RASSEGNA
AVVOCATURA
DELLO STATO
PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO
ANNO LIX – N. 2 APRILE-GIUGNO 2007
COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino
Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca.
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COMITATO DI REDAZIONE: Vittorio Cesaroni – Lorenzo D’Ascia – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli
Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Massimo Santoro – Carlo Sica –
Mario Antonio Scino.
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Maimone - Roberto Mastroianni - Sara Ronconi - Emanuela Rosanò - Vittorio Russo - Francesco
Vignoli
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AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO
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INDICE – SOMMARIO
TEMI ISTITUZIONALI
Maurizio Borgo, C’era una volta… lo “Stato in giudizio” (Cons. di Stato,
sez. V, ord. 13 agosto 2007, n. 4447) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1
Alejandra Boto Álvarez, Alcuni appunti sulle norme processuali di favore
che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato porta con sé nel diritto spagnolo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 6
CONTENZIOSO INTERNAZIONALE E COMUNITARIO
Roberto Mastroianni, Osservazioni sul sistema italiano di applicazione
decentrata del diritto comunitario della concorrenza: i recenti sviluppi . . . . . » 21
1.- Le decisioni
Cinzia F. Coduti, Appalto pubblico o concessione di servizi? La Corte enfatizza
il criterio del rischio (Corte di giustizia CE, sez. II, sent. 18 luglio
2007 nella causa C-382/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 64
L’obbligo di gara sulle concessioni di scommesse ippiche (Corte di giustizia
CE, sent. 13 settembre 2007 nella causa C- 260/04) . . . . . . . . . . . . . . . . . » 88
Giuseppe Fiengo, Le prove nei giudizi comunitari; in tema di “valutazioni
d’incidenza” per le aree naturali protette (Corte di giustizia CE, sez. IV,
sentt. 20 settembre 2007 nelle cause C-304/05 e C-388/05; sent. 4 ottobre
2007 nella causa C-179/06) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 95
CONTENZIOSO NAZIONALE
Wally Ferrante, La sanatoria sulle abilitazioni non si applica ai concorsi
(Corte Cost.le, ord. 20 luglio 2007 n. 312) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 123
Uditori giudiziari “non idonei” (C.d.S., sez. IV, sent. 14 dicembre 2006
n. 7470) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 128
Francesco Vignoli, Legge Pinto e sospensione dei termini nel periodo feriale
(Corte d’appello di Milano, decreti 5 -22 luglio 2006 e 10-29 gennaio
2007) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 131
Domenico Maimone, Il principio di successione delle leggi nel tempo in
materia penale applicato agli elementi normativi della fattispecie. Brevi
osservazioni (Trib. penale di Catania, sez. Acireale, sent. 21 marzo
2007 n.318) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136
Valerio Balsamo, Sindacabilità giurisdizionale della revoca dell’incarico di
assessore comunale (C.d.S., sez. V, sent. 23 gennaio 2007 n. 209) . . . . . . . . » 165
Benedetto Brancoli Busdraghi, La d.i.a. Un nuovo silenzio? (C.d.S., sez. V,
sent. 22 febbraio 2007 n. 948) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 177
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 193
CONTRIBUTI DI DOTTRINA
Vittorio Russo, La crisi dell’impresa beneficiaria di aiuti. Disfunzioni dei
mezzi di recupero e ripercussioni nel sistema degli interventi . . . . . . . . . . . . » 235
Maila Bevilacqua, La colpa grave nel procedimento di riparazione per
ingiusta detenzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 251
Giulia De Dominicis, Giuseppe Fabrizio Maiellaro, La scelta del socio privato
nella S.p.A. a capitale pubblico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 276
Pasquale Fava, Le tecniche di consultazione degli interessati nei procedimenti
di regolazione delle Agencies statunitensi e gli standards minimi di
consultation della Commissione europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 289
Sara Ronconi, Il fatto eccessivo colposo. I limiti di operatività: l’errore colposo
su scriminante non esistente (art.59, u.c., c.p.) e il fatto colposo
giustificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 348
Emanuela Rosanò, Le procedure di affidamento degli incarichi di progettazione
nel nuovo codice degli appalti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 357
RECENSIONI
Serena Iannicelli a: J. GALLO CURCIO, Lineamenti di diritto dell’urbanistica . . . . » 369
INDICI SISTEMATICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 371
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
C’era una volta… lo “Stato in giudizio”.
(Consiglio di Stato, sezione quinta, ordinanza 13 agosto 2007, n. 4447)
di Maurizio Borgo
Le brevi riflessioni traggono spunto dalla lettura della recentissima ordinanza
della V Sezione del Consiglio di Stato n. 4447/07 con la quale il
Massimo Organo della magistratura amministrativa ha affermato che l’art. 9,
comma 2, della legge 21 luglio 2000, n. 205, il quale prevede che “a cura
della segreteria è notificato alle parti costituite, dopo il decorso di dieci anni
dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto
onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell’udienza
con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell’avviso
medesimo. I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda
di fissazione vengono, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato,
dichiarati perenti con le modalità di cui all’ultimo comma dell’articolo 26
della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente
articolo” – trova applicazione anche nel caso in cui l’unica parte costituita
sia un’amministrazione statale o regionale, difesa in giudizio
dall’Avvocatura dello Stato.
La conseguenza che i giudici di Palazzo Spada fanno discendere dalla
predetta affermazione è che, al fine di evitare la perenzione, l’Avvocatura
dello Stato dovrà depositare in giudizio, entro sei mesi dalla notifica dell’avviso,
proveniente dalla segreteria del T.A.R. o del Consiglio di Stato, una
nuova istanza di fissazione che dovrà recare la firma, oltre che dell’Avvocato
dello Stato, incaricato della trattazione dell’affare contenzioso, anche dell
’organo statale o regionale competente ad adottare l’indicata dichiarazione
(organo che andrà individuato, secondo il Consiglio di Stato, “in base alle
regole proprie di ciascun ordinamento, in funzione dell’oggetto della controversia
”.
Nel leggere la pronuncia in commento, sono andato subito con la mente
al fortunato ed icastico titolo del libro che l’attuale Avvocato Distrettuale
dello Stato di Catania, Pietro Ugo Pavone, ha dedicato all’Istituto: “Lo Stato
T E M I I S T I T U Z I O N A L I
2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
in giudizio”; un titolo che mi colpì fin da quando, Procuratore dello Stato, di
fresca nomina e con destinazione di servizio proprio all’Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Catania, ebbi modo di imbattermi nel predetto
volume.
Perché si tratta di un titolo fortunato e, prima ancora, di una espressione
indovinata?
La risposta è semplice: perché rende, meglio di qualunque argomentazione,
l’essenza propria dell’Avvocatura dello Stato ovvero il suo essere
l’Organo Legale dello Stato ovvero ancora la immedesimazione organica
esistente fra Avvocatura Erariale e Amministrazione statale patrocinata.
Non sarà certo contento il mio primo Avvocato Distrettuale quando
verrà a sapere che l’efficacia di quel titolo è stata offuscata dalla ordinanza
in commento.
Ma andiamo ad esaminare le motivazioni, addotte dai giudici di Palazzo
Spada, a supporto della predetta affermazione.
Per onestà intellettuale, deve riconoscersi al Consiglio di Stato di essersi
fatto carico della prevedibile obiezione che poteva essere mossa alla conclusione,
più sopra riportata ovvero che l’Avvocatura dello Stato “svolge la
propria attività istituzionale di patrocinio senza necessità di procura, né di
determinazione di stare in giudizio” e che “si potrebbe osservare, allora,
che, non essendo necessaria alcuna positiva manifestazione di volontà dei
rappresentanti legali dell’amministrazione per l’iniziale decisione di promuovere
o resistere alla lite, non avrebbe alcuna giustificazione logica pretendere
la formulazione di una dichiarazione di analogo contenuto, diretta
ad evitare la perenzione decennale”.
Ma secondo il Consiglio di Stato, la predetta obiezione “non risulta persuasiva
” (sic!) per le seguenti ragioni.
“L’introduzione dell’istituto della perenzione decennale costituisce una
delle applicazioni concrete del principio costituzionale della ragionevole
durata del processo, mirando a definire i giudizi che non risultano più sorretti
dalla positiva ed esplicita manifestazione di interesse delle parti sostanziali.
La portata della regola, quindi, non può che essere generalizzata, non
essendo giustificato un trattamento differenziato per i soggetti pubblici difesi
istituzionalmente dall’Avvocatura dello Stato”.
Trattasi di considerazioni che non convincono o, per usare le stesse parole
del Consiglio di Stato, che non persuadono.
L’intento del legislatore del 2000, nell’introdurre la previsione di cui al
comma 2 dell’art. 9 della legge n. 205/2000, è stato, senza dubbio, quello di
“provocare una manifestazione espressa di volontà da parte dei diretti interessati,
per evitare che le istanze possano essere proposte “rutinariamente”
dai difensori senza una previa verifica dell’effettiva sussistenza dell’interesse
in capo ai loro assistiti, per cui è richiesta espressamente dalla norma
(oltre, ovviamente, alla consueta sottoscrizione dei procuratori), anche la
firma dei ricorrenti” (cfr. Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa
– sezione autonoma per la provincia di Bolzano, sentenza 23 gennaio 2007,
n. 35).
TEMI ISTITUZIONALI 3
Ma è proprio il predetto pericolo che non può porsi con riferimento agli
Avvocati dello Stato.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del R.D. n. 1611/1933, gli avvocati dello
Stato (lo stesso dicasi per i procuratori dello Stato) non hanno bisogno, nell
’esercizio delle loro funzioni, di mandato; neppure nei casi nei quali le
norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della
loro qualità.
Dalla norma citata, collegata con altre più specifiche disposizioni, possono
enuclearsi alcuni importanti principi.
In via generale, si rileva che i poteri degli avvocati dello Stato sono
molto più ampi di quelli dei difensori, liberi professionisti, forniti di procura;
i primi, infatti, in virtù della loro qualifica, possono compiere, pur senza
mandato speciale, tutti gli atti processuali che le ordinarie norme di procedura
vietano ai difensori con procura che non siano forniti di mandato o procura
speciale.
Il che significa che l’Avvocato dello Stato, a differenza del comune
difensore, ha la c.d. “disponibilità della lite”.
Ma se così è (e lo riconosce lo stesso Consiglio di Stato nella stessa ordinanza
in commento), non si comprende perché l’istanza di fissazione di cui
all’art. 9, comma 2, della legge n. 205/2000 non possa essere firmata dal solo
Avvocato dello Stato, ovvero dal soggetto che ha la disponibilità della lite,
senza dovere inutilmente “scomodare” l’organo “competente ad adottare
l’indicata dichiarazione” che, per inciso, con riferimento alle
Amministrazioni dello Stato dovrebbe essere individuato addirittura nel
Ministro (individuazione che sembra avvalorata dalla circostanza che la stessa
V sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza 24 maggio 2007, n. 2627
– ordinanza in cui si intravedevano già le “intenzioni” poi manifestamente
esternate dai giudici di Palazzo Spada con l’ordinanza in commento – ha
affermato che “la nuova domanda di fissazione di udienza in data è stata sottoscritta
direttamente dall’Avvocato dello Stato Paolo Gentili e non anche
dal Presidente in carica della Giunta Regionale dell’Umbria”).
Da ultimo, sia consentito osservare come l’ordinanza in commento, dopo
avere messo in evidenza le peculiarità del patrocinio dell’Avvocatura dello
Stato rispetto al patrocinio dei “comuni” difensori, cada in evidente contraddizione
laddove afferma che non sarebbe “giustificato (con riferimento alla
disciplina dei ricorsi ultradecennali: N.d.R.) un trattamento differenziato per
i soggetti pubblici difesi istituzionalmente dall’Avvocatura dello Stato”.
Ed invero, delle due, l’una: o il patrocinio erariale è particolare ed allora
non è possibile applicare allo stesso le disposizioni processuali, di carattere
generale, che vanificano (per non dire, mortificano) la sua peculiarità;
oppure il patrocinio erariale non è particolare, con tutte le conseguenze che
se ne debbono trarre ovvero anche la incostituzionalità (sempre esclusa dalla
pacifica giurisprudenza), tra gli altri, dell’art. 1, comma 2, del R.D. n.
1611/1993; tertium non datur!.
Né, al fine di sottrarsi alla predetta stringente alternativa, vale affermare,
come fatto dal Consiglio di Stato, che “l’introduzione dell’istituto della
perenzione decennale costituisce una delle applicazioni concrete del principio
costituzionale della ragionevole durata del processo”; un riferimento,
questo ultimo, di difficile comprensione, escludendo, chi scrive, che i giudici
di Palazzo Spada abbiano potuto soltanto pensare che l’Avvocato dello
Stato, che depositi in giudizio l’istanza di fissazione dell’udienza di cui
all’art. 9, comma 2, della legge n. 205/2000, faccia ciò al fine di determinare
quella durata irragionevole del processo di cui, come noto, gli Avvocati
dello Stato sono vittime, dovendo curare la difesa delle Amministrazioni statali
chiamate a rispondere, sotto il profilo risarcitorio, di quella durata irragionevole
ai sensi della c.d. “legge Pinto”.
Consiglio di Stato, sezione quinta, ordinanza 13 agosto 2007, n. 4447 – Pres. S. Santoro
– Rel. M. Lipari – Regione Calabria (Avvocatura Generale) c/ S. B. (n.c.)
«Fatto – 1. La sentenza impugnata ha accolto, in parte, il ricorso proposto dal Sig. S.B., per
l’annullamento del provvedimento n. 443 del 20 gennaio 1992, con cui il Comitato
Regionale di Controllo aveva annullato la delibera della giunta municipale di (…) del 28
novembre 1991, concernente l’attribuzione all’interessato della indennità di vigilanza.
2. La Regione contesta la pronuncia del tribunale, deducendo l’infondatezza dell’originario
ricorso.
3. L’appellato, pur ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio.
4. Il Collegio osserva, preliminarmente, che il ricorso in epigrafe, depositato nel 1992
(ricorso ultradecennale), è assoggettato alla disciplina dell’art. 26, ultimo comma della legge
6 dicembre 1971, n. 1034, come sostituito dall’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n. 205.
5. Detta norma prevede al comma 2: <<A cura della segreteria è notificato alle parti
costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in
virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell
’udienza con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell’avviso medesimo.
I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il
decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti con le modalità di cui all’ultimo
comma dell’articolo 26 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dal comma 1 del
presente articolo>>.
6. In forza di tale disposizione non può essere presa cognizione del ricorso in epigrafe
se non in presenza di una nuova istanza di fissazione d’udienza, da presentare con le modalit
à e nei termini suindicati.
7. Il Collegio deve farsi carico, di ufficio, della questione riguardante l’applicabilità
della disposizione nel caso in cui l’unica parte costituita sia un’amministrazione statale o
regionale, difesa in giudizio dall’Avvocatura dello Stato, che svolge la propria attività istituzionale
di patrocinio senza necessità di procura, né di determinazione di stare in giudizio.
8. Si potrebbe osservare, allora, che, non essendo necessaria alcuna positiva manifestazione
di volontà dei rappresentanti legali dell’amministrazione per l’iniziale decisione di promuovere
o resistere alla lite, non avrebbe alcuna giustificazione logica pretendere la formulazione
di una dichiarazione di analogo contenuto, diretta ad evitare la perenzione decennale.
9. Questa tesi non risulta persuasiva.
10. L’introduzione dell’istituto della perenzione decennale costituisce una delle applicazioni
concrete del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, mirando
4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
a definire i giudizi che non risultano più sorretti dalla positiva ed esplicita manifestazione di
interesse delle parti sostanziali.
11. La portata della regola, quindi, non può che essere generalizzata, non essendo giustificato
un trattamento differenziato per i soggetti pubblici difesi istituzionalmente
dall’Avvocatura dello Stato.
12. Del resto, la richiesta di una dichiarazione del rappresentante sostanziale dell’amministrazione
regionale o statale difesa dall’Avvocatura non pare particolarmente gravosa,
considerando che il termine di sei mesi previsto per rendere la dichiarazione di interesse
appare sufficientemente lungo, e consente al soggetto pubblico di compiere tutte le opportune
e responsabili valutazioni.
13. È appena il caso di aggiungere, poi, che l’individuazione dell’organo statale o
regionale competente ad adottare l’indicata dichiarazione va effettuata in base alle regole
proprie di ciascun ordinamento, in funzione dell’oggetto della controversia.
14. Pertanto, la Sezione, trattandosi di appello ultradecennale, manda – ai sensi dell’art.
9 della legge n. 205 del 21 luglio 2002 – alla Segreteria perché verifichi l’avvenuto espletamento
delle procedure e relazioni su esse e, in caso negativo, notifichi alle parti costituite
apposito avviso in virtù del quale è fatto onere all’appellante di presentare nuova istanza di
fissazione dell’udienza, con la propria firma, entro sei mesi dalla data di notifica dell’avviso
medesimo; con l’avvertenza che l’appello, nel caso in cui non venga presentata una
nuova domanda di fissazione, verrà, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato,
dichiarato perento con le modalità di cui all’ultimo comma dell’articolo 26 della legge 6
dicembre 1971, n. 1034, introdotto dal comma 1 dello stesso art. 9.
Per questi motivi il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, riservata
ogni definitiva determinazione sull’appello indicato in epigrafe, manda alla segreteria per
l’esecuzione degli adempimenti di cui in motivazione;
ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 maggio 2007 (…)».
TEMI ISTITUZIONALI 5
6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Alcuni appunti sulle norme processuali di favore
che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato
porta con sé nel diritto spagnolo
di Alejandra Boto Álvarez (*)
1. I c.d. privilegi processuali della Pubblica Amministrazione
Fra i principi processuali fondamentali dell’ordinamento spagnolo c’è
quello relativo alla parità tra le parti (1). Pertanto, nei trattati di Diritto
Processuale è frequente trovare enunciata l’uguaglianza delle parti nel processo
all’interno del più ampio diritto ad un’effettiva tutela giudiziaria (2), in
conformità alla giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale (3),
secondo la quale, peraltro, l’uguaglianza in giudizio non è un principio assoluto,
cosicché non si può pretendere sempre un trattamento omogeneo in
ogni causa. Determinate situazioni di disuguaglianza materiale sarebbero
possibili purché abbiano una base razionale e obiettiva e non lascino la parte
debole indifesa. Questo può accadere quando la Pubblica Amministrazione è
parte in un processo giacché è da più d’un secolo che gode in giudizio d’una
serie di “specialità”, spesso censurate in quanto viste come “privilegi” (4).
(*) Borsista del Programma Nazionale F.P.U. - Dipartimento di Diritto Pubblico,
Università di Oviedo.
(1) Ad esempio v. GIMENO SENDRA, V., Fundamentos de Derecho Procesal, Civitas,
Madrid, 1981; GUASP, J., Concepto y método de Derecho Procesal, Civitas, Madrid, 1997;
ASENCIO MELLADO, J.M., Introducción al Derecho Procesal, 3ª ed., Tirant Lo Blanch,
Valencia, 2004; VALENCIA MIRÓN, A.J., Introducción al Derecho Procesal, 8ª ed., Comares,
Granada, 2004; VV.AA., Derecho Jurisdiccional, I. Parte General, 14ª ed., Tirant Lo
Blanch, Valencia, 2005.
(2) Per esemplificare, v. GIMENO SENDRA, V., Introducción al Derecho Procesal, 2ª ed.,
Colex, Madrid, 2004, pp. 223 e ss.; GÓMEZ DE LIAÑO, F., Introducción al Derecho Procesal,
5ª ed., Forum, Oviedo, 1997, p. 203; RAMOS MÉNDEZ, F., El Sistema Procesal Español,
Bosch, Barcelona, 2000, pp. 38 e ss.
(3) V. sentenze 155/1988 del 22 luglio; 245/1988, del 19 novembre e 226/1988 del 28
novembre.
(4) Sul dibattito terminologico, la nozione di “privilegio” e le conseguenze di scegliere
una concreta denominazione (“specialità”, “dispensa”, “prerogativa”, “vantaggio”, etc.)
v. ABAD PÉREZ, J.J., Principio de igualdad y las partes en el proceso in VV.AA., El principio
de igualdad en la Constitución española, vol. II, Ministerio de Justicia, Madrid, 1991,
p. 1745; BUTRÓN BALIÑA, P.M., Los privilegios procesales del Estado y la Ley 52/1997, de
27 de noviembre, La Ley, vol. 6/1998, p. 2344; MONTÓN GARCÍA, M.L., Un recorrido por
los privilegios de las Administraciones Públicas en el proceso civil (referencia a la Ley de
Enjuiciamiento Civil de 7 de enero de 2000), Studia Carande. Revista de Ciencias Sociales
y Jurídicas, n. 6, 2001, pp. 57 e 58, oppure VICTORIA BOLÍVAR, S., Las partes en el proceso
civil, Revista Jurídica de la Comunidad de Madrid, n. 8, mayo-septiembre 2000, nota 35.
TEMI ISTITUZIONALI 7
La posizione privilegiata dell’Amministrazione davanti al giudice si presenta
in ogni sorta di giudizio (5), sebbene la più evidente disuguaglianza
processuale si osservi in materia civile per la esistenza di privilegi (come il
Foro dello Stato) che in Spagna operano soltanto in questa materia.
Nel diritto comparato, la dottrina è in generale riluttante a parlare di “privilegi
” o “prerogative” processuali della Pubblica Amministrazione (6). Infatti,
anche quando si trova utilizzata un’espressione del genere, di solito le viene
attribuita una connotazione ben diversa (7). Tant’è vero che, ad esempio, la tradizione
anglosassone vede il régime administratif nell’insieme come l’erede
rivoluzionario dei privilegi del principe decapitato dalla stessa rivoluzione e,
così, l’atto amministrativo in sé viene definito come un privilegio (8).
È in Italia dove si può trovare l’esperienza comparata più vicina alla
realtà giuridica spagnola in materia di norme processuali di favore (9), ma le
(5) Così in materia amministrativa basta citare le differenze di trattamento in materia
di termini o di mora, tradizionalmente giustificate con l’interesse comune perseguito dalla
Pubblica Amministrazione e con la funzione della sua difesa svolta dai Tribunali
Amministrativi (in proposito si devono menzionare gli studi classici di ÁLVAREZ-GENDÍN Y
BLANCO, S., La especialización de los tribunales contencioso-administrativos, RAP, n. 35,
1961, pp. 9-43; GARCÍA DE ENTERRÍA, E., La jurisdicción contencioso-administrativa hoy,
Documentación Administrativa, n. 220, 1989, pp. 11-18 e FERNÁNDEZ, T.R., Juzgar a la
Administración contribuye también a administrar mejor, REDA, n. 76, 1992, pp. 511-532).
In materia di lavoro i privilegi competono alla Pubblica Amministrazione in quanto parte del
processo sia come gestrice di servizi sociali, che come garante delle pensione oppure come
datrice diretta di lavoro. In quest’ultimo caso è singolare come il particolare status
dell’Amministrazione non si raccordi con l’abituale ruolo dei Tribunali sociali, tendenti alla
protezione del lavoratore (v. ROMERO RODENAS, M., Algunas particularidades del proceso
de trabajo contra las administraciones públicas, Actualidad Laboral, n. 25, 1998, pp. 493-
508 e MAIRAL JIMÉNEZ, op. cit., pp. 108 e 110). Ancora in materia penale la Pubblica
Amministrazione gode di privilegi processuali condizionati all’intervento dell’Avvocato
dello Stato sia come accusatore privato o in rappresentanza dell’ente offeso dal reato, o
come difensore d’un funzionario pubblico o come rappresentante dell’ente pubblico eventuale
responsabile civile (in proposito, v. MAS RAUCHWERK, M., Especialidades y competencias
de los diversos órdenes jurisdiccionales en el enjuiciamiento del Estado: Orden penal
in VV.AA., La Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones Públicas. Estudios en
Homenaje a José Antonio Piqueras Bautista, Aranzadi, Navarra, 1999, pp. 238 e ss.). In
base al principio d’unità d’azione disciplinato nell’articolo 3 della Legge 52/1997, i privilegi
processuali dell’Amministrazione sono anche in vigore in materia militare (sebbene in
questa sede abbiano un rilievo minore: v. BLANQUE AVILÉS, J.M. e ARANDA ESTÉVEZ, J.L.,
Especialidades y competencias de los diversos órdenes jurisdiccionales en el enjuiciamiento
del Estado: Orden militar, in Ibidem, pp. 254 e ss.).
(6) V. nella dottrina francese e belga, GOFFAUX, P., L’inexistence des privilèges de
l’Administration et le pouvoir d’éxécution forcée, Bruylant, Bruxelles, 2002, p. 345.
(7) Invece, nel senso di potestà sanzionatrice, esecuzione degli atti amministrativi o
anche espropriazione forzata.
(8) V. MEILÁN GIL, J.L., Sobre el acto administrativo y los privilegios de la
Administración, Actualidad Administrativa, n. 10/1987, pp. 529 e 530.
(9) Anche in Italia la dottrina, piuttosto che a sottolineare i “privilegi processuali” sembra
orientata a mettere in evidenza che la Pubblica Amministrazione ha in giudizio la stes8
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
differenze fra i due ordinamenti sono talmente chiare che non sembra possibile
parlare d’una disciplina identica.
2. La genesi dei privilegi. Il ruolo dell’Avvocato dello Stato
Lo status particolare della Pubblica Amministrazione nel processo si basa
su norme che risalgono all’inizio del secolo diciannovesimo. Malgrado lo studio
dei precedenti possa essere di qualche utilità, il solo dato storico non riesce
ad illustrare in modo esauriente perché la Pubblica Amministrazione abbia una
posizione differenziata nel processo (10).
Tradizionalmente, la posizione processuale della Pubblica Amministrazione
veniva disciplinata da una serie di disposizioni disperse, disseminate
senza un nesso chiaro, di rango a volte imprecisabile e con un contenuto già
superato in molti casi (11). La necessità di una nuova Legge che raccogliesse
la materia era molto sentita e periodicamente veniva denunciata dalla dottrina
(12), sopratutto dopo la Carta Costituzionale del 1978 (13).
sa posizione da un’altro soggetto qualsiasi, anche se con alcune singolarità in ragione della
particolare natura degli enti pubblici (v. PAVONE, P., Lo Stato in giudizio. Enti pubblici ed
Avvocatura dello Stato, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 2002, pp. 167 e ss.; VIRGA, P., La tutela giurisdizionale
nei confronti della pubblica amministrazione, 4ª ed., Giuffrè, Milano, 2003, pp.
69 e ss.; CANGELLI, F., Le parti in VV.AA. Giustizia Amministrativa, 2ª ed., Giappichelli,
Torino, 2006, pp. 175 e ss.).
(10) Nella dottrina spagnola, GARCÍA DE ENTERRÍA e FERNÁNDEZ insistono anche sull’insufficienza
degli argomenti storici per spiegare il peculiare rapporto fra Amministrazione e
Giurisdizione. Ad avviso di tali autori nemmeno basta fare riferimento a principi politici come
la divisione dei poteri. Bisogna considerare il principio giuridico-amministrativo dell’autotutela
per essere in grado di capire il particolare status della Pubblica Amministrazione nel processo
(v. GARCÍA DE ENTERRÍA y FERNÁNDEZ, Curso de Derecho Administrativo, vol. I, 13º ed.,
Civitas, Madrid, 2006, pp. 508 e ss.).
(11) V. MARTÍN RETORTILLO BAQUER, S., La defensa en derecho del Estado, Civitas,
Madrid, 1986 e GARCÍA DE ENTERRÍA, E. y FERNÁNDEZ, T.R., Curso de Derecho
Administrativo, vol. II, 11º ed., Civitas, Madrid, 2006, concretamente pp. 675 e ss. Fra le anzidette
norme si devono menzionare: prima di tutto l’Estatuto de la Dirección General de lo
Contencioso y del Cuerpo de Abogados del Estado, approvato nel 1925 con forma di legge,
nel quale sono riportate le norme sulle funzione degli Avvocati dello Stato, partendo dalle consuetudini
in materia di procedimenti giudiziari contro l’Amministrazione (sui dubbi circa la
natura di questo Statuto come legge formale, v.MARTÍN RETORTILLO BAQUER, op. cit., pp. 217-
221); e poi, il Reglamento orgánico, del 1943, decreto nel quale sono riportate diverse norme
alcune risalenti fino al 1877 (Ibidem, pp. 238-239).
(12) Servano come esempio, oltre alle opere citate precedentemente, i lavori critici di
SAAVEDRA GALLO, P., Prerrogativas del Estado en los procesos civil y administrativo (examen
crítico sobre las razones que las fundamentan), in VV.AA., El principio de igualdad en la
Constitución Española, vol. II, Ministerio de Justicia, Madrid, 1991, pp. 1945-1971; PEDRAZ
PEÑALVA, E., Privilegios de las Administraciones Públicas en el proceso civil, Civitas, Madrid,
1993 oppure MAIRAL JIMÉNEZ, M., Los privilegios de la Administración Pública en el proceso
laboral, Temas Laborales, n. 45, 1997, pp. 107-138.
(13) È stato rilevato come i privilegi della Pubblica Amministrazione fossero incompatibili
con i principi processuali d’uguaglianza, contraddittorio e tutela effettiva consacrati
TEMI ISTITUZIONALI 9
Questo era all’origine il risultato a cui si voleva giungere con la Legge
52/1997, del 27 di novembre, di Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones
públicas. Poiché la posizione processuale dello Stato è una modulazione del
principio d’uguaglianza, sembrava logico che venissero ordinate in una
norma con rango formale di legge con la quale definire la posizione processuale
dell’Amministrazione in qualunque tipo di giudizio.
Tuttavia non si può dire che il risultato sia stato raggiunto. Certamente
non era un obiettivo facile da perseguire. Nei dibattiti parlamentari il progetto
di Legge era stato duramente criticato e, in realtà, il testo finale sembra
soltanto una riedizione delle disposizione precedenti, troppo eterogenee per
essere chiarificatrici.
La Legge regola tutta una serie di prerogative diverse fra di loro, senza
classificarle secondo i loro titolari, o il loro scopo. Si sarebbe, ad esempio,
dovuto fare una distinzione fra le norme applicabili soltanto alle
Amministrazioni in senso stretto, quelle applicabili soltanto agli enti difesi
dall’Avvocatura dello Stato ed infine quelle che presentano un legame ancora
più stretto con l’Avvocatura in quanto applicabili a tutti i suoi “clienti”,
chiunque siano (14). Inoltre, la Legge 52/1997 non impedisce che per leggi
speciali si amplino i privilegi processuali.
L’argomento più ripetuto per giustificare il trattamento della Pubblica
Amministrazione come parte nel processo è fondato sulla natura pubblica
degli interessi che persegue (15) oppure sulla complessità della sua organizdal
testo Costituzionale (v. ad esempio, LORCA NAVARRETE, A.M., La posición del Estado
en el proceso, Justicia, 3/1987, pp. 650 o ABAD PÉREZ, op. cit., pp. 1721-1765) e che le
norme statutarie del 1925 non avessero abbastanza sostegno formale per venire applicate
alle Regioni Autonome (appena create dalla Costituzione del 1978) ed ai loro difensori in
giudizio (v. MÉNDEZ CANSECO, J.F., Las administraciones públicas ante la Jurisdicción
ordinaria in VV.AA., Planes provinciales y territoriales de formación: recopilación de
ponencias y comunicaciones: año 1996, vol. III, CGPJ, Madrid, p. 104).
(14) In Spagna l’Avvocatura dello Stato assiste ex lege (patrocinio obbligatorio e gratuito)
l’Amministrazione Generale dello Stato, gli organi costituzionali e gli Organismi
Autonomi. Ci sono alcune eccezioni in materia militare e di sicurezza sociale (art. 1
comma 1 e 2 della Legge 52/1997). Il patrocinio è invece facoltativo per le Regioni ed i
Comuni (art. 1 comma 3), gli Enti Pubblici imprenditoriali e le c.d. Autorità Indipendenti
(art. 1 comma 4), che possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura a seguito di un
accordo oneroso di collaborazione. Se ricorre il patrocinio facoltativo deve essere verificato
nel caso concreto consultando la normativa specifica e gli statuti dell’ente. Inoltre la
Legge 50/1998, del 30 dicembre ha esteso il patrocinio facoltativo al di fuori dell’ambito
pubblico in senso rigoroso, autorizzandolo anche in favore delle s.p.a. e delle fondazioni
(Disposizione Addizionale quinta). Per complicare la situazione ancora di più, nella pratica
sono stati firmati, senza previsione legale specifica, accordi di assistenza con diversi
consorzi. La grande varietà dei potenziali clienti dell’Avvocatura dello Stato è, naturalmente,
motivo di confusione.
(15) V. MEILÁN GIL, op. cit., pp. 529-538; RODRÍGUEZ ARJONA, M., Comentarios preliminares
sobre algunas prerrogativas procesales de la Administración Pública, Revista
de la Facultad de Ciencias Jurídicas y Políticas, n. 106, 1998, p. 321.
10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zazione o sulla rigidità del suo funzionamento (16). Eppure i dubbi sulla
legittimità e perfino sulla costituzionalità di queste prerogative persistono
(17). Viene in genere rilevato che sono incompatibili, oltre che con il principio
d’uguaglianza, con valori come la celerità e speditezza della giurisdizione
(18) in quanto residui di vecchi privilegi e di comodità corporative che
erano state richieste dagli Avvocati dello Stato nel passato, che bisogna
lasciare indietro (19). Secondo la Legge 52/1997, in Spagna oggi il solo fatto
di essere assistito in giudizio dall’Avvocatura dello Stato comporta il godimento
di una serie di specialità processuali di grande rilevanza (20).
La facoltà di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato costituisce
un privilegio di per sé, dato che garantisce una difesa professionale da
parte di un corpo d’élite, per giunta a buon mercato (a volte perfino gratuitamente).
Ma non è questo l’aspetto del quale si intende trattare.
Quello che interessa rilevare è che, in Spagna, non è possibile conoscere
la posizione processuale d’un singolo ente né i privilegi di cui potrà fruire
in lite senza verificare prima il modello della sua difesa giuridica, dal
momento che ci sono privilegi operanti soltanto quando si usufruisce del
patrocinio di un Avvocato dello Stato. Ce ne sono altri, invece, che sono
legati al soggetto difeso ed alle sue particolarità, e non alla qualità dell’avvocato,
privilegi che fanno sorgere meno problemi dal punto di vista tecnico-
giuridico. È la combinazione non sistematizzata d’entrambi che costituisce
un elemento perturbatore, dato che lascia troppe zone d’ombra. Per illustrare
meglio questo punto, è utile proporre qualche esempio fra i privilegi
processuali disciplinati dalla Legge 52/1997.
3. Singolarità in materia di notifica degli atti giudiziari
Questo privilegio viene disciplinato direttamente dall’articolo 11 della
Legge 52/1997, di Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones públicas.
Sotto il titolo Notificaciones, citaciones, emplazamientos y demás actos de
comunicación procesal, si dispone che:
(16) V. LORCA NAVARRETE, op. cit., p. 650; LÓPEZ-FONT MÁRQUEZ, J.F., La derogación
del fuero territorial del Estado y sus Organismos Autónomos y del régimen especial de notificaciones,
REDA, n. 75, 1992, p. 433; MONTÓN GARCÍA, op. cit., p. 76.
(17) V. PINAZO HERNANDIS, J., Las especialidades procesales de las Administraciones
Públicas y el Proyecto de Ley de Enjuiciamiento Civil, Revista General de Derecho, n. 663,
1999, p. 14153.
(18) V. PEDRAZ PEÑALVA, op. cit., p. 233.
(19) V. DIEZ-PICAZO GIMÉNEZ, I., Algunas observaciones sobre la Ley 52/1997, de 27
de noviembre, de Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones Públicas, Tribunales de
Justicia, n. 2/1998, pp. 175 e 176.
(20) Infatti, privilegi processuali in materia di giudizi contro l’Amministrazione e
patrocinio dell’Avvocatura dello Stato sono due questioni fortemente legate, tanto che la
suddetta Legge 52/1997 le disciplina insieme.
TEMI ISTITUZIONALI 11
“1. En los procesos seguidos ante cualquier jurisdicción en que sean
parte la Administración General del Estado, los Organismos autónomos o
los órganos constitucionales, salvo que las normas internas de estos últimos
o las leyes procesales dispongan otra cosa, las notificaciones, citaciones,
emplazamientos y demás actos de comunicación procesal se entenderán
directamente con el Abogado del Estado en la sede oficial de la respectiva
Abogacía del Estado.
2. Cuando las entidades públicas empresariales u otros Organismos
públicos regulados por su normativa específica sean representados y defendidos
por el Abogado del Estado se aplicará igualmente lo dispuesto en el
apartado anterior.
3. Serán nulas las notificaciones, citaciones, emplazamientos y demás
actos de comunicación procesal que no se practiquen con arreglo a lo
dispuesto en este artículo”.
L’articolo stabilisce, in termini generali, e sotto pena di nullità, che tutte
le comunicazioni processuali indirizzate all’Amministrazione statale ed ai
suoi Organismi Autonomi (21) si devono rivolgere direttamente
all’Avvocato dello Stato nella sede della rispettiva Avvocatura distrettuale.
Identico regime è applicabile quando altri enti pubblici si avvalgano dei servizi
dell’Avvocatura dello Stato.
La legge prevede un sistema speciale per la notifica agli enti pubblici che
dipende però non dal tipo di ente, ma dal modello della sua assistenza legale
nel processo. Il primo paragrafo della norma si riferisce alle Amministrazioni
statali e agli Organismi Autonomi, entrambi difesi ex lege dall’Avvocatura
dello Stato. Il paragrafo secondo si riferisce agli altri enti strumentali, che non
sempre potranno godere del patrocinio dell’Avvocatura. Gli Enti Pubblici
Imprenditoriali (22) possono usufruirne soltanto in base ad un accordo di assistenza
legale con i Servizi Giuridici dello Stato. Per quanto riguarda le c. d.
Amministrazioni Indipendenti, la persona del loro difensore nella lite dipender
à in ogni caso dalle loro normative specifiche, e soltanto quando siano difese
dall’Avvocatura dello Stato verrà applicato il privilegio in materia di notificazioni
processuali.
(21) Gli Organismi Autonomi (Organismos Autonomos) sono un tipo di enti pubblici
strumentali disciplinati dalla Legge 6/1997, del 14 aprile sull’Organizzazione Generale
dello Stato (LOFAGE, d’ora in poi). Rispondono al principio di decentralizzazione funzionale
e sono organismi che agiscono sempre in regime di Diritto Amministrativo. Godono del
patrocinio obbligatorio e gratuito dell’Avvocatura dello Stato (v. supra nota 14).
(22) Le Entità Pubbliche Imprenditoriali (Entidades Públicas Empresariales) sono
anche un tipo di Organismi pubblici disciplinati dalla LOFAGE. Esse hanno però un regime
duplice: come regola generale agiscono in regime di Diritto privato ma vengono sottoposte
al Diritto Amministrativo in alcune materie, come l’esercizio delle potestà amministrative o
in materia finanziaria. Possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura, ma soltanto in base
ad una convenzione (v. supra nota 14).
12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il testo dell’articolo 11 della Legge sull’Assistenza legale agli enti pubblici
non è stato modificato per adeguarsi alle nuovissime Agenzie statali
(l’Agenzia è un nuovo modello di organizzazione amministrativa introdotto
nel Diritto spagnolo a metà dell’anno scorso (23)), per cui non si può sapere
con certezza a quale paragrafo dell’articolo 11 ci si debba riferire. In ogni
caso, la questione non è particolarmente rilevante dato che sarà l’intervento
in giudizio dell’Avvocato dello Stato il fattore che determinerà le forme della
notifica, senza che il titolo in virtù del quale intervenga (mandato legale
generale, provvedimento specifico o accordo contrattuale) abbia importanza.
L’articolo 11 include fra gli enti strumentali, eventuali beneficiari del privilegio,
soltanto gli Organismi pubblici statali e regionali (24). Non menziona
però altri tipi di enti che, pur avendo in un certo senso una funzione strumentale,
non rientrino nella definizione di Organismo pubblico della LOFAGE. Per
questo le tre categorie di Organismi pubblici tipizzate nella LOFAGE (Organismi
Autonomi, Entità Pubbliche Imprenditoriali e Agenzie statali) vengono
comprese nel regime dell’articolo 11, insieme ai c. d. enti sui generis e le Amministrazioni
indipendenti. Restano fuori, di contro, i consorzi, le fondazioni e
le società pubbliche per azioni (25) dato che, anche se non può essere contestata
la loro natura strumentale, non rientrano nella figura di Organismo pubblico.
In Spagna, al di là della particolare concezione dell’Avvocato dello Stato
come elemento determinante del privilegio, il regime della notifica speciale
all’Amministrazione è sempre lo stesso. Diversamente dal diritto italiano, lo
spagnolo non distingue la comunicazione iniziale dalle successive.
Peraltro nel diritto spagnolo, la forma della notifica degli atti giudiziari
agli enti pubblici è un privilegio generale, concerne cioè tutte le materie a
meno che le leggi processuali speciali dispongano diversamente. Così, in
materia di contratto di lavoro, è previsto (26) che una notifica irregolare si
può salvare se la parte ne ha notizia ugualmente. Questo vuol dire che, nel
diritto del lavoro, una notifica, effettuata in forma non corretta, può essere
convalidata mentre nelle altre materie resterebbe nulla (27). La situazione,
(23) Legge 28/2006, del 18 luglio, sulle Agencias Estatales para la mejora de los servicios
públicos. Le Agenzie si convertono così nel terzo tipo di Organismi pubblici previsti
dalla LOFAGE. La Legge 28/2006 dispone che anche le Agenzie fruiscono del patrocinio
dell’Avvocatura, ma non chiarisce se il patrocinio è a titolo obbligatorio o facoltativo. Su questa
problematica in esteso, v. BOTO ÁLVAREZ, A., El servicio de la Abogacía del Estado a la
Administración Instrumental in La Abogacía del Estado para una Administración del siglo
XXI. XXVIII Jornadas de estudio de la Abogacía General del Estado, in corso di stampa.
(24) Disposizione Addizionale quarta, Legge 52/1997.
(25) Cfr., in senso contrario, DIEZ-PICAZO GIMÉNEZ, op. cit., p. 176.
(26) Art. 60 e 61 Regio Decreto-Legislativo 2/1995, del 7 aprile, trasfusi nella Legge
di procedura in materia di lavoro.
(27) L’interpretazione può sembrare troppo formalista e rigida, ma continua ad essere
seguita dalle diverse sezioni provinciali dei Tribunali: v. sent. Audiencias Provinciales di
Almería del 5 novembre di 2001; Cádiz del 2 giugno di 2003; Almería del 13 giugno di 2003
oppure Sevilla del 12 aprile di 2004.
TEMI ISTITUZIONALI 13
dunque, è diversa da quella riscontrabile in Italia, dove da tempo si ritiene
che la nullità della notifica della citazione viene sanata nel caso in cui
l’Amministrazione si costituisca in giudizio con il patrocinio
dell’Avvocatura.
Il privilegio in materia di notifica agli enti pubblici si spiega con la
dispersione e la complessità dell’organizzazione amministrativa, che rende
necessario accentrare le comunicazioni a determinati organi allo scopo di un
esercizio efficace del diritto di difesa (28), anche se la forma attuale del privilegio
è difficile da giustificare per le distorsioni che produce. Così, prima
di fare causa contro un ente pubblico si dovrà indagare sul suo sistema di
assistenza legale e, se c’è un accordo con l’Avvocatura dello Stato, rivolgersi
ad essa sotto pena di nullità insanabile. Ci sono esempi di enti che hanno
persino tre possibilità di assistenza in giudizio (Servizi legali propri, avvocati
di libero foro ed Avvocatura dello Stato) e la scelta finale non sempre si
conosce al momento della citazione in giudizio (29) cosicché le difficoltà
sono ancora maggiori per chi deve procedere alla notifica. La complessità
burocratica non sembra bastevole per imporre ai privati che intendono proporre
una causa contro l’Amministrazione (in realtà contro quasi qualsiasi
cliente dell’Avvocatura dello Stato) un onere simile.
La necessità di una modifica del regime vigente sembra incontestabile.
Sarebbe indispensabile abbandonare l’interpretazione rigida e formalistica
attuale e, seguendo il modello italiano e l’esempio che in Spagna ha anche
scelto il legislatore del lavoro, rendere sanabile la notifica nulla.
Allo stesso tempo, in particolare per gli enti strumentali con diverse possibilit
à di assistenza legale, sarebbe utile introdurre una disciplina che differenziasse
gli atti introduttivi del giudizio rispetto agli atti giudiziari successivi,
con il diritto italiano come punto di riferimento. Sarebbe molto utile
perché permetterebbe di rendere compatibile il vantaggio che per l’Amministrazione
comporta la notifica nella sede dell’Avvocatura dello Stato
(quando questo sia il patrocinio del quale decida avvalersi) con l’onere a
carico della controparte: il privato si rivolgerebbe nella fase iniziale direttamente
all’ente nel suo domicilio e poi, una volta che questo abbia scelto il
difensore (Avvocato dello Stato, avvocato proprio o di libero foro) e sia noto
l’interlocutore in giudizio, si rivolgerebbe a questo.
4. La dispensa dal pagamento preventivo
L’articolo 12 della Legge 52/1997, con il titolo Exención de depósitos y
cauciones dispone:
(28) V. sent. Audiencia Provincial La Coruña dell’8 novembre di 2000.
(29) V. le opinioni di BUTRÓN BALIÑA, op. cit., p. 2346 e di RISQUETE FERNÁNDEZ in
VV.AA., La Asistencia Jurídica al Estado en el siglo XXI (Primer Congreso de la Abogacía
del Estado), Aranzadi, Navarra, 2000, p. 267.
“El Estado y sus Organismos autónomos, así como las entidades públicas
empresariales, los Organismos públicos regulados por su normativa
específica dependientes de ambos y los órganos constitucionales, estarán
exentos de la obligación de constituir los depósitos, cauciones, consignaciones
o cualquier otro tipo de garantía previsto en las leyes.
En los Presupuestos Generales del Estado y demás instituciones públicas
se consignarán créditos presupuestarios para garantizar el pronto cumplimiento,
si fuere procedente, de las obligaciones no aseguradas por la
exención”.
Lo Stato, gli organi costituzionali, le Regioni e tutti gli organismi pubblici
non sono tenuti a prestare garanzia processuale in quanto persone pubbliche,
sempre solventi.
Si tratta, pertanto, di un privilegio della Pubblica Amministrazione come tale.
Il privilegio, come si è già rilevato, è automatico, nel senso che opera ogni
volta che sia parte del processo uno degli enti menzionati, indipendentemente
dal modello concreto della sua difesa giuridica. Ciò nonostante, quando c’è il
patrocinio dell’Avvocatura, l’Avvocato dello Stato ha la funzione di vigilante
del rispetto del privilegio (30). La legge gli affida la osservanza della norma,
perfino di fronte al giudice. Quindi, la presenza dell’Avvocatura non è condicio
sine qua non per la operatività del privilegio, ma vi gioca un ruolo importante.
Nonostante questa costruzione concettuale teorica, nella pratica i giudici
sono in generale contrari ad ammettere il privilegio in beneficio di enti non difesi
dall’Avvocatura dello Stato. Le maggiori contestazioni vertono intorno agli
enti pubblici strumentali che agiscono secondo il diritto privato (31) e a quelli
che hanno avuto modificazioni formali (32). Il nodo gordiano della questione
andrebbe sciolto stabilendo se la presunzione di solvenza dello Stato si possa
sempre estendere ai suoi Organismi pubblici. I Tribunali non ne sono sicuri. Da
ciò deriva la mancanza d’uniformità nelle loro pronunce. Di sicuro una riforma
chiarificatrice, anche su questo punto della Legge, sarebbe la benvenuta.
5. Interruzione del computo dei termini processuali
L’articolo 14 prevede la sospensione del corso degli atti processuali a
favore dello Stato, dei suoi Organismi Autonomi e delle entità dipendenti
d’entrambi quando vengano imputati.
14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(30) Articolo 38 del Regio Decreto 997/2003, del 25 luglio: En los casos en que así
proceda, los Abogados del Estado cuidarán de la observancia por los juzgados y tribunales
de la exención de depósitos, cauciones o cualquier otro tipo de garantías, e interpondr
án, en caso contrario, los recursos procedentes.
(31) Sopratutto l’ente delle Ferrovie dello Stato ed il Consorzio per la Compensazione
di Assicurazioni: v. sent. Tribunale Superiore di Giustizia di Asturias del 9 marzo di 2001 e
Sent. Aud. Prov. Cádiz a Ceuta del 13 luglio di 2001.
(32) Il caso paradigmatico è quello della Posta, oggi s.p.a. Su questo: v. Sent. Tribunali
Superiori di Giustizia della Comunidad Valenciana del 9 luglio di 2003 e di Cataluña del 12
e 19 giugno di 2003.
“1. En los procesos civiles que se dirijan contra el Estado, sus
Organismos autónomos, entidades públicas dependientes de ambos o los
órganos constitucionales, el Abogado del Estado recabará los antecedentes
para la defensa de la Administración, Organismo o entidad representada,
así como elevará, en su caso, consulta ante la Dirección del Servicio
Jurídico del Estado. A tal fin, al recibir el primer traslado, citación o notificaci
ón del órgano jurisdiccional podrá pedir, y el Juez acordará, la suspensi
ón del curso de los autos, salvo que, excepcionalmente, y por auto motivado,
se estime que ello produciría grave daño para el interés general.
El plazo de suspensión será fijado discrecionalmente por el Juez, sin que
pueda exceder de un mes ni ser inferior a quince días. Dicho plazo se contar
á desde el día siguiente al de la notificación de la providencia por la que se
acuerde la suspensión, no cabiendo contra tal providencia recurso alguno.
2. En los interdictos, procedimientos del artículo 41 de la Ley
Hipotecaria, aseguramiento de bienes litigiosos e incidentes, el plazo de
suspensión será fijado discrecionalmente por el Juez, no siendo superior a
diez días ni inferior a seis”.
Può sembrare un beneficio in favore dell’Amministrazione in generale,
comprendendovi tutti gli enti statali e anche tutti gli enti pubblici strumentali.
Lo stesso regime si estende agli enti regionali secondo le disposizioni
finali della Legge (33). Stando alla formulazione letterale dell’articolo,
anche le nuove Agenzie sembrerebbero partecipi del privilegio, in quanto
elementi dell’Amministrazione, intesa come personificazione complessa.
Secondo questa interpretazione l’eventuale intervento di un Avvocato
dello Stato non sarebbe rilevante al fine del beneficio. Questa è però una lettura
affrettata e non soddisfacente.
L’articolo dispone letteralmente che il corso normale dei termini processuali
si ferma per fornire all’Avvocato dello Stato il tempo necessario per raccogliere
i dati che un’adeguata difesa in giudizio dell’Amministrazione esige e, se
occorresse, anche per consultare la Direzione del Servizio Giuridico dello Stato.
Il privilegio della sospensione dei termini è, dunque, concesso soltanto quando
l’ente abbia il patrocinio (legale, autorizzato o contrattato: non si possono fare
distinzioni dato che il testo dell’articolo non le fa) dell’Avvocatura dello Stato.
Questa interpretazione può, peraltro, portare a conseguenze in contrasto
con lo scopo della norma. Così, nella pratica giudiziaria ci sono casi in cui si
finisce per estendere il privilegio anche a favore di società commerciali che
hanno un accordo di assistenza legale con l’Avvocatura dello Stato (34),
interpretazione che rischia di essere addirittura contra legem.
TEMI ISTITUZIONALI 15
(33) Secondo quanto viene disposto dalla Disposizione Adicionale quarta della Legge
52/1997.
(34) Ad esempio, sent. Aud. Prov. Zaragoza del 2 marzo di 2004, ancora sulla s.p.a.
della Posta.
L’interruzione della decorrenza dei termini è richiesta dall’Avvocato
dello Stato in forma unilaterale, in base ad una previsione legale stabilita nel
suo solo interesse (35) operante solo in materia civile. Il giudice la consente,
fissandone la durata entro il limite massimo di un mese.
Per quanto riguarda il contratto di lavoro, c’è nel diritto spagnolo una
istituzione simile: a seguito dell’intervento dell’Avvocato dello Stato l’inizio
del giudizio viene differito allo scopo di fornirgli un lasso di tempo (ventidue
giorni) nel quale possa consultare la Direzione del Servizio Giuridico
(36). In questo caso la specialità della disciplina viene incontestabilmente
legata alla persona dell’Avvocato; si tratta di una specie di superprotezione
processuale (37) assolutamente sorprendente dato che, in termini tradizionali,
il processo in materia di lavoro tende a proteggere i lavoratori piuttosto
che il datore di lavoro, benché questo sia un ente pubblico.
Per legittimare la proroga privilegiata dei termini ordinari (tanto in materia
civile come per il contratto di lavoro) si fa in genere riferimento ancora
alla complessità organizzativa dell’Amministrazione (38). L’argomento non
è convincente, in particolare nei casi in cui è stato precedentemente proposto
il reclamo amministrativo preventivo (39) perché l’Avvocato ha già avuto
un tempo sufficiente per predisporre una difesa opportuna (40).
16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(35) Infatti l’altra parte processuale non può contrapporsi.
(36) Art. 82.3, comma b, del Regio Decreto-Legislativo 2/1995, del 7 aprile. Testo rifuso
della Legge di procedura in materia di lavoro.
(37) V. MAIRAL JIMÉNEZ, op. cit., p.127.
(38) V. ad esempio la sentenza del Tribunal Supremo del 13 novembre di 2001. Il privilegio
è visto in genere come essenziale per garantire l’uniformità dell’azione amministrativa
e l’unità di dottrina nell’Avvocatura. In realtà il grosso problema sembra essere la sconnessione
tra le diverse entità amministrative, che rende necessario un certo tempo per mettere
insieme tutti i dati necessari alla difesa in giudizio, dato che queste entità non sempre
collaborano come dovrebbero. Se nella pratica la cooperazione amministrativa fosse effettiva,
il privilegio delle sospensione dei termini processuali non sarebbe necessario. Proprio
per questo il privilegio è più difficile da giustificare quando interessate sono le
Amministrazioni regionali (soprattutto quelle piccole per territorio) considerato che il contatto
diretto, per la prossimità geografica, è più facile. Su questo punto si richiamano le
osservazioni di GARCIA GOMEZ DE MERCADO in VV.AA., La asistencia jurídica al Estado
en el siglo XXI (Primer Congreso de la Abogacía del Estado), Aranzadi, Navarra, 2000, pp.
261-262.
(39) In Spagna, fare un reclamo amministrativo preventivo è obbligatorio, in termini
generali, prima di esercitare un’azione civile o di lavoro contro un ente qualsiasi della
Pubblica Amministrazione (art. 120-126 della Legge 30/1992, del 26 novembre, di procedura
amministrativa comune). La differenza con il diritto italiano è evidente sebbene, nei
tempi più recenti, la giurisprudenza spagnola tenda a fare un’interpretazione più flessibile.
Così si dice oggi che la mancanza del reclamo in materia civile può essere sanata, mentre
per quanto riguarda il contratto di lavoro può venire sostituita dal tentativo di conciliazione.
V. le sentenze del Tribunal Supremo del 30 novembre di 2000; 14 maggio di 2002; 21 ottobre
di 2002 e 16 novembre di 2004.
(40) V. PEDRAZ PEÑALVA, op. cit., pp. 133 e ss.; DIEZ-PICAZO JIMÉNEZ, op. cit., p. 176 e
MONTÓN GARCÍA, op. cit., p. 69.
Che la organizzazione burocratica amministrativa richieda un certo
allungamento dei termini processuali può ritenersi accettabile giacché, alla
fine, la difesa dell’Amministrazione comporta anche la difesa degli interessi
comuni. Dovrebbe, peraltro, essere chiaro che il motivo del privilegio è la
complessità organizzativa dell’ente convenuto e non la persona dell’avvocato
che lo assiste, né le esigenze dell’organizzazione di cui quest’ultimo fa
parte quando si tratti dell’Avvocatura dello Stato.
Una volta separato il privilegio dalla persona dell’Avvocato dello Stato,
la sospensione dei termini processuali risulterebbe meglio giustificata. Un
trattamento flessibile dell’Amministrazione verrebbe a compensare le formalit
à e la lentezza conseguente con cui essa è costretta ad agire a causa del
suo carattere pubblico. Estendere il privilegio ad enti di diritto privato, di
conseguenza, non avrebbe senso (neanche se potessero avvalersi del patrocinio
dell’Avvocatura grazie ad un accordo ad hoc) perché, non dovendo
seguire le forme del provvedimento amministrativo e del procedimento connesso,
non ci sono complessità da compensare.
6. Il Foro dello Stato
Il privilegio del Foro viene disciplinato dall’articolo 15 della Legge
52/1997. Viene chiamato in generale “Foro dello Stato” ma in realtà ne beneficiano,
oltre alle Amministrazioni statali, anche le Regioni e alcuni enti pubblici:
“Para el conocimiento y resolución de los procesos civiles en que sean
parte el Estado, los Organismos públicos o los órganos constitucionales,
serán en todo caso competentes los Juzgados y Tribunales que tengan su
sede en las capitales de provincia, en Ceuta o en Melilla. Esta norma se aplicar
á con preferencia a cualquier otra norma sobre competencia territorial
que pudiera concurrir en el procedimiento.
Lo dispuesto en este artículo no será de aplicación a los juicios universales
ni a los interdictos de obra ruinosa”.
Anche se soltanto in materia civile, sono derogate le regole generali sulla
competenza territoriale. La competenza per le cause nelle quali sia parte uno
dei soggetti pubblici anzidetti spetta al Giudice o Tribunale del capoluogo
della provincia corrispondente. Il privilegio opera tanto quando gli enti pubblici
vengono convenuti come quando sono attori.
Di solito la specialità si giustifica con la necessità di precisare un luogo
dove convenire lo Stato dato che esso non ha un proprio indirizzo a cui rivolgersi
(41). L’argomento perde di valore nei confronti degli enti strumentali
che hanno un indirizzo sempre determinato.
TEMI ISTITUZIONALI 17
(41) V. ABAD PÉREZ, op. cit., p. 1754, che cita una vecchia pronuncia del Tribunal
Supremo di 1894. Lo stesso argomento si può trovare poi in CREVILLEN VERDET in VV.AA.,
La Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones Públicas. Estudios en Homenaje a José
Antonio Piqueras Bautista, Aranzadi, Navarra, 1999, p. 339.
La disciplina spagnola del Foro dello Stato sarà sorprendente per lo studioso
italiano. In teoria in Spagna il privilegio del Foro non è limitato alle
Amministrazioni statali, né si basa sul patrocinio dell’Avvocatura dello
Stato. È possibile trovare enti pubblici dotati di personalità propria, perfino
che agiscano nell’ambito del diritto commerciale, che ciò non ostante si giovano
del beneficio del Foro dello Stato. Basta che rientrino formalmente nell
’ambito dell’articolo 15 della Legge 52/1997 (42).
Malgrado questa definizione teorica, i giudici a volte graduano l’interpretazione
del Foro dello Stato nella pratica, mostrandosi favorevoli ad
un’applicazione limitata del privilegio. Ci sono parecchi esempi in cui è stato
deciso che, quando la difesa legale di un ente pubblico si affida ad un avvocato
del libero foro, invece che all’Avvocato dello Stato, non c’è più ragione
di applicare il foro speciale (43). Si trova anche precisato che del foro soltanto
dovrebbero beneficiare gli enti pubblici che si avvalgono
dell’Avvocatura (44).
Per un riflesso quasi freudiano il Foro si trova talvolta definito come
“territoriale speciale dell’Avvocatura dello Stato” (45) invece di “Foro dello
Stato” oppure di “Foro della Pubblica Amministrazione”.
Per giustificare il privilegio si argomenta talvolta anche che il miglioramento
dei sistemi di comunicazione e dei mezzi di trasporto moderni lo
rende oggi meno oneroso per la controparti per le quali non costituisce un
aggravio eccessivo spostarsi nel capoluogo della provincia (46).
L’argomento è debole e reversibile. Neppure per l’Amministrazione sarebbe
un gran inconveniente che il suo avvocato si trasferisca provvisoriamente
fuori della sua sede. Anzi, sarebbe obiettivamente meglio che lo facesse perch
é per il privato la prospettiva di uno spostamento può avere un effetto dissuasivo
tale da farlo rinunciare all’azione contro l’Amministrazione; mentre
questa gode già naturalmente e strutturalmente di tutti i mezzi materiali e
umani occorrenti per il giudizio. In ogni caso non sembra facile oggi trovare
per il privilegio un fondamento che non sia la comodità e non le reali esigenze
della difesa dell’Amministrazione (47).
18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(42) Ad esempio, sent. Aud. Prov. Badajoz del 9 aprile di 1999 sull’ente pubblico delle
Ferrovie dello Stato (RENFE) prima della sua trasformazione in s.p.a. Anche sent. Aud.
Prov. Pontevedra del 15 marzo di 2001 e Murcia del 21 aprile di 2001 sul Consorzio di
Assicurazioni.
(43) V. sent. Tribunal Supremo del 25 febbraio di 1992.
(44) Pronuncia Aud. Prov. Madrid del 16 aprile di 2001.
(45) V. sent. Aud. Prov. Málaga del 2 febbraio di 2001.
(46) V. GUTIÉRREZ DELGADO, J.M., El fuero territorial del Estado y otras entidades
públicas: historia, razón de ser y plena vigencia en nuestro ordenamiento, RAP, n. 135, septiembre-
diciembre 1994, pp. 348 e ss.
(47) Così viene disposto, ad esempio, nella sent. Aud. Prov. Las Palmas, del 27 luglio
di 2000.
7. Conclusioni
Di altre numerose specialità processuali sarebbe utile lo studio per mettere
in evidenza il ruolo essenziale che il patrocinio dell’Avvocatura dello
Stato gioca in Spagna nel definire la posizione processuale di un ente pubblico
in giudizio. Così, si potrebbe parlare, per esempio, delle regole particolari
in materia delle spese del giudizio, della prova o dell’esecuzione delle
sentenze.
Il loro esame però oltrepasserebbe l’ambito e lo scopo del presente scritto.
Qui si è cercato di mettere in evidenza i privilegi più rilevanti con il proposito
di mostrare come, nel diritto spagnolo, la posizione processuale e l’assistenza
legale sono due nozioni intensamente legate, poiché il patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato porta con sé l’applicazione di un certo numero di
specialità processuali a beneficio del suo cliente, chiunque sia.
In questo modo il privato, che deve fare causa contro un ente pubblico,
non potrà conoscere esattamente quali privilegi gode la controparte fino a
che non sappia se si avvarrà del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato.
La situazione è particolarmente preoccupante quando interessate sono le
Amministrazioni strumentali dato che questo tipo di enti hanno un sistema di
assistenza legale proprio. La tendenza non è nel senso di arrivare ad una
disciplina generale, ma di continuare in un regime giuridico atomizzato, fondato
su previsioni ad hoc che proliferano e mutano con enorme rapidità. La
situazione è aggravata dal fatto che gli accordi di collaborazione fra
l’Avvocatura dello Stato e gli enti pubblici non sempre ricevono un’adeguata
pubblicità cosicché agli interessati viene anche a mancare la necessaria
fonte di informazione.
La posizione pregiudicata nella quale il privato finisce col trovarsi in
giudizio di fronte agli enti pubblici sembra incontestabile. Ed è una situazione
sempre più frequente visto che oggi la grande maggioranza dei nuovi servizi
pubblici è affidata agli enti strumentali dell’Amministrazione.
Se gli enti strumentali che operano nelle forme di diritto privato, evitando
quelle di diritto pubblico con le garanzie amministrative connesse, davanti
al privato in giudizio possano continuare a godere dei vantaggi pubblici per
il solo fatto di essere difesi dall’Avvocatura dello Stato, invece che da un
avvocato di libero foro, meriterebbe una verifica approfondita. In questa
sede si può solo rilevare che il vincolo fra i privilegi processuali e la difesa
dell’Avvocato dello Stato provoca distorsioni non di poco conto giacché
l’Avvocatura ha un elenco variopinto di clienti.
TEMI ISTITUZIONALI 19

Osservazioni sul sistema italiano di applicazione
decentrata del diritto comunitario della concorrenza:
i recenti sviluppi
di Roberto Mastroianni (*)
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Le evoluzioni del public antitrust enforcement – 3. Le misure
cautelari nei procedimenti antitrust interni – 4. Gli impegni – 5. Il programma nazionale
di clemenza – 6. La responsabilità dell’Agcm per violazione del diritto comunitario della
concorrenza – 7. La legittimazione ad impugnare i provvedimenti dell’Agcm: le recenti pronunce
interne – 8. L’“ascesa” del private antitrust enforcement – 9. Alcune questioni in tema
di risarcimento del danno anticoncorrenziale – 10. Brevi cenni sui recenti sviluppi in materia
di aiuti di Stato – 11. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Lo scopo principale di questo lavoro consiste in un’analisi del sistema
italiano di applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza,
con l’obiettivo di provare a valutarne il grado di compatibilità e di adeguatezza
rispetto al diritto comunitario ed allo standard di tutela delle posizioni
I L C O N T E N Z I O S O
C O M U N I TA R I O
E D I N T E R N A Z I O N A L E
(*) Ordinario di Diritto dell’Unione Europea nell’Università degli Studi di Napoli
“Federico II”. Il presente lavoro riproduce la relazione presentata al Convegno “Il principio
di concorrenza tra regolazione e autoregolazione dei mercati”, svoltosi il 22 giugno 2007
nell’Aula Magna del Centro Congressi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
L’A. intende ringraziare sentitamente per la preziosa collaborazione il dr. Oreste Pallotta,
dottore di ricerca in Diritto della concorrenza e del mercato nell’Unione Europea
nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
giuridiche soggettive che esso impone; a tal fine, si terrà conto sia delle innovazioni
apportate alla legge nazionale antitrust, sia della più recente giurisprudenza
interna sul tema (1).
Si tratta, evidentemente, di un esercizio non nuovo, ma pur sempre
necessario in ragione dell’obbligo d’interpretazione conforme al diritto
comunitario previsto dall’art. 1, comma quarto, della legge antitrust italiana
n. 287/90 (2). Inoltre, un tale sforzo non appare, oggi, superfluo se si tiene
conto, da un lato, delle importanti novelle che hanno riguardato quest’ultima
e, dall’altro, dell’ampliamento, operato per via pretoria, dell’ambito di applicazione
soggettivo delle norme di concorrenza comunitarie e nazionali.
Secondo un famoso grand arrêt delle Sezioni Unite della Cassazione,
infatti, «la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la
legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente
rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo» (3).
L’estensione anche agli utenti finali dell’ambito dei destinatari diretti delle
norme di concorrenza appare perfettamente in linea con il diritto comunitario
antitrust, poiché, come precisato dalla Commissione europea, «la concorrenza
effettiva apporta dei benefici ai consumatori, quali prezzi bassi, prodotti di
alta qualità, un’ampia gamma di beni e servizi, e innovazione» (4).
22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Questo contributo prosegue, ed in parte aggiorna, le riflessioni già compiute sull’applicazione
decentrata delle norme comunitarie di concorrenza in Italia, contenute in Osservazioni
in merito alla effettività del sistema italiano di tutela « decentrata » del diritto comunitario
della concorrenza, in Dir. Un. Eur., 2001, p. 78 ss., cui ci sia consentito rinviare per il resto.
(2) Come correttamente rileva l’Avvocato Generale Kokott nelle recenti Conclusioni
del 3 luglio 2007, presentate nella causa C-280/06, Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato c. Ente Tabacchi Italiani – ETI SpA e altri, « nel settore del diritto della concorrenza
questo interesse ad un’interpretazione e ad un’applicazione il più possibile uniformi
delle disposizioni vigenti a livello comunitario è particolarmente spiccato poiché in questo
campo il diritto nazionale si orienta sul diritto comunitario con particolare frequenza.
Ciò non vale soltanto a partire dall’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1/2003, con il
quale si è pervenuti ad una correlazione particolarmente stretta tra la normativa nazionale in
materia di concorrenza e il diritto comunitario. Già prima, cioè ancora ai tempi in cui vigeva
il regolamento n. 17, la normativa nazionale in materia di concorrenza di numerosi Stati
membri si ispirava, anche per dirimere situazioni puramente interne, al diritto comunitario.
Questo si verifica, non da ultimo, anche per la legge italiana 287/90».
(3) Cass., S.U., sentenza 20 gennaio–4 febbraio 2005, n. 2207, par. 1.f; in Foro it.,
2005, I, c. 1014 ss., con note di A. PALMIERI, c. 1014 ss.; di A. PALMIERI e R. PARDOLESI,
L’antitrust per il benessere (e il risarcimento del danno) dei consumatori, c. 1015 ss.; di E.
SCODITTI, L’antitrust dalla parte del consumatore, c. 1018 ss.. Secondo G. ALPA, invece,
«con l’introduzione della disciplina della concorrenza «e del mercato», si investono necessariamente
in modo diretto gli interessi dei consumatori: non quindi sub specie di tutela
della concorrenza, ma sub specie di tutela del mercato», sicché « l’impressione che si ricava,
a una lettura complessiva del testo, è che l’interesse dei consumatori sia preso in considerazione
solo come punto di riferimento, come metro di valutazione dell’anticoncorrenzialit
à di un atto o di una pratica, cioè come mezzo, piuttosto che come fine»; v. G. ALPA,
Introduzione al diritto dei consumatori, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 74-75.
(4) Cfr. Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni tra imprese, in
G.U.U.E. C 31, del 5 febbraio 2004, p. 5 ss.
Pertanto, occorre non solo giudicare (ex novo) la conformità con le regole
comunitarie degli “strumenti” recentemente offerti dal legislatore italiano
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito: Agcm),
tenendo in debito conto la loro possibile operatività nei confronti di un più
ampio numero di interessati (comprensivo anche dei consumatori finali), ma
anche (ri)valutare l’adeguatezza dei “vecchi” rimedi in funzione della più
ampia ed eterogenea schiera di soggetti sui quali – come oggi si ritiene – le
alterazioni patologiche della libera concorrenza possono incidere in senso
sfavorevole.
Risulta intuitivo, a tal punto, che il fondamentale principio della tutela
piena ed effettiva delle posizioni giuridiche soggettive conferite dal diritto
comunitario assume, nei casi che ci interessano, una struttura elastica, che
consente di adattare di volta in volta il giudizio di conformità agli standards
europei al particolare status dei soggetti di cui si esige la protezione; infatti,
l’ampiezza del numero dei destinatari del diritto della concorrenza e, soprattutto,
la sua varietà (imprenditori concorrenti, intermediari, utenti finali,
ecc.) escludono l’individuazione di un unico modello paradigmatico di tutela
ed inducono a relativizzare la portata del principio comunitario di effettivit
à. In questo senso, il compito dell’interprete odierno appare più faticoso
di quello di ieri.
Infine, le esigenze crescenti di semplificazione delle procedure applicative
delle norme comunitarie di concorrenza rivolte agli Stati hanno
indotto la Comunità ad esigere un maggiore coinvolgimento di quest’ultimi
nel procedimento di controllo sugli aiuti di Stato; nel far ciò, si sta riducendo
– seppur in misura ancora minima – la competenza esclusiva della
Commissione europea, grazie alla progressiva adozione di regolamenti di
esenzione per determinate categorie di aiuti, per i quali viene meno il controllo
preventivo. In tal modo, si estendono pure i compiti dei giudici
nazionali, i quali, nella materia in questione, non sono più confinati nello
stretto ambito dell’art. 88, par. 3, CE, ma riguardano anche le norme direttamente
applicabili contenute nei regolamenti di esenzione adottati dalla
Commissione.
2. Le evoluzioni del public antitrust enforcement
Il sistema di applicazione delle norme comunitarie di concorrenza da
parte delle autorità pubbliche è stato oggetto, in questi anni, di importanti
riforme tanto a livello comunitario, in particolar modo con l’entrata a regime
del reg. CE 1/2003 (di seguito: il regolamento) (5), quanto nazionale, con le
modifiche apportate alla legge 287/90 relative all’allargamento di competen-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23
(5) Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente
l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del trattato, in G.U.C.E.
L 1 del 4 gennaio 2003, p. 1 ss., entrato in vigore il 1 maggio 2004.
ze dell’Agcm (6) ed all’attribuzione dei nuovi poteri che verranno di seguito
illustrati. In particolare, il nuovo sistema di eccezione legale e l’introduzione
di precisi obblighi di collaborazione all’interno dell’European
Competition Network (di seguito: ECN) hanno stimolato un notevole dibattito,
cui è possibile solo rinviare (7) e che ci consente, tuttavia, di tralasciare
in questa sede aspetti pur rilevanti dell’attuale public antitrust enforcement
europeo.
Le considerazioni che seguono, quindi, muovono da presupposti ben
noti, in primis l’obbligo per le autorità nazionali di concorrenza, introdotto
dall’art. 3 del regolamento, di applicare «anche» le norme contenute negli
artt. 81 e 82 CE nelle ipotesi in cui esse utilizzino la propria legislazione
interna per le fattispecie di rilevanza comunitaria; ciò non vale nelle sole ipotesi
in cui le norme nazionali perseguano un obiettivo differente rispetto a
quello degli artt. 81 e 82 CE.
In secondo luogo, al fine di una più efficace applicazione delle norme
comunitarie di concorrenza, l’art. 5 del regolamento attribuisce alle autorità
nazionali il potere, esercitabile d’ufficio o su denuncia, di ordinare la cessazione
di un’infrazione, di disporre misure cautelari, di accettare impegni e di
comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista
dal diritto nazionale.
Infine, nel valutare le fattispecie rilevanti per il diritto comunitario della
concorrenza, le autorità nazionali sono tenute ad una costante collaborazione
con la Commissione europea, specie sotto forma di scambi d’informazioni (8).
24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(6) Si vedano in particolare le nuove competenze in materia bancaria previste dai
commi 5 e 5-bis, introdotti dall’art. 2 del decreto legislativo 29 dicembre 2006, n. 303, intitolato
“Coordinamento con la legge 28 dicembre 2005, n. 262, del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia (T.U.B.) e del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione
finanziaria (T.U.F.); in G.U. n. 7 del 10 gennaio 2007.
