II. II., ris. 13
agosto 1968, n. 211544 e 2 giugno 1980, n. 250220, Circ. 15 gennaio
1963, n. 4; Ag. Territorio, Circ. 27 aprile 2001, n. 3, e 24 settembre 2002,
n. 8), ove si è ritenuto che “per quanto attiene alla durata delle operazioni,
che agli effetti fiscali deve essere presa in considerazione soltanto la
durata risultante dalle clausole contrattuali e non anche quella, minore o
maggiore, che l’operazione può effettivamente avere in difformità dalle
clausole stesse” (in tal senso, anche, implicitamente, Cass. 28 dicembre
1994 n. 11240).
Pertanto, qualora codesta Agenzia si determinasse a seguire questa strada,
dovrebbe modificare, d’intesa con l’Agenzia delle Entrate, le disposizioni
amministrative in precedenza emanate, monitorando attentamente l’orientamento
della giurisprudenza che dovesse intervenire nella materia, per un
eventuale ulteriore intervento correttivo.
In alternativa, non resterebbe che confermare la posizione restrittiva
espressa nella precedente consultazione di questa Avvocatura, in attesa di
nuove pronunzie della Suprema Corte o dell’auspicato intervento normativo
(...)
L’Avvocato Generale Aggiunto
Avv. Franco Favara».
380 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Agenzia del Territorio e Agenzia delle Entrate – Circolare del 14 giugno 2007, n. 6,
prot. 47218.
Art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Facoltà di adempimento anticipato da
parte del soggetto finanziato – Compatibilità con il regime sostitutivo (Destinatari:
Direzioni Centrali, Direzioni Regionali, Uffici Provinciali dell’Agenzia del Territorio e
Uffici Locali dell’Agenzia delle Entrate).
«1.- Ricognizione degli indirizzi interpretativi intervenuti in tema di estinzione anticipata
del rapporto di finanziamento e art. 15 del d.P.R. 601/73.
Con circolare n. 3 del 27 aprile 2001, l’Agenzia del Territorio, richiamandosi a precedenti
indirizzi interpretativi resi sull’argomento dalla Direzione Generale delle Tasse e
II.II. sugli Affari (cfr., in particolare, la Risoluzione ministeriale n. 250220 del 2 giugno
1980) – e confermati, peraltro, dal costante orientamento giurisprudenziale della Corte di
Cassazione – ha ribadito che la richiesta di estinzione anticipata dei finanziamento, avanzata
dal mutuatario, in quanto circostanza riconducibile nell’ambito dello svolgimento
ordinario del rapporto obbligatorio, non determina il venir meno delle condizioni fissate
dall’art. 15 del d.P.R. n. 601/1973 per usufruire del particolare regime tributario ivi previsto.
Il richiamato orientamento interpretativo è stato confermato tenendo conto non tanto
dell’immutato assetto del quadro normativo di riferimento, quanto, soprattutto, degli univoci
indirizzi giurisprudenziali adottati sul tema dalla Corte di Cassazione (cfr. Sez. I, 4 luglio
1983, n. 4470 e 18 febbraio 1994, n. 1585).
Peraltro, le peculiari problematiche connesse alla compatibilità con il predetto regime
sostitutivo delle clausole che prevedono la possibilità di risolvere anticipatamente il rapporto
di finanziamento, non da parte del soggetto finanziato, ma dall’Istituto mutuante, sono
state diffusamente affrontate dall’Agenzia del Territorio con Circolare n. 8 del 24 settembre
2002 e con Risoluzione n. 1 del 24 febbraio 2003.
Nella prima occasione si è ritenuto opportuno chiarire che le clausole che subordinano
la facoltà di recesso dell’istituto di credito al verificarsi di circostanze o fatti obiettivi riconducibili,
in via generale, ad esigenze di tutela del credito non possono ritenersi ex se incompatibili
con la disciplina delineata dall’art. 15 del d.P.R. 601/73 (tale orientamento è stato in
larga parte supportato dal parere n. 91039 del 13 settembre 2002 reso sull’argomento
dall’Avvocatura Generale dello Stato).
Con la successiva Risoluzione n. 1/2003, la persistenza del suddetto indirizzo interpretativo
è stata, peraltro, ribadita sulla base di altro parere reso dall’Avvocatura Generale dello
Stato, con cui sono stati sostanzialmente confermati i contenuti del precedente intervento
consultivo.
In tale articolato contesto interpretativo si è inserita la Corte di Cassazione con la sentenza
n. 11165 del 26 maggio 2005.
La Suprema Corte, seppure con una motivazione abbastanza sintetica, ha sostanzialmente
posto sullo stesso piano — ai fini della valutazione della compatibilità o meno di una
operazione dì finanziamento con il requisito oggettivo della durata minima contrattuale —
le clausole che prevedono il recesso ad nutum dell’istituto finanziatore e quelle che attribuiscono
al soggetto finanziato la facoltà di estinzione anticipata del rapporto.
In seguito a tale mutamento di indirizzo giurisprudenziale, l’Agenzia del Territorio, con
Circolare n. 6 del 5 dicembre 2006, emanata su conforme parere dell’Avvocatura Generale
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 381
(cs. 26777/06, Sez. III, del 3 novembre 2006), ha chiarito che la presenza di clausole nei
contratti di finanziamento a medio e lungo termine che consentono espressamente al soggetto
finanziato di risolvere anticipatamente il rapporto attraverso l’estinzione del debito prima
che decorra la durata minima stabilita dall’art. 15 del d.P.R. 601/73 determina l’incompatibilità
di tali convenzioni con il particolare regime tributario ivi disciplinato.
A seguito della emanazione della richiamata Circolare, sono state segnalate difficoltà
applicative e difformità comportamentali tra i vari Uffici provinciali.
In particolare, a seguito di specifica segnalazione di un Consiglio Notarile, l’Agenzia
del Territorio, con lettera diramata a tutte le strutture regionali e provinciali, ha ritenuto
opportuno reintervenire sull’argomento, al fine di chiarire che non appare, comunque, in
linea con i contenuti della Circolare n. 6/2006, la tesi sostenuta da alcuni Uffici secondo cui
le agevolazioni previste dal d.P.R. 601/73 non sarebbero applicabili agli atti in cui non sia
espressamente previsto – con apposita clausola – che l’estinzione anticipata del finanziamento
non possa avvenire se non trascorsi diciotto mesi e un giorno.
Tuttavia, anche in considerazione delle perplessità manifestate dal Consiglio Nazionale
del Notariato, è stato ritenuto opportuno sottoporre nuovamente la questione all’attenzione
dell’Avvocatura Generale dello Stato, soprattutto al fine di verificare la compatibilità della
soluzione interpretativa adottata con la Circolare n. 6/2006 – problematica, quest’ultima, non
affrontata dall’Organo Legale in occasione della consultazione propedeutica alla emanazione
della stessa Circolare – con le tipologie contrattuali relative ad operazioni di finanziamento per
le quali la facoltà di estinzione anticipata è civilisticamente disciplinata da norme imperative
(così come avviene ad esempio nel settore del credito fondiario disciplinato dal D.Lgs. 385/93).
2.- Il nuovo intervento consultivo dell’Avvocatura Generale dello Stato
Profilo civilistico - L’Avvocatura Generale dello Stato, con consultiva trasmessa con prot. n.
47332 del 17 aprile 2007, ha riesaminato la problematica in questione affrontando innanzitutto
il profilo civilistico, soffermandosi, ai finì del parere richiesto, sui finanziamenti a
medio e lungo termine garantiti da ipoteca su immobile, rientranti nell’ampia nozione di credito
fondiario (di cui all’art. 38 del D.Lgs. 385/93); operazioni che per la “durata contrattuale”
del finanziamento possono in astratto rientrare nell’ambito previsionale dell’art. 15 del
d.P.R. 601/73.
Proprio con specifico riferimento alla normativa di settore per gli enti creditizi (appunto
il D.Lgs. 385/93), il predetto Organo Legale ha osservato che l’art. 40, relativo al credito
fondiario, stabilisce, tra l’altro, che i debitori hanno facoltà di estinguere anticipatamente,
in tutto o in parte, il proprio debito, solo corrispondendo alla banca un compenso omnicomprensivo
“contrattualmente stabilito” per la anticipata estinzione.
Lo stesso Organo consultivo ha, quindi, evidenziato che la normativa bancaria attribuisce
al debitore la facoltà di adempiere anticipatamente, senza stabilire alcun limite temporale
per l’esercizio di tale facoltà. Tanto che, in linea generale, l’esigenza di inserire nei contratti
di mutuo una clausola espressa disciplinante la facoltà di estinzione anticipata del rapporto
era normalmente finalizzata non tanta all’attribuzione convenzionale al debitore della
facoltà medesima (da ricondurre comunque alla legge e non al contratto), quanto alla individuazione
delle eventuali conseguenze economiche connesse all’esercizio effettivo di tale
facoltà da parte del debitore.
Il citato Organo Legale, peraltro, ha sottolineato altresì come, in materia di contratti
bancari, nella linea legislativa di riconoscimento di un dirittopotestativo del debitore ad
382 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
estinguere il mutuo anticipandone l’adempimento, si innesta anche l’art. 7 del recente D.L.
31 gennaio 2007, n. 7, convertito nella legge 2 aprile 2007, n. 40 (c.d. decreto Bersani-bis).
Tale specifica disposizione, infatti, con riguardo ai contratti di mutuo immobiliare indicati
nella stessa disposizione, in deroga all’art. 40 del D.Lgs. 385/93, vieta la stipula, anche
posteriore alla conclusione del contratto, di patti e clausole che comunque stabiliscano penali
o prestazioni a carico del mutuatario che richieda l’estinzione anticipata, rendendo non più
necessaria (e, quindi, per certi versi, ultronea), l’espressa considerazione (rectius: riconoscimento)
nel testo contrattuale di una facoltà di adempimento anticipato.
Nello stesso parere, dopo aver evidenziato che la durata in una operazione di finanziamento
non rimane alterata, né relativizzata, dalla previsione in contratto delle condizioni
economiche dell’eventuale esercizio della facoltà di estinzione anticipata spettante
al debitore, è stato precisato che l’eventuale riconoscimento nel contratto di una facoltà di
adempimento anticipato, con effetto estintivo del rapporto, riguardando l’adempimento
delle obbligazioni che dal contratto derivano e che possono esaurire il rapporto ante tempus
(cioè prima del “tempo contrattuale” convenuto), “…non rende il contratto privo di
termine…”.
Sulla base di tali valutazioni, l’Avvocatura Generale dello Stato ha concluso che devono
riconoscersi:
a) la titolarità, in capo a chi rivesta la qualifica di “debitore” in base a contratto di finanziamento
posto in essere con soggetto esercente attività bancaria, di una facoltà di adempimento
anticipato derivante direttamente dalla legge e non dal contratto;
b) l’irrilevanza della eventuale considerazione negoziale di tale facoltà (non soggetta a
limiti temporali di esercizio) ai finì della individuazione della durata contrattuale di un’operazione
di finanziamento, la quale prescinde dalla possibilità riconosciuta al debitore di un
adempimento anticipato.
Profilo tributario - Sulla base della ricostruzione civilistica appena esaminata, l’Avvocatura
Generale dello Stato, dopo aver rimarcato una certa obsolescenza dell’art. 15 del d.P.R.
601/73, rispetto alla evoluzione della normativa di settore – peraltro ancora oggi in atto – ha
ipotizzato un ampio quadro di possibili opzioni ermeneutiche invitando l’Agenzia del
Territorio a valutarle congiuntamente all’Agenzia delle Entrate, anche tenendo conto della
rispondenza delle stesse al corretto esercizio dei compiti istituzionali affidati alle Agenzie
fiscali.
Tra le alternative indicate dal citato Organo Legale, quella che, in astratta, potrebbe
ritenersi più coerente con la ricostruzione civilistica operata in tema di facoltà di estinzione
anticipata del rapporto di finanziamento da parte del debitore – sebbene, come verrà appresso
chiarito, in netta controtendenza con le indicazioni ricavabili dalla normativa dì settore
più recente – è l’opzione che tenderebbe ad attribuire rilevanza alla durata effettiva del rapporto
negoziale e non a quella stabilita dall’accordo contrattuale.
Seguendo tale prospettazione, le clausole espresse che consentono al debitore di restituire
in ogni momento l’importo finanziato e di risolvere anticipatamente il rapporto, non
inciderebbero negativamente sull’applicabilità del regime agevolato di cui all’art. 15 del
d.P.R. 601/73, se non nel momento in cui dovessero ricevere concreta attuazione; cioè,
quando il debitore dovesse effettivamente richiedere l’adempimento anticipato e la conseguente
estinzione del rapporto (facoltà, quest’ultima, la cui titolarità, come è stato chiarito,
deve ritenersi normativamente riconosciuta al debitore indipendentemente da una sua
espressa previsione contrattuale).
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 383
La stessa Avvocatura dello Stato, peraltro, ha evidenziato come tale possibile opzione
interpretativa si porrebbe in contrasto con la prassi applicativa sin qui consolidata ed espressa
in numerosi interventi interpretativi dell’Amministrazione Finanziaria, con cui è stata
ripetutamente affermata l’irrilevanza della durata effettiva del rapporto ai fini del mantenimento
delle agevolazioni fiscali di cui trattasi (cfr. Circolare Ministeriale n. 250220 del 2
giugno 1980, Circolari dell’Agenzia del Territorio nn. 3 del 27 aprile 2001 e 8 del 24 settembre
2002).
3.-L’individuazione di possibili soluzioni sul piano fiscale coerenti con il quadro normativo
emergente
Secondo la ricostruzione civilistica elaborata dall’Avvocatura Generale della Stato,
dunque, la facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore trova fondamento nella
legge, indipendentemente da una sua espressa previsione contrattuale che, pertanto, è da
ritenere irrilevante (rectius: ininfluente), ai fini della individuazione della durata contrattuale
dell’operazione di finanziamento.
Da ciò discende, come naturale corollario, che detta facoltà di adempimento anticipato
si configura come facoltà irrinunciabile del debitore, il cui riconoscimento non può ritenersi
subordinato ad una espressa e specifica disciplina pattizia tra soggetto finanziatore e
soggetto finanziato.
Non a caso, alle disposizioni del Testo Unico bancario disciplinanti l’estinzione anticipata
del mutuo fondiario è stata attribuita natura di norme imperative e, quindi, inderogabili
(cfr. art. 40 del D.Lgs. 385/93).
In coerenza con tali principi, può, dunque, affermarsi che il riconoscimento di tale, irrinunciabile,
facoltà in capo al debitore, non può ritenersi condizionato, sotto il profilo civilistico,
dal mancato inserimento nel contratto di una clausola espressa che consenta l’estinzione
anticipata, oppure dall’eventuale inserimento nel testo contrattuale di una clausola non
del tutto conforme alla disciplina prevista dalle richiamate disposizioni inderogabili (si
pensi, ad esempio, ad una clausola che escluda espressamente la possibilità per il debitore
di adempiere prima del termine convenuto, ovvero prima del decorso di un periodo “minimo”
di tempo).
Nella individuazione della soluzione più coerente con il quadro complessivo delineato,
non può non tenersi conto della consolidata tendenza, riscontrabile anche nella più recente
normativa di settore, verso un sempre più accentuato favor debitoris nell’ambito dei rapporti
scaturenti da operazioni di finanziamento.
Gli articoli nn. 7, 8 e 13, da comma 8-sexies a comma 8-quaterdecies, del decreto legge
31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007 n. 40 (c.d.
decreto Bersani-bis) hanno interessato i temi della estinzione anticipata dei mutui immobiliari,
prevedendo, rispettivamente, il divieto di clausole penali, la “portabilità” del mutuo
con relativa surrogazione, nonché la semplificazione del procedimento di cancellazione dell’ipoteca
per i mutui immobiliari.
Il chiaro intento del legislatore nella subiecta materia è quello di tutelare il contraente
debole (debitore), semplificandone gli adempimenti ed eliminando gli oneri a suo carico,
anche di natura fiscale.
In tal senso, sono state eliminate le clausole penali in caso di estinzione anticipata o
parziale di mutuo contratto per l’acquisto o per la ristrutturazione di unità immobiliari adibite
ad abitazione ovvero alla svolgimento della propria attività economica o professionale
384 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
da parte di persone fisiche (art. 7, comma 1); è stata esentata da imposte ordinarie e sostitutive
la surrogazione per volontà del debitore, con espressa esclusione della decadenza da
benefici fiscali eventualmente riconosciuti in sede di iscrizione dell’ipoteca a garanzia del
credito surrogato (art. 8, commi 4 e 4-bis); è stato escluso qualsiasi onere per il debitore nell’ambito
del “peculiare” procedimento di cancellazione dell’ipoteca a garanzia di mutui (art.
13, comma 8-septies).
Analoghe finalità espressive di un ampio favor debitoris, sono contenute anche nell’art.
7 che vieta a regime la stipulazione anche successiva (sancendone la nullità) di clausole che
comunque stabiliscono penali o prestazioni a carico del mutuatario che richieda l’estinzione
anticipata, con apposita disciplina transitoria per i mutui contratti prima del 2 febbraio
2007 (data di entrata in vigore del c.d. decreto Bersani-bis), regolamentati da un accordo
sottoscritta tra Associazione Bancaria Italiana e le Associazioni dei consumatori.
Circostanza quest’ultima che ha indotto l’Avvocatura Generale, come in precedenza
accennato, a ritenere non più necessaria la previsione espressa, nel testo contrattuale, della
facoltà di adempimento anticipata.
4.-Conclusioni
Alla luce delle complessive valutazioni che precedono, dunque, si ritiene che, per
quanto riguarda il riconoscimento della facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore
e il relativo, concreto, esercizio, le disposizioni contenute nell’art. 15 del d.P.R. 601/73,
debbano ricevere una rilettura aggiornata e coerente anche con le univoche indicazioni ricavabili
dalla corretta qualificazione civilistica di tale facoltà, oltre che – e soprattutto – con
la ratio sottesa alle nuove disposizioni in materia di liberalizzazione.
Attraverso tale rivisitazione, l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia del Territorio ritengono
che possa procedersi ad un recupero e ad una conseguente attualizzazione dell’indirizzo
interpretativo consolidatosi prima della emanazione della Circolare n. 6/2006, secondo cui
l’adempimento anticipato del debitore, in quanto circostanza riconducibile nell’ambito dello
svolgimento ordinario del rapporto obbligatorio, non determina il venir meno delle condizioni
fissate dall’art. 15 del d.P.R. n. 601/1973, per usufruire del particolare regime tributario.
D’altra parte, detto orientamento si inserisce in modo coerente con l’ottica orientata ad
assicurare ampia tutela al soggetto debitore (mutuatario) – in quanto contraente debole”
potenzialmente esposto a disequilibri ed asimmetrie contrattuali – decisamente valorizzata
dalle disposizioni contenute nei richiamati provvedimenti normativi in tema di “liberalizzazioni”.
Tali complessive valutazioni inducono, quindi, a non ritenere percorribili, in relazione
all’art. 15 del d.P.R. 601/73, soluzioni interpretative orientate ad ipotizzare conseguenze
negative sul piano fiscale (in termini di perdita di benefici fiscali), correlate alla previsione
espressa nel contratto della facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore o all’esercizio
in concreto di detta facoltà.
Va, peraltro, posto in evidenza che una eventuale conferma, alla luce delle sopravvenute
disposizioni del c.d. decreto Bersani-bis, dell’incompatibilità con il regime sostituivo,
previsto dall’art. 15 del d.P.R. 601/73, delle clausole che prevedono l’adempimento anticipato
del debitore in qualsiasi momento, si tradurrebbe, sul piano pratico, in una evidente,
quanto inammissibile, disparità di trattamento, ai fini fiscali, dello stesso adempimento anticipato”
a seconda che lo stesso sia o meno finalizzato alla surrogazione ex art. 1202 c.c. (in
relazione alla quale il legislatore, come accennato, ha escluso espressamente sia il venir
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 385
meno dei benefici fiscali, sia l’applicabilità delle imposte sostitutivo ovvero di registro, ipotecaria
e di bollo).
Tanto premesso, le conclusioni sostenute nella circolare n. 6 del 5 dicembre 2006
secondo cui «...la presenza nei contratti di finanziamento a medio e lungo termine di clausole
che consentano espressamente al soggetto finanziato di risolvere anticipatamente il
rapporto attraverso l’estinzione del debito prima che decorra la durata minima stabilita
dall’art. 15 del d.P.R. 601/73 determina l’incompatibilità di tali convenzioni con il particolare
regime tributario ivi disciplinato” devono, pertanto, ritenersi superate.
Le Direzioni Regionali vigileranno sulla corretta applicazione della presente circolare;
la Direzione Centrale “Audit e Sicurezza” dell’Agenzia delle Entrate e la Direzione Centrale
“Audit” dell’Agenzia del Territorio vorranno tener conto dei nuovi indirizzi interpretativi
nello svolgimento dei rispettivi compiti istituzionali.
Roma, 14 giugno 2007 Firmato: Mario Picardi e Massimo Romano».
A.G.S. - Parere del 21 aprile 2007, n. 49616.
Prog. 20/PC/7 – Opere di captazione e adduzione della falda basale del
massiccio del Matese – Ministero delle Infrastrutture – transazione – compensi
dei consulenti tecnici di parte ministeriale (consultivo 27902/05, avvocato
M. Corsini).
«(…) codesta amministrazione chiede parere in merito alla richiesta formulata
da un proprio dipendente che – incaricato di svolgere le funzioni di
consulente tecnico di parte in giudizio in cui la stessa amministrazione è stata
convenuta – reclama il pagamento di un compenso determinato secondo i
parametri della tariffa professionale.
Secondo i consolidati principi vigenti in materia di incarichi affidati ed
espletati da personale pubblico, il dipendente può vantare il diritto a percepire
un compenso aggiuntivo rispetto alla normale retribuzione solo se l’attività
svolta si configura come oggetto di un incarico extraistituzionale legittimamente
conferito.
Pertanto, occorre in primo luogo esaminare la natura dell’attività di consulente
tecnico di parte, per verificare se possa costituire oggetto di un incarico
extraistituzionale. In proposito, va subito rilevato che mentre è pacifica
l’inerenza dell’attività del consulente tecnico d’ufficio (CTU) alla funzione
giurisdizionale – in quanto pacificamente ritenuto ausiliare del giudice – la
diversa funzione del consulente tecnico di parte (CTP) è comunemente ritenuta
essere di mero supporto tecnico della difesa della parte che lo designa,
e quindi è svolta nell’esclusivo interesse di quest’ultima.
Non possono quindi essere d’ausilio ai fini della specifica questione sottoposta
a parere, se non in modo molto indiretto, le affermazioni della giurisprudenza
intervenute a proposito delle attività espletate dal dipendente pubblico
– nella fattispecie comunale – in qualità di CTU, laddove esse sono
state considerate sostitutive della ordinaria prestazione di servizio in ragione
della obbligatorietà dell’incarico normativamente sancita (art. 63 c.p.c.) e
della natura di munus publicum della relativa funzione (TAR Lombardia, 9
386 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
giugno 2004 n. 389). In quella occasione, peraltro, l’attività di CTU, comunque
nei fatti espletata all’interno dell’orario di servizio, è stata ritenuta non
suscettibile di compenso aggiuntivo rispetto alla normale retribuzione e,
ovviamente, rispetto all’eventuale compenso liquidato dal giudice.