(7) V., tra i commenti più recenti, per limitarci alla dottrina italiana, R. NAZZINI,
Procedure comunitarie e nazionali in materia antitrust. Sui profili processuali del rapporto
tra diritto comunitario e diritto interno, in Dir. Un. Eur., 2006, p. 97 ss.; G. M. ROBERTI E
M. ORLANDI, Le procedure applicative delle regole di concorrenza, in A. TIZZANO (a cura
di), Il diritto privato dell’Unione Europea, II ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2006,
Tomo II, p. 1589 ss.; P. CASSINIS, I nuovi poteri dell’Autorità nell’ambito della dialettica tra
public e private enforcement, in Contr. imp./Europa, 2006, p. 719 ss.; G. ROMANO, La messa
in opera delle norme antitrust, in A. FRIGNANI E R. PARDOLESI (a cura di), La concorrenza,
G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 299 ss.; M. ANTONIOLI, Concorrenza, in M. P. CHITI
e G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte speciale, II ed.,
Giuffrè Editore, Milano, 2007, Tomo II, p. 847 ss.; L. F. PACE, Diritto europeo della concorrenza.
Divieti antitrust, controllo delle concentrazioni e procedimenti applicativi, Padova,
CEDAM, 2007; A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di),
L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza – Commentario al regolamento
(CE) n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002 , Giuffrè Editore, Milano, 2007.
(8) V. art. 11 del regolamento, il cui primo paragrafo dispone che «la Commissione e
le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri applicano le regole comunitarie in
stretta collaborazione».
Le modifiche apportate dal legislatore italiano alla legge 287/90, in particolare
quelle introdotte con la conversione in legge dell’art. 14, comma 1,
del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (9), quindi, s’innestano nel solco tracciato dal
regolamento, che mira ad un potenziamento degli strumenti istruttori e sanzionatori
attribuiti alle autorità nazionali di concorrenza; ed è alla luce di esso,
nonché della giurisprudenza comunitaria che lo riguarda, che esse vanno più
attentamente valutate.
3. Le misure cautelari nei procedimenti antitrust interni
Con la conversione in legge del decreto cd. Bersani, il legislatore nazionale
ha espressamente attribuito all’Agcm il potere/dovere di adottare misure
cautelari; l’art. 14-bis, primo comma, della legge 287/90 dispone che «nei
casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza,
l’Autorità può, d’ufficio, ove constati ad un sommario esame la
sussistenza di un’infrazione, deliberare l’adozione di misure cautelari» (10).
Tale previsione riproduce sostanzialmente sul piano nazionale quanto disposto
per la Commissione dall’art. 8 del regolamento, salvo poi discostarsene
in modo palese al secondo comma, ove si prescrive che «le decisioni adottate
ai sensi del comma 1 non possono essere in ogni caso rinnovate o prorogate
» (11).
L’attribuzione del potere cautelare all’Agcm risponde ad un’esigenza
fondamentale di tutela delle posizioni giuridiche soggettive conferite dagli
artt. 81 e 82 CE e di garanzia del loro effetto utile, già denunciata in precedenza
(12); tuttavia, non può nemmeno tacersi come l’attuale art. 14-bis
riproduca, almeno per le fattispecie di rilevanza comunitaria, norme imme-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25
(9) V. legge 4 agosto 2006, n. 248, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-
legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale,
per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia
di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”, in G.U. n. 186, dell’11 agosto 2006, S.O.
n. 183.
(10) Con riguardo al campo d’applicazione delle misure in questione, si tenga presente
che esse si applicano unicamente alle ipotesi di intese o d’abuso di posizione dominante, poich
é l’art. 14-bis è inserito nel titolo II, capo II, della l. 287/90; mentre, per le concentrazioni
di dimensione nazionale, l’Agcm può “solo” ordinare alle imprese di sospendere l’operazione
ex art. 17 l. 287/90.
(11) L’art. 8, secondo paragrafo, del regolamento, invece, prevede che « le decisioni
adottate ai sensi del paragrafo 1 sono applicabili per un determinato periodo di tempo e possono,
se necessario ed opportuno, essere rinnovate ». V. M. RICCHIARI, Commento all’art. 8,
in A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di), L’applicazione del diritto
comunitario della concorrenza, cit., p. 112 ss.
(12) Si vedano le nostre precedenti Osservazioni, cit., p. 87 ss., e la bibliografia ivi indicata,
cui adde H. GONZALEZ DURANTEZ, E. NAVARRO VARONA, Interim Measures in
Competition Cases Before the European Commission and Courts, in Eur. Comp. L. Rev.,
2002, p. 512 ss.; A. NORDSJO, Regulation 1/2003: Power of the Commission to Adopt Interim
Measures, in Eur. Comp. L. Rev., 2006, p. 299 ss.; F. CASTILLO DE LA TORRE, Interim measures
in Community Courts: Recent Trends, in Comm. Market Law Rev., 2007, p. 273 ss.
diatamente applicabili già presenti nel regolamento, il cui art. 5 – come anticipato
– conferisce alle autorità nazionali il potere di adottare misure cautelari
(13). Secondo quanto dichiarato dal Tar del Lazio nel caso Merck (14),
«i soggetti destinatari della norma sono le autorità garanti nazionali, e non
gli Stati membri, i quali non possono modificare la titolarità delle attribuzioni,
concesse direttamente dall’art. 5, alle ANC», cosicché «la non necessità
di un intervento del legislatore nazionale è, da ultimo, confermata dal principio
del primato del diritto comunitario…per cui l’art. 5 è direttamente
applicabile e cogente alla scadenza del termine del 1° maggio 2004, anche in
deroga al diritto nazionale previgente» (15). Di conseguenza, la portata innovativa
della modifica introdotta alla legge 287/90 va limitata alle sole fattispecie
di dimensione nazionale.
Quanto ai presupposti per l’esercizio del potere cautelare da parte
dell’Agcm, essi consistono nei tradizionali requisiti del fumus boni iuris e
del periculum in mora (16).
Sotto il primo profilo, l’adozione della misura cautelare segue l’accertamento
prima facie della possibile alterazione della concorrenza da parte dei
comportamenti oggetto d’indagine; detta cognizione, quantunque sommaria,
dovrebbe in ogni caso tenere conto di elementi tali da connotare l’esistenza
della violazione in termini probabilistici, non essendo sufficiente la semplice
presunzione richiesta per l’apertura di un procedimento istruttorio ex art.
26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(13) È noto che la giurisprudenza comunitaria si è da tempo espressa non solo sull’inopportunit
à, ma anzi sulla illegittimità comunitaria del comportamento dello Stato membro
che riproduca in un testo di legge interna il contenuto di un regolamento comunitario.
La diretta applicabilità dei regolamenti, come prescritta dall’art. 249 del Trattato CE, comporta
infatti che i regolamenti non hanno bisogno di alcun atto di recezione o di attuazione
da parte degli Stati membri: anzi, qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo
interno deve considerarsi illegittima, poiché potrebbe “nascondere agli amministrati la
natura comunitaria di una norma giuridica” e “sminuire la competenza della Corte a pronunciarsi
su qualsiasi questione di interpretazione del diritto comunitario”: cfr. per tutte la sentenza
10 ottobre 1973, Variola, causa 34/73, in Racc., p. 981.
(14) Sentenza n. 1713/2006, del 9 novembre 2005, reperibile per esteso sul sito
www.giustizia-amministrativa.it, così come tutte le altre sentenze dei giudici amministrativi
di seguito citate; nonché in Foro it., 2007, III, c. 89, con nota di G. FAELLA, Potere cautelare
in materia antitrust, rifiuto di licenza e certificati complementari di protezione, c. 91
ss.V. anche il provvedimento dell’Agcm n. 14388, in Boll. n. 23, del 27 giugno 2005, specie
§. 160 ss.
(15) Tale pronuncia sorge da un ricorso avverso un provvedimento cautelare dell’Agcm
adottato prima delle modifiche legislative in commento e, quindi, in assenza di un’apposita
previsione di legge nazionale. Sull’art. 5 del regolamento, cfr. F. IPPOLITO, Commento
all’art. 5, in A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di),
L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, cit., p. 65 ss.
(16) Cfr. la Comunicazione dell’Agcm, Applicazione dell’articolo 14 bis della legge 10
ottobre 1990, n. 287, adottata con provv. n. 16218 del 14 dicembre 2006, in Boll. n. 48 del
18 dicembre 2006, p. 83.
14, comma 1, legge 287/90 (17). Diversamente, l’adozione di misure cautelari
diverrebbe automatica e conseguente al solo avvio di un’indagine da
parte dell’Agcm; e ciò non può essere.
Maggiori problemi interpretativi, invece, crea il requisito del periculum
in mora, poiché occorre stabilire l’ambito della nozione di pregiudizio grave
ed irreparabile alla concorrenza, cioè se essa riguardi unicamente l’assetto
del mercato visto in un’ottica pubblicistica o anche l’eventuale lesione degli
interessi privati delle imprese concorrenti e dei consumatori finali.
Sotto tale profilo, la citata pronuncia del Tar del Lazio sul caso Merck
sembra orientata nel primo senso, avendo i giudici amministrativi dichiarato
che il potere cautelare dell’Agcm si distingue da quello del giudice ordinario,
«laddove quest’ultimo si pronuncia soltanto su ricorso di parte (in genere,
imprese concorrenti) per la tutela di un interesse privato, mentre
l’Autorità agisce di sua iniziativa per tutelare l’interesse pubblico primario
di rilevanza comunitaria e costituzionale, alla salvaguardia di un mercato
concorrenziale». Ne deriva che l’adozione di provvedimenti cautelari da
parte dell’Agcm sarebbe giustificata unicamente dall’esistenza di un pregiudizio
grave ed irreparabile ad un interesse pubblico.
Tali conclusioni trovano sostegno in una parte della dottrina interna, la
quale fa anche leva sulle previsioni dell’art. 8 del regolamento e dell’art. 14-
bis della legge 287/90, secondo cui la Commissione e l’Agcm possono adottare
misure cautelari d’ufficio; tali norme vengono quindi assunte ad indice
dell’irrilevanza degli interessi privati rispetto alla nozione in esame di pregiudizio
alla concorrenza (18). Nondimeno, una simile interpretazione sembrerebbe
sostenuta dalla stessa Commissione, la quale, con riferimento ai propri
poteri cautelari, dichiara che «dall’articolo 8 del regolamento 1/2003 risulta
chiaramente che gli autori di una denuncia ai sensi dell’articolo 7, paragrafo
2, del regolamento stesso non possono chiedere misure cautelari» (19).
Tuttavia, ritengo che una corretta analisi dei poteri in esame richiede
alcune distinzioni. In primo luogo, la questione delle modalità applicative
delle misure cautelari non va necessariamente identificata con quella relativa
alla natura degli interessi tutelati; in secondo luogo, bisogna distinguere
tra i poteri cautelari della Commissione e quelli delle autorità nazionali di
concorrenza.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27
(17) In tal senso, v. M. SIRAGUSA, E. GUERRI, G. FAELLA, Gli impegni e le misure cautelari,
atti del Convegno “Recenti innovazioni in materia di sanzioni antitrust”, Fondazione CESIFIN,
2 marzo 2007, pubblicati sul sito www.giustamm.it; nonché P. CASSINIS, op. cit., p. 722.
(18) Cfr. M. SIRAGUSA, E. GUERRI, G. FAELLA, cit.; M. RICCHIARI, cit., in particolare p.
115 ss.
(19) Cfr. Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce
presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del trattato CE, in G.U.U.E. C
101, del 27 aprile 2004, p. 65 ss., par. 80. V. però la nota 70, dove si afferma che « a seconda
del caso, le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri possono essere ugualmente
in una posizione idonea per adottare misure cautelari ».
In relazione al primo aspetto, infatti, l’adozione di provvedimenti cautelari
solo d’ufficio non esclude che l’autorità procedente prenda in considerazione
anche gli interessi privati, nonostante la tutela dell’interesse pubblico
rimanga assorbente.
In riferimento al secondo, la previsione dell’art. 14-bis, nella parte in cui
dispone che l’Agcm possa adottare misure cautelari d’ufficio, deve essere
coordinata, a pena di conflitto con le disposizioni comunitarie, con le norme
direttamente applicabili dell’articolo 5 del regolamento, in base al quale le
autorità nazionali possono farlo «agendo d’ufficio o in seguito a denuncia»
(20). Considerata la differenza di formulazione testuale e di destinatari (nel
caso dell’art. 8, la Commissione; nel caso dell’art. 5, le autorità nazionali),
potrebbe sostenersi che la norma di riferimento per il potere delle autorità
nazionali di adottare misure cautelari in fattispecie di rilievo comunitario è
in realtà la seconda, e non la prima, peraltro senza la necessità di tradurre
detta regola (e dunque detto potere) in una disposizione interna. La differenza
rispetto alle ipotesi in cui è la Commissione ad adottare misure cautelari
potrebbe spiegarsi in ragione dell’opinione oramai consolidata, per quanto
non totalmente convincente, secondo cui la Commissione opera a tutela dell
’interesse pubblico allo sviluppo di un mercato concorrenziale, con la facolt
à, tra l’altro, di operare una selezione dei casi da trattare in base alla presenza
o meno di un “interesse comunitario” (21). Ma la medesima ratio non
viene in rilievo per le autorità nazionali, per cui l’intervento su istanza di
parte (e dunque a tutela dei diritti dei privati) appare, in questo caso, del tutto
legittimo.
Ad ogni modo, anche l’interpretazione fatta propria dalla stessa
Commissione, per cui l’art. 8 del regolamento avrebbe limitato ai casi di
tutela dell’interesse pubblico la facoltà di adottare misure cautelari, va sottoposta
ad un vaglio critico. Difatti, focalizzando l’attenzione sul dato letterale
dell’art. 8 (e dunque dell’art. 14-bis della legge) può evidenziarsi come il
paragrafo 1 non imponga di adottare provvedimenti cautelari solo d’ufficio,
ma prescrive che la Commissione può deliberarli in tal modo. Pertanto,
potrebbe ritenersi che la disposizione in esame abbia un intento ampliativo,
in quanto concede alla Commissione e all’Agcm la possibilità di prendere
provvedimenti cautelari pur in assenza di una richiesta di parte. E non può
non evidenziarsi, a questo proposito, che il Preambolo del regolamento, laddove
si occupa di offrire una motivazione alla codificazione del potere della
28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(20) Cfr. L. ARNAUDO, Le misure cautelari nel diritto antitrust comunitario e nazionale,
in Riv. it. dir. pub. com., 2006, p. 983 ss., secondo cui « nel rivolgersi alle autorità nazionali,
il regolamento faccia riferimento a un’azione «d’ufficio o in seguito a denuncia», quasi
a tradire, si ritiene, una differente valutazione di priorità degli interessi coinvolti nell’intervento
antitrust a seconda dei livelli comunitario o nazionale».
(21) Per tutte, v. le sentenze del T.P.I. 18 settembre 1992, causa T-24/90, Automec c.
Commissione, in Racc., 1992, p. II-2223, e 24 gennaio 1994, BENIM, causa T-114/92, ivi,
1994, p. II-147.
Commissione di adottare misure cautelari, si limita a far riferimento alla
necessità di «prevedere espressamente il potere, riconosciuto alla
Commissione dalla Corte di giustizia, di adottare decisioni che dispongano
misure cautelari» (Considerando n. 11): potrebbe quindi ritenersi che l’intenzione
del Consiglio sia stata quella di riferirsi alla giurisprudenza della
Corte, la quale, come visto, non distingue tra poteri d’ufficio o su istanza di
parte. Appare dunque difficile sostenere che, in un contesto di dichiarato
“consolidamento” della prassi e della giurisprudenza precedente, si sia inteso
intervenire con un’innovazione così rilevante.
Ma, in realtà, la limitazione della nozione di pregiudizio, rilevante ai fini
cautelari, al solo interesse pubblico alla libera concorrenza sembra muovere
da una errata concezione degli interessi alla cui tutela il public antitrust
enforcement è teleologicamente orientato e per i quali le relative funzioni
pubbliche sono conferite. L’ordinamento comunitario, infatti, lungi dall’effettuare
una netta separazione tra private e public enforcement sulla base
degli interessi protetti, ne sostiene, invece, il carattere (sempre più) complementare
(22); così, come attraverso la tutela del più ampio numero possibile
di interessi privati alla libera concorrenza può realizzarsi quello pubblico alla
conservazione di un mercato non falsato, allo stesso modo, mediante la salvaguardia
della concorrenza intesa come bene pubblico, si proteggono gli
interessi dei singoli. Valgono a tal proposito le considerazioni della
Commissione europea, secondo cui «entrambe le forme di applicazione
fanno parte di un sistema di applicazione comune e perseguono lo stesso
obiettivo: impedire le pratiche anticoncorrenziali vietate dalla normativa
antitrust e tutelare le imprese e i consumatori da tali pratiche e dai danni che
ne possono conseguire» (23).
D’altra parte, già nella celeberrima ordinanza Camera Care la Corte di
giustizia aveva inequivocabilmente dichiarato che l’adozione di misure cautelari
può essere necessaria «quando le pratiche di determinate imprese in
materia di concorrenza ledano gli interessi di Stati membri, danneggino altre
imprese, o mettano in causa in modo inaccettabile il regime comunitario
della concorrenza»; pertanto, aveva proseguito la Corte, detti provvedimenti
possono essere adottati in casi d’urgenza «per far fronte ad una situazione
tal da causare un danno grave e irreparabile alla parte che li richiede, o intollerabile
per l’interesse pubblico» (24). Ciò premesso, l’esclusione dall’ambi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29
(22) V. Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce
presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del trattato CE, cit., § 1.
(23) Cfr. Libro Verde della Commissione Europea, Azioni di risarcimento del danno
per violazione delle norme antitrust, del 19 dicembre 2005, par. 1.1, in G.U.U.E. C 49, del
28 febbraio 2006, p. 33 ss.
(24) Ordinanza della Corte, del 7 gennaio 1980, causa 792/79 R, in Racc. 1980, p. 119
ss., § 14 e 19. Cfr. anche la sentenza del T.P.I. del 24 gennaio 1992, La Cinq SA c.
Commissione, Causa T-44/90, ivi, 1992, p. II-1, § 28, e della Corte del 26 ottobre 2001, IMS
Health c. Commissione, ivi, 2001, p. II-3193.
to della nozione di pregiudizio grave ed irreparabile alla concorrenza della
lesione degli interessi privati potrebbe essere sospettata di illegittimità
comunitaria. Tanto più ove il pregiudizio arrecato ai privati dovesse rivelarsi
di estrema diffusione, come nel caso dei contratti di massa conclusi con i
consumatori finali.
Pertanto, a mio avviso, l’Agcm dovrebbe avere il potere di agire in via
cautelare ex art. 14-bis, legge 287/90, anche nei casi in cui il pregiudizio
grave ed irreparabile riguardi gli interessi dei privati alla libera concorrenza;
e la prassi anche recente non appare smentire questa conclusione (25). Né ci
sembra che il requisito dell’irreparabilità possa essere in ogni caso escluso
dalla semplice prospettiva di un risarcimento del danno antitrust, tanto più
in considerazione delle difficoltà che – come si dirà – ancora rischiano di
disincentivare i privati (specie se consumatori finali) ad agire in tal senso.
In ultimo, in merito al procedimento per l’adozione delle misure cautelari
nazionali, la relativa comunicazione dell’Agcm indica due distinte ipotesi:
una procedura ordinaria, che prevede il preventivo contraddittorio con
le parti interessate, ed un’altra, utilizzabile nei casi di estrema gravità ed
urgenza, che consente all’autorità di adottare la misura inaudita altera parte
e di differire il confronto su di essa (26). Quest’ultima procedura sembra in
30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(25) Cfr. provv. 15 giugno 2006, n. 14388 (A364), Merck-Principi attivi, cit., § 155-
157; provv. 18 settembre 2006, n. 15908 (I675), ABI: modifica unilaterale delle condizioni
contrattuali, in Boll. 35-36/2006, § 27; provv. 27 settembre 2006, n. 15938 (I678),
Distribuzione di farmaci senza obbligo di ricetta alle parafarmacie, in Boll. 37/2006, § 26.
(26) Quanto al procedimento per l’adozione di misure cautelari, si veda il provvedimento
dell’Agcm n. 16218, con il quale è stata adottata una comunicazione relativa all’applicazione
dell’art. 14 bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287.
Tale comunicazione distingue le ipotesi ordinarie da quelle di estrema gravità ed urgenza.
Nel primo caso, si prevede che « l’Autorità, qualora ritenga prima facie sussistenti i presupposti
per l’adozione di misure cautelari, avvia il procedimento, anche contestualmente
all’avvio dell’istruttoria, ed indica alle parti un termine, non inferiore a sette giorni, entro il
quale esse possono presentare memorie scritte e documenti. Le parti possono altresì chiedere
di essere sentite dinanzi al Collegio. A tal fine il responsabile del procedimento fissa alle
parti un termine entro il quale esse possono presentare detta richiesta. Laddove tale richiesta
sia presentata, il Collegio fissa la data dell’audizione, che è comunicata alle parti interessate.
Valutati gli elementi acquisiti, l’Autorità delibera in merito alle misure cautelari e
delibera altresì che le parti interessate inviino un’informativa circa le iniziative adottate per
conformarsi alla delibera».
Nel secondo, che «nel caso di estrema gravità ed urgenza, tale da rendere indifferibile
l’intervento, l’Autorità adotta, anche contestualmente all’avvio dell’istruttoria, misure cautelari
provvisorie. Entro il termine di 7 giorni dalla notifica del provvedimento con cui è
adottata la misura cautelare provvisoria, le parti interessate possono presentare memorie
scritte e documenti e chiedere di essere sentite dinanzi al Collegio. Valutate le argomentazioni
delle parti, l’Autorità conferma le misure cautelari e delibera altresì che le parti interessate
inviino un’informativa circa le iniziative adottate per conformarsi alla misura».
Inoltre, in base all’art. 14-bis, terzo comma, l. 287/90, «l’Autorità, quando le imprese
non adempiano a una decisione che dispone misure cautelari, può infliggere sanzioni amministrative
pecuniarie fino al 3 per cento del fatturato».
contrasto con i requisiti minimi di tutela dei privati imposti dal diritto comunitario,
tenuto conto che, con riferimento ai provvedimenti adottati dalla
Commissione in materia di politica di concorrenza, nel regolamento è prescritta
l’audizione delle imprese destinatarie «prima di adottare qualsiasi
decisione» (27) e che tale regola appare come una manifestazione particolare
del più generale principio comunitario di buona amministrazione.
Quindi, almeno in relazione alle fattispecie di rilevanza comunitaria, il
provvedimento dell’Agcm che adotta la comunicazione in commento può
ritenersi illegittimo nella parte de qua e, qualora tali previsioni venissero
consolidate dalla prassi, si configurerebbe un palese contrasto tra l’ordinamento
comunitario e quello interno, anche in considerazione della disparità
di trattamento che una medesima fattispecie comunitaria potrebbe subire in
ragione dell’autorità procedente all’interno dell’ECN (Commissione o
Agcm). Ma anche sotto il profilo della legittimità interna, possono nutrirsi
dubbi sull’adottabilità di misure cautelari inaudita altera parte. Infatti, l’art.
14-bis tace al riguardo, cosicché dovrebbero trovare applicazione, in assenza
di disposizioni specifiche, le regole generali sul procedimento amministrativo;
ed, inoltre, nemmeno può essere sottovalutato il potenziale conflitto
delle regole in esame con la libertà d’impresa sancita dall’art. 41 Cost., se
si tiene conto dell’impatto che le misure cautelari dell’Agcm, a contenuto
atipico, possono produrre sulle scelte imprenditoriali, per cui andrebbe quantomeno
garantita in ogni caso la partecipazione preventiva dei soggetti destinatari
dei provvedimenti in oggetto.
4. Gli impegni
L’ulteriore novità, introdotta nella disciplina nazionale di concorrenza
all’art. 14-ter, è rappresentata dall’istituto dei cd. impegni, ovvero dalla possibilit
à per le imprese di assumere obblighi idonei ad attenuare i profili di
anticoncorrenzialità delle fattispecie per le quali è stata avviata un’istruttoria
da parte dell’Agcm; il vantaggio che esse ne ricavano, in caso di accoglimento
da parte dell’Autorità, consiste nella chiusura del procedimento a loro
carico senza l’accertamento dell’infrazione (28), evitando anche il conse-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31
(27) Sancisce l’art. 27, par. 1, del regolamento : «Prima di adottare qualsiasi decisione
prevista dagli articoli 7, 8, 23 e 24, paragrafo 2, la Commissione dà modo alle imprese e
associazioni di imprese oggetto del procedimento avviato dalla Commissione di essere sentite
relativamente agli addebiti su cui essa si basa. La Commissione basa le sue decisioni
solo sugli addebiti in merito ai quali le parti interessate sono state poste in condizione di
essere sentite. I ricorrenti sono strettamente associati al procedimento». L’art. 30, par. 1, del
regolamento prevede poi la pubblicazione delle decisioni della Commissione, adottate sulla
base degli artt. da 7 a 10 del medesimo regolamento.
(28) Infatti, l’art. 14-ter, primo paragrafo, l. 287/90 stabilisce che: «Entro tre mesi
dalla notifica dell’apertura di un’istruttoria per l’accertamento della violazione degli articoli
2 o 3 della presente legge o degli articoli 81 o 82 del Trattato CE, le imprese possono presentare
impegni tali da far venire meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria.
guente svantaggio probatorio che esse diversamente subirebbero nelle eventuali
azioni di danno attivate dai terzi (29). Ad ogni modo, il provvedimento
di chiusura del procedimento antitrust è pur sempre vincolante per le imprese,
posto che, in caso d’inottemperanza agli impegni resi obbligatori, è prevista
una sanzione amministrativa pecuniaria e la riapertura del procedimento
originario (30).
Anche ad una prima lettura delle disposizioni in commento, quindi,
emerge subito la loro chiara ispirazione europea, non solo per l’espresso rinvio
ai limiti posti dall’ordinamento comunitario, ma anche per la sostanziale
riproduzione delle norme contenute all’art. 9 del regolamento, in base al
quale «qualora intenda adottare una decisione volta a far cessare un’infrazione
e le imprese interessate propongano degli impegni tali da rispondere alle
preoccupazioni espresse loro dalla Commissione nella sua valutazione preliminare,
la Commissione può, mediante decisione, rendere detti impegni
obbligatori per le imprese»; tali decisioni, secondo quanto chiarito dal tredicesimo
considerando del regolamento, «dovrebbero accertare che l’intervento
della Commissione non è più giustificato, senza giungere alla conclusione
dell’eventuale sussistere o perdurare di un’infrazione».
Le corrispondenze tra la disciplina comunitaria e quella interna della
materia si estendono, poi, anche alle ipotesi di riapertura del procedimento
(31) ed alla commisurazione della sanzione in caso d’inottemperanza (32);
ciò nonostante, però, le decisioni della Commissione, che accettano gli impegni
proposti dalle imprese e li rendono obbligatori, non vincolano le autorit
à ed i giudici nazionali, i quali possono pur sempre avviare un autonomo
procedimento quando ne sussistano i presupposti previsti dallo stesso ordinamento
comunitario (33).
32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’Autorità, valutata l’idoneità di tali impegni, può nei limiti previsti dall’ordinamento
comunitario, renderli obbligatori per le imprese e chiudere il procedimento senza accertare
l’infrazione». V. M. SIRAGUSA, E. GUERRI, G. FAELLA, cit.; nonché P. CASSINIS, cit., da p. 722
ss. Cfr. anche provv. dell’Agcm n. 16709 del 18 aprile 2007, Accordi interbancari “ABICOGEBAN
”, in Boll. n. 14 del 24 aprile 2007.
(29) Cfr. anche S. AMADEO, Commento all’art. 9, in A. ADINOLFI, L. DANIELE, B.
NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di), L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza,
cit., p. 124 .
(30) In base al secondo paragrafo dell’art. 14-ter, «l’Autorità in caso di mancato rispetto
degli impegni resi obbligatori ai sensi del comma 1 può irrogare una sanzione amministrativa
pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato». Il terzo paragrafo, poi, prevede che
«l’Autorità può d’ufficio riaprire il procedimento se:
a) si modifica la situazione di fatto rispetto ad un elemento su cui si fonda la decisione;
b) le imprese interessate contravvengono agli impegni assunti;
c) la decisione si fonda su informazioni trasmesse dalle parti che sono incomplete, inesatte
o fuorvianti ».
(31) V. art. 9, par. 2, del regolamento.
(32) V. art. 23, par. 2, lett. c) del regolamento.
(33) Cfr. il tredicesimo considerando del regolamento.
Tanto premesso, possono estendersi anche all’art. 14-ter i dubbi di legittimit
à circa le disposizioni interne meramente riproduttive di quelle comunitarie,
considerato che il più volte citato art. 5 del regolamento, immediatamente
applicabile, già conferisce alle autorità di concorrenza nazionali il
potere di accettare impegni per le fattispecie di rilevanza comunitaria; così
come possono sollevarsi perplessità sull’articolo in commento, nella parte in
cui dispone che l’Agcm «può d’ufficio» riaprire il procedimento nelle ipotesi
prima specificate, senza far riferimento all’iniziativa dei privati interessati.
In tal caso, non solo valgono tutte le considerazioni già espresse in merito
alla natura degli interessi tutelati dal public antitrust enforcement, ma
appare anche evidente il contrasto con le corrispondenti disposizioni comunitarie.
Infatti, l’art. 5 del regolamento attribuisce espressamente alle autorit
à nazionali la possibilità d’esercitare i loro poteri «agendo d’ufficio o in
seguito a denuncia», ed anche lo stesso art. 9, secondo paragrafo, prevede
che la Commissione, nell’ipotesi in cui abbia in precedenza reso obbligatori
determinati impegni, può nei casi tassativamente previsti riaprire il procedimento
«su domanda o d’ufficio».
Se poi si procede ad un raffronto più dettagliato tra i poteri dell’Agcm in
questione e quelli analoghi spettanti alla Commissione, risulta che quest’ultima
può anche adottare le relative decisioni «per un periodo di tempo determinato
» (34) e, nel caso d’inottemperanza, può anche irrogare alle imprese
o alle associazioni d’imprese penalità di mora ex art. 24, paragrafo 1, lett. c),
del regolamento; inoltre, la possibilità di presentare impegni alla
Commissione non è sottoposta ad alcun termine, diversamente da quanto
prescritto dall’art. 14-ter, che impone alle imprese di procedere entro tre
mesi dalla notifica dell’apertura del procedimento istruttorio.
Con riguardo, invece, ai limiti che conformano l’esercizio del potere
dell’Agcm di accettare impegni, l’art. 14-ter opera un generico rinvio all’ordinamento
comunitario, per cui spetta all’interprete ricostruirli anche alla
luce delle singole fattispecie che si presentano. In via analogica, tuttavia, un
limite sempre valido dovrebbe essere individuato con riferimento al tredicesimo
considerando del regolamento, secondo cui «le decisioni concernenti
gli impegni non sono opportune nei casi in cui la Commissione intenda comminare
un’ammenda» (35); un tale limite imperativo, quindi, andrebbe esteso
anche alle autorità nazionali, almeno quando decidono in merito a fattispecie
di rilievo comunitario.
Le modalità applicative dell’art. 14-ter sono state poi precisate, con
maggior dettaglio, nell’apposita comunicazione dell’Agcm relativa tanto alle
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33
(34) Cfr. art. 9, par. 1, del regolamento.
(35) Sui criteri di applicazione e di calcolo delle sanzioni pecuniarie, v. gli Orientamenti
per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’articolo 23, paragrafo 2, lettera a),
del regolamento (CE) n. 1/2003, in G.U.U.E. C 210, del 1 settembre 2006, p. 2 ss. In proposito,
v. F. AMATO, I nuovi orientamenti della Commissione in materia di ammenda per violazione
del diritto di concorrenza, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 239 ss.
ipotesi di intese e/o abusi di dimensione nazionale quanto a quelle di rilevanza
comunitaria (36). In essa, l’Autorità ha previsto la possibilità per le imprese
di presentare una versione provvisoria degli impegni al fine di un dialogo
preventivo con le competenti Direzioni istruttorie, utile alla formulazione
definitiva degli impegni da assumere entro i termini di legge; inoltre, si prevede
la loro pubblicazione sul sito internet per consentire ai terzi di formulare
osservazioni ed instaurare così un contraddittorio procedimentale in
merito (37), conformemente a quanto previsto per le decisioni della Commissione
(38).
5. Il programma nazionale di clemenza
Tra le recenti innovazioni apportate alla disciplina interna della concorrenza
rientra anche la regolamentazione, modellata sull’esempio europeo,
del fenomeno del pentitismo antitrust, ovvero della spontanea collaborazione
con l’Agcm delle imprese colluse al fine di svelare i cartelli segreti.
Infatti, il nuovo comma 2-bis dell’art. 15, legge 287/90 (39), prevede che
«l’Autorità, in conformità all’ordinamento comunitario, definisce con proprio
provvedimento generale i casi in cui, in virtù della qualificata collaborazione
prestata dalle imprese nell’accertamento di infrazioni alle regole di
concorrenza, la sanzione amministrativa pecuniaria può essere non applicata
ovvero ridotta nelle fattispecie previste dal diritto comunitario».
L’esistenza di una “copertura” legislativa al programma di clemenza
interno appare una scelta sicuramente felice, coerente con il principio di
legalità dell’azione amministrativa, tenuto conto che all’esito della partecipazione
collaborativa delle imprese al public antitrust enforcement, ed in
considerazione del suo valore probatorio, può anche giungersi alla non applicazione
della sanzione amministrativa pur in presenza di una violazione
(accertata per ammissione) delle norme comunitarie e nazionali di concorrenza;
diversamente, qualora per tali casi non vi fosse stata un’apposita previsione
di legge, la concessione di un’immunità da parte dell’Agcm sarebbe
andata ben al di là del normale esercizio della discrezionalità amministrativa,
integrando, invece, un’ipotesi non prevista dall’ordinamento interno, né
34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(36) Comunicazione sulle procedure di applicazione dell’art. 14 ter della legge n.
287/90, adottata con provv. n. 16015 del 12 ottobre 2006, in Boll. n. 39 del 16 ottobre 2006.
(37) Ad es., v. provv. n. 16909, relativo al procedimento n. A382, Autostrade/Carta
prepagata Viacard, pubblicata sul sito internet www.agcm.it
(38) V. art. 24, par. 4, del regolamento.
(39) Come modificato dall’art. 11, comma 4, della l. 5 marzo 2001, n. 57, recante
“Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati” e dall’articolo 14, comma
2, del decreto-legge 223/2006 convertito, con modifiche, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248
recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223,
recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all’evasione fiscale”.
da quello comunitario, di disapplicazione di norme di legge a contenuto sanzionatorio.
Sotto tale profilo, quindi, il sistema italiano di applicazione decentrata
delle norme comunitarie di concorrenza appare offrire sufficienti garanzie e
certezze tanto alle imprese colluse, che spontaneamente collaborano al fine
di ottenere i benefici, quanto a quelle concorrenti ed agli stessi consumatori
finali, che, al contrario, hanno interesse all’adozione di provvedimenti sanzionatori
deterrenti (40); peraltro, dette garanzie risultano anche maggiori di
quelle previste dall’ordinamento comunitario, tenuto conto che i leniency
programmes della Commissione europea trovano fondamento unicamente
nelle sue stesse comunicazioni (41).
Sulla base del citato articolo 15 legge 287/90, quindi, l’Agcm ha adottato,
con provvedimento n. 16472 del 15 febbraio 2007 (42), una
Comunicazione sulla non imposizione e sulla riduzione delle sanzioni ai
sensi dell’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (di seguito: la
comunicazione).
La ratio del programma nazionale di clemenza va individuata, sulla
scorta dell’analoga comunicazione comunitaria, nell’intento di agevolare i
compiti istruttori spettanti all’Agcm, grazie alla spontanea collaborazione
delle imprese che abbiano partecipato ad un cartello segreto di rilevanza
comunitaria o anche nazionale; e ciò perché – si ritiene correttamente – riveste
un maggiore interesse per il mercato la cessazione tempestiva di comportamenti
anticoncorrenziali, piuttosto che la tardiva imposizione di sanzioni
amministrative a chi li abbia commessi. Come dichiara la stessa
Commissione europea, «il vantaggio che i consumatori e i cittadini traggono
dalla certezza che le intese segrete siano scoperte e sanzionate è primario
rispetto all’interesse d’infliggere sanzioni pecuniarie alle imprese che consentono
alla Commissione di scoprire e vietare pratiche di questo tipo» (43).
Quanto all’ambito di operatività della comunicazione in commento, essa
«si applica alle intese orizzontali segrete, anche nell’ambito di procedure ad
evidenza pubblica, con particolare riguardo a quelle consistenti nella fissazio-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35
(40) La certezza del diritto per le imprese assume, nel campo antitrust, una valenza particolare,
poiché « contribuisce alla promozione dell’innovazione e degli investimenti »; cfr.
considerando 38 del regolamento.
(41) Da ultimo, v. Comunicazione della Commissione relativa all’immunità dalle
ammende o alla riduzione del loro importo nei casi di cartelli tra imprese, in G.U.U.E. C 298,
dell’8 dicembre 2006. Sul tema, v. C. GAUER – M. JASPERS, The European Competition
Network Achievements and challenger – a case in point: leniency, in Comp. Pol. Newsletter,
1-2006, p. 8 ss.; id., ECN Model Leniency Programme – a first step towards a harmonised
leniency policy in the EU, ibidem, 1-2007, p. 35 ss.; R. INCARDONA, The fight against Hardcore
Cartels and the New EU Leniency Notice, in The Eur. Legal Forum, 1-2/2007, p. I-39
ss.; M. CLARICH, I programmi di clemenza nel diritto antitrust, in Dir. Amm. 2007, p. 265 ss.
(42) In Boll. n. 6, del 26 febbraio 2007.
(43) Comunicazione, cit., par. 3.
ne dei prezzi d’acquisto o di vendita, nella limitazione della produzione o
delle vendite e nella ripartizione dei mercati»; inoltre, come già accennato,
essa riguarda tanto i casi di violazione dell’art. 2 legge 287/90 quanto dell’art.
81 CE. Sennonché, già su questo punto può segnalarsi un primo possibile profilo
d’incongruità rispetto al diritto comunitario, individuabile nella limitazione
dell’istituto ai soli casi di intese orizzontali e non anche a quelle verticali;
ed infatti, nonostante la Comunità mostri talvolta un atteggiamento più mite
nei confronti di quest’ultime, l’analoga comunicazione europea coinvolge
ogni ipotesi di cartello segreto, senza alcuna preclusione di sorta (44).
Andando poi ai contenuti della comunicazione dell’Agcm, la prima ipotesi
disciplinata consiste nella non imposizione delle sanzioni a quelle imprese
che, avendo preso parte alla realizzazione di un cartello segreto lesivo
della concorrenza, successivamente contribuiscano in modo determinante al
suo accertamento (45). Più in dettaglio, ai fini dell’immunità, occorre che
l’impresa fornisca, spontaneamente e per prima, prove che non siano già
state acquisite dall’Agcm, che esse siano decisive per l’accertamento dell’illecito
ed, infine, che l’impresa stessa ponga fine ai propri comportamenti
anticoncorrenziali (46), collaborando per tutta la durata del procedimento
istruttorio ed osservando l’obbligo di segretezza.
Nel caso in cui tali condizioni sussistano cumulativamente, l’Agcm
accoglie inizialmente la richiesta con decisione condizionata e poi, concluso
il procedimento, decide definitivamente al riguardo con il provvedimento
finale; se, invece, dopo aver assunto la decisione condizionata, l’autorità
accerti l’insussistenza delle condizioni o l’inottemperanza da parte dell’impresa,
la esclude da ogni beneficio.
Come seconda ipotesi, poi, viene considerata la possibilità di una riduzione
delle sanzioni per le imprese che collaborino con l’autorità, fornendo
evidenze che «rafforzino in misura significativa, in ragione della loro natura
o del livello di dettaglio, l’impianto probatorio di cui l’Autorità già disponga,
contribuendo in misura apprezzabile alla capacità dell’Autorità di fornire
la prova dell’infrazione». In tal caso, qualora l’impresa rispetti anche gli
obblighi di collaborazione predetti, può ottenere uno sconto sulla sanzione di
regola non superiore al 50%, rispetto all’importo derivante dall’applicazione
dei criteri ordinari ex art. 15, co. 1, legge 287/90.
In riferimento a tali previsioni, però, è possibile muovere alcuni rilievi:
innanzitutto, dal tenore letterale della disposizione in esame sembrerebbero
36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(44) Afferma la Commissione che «la presente comunicazione stabilisce le linee generali
per ricompensare la cooperazione all’indagine della Commissione fornita da imprese
che fanno o hanno fatto parte di cartelli segreti aventi ripercussioni negative sulla
Comunità»; Comunicazione, cit., § 1.
(45) V. provv. dell’Agcm n. 16835, Produttori di pannelli truciolati in legno, in Boll.
n. 20 del 5 giugno 2007, § 255 ss.
(46) Secondo la comunicazione nazionale, «l’Autorità, tuttavia, può richiedere o consentire
all’impresa di non sospendere taluni comportamenti, qualora ciò sia ritenuto necessario
al fine di salvaguardare il buon esito dell’accertamento ispettivo»; par. 7, lett. a).
possibili ulteriori sconti di sanzione in casi eccezionali che non vengono specificati;
inoltre, la comunicazione fissa unicamente il limite massimo di riduzione
(individuato nel 50%), con la possibilità per l’Agcm di esercitare un
notevole potere discrezionale entro tale spazio, prendendo in considerazione
i soli criteri generici della tempestività della collaborazione fornita dalle
imprese e del suo valore probatorio.
Ciò non sembra pienamente conforme alla prassi comunitaria, specie se
si considera che la comunicazione della Commissione europea del dicembre
2006 stabilisce, al contrario, una scaletta di possibili percentuali di sconti
sull’ammenda da applicare in base al differente ordine e al grado di collaborazione
prestata dalle imprese “pentite”, nell’intento di fornire un quadro
giuridico di maggiore certezza per le imprese (47).
Considerando, poi, gli aspetti più critici del programma di clemenza
nazionale, essi appaiono i medesimi posti a livello europeo, cioè l’utilizzabilit
à delle informazioni spontaneamente rese dalle imprese, in caso di non
accoglimento delle domande di trattamento favorevole, e la difficile conciliabilit
à di simili programmi con le evoluzioni più recenti del private antitrust
enforcement.
Per quanto riguarda l’utilizzabilità delle risultanze istruttorie provenienti
dalle “confessioni” delle imprese, un primo labile riferimento è nel paragrafo
6 della comunicazione italiana, riguardante i casi di riduzione delle
sanzioni, ove si dichiara che qualora il «materiale probatorio consenta
all’Autorità di stabilire fatti nuovi e aggiuntivi che abbiano una rilevanza
diretta ai fini del computo della sanzione, anche come circostanze aggravanti,
tali fatti non saranno addebitati ai fini della determinazione della sanzione
da applicarsi all’impresa che ha fornito questo materiale» (48).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37
(47) Precisa la Commissione: «Nella decisione finale che adotta alla conclusione del
procedimento amministrativo, la Commissione determina l’entità della riduzione dell’importo
dell’ammenda di cui beneficerà l’impresa, rispetto a quello che altrimenti le sarebbe
imposto. Rispettivamente per
- la prima impresa che fornisca elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo:
riduzione del 30-50%,
- le seconda impresa che fornisca elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo:
riduzione del 20-30%,
- le altre imprese che forniscano elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo:
riduzione fino al massimo del 20%»; cfr. Comunicazione, cit., par. 26.
(48) Ciò in analogia con la comunicazione comunitaria, secondo la quale «se l’impresa
che chiede una riduzione dell’ammenda è la prima a presentare elementi probatori concludenti
(…) che serviranno alla Commissione per accertare altri fatti tali da accrescere la
gravità o la durata dell’infrazione, la Commissione non terrà conto di questi elementi nel
determinare l’importo di eventuali ammende da infliggere all’impresa che li ha forniti »; par.
26. V. anche la Comunicazione della Commissione sulla cooperazione nell’ambito della rete
delle autorità garanti della concorrenza, in G.U.U.E. C 101, del 27 aprile 2004, p. 43 ss.
Secondo quanto stabilito dalla Commissione, infatti, «le informazioni trasmesse alla rete ai
sensi dell’articolo 11 non potranno essere utilizzate dagli altri membri della rete per avviare
un’indagine per loro conto ai sensi delle regole di concorrenza comunitarie o, nel caso
I paragrafi 11 e 14, invece, consentono all’impresa di ritirare gli elementi
di prova trasmessi all’Agcm, nel caso di non ammissione ai benefici (49);
si tratta, però, ancora una volta di previsioni non del tutto chiare, poiché la
facoltà di ritiro di dette prove da parte delle imprese non implica necessariamente
l’impossibilità di utilizzare contro di esse informazioni di cui, comunque,
l’Agcm è venuta a conoscenza e che, quantomeno, possono indirizzare
le indagini successive, agevolandole e riducendo l’onere probatorio spettante
all’autorità procedente (50).
Nel silenzio della legge, il tema in questione può trovare una propria
soluzione nel diritto comunitario; è convinzione quasi unanime, infatti, che
tali casi andrebbero risolti con riferimento al divieto di autoincriminazione
(51), identificabile alla stregua di un principio comunitario generalmente
applicabile e, quindi, valido anche nel diritto della concorrenza. Tale regola
sembra peraltro essere richiamata dal ventitreesimo considerando del regolamento,
relativo al potere della Commissione di richiedere informazioni alle
imprese, il quale, però, dopo aver stabilito che «nel conformarsi a una decisione
della Commissione le imprese non possono essere costrette ad ammettere
di aver commesso un’infrazione», dichiara successivamente che esse
«sono in ogni caso tenute a rispondere a quesiti concreti e a fornire documenti,
anche se tali informazioni possono essere utilizzate per accertare contro di
esse o contro un’altra impresa l’esistenza di un’infrazione».
Maggiori indicazioni potrebbero, invece, trarsi dal richiamo ai diritti
fondamentali (anche questo ricognitivo) effettuato dal regolamento (52),
tra i quali va incluso, stando alla giurisprudenza di Strasburgo relativa
all’art. 6 CEDU, il diritto a non autoincriminarsi (53). La conseguenza di
38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
delle autorità nazionali garanti della concorrenza, ai sensi del diritto nazionale in materia di concorrenza
e di altre disposizioni nazionali»; inoltre, «le informazioni fornite volontariamente dal
soggetto che ha richiesto di beneficiare del trattamento favorevole possono essere trasmesse ad
un altro membro della rete conformemente all’articolo 12 del Regolamento del Consiglio solo
con il consenso del soggetto che ha richiesto il trattamento favorevole». Cfr. § 39-40.
(49) Lo stesso è previsto dalla Commissione nel caso di mancata concessione dell’immunit
à; cfr. § 20.
(50) La comunicazione della Commissione, infatti, dopo aver precisato che le imprese
possono ritirare gli elementi di prova secondo quanto suddetto, dichiara poi che «ciò non
impedisce alla Commissione di avvalersi dei suoi normali poteri d’indagine per ottenere le
informazioni»; § 20.
(51) Si vedano le osservazioni presentate all’Agcm in sede di adozione della
Comunicazione, reperibili sul sito www.agcm.it
(52) V. considerando 37, secondo cui « il presente regolamento ottempera ai diritti fondamentali
e osserva i principi sanciti in particolare nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. Esso pertanto dovrebbe essere interpretato e applicato in relazione a
detti diritti e principi ». In tema, v. U. DRAETTA, Diritto dell’Unione europea e principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale italiano: un contrasto non più solo teorico, in
Dir. Un. Eur., 2007, p. 13 ss.
(53) V. esemplificativamente Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 4 ottobre
2005, Shannon c. Regno Unito, ric. n. 6563/03.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39
una tale interpretazione sarebbe l’inutilizzabilità delle prove acquisite contro
le stesse imprese che le abbiano fornite alle autorità operanti all’interno
dell’ECN.
Ciò detto, simili interpretazioni a vantaggio delle imprese che commettono
illeciti antitrust vanno, comunque, contemperate con le esigenze di tutela di
interessi altrettanto degni di protezione e, quindi, attentamente valutate.
In primo luogo, secondo la Corte di giustizia, il divieto di autoincriminazione
riguarda i casi in cui le imprese siano obbligate a rispondere alle
richieste delle autorità di concorrenza a pena di ammenda; pertanto, la spontaneit
à delle dichiarazioni rese dalle imprese che partecipano ai programmi
di clemenza giocherebbe un ruolo decisivo, consentendo alle autorità di controllo
di utilizzare le prove così ottenute (54).
In secondo luogo, occorre anche valutare la possibilità di abuso dell’istituto
del programma di clemenza da parte delle imprese che elusivamente
potrebbero fornire all’Agcm elementi a loro carico, privi di quel quid pluris
probatorio richiesto per i benefici in questione, al solo fine di “bruciarli”,
impedendone l’utilizzabilità. Sotto tale profilo, quindi, l’onere per le imprese
di valutare preventivamente il significato probatorio del loro “pentimento
” e l’obbligo di leale collaborazione con le autorità di controllo durante il
procedimento per il trattamento favorevole potrebbero essere giustificati dall
’intento di responsabilizzazione delle imprese, che permea l’intero sistema
predisposto dal regolamento comunitario e che trova il suo massimo esempio
nel dovere delle imprese di valutare ex se la liceità o meno delle proprie
condotte sul mercato (sistema di eccezione legale).
Inoltre, la possibilità che le autorità utilizzino le prove fornite dalle
imprese contro di esse, nel caso non sussistano i presupposti per l’ottenimento
dei benefici previsti dai programmi di clemenza, non impedisce, anzi
impone, che esse tengano comunque conto della collaborazione fornita dalle
imprese in sede di calcolo dell’ammenda sotto forma di circostanza attenuante.
Secondo gli Orientamenti per il calcolo delle ammende, l’importo di
base può essere ridotto «quando l’impresa collabora efficacemente con la
Commissione al di fuori del campo di applicazione della comunicazione sul
trattamento favorevole e oltre quanto richiesto dagli obblighi di collaborazione
previsti dalla legge» (55).
Ciò, peraltro, è quanto accaduto in un recente caso relativo ad un presunto
cartello operante tra i principali trasformatori italiani di tabacco greggio
(56). Nel provvedimento finale attualmente sub iudice, la Commissione ha
(54) Cfr. sentenza del 25 gennaio 2007, causa C-407/04, Dalmine S.p.A., § 35.
(55) Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23,
paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003, in G.U.U.E. C 210, del 1 settembre
2006, p. 2 ss., § 29.
(56) V. la decisione della Commissione del 20 ottobre 2004, caso COMP/C.38.281/B.2 –
Tabacco greggio – Italia, con particolare riferimento ai § 385 ss. La decisione è stata impugnata
dinanzi al Tribunale di primo grado (causa T-29/05).
40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sanzionato la principale impresa, cui era stata inizialmente concessa l’immunit
à condizionata, per aver svelato alle altre di aver preso parte ad un programma
comunitario di trattamento favorevole, facendola decadere dal
beneficio; tuttavia, la Commissione ha ridotto poi del 50% l’importo base
dell’ammenda, tenuto conto, come circostanza attenuante, della collaborazione
comunque prestata dall’impresa alle indagini.
Ad ogni modo, i principali problemi per il corretto ed effettivo funzionamento
dei programmi di clemenza provengono dal progressivo potenziamento
del cd. private antitrust enforcement, cioè dalle azioni private che i terzi
intraprendono a tutela dei propri interessi, eventualmente violati dalle condotte
anticoncorrenziali delle imprese.
Senza poter qui anticipare le considerazioni successive, si segnala sin
d’ora la crescente attenzione delle corti nazionali ed europee sul tema (57),
anche per la maggiore efficacia deterrente delle azioni private, tanto più che
la giurisprudenza comunitaria ha anche ammesso la legittimità del danno
punitivo (58). Così, allo stato attuale, il principale rischio economico, per le
imprese che violano le norme di concorrenza, non è tanto costituito dall’imposizione
delle sanzioni pecuniarie amministrative, calcolate entro stringenti
limiti percentuali, quanto dalle eventuali richieste risarcitorie dei terzi
interessati.
Di conseguenza, il potenziamento del private enforcement può nel
tempo rivelarsi dannoso per i programmi di clemenza, disincentivando alla
collaborazione le imprese, che così evitano il rischio di auto-produrre evidenze
che possono essere utilizzate contro di loro in sede civilistica, attraverso
il provvedimento finale dell’Agcm.
Infatti, in nessun caso la collaborazione delle imprese all’istruttoria
amministrativa antitrust può limitare le azioni attivate dai terzi danneggiati
(consumatori inclusi), cosicché, secondo quanto precisato apertis verbis
dalla Commissione, «la concessione dell’immunità da un’ammenda o della
riduzione del suo importo non sottrae l’impresa alle conseguenze sul piano
del diritto civile derivanti dalla sua partecipazione ad un’infrazione dell’articolo
81 del trattato CE» (59). Nonostante, poi, la comunicazione
dell’Agcm non contenga alcun riferimento a tale aspetto, non sembra in
alcun modo dubitabile, sulla base del principio del neminem laedere, che
anche il “pentimento” davanti all’autorità italiana lasci intatta la possibilità
per i terzi danneggiati di agire – sotto ogni forma ed in modo pieno – a tutela
dei propri interessi violati dalle imprese colpevoli di aver commesso un
illecito antitrust.
(57) V. sentenze Cass. S.U., 20 gennaio - 4 febbraio 2005, n. 2207, cit., e Corte di
giustizia, 13 luglio 2006, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, in Racc., p. I-
6619.
(58) Sentenza Manfredi, cit.
(59) Cfr. Comunicazione della Commissione, cit. par. 39.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41
Tanto considerato, la difficile conciliabilità tra private antitrust enforcement
e leniency programmes (60) giustifica il vigore del dibattito in corso.
Nel Libro Verde sulle Azioni di risarcimento del danno per violazione delle
norme antitrust comunitarie, la Commissione propone in proposito tre
opzioni:
«Esclusione di qualsiasi diffusione della domanda di trattamento favorevole
per proteggere la riservatezza delle comunicazioni trasmesse all’autorit
à garante della concorrenza nel quadro della domanda stessa».
«Concessione di una riduzione condizionata su tutte le domande di
risarcimento del danno per l’impresa che ha chiesto di beneficiare del trattamento
favorevole, mentre le domande di risarcimento nei confronti di altri
autori dell’infrazione – responsabili in solido dell’intero danno – restano
immutate».
«Soppressione della responsabilità solidale per l’impresa che ha chiesto
di beneficiare del trattamento favorevole, limitando così la sua esposizione
alle domande di risarcimento del danno. Una possibile soluzione consisterebbe
nel limitare la responsabilità di tale impresa all’ammontare del danno
corrispondente alla sua parte nel mercato soggetto a cartello» (61).
Secondo il mio punto di vista, invece, ferma restando l’impossibilità che
la concessione di un trattamento favorevole alle imprese “pentite” possa
avere riflessi sulla determinazione del risarcimento del danno riparatorio,
sembra ragionevole escludere la possibilità per i giudici nazionali di infliggere
danni punitivi a quelle imprese che abbiano aiutato le autorità a svelare
i cartelli segreti. Ciò perché sarebbe assolutamente illegittimo, anche dal
punto di vista comunitario, rendere disponibile alle autorità antitrust il fondamentale
diritto dei terzi al risarcimento dei danni subiti. Ci si stupisce,
quindi, di come tale eventualità sia anche solo stata presa in considerazione
dal Libro Verde.
6. La responsabilità dell’Agcm per violazione del diritto comunitario della
concorrenza
Un altro profilo di particolare interesse riguarda la possibilità di configurare
un’eventuale responsabilità dell’Agcm per violazione del diritto
comunitario della concorrenza, anche sulla scorta di quanto recentemente
(60) La stessa Commissione, nella comunicazione sui programmi di trattamento favorevole,
cit., osserva che «i potenziali interessati a chiedere l’applicazione della clemenza
potrebbero essere dissuasi dal cooperare con la Commissione ai sensi della presente comunicazione
se ne possa risultare indebolita la loro posizione, rispetto alle imprese che non
cooperano, nell’ambito di procedimenti giudiziari in sede civile. Un tale inauspicabile effetto
danneggerebbe gravemente il pubblico interesse ad assicurare l’effettiva applicazione dell
’articolo 81 CE da parte dell’autorità pubblica nei casi di cartelli e, quindi, la sua effettiva
applicazione, conseguente o parallela, in sede privata»; § 6.
(61) Libro Verde, cit., § 2.7.
42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
stabilito dai giudici comunitari per la Commissione europea (62); in riferimento
a tale aspetto, tuttavia, è possibile in questa sede solo porre degli interrogativi,
in ragione della penuria di precedenti sui quali fondare un sicuro e
più completo giudizio.
Ci si domanda, ad esempio, se sia possibile per i singoli, che presumono
di aver subito un danno da un provvedimento dell’autorità nazionale antitrust,
successivamente dichiarato illegittimo, agire in risarcimento nei suoi
confronti; come anche se essi possano, dopo aver subito un pregiudizio da
un comportamento anticoncorrenziale delle imprese, chiedere i danni non
solo a quest’ultime, ma anche alla stessa Agcm, nel caso in cui la realizzazione
dell’illecito antitrust e la produzione dei suoi effetti negativi siano stati
co-determinati dall’inerzia colpevole dell’autorità di controllo o dalla falsa
applicazione delle regole di concorrenza comunitarie.
In quest’ultima ipotesi, appare chiaro che il modello cui si pensa è la
responsabilità aquiliana delle autorità indipendenti per omessa vigilanza,
secondo lo schema già sperimentato per la Consob, nei cui confronti – s’è
chiarito – i risparmiatori vantano un diritto soggettivo all’integrità del proprio
patrimonio economico, risarcibile dinanzi al giudice ordinario nei casi
di colpevoli condotte omissive (63). Un tale schema potrebbe ben ritenersi
applicabile anche all’Agcm, tanto più sulla base delle norme comunitarie di
concorrenza che essa è chiamata ad applicare direttamente e di cui è tenuta
a garantire il necessario effetto utile, tutelando nel contempo (ed in via parimenti
principale) tanto l’interesse pubblico al mantenimento di un regime di
(62) V. Tribunale di Primo Grado, sentenza dell’11 luglio 2007, causa T-351/03,
Schneider Electric SA c. Commissione delle Comunita europee. Il Tribunale ha, infatti,
applicato per la prima volta (ed in ciò consiste la maggiore novità del decisum!) le ordinarie
regole sulla responsabilità extracontrattuale della Comunità anche alle ipotesi di violazione
delle norme europee antitrust. In tali casi, posto che gli elementi costitutivi della
responsabilità non differiscono da quelli già da tempo stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria
sulla base dell’art. 288 CE, secondo comma, (in argomento v. R. BARATTA, Commento
all’art. 288 TCE, in Trattati dell’Unione Europea e della Comunità Europea, a cura di A.
TIZZANO, Giuffrè Editore, Milano, 2004, p. 1290 ss.), i maggiori problemi sorgono nell’ipotesi
di esercizio di poteri caratterizzati da un forte tasso di discrezionalità amministrativa e
tecnica, in riferimento ai quali l’ambito del sindacato giurisdizionale incontra notevoli limiti.
Pertanto, i giudici lussemburghesi hanno precisato, con riferimento ad un caso di controllo
sulle concentrazioni, che: «Ne peut donc être tenu pour constitutif d’une violation suffisamment
caractérisée du droit communautaire, aux fins de l’engagement de la responsabilit
é non contractuelle de la Communauté, le manquement à une obligation légale, qui, pour
regrettable qu’il soit, peut être expliqué par les contraintes objectives qui pèsent sur l’institution
et sur ses agents par l’effet des dispositions régissant le contrôle des concentrations.
Est en revanche ouvert le droit à la réparation des dommages qui résultent du comportement
de l’institution lorsque celui-ci se traduit par un acte manifestement contraire à la règle
de droit et gravement préjudiciable aux intérêts de tiers à l’institution et ne saurait trouver ni
justification ni explication dans les contraintes particulières qui s’imposent objectivement au
service dans un fonctionnement normal» ; cfr. § 123-124. V. in proposito D. BAILEY, Damages
actions under the EC merger regulation, in Comm. market Law Rev., 2007, p. 101 ss.
(63) Si veda l’ordinanza delle Sezioni Unite del 27 luglio 2005, n. 15916.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43
concorrenza non falsata nel mercato quanto gli interessi privati coinvolti
dalle dinamiche concorrenziali. Così, se in un determinato caso dovesse
risultare accertato che il danno ai terzi, arrecato da un illecito antitrust delle
imprese, sarebbe stato evitabile sulla base di una diligente applicazione del
diritto comunitario della concorrenza da parte dell’autorità nazionale, non si
vedono motivi ostativi ad una estensione anche all’Agcm della giurisprudenza
citata in tema di omessa vigilanza.
Peraltro, i casi suddetti non rappresentano nient’altro che una species del
più ampio genus della responsabilità dello Stato membro per violazione del
diritto comunitario, di cui dovrebbero unicamente ricorrere i presupposti
(interesse giuridico di fonte comunitaria, violazione grave e manifesta,
danno e nesso di causalità) (64).
Pertanto, e tenuto conto anche del recente esempio comunitario, non ci
si può dispensare dal sollevare forti dubbi di legittimità comunitaria in relazione
al nuovo comma 6-bis dell’art. 24 della legge 262/2005, in base al
quale «nell’esercizio delle proprie funzioni le Autorità di cui al comma 1 e
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, i componenti dei loro
organi nonché i loro dipendenti rispondono dei danni cagionati da atti o comportamenti
posti in essere con dolo o colpa grave» (65).
La questione è nel considerare se la limitazione di responsabilità alle
sole ipotesi di dolo o colpa grave, con esclusione della colpa semplice, sia o
meno compatibile con le regole comunitarie in tema di responsabilità degli
Stati membri per violazione del diritto comunitario. Tanto più che – si badi
– la norma non riguarda i soli atti o comportamenti posti in essere dai componenti
e/o dipendenti, al fine di stabilire un’eventuale azione di rivalsa della
p.a. nei loro confronti, ma anche dalla stessa Autorità, cioè dallo Stato.
Il riferimento comunitario, a tal punto, non può che essere alla sentenza
della Corte di giustizia Traghetti del Mediterraneo, con la quale s’è dichiarato
che «il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che
limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave
del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza
della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia
stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente» (66).
(64) V. F. FERRARO, Questioni aperte sul tema della responsabilità extracontrattuale
degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, in. Dir. Un. Eur., 2007, p. 55 ss.
(65) Introdotto dall’art. 4, paragrafo 3, lett. d), del decreto legislativo 29 dicembre
2006, n. 303, cit.
(66) Sentenza del 13 giugno 2006, causa C-173/03, in Racc., 2006, I-5177. V. i commenti
di M. RUFFERT, in Comm. Mark Law Rev., 2007, p. 479 ss., di E. SCODITTI, Violazione
del diritto comunitario derivante da un provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e
non del giudice, c. 418 ss., di A. PALMIERI, Corti di ultima istanza, diritto comunitario e
responsabilità dello Stato: luci ed ombre di una tendenza irreversibile, c. 420 ss., nonché di
P. PIVA, La tradizionale irresponsabilità del giudice davanti al diritto comunitario. Note a
margine della “Köblerizzazione” del diritto comunitario e del diritto degli Stati membri, in
Il diritto della Regione, 2004, p. 809 ss. Peraltro, la Corte di Giustizia ha anche precisato
44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Sebbene il predetto caso riguardi la limitazione di responsabilità prevista
dall’ordinamento italiano per i giudici nazionali, ci sembra – in prospettiva
futura – che la massima citata possa essere estesa anche alle ipotesi di
violazione del diritto comunitario da parte delle autorità indipendenti (Agcm
compresa), perché, pur tralasciando la questione del ruolo giusdicente o
paragiurisdizionale delle authorities, nessuna discriminazione può essere
fatta tra applicazione delle norme europee da parte dei giudici o delle amministrazioni,
essendo tutti chiamati alla leale collaborazione ex art. 10 CE e,
nello specifico, a garantire l’effetto utile degli art. 81 CE ss. (67)
7. La legittimazione ad impugnare i provvedimenti dell’Agcm: le recenti pronunce
interne
La questione della legittimazione ad agire contro i provvedimenti
dell’Agcm è sempre stata uno dei temi sensibili dell’applicazione decentrata
delle norme comunitarie di concorrenza in Italia; non occorre dire, infatti,
come tale aspetto incida fortemente sull’effetto utile dei divieti posti dagli
artt. 81 e 82 CE, attraverso il controllo di legalità dell’azione dell’autorità
nazionale.
Proprio per tale motivo avevo in passato formulato un giudizio negativo
sulla compatibilità con il diritto comunitario delle restrizioni che la giurisprudenza
amministrativa interna poneva alla possibilità di agire contro i
provvedimenti dell’Agcm, sostanzialmente riducendo l’ambito dei legittimati
alle sole imprese destinatarie del provvedimento finale; tanto più che, al
contrario, i giudici lussemburghesi hanno da sempre fornito, in materia di
concorrenza, un’interpretazione dell’art. 230, quarto comma, CE più ampia
di quella utilizzata per gli atti adottati nell’ambito delle altre politiche comunitarie
(68) e che in parte attenua il rigore della formula Plaumann (69).
che «il diritto comunitario pretende quindi un risarcimento effettivo e non ammette alcuna
condizione aggiuntiva proveniente dal diritto dello Stato membro che possa rendere eccessivamente
difficile ottenere il risarcimento danni o altre modalità risarcitorie»; cfr. sentenza
del 17 aprile 2007, causa C-470/03, A.G.M.-COS.MET Srl, non ancora pubblicata in
Raccolta, § 90.
(67) Per quanto riguarda la responsabilità dei singoli funzionari, la Corte ha dichiarato
(sibillinamente) che «in caso di violazione del diritto comunitario, questo non osta all’accertamento
della responsabilità in capo a un funzionario, in aggiunta a quella dello Stato membro,
ma neanche l’impone»; sentenza A.G.M.-COS.MET Srl, cit., § 99.
(68) Non solo, infatti, la giurisprudenza comunitaria ha ammesso la legittimazione ad
impugnare i provvedimenti della Commissione di chiunque, persona fisica o giuridica, abbia
presentato una denuncia, ma anche di chi, pur avendovi un interesse, non abbia preso parte
al procedimento. Secondo quanto ha dichiarato il Tribunale, «subordinare la legittimazione
attiva dei terzi qualificati che fruiscono di diritti procedurali nel corso del procedimento
amministrativo alla loro effettiva partecipazione a tale procedimento porterebbe a introdurre
un requisito di ricevibilità supplementare, sotto forma di un procedimento precontenzioso
obbligatorio non previsto dall’art. 173 del Trattato» (ora 230); cfr. Tribunale di Primo
Grado, sentenza 11 luglio 1996, Metropole Television SA, T-528/93, in Racc. p. II-3805. La
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45
Tuttavia, le più recenti pronunce dei giudici amministrativi riconducono,
anche sotto tale profilo, l’ordinamento italiano ad una maggiore conformità
con lo standard di tutela richiesto dal diritto comunitario.
Innanzitutto, non sussistono più dubbi circa la legittimazione ad agire
delle imprese concorrenti; infatti, il Consiglio di Stato (di seguito: CdS) ha
dichiarato che «le imprese concorrenti (nel medesimo settore economico)
non si trovano sullo stesso piano degli altri appartenenti alla collettività, dato
che non sono portatrici di un interesse indifferenziato alla concorrenza nel
mercato. Esse vantano invece un interesse personale e individuale al rispetto
della normativa antitrust, in quanto dalle determinazioni dell’Autorità,
dirette ad altri, possono derivare uno svantaggio (in presenza di deliberazioni
di natura autorizzatoria, come nella specie) – o un vantaggio (come nel
caso di provvedimenti inibitori e sanzionatori) – chiaramente riferibile alla
loro sfera individuale» (70) .
Tale giurisprudenza è stata di seguito confermata anche con riferimento
alle ipotesi di concentrazioni tra imprese, in riferimento alle quali il CdS ha
precisato che «l’azione proposta dall’impresa concorrente non mira a stiggiurisprudenza
più recente appare tuttavia imporre cumulativamente il requisito della partecipazione
al procedimento e dell’incidenza del provvedimento della Commissione (nella
specie, la clearance di una operazione di concentrazione) sulla posizione di mercato dell
’impresa ricorrente. Cfr. ad es. la sentenza del 4 luglio 2006, easyJet c. Commissione, causa
T-177/04 (in Racc., 2006, p. II-1931), ove si legge al § 35 che: «Nel caso di una decisione
che constati la compatibilità dell’operazione di concentrazione con il mercato comune e
qualora si tratti di un’impresa terza, si deve determinare se questa sia individualmente interessata
in funzione, da un lato, della sua partecipazione al procedimento amministrativo e,
dall’altro, dell’incidenza sulla sua posizione sul mercato. Se è vero che la semplice partecipazione
al procedimento non è, di per sé, certamente sufficiente a dimostrare che la ricorrente
sia individualmente interessata dalla decisione, specie nell’ambito delle concentrazioni,
il cui dettagliato esame richiede contatti regolari con numerose imprese, la partecipazione
attiva al procedimento amministrativo costituisce tuttavia un elemento regolarmente
preso in considerazione dalla giurisprudenza in materia di concorrenza, anche nel settore più
specifico del controllo delle concentrazioni, per accertare, unitamente ad altre circostanze
specifiche, la ricevibilità di un ricorso». Cfr, anche le sentenze della Corte 28 gennaio 1986,
causa 169/84, Cofaz e a. c. Commissione, in Racc., p. 391, punti 24 e 25, e 31 marzo 1998,
cause riunite C-68/94 e C-30/95, Francia e a. c. Commissione («Kali & Salz»), ivi,
p. I-1375, punti 54-56; la sentenza del Tribunale 3 aprile 2003, causa T-114/02, BaByliss c.
Commissione, ivi, 2003, p. II-1279, § 95. Sul punto, ci sia consentito ancora una volta rinviare
alle nostre precedenti Osservazioni, in particolare p. 81 ss., e la bibliografia ivi richiamata,
cui adde P. TROIANIELLO, Le situazioni giuridiche di chi denuncia violazioni antitrust
tra diritto comunitario e nuovo procedimento amministrativo interno, in Dir. com. sc. int.,
2006, p. 7 ss.; L. DANIELE, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2007, p. 247 ss.
(69) Corte di giustizia, sentenza del 15 luglio 1963, causa 25/62, Plaumann, in Racc.
p. 199. A questo riguardo, si veda anche la puntuale ricostruzione della giurisprudenza
comunitaria operata dal CdS nella sentenza 14 maggio 2004, n. 3865, Motorola c. Agcm.
(70) Sentenza n. 3865/04, cit., par. 4.2. Il caso era relativo all’impugnazione di un provvedimento
con il quale l’Agcm autorizzava in deroga un’intesa ex art. 4, primo comma, l.
287/90.
46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
matizzare la concentrazione ex se intesa ma a censurare l’intermediazione
pubblicistica data dall’esercizio del potere conformativo di carattere discrezionale
teso ad enucleare le misure reputate efficaci onde rimuovere le ragioni
del divieto» (71).
Al contrario, non sembra essere stata definitivamente risolta la questione
delle legittimazione dei consumatori finali e delle loro associazioni rappresentative
ad impugnare i provvedimenti dell’Agcm, già da tempo ammessa
dalla giurisprudenza comunitaria (72). Infatti, sebbene la giurisprudenza
del CdS sembra orientarsi in modo progressivo verso una soluzione positiva
del problema, pur sempre analizzato attraverso i criteri imprescindibili della
differenziazione e della qualificazione dell’interesse violato, le sentenze dei
giudici di prime cure sembrano invece muoversi nella direzione opposta.
Ad ogni modo, un primo punto fermo è rappresentato dalla legittimazione
delle associazioni dei consumatori ad impugnare i provvedimenti con cui
l’Agcm considera non ingannevoli determinati messaggi pubblicitari; con la
sentenza n. 280/2005, il CdS ha dichiarato, in materia di pubblicità ingannevole,
che «dalla lettura combinata delle disposizioni interne e di quelle
comunitarie emerge chiaramente come il ruolo delle associazioni dei consumatori
non possa essere limitato alla presentazione di una richiesta all’autorit
à amministrativa, ma si estenda anche alla possibilità di contestare in giudizio
il mancato intervento dell’autorità» (73). Tale pronuncia, peraltro, sembra
contenere più di un elemento a favore dell’estensione di tale regola anche
ai provvedimenti antitrust dell’Agcm, a cominciare dai frequenti parallelismi
operati tra la disciplina nazionale e comunitaria di concorrenza strictu
sensu e quella in materia di pubblicità commerciale (74); in questo senso,
una volta accertata l’esistenza di diritti degli utenti finali attribuiti dagli artt.
81 e 82 CE in forza della loro efficacia diretta, le considerazioni in merito
(71) Sentenza del 18 gennaio 2005, n. 1113, Fondiaria Industriale Romagnola S.P.A.
c. Agcm. Secondo il CdS, quindi, è « ammissibile in linea astratta il ricorso avanti il giudice
amministrativo da parte di imprese terze portatrici di una situazione differenziata nel mercato
di riferimento che contestino l’efficacia delle misure e, quindi, mirino a stigmatizzare
il cattivo uso a loro danno di un potere conformativo speso in modo non idoneo a rimuovere
efficacemente la connotazione anticompetitiva dell’operazione ». Cfr. § 4.7.2 della sentenza.
(72) V. Sentenza del Tribunale di Primo Grado, del 18 maggio 1994, causa T-37/92,
Bureau europeen des unions de consommateurs in Racc. 1994, p. II-00285, con la quale era
stata ammessa l’impugnazione di una decisione della Commissione da parte di una associazione
dei consumatori, sul presupposto che « nell’interesse e di una sana amministrazione
della giustizia e di una corretta applicazione degli artt. 85 e 86 del Trattato, è opportuno che
le persone fisiche o giuridiche che hanno facoltà di presentare una domanda…siano legittimate,
se la loro domanda viene respinta, in tutto o in parte, ad esperire un’azione a tutela dei
loro legittimi interessi »; cfr. § 36.
(73) CdS, sez. VI, decisione 3 febbraio 2005, n. 280, Codacons c. Agcm; in Foro it.,
2005, III, c. 403 ss., con nota di A. PALMIERI.
(74) Cfr. § 1.5.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47
alla legittimazione processuale delle associazioni dei consumatori, esposte
dalla sentenza n. 280/2005, potrebbero essere estese anche ai provvedimenti
antitrust.
Sennonché, con la successiva sentenza n. 1371/2006 (75), il Tar del Lazio,
sul presupposto che «non sia possibile una trasposizione secca delle coordinate
relative ai giudizi in materia di pubblicità ingannevole, nell’ambito delle
controversie concernenti i provvedimenti assolutori in materia antitrust», ha
dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da un’associazione dei consumatori
contro un provvedimento dell’Agcm, in considerazione della «natura
indiretta» del danno cagionato dall’illecito anticoncorrenziale ai consumatori
finali (76). Secondo lo stesso giudice, poi, nemmeno si può giungere ad
una differente soluzione sulla base dell’ampia legittimazione attribuita alle
associazioni dei consumatori dall’art. 139 del Codice del consumo (77).
Sempre in tema di legittimazione delle associazioni dei consumatori,
però, uno “spiraglio” può essere individuato nella recente sentenza n.
2307/07, avente ad oggetto un ricorso contro un provvedimento dell’Agcm
con il quale veniva autorizzata un’operazione di concentrazione; nel caso di
specie, il Tar del Lazio, pur respingendo il ricorso per difetto di legittimazione
ad agire, sembra attribuire un ruolo determinante all’iscrizione all’elenco
istituito presso il Ministero delle attività produttive, disciplinato ora dall’art.
137 del Codice del consumo. In relazione ad esso, il Tar dichiara che «siffatta
legittimazione ex lege rappresenta infatti l’approdo del tentativo di individuare
una “soddisfacente tecnica di protezione degli interessi diffusi in un
contesto processuale tuttora retto dal principio personalistico”» (78).
(75) Sentenza del 23 novembre 2005.
(76) Afferma il Tribunale: «le associazioni dei consumatori, pur vantando facoltà partecipative
previste a vario titolo dall’ordinamento, non sono tuttavia intestatarie di posizioni
giuridiche soggettive che abilitino all’impugnativa dei provvedimenti assolutori
dell’Autorità. Qui si esula del tutto dalla tematica della tutela del terzo, posto che i consumatori
e le relative associazioni non si trovano in diretto collegamento con le scelte del regolatore,
anche quando queste si inverino attraverso l’esercizio di prerogative che, sebbene
connotate in termini di reazione a pretesi illeciti, sono sicuramente idonee a determinare un
peculiare (pur se a loro dire criticabile) assetto del mercato di riferimento. Ne segue che i
consumatori e le relative associazioni non possono dolersi del mancato esercizio delle prerogative
istituzionali dell’Autorità antitrust, stante la natura indiretta della lesione derivante
dall’illecito anticoncorrenziale»; par. 2.4.1.
(77) Secondo la sentenza n. 1371/2006, tale legittimazione «non è così vasta da ricomprendere
qualsiasi attività di tipo pubblicistico che si rifletta economicamente sui cittadini, dovendo
al contrario esser commisurata solo a quegli atti che siano idonei ad interferire con specificità
ed immediatezza sulla posizione dei consumatori e degli utenti. Ed è agevole rilevare come nel
catalogo di cui all’art. 2, 2° comma, Cod. cons. non sia incluso (né sia rinvenibile) un diritto ad
ottenere il rispetto della normativa antitrust da parte delle imprese attive sul mercato »; § 2.4.3.
(78) Sentenza del 9 febbraio 2007, n. 2307. Nel caso in questione, l’Associazione per
la tutela degli interessi e dei diritti degli utenti di servizi pubblici e privati, non iscritta all’elenco
istituito presso il Ministero dello Sviluppo, aveva impugnato il provvedimento col
Alla luce di un tale quadro delle più recenti pronunce dei giudici amministrativi
può concludersi nel senso di un progressivo allineamento della giurisprudenza
interna allo standard di tutela richiesto dal diritto comunitario
per i diritti da esso conferiti. Il punto più opinabile della giurisprudenza fin
qui ricostruita, ovvero l’esclusione delle associazioni dei consumatori dall
’ambito dei legittimati ad agire contro i provvedimenti antitrust, può essere
infatti considerato una momentanea défaillance del sistema interno.
D’altra parte, come detto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno già
chiarito l’esistenza di interessi (anche individuali) dei consumatori finali alla
libera concorrenza; ed anche il CdS non ha potuto non rilevare come «nel
senso dell’estensione della legittimazione a far valere la violazione delle
norme antitrust in capo a tutti i soggetti portatori di interessi giuridicamente
rilevanti aventi natura differenziata e qualificata…depone il recente decisum
delle sezioni unite della Corte di Cassazione 4 febbraio 2005, n. 2207» (79).
Sulla base di tali premesse, quindi, ci si attende una prossima estensione
della legittimazione ad impugnare i provvedimenti nazionali antitrust.
8. L’“ascesa” del private antitrust enforcement
Come anticipato, per private antitrust enforcement s’intende «l’applicazione
della normativa antitrust in occasione delle controversie civili davanti
ai tribunali nazionali» (80). Il suo ambito, quindi, dipende dal numero di
rimedi civilistici attivabili dai terzi che dichiarino di subire un pregiudizio
dalla violazione delle regole comunitarie di concorrenza.
Stando alla lettera delle disposizioni in materia, esso non sarebbe così
ampio, considerato che, com’è noto, l’unico rimedio in tal senso previsto dal
Trattato è la nullità delle intese ex art. 81, par. 2, CE; dal canto suo, invece,
48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
quale l’Agcm autorizzava l’acquisizione, da parte della Cirio S.P.A., della Centrale del Latte
di Roma S.P.A., a seguito della sua privatizzazione deliberata dal Comune di Roma.
(79) C.d.S., sentenza n. 1113/05, cit., § 4.5.
(80) Questa definizione è fornita dalla Commissione nel Libro Verde, cit., § 1.1
Sul tema, v., ex multis, W. VAN GERVEN, Substantive remedies for the private enforcement
of EC Antitrust rules before national courts, in Modernisation of European
Competition Law, edited by J. Stuyck – H. Gilliams, Intersentia, Oxford, 2002, p. 93 ss.; G.
TESAURO, Private Enforcement of EC Antitrust Rules in Italy: The procedural Issues, in C.
D. Ehlermann and I. Atanasiu (edited by), European Competition Law Annual: 2001 –
Effective private Enforcement of EC Antitrust Law, Hart Publishing, Oxford – Portland
Oregon, 2003, p. 276 ss.; K. HOLMES, Public Enforcement or Private Enforcement?
Enforcement of Competition Law in the EC and UK, in Eur. comp. law rev., 2004, p. 25 ss.;
C. A. JONES, Private Antitrust Enforcement in Europe: A Policy Analysis and Reality Check,
in World Comp., 2004, p. 13 ss.; W. P. J. WILS, Principles of European Antitrust
Enforcement, Hart Publishing, Oxford – Portland Oregon, 2005, p. 122 ss.; C. HODGES,
Competition Enforcement, Regulation and Civil Justice: What is the Case?, in Comm.
Market Law Rev., 2006, p. 1381 ss.; N. REICH, Horizontal liability in EC law: hybridization
of remedies for compensation in case of breaches of EC rights, in Comm. Mark. Law Rev.,
2007, p. 705 ss.
la legge 287/90 cita, al secondo comma dell’art. 33, le sole azioni di nullità
e di risarcimento del danno.
Sul piano comunitario, tuttavia, una prima estensione dell’ambito di
operatività del private antitrust enforcement può provenire dall’interpretazione
estensiva della nullità su ricordata, intendendo quest’ultima non già
stricto sensu, ma come un più generale divieto, imposto dal Trattato, di produzione
di qualsivoglia effetto giuridicamente valido da parte dei cartelli
illeciti. In tale prospettiva, ciò che conta per l’ordinamento comunitario è
l’impossibilità che un cartello illecito produca effetti vincolanti per le parti e
per i terzi, di modo che non rilevi tanto il rimedio con cui ciò si fa valere,
quanto l’effetto utile del divieto in questione.
Una tale interpretazione trova nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale
Ruiz-Jarabo Colomer, presentate nella causa Bagnasco, una significativa
manifestazione, avendo quest’ultimo precisato, con riguardo al tema connesso
della sorte dei contratti cd. “a valle” (cioè dei contratti conclusi con gli
utenti finali, che rappresentano un’esecuzione più o meno diretta del comportamento
anticompetitivo tenuto dalle imprese “a monte”), che «il giudice
nazionale non è obbligato a desumere automaticamente dalla nullità degli
elementi della decisione di associazione di imprese, considerati nulli ai sensi
dell’art. 85 n. 2, la nullità dei singoli contratti conclusi in applicazione della
detta decisione. È possibile che altre sanzioni previste dall’ordinamento
interno sui contratti, come l’annullabilità, l’impossibilità di opporre alcune
loro clausole, il risarcimento del danno o la ripetizione dell’indebito, siano
più idonee a risolvere il caso concreto» (81).
Sul piano nazionale, poi, la questione dell’interpretazione dell’istituto
della nullità antitrust in senso restrittivo o meno svolge un ruolo fondamentale
anche nell’individuazione del giudice competente, stante la competenza
speciale della Corte d’appello ex art. 33, secondo comma, legge 287/90 per
le sole azioni di nullità e risarcimento dei danni (pertanto: quid iuris per le
ulteriori azioni civili che possono servire a tutelare i terzi dalle conseguenze
illecite di una condotta anticoncorrenziale, come nel caso, ad esempio, della
ripetizione dell’indebito?); in tal modo, qualora si affermasse anche nell’ordinamento
italiano un’interpretazione ampia dell’istituto della nullità antitrust
sulla scorta del trend europeo, tale da assorbire fino a confondere un
tale rimedio con quello più generale dell’inefficacia, si determinerebbe un
notevole allargamento dell’ambito di applicazione della norma interna sulla
competenza speciale, con l’esclusione del doppio grado di merito per una
larga parte di rimedi civilistici a protezione dei terzi danneggiati dagli illeciti
anticoncorrenziali.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49
(81) Conclusioni del 15 gennaio 1998, Carlo Bagnasco e a. contro Banca Popolare di
Novara soc. coop. arl. e Cassa di Risparmio di Genova e Imperia SpA, cause riunite C-
215/96 e C-216/96, in Racc. 1999, p. I-00135, con commento di F. CAMMELLI, Le clausole
ABI tra politica comunitaria antitrust e promozione della «consumer confidence»: la sentenza
Bagnasco, in Dir. Un. Eur., 2000, p. 331 ss.
Sennonché, occorre precisare che, sebbene l’ordinamento comunitario
lasci in tema di competenza ampia discrezionalità agli Stati membri sulla
base del principio di autonomia procedurale, con i soliti limiti dell’effettivit
à e dell’equivalenza dei rimedi giurisdizionali, la competenza speciale in
questione si applica unicamente alle fattispecie di rilevanza nazionale
(secondo quanto stabilito dalla legge stessa), mentre per quelle comunitarie
si applicano le ordinarie regole di competenza in forza della efficacia diretta
delle norme antitrust del Trattato CE (82).
Ciò nonostante, la questione della legittimità dell’unico grado di giudizio
ha acquisito nuova vitalità, sia per l’inclusione dei consumatori finali tra
i destinatari diretti della normativa interna di concorrenza, sia per il progressivo
riconoscimento giurisprudenziale delle cd. discriminazioni alla rovescia.
Sotto il primo profilo, infatti, i consumatori sono – evidentemente – portatori
di più forti istanze di tutela, che potrebbero essere frustrate dalla limitazione
dei gradi di giudizio; e tale problema solo in parte può essere eclissato
facendo riferimento all’applicazione ormai residuale delle norme interne
di concorrenza, dovuta alla forza espansiva della nozione di pregiudizio
agli scambi intracomunitari.
Sotto il secondo, invece, i dubbi di costituzionalità già sollevati sull’art.
33, secondo comma, legge 287/90 risultano rafforzati dall’interpretazione
dell’art. 3 Cost. fornita dalla Corte Costituzionale, che vieta le «situazioni
di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, o delle sue imprese,
che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto
comunitario» (83).
50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(82) Ci sia consentito rinviare sul punto alle nostre precedenti Osservazioni. Questo
specifico aspetto è stato anche oggetto di un quesito pregiudiziale sollevato dal giudice di
pace di Bitonto, al quale la Corte di giustizia, nella citata causa Manfredi, ha replicato che
« per quanto riguarda la questione se l’art. 33, n. 2, della legge n. 287/90 si applichi alle sole
azioni di risarcimento danni fondate sulla violazione delle norme nazionali in materia di
concorrenza o anche alle azioni di risarcimento danni fondate sulla violazione degli artt. 81
CE e 82 CE, la Corte non è competente ad interpretare il diritto interno né ad esaminare la
sua applicazione al caso di specie»; concludendo, poi, che «spetta all’ordinamento giuridico
interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità
procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza dell
’effetto diretto del diritto comunitario, purché tali modalità non siano meno favorevoli di
quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né rendano
praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall
’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)». Cfr. § 70-71.
(83) Corte Cost., sentenza n. 443/1997. Corte Cost., sentenza n. 443/1997. In tema, v.,
da ultimo, E. PAGANO, Discriminazioni a rovescio, principio di uguaglianza e situazione di
rilevanza comunitaria, in Quaderni del Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, curati
dall’Istituto Italiano di Scienze Umane – Università degli Studi di Napoli Federico II,
Jovene editore, Napoli, vol. 3, 2006, p. 91 ss., e la dottrina ivi citata. In merito alla costituzionalit
à dell’art. 33 l. 287/90 si è pronunciata positivamente la Corte Cost. con ordinanza
n. 351 del 2007, ma su profili diversi da quelli indicati nel testo.
Le medesime considerazioni valgono anche per le azioni di risarcimento
del danno antitrust, quando sono fondate sulle norme di concorrenza
nazionali; sul fronte comunitario, invece, la loro ammissibilità è stata definitivamente
sancita dalla Corte di giustizia con i leading cases Courage (84) e
Manfredi (85).
Tanto premesso, ciò che in questa sede preme evidenziare è l’acquisizione,
da parte del private enforcement, di un ruolo sempre maggiore nell’applicazione
delle regole comunitarie di concorrenza, come anche di quelle
nazionali. Sebbene, infatti, l’ordinamento comunitario abbia da sempre previsto
il sistema del cd. doppio binario di tutela degli interessi giuridicamente
protetti dalle regole di concorrenza, ovvero la possibilità per i singoli di
attivare tanto un procedimento amministrativo dinanzi alle autorità interne
ed alla Commissione, quanto un giudizio dinanzi ai giudici nazionali in forza
dell’efficacia diretta dei divieti antitrust del Trattato, comincia a trasparire
una certa predilezione per l’applicazione giudiziaria delle norme in questione.
A tal proposito, è significativo che sia la stessa Commissione europea ad
indurre fortemente i singoli ad agire in giudizio, “svelando” i vantaggi che
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51
(84) Sentenza della Corte di Giustizia del 20 settembre 2001, causa C-453/99,
Courage, in Racc. 2001, p. I-06297; nonché in Foro it., 2002, IV, c. 75, con note di A.
PALMIERI E R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: «chi è causa
del suo mal…si lagni e chieda i danni», c. 76 ss.; di E. SCODITTI, Danni da intesa anticoncorrenziale
per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, c. 84 ss.;
G. ROSSI, «Take Courage»! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità
del danno da illeciti antitrust, c. 90 ss. Si veda pure S. BASTIANON, Intesa illecita e risarcimento
del danno a favore della parte debole, in Danno e resp., 2001, p. 1151 ss.; L.
VALENTINO, Violazione di situazioni giuridiche soggettive di matrice comunitaria: decentrati
solo gli obblighi o anche le garanzie?, in Riv. dir. pub. comp. eur., 2002, p. 192 ss.;
N. REICH, The “Courage” doctrine: encouraging or discouraging compensation for antitrust
injuries?, in Comm. Mark. Law Rev., 2005, p. 35 ss.; V. J. DREXL, Do We Need
“Courage” for International Antitrust Law? Choosing between Supranational and
International Law Principles of Enforcement, in J. DREXL (editor), The Future of
Transnational Antitrust – From Comparative to Common Competition Law, Staempfli
Publisher Ltd, Berne, 2003, p. 311 ss.
(85) Sentenza citata. In commento, v. E. DE SMIJTER – D. O’ SULLIVAN, The Manfredi
judgment of the ECJ and how it relates to the Commission’s iniziative on EC antitrust damages
actions, in Comp. Pol. Newsletter, 3-2006, p. 23 ss.; O. PALLOTTA, Consumatori e concorrenza:
le questioni irrisolte nella causa Manfredi, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 305 ss.; S.
MONTEMAGGI, Dalla Corte di Giustizia nuovi spunti di riflessione per una tutela effettiva del
consumatore vittima di pratiche anticoncorrenziali, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2007, parte
prima, p. 631 ss.; E. SALOMONE, Il risarcimento del danno da illeciti antitrust: profili di tutela
interna e comunitaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 875 ss.; G.A. BENACCHIO - M.
CARPAGNANO, L’azione di risarcimento del danno per violazione delle regole comunitarie
sulla concorrenza, Trento, 2007, p. 69 ss.; M. CARPAGNANO, Private enforcement delle regole
di concorrenza: analisi comparata della giurisprudenza comunitaria e nazionale, in G.A.
BENACCHIO - M. CARPAGNANO (a cura di), Il private enforcement del diritto comunitario
della concorrenza: ruolo e competenze dei giudici nazionali. Atti del convegno tenuto presso
la Facoltà di Giurisprudenza di Trento 15-16 giugno 2007, Trento, 2007, p. 185 ss.
l’applicazione delle norme di concorrenza da parte dei giudici nazionali
comporta per i privati che presumono essere stati lesi dagli illeciti anticoncorrenziali
(86).
Sul piano della politica di concorrenza, peraltro, occorre tenere conto
della progressiva perdita di deterrenza (generale e speciale) delle ammende
previste dai regolamenti comunitari, che impongono rigorosi limiti percentuali
al loro calcolo, computato sulla base del fatturato annuo realizzato dalle
imprese nell’esercizio sociale precedente. Ciò rende possibile alle imprese,
unitamente alla preventiva pubblicazione da parte della Commissione degli
Orientamenti per il detto calcolo, una valutazione della sanzione amministrativa
in termini di costi e benefici in relazione ai proventi illeciti derivabili
dalla realizzazione del comportamento anticoncorrenziale.
Diversamente, non è possibile alcuna previsione sulle conseguenze civilistiche
degli illeciti antitrust, specie dell’entità e della quantità dei risarcimenti
possibili; ed in ciò si realizza il cd. effetto deterrente delle azioni civili
(87).
L’attualità del tema è peraltro confermata dalla recente adozione, da
parte della Commissione, del citato Libro Verde sulle Azioni di risarcimento
del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, che mira ad «un
sistema più efficace per l’introduzione delle domande di risarcimento del
danno» (88).
9. Alcune questioni in tema di risarcimento del danno anticoncorrenziale
L’ampiezza del tema riguardante il risarcimento dei danni antitrust consente
in questa sede di valutare unicamente – in sintonia con l’intento inizialmente
dichiarato – l’attuale applicazione delle norme comunitarie di concorrenza
da parte dei giudici civili rispetto allo standard di tutela europeo. A tal
proposito occorre pure premettere che, anche a seguito di vicende contingenti
dal forte impatto “popolare” (ci si riferisce alla ben nota vicenda del car-
52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(86) V. Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce
presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del trattato CE, in G.U.U.E. C
101, del 27 aprile 2004, p. 65 ss., par. 16
(87) V. Libro Verde della Commissione europea, Azioni di risarcimento del danno per
violazione delle norme antitrust comunitarie, del 19 dicembre 2005, § 1.1, in G.U.U.E. C
49, del 28 febbraio 2006, p. 33.
(88) Cit. In proposito, v., tra gli altri, S. BASTIANON, Il risarcimento del danno antitrust
tra esigenze di giustizia e problemi di efficienza – Prime riflessioni sul Libro Verde della
Commissione, in Merc. conc. reg., 2006, p. 321 ss.; L. DI GIANBATTISTA, Damages actions
for breach of EC Treaty antitrust rules: a critical assessment of the European Commission’s
Green Paper, in Dir. Un. Eur., 2006, p. 729 ss.; E. DE SMIJTER – C. STROPP – D. WOODS,
Green Paper on damages actions for breach of the EC antitrust rules, in Comp. Pol.
Newsletter, 1-2006, p. 1 ss.: T. EILMANSBERGER, The green paper on damages actions for
breach of the EC antitrust rules and beyond: reflections on the utility and feasibility of stimulating
private enforcement through legislative action, in Comm. Mark. Law Rev., 2007,
p. 431 ss.
tello r.c. auto (89)), il dibattito sul private antitrust enforcement è stato quasi
monopolizzato dalla questione relativa alla legittimazione dei consumatori
finali, positivamente risolta, sul piano interno, dalla citata pronuncia a
Sezioni Unite della Cassazione n. 2207/05.
Con riferimento al diritto comunitario, alcuni punti fermi in tema di
risarcimento dei danni antitrust sono stati posti dalla già ricordata sentenza
Manfredi della Corte di giustizia, nella quale si è affermato che:
a) chiunque può esigere tale risarcimento «quando esiste un nesso di
causalità tra tale danno e un’intesa o pratica vietata dall’art. 81 CE» (90);
b) in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta a ciascun ordinamento
degli Stati membri individuare il giudice competente per dette azioni
e prevederne le modalità procedurali, purché siano rispettati i principi di
equivalenza ed effettività (91);
c) alle stesse condizioni, ciascuno Stato può stabilire il termine di prescrizione
per le azioni di risarcimento del danno derivante da un illecito antitrust
e la determinazione del dies a quo per il calcolo di detto termine, spettando
al giudice interno valutare se la disciplina nazionale renda praticamente
impossibile o eccessivamente difficile la tutela dei diritti conferiti dal diritto
comunitario (92);
d) nella quantificazione del risarcimento dei danni, bisogna tenere conto
del danno reale, del mancato guadagno e degli interessi (93);
e) se un ordinamento nazionale prevede la possibilità, per le fattispecie
in questione, d’infliggere danni punitivi o esemplari, un tale rimedio deve
essere esteso, sulla base del principio di equivalenza, anche alle analoghe
fattispecie di rilevanza comunitaria, salvo l’obbligo dei giudici nazionali di
accertare che da tali forme di risarcimento non derivi un ingiustificato arricchimento
degli aventi diritto (94).
Com’è evidente, quindi, i giudici lussemburghesi hanno lasciato, in
materia di risarcimento dei danni antitrust, un’ampia discrezionalità agli
Stati membri in ordine alle forme ed ai mezzi di tutela, con il solo limite dei
principi di effettività e di equivalenza. Alla luce di quanto detto, sembra che
le più recenti pronunce interne rispondano appieno alle regole dettate dalla
Corte di giustizia; anzi, con particolare riferimento al tema della tutela dei
contraenti “a valle” danneggiati dalle intese “a monte”, le ultime sentenze
della Corte di Cassazione appaiono fornire forme avanzate di tutela, palesemente
ispirate alla regola ermeneutica del favor consumatoris.
In particolare, meritano menzione le soluzioni offerte dalla sentenza
della terza sezione della Cassazione n. 2305/07, relative ai due aspetti più
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53
(89) Provv. n. 8546 del 28 luglio 2000, in Boll. n. 30 del 14 agosto 2000.
(90) Cfr. § 61.
(91)Cfr. § 62.
(92) Cfr. §81-82.
(93) Cfr. § 95.
(94) Cfr. § 99.
controversi delle azioni di risarcimento dei danni antitrust attivate dai consumatori
finali: la ripartizione dell’onere della prova relativa al nesso di causalit
à tra illecito anticoncorrenziale “a monte” e danno lamentato “a valle” e
l’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione
di tali azioni.
Sotto il primo profilo, la Corte, dichiaratamente ispiratasi a modelli
penalistici, ha considerato accertabile il nesso di causalità sulla base di criteri
presuntivi e di alta probabilità logica, consentendo al giudice nazionale
di «desumere il legame eziologico tra comportamento anticoncorrenziale
e danno lamentato attraverso presunzioni probabilistiche che si fondino
sul rapporto di sequenza costante tra antecedente e dato consequenziale»,
spostando l’onere della prova contraria in capo alle imprese resistenti (95).
Tale soluzione sembra assolutamente coerente con la lettura unitaria dell
’art. 81 CE, che considera lecite unicamente quelle intese che producono
gli effetti procompetitivi indicati nel terzo paragrafo, ivi compresa la congrua
parte degli utili agli utilizzatori; peraltro, il riparto probatorio previsti
dalla Cassazione sembra costituire nient’altro che l’applicazione dell’art. 2
del regolamento alle controversie risarcitorie tra imprese e consumatori
finali (96).
Con riguardo al secondo aspetto indicato, la Corte ha ancora una volta
fornito una soluzione tesa a garantire un più forte livello di tutela dei consumatori
dagli illeciti antitrust; infatti, dopo aver debitamente evidenziato
come i cartelli segreti siano per loro stessa natura inconoscibili ai terzi, la
Cassazione ha dichiarato che il termine di prescrizione quinquennale ex art.
2947 c.c. «inizia a decorrere non dal momento in cui l’agente compie l’illecito
o da quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno
all’altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta
all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile».
Tale regola, se giustificata dalla lungolatenza del danno cagionato ai consumatori
finali dai cartelli segreti, andrà valutata nel prossimo futuro, tenuto
conto della sua applicazione concreta e del fondamentale principio comunitario
della certezza del diritto per le imprese, che potrebbe essere messo a
rischio da un’eccessiva “soggettivizzazione” del dies a quo.
In ultimo, in relazione ai danni punitivi, la giurisprudenza interna di
legittimità categoricamente esclude l’utilizzo, nell’ordinamento italiano, di
un tale istituto giudicato contrario all’ordine pubblico interno; pertanto,
sono state finora rigettate le richieste di delibazione di sentenze straniere
54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(95) Cass. n. 2305/07, del 2 febbraio 2007, par. III. 2, rinvenibile sul sito www.cortedicassazione.
it, come le altre sentenze della Cassazione di seguito citate. Nonché in Foro.
it., 2007, I, c. 1097 ss., con nota di A. PALMIERI E DI R. PARDOLESI, Il danno antitrust in cerca
di disciplina (e di identità?), c. 1102 ss.
(96) Si tenga presente, poi, che il più delle volte dette azioni seguono il giudicato
amministrativo formatosi sul provvedimento di accertamento dell’Agcm.
contenenti condanne ai punitive damages (97). Tale giurisprudenza non
appare ex se in contrasto con quella della Corte di giustizia, avendo quest
’ultima condizionato l’applicazione dei danni punitivi per le fattispecie di
rilevanza comunitaria all’ammissione di un tale istituto nell’ordinamento
interno.
10. Brevi cenni sui recenti sviluppi in materia di aiuti di Stato
Seguendo il medesimo filo conduttore che ha fin qui orientato il discorso,
ovvero l’applicazione delle norme comunitarie di concorrenza da parte
degli organi degli Stati membri e la loro collaborazione al raggiungimento
dell’effetto utile dei divieti antitrust posti dal Trattato, alcuni cenni meritano
gli sviluppi che hanno progressivamente coinvolto, nell’ultimo decennio, la
disciplina sugli aiuti di Stato. Si tratta di una sorta di “nuova frontiera” per
gli organi nazionali, specie per i giudici, i quali sono così chiamati ad esercitare
ulteriori compiti, che trovano nel diritto comunitario della concorrenza
la propria origine.
È noto che il sistema di controllo in materia, secondo quanto previsto
dagli artt. 87 CE ss., si fonda sulla competenza esclusiva della Commissione
europea nel valutare preventivamente se un determinato aiuto,
concesso dagli Stati alle imprese, sia o meno in grado di pregiudicare gli
scambi intracomunitari e minacciare o falsare la concorrenza; a tal fine,
l’art. 88, par. 3, CE impone agli Stati, che intendano effettuare un aiuto, di
comunicare preventivamente alla Commissione i relativi progetti e di non
dare esecuzione alle misure previste prima dell’adozione della decisione
finale (98).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55
(97) V. Cass. n. 1183 del 19 gennaio 2007, con la quale è stata esclusa per tale motivo
la delibazione di una sentenza di una Corte distrettuale dell’Alabama. A commento di tale
pronuncia, v. P. PARDOLESI, Danni punitivi: frustrazione da ‘vorrei, ma non posso?’, in Riv.
critica dir. priv., 2007, p. 341 ss.; di recente sul tema, v. anche E. D’ALESSANDRO, Pronunce
americane di condanna al pagamento di punitive damages e problemi di riconoscimento in
Italia, in Riv. dir. civ., 2007, p. 383 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Danno da violazione della disciplina
antitrust e rimedi, in Riv. dir. comm., 2006, p. 727 ss.
(98) Ex plurimis, v. A. BLASI – F. MUNARI, Commento agli artt. 87 e 88 TCE, in A.
TIZZANO (a cura di), Trattati dell’Unione Europea e della Comunità Europea, Giuffrè
Editore, Milano, 2004, p. 592 ss.; G. STROZZI, Gli aiuti di Stato, in G. STROZZI (a cura di),
Diritto dell’Unione Europea, Parte speciale, seconda ed., G. Giappichelli Editore, Torino,
2005, p. 361 ss.; S. MARINO, Gli aiuti di Stato nella recente giurisprudenza comunitaria
(200-2005), in Dir. Un. Eur., 2006, p. 607 ss.; M. ORLANDI, La disciplina degli aiuti di Stato,
in A. TIZZANO (a cura di), Il diritto privato dell’Unione Europea, seconda ed., tomo II, G.
Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 1668 ss.; A. BIONDI, Gli aiuti di Stato, in A. FRIGNANI
– R. PARDOLESI (a cura di), La concorrenza, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 447
ss.; C. MALINCONICO, Aiuti di Stato, in M. P. CHITI – G. GRECO (diretto da), Trattato di diritto
amministrativo europeo, parte speciale, Tomo I, Giuffrè Editore, Milano, 2007, p. 65 ss.;
E. TONETTI, I poteri amministrativi comunitari in materia di aiuti di Stato, in Riv. tr. dir.
pub., 2007, p. 443 ss.
Tuttavia, anche in tale ambito, il progressivo allargamento dell
’Unione, l’esigenza di decongestionamento dell’attività delle istituzioni
comunitarie, in primis della Commissione europea, e di semplificazione
dell’attività di controllo amministrativo hanno indotto il legislatore comunitario
a distribuire competenze storicamente sottoposte ad un esercizio
centralizzato.
Sebbene in materia non possa parlarsi di un vero e proprio decentramento,
o almeno non nel senso forte prescritto dal reg. 1/2003 per gli artt. 81 e
82 CE, quantomeno si è assistito negli ultimi anni ad un progressivo coinvolgimento
e ad una maggiore responsabilizzazione degli stessi Stati nel sistema
di controllo sugli aiuti; tale fenomeno si è realizzato unitamente allo snellimento
delle procedure di controllo amministrativo (99).
L’esempio più evidente di ciò è rappresentato dal numero crescente di
regolamenti della Commissione contenenti esenzioni per categoria, che trovano
la propria base giuridica nel regolamento del Consiglio n. 994/98, sull
’applicazione degli articoli 92 e 93 (ora 87 e 88) del trattato che istituisce
la Comunità europea a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali
(100). Infatti, gli artt. 1 e 2 del regolamento attribuiscono alla Commissione
il potere di dichiarare, mediante proprio regolamento, che talune categorie
di aiuti «sono compatibili con il mercato comune e non soggette all’obbli-
56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(99) Afferma la Commissione che, per far fronte ai tempi lunghi per i controlli essa
«nel quadro dei regolamenti di procedura in vigore, migliorerà, dove possibile, l’amministrazione
e la prassi interna, accrescerà l’efficienza e potenzierà l’attuazione e il controllo »;
tuttavia – prosegue – «dato che il successo in questo ambito dipenderà anche dalle prassi
seguite dagli Stati membri, anch’essi sono chiamati a compiere sforzi per accrescere l’efficienza,
la trasparenza e l’attuazione della politica degli aiuti di Stato ». In modo ancor più
chiaro, poi, la Commissione precisa che « sebbene competente per l’adozione delle norme
di dettaglio in materia di aiuti di Stato sia la Commissione, l’applicazione corretta delle
norme e delle procedure dipende in larga misura dagli Stati membri. Nel quadro dell’allargamento,
il controllo delle misure di aiuto di Stato nei nuovi Stati membri è stato effettuato
da autorità di controllo indipendenti sotto il profilo funzionale. È stata un’esperienza che ha
dato buoni risultati e di cui occorrerà tenere conto nel valutare l’opportunità di intensificare
la cooperazione tra la Commissione e tutti gli Stati membri. A questo proposito, la
Commissione esaminerà se autorità indipendenti negli Stati membri possano assisterla nell
’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato (accertamento e recupero a titolo provvisorio
di aiuti concessi illegalmente, esecuzione delle decisioni di recupero)». Cfr. Piano di
azione nel settore degli aiuti di Stato, Aiuti di Stato meno numerosi e più mirati: itinerario
di riforma degli aiuti di Stato 2005-2009 (Documento di consultazione), del 7 giugno 2005,
COM (2005) 107 def., § 49 e 51.
(100) Reg. CE n. 994/98 del Consiglio, del 7 maggio 1998, in G.U.C.E. L 142 del 14
maggio 1998, p. 1 ss. V. anche la proposta di regolamento del Consiglio, recante modifica
del regolamento (CE) n. 994/98 del Consiglio, del 7 maggio 1998, sull’applicazione degli
articoli 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità europea a determinate categorie di
aiuti di Stato orizzontali, presentata dalla Commissione il 5 ottobre 2006; nonché il progetto
di regolamento generale di esenzione per categoria adottato dalla Commissione il 24 aprile
2007, in G.U.U.E., C 210 dell’8 settembre 2007, p. 14.
go di notifica» (101) ; in tal modo, il tradizionale dogma della competenza
esclusiva della Commissione e del controllo ex ante viene sostituito, per
determinate fattispecie, da un meccanismo di esenzione legale e di controllo
successivo.
Ciò che ai nostri fini rileva, però, è che un tale sistema, per poter correttamente
funzionare ed evitare distorsioni, richiede una maggiore collaborazione
degli stessi Stati nella fase di controllo. Pertanto, secondo quanto prescritto
dall’art. 3, par. 1, reg. 994/98, «la Commissione impone agli Stati membri
norme precise per garantire la trasparenza e il controllo sugli aiuti esentati dall
’obbligo di notifica ai sensi degli stessi regolamenti»; in particolare:
a) appena sono effettuati aiuti esentati ai sensi dei relativi regolamenti,
gli Stati membri trasmettono alla Commissione, ai fini della pubblicazione in
G.U.U.E., una sintesi delle informazioni relative ad essi;
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57
(101) Secondo l’art. 1, paragrafo 1, del reg. n. 994/98, « la Commissione può, mediante
regolamenti adottati secondo la procedura di cui all’articolo 8 del presente regolamento e
a norma dell’art. 92 del trattato, dichiarare che le seguenti categorie di aiuti sono compatibili
con il mercato comune e non soggette all’obbligo di notifica di cui all’art. 93, paragrafo
3 del trattato:
a) gli aiuti a favore :
i) delle piccole e medie imprese,
ii) della ricerca e dello sviluppo,
iii) della tutela dell’ambiente,
iv) dell’occupazione e della formazione
b) gli aiuti che rispettano la mappa approvata dalla Commissione per ciascuno Stato
membro per l’erogazione degli aiuti a finalità regionale».
In base all’art. 2, invece, « la Commissione può, mediante regolamenti adottati secondo
la procedura di cui all’articolo 8 del presente regolamento, decidere che, visto lo sviluppo
e il funzionamento del mercato comune, alcuni aiuti non soddisfano tutti i criteri di cui
all’articolo 92, paragrafo 1 del trattato e sono pertanto dispensati dalla procedura di notifica
di cui all’art. 93, paragrafo 3 del trattato, a condizione che gli aiuti concessi ad una stessa
impresa in un determinato arco di tempo non superino un importo prestabilito ».
Peraltro, secondo l’art. 1 della proposta di modifica al reg. 994/98, cit., all’art. 1, paragrafo
1, lett. a), summenzionato andrebbero aggiunti gli aiuti a favore:
v) della promozione della cultura e della conservazione del patrimonio,
vi) dei danni causati dalle calamità naturali,
vii) della produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli.
Inoltre, stando a quanto previsto dall’art. 1, par. 1, del citato progetto di regolamento
generale di esenzione per categoria, proposto dalla Commissione, l’obbligo di notifica
dovrebbe venir meno per gli:
a) aiuti regionali agli investimenti e all’occupazione;
b) aiuti agli investimenti in favore delle PMI;
c) aiuti per la tutela dell’ambiente;
d) aiuti alle PMI per servizi di consulenza e partecipazione a fiere;
e) aiuti sotto forma di capitale di rischio;
f) aiuti alla ricerca e sviluppo;
g) aiuti alla formazione;
h) aiuti in favore di lavoratori svantaggiati e disabili.
b) gli Stati membri registrano ed elaborano tutte le informazioni riguardanti
l’applicazione delle esenzioni per categoria, mettendole a disposizione
della Commissione, qualora essa le richieda per valutare la conformità di un
aiuto con i regolamenti di esenzione;
c) gli Stati membri trasmettono alla Commissione, almeno una volta
all’anno, una relazione sull’applicazione delle esenzioni per categoria (102).
Ugualmente, sono esentati dall’obbligo di notifica preventiva gli aiuti di
Stato sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, concessi,
a determinate condizioni, alle imprese incaricate della gestione di servizi
di interesse economico generale (103); anche in tali casi, sugli Stati
incombono precisi obblighi di cooperazione (104).
58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(102) Cfr. art. 3, cit., par. 2, 3 e 4.
Tali disposizioni sono sostanzialmente riprodotte in tutti i regolamenti di esenzione
adottati dalla Commissione, sulla base del reg. n. 994/98. In particolare si vedano:
- l’art. 7 del reg. CE n. 68/2001 della Commissione, del 12 gennaio 2001, relativo
all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti destinati alla formazione, in
G.U.U.E. L 10, del 13 gennaio 2001, p. 20 ss.;
- l’art. 9 del reg. CE n. 70/2001 della Commissione, del 12 gennaio 2001, relativo
all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore delle piccole
e medie imprese, in G.U.U.E. L 10, del 13 gennaio 2001, p. 33 ss.;
- l’art. 10 del reg. CE n. 2204/2002 della Commissione, del 12 dicembre 2002, relativo
all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione,
in G.U.U.E. L 337 del 13 dicembre 2002, p. 3 ss.;
- l’art. 8 del reg. CE n. 1628/2006 della Commissione, del 24 ottobre 2006, relativo
all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti di Stato per investimenti a finalit
à regionale, in G.U.U.E. L 302, del 1 novembre 2006, p. 29 ss.;
- l’art. 20 del reg. CE n. 1857/2006, del 15 dicembre 2006, relativo all’applicazione
degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese
attive nella produzione di prodotti agricoli e recante modifica del regolamento (CE) n.
70/2001, in G.U.U.E. L 358, del 16 dicembre 2006, p. 3 ss.;
- l’art. 3, par. 3, del reg. CE n. 1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006,
relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore (de
minimis), in G.U.U.E. L 379, del 28 dicembre 2006, p. 5 ss.
Tali disposizioni trovano, poi, una formulazione unitaria nell’art. 9 del progetto di regolamento
generale di esenzione per categoria, cit.
(103) Cfr. art. 1 della Decisione della Commissione, del 28 novembre 2005, riguardante
l’applicazione dell’articolo 86, paragrafo 2, del trattato CE agli aiuti di Stato sotto forma
di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, concessi a determinate imprese incaricate
della gestione di servizi d’interesse economico generale, in G.U.U.E. L 312, del 29
novembre 2005, p. 67 ss. Della legittimità di tale decisione può, tuttavia, seriamente dubitarsi,
dal momento che non trova fondamento in alcun regolamento di autorizzazione del
Consiglio e, quindi, violerebbe l’art. 89 CE. In tema, v. M. MARTINELLI, Compensazioni
finanziarie di oneri di servizio pubblico e aiuti di Stato, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2007,
p. 113 ss.
(104) In base all’art. 6, primo paragrafo, « gli Stati membri eseguono o fanno eseguire
controlli regolari per garantire che le imprese non ricevano una compensazione eccessiva
rispetto all’importo stabilito ai sensi dell’articolo 5 ». V. anche quanto previsto dagli artt. 7 e 8.
Alla luce di quanto premesso, la sottrazione di sfere di competenza al
controllo esclusivo della Commissione in materia di aiuti di Stato, determina,
in modo correlato, un ampliamento dei poteri dei giudici nazionali nell
’applicazione delle norme comunitarie in questione. Nei casi suddetti, quest
’ultimi non limitano la propria azione al solo ambito dell’art. 88, par. 3, che
– com’è noto – è provvisto di efficacia diretta (105), ma possono immediatamente
applicare le norme contenute nei regolamenti di esenzione per categoria
adottati dalla Commissione. Secondo quanto dichiarato dal quinto considerando
dello stesso reg. 944/98, infatti, i regolamenti di esenzione per
categoria «possono essere direttamente applicati dai giudici nazionali, fatti
salvi gli articoli 5 e 177 del trattato» (ora 10 e 234 CE).
In tal modo, l’applicazione decentrata, da parte dei giudici nazionali,
assume un ruolo fondamentale nel controllo relativo alle norme sugli aiuti di
Stato, reso ancor più importante nelle ipotesi in cui non v’è obbligo di notifica
preventiva. Come sostiene la Commissione nel Piano d’azione nel settore
degli aiuti di Stato, «un altro settore in cui i giudici nazionali potrebbero
svolgere un ruolo maggiore è quello del controllo dell’effettiva risponden-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59
(105) Come precisato dalla Corte di Giustizia, applicando l’art. 88.3 CE, « il giudice
nazionale deve salvaguardare gli interessi dei singoli. Tuttavia, in tale contesto, esso deve
anche prendere in piena considerazione l’interesse comunitario »; cfr. sentenza del 5 ottobre
2006, causa C-368/04, Transalpine Ölleitung, § 48, in Racc., 2006, I-9957. Dal canto suo,
afferma la Commissione che «s’impegnerà anche in azioni di sensibilizzazione, per incoraggiare
le parti interessate a vigilare sulla piena osservanza delle norme in materia di aiuti di
Stato. L’articolo 88, paragrafo 3, del trattato CE è direttamente applicabile e conferisce ai
giudici nazionali il potere di sospendere o di recuperare a titolo provvisorio gli aiuti concessi
illegalmente prima della loro approvazione da parte della Commissione. I ricorsi dei privati
cittadini dinanzi ai giudici nazionali potrebbero pertanto rafforzare la disciplina nel settore
degli aiuti di Stato. Occorre inoltre sensibilizzare maggiormente i revisori dei conti, le
autorità nazionali di regolamentazione dei mercati, le Corti dei conti nazionali. A questo
scopo, la Commissione ha avviato uno studio che pone l’accento su due aspetti importanti
dell’applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato a livello nazionale, ossia il
ruolo delle giurisdizioni nazionali nella tutela dei diritti dei terzi interessati, in particolare i
concorrenti dei beneficiari di aiuti concessi illegalmente, e l’esecuzione a livello nazionale
delle decisioni negative, soprattutto le decisioni che prevedono un obbligo di recupero »;
Piano d’azione nel settore degli aiuti di Stato, cit., §55.
Sull’applicazione dell’art. 88, par. 3, CE da parte dei giudici nazionali, v. la
Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra i giudici nazionali e la
Commissione in materia di aiuti di Stato, in G.U.C.E. C 13, del 23 novembre 1995, p. 8 ss.
Di recente, la Corte di giustizia è giunta a dichiarare finanche «che il diritto comunitario osta
all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile
italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione
di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto
con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata
con decisione della Commissione divenuta definitiva»; sentenza del 18 luglio 2007, causa
C-119/05, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c. Lucchini SpA, § 63,
non ancora pubblicata nella Raccolta.
60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
za ai criteri necessari delle misure rientranti nel campo di applicazione di
un’esenzione per categoria o alle quali si applicano le soglie de minimis e che
non sono state quindi notificate alla Commissione» (106). Inoltre, l’idea di
una governance migliore in materia di aiuti di Stato è anche supportata dal
Parlamento europeo, il quale «sostiene con forza l’idea di formare una rete
più fitta di organi di controllo, per esempio corti dei conti degli Stati membri,
in grado di promuovere la coerenza nell’applicazione delle norme sugli
aiuti di Stato» (107).
11. Considerazioni conclusive
A distanza di qualche anno dalle mie prime considerazioni sul sistema
italiano di applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza,
occorre senz’altro rivedere in senso positivo il giudizio su di esso. Infatti, sia
gli ultimi interventi del legislatore nazionale, sia – anzi soprattutto – la più
recente giurisprudenza civile e amministrativa hanno ricondotto tale sistema
su di un piano di maggiore conformità ai livelli di tutela delle posizioni giuridiche
soggettive che l’ordinamento comunitario prescrive.
Peraltro, alcune delle soluzioni individuate dai giudici nazionali, volte a
proteggere i terzi lesi dalle condotte anticoncorrenziali delle imprese,
appaiono fornire modelli di tutela “esportabili”, perchè capaci di garantire
una maggiore giustizia sostanziale; il riferimento è, in particolare, al riparto
dell’onere della prova, stabilito dalla Cassazione nelle controversie di risarcimento
dei danni anticoncorrenziali tra consumatori e imprese.
Restano alcuni punti critici, che però – ed è questa l’anomalia – si risolvono
in uno svantaggio ed in una diminuzione di garanzie per le situazioni
soggettive che trovano nel diritto interno, non in quello comunitario, la loro
fonte. È il caso, si diceva, dell’unico grado di giudizio previsto dall’art. 33,
secondo comma, della legge 287/90 per le sole fattispecie nazionali, in relazione
al quale occorre attendere un auspicato intervento del legislatore o
della Corte Costituzionale, volto ad eliminare una tale discriminazione a
rovescio, contraria all’art. 3 Cost.
A fronte del positivo attivismo mostrato di recente dalla giurisprudenza
italiana, sempre più animata da “spirito” comunitario, bisogna invece
ammettere che, negli ultimi anni, il principale assente nella tutela dei priva-
(106) Cfr. § 56.
(107) Si veda la Risoluzione del Parlamento europeo sulla riforma degli aiuti di Stato
2005-2009 (2205/2165(INI)), § 48. Inoltre, il Parlamento «sottolinea che qualsiasi decentramento
di competenze a favore delle autorità nazionali richiede un attento monitoraggio e
coordinamento a garanzia di un’applicazione coerente delle norme in tutti gli Stati membri;
ritiene che il decentramento possa comportare il rischio di un’applicazione incoerente delle
norme sugli aiuti di Stato, in particolare a causa della varietà di strutture, di livelli di esperienza
e di perizia delle autorità competenti degli Stati membri; sottolinea l’importanza di
una rete funzionale, che raggruppi le autorità competenti negli Stati membri» (§ 49).
ti lesi dagli illeciti antitrust di rilevanza comunitaria è la Corte di giustizia;
sui temi “caldi” del diritto della concorrenza, primo fra tutti la protezione dei
consumatori, il richiamo costante al principio di autonomia procedurale degli
Stati membri, effettuato dai giudici lussemburghesi, se tante volte rappresenta
il necessario corollario delle politiche di decentramento, in altre può apparire
come una declinazione di responsabilità. Tanto più che, in molti casi,
sarebbe preferibile un’interpretazione uniforme degli istituti del diritto
comunitario della concorrenza (in primis delle azioni di risarcimento dei
danni), per evitare che l’autonomia esercitabile dagli ordinamenti nazionali
si risolva in una disparità di trattamento di uguali diritti attribuiti ai privati
dall’ordinamento comunitario.
Se questo è lo “stato dell’arte” in tema di applicazione decentrata delle
norme comunitarie di concorrenza, la nuova “sfida” sembra essere – come
già indicato – la partecipazione degli organi nazionali (giudici ordinari, corti
dei conti, revisori contabili, ecc.) al controllo sugli aiuti di Stato, cosicché la
tutela dei terzi dalle alterazioni della concorrenza, causate dall’intervento
degli Stati nell’economia a favore di determinate imprese, possa divenire il
principale strumento con il quale garantire l’effetto utile delle norme degli
artt. 86 CE ss.
In epilogo, tutte le riflessioni sin qui compiute, dall’analisi dei nuovi
poteri dell’Agcm alle interrelazioni tra public e private enforcement, rimandano
alla questione dell’indipendenza delle autorità nazionali di concorrenza,
che potrebbe essere radicata nell’ordinamento comunitario, prim’ancora
che in quello interno (108).
Da un lato, infatti, l’attribuzione dei poteri descritti (primo fra tutti quello
cautelare) e la progressiva estensione dell’azione delle autorità anche alla
tutela degli interessi privati appaiono ridurre sempre più le differenze tra i
loro compiti e quelli propri dei giudici interni, allorquando applicano le
norme comunitarie di concorrenza. Dall’altro, la previsione di moduli consensualistici
all’interno del procedimento antitrust e di strumenti di eliminazione
concordata, tra imprese ed autorità di controllo, degli effetti anticompetitivi
riducono la possibilità di contenziosi successivi tra imprese destinatarie
del provvedimento finale ed autorità; e così viene limitata de facto la
possibilità di controllo, da parte dei giudici, sulla legittimità dell’azione delle
autorità amministrative indipendenti.
Quindi, il consolidamento delle funzioni paragiurisdizionali delle autorit
à antitrust nazionali e l’assottigliamento delle sfere d’intervento dei giudici,
in sede di sindacato successivo, rafforzano ancor di più l’esigenza dell’in-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61
(108) In base all’art. 35, primo paragrafo, del regolamento «gli Stati membri designano
l’autorità o le autorità garanti della concorrenza responsabili dell’applicazione degli articoli
81 e 82 del trattato in modo da garantire un’efficace conformità alle disposizioni del
presente regolamento».
dipendenza delle prime non solo rispetto all’esecutivo (109), ma anche allo
stesso mercato (110); tanto più che, come detto, si profila un crescente coinvolgimento
degli organi interni anche nel sistema di controllo sugli aiuti di
Stato. Peraltro, rafforzando l’indipendenza delle autorità nazionali in questione
potrebbe anche giungersi nel tempo ad una loro legittimazione ex art.
234 CE, che servirebbe a migliorare in modo considerevole la corretta ed
uniforme applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza
da parte delle stesse autorità (111).
Tuttavia, mentre si rassegnano queste conclusioni, si apprende che il
Consiglio Europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 ha definitivamente
abbandonato il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, dando
contestualmente incarico alla Conferenza Intergovernativa per la redazione
di un nuovo “trattato di riforma” da approvare entro la fine di quest’anno
(112). A leggere il mandato, che intende rilanciare il processo d’integrazione
europea, emerge subito la sottrazione della libera concorrenza dall’ambito
degli obiettivi primari dell’Unione; il futuro art. 3, par. 3, TUE, infatti,
dovrebbe limitarsi a prevedere che «l’Unione instaura un mercato interno»
(113), senza più precisare, come nel precedente trattato costituzionale, che in
62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(109) A tale proposito, si veda il disegno di legge n. 1366, contenente Disposizioni in
materia di regolazione e vigilanza sui mercati e di funzionamento delle Autorità indipendenti
preposte ai medesimi; nella relazione di accompagnamento si sostiene la necessità «che i
processi di liberalizzazione siano accompagnati da un efficace sistema di regolazione e di
vigilanza, fondato sull’azione di organismi pubblici dotati di un alto livello di indipendenza,
di autonomia e di capacità tecnica, in grado di agire in modo efficace e trasparente». Si
vedano, in particolare, gli articoli contenuti al Capo IV della proposta. Sul tema, v. F.
GHEZZI, L’Autorità garante della concorrenza e il disegno di legge governativo di riforma
delle autorità indipendenti, in Riv. soc., 2007, p. 532 ss.
(110) In questo senso, sembrano condivisibili le preoccupazioni espresse sulle modalit
à di autofinanziamento dell’attività di controllo sulle concentrazioni di dimensione nazionale
da parte dell’Agcm; cfr. P. DE PASQUALE, Ipotesi di discriminazione alla rovescia nel
comma 69 della legge finanziaria 2006, in Dir. pub. comp. eur., 2006, p. 1375 ss. V. anche
F. GHEZZI, op. cit., con particolare riferimento alle p. 559 ss.
(111) Legittimazione allo stato esclusa dalla Corte di giustizia sulla base delle considerazioni
espresse nella sentenza del 31 maggio 2005, causa C-53/03, SYFAIT, par. 29 ss.; in
proposito v. L. RAIMONDI, La nozione di giurisdizione nazionale ex art. 234 TCE alla luce
della recente giurisprudenza comunitaria, in Dir. Un. Eur., 2006, p. 369 ss.
(112) Cfr. Consiglio europeo di Bruxelles 21 e 22 giugno 2007, Conclusioni della presidenza,
Bruxelles, 23 giugno 2007, § 10-11. Con esse «il Consiglio europeo invita la futura
Presidenza a elaborare un progetto di testo del trattato in linea con i termini del mandato e a
sottoporlo alla CIG non appena questa sia avviata. La CIG concluderà i lavori al più presto possibile,
e in ogni caso entro il 2007, al fine di concedere tempo sufficiente perché il trattato risultante
possa essere ratificato prima delle elezioni del Parlamento europeo del giugno 2009».
(113) V. Mandato della CIG del 2007, del 26 giugno 2007, Allegato I, Modifiche al
Trattato UE, § 3, reperibile sul sito www.europa.eu.int. ed ora anche il Progetto di Trattato
che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea,
del 5 ottobre 2007. Sul processo di revisione v. anche la Comunicazione della Commissione
al Consiglio, La revisione dell’Europa per il XXI secolo, del 10 luglio 2007.
esso «la concorrenza è libera e non falsata» (114). Ed un tale vulnus non
sembra possa essere compensato dalla prevista adozione di un Protocollo sul
mercato interno e sulla concorrenza (115), da allegare al trattato di riforma.
Se a ciò si darà seguito, com’è verosimile, si paventa il rischio di una
declassificazione della politica comunitaria di concorrenza rispetto alle altre
e di un suo depotenziamento. Certo, resteranno ferme le attuali regole contenute
agli artt. 81 CE ss., da trasfondere in un venturo trattato sul funzionamento
dell’Unione, nonché l’acquis giurisprudenziale, ma una tale omissione
volontaria rischia di sortire effetti nei confronti dell’esercizio della sovranit
à statale, specie qualora esso si tramuti in intervento pubblico nell’economia;
in tali casi il diritto comunitario potrebbe ritrarsi, svincolando gli ordinamenti
nazionali da una serie di obblighi finora imposti proprio sulla base
della leale collaborazione al raggiungimento degli obiettivi primari della
Comunità, tra i quali oggi figura l’instaurazione di un regime di concorrenza
non falsata nel mercato interno.
Accantonando per il momento ogni considerazione sulle conseguenze
giuridiche di tutto ciò, resta una scelta governativa che non tiene conto dei
fatti, delle istanze sociali, delle concrete dinamiche del mercato e delle sue
reali esigenze, emerse in cinquant’anni d’integrazione europea, che identificano,
invece, la libera concorrenza come un bene pubblico ed un valore fondamentale,
come uno dei tanti aspetti della libertà dell’individuo. Viene in
mente, allora, quanto si chiedeva Mazzini: «Perché maledire a un’idea, quando,
superato lo stadio, nel quale il dubbio è concesso, s’è fatto verbo dei
milioni e simbolo d’intere nazioni?» (116).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63
(114) Cfr. art. I-3, par. 2, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
(115) In esso si dovrebbe prevedere che : «Le alte parti contraenti, considerando che il
mercato interno ai sensi dell’art. 3 del trattato sull’Unione europea comprende un sistema
che assicura che la concorrenza non sia falsata, hanno convenuto che, a tal fine, l’Unione
adotta, se necessario, un’azione in base alle disposizioni del trattato, compreso in base
all’articolo 308 del trattato sul funzionamento dell’Unione». Cfr. Protocollo n. 6 al nuovo
Trattato.
In un suo comunicato stampa, la Commissione giustifica la mancata inclusione tra gli
obiettivi primari dell’Unione sostenendo «that competition is not an objective in itself but a
means to an end»; cfr. Memo/07/283, del 10 luglio 2007, reperibile nel sito
www.europa.eu.int
(116) G. MAZZINI, Pensieri sulla democrazia in Europa, in G. MAZZINI, Opere,
Biblioteca Treccani, 2006, p. 239 ss.
64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Appalto pubblico o concessione di servizi?
La Corte enfatizza il criterio del rischio.
(Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione seconda, sentenza 18 luglio 2007
nella causa C-382/05)
Con il proprio ricorso la Commissione ha chiesto alla Corte di Giustizia che venisse
sanzionata la violazione della direttiva 92/50/CEE da parte della Presidenza del Consiglio
dei Ministri, per avere quest’ultima indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per
l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani senza la pubblicazione dell’apposito bando
di gara d’appalto nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee.
Il ricorso per infrazione avviato, ex art. 226 TCE, dalla Commissione
Europea avverso il comportamento lesivo dello Stato italiano nei confronti
della direttiva 92/50/CEE (1), si è di recente concluso con l’emanazione di
una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo, con la quale sono stati
forniti - in seguito ad una interpretazione autentica della direttiva elusa, ed
in particolare dei suoi artt. 1,11, 15 e 17 – particolari chiarimenti in materia
di appalti pubblici di servizi, al fine di tenere distinto tale fenomeno da quello
delle concessioni.
Oggetto di contestazione è la procedura di stipula delle convenzioni per
l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata,
prodotta nei comuni della Regione siciliana. Tale procedura, indetta
nel 2002 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la
protezione civile – Ufficio delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle
acque in Sicilia, sarebbe stata realizzata senza rispettare le forme di pubblicit
à espressamente previste dalla direttiva citata, consistenti nella pubblicazione
dell’apposito bando di gara sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità
Europee (2). Ad avviso del governo italiano, ed alla luce della giurispruden-
LE DECISIONI
(1) Si tratta della direttiva adottata dal Consiglio il 18 giugno 1992 (G.U. L209, p. 1),
che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, successivamente
modificata dalla direttiva 2001/78/CE della Commissione, del 13 settembre 2001
(G.U. L285, p. 1). Più recente è la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
2004/18/CE, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, cd. “direttiva unificata” (G.U. L134 pp.
114-240).
(2) Sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee era stato pubblicato, in data 16
agosto 2002, un avviso conforme al modello di avviso “indicativo” di cui all’allegato III
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 65
za interna, le procedure oggetto di contestazione, non avrebbero dovuto essere
assoggettate alle forme di pubblicità richieste dalla direttiva in materia di
appalti pubblici di servizi, trattandosi, nel caso di specie, del diverso fenomeno
della concessione di servizi.
Nella fase precontenziosa la Commissione aveva inviato alla Repubblica
italiana una lettera di diffida imputando a tale Stato membro la violazione
degli artt. 11,15 e 17 della direttiva 92/50. Le osservazioni presentate
dall’Italia in risposta alla lettera di messa in mora non venivano considerate
sufficienti dalla Commissione, la quale provvedeva a trasmettere allo Stato
– in via definitiva – il parere motivato (3), invitando quest’ ultimo a porre
fine all’inadempimento contestato entro il termine di due mesi.
La Commissione aveva successivamente dato avvio alla fase contenziosa,
considerando poco soddisfacente la risposta fornita dallo Stato italiano al
parere motivato. Durante tale fase emergeva quale primo punto controverso
quello concernente la natura delle quattro convenzioni stipulate dal
Presidente della Regione siciliana, nella qualità di Commissario delegato per
l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia: ad avviso della
Commissione “le convenzioni controverse non possono essere qualificate
come concessioni di servizi escluse, come sostenuto dalla Repubblica italiana,
dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50” … “non sono state
concluse nel rispetto dei requisiti di pubblicità derivanti da tale direttiva”.
Atal riguardo veniva richiamato dalla Commissione l’art. 1, lett. a) della
direttiva, in virtù del quale sono appalti pubblici di servizi “i contratti a titolo
oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed un’amministrazione
aggiudicatrice…”.
I successivi articoli invocati prescrivono, in capo all’amministrazione
aggiudicatrice di un appalto di servizi, adeguate forme di pubblicità; in particolare
la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee
della direttiva 92/50, il quale tuttavia non rispettava appieno tutti i requisiti del modello di
bando di gara d’appalto, come indicati nel medesimo allegato.
Il 9 agosto dello stesso anno veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione
Siciliana il cd. “avviso controverso”, comprendente tre allegati: l’allegato A che indicava le
“linee guida per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata
prodotta nei Comuni della regione siciliana”, l’allegato B intitolato “Piano finanziario
riassuntivo” e l’allegato C contenente una convenzione tipo da stipulare con gli operatori
prescelti.
La normativa comunitaria prevede infatti l’obbligo per le amministrazioni che intendono
aggiudicare un appalto pubblico di servizi mediante procedura aperta, ristretta o negoziata,
di rendere nota tale intenzione con un bando di gara che deve essere pubblicato per esteso
sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee e nella banca dati TED, nelle rispettive
lingue originali.
(3) Il parere motivato è l’atto, a carattere non obbligatorio, con il quale si chiude la fase
precontenziosa; la non obbligatorietà dello stesso ne impedisce l’impugnabilità, ai sensi dell
’art. 230 TCE.
66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
del bando relativo, il quale deve essere redatto secondo i modelli contenuti
negli allegati. Pertanto, l’omissione delle forme di pubblicità prescritte integrava
la violazione del diritto comunitario da parte dell’Italia.
Per inciso, degna di rilievo è la circostanza che la direttiva 92/50/CE non
fornisce alcuna definizione del diverso fenomeno della concessione di servizi.
Dalle ricostruzioni fornite dalle parti emergevano difficoltà, e sul modo
di valutare la remunerazione spettante all’operatore, e sul rischio inerente al
servizio erogato. In relazione alla prima difficoltà (la remunerazione), al
punto 20 della sentenza si legge che secondo la Commissione “la remunerazione
consisterebbe in una tariffa versatagli direttamente dal Commissario
delegato, tariffa il cui importo viene fissato in euro per tonnellata di rifiuti
trasferita all’operatore dai comuni” . Sempre secondo la Commissione, “i
redditi che l’operatore sarebbe in grado di trarre dalla vendita di energia
elettrica prodotta in occasione della termovalorizzazione dei rifiuti non
costituirebbero un elemento del corrispettivo di detto operatore”.
Al contrario, il governo italiano qualificava dette convenzioni come concessioni
di servizi - pertanto escluse dall’ambito di applicazione della direttiva
(4) - perché i servizi venivano erogati direttamente agli utenti, tenuti pertanto
a versare ai comuni una tariffa diretta a coprire tanto la raccolta quanto
il trattamento dei rifiuti, mentre il Commissario delegato si sarebbe limitato
a svolgere un ruolo di mero intermediario (punto 24).
Inoltre, proprio in relazione alla natura di concessione delle convenzioni,
la remunerazione poteva consistere tanto nel prezzo pagato dall’utente,
quanto in altre attività connesse al servizio prestato, e quindi anche nella
vendita di energia ricavata dalla termovalorizzazione dei rifiuti (punto 25).
Quanto alla seconda difficoltà riscontrata, concernente cioè il rischio
connesso al servizio erogato, la Commissione rilevava la natura di appalto di
servizi delle convenzioni, le quali prevedevano il conferimento di un quantitativo
annuo minimo di rifiuti all’operatore, il quale pertanto non avrebbe
sopportato personalmente il rischio inerente a tale attività (punto 21); al contrario
il governo italiano faceva notare come i proventi da realizzare da parte
dell’operatore presentassero carattere aleatorio, tenuto conto anche dell’importanza
finanziaria degli investimenti effettuati e della durata ventennale
delle convenzioni controverse (punto 26), nonché del ruolo di mera vigilanza
dell’Amministrazione.
La Corte di Lussemburgo, sposando appieno le argomentazioni della
Commissione, è intervenuta in primo luogo a chiarire, o meglio a confutare,
(4) Tale esclusione è stata poi confermata dalla Corte nella sentenza che si commenta,
al punto 29, esclusione che “risulta da giurisprudenza costante”: vengono a tal fine richiamate
le sentenze 21 luglio 2005, causa C-231/03, Consorzio Aziende Metano (Coname) c.
Comune di Cingia de’ Botti (Coname), in Racc. p. I – 7287, punto 9, e 13 ottobre 2005,
causa C- 458/03 Parking Brixen GmbH c. Gemeinde Brixen, Stadtwerke Brixen Ag,
(Parking Brixen), in Racc. p. I – 8585, punto 42.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 67
quanto sostenuto dal governo italiano secondo il quale le convenzioni controverse
“come emerge dalla giurisprudenza nazionale, devono essere qualificate
come concessioni di servizi” escluse dall’ambito di applicazione
della direttiva 92/50 CE.
La definizione di appalto pubblico di servizi rientra invece nella sfera del
diritto comunitario e pertanto “la qualificazione delle convenzioni controverse
nell’ordinamento italiano non è pertinente al fine di accertare se queste
ultime rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 92/50 ” (5).
Alivello comunitario ciò che rileva ai fini della qualificazione di un contratto
come appalto pubblico di servizi o come concessione di servizio pubblico
è l’oggetto del contratto e le modalità di remunerazione pattuite: nel
caso di specie, ad una prima rapida scorsa delle convenzioni, si potrebbe
concludere che esse rientrino nell’appalto di servizi perchè hanno come
oggetto il servizio di raccolta e trattamento di rifiuti non speciali (servizio
che può essere compreso tra quelli di cui all’allegato IA della direttiva - eliminazione
di scarichi di fogna e di rifiuti; disinfestazione e servizi analoghi)
(6) e perché la remunerazione consiste nel versamento di una tariffa fissa
all’operatore da parte del Commissario delegato.
Pertanto, la circostanza ultronea che i prestatori fossero in grado di beneficiare
dei proventi derivanti dalla rivendita dell’energia elettrica prodotta a
seguito della termovalorizzazione dei rifiuti, non è stato considerato dalla
Corte argomento sufficiente a sostenere la natura di concessione della convenzione,
dal momento che l’art. 1, lett. a) della direttiva 92/50, nel fornire
la nozione di appalto pubblico, parla di “contratto a titolo oneroso”, ove l’onerosit
à è riferita alla controprestazione offerta al prestatore (consistente nel
pagamento da parte del Commissario delegato dell’importo della tariffa) a
fronte della prestazione del servizio di trattamento dei rifiuti conferiti con
recupero di energia (punti 39-40). Sulla base di tali considerazioni, la Corte
ha ritenuto di poter affermare la natura di appalti pubblici di servizi delle
convenzioni controverse ritenendo pertanto che la loro aggiudicazione si
sarebbe potuta realizzare soltanto in osservanza della predetta direttiva ed in
particolare dei suoi artt. 11, 15 e 17.
Al punto 34 la Corte, richiamando la giurisprudenza comunitaria più
recente (7), osservava come la concessione di servizi si caratterizzi per le
(5) Punto 30 della sentenza che si commenta. La Corte richiama inoltre alcuni precedenti
giurisprudenziali: la sentenza 20 ottobre 2005, causa C-264/03, Commissione c.
Francia, Racc. p. I-8831, punto 36, e 18 gennaio 2007, causa C- 220/05, Auroux e
ac.Commune de Roanne, pubblicata in Racc. p. I-00389, 2007 (punto 40).
(6) A tal proposito non è stato considerato rilevante dalla Corte, al fine di qualificare la
procedura de qua come concessione di servizi, il fatto che il trattamento di rifiuti rientrasse
nell’interesse generale, come invece teneva a precisare il governo italiano (punti 23-43).
(7) Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia del 7 dicembre 2000, causa C- 324/98,
Telaustria Verlags GmbH, Telefonadress GmbH c. Telekom Austria AG (Telaustria e
Telefonadress), in Racc. p. I-10745, punto 58, sentenza Parking Brixen, cit., punto 40.
68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
peculiari modalità di remunerazione dell’operatore, consistenti nel diritto di
quest’ultimo di sfruttare la propria prestazione con annessa assunzione del
rischio collegato alla gestione dei servizi in questione.
Al contrario, nel caso di specie, tale operatore risultava remunerato dal
Commissario delegato il quale si impegnava a garantire che tutti i comuni
interessati conferissero all’operatore l’integralità della loro frazione residua
di rifiuti e che un quantitativo minimo di essi venisse conferito a quest’ultimo
(punto 36).
La Corte accoglieva il ricorso della Commissione e condannava l’Italia
alle spese.
L’orientamento manifestato dalla Corte di Giustizia risulta essere in sintonia
con l’intenzione di garantire la concorrenza e la parità nelle possibilità
di accesso alle procedure da parte di tutti gli operatori economici comunitari.
Per tale ragione i giudici di Lussemburgo hanno avuto la premura di specificare
che “la definizione di appalto pubblico di servizi rientra nella sfera
del diritto comunitario” (punto 30).
L’assenza di una definizione normativa di concessione di servizi, tanto
in ambito nazionale quanto in ambito comunitario, è stata superata soltanto
di recente, in seguito alla adozione delle direttive comunitarie n. 17 e n. 18
del 2004, i cui contenuti sono stati interamente ripresi dal Codice dei contratti
pubblici (D.Lgs. n. 163/2006 e successive modificazioni).
A livello comunitario, le difficoltà che si incontravano (e che tuttora si
incontrano) nel definire la concessione di servizi pubblici erano legate ai
diversi modi in cui gli ordinamenti dei vari Stati membri disciplinavano l’istituto.
In particolare l’Italia e la Francia basavano la concessione su un rapporto
fiduciario tra amministrazione e terzo concessionario, basato sull’intuitu
personae, al quale ultimo, venivano trasferiti, attraverso un atto concessorio,
i compiti propri della prima. Si sottolineava pertanto che le procedure
dell’evidenza pubblica, sebbene più adeguate ad assicurare la concorrenza,
avrebbero minato il carattere fiduciario dei rapporti della PA, limitando di
conseguenza l’efficienza della stessa (8).
Successivamente, la Comunicazione interpretativa della Commissione
sulle concessioni, adottata il 12 aprile 2000 e pubblicata in GURI C-121 del 29
aprile 2000, individuava l’elemento distintivo della nozione di concessione di
lavori (ma la stessa definizione è stata poi estesa alla concessione di servizi)
nell’attribuzione del diritto di gestire l’opera: “Anzitutto il diritto di gestione
consente al concessionario di percepire proventi dall’utente (ad esempio, in
forma di pedaggio o di canone) per un determinato periodo di tempo. La dura-
Rileva al riguardo anche l’ordinanza 30 maggio 2002, causa C-358/00, Buchhändler-
Vereinigung, Racc .p. I- 4685, punti 27-28.
(8) In tal senso B. MAMELI, Servizio pubblico e concessione : l’influenza del mercato
unico sui regimi protezionistici e regolamentati, Milano, 1998, pp. 440 ss.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 69
ta della concessione rappresenta, pertanto, un elemento importante della
remunerazione del concessionario. Quest’ultimo non è quindi direttamente
remunerato dall’autorità aggiudicatrice, ma ottiene da questa il diritto di percepire
i proventi derivanti dall’uso dell’opera realizzata. Il diritto di gestione
implica anche il trasferimento della responsabilità di gestione. Tale responsabilit
à investe al tempo stesso gli aspetti tecnici, finanziari e gestionali dell’opera.
Spetta pertanto al concessionario effettuare gli investimenti perché l’opera
possa utilmente essere messa a disposizione degli utenti e sopportarne
l’onere di ammortamento. Inoltre, il concessionario assume non soltanto i
rischi inerenti ad una qualsiasi attività di costruzione ma dovrà sopportare
quelli connessi alla gestione e all’uso abituale dell’impianto”.
Allo stesso modo, l’ordinanza commissariale del 1° marzo 2005, nell’autorizzare
la realizzazione del progetto presentato da Sicil Power SpA - una delle
società con le quali il Commissario ha stipulato le “convenzioni controverse” -
relativo al sistema di gestione integrato per l’utilizzo della frazione residua dei
rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata (Sistema Messina-Catania),
faceva gravare proprio sulla società i rischi connessi alla realizzazione e alla
gestione degli impianti di termovalorizzazione, stabilendo alla lettera g) dell
’art. 5 che “gli impianti devono essere sempre mantenuti nel miglior stato di
efficienza tale da garantire sempre il rispetto della presente ordinanza e delle
caratteristiche tecniche relative a ciascuna tipologia di impianto”, nonché i
relativi adempimenti e la prestazione di idonee garanzie finanziarie “a copertura
delle spese derivanti da eventuali operazioni di smaltimento di rifiuti,
compresa la bonifica ed il ripristino ambientale” (art. 7 dell’ordinanza).
Al punto 36 della sentenza della Corte di Giustizia che qui si commenta,
si legge che “detto operatore risulta remunerato dal Commissario
mediante una tariffa fissa conferitagli per tonnellata di rifiuti….tali convenzioni
prevedono inoltre l’adeguamento dell’importo della tariffa nell’ipotesi
in cui la quantità annua effettiva di rifiuti conferiti sia minore del 95% o
maggiore del 115% rispetto alla suddetta quantità minima garantita, ciò al
fine di garantire l’equilibrio finanziario ed economico dell’operatore.
Queste stesse convenzioni prevedono inoltre, che la tariffa sia rinegoziata
qualora, per conformarsi ad un mutamento del quadro normativo l’operatore
debba affrontare investimenti eccedenti un certo livello”.
L’analisi di questo punto risulta particolarmente significativa sotto più
profili, tutti indirizzabili verso la individuazione di una concreta sopportazione
dei rischi da parte dell’operatore, chiamato a garantire una duratura ed
efficiente stabilità al sistema di gestione dell’impianto, stabilità per la quale
è tenuto ad effettuare investimenti pluriennali di entità più o meno rilevante
(a seconda cioè che si tratti di realizzare un impianto ex novo - nel qual caso
si pone la necessità di far fronte a rischi ulteriori connessi alle scelte di ubicazione
del termovalorizzatore con conseguenti e non meno importanti rischi
ambientali - ovvero di destinare alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti un
impianto già esistente per il quale occorre sempre effettuare, prima della sua
messa in funzione, una campagna di monitoraggio dell’ambiente nella zona
interessata dall’intervento autorizzato).
70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La Corte ha escluso la sussistenza del regime concessorio sulla base della
presenza di una tariffa fissa conferita all’operatore dal Commissario delegato
in relazione alle tonnellate di rifiuti: eppure si tratta di dati entrambi variabili
ed incerti, i quali non assicurano che i costi sopportati siano effettivamente
coperti dai ricavi conseguiti. Ciò è tanto più vero se si considera che è stata
avvertita la necessità di prevedere una revisione dei prezzi ed un adeguamento
della tariffa “nell’ipotesi in cui la quantità annua effettiva di rifiuti conferiti
sia minore del 95% o maggiore del 115% rispetto alla quantità minima
garantita” e “in relazione all’andamento dei costi relativi al personale, ai
materiali di consumo e alle manutenzioni”. Pertanto, nonostante la garanzia di
una tariffa minima, che già di per sé non si pone in contrasto con il regime concessorio
– come ribadito ed ora esplicitato nel Codice dei contratti pubblici
all’art. 30 (ove è chiaramente consentita la concessione di un servizio pubblico
dietro pagamento di un prezzo “qualora al concessionario venga imposto di
praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla
somma del costo del servizio e dell’ordinario utile di impresa, ovvero qualora
sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell’equilibrio
economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione
alla qualità del servizio prestato”) – un rischio connesso alla quantità annua
dei rifiuti conferiti è comunque sopportato dall’operatore economico, anche
nell’ipotesi in cui consegua un utile da tale attività.