Tenuto quindi conto della diversità oggettiva delle diverse funzioni di
CTU e di CTP, si esprime l’avviso che l’attività prestata dal CTP a favore
dell’amministrazione di appartenenza – anche se non usuale e non frequente
nella comune esperienza del dipendente pubblico – debba di norma essere
ricondotta nell’ambito dei compiti di servizio del dipendente stesso.
Ciò in quanto si deve ritenere che tra le competenze istituzionali dell’amministrazione
è compreso ogni adempimento connesso all’eventuale contenzioso
in cui essa risulti coinvolta per fatti inerenti alla sua missione (istruttoria,
redazione della relazione per la difesa, assistenza e collaborazione con il
difensore, supporto tecnico amministrativo nella gestione del processo).
Se, dunque, un’amministrazione ritiene di affidare il compito di consulente
di parte ad un proprio dipendente, la relativa attività rientra inevitabilmente
nell’ambito delle mansioni di servizio; naturalmente, anche per motivi
di evidente interesse pubblico alla migliore utilizzazione del supporto tecnico
oggetto dell’incarico e di riflesso alla migliore difesa dell’amministrazione
in giudizio, l’attività di consulenza processuale affidata al dipendente
deve essere coerente con il suo profilo professionale e con le sue effettive
competenze.
In presenza di tali presupposti, si ha l’ulteriore conseguenza che detto
incarico si atteggia a vero e proprio incarico di servizio, e come tale esso
viene ad essere obbligatorio per il dipendente.
Motivi di evidente opportunità inducono a suggerire che le caratteristiche
di obbligatorietà dell’incarico e la sua pertinenza alle mansioni di servizio,
con tutte le conseguenza che ne derivano anche sotto il profilo economico,
siano formalmente esplicitate nei confronti del dipendente sin dal
momento del conferimento, fermo restando che il dipendente stesso non può
sottrarsi al dovere di espletarlo se non motivatamente rappresentando con
l’estraneità della materia rispetto alle proprie competenze e cognizioni professionali.
Diversa questione è quella relativa al tempo dell’espletamento dell’incarico
di CTP, anche in ordine ai riflessi che essa può assumere sul piano economico.
Se infatti l’attività di CTP risulta svolta all’interno del normale orario di
lavoro, non spetta ovviamente alcun compenso aggiuntivo oltre alla normale
retribuzione, mentre si può ritenere possa essere compensata con lo straordinario
la attività prestata oltre l’orario di lavoro. Nell’uno e nell’altro caso
potrebbe comunque essere riconosciuto il rimborso delle spese vive sostenute
dal dipendente, qualora debitamente documentate.
Come affermato dalla giurisprudenza (TAR Lazio 26 marzo 2004 n.
2892), quando l’attività professionale è stata svolta nell’esclusivo interesse
dell’amministrazione di appartenenza è necessario distinguere tra la parte di
tale attività svolta durante il normale orario di lavoro, che va considerata a
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 387
tutti gli effetti mansione inerente alla prestazione di lavoro subordinato, dalle
prestazioni svolte al di fuori di tale orario; queste ultime danno titolo ad
un’apposita remunerazione secondo i parametri previsti per il lavoro straordinario
e non, quindi, secondo le tariffe professionali.
Discorso a parte merita la diversa ipotesi dell’incarico conferito dalla
amministrazione a proprio dirigente; in questo caso infatti, la “flessibilità”
del tempo di lavoro propria della qualifica dirigenziale potrebbe indurre a
conclusioni in parte difformi da quelle ora assunte (ma si fa riserva di specifico
esame della questione qualora si presenti concreta fattispecie).
Qualora nell’organico della amministrazione non esistessero altre competenze
e qualora l’organico stesso fosse incapace, anche per ragioni di carico
di lavoro, di soddisfare le esigenze in questione, l’incarico di consulente
tecnico di parte può essere affidato anche all’esterno, tanto a libero professionista
(ed in questa evenienza si tratterebbe di incarico professionale a tutti
gli effetti) quanto a dipendente pubblico di altra amministrazione, come
incarico necessariamente da svolgersi fuori dal normale orario di lavoro e
sempre a condizione che sia compatibile con quest’ultimo.
L’assegnazione di tale tipologia di incarichi comporta per il dipendente
pubblico di altra amministrazione il diritto ad ottenere un compenso aggiuntivo
rispetto al normale stipendio. Nella determinazione di tale compenso, la
giurisprudenza ritiene applicabile – perché considerato principio di carattere
generale – la regola stabilita dall’art. 62 del r.d. n. 2537 del 1925 “regolamento
delle professioni di ingegnere e di architetto” secondo la quale il
dipendente di una amministrazione statale che ha esercitato attività professionale
a favore della stessa o di diversa amministrazione ha diritto ad un
corrispettivo pari ad una percentuale non inferiore ad un terzo e non superiore
alla metà delle tariffe libero-professionali (Cass. 22 ottobre 1999, n.
11859; TAR Sardegna, 23 dicembre 1998, n. 1397 ).
Lo specifico caso sottoposto a parere, peraltro, presenta la particolarità
costituita dall’essere il rapporto di lavoro svolto da dipendente “part time”.
Tale circostanza tuttavia non incide in senso favorevole all’accoglimento
della pretesa avanzata, dal momento che per i dipendenti “part-time” vigono
specifici divieti di legge in relazione al conferimento e alla conseguente
assunzione di incarichi professionali: come noto, l’art. 1, comma 56-bis,
della legge 23 dicembre 1996 n. 662 fa divieto a tutte le amministrazioni
pubbliche – dunque sia all’amministrazione di appartenenza sia alle altre
amministrazioni – di conferire a tali soggetti incarichi professionali (divieto
mitigato nel settore dei lavori pubblici – nel quale tuttavia non rientra la presente
fattispecie – dall’art. 18 della legge 109 del 1994 all’ambito territoriale
dell’ufficio di appartenenza del dipendente).
Sulla base delle considerazioni che precedono, dunque, potrebbero addirittura
sussistere consistenti dubbi in ordine alla legittimità dell’affidamento
dell’incarico – dubbi che ovviamente si riverberano anche sulla fondatezza
della conseguente pretesa a compenso aggiuntivo – qualora si insistesse nel
ritenere che l’incarico in questione abbia avuto natura di incarico professionale
o comunque extra istituzionale».
388 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Responsabilità amministrativa, azione di
responsabilità sociale e principio di parità(*)
di Michele Dipace
SOMMARIO: 1.- Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità degli
amministratori delle società pubbliche: premesse. 2.- La c.d. teoria del doppio binario. 3.-
Le ragioni del nuovo indirizzo giurisprudenziale: la tutela della gestione delle risorse pubbliche.
4.- L’influenza sul nuovo indirizzo giurisprudenziale della riforma della Corte dei
conti del 1994 e dell’art. 7 della legge 97/2001. 5.- Ambito soggettivo ed oggettivo del giudizio
dinanzi alla Corte dei conti. 6.- Rapporto tra le azioni societarie di responsabilità
degli amministratori di società pubbliche e l’azione di responsabilità amministrativa. 7.-
Compatibilità tra le azioni di responsabilità societarie e quella di responsabilità amministrativa:
esclusività dell’azione dinanzi alla Corte dei conti.
1) Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità degli amministratori
delle società pubbliche: premesse.
La materia delle azioni di responsabilità che possono essere esperite nei
confronti degli amministratori delle società a partecipazione pubblica è
quanto mai attuale ed è foriera più di spunti di riflessioni che di certezze giuridiche.
È ben noto che il sistema delle responsabilità degli amministratori e
dipendenti delle società a partecipazione pubblica per il danno cagionato
all’ente per la scorretta gestione delle risorse pubbliche e del conseguente ri-
D O T T R I N A
(*) Intervento del Vice Avvocato Generale dello Stato Michele Dipace al Convegno di
studi su La responsabilità nella gestione di società a capitale pubblico, Università degli
Studi Tor Vergata ed Università degli Studi “La Sapienza”, Villa Mondragone, 15 dicembre
2006.
parto di giurisdizione è stato rimeditato a fondo dalle sezione unite della
Corte di cassazione, che con ordinanza 22 dicembre 2003 n. 19667 (1), hanno
rivisto una decennale giurisprudenza. Il precedente filone giurisprudenziale
prevedeva, il più delle volte, una sostanziale impunità degli amministratori
per le loro scelte di gestione relative ad imprese a capitale pubblico
con riguardo a fatti e comportamenti dannosi, tenuti dagli stessi soggetti,
derivante in sostanza dall’inerzia dei soggetti legittimati a promuovere le
azioni sociali dinanzi al giudice ordinario.
Il ripensamento della giurisprudenza del 2003, era nell’aria ove si legga la
sentenza della Corte di cassazione 2 ottobre 1998, n. 9780 sull’acquisto da
parte dell’ENI delle azioni Enimont di pertinenza di Montedison, ad un prezzo
prestabilito e molto più elevato rispetto alle quotazioni di borsa con un comportamento
degli amministratori di sostanziale adesione alle richieste del
mondo politico. Tale decisione confermava la giurisdizione del giudice ordinario
in ordine alla responsabilità degli amministratori di un ente pubblico economico,
quale era all’epoca l’ENI, per il danno eventualmente da essi arrecato
all’ente mediante decisioni assunte nell’esercizio di attività di impresa,
ovvero di mansioni ad essa inerenti. Al tempo stesso però la Cassazione sentiva
la necessità di giustificare tale decisione riconoscendo al procuratore generale
della Corte dei conti la serietà e gravità della preoccupazione manifestata
che “la timida attività giudiziaria dell’ente danneggiato nei confronti dei pretesi
responsabili potesse risolversi in un sostanziale esonero da responsabilità
degli stessi (colpo di spugna)” e, aggiungeva, che tale timore serio e reale non
poteva essere risolto dal giudice di legittimità ma dalla scelta politica del legislatore
e dalle autonome iniziative dei soggetti interessati (2).
La gran parte dei commentatori di tale decisione affermavano che il
timore di impunità degli amministratori degli enti pubblici economici per i
danni arrecati alle finanze pubbliche derivava non da previsioni normative,
ma proprio dalla giurisprudenza che la suprema corte aveva elaborato
390 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) L’ord. della Cass. 22 dicembre 2003 n. 19667 è pubblicata: in Foro it.. 2005, I, 2676
con nota di D’Auria; nonché in Foro amm. C.d.S., 2004, 685, con nota di URSI, Verso la giurisdizione
esclusiva del giudice contabile: la responsabilità erariale degli amministratori
delle imprese pubbliche; infine in Giur. It. 2004, 1, 1830 con nota di ARTIGIANO, Gli illeciti
degli amministratori dei dipendenti degli enti pubblici economici: dal giudice ordinario al
giudice contabile.
(2) Cass. 2 ottobre 1998, n. 9780 in Foro it. 1999, I, 575, con nota critica di D’AURIA,
Brevissime in tema di giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori di enti pubblici
economici. La Cassazione affermava che spettava al giudice ordinario la giurisdizione in
ordine alla responsabilità degli amministratori di un ente pubblico economico (ENI) per il
preteso danno da essi recato all’ente mediante decisioni assunte nell’esercizio di attività
d’impresa. All’epoca della decisione in questione tale orientamento della suprema Corte era
consolidato. Tra le più significative: Cass. S.U. 2 marzo 1982 n. 1282 in Foro it. 1982, 1,
1592 (IRFIS) Cass. S.U. 21 ottobre 1983 n. 6178 in Foro it. 1983, 1, 2688 (ISVEI MER)
Cass. S.U. 15 novembre 1989 n. 4860 in Foro it. 1989, I, 3402 sui fondi neri dell’IRI. Cass.,
S.U., 22 maggio 1991 n. 5792 in Giust. Civ. 1991, 1, 1987 sulle Ferrovie dello Stato.
escludendo la giurisdizione della Corte dei conti in materia e, data tale
pacifica giurisprudenza, si prospettava la possibilità di consentire al pubblico
ministero presso la Corte dei conti come “organo di giustizia” di esercitare,
dinanzi al giudice ordinario, l’azione di responsabilità nei confronti
degli amministratori degli enti pubblici economici, o, almeno, le azioni
a difesa dei soci previsti dall’articolo 2409 del codice civile (denuncia al
tribunale per gravi irregolarità nella gestione); con il che il procuratore
della Corte dei conti avrebbe assunto le vesti di un pubblico ministero specializzato
rispetto a quello civile (3).
Soluzione questa tendente a risolvere un problema pratico, ma che non era
in linea né con la natura tipicamente sanzionatoria del sistema della responsabilità
amministrativa-contabile azionata da un organo pubblico né con il sistema
delle responsabilità pubbliche né con quello delle responsabilità societarie,
ma che in ogni caso necessitava di intervento legislativo che prevedesse nuove
ed anomale competenze per il procuratore della Corte dei conti.
La responsabilità amministrativa-contabile degli amministratori degli
enti pubblici economici era del tutto pacifica quando, dato il consistente
intervento pubblico nell’economia (c.d. Stato-imprenditore), vi erano le
imprese organo senza personalità giuridica, assoggettate alla disciplina
della contabilità pubblica ed il sistema delle partecipazioni statali caratterizzato
dagli enti di gestione, enti pubblici economici (IRI, ENI, EFIM), e
dalle società finanziarie ed operative, che utilizzavano il diritto privato
quanto ai rapporti di lavoro, al regime dei beni, alla contabilità e bilanci,
mentre erano soggetti alla disciplina di diritto pubblico nei rapporti con lo
Stato, il quale aveva la possibilità di costituirli ed estinguerli quasi sempre
con disposizione di legge (basti pensare alla lunga vicenda dei numerosi
decreti legge sulla liquidazione dell’EFIM). Lo Stato aveva il potere di
indirizzo attraverso le direttive ministeriali e dei Comitati interministeriali
(CIPE e CIPI) sull’attività imprenditoriale dell’ente e, attraverso questo, su
quella delle società operative, e soprattutto aveva un potere di controllo
sulla corretta gestione delle risorse pubbliche sia attraverso i sindaci, quasi
sempre espressione del ministero vigilante e del Ministero del Tesoro, sia
attraverso il magistrato della Corte dei conti delegato al controllo che partecipava
alle sedute degli organi di gestione dell’ente a norma dell’articolo
12 della legge 259 del 1958, il quale poteva denunciare al procuratore
della Corte dei conti eventuali irregolarità nella gestione imprenditoriale
che comportasse un danno erariale.
DOTTRINA 391
(3) D’AURIA, op.cit. in nota 3. Tra l’altro l’Autore osservava che con tale giurisprudenza,
dal momento che era esclusa la giurisdizione della Corte dei conti e l’azione pubblica del
suo pubblico Ministero sugli amministratori degli enti pubblici economici, si finiva per
rimettere agli stessi enti la decisine di far valere, davanti al giudice ordinario, la responsabilità
civile degli amministratori.
La giurisdizione della Corte dei conti trovava fondamento giuridico
nella disposizione del secondo comma dell’art. 103 della Costituzione
secondo un’interpretazione ampia della materia della “contabilità pubblica”
che veniva riconosciuta quando vi era l’elemento soggettivo della natura
pubblica dell’ente e quello oggettivo della natura pubblica del denaro impiegato
nell’attività di gestione (4).
Naturalmente l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti
della responsabilità degli amministratori per l’attività di gestione degli enti
pubblici attuata in modo così ampio destava non poche perplessità legate
essenzialmente alla natura imprenditoriale dell’attività svolta che comportava
decisioni gestionali altamente discrezionali e perciò soggette a rischio
economico i cui risultati erano condizionati dalla concorrenza, dall’andamento
del mercato, o da fasi congiunturali negative.
In altri termini, l’azione di responsabilità amministrativa, fondata sull’art.
103 c. 2 Cost., non poteva essere estesa fino a comprendere quegli
eventi derivanti dal rischio imprenditoriale connesso ad ogni scelta economica
(5).
2) La c.d. teoria del doppio binario.
Come è noto tale indirizzo fu modificato sostanzialmente quando, in
sede di regolamento di giurisdizione, le sezioni unite della Corte di cassazione
sono state ferme, a partire dalla sentenza 2 marzo 1982 n. 1282, poi con
la sentenza 18 dicembre 1985, n. 6338 (sull’attività gestionale dell’Egam),
nel sostenere che la Corte dei conti era priva di giurisdizione in ordine all’azione
di responsabilità nei confronti degli amministratori degli enti pubblici
economici per gli atti di natura imprenditoriale. La Cassazione al riguardo
affermava che “l’articolo 103 comma 2 della Costituzione aveva l’attitudine
a fondare una competenza tendenzialmente generale ma non assoluta ed
esclusiva della Corte dei conti nelle materie della contabilità pubblica, di
modo che apposite norme possono derogare a tale giurisdizione”; metteva in
evidenza il carattere largamente discrezionale dell’attività dell’imprenditore
pubblico e affermava il principio che la giurisdizione della Corte dei conti,
quanto all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori degli
392 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(4) Cass. 20 luglio 1968 n. 2616 in Foro it., 1968, I, 2074 secondo la quale la portata
immediatamente precettiva dell’art. 103 Cost. comportava che la materia della contabilità
pubblica si estendesse a tutti i rapporti, compresi quelli connessi alla responsabilità amministrativa
derivanti dalla gestione finanziaria svolta dall’ente pubblico. Cass. 5 febbraio
1969 n. 363 in Foro amm., 1969, II, 124 e in Foro it. 1969, I, 2962; contra Cass. 30 novembre
1966, n. 2811 in Foro it. 1967, I, 38.
(5) VOCI, La responsabilità patrimoniale degli amministratori degli enti pubblici, in
Riv. Trim. dir. pubbl., 1968, 1112 ss; v. Cass. S.U. 14 dicembre 1985 n. 6329 in Foro it.,
1985, I, 3091 sugli amministratori dell’ente cinema.
enti pubblici economici, sussisteva per quegli atti o fatti dannosi che esorbitassero
dall’esercizio imprenditoriale propria degli enti medesimi e si ricollegassero
a poteri autoritativi, di auto organizzazione, ovvero a funzioni pubbliche
svolte in sostituzione dello Stato o di enti pubblici non economici (6).
Trattasi della c.d. teoria del doppio binario secondo la quale la giurisdizione
del giudice ordinario per la responsabilità degli amministratori degli enti
pubblici economici era fondata sul fatto che l’attività imprenditoriale non
poteva rientrare nell’ambito dell’attività amministrativa e, perciò, era sottratta
alla giurisdizione della Corte dei conti, per essere identica a quella dell’impresa
privata. Si riteneva irrilevante la natura pubblica dell’ente ed il
fatto che le risorse fossero pubbliche, al riguardo sostenendosi che il denaro
pubblico una volta pervenuto nella disponibilità dell’ente pubblico economico
diverrebbe privato.
Sulla base di tali principi, la Cassazione affermò la giurisdizione del giudice
ordinario perché afferente ad attività imprenditoriale anche per l’erogazione
di somme per tangenti, e sulla costituzione dei c.d. fondi neri (7).
La ragione sostanziale, questa volta era il timore che, considerando
possibile l’azione di danno erariale ogni qual volta l’ente pubblico economico
avesse il bilancio in perdita, o effettuasse un atto imprenditoriale con
risultato negativo, si sarebbe potuto profilare un vero e proprio blocco dell’attività
dell’ente essendo l’azione di responsabilità amministrativa di
natura obbligatoria.
Tale indirizzo giurisprudenziale rimase fermo anche quando il sistema
delle partecipazioni statali fu superato, essendo gli enti di gestione stati trasformati
per legge (d.l. 11 luglio 1992 n. 333 conv. in legge 8 agosto 1992 n.
359) in società per azioni e quando andava sempre più diffondendosi la tendenza
da parte dello Stato e soprattutto degli enti locali ad utilizzare soggetti
sottoposti a regole privatistiche per il conseguimento di fini pubblici, aventi
personalità giuridica di diritto privato e autonomia gestionale e imprenditoriale
(aziende speciali, società interamente pubbliche che gestiscono direttamente
servizi pubblici, società miste, fondazioni private). Anzi, non è
infondato pensare che proprio tale indirizzo giurisprudenziale insieme all’affermarsi
di nuovi principi legislativi in materia di efficacia, efficienza, eco-
DOTTRINA 393
(6) Oltre alle sentenze in nota 2, v. anche Cass. 2 ottobre 1998 n. 9780 (Enimont) in
Foro it., 1999, 1, 575 con nota di D’Auria. Cass. S.U. 21 novembre 2000 n. 1193 in Cons.
di Stato 2001, II, 745, con nota di Palombi . Cass. 17 luglio 2001 n. 9649, in. Foro it. 2001,1,
2790 con nota di D’Auria.
(7) Cass. S.U. 18 ottobre 1991 n. 11037 in Foro it., in cui si afferma che le risorse economiche
dell’ente ferrovie dello Stato sono soggette al regime civilistico; idem Cass. 22
ottobre 1992 n. 11569. Cass. S.U. 11 febbraio 2002 n. 1945 in Foro it. 2002, I, 1408 sulle
tangenti agli amministratori dell’Acea per fatti anteriori all’entrata in vigore della L. 142/90
(art. 22. 23).
nomicità e trasparenza dell’azione delle amministrazioni pubbliche anche
locali, hanno spinto la pubblica amministrazione ad organizzarsi sempre più
con strumenti privatistici (8).
Non si deve invero dimenticare che nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale
promosso dalla Corte dei conti in seguito alla trasformazione degli
enti pubblici economici IRI, ENI, ENEL ed INA in società per azioni, il
Governo escludeva l’esercizio del controllo su tali società da parte della
Corte dei conti affermando di non avere più su di esse poteri di autorizzazione
e direttiva, bensì i diritti dell’azionista quali previsti dal diritto societario
e che “le nuove società fuoriescono dal rapporto con lo Stato che fa da presupposto
al controllo della Corte dei conti” (9).
Come noto tale tesi non fu accolta dalla Corte costituzionale che con
sentenza del 28 dicembre 1993, n. 466 affermava che la semplice trasformazione
degli enti pubblici economici in società per azioni non poteva essere
motivo sufficiente ad escludere il controllo della Corte dei conti sulle stesse
fino a quando rimaneva inalterato l’apporto finanziario dello Stato nei nuovi
soggetti e, cioè, fino a quando lo Stato conservava la gestione economica
delle nuove società nella propria disponibilità mediante una partecipazione
esclusiva o prevalente al capitale azionario delle stesse. Sosteneva la Corte
che “il controllo della Corte dei conti verrà a perdere la propria ragione nel
momento in cui l’effettiva dismissione delle quote azionarie in mano pubblica
avrà assunto connotati sostanziali, tali da predeterminare l’uscita della
società dalla sfera della finanza pubblica”.