Pertanto, anche alla luce della impostazione comunitaria, per la quale il
rischio è elemento fondamentale nella individuazione del regime concessorio,
non può escludersi che anche nel caso di specie ci si trovi in presenza di una
concessione. A questi dati, sui quali si è soffermata la Corte di Giustizia, ne
vanno aggiunti dei successivi, i quali, pur non essendo stati sottoposti all’attenzione
della Corte, sono necessari per completare il quadro di riferimento: in
data 27 settembre 2004 è stato approvato lo schema di atto aggiuntivo alla convenzione
già firmata con gli operatori permettendo il conferimento agli inceneritori
anche dei rifiuti speciali e dei sovvalli provenienti dalle operazioni di
selezione e valorizzazione della frazione secca raccolta in modo differenziato.
Ciò ha consentito di ottenere che la tariffa fissata per il conferimento ai
quattro sistemi da realizzare in Sicilia non variasse all’aumentare della raccolta
differenziata. Quindi, “solo se il totale dei rifiuti conferiti al sistema –
urbani, speciali, sovvalli - dovesse scendere al di sotto della quantità pari al
65% del totale dei rifiuti urbani prodotti in Sicilia e certificati dall’Apat, sorgerebbe
la necessità di una rinegoziazione della convenzione e di una eventuale
modifica tariffaria” (9).
(9) V. Relazione della Corte dei Conti del 2005 – Sezione centrale di controllo sulla
gestione delle Amministrazioni dello Stato – Programma delle attività di controllo sulla
gestione per l’anno 2005 (deliberazione n. 1/2005/G) – La gestione dell’emergenza rifiuti
effettuata dai Commissari Straordinari del Governo.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 71
Si è cercato in questo modo di trovare la soluzione più idonea ad evitare
che i cittadini subissero le conseguenze di una situazione di sistemica
incertezza connessa alla quantità annua di rifiuti effettivamente conferita ad
ogni impianto, riducendo le notevoli ripercussioni sulla spesa del servizio,
variabile in relazione a tali quantitativi e facendo chiaramente gravare sull’operatore
il rischio della gestione di tale sistema integrato.
Una chiosa: l’art. 9 dell’ordinanza del 1° marzo 2005 definisce “concessionari
del servizio integrato” gli operatori industriali ai quali è stata affidata
la gestione del servizio, mentre al 3°comma dell’art. 117 del Testo Unico
degli enti locali (D.Lgs. 267/2000, da ultimo modificato dal D.Lgs. 152/2006,
le cui disposizioni si applicano in quanto compatibili con le attribuzioni previste
dallo statuto della Regione siciliana e dalle relative norme di attuazione)
si legge che “qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall’ente pubblico
per effetto di particolari convenzioni e concessioni dell’ente ……….. la
tariffa è riscossa dal soggetto che gestisce i servizi pubblici”.
Non risulta pertanto difficile concludere, che almeno a livello nazionale,
si fosse convinti di aver concluso una convenzione avente ad oggetto una
concessione e non un appalto.
Sul piano del diritto nazionale va rilevato come soltanto di recente, sulla
scia della direttiva 2004/18/CE (10), sia stata fornita una nozione di concessione
di servizi. A tal riguardo vale la pena richiamare l’art. 3, comma 10 e
12 e l’art. 30 del D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163, e successive modificazioni
(Codice dei contratti pubblici relativi a lavori servizi e forniture, emanato in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). In particolare, il
comma 12 dell’art. 3 dispone che “la concessione di servizi è un contratto
che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad
eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente
nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un
prezzo, in conformità all’art. 30”; e secondo tale ultimo articolo “le disposizioni
del codice non si applicano alle concessioni di servizi” ; al 2° comma
poi si legge che “nella concessione di servizi la controprestazione a favore
del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente
e di sfruttare economicamente il servizio…”.
(10) In verità, un primo tentativo di definizione del fenomeno a livello normativo era
contenuto in una prima proposta della Direttiva servizi, in base alla quale doveva intendersi
per “concessione di pubblico servizio…un contratto diverso dalla concessione di lavori
pubblici…conclusi tra un amministratore ed un altro ente di sua scelta in forza del quale
l’amministrazione trasferisce all’ente l’esecuzione di un servizio pubblico di sua competenza
e l’ente accetta di svolgere tale attività avendo come corrispettivo il diritto di sfruttare il
servizio oppure tale diritto accompagnato da controprestazione pecuniaria”. Tale passo
della Proposta venne poi stralciato dal testo definitivo della direttiva 92/50, come ricorda G.
GRECO, Appalti pubblici di servizi e concessioni di servizio pubblico, F. MASTRAGOSTINO (a
cura di), Padova, 1998, p. 8.
72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Pertanto la concessione si presenta come una mera modalità di erogare a
terzi gli stessi servizi che le pubbliche amministrazioni possono garantire
attraverso l’appalto.
Più di recente il TAR Lombardia (sez. I, sent. 9 gennaio 2007 n. 4) affermando
che la distinzione tra appalto e concessione si individua in relazione
al rischio inerente alla gestione del servizio, ha considerato sussistenti i presupposti
dell’appalto quando il corrispettivo viene pagato al prestatore direttamente
dall’Amministrazione aggiudicatrice, mentre ricorrono i presupposti
della concessione quando “la remunerazione del prestatore di servizi proviene
non già dall’autorità pubblica interessata, bensì dagli importi versati
dai terzi per l’utilizzo del servizio, con la conseguenza che il prestatore assume
il rischio della gestione dei servizi in questione” (11).
Si potrebbe altresì affermare che il concessionario assume su di sé il
rischio della gestione anche nell’ipotesi, tra l’altro supportata normativamente
dall’art 30, 1° comma del Codice dei contratti pubblici, in cui il diritto
di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio reso
sia integrato da una remunerazione in denaro “qualora sia necessario assicurare
al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario
degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità
del servizio reso”.
In dottrina è stato affermato che se è vero che la distinzione tra concessione
e appalto pubblico di servizi passa attraverso il carattere oneroso del
servizio - inteso in senso economico e finanziario - è anche vero che non
bisogna confondere l’aspetto del corrispettivo con le “particolari modalità di
pagamento, dipendenti dal sistema di prelievo” le quali costituiscono “un
elemento estrinseco ed occasionale”.
Pertanto si conclude nel senso della qualificazione “di vere e proprie
concessioni, nel caso, ad esempio, della raccolta e dello smaltimento dei
rifiuti solidi urbani, i cui oneri non si può certo dire che non siano sostenuti
dagli utenti sol perché su di essi gravano tasse e non tariffe. Le tasse – che
sono, com’è noto, in funzione e in proporzione del servizio reso – costitui-
(11) Si veda anche la sentenza del Consiglio di Stato, 15 maggio 2002, n. 2634, sez.
VI, secondo la quale “è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione
dall’appalto di servizi. Pertanto un servizio pubblico si rivela quale appalto di servizi
quando il suo onere sia interamente a carico dell’amministrazione, mentre se il servizio
venga reso non a favore dell’amministrazione ma di una collettività indifferenziata di utenti
e venga almeno in parte pagato dagli utenti all’operatore del servizio allora si è in ambito
concessorio”. Cfr. anche la sentenza del Consiglio di Stato , 30 aprile 2002, n. 2294, sez.
V, a mente della quale non è sufficiente la trilateralità del rapporto tra amministrazione, concessionario
ed utenti per configurare una concessione di servizi, risultando rilevante il fatto
che il rischio economico della gestione sia a carico del concessionario, con la conseguenza
che la stessa attività può essere conferita in appalto o in concessione a seconda dell’imputazione
del rischio della gestione in capo all’uno o all’altro contraente.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 73
scono pur sempre ricavi dello “sfruttamento” del servizio reso e sono ben
diverse dall’eventuale ulteriore corrispettivo a carico dell’Amministrazione,
per i casi in cui il servizio non sia idoneo ad autofinanziarsi” (12).
Per mera esigenza di completezza preme ricordare che il Decreto Ronchi
(D.Lgs.22/97 abrogato dal D.Lgs. 152/2006, cd. Codice dell’ambiente, e
successive modificazioni), ha previsto l’ introduzione obbligatoria della TIA
(la Tariffa di Igiene ambientale) diretta a sostituire la Tassa per lo smaltimento
Rifiuti (Tarsu). La tassa e la tariffa non presentano particolari differenze
sul piano tecnico-giuridico (13); tuttavia è rilevante soffermarsi sulla struttura
della tariffa, la quale infatti, articolata per fasce di utenza e territoriali, si
presenta divisa in due parti: una quota fissa, determinata “in relazione alle
componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti
per le opere e relativi ammortamenti”, ed una quota variabile in relazione
alla quantità di rifiuti prodotti, e cioè “rapportata alle quantità di rifiuti
conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione, in modo che
sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio”
(art. 49, comma 4, D.Lgs.22/97, corrispondente all’attuale art. 238, 4°
comma del Codice dell’ambiente). Si potrebbe in tal caso convenire con il
governo italiano che i “servizi in questione sarebbero erogati direttamente
agli utenti, ossia alla collettività degli abitanti che producono i rifiuti, abitanti
sui quali graverebbe alla fine il costo della tariffa versata all’operatore
” (punto 24) e che “l’obbligo di smaltire rifiuti con produzione di energia
…rientrerebbe nell’oggetto delle convenzioni controverse” essendo
“tipico che la remunerazione di una concessione provenga non solamente
dal prezzo pagato dall’utente ma anche da altre attività connesse al servizio
erogato”. In effetti le rimostranze dei cittadini siciliani, preoccupati dell’aumento
dei costi del servizio di smaltimento rifiuti al fine di garantirne il corretto
ed efficiente espletamento, potrebbe essere un dato chiaro e sufficiente
a provare che è proprio sugli abitanti che graverebbe il costo della tariffa versata
all’operatore, con conseguente affidamento del servizio secondo lo
schema proprio della concessione e non già dell’appalto.
(12) In questo senso si è espresso G. GRECO, in Appalti di servizi e concessioni di servizio
pubblico, op. cit., pp. 15-16.
(13) La tassa rappresenta, da un punto di vista economico, il corrispettivo legato alla
emanazione di un atto o di un provvedimento amministrativo o ancora alla prestazione di un
servizio, mentre dal punto di vista giuridico è un tributo, un’obbligazione avente come presupposto
la funzione di un servizio pubblico o l’adozione di un atto amministrativo. La tariffa
è invece il prezzo, il corrispettivo di un contratto privatistico in virtù del quale l’utente
riceve un servizio pubblico liberamente richiesto. La Cassazione a SS.UU. ha affermato che
la tariffa è comunque una tassa presentando di quest’ultima gli stessi requisiti, con un meccanismo
strutturato a tariffa (Cass. SS.UU., 1 marzo 2002, n. 3030). La tariffa può dunque
riguardare qualsiasi forma di imposizione tributaria, avendo essa soltanto la funzione di
equilibrare il quantum debeatur.
74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ma ancora più a monte particolarmente difficoltosa si presenta la distinzione
tra servizio pubblico e appalto di servizi, distinzione che nel caso che
ci riguarda presenta una sua concreta utilità, soprattutto alla luce delle recentissime
novità in materia, contribuendo a fornire una chiave di lettura degli
argomenti forniti dalle parti in sede di ricorso.
Al fine di tracciare la distinzione tra appalto di servizi e concessione di
servizi pubblici, la dottrina tradizionale ha individuato una molteplicità di
criteri utilizzabili, analiticamente elencati nella circolare della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, n. 3944 del 1° marzo 2002 (Procedure di affidamento
delle concessioni di servizi e di lavori) quali:
1. Il carattere surrogatorio dell’attività svolta dal concessionario di pubblico
servizio contrapposta all’attività di mera rilevanza economica svolta
dall’appaltatore nell’interesse del committente pubblico;
2. la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio
pubblico, che si contrappone al carattere negoziale dell’appalto;
3. il trasferimento di potestà pubbliche in capo al concessionario, contrapposte
alle prerogative proprie di qualsiasi soggetto economico riconosciute
all’appaltatore che non opera quale organo indiretto dell’amministrazione;
4. l’effetto accrescitivo tipico della concessione.
Il Consiglio di Stato, nella successiva sentenza n. 2294 del 30 aprile
2002 (sez. V), ha individuato come criterio più convincente quello relativo
all’oggetto dei contrapposti istituti “che si riflette anche sulla fisionomia dei
rapporti considerati”. Pertanto, mentre l’appalto di servizi “riguarda, di
regola, servizi resi alla PA e non al pubblico degli utenti; non comporta il
trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione accompagnata
eventualmente da un prezzo e l’assunzione del rischio di gestione da parte
dell’affidatario” (14), la concessione di servizi riguarda sempre un articolato
rapporto trilaterale, che interessa l’amministrazione, il concessionario e
gli utenti del servizio. Ciò comporta di regola ulteriori conseguenze in ordine
alla individuazione dei soggetti tenuti a pagare il corrispettivo dell’attivit
à svolta. Solitamente nella concessione di pubblici servizi il costo del servizio
grava sugli utenti mentre negli appalti di servizi spetta all’amministrazione
l’onere di compensare l’attività svolta dal privato. Tale criterio integrativo
assume peraltro un apprezzabile significato quando il servizio reso, per le
sue caratteristiche oggettive è divisibile tra gli utenti che ne beneficiano. Il
Consiglio di Stato poi prosegue affermando “l’oggetto del rapporto riguardante
il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, è riconducibile
senz’altro alla figura dell’affidamento di un servizio pubblico: le prestazio-
(14) In tal senso, F. MASTRAGOSTINO, Le concessioni di servizi, R.GAROFOLI e M.A.
SANDULLI (a cura di), Il nuovo diritto degli appalti pubblici: nella direttiva 2004/18/CE e
nella legge comunitaria n. 62/2005, Milano, 2005 p. 108.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 75
ni richieste al privato “appaltatore” sono rivolte non già a vantaggio dell
’amministrazione, ma riguardano in modo generalizzato, le collettività
locali rappresentate dai due comuni”.
Anche alla luce di tale precedente, che tra l’altro interviene proprio sul
problema dello smaltimento dei rifiuti, oggetto delle convenzioni “controverse
”, si può affermare che il caso di specie può essere agevolmente configurato
come concessione.
Le attuali disposizioni introdotte nel Contratto degli appalti pubblici
dispongono che l’affidamento della gestione dei servizi possa avvenire
secondo una procedura particolare che rispetti, s’intende, le norme ed i principi
sanciti dal Trattato e dalla giurisprudenza della Corte.
Infatti l’art. 30 del Codice, che introduce per la prima volta nel nostro
ordinamento – ut supra ricordato - una specifica disciplina sulla concessione
di servizi, prevede al 3° comma, che la scelta del concessionario avvenga
sulla base di una gara informale in seguito a trattativa privata, a cui sono
invitati almeno cinque concorrenti, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
La trattativa privata, come è stato sottolineato in dottrina, costituisce un
minimum inderogabile, che pertanto non vieta alla Pubblica Amministrazione
concedente, ma neppure obbliga la medesima, a procedere ad una vera e
propria gara ad evidenza pubblica completa (15).
Tale gara, sebbene informale, oltre ad essere in linea con il diritto comunitario
consente inoltre di pervenire alla scelta del concessionario in maniera
più semplice rispetto a quanto accade per la concessione di lavori pubblici,
e ciò in sintonia con le finalità perseguite dalla legge 62/2005 (legge
comunitaria 2004), che, nel delegare il Governo al recepimento delle direttive
comunitarie sugli appalti 2004/18 e 2004/17, ha imposto non soltanto la
raccolta in un unico testo normativo della disciplina degli appalti e concessioni
di rilevanza comunitaria e degli appalti e concessioni sotto soglia, ma
ha previsto che tale obiettivo fosse perseguito nel rispetto dei principi di
semplificazione, riduzione dei tempi e massima flessibilità degli strumenti
giuridici.
Tale procedura trova il suo noto antesignano nella disciplina della finanza
di progetto, definita come “concessione di costruzione e gestione ad inziativa
privata” (16), la cui disciplina è stata inserita nella legge quadro in materia
di lavori pubblici (L. 109/94, cd. Legge Merloni) dalla L. 415 del 1998,
e ha subito notevoli modifiche con la successiva legge 166 del 2002 (cd.
Legge Merloni quater). Attualmente l’intera normativa è confluita nel recen-
(15) In questo senso E. MELE, in AA.VV., Commento al codice dei contratti pubblici
di lavori, servizi e forniture, Torino, 2007, pp. 86-87. Tale concessione ha in comune con
quella di servizi pubblici lo svolgimento di un’attività riconducibile alla categoria del servizio
pubblico.
(16) Definizione di G. FIDONE, in Aspetti giuridici della finanza di progetto, Luiss
University press, 2007, p. 44.
76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
te Codice dei contratti pubblici (agli artt. 152-160), senza tuttavia subire
sostanziali cambiamenti.
La disciplina in questione è diretta a realizzare un bilanciamento fra l’esigenza
di efficienza ed effettività dei risultati e la necessità che vengano
rispettati i modelli procedimentali, in sintonia con il principio di legalità dell
’azione amministrativa (17).
Gli artt. 37 bis e seguenti della Legge quadro hanno introdotto, dunque,
nel nostro ordinamento un nuovo modo di avviare la realizzazione di lavori
in concessione, ad iniziativa del soggetto privato. È previsto infatti che quest
’ultimo possa presentare alle amministrazioni aggiudicatrici proposte di
finanza di progetto per la realizzazione di lavori pubblici inseriti nella programmazione
triennale o negli strumenti di programmazione formalmente
approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa
vigente (v. art. 14, 2° comma della legge 109/94, recepito dall’art. 128 del
Codice dei contratti). Entro venti giorni dalla avvenuta redazione dei programmi,
le amministrazioni aggiudicatrici rendono pubblica la presenza,
negli stessi programmi, di interventi realizzabili con capitali privati, suscettibili
di gestione economica, con la pubblicazione di un avviso indicativo, il
quale rileva ai fini della individuazione del momento iniziale dell’intera procedura
per l’aggiudicazione della concessione. Si ritiene che il primo atto
formale dell’amministrazione diretto a conferire rilevanza pubblica alla procedura
di scelta del contraente per l’affidamento della concessione sia quello
della pubblicazione dell’avviso in oggetto (18).
Il riferimento a tale avviso indicativo non è casuale nel caso di specie,
presentandosi anzi come possibile chiave di lettura delle difese approntate
dallo Stato italiano nel ricorso che ci occupa, difese basate su orientamenti
giurisprudenziali in tema di concessione (della quale il Project Financing
rappresenta una alternativa), che, seppur richiamati in modo generico dal
governo italiano sono profondamente radicati nella cultura giuridica nazionale,
trovando oltremodo sostegno nella giurisprudenza più recente.
E così, in tema di valutazione delle proposte nell’ambito della finanza di
progetto, la sentenza del TAR Toscana n. 2860 del 2004 secondo la quale
“pur se l’art. 37 ter legge 109/94 non procedimentalizza l’attività di valutazione
dell’ amministrazione con espresso riferimento alle procedure di gara,
(17) Il procedimento previsto per l’affidamento della concessione di costruzione e
gestione, ex art. 37 bis della legge quadro, ha inizio con la presentazione di una proposta da
parte di un privato, il promotore, avente ad oggetto l’esecuzione e la gestione di un intervento
già inserito dalla PA nella propria programmazione triennale da realizzarsi con finanziamento
privato.
(18) Il Consiglio di Stato ha infatti in più occasioni affermato il carattere unitario della
procedura per l’affidamento della concessione su iniziativa del promotore, sottolineando l’aspetto
del tutto secondario della pubblicazione del bando di gara: in tal senso, Consiglio di
Stato, sez. V, 20 ottobre 2002, n. 6847 e Consiglio di Stato sez. V, 10 febbraio 2004, n. 495.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 77
tuttavia la necessità che tale valutazione si svolga all’insegna dei criteri di
par condicio e di trasparenza (richiesti per il corretto svolgimento delle vere
e propri procedure di gara) appare intrinseca alla stessa natura para-concorsuale
emergente nella scelta del promotore, quale attività volta a realizzare
l’interesse pubblico alle migliori condizioni possibili per l’amministrazione
aggiudicatrice”, è stata superata dalla sentenza del Consiglio di Stato,
sez. V, n. 6287 del 10 novembre 2005, con la quale è stato confermato l’orientamento
tradizionale e corrispondente alla giurisprudenza maggioritaria
secondo la quale la scelta della proposta, in caso di più aspiranti promotori
per un medesimo intervento, è esercizio di un potere discrezionale della P.A.
“in quanto riguarda la comparazione degli interessi rilevanti al momento
attuale” e pertanto “il modulo procedimentale in parola e la natura delle
determinazioni che il gestore del programma deve assumere nella scelta del
promotore, non consentono di applicare analogicamente al procedimento in
esame le regole dell’evidenza pubblica”. Spetta infatti all’amministrazione il
compito di valutare se il progetto proposto abbia o meno i contenuti necessari
a soddisfare l’interesse pubblico in funzione del quale il programma è
stato concepito (19).
Quanto poi alla distinzione tra “attività prioritarie” e “attività residuali”
operata dal legislatore comunitario nella direttiva 92/50/CE, in base alla
quale soltanto per le prime è prevista l’applicazione integrale della direttiva
medesima, non è dato di sapere con certezza se i proventi derivanti dalla vendita
di energia elettrica abbiano assunto o meno, nelle intenzioni delle parti,
il carattere di remunerazione principale anziché accessoria rispetto alla tariffa
ricevuta dal Commissario delegato, considerando che il recupero energetico
è definito come “prevalente interesse pubblico” nel Decreto Ronchi (art.
9 D.Lgs.22/1997 abrogato dal Codice dell’ambiente; si ora il comma 7 art.
216), e che la produzione di energia elettrica è condizione necessaria per
l’avviamento di un impianto di termovalorizzazione (All. I lett c), Ordinanza
Commissariale 1° marzo 2005).
Ora, se alla base della distinzione tra appalto pubblico e concessione
assume rilevanza la nozione di rischio, le considerazioni che precedono portano
chiaramente in nuce la soluzione al contrasto sollevato dalla
Commissione nel caso di specie: un rischio infatti sussiste anche in questo
caso in capo al concessionario il quale è tenuto comunque a sopportare i costi
della gestione già per la “semplice” attività di recupero dell’energia, con la
conseguenza che gli eventuali e successivi proventi presentano un carattere
(19) Si tratta di un orientamento assai diffuso tra i TAR e sostenuto più volte
dall’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici, che trova il proprio risalente fondamento
nella legge 24 giugno 1929, n. 1137, che ha riconosciuto la parità tra concessioni a soggetti
privati e pubblici, attribuendo una notevole discrezionalità alla PA nella scelta dei concessionari.
78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
comunque aleatorio, riposando in questo caso il rischio sull’utile stesso; un
rischio inoltre si individua anche nella consistenza finanziaria degli investimenti
effettuati dal concessionario e nella durata ventennale delle convenzioni
controverse, dati rilevanti che sottendono l’assunzione di un rischio da
parte dell’operatore al fine di garantire la stabilità, l’efficienza e la continuit
à del servizio, anche attraverso la assidua manutenzione degli impianti.
A sostegno di quanto precede appare opportuno un richiamo (completo
e non limitato solo ad alcune sue parti come invece risulta dal testo della sentenza
de qua) all’art. 5 dell’ O.P.C.M. n. 3190/2002, secondo il quale “Il
Commissario delegato – Presidente della regione siciliana, sentito il
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, stipula convenzioni per
la durata massima di venti anni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti
urbani al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della
Regione siciliana, con operatori industriali che si impegnino a trattare in
appositi impianti la frazione residuale dei rifiuti e ad utilizzarla in impianti
di termovalorizzazione con recupero di energia da realizzarsi in siti idonei
ovvero in propri impianti industriali o di cui abbiano la disponibilità gestionale,
esistenti nel territorio della regione, ivi compresi quelli per la produzione
di energia elettrica in sostituzione totale o parziale di combustibili ora
impiegati”.
La fattispecie concessoria presenta la caratteristica di essere costituita da
due atti: un provvedimento amministrativo (la concessione) e un contratto,
in genere qualificato di diritto privato. Mentre il provvedimento contiene la
determinazione con cui l’amministrazione dispone dell’interesse pubblico
connesso al bene e ha lo scopo di giustificare la scelta del concessionario dal
punto di vista dei principi di imparzialità e buon andamento, il contratto, che
svolge un ruolo attuativo, strumentale ed accessorio, regola gli aspetti patrimoniali
del rapporto, le responsabilità ed i rischi connessi alla concessione
del servizio, costituendo il fondamento delle obbligazioni che il provvedimento
non è in grado di imporre autonomamente (20).
Scopo di un contratto è quello di stabilire la distribuzione dei profitti e
delle perdite contrattuali con le varie conseguenze che da ciò possono derivare
nello scambio di beni o servizi. Un rischio è pertanto insito nella stessa
stipulazione del contratto, con tutte le circostanze che possono influire sull
’adempimento (21).
(20) In tal senso D. SORACE - C. MARZUOLI, in Digesto delle discipline pubblicistiche,
voce “Concessioni Amministrative”, vol. III, Torino, 1989, p. 284.
(21) I problemi connessi al rischio e alla stessa nozione di rischio sono stati analizzati
da G. ALPA, in Enciclopedia del Diritto, voce “Rischio” (dir. vig.), vol. XV, Milano, 1989,
pp. 1144 e ss., il quale fa riferimento anche al rischio connesso alla diminuita soddisfazione
economica dell’affare, per la preesistenza, o la sopravvenienza di circostanze, previste,
prevedibili o non previste e non prevedibili che non comportano inadempimento in senso
tecnico ma sconvolgimento dell’economia originaria dell’affare.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 79
La distinzione tra appalto e concessione di servizi pubblici (22) è, come
più volte ricordato, particolarmente delicata per le implicazioni che ne derivano
sul piano degli effetti e della individuazione della normativa di volta in
volta applicabile.
Già la definizione di servizio pubblico presenta difficoltà interpretative
non solo nell’ordinamento amministrativo, ma anche in quello comunitario,
ove la locuzione “servizi pubblici” è più spesso sostituita da quella di “servizi
di interesse economico generale” e “servizi universali”. Più di recente
la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204, pur non intervenendo
in maniera esplicita nel settore dei pubblici servizi, ha condizionato
la sussistenza di questi ultimi alla presenza di atti di concessione o affidamento
o ad altri provvedimenti della pubblica amministrazione, che
riguardino anche la vigilanza e il controllo nei confronti del gestore del servizio
pubblico.
Inoltre, la sentenza della Corte Costituzionale 27 luglio 2004, n. 272 ha
evidenziato come i servizi pubblici non possano essere visti solo come attivit
à imprenditoriali da regolare secondo le norme della concorrenza dovendo
riconoscersi un ruolo particolare anche alla attività istitutiva ed organizzativa
della pubblica amministrazione nella fase della prestazione del servizio
pubblico, in particolare quando quest’ultimo è affidato a privati. Nello
stesso senso, sul piano comunitario risulta che, potendo il servizio essere
gestito e materialmente condotto non solo da soggetti pubblici ma anche da
soggetti privati, esso non si identifica con qualsiasi attività sottoposta a programmi
pubblici o autorizzazioni amministrative, ma con prestazioni alla
collettività e agli utenti per le quali è centrale il ruolo di affidamento da parte
della pubblica amministrazione.
È stato affermato pertanto in dottrina, anche alla luce di quanto disposto
dall’art. 86 (ex art. 90) del Trattato CE, secondo il quale le imprese, sia pubbliche
che private sono incaricate della gestione dei servizi di interesse (economico)
generale e hanno una “specifica missione loro affidata”, che “non
sussiste il servizio pubblico per il solo svolgimento di una determinata attivit
à di prestazioni di servizi da parte delle imprese, ma in quanto vi è stato
un incarico o affidamento del compito, pur nel rispetto dei principi di concorrenza
e delle libertà economiche che devono ispirare la gestione (condu-
(22) Per inciso, occorre rilevare che il Codice dei Contratti pubblici parla di concessione
di servizi e non di concessioni di servizio pubblico, in linea con l’accezione comunitaria
di concessione che prescinde dall’oggetto e dunque dal tipo di servizio reso, consentendo
l’affidamento in concessione di tutti i servizi idonei ad essere gestiti economicamente. Si è
rilevato che l’appalto di servizi può ricorrere anche “nel caso di servizi a favore del pubblico,
allorché il rischio economico della gestione o la parte più significativa di esso resti a
carico dell’amministrazione concedente”. Pertanto nulla vieta che una medesima attività
possa essere ascritta, in relazione all’imputabilità/rischio di gestione, tanto al modello concessorio
quanto alla figura dell’appalto di servizi”. In tal senso, F. MASTRAGOSTINO in Le
concessioni di servizi, op. cit., pp. 108-109.
80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zione) del servizio pubblico una volta affidato” (23). Si sottolinea come tale
aspetto sia ulteriormente avvalorato “dal testo di Trattato che adotta una
Costituzione per l’Europa, ove, riprendendosi l’art. 16 del Trattato CE, si
stabilisce che per i servizi di interesse economico generale le Autorità pubbliche
provvedono affinché «tali servizi funzionino in base a principi e condizioni,
in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di
assolvere i propri compiti», precisandosi inoltre che «la legge europea stabilisce
principi e fissa tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati
membri, nel rispetto della Costituzione, di fornire, far eseguire e finanziare
tali servizi» (art.III-122). Pertanto anche in base al diritto europeo il servizio
pubblico o di interesse generale non è qualsivoglia attività economica di
prestazione di servizi, ma quella rispetto alla quale la pubblica amministrazione
svolge un ruolo di istituzione e/o organizzazione, fermo restando che il
servizio pubblico ben può essere e sempre più sarà gestito da soggetti privati
in forza di un atto amministrativo (anche consensuale) di «incarico» o
«affidamento»…”
Eppure, nonostante i frequenti interventi di dottrina e giurisprudenza in
materia, le difficoltà di giungere ad una nozione univoca del fenomeno permangono
tanto nel diritto interno quanto nel diritto comunitario, perché la
necessità di conciliare interessi spesso contrapposti ma ugualmente rilevanti
si scontra altrettanto spesso con l’esigenza di operare classificazioni nelle
quali collocare stabilmente categorie di istituti che al contatto con la realtà
non sono più agevolmente riconducibili a classi omogenee.
A tali considerazioni si giunge già semplicemente confrontando la situazione
di emergenza nella quale è stato chiamato ad operare il Commissario
delegato con le esigenze di trasparenza e di pubblicità imposte dalla
Comunità nella selezione degli operatori affidatari del servizio di smaltimento
dei rifiuti (24). È evidente come la necessità di rimediare al disagio
ambientale che negli ultimi decenni ha interessato (e continua ad interessare)
non soltanto la Sicilia ma anche il Lazio, la Campania, la Puglia e la
Calabria, abbia determinato una restrizione della concorrenza nelle procedure
di affidamento di opere e servizi, imponendo un sacrificio tanto agli operatori
dei Paesi terzi quanto agli operatori nazionali.
Spunti interessanti in tal senso si rinvengono nella Relazione della Corte
dei Conti (Programma delle attività di controllo sulla gestione per l’anno
(23) Si vedano le considerazioni di G. CAIA, in Diritto Amministrativo, II, Parte
Speciale e Giustizia Amministrativa, AA.VV (a cura di), 2005, Bologna, pp. 135 ss.
(24) Il bando si rivolgeva ad “operatori industriali che si impegnino, a far tempo dal 31
marzo 2004, a trattare in appositi impianti la frazione residuale dei rifiuti e ad utilizzarla in
impianti di termovalorizzazione con recupero di energia da realizzarsi in siti idonei ovvero
in propri impianti industriali, o di cui abbiano la disponibilità gestionale, esistenti nel territorio
della Regione, ivi compresi quelli per la produzione di energia elettrica in sostituzione
totale o parziale di combustibili ora impiegati”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 81
2005) nella quale si pone in evidenza che “L’avviso pubblico per la stipula
delle convenzioni riguardanti il sistema di gestione integrato per l’utilizzo
della frazione residua dei rifiuti solidi urbani al netto della raccolta differenziata,
in ottemperanza alle ordinanze 2983/2002 e 3190/2002, fu pubblicato
in data 9 agosto 2002, imponendo, peraltro, un termine assai breve di 80
giorni (il minimo previsto dalla legge nazionale vigente) per la presentazione
della proposta di partecipazione alla gara, sul presupposto dell’urgenza”.
Come spesso accade quando più valori egualmente rilevanti vengono a trovarsi
in reciproca tensione tra loro, nel senso che il soddisfacimento dell’uno
comporta inevitabilmente un sacrificio, più o meno accentuato, dell’altro,
si crea la necessità di un bilanciamento tra gli stessi (25), che necessita inevitabilmente
di una considerazione effettiva del dato reale e cioè se, nel caso
di specie la situazione di grave disagio ambientale nel quale si trovano a
vivere i cittadini siciliani possa o meno essere considerata come prioritaria
rispetto alla necessità di osservare una procedura che impone attività e adempimenti
ulteriori che inevitabilmente rallentano la realizzazione di un rilevante
servizio pubblico, attribuito, secondo la Corte di Giustizia, a titolo di
appalto anziché di concessione.
Dott.ssa Cinzia F. Coduti (*)
Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione seconda, sentenza 18 luglio 2007
nella causa C-382/05 (ricorso per inadempimento) - Commissione delle Comunità
europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. K. Schiemann – Avv.
Gen. J. Mazák
«1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di
dichiarare che, dato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione
civile – Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle
acque in Sicilia ha indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della
frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni
della Regione Siciliana e ha concluso le dette convenzioni senza applicare le procedure previste
dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1), come modificata dalla
direttiva della Commissione 13 settembre 2001, 2001/78/CE (G.U. L 285, pag. 1; in prosieguo:
la «direttiva 92/50»), e, in particolare, senza la pubblicazione dell’apposito bando di
gara sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, la Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi ad essa incombenti in forza della predetta direttiva e, in particolare, dei suoi
artt. 11, 15 e 17.
(25) Si leggano al riguardo le significative pagine di A. D’ATENA dedicate all’argomento,
in Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 2006 pp. 14 ss.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
CONTESTO NORMATIVO
Normativa comunitaria
2.- L’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50 stabilisce:
«a) “appalti pubblici di servizi”, i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra
un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice (…)»
3.- L’art. 8 di tale direttiva dispone:
«Gli appalti aventi per oggetto servizi elencati nell’allegato I A vengono aggiudicati
conformemente alle disposizioni dei titoli da III a VI».
4 .- L’art. 15, n. 2, della direttiva 92/50, il quale figura nel titolo V di quest’ultima, recita:
«Le amministrazioni che intendono aggiudicare un appalto pubblico di servizi mediante
procedura aperta, ristretta o, nei casi stabiliti nell’art. 11, negoziata, rendono nota tale
intenzione con un bando di gara».
5.- Ai sensi dell’art. 17 della direttiva 92/50:
«1. I bandi o avvisi vanno redatti conformemente ai modelli contenuti negli allegati III
e IV e devono fornire le informazioni richieste in tali modelli (…).
4. I bandi di gara di cui all’art. 15, nn. 2 e 3, sono pubblicati per esteso nella Gazzetta
ufficiale delle Comunità europee e nella banca di dati TED, nelle rispettive lingue originali.
Un riassunto degli elementi importanti di ciascun bando viene pubblicato nelle altre lingue
ufficiali delle Comunità; il testo nella lingua originale è l’unico facente fede. (…)».
6.- L’allegato I Adella direttiva 92/50, intitolato «Servizi a norma dell’art. 8», comprende
segnatamente la categoria 16, denominata «Eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti;
disinfestazione e servizi analoghi», alla quale corrisponde il numero di riferimento CPC 94.
7.- L’allegato III di detta direttiva contiene in particolare i modelli di «avviso indicativo
» e di «bando di gara d’appalto».
Normativa nazionale
8.- L’art. 4 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 31 maggio 1999,
n. 2983 (GURI n. 132 dell’8 giugno 1999), come modificata dall’ordinanza 22 marzo 2002,
n. 3190 (in prosieguo: l’«ordinanza n. 2983/99»), dispone:
«Il Commissario delegato, Presidente della Regione Siciliana, sentito il Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del territorio, stipula convenzioni per la durata massima di
venti anni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata,
prodotta nei comuni della Regione Siciliana (…). A tal fine il Commissario delegato,
Presidente della Regione Siciliana, individua gli operatori industriali in base a procedure
di evidenza pubblica, in deroga alle procedure di gara comunitarie (…)».
9.- Le parole «in deroga alle procedure di gara comunitarie» di cui alla predetta disposizione
sono state soppresse per effetto dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei
Ministri 23 gennaio 2004, n. 3334 (GURI n. 26 del 2 febbraio 2004).
FATTI DI CAUSA E PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO
10.- Con ordinanza 5 agosto 2002, n. 670, il Presidente della Regione Siciliana, agendo
nella sua qualità di Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque
in Sicilia (in prosieguo: il «Commissario delegato») e in base all’art. 4 dell’ordinanza
n. 2983/99, ha approvato un documento intitolato «Avviso pubblico per la stipula di convenzioni
per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata,
prodotta nella Regione Siciliana» (in prosieguo: l’«avviso controverso»). L’avviso
controverso comprende tre allegati. L’allegato Aenuncia le «[l]inee guida per l’utilizzo della
frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata prodotta nei Comuni
della Regione Siciliana». L’allegato B s’intitola «Piano finanziario riassuntivo» e l’allegato
C contiene una convenzione tipo da stipulare con gli operatori prescelti (in prosieguo: la
«convenzione tipo»).
11.- Il 7 agosto 2002, un avviso relativo alle convenzioni summenzionate, predisposto
sulla base del modello di avviso denominato «Avviso indicativo» contenuto nell’allegato III
della direttiva 92/50, è stato inviato all’Ufficio delle pubblicazioni. Tale avviso è stato pubblicato
nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee (G.U. S 158, versione elettronica) in
data 16 agosto 2002.
12.- L’avviso controverso è stato invece pubblicato il 9 agosto sulla Gazzetta ufficiale
della Regione Siciliana.
13.- Avendo ricevuto un reclamo riguardante tale procedura, il 15 novembre 2002 la
Commissione ha trasmesso alle autorità italiane una lettera di richiesta di informazioni, alla
quale queste ultime hanno risposto con lettera del 2 maggio 2003.
14.- Il 17 giugno 2003, il Commissario delegato ha stipulato quattro convenzioni, ricalcate
sostanzialmente sulla convenzione tipo, rispettivamente con la Tifeo Energia Ambiente
S.c.p.a., la Palermo Energia Ambiente S.c.p.a., la Sicil Power S.p.A. e la Platani Energia
Ambiente S.c.p.a. (in prosieguo: le «convenzioni controverse»).
15.- Il 17 ottobre 2003, la Commissione, ai sensi dell’art. 226 CE, ha inviato alla
Repubblica italiana una lettera di diffida imputando a tale Stato membro una violazione
della direttiva 92/50, in particolare degli artt. 11, 15 e 17 di quest’ultima. Non soddisfatta
della risposta del 1°aprile 2004 a tale diffida, in data 9 luglio 2004 la Commissione ha trasmesso
alla Repubblica italiana un parere motivato invitando quest’ultima a porre fine all’inadempimento
contestatole entro il termine di due mesi.
16.- Nella loro risposta al predetto parere motivato, intervenuta il 24 settembre 2004,
le autorità italiane hanno contestato l’inadempimento sopra citato.
17.- Non giudicando soddisfacente siffatta risposta, la Commissione ha deciso di proporre
il presente ricorso.
SUL RICORSO
Argomenti delle parti
18.- La Commissione sostiene che le convenzioni controverse costituiscono appalti
pubblici di servizi ai sensi dell’art. 1 della direttiva 92/50 e che non sono state concluse nel
rispetto dei requisiti di pubblicità derivanti da tale direttiva. Essa rileva, in particolare, che
l’avviso pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee non è stato pubblicato
mediante il modello di bando di gara d’appalto prescritto dall’allegato III di suddetta direttiva
per l’aggiudicazione di appalti pubblici, bensì facendo uso del modello cosiddetto
«indicativo» di cui al medesimo allegato. I prestatori di servizi non nazionali sarebbero stati
inoltre discriminati rispetto agli operatori nazionali che hanno beneficiato di un bando di
gara d’appalto dettagliato pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Regione Siciliana.
19.- Secondo la Commissione, le convenzioni controverse non possono essere qualificate
come concessioni di servizi escluse, come sostenuto dalla Repubblica italiana, dall’ambito
di applicazione della direttiva 92/50. Infatti, la remunerazione degli operatori non consisterebbe
nel loro diritto di sfruttare la propria prestazione riscuotendo proventi presso l’utente
e assumendosi nel contempo tutti i rischi legati a detta attività.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 83
20.- Da un lato, la remunerazione dell’operatore consisterebbe, nella fattispecie, in una
tariffa versatagli direttamente dal Commissario delegato, tariffa il cui importo viene fissato,
dalle convenzioni controverse, in euro per tonnellata di rifiuti trasferita all’operatore dai
comuni. Per quanto riguarda i redditi che l’operatore sarebbe, peraltro, in grado di trarre
dalla vendita di energia elettrica prodotta in occasione della termovalorizzazione dei rifiuti,
essi non costituirebbero un elemento del corrispettivo di detto operatore.
21.- D’altro lato, l’operatore non sopporterebbe il rischio inerente a tale attività, poich
é, in particolare, le convenzioni controverse gli garantiscono il conferimento di un quantitativo
annuo minimo di rifiuti, mentre prevedono l’adeguamento annuo dell’importo della
tariffa al fine di tener conto dell’evoluzione dei costi da lui sostenuti. Inoltre, tali convenzioni
contemplerebbero un adeguamento di suddetta tariffa nell’ipotesi in cui la quantità
annua effettiva di rifiuti conferita risulti minore del 95% ovvero maggiore del 115% rispetto
alla quantità minima garantita, e ciò al fine di garantire l’equilibrio economico e finanziario
dell’operatore.
22.- Il governo italiano sostiene, all’opposto, così come emerge in particolare dalla giurisprudenza
nazionale, che le convenzioni controverse configurano concessioni di servizi
escluse dal campo di applicazione della direttiva 92/50.
23.- In primo luogo, tali convenzioni avrebbero ad oggetto la delega di un servizio di
interesse generale la cui continuità dev’essere garantita dall’operatore.
24.- In secondo luogo, i servizi in questione sarebbero erogati direttamente agli utenti,
ossia alla collettività degli abitanti dei comuni che producono i rifiuti, abitanti sui quali graverebbe
alla fine il costo della tariffa versata all’operatore, dovendo essi pagare ai comuni
una tariffa che copre tanto la raccolta quanto il trattamento dei rifiuti, e i quali remunerebbero
dunque tali servizi. Il Commissario delegato svolgerebbe, a tal riguardo, unicamente
un ruolo di intermediario.
25.- In terzo luogo, l’obbligo di smaltire i rifiuti con produzione di energia e, pertanto,
la vendita di quest’ultima, rientrerebbe appunto nell’oggetto delle convenzioni controverse.
Sarebbe d’altronde tipico che la remunerazione di una concessione provenga non
solamente dal prezzo pagato dall’utente, ma anche da altre attività connesse al servizio
erogato.
26.- In quarto luogo, e tenuto conto dell’importanza finanziaria degli investimenti
effettuati dall’operatore, che sarebbero vicini ad un miliardo di euro, nonché alla lunga durata
delle convenzioni controverse, vale a dire 20 anni, i proventi da realizzare da parte dell
’operatore presenterebbero carattere aleatorio tanto più che una parte di essi deriverebbe
dalla vendita dell’energia prodotta.
27.- In quinto luogo, la responsabilità dell’organizzazione e della gestione dei servizi
in tal modo delegati graverebbe esclusivamente sull’operatore, visto che l’amministrazione
si limita ad un mero ruolo di vigilanza.
28.- Per quanto riguarda le concessioni di servizi, la trasparenza richiesta potrebbe
essere garantita con ogni mezzo appropriato, fra cui la pubblicazione, come nella specie, di
un avviso in quotidiani nazionali specializzati.
Giudizio della Corte
29.- Come risulta da una giurisprudenza costante, le concessioni di servizi sono escluse
dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50 (v., in particolare, sentenze 21 luglio
2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 9, nonché 13 ottobre 2005, causa
C-458/03, Parking Brixen, Racc. pag. I-8585, punto 42).
84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
30.- Poiché il governo italiano ha insistito diverse volte sul fatto che, secondo la giurisprudenza
nazionale, convenzioni come quelle controverse devono essere qualificate come
concessioni di servizi, è opportuno rammentare, in via preliminare, che la definizione di
appalto pubblico di servizi rientra nella sfera del diritto comunitario, per cui la qualificazione
delle convenzioni controverse nell’ordinamento italiano non è pertinente al fine di accertare
se queste ultime rientrino nell’ambito d’applicazione della direttiva 92/50 (v., in tal
senso, sentenze 20 ottobre 2005, causa C-264/03, Commissione/Francia, Racc. pag. I-8831,
punto 36, e 18 gennaio 2007, causa C-220/05, Auroux e a., non ancora pubblicata nella
Raccolta, punto 40).
31.- Di conseguenza, la questione se le convenzioni controverse debbano o meno essere
qualificate come concessioni di servizi va valutata esclusivamente alla luce del diritto
comunitario.
32.- Atal proposito occorre rilevare, da un lato, che dette convenzioni prevedono il versamento,
da parte del Commissario delegato all’operatore, di una tariffa il cui importo è fissato
in euro per tonnellata di rifiuti conferita a quest’ultimo dai comuni interessati.
33.- Orbene, come statuito in precedenza dalla Corte, dalla definizione di cui all’art. 1,
lett. a), della direttiva 92/50 discende che un appalto pubblico di servizi ai sensi di tale direttiva
comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice
al prestatore di servizi (citata sentenza Parking Brixen, punto 39). Ne consegue che una
tariffa del tipo di quella prevista dalle convenzioni controverse può caratterizzare un contratto
a titolo oneroso ai sensi dell’art. 1, lett. a), e quindi un appalto pubblico (v., per quanto
riguarda il pagamento di un importo fisso per ogni bidone o cassonetto da parte di un
comune ad una società incaricata in via esclusiva della raccolta e del trattamento di rifiuti,
sentenza 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705, punti
8 e 32).
34.- D’altra parte, dalla giurisprudenza della Corte emerge che si è in presenza di una
concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel
diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma
il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (v. sentenza 7 dicembre 2000, causa
C-324/98, Telaustria e Telefonadress, Racc. pag. I-10745, punto 58, e ordinanza 30 maggio
2002, causa C-358/00, Buchhändler-Vereinigung, Racc. pag. I-4685, punti 27-28, nonché
sentenza Parking Brixen, cit., punto 40).
35.- Orbene, a tal proposito è giocoforza constatare che le modalità di remunerazione
previste dalle convenzioni controverse non rientrano nel diritto di gestire i servizi di cui trattasi,
né implicano l’assunzione, da parte dell’operatore, del rischio legato a tale gestione.
36.- Infatti, non solo detto operatore risulta, in sostanza, remunerato dal Commissario
delegato mediante una tariffa fissa conferitagli per tonnellata di rifiuti, come ricordato al
punto 32 della presente sentenza, ma risulta assodato che, in forza delle convenzioni controverse,
il Commissario delegato s’impegna, da una parte, a far sì che tutti i comuni interessati
conferiscano all’operatore l’integralità della loro frazione residua di rifiuti e, dall’altra,
a far sì che un quantitativo annuo minimo di rifiuti sia conferito a quest’ultimo. Tali convenzioni
prevedono inoltre l’adeguamento dell’importo della tariffa nell’ipotesi in cui la quantit
à annua effettiva di rifiuti conferiti sia minore del 95% o maggiore del 115% rispetto alla
suddetta quantità minima garantita, ciò al fine di garantire l’equilibrio finanziario ed economico
dell’operatore. Esse prevedono altresì che l’importo della tariffa sia annualmente rivalutato
in relazione all’andamento dei costi relativi al personale, ai materiali di consumo e
alle manutenzioni, nonché in relazione ad un indicatore finanziario. Queste stesse conven-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 85
zioni prevedono, inoltre, che la tariffa sia rinegoziata qualora, per conformarsi ad un mutamento
del quadro normativo, l’operatore debba affrontare investimenti eccedenti un certo
livello.
37.- Sulla scorta di quanto precede, le convenzioni controverse devono essere considerate
come appalti pubblici di servizi soggetti alla direttiva 92/50 e non come concessioni di
servizi da essa esclusi.
38.- Peraltro, nessuno degli argomenti addotti dal governo italiano per contestare tale
qualificazione risulta convincente.
39.- Anzitutto, per quanto riguarda la circostanza che gli operatori sono in grado, oltre
alla riscossione della tariffa pattuita, di beneficiare di proventi finanziari derivanti dalla
rivendita dell’energia elettrica prodotta a seguito della termovalorizzazione dei rifiuti, giova
ricordare che l’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50, il quale definisce la nozione di appalto
pubblico, parla di un «contratto a titolo oneroso» e che l’onerosità di un contratto si riferisce
alla controprestazione offerta al prestatore a motivo della prestazione di servizi prevista
dall’amministrazione aggiudicatrice (v., in tal senso, citata sentenza Auroux e a., punto 45).
40.- Nella fattispecie, è evidente che la controprestazione ottenuta dall’operatore a
fronte della prestazione di servizi prevista dal Commissario delegato, ossia il trattamento dei
rifiuti conferiti con recupero di energia, consiste essenzialmente nel pagamento, da parte del
Commissario delegato, dell’importo della tariffa.
41.- Anche supponendo che il prodotto della vendita di energia elettrica possa essere
parimenti interpretato come corrispettivo dei servizi previsti dal Commissario delegato, in
particolare, in ragione del fatto che nelle convenzioni controverse quest’ultimo si impegna
ad agevolare tale vendita presso terzi, la sola circostanza che l’operatore, oltre alla remunerazione
percepita a titolo oneroso dal detto Commissario delegato, sia così in grado di ricavare
accessoriamente determinati proventi da terzi come corrispettivo della sua prestazione
di servizi non può essere sufficiente a privare le convenzioni controverse della loro qualifica
di appalti pubblici (v., per analogia, sentenza Auroux e a., cit., punto 45).
42.- Neppure la lunga durata delle convenzioni controverse e il fatto che la loro esecuzione
sia accompagnata da rilevanti investimenti iniziali a carico dell’operatore costituiscono
poi circostanze determinanti ai fini della qualificazione di siffatte convenzioni, giacché
tali caratteristiche possono riscontarsi tanto negli appalti pubblici quanto nelle concessioni
di servizi.
43.- Lo stesso vale per il fatto che il trattamento di rifiuti rientra nell’interesse generale.
A tal proposito occorre d’altronde ricordare che, come emerge dall’allegato I A della
direttiva 92/50, tra i «[s]ervizi a norma dell’art. 8», ai quali si può applicare la direttiva, figura
la categoria dei servizi di «[e]liminazione di scarichi di fogna e di rifiuti; disinfestazione
e servizi analoghi», rispetto alla quale la Corte ha in precedenza stabilito che essa ricomprende
i servizi di raccolta e di trattamento dei rifiuti (v., in tal senso, citata sentenza
Commissione/Austria, punto 32).
44.- Infine, neppure la circostanza che le prestazioni erogate dall’operatore siano eventualmente
tali da richiedere, da parte di quest’ultimo, una notevole autonomia esecutiva
risulta determinante per la qualificazione del contratto come appalto pubblico ovvero come
concessione di servizi.
45.- Poiché le convenzioni controverse danno luogo ad appalti pubblici di servizi ai
sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50, la loro aggiudicazione poteva intervenire soltanto
in osservanza delle disposizioni della predetta direttiva, in particolare dei suoi artt. 11,
15 e 17. Orbene, in forza di queste ultime l’amministrazione aggiudicatrice interessata era
86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tenuta a pubblicare un avviso di bando di gara d’appalto conforme al modello previsto dall
’allegato III della suddetta direttiva, cosa che essa non ha fatto.
46.- Ne consegue che il ricorso della Commissione dev’essere accolto e che occorre
dichiarare che, dato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione
civile – Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle
acque in Sicilia, ha indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della
frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni
della Regione Siciliana e ha concluso le dette convenzioni senza applicare le procedure previste
dalla direttiva 92/50 e, in particolare, senza la pubblicazione dell’apposito bando di
gara d’appalto nella Gazzetta ufficiale della Comunità europee, la Repubblica italiana è
venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della predetta direttiva e, in particolare,
dei suoi artt. 11, 15 e 17.
SULLE SPESE
47.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è
condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha chiesto la condanna
della Repubblica italiana, che è rimasta soccombente, quest’ultima dev’essere condannata
alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:
1) Dato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione
civile – Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in
Sicilia, ha indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della frazione
residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della
Regione Siciliana e ha concluso le dette convenzioni senza applicare le procedure previste
dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, come modificata dalla direttiva della
Commissione 13 settembre 2001, 2001/78/CE, e, in particolare, senza la pubblicazione dell
’apposito bando di gara d’appalto nella Gazzetta ufficiale della Comunità europee, la
Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della predetta
direttiva e, in particolare, dei suoi artt. 11, 15 e 17.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 87
88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’obbligo di gara sulle concessioni
di scommesse ippiche
(Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 13 settembre 2007 nella causa
C-260/04)
La Corte, pur affermando che le concessioni di servizi pubblici come le
agenzie ippiche italiane esulano dal campo di applicazione della direttiva
sugli appalti n. 92/50, ha precisato:
a) che le pubbliche Amministrazioni che li stipulano “sono tenute a
rispettare le norme fondamentali del Trattato, in generale, e il divieto di
discriminazione in base alla cittadinanza”;
b) che tali principi “comportano, in particolare, un obbligo di trasparenza
che permette all’autorità pubblica concedente di assicurarsi che tali principi
siano rispettati. Tale obbligo di trasparenza gravante sulle anzidette
autorità consiste nella garanzia, a favore di ogni potenziale offerente, di un
adeguato livello di pubblicità che consenta l’apertura della concessione di
servizi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure
di aggiudicazione”;
c) che il rinnovo senza gara delle 329 concessioni “storiche” può essere
giustificato “in forza delle deroghe espressamente previste dagli artt. 45 CE
e 46 CE, ovvero se possa essere giustificato, conformemente alla giurisprudenza
della Corte, da motivi imperativi di interesse generale”;
d) che nella fattispecie “il rinnovo delle vecchie concessioni dell’UNIRE
senza gara non è idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito
dalla Repubblica italiana ed eccede quanto necessario per evitare che gli
operatori attivi nel settore delle scommesse ippiche siano coinvolti in attivit
à criminose o fraudolente”;
e) che per quanto riguarda “i motivi di carattere economico sollevati dal
Governo italiano, quale il fatto di garantire ai concessionari la continuità, la
stabilità finanziaria ed un congruo rendimento per gli investimenti realizzati
nel passato, è sufficiente ricordare che essi non possono essere riconosciuti
come motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare la restrizione
di una libertà fondamentale garantita dal Trattato”.
Corte di Giustizia delle Comunità europee, quarta sezione, sentenza 13 settembre 2007
nella causa C-260/04 – Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana
(Avv. dello Stato G. De Bellis), sostenuta da: Regno di Danimarca, Regno di Spagna –
Avv. gen. E. Sharpston – Rel. G. Arestis.
«1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di
dichiarare che la Repubblica italiana, avendo rinnovato 329 concessioni per l’esercizio delle
scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti
in forza del Trattato CE, e in particolare ha violato il principio generale di trasparenza
nonché l’obbligo di pubblicità derivanti dagli artt. 43 CE e 49 CE.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 89
CONTESTO NORMATIVO
Normativa nazionale
2 -In Italia, la gestione dei giochi e delle scommesse ippiche era inizialmente riservata
all’Unione Nazionale per l’Incremento delle Razze Equine (in prosieguo : l’«UNIRE»), che
poteva scegliere tra la gestione diretta o l’affidamento a terzi dei servizi di raccolta ed accettazione
delle dette scommesse. L’UNIRE ha affidato tale gestione alle agenzie ippiche.
3.- La legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 303 del
28 dicembre 1996), ha affidato successivamente l’organizzazione e la gestione dei giochi e
delle scommesse relative alle corse ippiche al Ministero delle Finanze nonché al Ministero
delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali, i quali sono stati autorizzati a provvedervi
direttamente o tramite enti pubblici, società o allibratori da essi individuati. L’art. 3, comma
78, di tale legge disponeva che si sarebbe provveduto con regolamento al riordino della
materia dei giochi e delle scommesse relativi alle corse ippiche, per quanto attiene agli
aspetti organizzativi, funzionali, fiscali e sanzionatori, nonché al riparto dei proventi di tali
scommesse.
4.- In attuazione di codesto articolo della predetta legge, il Governo italiano ha emanato
il decreto del Presidente della Repubblica 8 aprile 1998, n. 169 (G.U.R.I. n. 125 del 1°
giugno 1998; in prosieguo : il «decreto n. 169/1998»), il cui art. 2 disponeva che il Ministero
delle Finanze attribuisce, d’intesa con il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, con
gara da espletare secondo la normativa comunitaria, le concessioni per la gestione delle
scommesse ippiche a persone fisiche e società in possesso dei requisiti richiesti. In via transitoria,
l’art. 25 del decreto n. 169/1998 ha previsto una proroga fino al 31 dicembre 1998
delle concessioni attribuite dall’UNIRE, ovvero, nell’impossibilità di espletare le gare entro
tale data, fino al 31 dicembre 1999.
5.- Il decreto ministeriale 7 aprile 1999 (G.U.R.I. n. 86 del 14 aprile 1999) ha poi approvato
il piano di potenziamento della rete di raccolta ed accettazione delle scommesse ippiche
allo scopo di portare da 329 a 1000 i centri di raccolta sull’intero territorio italiano. Mentre
per le 671 nuove concessioni sono state indette gare d’appalto, la direttiva del Ministro delle
Finanze 9 dicembre 1999 ha previsto il rinnovo delle 329 «vecchie concessioni» dell’UNIRE.
In attuazione di tale direttiva, la decisione del Ministero delle Finanze 21 dicembre 1999
(G.U.R.I. n. 300 del 23 dicembre 1999; in prosieguo: la «decisione controversa») ha rinnovato
dette concessioni per un periodo di sei anni, a partire dal 1° gennaio 2000.
6.- In seguito, il decreto legge 28 dicembre 2001, n. 452 (G.U.R.I. n. 301 del 29 dicembre
2001), convertito con modificazioni nella legge 27 febbraio 2002, n. 16 (G.U.R.I. n. 49
del 27 febbraio 2002), ha disposto, da una parte, che le «vecchie concessioni» sarebbero
state riattribuite ai sensi del decreto n. 169/1998, vale a dire tramite gara a livello comunitario,
e, dall’altra, che tali concessioni sarebbero rimaste valide fino alla loro definitiva riattribuzione.
7.- Infine, il decreto legge 24 giugno 2003, n. 147, recante proroga di termini e disposizioni
urgenti ordinamentali (G.U.R.I. n. 145 del 25 giugno 2003), convertito in legge 1°
agosto 2003, n. 200 (G.U.R.I. n. 178 del 2 agosto 2003; in prosieguo : la «legge n.
200/2003»), prevede, al suo art. 8, primo comma, la ricognizione della situazione finanziaria
di ciascun concessionario al fine di risolvere il problema del «minimo garantito», ossia
della quota di prelievo che ogni concessionario era tenuto a versare all’UNIRE indipendentemente
dal volume effettivo dei proventi relativi all’anno in corso, che si era rivelato eccessivo
ed aveva condotto ad una crisi economica del settore delle scommesse ippiche. In ese90
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
cuzione di tale legge, il commissario straordinario designato dall’UNIRE ha emanato la
decisione 14 ottobre 2003, n. 107, la quale ha prorogato le concessioni già assegnate al fine
di procedere alla determinazione delle somme da versare da parte dei concessionari fino al
termine di scadenza dell’ultimo pagamento, individuato al 30 ottobre 2011 e, in ogni caso,
fino alla data di assegnazione delle nuove concessioni tramite gara.
FATTI E FASE PRECONTENZIOSA
8.- In seguito a una denuncia presentata da un operatore privato del settore delle scommesse
ippiche, il 24 luglio 2001 la Commissione ha inviato alle autorità italiane una lettera
di diffida ai sensi dell’art. 226 CE, la quale attirava la loro attenzione sull’incompatibilità
con il principio generale di trasparenza e con l’obbligo di pubblicità, derivanti dagli artt. 43
CE e 49 CE, del sistema italiano di concessione dell’esercizio delle scommesse ippiche e,
in particolare, del rinnovo, previsto dalla decisione controversa, delle 329 vecchie concessioni
attribuite all’UNIRE senza gara. Il governo italiano ha risposto con lettere datate 30
novembre 2001 e 15 gennaio 2002, annunciando la predisposizione nonché l’adozione della
legge 27 febbraio 2002, n. 16.
9.- Non essendo rimasta soddisfatta del seguito dato alle disposizioni di predetta legge,
il 16 ottobre 2002 la Commissione ha emesso un parere motivato, invitando la Repubblica
italiana ad adottare le misure necessarie per conformarsi ad esso entro due mesi dalla sua
ricezione. Con lettera datata 10 dicembre 2002, il governo italiano ha risposto che, prima di
dar corso alle gare, era necessario procedere ad una puntuale ricognizione della situazione
finanziaria relativa ai titolari delle concessioni ancora in vigore.
10.- Non avendo ricevuto alcuna informazione supplementare riguardo alla conclusione
di suddetta operazione di ricognizione e all’apertura di una gara per la riattribuzione delle
concessioni controverse, la Commissione ha deciso di introdurre il presente ricorso.
11.- Il Regno di Danimarca e il Regno di Spagna sono intervenuti a sostegno della
Repubblica italiana.
SUL RICORSO
12.- La Commissione solleva una sola censura a sostegno del suo ricorso. Essa fa valere
che la Repubblica italiana, avendo rinnovato le 329 vecchie concessioni dell’UNIRE per
la gestione delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi
ad essa incombenti in forza del Trattato, e in particolare ha violato il principio generale
di trasparenza nonché l’obbligo di pubblicità derivanti dagli artt. 43 CE e 49 CE.
13.- Nel suo ricorso, la Commissione fa notare che, ai fini dell’ordinamento comunitario,
l’attribuzione della gestione e della raccolta di scommesse ippiche in Italia dev’essere
considerata una concessione di servizio pubblico. A tale titolo, detta attribuzione non rientrerebbe
nel campo di applicazione della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992,
92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi
(G.U. L. 209, pag. 1). Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte, e in particolare dalla sentenza
7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress (Racc. pag. I-10745),
emergerebbe che le autorità nazionali che procedono ad una tale attribuzione sono tenute ad
osservare il divieto di discriminazione e il principio di trasparenza al fine di garantire un
adeguato livello di pubblicità, che consenta l’apertura del mercato dei servizi alla concorrenza
nonché il controllo sull’imparzialità dei procedimenti di aggiudicazione.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 91
14.- La Commissione rileva a tal riguardo che, in occasione del rinnovo, senza gara,
delle 329 concessioni dell’UNIRE già esistenti, il governo italiano non ha rispettato gli
obblighi derivanti da tali principi. Infatti, ad avviso della Commissione, sono ammesse deroghe
a tali principi solo nei casi e per i motivi stabiliti dagli artt. 45 CE e 46 CE. Orbene, le
giustificazioni invocate dal governo italiano non rientrerebbero tra quelle espressamente
previste da tali articoli e, ad ogni modo, detto governo non avrebbe dimostrato la necessità
e la proporzionalità di dette deroghe rispetto agli obiettivi indicati.
15.- Nel suo controricorso, il governo italiano fa valere che la legge n. 200/2003 e la
decisione n. 107/2003 sono conformi agli obblighi di diritto comunitario in materia di concessione
di pubblici servizi. Secondo lo stesso governo, la proroga delle vecchie concessioni
dell’UNIRE sarebbe giustificata dalla necessità di garantire ai concessionari la continuit
à, la stabilità finanziaria ed un congruo rendimento per gli investimenti effettuati nel passato
nonché dalla necessità di scoraggiare il ricorso ad attività clandestine, fino all’attribuzione
delle dette concessioni tramite gare. Tali giustificazioni costituirebbero motivi imperativi
di interesse generale tali da legittimare deroghe ai principi del Trattato che implicano
l’obbligo di aprire il mercato dei servizi alla concorrenza.
16.- Il governo danese mette in discussione l’interpretazione proposta dalla
Commissione della citata sentenza Telaustria e Telefonadress relativamente alla portata dell
’obbligo di trasparenza in circostanze come quelle della presente causa. Per quanto riguarda
il governo spagnolo, esso svolge considerazioni in ordine alle specificità dell’autorizzazione
e dell’organizzazione delle scommesse di cui, a suo avviso, la Commissione non
avrebbe tenuto conto.
17.- In via preliminare, occorre rilevare che il governo italiano non nega il fatto che la
legge n. 200/2003 e la decisione n. 107/2003 siano intervenute dopo la scadenza del termine
prescritto nel parere motivato.
18.- A tal proposito, è opportuno ricordare che, secondo giurisprudenza costante della
Corte, la sussistenza di un inadempimento dev’essere valutata in relazione alla situazione
dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato
e che la Corte non può tenere conto dei mutamenti successivi (v., in particolare, sentenze
2 giugno 2005, causa C-282/02, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-4653, punto 40, e
26 gennaio 2006, causa C-514/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-963, punto 44).
19.- Di conseguenza, le disposizioni delle legge n. 200/2003 e della decisione n.
107/2003 non possono assumere rilievo ai fini della valutazione dell’inadempimento addebitato
alla Repubblica italiana. Ne consegue che il presente ricorso si fonda unicamente sull
’esame della decisione controversa.
20.- Come dedotto a giusto titolo dalla Commissione, il governo italiano non ha messo
in dubbio, né durante la fase precontenziosa né nel corso della presente causa, che l’attribuzione
della gestione e della raccolta di scommesse ippiche in Italia costituisce una concessione
di servizio pubblico. Siffatta qualificazione è stata accolta dalla sentenza 6 marzo
2007, cause riunite C-338/04, C-359/04 e C-360/04, Placanica e a. (non ancora pubblicata
nella Raccolta), in cui la Corte ha interpretato gli artt. 43 CE e 49 CE alla luce della medesima
normativa nazionale.
21.- Orbene, è pacifico che le concessioni di pubblici servizi sono escluse dall’ambito
di applicazione della direttiva 92/50 (v. sentenza 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking
Brixen, Racc. pag. I-8585, punto 42).
22.- La Corte ha statuito che, benché i contratti di concessione di pubblici servizi, allo
stadio attuale del diritto comunitario, siano esclusi dalla sfera di applicazione della direttiva
92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
92/50, ciò nondimeno le pubbliche amministrazioni che li stipulano sono tenute a rispettare
le norme fondamentali del Trattato, in generale, e il divieto di discriminazione in base alla
cittadinanza, in particolare (v., in tal senso, sentenze Telaustria e Telefonadress, cit., punto
60, 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 16, nonché Parking
Brixen, cit., punto 46).
23.- La Corte ha poi statuito che le disposizioni del Trattato applicabili alle concessioni
di servizi pubblici, segnatamente gli artt. 43 CE e 49 CE, nonché il divieto di discriminazione
per motivi di cittadinanza sono specifica espressione del principio della parità di trattamento
(v., in tal senso, sentenza Parking Brixen, cit., punto 48).
24.- A tal riguardo, il principio della parità di trattamento e il divieto di discriminazione
in base alla cittadinanza comportano, in particolare, un obbligo di trasparenza che permette
all’autorità pubblica concedente di assicurarsi che tali principi siano rispettati. Tale
obbligo di trasparenza gravante sulle anzidette autorità consiste nella garanzia, a favore di
ogni potenziale offerente, di un adeguato livello di pubblicità che consenta l’apertura della
concessione di servizi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure
di aggiudicazione (v., in tal senso, citate sentenze Telaustria e Telefonadress, punti 61 e
62, nonché Parking Brixen, punto 49).
25.- Nel caso di specie, occorre constatare che la totale mancanza di procedure di gara
ai fini dell’attribuzione delle concessioni per la gestione delle scommesse ippiche non è conforme
agli artt. 43 CE e 49 CE, e in particolare viola il principio generale di trasparenza nonch
é l’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità. Infatti, il rinnovo senza gara
delle 329 vecchie concessioni impedisce l’apertura di dette concessioni alla concorrenza ed
il controllo sull’imparzialità delle operazioni di aggiudicazione.
26.- Ciò premesso, occorre esaminare se il rinnovo di cui trattasi possa essere ammesso
in forza delle deroghe espressamente previste dagli artt. 45 CE e 46 CE, ovvero se possa
essere giustificato, conformemente alla giurisprudenza della Corte, da motivi imperativi di
interesse generale (v., in tal senso, sentenze 6 novembre 2003, causa C-243/01, Gambelli e
a., Racc. pag. I-13031, punto 60, nonché Placanica e a., cit., punto 45).
27.- La giurisprudenza ha riconosciuto la rilevanza, a tal proposito, di un certo numero
di motivi imperativi di interesse generale, quali gli obiettivi di tutela dei consumatori, di
prevenzione della frode e dell’incitazione dei cittadini ad una spesa eccessiva collegata al
gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale (v. sentenza
Placanica e a., cit., punto 46).
28.- Benché gli Stati membri siano liberi di fissare gli obiettivi della loro politica in
materia di giochi d’azzardo e, eventualmente, di definire con precisione il livello di protezione
perseguito, le restrizioni che essi impongono devono soddisfare tuttavia le condizioni
che risultano dalla giurisprudenza della Corte per quanto riguarda la loro proporzionalità
(sentenza Placanica e a., cit., punto 48).
29.- Di conseguenza, occorre esaminare se il rinnovo di concessioni al di fuori di ogni
procedura di gara sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla
Repubblica italiana e non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento. In ogni caso,
detto rinnovo non dev’essere applicato in modo discriminatorio (v., in tal senso, citate sentenze
Gambelli e a., punti 64 e 65, nonché Placanica e a., punto 49).
30.- È pacifico che il governo italiano ha approvato il piano di potenziamento della rete
di raccolta ed accettazione delle scommesse ippiche allo scopo di portare da 329 a 1000 i centri
di raccolta e di accettazione di dette scommesse sull’intero territorio italiano. Per realizzare
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 93
tale piano di potenziamento, 671 nuove concessioni sono state assegnate in esito ad una gara,
mentre le 329 vecchie concessioni esistenti sono state rinnovate senza procedimento di gara.
31.- A tal riguardo, il governo italiano non ha invocato deroghe come quelle espressamente
previste dagli artt. 45 CE e 46 CE. Tale governo ha invece giustificato il detto rinnovo
senza gara adducendo la necessità di scoraggiare, in particolare, lo sviluppo di attività
clandestine di raccolta e di assegnazione delle scommesse.
32.- Nel suo controricorso, il governo italiano non ha tuttavia spiegato su quale base
l’assenza di qualsiasi procedura di gara sarebbe a tal fine necessaria, e non ha dedotto argomenti
che valgano a confutare l’inadempimento rimproverato dalla Commissione. In particolare,
detto governo non ha spiegato come il rinnovo delle concessioni esistenti al di fuori
di qualsiasi procedimento di gara possa costituire un ostacolo allo sviluppo di attività clandestine
nel settore delle scommesse ippiche, e si è limitato ad osservare che la legge n.
200/2003 e la decisione n. 107/2003 sono conformi ai principi del diritto comunitario in
materia di concessione di pubblici servizi.
33.- Orbene, a tal riguardo occorre ricordare che spetta alle autorità nazionali competenti
dimostrare, da un lato, che la loro normativa risponde ad un interesse essenziale ai sensi
degli artt. 45 CE e 46 CE oppure ad un motivo imperativo d’interesse generale sancita dalla
giurisprudenza e, dall’altro, che detta normativa è conforme al principio di proporzionalità
(v., in tal senso, sentenze 2 dicembre 2004, causa C-41/02, Commissione/Paesi Bassi, Racc.
p. I-11375, punto 47, 13 gennaio 2005, causa C-38/03, Commissione/Belgio, non pubblicata
nella Raccolta, punto 20, nonché 15 giugno 2006, causa C-255/04, Commissione/Francia,
Racc. pag. I-5251, punto 29).
34.- Occorre pertanto constatare che il rinnovo delle vecchie concessioni dell’UNIRE
senza gara non è idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla
Repubblica italiana ed eccede quanto necessario per evitare che gli operatori attivi nel settore
delle scommesse ippiche siano coinvolti in attività criminose o fraudolente.
35.- Inoltre, per quanto riguarda i motivi di carattere economico sollevati dal governo
italiano, quale il fatto di garantire ai concessionari la continuità, la stabilità finanziaria ed un
congruo rendimento per gli investimenti realizzati nel passato, è sufficiente ricordare che
essi non possono essere riconosciuti come motivi imperativi di interesse generale idonei a
giustificare la restrizione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (v., in tal senso,
sentenze 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, Racc. pag. I-4071, punto 48, e 16 gennaio
2003, causa C-388/01, Commissione/Italia, Racc. pag. I-721, punto 22).
36.- Ne consegue che non può essere accolto nessuno dei motivi imperativi di interesse
generale addotti dal governo italiano per giustificare il rinnovo delle 329 vecchie concessioni
al di fuori di ogni procedura di concorso.
37.- Pertanto, occorre dichiarare fondato il ricorso della Commissione.
38.- Da quanto precede risulta che la Repubblica italiana, avendo rinnovato 329 concessioni
per l’esercizio delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 43 CE e 49 CE, e in particolare ha violato il principio
generale di trasparenza nonché l’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità.
SULLE SPESE
39.- A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è
condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto
domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, va condannata alle spese.
94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce:
1) La Repubblica italiana, avendo rinnovato 329 concessioni per l’esercizio delle
scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti
in forza degli artt. 43 CE e 49 CE, e in particolare ha violato il principio generale di
trasparenza nonché l’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese».
Le prove nei giudizi comunitari; in tema
di“valutazioni d’incidenza”
per le aree naturali protette
(Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione quarta, sentenze 20 settembre
2007 nelle cause C-304/05 e C-388/05; 4 ottobre 2007 nella causa C-179/06)
Si segnalano tre decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee, nelle quali la questione dell’inadempimento alle norme del trattato
ed alle direttive della Repubblica Italiana è stata affrontata e risolta dai giudici
di Lussemburgo, più che come momento di interpretazione del diritto
comunitario, essenzialmente come “questione di prova”.
Tutte e tre le decisioni concernono la cosiddetta “valutazione d’incidenza
” di progetti di opere in aree destinate alla conservazione degli habitat
naturali, della flora e della fauna, ai sensi della direttiva 92/43/CEE, ovvero
alla conservazione degli uccelli selvatici, ai sensi della direttiva 79/409/CEE.
Nella prima, relativa alla causa C-304/05, è stato contestato alla Repubblica
italiana di aver avviato i progetti di ampliamento e adattamento della
zona sciistica di Santa Caterina Valfurva (sede dei campionati mondiali invernali
del 2005) senza aver fatto precedere gli interventi da una valutazione d’incidenza
delle opere programmate sull’area naturale protetta (SICp e/o ZPS).
In realtà, anche in considerazione della circostanza che gran parte degli
interventi dovevano svolgersi nell’ambito del territorio di pertinenza del Parco
Nazionale dello Stelvio, le competenti amministrazioni, comuni, consorzi e
regione Lombardia, a vari livelli avevano condotto studi, commissionato relazioni
tecniche e prodotto specifiche autorizzazioni paesistiche/ambientali, preventive,
concomitanti ed anche successive all’espletamento dei lavori (poi
effettivamente svolti), imponendo in sede progettuale limiti, cautele e soprattutto
prescrizioni.
Tutto ciò non è bastato alla Corte di Giustizia per sottrarre la Repubblica
italiana dalla condanna per inadempimento. La Corte infatti ha ritenuto tali
valutazioni, pareri, prescrizioni etc. incompleti e/o tardivi: secondo i giudici
europei la valutazione d’incidenza di un progetto ai sensi delle citate direttive,
non può limitarsi ad un “giuridico favorevole con prescrizioni”, né può essere
condotta solo su una parte del progetto, ma deve, testualmente, “dissipare qualsiasi
ragionevole dubbio scientifico in merito agli effetti dei lavori previsti sulla
zona di protezione speciale…” “…rilievi e conclusioni – aggiunge la Corte –
erano indispensabili affinché le competenti autorità fossero in grado di acquisire
le certezze necessarie per adottare la decisione che autorizza detti lavori”.
Non quindi una preclusione assoluta, ma il dovere dello Stato membro
di dare preventiva contezza agli effetti indotti da un progetto su un’area sensibile,
anche eventualmente per attivare – ove il progetto debba essere
comunque realizzato “per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico”
– le previste misure compensative sugli impatti provocati dall’intervento di
cui si discute.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 95
La responsabilità della Repubblica italiana è stata conseguentemente
affermata anche sotto tale secondo profilo (la mancata evidenziazione dei
motivi d’interesse pubblico che inducevano alla realizzazione di un’opera
impattante) e sotto il terzo profilo, anch’esso consequenziale alla mancata
valutazione, della mancata adozione delle misure compensative, una volta
realizzata l’opera.
Unico punto sul quale la Corte di Giustizia non ha seguito le tesi della
Commissione è l’affermazione, contenuta nel ricorso introduttivo della
causa, secondo cui l’Italia non avrebbe assicurato al sito d’importanza comunitaria
“uno stato giuridico adeguato” al perseguimento in tale area degli
obiettivi previsti dalle citate direttive “habitat” ed “uccelli”.
Secondo la Corte di Giustizia esistono in generale nell’ordinamento giuridico
italiano gli strumenti adeguati per dare un particolare statuto di tutela
alle aree in questione (delimitazione come SICp o ZPS, istituzione di un
parco nazionale etc..) sicché spettava alla Commissione dell’U.E provare in
concreto che tali strumenti non sarebbero sufficienti ad attribuire all’area il
particolare regime di tutela previsto dalle direttive. Tale prova – ad avviso
della Corte – non è stata raggiunta.
In sintesi le opere di cui si tratta (adeguamento e potenziamento degli
impianti sciistici), potevano anche essere realizzate, come di fatto lo sono state,
ma occorreva da parte delle autorità italiane porre particolare attenzione alle
procedure, all’individuazione delle ragioni di interesse pubblico che, anche in
presenza di rilevanti effetti negativi, avrebbero giustificato comunque la realizzazione
delle opere, e alle misure compensative da adottare per reintegrare
al meglio la rete europea di aree protette nota sotto la sigla “Natura 2000”.
La confusione procedurale (relazioni, studi, procedure VIA etc. di volta
in volta attivate su parte dei progetti, ovvero sull’intero complesso di opere,
ma in maniera tardiva) diviene in pratica “ragione determinante” della condanna
per inadempimento pronunciata dalla Corte di Giustizia.
Più semplice è la vicenda giudiziale (causa C-388/05) che ha per oggetto
la Zona di Protezione Speciale dei “Valloni e steppe pedegarganiche” in Puglia;
una zona limitata e, per certi versi marginale, dell’area protetta è stata infatti
interessata da interventi previsti dal “patto d’area” per lo sviluppo industriale
di Manfredonia. Anche qui è mancata la preventiva “valutazione d’incidenza”
ed il progetto di industrializzazione, sia pure – si ripete – per una zona limitatissima
dell’intera area protetta, è stato portato avanti e realizzato in costanza
dell’avvio da parte della Commissione UE della procedura di infrazione.
Quel che più interessa è che, nel corso della procedura di infrazione, la
Regione Puglia “ha affermato…la necessità di adottare misure compensative
adeguate, prevedendo l’estensione della ZPS in esame o l’individuazione
di una nuova ZPS avente fauna ed una vegetazione compatibile con quelle
dell’habitat danneggiato”.
La Corte di giustizia ha immediatamente colto l’affermazione: il riconoscimento
implicito della propria responsabilità da parte della regione Puglia
diviene così valida motivazione della sentenza di condanna ed ha esentato il
giudice europeo dall’onere di ogni ulteriore argomentazione…
96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Sulla terza questione (causa C-179/06) invece la Repubblica italiana è
andata assolta; secondo la Corte di Giustizia la Commissione non ha fornito
la prova che l’adozione/approvazione di quasi cento “accordi di programma
”, che prefiguravano altrettanti varianti al vigente PRG del Comune di
Altamura, potesse avere un’incidenza effettiva sulla zona di protezione speciale
e sito d’importanza comunitaria dell’Alta Murgia, in assenza di provvedimenti
attuativi che avessero dato corso a uno o più piani in variante degli
strumenti urbanistici ovvero all’inizio dei lavori.
Va detto con realismo che – al di là della difesa giuridica in ordine alla
valenza meramente procedurale dei cosiddetti contratti di programma, la cui
approvazione da parte della Regione non equivale comunque all’adozione di
un piano o al rilascio di un’autorizzazione e/o di una licenza – ha pesato moltissimo
nella dinamica processuale la decisione assunta dal Comune di
Altamura e dalla regione Puglia di sospendere ogni iniziativa fino alla definizione
della causa in Corte di giustizia, affidando nel contempo a qualificati
professionisti uno studio sull’incidenza delle varie iniziative nel loro complesso
e nelle loro reciproche interferenze.
Quello che forse, in queste tre vicende giudiziali, vale la pena di sottolineare
è che le cause in Corte di Giustizia trovano spesso le loro ragioni, per
essere decise in un modo o nell’altro, negli atti che sono stati acquisiti in
sede di procedura d’infrazione, condotta dalla Commissione nei confronti
dello Stato membro attraverso al lettera di “messa in mora”: ciò che si dice
in quella fase è destinato ad assumere di fronte alla Corte di Giustizia valore
di fonte privilegiata di prova, ed orienta la definizione della controversia
il più delle volte in maniera irreversibile.
Questo spiega anche la ragione per la quale è uso di tutti gli Stati membri
rispondere, alle lettere di messa in mora ed ai pareri motivati successivamente
emessi dalla Commissione UE, con l’ausilio di un ufficio legale esperto
della procedure d’infrazione e dei giudizi comunitari.
Tutto ciò non avviene in Italia dove, soprattutto per infrazioni che si collegano
ad attività amministrative di competenza delle regioni e degli enti
locali, la risposta “giuridica” alle lettere di messa in mora (in pratica l’impostazione
della futura lite innanzi alla Corte di giustizia) resta affidato al rapporto
del funzionario responsabile, la cui risposta, per il tramite degli Uffici
centrali e della diplomazia finisce come fotocopia allegata sul tavolo della
Commissione. Anche questo – oltre ai generali problemi di difficoltà di adeguamento
e di vischiosità amministrativa – risulta pertanto essere un particolare
fattore di rischio di soccombenza, in molte controversie comunitarie
che concernono la Repubblica italiana.
G. F.
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione quarta, sentenza 20 settembre 2007
nella causa C-304/05 (ricorso per inadempimento) – Commissione delle Comunità
europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. R. Silva de Lapuerta
– Avv. gen. J. Kokott.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 97
«1.- Con il ricorso in esame, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte
di dichiarare che, nell’ambito del progetto relativo all’ampliamento e all’adattamento della
zona sciistica di Santa Caterina Valfurva (piste denominate «Bucaneve» e «Edelweiss») e
alla realizzazione delle correlate infrastrutture, in vista dei campionati mondiali di sci alpino
del 2005, nella zona di protezione speciale IT 2040044, Parco Nazionale dello Stelvio (in
prosieguo: il «Parco»), la Repubblica italiana:
– avendo autorizzato misure suscettibili di avere un impatto significativo su tale zona
senza assoggettarle ad un’appropriata valutazione della loro incidenza sul sito alla luce degli
obiettivi di conservazione dello stesso e, in ogni caso, senza rispettare le disposizioni che
permettono di realizzare un progetto, in caso di conclusioni negative della valutazione dell
’incidenza e in mancanza di soluzioni alternative, solo per motivi imperativi di rilevante
interesse pubblico e solo dopo avere adottato e comunicato alla Commissione ogni misura
compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata;
– avendo omesso di adottare misure per evitare il degrado degli habitat naturali e degli
habitat delle specie nonché la perturbazione delle specie per cui la zona è stata designata, e
– avendo omesso di conferire alla zona uno status giuridico di protezione che possa
garantire, in particolare, la sopravvivenza e la riproduzione delle specie di uccelli menzionate
nell’allegato I della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la
conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva
79/409»), e la riproduzione, la muta e lo svernamento delle specie migratorie non considerate
nell’allegato I che ivi giungono regolarmente,
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 6, nn. 2-4, e dell’art. 7
della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli
habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (G.U. L 206, pag. 7; in
prosieguo: la «direttiva 92/43»), nonché dell’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva 79/409.
CONTESTO NORMATIVO COMUNITARIO
2.- Scopo della direttiva 92/43 è contribuire a salvaguardare la biodiversità mediante la
conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio
europeo degli Stati membri al quale si applica il Trattato CE.
3 .- Il decimo ‘considerando’ della direttiva così recita:
«considerando che qualsiasi piano o programma che possa avere incidenze significative
sugli obiettivi di conservazione di un sito già designato o che sarà designato deve formare
oggetto di una valutazione appropriata».
4.- L’art. 3, n. 1, della direttiva prevede quanto segue:
«È costituita una rete ecologica europea coerente di zone speciali di conservazione,
denominata Natura 2000. Questa rete, formata dai siti in cui si trovano tipi di habitat naturali
elencati nell’allegato I e habitat delle specie di cui all’allegato II, deve garantire il mantenimento
ovvero, all’occorrenza, il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente,
dei tipi di habitat naturali e degli habitat delle specie interessati nella loro area di ripartizione
naturale.
La rete “Natura 2000” comprende anche le zone di protezione speciale classificate
dagli Stati membri a norma della direttiva [79/409]».
5.- L’art. 4 della direttiva 92/43 disciplina il procedimento per la costituzione della
detta rete Natura 2000, nonché per la designazione delle zone speciali di conservazione da
parte degli Stati membri.
98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
6.- L’art. 6 della direttiva, che stabilisce i provvedimenti di conservazione per tali zone,
così recita:
«(...) 2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali
di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione
delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione
potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente
direttiva.
3. Qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso e necessario alla gestione del
sito ma che possa avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o congiuntamente
ad altri piani e progetti, forma oggetto di una opportuna valutazione dell’incidenza che ha
sul sito, tenendo conto degli obiettivi di conservazione del medesimo. Alla luce delle conclusioni
della valutazione dell’incidenza sul sito e fatto salvo il paragrafo 4, le autorità
nazionali competenti danno il loro accordo su tale piano o progetto soltanto dopo aver avuto
la certezza che esso non pregiudicherà l’integrità del sito in causa e, se del caso, previo parere
dell’opinione pubblica.
4. Qualora, nonostante conclusioni negative della valutazione dell’incidenza sul sito e
in mancanza di soluzioni alternative, un piano o progetto debba essere realizzato per motivi
imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, lo
Stato membro adotta ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale
di Natura 2000 sia tutelata. Lo Stato membro informa la Commissione delle misure
compensative adottate.
Qualora il sito in causa sia un sito in cui si trovano un tipo di habitat naturale e/o una
specie prioritari, possono essere addotte soltanto considerazioni connesse con la salute dell
’uomo e la sicurezza pubblica o relative a conseguenze positive di primaria importanza per
l’ambiente ovvero, previo parere della Commissione, altri motivi imperativi di rilevante
interesse pubblico».
7.- L’art. 7 della direttiva dispone quanto segue:
«Gli obblighi derivanti dall’articolo 6, paragrafi 2, 3 e 4 della presente direttiva sostituiscono
gli obblighi derivanti dall’articolo 4, paragrafo 4, prima frase, della direttiva
[79/409] per quanto riguarda le zone classificate a norma dell’articolo 4, paragrafo 1, o analogamente
riconosciute a norma dell’articolo 4, paragrafo 2 di detta direttiva a decorrere
dalla data di entrata in vigore della presente direttiva o dalla data di classificazione o di riconoscimento
da parte di uno Stato membro a norma della direttiva [79/409] qualora essa sia
posteriore».
8.- La direttiva 79/709 si prefigge la protezione, la gestione e la regolazione di tutte le
specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo degli Stati
membri al quale si applica il Trattato.
9.- L’art. 4 di tale direttiva prevede, per le specie di uccelli elencate nell’allegato I,
misure speciali di conservazione per quanto riguarda l’habitat, per garantire la sopravvivenza
e la riproduzione di dette specie nella loro area di distribuzione. Tale articolo così
dispone:
«1. Per le specie elencate nell’allegato I sono previste misure speciali di conservazione
per quanto riguarda l’habitat, per garantire la sopravvivenza e la riproduzione di dette
specie nella loro area di distribuzione.
A tal fine si tiene conto:
a) delle specie minacciate di sparizione;
b) delle specie che possono essere danneggiate da talune modifiche del loro habitat;
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 99
c) delle specie considerate rare in quanto la loro popolazione è scarsa o la loro ripartizione
locale è limitata;
d) di altre specie che richiedono una particolare attenzione per la specificità del loro
habitat.
Per effettuare le valutazioni si terrà conto delle tendenze e delle variazioni dei livelli di
popolazione.
Gli Stati membri classificano in particolare come zone di protezione speciale i territori
più idonei in numero e in superficie alla conservazione di tali specie, tenuto conto delle
necessità di protezione di queste ultime nella zona geografica marittima e terrestre in cui si
applica la presente direttiva.
2. Analoghe misure vengono adottate dagli Stati membri per le specie migratrici non
menzionate nell’allegato I che ritornano regolarmente, tenuto conto delle esigenze di protezione
nella zona geografica marittima e terrestre in cui si applica la presente direttiva per
quanto riguarda le aree di riproduzione, di muta e di svernamento e le zone in cui si trovano
le stazioni lungo le rotte di migrazione. A tale scopo, gli Stati membri attribuiscono una
importanza particolare alla protezione delle zone umide e specialmente delle zone d’importanza
internazionale. (...)
4. Gli Stati membri adottano misure idonee a prevenire, nelle zone di protezione di cui
ai paragrafi 1 e 2, l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni
dannose agli uccelli che abbiano conseguenze significative tenuto conto degli obiettivi del
presente articolo. Gli Stati membri cercheranno inoltre di prevenire l’inquinamento o il deterioramento
degli habitat al di fuori di tali zone di protezione».
IL PARCO
Lo status del Parco nel diritto nazionale
10.- Il Parco fu istituito con legge 24 aprile 1935, n. 740, inizialmente nel solo territorio
delle Province di Trento e di Bolzano, allo scopo di tutelare e migliorare la flora, di incrementare
la fauna, e di conservare le speciali formazioni geologiche, nonché le bellezze del
paesaggio.
11.- Con decreto del presidente della Repubblica 23 aprile 1977, il territorio del Parco
venne esteso alle zone di Cancano e di Livigno, nonché ai monti Sobretta, Gavia e Serottini,
situati nelle province di Sondrio e di Brescia, nel territorio della Regione Lombardia.
12.- Il Parco è un’area protetta ai sensi della legge 6 dicembre 1991, n. 394, legge quadro
sulle aree protette. Tale legge detta i principi fondamentali che disciplinano le zone di
cui trattasi, al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la
valorizzazione del patrimonio naturale del paese.
13.- Con decreto del presidente del Consiglio 23 novembre 1993 è stato costituito il
Consorzio del Parco Nazionale dello Stelvio (in prosieguo: il «Consorzio»). Uno statuto
definisce le competenze e le funzioni assegnate al Consorzio.
14.- Ai sensi dell’art. 4 del detto statuto, il Consorzio ha il compito di garantire, nella
gestione del Parco, la tutela della natura e la conservazione dei paesaggi.
Lo status del Parco nel diritto comunitario
15.- Nel 1998 il Parco è stato classificato quale zona di protezione speciale ai sensi dell
’art. 4 della direttiva 79/409. Esso è stato indicato, nel capitolo «Regione Lombardia», con
il codice IT 2040044.
100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
16.- Come emerge dal formulario compilato dalla Repubblica italiana nel 1998, ai sensi
della decisione della Commissione 18 dicembre 1996, 97/266/CE, concernente un formulario
informativo sui siti proposti per l’inserimento nella rete Natura 2000 (G.U. L 107, pag.
1), il Parco ospita numerose specie di uccelli tutelate nell’allegato I della direttiva 79/409:
l’aquila reale (Aquila chrysaetos), il falco pellegrino (Falco peregrinus), il falco pecchiaiolo
(Pernis apivorus), la bonasia (Bonasa bonasia), la pernice bianca (Lagopus mutus helvetica),
il fagiano di monte (Tetrao tetrix), il gallo cedrone (Tetrao urogallus) ed il picchio
nero (Dryocopus martius) – nonché tre specie d’uccelli migratori: lo sparviero (Accipiter
nisus), la poiana (Buteo buteo) e il picchio muraiolo (Tichodroma muraria).
17.- Un altro formulario, del 14 maggio 2004, menziona la presenza, nella detta zona, di
altre specie figuranti nell’allegato I della direttiva 79/409, ossia l’avvoltoio degli agnelli
(Gypaetus barbatus), il nibbio reale (Milvus milvus), il piviere tortolino (Charadrius morinellus),
la civetta capogrosso (Aegolius funereus), la civetta nana (Glaucidium passerinum), il gufo
reale (Bubo bubo), il picchio cenerino (Picus canus) e la coturnice (Alectoris graeca saxatilis).
FATTI
18.- Il 4 ottobre 1999 veniva depositato presso le autorità regionali, in vista dei campionati
mondiali di sci alpino del 2005, un progetto relativo a lavori di ristrutturazione della
zona sciistica di Santa Caterina Valfurva e delle connesse infrastrutture.
19.- Tale progetto prevedeva la realizzazione di un corridoio per piste da sci in una
zona di foresta. Esso verteva altresì sulla costruzione di una cabinovia che, dall’ingresso di
Santa Caterina, doveva raggiungere la località di Plaghera e, con un secondo tratto, la Valle
dell’Alpe. Esso prevedeva inoltre un collegamento tra la Valle dell’Alpe e Costa Sobretta
con una seggiovia monofune a quattro posti. Al progetto erano strettamente collegate ulteriori
opere: la realizzazione di una stazione di partenza, dello stadio dello sci, di un parcheggio
in prossimità della stazione di partenza, della variante della pista «Edelweiss», di un
ponte sul fiume Frodolfo, di un rifugio in Valle dell’Alpe, oltre che di strade di servizio, di
un impianto di neve programmata e di un magazzino veicoli.
20.- Con decreto 30 maggio 2000, n. 13879, la Regione Lombardia, in base ad uno studio
effettuato da un architetto per conto delle società Montagne di Valfurva e Santa Caterina
Impianti, esprimeva un giudizio positivo di compatibilità ambientale del progetto, subordinato
al rispetto di una serie di prescrizioni di carattere generale nonché di carattere specifico
relative all’esecuzione dei singoli interventi previsti dal progetto. Il detto decreto precisava
che, nell’ambito dei successivi iter autorizzativi, sarebbe stato necessario verificare
l’osservanza delle dette condizioni, nonché di taluni divieti e compensazioni previste in
materia ambientale.
21.- Nella premessa dello studio cui fa riferimento il detto decreto si indicava che lo
stato degli impianti sciistici e delle infrastrutture della zona in questione era divenuto carente
e che il loro ammodernamento risultava necessario, e ciò anche al fine di ottenere una sovvenzione
per il progetto in esame.
22.- Secondo tale studio, non erano stati presi in considerazione l’effetto dell’aumento
della pressione antropica sulle specie con attività riproduttiva sensibile alla presenza umana,
in particolare la pernice bianca e la marmotta, né le possibili conseguenze sugli invertebrati
e sugli anfibi, né gli effetti sui flussi migratori di uccelli limicoli.
23.- In tale studio si sosteneva che l’incidenza sull’ambiente e le questioni relative alle
misure di mitigazione, di monitoraggio e di compensazione degli effetti delle opere previste
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 101
sulle varie componenti ambientali sarebbero stati affrontati in maniera sommaria e che la
componente «flora, vegetazione e habitat» sarebbe stata analizzata solo in modo frammentario.
Tale studio concludeva quindi che era necessario predisporre un progetto di ripristino
morfologico/ambientale che affrontasse la tematica del rinverdimento dei luoghi una volta
terminati i lavori.
24.- Il detto studio conteneva le seguenti conclusioni:
«(…) La mancata realizzazione dell’intervento potrebbe avviare una lenta ma inesorabile
decadenza [economica] non solo dell’area di S. Caterina ma dell’intero bacino sciabile.
Pertanto, la proposta di potenziamento degli impianti di risalita e di realizzazione di nuove
piste, con le infrastrutture connesse, risulta, per le sue valenze socio-economiche e con particolare
riguardo agli aspetti turistici, meritoria di realizzazione.
(…) Gli interventi progettati si possono ritenere ambientalmente compatibili alle
seguenti condizioni:
– l’intero progetto di riqualificazione impiantistica e conseguente attivazione dei nuovi
impianti/servizi è subordinato alla realizzazione del parcheggio a valle dell’abitato di Santa
Caterina quale logico supporto alla costruzione dei nuovi impianti. Considerata la natura ed
entità economica del progetto del parcheggio, fermi restando i limiti contributivi autorizzati
in sede comunitaria, si rileva l’opportunità che lo stesso sia prevalentemente autofinanziato
dai richiedenti; (…)
– per contenere il taglio del bosco, ridurre i movimenti di terra e limitare la larghezza
del ponte sul torrente Frodolfo, la pista di raccordo (…) originariamente prevista con larghezza
minima pari a 40 metri, dovrà essere ridotta in larghezza a 20 metri lineari (…);
– le infrastrutture di valle (tribune, cabine telecronisti e cronometristi) dovranno essere
oggetto di specifica progettazione (…);
– la larghezza della fascia da disboscare per la realizzazione dell’impianto di risalita dovrà
essere strettamente limitata a quella imposta dalle norme di sicurezza degli impianti (…);
– la pista di raccordo fra le piste da sci esistenti e la nuova stazione di arrivo/partenza
di località Plaghera dovrà essere ridimensionata nell’ampiezza per ridurre i movimenti di
terra; (…)
– per ridurre i movimenti di terra e la conseguente alterazione dei luoghi non dovranno
essere realizzati [né] il corsello di collegamento tra la stazione di arrivo e il rifugio di
Valle dell’Alpe [né] il previsto magazzino per il deposito delle cabine (…);
– la nuova strada carrabile prevista per la cantierizzazione della seggiovia Vallalpe-
Costa Sobretta, considerata l’eccessiva alterazione dei luoghi che comporterà, non dovrà
essere realizzata (…);
– considerato l’alto grado di naturalità dei luoghi (copertura vegetale di praterie naturali,
cespugli e ambienti floristici rupicoli e di morena, rilevanze paesistiche del complesso
articolarsi dei massicci delle linee verticali delle pareti rocciose e delle frastagliate linee di
cresta), e le varie potenziali criticità sopra evidenziate per tale ambito territoriale, la progettazione
esecutiva (...) dovrà essere comprensiva di tutte quelle indicazioni settoriali (flora,
fauna, ecosistemi, geologia, idrogeologia, stabilità dei versanti etc.) per consentire una valutazione
degli interventi previsti coerentemente con i livelli di tutela della massima espressione
della naturalità alpina dei luoghi in esame.
Nel caso di sostenibilità delle opere, la progettazione esecutiva [conterrà] anche (…) le
seguenti prescrizioni: (…)
– la perdita di patrimonio forestale dovuta al taglio piante dovrà essere compensata
mediante idonee ripiantumazioni pari a due volte le essenze abbattute (…);
102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– tutti i movimenti di terra dovranno essere sistemati ed inerbiti (…);
– le linee di servizio (acquedotto, fognatura, elettricità, impianti per l’innevamento programmato)
dovranno essere interrati. È vietata la posa di elettrodotti aerei a fianco degli
impianti di risalita;
– risulta necessaria ed indispensabile la predisposizione di un progetto di ripristino
morfologico ambientale dei luoghi interessati dai lavori, che affronti a livello esecutivo la
tematica del rinverdimento dei luoghi ad operazioni di cantierizzazione ultimate (…).
Per il prosieguo della progettazione esecutiva sarà necessario che risultino adempiuti i
seguenti aspetti:
– sotto il profilo idrogeologico, siano trattate le problematiche connesse alle interferenze
indotte dalla realizzazione delle piste da sci e dei previsti cantieri sull’assetto idrogeologico
del territorio in località “Vallalpe” e sul versante sud della Costa Sobretta;
– esecuzione di specifiche indagini relative all’assetto idrogeologico e geomeccanico,
con studi sulla circolazione delle acque sotterranee (…);
– verifica delle alterazioni degli assetti geostrutturali delle formazioni affioranti sulle
pareti rocciose interessate dai lavori (…).
Per quanto concerne la componente ambientale fauna risulta indispensabile riparametrare
l’effetto dell’opera nel suo contesto globale (…)».
25.- Successivamente, nel settembre 2000, la Regione Lombardia incaricava l’Istituto
di Ricerca per l’Ecologia e l’Economia applicate alle Aree Alpine (in prosieguo:
l’«IREALP») di redigere una relazione sulla valutazione dell’impatto ambientale del progetto
in esame.
26.- Questa relazione era intesa quale studio di fattibilità comprendente gli aspetti connessi
con il recupero ambientale, le azioni di mitigazione, le opere di ingegneria naturalistica
e la riqualificazione ambientale ritenute necessaire per l’avvio di una progettazione preliminare
e, poi, definitiva.
27.- Il progetto controverso veniva poi modificato, per inserire in particolare un allargamento
della pista «Edelweiss», la cui larghezza veniva portata da 20 a quasi 50 metri.
28.- Nel settembre 2002 l’IREALP rendeva pubblica la relazione sulla valutazione dell
’incidenza delle misure progettate. Tale relazione descriveva in modo sintetico l’area del
sito interessata dal progetto come una «pecceta con poche specie rare, ma elevata diversità
specifica propria della foresta subalpina; fragilità alta e rigenerazione in tempi lunghi».
29.- La detta relazione constatava la «presenza di animali di rilevante interesse […],
nidificanti nel bosco: astore, picchio nero, picchio rosso maggiore, picchio verde». Tale relazione
menzionava, tra i principali fattori di impatto del detto progetto in fase di cantiere, la
«riduzione di habitat forestale idoneo alla nidificazione di specie di interesse conservazionistico
».
30.- Dalle conclusioni della relazione dell’IREALP risulta che le linee direttrici che lo
studio aveva potuto considerare non erano ancora completamente definite, ma subivano una
progressiva evoluzione anche sulla base delle conoscenze e delle precisazioni che via via
emergevano nel corso del processo di realizzazione del progetto. Veniva parimenti osservato
che la relazione costituiva l’occasione per presentare ulteriori proposte di miglioramento
del bilancio ambientale della gestione dell’intero comprensorio sciistico, che non poteva
essere visto come separato dalle più generali istanze di sviluppo sostenibile del territorio.
31.- La relazione precisava altresì quanto segue:
«Se il processo indicato può essere considerato positivo, esso mostra peraltro anche
aspetti meno positivi nel momento in cui riflette la necessità di ulteriori determinazioni di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 103
alcuni aspetti tecnici anche importanti, che richiederanno probabilmente precisazioni tecniche
nelle prossime fasi. Anche il presente studio riflette evidentemente tale limite, e deve
pertanto essere considerato come uno strumento di orientamento delle decisioni, che evidenzia
rischi e fornisce suggerimenti per risolvere i problemi, piuttosto che come una misura
precisa degli impatti ambientali che gli interventi previsti produrranno. Stime più precise di
tali impatti (...) potranno essere fornite in futuro in studi di impatto ambientale che accompagnino
l’evoluzione delle attuali linee progettuali (…)».
32.- Le conclusioni della relazione contenevano una serie di valutazioni relative alla
fattibilità, sotto il profilo ambientale, delle linee direttrici del progetto studiato. Esse rilevavano
ciò che segue:
«In ogni caso la prosecuzione delle attività di progettazione dovrà prevedere un significativo
contenimento delle interferenze sull’ambiente rispetto alle ipotesi iniziali, obiettivo
[per il cui conseguimento si potranno] anche utilizzare i suggerimenti al riguardo contenuti
nella presente relazione. Tal[e] obiettiv[o] dovr[à] essere perseguit[o] con maggior forza per
quanto riguarda gli interventi in Valle dell’Alpe, per i quali potrà essere opportuno un ulteriore
specifico studio di impatto ambientale una volta precisato l’insieme degli interventi
ipotizzati».
33.- Il 3 ottobre 2002 il Consorzio dichiarava di approvare le misure e gli orientamenti
raccomandati dalla relazione dell’IREALP, nonché le proposte ivi contenute.
34.- Il 14 febbraio 2003 il Consorzio rilasciava un’autorizzazione relativa al progetto
di ampliamento e adattamento delle piste da sci alpino «Bucaneve» e «Edelweiss», nonché
delle infrastrutture correlate in località Santa Caterina Valfurva (in prosieguo: «l’autorizzazione
del 14 febbraio 2003»). Il Consorzio considerava i lavori previsti conformi al contenuto
di tale relazione, precisando, tuttavia, che tale autorizzazione veniva concessa subordinatamente
alla sussistenza di tale conformità. La detta autorizzazione veniva inoltre subordinata
all’osservanza di una serie di condizioni e prescrizioni.
35.- A partire dal febbraio 2003, circa 2 500 alberi venivano abbattuti, su un’area di 50
metri di larghezza per 500 metri di lunghezza, a quote comprese fra 1 700 e 1 900 metri di
altitudine. Inoltre, l’adattamento delle piste e delle infrastrutture sciistiche a Santa Caterina
Valfurva, all’interno della zona di protezione speciale IT 2040044, causava la completa perdita
di continuità degli habitat delle specie di uccelli presenti nel sito.
36.- Il 19 giugno 2003, sulla scorta delle indicazioni contenute nella relazione
dell’IREALP, veniva pubblicato un nuovo progetto, corredato da uno studio complementare
del comune di Valfurva relativo all’impatto ambientale. Nel luglio 2003 veniva avviata la
procedura di valutazione dell’impatto ambientale, finalizzata al parere relativo alla parte del
progetto localizzata tra Plaghera, Costa Sobretta e Valle dell’Alpe.
37.- Il 20 agosto 2003 il Consorzio emetteva parere negativo sulla compatibilità del
progetto con l’ambiente, a causa dell’inosservanza delle indicazioni fornite nella relazione
dell’IREALP.
38.- Il 16 ottobre 2003 veniva sottoscritto un documento d’intesa tra la Regione
Lombardia, il Consorzio, il comitato organizzatore dei campionati mondiali di sci ed il
responsabile del programma quadro relativo al progetto, al fine di mettere a punto gli elementi
controversi del progetto. Tale intesa prevedeva:
– l’individuazione delle modalità di acquisizione dei pareri per portare a termine le procedure
regionali di valutazione;
– l’adozione di una visione d’insieme degli interventi sottoposti ad istruttoria, coordinando
per quanto possibile le relative procedure;
104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– la garanzia del rispetto delle condizioni fissate dal consiglio direttivo del Consorzio;
– la conferma della localizzazione della stazione intermedia a Plaghera e del rifugio in
Valle dell’Alpe;
– il riesame e l’adattamento dei progetti riferiti agli interventi nell’ambito del sito di
Santa Caterina-Plaghera in funzione delle esigenze di tutela espresse dal Consorzio.
39.- Con decreto 28 novembre 2003, n. 20789, la Regione Lombardia dichiarava che il
progetto di ristrutturazione degli impianti di risalita e dei servizi correlati nel territorio del comune
di Valfurva era compatibile con l’ambiente della zona di protezione speciale IT 2040044.
40.- Il detto decreto, che recepisce anche le conclusioni di una valutazione di incidenza
della competente Direzione generale Agricoltura della Regione Lombardia, affidava la
vigilanza sul rispetto delle condizioni poste, in fase sia di approvazione dei progetti sia della
loro esecuzione, al Comune di Valfurva. Esso stabiliva inoltre che i progetti definitivi avrebbero
dovuto essere integrati con una serie di prescrizioni, tra cui la presentazione di uno studio
di incidenza delle opere.
FASE PRECONTENZIOSA DEL PROCEDIMENTO
41.- Conformemente all’art. 226 CE, la Commissione, con lettera 19 dicembre 2003,
invitava la Repubblica italiana a trasmetterle le proprie informazioni in merito alla situazione
della zona di protezione speciale IT 2040044.
42.- Non avendo ricevuto risposta a tale lettera, la Commissione inviava alla
Repubblica italiana un parere motivato in data 9 luglio 2004.
43.- La Repubblica italiana rispondeva alle censure formulate dalla Commissione nel
parere motivato con diverse comunicazioni ministeriali.
44.- La Commissione, ritenendo tali risposte insoddisfacenti, proponeva il ricorso in
esame.
SUL RICORSO
45.- La Commissione deduce quattro addebiti a carico della Repubblica italiana: i primi
tre si riferiscono alla direttiva 92/43 ed il quarto riguarda la direttiva 79/409.
Sul primo addebito, vertente sulla violazione del combinato disposto degli artt. 6, n. 3,
e 7 della direttiva 92/43
– Argomenti delle parti
46.- La Commissione ritiene che l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 non fosse fondata
su un’adeguata valutazione dell’impatto ambientale della decisione di ampliare le piste
da sci «Bucaneve» e «Edelweiss» e di allestire varie infrastrutture correlate.
47.- La Commissione sottolinea che la relazione dell’IREALP non contiene un’adeguata
valutazione degli effetti delle opere progettate sulla zona di protezione speciale IT 2040044.
48.- Essa rileva che la detta zona ospita numerose specie di uccelli protette, come emerge
dalle indicazioni contenute nell’Atlas of European Breeding Birds, pubblicazione che
raccoglie gli studi di oltre 10 000 ornitologi di tutta Europa e considerata quale opera estremamente
attendibile in materia di uccelli nidificanti in Europa.
49.- La Commissione osserva inoltre che, sebbene la relazione dell’IREALP contenga
utili raccomandazioni, di esse non si è tenuto debitamente conto nell’ambito dell’autorizzazione
del 14 febbraio 2003.
50.- La Commissione giunge alla conclusione che la detta autorizzazione è stata accordata
senza che le autorità nazionali avessero acquisito la certezza che le opere previste fos-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 105
sero prive di effetti pregiudizievoli per l’integrità della zona di protezione speciale in questione.
51.- La Repubblica italiana deduce che occorre distinguere tra due tipi di lavori, ossia,
da un lato, quelli per cui è stata effettuata la procedura di valutazione dell’impatto ambientale
e sono state indicate le misure da adottare per limitare tale impatto e, dall’altro, quelli
per cui, in base alla relazione dell’IREALP, sono state previste talune modifiche.
52.- La Repubblica italiana osserva che per la prima categoria di lavori, che comprende
le opere realizzate tra Plaghera e la Valle dell’Alpe, occorre determinare se le competenti
autorità abbiano proceduto ad una valutazione degli interessi ambientali presenti nella
zona di protezione speciale IT 2040044. Per gli altri lavori, ossia le opere realizzate tra Santa
Caterina e Plaghera, occorrerebbe verificare se la stessa procedura abbia avuto corso e se il
rinvio ad una fase successiva di affinamento progettuale delle misure di mitigazione delle
ripercussioni sull’ambiente sia conforme alla direttiva 92/43.
53.- La Repubblica italiana sostiene che il decreto regionale 30 maggio 2000, n. 13879,
pur non facendo espressamente riferimento alla valutazione dell’incidenza ambientale, è
stato emanato previa analisi degli elementi di riferimento stabiliti da tale direttiva.
54.- Secondo la Repubblica italiana, ne consegue che la valutazione alla base di tale decreto
costituisce un vincolo imprescindibile per ogni successivo provvedimento autorizzativo.
– Giudizio della Corte
55.- In via preliminare occorre rilevare che le parti sono concordi sul fatto che i lavori
di adattamento delle piste da sci e l’allestimento delle connesse infrastrutture erano tali da
far sorgere l’obbligo di effettuare una previa valutazione d’incidenza ambientale, in conformit
à all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43.
56.- Tale disposizione prevede un procedimento di valutazione diretto a garantire,
mediante un controllo preventivo, che un piano o un progetto non direttamente connesso o
necessario alla gestione del sito interessato, ma idoneo ad avere incidenze significative sullo
stesso, possa essere autorizzato solo se non pregiudicherà l’integrità di tale sito (v. sentenze
7 settembre 2004, causa C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging,
Racc. pag. I-7405, punto 34, in prosieguo: la «sentenza Waddenzee»; nonché 26 ottobre
2006, causa C-239/04, Commissione/Portogallo, Racc. pag. I-10183, punto 19, in prosieguo:
la «sentenza Castro Verde»).
57.- Per quanto riguarda la nozione di «opportuna valutazione» ai sensi dell’art. 6, n. 3,
della direttiva 92/43, occorre rilevare che quest’ultima non definisce alcun metodo particolare
per lo svolgimento di siffatta valutazione.
58.- Tuttavia, la Corte ha dichiarato che tale valutazione dev’essere concepita in modo
tale che le autorità competenti possano acquisire la certezza che un piano o un progetto non
pregiudicherà l’integrità del sito di cui trattasi, dato che, quando sussiste un’incertezza quanto
alla mancanza di tali effetti, le dette autorità sono tenute a negare l’autorizzazione richiesta
(v., in tal senso, le citate sentenze Waddenzee, punti 56 e 57, e Castro Verde, punto 20).
59.- Quanto agli elementi in base ai quali le competenti autorità possono acquisire la
certezza necessaria, la Corte ha precisato che dev’essere escluso qualsiasi ragionevole dubbio
da un punto di vista scientifico, fermo restando che le dette autorità devono fondarsi
sulle migliori conoscenze scientifiche in materia (v. citate sentenze Waddenzee, punti 59 e
61, e Castro Verde, punto 24).
60.- Occorre pertanto verificare se, nel caso di specie, gli effetti dei lavori controversi
sull’integrità del sito interessato siano stati esaminati prima del rilascio dell’autorizzazione
del 14 febbraio 2003 in modo conforme ai suddetti parametri.
106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
61.- Dagli atti di causa risulta che talune riflessioni preparatorie erano state svolte
prima del rilascio della detta autorizzazione. Le valutazioni possibilmente idonee ai sensi
dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 sono costituite, da una parte, da uno studio dell’impatto
sull’ambiente realizzato nel 2000 e, dall’altra, da una relazione presentata nel 2002 (v.
supra, punti 21-24 nonché 25-32).
62.- Per quanto attiene, da un lato, al suddetto studio, realizzato da un architetto per
conto di due imprese di lavori pubblici, occorre osservare che, sebbene esso affronti la questione
degli effetti delle opere progettate sulla fauna e sulla flora della zona, esso stesso evidenzia
il carattere sommario e frammentario dell’analisi delle ripercussioni ambientali prodotte
dall’allargamento delle piste da sci e dalla costruzione delle correlate infrastrutture.
63.- Si deve altresì sottolineare che il medesimo studio rileva un numero considerevole
di elementi che non sono stati presi in considerazione. In particolare, esso raccomanda
ulteriori analisi morfologiche e ambientali, nonché un nuovo esame degli effetti delle opere,
nel loro contesto globale, sulla fauna selvatica in generale e sulla situazione di talune specie
tutelate, in particolare nella zona di foresta da disboscare.
64.- Secondo il detto studio, inoltre, dal punto di vista economico la realizzazione delle
opere progettate è auspicabile, ma deve avvenire nel rispetto di un elevato numero di prescrizioni
a fini di tutela.
65.- È d’obbligo concludere che il detto studio non costituisce una valutazione opportuna
ai sensi dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 sulla quale le autorità nazionali potessero
fondarsi per autorizzare i lavori controversi.
66.- Per quanto concerne, dall’altro lato, la relazione dell’IREALP presentata nel 2002,
va osservato che anch’essa descrive i lavori previsti, esaminandone l’incidenza sul regime
idrogeologico e sulla geomorfologia, nonché sulla vegetazione della zona. Quanto agli
uccelli per i quali il sito è stato classificato zona di protezione speciale, tale relazione non
contiene un elenco esaustivo degli uccelli selvatici ivi presenti.
67.- Se è pur vero che la relazione dell’IREALP spiega che i principali elementi di
disturbo che minacciano la fauna provengono dalla distruzione dei nidi durante la fase di
disboscamento e dalla frammentazione dell’habitat, tale relazione è tuttavia caratterizzata
da una serie di rilievi di carattere preliminare e dall’assenza di conclusioni definitive. Essa
sottolinea, infatti, l’importanza di valutazioni da effettuarsi progressivamente, in particolare
in base a conoscenze e precisazioni che possono emergere nel corso del processo di
realizzazione del progetto. La detta relazione è stata peraltro concepita come un’occasione
per presentare ulteriori proposte di miglioramento del bilancio ambientale degli interventi
previsti.
68.- Da tali elementi si evince che neppure la relazione dell’IREALP può essere considerata
quale valutazione opportuna dell’incidenza dei lavori controversi sulla zona di protezione
speciale IT 2040044.
69.- Da tutte le suesposte considerazioni risulta che sia lo studio del 2000 sia la relazione
del 2002 sono caratterizzati da lacune e dall’assenza di rilievi e di conclusioni completi,
precisi e definitivi atti a dissipare qualsiasi ragionevole dubbio scientifico in merito
agli effetti dei lavori previsti sulla zona di protezione speciale in questione.
70.- Orbene, rilievi e conclusioni di tale natura erano indispensabili affinché le competenti
autorità fossero in grado di acquisire la certezza necessaria per adottare la decisione che
autorizza i detti lavori.
71.- Pertanto, l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 non era conforme all’art. 6, n. 3,
della direttiva 92/43.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 107
72.- Quanto agli altri studi, è sufficiente osservare che essi non possono essere considerati
pertinenti, dato che sono stati svolti o nel corso dei lavori, o dopo la loro realizzazione,
ossia dopo il rilascio dell’autorizzazione del 14 febbraio 2003.
73.- Pertanto, l’inadempimento dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 dev’essere considerato
dimostrato.
Sul secondo addebito, vertente sulla violazione del combinato disposto degli artt. 6,
n. 4, e 7 della direttiva 92/43
– Argomenti delle parti
74.- La Commissione ritiene che fosse evidente come i lavori previsti rischiassero di
pregiudicare gravemente l’integrità della zona in questione. Ebbene, a suo avviso non è stata
presa seriamente in considerazione nessuna alternativa. Il decreto regionale 30 maggio
2000, n. 13879, avrebbe evocato la possibilità di non modificare le piste da sci «Bucaneve»
e «Edelweiss», ma piuttosto di mantenere, nei limiti del possibile, il tracciato attuale, per poi
scostarsene in seguito.
75 .- La Commissione ne deduce che il progetto è stato autorizzato sebbene esistessero
altre soluzioni meno dannose per l’ambiente della detta zona, le quali tuttavia non sono
state prese in considerazione dalle autorità nazionali.
76.- La Commissione fa inoltre valere che la realizzazione dei lavori non era giustificata
da motivi imperativi di rilevante interesse pubblico. Essa afferma, inoltre, che non è
stata adottata alcuna misura compensativa.
77.- La Repubblica italiana sostiene che i lavori controversi sono stati oggetto di una
doppia procedura di autorizzazione. La parte iniziale dei tracciati e degli impianti tra Santa
Caterina e Plaghera sarebbe stata considerata compatibile con l’ambiente in forza del decreto
regionale 30 maggio 2000, n. 13879, integrato dal successivo parere favorevole del
Consiglio regionale della Lombardia. Per quanto riguarda la parte del progetto da realizzarsi
tra Plaghera e la Valle dell’Alpe, essa afferma che è stata avviata una fase di revisione del
progetto in seguito alle indicazioni contenute nella relazione dell’IREALP, al fine di dar
corso alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale.
78.- La Repubblica italiana fa presente che la Regione Lombardia aveva imposto, quale
condizione prevista dal decreto regionale 28 novembre 2003, n. 20789, contenente una valutazione
d’incidenza ambientale relativa alla zona situata tra Plaghera e Valle dell’Alpe, che
fosse presentato uno studio sull’impatto complessivo delle opere, riguardante anche la zona
situata tra Santa Caterina e Plaghera.
79.- La Repubblica italiana aggiunge che le competenti autorità hanno acquisito la certezza
che fosse necessario assoggettare a valutazione d’incidenza ambientale la totalità delle
opere, comprese quelle autorizzate dal detto decreto regionale.
– Giudizio della Corte
80.- Per quanto riguarda la fondatezza dell’addebito vertente sulla violazione dell
’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, occorre acclarare se l’autorizzazione del 14 febbraio 2003
fosse conforme ai requisiti stabiliti dall’art. 6, n. 4, della direttiva.
81.- Tale disposizione prevede che, qualora, nonostante conclusioni negative della
valutazione dell’incidenza effettuata in conformità all’art. 6, n. 3, primo periodo, di tale
direttiva, un piano o progetto debba essere comunque realizzato per motivi imperativi di
rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e in mancanza di
soluzioni alternative, lo Stato membro può adottare ogni misura compensativa necessaria
per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata.
108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
82.- Come la Corte ha sottolineato ai punti 35 e 36 della citata sentenza
Commissione/Portogallo, l’art. 6, n. 4, della detta direttiva, in quanto disposizione derogatoria
rispetto al criterio di autorizzazione previsto dal secondo periodo del n. 3 del citato articolo,
dev’essere interpretato restrittivamente.
83.- Occorre inoltre rilevare che l’art. 6, n. 4, della direttiva 92/43 può essere applicato
solo dopo che l’incidenza di un piano o di un progetto sia stata valutata ai sensi dell’art. 6,
n. 3, della direttiva medesima. La conoscenza di tale incidenza con riferimento agli obiettivi
di conservazione relativi al sito in questione costituisce un presupposto imprescindibile
ai fini dell’applicazione del detto art. 6, n. 4, dato che, in assenza di tali elementi, non può
essere valutato alcun requisito di applicazione di tale disposizione di deroga. L’esame di
eventuali motivi imperativi di rilevante interesse pubblico e quello dell’esistenza di alternative
meno dannose richiedono, infatti, una ponderazione con riferimento ai danni che il
piano o il progetto in questione cagiona al sito. Inoltre, per determinare la natura di eventuali
misure compensative, i danni al detto sito devono essere individuati con precisione.
84.- Orbene, dalle considerazioni che precedono risulta che le autorità nazionali non
disponevano di tali dati al momento dell’adozione della decisione di concedere l’autorizzazione
del 14 febbraio 2003. Ne consegue che tale autorizzazione non può essere fondata sull
’art. 6, n. 4, della direttiva 92/43.
85.- Pertanto, l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 dal Consorzio non era conforme
all’art. 6, n. 4, della direttiva 92/43.
86.- Di conseguenza, anche sotto tale profilo il ricorso della Commissione è fondato.
Sul terzo addebito, vertente sulla violazione del combinato disposto degli artt. 6, n. 2,
e 7 della direttiva 92/43
– Argomenti delle parti
87.- La Commissione afferma che le autorità nazionali non erano autorizzate a concedere
l’autorizzazione per i lavori di ampliamento e adattamento della zona sciistica alpina,
dato che tali lavori erano suscettibili di arrecare grave pregiudizio all’integrità del parco.
88.- La Commissione sottolinea che la zona in questione ha subìto un notevole degrado
in seguito ai lavori autorizzati dal Consorzio. Essa ricorda che l’adattamento delle piste
da sci alpino «Bucaneve» e «Edelweiss» ha comportato l’abbattimento di circa 2 500 alberi
che costituivano un habitat importante per numerose specie tutelate di uccelli.
89.- Secondo la Repubblica italiana, la circostanza che la realizzazione dell’opera controversa
abbia comportato alcuni aspetti critici cui non è ancora stato posto rimedio non
significa che gli interventi considerati non siano stati correttamente valutati. Quando lavori
pubblici comportanti impatti negativi sull’ambiente risultano necessari, le disposizioni della
direttiva 92/43 non implicano, a suo avviso, il divieto di realizzare tali lavori, bensì l’obbligo
di adottare opportune misure compensative.
90.- La Repubblica italiana ritiene che siffatte misure debbano essere adottate, secondo
le possibilità, prima, durante e dopo la realizzazione dei lavori in questione.
– Giudizio della Corte
91.- Per accertare la fondatezza dell’addebito occorre esaminare se attività che incidono
su una zona di protezione speciale possano violare l’art. 6, nn. 3 e 4, della direttiva 92/43
– come rilevato, nella specie, ai punti 73 e 85 della presente sentenza – nonché, contemporaneamente,
il n. 2 dello stesso articolo.
92.- A tale proposito occorre osservare che quest’ultima disposizione stabilisce l’obbligo
di adottare opportune misure di tutela, dirette ad evitare il degrado nonché le perturbazioni che
possano avere effetti significativi per quanto riguarda gli obiettivi della direttiva 92/43.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 109
93.- Tale obbligo corrisponde all’obiettivo enunciato al settimo ‘considerando’ di tale
direttiva, secondo il quale ogni zona di protezione speciale deve integrarsi in una rete ecologica
europea coerente.
94.- Quando un’autorizzazione sia stata accordata per un piano o progetto in modo non
conforme all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 – come emerge nella specie dall’esame della
prima censura –, può essere rilevata una violazione del n. 2 del detto articolo con riferimento
ad una zona di protezione speciale se risultino dimostrati il degrado di un habitat ovvero
perturbazioni che colpiscono le specie per le quali la zona in questione è stata designata.
95.- Per quanto riguarda la causa in esame, occorre ricordare che all’interno della zona
interessata – che costituisce l’habitat di specie di uccelli protetti, in particolare dell’astore,
della pernice bianca, del picchio nero e del fagiano di monte – sono stati abbattuti circa
2 500 alberi. Di conseguenza, i lavori controversi hanno annientato i siti di riproduzione
delle dette specie.
96.- È giocoforza concludere che i detti lavori, e le ripercussioni sulla zona di protezione
speciale IT 2040044 che ne sono derivate, erano incompatibili con lo status giuridico di
tutela di cui avrebbe dovuto beneficiare la detta zona in forza dell’art. 6, n. 2, della direttiva
92/43.
97.- Di conseguenza, il ricorso della Commissione dev’essere accolto anche sotto tale
profilo.
Sul quarto addebito, vertente sulla violazione dell’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva
79/409
– Argomenti delle parti
98.- La Commissione ritiene che l’analisi delle misure adottate dalle autorità nazionali
dimostri come la zona di protezione speciale IT 2040044 non abbia beneficiato di uno status
giuridico di protezione nel diritto nazionale atto a garantire, in particolare, la sopravvivenza
e la riproduzione delle specie di uccelli menzionate nell’allegato I della direttiva
79/409 e la riproduzione, la muta e lo svernamento delle specie migratorie non considerate
dal detto allegato che ivi ritornano regolarmente.
99.- Ad avviso della Commissione, i lavori intrapresi in seguito all’autorizzazione del
14 febbraio 2003 sarebbero tali da nuocere gravemente alle specie di uccelli presenti in tale
zona di protezione speciale, in particolare durante il periodo riproduttivo.
100.- La Commissione precisa che, sebbene la detta zona sia soggetta a regolamentazione,
la decisione del 14 febbraio 2003 dimostrerebbe come le autorità nazionali non abbiano
preso le misure necessarie per istituire un regime giuridico atto ad assicurare non solo la
tutela di tale zona, ma anche l’effettiva protezione delle specie di uccelli ivi presenti.
101.- La Repubblica italiana replica che la zona controversa costituisce uno spazio
intensamente regolamentato.
102.- Essa spiega che dalla normativa istitutiva del Parco risulta che tale zona gode di
uno status di tutela idoneo a garantire gli obiettivi previsti dalla normativa comunitaria. A
suo avviso, la creazione del Parco ha lo scopo di proteggere la fauna instaurando un regime
di gestione incentrato sulla conservazione di specie animali o vegetali.
– Giudizio della Corte
103.- In via preliminare si deve rammentare che la zona oggetto del ricorso in esame è
stata classificata zona di protezione speciale ai sensi delle disposizioni dell’art. 4 della direttiva
79/409.
104.- Occorre altresì rilevare che, se è pur vero che l’art. 7 della direttiva 92/43 produce
l’effetto di sostituire gli obblighi imposti dall’art. 6, nn. 2-4, della detta direttiva a quelli
110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
derivanti dall’art. 4, n. 4, della direttiva 79/409, gli obblighi dettati dai nn. 1 e 2 del citato
art. 4 rimangono integralmente applicabili. Questi ultimi obblighi presentano infatti carattere
autonomo e perseguono obiettivi diversi da quelli stabiliti all’art. 6, nn. 2-4, della direttiva
92/43.
105.- Ai fini della determinazione della fondatezza della censura va sottolineato che,
per giurisprudenza costante, incombe alla Commissione provare la sussistenza dell’asserito
inadempimento. Spetta infatti all’istituzione fornire alla Corte tutti gli elementi necessari
affinché quest’ultima accerti l’esistenza dell’inadempimento, senza potersi basare su alcuna
presunzione (v., in particolare, sentenze 6 novembre 2003, causa C-434/01,
Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-13239, punto 21; 29 aprile 2004, causa C-117/02,
Commissione/Portogallo, Racc. pag. I-5517, punto 80, e 26 aprile 2007, causa C-135/05,
Commissione/Italia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20).
106.- A tale proposito occorre osservare, come ha fatto la stessa Commissione, che la
gestione della zona di protezione speciale in questione è disciplinata da diversi strumenti
giuridici dell’ordinamento italiano.
107.- Incombeva quindi alla Commissione produrre la prova che il contesto giuridico
delineato da tali diversi strumenti non è idoneo a conferire alla detta zona un adeguato status
di tutela.
108.- Ebbene, la Commissione non ha dimostrato sotto quale profilo il detto contesto
giuridico sia insufficiente alla luce delle disposizioni dell’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva.
Essa si è infatti limitata ad eccepire l’adozione, da parte dell’autorità amministrativa, di una
decisione di autorizzazione contraria all’art. 6 della direttiva 92/43, il che tuttavia non basta
a dimostrare l’incompatibilità del detto contesto giuridico con l’art. 4 della direttiva 79/409.
109.- Conseguentemente, il quarto addebito della Commissione dev’essere respinto.
SULLE SPESE
110.- A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è
condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda,
la Repubblica italiana, rimasta sostanzialmente soccombente, va condannata alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce:
1) La Repubblica italiana,
– avendo autorizzato misure suscettibili di avere un impatto significativo sulla zona di
protezione speciale IT 2040044, Parco Nazionale dello Stelvio, senza assoggettarle ad
un’opportuna valutazione della loro incidenza alla luce degli obiettivi di conservazione
della detta zona;
– avendo autorizzato siffatte misure senza rispettare le disposizioni che consentono la
realizzazione di un progetto, in caso di conclusioni negative risultanti dalla valutazione dell
’incidenza sull’ambiente e in mancanza di soluzioni alternative, solo per motivi imperativi
di rilevante interesse pubblico, e solo dopo avere adottato e comunicato alla Commissione
delle Comunità europee ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza
globale di Natura 2000 sia tutelata, e
– avendo omesso di adottare misure per evitare il deterioramento degli habitat naturali
e degli habitat delle specie nonché la perturbazione delle specie per le quali la zona di
protezione speciale IT 2040044, Parco Nazionale dello Stelvio, è stata designata,
è venuta meno agli obblighi ad essa imposti dall’art. 6, nn. 2-4, della direttiva del
Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 111
seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, nel combinato disposto con l’art. 7 della
medesima direttiva, nonché dall’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979,
79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici.
2) Il ricorso è respinto quanto al resto.
3) La Repubblica italiana è condannata alle spese».
Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione seconda, sentenza 20 settembre
2007 nella causa C-388/05 (ricorso per inadempimento) – Commissione delle
Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. L. Bay
Larsen – Avv. gen. E. Sharpston.
«1.- Con il presente ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte
di dichiarare che la Repubblica italiana,
– prima del 28 dicembre 1998, data di designazione della zona di protezione speciale
(in prosieguo: la «ZPS») «Valloni e steppe pedegarganiche», è venuta meno agli obblighi
derivanti dall’art. 4, n. 4, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente
la conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva
sugli uccelli»), nella misura in cui ha omesso di adottare misure idonee a prevenire l’inquinamento
o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli selvatici
che abbiano conseguenze significative, in riferimento al piano denominato «patto d’area
» ed ai progetti ivi previsti, i quali erano suscettibili di avere un impatto sugli habitat e
sulle specie all’interno della zona importante per la conservazione degli uccelli, detta
Important Bird Area (in prosieguo: la «IBA») n. 94 del catalogo IBA 1989, «Promontorio
del Gargano» e n. 129 del catalogo IBA 1998, «Promontorio del Gargano», e hanno effettivamente
causato il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli
selvatici presenti all’interno della suddetta zona;
– dopo il 28 dicembre 1998, data di designazione della ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche
», è venuta meno agli obblighi derivanti dagli artt. 6, nn. 2-4, e 7 della direttiva del
Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (G.U. L 206, pag. 7; in prosieguo: la «direttiva
sugli habitat»), nella misura in cui:
in violazione dell’art. 6, n. 2, della direttiva in questione, ha omesso di adottare le
opportune misure per evitare nella ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche» il degrado degli
habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui tale ZPS
è stata designata, in riferimento ai progetti previsti dal «patto d’area», allo stato attuale già
realizzati, che hanno causato il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonch
é la perturbazione delle specie all’interno di tale zona;
in violazione dell’art. 6, n. 3, della stessa direttiva, ha omesso di effettuare una valutazione
di incidenza ex ante conforme ai requisiti di cui al suddetto articolo, in riferimento ai
progetti previsti dal «patto d’area», allo stato attuale già realizzati, che erano suscettibili di
avere incidenze significative sulla ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche».
in violazione dell’art. 6, n. 4, della medesima direttiva, ha omesso di applicare la procedura
che permette di realizzare un progetto anche in caso di conclusioni negative della
valutazione dell’incidenza sul sito e in mancanza di soluzioni alternative, per motivi imperativi
di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica o consi-
112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
derazioni connesse con la salute dell’uomo e la sicurezza pubblica o relative a conseguenze
positive di primaria importanza per l’ambiente ovvero, previo parere della Commissione,
altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, e di comunicare alla Commissione le
misure compensative adottate necessarie per garantire che la coerenza globale di Natura
2000 fosse tutelata, in riferimento ai progetti inseriti nel «patto d’area» che sono stati approvati,
nonostante la loro rilevante incidenza sulla ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche», per
fronteggiare la situazione di crisi socio-economica ed occupazionale dell’area di
Manfredonia.
CONTESTO NORMATIVO
La normativa comunitaria
2.- L’art. 4 della direttiva sugli uccelli così prevede:
«1. Per le specie elencate nell’allegato I sono previste misure speciali di conservazione
per quanto riguarda l’habitat, per garantire la sopravvivenza e la riproduzione di dette
specie nella loro area di distribuzione.
(…) Gli Stati membri classificano in particolare come zone di protezione speciale i territori
più idonei in numero e in superficie alla conservazione di tali specie, tenuto conto delle
necessità di protezione di queste ultime nella zona geografica marittima e terrestre in cui si
applica la presente direttiva.
2. Analoghe misure vengono adottate dagli Stati membri per le specie migratrici non
menzionate nell’allegato I che ritornano regolarmente, tenuto conto delle esigenze di protezione
nella zona geografica marittima e terrestre in cui si applica la presente direttiva per
quanto riguarda le aree di riproduzione, di muta e di svernamento e le zone in cui si trovano
le stazioni lungo le rotte di migrazione. A tale scopo, gli Stati membri attribuiscono una
importanza particolare alla protezione delle zone umide e specialmente delle zone d’importanza
internazionale. (…)
4. Gli Stati membri adottano misure idonee a prevenire, nelle zone di protezione di cui
ai paragrafi 1 e 2, l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni
dannose agli uccelli che abbiano conseguenze significative tenuto conto degli obiettivi del
presente articolo. Gli Stati membri cercheranno inoltre di prevenire l’inquinamento o il deterioramento
degli habitat al di fuori di tali zone di protezione».
3.- L’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat dispone quanto segue:
«2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di
conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione
delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione
potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente
direttiva».
4.- L’art. 6, n. 3, della direttiva sugli habitat istituisce una procedura di valutazione degli
effetti sulle zone tutelate dei piani o progetti che possano avere incidenze sulle stesse, mentre
l’art. 6, n. 4, della medesima direttiva prevede l’adozione, qualora ricorrano talune condizioni,
di misure compensative nel caso in cui un piano o progetto debba essere realizzato nonostante
le conclusioni negative della valutazione dell’incidenza sul sito in questione.
5.- L’art. 7 della direttiva sugli habitat prevede che gli obblighi derivanti dall’art. 6,
nn. 2-4, della stessa «sostituiscono gli obblighi derivanti dall’articolo 4, paragrafo 4, prima
frase, della direttiva [sugli uccelli] per quanto riguarda le zone classificate a norma dell’articolo
4, paragrafo 1, o analogamente riconosciute a norma dell’articolo 4, paragrafo 2 di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 113
detta direttiva a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente direttiva o dalla data
di classificazione o di riconoscimento da parte di uno Stato membro a norma della [direttiva
sugli uccelli], qualora essa sia posteriore».
FATTI E PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO
6.- Nel febbraio 2001 la Lega Italiana Protezione Uccelli ha presentato alla Commissione
una denuncia secondo la quale l’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche
», classificata come ZPS il 28 dicembre 1998, era oggetto di numerosi interventi industriali
ed immobiliari, già ultimati o in corso di esecuzione, dannosi per l’habitat naturale e la conservazione
di numerose specie di uccelli selvatici che vivevano o transitavano nella zona.
7.- Con lettera del 22 agosto 2001, la Commissione ha chiesto alla Repubblica italiana
informazioni circa gli interventi realizzati e previsti all’interno di tale area, con particolare
riferimento a quelli di cui al «patto d’area» per lo sviluppo industriale dell’area di
Manfredonia, concluso dalla Regione Puglia e dal Comune di Manfredonia.
8.- Le autorità italiane hanno risposto con lettere della Rappresentanza permanente
della Repubblica italiana presso l’Unione europea del 6 dicembre 2001 e del 15 febbraio
2002, nonché con lettera della Regione Puglia del 13 febbraio 2003.
9.- Con lettera del 19 dicembre 2003, la Commissione ha intimato alla Repubblica italiana
di presentare osservazioni entro un termine di due mesi dalla notifica di tale lettera.
10.- Poiché tale Stato membro non ha risposto alla lettera, in data 9 luglio 2004 la
Commissione gli ha inviato un parere motivato.
11.- La Repubblica italiana ha risposto al parere con lettera del 9 novembre 2004, affermando
che avrebbe presto dato risposta alle contestazioni della Commissione.
12.- Non avendo ricevuto altre risposte, la Commissione ha deciso di proporre il presente
ricorso.
13.- Dal momento che la Commissione ha tuttavia rinunciato ai punti del ricorso relativi
alla violazione dell’art. 6, nn. 3 e 4, della direttiva sugli habitat, gli stessi non devono
più essere esaminati.
SUL RICORSO
Argomenti delle parti
14.- La Commissione sostiene che il «patto d’area» per lo sviluppo industriale dell’area
di Manfredonia è stato approvato nel marzo 1998 e che i relativi progetti sono stati
avviati immediatamente, con pregiudizio per la tutela di numerose specie di uccelli protetti
che vivevano o transitavano nell’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche
», classificata come ZPS in data 28 dicembre 1998. Tali progetti sarebbero peraltro tuttora
in corso di realizzazione.
15.- Tale «patto d’area» sarebbe stato approvato senza l’adozione di misure volte a prevenire
l’inquinamento e il degrado degli habitat, nonché la perturbazione degli uccelli all’interno
dell’area «Valloni e steppe pedegarganiche», e senza una valutazione preliminare delle
incidenze su tale area.
16.- La Repubblica italiana riconosce che il «patto d’area» è stato approvato nel marzo
1998 senza alcuna procedura preliminare di valutazione della sua incidenza sull’area
«Valloni e steppe pedegarganiche». Essa riconosce che gli impianti industriali hanno avuto
un effetto diretto sulla scomparsa di un habitat naturale di interesse comunitario in tale zona.
114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Giudizio della Corte
Sulla situazione precedente alla classificazione dell’area geografica denominata
«Valloni e steppe pedegarganiche» come ZPS.
17.- L’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli impone agli Stati membri di adottare misure
idonee a prevenire nelle ZPS l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le
perturbazioni dannose agli uccelli che abbiano conseguenze significative tenuto conto degli
obiettivi di tale articolo.
18.- Emerge dalla giurisprudenza della Corte che gli Stati membri devono rispettare gli
obblighi che derivano in particolare dall’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli, anche nel
caso in cui la zona interessata non sia stata classificata come ZPS dal momento in cui doveva
esserlo (v. sentenza 18 marzo 1999, causa C-166/97, Commissione/Francia, Racc. pag. I-
1719, punto 38).
19.- A questo proposito la Corte ha affermato che l’elenco delle IBA, per quanto non
sia giuridicamente vincolante per gli Stati membri interessati, contiene elementi di prova
scientifica che consentono di valutare l’osservanza da parte di uno Stato membro dell’obbligo
di classificare come ZPS i territori più appropriati per numero e superficie per la conservazione
delle specie protette (v., in particolare, sentenza 7 dicembre 2000, causa C-374/98,
Commissione/Francia, Racc. pag. I-10799, punto 25).
20.- Ebbene, è pacifico che l’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche
», situata nella Regione Puglia, e più precisamente nel Comune di Manfredonia, ospita
alcune rare specie di uccelli selvatici, cosicché essa è stata classificata nel 1989 quale
IBA, con la denominazione di «Promontorio del Gargano», da parte di BirdLife
International. Essa è stata altresì classificata come IBA nel catalogo IBA 1998.
21.- Risulta pertanto che tale area avrebbe dovuto essere classificata come ZPS prima
del 28 dicembre 1998.
22.- Inoltre, non è contestato che la realizzazione dell’area industriale nell’ambito del
«patto d’area» ha comportato la distruzione di una parte della zona «Valloni e steppe pedegarganiche
», prima in buono stato di conservazione, pregiudicando la conservazione di
numerose specie di uccelli protetti che frequentavano tale area.
23.- Si deve pertanto rilevare che, prima del 28 dicembre 1998, la Repubblica italiana
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 4, n. 4, della direttiva sugli
uccelli, e che il ricorso della Commissione deve essere accolto su tale punto.
Sulla situazione successiva alla classificazione dell’area geografica denominata
«Valloni e steppe pedegarganiche» come ZPS.
24.- Occorre osservare che, per quanto riguarda le zone classificate come ZPS, l’art. 7
della direttiva sugli habitat prevede che gli obblighi derivanti dall’art. 4, n. 4, della direttiva
sugli uccelli siano sostituiti, segnatamente, dagli obblighi derivanti dall’art. 6, n. 2, della
direttiva sugli habitat, a decorrere dalla data di entrata in vigore di quest’ultima direttiva o
dalla data di classificazione a norma della direttiva sugli uccelli, qualora tale ultima data sia
posteriore (v. sentenza 13 giugno 2002, causa C-117/00, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-
5335, punto 25).
25.- Dal momento che l’area «Valloni e steppe pedegarganiche» è stata classificata
come ZPS il 28 dicembre 1998, nella fattispecie l’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat
deve applicarsi a detta area a partire da tale data.
26.- Atal riguardo si deve ricordare che l’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat, al pari
dell’art. 4, n. 4, prima frase, della direttiva sugli uccelli, impone agli Stati membri di adottare
le misure idonee ad evitare, nelle ZPS classificate conformemente al n. 1 di quest’ulti-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 115
mo articolo, il degrado degli habitat nonché le perturbazioni dannose che pregiudichino in
modo significativo le specie per le quali le ZPS sono state classificate (v., in tal senso, sentenza
Commissione/Irlanda, cit., punto 26).
27.- Risulta dagli atti di causa che, dopo il 28 dicembre 1998, la situazione descritta al
punto 22 della presente sentenza ha continuato a sussistere. Si deve in proposito ricordare
che la Regione Puglia ha affermato, per rispondere alle contestazioni sollevate dalla
Commissione con nota del 7 luglio 2004, di aver preso in considerazione la necessità di
adottare misure compensative adeguate prevedendo l’estensione della ZPS in esame o l’individuazione
di una nuova ZPS avente una fauna ed una vegetazione comparabili a quelle
dell’habitat danneggiato.
28.- È di conseguenza fondata la censura secondo la quale la Repubblica italiana è
venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 6, n. 2, della direttiva sugli
habitat. Pertanto, il ricorso della Commissione deve essere accolto anche su tale punto.
29.- Si deve dunque dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo adottato i provvedimenti
adeguati per evitare, nella ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche», il degrado degli
habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui tale zona
è stata creata, è venuta meno, nel periodo precedente al 28 dicembre 1998, agli obblighi ad essa
incombenti ai sensi dell’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli e, nel periodo successivo a tale
data, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat.
SULLE SPESE
30.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è
condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto
domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:
1) La Repubblica italiana, non avendo adottato i provvedimenti adeguati per evitare,
nella zona di protezione speciale «Valloni e steppe pedegarganiche», il degrado degli habitat
naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui tale zona
è stata creata, è venuta meno, nel periodo precedente al 28 dicembre 1998, agli obblighi ad
essa incombenti ai sensi dell’art. 4, n. 4, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979,
79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, e, nel periodo successivo
a tale data, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 6, n. 2, della direttiva del
Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese».
Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione quarta, sentenza 4 ottobre 2007
nella causa C-179/06 (ricorso per inadempimento) – Commissione delle Comunità
europee c/ Repubblica italiana (ct. 21257/07, Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel.
R. Silva de Lapuerta – Avv. Gen. J. Kokott.
«(…) 1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte
di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo il Comune di Altamura e la Regione Puglia
approvato, a partire dal dicembre 2000, una modifica del piano urbanistico costituita da una
116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
serie di interventi di edilizia industriale suscettibili di avere un impatto significativo nella zona
di protezione speciale (in prosieguo: la «ZPS») e nel sito di importanza comunitaria proposto
(in prosieguo: il «SICp») IT9120007 di Murgia Alta senza effettuare una previa procedura di
valutazione dell’incidenza almeno per quanto riguarda l’impatto sulla ZPS, è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, n. 3, e 7 della direttiva
del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali
e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (G.U. L 206, pag. 7).
CONTESTO NORMATIVO COMUNITARIO
2.- La direttiva 92/43 ha come scopo di contribuire a salvaguardare la biodiversità
mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche
nel territorio europeo degli Stati membri a cui si applica il Trattato CE.
3.- L’art. 4 della citata direttiva disciplina la procedura ai sensi della quale è costituita
la rete denominata «Natura 2000», prevista all’art. 3 della medesima, così come l’identificazione
delle zone speciali di conservazione da parte degli Stati membri.
4.- L’art. 6 della detta direttiva, che stabilisce le misure di conservazione per tali zone,
prevede:
«(...) 2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di
conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione
delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe
avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva.
3. Qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso e necessario alla gestione del
sito ma che possa avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o congiuntamente
ad altri piani e progetti, forma oggetto di una opportuna valutazione dell’incidenza che ha
sul sito, tenendo conto degli obiettivi di conservazione del medesimo. Alla luce delle conclusioni
della valutazione dell’incidenza sul sito e fatto salvo il paragrafo 4, le autorità
nazionali competenti danno il loro accordo su tale piano o progetto soltanto dopo aver avuto
la certezza che esso non pregiudicherà l’integrità del sito in causa e, se del caso, previo parere
dell’opinione pubblica. (…)».
5.- L’art. 7 della direttiva 92/43 prevede che gli obblighi derivanti dall’art. 6, nn. 2-4,
di quest’ultima sostituiscono gli obblighi derivanti dall’art. 4, n. 4, prima frase, della direttiva
del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli
selvatici (G.U. L 103, pag. 1), per quanto riguarda le zone classificate a norma dell’art. 4,
n. 1, di quest’ultima direttiva o analogamente riconosciute a norma dell’art. 4, n. 2, della
medesima, a decorrere dalla data di entrata in vigore della direttiva 92/43 o dalla data di
classificazione o di riconoscimento da parte di uno Stato membro a norma della direttiva
79/409, qualora essa sia posteriore.
ZONA DI MURGIA ALTA
6.- Nel 1998 il sito di Murgia Alta è stato classificato come ZPS, in conformità
all’art. 4, n. 1, della direttiva 79/409 (codice: IT9120007). Detto sito appartiene alla regione
biogeografica mediterranea. La sua superficie è pari a 143 152 ettari.