Queste e altre considerazioni contenute nella sentenza citata, come il
richiamo agli indirizzi emersi in sede di normazione comunitaria favorevoli
alla adozione di una nozione sostanziale dell’impresa pubblica, non produssero
il risultato aspettato di un ripensamento dell’indirizzo giurisprudenziale
prima indicato e fu del tutto ignorata la questione dell’interferenza fra la
394 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(8) Il fenomeno dell’enorme aumento delle società a partecipazione pubblica è ben
noto. Secondo fonti del Ministero degli affari regionali, all’attualità le società pubbliche
sono diventate 3.211 con 17.445 consiglieri di amministrazione. Quelle che si occupano di
servizi pubblici locali (artt. 112 ss. del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267) sono raddoppiate negli ultimi cinque anni raggiungendo il
numero di 889 società a totale, prevalente partecipazione pubblica e società miste.
Si noti che vi sono società pubbliche come la biennale di Venezia che è qualificata dalla
legge istitutiva: società senza fine di lucro.
(9) Come riportato nella decisone della Corte Costituzionale n. 446/93, così si esprimeva
il presidente del consiglio dell’epoca. Inoltre il Ministro del Tesoro, azionista dell’Enel,
comunicava all’Enel di ritenere ormai superata la disposizione dell’art. 12 della legge 259
del 1958 sul controllo della Corte dei conti attraverso il proprio delegato in quanto le modalità
di nomina e la composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle società
erano state per legge devolute agli statuti societari e che lo Stato non aveva più poteri di
autorizzazione e direttiva ma i diritti dell’azionista (nota 14 settembre 1992 al presidente
dell’Enel).
giurisdizione della Corte dei conti sulla responsabilità per danni degli amministratori
delle S.p.a. pubbliche e l’attività di controllo della stessa corte sulla
gestione di enti e società pubbliche (10).
3) Le ragioni del nuovo indirizzo giurisprudenziale: la tutela della gestione
delle risorse pubbliche.
Il mutamento di indirizzo giurisprudenziale sulla responsabilità degli
amministratori delle società in mano pubblica iniziato con l’ordinanza 19667
del 2003 delle sezioni unite della Cassazione, ormai definitivamente consolidato
(11), fu sollecitato dalla dottrina molto spesso critica nei confronti del precedente
orientamento, la quale aveva messo in evidenza la sostanziale irresponsabilità
degli amministratori degli enti pubblici economici per i danni
cagionati alle risorse pubbliche dalle loro scelte gestionali essendo rimessa l’azione
di responsabilità agli stessi enti e amministrazioni che hanno nominato
gli amministratori (12). Inoltre forti sollecitazioni vennero dai numerosi giudizi
promossi dai procuratori della Corte dei conti nei confronti degli amministratori
degli enti pubblici economici e delle società a partecipazione pubblica.
Si osservava che l’azione di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti è più
incisiva rispetto a quella proposta dinanzi al giudice civile poiché innanzi al
giudice contabile è promossa e condotta da un organo pubblico, il pubblico
ministero contabile, mentre quella dinanzi al giudice civile è lasciata alla
disponibilità dell’ente stesso, per cui tale tipo di responsabilità difficilmente
viene fatta valere in quanto l’ente che ha il capitale sociale non è di solito interessato
a chiamare in causa gli amministratori che ha nominato (13). Inoltre, il
DOTTRINA 395
(10) Corte Costituzionale 28 novembre 1993 n. 446 in Giust. Cost., 1993, p. 3829 dove
sono pubblicati il ricorso per conflitto di attribuzioni, le difese dello Stato e la nota di CERRI,
La mano pubblica e la gestione privata di attività economica: problemi processuali e
sostanziali di un interessante conflitto. V. anche Corte Costituzionale n. 363 del 2003 che ha
dichiarato la natura sostanzialmente pubblicista della s.p.a. “Italia lavoro” per essere le azioni
possedute dal Ministero del lavoro. Si deve peraltro rilevare che l’attività di controllo da
parte della Corte dei conti non fa discendere automaticamente che il soggetto sia sottoposto
alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa in quanto
come si è osservato la Corte dei conti svolge attività di controllo anche su soggetti privati.
CASSESE, Gli enti privatizzati come società di diritto speciale in Giornale di diritto amministrativo
1995, p. 1134.
(11) Cass. SS.UU. 14 febbraio 2004, n. 3351. Cass. 26 febbraio 2004, n. 3899. Cass. 9
giugno 2004, n. 10979. Cass. 12 ottobre 2004, n. 20132. Cass. 26 maggio 2005, n. 10973.
Cass. 1 marzo 2006, n. 4511. V. la nota critica di D’AURIA, in Foro it. 2006, I,
Amministratori e dipendenti di enti pubblici economici e società pubbliche: quale revirement
della cassazione sulla giurisdizione di responsabilità amministrativa?
(12) D’AURIA in Foro it. 1991, 1, 575.
(13) SCHIAVELLO, La nuova conformazione della responsabilità amministrativa, Milano
2001. RISTUCCIA, La giurisdizione in materia di responsabilità degli amministratori degli enti
pubblici economici in Riv. Corte dei conti, 1995, 1, 406; D’AURIA in Foro it. 1999, 1, 575.
progressivo fenomeno della privatizzazione degli enti pubblici che ha assunto
proporzioni considerevoli e, recentemente, l’esplosione della costituzione di
società per azioni per la gestione dei servizi locali, hanno indotto la Cassazione
ad affermare la irrilevanza della utilizzazione dei soggetti privatistici sulla giurisdizione
della Corte dei conti quanto alla giurisdizione sulla responsabilità
degli amministratori delle s.p.a. pubbliche, in quanto la Corte dei conti è giudice
esclusivo in materia di contabilità pubblica a norma dell’articolo 103,
comma 2, della Costituzione, qualificando sostanzialmente come attività
amministrativa non solo quella che si esercitava in attuazione di funzioni pubbliche
e poteri autoritativi, ma anche quella con la quale il soggetto pubblico
persegue le proprie finalità istituzionali mediante una attività disciplinata in
tutto o in parte dal diritto privato (14).
Invero, la natura di istituzione pubblica è configurabile allorquando una
società, le cui azioni sono possedute integralmente o prevalentemente da un
ente pubblico, costituisca lo strumento per la gestione di un servizio pubblico
ed operi come longa manus dell’ente proprietario, equivalendo l’attività
della società a quella di esercizio diretto da parte dell’ente.In queste ipotesi
la società è parte dell’amministrazione in senso lato.
Ovviamente si deve procedere ad una valutazione caso per caso, per singoli
soggetti giuridici, con esame dell’organizzazione, dell’appartenenza del
capitale sociale, delle modalità di affidamento dell’attività sociale, del rapporto
con l’ente pubblico che l’ha costituito o che partecipa al capitale sociale,
specie con riguardo delle società miste. Sulla questione è stato puntualizzato
che il danno erariale in materia di società per azioni a partecipazione
pubblica riguarda esclusivamente le società a partecipazione pubblica totalitaria
o maggioritaria, nelle quali il perseguimento delle finalità pubbliche
costituisce un dato essenziale e non riguarda le ipotesi di partecipazione pubblica
meramente “finanziaria” che è difficile far rientrare nell’ambito delle
scelte di tipo economico volte a realizzare il soddisfacimento di specifici
bisogni ed interessi pubblici (15).
In ogni caso, quel che preme evidenziare è che ai fini del riparto di giurisdizione
per l’azione dei danni nei confronti degli amministratori e agenti di tali
soggetti, si va delineando il principio fondato sul criterio oggettivo dell’attività
funzionale al comparto pubblico pur con l’utilizzo di strumenti privati, con
riguardo all’utilizzo corretto del denaro pubblico, alla natura pubblica delle
risorse e, perciò, alla deviazione del loro uso dalla destinazione pubblica cui
396 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(14) Cass. S.U. ord. 22 dicembre 2003 n. 19667 in Foro it. 2005, I, 2676 che dichiara
enti pubblici economici i consorzi fra enti pubblici locali per la gestione di servizi pubblici.
(15) RISTUCCIA, La responsabilità sociale erariale nelle società pubbliche, in Riv. Corte
dei conti, novembre 2004, p. 1 ss.; GALGANO, Il nuovo diritto societario, Padova 2003, 439, il
quale afferma che per società per azioni in mano pubblica debbono intendersi le società di cui
un ente pubblico possegga la totalità o la maggioranza del capitale azionario.
dovevano essere utilizzate. Tale nuovo orientamento giurisprudenziale, la cui
ratio sostanziale è nel controllo della trasparenza e legittimità dell’uso delle
risorse pubbliche quanto alla loro effettiva destinazione alla realizzazione del
fine pubblico cui sono indirizzate, rischia però di frenare quel processo di liberalizzazione
dei servizi pubblici che si sta faticosamente attuando e che ha come
fondamento il principio di concorrenza e competizione nel mercato, che
dovrebbe assicurare, oltre che una migliore qualità ed efficienza del servizio
anche il razionale utilizzo delle risorse pubbliche sicuramente con una riduzione
dei costi del servizio stesso a tutela del cittadino-consumatore.
Tale fenomeno della liberalizzazione nel campo dei servizi pubblici,
specie quelli degli enti locali, sta avendo un cammino complesso e contrastato
incontrando obiettive difficoltà, dovendosi coniugare l’interesse dei
cittadini, quello dell’ente al quale è attribuito l’interesse della comunità e
l’interesse del mercato e dei soggetti imprenditoriali che in esso agiscono.
Il tema è all’ordine del giorno, ed è stato efficacemente affermato, che
non è tanto “liberalizzazione si, liberalizzazione no”, bensì quello di stabilire
all’interno di una politica di privatizzazione e liberalizzazione, quale spazio
debba essere lasciato alla libertà d’impresa e quale alla cura dell’interesse
collettivo (16).
4) L’influenza sul nuovo indirizzo giurisprudenziale della riforma della
Corte dei conti del 1994 e dell’art. 7 della legge 97/2001.
Il cambiamento dell’indirizzo giurisprudenziale della Cassazione, prima
indicato, è stato propiziato anche da alcune disposizioni di legge nel frattempo
intervenute. Tra queste le più importanti sono l’ampliamento delle competenze
e dell’organizzazione della Corte dei conti contenuta nelle leggi 19 e 20 del
1994 e l’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 in materia di rapporto tra
procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (17).
L’articolo 1, ultimo comma, della legge 20 del 1994 e successive modificazioni,
ha disposto che la Corte dei conti giudica sulla responsabilità
amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche quando il
danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti diversi da quelli di
appartenenza, limitatamente ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della
citata legge; lo stesso articolo 1, comma 1, prevede l’insindacabilità nel
merito delle scelte discrezionali dei dipendenti pubblici nelle quali, come
DOTTRINA 397
(16) Si fa riferimento al disegno di legge A.S. n. 772 (d.d.l. Lanzillota) di delega al
governo per il riordino dei servizi pubblici locali, presentato il 7 luglio 2006 sul quale le
interessanti osservazioni di CINTIOLI, Quale potere pubblico nei servizi pubblici locali? Il
rischio di statalismo, in Magna carta paper 2007.
(17) In tal senso v. le osservazioni contenute in Cass. SS.UU. 22 dicembre 2003 n.
19667, cit.
vedremo, non vi è dubbio che, per quanto riguarda gli amministratori degli
enti economici delle società partecipate, può rientrare l’attività di impresa.
L’aver introdotto la giurisdizione della Corte dei conti anche sulla responsabilità
(extracontrattuale) di amministratori e dipendenti pubblici in danno di
soggetti diversi dalle amministrazioni o dagli enti di appartenenza è stata intesa
nel senso che il discrimine tra le due giurisdizioni (giurisdizione ordinaria
ex articolo 2043 del codice civile e giurisdizione della Corte dei conti) risiede
unicamente nella natura pubblica o privata delle risorse finanziarie di cui il
soggetto passivo si avvale, avendo il legislatore inteso tutelare il patrimonio di
amministrazioni ed enti pubblici diversi da quelli cui appartiene il soggetto
agente abilitando il procuratore regionale della Corte dei conti a promuovere i
relativi giudizi nell’interesse generale dell’ordinamento giuridico. Tale norma
innovativa ha un’evidente ricaduta anche in tema di responsabilità contrattuale
quale è quella degli amministratori di società in mano pubblica per i danni
alla società stessa, in quanto non è immaginabile che ci sia un trattamento giurisdizionale
diverso e meno incisivo allorquando il danno sia stato cagionato
alla stessa amministrazione di appartenenza.
L’articolo 7 della legge 97 del 2001 è stato ritenuto un punto fermo ai
fini della sussistenza della giurisdizione amministrativa contabile in questione
senza che possa distinguersi tra atti di imperio e atti di gestione imprenditoriale
nei confronti dei comportamenti delittuosi “dei dipendenti di amministrazioni
o enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”.
La norma prevede che in caso di condanna penale per i delitti contro la
pubblica amministrazione (peculato, corruzione, malversazione, abuso d’ufficio)
la sentenza venga comunicata al procuratore regionale della Corte dei
conti per la promozione dell’eventuale procedimento per danno erariale nei
confronti del condannato.
Ove si tenga conto che la nozione di amministrazione pubblica sta assumendo
un significato più articolato ed ampio di quello tradizionale di amministrazione
tipizzata ad atti amministrativi per ricomprendere anche soggetti
di diritto privato che perseguono interessi pubblici della collettività, in cui
prevale la logica del risultato, la norma citata è stata interpretata da alcuni nel
senso che il legislatore abbia voluto compiere un’attribuzione ampliativa
dell’ambito soggettivo della responsabilità amministrativa in materia di contabilità
pubblica, mentre da altri che la norma mostra come il legislatore in
realtà non abbia mai dubitato della piena conoscibilità da parte del giudice
contabile delle situazioni di danno arrecato, oltre che nei confronti dei dipendenti
della pubblica amministrazione anche di quelli degli enti pubblici economici
e delle società a partecipazione pubblica (18).
398 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(18) Sulla portata della legge 97 del 2001 ai fini della attribuzione alla Corte dei conti
della giurisdizione in materia di responsabilità per mala gestio degli amministratori delle
società a partecipazione pubblica, si rimanda alle condivisibili osservazioni di VENTURINI in
Quale che sia l’esatta soluzione sulla portata della norma indicata, preme
rilevare che tale norma pur dettando una disposizione di carattere procedurale,
ha stabilito un principio di attribuzione giurisdizionale dal quale l’interprete
non può prescindere.
In ogni caso, quel che più conta è che il nuovo indirizzo giurisprudenziale
sulla giurisdizione in materia di responsabilità degli amministratori di
società partecipate in modo prevalente dallo Stato e da enti pubblici è da ritenersi
ormai stabilizzato ed ha trovato una puntuale sistemazione sia nell’affermazione
dell’esistenza di un rapporto di servizio tra la società e l’ente proprietario,
ravvisabile ogni qual volta si instauri una relazione non organica
ma funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto esterno nell’iter
procedimentale dell’ente pubblico, come partecipe della attività a fini pubblici
di quest’ultimo, e costituisce il presupposto della responsabilità per
danno erariale (Cassazione 3899 del 2004) sia, a prescindere da tale rapporto,
nella affermazione che “ai fini del riconoscimento della giurisdizione
della Corte dei conti è del tutto irrilevante il titolo in base al quale il pubblico
denaro è utilizzato, potendo consistere in un rapporto di pubblico impiego
o di servizio ma anche in uno di concessione amministrativa o in un contratto
privato”. Il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da
quella contabile, si è, quindi, spostato dalla qualità del soggetto che ben può
essere un privato o un ente pubblico economico, alla natura del danno e degli
scopi perseguiti in modo che si ha danno erariale qualora il soggetto, anche
privato, con le sue scelte ha determinato uno sviamento dalle finalità perseguite
(19).
Ora si è passati da un criterio di riparto fondato sulla tipicità delle regole
proprie delle responsabilità di diritto civile societario e di quella amministrativa
contabile (il cosiddetto doppio binario) a quello fondato sul collegamento
funzionale tra pubblico potere e società in vista del perseguimento del
fine pubblico, nonché sulla natura delle risorse e del soggetto danneggiato.
5) Ambito soggettivo ed oggettivo del giudizio dinanzi alla Corte dei conti.
L’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla responsabilità
degli amministratori delle società pubbliche pone numerosi problemi circa
l’ambito soggettivo e oggettivo di tale giudizio che, dato il breve tempo trascorso
dal mutamento di indirizzo giurisprudenziale, non sono stati affrontati
in modo risolutivo dalla giurisprudenza che, come già è successo per il
DOTTRINA 399
Giurisdizione della Corte dei conti nei confronti degli amministratori e dei dipendenti delle
Amministrazioni enti e enti a prevalente partecipazione pubblica, in Riv. Corte conti, 2001
n. 6, IV p., 294 ss.
(19) MADDALENA, La sistemazione dogmatica della responsabilità amm.va nell’evoluzione
attuale del diritto amministrativo, in Cons. Stato, 2001, II, 1559; VENTURINI, op. cit.,
p. 294.
revirement sul riparto di giurisdizione, avrà anche il compito di risolverli con
funzione pretoria, mentre sono stati trattati in modo dubitativo dalla numerosa
dottrina sia nelle annotazioni delle decisioni della Cassazione in materia
sia in quelle della Corte dei conti.
Innanzi tutto, le stesse sentenze della Cassazione citate non hanno fornito
alcun elemento, oltre al criterio sul riparto di giurisdizione, sulla portata e
sui limiti dell’azione dinanzi al giudice contabile che, pertanto, saranno da
individuare progressivamente, tenuto conto delle diverse caratteristiche e
modalità delle due azioni.
Inoltre, occorre precisare che proprio in base al criterio discriminante la
giurisdizione indicato dalla Cassazione, e cioè il perseguimento di interessi
della collettività con l’uso di risorse pubbliche, è evidente che l’azione di
responsabilità per danno dinanzi alla Corte dei conti può esperirsi nei confronti
di amministratori o dipendenti di società a totale o a maggioritaria partecipazione
pubblica o qualora l’ente pubblico sia il socio di riferimento o di
controllo (20). Qualora vi sia nel capitale sociale la partecipazione di soci
privati e la partecipazione dello Stato o di un ente pubblico abbia soltanto
una funzione finanziaria, la responsabilità degli amministratori non può non
essere valutata secondo le regole sui diritti e doveri degli organi societari ove
non siano espressamente derogate da norme speciali.
Come si è detto, la cosiddetta privatizzazione di attività e servizi pubblici
si è sviluppata con criteri non univoci, ed i relativi strumenti sono spesso
previsti da specifiche norme di legge ove venivano dettate anche le regole di
organizzazione e le regole di gestione (21).
La dottrina distingue fra privatizzazioni formali o finte e sostanziali o
autentiche: con le prime si pone in essere una mera trasformazione soggettiva
quasi sempre di enti pubblici e organi pubblici della amministrazione in
società private che continuano a svolgere compiti istituzionali delle pubbliche
amministrazioni non in regime di mercato e di competitività; con le
seconde si trasferisce ai privati il controllo sui nuovi soggetti in quanto si trasformano
interi settori della pubblica amministrazione da pubblici a privati
che operano in regime di concorrenza (energia, trasporti, banche, ecc.).
Si tratta di verificare di volta in volta se la figura soggettiva privata costituisca
uno strumento della pubblica amministrazione in modo che essa sia
400 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(20) Oltre agli autori indicati in nota 14, nello stesso senso ASTIGIANO, Gli illeciti degli
amministratori e dei dipendenti degli enti pubblici economici: dal giudice ordinario al giudice
contabile, in Giur.it. 2004, I, 1838; v. anche Corte dei conti, Sez. Lombardia, 9 febbraio
2005 n. 32 in Foro Amm.vo C.d.S., 2005, p. 622 con nota di Lombardo; C. dei conti, Sez. I
appello, 3 novembre n. 356 in Foro amm. C.d.S. 2005, 3428 con nota di Venturini, contra
ATELLI in Diritto e giustizia 2004 n. 5.
(21) FRANCHINI, L’organizzazione in (a cura di) CASSESE, Trattato di diritto amministrativo,
Milano, 2003, I, 271; LA CAVA, L’impresa pubblica in (a cura di) CASSESE, Trattato
di diritto amministrativo, cit. p. 3947; NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo,
Milano 2003.
legata da un rapporto di servizio per lo svolgimento di compiti istituzionali,
oppure se la società operi al di fuori della pubblica amministrazione anche
se sottoposta a regole dettate da poteri pubblici o sottoposta a controlli pubblici.
Nel primo caso, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di
responsabilità amministrativa degli amministratori è indubbia, nel secondo
caso ove la figura soggettiva privata assolvesse anche a compiti pubblici soltanto
a tale corrispondente parte di attività, andrebbe riferita la responsabilità
degli amministratori e la giurisdizione della Corte dei conti. Sotto questo
profilo non dovrebbero essere considerati pubblici i soggetti privati per il
solo fatto che, ad esempio, usufruiscono di contributi pubblici o che vi sia
una partecipazione pubblica al capitale della società ove manchi il c.d. rapporto
di servizio fra le società e l’ente finanziatore e la società non persegua
le finalità pubbliche dello stesso ente (22).
Come può notarsi l’individuazione dell’ambito soggettivo della responsabilità
amministrativa degli amministratori delle società partecipate azionabile
dinanzi alla Corte dei conti è molto complesso, anche se si va affermando un
criterio più empirico di quelli sopra indicati nel senso di ritenere la giurisdizione
della Corte dei conti su tutte le società partecipate dalla pubblica amministrazione
in quanto soggetti pubblici e che tale giurisdizione ha fondamento nel
mero utilizzo da parte di società ed altri soggetti privati (es. le fondazioni) di
beni o denaro pubblico per il perseguimento di pubblici interessi) (23).
In altri termini sembra doversi ipotizzare che la finalizzazione della cura
degli interessi pubblici non deriva tanto dall’attività ma dalle risorse impiegate
per il suo svolgimento .
L’assunzione del rischio d’impresa in capo alla collettività determina la
finalizzazione pubblicistica della prestazione.
Il regime delle responsabilità degli amministratori dipende in definitiva dal
capitale impiegato in ragione dell’interesse pubblico che si vuole perseguire.
Il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile
si è spostato dalla qualità del soggetto (che può essere anche un privato)
alla natura del danno e degli scopi perseguiti sicché anche il privato può
recare danno all’amministrazione ove, avuta la concessione del contributo,
non abbia realizzato le finalità perseguite (sul punto sono cospicue le recenti
sentenze delle Corti dei conti regionali)(24).
Dalla tesi estensiva prima indicata della giurisdizione della Corte dei conti
in materia di responsabilità degli amministratori delle società pubbliche, si
DOTTRINA 401
(22) Sul punto sono da condividersi la considerazione di D’AURIA in Amministratori e
dipendenti di enti pubblici economici e società pubbliche, in Foro it., 2005, I, 2675 e giurisprudenza
ivi richiamata.
(23) Cass., S.U. 1 marzo 2006 n. 4511.
(24) Corte dei conti, Sez. giur. Molise 7 ottobre 2002 n. 234. Corte di conti, Sez. giur.
Lombardia, 22 febbraio 2006 in Gior. Dir. Amm. 2006, 1127 con nota adesiva di VENTURINI, La
giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori e dipendenti delle società pubbliche.
rende necessario definire con precisione l’oggetto del giudizio di responsabilità
amministrativa, osservando che il giudice contabile non può sindacare nel
merito le scelte di gestione degli amministratori, in quanto una valutazione a
posteriori di merito potrebbe paralizzare qualsiasi attività innovativa.