7.- Tale ZPS ospita numerose specie di uccelli elencate nell’allegato I alla direttiva
79/409, in particolare la più importante popolazione, in Italia, della specie Falco naumanni.
8.- Due habitat prioritari menzionati nell’allegato I alla direttiva 92/43 sono presenti
nella detta ZPS, l’habitat 6210, denominato «Formazioni erbose secche seminaturali e
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 117
facies coperte da cespugli su substrato calcareo (Festuco-Brometalia)», e l’habitat 6220,
denominato «Percorsi substeppici di graminacee e piante annue dei Thero-Brachypodietea»,
nonché una pianta prioritaria, menzionata nell’allegato II alla direttiva 92/43, la Stipa
austroitalica Martinovsky.
9.- Il sito di Murgia Alta è descritto nel formulario predisposto in forza della decisione
della Commissione 18 dicembre 1996, 97/266/CEE, concernente un formulario informativo
sui siti proposti per l’inserimento nella rete Natura 2000 (G.U. L 107, pag. 1), come segue:
«Caratteristiche generali sito:
Tipi di habitat % coperta
Heath, Scrub, Maquis and Garrigue, Phygrana [brughiere, boscaglie,
macchia, garighe, frigane] 20
Dry grassland, Steppes [praterie aride, steppe] 65
Evergreen woodland [foreste di sempreverdi] 15
Copertura totale habitat 100%
Altre caratteristiche sito:
Paesaggio suggestivo costituito da lievi ondulazioni e da avvallamenti doliniformi, con
fenomeni carsici superficiali rappresentati dai puli e dagli inghiottitoi. Il substrato è di calcare
cretaceo, generalmente ricoperto da calcarenite pleistocenica. Il bioclima è submediterraneo.
Qualità e importanza:
Subregione fortemente caratterizzata dall’ampio e brullo tavolato calcareo che culmina
nei 679 m del monte Caccia. Si presenta prevalentemente come un altipiano calcareo alto
e pietroso. È una delle aree substeppiche più vaste d’Italia, con vegetazione erbacea ascrivibile
ai Festuco brometalia. La flora dell’area è particolarmente ricca, raggiungendo circa
1 500 specie. Da un punto di vista dell’avifauna nidificante sono state censite circa 90 specie,
numero che pone quest’area a livello regionale al secondo posto dopo il Gargano. Le
formazioni boschive superstiti sono caratterizzate dalla prevalenza di Quercus pubescens
spesso accompagnate da Fraxinus ornus. Rare Quercus cerris e Q. frainetto.
Vulnerabilità:
Il fattore distruttivo di maggiore entità è rappresentato dallo spietramento del substrato
calcareo che viene poi sfarinato con mezzi meccanici. In tal modo vaste estensioni con
vegetazioni substeppiche vengono distrutte per la messa a coltura di nuove aree.
L’operazione coinvolge spesso anche muri a secco e altre forme di delimitazione, con grossi
pericoli di dissesto idrogeologico. Incendi ricorrenti, legati alla prevalente attività cerealicola.
Insediamento di seconde case in località a maggiore attrattiva turistica. Uso improprio
delle cavità carsiche per discarica di rifiuti solidi urbani e rifiuti solidi».
FATTI
10.- Il 27 dicembre 2000 il Comune di Altamura, attraverso plurime deliberazioni della
sua giunta comunale, ai sensi dell’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142, relativa all’ordinamento
delle autonomie locali (Supplemento ordinario alla GURI n. 135, del 12 giugno
1990), ha approvato accordi di programma per circa un centinaio di interventi edilizi di tipo
industriale, la gran parte dei quali ricadrebbe all’interno della ZPS e del SICp di Murgia
Alta. Tali accordi riguardavano in particolare 34 opifici, per una superficie di ha 60, previsti
in seno al progetto del Consorzio di Sviluppo Murgiano, e 11 opifici, per una superficie
di ha 8, previsti dal progetto del Consorzio San Marco. Gli accordi in parola sono stati successivamente
approvati mediante decreto dalla Giunta regionale della Regione Puglia.
118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
11.- Al fine di incentivare l’occupazione nel settore produttivo a carattere industriale e
artigianale, i sindaci dei comuni interessati possono chiedere alla Giunta regionale la definizione
di un accordo di programma per autorizzare la realizzazione di complessi che attivino
immediatamente importanti livelli di occupazione.
12.- La sottoscrizione di un accordo di programma, che deve essere autorizzata dalla
Giunta regionale, è ammissibile solo qualora il piano urbanistico vigente non preveda aree
idonee con destinazione specifica operante e giuridicamente efficace per le opere da realizzare
o qualora sia indispensabile l’ampliamento di strutture esistenti in aree contigue non
destinate alle attività industriali e artigianali.
13.- Nel periodo dal 1998 al 2001, numerose imprese hanno presentato al Comune di
Altamura istanze dirette ad ottenere accordi di programma di tipo industriale e artigianale,
alcuni dei quali comportavano una variante al piano urbanistico generale. I procedimenti
avviati sulla base di dette istanze non prevedevano alcuna fase di programmazione generale,
bensì implicavano singole procedure di variante al citato piano.
14.- L’amministrazione regionale ha sottoposto i progetti di competenza del Consorzio
di Sviluppo Murgiano ad una procedura di verifica con riferimento alla necessità di valutazione
dell’impatto ambientale, ritenendo, tuttavia, che non occorresse sottoporre ad una tale
procedura altri progetti, come quelli del Consorzio San Marco. Sulla base di tali accordi, il
Comune di Altamura ha concesso un certo numero di licenze edilizie.
FASE PRECONTENZIOSA
15.- Ai sensi dell’art. 226 CE, il 9 luglio 2004 la Commissione inviava una lettera di
diffida alla Repubblica italiana, invitandola a trasmettere le proprie osservazioni in merito
alla situazione della zona in questione riguardo agli obblighi enunciati agli artt. 6, n. 3, e 7
della direttiva 92/43.
16.- La Repubblica italiana rispondeva alla suddetta lettera mediante comunicazioni
del 14 ottobre 2004 e del 9 giugno 2005, alle quali erano allegate diverse note del Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.
17.- Successivamente, in data 13 luglio 2005 la Commissione inviava alla Repubblica
italiana un parere motivato, invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie per
conformarvisi entro due mesi dal suo ricevimento.
18.- La Repubblica italiana rispondeva al detto parere mediante la trasmissione di due
nuove note ministeriali, datate 3 ottobre 2005 e 7 ottobre 2005.
19.- Ritenendo persistesse una situazione insoddisfacente, la Commissione proponeva
il presente ricorso.
SUL RICORSO
Argomenti delle parti
20.- La Commissione deduce che non è stata effettuata alcuna procedura di valutazione
di incidenza di cui all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 relativamente all’insieme degli
interventi previsti negli accordi di programma in parola, che possono avere un impatto significativo
sulla zona in esame.
21.- Essa rileva che le svariate decisioni amministrative mediante le quali sono stati
approvati gli interventi controversi contrastano con il citato art. 6, n. 3, in quanto, pur essen-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 119
do tali interventi atti ad avere un impatto significativo sulla ZPS e sul SICp di Murgia Alta,
essi non hanno costituito oggetto di una procedura di valutazione di incidenza ambientale.
22.- La Commissione sottolinea che la natura giuridica degli accordi di programma e
dei conseguenti atti è irrilevante rispetto agli obblighi che incombono agli Stati membri in
forza di tale disposizione.
23.- Essa afferma inoltre che esiste contiguità tra le parti del territorio interessate dai
progetti in questione e che, pertanto, possono prodursi significativi impatti complessivi.
24.- La Commissione deduce altresì l’irrilevanza del fatto che il Comune di Altamura
abbia rilasciato solo un limitato numero di licenze edilizie, che nessun’altra licenza sia stata
concessa nel 2003, che le altre richieste di licenza siano sottoposte a procedura di valutazione
di incidenza e che sia stata avviata un’azione per procedere a una valutazione di incidenza
globale sui siti oggetto degli insediamenti produttivi già programmati.
25.- Essa constata anche che non si è affatto provveduto a motivare l’omessa valutazione
di incidenza e che nessuna informazione è stata fornita per dimostrare che gli interventi
di edilizia industriale e artigianale di cui trattasi non potessero avere effetti significativi
sulla zona protetta.
26.- La Repubblica italiana rileva che un accordo di programma non è né un atto che
definisce una situazione giuridica, né un atto amministrativo, né un contratto, bensì costituisce
un modulo procedurale nel quale soggetti pubblici e privati predeterminano i comportamenti
e gli impegni da rispettare per giungere ad un risultato finale. Di conseguenza, a suo
giudizio occorrono altri provvedimenti amministrativi affinché le iniziative oggetto del ricorso,
previste negli accordi di programma, siano effettivamente realizzate.
27.- Questo Stato membro osserva inoltre che le disposizioni di legge relative all’incentivazione
dell’occupazione non possono derogare alle norme in materia di tutela del territorio
e dell’ambiente. Orbene, nell’ordinamento italiano, le ZPS e i siti di importanza
comunitaria godrebbero di un regime molto simile a quello dei parchi e delle altre aree naturali
vincolate ex lege.
28.- La Repubblica italiana osserva che il Comune di Altamura ha rilasciato solo un
numero limitato di licenze edilizie per singole iniziative, in parte riferite ad ampliamenti di
opifici esistenti, in parte ricadenti in zone destinate ad insediamenti industriali.
Successivamente al giugno 2003 non risultano concesse ulteriori licenze, né risulta che sia
stata rilasciata alcuna autorizzazione per le iniziative proposte dal Consorzio di Sviluppo
Murgiano nonché dal Consorzio San Marco.
29.- Tale Stato membro sottolinea che sono stati effettivamente attivati solo quindici
progetti, ognuno dei quali ha riguardato parti distinte del territorio e distinte modalità di realizzazione,
consistenti, ad esempio, in costruzioni ex novo o in ampliamenti. Esso sostiene
che non esiste alcuna contiguità tra tali progetti, né tanto meno un piano generale o territoriale
che li riguardi. Alcuni di essi sono stati sottoposti a preventiva valutazione d’incidenza,
mentre per altri era previsto il rilascio di diverse autorizzazioni in relazione agli aspetti
ambientali e paesaggistici.
30.- La Repubblica italiana rileva che, per l’insieme dei progetti, il Comune di
Altamura si appresta ad effettuare una valutazione globale di incidenza e a promuovere iniziative
di mitigazione di eventuali effetti sull’ambiente.
31.- Essa deduce inoltre che sono stati sospesi tutti i procedimenti relativi alle istanze
per insediamenti industriali previsti nel Comune di Altamura nelle more della definizione
degli esiti di studi scientifici relativi alla valutazione di incidenza ambientale dei progetti
interessati.
120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Giudizio della Corte
32.- In via preliminare occorre osservare che la disposizione di cui la Commissione
invoca la violazione rientra in un complesso insieme di norme che vertono, come risulta dal
terzo, quarto, quinto e sesto ‘considerando’ della direttiva, sull’istituzione e la gestione delle
zone appartenenti alla rete europea Natura 2000.
33.- L’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 subordina l’obbligo di effettuare un’opportuna
valutazione delle incidenze di un piano o progetto su un sito protetto alla condizione che
questo sia idoneo a pregiudicare significativamente il sito interessato (v. sentenza 7 settembre
2004, causa C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, Racc. pag. I-
7405, punto 40; in prosieguo: la sentenza «Waddenzee»).
34.- La Corte ha altresì sottolineato, al punto 43 della detta sentenza, che l’avvio del
meccanismo di tutela dell’ambiente previsto dall’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 richiede
l’esistenza di una probabilità o di un rischio che un piano o un progetto pregiudichi significativamente
il sito interessato.
35.- Per quanto attiene a quest’ultimo criterio, la Corte ha precisato, ai punti 46-48 della
stessa sentenza, che, come emerge dal combinato disposto dell’art. 6, n. 3, prima frase, della
direttiva e del decimo ‘considerando’ della stessa, la significatività dell’incidenza su un sito
di un piano o di un progetto deve essere messa in relazione con gli obiettivi di conservazione
del sito stesso. Di conseguenza, quando un tale piano o progetto, pur avendo un’incidenza sul
detto sito, non rischia di comprometterne gli obiettivi di conservazione, il piano o il progetto
non può essere considerato idoneo a pregiudicare significativamente il sito in questione. La
valutazione di un siffatto rischio deve essere effettuata segnatamente alla luce delle caratteristiche
e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto.
36.- Al fine di verificare la fondatezza dell’addebito formulato nei confronti della
Repubblica italiana, occorre collocare l’obbligo risultante dall’art. 6, n. 3, della direttiva
92/43, come precisato ai punti precedenti della presente sentenza, nell’ambito del ricorso per
inadempimento proposto dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 CE.
37.- Atale proposito occorre ricordare anzitutto che, per giurisprudenza costante, nell’ambito
di un procedimento del genere, la Commissione ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza dell
’inadempimento contestato. Essa è infatti tenuta a fornire alla Corte tutti gli elementi necessari
alla verifica, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di tale inadempimento, senza potersi
basare su alcuna presunzione (v. sentenza 14 giugno 2007, causa C-342/05, Commissione/
Finlandia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 23 e giurisprudenza ivi citata).
38.- Inoltre, l’onere della prova gravante sulla Commissione nell’ambito di un ricorso
per inadempimento deve essere individuato in funzione del tipo di obblighi imposti dalle
direttive agli Stati membri e, dunque, quanto ai risultati che debbono essere raggiunti da
questi ultimi (v., in tal senso, sentenza 18 giugno 2002, causa C-60/01,
Commissione/Francia, Racc. pag. I-5679, punto 25).
39.- Per quanto riguarda l’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, spetta pertanto alla
Commissione fornire la prova che un piano o un progetto, alla luce delle caratteristiche e
delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto, possa
pregiudicare significativamente il sito in questione, in relazione agli obiettivi di conservazione
stabiliti riguardo a quest’ultimo.
40.- Quanto alle misure su cui verte il ricorso e al fine di valutarne la fondatezza, occorre
distinguere i vari accordi di programma dalle opere realizzate successivamente alla concessione,
da parte del Comune di Altamura, di licenze edilizie.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 121
41.- Riguardo, in primo luogo, agli accordi di programma, che si trovano a livelli differenti
di elaborazione, e considerato l’argomento della convenuta, secondo cui tali accordi
non presentano le caratteristiche giuridiche di un piano o di un progetto di cui all’art. 6, n. 3,
della direttiva 92/43, occorre osservare che la Commissione, nell’ambito di un ricorso per
inadempimento relativo agli obblighi previsti dalla norma menzionata, non può limitarsi a
invocare la mera esistenza di tali accordi, ma deve anche fornire elementi sufficientemente
concreti per poter dichiarare che questi accordi vanno al di là della fase di una riflessione
amministrativa preliminare e comportano un livello di precisione nella pianificazione di cui
trattasi che richiede una valutazione in termini ambientali dei loro effetti.
42.- Orbene, senza che occorra stabilire la portata e le conseguenze giuridiche derivanti
dagli accordi di programma controversi in forza del diritto nazionale, si deve constatare
che la Commissione, limitandosi a invocare tali accordi, non ha dimostrato l’esistenza di
elementi sufficientemente precisi per consentire alla Corte di dichiarare che fossero in questione
misure in grado di pregiudicare significativamente il sito interessato ai sensi dell
’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43.
43.- Per quanto attiene, in secondo luogo, alle opere realizzate e agli elementi sui quali
verte l’onere della prova relativo all’obbligo di effettuare una valutazione di incidenza
ambientale, è d’uopo constatare che la Commissione non ha fornito alla Corte precise indicazioni
in merito alla collocazione geografica e alla portata degli interventi edilizi posti in
essere riguardo al sito. Essa d’altronde, in udienza, ha ammesso di non disporre di tali informazioni.
44.- La Commissione non ha nemmeno trasmesso dati relativi alla natura tecnica delle
opere in parola né ha precisato in quale misura queste ultime, alla luce delle caratteristiche
e delle condizioni ambientali specifiche del sito, potrebbero pregiudicare quest’ultimo in
modo significativo.
45.- Alla luce di tali circostanze, si deve concludere che la Commissione non ha adempiuto
l’onere probatorio relativo all’invocato inadempimento.
46.- Di conseguenza, il ricorso deve essere respinto in toto.
SULLE SPESE
47.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è
condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica italiana ne ha fatto
domanda, la Commissione, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce:
1) Il ricorso è respinto.
2) La Commissione delle Comunità europee è condannata alle spese».
122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La sanatoria sulle abilitazioni
non si applica ai concorsi
(Corte Costituzionale, ordinanza 10-20 luglio 2007, n. 312)
Con l'ordinanza n. 312/07, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile,
per irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4
comma 2 bis legge 168/05, in base al quale "conseguono ad ogni effetto l'abilitazione
professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso
dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d'esame
scritte ed orali previste dal bando, anche se l'ammissione alle medesime
o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata
operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela".
Il giudizio di irrilevanza si fonda sulla ritenuta inapplicabilità della
norma al caso di specie, in quanto il Consiglio di Stato aveva annullato
l'ordinanza del T.A.R. con conseguente caducazione di tutti gli atti adottati
in esecuzione della stessa ovvero la ricorrezione delle prove scritte con
esito positivo e il successivo superamento delle prove orali.
La Corte premette infatti che la questione di legittimità costituzionale
si incentra sulla idoneità della norma censurata a rendere irreversibile l'esito
finale dell'esame e quindi il conseguimento dell'abilitazione professionale,
impedendo ogni ulteriore accertamento giudiziale sul merito della
pretesa fatta valere dal candidato ed attribuendo così al provvedimento
cautelare il valore di un accertamento definitivo. La questione sollevata
presuppone quindi, secondo la Corte, che la disposizione censurata abbia
reso irretrattabile l'esito positivo della prova, il che è stato invece espressamente
escluso nel caso di specie proprio in virtù del venir meno degli
effetti prodotti dagli atti esecutivi dell'ordinanza cautelare successivamente
annullata dal Consiglio di Stato.
L'interpretazione della norma in questi termini potrebbe aprire lo spazio
per un mutamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che sinora
ha sempre dichiarato improcedibili gli appelli dell'amministrazione –
ove, in esecuzione dell'ordinanza cautelare, fossero state superate le prove
scritte ed orali – ritenendo prevalenti gli effetti "consolidanti" della norma
I L C O N T E N Z I O S O
N A Z I O N A L E
124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
in questione sugli effetti caducanti di provvedimenti cautelari di secondo
grado già emessi.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa invece aveva sospeso la decisione
di tutti gli appelli nell'ambito dei quali era stata invocata la predetta
norma nelle more della decisione della Corte Costituzionale e quindi, alla
luce di tale pronuncia, dovrebbe presumibilmente accogliere i gravami
pendenti.
Avv. Wally Ferrante
Corte Costituzionale, ordinanza 10-20 luglio 2007, n. 312 – Pres. F. Bile – Rel. S.
Cassese – Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2-bis, del decretolegge
30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di
settori della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione
17 agosto 2005, n. 168, promosso, con ordinanza del 28 luglio 2006, dal Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione Siciliana sull’appello proposto dal Ministero
della Giustizia ed altra contro E.N.B.
«(...) Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2007 il Giudice relatore Sabino Cassese.
Ritenuto che, con l’ordinanza in epigrafe, il Consiglio di giustizia amministrativa per
la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 111 e 113 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2-bis, del decretolegge
30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori
della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto
2005, n. 168;
che, in base alla norma censurata, «Conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale
o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al
concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche
se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione
sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela»;
che la questione è stata sollevata nel corso del giudizio d’appello promosso dal
Ministero della giustizia e dalla Commissione per gli esami di avvocato presso la Corte
d’appello di Catania avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della
Sicilia-Sezione di Catania 23 luglio 2004, che ha dichiarato improcedibile, per intervenuta
cessazione della materia del contendere, il ricorso di E. N. B., volto ad ottenere l’annullamento,
previa sospensione, del provvedimento di non ammissione alla prova orale degli
esami di avvocato nella sessione dell’anno 2002;
che l’efficacia di tale provvedimento era stata, in precedenza, sospesa con ordinanza
del Tribunale amministrativo regionale della Calabria 16 luglio 2003, cui avevano fatto
seguito la rivalutazione delle prove scritte ad opera della Commissione esaminatrice e l’ammissione
alla prova orale, poi sostenuta con esito positivo;
che, successivamente all’ordinanza del TAR Calabria 16 luglio 2003, l’Avvocatura
dello Stato aveva proposto regolamento di competenza e che, su accordo delle parti, gli atti
del giudizio erano stati trasmessi al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia-Sezione
di Catania;
che il Consiglio di Stato, con ordinanza 18 novembre 2003, aveva accolto l’appello,
proposto dal Ministero della giustizia e dalla Commissione esaminatrice, contro l’ordinanIL
CONTENZIOSO NAZIONALE 125
za cautelare del TAR Calabria 16 luglio 2003, «con conseguente caducazione di tutti gli atti»
adottati dalla Commissione in seguito ad essa;
che il Consiglio di giustizia amministrativa, escluso che l’ammissione alla prova orale
e il suo superamento abbiano determinato – come invece ritenuto dalla menzionata sentenza
del TAR Sicilia-Sezione di Catania – la cessazione della materia del contendere, ha, tuttavia,
rilevato una causa di improcedibilità nella circostanza che, durante il giudizio, è entrato
in vigore il menzionato art. 4, comma 2-bis, del decreto-legge n. 115 del 2005, il quale
impone al collegio – secondo il remittente – di prendere atto che il candidato, ammesso alle
prove orali – poi superate positivamente – dopo la rivalutazione delle prove scritte seguita
all’ordinanza cautelare del TAR Calabria, ha ormai conseguito «ad ogni effetto» l’abilitazione
professionale; donde l’impedimento ad emettere una pronuncia nel merito dell’appello,
in quanto l’effetto provvisorio del provvedimento cautelare si sarebbe definitivamente consolidato,
derivandone – appunto – l’improcedibilità dell’appello per cessazione della materia
del contendere;
che, pertanto, secondo il giudice remittente, la questione sollevata sarebbe rilevante ai
fini della pronuncia sul merito della controversia;
che, secondo il giudice remittente, sarebbero violati:
l’art. 3 Cost., poiché la norma, non rispettando i principi del giusto processo (per i quali
– fra l’altro – le parti hanno il diritto di agire e di difendersi in ogni stato e grado del giudizio,
il giudice deve giudicare nel contraddittorio delle parti e il processo deve comprendere
le impugnazioni), viola l’interesse dell’amministrazione che ha indetto il concorso o la sessione
d’esame a far sì che la misura cautelare conservi il suo carattere strumentale rispetto
alla decisione di merito, mentre la norma censurata rende avulsa la misura cautelare dal giudizio
di merito; inoltre, la norma, consolidando gli effetti prodotti dall’ordinanza cautelare
favorevole all’interessato, si pone in contrasto con il dovere dell’amministrazione di tutelare
la par condicio degli esaminandi;
gli artt. 24 e 111 Cost., che garantiscono il diritto al contraddittorio e la sua effettività,
anche nelle situazioni in cui si tratta di contemperare questa garanzia con le esigenze di celerit
à del processo; il che può avvenire solo attraverso lo schema del processo complessivamente
considerato (quindi, comprensivo della fase cautelare e della fase di merito), laddove
la norma denunciata introduce un modello di processo nel quale viene attribuita efficacia di
giudicato all’esito di un giudizio che non è neppure a cognizione piena; al riguardo, non a
caso la Corte costituzionale (sentenza n. 427 del 1999) – nel dichiarare infondata la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2 e 3, del decreto-legge 25 marzo 1997,
n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla
legge 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui dispone che il giudice amministrativo può
decidere immediatamente la controversia, ancorché sia stato chiamato a pronunciarsi su di
una domanda cautelare – ha ritenuto che la finalità di accelerare lo svolgimento dei processi
amministrativi non pregiudica il rispetto di precise regole (quali l’integrità del contraddittorio,
la completezza delle prove, gli adempimenti processuali per la tutela del diritto di difesa
di tutte le parti), che postulano un’effettiva e completa tutela giurisdizionale; il tutto,
ferma restando l’appellabilità della decisione;
l’art. 25 Cost., in quanto la rivalutazione delle prove scritte è avvenuta per effetto di
una decisione cautelare emessa da un giudice (il TAR Calabria) che le stesse parti hanno
riconosciuto incompetente;
gli artt. 24, 111 e 113 Cost., in quanto la decisione cautelare favorevole al candidato
diviene sostanzialmente inimpugnabile una volta che egli abbia superato le prove concorsuali
scritte e orali, con ciò verificandosi, da un lato, che un’ordinanza di sospensiva produce
effetti definitivi e irreversibili e, dall’altro lato, che la parte interessata perde la possibilit
à di ottenere il riesame della decisione cautelare, ogni qualvolta la rivalutazione con esito
positivo delle prove scritte si concluda – com’è nella normalità dei casi – prima della decisione
sull’appello avverso l’ordinanza cautelare (e, ovviamente, prima della celebrazione
del giudizio di merito, talché viene meno anche la possibilità del ricorso per cassazione ex
art. 111 Cost., il quale non è ammesso contro decisioni a carattere strumentale e interinale);
gli artt. 111 e 113 Cost. sulla garanzia del doppio grado di giurisdizione, anche in violazione
dei principi comunitari relativi alla qualità e all’efficacia della tutela giurisdizionale
nell’ordinamento comunitario (viene richiamata la sentenza della Corte di giustizia CE,
17 dicembre 1998, n. 185, nella causa C-185/95P);
che si è costituito, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il
Ministro della giustizia, il quale ha contestato tutte le censure di illegittimità costituzionale
formulate nell’ordinanza di rimessione, chiedendo che la Corte ne dichiari l’infondatezza.
Considerato che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione Siciliana si incentra sull’art. 4, comma 2-bis, del decreto-
legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori
della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto
2005, n. 168, nella parte in cui prevede che un provvedimento giurisdizionale, anche di natura
cautelare, dal quale derivi l’obbligo per l’amministrazione di rivalutare le prove scritte
sostenute da un candidato ad esami di Stato per l’abilitazione professionale, sia sufficiente
a rendere irreversibile l’esito finale dell’esame (e, quindi, il conseguimento dell’abilitazione
professionale), una volta che il candidato abbia positivamente superato le prove orali; con
ciò impedendo ogni ulteriore accertamento giudiziale sul merito della pretesa fatta valere dal
candidato in sede cautelare e, perciò, attribuendo al provvedimento cautelare il valore di un
accertamento definitivo circa l’esito della prova scritta sostenuta dall’interessato;
che la questione è insorta nel corso del giudizio d’appello avverso una sentenza che ha
dichiarato improcedibile, per intervenuta cessazione della materia del contendere, il ricorso
di un candidato agli esami di avvocato nella sessione dell’anno 2002, volto ad ottenere l’annullamento,
previa sospensione, del provvedimento di non ammissione alla prova orale
degli esami stessi;
che la questione è stata sollevata sul presupposto che, in esito agli atti compiuti dalla
Commissione esaminatrice a seguito dell’ordinanza cautelare del TAR Calabria 16 luglio
2003, il candidato abbia senz’altro superato la prova orale degli esami e che la disposizione
censurata abbia reso, ormai, irreversibile l’esito positivo della prova;
che la questione è manifestamente inammissibile;
che, infatti, il giudice remittente non ha considerato che l’ordinanza del Consiglio di
Stato 18 novembre 2003, nel respingere – in accoglimento dell’appello avverso la menzionata
ordinanza del TAR Calabria 16 luglio 2003 – la domanda cautelare dell’interessato e
nel dichiarare la «conseguente caducazione di tutti gli atti» adottati in esecuzione di detta
ordinanza del TAR Calabria, ha fatto venir meno gli effetti prodotti da tali atti e, cioè, il
superamento delle prove scritte, l’ammissione del candidato alla prova orale e il superamento
di questa;
che lo stesso giudice remittente ha escluso che gli atti compiuti dalla Commissione
esaminatrice siano andati oltre la necessaria conformazione all’ordinanza cautelare del TAR
Calabria, talché le operazioni della Commissione – dalla rinnovata valutazione, con esito
positivo, delle prove scritte alla valutazione positiva della prova orale – non hanno acquisi-
126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
to «autonoma valenza sostanziale» e non possono considerarsi «come un quid pluris rispetto
alla doverosa esecuzione» del provvedimento cautelare;
che, pertanto, la situazione che si prospetta al giudice a quo è quella, precedente all’ordinanza
cautelare del TAR Calabria 16 luglio 2003, nella quale il candidato è stato escluso,
dopo la valutazione delle prove scritte, dall’ammissione alla prova orale;
che, in presenza di tale situazione, il giudice remittente non è chiamato ad applicare la
disposizione censurata, atteso che la caducazione dell’ordinanza del TAR Calabria 16 luglio
2003, nonché degli atti ad essa conseguenti e dei loro effetti, ha cancellato i presupposti (la
rivalutazione delle prove scritte effettuata dalla Commissione d’esame, la successiva
ammissione del candidato alla prova orale e il superamento di questa) per l’applicazione
della disposizione censurata.
Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2-bis, del decreto-legge 30 giugno
2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica
amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, sollevata,
in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 111 e 113 Cost., dal Consiglio di giustizia amministrativa
per la Regione Siciliana con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
10 luglio 2007».
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 127
128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Uditori giudiziari “non idonei”
(Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 14 dicembre 2006, n. 7470)
Con la sentenza di seguito pubblicata viene affermata per la prima volta
da parte del Consiglio di Stato la legittimità della dizione “non idoneo” senza
l’attribuzione di alcun voto.
In particolare, nella causa in oggetto, era stato impugnato anche l’art. 16
del R.D. 15 ottobre 1925 n. 1860 (recante il regolamento per il concorso in
magistratura) nella parte in cui non prevede l’attribuzione di alcun voto in
caso di valutazione negativa.
Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 14 dicembre 2006, n. 7470 – Pres. Est. C.
Saltelli – S. C. (Avv. N. Rocchetti) c/ Ministero della Giustizia (Avv. dello Stato W.
Ferrante) e Commissione esaminatrice del concorso per esami a 350 posti di uditore
giudiziario indetto con d.m. 12 marzo 2002, in persona del presidente in carica (n.c.).
«Fatto. Con la sentenza n. 7742 del 4 ottobre 2005 il Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio, sez. I, ha respinto il ricorso proposto dal dott. S.C. avverso il provvedimento
con cui la Commissione esaminatrice del concorso per esami a 350 posti di uditore
giudiziario non lo aveva ammesso a sostenere le prove orali, giudicando non idonea la sua
prova scritta di diritto amministrativo.
In particolare, secondo il tribunale, il contestato giudizio di inidoneità era sufficiente
a soddisfare l’onere della motivazione previsto dalla legge, né poteva ritenersi sussistente
un interesse giuridicamente protetto del candidato a conoscere il grado di insufficienza
riportato nella prova scritta concorsuale; il carattere valutativo e non didattico dell
’attività della commissione di concorso escludeva, poi, che la legittimità del giudizio di
inidoneità potesse essere inficiata dalla asserita mancata apposizione di glosse o di segni
di correzione sugli elaborati; non sussisteva, inoltre la dedotta illegittimità del giudizio di
inidoneità della prova di diritto amministrativo per la asserita violazione degli stessi criteri
di correzione, dal momento che questi ultimi non potevano ragionevolmente escludere
l’apprezzamento discrezionale del contenuto della prova stessa; d’altra parte la valutazione
degli elaborati di concorso da parte della commissione costituiva espressione della
discrezionalità amministrativa, notoriamente insindacabile, salva la macroscopica arbitrariet
à, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento di fatti, ipotesi tutte non ricorrenti nel
caso di specie.
Avverso tale statuizione ha proposto appello l’interessato, chiedendone la riforma alla
stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “omessa pronuncia del tribunale
– illegittimità dell’art. 16 del regolamento”, con il quale ha sostenuto che i primi giudici
avevano inopinatamente rigettato la censura di difetto di motivazione del provvedimento
impugnato invocando a tale fine l’articolo 16 del R.D. 15 ottobre 1925, n. 1860, senza tener
conto che proprio di tale norma era stata dedotta l’illegittimità ed incorrendo, perciò, in un
macroscopico vizio di omessa pronuncia e di violazione del principio fondamentale posto
dall’articolo 112 del codice di procedure civile di corrispondenza tra chiesto e pronunciato;
d’altra parte, il fatto che la predetta norma escludesse addirittura l’obbligo della commissioIL
CONTENZIOSO NAZIONALE 129
ne di indicare il voto, sia pur numerico, a supporto della valutazione di insufficienza delle
prove concorsuali, non poteva non costituire un evidentissimo vulnus alla posizione del candidato,
impossibilitato a comprendere le ragioni di tale sfavorevole valutazione, tanto più
che recentemente lo stesso legislatore era più volte intervenuto a disciplinare la materia con
specifiche disposizioni a garanzia del principio di trasparenza dell’attività delle commissioni
di concorso (art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1984 e articolo 9 della legge n. 48 del 2001, quest
’ultima specificamente relativa al concorso in magistratura), imponendo l’obbligo della
predisposizione dei criteri di correzione e valutazione degli elaborati di concorso, proprio al
fine di assicurare il giusto apporto motivazionale al voto numerico.
Si è costituito in giudizio il Ministero della giustizia che ha resistito all’avverso gravame.
Diritto. I. L’appello è infondato e deve essere respinto.
Costituisce ormai principio consolidato quello secondo cui le valutazioni espresse da
una commissione di concorso nelle prove scritte e orali dei candidati costituiscono espressione
di un’ampia discrezionalità tecnica e come tali sfuggono al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate ictu oculi da eccesso di potere sub specie
delle sintomatiche figure dell’arbitrarietà, della irragionevolezza, della irrazionalità e del
travisamento dei fatti.
La giurisprudenza ha pure avuto modo di evidenziare che il voto numerico costituisce
espressione sintetica, ma esaustiva, della valutazione della commissione, soddisfacendo
adeguatamente l’onere della motivazione previsto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990,
n. 241 e, più in generale, dei principi costituzionali sanciti dall’articolo 97.
Ciò precisato, la Sezione osserva che una disposizione come quella contenuta nell’articolo
15 del R.D. 15 ottobre 1925, n. 1860 (Modificazioni al regolamento per il concorso
in magistratura contenuto nel R.D. 19 luglio 1924, n. 1218) che prevedendo, al secondo
comma, che “prima dell’assegnazione dei punti la commissione o sottocommissione delibera
per ciascuna prova, a maggioranza dei voti, se il candidato meriti di ottenere il minimo
richiesto dall’approvazione” e, al terzo comma, che “nell’affermativa, ciascun commissario
dichiara quanti punti intende assegnare al candidato…”, non viola le ricordate disposizioni
in tema di motivazione del giudizio di inidoneità.
Invero, il meccanismo delineato dalla predetta normativa non costituisce il frutto di una
mera attività materiale della commissione di esame, ma è espressione di una valutazione
positiva o negativa dell’elaborato: mentre nel primo caso alla valutazione positiva segue
l’attribuzione di un punteggio, nel secondo caso viene espresso un giudizio di inidoneità che
implica senza alcuna possibilità di dubbio il mancato raggiungimento della sufficienza; in
altri termini, il giudizio di inidoneità contiene in sé implicitamente e manifestamente una
valutazione di insufficienza della prova concorsuale che del tutto inutilmente dovrebbe essere
ulteriormente esplicitato.
Un difetto di motivazione di tale giudizio di inidoneità (e di mancato raggiungimento
della sufficienza) potrebbe apprezzarsi soltanto ove il candidato provasse in assoluto la sua
arbitrarietà, irragionevolezza o il travisamento dei fatti ovvero quanto meno relativamente
ai criteri di valutazione della prova, preventivamente stabiliti dalla commissione, elementi
tutti che, nel caso di specie, non ricorrono.
Né sussiste una diversità di trattamento tra i candidati le cui prove sono state ritenute
sufficienti e quelli che raggiungono la soglia della sufficienza e che ottengono l’attribuzione
del punteggio: infatti, l’attribuzione del punteggio non ha la funzione di motivare il giudizio
di sufficienza, bensì quello di graduare i candidati idonei.
130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
D’altra parte, come correttamente rilevato dai primi giudici, non può neppure ammettersi
ovvero è quanto meno oggetto di dubbio, in presenza del ricordato dettato normativo,
lo stesso interesse del candidato di ottenere l’esplicitazione delle ragioni o del grado di
insufficienza (conseguente al giudizio di inidoneità), non avendo notoriamente il concorso
finalità didattiche.
II. Alla stregua di tali osservazioni, le doglianze dell’appellante non meritano accoglimento.
P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente
pronunciando sull’appello proposto dal dott. S. C. avverso la sentenza n. 7742 del 4 ottobre
2005, sez. I, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento in favore della costituita amministrazione statale
delle spese del presente grado di giudizio
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 31 ottobre 2006 (…)».
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 131
Legge Pinto e sospensione dei termini
nel periodo feriale
(Corte d’Appello di Milano, decreti 5-22 luglio 2006 e 10-29 gennaio 2007)
La Corte d’Appello di Milano, con la pronuncia 5-22 luglio 2006 che si
pubblica, ritorna sulla vexata quaestio del significato da attribuire alla locuzione
“decisione definitiva”, prevista dall’art. 4 della legge n. 89/01, e si
riporta ad una contestata interpretazione giurisprudenziale più volte adottata
nel foro ambrosiano.
Si è già avuta occasione di esaminare su questa Rivista l’opzione esegetica
che fa coincidere la definitività non con il passaggio in giudicato, ma con
la pubblicazione della pronuncia ed è stato rilevato come detta interpretazione
sia stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale che ha respinto,
con ordinanza n. 74/05, la questione di legittimità proposta (1).
Giova, pertanto, soffermarsi in questa sede soltanto su un interessante
obiter dictum. La pronuncia si segnala per la ritenuta inapplicabilità ai procedimenti
ex lege n. 89/01 della sospensione dei termini nel periodo feriale
ai sensi dell’art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742.
La Corte d’Appello di Milano ritiene di natura sostanziale il termine
semestrale di proposizione della domanda di riparazione per irragionevole
durata del processo.
Secondo l’assunto del Collegio meneghino, il termine previsto dall’art.
4 della legge n. 89/91 si pone al di fuori e precede il giudizio essendo previsto,
a pena di decadenza, per l’esercizio di un diritto. Per l’effetto, il termine
di proposizione della domanda di riparazione non sarebbe soggetto a sospensione
dal momento che sono sottoposti a sospensione i soli termini per il
compimento degli atti del processo, di cui all’art. 152 c.p.c., e non i termini
per l’esercizio di poteri sostanziali e quelli indicati a pena di decadenza per
la proposizione dell’azione.
L’opzione adottata, conforme ai precedenti decreti 28 giugno-5 luglio
2005 (R.G. 74/05), 11 aprile-5 maggio 2006 (R.G. 514/05) emessi dalla medesima
Corte d’Appello, riprende un dibattito mai sopito accordando la sospensione
feriale ai soli termini endoprocessuali i quali incidono sulla dinamica di
un giudizio già in corso.
Per contro, va segnalato che la Corte d’Appello di Milano, con successivo
decreto 10 gennaio-29 gennaio 2007 di seguito pubblicato, ha riconosciuto
la natura processuale del termine per la proposizione della domanda
riparatoria.
(1) Cfr. VIGNOLI, Ragionevole durata del processo e decisione definitiva: spunti critici
da una recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano, 2004, 1251-1262; Id.,
Ragionevole durata del processo e decisione definitiva (Corte cost., ord. 7-11 febbraio
2005, n. 74), 2005, 133-138.
132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In precedenza e più articolatamente la Corte d’Appello di Milano, con
decreto 30 gennaio – 13 marzo 2002, aveva ritenuto, in una vertenza ex lege
Pinto, che, stante la necessaria assistenza di un difensore nella proposizione
della domanda, ricorressero le condizioni per la sospensione.
L’opzione faceva richiamo alla giurisprudenza costituzionale che ha accordato
una applicazione sempre più lata e pervasiva della sospensione (Corte
Cost. sent. n. 268/93; 49/90; 255/87), confortata da un orientamento dei giudici
di legittimità per la verità non sempre univoco (cfr. Cass. civ. n. 6041/91).
Secondo l’assunto del Collegio milanese espresso nella richiamata pronuncia
del 2002, non troverebbe applicazione per i giudizi radicati ex lege
89/01 la giurisprudenza formatasi relativamente ai procedimenti di riparazione
per ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 315 c.p.p. (cfr. Cass. pen. n.
267/94) in quanto, per quest’ultimi, la domanda di riparazione può essere
presentata “personalmente o per mezzo di procuratore speciale” ai sensi dell
’art. 645, I c., c.p.p., richiamato dall’art. 315 cit.
Ad avviso della Corte, la facoltà di presentare domanda senza il necessario
ministero di un difensore comporterebbe la carenza di un pericolo di
perdita del diritto a causa della sospensione feriale dei termini.
Ci si interroga se possa costituire argomento risolutivo per applicare la
sospensione, con conseguente addizione di ulteriori quarantasei giorni al
semestre previsto per proporre la domanda di riparazione, la finalità di assicurare
agli avvocati “un periodo di riposo per ritemperare le energie corrose
dall’esercizio forense” (2).
Come noto, la sospensione è intesa a realizzare un periodo di stasi della
normale attività processuale e comprende, salvo le eccezioni tassativamente
previste, tutti i termini processuali incidenti sul periodo destinato alle ferie.
Il punctum pruriens verte sulla nozione di termine processuale.
Ai fini di una scelta interpretativa non pare dirimente il richiamo al dettato
normativo. L’art. 1 della legge n. 742 del 1969 non ha risolto la questione
se la sospensione riguardi solo i termini per il compimento degli atti del
processo già iniziato. D’altra parte non è agevole distinguere termini processuali
e termini sostanziali e non sempre la suddetta dicotomia è destinata a
svolgere una funzione chiarificatrice. È sovente arduo discernere gli effetti
processuali dai profili sostanziali, soprattutto se l’atto introduttivo del giudizio
è l’unico strumento a disposizione dell’interessato per impedire la decadenza
o interrompere la prescrizione.
Pare indicativa della commistione fra rilevanza sostanziale e profili processuali
l’ordinanza n. 213/05 della Corte Costituzionale.
Il Giudice delle leggi ha dichiarato manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 69, VII c., del D.Lgs. 30 marzo 2001,
(2) Così testualmente nella relazione alla Camera dei deputati proponente la legge n.
818/65. Cfr. TARZIA, La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, in Riv. dir,
proc., 1965, 593, n. 1.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 133
n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche) nella parte in cui stabilisce il termine di decadenza
del 15 settembre 2000 per la proposizione, davanti al giudice amministrativo,
delle controversie riguardanti rapporti di lavoro alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni purché relative a questioni attinenti al periodo
del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998.
La Consulta, rilevata l’esigenza di contenere gli effetti prodotti dal trasferimento
della competenza giurisdizionale al giudice ordinario e dal temporaneo
mantenimento di tale competenza in capo ai Tribunali amministrativi,
ha reputato ragionevolmente giustificata la scelta di introdurre un termine
di decadenza dal diritto di agire avente “effetti sul diritto sostanziale”, pur
non escludendone “la natura di misura processuale”.
A fronte di una incerta qualificazione della natura del termine per la proposizione
della domanda riparatoria, rimane l’interrogativo se l’inapplicabilit
à della sospensione durante il periodo feriale frustri il diritto di difesa
ovvero se il termine per radicare il giudizio di riparazione sia ragionevole
anche senza che il periodo dal 1° agosto al 15 settembre sia ritenuto tamquam
non esset.
A sostegno dell’indirizzo di non applicabilità della sospensione vi è la
convinzione che, per le istanze di riparazione, il termine finale di un semestre
dalla definitività della decisione sia ragionevolmente congruo e il dato
normativo non renda difficoltosa la tutela giurisdizionale.
A conforto della tesi opposta si contrappone l’indispensabilità del ministero
di un difensore per proporre la domanda di ristoro nonché “la relativit
à del metodo” per la qualificazione “basato su epidermiche formali distinzioni
dei termini in sostanziali e processuali” (Cass. civ. n. 6041/91).
In definitiva, risulterà chiarificatrice la Corte di Cassazione, investita
della questione a seguito dell’impugnazione della pronuncia 11 aprile-5
maggio 2006 (R.G. 514/05) sopra richiamata, per verificare se l’opzione
assunta dalla Corte d’Appello di Milano costituisca un fondato ripensamento
all’orientamento, che oggi pare prevalente, volto ad accordare una ampia
e comprensiva nozione di termine processuale tale da non limitarne la portata
nell’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del
processo.
Dott. Francesco Vignoli (*)
Corte di appello di Milano, sezione seconda civile, decreto del 5 luglio 2006 – Pres. G.
Deodato – Rel. A. Santosuosso – A.B. (Avv. G. De Paola) c/ Ministero della Giustizia
(Avvocatura distrettuale dello Stato di Milano).
(*) Procuratore presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano.
«Espone la ricorrente che, con ricorso depositato il 5 marzo 1998, ha adito la Corte dei
Conti, avverso il Ministero della Difesa, per ottenere la riliquidazione del trattamento pensionistico
in godimento, sulla base dello stipendio attribuito al personale in attività dì servizio.
Con sentenza n. 1276/04, depositata in data 19 ottobre 2004, la Corte dei Conti ha
respinto il ricorso summenzionato. Rileva la ricorrente che tra la data del deposito del ricorso
e la data del deposito della sentenza n. 1276/04, sono decorsi 6 anni e 7 mesi e chiede,
pertanto, il riconoscimento del diritto all’equa riparazione ai sensi dell’art. 6 della
Convenzione europea per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali
e della legge n. 89/2001, per l’eccessiva ed irragionevole durata del giudizio pensionistico
in questione. La Corte rileva quanto segue.
Il ricorso è inammissibile essendo la ricorrente incorsa nella decadenza del termine
semestrale di cui all’art. 4 legge n. 89/01, secondo il quale “la domanda può essere proposta
entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta
definitiva”.
Come rilevato in alcuni precedenti di questa Corte, l’espressione decisione definitiva
non è equivalente né all’irrevocabilità né al passaggio in giudicato, posto che la definitività
non chiude il processo ma solo la fase ed il grado, onde il giudice, per effetto della pronunzia,
si spoglia del processo, realizzatesi la coincidenza tra il momento da cui fa decorrere il
semestre e quello del deposito in cancelleria dei motivi della decisione (pronuncia 29 settembre
-22 ottobre 2004 di questa Sezione).
L’atto introduttivo del presente giudizio è stato depositato presso la cancelleria della
Corte d’Appello in data 28 aprile 2006 e, pertanto, in un tempo superiore a sei mesi dal
deposito della sentenza, che ha definito il giudizio per cui si chiede riparazione, pubblicata
in data 19 ottobre 2004. D’altra parte il ricorso è stato proposto fuori termine, anche ove si
ritenesse .e il semestre decorre dal passaggio in giudicato della pronuncia, dal momento che
al procedimento in questione non si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo
feriale (legge n. 742 del 1969), essendo il termine per la presentazione della domanda di
natura sostanziale e configurandosi come termine stabilito a pena di decadenza per l’esercizio
di un diritto piuttosto che per il compimento di un’attività processuale. Segue la declaratoria
di inammissibilità del ricorso.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M. Dichiara l’inammissibilità del ricorso;
condanna la ricorrente a rifondere alla parte resistente le spese di lite, (…).
Così deciso, nella Camera di Consiglio della Corte di Appello di Milano, sezione
seconda civile, il 5 luglio 2006».
Corte di appello di Milano, sezione seconda civile, riunita in Camera di Consiglio,
decreto 10-23 gennaio 2007 – Pres. R. Odorisio – Rel. C. Greco – C.G.A. ed altri c/
Presidenza del Consiglio dei Ministri.
«A scioglimento della riserva assunta alla prima tenuta udienza del 10 gennaio 2007;
visti gli atti del procedimento, i documenti depositati, i motivi della domanda di equa
riparazione e le difese delle parti; rilevato (così l’esposizione della premessa) che con ricorso
depositato il 22 giugno 1990 alla Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale di Roma, successivamente
iscritto al n. 2835 del registro di Segreteria della Sezione Giurisdizionale per
la Lombardia, “ i ricorrenti chiedevano la riliquidazione del loro trattamento pensionistico
134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dal 1 gennaio 1988 sulla base delle retribuzioni spettanti al corrispondente personale in attivit
à di servizio successivamente al collocamento in quiescenza e per la dichiarazione di illegittimit
à costituzionale della legge 17 aprile 1985 n. 141 per contrasto con gli artt. 3 e 36
della Costituzione” e che la causa, chiamata per la prima volta alla pubblica udienza del 14
dicembre 2004, veniva decisa con sentenza n. 43/2005, depositata il 3 febbraio 2005, con
durata complessiva del giudizio di circa 15 anni (sicché ciascun ricorrente, per l’eccessiva
durata di 15 anni, chiedeva, in principalità, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale,
la somma di Euro 30.000,00, oltre accessori);
ritenuta, preliminarmente, la tempestività del ricorso (depositato in data 6 novembre
2006) per essere la sentenza della Corte dei Conti passata in cosa giudicata il 21 marzo 2006
e dovendosi valutare come di natura processuale il termine dalla legge previsto a pena di
decadenza per la proponibilità della “domanda di riparazione”, con conseguente applicabilit
à della sospensione nel periodo feriale; ritenuto che la durata del processo è stata di quasi
12 anni eccedente quella ragionevole per l’espletamento di un siffatto primo grado di giudizio
(v. in diritto, sul punto e da ultimo, Cass. n. 1630/2006); rilevato, come ben evidenziato
da parte resistente (in tesi anche ai fini dell’ an, in un giudizio da ritenersi, in effetti, particolarmente
aleatorio, ma non, come eccepito, meramente pretestuoso), il comportamento
del tutto omissivo tenuto dai ricorrenti che, non solo, si sono astenuti da qualsiasi atto d’impulso
processuale (non avendo presentato, secondo prassi processuale sempre consentita
nel giudizio pensionistico avanti la Corte dei Conti, alcuna istanza di impulso processuale
e/o istanza di trattazione anticipata della causa, né istanza di prelievo), ma che si sono a tal
punto disinteressati da non avere, neppure, presentato la prevista, a pena di decadenza dalla
legge n. 19/1994, istanza di prosecuzione del giudizio (posto che, secondo quanto segnalato
dallo stesso giudice pensionistico nella resa sentenza n. 43/2005, soltanto uno dei 61
ricorrenti aveva provveduto a presentare l’istanza de qua, cosi “manifestando interesse
attuale a concreto alla pronuncia giudiziale”, con la conseguenza che la sentenza è stata notificata
solo al ricorrente adempiente e alla sua Amministrazione di appartenenza);
ritenuta in subiecta materia la sussistenza di prova in re ipsa del danno non patrimoniale,
ma ritenuto, al contempo (v., sul punto, Cass. S.S.U.U. n. 28507/2005 e Cass. n.
180/06), che il comportamento del tutto omissivo tenuto dai ricorrenti ben possa e debba
essere significativamente apprezzato al fine di stabilire il quantum della patita sofferenza e/o
del sofferto danno non patrimoniale;
ritenuto, di conseguenza, di dover equitativamente liquidare, in valuta attuale, omnicomprensiva
di già maturati accessori, in Euro 3.600,00, il danno non patrimoniale spettante
a ciascun ricorrente
ritenuto, quanto alle spese, la sussistenza dei presupposti per una integrale compensazione,
tenuto conto della misura sensibilmente ridotta in cui sono state accolte le pretese dei
ricorrenti
P.Q.M. La Corte, pronunciando nel procedimento promosso a norma degli artt. 2 e
segg. della legge n. 89/2001, così provvede: condanna, per il titolo di cui in motivazione, la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, a pagare ai
ricorrenti la somma, ciascuno, di Euro 3.600,00, con interessi legali dalla data del presente
decreto al saldo.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente procedimento.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di legge.
Così deciso, in Milano, in Camera di Consiglio il 10 gennaio 2007».
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 135
136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il principio di successione delle leggi nel tempo
in materia penale applicato agli elementi normativi
della fattispecie. Brevi osservazioni.
(Tribunale di Catania, sezione Acireale, sentenza 21 marzo 2007 n. 318)
Il caso trattato dal giudice penale è quello di un contrabbando di banane
dall’Equador con evasione di dazio comunitario di importazione perpetrato
mediante formazione e/o utilizzo di certificati AGRIM falsi.
La questione giuridica affrontata e risolta dal giudice di Acireale è quella
della intervenuta abolitio criminis del reato di contrabbando. Invero, a
causa della abrogazione del Reg. (CE) 93/404, per effetto del Reg. n.
2005/1964, e della conseguente soppressione dei diritti di confine gravanti
sull’importazione, il legislatore comunitario ha indirettamente inciso sull’applicabilit
à delle disposizioni di cui agli artt. 291, 292 e 295 T.U. n. 43/1973
Imposte Doganali (ritenute norme descrittive del precetto attraverso il rinvio
ad elementi normativi della fattispecie).
Occorre, innanzi tutto, precisare che il Tribunale ha correttamente ricondotto
alla figura degli elementi normativi della fattispecie il richiamo, effettuato
nella descrizione del fatto tipico dalle disposizioni in materia di contrabbando,
ai diritti che sarebbero dovuti nelle operazioni di importazione
all’interno della CE. Così facendo, il Tribunale siciliano ha mostrato di non
condividere l’assimilazione della fattispecie al suo esame alla tematica più
generale delle norme penali in bianco, come prospettato dall’accusa e dalla
difesa degli imputati in sede di discussione conclusiva.
Ai fini di un più corretto inquadramento sistematico della vicenda in
esame, è opportuno rammentare brevemente quali siano i diversi meccanismi
di integrazione della legge penale ad opera di fonti normative estranee a
quell’ordinamento di settore.
La fattispecie storicamente più discussa è quella delle cd. norme penali
in bianco, ipotesi in cui la legge penale affida ad una fonte normativa estranea
(generalmente secondaria) la determinazione delle condotte in concreto
punibili.
Limitandoci a due esempi emblematici, divenuti potremmo dire “di scuola
” perché ricordati nella gran parte dei manuali, vengono in rilievo la contravvenzione
di Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità, di cui all’art. 650
c.p., e il delitto di Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti
o psicotrope, descritto dall’art. 73 del d.P.R. 309/90, Testo Unico delle
leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. In entrambi i casi, il precetto
si completa tramite rinvio ad una fonte subordinata (regolamento, ovvero, in
alcuni casi, provvedimento amministrativo). La sanzione è determinata direttamente
dalla norma penale; il precetto ha, invece, una connotazione generica
e viene specificato da un atto di grado inferiore alla fonte primaria.
È noto il dibattito – peraltro ormai sopito – della compatibilità di questa
tecnica normativa con il principio di riserva di legge in materia penale che,
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 137
secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata (art. 25), è assoluta e
non relativa. In particolare, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunziarsi
sull’ammissibilità delle norme penali in bianco, con sentenza n. 168/1971 ha
affermato in termini generali che le norme penali in bianco non violano il
principio di legalità quando sia una legge dello Stato, anche se diversa da
quella incriminatrice, ad indicare i presupposti, il contenuto e i limiti del
provvedimento dell’Autorità Pubblica alla cui violazione la legge riconnette
una sanzione penale.
È chiaro che il principio della riserva di legge non è messo in discussione
laddove l’integrazione del precetto avvenga ad opera di altra legge o,
comunque, di una fonte di produzione che sia a quella equiparata (decreto
legge, decreto legislativo, legge regionale).
Ormai indiscutibile deve ritenersi poi, in base al principio di primazia
dell’ordinamento comunitario, che l’integrazione possa avvenire attraverso
il richiamo ad un atto normativo comunitario direttamente applicabile.
Tale ultima questione non deve, però, essere confusa con una diversa e
più generale tematica, che la necessaria brevità delle presenti osservazioni
non consente di ripercorrere nel lungo precorso evolutivo tracciato dalla giurisprudenza
interna (1) e comunitaria (2). Prescindendo, infatti, dall’oggetto
principale dell’intervento (tecniche di integrazione del precetto penale), l’applicazione
del principio di prevalenza del diritto comunitario rispetto alla
fonte interna di disciplina implicherebbe l’approfondimento di altre e più
complesse problematiche, relative all’obbligo per il giudice interno di disapplicare
la normativa nazionale (ancorché, come quella penale, espressione
della irrinunciabile potestà punitiva dello Stato) laddove essa appaia in contrasto
con il diritto comunitario cogente (regolamenti, decisioni e direttive self
executing) e con i principi del Trattato CE direttamente applicabili agli Stati
(1) Nell’evoluzione complessiva dell’orientamento della Consulta possono, con buona
approssimazione, individuarsi quattro fasi: 1) C.Cost. 7 marzo 1964 n. 14, in cui si esclude
la prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale e si ritiene che il rapporto tra i due
ordinamenti sia di equiordinazione; le norme comunitarie sono suscettibili di sindacato da
parte della Corte non direttamente ma per il tramite della norma interna con cui lo Stato dà
esecuzione al Trattato Istitutivo; 2) C.Cost. 17 dicembre 1973 n. 183 e 30 ottobre 1975, n.
232, in cui si afferma la primazia del diritto comunitario; la norma interna contrastante è
incostituzionale per violazione dell’art. 11 Cost. e soggetta al sindacato accentrato della
Corte; 3) C.Cost. 8 giugno 1984 n. 170, in cui si afferma che la primazia del diritto comunitario
conduce alla disapplicazione diffusa della disposizione interna contrastante (pertanto,
senza sindacato di costituzionalità ma con conseguente possibilità di reviviscenza); 4)
C.Cost. 10 novembre 1994 n. 384 e 31 marzo 1995 n. 95, nelle quali si afferma che il sindacato
diretto di costituzionalità della normativa interna contrastante deve effettuarsi nell’ipotesi
in cui l’impugnazione della legge (nazionale o regionale) avvenga in via principale
attraverso il ricorso presentato dallo Stato o da una Regione.
(2) Per i più risalenti e noti pronunciamenti V. C.Giust. sent. Van Gend & Loos 5 febbraio
1963, 26/62 e 15 luglio 1964, 6/64; C.Giust. sent. Simmenthal 9 marzo 1978, causa
48/71.
138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
membri (libertà di stabilimento, libertà di circolazione dei cittadini comunitari,
divieto di discriminazioni, divieto di restrizioni alla concorrenza ecc.).
Neppure in questa sede, tuttavia, è eludibile l’affermazione che l’ordinamento
comunitario finisce per condizionare, in virtù del principio di primazia,
l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice: si pensi, per
esemplificare un caso giurisprudenziale di attualità, quello dell’attività di
raccolta delle scommesse esercitata nel territorio nazionale senza la prescritta
autorizzazione di P.S. (3). Al riguardo, va tuttavia precisato che, se pacifica
è la piena applicabilità del diritto comunitario nel caso di riduzione in
bonam partem della sfera di illiceità del sistema penale nazionale, controversa
è, per contro, la prevalenza del diritto comunitario su quello interno nel
caso di previsioni che, comportando modificazioni in malam partem del
diritto nazionale, finiscono col derogare al principio di riserva di legge in
materia penale sancito in ambito Costituzionale.
Dalle norme penali in bianco devono essere nettamente distinti gli elementi
normativi della fattispecie, pur essi costituendo tecniche di integrazione
della norma penale ad opera di fonti normative estranee a quell’ordinamento.
A differenza delle prime, qui il precetto è completo e non occorre fare
riferimento a fonti normative estranee per descriverne o precisarne il contenuto.
L’essenza dell’elemento normativo della fattispecie sta allora in ciò:
nella descrizione del fatto tipico il legislatore rinvia ad un concetto o ad un
istituto proprio di un’altra norma dell’ordinamento, sovente di altra branca
del diritto oggettivo. L’elemento normativo descrive il fatto penalmente
rilevante attraverso il riferimento ad un concetto, di per sé estraneo alla
norma punitiva, che riassume e sintetizza un istituto importato da altro ramo
del diritto.
(3) Come è noto, l’orientamento della Cassazione sul punto è mutato. Secondo un’iniziale
presa di posizione, l’articolo 4, comma 4-bis, della legge 13 dicembre 1989 n. 401 –
che, in riferimento all’articolo 88 del regio decreto 18 giugno 1931 n. 773, sanziona penalmente
chi, in assenza di concessione, autorizzazione o licenza, svolga in Italia attività organizzata
di accettazione, raccolta, prenotazione, anche per via telefonica o telematica, di
scommesse – non sarebbe stato in contrasto con la normativa comunitaria sulla libertà di stabilimento
e sulla libera prestazione dei servizi all’interno del territorio dell’Unione europea,
trovando la previsione punitiva giustificazione nella perseguita finalità di controllo per
motivi di ordine pubblico del settore dei giochi, delle scommesse e dei concorsi pronostici
(Cass. pen. Sez. Unite, 26 aprile 2004, n. 23272). La Corte ha successivamente mutato
orientamento, pervenendo alla conclusione opposta. V., tra le altre, le contestuali Cass. pen.
Sez. III, 28 marzo 2007, n. 16968, n. 16969 e n. 18040.
Sul versante della giurisprudenza comunitaria, il caso era stato già affrontato dalla
Corte di Giustizia il 6 novembre 2003 sent. Gambelli, ove è stato affermato il principio che
l’art. 4, comma 4 bis, della L. 13 dicembre 1989, n. 401, introdotto dall’art. 37, comma 5,
della L. 23 dicembre 2000, n. 388, deve essere disapplicato dal giudice italiano, in quanto
in contrasto con la normativa comunitaria sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione
dei servizi all’interno del territorio dell’Unione Europea.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 139
L’ipotesi classica, sovente ricordata, è quella della cosa mobile altrui, di
cui alla fattispecie penale del furto (art. 624 c.p.), ove l’altruità della cosa
compendia in un solo sintagma tutti i modi di acquisto della proprietà mobiliare
disciplinati dal diritto civile, siano essi a titolo originario oppure a titolo
derivativo. Si pensi, ancora, al delitto di violazione degli obblighi di assistenza
familiare (art. 570 c.p.), in cui il richiamo ad istituti propri del diritto
di famiglia, quali il domicilio domestico, gli obblighi di assistenza inerenti
alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge consentono di semplificare
notevolmente l’opera di descrizione dei comportamenti in concreto punibili
rispettando, al contempo, il principio di tassatività.
Un elemento normativo della fattispecie che trova origine nello stesso
ordinamento penale si rinviene nel delitto di calunnia (art. 368 c.p.) ove la
condotta giuridicamente vietata consiste nell’incolpare qualcuno, che si sa
essere innocente, di avere commesso un reato.
In questo ambito si colloca il caso sottoposto al Tribunale acese, chiamato
a giudicare, insieme a diverse fattispecie di falsità in atti, di un contrabbando
contestato ad alcuni imputati in forma aggravata.
Ciò che rileva nel caso all’esame – muovendo dal presupposto della
diretta applicabilità della normativa comunitaria – è l’integrazione del precetto
penale (artt. 291 e 292 T.U. Imp. Dog.) attraverso elementi normativi
della fattispecie che trovano origine nell’ordinamento comunitario e non in
quello interno. Invero, come già anticipato, il giudice penale è stato chiamato
ad occuparsi di un elemento normativo rimandante al Reg. 1993/404:
diritti di confine che sarebbero dovuti nelle operazioni di importazione
all’interno della CE.
È avvenuto, però, che, per effetto dell’entrata in vigore del Reg. n.
2005/1964, i diritti di confine gravanti sull’importazione delle banane sono
cessati nell’intervallo di tempo tra il tempus commissi delicti e l’emissione
della sentenza. Più in dettaglio, l’importazione delle banane è adesso regolata
da un sistema diverso che prevede l’applicazione di una tariffa unica per
tonnellata, con un contingente tariffario autonomo di 775.000 tonnellate di
peso netto a dazio zero, per l’importazione delle banane originarie dei paesi
cd. ACP (Africa-Pacifico-Carabi).
Punto cruciale della decisione assolutoria diviene, allora, il passaggio
motivazionale in cui il giudice si interroga sulla disciplina applicabile in ipotesi
di mutamento o abrogazione della norma integratrice del precetto. Anche
in relazione agli elementi normativi della fattispecie, e non solo con riferimento
alle norme penali in bianco, si pone invero il problema della applicabilit
à dell’art. 2 c.p. a situazioni in cui la modifica normativa non tocca il
precetto penale direttamente ma l’elemento integrativo di questo, proveniente
dalla norma extrapenale.
Il rilievo della sentenza del Giudice di Acireale sta proprio nell’avere
fatto applicazione dei principi penalistici in tema di successione di leggi nel
tempo e abolitio criminis (nullum crimen sine lege) alle ipotesi di integrazione
della fattispecie penale attraverso il ricorso a norme penali in bianco e ad
elementi normativi della fattispecie.
140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il tema non risulta, invero, sufficientemente affrontato in giurisprudenza
e in dottrina.
Con riferimento al panorama giurisprudenziale, i precedenti più interessanti
(indicati, peraltro, dallo stesso Giudice acese) sono la sentenza Cass.
pen., sez. III, n. 14329 del 4 febbraio 2003 (4) e la sentenza sez. III, n. 3905
del 22 febbraio 2000 (5).
Il Tribunale acese enuclea il principio che l’indagine volta a stabilire se
una modifica normativa (in questo caso inerente l’elemento normativo della
fattispecie penale) abbia fatto venir meno, oppure no, la fattispecie criminosa,
si avvale del criterio della cd. continuità normativa.
La descritta successione di regolamenti comunitari e la sostanziale liberalizzazione
del sistema di importazione delle banane avvenuta nel 2005
impedisce, ad avviso del decidente, di ravvisare tra i due regolamenti quella
continuità normativa che è necessaria per escludere l’abolitio criminis .
Ad analogo giudizio assolutorio si sarebbe probabilmente addivenuti laddove
il Tribunale avesse optato per una ricostruzione del caso in termini di
norma penale in bianco, ancorché la giurisprudenza abbia affermato in termini
generali che “la successione di norme giuridiche integrative di una norma
penale in bianco di per sé non dà luogo ad una successione di leggi penali e
tanto meno determina una ipotesi di abolitio criminis, occorrendo invece
accertare se tale successione comporti o meno, rispetto al fatto, quella effettiva
immutatio legis che è la ratio giustificatrice del principio di retroattività
della legge più favorevole sancito dall’art. 2 comma secondo c.p.”. Infatti, l’applicazione
pratica di tale affermazione finisce per comportare nella maggioranza
dei casi, al di là delle premesse teoriche, esiti assolutori dei procedimenti (6).
(4) La pronunzia, con riferimento all’ipotesi di contrabbando doganale consistente nell
’omissione del pagamento del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente
dalla Repubblica Federale di Yugoslavia, ha ritenuto essersi realizzata la fattispecie
di cui all’art. 2, comma 2, c.p. (abolitio criminis) in forza della sopravvenienza del Reg.
(CE) 2000/2007 che ha fatto venir meno i diritti di confine gravanti sull’importazione: le
norme impositive del dazio costituiscono, secondo il ragionamento della S.C., norme extrapenali
integratrici del precetto penale e, in quanto tali, rientrano nell’ambito applicativo dell
’art. 2 cod. pen.
(5) La sentenza si occupa di un tema parzialmente diverso poiché prende in esame un
regolamento comunitario, il n. 1999/863, che aveva sospeso l’efficacia dell’embargo dei
paesi CEE disposto nei confronti della Libia in forza del Reg. (CEE) n. 1993/3274 del 29
novembre 1993. La sentenza, facendo leva sul carattere temporaneo del regolamento
1999/863, ha ritenuto applicabile la disciplina discendente dall’art. 2, comma 4, del codice
penale, pur nella vigenza del regolamento n. 863.
(6) In tema di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 c.p.),
la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di merito sul rilievo che l’art. 114 del nuovo
c.p.p., a differenza dell’art. 164 c.p.p. del 1930, non contempla più, tra gli atti protetti dal
divieto di pubblicazione, quello conclusivo della fase processuale antecedente al dibattimento,
che sostituisce l’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore. (Cass. pen., sez. VI,
9 marzo 1994 in Riv. Pen., 1995, 917; Giust. Pen., 1995, II, 233).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 141
Su un piano astratto andrebbe forse considerato se la abrogazione della
norma extrapenale prospetti o meno una modificazione delle regole di comportamento
socialmente e giuridicamente accettate. Ma questo tipo di ragionamento
finisce per involgere giudizi di valore in ordine ai quali occorre prestare
la massima cautela a cospetto di un sistema, quello penalistico, ispirato
al rigore logico e al principio di riserva assoluta di legge, irretroattività,
tassatività e divieto di analogia.
Accedendo – così come fatto dal Tribunale – alla soluzione che oggetto
della abrogazione fosse un regolamento comunitario evocativo di elementi
normativi della fattispecie (i diritti doganali dovuti in forza del Reg. 93/404),
il modello di valutazione da cui muovere risulta sostanzialmente analogo:
occorrerebbe distinguere a seconda che l’abrogazione della norma extrapenale
integrativa dell’elemento normativo abbia fatto venir meno il disvalore
penale del fatto anteriormente commesso.
Nel caso concreto occorrerebbe ritenere che avere omesso di versare
l’imposta il cui pagamento era dovuto all’epoca dei fatti abbia perso il disvalore
penale originario per il successivo venir meno della fonte normativa
comunitaria che rendeva obbligatoria l’importazione delle banane previo
pagamento del dazio.
Non nascondiamo che anche la soluzione opposta avrebbe potuto essere
argomentata e condivisa perché l’essersi dolosamente sottratto all’imposizione
tributaria attraverso la formazione e/o l’utilizzo di documenti di importazione
falsi – per un operatore economico che deve muoversi in regime di
concorrenza rispetto agli altri competitors del medesimo mercato – appare
comunque un comportamento contrario a certi valori costituzionali e che
denota un atteggiamento allarmante ed antisociale dell’autore. Diverso è il
caso di un’associazione a delinquere finalizzata a commettere fatti ritenuti in
precedenza reati ma che siano stati successivamente depenalizzati all’epoca
del giudizio: invero, la tutela costituzionale della libertà di associazione (art.
18) rende certo che il reato associativo debba ritenersi venuto meno.
Pertanto, nell’ipotesi affrontata dalla sentenza, avrebbe potuto anche
prevalere la considerazione di ordine generale che l’intervenuta abrogazione
del diritto di confine non elideva la illiceità penale del fatto di avere sottratto
all’imposizione fiscale merci destinate al consumo dentro i confini della
Comunità Europea.
La soluzione adottata dal Tribunale è, tuttavia, ampiamente motivata in
diritto e merita comunque apprezzamento per l’impegno argomentativo profuso.
Inoltre, sul piano squisitamente pratico, l’aver fatto genericamente
salvo il diritto al risarcimento del danno dello Stato, costituitosi parte civile
nel processo, rende precorribile la via della separata azione civile per ottenere
il ristoro del pregiudizio economico patito dall’erario per la illegittima sottrazione
della merce in dogana al prelievo fiscale a suo tempo dovuto.
Degno di menzione è, infine, il fatto di avere specificamente affrontato
l’ulteriore elemento di complicazione della fattispecie – prospettato dalla
pubblica accusa in sede di discussione finale – derivante dalla eventuale
natura temporanea e/o eccezionale del regolamento comunitario 93/404.
142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Venuto meno, infatti, ad opera dell’art. 24, comma 1, del D.Lgs. 30 dicembre
1999 n. 507, il principio di ultrattività della norma penale implicante violazioni
di natura tributaria, principio sancito all’art. 20 della legge 4/1929
(7), le uniche deroghe alla prevalenza del favor rei di cui all’art. 2, commi 2
e 3, c.p. rimangono quelle delle norme eccezionali o temporanee previste al
comma 4 della medesima disposizione.
Il Giudice acese, all’esito di un’accurata ricostruzione della disciplina
comunitaria, ha escluso che il Reg. 93/404 avesse natura di norma temporanea
e, pertanto, applicabile ai fatti, ancorché successivamente abrogata dal
successivo Reg. n. 05/1964.
Ad avviso del sottoscritto, per chiarezza espositiva e per consistenza di
contenuti ed argomentazioni, la sentenza può costituire un valido strumento
di approfondimento, sia per lo studio della tematica dei diritti comunitari di
confine (oltre gli ambiti strettamente correlati all’importazione delle banane)
la cui disciplina è oggetto di frequenti ed incisive modifiche normative, sia
per l’analisi del problema dell’applicabilità dell’art. 2, commi 2 e 3, c.p. nell
’ipotesi della successione di leggi extrapenali che integrano – seppur con
diverse modalità – la fattispecie incriminatrice.
Avv. Domenico Maimone
Tribunale di Catania, sezione distaccata di Acireale, sentenza 6 dicembre 2006 – 21
marzo 2007 – G.U. M.P. Urso – Procedimento penale c/ G.A. (avv.ti G. Terranova e D.
Siracusano), G.S. (avv.ti G. Terranova e S. Marchese) ed altri – Parte civile: Agenzia
delle Dogane, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero delle Attività
Produttive (ct. 3900/03, Avv.ti dello Stato D. Maimone e Di Gesu).
«(…) Con decreto del 12 gennaio 2004 era disposto il rinvio a giudizio di G.A., G.S.,
[ed altri] per rispondere dei reati ascritti in rubrica.
Preliminarmente, l’Agenzia delle dogane, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e
il Ministero delle Attività Produttive si costituivano Parte Civile.
Assunte le prove, le Parti concludevano come in atti.
I fatti che sono oggetto del presente giudizio scaturiscono da indagini avviate sul territorio
di Catania ed estese, in seguito, ad altri distretti, in ragione delle acquisizioni cui lo stato
delle indagini approdava. Stralciata la posizione processuale di coloro che, secondo l’accusa,
(7) Il testo di legge recitava: “le disposizioni penali delle leggi finanziarie si applicano
ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni
medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione”.
Tra le prime applicazioni del superamento del principio di ultrattività della norma
penale tributaria, V. Cass. pen. SS.UU, sent. n. 35 del 2001, secondo cui, dopo l’abrogazione
dell’art. 20 legge 4/1929 ad opera dell’art. 24, primo comma, del D.Lgs. 30 dicembre
1999 n. 507 ed in assenza di norme disciplinanti il regime transitorio tra la vecchia e la
nuova normativa, il problema dell’individuazione della norma incriminatrice ai fatti anteriormente
commessi deve essere risolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto
intertemporale in materia penale affermato in materia dall’art. 2 c.p.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 143
si sono resi responsabili di analoghe fattispecie di reato commesse in territorio di competenza
di altre Procure, l’indagine è stata unitariamente portata all’attenzione di questo giudice per
fatti di reato autonomi tra loro e tuttavia scaturiti, per acquisizione progressiva, da un’indagine
iniziale avente ad oggetto la verifica fiscale su un’impresa operante nel settore delle importazioni
delle banane. L’indagine può dunque idealmente suddividersi in tre ambiti:
A) L’importazione di banane a tariffa doganale ridotta mediante l’utilizzo di certificati
falsi.