Applicando i principi, validi anche per il diritto societario, è stato esattamente
affermato che l’attività gestionale degli amministratori delle Società
pubbliche è sindacabile quando, contravvenendo a criteri di efficienza ed
economicità, essa si concreti in abusi, arbitri ed omissioni produttivi di
danno patrimoniale alla società, e di conseguenza all’ente proprietaria delle
partecipazioni oppure qualora contrasti o sia comunque estranea a fini pubblici
che la società, per sua caratura pubblicistica, deve perseguire (25).
Il rischio d’impresa dovrebbe essere conferito dal carattere discrezionale
dell’attività imprenditoriale che esclude l’azione di responsabilità amministrativa
ai sensi dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994 n. 20 che appunto
ne prevede l’insindacabilità (26).
Le scelte degli amministratori delle società a partecipazione pubblica
potranno essere sindacate soltanto sotto il profilo della razionalità e non della
ragionevolezza e della congruità dei comportamenti, oppure qualora contrastino
o siano estranei a fini pubblici che l’ente deve perseguire, con valutazione
ex ante e non ex post e cioè al momento della decisione presa (27).
6) Rapporto tra le azioni societarie di responsabilità degli amministratori di
società pubbliche e l’azione di responsabilità amministrativa.
Ancora più incerte sono le soluzioni al problema del rapporto tra le azioni
previste dal diritto societario, ora riformato, sulla responsabilità degli
amministratori e i direttori delle società, di competenza del giudice ordinario,
e quella sulla responsabilità amministrativa di competenza della Corte
dei conti in caso di società in mano pubblica.
Invero, il revirement giurisprudenziale in materia di giurisdizione contabile
avviene in un momento delicato perchè ha coinciso sostanzialmente
con la riforma organica del diritto societario che ha definito con chiarezza
i compiti e le responsabilità degli organi societari (D.Lgs. 28 dicembre
2004, n. 310).
402 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(25) Corte dei conti, Sez. 1 appello, 3 novembre 2005 n. 356 in Foro Amm. C.d.S.,
2005, 342.
(26) Corte dei conti, Sez. giur. Molise, 4 ottobre 2001, n. 33 prevede che l’attività d’impresa
discrezionale per non essere sindacabile non deve avere carattere di irrazionalità,
incongruità o manifesta illogicità. Cass. S.U. 29 gennaio 2001 n. 33 in Foro it., 2001, 1,
1171; Cass. S.U. 6 maggio 2003 n. 6851.
(27) Molto interessanti e da condividere le osservazioni in materia di URSI, Verso la
giurisdizione del giudice contabile, la responsabilità erariale degli amministratori delle
imprese pubbliche, in Foro amm. C.d.S., 2004, 701; Corte dei conti, Sez. 1 appello, 3
novembre 2005 n. 356 cit.
Sulla materia dei rapporti ed interferenze tra l’azione pubblica di responsabilità
degli amministratori delle società pubbliche e le azioni previste dal
diretto societario siamo ancora nel campo delle ipotesi, che diventeranno
principi attraverso futuri sviluppi legislativi o giurisprudenziali. Ciò dovrà
comportare la soluzione di alcune questioni fondamentali quali:
– l’influenza dell’interesse pubblico sulla finalità di lucro essenziale per
una società di diritto privato;
– il rapporto tra l’attuazione della finalità pubblica che ha portato alla
costituzione del soggetto privato e l’oggetto sociale, cioè l’interesse sociale
da perseguire;
– la rilevanza delle direttive del socio pubblico sull’attività sociale;
– il bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello dei soci privati, dei
creditori, dei terzi.
In definitiva, bisogna definire la stessa natura della società a prevalente
partecipazione pubblica e la sua compatibilità con le regole del diritto societario,
nazionale e dell’ordinamento comunitario sia in relazione al vincolo
della parità tra imprese pubbliche e private sia in relazione alle possibili violazioni
del principio di non discriminazione, libera circolazione dei capitali
e divieto di aiuti di Stato (28).
La questione è molto complessa; basti ricordare che le società sono strumenti
del mercato, che il mercato è retto dal principio di parità tra gli attori e
dalla competizione tra gli stessi ai fini di realizzare l’utile per il sostentamento
della società. Al riguardo si deve osservare che quasi nessuna delle società
di gestione dei servizi pubblici si trova in queste condizioni giacché i servizi
pubblici per la cura di interessi della collettività sono disciplinati per legge e
attribuiti o direttamente o attraverso procedure di evidenza pubblica per la
scelta del socio, a soggetti che sono sostanzialmente pubblici anche se, come
si è visto, formalmente utilizzano strumenti privatistici. La società in mano
pubblica, anche se dotata di personalità giuridica, di autonomia di bilancio e di
autonomia decisionale è soggetta ad un rapporto derivante dal contratto di servizio
che disciplina diritti e doveri delle parti e anche i limiti di redditività delle
risorse pubbliche impiegate e prevede pareggio tra costo e ricavi (29).
Si pensi alle società che gestiscono servizi compensati con le tariffe dove
normalmente i ricavi non possono superare la copertura dei costi e gli investimenti
relativi senza che la gestione sia finalizzata a produrre utili se non a
vantaggio dell’utente attraverso l’abbassamento delle tariffe stesse.
DOTTRINA 403
(28) Sui rapporti tra azioni societarie e azione di responsabilità amministrativa degli
amministratori delle società a partecipazione pubblica si veda l’ampio studio di PINOTTI, La
responsabilità degli amministratori di società tra riforma del diritto societario ed evoluzione
della giurisprudenza, con particolare riguardo alle società a partecipazione pubblica, in
Rivista Corte conti, 2004, parte IV, 312; URSI, op. cit., nota 26.
(29) Si vedano le osservazioni di CREA, Responsabilità degli amministratori di società
e di enti pubblici economici, in www.giustamm.it.
In queste società la scelta di una corretta gestione deve essere rivolta
innanzi tutto a fornire alla collettività un servizio efficiente e a contenere i
costi di gestione più che al conseguimento dell’utile derivante dalla competizione
del mercato.
D’altra parte la c.d. “funzionalizzazione della gestione societaria” quale
relazione con il socio pubblico non può ritenersi un’anomalia in quanto le
società che gestiscono servizi pubblici sono pur sempre finanziate con denaro
della collettività e ad essa debbono dar conto sia quanto alla trasparenza
ed economicità dell’attività di gestione che alla realizzazione di un efficiente
servizio per il quale la società è stata costituita (30).
Peraltro, la tipologia delle società in mano pubblica è molto variegata ma
per le società interamente a capitale pubblico o per quelle a capitale maggioritario
pubblico che svolgono un pubblico servizio o attuano interessi dell’amministrazione
proprietaria le regole di gestione non sono dettate dal mercato
ma dall’ente proprietario se non dalla legge (es. Patrimonio s.p.a.) (31).
In definitiva, trattasi di società di diritto speciale i cui statuti, in tutto o
in parte derogano alle norme di diritto comune sia con riferimento ai poteri
del socio pubblico, sia con riferimento ai rapporti tra ente proprietario e
società (32).
Qui viene in considerazione il problema dell’influenza del socio pubblico
sulla gestione delle società per azioni pubbliche. Essendo stata delineata, dalle
indicate sentenze della Cassazione, la responsabilità degli amministratori delle
società pubbliche, sottoposta alla giurisdizione della Corte dei conti, quale
responsabilità inerente al rapporto tra l’ente pubblico proprietario e gli amministratori
della società, di modo che l’azione di danno può essere sostanzialmente
assimilata a quella subita dal socio pubblico proprietario, ciò porta a ritenere
che la relazione funzionale che intercorre tra socio di comando ed ente gestore
possa divenire l’oggetto stesso della cognizione del giudice contabile.
A questo problema è connesso quello della vincolatività delle direttive
del socio proprietario alla società pubblica, che, prevalentemente, non sono
ritenute vincolanti, sia perché il socio pubblico persegue interessi esterni al
rapporto sociale, sia perché una volta utilizzato lo strumento privatistico, la
404 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(30) Sulla relazione funzionale quale presupposto della giurisdizione contabile si vedano
le considerazioni di CREA, Organizzazione in forma privata di funzioni e servizi pubblici
e responsabilità erariale, in Amm.ne e Contabilità di Stato, 2004, 1, p. 29 – v. anche Cass.
S.U. 26 febbraio 2004, 1, 3899 cit.
(31) Art. 7 della L. 15 giugno 2002 n. 112 con la quale “per la valorizzazione gestionale
e alienazione del patrimonio dello Stato e nel rispetto dei requisiti e delle finalità priori
dei beni pubblici è istituita una società per azioni che assume la denominazione di
“Patrimonio dello Stato S.p.a.”. La stessa norma stabilisce l’ammontare del capitale sociale
e soprattutto prevede che “la società opera secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal
Ministero, previa definizione da parte del Cipe, delle direttive di massima.
(32) GOISIS , Contributo allo studio delle società a partecipazione pubblica come persone
giuridiche, Milano, 2004; IBBA, Le società legali, Torino, 1992, 258.
società è del tutto autonoma dal socio proprietario e non può non seguire le
regole del codice civile e del proprio statuto (33).
Il mutato orientamento giurisprudenziale, ed i principi che l’hanno ispirato
potrebbero portare a ritenere (il condizionale è d’obbligo) che la relazione
funzionale intercorrente tra l’ente proprietario delle azioni e la società pubblica
comporti che l’azione di responsabilità amministrativa degli amministratori
abbia come oggetto il danno subito dal socio proprietario, oltre che per la
diminuzione patrimoniale anche per il mancato raggiungimento del fine pubblico
la cui realizzazione è stata la ragione della costituzione della Società (34).
La disciplina delle società di capitali innova, sotto molti profili, la preesistente
disciplina della responsabilità degli amministratori e degli altri organi
sociali (35). La riforma assegna un ruolo centrale agli amministratori stabilito
dall’articolo 2380 bis del codice civile secondo cui: “la gestione dell’impresa
spetta esclusivamente agli amministratori i quali compiono le operazioni
necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”.
Da ciò la nuova disciplina della responsabilità degli amministratori che
si indica solo per tipologia:
1) azione sociale di responsabilità promossa in seguito a deliberazione
assembleare che ha come oggetto l’adempimento da parte degli amministratori
dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto con la diligenza richiesta
dalla natura dell’incarico e dalle specifiche competenze (articoli 2392 e 2393
c.c.). Si è passati dalla diligenza del mandatario a quella più specifica derivante
dalla natura dell’incarico e dalle specifiche competenze in virtù delle
quali è stato nominato (amministratore-manager). L’azione può anche
riguardare la violazione dei doveri imposti all’amministratore dall’art. 2391
c.c. in materia di comunicazione agli altri amministratori e al collegio sindacale
del proprio conflitto d’interessi.
2) Azione sociale di responsabilità esercitata dai soci che rappresentano
almeno un quinto del capitale sociale (art. 2393 bis c.c.)
3) Azione dei creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti
alla conservazione della integrità del patrimonio sociale (art. 2394 c.c.).
4) Azione di responsabilità nelle procedure concorsuali (art. 2394 bis) fallimento,
liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria.
DOTTRINA 405
(33) G. ROMAGNOLI, L’esercizio di direzione e coordinamento da parte di enti pubblici
, in Nuova giur. Civ. e comm., 2004, I, 214; SCOGNAMIGLIO, Attività imprenditoriale e
carattere strumentale dell’ente pubblico in Riv. Trim. di diritto pubbl., 1989, II, 427.
(34) In tal senso le interessanti osservazioni di RISTUCCIA in La responsabilità sociale
erariale, in Riv. Corte conti, 2004, 1.
(35) Sul rapporto tra le azioni di responsabilità degli amministratori delle società pubbliche
previste dalla legge societaria e l’azione del procuratore della Corte dei conti si rinvia
all’esauriente lavoro di PINOTTI, La responsabilità degli amministratori di società tra
riforma del diritto societario ed evoluzione della giurisprudenza con particolare riferimento
alle società a partecipazione pubblica, cit.; v. anche RISTUCCIA, op. cit.
5) Azione individuale del socio e del terzo che assumono di essere stati
danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori (art. 2395 c.c.).
6) Denuncia al tribunale da parte dei soci che rappresentano il decimo
del capitale sociale di gravi irregolarità da parte degli amministratori che
danneggiano la società (art. 2409 c.c.).
L’azione sociale di responsabilità di cui agli articoli 2393 e 2393 bis del
codice civile è azione contrattuale che trova fondamento nella violazione dei
doveri dell’amministratore derivanti dal contratto di amministrazione o più
propriamente dal contratto di società di cui gli amministratori sono organi di
esecuzione, quella del socio e terzo danneggiato ha natura extracontrattuale
anche se derivante da atti posti in essere dagli amministratori nell’esercizio
dell’attività gestoria.
Il nuovo sistema di responsabilità civile degli amministratori organi
delle società trova applicazione nelle società in mano pubblica?
Il codice civile agli articoli 2449 e 2450 prevede che se lo Stato o gli enti
pubblici hanno partecipazione in una società per azioni, lo statuto può ad essi
conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero
componenti del consiglio di sorveglianza; essi possono essere revocati soltanto
da chi li ha nominati ed hanno gli stessi diritti e obblighi dei membri nominati
dall’assemblea, salve le disposizioni delle leggi speciali. Anche se tali
norme derogano al diritto comune in quanto la nomina e la revoca degli amministratori
è sottratta alla delibera dell’assemblea, riservandola allo Stato, da tali
norme non sembra desumersi una disciplina differenziata degli amministratori
di nomina pubblica per la responsabilità verso la società, verso i soci, i creditori
sociali e terzi diversa da quelle previste dal codice civile.
Peraltro, l’indirizzo giurisprudenziale anteriore al 2003, prevedeva proprio
in materia di responsabilità il cosiddetto doppio binario distinguendo
l’attività gestionale imprenditoriale di natura privatistica sottoposta alle azioni
di responsabilità del codice civile, dagli atti di natura amministrativa o di
imperio e di organizzazione di competenza del giudice contabile.
La sussistenza dell’interesse pubblico non era ritenuta sufficiente a giustificare
l’azione di responsabilità amministrativa per gli atti di gestione presunti
dannosi. Si aveva una sostanziale sia pure tendenziale situazione di
parità in materia di responsabilità tra gli amministratori delle società private
e quelle delle società pubbliche. La giurisdizione del giudice ordinario in
ordine alla responsabilità degli amministratori degli enti pubblici economici
e delle società a partecipazione pubblica, si fondava, come per gli amministratori
delle società private, sul tipo di attività che essi svolgevano cioè del
concreto operare sul mercato. L’elemento distintivo se mai si doveva ricercare
nella diversa destinazione degli utili realizzati. Infatti, l’imprenditore
privato è libero nell’utilizzazione degli utili, quello pubblico deve reinvestire
l’utile di gestione per la realizzazione di fini pubblicistici.
La teoria del doppio binario, sia pure concettualmente coerente e rispettosa
dei principi societari, come si è detto, ha dato adito a forti perplessità in
ordine alla sostanziale irresponsabilità degli amministratori di enti pubblici
economici e delle società a partecipazione pubblica. Infatti, era difficile dare
406 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
attuazione in concreto alle azioni previste dal codice civile per i casi di mala
gestio poiché gli enti proprietari di riferimento non erano azionisti interessati
a far valere la responsabilità degli amministratori; in altri termini, l’azione
di responsabilità civile era rimessa allo stesso soggetto governativo e perciò
politico, che aveva proceduto alla nomina degli amministratori.
Peraltro, proprio la previsione dell’art. 2449, c. 4, del c.c., secondo il quale
gli amministratori di nomina pubblica di regola non hanno diritti e doveri diversi
da quelli nominati dall’assemblea, facendo “salve le disposizioni delle leggi
speciali”, ammetterebbe una diversa disciplina dei diritti ed obblighi degli
amministratori ad opera della legge o degli statuti. L’introduzione della riserva
della legge speciale sembrerebbe dare ingresso esplicito ad un modello di società
pubblica speciale (c.d. legali o legificate), che quanto ai diritti e doveri degli
amministratori e perciò alla disciplina delle loro responsabilità derogherebbe al
codice civile, ove previsto dalla legge stessa o dallo statuto di tali società.
A determinare la specialità della responsabilità degli amministratori di
società pubbliche si deve far riferimento, nuovamente, ai due elementi che
hanno determinato il noto mutamento giurisprudenziale: il perseguimento
delle finalità pubbliche e l’utilizzo di risorse pubbliche (36).
Si è al contrario osservato che il legislatore nazionale in tal modo sembra
essere andato in direzione opposta al diritto europeo allorché ha attribuito
nell’ordinamento interno connotati pubblicistici a soggetti da lui stesso
qualificati privati, giustificandosi con il richiamo ad un ordinamento assolutamente
indifferente a tale destinazione (37).
7) Compatibilità tra le azioni di responsabilità societarie e quella di responsabilità
amministrativa: esclusività dell’azione dinanzi alla Corte dei conti.
In ogni caso il mutamento di giurisprudenza sul riparto di giurisdizione
in materia di responsabilità degli amministratori dell’impresa pubblica con
l’affermazione dell’azione del procuratore della Corte dei conti anche per
quanto riguarda l’attività gestionale degli stessi, sia pure nei limiti prima
indicati, della razionalità e congruità dei comportamenti gestionali, pone il
problema della compatibilità di questa azione di responsabilità con le azioni
previste dal codice civile.
La soluzione di questo quesito è quanto mai complessa anche se in dottrina
e giurisprudenza è prevalente la tesi della esclusività della azione di
danno del procuratore della Corte dei conti nei confronti degli amministrato-
DOTTRINA 407
(36) Sul punto si rimanda alle osservazioni degli studi di cui a nota 34 e specie a quello
di M. RISTUCCIA, op. cit., 12; IBBA, op. cit., 258 in cui si distingue la società a partecipazione
pubblica di diritto comune da quella a partecipazione pubblica di diritto speciale in cui
rileva l’interesse pubblico per cui la società è stata costituita che comprime se non sostituisce
lo scopo lucrativo rispetto alle esigenze del servizio e dell’attività.
(37) AGRIFOGLIO, La riforma del diritto amministrativo tra diritto europeo e costituzione:
un doppio tradimento, in www.lexitalia.it.
ri di enti pubblici economici e delle società in cui il capitale sia posseduto
totalmente o in maggioranza dallo Stato o dall’ente pubblico (38).
Naturalmente, ciò comporta una serie di problemi che riguardano non
solo gli aspetti procedurali delle due azioni di responsabilità (quelle del codice
civile e quella amministrativa) ma che attengono soprattutto alla individuazione
dell’interesse pubblico tutelato innanzi al giudice contabile, il che
implica l’individuazione del soggetto leso e della natura del danno da risarcire.
Dalle decisioni recenti della Cassazione e della stessa Corte dei conti
sembra che si vada delineando il principio che il soggetto leso dalle attività
poste in essere dall’amministratore della società partecipata sia l’amministrazione
o l’ente pubblico che ne abbia la proprietà o il controllo e dal quale
provengono le provviste finanziarie. Il danno erariale è quello subito dall’ente
pubblico proprietario. Da ciò il richiamo nella ordinanza della Cassazione
19667 del 2003 all’articolo 1, ultimo comma della legge 20 del 1994 in
materia di danno subito dall’amministrazione o ente diverso da quello di
appartenenza (responsabilità extracontrattuale) ma ancora più l’affermazione
dell’esistenza di un rapporto di servizio tra l’ente proprietario e soggetto
esterno costituito da una relazione di tipo funzionale (39).
Tale azione può essere simile a quella proponibile da parte del socio o
del terzo che siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi
degli amministratori (art. 2395 c.c.) e nel caso di socio pubblico proprietario
della totalità o dell’80% del capitale sociale a quella dell’art. 2393 del codice
civile, con la differenza che a proporre l’azione non è l’assemblea ma il
procuratore della Corte di conti.
In altri termini, il fondamento della giurisdizione contabile di responsabilità
(che è poi sostanzialmente l’interesse tutelato) è inerente al rapporto fra
ente pubblico proprietario e amministratori delle società quale garanzia di un
controllo giurisdizionale sul buon uso delle risorse pubbliche (rapporto tra
obiettivi conseguiti e costi sostenuti) in attuazione del principio del buon andamento
e della legittimità dell’attività amministrativa sotto il profilo della efficienza
ed economicità della stessa (articolo 97 della Costituzione e articolo 1
della legge 241 del 1990) (40). Ciò, appunto, è quanto mai evidente nel caso
di partecipazione totalitaria o per quota superiore al 80% nella quale vi è una
408 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(38) Sono per l’esclusività dell’azione di responsabilità amministrativa del P.M. presso
la Corte dei conti , RISTUCCIA, op. cit., 15; Ursi, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice
contabile , in Foro amm. C.d.S., 2004, 693, il quale afferma che la modifica di giurisprudenza
a favore della giurisdizione della Corte dei conti “rende quest’ultimo il foro
esclusivo dei rapporti delle prestazioni pecuniarie, attive o passive, di valuta o di valore
della soggettività pubblica”; sul punto si veda anche Cass. S.U. n. 933/99 che ritiene pacifico
il principio dell’esclusività della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie devolute
alla sua cognizione.
(39) Cass. 3899/04, cit.
(40) Cass. S.U. 29 settembre 2003 n. 14488 in Foro it., 2004, I, 2765.
DOTTRINA 409
sostanziale coincidenza tra responsabilità verso la società la cui azione è di
competenza dell’assemblea e la responsabilità verso singolo socio (artt. 2395,
2393 del codice civile) in questo caso socio pubblico. Ciò non vuol dire che
siamo di fronte alla trasposizione delle azioni civilistiche nella azione di
responsabilità amministrativa, avendo come ben noto tali azioni caratteristiche
e principi, anche processuali, propri e diversi da quelli dell’azione di responsabilità
sociale (41), si vuole soltanto affermare che nel caso in cui il socio danneggiato
sia l’amministrazione o l’ente pubblico proprietario della quota totalitaria
o maggioritaria del capitale azionario, la relativa azione risarcitoria è di
competenza esclusiva della Corte dei conti come lo era della autorità giudiziaria
ordinaria prima del mutamento giurisprudenziale anche se alcuni criteri
generali del diritto societario quali quello della diligenza e prudente gestione o
quello della violazione di obblighi a contenuto specifico non possono dirsi
incompatibili con l’azione di responsabilità amministrativa.
Ciò perché, come si è detto, l’attività di impresa volta al conseguimento
di finalità pubbliche mediante l’utilizzazione di risorse pubbliche anche se
realizzata con organismi di struttura privatistica è stata ritenuta attività
amministrativa e rientra nella materia di contabilità pubblica la cui giurisdizione
è attribuita in via esclusiva alla Corte dei conti (art. 103, c. 2, Cost).
Se ciò è esatto, è difficile conciliare la natura extracontrattuale (danno
non all’amministrazione di appartenenza) anche se derivante dal rapporto di
servizio (rapporto funzionale tra ente e società partecipate), della responsabilità
degli amministratori degli enti pubblici economici o delle società in
mano pubblica con la natura della giurisdizione della Corte dei conti in materia
di responsabilità amministrativa che, dopo la riforma del 1994, ha carattere
obbligatorio e sanzionatorio, con ampi spazi di discrezionalità nella
determinazione del danno (c.d. potere riduttivo) a meno che non si voglia
sostenere il carattere aggiuntivo di quella alla responsabilità societaria.
Al riguardo si è osservato che il coesistere di due azioni, quella di
responsabilità amministrativa e quella di responsabilità societaria non determina
un conflitto di giurisdizione, ma solo una preclusione all’esercizio di
un’azione quando l’altra ha ottenuto il medesimo bene della vita (42). Tale
tesi non può essere accolta per la materia in esame, se non per quanto riguarda
la società a partecipazione pubblica minoritaria in cui non prevale nell’oggetto
sociale il conseguimento di un interesse pubblico, mentre deve
(41) Si ricorda che le azioni di responsabilità ex art. 2393 e 2395 c.c. hanno elementi
diversi da quella di responsabilità amministrativa dianzi alla Corte dei conti . Le prime sono
promosse dal soggetto leso sono rinunciabili e transigibili, hanno un sistema di prova più
ampio e previsto per legge, riguardano il risarcimento dell’intero danno, c’è la colpa lieve
ecc. La seconda ha natura pubblica e obbligatoria e perciò non soggetta a rinuncia o transazione,
presuppone la colpa grave, e da parte del giudice contabile è previsto il c.d. potere
riduttivo.
(42) Corte dei conti, sez. 1 appello, 3 novembre 2005, n. 356, cit.
410 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
restare fermo il principio dell’esclusività dell’azione dinanzi alla Corte dei
conti per le società totalmente e prevalentemente partecipate dall’ente pubblico
o per quelle in cui tale ente sia di controllo o di riferimento.
Peraltro, si ritiene che permanga nelle società partecipate non integralmente
dallo Stato o dall’ente pubblico, l’azione del socio di minoranza ex
articolo 2935 c.c. che si basa su presupposti diversi dall’azione di responsabilità
amministrativa quale danno personale e diretto del singolo socio derivante
da atti colposi o dolosi dell’amministratore.
Ciò può comportare un cumulo di azioni risarcitorie autonome non essendo
il socio legittimato a proporre l’azione di responsabilità amministrativa.
Pertanto, non si condivide la tesi secondo la quale il socio di minoranza
può intervenire nel giudizio promosso dal procuratore generale, stante le diverse
caratteristiche, come si è detto, delle due azioni di responsabilità (43).
Inoltre, sembra doversi ritenere che tutti gli atti che attengono alla vita
della società pubblica, quali l’approvazione del bilancio, il recesso dell’ente
pubblico nelle società miste, le modifiche statutarie, la revoca degli amministratori,
poiché incidono su diritti soggettivi derivanti dal rapporto di società,
dovrebbero rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario.
In tal senso, per quanto riguarda la revoca di un amministratore di una
società interamente pubblica che gestiva un servizio pubblico locale, le
SS.UU. della Cassazione con sentenza 15 aprile 2005, n. 7799 (44) hanno
affermato la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia che ha ad
oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti comunali di non
approvazione del bilancio e conseguente revoca degli amministratori, costituendo
gli atti impugnati espressione non di una potestà amministrativa, ma
di poteri conferiti al comune dagli artt. 2383, 2458 e 2459 del codice civile,
cosicché la posizione soggettiva degli amministratori revocati, che non svolgono
né esercitano un pubblico servizio, è configurabile in termini di diritto
soggettivo ed è, quindi, tutelabile dinanzi al giudice ordinario.
E con riguardo al potere di nomina degli amministratori previsto dall’art.
2458 c.c., la Cassazione precisa che tale potere è sostitutivo della generale
competenza dell’assemblea ordinaria e non può essere qualificato come
estrinsecazione di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di
diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione
giuridica societaria restando esclusa ogni sua valenza amministrativa.
La decisione si segnala per l’incertezza che ancora permane sulla natura
delle società a partecipazione pubblica e, soprattutto, perché sembra contraddire
agli stessi principi delineati dalla Cassazione, prima indicati, per affer-
(43) Corte dei conti, sez. I appello, 3 novembre 2005, n. 356 cit., contra VENTURINI
nella nota a tale decisione che propende per la permanenza dell’azione ex art. 2935 c.c.
(44) Cass. S.U. 15 aprile 2005 n. 7799 in Foro it., 2006, I, 2726, con ampia nota di
richiami giurisprudenziali e di dottrina e con nota critica di URSI, L’ultima frontiera della
privatizzazione: la giurisdizione del giudice ordinario in materia di revoca degli amministratori
di nomina pubblica.
DOTTRINA 411
mare la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di responsabilità
degli amministratori di società pubbliche per cattiva gestione delle
risorse pubbliche.
A meno che, per armonizzare il criterio pubblicistico del reparto di giurisdizione
sulla responsabilità degli amministratori di società pubbliche, con
il principio che la partecipazione del socio pubblico alla compagine sociale
non altera il modello civilistico delle società per azioni e del suo regime giuridico
di natura privatistica, si debbono abbandonare pretese di sistemazione
dogmatica sulla natura delle società pubbliche e sul rapporto di natura pubblicistica
tra ente proprietario del capitale sociale e società partecipata per
concludere che il principio di parità delle responsabilità degli amministratori
delle società private delineato nella riforma in materia societaria trova una
disciplina peculiare derogatoria nel regime della responsabilità degli amministratori
delle società in mano pubblica giustificato dalla necessità di una
tutela pubblicistica delle risorse pubbliche, e perciò dalla natura del danno, e
delle finalità pubbliche delle società stesse (45).
Certo è che tale disciplina derogatoria si è venuta ad affermare in un
momento in cui società a capitale pubblico e, in particolare, quelle a capitale
misto pubblico privato, essendo stato ben delineato l’ambito dell’affidamento
diretto (in house) della gestione del servizio pubblico (46), tendono ad
immettersi sul mercato e ad agire in regime di competitività con i privati, con
la probabile conseguenza che essa venga ad incidere in termini di minore
competitività che invece si vuole incentivare.
È auspicabile, che si faccia chiarezza nel prevedere se non la fine, quanto
meno l’eccezionalità della costituzione di società miste, con la previsione
di una separazione netta tra gestione pubblica del servizio e affidamento ai
privati della gestione del pubblico servizio (47).
In tal modo si avrà anche un chiaro regime di tutela delle risorse pubbliche
nei conforti degli amministratori delle società pubbliche sottoposti alla
giurisdizione della Corte dei conti e di quelli delle società private, anche a
partecipazione pubblica minoritaria affidatarie per gara del servizio, per i
quali si seguiranno le regole del codice civile.
(45) Da ultimo Cass. 1 marzo 2006, n. 4511; Corte dei conti Sez. giur. Lombardia, 22
febbraio 2006 con nota di Venturini.
(46) V. Cons. di Stato Sez. VI 3 aprile 2007, sui presupposti dell’affidamento in house
dei servizi pubblici.
(47) V. parere della sez. II del Consiglio di Stato, 18 aprile 2007, n. 456.
412 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La pregiudiziale amministrativa nella giurisprudenza:
dall’adunanza plenaria n. 4/2003
alla decisione n. 2822/2007 della quinta sezione
del Consiglio di Stato.
Il giudice amministrativo apre alla Cassazione?
di Filippo D’Angelo (*)
1. L’Adunanza Plenaria n. 4/2003.
Il problema della pregiudiziale amministrativa, cioè della necessità o
meno da parte del titolare della posizione giuridica di interesse legittimo che
si sostiene lesa, di impugnare (al fine di ottenerne l’annullamento) l’atto
amministrativo lesivo prima di poter conseguire il risarcimento del danno da
esso provocato, è oggetto di un lungo dibattito, che ha visto contrapposti gli
indirizzi della giurisprudenza amministrativa e di quella ordinaria, in particolare
dopo la sentenza n. 500/99 della Cassazione.
Come è noto, tra i principi fissati nella sentenza 500/99 dalla Suprema
Corte (1), un ruolo non certo marginale riveste quello per cui, ai fini della
promuovibilità della azione risarcitoria nei confronti della P.A. causata dalla
illegittimità dell’azione amministrativa, non è necessario il preventivo esperimento
della azione giurisdizionale amministrativa di annullamento (e quindi
la necessaria pregiudizialità del giudizio caducatorio), dovendosi al contrario
ammettere la possibilità per il g.o. di accertare l’illegittimità (non
dichiarata dal g.a.) del provvedimento amministrativo “incidenter tantum”,
e finanche di disapplicarlo, qualora ciò sia necessario ai fini dell’accertamento
della sussistenza dell’illecito della P.A. e, di seguito, per la liquidazione
del risarcimento a favore del privato leso (2).
(*)· Dottore in Giurisprudenza.
(1) Il ragionamento della Suprema Corte muoveva dalle seguenti considerazioni. La
pregiudizialità, antecedentemente alla sent. 500/99 veniva affermata perché solo in tal modo
si perveniva all’emersione del diritto soggettivo e, conseguentemente, all’accesso alla tutela
aquiliana, riservata esclusivamente ai diritti soggettivi. Avendo la sent. 500/99 svincolato
la tutela risarcitoria ex art. 2043 dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo,
secondo la Corte, non ha più senso ritenere l’annullamento dell’atto illegittimo come
presupposto del risarcimento ex art. 2043, in quanto causa di riespansione del diritto soggettivo
compresso o affievolito.
(2) Tale indirizzo si venne ben presto a contrapporre a quello del Consiglio di Stato (decisione
n. 1648/2001), con cui il massimo organo di giustizia amministrativa ammise l’impossibilità
per i privati di poter accedere a qualunque forma di tutela risarcitoria nei confronti della
P.A., senza previa azione degli ordinari mezzi di tutela che l’ordinamento offre a difesa delle
loro situazioni giuridiche soggettive. Peraltro, secondo l’impostazione del Consiglio di Stato
DOTTRINA 413
Secondo la Corte l’azione risarcitoria (da esperirsi nell’ordinario termine
prescrizionale) è sganciata da quella di annullamento, al punto tale che tra
le due azioni sia da ritenersi esistente una assoluta autonomia (in termini di
pregiudizialità dell’una verso l’altra): in altre parole, nella sentenza n.
500/99 la Cassazione approda alla tesi per cui il problema della pregiudizialità
amministrativa può considerarsi non sussistente e quindi superabile,
nella considerazione che i privati potrebbero optare sia per la sola tutela
risarcitoria, senza previa impugnazione dell’atto, ovvero avvalersi tanto del
rimedio annullatorio quanto di quello risarcitorio, senza che il mancato esperimento
dell’uno precluda irrimediabilmente l’accesso all’altro (3).
Contro l’orientamento espresso dal massimo organo di giustizia ordinaria,
si è presto posto il Consiglio di Stato, il quale con la decisione A.P. n. 4/2003,
sostanzialmente confermativa della tesi sostenuta nella precedente n.
1648/2001, ha assunto una posizione diametralmente opposta rispetto alla
Corte di Cassazione. Secondo l’impostazione del Consiglio di Stato, dal
momento che il legislatore ordinario ha concentrato avanti al g.a. (4) sia la
tutela impugnatoria che quella risarcitoria, esperibile nei confronti della P.A. in
tutti i casi di attività provvedimentale illegittima, ne consegue la ammissibilità
della tutela risarcitoria solo a condizione della previa impugnazione del
provvedimento illegittimo e della conseguente favorevole conclusione, per la
parte, del relativo giudizio di annullamento: ciò in quanto al g.a. non è concesso
conoscere, in via incidentale, della legittimità di provvedimenti amministrativi
e soprattutto perché tale giudice deve ritenersi sfornito del potere di disapplicare
gli atti amministrativi asseritamente illegittimi ma non annullati, potere
questo riservato in via esclusiva al solo g.o., dagli artt. 4 e 5 della legge abolitrice
del contenzioso amministrativo. Secondo il Consiglio di Stato, il mancato
esperimento della azione di annullamento, entro il termine decadenziale,
rende inammissibile qualunque azione risarcitoria autonoma (5); poiché essa
inoltre ha carattere di mero completamento, nel senso di essere uno strumento
ivi accolta, la stessa interpretazione dell’art. 7, Legge 205/2000 doveva far propendere verso
la tesi della sussistenza della pregiudiziale amministrativa: infatti, l’utilizzazione della dizione
“diritti patrimoniali consequenziali” lascerebbe supporre che il risarcimento del danno consegua
ad un preventivo annullamento dell’atto amministrativo lesivo.
(3) Cfr, sul punto, A. ROMANO TASSONE, Giudice amministrativo e risarcimento del
danno, in Giust. It, www.giust.it, n. 3/2001; v., anche, R. CHIEPPA, La pregiudiziale amministrativa
(in R. CHIEPPA – V. LOPILATO, Studi di diritto amministrativo), Milano, 2007 ed,
anche, dello stesso autore, È possibile optare per il solo risarcimento del danno da provvedimento
amministrativo illegittimo, senza avvalersi degli effetti conformativi del giudicato
di annullamento?, in Dir. e form., 2005, p. 376; v, anche D. DEPRETIS, Azione di annullamento
e azione risarcitoria nel processo amministrativo, in Dir. e Form., 2002.
(4) Con la legge 205/2000.
(5) Secondo il Consiglio di Stato, risulta di difficile ammissibilità una fattispecie in cui
un privato, rimasto inerte ( nel senso di non essersi azionato né in via amministrativa né in
via pretoria) avverso il provvedimento amministrativo sfavorevole, per tutta la durata del
termine decadenziale, agisca poi per chiedere il risarcimento del danno subito, nell’imminenza
della scadenza del termine prescrizionale.
414 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
di tutela ulteriore della posizione di interesse legittimo lesa, tale pertanto da
affiancarsi ai pregiudiziali rimedi a carattere demolitorio e conformativo ma
non idonea a sostituirsi ad essi, si dovrebbe comunque rispettare il termine
decadenziale per la proposizione della stessa, anche quando sia chiesta al g.o.
o allo stesso g.a. la sola tutela risarcitoria.
In altri termini, per il Consiglio di Stato, il giudizio risarcitorio può essere
instaurato anche successivamente a quello di annullamento, ma non è ipotizzabile
una azione risarcitoria autonoma, che non abbia trovato il suo antecedente
storico in una pregiudiziale azione annullatoria, esperita entro i termini
ordinari di decadenza (6) previsti dalla legge (7).
In dettaglio, specifica l’Adunanza Plenaria che il previo annullamento
del provvedimento amministrativo è necessario poiché «una volta concentrata
presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell’atto illegittimo
e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l’accertamento
incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell’atto
non impugnato nei termini decadenziali, al solo fine di un giudizio risarcitorio,
e l’azione di risarcimento danni è ammissibile solo a condizione che sia
impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato
con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo
non è dato il potere di disapplicare atti amministrativi non regolamentari
»
La regola della pregiudizialità opera, secondo la Adunanza Plenaria,
ancorché nella specifica materia vi sia la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, poiché la sussistenza della giurisdizione esclusiva non fa
certo venire meno la necessità di seguire tutte le regole processuali previste
a tutela degli interessi legittimi, compresa quella dell’annullamento dell’atto
amministrativo illegittimo (8).
Accanto al giudice amministrativo di merito, che ha seguito la linea evidenziata
dal Consiglio di Stato, con ulteriori argomenti a sostegno della pre-
(6) Stabiliti dalla legge in 60 giorni.
(7) Tale indirizzo sembrava essere stato avallato anche dalla Corte di Cassazione che, con
la sentenza n 1207/2006 (precedente le tre ordinanze 13659, 133660 del 2006 e 13911 del
2007), aveva stabilito che le controversie relative ai danni da provvedimento amministrativo
illegittimo appartengono al g.a., solo in caso di domanda risarcitoria proposta contestualmente
all’azione di annullamento; l’eventuale azione risarcitoria autonoma poteva proporsi avanti al
g.o., solamente dopo l’annullamento del provvedimento amministrativo stesso.
(8) In tal senso anche Adunanza Plenaria, 29 gennaio 2003, n. 1, in Urb. e app., 2003, 547.
(9) Consiglio di Stato, Sez. V, 25 luglio 2006, n. 4645; Consiglio di Stato, Sez. IV, 24 maggio
1995, n. 2631, in Foro amm., II, 546; Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 settembre 2004, n.
6245, in Giur it., 2002, 2405; Consiglio di Stato, Sez. V, 8 marzo 2006, n. 1229, in Giur. amm.,
2006, I, 387; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 13 marzo 2006, n. 1183, ivi, 2006, II, 295. Secondo la
prevalente giurisprudenza amministrativa, quindi, l’azione di risarcimento del danno derivante
da provvedimento illegittimo può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento sia
in via autonoma, ma solo a condizione che sia stato tempestivamente impugnato il provvedimento
illegittimo e che sia stato coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento.
DOTTRINA 415
giudizialità (9), osservando come il nostro legislatore, per evidenti ragioni di
certezza del diritto, abbia previsto diverse azioni impugnatorie pregiudiziali
al risarcimento (10), non può tacersi come anche parte della giurisprudenza
ordinaria (11), sia di merito che di legittimità, antecedentemente alle pronunce
della Cassazione del 2006, si sia allineata alla posizione del giudice
amministrativo, riconoscendo la necessità del previo annullamento dell’atto
amministrativo, al fine del risarcimento dei danni.
La stessa Suprema Corte (12), in particolare, ha, sia pure in un isolato
arresto, rilevato come la non conformità di una situazione giuridica al diritto
soggettivo (13), quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’articolo
2043 c.c. , non può essere accertata in via incidentale e senza efficacia
di giudicato. Conseguentemente, se l’accertamento principale è precluso
– ad esempio per decorrenza dei termini – la domanda risarcitoria deve
essere rigettata, in quanto il fatto produttivo del danno non è qualificabile
come illecito.
D’altra parte, sebbene l’inoppugnabilità dell’atto sia nozione meramente
processuale, occorre considerare che, in assenza dell’annullamento e della
rimozione dell’atto illegittimo, il permanere degli effetti è conforme alla
volontà della legge e, pertanto, detti effetti non possono essere valutati alla
stregua di un danno ingiusto.
(10) In particolare si è affermato (Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3717,
in Giur. amm., 2006, 947) che «nei rapporti paritetici, fuori cioè dell’ambito dell’esercizio
del potere pubblico, tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione sia in quelli interprivati,
molteplici sono le ipotesi in cui è accordato preminente rilievo alle esigenze di certezze, sicché
l’interessato ha l’onere di contestare la conformità al diritto di determinate situazioni
mediante l’impugnazione di atti o comunque reagendo entro termini di decadenza. Ove non
adempia a tale onere, non gli è consentito ottenere con l’azione risarcitoria l’accertamento
della non conformità a legge della situazione, atteso che l’accertamento deve farsi necessariamente
in via principale e con efficacia di giudicato, vertendo su uno degli elementi essenziali
della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. […] Così ad esempio come non sarebbe consentito
al privato domandare il risarcimento del danno, per essere stato assoggettato illegittimamente
a sanzione amministrativa mediante ordinanza-ingiunzione non impugnata ai
sensi della Legge 689/1981, o comunque indipendentemente dalla impugnazione, o analogamente
il lavoratore licenziato non può scegliere di optare per il risarcimento del danno
senza impugnare il recesso secondo le prescrizioni della legge 604/1996, lo stesso deve dirsi
per il caso di mancata impugnativa di delibere condominiali ».
Ulteriore argomento a sostegno della tesi della pregiudizialità è stato individuato dalla
sentenza citata nel carattere logico e non tecnico della pregiudiziale dell’annullamento dell’atto.
In proposito si veda R. DE NICTOLIS, Il risarcimento dei danni causati dalla Pubblica
Amministrazione, Roma, 2006, 50 e ss.
(11) Cassazione, 27 marzo 2003, n. 4538, in Foro it., 2003, I, 2073, con nota di P.
GALLO, Pregiudiziale e disapplicazione al vaglio della Plenaria e Cassazione; Cassazione,
10 gennaio 2003, n. 157.
(12) Cassazione, 27 marzo 2003, n. 4538, cit.
(13) Cd. antigiuridicità in senso oggettivo.
416 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In questa situazione di potenziale conflittualità tra giudice amministrativo
e ordinario un ruolo non certo secondario ha svolto anche la Corte
Costituzionale con la sentenza n. 204/2004 (14). Secondo parte della dottrina
tale pronuncia sembra decisamente orientata in senso favorevole alla tesi
della pregiudizialità, laddove afferma che il risarcimento del danno costituisce
soltanto “uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico
demolitorio e/o conformativo, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino
nei confronti della Pubblica Amministrazione”.
In questa prospettiva l’azione risarcitoria sembra costruirsi quale potere
che si affianca a quello dell’annullamento, con la implicazione che la giurisdizione
è comunque fondata sul presupposto che la posizione soggettiva
azionata sia, pur sempre, di interesse legittimo. Corollario necessario è che
la giurisdizione del giudice amministrativo che deve essere azionata in via
preventiva è quella generale di legittimità, sulla quale si radica anche l’eventuale
risarcimento del danno che ne consegue.
Il ragionamento seguito dalla Consulta è tale per cui il risarcimento del
danno è qualificato come strumento di completamento della tutela che è consentito
al giudice di concedere, in via principale, mediante l’annullamento,
nella considerazione che appare impossibile pervenire ad una valutazione di
ingiustizia del danno fintanto che non venga eliminato il provvedimento
amministrativo da cui il danno stesso è derivato.
Trattasi all’evidenza delle stesse argomentazioni sostenute dalla giurisprudenza
amministrativa a giustificazione del necessario, previo annullamento
dell’atto amministrativo (15). Da ciò discendono evidenti conseguenze:
che il giudizio risarcitorio non è ammissibile laddove non sia previamente
o contestualmente intrapreso il giudizio impugnatorio; che in caso di
rinuncia al giudizio impugnatorio, non si può mantenere in piedi quello risarcitorio;
che il giudizio impugnatorio avverso l’atto amministrativo illegittimo
non può essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse,
perché permane pur sempre l’interesse all’annullamento al fine del
giudizio risarcitorio.
2. Le tre ordinanze della Cassazione del luglio 2006.
a) Il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e ordinario.
In questa situazione di dichiarata conflittualità tra giudice ordinario e
giudice amministrativo, ove tra l’altro si è inserita la sentenza n. 191/2006
(14) Ciò in quanto l’esclusione dell’annullamento giurisdizionale, non incide sulla condizione
giuridica. In dottrina, sostiene che la sentenza della Consulta n. 204/2004 confermerebbe
la tesi della pregiudizialità P. CARPENTIERI, La sentenza della Consulta 204/2004, e la
pregiudiziale amministrativa, in Urb. e app., 2004, 1121.
(15) La ricostruzione è di R. DE NICTOLIS, Il risarcimento dei danni causati dalla
Pubblica Amministrazione, Roma, 2006, 53.
DOTTRINA 417
della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ha pronunciato nel luglio
2006 tre ordinanze con le quali ha precisato ulteriormente la propria posizione
sui due temi più cruciali dei rapporti tra tutela ordinaria e amministrativa:
il riparto di giurisdizione tra g.a. e g.o. , in ordine alle controversie concernenti
la responsabilità civile della P.A. conseguenti ad attività provvedimentale
illegittima, e, di nuovo, la “ pregiudizialità amministrativa”, precisando
la propria tesi, ancora opposta a quella del Consiglio di Stato (16).