B) Il rilascio di certificati d’importazione in misura maggiore di quella spettante, ottenuto
mediante false dichiarazioni inerenti la qualifica di maturatore di banane verdi o quella
di secondo importatore.
C) L’acquisizione della qualifica di operatore tradizionale mediante false dichiarazioni.
I fatti descritti sub A) vanno ulteriormente distinti in tre sottogruppi, in considerazione
dell’ambiente imprenditoriale cui ineriscono:
A1) O.A. s.r.l.
A2) S. s.r.l.
A3) Sa.
Essi, contestati ai capi A B C D E F G H I del decreto che dispone il giudizio, sono
anche attribuiti, in concorso, ad un soggetto che – rivestito della qualifica di spedizioniere
doganale – assume, nella costruzione accusatoria, il ruolo di coautore, rendendo possibile la
consumazione di quei reati mediante l’assolvimento dei compiti che ineriscono, necessariamente,
alla figura professionale di spedizioniere.
Prima di passare alla narrazione dei fatti, pare opportuno, per ragioni di comodità espositiva,
accennare brevemente ai principali aspetti in materia di regime di importazione di
banane da Paesi Terzi rispetto alla Comunità Europea.
La politica commerciale comune, descritta nei suoi contenuti peculiari dall’art. 133 e
135 CE, può essere definita come l’insieme delle competenze attribuite per il perseguimento
degli scopi che, in via esemplificativa, sono indicati nel testo dell’art. 133 citato.
A far data dal 1968, ovvero in prossimità della scadenza del c.d. periodo transitorio
della libera circolazione delle merci, la Comunità ha introdotto una tariffa doganale comune
applicata da tutti gli Stati membri ai prodotti importati dai paesi terzi.
L’adozione di una singola tariffa esterna, peraltro, è anche l’aspetto che contraddistingue
la nozione di unione doganale rispetto a quella della tradizionale zona di libero scambio
(in cui i singoli Stati partecipanti mantengono una propria politica tariffaria verso l’esterno).
La TDC viene fissata annualmente, per ogni singola voce o bene della c.d. “nomenclatura
combinata”, da un regolamento del Consiglio ed è amministrata dalla Commissione che
provvede all’aggiornamento immediato e permanente, curandone pure la pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale prima del 31 ottobre che ne precede l’applicazione (a far data dal 1°
gennaio successivo).
In linea di principio, la TDC si applica anche ai prodotti agricoli, benché, per certuni
di questi, la TDC sia completata ovvero sostituita da un “prelievo” secondo le modalità stabilite
dai testi normativi concernenti l’organizzazione comune dei mercati agricoli.
L’imposizione di diritti doganali consente alla Comunità di proteggere la propria economia
interna modulando il rigore dei diritti all’entrata in funzione delle esigenze congiunturali
dei diversi settori, benché le negoziazioni commerciali in seno al GATT (Accordo
Generale sulle Tariffe e sul Commercio) in vista di riduzioni generalizzate dei dazi abbiano
con il tempo attenuato l’importanza della politica tariffaria in senso stretto.
144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nel contesto di quest’ultima si può ricordare ad esempio il “sistema di preferenze generalizzate
” con cui la Comunità ha inteso favorire i paesi dell’area ACP (Africa, Carabi,
Pacifico) accordando ai loro prodotti regimi preferenziali e forme di contingenti tariffari
valevoli temporaneamente.
Con regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio venne istituita un’organizzazione
comune dei mercati nel settore delle banane.
Esso prevedeva che l’importazione di banane da Paesi Terzi fosse controllata mediante
un complesso sistema di sbarramenti che, in estrema sintesi, possiamo definire connotato
da limitazioni di tipo quantitativo e qualitativo: A) a livello centrale, la Comunità Europea
stabiliva il contingente di prodotto attribuito ad ogni singolo Paese membro; la CE stabiliva,
cioè, la quantità di banane che ogni paese membro avrebbe potuto importare per il periodo
di riferimento. B1) l’importazione di prodotto contingentato era soggetta ad un dazio
PAC pari a 75/00 euro a tonnellata. B2) l’importazione di prodotto fuori contingente era soggetta
ad un dazio PAC pari ad euro 850/00 a tonnellata. C) L’importazione di prodotto a
dazio agevolato era assentibile mediante l’esibizione di un certificato AGRIM che, insieme
ai documenti di rito (bolletta doganale, manifesto di carico e fattura), attribuiva al presentatore
la possibilità di nazionalizzare il prodotto in Dogana. D) Il certificato AGRIM era rilasciato
dal Ministero competente per il Paese importatore, che in Italia è il Ministero delle
Attività produttive, in Francia è l’Office de Développement de l’Economie Agricole des
Départements d’Outre Mer (ODEADOM). E) Abilitati al rilascio dei certificati AGRIM
erano gli operatori del settore, variamente distinti in categorie, a seconda che fossero maturatori
o importatori. Il rilascio dei detti certificati era, dunque, precluso a quei soggetti che
erano privi dei requisiti citati. F) Il rilascio dei certificati AGRIM era, ancora, subordinato
alla pregressa attività commerciale dell’operatore, il quale – ottenuto il rilascio del certificato
– doveva dimostrare di avere utilizzato per intero il certificato medesimo, pena la sospensione
dalla possibilità di importare o la limitazione quantitativa al rilascio di certificati.
I certificati AGRIM potevano, poi, essere girati, esattamente come un titolo di credito.
La girata poteva farsi in due modi: il sistema ortodosso consisteva nell’effettuare la girata
presso l’Ente emittente, sì da informarlo del trasferimento del documento e, conseguentemente,
del soggetto che – essendo divenuto il nuovo titolare – doveva versare la cauzione.
Oppure la girata poteva essere effettuata con modalità non ufficiali, cioè senza informarne
l’organo emittente: in questo caso, soggetto beneficiario restava il soggetto in favore del
quale il certificato era stato rilasciato e, per conseguenza, solo egli era onerato delle vicende
successive inerenti al titolo di importazione, ivi compreso lo svincolo della cauzione.
Naturalmente, le possibilità offerte agli operatori del settore già per il solo fatto di avere
il possesso di certificati AGRIM attribuivano a quei documenti un valore economico: infatti,
il rilascio dei certificati Agrim attribuiva al beneficiario, oltreché la possibilità di importare
a dazio agevolato, anche una sorta di prelazione, data dalla possibilità di acquisire, per
il futuro, ulteriori certificati Agrim. La detta circostanza, costituita dal valore economico dei
certificati Agrim, aveva favorito il ricorso al fenomeno della c.d. triangolazione: l’operatore,
che chiameremo Z, che aveva la disponibilità di banane da importare ma che non era titolare
del certificato Agrim per fruire del dazio agevolato, si rivolgeva ad un altro operatore,
che chiameremo K, il quale si trovava nella condizione opposta, cioè titolare di certificato
ma non in possesso di banane. A quel punto, l’operatore Z vendeva all’operatore K le banane
allo stato estero, cioè prima di nazionalizzarle; l’operatore K, titolare del certificato, le
presentava in dogana. Le banane erano importate con il suo nome ed erano subito dopo
rivendute all’operatore Z il quale avrebbe pagato un prezzo, che era costituito, oltreché dal
costo delle banane, anche da quello dei diritti doganali, dell’IVA e del margine del servizio
che l’operatore K aveva reso, che includeva anche l’utilizzo del certificato.
Il valore commerciale dei certificati Agrim era pari a 4-6 dollari per cassa di banane,
avente un peso di kg. 18 circa.
Poiché i diritti doganali riscossi dagli Stati membri affluiscono al bilancio della
Comunità Europea, la regolarità del sistema che ruota attorno al prelievo di quei diritti costituisce
interesse primario della Comunità che, a tal fine si avvale dell’OLAF (Organismo
Europeo per la lotta alla Frode), un ufficio istituito presso l’Unione con compiti di intervento,
cooperazione ed assistenza presso gli Stati membri.
Sforniti di funzioni di Polizia Giudiziaria, i funzionari dell’OLAF svolgono attività di
natura amministrativa, raccogliendo informazioni che possono essere utilizzate nei giudizi
svolgentisi nei singoli Stati membri (v. regolamento del Consiglio 1073/99).
Tanto premesso, prima di passare all’esposizione dei fatti, pare, ancora, opportuno indicare
i principali nominativi che, a vario titolo, saranno citati nel prosieguo.
G.A.: presidente del Consiglio di amministrazione della O.A. s.r.l., con sede in
Acireale;
G.M.: amministratore della O.A. s.r.l.;
G.S.: amministratore unico di S. s.r.l. con sede in Acireale;
B.M.: legale rappresentante della Sa. s.r.l. di Albenga (SV);
B.A.: figlio di B. M., nel mercato delle banane da decenni; negli anni ‘90 inizia l’attivit
à in proprio presso la Sa. e la Gi.;
D.B.S.: spedizioniere, amministratore della So., dipendente della società O.A. s.r.l.;
So.: acronimo di Società Generale Servizi, avente ad oggetto le operazioni di sdoganamento
delle merci in transito al porto di Catania e quelle di imbarco e sbarco delle merci
stesse (8).
S.G.S.: multinazionale con sede in Svizzera, che si occupava anche di import-export
nell’ambito delle operazioni doganali.
Nell’anno 1999, nell’ambito dei poteri di vigilanza e controllo sopra accennati, l’OLAF
indirizzava le prime richieste di informazioni presso gli Stati membri e, analizzando i dati
delle importazioni, si avvedeva di un dato di difficile lettura, cioè un esubero di importazioni
contingentate pari al 20-25%. L’indagine si appuntava sul Porto di Catania ove era individuato
un trend di crescita del tutto ingiustificato sia per la posizione geografica, sia per la
stranezza data dal fatto che, non essendo plausibile immaginare che quel quantitativo di
banane fosse destinato al consumo locale, doveva esserci una ragione che pilotava le importazioni
attraverso il porto di Catania.
Sotto altro profilo, nell’estate del ‘99, su disposizione del Comando Generale, il
comando Brigata Volante della Guardia di Finanza di Acireale avviava un controllo incrociato
nei confronti della S. s.r.l. volto a verificare se, quale nuovo operatore, essa avesse i
requisiti per importare banane. L’indagine accertava che tra la S. s.r.l. e l’O.A. s.r.l. vi erano
rapporti commerciali molto stretti.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 145
(8) Soci della So. erano: D.B.L., figlio di D.B.S.; I.M., figlio di I.C., titolare, questi,
dell’agenzia P., avente ad oggetto lo sdoganamento di merci al porto di Catania; F.E., R.S.,
M.S.
146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nello stesso periodo l’indagine era estesa alla società O.A. s.r.l.; precisamente l’indagine
era volta a verificare la legittimità dell’importazione di banane. Durante il controllo erano
acquisiti i relativi documenti presso la Dogana di Catania, mentre quelli richiesti presso la
Dogana di Ravenna non erano resi disponibili, stante il rifiuto opposto da quell’ufficio.
Dalla verifica della documentazione esibita dalla società O.A. s.r.l. emergeva subito
una stranezza, cioè che, a fronte dell’acquisto dei titoli di importazione (che per il 90%
erano di provenienza francese), mancava un riscontro di pagamento. La circostanza, illogica
(essendo il titolo d’importazione un documento necessario ed insostituibile per l’importazione
del prodotto nell’ambito del contingente stabilito a livello europeo), era acclarata da
un incontro avuto il 4 dicembre 1999 presso la Procura di Trento. Al rientro, il Comandante
Luog. C. riceveva disposizioni superiori di consegnare la pratica al Nucleo di Polizia
Tributaria per il prosieguo delle indagini.
Su delega della Procura della Repubblica di Catania, il Nucleo Polizia Tributaria della
Guardia di Finanza aveva, infatti, avviato indagini volte a verificare la regolarità delle
importazioni di banane mediante il Porto di Catania. Società leader era O.A. s.r.l.
Su disposizione del Comandante Provinciale, il Nucleo Polizia Tributaria acquisiva gli
atti relativi all’indagine avviata dalla Brigata di Acireale; precisamente, bollette doganali
con accluse copie di titoli d’importazione e altra documentazione attinente l’importazione.
Ipotizzando che vi fosse un’importazione maggiore rispetto a quanto rappresentato nei
documenti, i militari predisponevano un prospetto riepilogativo delle importazioni effettuate
dai G., cioè dalla società O.A. s.r.l.. All’ultimazione del prospetto, ci si accorgeva di alcune
incongruenze in merito soprattutto a un’importazione, cioè quella recata dalla bolletta
doganale 173/s del mese di marzo 98. Il certificato di importazione recava un numero seriale
francese diverso dall’altro, però i numeri progressivi, che in genere sono diversi, erano
identici. Si trattava di certificati Agrim emessi dalla Francia.
Per verificare la genuinità di quei certificati Agrim, inviati gli estremi identificativi dei
titoli di importazione, si appurava presso l’Odeadom che si trattava di titoli falsi.
Su 51 certificati controllati, 44 erano falsi.
Aseguito di un vertice operativo tra i Magistrati inquirenti, la Guardia di Finanza e funzionari
dell’OLAF, accertato che le società dei G. avevano subìto precedenti recenti indagini
(una delle quali ad opera della Procura di Roma, poi conclusa con esito negativo, che nel
mese di dicembre ‘99 aveva condotto ad un’approfondita perquisizione di una nave che trasportava
un carico per conto dei G. e per la quale l’ipotesi investigativa era di contrabbando
di droga), si stabiliva di mantenere l’investigazione sotto copertura e di procedere con le
opportune verifiche presso la Dogana catanese in ordine all’eventuale coinvolgimento di
funzionari doganali nella vicenda relativa all’accertata massiccia circolazione di certificati
Agrim falsi.
Frattanto, i militari apprendevano che una nave, l’Hamburg Trader, era approdata al
Porto di Catania e stava per scaricare.
In data 8 giugno i militari e alcuni funzionari dell’OLAF (…) si recavano in dogana per
verificare la ritualità della documentazione necessaria per lo sdoganamento e, presa visione del
certificato Agrim presentato per la nazionalizzazione del carico, si appurava che esso era falso.
La nave recava un carico pari a 362.800 kg di banane. Il certificato Agrim, che corredava
l’operazione, recava numero di rilascio 998070, data di rilascio 23 marzo 2000, il titolare
del certificato era Frutera e la quantità di banane che quel certificato consentiva di sdoganare
era pari a 2.000 tonnellate.
Si procedeva al sequestro della documentazione doganale e del carico della nave.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 147
Perquisizioni erano avviate presso la sede della O.A. s.r.l, presso la sede della società
S. s.r.l., presso le rispettive abitazioni di G.A., di G. S., di D. B. S. e presso la sede della
società So.
G.A., Presidente della O.A. s.r.l. e D. B. S., spedizioniere doganale, erano tratti in arresto
per i delitti di contrabbando aggravato, di frode comunitaria e di falso.
Dal conteggio delle importazioni effettuate con l’utilizzo dei 44 certificati falsi, era
stato evaso il dazio doganale per un importo pari a lire 250 miliardi.
All’esito della perquisizione presso l’O.A. i militari sequestravano alcune fatture commerciali
relative all’acquisto di certificati Agrim da una società francese, T. F.; si trattava di
n. 7 fatture e di uno scontrino. L’analisi di quei documenti rivelava la loro falsità: a) durante
l’accertamento effettuato dalla Brigata di Acireale nell’anno 1998, quelle fatture – che si
riferivano proprio a quell’anno – non erano state esibite; b) le fatture risultavano emesse in
data 2000, benché fossero relative ad operazioni (la cessione di certificati Agrim) effettuate
nell’anno 1998; c) quelle fatture non erano regolarmente registrate nella contabilità della
società, risultando numerate progressivamente una dopo l’altra, a dimostrare che erano state
ricevute tutte insieme; d) il documento redatto su un foglio formato A4 risultava privo dei
segni di piegatura, come è, invece, necessario fare in caso di spedizione; e) il prezzo unitario
dei cartoni che risultava corrisposto era incongruo, anzi irrisorio, essendo pari ad un centesimo
per cartone, a fronte di un prezzo medio oscillante tra i 4 e i 6 dollari a cartone; f)
l’intestazione del documento recava la denominazione sociale T.F. con l’indicazione del
capitale sociale pari a 50.000 F, evidenziando un errore palese nell’abbreviazione del termine
“franco francese”, che avrebbe dovuto essere stampato con la doppia F.
Identificato e interrogato, il legale rappresentante della società T. F., dichiarava di non
conoscere i G. e di non avere mai avuto rapporti commerciali con quelli.
Quelle fatture risultavano riscontrate dai bonifici effettuati dai G. mediante il Credito
Italiano; precisamente: la fattura n. 1 del 10 gennaio 2000 era riscontrata da un bonifico in
data 20 marzo 2000, di pari importo, cioè 41.250 franchi; il destinatario è G. B., Parigi, (…),
con causale “ a saldo della fattura 1 della T. F.; la fattura n. 2 risulta riscontrata in due soluzioni,
la prima di 45.000 franchi, con valuta 29 marzo 2000, diretta a G. B., con causale
acconto fattura n. 2 T. F., e saldo di 24.750 franchi con valuta 5 aprile 2000, con lo stesso
beneficiario e la motivazione “ a saldo fattura n. 2”. Per la fattura n. 4, esistono due acconti,
il primo di 49.000 franchi, con valuta 5 aprile 2000 e il secondo di 45.000 franchi con
valuta 13 aprile 2000, con lo stesso beneficiario e la stessa motivazione. Le fatture n. 8, n.
9, n. 10 e n. 14 non sono riscontrate da bonifico.
In tutte le fatture, poi, era attaccato un bigliettino con la dicitura “fatture da ricevere”,
che significava che il conto non è ancora chiuso, non essendo stata pagata la fattura ancora
da ricevere, benché fosse stato fatto anche il calcolo della valuta.
Durante la perquisizione presso la sede della società O.A. s.r.l. i militari trovavano un
fax recante, quale mittente, G. B., (…), Parigi; sulla destra recava la frase “A Marie”, più a
destra “all’attenzione di Sebastiano”, ed era annotato un numero di telefono cellulare.
La verifica effettuata dalla Guardia di Finanza appurava che esso era stato spedito il
giorno 1 aprile 2000 alle ore 11.01 dalla S. P. 3S. Legale rappresentante della società mittente
era tale G. F. Il contenuto del fax consisteva nella comunicazione di un nuovo numero
di conto su cui effettuare “le prelevement”: tale ultimo termine – che evoca quello italiano
di prelevamento, non esiste in lingua francese.
Tornando ai certificati Agrim utilizzati dai G., si appurava che la maggior parte di essi
era di provenienza francese, qualcuno era italiano e qualcun altro era spagnolo.
148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Acquisiti presso la Dogana di Catania i certificati Agrim, in copia, utilizzati dai G. per
l’importazione delle banane, i militari predisponevano un elenco, ove era indicato il numero
seriale. Inviato all’Odeadom, la signora (…), funzionario presso quel Ministero, comunicava
che tra i certificati indicati nell’elenco, alcuni erano autentici, altri non erano mai stati
rilasciati dall’organismo emittente: precisamente 84 certificati erano estranei al Ministero
francese. Di questi, 81 erano quelli utilizzati dalla società O.A. s.r.l.
Due di quei certificati erano stati utilizzati dalla S. e uno dalla Sa., società, questa, intestata
a B. M., di Albenga.
S., che si inseriva quell’anno come nuovo importatore, nuovo operatore, si occupava di
commercio all’ingrosso di ortofrutta e aveva importato banane dall’Ecuador, utilizzando
certificati Agrim.
Amministratore era G. S.
Per l’importazione di ingenti quantitativi di banane erano stati utilizzati due certificati
falsi che, però, recavano lo stesso numero seriale e lo stesso numero progressivo di due certificati
autentici utilizzati dalla società O.A. s.r.l. per l’importazione di banane. Si tratta dei
seguenti certificati: 1) il primo recante il numero seriale Francia FRAOO203, progressivo
980845, titolare Cobana, Bordeaux, “Sedex”, Parigi, diritti trasmessi S. a via (...), Acireale,
quantitativo 1000 tonnellate, interamente utilizzato tramite bolletta doganale 8/N, 2.11.98,
Porto di Catania; 2) il secondo, FRAOO202, progressivo 980844, quantitativo di 1000 tonnellate,
utilizzato per 957,814 tonnellate, con bolletta doganale identica alla predetta, 8/N
del 2.12.98, Catania.
Si trattava di due documenti “cloni” di quelli autentici, già legittimamente utilizzati
dalla società O.A. s.r.l.: 00202 del 21 settembre 1998, con numero seriale 990844, e
FRAOO203, rilasciato il 21 settembre 1998, seriale 980845, utilizzati per importare 119,900
tonnellate, il secondo, e per importare 150 tonnellate, il primo.
La falsità dei certificati utilizzati da S. era accertata mediante la verifica effettuata presso
l’Odeadom che comunicava di avere rilasciato i due certificati utilizzati da O.A. s.r.l.,
mentre disconosceva quelli utilizzati da S. I documenti sono stati acquisiti (…).
Tra la documentazione sequestrata presso le società O.A. s.r.l. e S. non ve n’era alcuna
che comprovava la restituzione del certificato al titolare; circostanza, questa, che non avrebbe
consentito al titolare del documento di riscuotere l’importo già versato a titolo di cauzione.
L’ultimo certificato falso sequestrato presso la Dogana era stato utilizzato da Sa.: si
tratta del certificato FR n. A22201 rilasciato il 23 dicembre 1997 con il numero progressivo
971281 dall’Odeadom ed utilizzato dalla ditta Sa. s.r.l. per importare 2000 tonnellate.
Interpellato circa l’autenticità del documento, l’Odeadom riferiva che il certificato corrispondente
al progressivo 971281, che riportava 2000 tonnellate e che risultava rilasciato
alla B., in realtà era stato rilasciato alla ditta C. per una quantità pari a tonnellate 74,056 per
il paese di origine Costarica. Il fax proveniente dall’Odeadom relativo all’accertamento
circa l’autenticità dei certificati era acquisito (…).
In data 5 luglio 2000 ufficiali della Guardia di Finanza di Catania e della Regione
Liguria si presentano presso la sede delle società Sa. e Gi. in Albenga per dare esecuzione
ai decreti di perquisizione e sequestro emessi dalla Procura Distrettuale della Repubblica di
Catania nell’ambito dell’indagine che aveva preso le mosse dal sequestro del carico di banane
in data 8 giugno 2000. Era, dunque, effettuata la perquisizione presso i locali aziendali
della Sa. di Albenga; legale rappresentante era B.M. I locali erano anche sede della Gi., parimenti
intestata a B.M.
La perquisizione era estesa alla Gi. e, all’esito delle operazioni, erano sequestrati documenti
inerenti l’attività delle aziende. Presente sui luoghi durante la perquisizione era B. A.,
figlio del legale rappresentante ed effettivo gestore delle attività.
B.A. si dichiara il responsabile della gestione delle imprese e, dandone dimostrazione,
esibisce la documentazione.
Dal controllo dei certificati ricevuti tramite tale C. L. si evince che 9 certificati presentati
al porto di Ravenna sono falsi. Destinatario della merce è sempre B. di Verona. Nel ‘98,
altri 11 certificati risultano falsi. Anch’essi sono destinati a B., tranne che per un certificato
utilizzato in marzo e destinato alla società O. di Acireale. I pagamenti dei certificati al C.
avvenivano tramite bonifico bancario.
Titolare di una società con sede in Monaco, A.B.P., B.A. aveva operato la cessione di
certificati Agrim appoggiandosi alla società A.B.P., ricevuti tramite il C.
Assunto a deporre, B. A. rilasciava alcune dichiarazioni e redigeva una piantina raffigurante
gli uffici dell’Odeadom e la stanza visitata dal C. in una circostanza relativa al ritiro
di certificati Agrim (9). Si accertò, poi, che la Sa. aveva utilizzato altri certificati falsi e
che le operazioni di sdoganamento erano avvenute tramite il porto di Ravenna.
Si trattava di certificati Agrim francesi e si accertava che alcuni di quei certificati erano
stati ceduti da Sa. a B.I. di Verona.
Erano rinvenuti, altresì, certificati falsi spagnoli.
B.A. consegnava documenti relativi ai rapporti intrattenuti con il C. ( in atti: riferimento
pag. 60 della testimonianza resa dal Mar. R.; documenti prodotti dalla Difesa, ma anche
in rogatoria).
Tutte le operazioni doganali effettuate dall’O.A., dalla S. e dalla Sa. presso il Porto di
Catania erano state espletate con la partecipazione necessaria dello spedizioniere che, nel
nostro caso era D.B.S., il quale aveva curato l’importazione delle banane tramite quei certificati
Agrim oggetto della contestazione.
È utile precisare, al riguardo, che il controllo presso la Dogana era limitato alla verifica
del possesso materiale del documento da parte del presentatore, ma non era previsto che
esso riguardasse la regolarità sostanziale del documento; ciò che, anzi, era escluso dal codice
di attenzione stabilito per i certificati Agrim destinati all’importazione delle banane; codice
che era convenzionalmente indicato in verde, e che significava attenzione minima. Il certificato
Agrim, poi, dopo la presentazione in Dogana, era restituito al presentatore sì da con-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 149
(9) B.A., imputato in procedimento connesso, figlio di B.M., assunto nel presente giudizio
ai sensi dell’art. 210 c.p.p., dichiara di gravitare nel settore commerciale dell’ortofrutta
sin dagli anni 88-89, iniziando a lavorare quale dipendente presso la S. di Savona. Alla
fine degli anni ‘90, transitato frattanto alle dipendenze di un’altra agenzia che si occupava
di banane, inizia l’attività in proprio presso la Sa. e la Gi.. Inizia ad occuparsi di banane nel
94. Cominciava così il suo pellegrinaggio in Francia al mercato di Rungis e in Spagna alla
ricerca di certificati per le importazioni.
Dopo aver acquistato certificati di importazione presso [varie] società [...] nel 97-98
entra in scena C.L. da cui il B.A. acquista certificati di importazione francesi sino al 2000,
anno in cui si accerta che i certificatoiprovenienti dal C.L. sono falsi.
C.L. è una vecchia conoscenza dei B., conosciuto tramite il padre B.M. nel ‘93.
Risiedeva in Montecarlo, destinazione ove di lì a poco il B.A. avrebbe fissato la propria resi150
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sentirgli di consegnarlo all’ente emittente per svincolare la cauzione. Non era prescritto
all’Ufficio Doganale l’obbligo di conservare una copia del certificato utilizzato per la nazionalizzazione
(10).
Dalla lettura del verbale di constatazione redatto dal ricevitore capo delle Dogane di
Catania, (…), si apprende che il dazio evaso con l’operazione dell’8 giugno 2000 era pari a
4 miliardi, 889 milioni, 141 mila, 767 lire.
L’atto e i due allegati (costituiti dalla dichiarazione degli elementi relativi al valore in
dogana e dal titolo di importazione FRA17578, numero progressivo 988070) erano acquisiti
(pag. 90 della testimonianza resa dal Mar. R.). Il fax spedito in data 8 giugno 2000 dall
’Odeadom ed avente ad oggetto la comunicazione circa la non autenticità del titolo presentato
quel giorno in Dogana era acquisito (riferimento pag. 91 della testimonianza resa dal Mar. R.).
Nel mese di novembre 2001 la Guardia di Finanza, su disposizione del Comando
Generale del Corpo, emana una circolare obbligando tutti i comandi competenti per territorio
di verificare la posizione relativa all’anno 1998 di tutti gli operatori che commercializzavano
banane o che maturavano banane e che erano titolari di certificati di importazione
italiani.
denza dopo aver fondato la società A. e B.D. Nel 96, il C.L. gli propone l’acquisto di banane,
avendo la disponibilità di un fornitore, tale S.O. e l’acquisto di certificati di importazione,
affermando di averne possibilità avendo conosciuto un funzionario. La proposta è subito
accettata dal neo importatore che inizia ad acquistare titoli di importazione francesi tramite
il C.L. La prima consegna di certificati avviene via posta, la seconda e la terza si svolgono
a Parigi: nell’abitazione del C.L., la prima, e all’Odeadom, all’interno del palazzo
ministeriale, la seconda.
La merce era venduta ad una società di Verona, B.I., tranne per un caso in cui le banane
erano state vendute alla società Ortofrutticola.
I rapporti con C.L., dice il B., si interrompono nel ‘98 allorché, invitato dal B.A. a
ridurre il prezzo delle banane, i due litigano e il C.L. sparisce. Alla residenza di [...], qualcuno
lo informa che il C.L. aveva avuto problemi finanziari ed era sparito. I due si incontrano
nel marzo 2000 allorché, dinanzi all’Autorità Giudiziaria francese, essi sono messi a
confronto mentre sono in stato di detenzione.
Verso fine 98, su richiesta di B.I., una partita di licenze era stata trasferita direttamente
a suo nome. Giunti i certificati, la B.I. chiede al Bolla se era possibile mettersi in contatto
con l’Odeadom per verificare l’autenticità dei certificati. Informatosi presso il C.L., questi
forniva al Bolla il numero telefonico di fax che era stato richiesto. Quel numero era, poi,
comunicato a B.I..
Il fax viene spedito e, in risposta, B.I. ne riceve uno che, al vaglio degli inquirenti,
risulterà proveniente da un numero intestato alla convivente di C.L., compilato in una lingua
che imita quella francese.
(10) Nel 2000 un nuovo regolamento comunitario ha stabilito che una copia del certificato
presentato per lo sdoganamento, doveva essere conservata presso gli uffici della
Dogana e che il controllo sui certificati presentati per lo sdoganamento deve estendersi alla
legittimità della loro emissione e provenienza, attuabile mediante la verifica in tempo reale
presso il Ministero emittente. Nel territorio italiano l’accertamento è svolto con il tramite del
Secondo Reparto Comando Generale della Guardia di Finanza.
Naturalmente, l’operazione di sdoganamento si completa solo dopo la verifica della
legittimità della provenienza del certificato.
Il carico di banane non è comunque oggetto d’ispezione, sia per ragioni di contaminazione,
sia per evitare una precoce maturazione.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 151
Le figure professionali erano tre: primo importatore, secondo importatore e maturatore.
L’imprenditore che avesse voluto richiedere il rilascio di certificati Agrim presso il
Ministero avrebbe dovuto autocertificare la pregressa attività nel settore, specificando se
avesse effettuato importazioni come primo importatore o come secondo importatore, oppure
se avesse soltanto la funzione di maturatore.
Indagando sugli anni di riferimento, 94, 95, 96, si accertava che l’O.A. s.r.l. aveva
dichiarato di essere maturatore e, in piccola quota, secondo importatore: le dichiarazioni
relative agli anni 94 e 95 erano state fatte da G. M., mentre quelle relative all’anno 96 erano
state rese da G.A..
L’indagine della Guardia di Finanza si concentrava sulla verifica della qualifica di
maturatore per gli anni 94, 95, 96.
Richiesti di esibire le tre autodichiarazioni, i G. non erano in grado di ottemperare.
L’acquisizione di quei documenti, disposta presso il Ministero, consentiva di accertare che
le banane verdi, acquistate presso un importatore internazionale (ad esempio, Del Monte),
dopo il carico e il trasporto, erano avviate, non già presso la sede della società O.A. s.r.l. in
Acireale, ma in quel di Siracusa, località T., o, alternativamente, al mercato ortofrutticolo di
Siracusa; luoghi, questi, sostanzialmente coincidenti.
Presso l’Ufficio IVA si accertava che nel mese di gennaio 1996 la società O.A. s.r.l.
aveva comunicato una variazione dati con riferimento alla data del 25 aprile 1995 avente ad
oggetto la disponibilità di magazzini in contrada T. di Siracusa.
La società O.A. forniva, inoltre, copia dei contratti di locazione dei locali a decorrere
dal mese di giugno 95. Sennonché, dal 10 gennaio 94 al 31 maggio 95, mancava la copertura
formale costituita dalla disponibilità dei depositi come, invece, essa era stata denunciata
dalla variazione effettuata presso l’Ufficio IVA per il relativo periodo.
I magazzini risultavano in uso alla ditta dei Fratelli R. che esibivano il contratto di locazione
con scadenza agosto ‘95. Da una verifica si appurava che le banane verdi che l’O.A.
aveva acquistato per la maturazione erano contemporaneamente (cioè istantaneamente) vendute
alla ditta R. di Siracusa. La merce partiva da Albenga e dopo 36 ore arrivava in Sicilia,
dove era immediatamente ceduta, cioè venduta, ai Fratelli R. La fattura di vendita da
Ortofrutticola alla ditta R. recava il riferimento della bolla del mittente di Albenga.
Nell’anno 1994 tutte le 1851 tonnellate acquistate dalla Ortofrutticola erano cedute alla
ditta R.
Se ne deduceva che le banane erano vendute senza aver proceduto alla devertizzazione
e che pertanto la società O. non era maturatore.
Peraltro, il prezzo di vendita delle banane da O. a R. era tale da non consentire di individuarvi
neppure un minimo margine di guadagno, avuto riguardo ai costi della maturazione.
Nella bolla che accompagnava il carico da Albenga risultava l’indicazione di un numero
telefonico che, da accertamenti presso Telecom, era intestato ai R. fino al terzo bimestre
‘95.
Inoltre, il contratto di fornitura dell’energia elettrica per il funzionamento delle tre celle
e che era pari a lire 300.000 mensili a cella non era a carico né dei Fratelli R. né della O.
Non risultavano accordi scritti fra la ditta R. e la O. circa l’uso comune delle celle di maturazione
delle banane.
Il calcolo si riferiva al più tardi al 30 aprile ‘95, data in cui, essendo intervenuta la
disdetta del contratto di locazione dei magazzini da parte della ditta R., si era ipotizzata
un’effettiva utilizzazione di quelle celle ad opera della O. quale maturatore.
152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Va ancora detto che, al fine di acquisire la qualifica di maturatore, era necessario che
le banane verdi acquistate per la devertizzazione recassero la categoria A: qualunque altra
categoria non sarebbe stata idonea a far conseguire la qualifica di maturatore.
Dalla verifica delle fatture, tale dato non si evinceva. Richiesto, il Ministero rispondeva
che tale riscontro non era stato effettuato per gli anni ’94 e ‘95 ma solo a decorrere dal
‘96. Dal prospetto dei fornitori della O. inviato dal Ministero si evinceva che la S. e la B.
avevano venduto rispettivamente 3000 tonnellate e 2000 tonnellate.
In molti documenti la categoria non era riportata. Per l’anno ‘96, la Guardia di Finanza
sottraeva dal quantitativo che l’O. aveva autocertificato tutto il prodotto (banane) che sulle fatture
d’acquisto non riportava esplicitamente la dizione categoria A, così sottraendo 2000 tonnellate
circa.
Per gli anni ‘94 e ‘95, mancando il controllo da parte del Ministero, la verifica della
Guardia di Finanza si limitava ad escludere dal calcolo quei quantitativi di banane che
non potevano essere state maturate mancando i magazzini per la devertizzazione. Per
l’anno ‘96, invece, a fronte di 6.608 tonnellate di banane che l’O. aveva dichiarato di
aver maturato, il calcolo della Guardia di Finanza recava una possibilità di importare
banane pari a 618 tonnellate, a fronte di 825 tonnellate concesse dal Ministero a conclusione
dei calcoli effettuati senza tener conto della media ponderata dei tre anni di riferimento
precedenti. La differenza tra i due valori comportava l’obbligo di pagarvi un dazio
intero (11).
Il dazio evaso era pari a euro 153.040, 00 più IVA pari a euro 8.695,44. Il documento
recante il calcolo effettuato dal ricevitore capo della dogana (…) era acquisito al fascicolo
(rif. pag. 64 testimonianza Mar. C.).
Dalla lettura del provvedimento di revoca inviato dal Ministero del Commercio con
l’Estero alla Commissione U.E.– D.G. VI – Settore Banane si apprende che, «a seguito di
un riesame generalizzato di tutte le richieste di registrazione quali operatore tradizionale
nel commercio delle banane, riesame iniziato di recente, è emerso che la ditta O.A. s.r.l.
ha reso delle dichiarazioni non veritiere quanto alla operatività pregressa. Tale ditta ha
infatti dichiarato una operatività per l’anno 1995 pari a tonn. 2.050,370 in luogo della
effettiva di tonn. 205,037 e per l’anno 1996 di tonn. 4.386,130 in luogo della effettiva di
tonn. 438,613.
Pertanto, in applicazione dell’art. 13 par. 2 del re. 2362/98 si dispone la revoca della
registrazione quale operatore tradizionale per la ditta in questione».
Spedizioniere in tutte le operazioni di importazione, come abbiamo anticipato, era sempre
stato D.B.S. che, all’epoca dei fatti, era dipendente della So., ma disponeva anche di un
ufficio presso l’O.A. s.r.l.
La figura dell’imputato D.B.S., correo di G.A., di G. S. e di altro soggetto con riferimento
ai fatti di Albenga, si arricchisce di particolari significativi esplorando quei fatti che
(11) Va segnalato che durante l’acquisizione erano rinvenuti alcuni moduli per certificati
Agrim in bianco e privi del sigillo di Stato. Si appurava che era prassi consegnare quei
certificati alle associazioni di categoria, quali, ad esempio, ANIPO, che li avrebbe, poi, restituiti
dopo averli compilati. Richiesto di fornire chiarimenti in proposito, il Ministero rispondeva
nel senso indicato, rilevando, però, la stranezza dell’assenza del sigillo di Stato.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 153
svelano l’interesse manifestato dall’imputato alla conduzione delle imprese O.A. s.r.l. e S.
s.r.l. (12).
Da deposizione testimoniale di M.S. abbiamo appreso che, quale socio con una quota
del 25% della So., egli vi aveva lavorato occupandosi del controllo contabile della società. In
qualità di socio, il M. partecipava regolarmente alle assemblee, ma era anche capitato che
aveva dato la delega a C. G. per il quale, in realtà, il M. costituiva il riferimento all’interno
della società. Ad un certo punto, il M. cede la propria quota alla moglie del C.G. e nel ‘99
questi ricopre la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione. Nell’ottobre 1999,
nell’ambito del riordino dell’organigramma aziendale, a seguito delle incomprensioni e delle
tensioni createsi nell’azienda, D.B.S. invita perentoriamente il M. a lasciare la società.
A sua volta, D.B.S. si dimette sia dalla carica di direttore che da quella di amministratore
delegato e viene assunto alle dipendenze della società O.A. s.r.l.. Oltre a D.B.S., altre
cinque o sei persone lasciarono la So. e confluirono in una società di nuova costituzione,
So.[1], poi trasformata in So.[2]. Soci, oltre a D.B.L., fondatore, sono T.A., T.R. e S.P.
Identico oggetto sociale della So., contigua la sede delle due società.
La O.A. s.r.l. era il cliente più importante della So. fino a quando, fondata la So.[1] e
poi la So.[2], quella società azzerò le commesse che, da quel momento furono affidate alle
società di nuova costituzione: in un caso, ad esempio, avente ad oggetto lo sdoganamento di
merce da una nave per una ditta operante nel messinese, la ditta revocò la commessa nel volgere
di 24 ore per affidarla alla So.[2]
Il servizio che la So. svolgeva per conto del cliente O. era quello standard: cioè, occuparsi
dello sdoganamento e dello sbarco della merce (in questo caso, banane) da navi frigorifero.
Talvolta, poi, la So. si occupava di reperire la nave sul porto di Catania; infine, la societ
à di servizi si occupava di assicurare il carico.
Le operazioni di sdoganamento erano fatturate dalla So. ma erano rese possibili dalla
qualifica di spedizioniere che il D.B.S. possedeva. Estranea ai compiti della So. era, invece,
la gestione commerciale della merce, come, ad esempio, collocare la merce sul mercato
interno, procurare i certificati per le importazioni et similia. È stato accertato che tale tipo
di attività era svolta per conto della O. come dimostrato anche dai contatti telefonici intrattenuti
dal D.B.S. con diversi soggetti, oltreché da un documento proveniente dalla O. ed
indirizzato al D.B.S. ove risultava annotata la seguente richiesta: “vedi se puoi avere informazioni
su un tizio” in Turchia.
Parimenti significativi nel senso detto sono risultati i documenti contrassegnati con i
numeri da 2 a 28 della produzione del P.M.(13).
(12) “D.B. professionale, sa anche tutte le lingue, sa tutto, sa… conosce il marittimo
abbastanza bene, accordi internazionali e tutto, per quello era stato preso dall’O. A., per
gestire il traffico navale, compresi tutti i contratti che si facevano in giro.”(esame dell’imputato
G.A. pag. 63, udienza del 19 ottobre 2005).
(13) Il teste, consultando i documenti contraddistinti con i numeri da 2 a 11 della produzione
del P.M., dichiara che essi sono stati rinvenuti nella sede delle So.: dalla lettura del
loro contenuto si evince che trattasi di corrispondenza tra la So. e operatori commerciali
stranieri. In uno di essi, una società turca scrive alla O. e annota “alla cortese attenzione del
signor D.B.”. Il fax proviene dal numero 095/877801.
154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’istruttoria dibattimentale conclama la responsabilità degli imputati G.A., G.M., G.S.
e D.B.S. per tutti i capi di imputazione, fatta eccezione per quelli di contrabbando, come si
dirà appresso.
La responsabilità penale dei fatti ascrittigli è, invece, da escludere per B.M.
Partendo da tale ultima posizione processuale, ritiene il giudice che alla figura professionale
e al ruolo attribuiti all’imputato B.M. non hanno fatto eco le risultanze processuali,
che anzi paiono radicare una responsabilità in capo a B.A., reale amministratore delle societ
à Sa. e Gi., come ampiamente dimostrato dalla sua conoscenza dei fatti, dalla sua partecipazione
personale alla gestione della vicenda “certificati”, dai rapporti intrattenuti personalmente
con la società B. Import e con C. L.; senza che, a tale personale gestione si sia mai
accompagnata una compartecipazione di B. M. L’imputato va, per conseguenza, assolto da
tutti i capi ascrittigli per non averli commessi.
Quanto a G.A., G.M., G.S. e D.B.S., ritiene il giudice che le numerose dettagliate testimonianze,
riscontrate dai verbali di perquisizione domiciliare, di sequestro, di arresto, dalle
In un altro documento, costituente una bozza di contratto commerciale, si legge la scritta
in calce “da D.B. a Pippo”. Un altro documento è costituito da una guida della banane ove
risulta annotata la marca Dole Bananas. Un altro documento è costituito da una lettera inviata
dalla So. alla S.I.C. Il documento reca il timbro D.B.S. per la So.
In un caso, il D.B.S. aveva proposto a C.G., titolare dell’impresa Commerciale
Agricola, di presentare domanda al Ministero per ottenere il rilascio di certificati Agrim. La
domanda fu, poi, presentata, ma con esito negativo (documento n. 7 della produzione documentale
del P.M., rif. pag. 31 della testimonianza resa da M.), mancando il requisito oggettivo
della commercializzazione di frutta fresca. La pratica, ricorda Mazzone, fu presentata
in Roma presso lo studio di tale dottor F. il quale, a sua volta, avrebbe curato la pratica di
rilascio dei certificati presso il Ministero.
Dalla documentazione rinvenuta presso la So. si era appreso che D.B. curava il reperimento
dei certificati Agrim per conto della O.
Dal documento n. 8 e 9 si evince che la So. aveva inviato due lettere alla Ma. s.r.l., con
sede in Genova. Broker assicurativo, Ma. curava la stipula dei contratti di assicurazione
delle merci che venivano spediti alla So. e, poi, consegnati alla O. Titolare della Ma. era tale
G. che aveva lavorato presso la S.G.S. insieme con il D.B.
Il documento n. 10 è una lettera datata 10 marzo 2000 spedita dalla O. alla So., epoca
in cui quell’impresa non era più cliente della So. In quella lettera la O. chiede alla So. la
documentazione relativa ad indennizzi assicurativi vantati per risarcimento danni.
Si trattava di un servizio aggiuntivo che era prestato alla O.
Il documento n. 11, formato da tre allegati, concerne un resoconto contabile che il mittente
So. comunica alla O. e che è relativo ai certificati Agrim utilizzati. Quei certificati
erano utilizzati anche per altre società.
I documenti dal n. 12 al n. 28 prodotti dal P.M. (II produzione) provengono da C.: essi
sono stati trovati nella cassettiera della scrivania del D.B. presso So. dopo le dimissioni, ed
in occasione di un’apertura forzata effettuata dalla P.G. su denuncia da parte del C. che aveva
lamentato la mancanza di alcuni documenti. Nel cercare quei documenti, il C. notò una
risma di carta bianca intestata O.: prodotta in altro autonomo procedimento penale, la produzione
documentale nel presente giudizio è costituita da una fotocopia campione di uno di
quei fogli, tutti identici tra loro.
Il documento n. 18 è costituito da una lettera della T. di Amburgo scritta da tale S. che
concerne l’acquisto di titoli d’importazione per banane “per amici di Acireale”.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 155
rogatorie internazionali commissionate con lo Stato francese, dai processi verbali di violazione
delle leggi doganali, da quelli di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza, dalle
relazioni redatte dall’OLAF (documenti, questi, aventi valore di prova ai sensi dell’art. 9
Reg (CE) n. 1073/99 del 25 maggio 1999) conclamano la responsabilità di quegli imputati
per le ipotesi delittuose concorsuali racchiuse ai capi B C F H I L M N P Q.
Procurandosi falsi certificati Agrim, o creandoli, nel caso di S., e, in entrambi i casi,
utilizzandoli, G.A. in concorso con D.B.S., G. S. in concorso con D.B.S. e D.B.S., in concorso
con altro soggetto, importavano banane a dazio agevolato (14) (15).
Pare utile riportare sinteticamente il contenuto dell’esame reso dagli imputati G.A. e
D.B.S.
Confermando la versione offerta in sede di udienza di convalida del suo arresto, G.A.
ha dichiarato di essere stato raggirato da tale G. B., ottantenne, di origine italiana, residente
in Francia, il quale – mostrandosi interessato all’ottenimento di certificati Agrim del
Camerun – aveva offerto, in cambio, la disponibilità di certificati Ecuador, cioè quelli che
costituivano oggetto precipuo dell’interesse del G. La consegna dei certificati Agrim era
avvenuta in Italia, presso l’azienda O.A. s.r.l. ove il G.B. si era recato più volte in compagnia
di un terzo soggetto, non meglio indicato, per consegnare (e consegnando) i certificati
Ecuador, di poi ritirando quelli che erano già stati utilizzati per la nazionalizzazione. In quelle
occasioni, il G.B. apriva una valigetta da cui prelevava i certificati Ecuador per O.A. s.r.l.,
mostrando di custodirne centinaia per Ecuador, Costa Rica, Colombia, destinati ad altri porti
italiani: Ravenna, Genova, Livorno, Rotterdam, Amburgo.
L’accordo, riferiva il G., era stato verbale e non era stato pattuito alcun corrispettivo o
anticipo fino a quando, dopo i fatti della nave Ice River che aveva gettato un’ombra di
discredito sull’impresa condotta dai G., il G.B. aveva preteso il pagamento: di qui, l’emissione
delle fatture ad opera della Trinacria France; di qui i versamenti fatti dal G. su diversi
conti esteri intestati al G.B. che, ad un certo punto, aveva chiesto di effettuare le operazioni
(indicate con il termine “le prelevement”) su un conto diverso.
G.B. portava un orologio Vacheron Constantin al polso, viaggiava a bordo di una
Peugeot e, durante i suoi viaggi in Italia, non aveva mai accettato una cena o un caffè.
Misterioso, taciturno, vantava, però, conoscenze importanti, quale quella personale con il
Presidente Pertini e con altri politici italiani, diceva di lavorare per grossi nomi francesi
(politici) che stavano realizzando grossi affari con le importazioni di banane dal Camerun
dove possedevano grosse piantagioni. Lui, il G., ci credeva.
Come e dove si erano conosciuti i due? Tramite G.F., broker, che procurava i certificati
ai G. Un giorno, mentre G. e G.F. si trovavano, per ragioni di lavoro (l’acquisto di frutta),
al mercato di Parigi, il broker manifestava difficoltà a mantenere l’impegno di procurare
certificati; aveva, così, presentato G.B. a G.A.
(14) Pacifica, in dottrina e in giurisprudenza, è la configurabilità del concorso tra l’ipotesi
criminosa della ricettazione e quella di falso (v. S.U. sent. 23427 del 7 giugno 2001,
rv. 218771, in materia di concorso tra il delitto di cui all’art. 648 c.p. e quello di cui all’art.
474 c.p.).
(15) Locus commissi delicti è quello contestato in imputazione, non essendo stata sollevata
tempestivamente alcuna questione preliminare.
156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Alle contestazioni mossegli dal P.M. circa la diversa versione resa in sede di udienza
di convalida, il G. replica affermando che le condizioni determinate dallo stato di arresto, gli
avevano fatto perdere lucidità.
Quante volte il G.B. si era recato in Italia? 20, 18 o forse 16 volte, afferma il G.
Alle contestazioni mossegli dal P.M. circa la diversa versione da egli resa in sede di
udienza di convalida dell’arresto, egli replica che “non è che ogni volta…scrivevo”.
Richiesto di chiarire dove e come era avvenuto l’incontro (anzi, la conoscenza) tra i
due, se in Italia presso l’azienda, ove il G.B. si era presentato dopo averli contattati telefonicamente,
o a Parigi, l’imputato risponde che la verità “è sempre ammucchiata là”.
Alla contestazione logica mossa dal P.M. circa l’impossibilità, per l’imputato, di mantenere
fede all’impegno contrattuale asseritamente assunto con il G.B., cioè l’obbligo di procurargli
certificati del Camerun per importare un quantitativo enorme di banane (pari a tutto
il contingente di banane di provenienza dal Camerun assegnato all’intera Europa), quegli
dichiara di non essersene reso conto.
Alla domanda del P.M. che chiedeva di spiegare l’annotazione del numero di fax (risultato
intestato a G.F., il broker con cui si erano interrotti gli affari da tre anni circa) sulla lettera
apparentemente spedita nell’anno 2000 da Garibaldi ed avente ad oggetto la richiesta di
effettuare “le operazioni” (le prelevement) su un diverso conto corrente, l’imputato dichiarava
di non conoscere la grafia apposta su quel foglio e di non sapere spiegare la ragione di
quell’annotazione.
Alla contestazione circa il riscontro di telefonate dal numero intestato al G.F. alla O.
ancora nell’anno 2000, il G. si difende affermando che, comunque, si trattava di un soggetto
con cui erano in affari per il commercio di frutta.
Richiesto di spiegare il significato di un punto rosso sulla cartina geografica in corrispondenza
della zona del catanese nella brochure contenente la pubblicità della società P., il
G. dichiarava che la società O. poteva considerarsi affiliata alla società francese e che, dunque,
forse era questo il significato da attribuire a quel disegno pubblicitario.
Con riferimento ai rapporti con il D. B., il G. ha dichiarato che, allorché l’azienda aveva
intrapreso l’attività di importazione di banane, aveva avvertito l’esigenza di avvalersi della
collaborazione di un esperto della materia. Le indicazioni convergevano su D.B.S., spedizioniere
presso la So. L’incontro avviene nel 96. Poi, egli viene assunto dalla O.A. con il ruolo
di dirigente. Però, affermava il G., lo spedizioniere D. B. si occupava anche degli aspetti assicurativi
del carico, e, talvolta, di procurare titoli di importazione per conto della O. Tali attivit
à aggiuntive, si affretta a precisare il G., erano però effettuate a titolo di cortesia, una tantum
e, sempre, a fronte di una precisa richiesta del G. Questi, profittando della perfetta conoscenza
delle lingue vantata dal D. B. e dai suoi rapporti internazionali con operatori del settore,
si era talvolta avvalso di qualche informazione in più “per non farsi fregare i soldi”.
A fronte della contestazione mossa dal P.M. circa la diversa versione resa in sede di
udienza di convalida, il G. ribadiva la versione dibattimentale e cioè che il D.B. si era interessato
di certificati Agrim, cioè di procurarli alla O., anche se non li aveva mai utilizzati in
proprio, cioè per importare personalmente. Alla contestazione logica mossa dal P.M. circa
la non conducenza di quanto affermato dall’imputato per giustificare la sostanziale diversit
à tra le due versioni da egli rese, il G. ribadiva pervicacemente che l’avere, egli, affermato
in sede di convalida che il D. B. non si era mai interessato di procurare certificati Agrim, era
da intendersi che quegli non se ne era mai interessato “per se stesso”.
Chiesto di spiegare la ragione per la quale in data 18 gennaio 1999 dalla So. era stata
spedita una lettera a firma D. B. indirizzata alla P., Parigi ed avente ad oggetto l’importazioIL
CONTENZIOSO NAZIONALE 157
ne di banane, con cui si trasmettevano i documenti relativi (tra cui il certificato di importazione),
il G. spiega che si era trattato di una triangolazione.
Dall’esame dell’imputato D.B. si apprende che egli entra a far parte della So. nell’anno
1995 con un contratto di collaborazione continuativa; era il direttore generale, ma non
era organicamente inquadrato nella società. Nell’anno 1998, egli viene assunto.
Soci della So. erano anche D.B.L., figlio dell’imputato, e C.M., figlio di C.I., il rag. M.
I tre soci erano, di fatto, sostituiti dall’imputato D.B.S., da C. I. e da C.: i quali adottavano
le decisioni societarie.
Nel 1998, tra i settanta/ottanta clienti della So. emerge il nome di O.A. s.r.l., nuovo
volto nel ristretto settore delle imprese di importazione di banane, che conta nomi quotati in
borsa: Del Monte, Ciquita, Dole, per citarne alcuni.
La O.A. inizia a importare moltissimo.
Nel 2000, nel mese di marzo, il D.B. transita, quale dirigente, alla O.A. s.r.l. La ragione,
chiarisce l’imputato, è da ricercare nel rischio imminente di fallimento della SO. che
aveva un temibile concorrente, C., socio e accomandatario della Commerciale Agricola. Il
D.B. fiuta il pericolo e si dimette. Il 70% dei soci segue quella saggia decisione, costituendo
una società del tutto analoga alla So.: So.[1].
Perché il D.B., nel dimettersi, sceglie di rimanere nel mercato del lavoro e di remorare
la pensione? Per conseguire l’anzianità della qualifica dirigenziale, che non deve essere
inferiore a quindici anni.
Alla richiesta di spiegare il contenuto della lettera spedita da Mr. S. di Amburgo per
conto della T. ed indirizzata a “Mr. D. B. per amici di Acireale”, l’imputato dichiarava che la
T. è una multinazionale che tratta prodotti per la zootecnia, cereali, una grossa multinazionale
con cui egli aveva lavorato da 30 anni almeno. Mister S. era il direttore commerciale.
Dopo aver premesso di non ricordare perfettamente, l’imputato dichiarava che si era,
forse, trattato di un caso in cui i G. gli avevano chiesto di informarsi (dato che egli conosceva
le lingue e aveva rapporti internazionali) se c’era in Amburgo qualcuno disposto a vendere
certificati. Ma, si affretta a precisare l’imputato, la cosa finì lì, perché si trattava di
un’azienda facente parte del gruppo Del Monte, interessata ad acquistare titoli e non a venderli.
A fronte della lettura di un brano di quel documento “ there is a possibilità to make a
business in banana” (chiaramente riferentesi alla possibilità di fare affari nel settore delle
banane), l’imputato dichiara che si trattò, comunque, dell’unico caso (pag. 135, udienza 19
ottobre 2005).
Richiesto di riferire se avesse mai avuto problemi con i titoli di importazione e se, dunque,
gli fosse mai capitato di essersi recato in Dogana per parlare con qualcuno, l’imputato
risponde che in 40 anni di attività non gli erano mai capitati problemi con i certificati e che,
sì, talvolta egli si era pure recato in Dogana ma, così, per apporre qualche firma.
Non sapeva, se non per averlo appreso dai G., che i certificati avevano un valore commerciale.
Non sapeva, se non dopo i fatti per cui è processo, che fosse difficile reperire certificati
Agrim sul mercato per importare grosse quantità di banane da uno stesso paese, ad
esempio l’Ecuador, come invece avevano fatto i G. nel volgere di qualche anno. Non gli
interessava leggere il regolamento, gli bastava essere in possesso dei documenti necessari
per lo sdoganamento.
Chiesto di spiegare se non gli fosse sorto il legittimo dubbio circa la rapida ed inspiegabile
espansione commerciale della O.A., l’imputato afferma di non averci badato (pag.
139 ud. 19 ottobre 2005).
158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Chiesto di spiegare se non gli fosse sorto il legittimo dubbio circa l’esagerata quantità
di banane recata dai certificati italiani, l’imputato ribadiva di non averci badato e che
comunque non gli interessava.
Quanto all’operazione di nazionalizzazione, l’imputato chiariva che il suo compito si
limitava a raccogliere i documenti necessari per l’operazione di sdoganamento e a farli presentare
in Dogana da uno dei dipendenti della So. La documentazione era consegnata da
O.A. a T. A., collaboratore del D. B., che, abitando in Acicatena, aveva il compito di recarsi
in azienda ad Acireale per prendere in consegna la documentazione.
Chiesto di spiegare perché in un caso risulta che il certificato Agrim fu restituito alla P.
e, invece, non vi è traccia di tanto per quelli, risultati falsi, l’imputato chiariva che la necessaria
restituzione del certificato al titolare era effettuata dalla O. che, talvolta (come deve essere
avvenuto per il caso del certificato P.), chiedeva al D. B. di occuparsene: eppure, contestava
il P.M., i G. non conoscevano le lingue, essi si erano avvalsi della consulenza globale del
D.B. Non era, dunque, illogico, che quella società, che pure aveva assunto un dirigente, provvedesse
in economia a spedire i certificati compilando le necessarie lettere di accompagnamento
senza ricorrere al facile (e pattuito) aiuto del dirigente D.B., che parlava le lingue?
Eppure, come egli dichiara nel preambolo della sua presentazione in sede di esame, “io,
guardi, vengo da una grossa organizzazione dove alla base c’era la formazione, c’era l’organizzazione,
tutto messo a posto, in regola.” (pag. 130, esame). “Io vengo da una grossa
formazione di una grossa multinazionale, dove lavorai 34 anni”.
La consapevolezza dell’illecita provenienza dei certificati (16), pienamente provata in
giudizio e non scalfita dall’esame dell’imputato G.A. (è sufficiente richiamare, in proposito,
la gratuità dell’acquisto dei certificati, a fronte di un valore di mercato compreso tra 4 e 6
dollari; la singolare tardiva produzione di fatture emesse nell’anno 2000 a fronte di acquisti
risalenti ad alcuni anni prima, la numerazione continua e progressiva di quei documenti, a
dimostrazione della coeva emissione, la illogicità di un sistema di procacciamento di certificati
affidato ad operatori non iscritti, quali, nella prospettazione difensiva, sarebbero stati
G.B. e T.F.), reca la declaratoria di responsabilità di G.A. per i reati di cui ai capi B C, riqualificato
tale ultimo reato ai sensi dell’art. 489 in relazione all’art. 477-482 c.p., in concorso
con D.B.S. La riqualificazione del reato contestato al capo C è dettata dalle emergenze
dibattimentali, che hanno escluso l’autenticità della firma apposta sui certificati Agrim.
Del pari, la circostanza data dall’essere i due certificati descritti al capo D i doppioni
di due autentici rilasciati alla società O.A. s.r.l. reca l’inconfutabile prova che G.S. in concorso
con D.B.S. si procurava, realizzandoli, i due falsi certificati, così importando a dazio
agevolato.
Analogamente, D.B. S. concorreva nella condotta concernente la vicenda Sa. procurando
il falso certificato Agrim ed importando a dazio agevolato.
(16) Non appare utile, per escludere la responsabilità degli imputati, fare riferimento alla
sentenza n. 398/02 resa in data 6 ottobre 2004 dal Tribunale di Ravenna che ha assolto, ai sensi
dell’art. 530 comma 2° c.p.p., gli imputati M.P. e A.F.G. dai reati ascritti con formula per non
aver commesso il fatto (capo A), fatto non costituisce reato (capo B) e fatto non sussiste (capo
C): si tratta di provvedimento reso dal GUP all’esito di giudizio abbreviato per imputazioni
non pienamente coincidenti con quelle che formano oggetto del presente giudizio.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 159
Perché G.A., G. S. e D.B.S. sapevano di utilizzare falsi certificati Agrim?
Esattamente rileva il P.M. che, esperti del settore, essi sapevano quali fossero le possibilit
à di crescita di un’impresa, relativamente nuova, quale era la O.A. s.r.l. e la S. s.r.l., nel mercato
delle importazioni delle banane. Essi sapevano che per importare lecitamente, sarebbe
stato necessario procurarsi quei certificati e sapevano che – per le connotazioni del sistema –
i certificati cui avrebbero avuto diritto, essendo nuovi importatori, sarebbero stati esigui.
Dunque, essi non sono stati truffati.
Non è supportata da rigore logico la tesi sostenuta da G.A. secondo cui i certificati, ritenuti
veri, gli furono forniti da G. B., in cambio della promessa di certificati di provenienza
Camerun che quegli richiedeva. Basti considerare che il G.A. non avrà la disponibilità di
quei certificati che aveva promesso di scambiare. Inoltre, come ha esattamente osservato il
P.M., costituisce una stortura logica sostenere che un accordo di tal fatta, avente un valore
economico notevole, non era supportato documentalmente.
Né, a sostenere la tesi difensiva soccorre la prova documentale fornita circa il pagamento
di quei certificati sui conti correnti intestati a G. B. Non solo perché comunque il
pagamento si riferirebbe all’ultima tranche di certificati, non solo perché appare davvero
incomprensibile la lettera con cui si indicano le nuove coordinate bancarie su cui effettuare
i prelevamenti, non solo perché delle centinaia di certificati di cui il G.B. (secondo la versione
del G.) dimostrava di essere in possesso non si è trovata che una minima traccia, non
solo perché le visite del G.B. in territorio acese sono incompatibili con la quantità di certificati
di cui i G. erano in possesso, ma soprattutto perché le fatture (emesse, peraltro, per un
prezzo fuori mercato), ostentate per dimostrare la ritualità delle operazioni, non furono trovate
allorché nel 1999 la Guardia di Finanza, dopo averne fatto espressa richiesta, dovette
constatare che, sul punto, non vi era riscontro.
Non vi è traccia di contatti telefonici tra G.B. e la società O.A.. G. B., ottantenne all’epoca
di fatti, deambulava con difficoltà.
Quanto ai capi E F ascritti a G. S. e a D.B.S., corretta appare, alla luce delle risultanze
dibattimentali, la riqualificazione dei fatti ascritti sub F ai sensi degli artt. 477/482 c.p., evidente
essendo che i due certificati falsi sono nati in casa S.-O.A., stante la sovrapponibilità
a quelli autentici rilasciati alla O.A. s.r.l. Ne deriva l’assoluzione degli imputati per il delitto
di cui al capo E (ricettazione).
Quanto al capo F, va pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta
prescrizione, ritenendo quale epoca del commesso reato quella del 21 settembre 1998, data
in cui i certificati sono stati creati.
Parimenti per il capo I ascritto a D.B.S. va pronunciata sentenza di non doversi procedere
per intervenuta prescrizione. Parimenti fondata è l’accusa con riferimento ai capi L M
N P Q della rubrica, essendo stato dimostrato che falsamente G. M. e G.A. dichiaravano le
circostanze ivi indicate, così conseguendo indebitamente, nell’un caso, il rilascio di 6 certificati
Agrim e, nell’altro caso, l’iscrizione quale operatore tradizionale.
Quanto ai capi L -M -P va pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta
prescrizione.
Analoga pronuncia va emessa nei confronti di G. M. per il capo N, concesse le circostanze
attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, in considerazione
della marginalità dell’episodio e dell’incensuratezza dell’imputato.
Quanto al delitto di contrabbando aggravato contestato a G.A., G. S. e D.B.S., ritiene il
giudice che l’entrata in vigore del Reg.(CE) n. 1964/2005 del Consiglio ha comportato un’a160
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
bolitio criminis che, in applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p., impone l’assoluzione perché
il fatto non è più previsto come reato.
Il delitto di contrabbando contestato ai capi A D O costituisce una fattispecie causalmente
orientata o a condotta libera, il cui precetto, compiutamente definito, consta di alcuni
elementi normativi. Nel nostro caso, l’elemento normativo è costituito dai “diritti di confine
” che sono “dovuti”.
I diritti di confine sono quelli previsti dal Reg.(CE) 404/93.
Per effetto dell’entrata in vigore del Reg. (CE) del Consiglio n. 1964/2005, i diritti di
confine gravanti sull’importazione delle banane sono cessati; cioè essi non sono più “dovuti
”. L’importazione delle banane è ora regolata da un sistema tariffario secco pari a euro
176/00 per tonnellata con un contingente tariffario autonomo di 775.000 tonnellate di peso
netto a dazio zero per le importazioni di banane dai paesi ACP.
«A decorrere dal 1° gennaio 2006 l’aliquota tariffaria applicabile alle banane è fissata
in euro 176/00 per tonnellata. (art. 1 comma 1°, Reg. (CE) cit.). Dal 1° gennaio di ogni anno,
a partire dal 1° gennaio 2006, viene aperto un contingente tariffario autonomo di 775000
tonnellate di peso netto a dazio zero per le importazioni di banane originarie dei paesi ACP».
Con Reg.(CE) n. 2014/2005 della Commissione, modificato con Reg. (CE) n. 566/2006
della Commissione, l’immissione in libera pratica di banane al tasso del dazio della tariffa
doganale comune è soggetto alla presentazione di un titolo d’importazione, subordinato alla
costituzione di una cauzione.
In diritto, la vicenda va sussunta nell’ambito del fenomeno della successione delle
leggi penali nel tempo, come disciplinato dall’art. 2 c.p.. Le regole ivi stabilite si applicano,
come è noto, a tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, siano essi interni al sistema
penale o di derivazione esterna.
L’indagine volta a stabilire se una modifica normativa – in questo caso inerente l’elemento
normativo della fattispecie penale – incida (abbia inciso), oppur no, sulla fattispecie
criminosa si avvale del criterio della cd. continuità normativa.
Per illustrare le ragioni della decisione adottata da questo giudice, pare opportuno soffermarsi
sul sistema di importazione come ridisegnato dal Reg. (CE) n. 1964/2005.
La lettura degli articoli citati rende evidente che l’organizzazione del mercato comune
delle banane è ora improntata al sistema esclusivamente tariffario.
La presentazione del titolo di importazione, pur prevista, ha mutato radicalmente la
sua causa che, da documento necessario per importare a dazio ridotto all’interno del contingente,
è divenuto strumento per monitorare il mercato: a tal riguardo il Reg.(CE) n.
2014/2005 della Commissione reca: «L’istituzione di un regime d’importazione basato
sull’applicazione di un dazio doganale a un tasso adeguato e corredato di una preferenza
tariffaria nell’ambito di un contingente tariffario per le importazioni originarie dei paesi
ACP richiede un meccanismo di sorveglianza delle importazioni che consente di conoscere
con regolarità i quantitativi immessi in libera pratica nella Comunità. Lo strumento idoneo
a realizzare tale obiettivo è costituito dal rilascio di titoli d’importazione previa costituzione
di una cauzione a garanzia dell’esecuzione delle operazioni per le quali i titoli
sono richiesti».
Per importare banane dai paesi terzi non è più previsto il possesso di certificati Agrim;
non è più previsto il pagamento di diritti di confine; il contingente permane, ma con altro
oggetto e con diversa finalità; il certificato Agrim permane per altre ragioni.
Siffatta profonda modifica del sistema impedisce di ravvisare tra i due regolamenti
quella continuità normativa che è necessaria per escludere l’abolitio criminis.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 161
I diritti di confine, che erano previsti, non sono più contemplati. Quei diritti di confine
non sono più dovuti (17).
Sulla questione va, ora, affrontato il tema della ultrattività del sistema istituito con Reg.
(CE) n. 404/93, come prospettato dal P.M.
Valorizzando il dato costituito dal tenore letterale dell’art. 32 del Reg. citato, il P.M.
individua un’ipotesi di norma temporanea che renderebbe applicabile la previsione normativa
contenuta nell’art. 2 comma 4 ° c.p.
Osserva il P.M. che l’art. 32 del Reg. (CE) n. 404/93 rivela la natura temporanea della
disciplina: «al più tardi entro il 31 dicembre 2004, la Commissione presenta al Parlamento
europeo e al Consiglio una relazione, corredata se del caso di proposte sul funzionamento del
presente regolamento e di eventuali alternative, in particolare per quanto concerne il regime di
importazione. (comma 1).Tale relazione reca in particolare un’analisi dell’evoluzione del flusso
di commercializzazione delle banane comunitarie, delle banane ACP e delle banane di Stati
terzi e una valutazione del funzionamento del regime di importazione. In questo contesto, si
presterà particolare attenzione alla misura in cui i fornitori ACP più vulnerabili sono stati in
grado di mantenere la loro posizione sul mercato della Comunità. (comma 2).
Condividendo la tesi offerta dalla Difesa, non pare a questo giudice che né dalla lettera,
né dalla ratio di quell’articolo possa trarsi la natura temporanea del Reg. (CE) n. 404/93.
L’ultimo articolo del Reg. citato, cioè quello dedicato alle statuizioni circa la vigenza
dell’atto normativo cui esso si riferisce, recita: «Il presente regolamento entra in vigore il
giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee. Esso
è applicabile a decorrere dal 1° luglio 1993. Il presente regolamento è obbligatorio in tutti
suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri».
Alla data del 31 dicembre 2004, individuata come termine ultimo, ma non unico (al più
tardi), la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione, corredata
se del caso di proposte sul funzionamento del presente regolamento e di eventuali alternative,
in particolare per quanto concerne il regime di importazione.
Non un termine di vigenza del Regolamento, dunque, ma un termine per la presentazione
di una relazione il cui contenuto, peraltro, solo in via eventuale avrebbe potuto contenere
alternative per il regime di importazione.
Ancora, con Reg. (CE) n. 216/2001 del Consiglio, per porre fine alle contestazioni
suscitate dal regime d’importazione definito dal regolamento (CEE) n. 404/93 e per tener
conto delle conclusioni del gruppo speciale istituito nell’ambito del sistema di risoluzione
delle controversie dell’OMC (1° Considerando al Regolamento citato), il regolamento
(CEE) n. 404/93 è modificato come segue: gli articoli da 16 a 20 sono sostituiti dai seguenti:
articolo 16 comma 1: «Il presente articolo e gli articoli da 17 a 20 si applicano all’impor-
(17) Può richiamarsi, in proposito, la sentenza Cass. Sez. 3, n. 14329 del 4 febbraio
2003 che, con riferimento all’ipotesi di contrabbando doganale consistente nell’omissione
del pagamento del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente
dalla Repubblica Federale Yugoslavia, ha ritenuto l’abolitio criminis in virtù della sopravvenienza
del reg. (CE) n. 2007 del 2000 che ha sottratto tale merce ai diritti di confine sulla
stessa gravanti, in quanto le norme impositive del dazio costituiscono norme extrapenali
integratrici del precetto penale ed, in quanto tali, rientranti nell’ambito di applicazione dell
’art. 2 cod. pen.
162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tazione di prodotti freschi fino all’entrata in vigore del tasso della tariffa doganale comune
per tali prodotti, al più tardi il 1° gennaio 2006».
È temporanea quella legge che, per disposizione espressa, fissa un termine di durata,
cioè di vigenza.
La legge temporanea ha una vigenza limitata da due date: quelle iniziale e quella finale.
Nel nostro caso, premesso che non risulta indicato che si tratta di termine di vigenza
della legge, esso (il termine) individua l’epoca in cui, al più tardi, si introdurrà un regime
diverso.
Non pare a questo giudice che le due situazioni siano assimilabili.
Prendendo a prestito un istituto tipico del diritto civile, in materia negoziale, possiamo
ritenere che un termine indicato in un atto normativo, intanto ne individua la durata in quanto
possiede le caratteristiche di termine essenziale: dies interpellat pro homine, senza che vi
sia bisogno di un ulteriore atto da cui quella cessazione sia fatta dipendere.
Non pare neppure invocabile la disciplina concernente le norme eccezionali. Il P.M.,
richiamandosi al principio di diritto internazionale della libertà di commercio degli Stati,
individua l’ultrattività del sistema introdotto con il Reg. (CE) n. 4040/93 ritenendolo ispirato
e sorretto da contingenze eccezionali.
Non ritiene il giudice di poter condividere quella tesi che, prendendo spunto dalla sentenza
sul cd. caso Libia (18), non si attaglia al caso che ci occupa: non si tratta di aver vietato
l’importazione ma di averla regimentata; né si tratta di misure punitive, ma protezionistiche,
assolutamente applicative di compiti descritti nel Trattato istituivo della CEE: primo
fra tutti il conseguimento delle finalità di unione doganale desumibili dall’art. 27 del
Trattato CE, che potrebbe promuovere gli scambi con Stati terzi e favorire l’approvvigionamento
di materie prime.
La previsione della TDC nell’ambito della disciplina sulla libera circolazione delle
merci può considerarsi giustificata dai collegamenti significativi che possono sussistere tra
il commercio intracomunitario e quello con Stati terzi e che sono ricavabili dall’art. 23, par.
2, e dall’art. 24 del Trattato.
Sotto altro profilo, ritiene il giudice che la via obbligata dell’assoluzione per i capi A
D O si impone esplorando il complesso sistema dei rapporti tra diritto nazionale e diritto
comunitario.
Come è noto, il diritto comunitario spiega efficacia diretta all’interno del sistema giuridico
degli Stati membri: si parla, in proposito, di primato del diritto comunitario.
Se controversa è la prevalenza automatica del diritto comunitario su quello interno nel
caso di previsioni che comportando modificazioni in malam partem del diritto nazionale,
finiscono con l’incidere sulla riserva di legge in materia penale sancita dall’art. 25 Cost.,
pacifica è, per contro, la piena applicabilità del diritto comunitario nel caso opposto di riduzione
in bonam partem della sfera di illiceità del sistema penale nazionale.
(18) Il reg. (CE) n. 863/99 aveva sospeso l’embargo istituito con reg. (CE) n. 3274/93
del 29 novembre ‘93 nei confronti della Libia e, con sent. Cass. Sez. 3 n. 3905 del 22 febbraio
2000, il Supremo Collegio aveva ritenuto applicabile la disciplina dettata dal quarto
comma dell’art. 2 c.p. pur in vigenza del reg. n. 863/99.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 163
In questo caso, utilizzando un istituto proprio del diritto amministrativo (art. 5 All. E
L. 2248/1865), si parla di disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con norme di
diritto comunitario.