In punto di riparto di giurisdizione tra g.a. e g.o,. per le azioni di responsabilità
civile contro la P.A., le tre ordinanze non sembrano discostarsi troppo
dai principi comunque consolidatisi in materia. Così la Cassazione ribadisce
che la giurisdizione del g.a. resta in ogni caso delimitata dal collegamento con
l’esercizio concreto ed effettivo del potere amministrativo espresso secondo le
forme tipiche previste dalla legge, ed afferma essere tale principio valido sia
nel caso della giurisdizione generale di legittimità che in quella esclusiva.
In dettaglio,secondo la Corte tale collegamento non si rileverebbe in
alcuni casi specifici: così quando la P.A. agisce in posizione di parità con i
soggetti privati, e quindi avvalendosi di strumenti “iure privatorum”, che
pertanto fuoriescono dall’ambito della attività di diritto pubblico; ovvero
attraverso attività meramente materiali; ancora, in caso di lesione di diritti
incomprimibili, quali il diritto alla salute o all’integrità fisica; ovvero nel
caso di attività amministrativa posta in essere in carenza di potere (17), di cui
alle ipotesi classiche della occupazione “usurpativa”, tale perchè attuata in
mancanza di dichiarazione di pubblica utilità, o del decreto di espropriazione
adottato a termini scaduti (18).
In tutti questi casi , secondo la Corte , la giurisdizione risarcitoria spetta
al g.o.: anzi, più in generale, la tutela giurisdizionale contro l’agire illegitti-
(16) Come detto, il Consiglio di Stato ritiene che condizione necessaria per l’accesso
alla tutela risarcitoria nei confronti della P.A., per illegittimo esercizio della attività provvedimentale,
sia il contemporaneo esercizio della azione risarcitoria a quella di annullamento,
entro il termine di decadenza previsto per quest’ultima, ovvero il previo annullamento
in sede giurisdizionale dell’atto amministrativo. Tra i primi commenti alle ordinanze
si veda, V. CERULLI IRELLI, Prime osservazioni sul riparto di giurisdizione dopo la pronuncia
delle Sezioni Unite, www.giustamm.it, 2006; M. A. SANDULLI, Finalmente “ definitiva”
certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “ comportamenti” e sulla cosiddetta
“pregiudiziale” amministrativa. Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela”, in
www.giustamm.it, 2006.
(17) Ci si riferisce alle controversie meramente risarcitorie già previste dall’art. 33, co.
2, D.Lgs. n. 80/1998, nel testo anteriore alla riformulazione conseguente a Corte
Costituzionale n. 204/2004.
(18) Tale ultima ipotesi è stata oggetto di una recentissima decisione della Adunanza
Plenaria (v. C.d.S., A.P., n. 9/2007), in cui i giudici di Palazzo Spada, muovendo dalla considerazione
che la scadenza dei termini legali per l’emissione del decreto di espropriazione non
fa comunque venir meno lo scopo di pubblica utilità (presupposto che legittima la P.A. a procedere
alla espropriazione di un bene privato e quindi ad esercitare in concreto il suo potere
discrezionale), hanno ricondotto tale fattispecie nell’ambito della giurisdizione del g.a.
418 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mo della P.A. appartiene al g.o. ogniqualvolta il diritto del privato si atteggi
in modo tale da non sopportare “compressione per effetto di un potere esercitato
(dalla P.A.) in modo illegittimo, ovvero in tutti i casi in cui l’azione
della P.A. non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, deliberato
secondo i requisiti e le modalità previste dalla legge”, e quindi in via
di mero fatto (19).
In realtà sulla giurisdizione sembra che le ordinanze della Cassazione tendano
più ad una funzione esplicativa di principi comunque già accolti, ed in
parte anche consolidati, che non a fissare criteri innovativi rispetto al passato.
D’altra parte già Nigro non dubitava che la disciplina processuale delle situazioni
descritte dalla Suprema Corte fosse esattamente quella dalla stessa accolta.
Così quando la Corte afferma che laddove la situazione lesa si atteggi ad
interesse legittimo la giurisdizione deve spettare al g.a. (al quale deve essere
anche chiesta la tutela risarcitoria) quale giudice ordinariamente competente a
conoscere della lesione di tali situazioni giuridiche in tutte le controversie “di
diritto pubblico”, e, nella opposta prospettiva, che laddove la situazione giuridica,
di cui si chiede tutela, integri un diritto soggettivo, la giurisdizione appartiene
al g.o., dovendosi riconoscere la giurisdizione del g.a. solamente nei casi
“particolari”, previsti dall’art. 103 Cost. di “giurisdizione esclusiva” (sulla
quale è recentemente tornata la Corte Costituzionale con la sentenza n.
120/2007), nei quali il giudice amministrativo conosce anche di situazioni giuridiche
di diritto soggettivo, coinvolte dall’azione del potere amministrativo.
Precisa la Corte che tali “particolari” materie devono essere individuate
alla stregua dei parametri offerti dalla sentenza della Corte Costituzionale n.
204/2004, e più in particolare alla luce del principio guida costituito dalla presenza,
nel rapporto, della “Amministrazione-Autorità” (20), che agisca con
uso di potere autoritativo avverso il quale è accordata, ai privati, tutela in sede
amministrativa (21), non essendo peraltro sufficiente per radicare la giurisdizione
del g.a. (22), la mera partecipazione al giudizio della P.A. né tanto meno
il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia.
Si è già rilevato come i principi accolti in punto di giurisdizione sembrino
porsi comunque nel solco di precedenti indicazioni pervenute dalla dottrina
e ancora più della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 191/06), che
ha avuto modo più volte di indicare il medesimo criterio guida per l’individuazione
del giudice dotato di giurisdizione in materia risarcitoria ammini-
(19) Così testualmente Cass. ord n. 13659/06.
(20) E dunque, sostanzialmente, quando la materia “sarebbe comunque soggetta alla
giurisdizione generale di legittimità”; cfr., A. M. SANDULLI, Finalmente definitiva certezza
sul riparto di giurisdizione in tema di comportamenti e sulla cd. pregiudiziale amministrativa?,
op. loc. cit.
(21) Cfr. Corte Cost., n. 204/2004.
(22) Il quale, in tal modo, assumerebbe veramente la funzione di giudice “della pubblica
amministrazione”, in aperta violazione degli artt. 25 e 102, Cost.
DOTTRINA 419
strativa. È sempre la natura autoritativa del comportamento della P.A. il dato
idoneo a spostare la giurisdizione in favore del g.a., considerato anche che la
giurisprudenza costituzionale esclude che la giurisdizione possa assegnarsi
al giudice ordinario per il solo fatto che la domanda abbia ad oggetto esclusivo
il risarcimento del danno (Corte Cost. n. 191/2006).
Anche da ultimo (23), la Consulta ha ricordato come non abbia ragione
di sussistere il pregiudizio che vuole il giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva estesa alle azioni risarcitorie, meno “affidabile” del
giudice ordinario, (v. Corte Cost., sent. 140/2007).
In realtà, come emerge anche dalla sentenza n. 204 del 2004, la Corte costituzionale
tende a sottolineare la chiara opzione del Costituente in favore del
riconoscimento al giudice amministrativo della piena dignità di giudice, il quale
assicura le medesime garanzie, quanto alla effettività delle tutele, del giudice
ordinario. Seguendo l’orientamento già espresso nelle pronunce n. 204 del 2004
e, soprattutto, n. 191 del 2006, scrive la Corte che “l’art. 103 Cost., pur non
avendo conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità
nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, gli ha riconosciuto il potere di indicare «particolari
materie» nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione
investe «anche» diritti soggettivi. Deve trattarsi tuttavia, di materie determinate
nelle quali la pubblica amministrazione agisce nell’esercizio del suo potere.
Il giudizio amministrativo, infatti, in questi casi assicura la tutela di ogni diritto:
e ciò non soltanto per effetto dell’esigenza, coerente con i principi costituzionali
di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice
l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione
pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela
ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio
della funzione amministrativa” (Corte Cost. n. 140/2007, cit. pag. 7).
b) La pregiudiziale amministrativa.
Se, come rilevato, in punto di riparto di giurisdizione, le ordinanze del
luglio 2006 non sembrano avere evidenziato profili di peculiare novità,
diversamente la Suprema Corte chiarisce che la giurisdizione del g.a. sull’interesse
legittimo è sì piena, nel senso che è realizzabile tanto nella forma
della azione di annullamento che in quella risarcitoria, tutela, quest’ultima,
accordabile sia in forma specifica che per equivalente (24), ma che tuttavia
la tutela risarcitoria è svincolata da quella di previo annullamento.
(23) Corte Costituzionale n. 140 del 27 aprile 2007.
(24) Secondo la Corte, quindi, la tutela giurisdizionale compete al g.a. in ordine a tutte le
controversie che vertono sulla legittimità dell’esercizio del potere amministrativo. L’interesse
legittimo è, oramai, divenuto una situazione giuridica sostanziale che deve ricevere una tutela
non solo esclusiva, ma anche piena, al pari del diritto soggettivo. Sul punto v. E. PICOZZA,
Potere amministrativo e responsabilità civile, in Corriere giuridico n. 1/2007, p. 10 ss.
420 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In definitiva dalla esegesi delle tre ordinanze emerge il dato per cui, in
punto di riparto di giurisdizione, la Cassazione sembra avere ormai tendenzialmente
accolto il principio per cui è attribuita al solo g.a. la giurisdizione
a conoscere di tutte le controversie concernenti l’esercizio del potere amministrativo,
a fronte del quale, è bene ricordare, sussistono solo situazioni giuridiche
soggettive di interesse legittimo (salve le ipotesi di giurisdizione
esclusiva) in accordo alla tesi della prevalenza del potere amministrativo
pubblico rispetto alle situazioni giuridiche soggettive private. In questa prospettiva
la logica conseguenza è che, in virtù del principio della concentrazione
della tutela, il g.a. conosce e decide anche di tutte le questioni relative
all’eventuale risarcimento del danno conseguente alla lesione di interessi
legittimi (25), tanto che sembra venire a perdere la originaria natura di giudice
naturale del mero controllo della legittimità dell’esercizio del potere
amministrativo, per assumere le connotazioni tipiche di giudice di piena giurisdizione
, tra i cui poteri rientra de iure quello di decidere sulle domande
risarcitorie proposte dai privati, in ordine ai danni subiti per l’illegittimo
esercizio della funzione amministrativa (26).
È quindi proprio sul tema della “pregiudizialità amministrativa” che le
tre ordinanze in esame hanno costituito un arresto di non poco momento,
nella considerazione che la Cassazione è approdata a soluzioni sicuramente
innovative rispetto a quelle tendenzialmente diffuse nella giurisprudenza
amministrativa, soprattutto a seguito della Adunanza Plenaria n. 4/2003. Né
va dimenticato che alla tesi prescelta la Corte è pervenuta attraverso un percorso
meditato, reso palese dal fatto che il problema della pregiudizialità
amministrativa è affrontato preliminarmente in chiave storica, mediante l’analisi
del quadro generale delle correnti di pensiero rinvenibili nella dottrina
italiana, e delle due principali teorie enucleate dalla dottrina e dalla giurisprudenza
sul punto: quella, testualmente definita “tutta amministrativa”, per
la quale il privato, leso in una sua posizione giuridica (27) soggettiva da un
provvedimento della P.A., può adire il g.a. (secondo il disposto dell’art. 7
Legge. n. 205/2000), al fine di ottenere il risarcimento del danno ingiusto,
solamente dopo il previo esperimento della azione di annullamento entro il
(25) Così, infatti, dispone l’art. 7 della Legge n. 205 /2000, il quale stabilisce che, nell’ambito
della sua giurisdizione (sia generale di legittimità che esclusiva), il g.a. dispone il
risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Come
parte della dottrina ha evidenziato, ci si avvia verso la cd. “civilizzazione” del processo
amministrativo, sia nel senso che il g.a. sarà chiamato ad apprendere specifiche tecniche di
indagine in ordine all’accertamento della responsabilità della P.A, sia che in tale processo si
verificherà una inserzione più penetrante delle regole del processo civile. Sul punto v., B.
MATTARELLA, Il provvedimento amministrativo, in Giorn. Dir. amm., 2005, p. 469 ss. .
(26) Ciò, anche, perché nel valutare la responsabilità extracontrattuale il g.a non fa riferimento
alla mera illegittimità del provvedimento, ma compie una più complessa valutazione
che investe la funzione amministrativa in sé considerata (F. Benvenuti) .
(27) Che può indifferentemente avere natura di diritto soggettivo od interesse legittimo.
DOTTRINA 421
termine decadenziale previsto dalla legge, con la conseguenza che il mancato
esercizio della azione demolitoria o conformativa preclude l’accesso alla
tutela risarcitoria, divenendo il provvedimento amministrativo inoppugnabile.
La seconda, che la Corte definisce invece “tutta civilistica”, secondo la
quale il soggetto, leso in una sua posizione giuridicamente rilevante, può
adire il g.o. (28) per l’azione risarcitoria, senza necessità della previa impugnazione
dell’atto amministrativo lesivo avanti al g.a. : in tal caso il giudice
ordinario può sindacare la legittimità dell’atto, disapplicarlo relativamente al
caso da decidere e condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni.
L’analisi effettuata dalla Corte è ovviamente in chiave critica, tanto che
essa perviene alla conclusione che nessuna delle tesi esaminate è condivisibile:
quella “civilistica” perché disattende il principio costituzionale, sancito
dall’art. 24 Cost., che esige che alle posizioni di interesse legittimo sia data
piena ed effettiva tutela (concentrata avanti ad un unico giudice) in tempi
ragionevoli, e che la giurisdizione sull’interesse legittimo deve spettare al
giudice amministrativo sia nella forma della tutela di annullamento sia in
quella della tutela risarcitoria, azioni entrambe che non possono essere
oggetto di distinta cognizione da parte di due diversi giudici.
La Corte coglie appieno il limite della teoria civilistica: il frammentare
e moltiplicare le sedi dove cercare la tutela giurisdizionale di tutte le sfaccettature
in cui si manifesta la lesione dell’interesse legittimo, non può che essere
il sintomo di una diminuita effettiva tutela, in danno del privato leso. Ma
neanche l’impostazione “tutta amministrativistica” è accolta, poiché anche
essa conduce alla conseguenza di comprimere la portata e la effettività della
tutela risarcitoria degli interessi legittimi, condizionando la relativa azione
all’esercizio fruttuoso (29) della azione di annullamento.
Così tracciata la strada, si comprende come la soluzione possibile sia per
la Corte solo una: e cioè quella per cui non deve ritenersi l’azione di risarcimento
del danno per lesione di interessi legittimi un mero completamento
della azione svolta in sede di legittimità, dovendosi piuttosto riconoscerle i
caratteri di vera e propria giurisdizione, affidata al g.a. e volta ad agevolare
la tutela dei privati. Questo è il motivo per cui, quando ricorre un atto amministrativo
espressione dell’esercizio di un pubblico potere, la tutela giurisdizionale
spetta al g.a., al quale potrà essere chiesta “la tutela demolitoria e,
insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva”. Ma la vera
novità è la affermazione per cui nulla osta che al g.a. sia richiesta anche la
sola tutela risarcitoria, ed in tal caso, ma trattasi di assunto non pienamente
(28) Sui principi stabiliti dalla sentenza della Cassazione n. 500 del 1999, cfr. V.
CERULLI IRELLI Prime osservazioni sul riparto di giurisdizione dopo la pronuncia delle
Sezioni Unite 500/99, op. loc. cit.; v. anche F. BILE, La responsabilità per lesione di interessi
legittimi, in Foro amm., 1982, p. 1671 ss.
(29) Nel senso che i privati avrebbero dovuto ottenere dal g.a. una pronuncia costitutiva
di annullamento nel merito.
422 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
condivisibile, “senza, allora, dover osservare il termine di decadenza pertinente
alla azione di annullamento”(30). La Corte configura, dunque, la tutela
risarcitoria dell’interesse legittimo come autonoma rispetto alla tutela
annullatoria e spettante ai privati per il solo fatto che una loro situazione giuridica
soggettiva è stata “sacrificata da un potere pubblico esercitato in
modo illegittimo”. Non solo: la domanda risarcitoria deve essere obbligatoriamente
rivolta al g.a. (31), individuato come il “giudice ordinario” degli
interessi legittimi, indipendentemente dalla previa instaurazione di un giudizio
sulla legittimità dell’atto, non potendosi ammettere alcun tipo di giurisdizione
del g.o. Peraltro , avverte la Corte , qualora il g.a. rifiuti di esercitare
la propria giurisdizione a conoscere della domanda risarcitoria promossa in
via principale dai privati, tale rifiuto di tutela deve essere considerato come
una ingiusta declinatoria di giurisdizione, come tale ricorribile per
Cassazione (32) per motivi attinenti alla giurisdizione ex artt. 111 Cost. e 362
co. 1, c.p.c. : in tal caso infatti “il g.a. avrà rifiutato di esercitare una giurisdizione
che gli appartiene”.
Certo è che, a sostegno di tale impostazione, ormai nettamente distante
da quella del Consiglio di Stato, sembra deporre anche il dato normativo di
cui all’art. 7 della legge 205/2000. Ciò è evidenziato (33) da quegli autori per
i quali l’art. 7 ha conferito al g.a. la giurisdizione sulle domande di risarcimento
in tutti i casi di illegittimo esercizio di un pubblico potere, sia che la
relativa domanda sia stata introdotta contestualmente con quella di annullamento,
sia che sia stata promossa successivamente alla definizione del giudizio
caducatorio.
In definitiva la Corte pone con le tre ordinanze in disamina tre principi
fondamentali: la giurisdizione del g.a. sussiste in tutti i casi in cui si sia in
presenza di un concreto esercizio di un pubblico potere, adottato secondo le
modalità formali e procedimentali previste dalla legge; spetta al g.a. dispor-
(30) Gli effetti conseguenti alle ordinanze sono molteplici. La Corte elimina, per un
verso, il principio della degradazione del diritto soggettivo ad opera dei pubblici poteri; per
un altro verso il problema della pregiudiziale amministrativa; per un altro ancora, il principio
del divieto di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del g.a., il quale, ai fini
risarcitori, non dovrà conoscere incidentalmente degli effetti dell’atto amministrativo ma, al
contrario, dovrà conoscere dell’atto stesso in via principale, quale componente del fatto illecito
della P.A. Sul punto v. R. CHIEPPA, Il giudizio di risarcimento, in Codice della giustizia
amministrativa, Milano, 2005, p. 278 ss.
(31) Anche se il provvedimento amministrativo sia stato annullato dallo stesso giudice,
a seguito di ricorso giurisdizionale ovvero dal Presidente della Repubblica, a seguito di
ricorso straordinario.
(32) La quale, in tal sede, svolgerà il suo ruolo costituzionale di giudice del riparto di
giurisdizione
(33) Cfr. B. CAPPONI, La giurisdizione sul risarcimento del danno da attività provvedimentale
della P.A., op. loc. cit., ed anche, F.P. LUISO, Pretese risarcitorie verso la Pubblica
Amministrazione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Riv. Dir. Proc., 2002, 43.
DOTTRINA 423
re le diverse forme di tutela che l’ordinamento prevede a favore delle situazioni
giuridiche lese dall’illegittimo esercizio del potere amministrativo (e
tra queste forme, a ragione, rientra il risarcimento del danno); se il g.a. rifiuta
di esercitare la sua giurisdizione in ordine alle domande risarcitorie promosse
in via autonoma dai privati, cioè senza la previa azione di annullamento,
tale diniego è sindacabile avanti alle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione ex art. 111 Cost., qualora risulti che il rifiuto del g.a. di giudicare
nel merito la domanda risarcitoria autonoma derivi dal solo fatto che la
parte non ha, nel termine decadenziale, richiesto in sede di legittimità l’annullamento
del provvedimento e la rimozione dei suoi effetti. Non è dubbio
che il dato finale desumibile da tale quadro non sia altro che la abolizione,
nella prospettazione della Corte, della pregiudiziale amministrativa.
Ciò non significa, d’altra parte, che alla implicita eliminazione della pregiudiziale
amministrativa corrisponda un indebolimento del giudice amministrativo.
È palese infatti come la Corte, ben consapevole dei probabili effetti
critici che le pronunce avrebbero prodotto, ha inteso contemperare le opposte
esigenze: e dunque via libera all’azione di risarcimento del danno, con o
senza azione di annullamento, ma nel rispetto delle competenze del giudice
amministrativo, la cui funzione, in ultima analisi, esce sicuramente rafforzata.
Ciò in coerenza d’altra parte con quanto osservato, anche di recente, dalla
Corte Costituzionale (34), per cui il giudice amministrativo è il giudice unico
per la tutela dei cittadini a fronte della attività provvedimentale (ancorché
illegittima) della P.A., in ossequio ai principi della concentrazione della tutela,
della ragionevole durata e della economia del processo, come tale dotato
di strumenti cognitivi ed istruttori non dissimili da quelli del g.o., tanto nella
sua giurisdizione generale di legittimità che in quella esclusiva: la esigenza
della effettività di tali principi postula quindi che le domande riparatorie,
conseguenti ad illegittimo esercizio della funzione pubblica, potranno essere
proposte simultaneamente alla domanda di annullamento dell’atto, o successivamente
alla caducazione dello stesso, o infine anche senza previo
annullamento.
3. La pregiudizialità amministrativa nell’area comunitaria.
Come osservato dalla Cassazione il problema della pregiudizialità amministrativa
sembra essere una questione “tutta italiana” (35).
Con ciò non si vuole affermare che gli ordinamenti giuridici degli altri
paesi europei dell’area comunitaria non conoscano tale problematica, ma si
vuole semplicemente osservare come tale questione non rivesta, nei suddetti
paesi, posizioni così controverse e conflittuali come quelle che si registra-
(34) Corte Cost., n. 120/2007.
(35) È da ricordare che la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi è sconosciuta
negli altri paesi dell’Unione europea e, come tale, tende appunto a configurarsi
come un problema “tutto italiano”.
424 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
no in Italia (36). In Francia si riscontra la posizione più netta a favore della
autonomia fra azione risarcitoria ed azione annullatoria: i motivi di tale tendenza
sono da rintracciarsi nel fatto che l’ordinamento francese offre minori
strumenti di tutela, per il cittadino, nella fase di formazione dei provvedimenti
amministrativi ed anche in sede giurisdizionale si preferisce il rimedio
risarcitorio a quello annullatorio, ritenuto poco incisivo sul potere amministrativo,
di cui invece si tendono a mantenere intatti gli effetti consolidati.
Diversamente, in Gran Bretagna, le cd. azioni “in tort”, nei confronti dei
“public powers”, vengono respinte qualora non siano stati previamente esperiti
i rimedi amministrativi previsti: l’ordinamento anglosassone prevede,
quindi, seppure in termini molto diversi rispetto all’ordinamento italiano, la
pregiudizialità della azione annullatoria rispetto a quella risarcitoria.