Applicando tale concetto al caso che ci occupa, possiamo ritenere che la fattispecie di
reato racchiusa ai capi A D O, pur non abrogata, non va applicata in subiecta materia per
incompatibilità della normativa nazionale con la fonte europea.
Passando al calcolo della pena, valutati gli elementi di cui all’art. 133 c.p. appare equo
irrogare la pena di anni tre e mesi sette di reclusione ed euro 5000/00 di multa a G.A. e la
pena di anni tre e mesi cinque di reclusione ed euro 8000/00 di multa a D.B.S.
La pena è stata così determinata:
A) per G.A.: pena base per il capo B: anni tre di reclusione ed euro 5000/00 di multa,
aumentata di mesi due per il capo C, aumentata di mesi tre per il capo N, aumentata di mesi
due per il capo Q.
B) per D.B.S.: pena base per il capo B: anni tre di reclusione ed euro 5000/00 di multa,
aumentata di mesi due di reclusione per il capo C, aumentata di mesi tre di reclusione ed
euro 3.000/00 di multa per il capo H.
Gli imputati vanno condannati, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Essi vanno condannati al risarcimento del danno in favore della Parte Civile e non
disponendo di elementi su cui fondare la decisione, le Parti vanno rimesse dinanzi al
Giudice Civile per la liquidazione.
Gli imputati vanno condannati al pagamento delle spese processuali in favore della
Parte Civile per la somma che è indicata in dispositivo.
Quanto al corpo di reato (19) va disposta la confisca della somma in sequestro, ai sensi
dell’art. 240 c.p. e 301 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 (20).
P.Q.M.
Visti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara G.A. colpevole dei reati ascritti ai capi B C N Q
e, riqualificato il capo C ai sensi degli artt. 489 c.p. in relazione agli artt. 477/482 c.p., ritenuto
l’art. 81 c.p. lo condanna alla pena di anni tre e mesi sette di reclusione ed euro
5.000/00 di multa e al pagamento delle spesse processuali. Visti gli artt. 529/531 c.p.p.
(19) Il carico della nave, oggetto di sequestro, fu immediatamente affidato in custodia
giudiziaria (v. verbale di nomina di custode giudiziario dell’Avv. Vito Branca, in atti) e,
dopo qualche giorno, venduto a paesi dell’ex Yugoslavia. Il ricavato della vendita, inizialmente
depositato presso un Istituto di credito, fu poi trasferito in un libretto postale infruttifero
acceso presso le Poste Italiane.
(20) La pronuncia di assoluzione per i capi relativi al contrabbando non impedisce,
secondo il giudice, la confisca del corpo del reato, avuto riguardo al disposto dell’art. 301
primo comma d.P.R. n. 43/73 in base al quale il giudice procedente per il delitto di contrabbando
deve sempre ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere
il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il profitto o il prodotto. Il disposto
dell’art. 301 deroga alla disciplina generale posta dall’art. 240 c.p. in tema di confisca.
Infatti il decreto citato ne rende obbligatoria l’applicazione tanto nel caso in cui l’imputato
sia stato dichiarato colpevole e condannato, tanto nel caso in cui il medesimo sia stato assolto
o prosciolto per cause che non interrompono il rapporto tra le cose ed il fato della loro
introduzione nel territorio dello Stato (Sez. 3 sent. 9569 del 31 ottobre 1984, rv. 166484).
dichiara non doversi procedere nei confronti dell’imputato per i reati ascritti ai capi M P per
prescrizione. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dai reati ascritti ai capi A O perché il
fatto non è previsto come reato.
Visto l’art. 530 c.p.p. assolve G. S. dal reato ascritto al capo D perché il fatto non è previsto
come reato. Visti gli artt. 529/531 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti
dell’imputato per il reato ascritto al capo F per prescrizione, riqualificato ai sensi degli artt.
110, 482, 477 c.p. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dal reato ascritto al capo E perch
é il fatto non sussiste.
Visti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara D.B.S. colpevole dei reati ascritti ai capi B C H,
riqualificato il reato sub C ai sensi degli artt. 489, 482, 477 c.p. e, ritenuto l’art. 81 c.p., lo
condanna alla pena di anni tre e mesi sette di reclusione ed euro 8.000,00 di multa e al pagamento
delle spese processuali. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dai reati ascritti ai
capi A D G perché il fatto non è previsto come reato. Visti gli artt. 529/531 c.p.p. dichiara
non doversi procedere nei confronti dell’imputato per i reati ascritti ai capi F I per prescrizione.
Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dal reato ascritto al capo E perché il fatto non
sussiste.
Visto l’art. 530 c.p.p. assolve B. M. dal reato ascritto al capo G perché il fatto non è
previsto come reato e dai reati ascritti ai capi H I per non aver commesso il fatto.
Visti gli artt. 529/531 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti di G. M. per i
reati ascritti ai capi L N per prescrizione, concesse per tale ultimo reato le circostanze attenuanti
generiche equivalenti all’aggravante.
Condanna gli imputati G.A. e D.B.S. al risarcimento del danno in favore della Parte
Civile e rimette le Parti dinanzi al Giudice Civile per la liquidazione. Condanna gli imputati
alla refusione delle spese di costituzione di Parte Civile, complessivamente liquidate in
euro 8.000/00. Visti gli artt. 240 c.p. e 301 d.P.R. 301 43/73 dispone la confisca di quanto
in sequestro. Fissa in giorni novanta il termine per la motivazione.
Acireale, 6 dicembre 2006».
164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 165
Sindacabilità giurisdizionale della revoca dell
’incarico di assessore comunale
(Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 23 gennaio 2007 n. 209)
Con la sentenza n. 209/07 la quinta Sezione del Consiglio di Stato ha
avuto modo di pronunciarsi sull’interessante e delicata tematica relativa alla
natura politica o amministrativa dell’atto di revoca di un assessore comunale,
e conseguente sindacabilità giurisdizionale dello stesso.
Fatto – Il sindaco di un comune disponeva la revoca dell’incarico di un
assessore il quale, lamentando la violazione (in via principale) dell’articolo
7 e dell’articolo 3 della legge n. 241/90, proponeva ricorso al Tribunale
Amministrativo Regionale per chiedere l’annullamento dell’atto impugnato.
Il Tribunale adito, mentre aveva rigettato la censura involgente il lamentato
vizio di carenza di motivazione (art. 3 cit.), accoglieva il ricorso con riferimento
alla mancata comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 cit.).
Il Comune convenuto, senza prestare acquiescenza alla pronuncia –
giacché il Sindaco aveva provveduto a rinnovare tale provvedimento, emendato
dal vizio riconosciuto –, interponeva appello avverso la suddetta pronuncia,
denunciando in via principale l’inammissibilità del ricorso originario,
all’uopo evidenziando la natura di atto politico del provvedimento di
revoca dell’incarico di assessore, così inquadrabile nella categoria di cui
all’art. 31 R.D. n. 1054/24 (TU sul Consiglio di Stato).
Sosteneva, inoltre, che la ritenuta violazione del principio di cui all’art.
7 Legge n. 241/90 non fosse ravvisabile alla luce della natura peculiare del
procedimento sotteso all’emanazione del provvedimento impugnato.
Proponeva altresì appello incidentale l’assessore avverso la statuizione
concernente il rigetto della censura di difetto di motivazione.
Sulla natura di atto politico della revoca dell’incarico di assessore – Il
Consiglio di Stato ha in primo luogo ritenuto priva di pregio la censura afferente
la natura di atto politico del provvedimento di revoca dell’assessore.
Rigettando l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario ai sensi dell
’art. 31 R.D. n. 1054/24, ha escluso la ricomprensione del provvedimento
impugnato nella suddetta categoria.
Per giungere a tale conclusione, che, come a breve si dirà, potrebbe non
apparire del tutto convincente, la quinta Sezione del Consiglio di Stato ha
proceduto ad una rassegna dell’evoluzione dogmatica del concetto stesso di
atto politico (1).
(1) Per una ricostruzione in termini generali del concetto di atto politico (rectius: atto
di governo) in relazione all’ostensibilità dello stesso ai sensi dell’art. 22 L. n. 241/90 si veda
in questa rivista V. BALSAMO, Esclusione del diritto di accesso per gli atti politici, I, 2005.
166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La categoria degli atti politici – si è sostenuto – è stata da sempre individuata
con criteri restrittivi, riconducendovi unicamente quegli atti che trovano
causa obiettiva nella ragione di Stato, indipendentemente dai motivi
specifici che ne hanno determinato l’adozione. Tale lettura restrittiva è stata
vieppiù sostenuta all’indomani dell’entrata in vigore della Carta Costituzionale,
giusto il principio di indefettibilità della tutela giurisdizionale cristallizzato
nel combinato disposto di cui agli articoli 24 e 113 della stessa.
È stato così precisato che possono considerarsi politici unicamente quegli
atti che promanano dai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione
di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (2).
Anche a seguito della riforma del titolo V della Costituzione – che, come
noto, ha fatto venir meno la struttura verticale delle autonomie con al vertice
lo Stato (proprio del sistema delineato nel 1948) – si è ribadito che, pur in
presenza di un sistema istituzionale costituito da una pluralità di ordinamenti
giuridici autonomi (3), il principio della tutela giurisdizionale avverso gli
atti della P.A. ha portata generale.
Con la diretta conseguenza logica che, in quanto consistente in una deroga
a tale principio, la categoria degli atti politici debba essere ridotta ad una
ristretta cerchia di atti, concreta espressione di scelte di specifico rilievo politico
e costituzionale, in relazione ai quali un intervento giurisdizionale si presenterebbe
come un’ingerenza del potere (rectius: ordine) giudiziario nell’esclusiva
sfera di competenza di altri poteri (4).
Con riferimento specifico ai Comuni il Consiglio di Stato ha avuto modo
di ribadire da un lato la mancanza di rilievo costituzionale degli organi di
vertice – diversamente da quanto esplicitamente statuito con riferimento alle
Regioni ai sensi dell’art. 121 Cost. – dall’altro la natura di atto amministrativo
della revoca dell’incarico di assessore, in quanto non libera nei fini e,
per di più, sottoposta alla valutazione del consiglio comunale ai sensi dell
’art. 46, ultimo comma, D.Lgs. n. 267/00.
Se con riferimento alla prima osservazione, riguardante il rilievo costituzionale
degli organi di vertice dell’ente territoriale in questione, le conclusioni
cui pervengono i giudici di palazzo Spada non appaiono sfornite di un
adeguato supporto logico, non altrettanto sembra potersi affermare con riferimento
alla seconda osservazione, involgente, invece, la ritenuta natura
amministrativa dell’atto impugnato nel caso in specie.
Orbene, è doveroso evidenziare sin da subito come la definizione di
atto politico, ed ancor prima la delimitazione di un confine tra il concetto
di atto politico ed atto amministrativo, sembra colorata da un’innegabile
dose di opinabilità, stante l’(indefettibile) margine di discrezionalità che
connota tale ricostruzione ermeneutica. Di tal che, sebbene non si possa
(2) C.d.S., Sez. IV, n. 340/2001.
(3) Cass., Sez. un., n. 12868/05.
(4) Cass., Sez. un., n. 11623/06.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 167
giungere ad una diretta critica riguardo le conclusioni cui è pervenuta la V
Sezione del Consiglio di Stato, appare tuttavia possibile formulare alcune
riserve: circa i presupposti logici assunti a base dell’iter argomentativo;
circa la (appena accennata) motivazione riguardante la presunta (non) libert
à nei fini dell’atto e, da ultimo, al valore attribuito alla valutazione effettuata
sul provvedimento stesso dal consiglio comunale ai sensi dell’art. 46,
ult. co., D.Lgs., n. 267/00.
i) Con riferimento ai presupposti assunti a fondamento della ricostruzione
storica della categoria degli atti politici il Collegio sottolinea la lettura
restrittiva che, anche precedentemente all’entrata in vigore della
Costituzione del 1948, ha caratterizzato le posizioni dell’unanime giurisprudenza.
Ora, se risulta non revocabile in dubbio l’osservazione secondo cui,
costituendo una vera e propria deroga alla generale sindacabilità giurisdizionale
degli atti promananti dalla P.A. – principio ora costituzionalmente cristallizzato
–, l’atto politico debba essere circoscritto in una ristretta categoria
di atti, nei limiti in cui già si è precisato, è altresì vero che tale impostazione
ermeneutica, quantunque finalizzata ad impedire l’insorgere di zone
“franche” nell’operato dell’Amministrazione, non può, d’altra parte, assumere
i contorni di un limite ultroneo a qualsiasi esigenza di effettiva tutela e
ridursi, per tal via, ad una mera massima tralatizia.
Sembra così eccessivo circoscrivere tale categoria solo agli atti in cui si
realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico (S.U., n.
11623/06) quando invece, soprattutto a seguito della citata riforma del titolo
V della Costituzione, si è pervenuti ad una evidente frammentazione dell’operare
politico, non più esclusivo appannaggio del governo centrale.
ii) Con riferimento all’osservazione riguardante la mancata libertà dei
fini nell’adozione del provvedimento di revoca di un assessore occorre muovere
alcune precisazioni.
In primo luogo, a prescindere dall’adesione o meno alle conclusioni cui
perviene la quinta Sezione a riguardo, occorre evidenziare la (quantomeno)
inadeguata motivazione addotta a sostegno di tale dictum: “essendo [l’atto]
sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del
sindaco”.
Che l’atto di revoca fosse teleologicamente preordinato a migliorare la
compagine di ausilio del sindaco non sembra certo dubitabile, ma attribuire
a tale affermazione – peraltro già facilmente desumibile – un peso specifico
tale da supportare le conclusioni cui addiviene il Consiglio di Stato appare
opinabile.
Sembra di comprendere – e in questo la laconicità del passaggio non
aiuta – che l’esistenza di un tale fine, ossia quello del corretto e migliore
componimento della compagine del sindaco, sia in grado di attribuire tout
court all’atto in questione il valore di atto vincolato nel fine e, quindi, per
definizione non politico. Una tale automatica assimilazione, tuttavia, non
sembra essere particolarmente convincente, anche alla luce di quanto più
sopra esposto con riferimento all’interpretazione restrittiva da fornire al concetto
di atto politico.
Se tuttavia si assume, con un’autorevole dottrina (5), che l’atto politico
rappresenta segnatamente l’espressione di governo, quale estrinsecazione
del potere politico affidato dal corpo elettorale, potrebbe pervenirsi a conclusioni
difformi se si leggesse il generale contesto in cui origina il provvedimento
di revoca di un assessore.
Proprio il suddetto fine di miglioramento della compagine del sindaco
sembra colorare in tal guisa il provvedimento de quo che non sembra involgere
le competenze istituzionali attribuite per legge agli organi di vertice dell’ente
locale – con conseguente rilievo per gli interessi della collettività – bensì
sembra riguardare unicamente il rapporto fiduciario, esclusivamente riconducibile
alla sfera politica, nel senso sopra delineato: ossia come estrinsecazione
del potere affidato dal corpo elettorale. Più che di legittimità – potrebbe dirsi
– sembra vertere in una condizione di opportunità politica, che può trovare la
propria soluzione unicamente nelle dinamiche politiche e non già giudiziarie.
A riguardo, e con finalità meramente esemplicative – non potendo disconoscersi
l’innegabile difformità delle fattispecie sub iudice –, possono richiamarsi
le affermazioni svolte dalla Corte Costituzionale nella nota vicenda
Mancuso (6). Pronunciatasi sul conflitto di attribuzioni sollevato da quest’ultimo
avverso la mozione di sfiducia “individuale” votata dal Senato, la
Consulta – dopo aver dichiarato comunque ammissibile il ricorso del Ministro
– ne ha sancito l’assoluta infondatezza sulla scorta di precise osservazioni. La
sfiducia, infatti, involge un giudizio esclusivamente politico, con la conseguenza
che “l’oggetto del ricorso contiene valutazioni che, proprio perché
espressione della politicità dei giudizi a quest’ultimo spettanti, si sottraggono
in questa sede a qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico” (7).
Ora, se come già affermato, non può sicuramente attribuirsi valore decisivo
a tali ultime osservazioni, attesa la peculiarità di una pronuncia della
Corte Costituzionale in materia di conflitto di attribuzione tra un Ministro ed
il Senato, è altresì vero che non può non riconoscersi una valenza generale
alla ratio decidendi sottesa nel passaggio motivazionale di cui sopra. La
Corte, infatti, scolpisce con chiarezza il principio per cui il merito politico di
un atto non può essere contestato in sede di conflitto, con buona pace della
“illuministica illusione” – per utilizzare una nota espressione di Crisafulli –
di rendere giustiziabili i comportamenti degli organi politici.
168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(5) A. GIANNINI, Atto di governo (atto politico), in Enc. Dir., I, p. 223 ss.
(6) Riferimenti puntuali alla sentenza n. 470/95 in AA.VV., Risposte alle sei domande
ai costituzionalisti provocate dal caso Mancuso, in Giur. Cost., 1995, II, 4646 ss.; S.
BARTOLE, Il conflitto di attribuzione e la politica, in Giur. Cost., I, 1996, 74 ss.
(7) Tale conclusione della Consulta sposa pienamente le argomentazioni svolte in sede
di giudizio dall’Avvocatura dello Stato. In questa rivista (1996, I, 1ss.) se ne è un pubblicato
uno stralcio ove si legge, tra l’altro: “Se davvero l’attività svolta dal Ministro diverga
dagli indirizzi governativi e dalla finalità della competenza a lui attribuita […] tutto ciò
appartiene al potere parlamentare di valutare e controllare l’opera del governo; potere
sovrano e perciò stesso insindacabile, se non in sede esclusivamente politica”.
Sebbene in un contesto assolutamente difforme, osservazioni non eccessivamente
dissimili sembrano essere sollevate anche dallo stesso Consiglio
di Stato quando, nella parte motiva, afferma: “la revoca dell’incarico è posta
essenzialmente nella disponibilità del sindaco […] l’obbligo di motivazione
può senz’altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politicoamministrative
[…] tenendo presente che trattasi non di un tipico procedimento
sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente
sindacabile”.
Orbene, nonostante queste (implicite) aperture verso una connotazione
politica del provvedimento in questione – suffragate anche dalle posizioni
assunte con riferimento al lamentato vizio di omessa comunicazione dell’avvio
del procedimento, dove le censure dell’originario ricorrente sono state
respinte sulla scorta di tali considerazioni: “la partecipazione diventa indifferente
in un contesto nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è
rimessa in modo esclusivo al sindaco […] con sottoposizione del relativo
operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale” – la V Sezione
conclude comunque per la natura amministrativa dell’atto.
iii) Da ultimo ci si sofferma sulla portata attribuita al disposto di cui
all’ultimo comma dell’art. 46 D.Lgs. n. 267/00, dove si prevede che dell’atto
di revoca si dia motivata comunicazione al consiglio comunale, chiamato
a dare una valutazione sullo stesso, potenzialmente comportante una mozione
di sfiducia ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. cit.
Orbene, a ben vedere, tale disposizione normativa, lungi dal suffragare
le tesi sostenute dalla V Sezione, sembra militare a sostegno della tesi qui
argomentata, circa la natura politica dell’atto in questione. Se, come sembra
incontrovertibile, si attribuisce al consiglio comunale il potere-dovere di
verificare le ragioni (evidentemente politiche) sottese all’adozione di un siffatto
provvedimento, con la possibile adozione di una apposita mozione di
sfiducia qualora le stesse non appaiano condivisibili, non sembra del tutto
erronea l’affermazione di cui sopra secondo la quale un tale atto rientra unicamente
in una dimensione politica e non già amministrativa.
Conclusioni – Alla luce di quanto brevemente sostenuto in questa nota
si può fornire – sebbene si sia precisata la difficoltà di tracciare una linea di
demarcazione dai confini non labili tra la categoria di atti politici e di atti
amministrativi – una diversa lettura al caso sub iudice.
Nonostante le finalità perseguite dal Consiglio di Stato, in uno con la
unanime giurisprudenza della Cassazione, non possano che essere condivise,
giusta l’affermazione inequivoca del principio costituzionale della tutela giurisdizionale
contro gli atti della P.A., si può tuttavia osservare che nel caso
in specie una diversa conclusione – con il riconoscimento della natura politica
dell’atto di revoca – probabilmente non avrebbe arrecato alcun vulnus al
suddetto principio.
Se si considera, come sembra di aver dimostrato, che il rapporto che
intercorre tra sindaco ed assessore si esaurisce nell’ambito del rapporto politico-
fiduciario che contrassegna le relative cariche, non appare completamente
errato escludere la natura amministrativa ad atti che attengono unica-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 169
mente all’estrinsecazione di tale rapporto. Con l’ulteriore considerazione
che, come si è visto, esiste una espressa disposizione di legge che prevede
una verifica ad opera del consiglio comunale sull’opportunità del provvedimento
adottato.
Tale ricostruzione eviterebbe l’inconveniente di generare, come invece
sembra fare la sentenza in commento, una sorta di tertium genus tra gli atti
politici e gli atti amministrativi nei confronti del quale, per le concrete difficolt
à a far valere i propri interessi in sede processuale – non necessarietà di
comunicazione di avvio del procedimento; obbligo di motivazione praticamente
ridotto ai minimi termini; insindacabilità del coefficiente di opportunit
à dell’atto stesso –, il vulnus paventato dal Consiglio di Stato non sembra
certo scongiurato.
Dott. Valerio Balsamo (*)
Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 23 gennaio 2007 n. 209 – Pres. A. Elefante
– Est. A. Cerreto - Comune di Grado (Avv.ti C. Belletti, L. Presot, R. Adamo) c. P.G.
(avv.ti A. Scorsolini, B. Garlatti, M. Sanino).
Riforma della sentenza del TAR Friuli Venezia Giulia n. 47/2004, resa tra le parti, concernente
revoca dalla carica di assessore.
«Fatto e diritto
1.- Con la sentenza in epigrafe, il TAR ha accolto il ricorso proposto dall’interessato,
ravvisando fondato il vizio di violazione degli artt. 7 ed 8 Legge 7 agosto 1990 n. 241 e successive
modificazioni per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca
dell’incarico di assessore comunale e nel contempo ha rigettato la censura di mancanza di
motivazione in relazione a quanto indicato nella nota sindacale in data 30 luglio 2003 di
accompagnamento del provvedimento impugnato.
2.- Avverso detta sentenza ha proposto appello il Comune, deducendo quanto segue:
- inammissibilità del ricorso originario, essendo l’atto di revoca di un assessore comunale
inquadrabile negli atti politici di cui all’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato di cui al R.
D. 26 giugno 1924 n. 1054, in quanto da una parte proviene dal massimo organo di indirizzo
e direzione dell’Amministrazione comunale e dall’altra è rivolto, nell’esercizio del potere
politico riconosciuto al Sindaco, alla tutela del regolare funzionamento dell’organo di
governo Giunta comunale;
- contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, la comunicazione di avvio del procedimento
deve trovare applicazione solo nel caso in cui la partecipazione del cittadino all’iter procedimentale
sia idonea astrattamente ad influire in qualche modo sulle determinazioni dell
’amministrazione, risultando invece superflua quando l’opportunità offerta all’interessato
sarebbe comunque inidonea ad apportare una qualsivoglia utilità all’azione amministrativa;
170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) Dottore in giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
- l’atto di revoca dell’incarico di assessore comunale si configura come atto della massima
espressione della discrezionalità amministrativa, per la quale unico criterio di riferimento
rimane il programma politico amministrativo a cui il sindaco eletto si è autovincolato
nei confronti degli elettori e la cui attuazione è l’unico parametro cui deve uniformarsi
l’azione del Capo dell’Amministrazione e dei suoi collaboratori;
- di conseguenza non poteva avere alcuna incidenza l’eventuale partecipazione dell’interessato
al relativo procedimento, dal momento che il provvedimento di revoca trova la sua
motivazione in un palese contrasto politico amministrativo che aveva portato al venir meno
del rapporto fiduciario, la cui valutazione è di competenza esclusiva del Sindaco che ne
assume la responsabilità politica davanti al Consiglio comunale, come del resto statuito dal
TAR Sicilia, Sez. I, con sentenza n. 146 del 5 marzo 2004.
Infine, l’appellante ha fatto presente che nel frattempo, senza porre acquiescenza alla
sentenza del TAR, il Sindaco aveva dovuto procedere all’adozione di un nuovo provvedimento
di revoca al fine di non paralizzare l’attività della Giunta comunale.
3.- Costituitosi in giudizio, il sig. P. ha chiesto il rigetto dell’appello, ribadendo l’utilit
à della comunicazione di avvio del procedimento, essendogli stato imputato un comportamento
scorretto per non essersi presentato ad una riunione di Giunta e per essersi autosospeso
dall’incarico di assessore. Ha inoltre, in via subordinata, proposto appello incidentale nei
confronti della sentenza del TAR nella parte in cui aveva rigettato la censura di difetto di
motivazione, rilevando che il provvedimento di revoca dell’incarico di assessore era privo
di qualsiasi motivazione e la nota sindacale in data 30 luglio 2003 (inviata successivamente
a mezzo posta) costituiva soltanto un tentativo di fornire a posteriori una giustificazione
ad un provvedimento finale immotivato.
4.- Con ordinanza n. 2369/2004, questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare proposta
dal Comune appellante considerando che “sembra da approfondire la questione concernente
l’obbligo di fornire comunicazione di avvio del procedimento di revoca dell’incarico di
assessore, tenuto conto del tipo di rapporto intercorrente fra sindaco ed assessori a norma
dell’art. 46 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267”.
In prossimità dell’udienza pubblica di discussione del ricorso, entrambe le parti hanno
depositato memoria conclusiva.
Alla pubblica udienza del 24 ottobre 2006 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
5.- Priva di pregio è l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario, sollevata
dal Comune in base al rilievo che l’atto di revoca dell’incarico di assessore comunale
sarebbe inquadrabile tra gli atti politici e perciò non impugnabile davanti al giudice amministrativo
alla stregua dell’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato di cui al R. D. 26 giugno
1924 n. 1054, in base al quale “il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non
è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell’esercizio del potere
politico”.
5.1.- Come è noto, fino ad epoca recente la categoria degli atti politici è stata individuata
con criteri restrittivi, sia prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948, evidenziandosi
che essi debbono trovare causa obiettiva nella ragione di Stato indipendentemente
dai motivi specifici che ne abbiano in concreto determinato l’emanazione (V. la decisione
di questo Consiglio, Sez. IV n. 351 del 20.1.21946), sia principalmente dopo il 1948
in ossequio al principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale ai sensi degli artt. 24
e 113 della Costituzione, e sono stati inclusi in essa generalmente gli atti che attengono alla
direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni
fondamentali (V. l’accenno fatto in Corte cost. n. 103 del 19 marzo 1993).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 171
È stato al riguardo precisato che gli atti politici costituiscono espressione della libertà
(politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione
di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (V. la decisione di questo
Consiglio, sez. IV n. 340 del 14.4.2001) e che essi sono liberi nella scelta dei fini, mentre
gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono
comunque legati ai fini posti dalla legge (V. Cass. S. U. n. 1170 del 13 novembre 2000).
Si è sottolineato inoltre che essi sono caratterizzati da due profili: l’uno soggettivo,
dovendo provenire l’atto da organo di pubblica amministrazione, seppure preposto in modo
funzionale e, nella specifica vicenda, all’indirizzo e alla direzione al massimo livello della
cosa pubblica, e l’altro oggettivo, dovendo riguardare la costituzione, la salvaguardia e il
funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione
(V. le decisioni di questo Consiglio Sez. IV, n. 1397 del 12 marzo 2001 e n. 217 del
29 settembre 1996).
5.2.- La categoria degli atti politici è stata recentemente sottoposta a rivisitazione a
seguito delle modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione di cui alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, che ha fatto venir meno la struttura verticale delle autonomie,
con al vertice lo Stato, che era proprio della Costituzione del 1948, essendosi previsto
che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane,
dalle Regioni e dallo Stato”, e che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati
dalla Costituzione” (nuovo art. 114 Cost.).
Per cui è stata riconosciuta la presenza ormai di “un sistema istituzionale costituito da
una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, nel quale le esigenze unitarie
si coordinano con il riconoscimento e la valorizzazione delle istituzioni locali” (V. Cass. S.
U. sentenza n. 12868 del 16 giugno 2005).
Peraltro, pur nell’ambito di una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi,
è stato ribadito che il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti della
Amministrazione pubblica (art. 113 Cost.) ha portata generale e coinvolge, in linea di principio,
tutte le Amministrazioni anche di rango elevato e di rilievo costituzionale. Per cui le
deroghe a simile principio debbono essere ancorate a norme di carattere costituzionale.
Tanto è vero che nel nostro attuale sistema di garanzie persino gli atti legislativi del
Parlamento nazionale e delle Regioni sono soggetti ad un sindacato giurisdizionale, sia pure
circoscritto e riservato ad un Giudice di particolare natura quale la Corte Costituzionale.
Non sono quindi, per i loro caratteri intrinseci, soggetti a controllo giurisdizionale solo
un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale
e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine
ai quali l’intervento del Giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario
nell’ambito di altri poteri (V. Cass. S. U. sentenza n. 11623 del 16 maggio 2006).
5.3.- Per quanto riguarda in particolare l’autonomia dei comuni, è da far presente che
il nuovo art. 117 Cost., nel ripartire la competenza legislativa tra Stato e Regioni, attribuisce
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia “legislazione elettorale, organi
di governo e funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città metropolitane”.
Con la conseguenza che la determinazione degli organi di governo dei Comuni, con le
connesse sfere di competenza, appartiene in via esclusiva alla legislazione statale, la quale
delinea il riparto di competenze tra consiglio comunale e giunta nel senso che l’organo elettivo
è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che
si traducono in atti fondamentali, ai sensi dell’art. 42 D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, mentre
172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
la giunta municipale, che è l’organo chiamato a collaborare con il sindaco nel governo del
Comune, ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla
legge al consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del
sindaco o di altri organi di decentramento (V. la decisione di questa Sezione n. 832 del 3
marzo 2005).
5.4.- Ne discende da un lato che il sindaco del comune ( come del resto il consiglio e
le giunta comunale), non è un organo di rilievo costituzionale (V. art. 121 Cost., che invece
per le regioni ne stabilisce direttamente gli organi e relativi compiti) e che la giunta comunale
non è di per sé abilitata alla direzione al massimo livello dell’Amministrazione comunale
(V. il parere di questo Consiglio sez. 1° n. 4391/2005 del 12 aprile 2006), mentre l’atto
sindacale di revoca di un assessore (o di più assessori) da un lato non è libero nella scelta
dei fini, essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del
sindaco nell’amministrazione del comune, e dall’altro è sottoposto alla valutazione del consiglio
comunale ai sensi dell’art. 46, ultimo comma, D.Lgs. n. 267/2000.
Di conseguenza, deve ritenersi ammissibile l’impugnativa di un atto del genere davanti
al giudice amministrativo in quanto posto in essere da un’autorità amministrativa e nell’esercizio
di un potere amministrativo, sia pure ampiamente discrezionale.
6.- Peraltro, l’appello del Comune è fondato nel merito, mentre deve essere rigettato
l’appello incidentale del ricorrente originario.
7.- Al fine di poter adeguatamente valutare le questioni prospettate (obbligo o meno
della comunicazione di avvio del relativo procedimento e sussistenza o meno nel caso in
esame della motivazione) si rende necessario chiarire il contesto normativo di riferimento.
7.1.- Al riguardo il Collegio non ha motivi per discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuta
questa Sezione per un caso analogo con la decisione n. 944 dell’8 marzo 2005.
Con la menzionata decisione sono stati evidenziati essenzialmente i seguenti aspetti:
- l’evoluzione normativa intervenuta, atteso che la legge n. 81/1993 puntualizza (art.
12, che premette un comma all’art. 36 legge n. 142/1990) che il sindaco ed il presidente
della provincia sono gli organi responsabili dell’amministrazione del comune o della provincia,
propongono gli indirizzi generali di governo da approvare da parte del consiglio ed
attribuisce (art. 16, che sostituisce l’art. 34 legge n. 142/1990) esclusivamente al sindaco
o al presidente della provincia, non più eletto dal consiglio, ma investito direttamente dal
corpo elettorale, la potestà di nominare e revocare uno o più assessori, prevedendo solo di
darne motivata comunicazione al consiglio (la disposizione si riferiva letteralmente solo al
sindaco, ma era indubbiamente estensibile anche al presidente della provincia). Poi è intervenuta
la legge 3 agosto 1999 n. 265 che ha assegnato direttamente al sindaco o al presidente
della provincia, sentita la giunta, il compito di formulare il programma di governo,
senza prevedere una formale approvazione da parte del consiglio (art. 11, comma 10).
La materia è ora disciplinata dal testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali (D.Lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) che, per quanto interessa, dispone che : «Il sindaco
e il presidente della provincia nominano i componenti della giunta (...). Il sindaco e il
presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione;
- la circostanza che generalmente le disposizioni del D.Lgs. n. 267/2000 concernono
direttamente la motivazione del provvedimento, in conformità a quanto disposto dall’art. 3
legge 7 agosto 1990 n. 241 ed alla costante giurisprudenza di questo Consiglio, che da
tempo ha posto in luce la distinzione tra il provvedimento e la sua comunicazione o notificazione,
precisando l’irrilevanza, ai fini della validità del provvedimento stesso, della man-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 173
canza di motivazione nella comunicazione o notificazione (cfr., sez. IV n. 99 del 22 gennaio
1974; sez. VI n. 428 del 30 novembre 1976 e n. 470 del 7 aprile 1978) o della presenza di
eventuali irregolarità intervenute in esse (sez. IV n. 740 del 1 luglio 1980);
- l’anomalia del caso in esame rispetto all’enunciato principio generale, in quanto si
prevede una comunicazione motivata al Consiglio per la revoca dell’incarico di assessore,
senza preoccuparsi della giustificazione da rendere al diretto interessato e senza prevedere
uno specifico voto di ratifica da parte del consiglio stesso;
- congruenza della riscontrata anomalia nel contesto normativo illustrato, che tende a
favorire la effettiva gestione dell’amministrazione locale da parte del sindaco o del presidente
della provincia, senza curarsi eccessivamente dell’eventuale cessazione di singoli
assessori nello svolgimento quinquennale del mandato, purché ciò sia sostanzialmente condiviso
dal consiglio, anche implicitamente;
- la revoca dell’incarico di assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del
sindaco o del presidente della provincia e che la comunicazione motivata è tendenzialmente
diretta al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra sindacogiunta/
presidente provincia -giunta ed il consiglio comunale o provinciale, il quale
potrebbe eventualmente opporsi ad un atto del genere, ma con l’estremo rimedio della
mozione di sfiducia motivata (art. 37 legge n. 142/1990, come sostituito dall’art. 18 legge
n. 81/1993 ed art. 52 D.Lgs. n. 267/2000), che però comporta in caso di approvazione lo
scioglimento del consiglio stesso;
- l’obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell’incarico di un singolo
assessore (o di più assessori) va valutato nel descritto quadro normativo ed esso può senz
’altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrative, rimesse
in via esclusiva al sindaco o al presidente della provincia, tenendo conto sia di esigenze
di carattere generale, quali ad es. rapporti con l’opposizione o rapporti interni alla maggioranza
consiliare, sia di particolari esigenze di maggiore operosità ed efficienza di specifici
settori dell’amministrazione locale o per l’affievolirsi del rapporto fiduciario tra il
capo dell’amministrazione e singolo assessore; tenendo presente che trattasi non di un
tipico procedimento sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente
sindacabile in sede di legittimità se non sotto i profili formali e l’aspetto dell’evidente
arbitrarietà, in relazione all’ampia discrezionalità spettante al capo dell’amministrazione
locale (cfr., con riferimento alla revoca del presidente del consiglio comunale ed alla revoca
di un consigliere comunale componente di una comunità montana, le recenti decisioni
di questa sezione, rispettivamente, n. 1042 del 3 aprile 2004 e n. 5864 del 7 settembre
2004).
7.2. Prima di esaminare il profilo in base al quale è stato accolto il ricorso dal TAR
(mancanza della comunicazione di avvio del procedimento), si rende opportuno esaminare
il problema della sussistenza o meno nel caso in esame di una motivazione, riproposto dal
ricorrente originario.
Su punto va condiviso quanto statuito dal TAR.
Invero, anche se il provvedimento di revoca dell’incarico di assessore in data 30 luglio
2003 è formalmente privo di motivazione, limitandosi ad enunciare l’opportunità di procedere
alla revoca dell’incarico, una qualche motivazione emerge dalla lettera di accompagnamento
del provvedimento impugnato prot. n. 22842 del 30 luglio 2003 inviata dal Sindaco
al sig. P.
Inoltre, se è vero che, come dichiarato dal ricorrente, la lettera (recapitata tramite posta)
è pervenuta successivamente alla consegna del provvedimento impugnato (notificato trami-
174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
te messo comunale), tuttavia è da ritenersi che essa faccia parte integrante del procedimento
sotto il profilo motivazionale.
Pertanto, essendo stato dedotto in appello solo il vizio della mancanza di un qualsivoglia
apparato giustificativo (senza contestare in alcuno modo le ragioni addotte dal Sindaco:
dichiarazioni apparse sulla stampa, inadempienza alle funzioni delegate da martedì scorso;
mancata presenza alla riunione del 29 luglio 2003; autosospensione di fatto dall’incarico),
la relativa doglianza non può che essere rigettata.
7.3. Residua il problema della necessità o meno della comunicazione dell’avvio del
procedimento di revoca dell’incarico di assessore.
7.3.1. La giurisprudenza finora intervenuta sulla specifica questione è alquanto incerta,
ritenendosi in alcune sentenze la normale applicabilità degli artt. 7 e 8 legge n. 241/1990
e successive modificazioni (V. TAR Puglia, Lecce, sez. 2°, n. 4740 del 14 luglio 2003; TAR
Friuli Venezia Giulia n. 478 del 28 maggio 2005; TAR Molise n. 235 del 28 marzo 2006),
mentre in altre occasioni o si è escluso del tutto l’obbligo della comunicazione di avvio del
relativo procedimento per la particolarità della fattispecie (V. TAR Sicilia, Palermo, sez. 1°,
n. 466 del 5 marzo 2004 ed il parere di questo Consiglio n. 4391/2005 del 12 aprile 2006)
oppure sono stati prospettati dubbi al riguardo (V. ordinanza di questa Sezione n. 2639 dell’8
giugno 2004, riguardante proprio la controversia in esame, e la decisione di questa Sezione
n. 944/2005, già citata).
Il Collegio ritiene che la revoca dell’incarico di assessore comunale sia immune dalla
previa comunicazione dell’avvio del procedimento in considerazione della specifica disciplina
normativa vigente in materia, come in precedenza illustrata.
Invero, le prerogative della partecipazione possono essere invocate quando l’ordinamento
prende in qualche modo in considerazione gli interessi privati in quanto ritenuti idonei
ad incidere sull’esito finale per il migliore perseguimento dell’interesse pubblico, mentre
tale partecipazione diventa indifferente in un contesto normativo nel quale la valutazione
degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma
la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’amministrazione del
Comune nell’interesse della comunità locale, con sottopozione del merito del relativo operato
unicamente alla valutazione del consiglio comunale (è sostanzialmente in tal senso il
parere di questo Consiglio, Sez. 1°, n. 4391/2005, già citato).
Il relativo procedimento è perciò semplificato al massimo per consentire un’immediata
soluzione della crisi intervenuta nell’ambito del governo locale, articolandosi nei
seguenti passaggi: valutazione della situazione da parte del sindaco, scelta sindacale di
modificare la composizione della giunta nell’interesse della comunità locale e comunicazione
motivata di ciò al consiglio comunale, senza l’interposizione della comunicazione
dell’avvio del procedimento all’assessore assoggettato alla revoca, la cui opinione è
irrilevante per la normativa attuale salvo che non venga fatta propria dal consiglio comunale.
D’altra parte, nel caso in esame deve ritenersi inutile la comunicazione dell’avvio del
procedimento anche in relazione alle specifiche lamentele prospettate dall’appellante incidentale
in questo grado di giudizio, atteso che essendo stata rigettata l’unica doglianza sollevata
con riferimento alla mancanza di motivazione del provvedimento di revoca dell’incarico,
l’apporto dell’interessato non potrebbe comunque modificare la decisione sindacale,
che nel merito risulta incontestata.
8.- Per quanto considerato, deve essere accolto l’appello principale del comune e
respinto l’appello incidentale del ricorrente originario.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 175
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei due gradi di giudizio,
in relazione ai diversi orientamenti giurisprudenziali illustrati.
P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l’appello
principale e respinge l’appello incidentale e, in riforma della sentenza del TAR, respinge
il ricorso originario.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 ottobre 2006».
176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177
La d.i.a. Un nuovo silenzio?
(Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 22 febbraio 2007, n. 948)
SOMMARIO: 1.– Decisione del Consiglio di Stato, sez. V, del 22 febbraio 2007 n. 948. 2.-
Verso un nuovo assetto della d.i.a.? a) Necessità di un nuovo orientamento a seguito della
Legge 80/2005. b) T.A.R. Abruzzo, 11 marzo 2004, n. 267. c) La d.i.a. come meccanismo
opposto all’autorizzazione. d) (segue) La d.i.a. può venire intrapresa prima del decorso del
termine entro cui l’Amministrazione può inibire l’attività. e) Verso un nuovo tipo di silenzio
significativo? Il silenzio-rinuncia.
1. Decisione del Consiglio di Stato, sez. V, del 22 febbraio 2007, n. 948
Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato ritorna sulla questione
dei meccanismi a tutela del terzo controinteressato avverso la d.i.a. E lo fa
ribadendo la posizione già consolidata di Palazzo Spada (1).
Nel caso di specie, il giudice di primo grado, il T.A.R. Toscana (sentenza
n. 2617 del 27 maggio 2005), aveva ricordato che “al silenzio tenuto
dall’Amministrazione comunale a fronte di una denunzia di inizio di attività
edilizia non può essere attribuito il valore né di un tacito atto di assenso all’esercizio
delle attività denunciate dal privato né di un implicito provvedimento
positivo di controllo a rilevanza esterna, ma piuttosto di un mero comportamento,
rapportabile, sul piano degli effetti legali tipici, ad un’attività di
verifica conclusasi positivamente… e quindi inidonea di per sé a sostanziare
un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente
impugnabile in sede giurisdizionale con un’azione di annullamento”. Da ciò
conseguiva che “l’azione di annullamento proposta dal ricorrente, che rispetto
alla denunzia de quo riveste la posizione di terzo, si risolve in una domanda
di accertamento [...] nei limiti della verifica dei cennati necessari presupposti
per il rilascio dell’autorizzazione commerciale che su quella d.i.a. si è
fondata”. Tuttavia, se il T.A.R. dichiarava, tra l’altro, “l’inefficacia della
d.i.a. edilizia 28 maggio 2003”, il giudice d’appello riformava la sentenza.
Ribadiva così il Consiglio di Stato che “l’unico rimedio esperibile da
parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale
l’Amministrazione non abbia esercitato alcuna potestà repressiva consiste
nel rivolgere formale istanza all’Amministrazione e nell’impugnare l’eventuale
silenzio-rifiuto su di essa formatosi”. Veniva così confermato l’orientamento
già espresso dalla quarta sezione il 22 luglio 2005, con la decisione n.
(1) Per un’attenta ricostruzione delle posizioni espresse in materia, vd. da ultimo I.
MORICCA, La natura della d.i.a. e la tutela giurisdizionale dei terzi, in Rass. Avv., 4/2006,
pp. 358 e ss.
178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
3916. Secondo tale orientamento, nella d.i.a. sarebbe necessario distinguere
“tra due distinti rapporti: quello tra denunciante e amministrazione e quello
che riguarda i controinteressati all’intervento”. Tali rapporti, pur attenendo a
una medesima vicenda sostanziale, potrebbero così essere tenuti distinti sul
piano delle tutele, anche in considerazione della diversità dei poteri di cui
dispone l’amministrazione.
Palazzo Spada conferma l’orientamento tradizionale secondo cui, nei rapporti
tra denunciante e amministrazione, la denuncia di inizio attività si porrebbe
come atto di parte. Tale atto, pur in assenza di un quadro normativo di
vera e propria liberalizzazione dell’attività, consentirebbe al privato di intraprendere
un’attività in relazione all’inutile decorso di un termine cui è legato,
a pena di decadenza, il potere dell’amministrazione di inibire l’attività.
Per quanto riguarda la posizione del terzo, questi rimarrebbe comunque
estraneo alla d.i.a., sul piano normativo della qualificazione degli interessi,
proprio perché la norma sulla denuncia di inizio attività non lo prende formalmente
in considerazione. Egli non potrebbe quindi opporsi all’attività del
privato in sede di giurisdizione amministrativa. Così, una volta decorso il
termine senza che la P.A. abbia esercitato il suo potere inibitorio, il terzo
“sarà legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti
sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del
silenzio, che pertanto non avrà, né potrebbe avere, come riferimento il potere
inibitorio dell’amministrazione – essendo decorso, a tacer d’altro, il relativo
termine, con la conseguenza, sottolineata in dottrina, che il giudice non
potrà costringere l’amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta
– bensì il generale potere sanzionatorio, salvo poi a stabilire se tale potere
abbia carattere vincolato (come ritengono i più) o sia comunque esercitabile
alla stregua dei princìpi dell’autotutela [...]”.
Tale tesi da un lato consentirebbe di attenuare i profili critici di ordine
generale cui conduce l’utilizzazione normativa della denuncia di inizio attivit
à in termini di semplificazione procedimentale anzi che di supporto ad
attività liberalizzate; dall’altro, consentirebbe “di assicurare la tutela dei terzi
in termini ragionevoli con lo strumento del silenzio, secondo uno schema più
lineare e quindi semplice, rispetto alle variegate ipotesi cui in pratica possono
condurre le altre tesi sin qui prospettate, tutte accomunate dal non irrilevante
problema della precisa individuazione dell’oggetto del giudizio”.
Il Collegio conclude affermando che non potrebbero essere condivise né
la tesi per cui oggetto dell’impugnativa sono gli effetti della d.i.a. – che
sarebbe stata implicitamente avvalorata dal T.A.R. Toscana – , né la tesi che
configura la d.i.a. come un provvedimento tacito.
2. Verso un nuovo assetto della d.i.a.?
a) Necessità di un nuovo orientamento a seguito della Legge 80/2005
La sentenza 948 si colloca esattamente nel segno della giurisprudenza
più recente del Consiglio di Stato. Pur essendo resa in materia di d.i.a. edilizia,
sembra che le indicazioni in essa contenute possano comunque venire
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179
intese come applicabili anche all’istituto di cui all’art. 19 Legge 241/1990.
Invero, tale impianto lascia insoluti alcuni problemi pratici e giuridici.
La pronuncia in esame continua a basarsi su una particolare qualificazione
della d.i.a. Tramontata definitivamente l’idea secondo cui l’oggetto dell’impugnazione
sarebbe direttamente la dichiarazione del privato (2), ed accettata
l’idea secondo cui la dichiarazione di inizio di attività si configurerebbe come
un atto di iniziativa privata, il Consiglio di Stato afferma che la legittimazione
all’esercizio dell’attività non sarebbe fondata su un atto di consenso della P.A.,
ma troverebbe la propria fonte direttamente nella legge. Non sussistendo un
vero e proprio provvedimento da annullare, la tutela del terzo passerebbe quindi
attraverso la sollecitazione del potere sanzionatorio o di autotutela della P.A.
In caso di inerzia di quest’ultima, sarebbe esperibile il meccanismo a tutela del
privato contro il silenzio di cui all’art. 21 bis Legge 1034/1971 (3).
(2) Secondo parte della giurisprudenza, il terzo che si ritenesse leso potrebbe così
impugnare direttamente la dichiarazione. Questa opinione è stata suffragata da una parte
della giurisprudenza. Il T.A.R. Veneto (sent. 3405/2003) ha infatti ritenuto, in materia di
d.i.a. edilizia, che la dichiarazione costituisce il titolo abilitativo vero e proprio, non essendo
prevista l’emanazione di alcun tipo di provvedimento. In altri termini, secondo il giudice
di Venezia, “la d.i.a., nel disegno della l. n. 662/1996, si comporta allo stesso modo della
vecchia autorizzazione tacita: cioè come un titolo che si forma silenziosamente, con il possesso
di tutti i requisiti formali e sostanziali prescritti”. Prosegue il T.A.R. Veneto asserendo
che tale assunto sarebbe avvalorato dall’art. 23 del T.U. sull’edilizia come modificato dal
D.Lgs. 301/2002. Si legge infatti in tale norma che “la sussistenza del titolo è provata con
la copia della denuncia di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della denuncia,
l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato,
nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”. La d.i.a. non sarebbe quindi un’attivit
à privata, bensì un “titolo abilitativo, che proviene dall’Amministrazione, sia pure in
forma silenziosa o per inerzia (cioè, per non aver la P.A., nel termine perentorio stabilito
dalla legge, il proprio potere inibitorio)” Infatti, se la d.i.a. fosse un atto privato, al quale la
P.A. resta estranea, “tranne che per [...] eventualmente sanzionare l’attività non conforme
alle norme, sarebbe del tutto priva di logica, in quanto non avrebbe senso prevedere l’annullamento
del titolo [...] essendo sufficiente l’intervento successivo/repressivo”.
Non sembra tuttavia che oggetto dell’impugnazione possa essere direttamente la
dichiarazione. La d.i.a. è infatti comunque un atto proveniente da un privato, che non
potrebbe in alcun modo assurgere alla dignità provvedimentale, neanche se combinata con
altri elementi. La stessa P.A. è solamente destinataria della dichiarazione.
Sul piano giurisdizionale, il terzo potrebbe solamente adire il giudice ordinario, richiedendo,
se del caso il risarcimento del danno, ma difficilmente potrebbe ottenere soddisfazione
su altri piani. Infatti, neanche in materia edilizia un’azione di denuncia di opera nuova,
in presenza del titolo legittimante della d.i.a., potrebbe essere utilmente esperita.
La giurisprudenza ha peraltro più volte ribadito che la d.i.a. costituisce un atto privato,
con ciò escludendo la possibilità che essa stessa sia oggetto di una censura davanti al T.A.R..
Si veda da ultimo Cons. Stato, sez. V, 22 luglio 2005, n. 3916; precedentemente, Cons. St.,
sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453 (su cui vd. Urb. e App., 2003, pp. 837 ss., con nota di A.
MANDARANO, Denuncia di inizio attività e sindacato del giudice amministrativo), nonché
T.A.R. Marche, 7 luglio 2003, n. 315; T.A.R. Marche, 6 dicembre 2001, n. 1241; T.A.R.
Liguria, 22 gennaio 2003, n. 113.
(3) Da ultimo, Cons. Stato, sez. IV 22 luglio 2005, n. 3916.
Tale tesi, tuttavia, non risolve il nodo del potere di autotutela della P.A..
La teoria in esame porterebbe a ritenere che non sia presente un provvedimento
amministrativo in senso proprio. In tal caso, però, non sarebbe agevole
capire quale sia l’oggetto su cui la P.A. può esercitare il potere di autotutela.
Infatti, fatto salvo il caso di un intervento volto ad inibire l’attività, non
si riscontrerebbe alcun provvedimento da annullare o revocare.
Si potrebbe allora ritenere che oggetto dell’autotutela possa essere unicamente
un eventuale provvedimento inibitorio adottato dalla P.A. In questo
caso, non si porrebbe neanche un vero problema di legittimazione all’impugnazione
del terzo, visto che egli non avrebbe motivo di intervenire, né, presumibilmente,
alcun interesse ad agire. Una simile ricostruzione avrebbe
però la pericolosa conseguenza di impedire alla P.A. qualunque intervento su
un’attività esercitata da un privato in assenza dei presupposti di legge e non
inibita nei trenta giorni successivi alla d.i.a. Questo, naturalmente, non pare
accettabile.
La giurisprudenza ha tuttavia ritenuto questo rilievo privo di pregio. Il
Consiglio di Stato, sez. V, nella pronuncia n. 3586 del 19 giugno 2006, ha
affermato che “si tratterà [...] di un’autotutela sui generis poiché non andrà
ad incidere su un atto amministrativo, ma consisterà nella possibilità per la
P.A. di adottare, successivamente alla scadenza del termine di trenta giorni
dalla comunicazione di avvio dell’attività, provvedimenti di divieto di prosecuzione
della stessa e di rimozione dei suoi effetti, condizionata, però,
dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto, ulteriore e diverso
rispetto a quello volto al mero ripristino della legalità violata”. Sulla base
di ciò, Palazzo Spada ha potuto affermare che “il riferimento all’autotutela
può, quindi, spiegarsi anche restando nei confini della linea interpretativa
secondo cui la d.i.a. è un atto del privato” (4).
Bisogna tuttavia considerare che tale pronuncia è stata resa in una fattispecie
disciplinata dalla Legge 241 prima della novella del 2005. A seguito
delle modifiche introdotte dalla Legge 80/2005, l’art. 19 della legge sul
procedimento (che disciplina la d.i.a.) fa ora espresso rinvio agli art. 21
quinquies e 21 nonies. Tali norme, a loro volta, fanno espresso riferimento
ad un “provvedimento amministrativo” (5). Questo significa che, sotto la
180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(4) In tal senso anche T.A.R. Campania, 28 aprile 2006, n. 3858: nel caso di mancato
esercizio del potere inibitorio da parte della P.A., non si forma alcun provvedimento di silenzio-
assenso suscettibile di impugnazione. La tutela del terzo opponente passerebbe allora
necessariamente attraverso la procedura disciplinata dall’art. 21-bis, legge n. 1034 del 1971,
fermo restando che tale procedura non potrebbe avere come riferimento l’esercizio del potere
inibitorio dell’Amministrazione (perché il giudice non può evidentemente costringere
l’Amministrazione ad esercitare un potere da cui è decaduta), bensì il generale potere di
repressione degli abusi edilizi che non soggiacerebbe ad alcun termine di decadenza.
(5) Parte della dottrina ha tuttavia ritenuto che il richiamo al potere di autotutela sia in
realtà una “fictio iuris da un lato ispirata a recepire il ricordato orientamento giurisprudenziale
creativo dell’intervento repressivo oltre i termini e, dall’altro, atta a differenziare tale
vigente legislazione, se si vuole evitare di forzare la lettera della norma,
occorre individuare un provvedimento su cui esercitare l’annullamento
d’ufficio e la revoca (6). La teoria del potere di autotutela sui generis ne
risulta pertanto fortemente indebolita. Allo stato attuale, sembra che il
meccanismo della d.i.a. debba necessariamente implicare un provvedimento,
seppur tacito. Tale provvedimento, così come potrà essere oggetto di
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181
ultimo controllo da quello speciale e vincolato attuabile nei termini decadenziali di cui
all’art. 19”. La novella avrebbe così “solo subordinato l’esercizio del potere di inibizione e
di sanzione di interventi assoggettati a d.i.a., una volta che sia inutilmente decorso il termine
di decadenza entro il quale va attuato il potere vincolato di controllo, alla ricorrenza dei
presupposti richiesti dagli artt. 21 – quinquies e 21 – nonies per l’adozione dei provvedimenti
di secondo grado quali l’annullamento e la revoca. Adifferenza, quindi, dell’intervento
repressivo nei termini, che ha carattere vincolato ed è estinguibile, il potere di autotutela
esercitabile oltre i termini [avrebbe] natura discrezionale e [sarebbe] attuabile solo nel
rispetto dei principi e delle norme regolanti l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio
e di revoca, vale a dire solo in presenza di un interesse pubblico prevalente, entro un termine
ragionevole e previa ponderazione dell’interesse pubblico con quello del destinatario e
dei controinteressati” (A. GRAZIANO, La denuncia di inizio attività nella l. 80/2005 secondo
l’ultima giurisprudenza. Natura giuridica dell’istituto, autotutela della P.A. e tutela giurisdizionale
del controinteressato, in www.giustizia-amministrativa.it).
(6) Così, il T.A.R. Abruzzo, con la sentenza 494/2005 ha ribadito la tesi della natura
complessa della d.i.a. La possibilità dell’esercizio dei poteri di autotutela da parte
dell’Amministrazione sarebbe indice della presenza di un provvedimento nel meccanismo
della d.i.a.. Il Collegio di Pescara ha così ritenuto che “il legislatore abbia in realtà considerato
la denunzia di inizio di attività come un atto abilitativo tacito formatosi a seguito della
denuncia del privato e della successiva inerzia dell’Amministrazione”. Su tale provvedimento
implicito il Comune potrebbe esercitare i propri poteri di autotutela “solo ove ricorrano
i presupposti di legge (ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole, esame degli
interessi del destinatario e dei controinteressati); solo, infine, dopo l’adozione di tali provvedimenti
di secondo grado (revoca o annullamento d’ufficio) possono poi essere assunti
eventuali provvedimenti sanzionatori”.
Sulla base di ciò, il T.A.R. Abruzzo ritiene che con la nuova formulazione del predetto
art. 19 il legislatore abbia nella sostanza aderito alla tesi che ha qualificato la d.i.a. come
un atto abilitativo tacito.
Dal punto di vista del terzo controinteressato, secondo il TAR Abruzzo non sarebbe
possibile che questi diffidi l’amministrazione ad esercitare il potere di annullamento o di
revoca, ostandovi la giurisprudenza del Consiglio di Stato che nega l’esistenza in capo alla
P.A. di un obbligo di pronunciarsi sull’atto di diffida del privato volto ad ottenere che la P.A.
annulli o revochi un suo precedente provvedimento, stante l’ampia discrezionalità che caratterizza
l’esercizio del potere di autotutela (Cons. di Stato , sez. IV, 10 novembre 2003, n.
7136). Il terzo quindi non potrebbe innescare la procedura del silenzio – inadempimento in
ordine all’esercizio del potere di autotutela sulla d.i.a.
Il terzo che si ritenesse leso potrebbe quindi adire il T.A.R. al fine di vedere adottate
“le misure previste dal sistema volte a non far realizzare le opere non consentite”, ovvero al
fine di far rilevare “l’obbligo dell’Amministrazione di esercitare il potere di rimozione delle
opere realizzate senza titolo (con la possibilità che in sede cautelare sia sospesa l’attività edilizia
col conseguente obbligo di conformazione dell’Amministrazione o del Commissario in
sua vece nominato)”.
autotutela, potrà essere oggetto anche di impugnazione. Si tratta dunque di
individuarlo (7).
Il raffinato meccanismo della decisione n. 3586 non consente peraltro di
dare una sufficiente tutela al terzo controinteressato. Se è vero che la procedura
di cui all’art. 21 bis Legge 1034/1971 è piuttosto veloce, la costruzione
suggerita dalla decisione n. 3586 costringe il privato a esperire una procedura
assai più macchinosa di un’impugnazione diretta (8). Tra l’altro, nelle
more del giudizio, il soggetto autore della d.i.a. potrà comunque esercitare
l’attività dichiarata. Se anche il controinteressato riuscisse finalmente ad
ottenere una pronuncia del T.A.R. favorevole, potrebbero nel frattempo
essersi prodotti effetti irreversibili.
b) T.A.R. Abruzzo, 11 marzo 2004, n. 267
La ricerca di una soluzione al caso porta a rispolverare una sentenza del
T.A.R. Abruzzo emessa ormai tre anni fa. Si tratta della pronuncia dell’11
marzo 2004, n. 267. Tale sentenza affronta di petto l’oggetto dell’impugnazione
nelle controversie in tema di d.i.a. Così, i giudici di Pescara si soffermano
sull’eventuale inammissibilità del ricorso per la parte impugnatoria del
“provvedimento concessorio formatosi a seguito del decorso dei venti giorni
dalla presentazione della d.i.a.”.
Il Collegio parte dal presupposto che la controversia verte in materia
urbanistica ed edilizia, vale a dire in materia che l’art. 34 del D.Lgs. n. 80 del
1998, come sostituito dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000, ha devoluto alla
giurisdizione esclusiva del G.A. L’oggetto del giudizio può quindi essere
costituito da “atti, provvedimenti e comportamenti” delle amministrazioni
pubbliche. Alla luce di ciò, ritiene il T.A.R. Abruzzo che dovrebbe essere
ricompreso fra i comportamenti impugnabili anche “il comportamento di
non interdire ovvero consentire la realizzazione di un’opera che risulti conseguenza
(in quanto ad esso conforme) di uno strumento urbanistico che si
assuma illegittimo”.
Il T.A.R. rileva così che se la tesi che la d.i.a. sia un istituto volto a semplificare
l’attività delle due parti dirette del rapporto, da una parte l’Am-
182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(7) Rimane naturalmente la possibilità di continuare ad agire secondo il (più impegnativo)
meccanismo prospettato dalla decisione 3586 del Consiglio di Stato. Si veda infatti la
sentenza del T.A.R. Campania, sez. III, n. 2/2007, resa su un caso successivo alla riforma
della legge 241, con cui viene ammessa l’impugnazione di un silenzio rifiuto sull’istanza di
autotutela presentata dal privato.
(8) Si legge infatti nella pronuncia che “ la giurisprudenza, dopo iniziali oscillazioni,
sembra pervenuta ad un assetto definitivo, secondo il quale l’unico rimedio esperibile da
parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale l’Amministrazione
non abbia esercitato alcuna potestà repressiva, consiste nel rivolgere formale istanza
all’Amministrazione e nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi (cfr.
Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453)”.
ministrazione pubblica e dall’altra il soggetto privato che intenda intraprendere
quelle attività cui l’istituto stesso è applicabile, non sembra sostenibile,
occorre comunque evitare che il suo utilizzo possa appesantire la posizione
del terzo controinteressato, costringendolo a diffidare previamente
l’Amministrazione affinché questa proceda a verifica della stessa d.i.a. e
quindi, all’esito, esperire le azioni a difesa dei propri interessi o diritti.
Conclude il Collegio nel senso di ritenere esperibile, da parte del terzo,
“un’azione diretta a provocare in sede di giurisdizione esclusiva, secondo i
motivi dedotti, un sindacato da parte del giudice in ordine alla corrispondenza,
o meno, di quanto dichiarato dall’interessato e di quanto previsto dal relativo
progetto rispetto ai canoni normativi stabiliti per la realizzazione dell’attivit
à edilizia in questione”.
La pronuncia tuttavia, è stata resa prima dell’avvento della sentenza
della Corte Costituzionale 204/2004, e della Legge 80/2005. Così, sembra
restare a metà del guado in merito all’esistenza o meno di un provvedimento.
Secondo il T.A.R., infatti, l’istituto della d.i.a. “liberalizza l’accesso alle
attività edilizie cui è applicabile, sicché per queste non sussiste la subordinazione
ad un provvedimento amministrativo, in quanto le attività stesse sono
legittimate direttamente dalla legge”. Caratteristica fondamentale della d.i.a.
sarebbe proprio “il venir meno di un titolo provvedimentale di legittimazione,
lasciando in capo all’Amministrazione solo un potere di controllo con
carattere inibitorio che deve essere esercitato nel termine perentorio prescritto
dalla legge; ed il decorso di tale termine non ha come effetto la formazione
di un provvedimento tacito di assenso o concessorio”.
In tale circostanza il T.A.R. Abruzzo ha quindi dato prova di notevole
finezza giuridica individuando l’oggetto dell’impugnazione nel comportamento
della P.A., ma sotto la normativa vigente tale definizione non è più
sufficiente. Alla luce del richiamo espresso del potere di autotutela, che a sua
volta presuppone un provvedimento, ci si chiede se non sia possibile rinvenire
un provvedimento tacito.
La dottrina tende ad individuare vari tipi di silenzio significativo: silenzio-
assenso, silenzio-rigetto, silenzio-rifiuto, silenzio-inadempimento. E se
non fossimo di fronte ad un ulteriore tipo di silenzio?
Un’interpretazione innovativa permetterebbe forse di risolvere alcuni
dei problemi rimasti insoluti.
c) La d.i.a. come meccanismo opposto all’autorizzazione
È necessario in primo luogo fare un passo indietro, e partire dalla prima
funzione della d.i.a. Come è stato più volte correttamente affermato, la
dichiarazione di inizio attività è stata introdotta per liberalizzare determinati
settori. Non si tratta tanto di snellire l’azione amministrativa, bensì proprio
di liberalizzare attività, sottraendole al regime autorizzatorio precedente. Del
resto, tutto l’impianto della Legge 80/2005 è nel senso della liberalizzazione
delle attività.
La d.i.a. è pertanto un meccanismo molto diverso da quello dell’autorizzazione.
Infatti, l’autorizzazione è un atto volto a rimuovere un limite all’eser-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183
cizio dell’attività. La d.i.a., invece, postula un’attività già di per sé lecita. Se
pertanto l’attività è già lecita e consentita, non può essere presente un’istanza,
ma si rinviene invece una mera comunicazione. Dopo tutto, il primo esempio
di d.i.a. è presente addirittura nella Carta fondamentale, all’art. 17 (9).
Per tale motivo, il meccanismo del silenzio-assenso non può funzionare:
non può tecnicamente parlarsi di silenzio-assenso se non c’è un’istanza.
d) (segue) La d.i.a. può venire intrapresa prima del decorso del termine
entro cui l’Amministrazione può inibire l’attività
Vi sono anche altre ragioni per le quali non può applicarsi il meccanismo
del silenzio assenso. A ben guardare, infatti, nell’ambito della procedura
generale tracciata dalla legge, l’attività in questione potrebbe essere lecitamente
iniziata anche prima del decorso del termine necessario per la formazione
del silenzio significativo, secondo uno schema simile a quello che esisteva
fino al 2005.
Nella versione previgente al D.L. 35/2005, la d.i.a. si poneva in termini
diversi. Il privato poteva infatti denunciare l’inizio dell’attività e contestualmente
iniziare l’attività stessa. Con la riforma del 2005, si è creduto che tutto
fosse cambiato, perché apparentemente l’attività dichiarata non sembrerebbe
essere esercitabile prima del decorso del termine di 30 giorni necessario per
la formazione di quello che – forse impropriamente nel caso in esame – viene
chiamato silenzio assenso. Ebbene, questo cambiamento, se c’è stato, non è
così evidente.
In primo luogo, si rileva una piccola discrasia terminologica. Si legge
infatti nel secondo comma dell’art. 19 della legge sul procedimento che
“l’attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni
dalla data di presentazione della dichiarazione all’amministrazione competente
”. Il successivo terzo comma, invece, afferma che “l’amministrazione
competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e fatti
legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione
di cui al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell’attività e di rimozione dei suoi effetti”.
Potrebbe trattarsi anche di una mera imprecisione terminologica. Ma il
fatto che una norma parli di presentazione, ed il comma successivo parli di
ricevimento, non può non far ritenere che potrebbe esserci una discrasia temporale.
Qualora infatti la domanda venisse presentata tramite raccomandata
184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(9) Com’è noto, tale articolo disciplina la libertà di riunione. Così, dopo un postulato
generale circa il fatto che “i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi”, la
norma precisa che “per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso
”. Invece, “delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che
possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Non
è forse anche questo un meccanismo analogo a quello di avviso dello svolgimento di un’attivit
à di per sé lecita?
con ricevuta di ritorno (ove ammesso), vi sarebbe una differenza di due o tre
giorni tra il momento della presentazione e quello della ricezione, vale a dire
l’ordinario periodo di tempo necessario per recapitare una lettera. Con il
risultato che il privato potrebbe iniziare l’attività in pendenza della possibilit
à per l’amministrazione di esercitare il suo potere inibitorio.
Del resto, questa ricostruzione sarebbe avvalorata anche dal fatto che il
comma tre dell’art. 19 ripete espressamente il termine di trenta giorni, senza
richiamare minimamente la pendenza del termine del secondo comma.
Sembra dunque che il dies a quo da cui decorrono il termine per l’inizio dei
lavori da un lato e quello per l’esercizio dell’azione inibitoria dall’altro non
debbano necessariamente essere coincidenti.
Ariprova di questo sta anche il secondo periodo del secondo comma dell
’art. 19, che si richiama: “contestualmente all’inizio dell’attività, l’interessato
ne dà comunicazione all’amministrazione competente”. Orbene, a cosa
gioverebbe la comunicazione in esame se si fosse formato un silenzio assenso?
Lo scopo è quello di avvertire la P.A. del fatto che sta si sta iniziando
effettivamente l’attività denunciata (rectius: dichiarata). Da tale momento in
poi, pertanto, valgono tutte le congetture fatte sulla d.i.a. precedentemente
alla novella del 2005.
Pertanto, in pendenza del decorso del termine di trenta giorni, ben può il
denunciante iniziare l’attività. La funzione del termine è quella di rallentare l’inizio
dell’attività, in modo da consentire alla P.A. di intervenire quando i lavori
non sono ancora iniziati, o comunque quando non sono iniziati da troppo
tempo. In altri termini, la norma è assai utile, e va a tutelare il privato. Questi
potrebbe aver effettuato la valutazione circa la sussistenza dei presupposti di
legge per l’esercizio dell’attività con troppa leggerezza. In tal caso, egli potrebbe
essersi poi lanciato nell’attività iniziando i lavori in modo troppo precipitoso
rischiando di incorrere in una successiva diffida della P.A. dal continuare
l’attività, con la conseguente perdita patrimoniale dell’investimento effettuato.
La norma sarebbe quindi nel senso di rallentare l’attività del privato di un mese.
Il problema è risolto più radicalmente in materia edilizia, in quanto l’art.
23 del T.U. sull’edilizia stabilisce che “Il proprietario dell’immobile o chi
abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni
prima dell’effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia,
accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato
e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle
opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati ed ai regolamenti
edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie”. In questo campo, il momento della presentazione sembra
necessariamente coincidere con quello della ricezione della domanda, ed
i termini decorrono allora dal medesimo giorno, vale a dire dalla presentazione
della denuncia allo sportello.
Questa distinzione terminologica non è peraltro l’unico elemento che
porta a ritenere che l’attività possa essere esercitata prima che sia decorso il
periodo necessario alla formazione dell’eventuale silenzio-assenso. Il terzo
periodo del terzo comma dell’art. 19 citato recita infatti: “Nei casi in cui la
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185
legge prevede l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, il termine per
l’adozione dei provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione dei suoi effetti sono sospesi, fino all’acquisizione dei pareri, fino
a un massimo di trenta giorni, scaduti i quali l’amministrazione può adottare
i propri provvedimenti indipendentemente dall’acquisizione del parere.
Della sospensione è data comunicazione all’interessato”.
Tali disposizioni stabiliscono che viene sospeso il termine entro il quale la
P.A. può esercitare il potere inibitorio, di cui al medesimo terzo comma. Non
viene invece affatto sospeso quello che deve decorrere prima che il cittadino
possa iniziare l’attività – di cui al secondo comma. Il cittadino viene posto a
conoscenza del fatto che il termine è stato sospeso allo scopo di tutelarne l’affidamento,
vale dire di fargli conoscere quando la sua attività diventerà incomprimibile,
salvo l’esercizio del potere di autotutela (10). Tuttavia, stando alla
lettera della legge non è sospeso il decorrere del termine a conclusione del
quale egli potrà iniziare l’attività dichiarata. Pertanto, si può avere legittimamente
esercizio dell’attività anche prima che sia maturato il silenzio assenso.
In tal senso anche il fatto che la stessa legge parli anche di “rimozione
degli effetti”. Se l’attività non potesse essere intrapresa prima del decorso del
termine entro cui la P.A. la può inibire, quali effetti sarebbe mai necessario
rimuovere? Il legislatore sembra lasciar aperta la possibilità di un’attività
prima della scadenza dei termini assegnati all’Amministrazione.
Alla luce di tutto ciò, sorge un interrogativo: quale silenzio-assenso può
essere la d.i.a., se il privato può porre in essere l’attività prima dell’avvento
di quella che viene spesso chiamata del tutto impropriamente “autorizzazione
”? Lo stesso dicasi per la teoria della “fattispecie a formazione progressiva:
in realtà, sembra che la denuncia del privato non faccia in alcun modo
parte dell’agere amministrativo, ma pare invece che ne rappresenti soltanto
il presupposto logico ed indispensabile.
e) Verso un nuovo tipo di silenzio significativo? Il silenzio-rinuncia
Visto che pertanto il meccanismo del silenzio-assenso si attaglia così
male alla d.i.a., e considerato che anche il meccanismo della fattispecie a formazione
progressiva non può funzionare per gli stessi motivi.
In realtà, per capire quale sia la natura della d.i.a. e quale debba essere
l’oggetto dell’impugnazione forse bisognerebbe prendere le mosse dal fatto
che la P.A. può esercitare un potere di autotutela. Se è vero che, in via generale,
questo potere presuppone un provvedimento amministrativo, significa che
anche nel caso in esame tale provvedimento deve necessariamente essere presente.
E se detto provvedimento è presente, allora sembra proprio che esso
debba essere l’oggetto dell’impugnazione. Si tratta pertanto di individuarlo.
186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(10) Potere, questo, che si basa su autonomi presupposti, come da Cons. di Stato, sez.
V, nella pronuncia n. 3586 del 19 giugno 2006.
Come visto supra, il meccanismo è opposto a quello dell’istanza di
autorizzazione. Nella d.i.a., infatti, non è presente un’istanza del privato
volta ad ottenere l’assenso della P.A. su qualcosa, ma al contrario si tratta
di un’attività che, in linea generale, è consentita dall’ordinamento. Alla P.A.
non viene chiesta alcuna autorizzazione o rimozione di limiti, visto che si
tratta di un’attività libera (11). Tuttavia, all’amministrazione viene concessa
la possibilità di rifiutare ove questa ritenga non sussistenti le condizioni
per l’esercizio dell’attività. Quello che danneggia eventualmente il terzo è
il non esercizio di un potere amministrativo. È dunque in questo comportamento
inerziale che deve essere ravvisata la base del provvedimento. Per
aversi provvedimento, deve tuttavia aversi quantomeno un comportamento
significativo.
Non sarebbe allora configurabile una nuova tipologia di silenzio? Visto
che il meccanismo del silenzio – assenso non pare funzionare, non potrebbe
trattarsi di una nuova tipologia di silenzio, vale a dire il “silenzio – rinuncia”?
In altri termini la P.A. che non interviene a vietare l’attività denunciata
nella d.i.a. viene a rinunciare tacitamente al proprio diritto di divieto. E proprio
questa rinuncia sarebbe il provvedimento da impugnare.
Con questa ricostruzione verrebbe agevolata la ricerca circa la natura
della d.i.a. (che rientrerebbe definitivamente tra gli atti privatistici), verrebbe
giustificato adeguatamente l’esercizio del potere di autotutela e verrebbe
individuato l’oggetto dell’impugnazione. In questo modo, il privato sarebbe
esonerato dalla macchinosa procedura della diffida alla P.A. volta ad ottenere
l’esercizio del potere di