In Germania, pur non esistendo una pregiudiziale di annullamento di
tipo processuale come quella italiana, è previsto che qualsiasi pretesa risarcitoria
nei confronti della P.A., in tutti i casi di illegittimo esercizio della funzione
pubblica, debba essere respinta qualora il danneggiato, intenzionalmente
o colposamente, abbia omesso di esperire, in via preventiva, gli altri
rimedi giuridici offerti dall’ordinamento; infine è da ricordare come, anche
in ambito comunitario (dove è sconosciuto il problema della pregiudizialità
amministrativa), la Corte di Giustizia generalmente affermi il principio per
cui è necessario il tempestivo esercizio dell’azione di annullamento prima di
poter pervenire a qualsiasi forma di risarcimento del danno da provvedimento
amministrativo illegittimo (37) .
4. La posizione della giurisprudenza amministrativa a seguito delle
ordinanze della Corte di Cassazione. La sentenza TAR Lecce n. 3710/2006.
Come è naturale i principi fissati dalla Cassazione non potevano non
avere conseguenze sul giudice amministrativo, stretto da un lato dall’attaccamento
alle proprie posizioni, ma pressato, su altro fronte, alla apertura sollecitata
dal giudice ordinario.
Dall’esegesi delle decisioni dei T.A.R., successive al luglio 2006, emerge
che i giudici amministrativi di I grado accolgono – nella maggioranza dei
casi (38) – una posizione fortemente critica nei confronti della Corte o quan-
(36) Ad esempio, anche in Germania è previsto un termine di decadenza di un mese
(decorrente dalla decisione dell’atto amministrativo) per impugnare giudizialmente i provvedimenti
della P.A.; in Francia ed in Spagna e nell’ordinamento comunitario, tale termine
è elevato a due mesi; infine, in Gran Bretagna, il termine suddetto è di tre mesi.
(37) Cfr., Corte di giustizia, 15 luglio 1963, in causa C-25/62, Plaumann; ma anche,
Tribunale di prima istanza, 8 maggio 2001, in causa T-182/99, Caravelis.
(38) Con l’unica eccezione del T.A.R. Palermo, sentenza n. 1590/2006, in parte del
T.A.R. Roma, sentenza n. 14604, e del T.A.R. Bari, sentenza n. 3786/2006. In questi ultimi
due casi, i Giudici hanno però accertato l’irrilevanza, per i casi sottoposti alla loro attenzione,
del principio contenuto nelle ordinanze della Corte di Cassazione. Peraltro il T.A.R.
Palermo si limita a non mettere in discussione la posizione della Cassazione.
DOTTRINA 425
tomeno dubitativa, pervenendo in diverse circostanze a disattendere consapevolmente
la posizione della Cassazione. In questo senso emblematica è la
sentenza del T.A.R. Lecce n. 3710/2006 (39), che, nel richiamare i principi
della Adunanza Plenaria n. 4/2003, contesta l’orientamento della Corte sulla
scorta di 3 ordini di motivi: in via preliminare, che l’abbandono del principio
di pregiudizialità appare incompatibile con la stessa natura e nozione di
interesse legittimo, testualmente definito come espressione precipua di un
sistema “che tutela l’interesse pubblico attraverso la soddisfazione di quello
privato. Commettendo all’individuo l’iniziativa volta a provocare l’intervento
del giudice amministrativo, non è possibile permettersi di rinunciare
alla subordinazione in parola a pena di incrinare il sistema di tutela dell’interesse
pubblico”. Il T.A.R., anche mediante l’analisi del parallelo rapporto
tra azione impugnatoria e azione risarcitoria disegnato dal diritto societario,
sottolinea che la eliminazione del meccanismo dell’affidamento della tutela
dell’interesse pubblico al privato è idoneo ad arrecare, in tesi, un grave pregiudizio
per l’interesse pubblico stesso. Consentire infatti al privato la scelta
di adire direttamente il Giudice Amministrativo per la sola tutela risarcitoria,
comporta la omessa impugnazione dell’atto assunto come illegittimo,
il quale, pertanto, continuerebbe a manifestare i propri effetti in virtù del
mancato intervento demolitorio del giudice.
Secondo il giudice pugliese l’abbandono del principio di pregiudizialità
determinerebbe una grave asimmetria tra le due vie di reintegrazione dell’interesse
legittimo leso: la reintegrazione dell’interesse legittimo in forma specifica
e il risarcimento del danno, nella considerazione che “la prima sarebbe
inscindibilmente connessa all’utile esperimento dell’azione impugnatoria,
l’altra sarebbe esperibile autonomamente e troverebbe accoglimento a
seguito di un giudizio che riguarderebbe la fonte del danno non come atto
ma come fatto. A prescindere dalla evidente ricomprensione in un unico istituto
delle due forme di tutela reintegratoria (quella in forma specifica e
quella risarcitoria) ad opera dell’art. 35, primo e quarto comma del D.Lgs.
n 80 del 1998 (così come riscritto dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000),
nel sistema delineato dal citato art. 7 della legge n. 205 del 2000 non vi è
spazio per questa soluzione che collide col sistema e diventa una ingiustificata
forma di trasformismo”.
Senza tacere che la perdurante efficacia del provvedimento illegittimo
dovrebbe in sostanza leggersi quale chiaro sintomo di assenza di ingiustizia
di quest’ultimo, con conseguente impossibilità di ritenere integrati i requisiti
del diritto al risarcimento. A sostegno della propria tesi, il TAR richiama
(39)Rinviano direttamente a tale precedente richiamandone le motivazioni, T.A.R.
Torino n. 4130/2006, T.A.R. Reggio Calabria n. 1771/2006, T.A.R. Salerno n. 1754/2006,
T.A.R. Salerno n. 1953/2006, T.A.R. Salerno n. 2176/2006, T.A.R. Napoli n. 7797/2006.
Contiene la medesima motivazione, T.A.R. Lecce n. 4013/2006, T.A.R. Sicilia – Catania,
Sez. I, 16 aprile 2007.
426 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
una pronuncia della stessa Corte di Cassazione (40), nella quale è espressamente
chiarito che “sul piano dei principi propri dell’ordinamento amministrativo,
è affidata, nei casi di attribuzione di potere provvedimentale, alla
potestà disciplinatrice e ordinatrice dell’amministrazione, la creazione della
regola del caso concreto. All’atto programmatico che la esprime, tutti, compresa
l’amministrazione, devono adeguare la propria condotta, indipendentemente
dalla sua conformità alla legge (cd. principio di dissociazione tra
validità ed efficacia dell’atto), fino a quando l’invalidità non sia accertata
secondo le procedure previste”.
Dal che, “in assenza della rimozione dell’atto, il permanere della produzione
degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria
coerenza dell’ordinamento impedisce di valutare in termini di danno ingiusto
gli effetti medesimi” (41).
In definitiva accogliere la tesi contraria significherebbe giungere alla fissazione
del principio di diritto al di fuori dell’oggetto del processo, così concretizzando
un vero e proprio obiter dictum (42).
Quel che è certo è che finora il giudice amministrativo è sembrato fermo,
da quanto emerge non solo dagli arresti dei T.A.R. e della maggior parte del
Consiglio di Stato ma anche dalle indicazioni dottrinarie provenienti dalla
stessa area (43), nel ribadire la necessarietà della azione pregiudiziale amministrativa.
Le argomentazioni non sono dissimili da quelle sopra ricordate:
che il risarcimento del danno può venire in considerazione come effetto dell’annullamento
e non come rimedio autonomo che prescinde dall’annullamento,
atteso che nel sistema processuale amministrativo, laddove vi sia un
(40) Cass., n. 27 marzo 2003, n. 4538.
(41)La sentenza della Corte di Cassazione prosegue affermando nei termini seguenti il
relativo principio di diritto: “La non conformità di una situazione giuridica al diritto oggettivo
(cd. antigiuridicità in senso oggettivo), quale elemento costitutivo della fattispecie attributiva
del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., non può essere
accertata in via incidentale e senza efficacia di giudicato, sicché, ove l’accertamento in via
principale sia precluso nel giudizio risarcitorio, in quanto l’interessato non sperimenta, o
non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza, transazione, ecc.), i rimedi specifici
previsti dalla legge per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la
domanda risarcitoria deve essere rigettata perché il fatto produttivo del danno non è suscettibile
di essere qualificato illecito.”
(42) Per la nozione si rinvia all’analisi compiuta da PIERLUIGI CHIASSONI nel saggio “Il
precedente giudiziale: tre esercizi di disincanto” (www.giuri.unige.it/intro/dipist/digita/filo/
testi/analisi_2004/07chiassoni.pdf). La definizione risultante è la seguente: un “obiter
dictum” è un insieme di enunciati giudiziali del più vario contenuto (potendo esprimere,
alternativamente: una norma di condotta, l’interpretazione di un articolo di legge, un’argomentazione
o un frammento di argomentazione in diritto, una definizione, un’opinione concernente
un istituto del diritto positivo, ecc.), formulato all’interno di una sentenza, il quale
risulti essere irrilevante, o rilevante ma dispensabile, rispetto alla decisione adottata, nella
prospettiva di un qualche metodo di analisi della sentenza.
(43) DE NICTOLIS R., Il risarcimento dei danni cagionati dalla P.A., op. cit. pag. 70 ss.
DOTTRINA 427
atto amministrativo illegittimo, la possibilità di conseguire il risarcimento del
danno passa necessariamente attraverso la preventiva rimozione dell’atto. È
ancora l’art. 7 Legge T.A.R., per il quale il g.a. conosce “anche” dell’”eventuale”
risarcimento del danno e degli altri diritti patrimoniali consequenziali
a costituire il dato normativo di riferimento, come tale costantemente citato al
fine di supportare l’assunto per cui il potere del g.a. di conoscere di eventuali
domande risarcitorie non costituisce una autonoma giurisdizione, in quanto
il suo potere risarcitorio è un rimedio ovvero una delle varie azioni ad esso
proponibili, a carattere “ulteriore ed eventuale”, da cui discende la conseguenza
che l’azione risarcitoria non può esercitarsi in una unica azione, che
prescinda da quella demolitoria/impugnatoria.
Il g.a. nasce e trova legittimazione come giudice del corretto esercizio
della funzione pubblica, rispetto alla quale il sindacato impugnatorio è sorto
come rimedio accessivo, a seguito della elaborazione in via pretoria. Certo
non può tacersi come certi argomenti addotti dai sostenitori della pregiudiziale
abbiano anche rilevanti profili pratici. Così, per. es., quando si pone
l’accento sul fatto che il risarcimento del danno, senza previo annullamento
proposto nel rispetto del termine decadenziale, aprirebbe uno scenario di
incertezza e instabilità per gli atti amministrativi, oltre a pericoli di accertamenti
incidentali superficiali, specie a fronte di azioni volutamente proposte
con largo ritardo rispetto all’atto stesso, e quindi in un momento nel quale
appare difficile, se non impossibile, la corretta ricostruzione del quadro probatorio.
Il rischio maggiore di tali temuti effetti distorsivi si ravvisa in uno
dei campi più delicati della attività amministrativa, che è quello delle gare e
degli appalti pubblici. Basti pensare all’ipotesi di acquiescenza prestata dal
secondo classificato nella gara di aggiudicazione, in astratto dotato di
migliori requisiti rispetto all’aggiudicatario, che porterebbe al duplice negativo
risultato di affidare lo svolgimento dell’appalto ad un soggetto in sostanza
meno idoneo e di esporre l’amministrazione anche al rischio di una condanna
risarcitoria in favore del soggetto non aggiudicatario.
In disparte il rilievo, pur talvolta evidenziato, del rischio di un effetto
dirompente anche sul bilancio dello stato, vero è che la tesi favorevole poggia
anche sul dato normativo di cui all’art. 5 della legge sulla abolizione del
contenzioso amministrativo all. E, richiamato nella A.P. n. 4/2003, dal quale
si fa tradizionalmente discendere il divieto, per il g.a. di disapplicazione dell’atto
amministrativo, essendogli precluso di sindacare la funzione amministrativa
sotto il profilo della violazione di legge o dell’eccesso di potere in
via meramente incidentale, senza cioè efficacia di giudicato. Da tale osservazione,
la logica conseguenza che non pare possibile, per legge, accordare
tutela risarcitoria in virtù di un atto che, per non essere stato oggetto di previo
annullamento, è, in tesi, pienamente efficace, a meno di non volerlo,
quanto meno per incidens, disapplicare.
Ancora, nella stessa direzione, non può non tenersi conto di ulteriori
obiezioni: del fatto che in concreto anche la condotta omissiva del soggetto
danneggiato, in termini di mancata impugnazione, può concorrere all’evento
lesivo; che l’esecuzione dell’atto amministrativo, illegittimo/illecito ma
428 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
non annullato, continua a costituire per la P.A. un dovere giuridico, finanche
penalmente sanzionabile come abuso d’ufficio; che dal giudicato risarcitorio
dovrebbe discendere, per coerenza interna al sistema, un obbligo a carico
della P.A. di auto-annullamento, in realtà non previsto da alcuna disposizione
di legge.
La conclusione è limpidamente esposta dal Consiglio di Stato che difatti
sottolinea come “qualora il g.a. voglia pronunciarsi sul risarcimento del
danno da attività illegittima della P.A., non possa prescindere dal previo
accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo nel contesto dell’unico
strumento di cui disponga: la cognizione diretta prevista dal processo
di annullamento”(44) .
5. L’ordinanza n. 75 /2007 del C.G.A. e le sentenze n. 386/2007 del C.G.A. e
31 maggio 2007 n. 2822 della V Sezione del C.d.S.: il g.a. apre alle Sezioni
Unite?
Alle tre ordinanze della Suprema Corte di Cassazione, che costituiscono
senza dubbio l’attuale punto fermo della posizione del giudice ordinario sul
tema della pregiudiziale amministrativa, pur nella consapevole divergenza
con l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nella A.P. n. 4/2003, va
riconosciuto un effetto ulteriore, quello, cioè, di avere riportato il problema
alla attenzione del giudice amministrativo, che difatti non ha mancato di
cogliere la segnalazione.
A richiedere un ulteriore approfondimento del sistema della pregiudizialità
amministrativa ha provveduto il Consiglio di Giustizia Amministrativa,
che, con l’ordinanza in data 2 marzo 2007 n 75, ha rimesso all’adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato il compito di prendere una delineata posizione
sul punto della sussistenza o meno della pregiudiziale amministrativa.
Compito non certo facile, come è reso palese dal fatto che la Adunanza
Plenaria, con la attesa decisione n. 9/2007 ha evitato di affrontare il tema in
esame.
Chiamata infatti a pronunciarsi su una controversia in punto di esprorpiazione,
nella quale si poneva un concreto problema di rapporti tra azione
di annullamento e azione risarcitoria tale da costituire terreno per una chiara
presa di posizione, ha invece sorvolato sulla pregiudiziale, in contrasto anche
con quanto auspicato dalla stessa Sez. V nella decisione n. 2822 del 31 maggio
2007, testualmente affermando che “il presente giudizio non costituisce
occasione processualmente idonea per affrontare la relativa e complessa problematica
(della pregiudiziale)”. Tanto perché, a parere della Adunanza
Plenaria, nella specie neanche poteva discutersi di un diritto a contenuto
risarcitorio difettando il presupposto della sussistenza dell’atto amministrativo
illeggittimo. Soluzione questa che in realtà presenta diversi profili di let-
(44) C.d.S. sez. VI, n. 3717 del 21 giugno 2006.
DOTTRINA 429
tura, qualora si consideri che, portando alle estreme conseguenze il ragionamento
della A.P., la conclusione è che in siffatte ipotesi è ammissibile la tutela
risarcitoria diretta. Sintomo questo di un prevedibile ma forse non più giustificabile
“temporeggiamento” del C.d.S. stesso, considerati i contrasti esistenti
in seno alla stessa magistratura amministrativa, tali da aggiungersi
all’originario divario di posizioni già esistente tra il Consiglio di Stato e la
Corte di Cassazione.
Manifestazioni esplicite di questa “parziale” ed obiettiva “inversione di
tendenza” sono la sentenza 18 maggio 2007 n. 386 della Sezione giurisdizionale
del Consiglio di Giustizia Amministrativa della regione Sicilia e la
sentenza 31 maggio 2007 n. 2822 della Quinta Sezione del Consiglio di
Stato. È sufficiente infatti leggere cosa scrive il C.G.A. per rendersi conto di
ciò: “ alla luce delle ordinanze del 13 giugno 13569 e 13660 delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, deve essere superata la rigida affermazione
della necessaria pregiudizialità del giudizio d’annullamento dell’atto
“al fine di poter ottenere il risarcimento del danno derivante dalla lesione
di un interesse legittimo”; in sostanza, il giudice siciliano, che pure ha
rimesso esso stesso la questione alla A.D., sembrerebbe non ritenere indispensabile
attendere la relativa decisione, e chiarisce come l’azione di
annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e quella di
risarcimento del danno da esso causato siano due rimedi distinti ed autonomi,
che la legge offre ai privati a garanzia delle loro posizioni di interesse
legittimo.
E non solo. La sentenza stessa afferma che “ re melius perpensa” , cioè
a seguito di una più attenta e ponderata valutazione, la cd. pregiudiziale
amministrativa non costituisce ostacolo in ordine “alla ammissibilità di
domande esclusivamente risarcitorie”, con la conseguenza che la omessa
impugnazione del provvedimento lesivo entro il termine decadenziale non
deve rendere inammissibile ex se la proposizione della eventuale domanda
relativa al risarcimento del danno. Il C.G.A. mostra di recepire e di conseguenza
avallare l’impostazione della Corte di Cassazione, laddove sostiene
che la subordinazione di una eventuale domanda risarcitoria al preventivo
esperimento della azione demolitoria, entro il termine perentorio previsto ex
lege, costituisce una inconcepibile compressione della tutela giurisdizionale
offerta ai privati e il frutto di una incompleta lettura dell’art. 24 della
Costituzione, norma che se da un lato sembra legittimare una distinzione
sostanziale dell’interesse legittimo dal diritto soggettivo, dall’altro non
sembra autorizzare alcuna disparità di trattamento tra le due situazioni giuridiche
soggettive, quanto alle garanzie processuali ad esse applicabili tra le
quali rientra, a pieno titolo, il risarcimento del danno. Ammettere il contrario
significherebbe sia forzare il dettato costituzionale, sia anche non tenere
nella dovuta considerazione le evoluzioni legislative, quali il D.Lgs.
80/98 e la Legge. 205/2000, e giurisprudenziali, prime fra tutte le sentenze
Cass, n. 500/99 e n. 204/2004 della Corte Cost., che hanno contribuito a
rendere l’interesse legittimo una situazione giuridica soggettiva piena da un
punto di vista sia sostanziale che processuale.
430 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In analogia al C.G.A. si pone anche la Sezione Quinta del Consiglio di
Stato con la sentenza 31 maggio 2007 n. 2822. Esplicitamente il Collegio
avverte che, in punto di pregiudiziale amministrativa, nel giudizio avanti al
g.a., occorre fare ricorso ai principi di diritto fissati dalle SS. UU. della
Cassazione nelle sentenze del giugno 2006 nn. 13569 e 13660. Pertanto la
domanda relativa al risarcimento del danno derivante dalla lesione di un interesse
legittimo ben “deve” proporsi avanti al g.a., individuato come il giudice
unico, “monocratico” delle situazioni giuridiche di interesse legittimo, e
tale domanda può postularsi anche prescindendo dall’utile e preventivo esperimento
della domanda di annullamento, laddove per utile si deve intendere,
ipso facto, la necessità per la parte istante di ottenere dal g.a. una pronuncia
costitutiva di annullamento nel merito. Pertanto, sotto tale profilo, sembra
emergere, dall’esame dell’impianto complessivo della motivazione, l’intenzione
del Collegio di superare il sistema della pregiudiziale amministrativa,
avallando, al pari del C.G.A., la impostazione delle SS. UU. della Corte di
Cassazione .
Certo non può trascurarsi di evidenziare come la Sezione Quinta, nella
motivazione della sentenza, consapevolmente “aggiusti il tiro” delle sue
affermazioni, così come quando aggiunge, quasi a voler comporre il conflitto
tra i due ordini giurisdizionali, che l’impostazione della Corte di Cassazione,
cui dichiara di aderire, non deve necessariamente considerarsi contrastante
con quella della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, costituendo
al contrario entrambe il background delle successive sentenze della Corte
Costituzionale nn. 204/2004 e 191/2006 ( rese in punto di risarcibilità dell’interesse
legittimo).
Ciò considerato, il Collegio, nel sottolineare il carattere “rimediale”,
aggettivo testualmente mutuato dal lessico adottato dalla Consulta nella sentenza
191/2006, del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo,
nel senso che esso sia da considerarsi una forma di tutela complementare
rispetto a quella “ principale” costituita dallo strumento meramente impugnatorio,
aggiunge come “ il g.a. non abbia motivo di discostarsi dalle
ragioni fondamentali delle SS. UU.”, atteso che esse hanno sia ribadito la
rilevanza dell’interesse legittimo, quale situazione soggettiva la cui tutela è
tradizionalmente devoluta alla cura del g.a.,sia contribuito anche a rafforzare
gli strumenti di tutela conferiti dalla legge a tale giudice. Secondo la V
sezione, in sostanza, le impostazioni del C.d.S. e delle SS.UU. non devono
necessariamente considerarsi inconciliabili. Ciò sembrerebbe evidenziare la
volontà della Quinta Sezione di giungere ad una posizione equilibrata, che
tenga conto delle istanze provenienti da entrambe le parti, nell’ottica di un
definitivo allineamento dell’interesse legittimo con il diritto soggettivo, per
il quale la legge pacificamente prevede la possibilità di forme di tutela di tipo
esclusivamente risarcitorio. Risultato da ritenersi giustamente conseguibile
anche per l’interesse legittimo, nella considerazione che la legge non dovrebbe
né obbligare i privati ad azionare strumenti di tutela, cui potrebbero non
essere interessati, e che il rimedio risarcitorio non dovrebbe considerarsi
come “ necessariamente” convivente con quello annullatorio.
DOTTRINA 431
Come è evidente trattasi di affermazioni in linea con le SS.UU., laddove
si legge ancora che“l’interesse legittimo va perdendo la sua tradizionale
funzione meramente famulativa od ancillare rispetto al pubblico interesse
per assumere connotati più marcatamente sostanziali ”.
Ciò significa che già per una parte della giurisprudenza amministrativa
l’interesse legittimo è letto quale situazione giuridica soggettiva piena, tutelabile
con tutte le tipologie di rimedi offerti dalla legge, tra i quali i privati
dovranno ragionevolmente scegliere quello che all’uopo più si confà alla loro
singola fattispecie giuridica; ciò ovviamente, senza comportare la necessità,
per i privati, di azionare tutti i rimedi previsti dalla legge, nel timore che il
mancato esperimento di uno comporti irrimediabilmente l’impossibilità di
azionare gli altri.
Tali assunti non esauriscono gli spunti riflessivi offerti dalla decisione in
rassegna, in quanto è intuibile come il superamento della pregiudizialità
comporta necessariamente l’esame del consequenziale tema della disapplicazione
amministrativa. Sul punto la V sezione ritiene che ammettere la possibilità
per i privati di proporre domande risarcitorie autonome non significherebbe
attribuire al g.a. la facoltà di conoscere della legittimità dei provvedimenti
amministrativi in via meramente incidentale e, di seguito, di disapplicarli,
possibilità categoricamente preclusa dagli artt. 4 e 5 della legge abolitrice
del contenzioso amministrativo All. E, in quanto rimessa in via esclusiva
al solo g.o., quanto invece “postulare la loro efficacia, posto che un provvedimento
amministrativo è efficace non solo se è legittimo nel senso che
rispetta i parametri sostanziali previsti dalla legge, ma anche se è lecito, nel
senso che non ha prodotto alcun tipo di pregiudizio nella sfera giuridicosoggettiva
dei suoi destinatari”.
In realtà, è proprio sul terreno della disapplicazione che la decisione in
commento offre i profili di maggior rilievo, nella parte in cui evidenzia che
nel giudizio risarcitorio trova spazio, a ben vedere, anche il giudizio sulla
legittimità dell’atto, giudizio che costituisce uno degli elementi fondamentali
dell’azione ex art. 2043 c.c. La Quinta Sezione si spinge infine ad individuare
i temi de iure condendo: apertis verbis afferma infatti che il sistema
della pregiudiziale amministrativa, così delineato, presenta comunque “non
pochi spazi di ulteriore completamento che dovrebbero necessariamente
essere colmati possibilmente in via pretoria, nell’attesa di un auspicabile e
quanto mai doveroso intervento normativo”, da attuarsi tenendo conto anche
delle indicazioni derivanti proprio dalla evoluzione giurisprudenziale. In
questa fase quindi spetta al g.a. non solo il compito di pronunciarsi sulle
eventuali domande risarcitorie autonome dei privati, dovendosi di conseguenza
escludere qualsiasi forma di competenza del g.o., ma anche il compito
di individuare “ gli strumenti necessari adatti a completare l’intero
sistema del riparto delle giurisdizioni e della tutela dell’interesse legittimo”,
preparando, per così dire, “il campo” a quello che dovrà essere il successivo
e definitivo intervento autonomo del legislatore ordinario.
In definitiva la Quinta Sezione del Consiglio di Stato si allinea con il
C.G.A., quali frange quasi “ribelli” all’interno del C.d.S. stesso, ma non è
432 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dubbio che gli sforzi interpretativi sono in ultima analisi tesi a contemperare
le diverse esigenze che si colgono all’interno della giurisdizione amministrativa:
da un lato di non svuotare di effettività le competenze del giudice
amministrativo e dall’altro di prendere comunque atto, apprestando gli
opportuni rimedi, del cambiamento dei rapporti tra pubblica amministrazione
e società civile, e della esigenza di effettività della tutela, in applicazione
concreta del principio del giusto processo, di cui la soggettivizzazione dell’interesse
legittimo è forse l’aspetto giuridicamente più rilevante.
6. La pregiudizialità amministrativa: un falso problema?
Un approccio sistematico al tentativo di trarre conclusioni non può prescindere
dalla analisi storica dello stesso. È pacifico infatti che la tesi della
pregiudizialità amministrativa affonda le sue radici in un momento storico
affatto diverso, riveniente dal dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo
e dalla teoria della degradazione e successiva riespansione del diritto
soggettivo ad opera, rispettivamente, del provvedimento amministrativo e
del successivo giudicato caducatorio. Poiché l’atto amministrativo era idoneo
a degradare il diritto soggettivo ad interesse legittimo, scattava l’onere
per il soggetto leso di impugnarlo previamente per ottenerne l’annullamento,
inteso quindi non solo come presupposto processuale, ma anche sostanziale
per il successivo risarcimento del danno, in quanto attraverso esso il
diritto soggettivo veniva a riespandersi in tutta la sua pienezza. Anche in tale
ipotesi quindi conditio sine qua non della risarcibilità era il fatto che l’interesse
legittimo avesse quale presupposto il diritto soggettivo (secondo l’autorevole
insegnamento di Eugenio Cannada-Bartoli) .
La fattispecie tipica era quella espropriativa, ovvero quella ablativa di
una posizione giuridica attiva già concessa e poi revocata. Ma, superato l’assioma
della irrisarcibilità dell’interesse legittimo, la conseguente costruzione
giurisprudenziale sembra ormai priva di sicuro fondamento.
Intanto un rilievo di natura tecnica subito si impone. La pregiudizialità
nel sistema del diritto processale ha ad oggetto una questione che sta al di
fuori della causa nell’ambito della quale è sollevata. Ma, qualora si vada ad
analizzare la struttura dell’azione di risarcimento per responsabilità amministrativa,
non può non rilevarsi che la valutazione della illegittimità dell’atto
e dell’illiceità della condotta sottostante, lungi dal costituire una “questione
pregiudiziale”, si pone invece come momento centrale del giudizio risarcitorio,
atteso che esso altro non è se non l’oggetto dell’accertamento dell’an
della pretesa dedotta in giudizio.
In altri termini l’affermazione della risarcibilità della situazione giuridica
lesa passa attraverso l’accertamento della illegittimità/illiceità dell’atto,
quale componente principale del thema decidendum del giudizio risarcitorio.
Ne discende che ciò che già appartiene all’oggetto del giudizio non può
costituire oggetto di una questione pregiudiziale. Sotto questo profilo si
coglie la importanza peculiare del giudizio sulla “colpa” della amministrazione
e sulla violazione delle regole di condotta, nel che si sostanzia uno dei
requisiti di cui al 2043 c.c. Ma di tale rilievo lo stesso Consiglio di Stato si
DOTTRINA 433
è fatto carico (45), se pure al diverso fine di affermare che la pregiudiziale in
discorso ha natura logica e non tecnica, quando testualmente afferma che
“l’illegittimità dell’atto è un elemento (non un presupposto esterno) della
fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., e, quindi, deve ritenersi esistente una pregiudizialità
logica e non tecnica”.
Ma non si vede, una volta che comunque sia riconosciuto come l’accertamento
dell’an attenga alla fattispecie principale, risarcitoria, l’utilità di
accogliere una simile distinzione che, comunque, sul piano pratico non conduce
a risultati positivamente valutabili, qualora si consideri che è comunque
l’analisi del provvedimento, in termini di liceità/illiceità, a sussumere la
fattispecie nel paradigma dell’art. 2043 c.c.
In realtà, sembra piuttosto che l’esperimento della previa azione di legittimità
piena esplichi i suoi effetti sul diverso terreno del quantum risarcitorio. È
innegabile infatti che, sia in ipotesi di lesione di interesse legittimo oppositivo
che pretensivo, la immediata reazione del soggetto, e il conseguente giudicato
favorevole esplicano effetti giuridici nella sfera del destinatario, o rimuovendo
immediatamente dal mondo giuridico l’atto lesivo, così evitando il prodursi di
ulteriori effetti dannosi, ovvero obbligando l’amministrazione alla adozione
dell’atto richiesto, ovvero rimuovendo il diniego illegittimo ed imponendo alla
P.A. l’adozione dei conseguenti atti conformativi. In entrambi i casi la lesione
subita viene ad ottenere una immediata soddisfazione, non ovviamente ottenibile
quando il soggetto inciso rimanga inerte. È, dunque, sul terreno della
“monetizzazione” del danno che rileva il comportamento del privato inerte, nel
senso che il g.a. non potrà non valutarlo e decidere in conseguenza, limitando
il risarcimento stesso alla sola misura differenziale che non sarebbe comunque
stata soddisfatta con il giudicato ottenuto in sede di legittimità.
Sotto questo profilo è l’art. 1227 c.c. a rivelare nuovi spunti applicativi: la
mancata reazione all’atto/comportamento illegittimo è qualificabile quale fatto
colposo del creditore che ha concorso a cagionare il danno, idoneo pertanto a
diminuire il risarcimento, o addirittura ad eliderlo, secondo la gravità della
colpa e le conseguenze derivatene. La sanzione appare in tal caso del tutto
coerente con il sistema del risarcimento del danno, in quanto espressione del
generale principio per cui non sono risarcibili i danni causati dallo stesso soggetto
leso, quando la scelta del ricorrente di non attivare la tutela annullatoria
(potendosi però, in tal caso, prevedere “una via di fuga” garantendo la possibilità
di dimostrare la prova contraria o la esistenza di una causa di forza maggiore)
integri un comportamento gravemente colposo o addirittura doloso; in
questo modo il privato verrebbe sì messo nelle condizioni di poter optare per
il solo rimedio risarcitorio, ma sarebbe anche “avvisato” delle conseguenze
eventualmente negative che da tale scelta potrebbero derivare.
Certo la definitiva abolizione della pregiudizialità amministrativa apre lo
spazio a ulteriori e non indifferenti problemi, che non sembrano tuttavia, de
(45) C.d.S., sez. VI, n. 3717 del 21 giugno 2006, cit.
434 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
iure condendo, irrisolvibili. Così nulla osta che sia previsto in via legislativa
un diverso e più breve termine di prescrizione per l’azione risarcitoria da illecito
amministrativo, non necessariamente ancorato al termine quinquennale
di cui all’art. 2947 c.c. (46), per evitare che l’amministrazione resti irragionevolmente
esposta a tardive, quanto capziose, azioni risarcitorie, o forse,
soprattutto, che si preveda in subjecta materia una disciplina speciale, analoga
a quella contenuta nell’art. 24 comma 6 bis legge n. 262/2005, che limita
la responsabilità delle Autorità indipendenti ai soli danni causati da atti o
comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave. Vero è che tale norma,
che sembra porre una sorta di sfera privilegiata non facilmente giustificabile,
appare essere un unicum nel panorama normativo attuale in punto di
responsabilità della P.A., e quindi di non immediata e facile estensione, qualora
si consideri che in base ai principi generali l’amministrazione risponde
anche nei casi di colpa lieve. Ciò non toglie come potrebbe comunque rivelarsi
un valido termine di riferimento, in una prospettiva che tenda ad uniformare,
o in un senso o nell’altro, il regime della responsabilità della P.A.
In questo variegato panorama di interrogativi, le recenti aperture del giudice
amministrativo sono indice di una sicura volontà di soluzione del problema
in senso conforme al giudice ordinario. Specie la decisione n.
2822/07, che, lungi dall’incrinare la sfera di attribuzioni del giudice amministrativo,
tende invece al contrario a rafforzarne la posizione laddove velatamente
lo “candida” quale l’organo deputato ad individuare, in via pretoria,
i principi di completamento del sistema delle tutele dei quali dovrà poi tenere
conto il legislatore ordinario, segna un arresto imprescindibile, delle cui
motivazioni la stessa Plenaria non potrà non farsi carico nel momento in cui
deciderà che la decisione sulla pregiudizialità non è più procrastinabile.
Certo è che il compito del Consiglio di Stato appare decisamente alleggerito,
nel senso che la soluzione prospettata dalla sezione V e dal C.G.A., largamente
condivisa dalla dottrina (47), rafforza addirittura per certi aspetti la
posizione del giudice amministrativo, specie nella parte in cui rimette, in via
preliminare, l’individuazione dei principi di completamento del sistema
delle tutele alla giustizia amministrativa stessa, presuntivamente considerata,
in tale ambito, più “tecnica” del legislatore ordinario. D’altra parte è già
stato osservato come il giudice amministrativo “non deve avere paura” di
abbandonare la strada della pregiudizialità ed aprire alla Cassazione; non è
quindi forse sbagliato ritenere che la Sezione Quinta sia pervenuta alla
descritta impostazione, anche per la consapevolezza che l’esigenza di una
compiuta opera di mediazione tra le tesi contrastanti è ormai insopprimibile,
e che una delle soluzioni possibili per la mediazione stessa è la accettazione,
(46) Termini più brevi del quinquennio sono già previsti dall’ordinamento in fattispecie
particolari. Così dagli artt. 2950 ss. c.c.
(47) Cfr. da ultimo, PELLEGRINO G., Il giudice amministrativo non abbia paura, nota a
C.d.S. Sez. V, n. 2822 del 31 maggio 2007.
DOTTRINA 435
ma “condizionata”, dei principi proposti dalle Sezioni Unite della
Cassazione, quasi a voler intendere , da un lato, che può essere giusto abbandonare
la pregiudiziale amministrativa, ma che, dall’altro, le “condizioni” di
tale abbandono saranno “dettate” dal Consiglio di Stato, cui spetterà rispondere
ad alcuni degli interrogativi sollevati dalla sentenza 2822/2007. Primo
fra tutti chiarire in via definitiva se il rimedio risarcitorio costituisca una
forma di tutela “complementare” ed eventuale dell’interesse legittimo – che
può venire in essere solamente se considerato in via unitaria con lo strumento
impugnatorio (di cui costituirebbe, quindi, una estensione “completiva”)
(48), ovvero se, di converso, debba intendersi come un rimedio autonomo,
nel senso di essere posto, a tutti gli effetti, sullo stesso piano rispetto a quello
demolitorio. Le conseguenze derivanti dall’una o dall’altra delle due
impostazioni sono sostanziali: qualora si accedesse alla prima delle due soluzioni,
non si potrebbe fare a meno della pregiudiziale amministrativa in
senso tecnico, posto che il risarcimento del danno sarebbe subordinato all’effettivo
utile esperimento della azione d’impugnazione, con conseguente sua
sottoposizione ad un termine esclusivamente prescrittivo; qualora, invece, si
adottasse la seconda delle soluzioni proposte, che sembrerebbe potersi desumere
dal disposto dell’art. 7 della legge 205/2000, ne deriverebbe l’abbandono
definitivo della pregiudiziale, ma anche la contestuale necessità di prevedere
un obbligatorio e ragionevole termine di decadenza per l’esperimento
della azione principale di risarcimento, così come accade per la azione di
annullamento.
In conclusione appare auspicabile un ripensamento dell’Adunanza
Plenaria in tema di pregiudizialità, nella considerazione che la sua elisione
appare tenere conto del mutato rapporto tra P.A. e società, della evoluzione
della giustizia amministrativa italiana, della oramai pacificamente
ammessa risarcibilità dell’interesse legittimo, ma anche e soprattutto del
dato per cui la effettiva cura del cittadino nei confronti della attività della
P.A. non può essere ristretta quanto alle modalità di tutela , né tanto meno
frazionata in molteplici sedi giudiziarie, quanto alle possibilità di giustiziabilità.
Né l’abbandono della pregiudiziale appare idoneo a concretizzare
quelle lesioni di competenze e attribuzioni temute dal C.d.S. In verità tali
paure appaiono infondate: la caduta della pregiudiziale non necessariamente
comporterà un indebolimento della potestà del g.a., poiché, al contrario,
potrebbe arricchirla, nel senso che potrebbero svilupparsi – come di recente
è stato sostenuto – in capo al g.a. nuove “frontiere” nella tutela dell’interesse
legittimo, che il g.a. stesso non dovrebbe temere di percorrere, stante
il suo “storico” ruolo di giudice della “moderna complessità”(49).
(48) Ricostruzione, peraltro, continuamente ribadita dagli organi di giustizia amministrativa
a più riprese. Si veda per tutte, a titolo meramente esemplificativo, T.A.R. Sicilia,
Sez. I, 7 luglio 2007, n. 1629; ma anche C. d. S., Sez. IV, 8 maggio 2007, n. 2136.
(49) PELLEGRINO, op. cit.

1 - ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI
MAURIZIO BORGO, Sulla competenza in materia di ricongiungimento familiare . pag. 41
VINCENZO CARDELLICCHIO, FABRIZIO GALLO, La Stazione unica appaltante
provinciale (S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive . . . . . . . . . . . » 26
FILIPPO D’ANGELO, La pregiudiziale amministrativa nella giurisprudenza:
dall’adunanza plenaria n. 4/2003 alla decisione n. 2822/07 della quinta
sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo apre alla
Cassazione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 412
GIANNI DE BELLIS, Il meccanismo dell’IVA italiana al vaglio della Corte di
Giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 221
MICHELE DIPACE, Responsabilità amministrativa, azione di responsabilità
sociale e principio di parità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 389
CHIARA DI SERI, Le misure cautelari nei confronti di atti legislativi in contrasto
con il diritto comunitario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 209
GIUSEPPE FIENGO, Un significativo allargamento dell’in house
providing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 254
MAURIZIO FIORILLI, Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee
dell’anno 2006 emesse in cause cui ha partecipato l’Italia . . . . . . . . . . . . . .» 45
OSCAR FIUMARA, Discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione
dell’anno giudiziario – Roma, 26 gennaio 2007. . . . . . . . . . . . . . . . » 1
ANDREA GUAZZAROTTI, Il rigore della Consulta sulla decretazione
d’urgenza: una camicia di forza per la politica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4
GLAUCO NORI, La cosa giudicata nazionale nel diritto comunitario . . . . . . . . . . . » 289
VALERIA SANTOCCHI, L’Italia e le sue seimila discariche abusive . . . . . . . . . . . . . . » 267
2 – INDICE DELLE SENTENZE
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE
Ord.19 dicembre 2006 nella causa C-503/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 214
I N D I C I S I S T E M A T I C I
Ord. 27 febbraio 2007 nella causa C-503/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 218
Sent. 15 marzo 2007 nella causa C-35/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 246
Sent. 19 aprile 2007 nella causa C- 295/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 255
Sent. 26 aprile 2007 nella causa C-135/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 279
Sent. 18 luglio 2007 nella causa C-119/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 301
CORTE COSTITUZIONALE
Sent. 9-23 maggio 2007 n. 171 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16
TRIBUNALE CIVILE DI ROMA
Sez. 1° , decreto 8 maggio 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 41
3. INDICE DEGLI ARGOMENTI
COMUNITÀ EUROPEE - Aiuti di Stato – CECA – Industria siderurgica – Aiuto
dichiarato incompatibile con il mercato comune – Recupero – Autorità di
cosa giudicata della sentenza di un organo giurisdizionale nazionale . . . . . . . . » 301
COMUNITÀ EUROPEE – Domanda di pronuncia pregiudiziale – Ricevibilità –
Art. 86, n.1, Ce – Mancanza di portata autonoma – Elementi che consentono
alla Corte di rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte – Dir.
92/50/CEE, 93/36/CEE, e 93/37/CEE – Normativa nazionale che consente
ad un’impresa pubblica di eseguire per diretto incarico da parte di amministrazioni
pubbliche operazioni senza applicazione del regime generale
d’aggiudicazione degli appalti pubblici – Struttura di gestione interna –
Presupposti - L’autorità pubblica deve esercitare su di un ente distinto un
controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi – L’ente
distinto deve realizzare la parte più importante della propria attività con
l’autorità pubblica o le autorità pubbliche che lo controllano . . . . . . . . . . . . . . » 255
COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Gestione dei rifiuti –
Direttive 75/442/CEE, 91/689/CEE e 1999/31/CE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 279
COMUNITÀ EUROPEE – Ottava direttiva IVA – Artt. 2 e 5 – Soggetti passivi non
residenti all’interno del paese – Imposta indebitamente versata – Modalità
per il rimborso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 246
COMUNITÀ EUROPEE – Procedimento sommario – Domanda di sospensione
dell’esecuzione e domanda di provvedimenti provvisori – Domanda di pronuncia
inaudita altera parte – Protezione degli uccelli – Deroghe . . . . . . . . . . .» 214
COMUNITÀ EUROPEE – Procedimento sommario – Domanda di sospensione
dell’esecuzione e domanda di provvedimenti provvisori – Decisione presa
inaudita altera parte – Non luogo a provvedere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 218
4. PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI
A.G.S. – Parere del 2 gennaio 2007, n. 4 (reso dall’Avvocatura Generale in
via ordinaria).
Validità della nomina a membro di commissione del concorso interno per titoli
ed esami (per l’accesso alla qualifica di primo dirigente del Corpo
438 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Forestale dello Stato) di un consigliere comunale. Effetti sugli atti del procedimento
(cs.45306/06, avv. P. Marchini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 341
A.G.S. – Parere del 5 gennaio 2007, n. 1466.
Ravvedimento operoso in materia di imposta di consumo sull’energia elettrica
(cs.64227/05, avv. G. Mandò) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 346
A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3243.
Sicurezza sul lavoro. Potere di accesso all’alloggio di rappresentanza del
Prefetto. Decr. Legislativo n. 626/94 (cs. 24198/05, avv. Giovagnoli – interim
avv. M. Borgo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 348
A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3245.
Applicazione delle disposizioni di cui all’art. 20, co.1, L.241/90 ai procedimenti
di competenza dell’Ufficio nazionale per il servizio civile (cs.
48161/06, avv. F. Varrone) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 350
A.G.S. – Parere del 13 febbraio 2007, n. 18543.
Inapplicabilità dell’art. 4 co. 2 bis L. 168/05 al concorso notarile e alle altre
procedure concorsuali a numero chiuso (cs. 43036/06, avv. W. Ferrante) . . . . . » 352
A.G.S. – Parere del 20 febbraio 2007, n. 21716.
Decreti liquidazione compensi per attività di assistenza e difesa di soggetti
ammessi al gratuito patrocinio (cs. 3822/07, avv. C. Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . » 356
A.G.S. – Parere del 26 febbraio 2007, n. 24832.
Accademia dei Georgofili. Uso gratuito o agevolato della sede di proprietà
demaniale (cs. 40863/06, avv. A. Palatiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 360
A.G.S. – Parere del 6 marzo 2007, n. 29057.
Contributi universitari per gli studenti stranieri dell’Accademia di belle arti di
Brera (cs. 43149/06, avv. G. Aiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 363
A.G.S. – Parere del 14 marzo 2007, n. 32868 (reso dall’Avvocatura
Generale in via ordinaria).
Proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area di
Tuvixeddu – Tuvumannu in Cagliari ex art. 138, d.lgs. 42/04 (cs. 10475/07,
avv. M. Borgo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 364
A.G.S. – Parere del 15 marzo 2007, n. 33252.
Assistenza tecnica dell’Agenzia del Demanio nel processo dinanzi alle
Commissioni Tributarie (cs. 40972/06, avv. F. Favara) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 368
A.G.S. – Parere del 30 marzo 2007, n. 41082.
Cartolarizzazione alloggi di servizio (cs. 8711/07, avv. P. Gallo) . . . . . . . . . . . . . . » 370
A.G.S. – Parere del 14 aprile 2007, n. 46456.
S. s.p.a. – Ordine del giorno dell’assemblea ordinaria degli azionisti –
Individuazione dell’organo competente per la redazione del progetto di
bilancio dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2006 e della relazione accompagnatoria
(cs. 16024/07, avv. G. D’Amato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 372
INDICI SISTEMATICI 439
A.G.S. – Parere del 17 aprile 2007, n. 47332.
Art. 15 e segg. d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Estinzione anticipata del
finanziamento agevolato da parte del soggetto finanziato (cs. 1952/07, avv.
G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 375
A.G.S. – Parere del 21 aprile 2007, n. 49616.
Prog. 20/PC/7 – Opere di captazione e adduzione della falda basale del massiccio
del Matese – Ministero delle Infrastrutture – Transazione –
Compensi dei consulenti tecnici di parte ministeriale (cs. 27902/05, avv. M.
Corsini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 386
Agenzia del Territorio, Agenzia delle Entrate – Circolare del 14 giugno
2007, n.6, prot. 47218.
Art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Facoltà di adempimento anticipato
da parte del soggetto finanziato – Compatibilità con il regime sostitutivo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 381
440 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Finito di stampare nel mese di ottobre 2007
Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A.
Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma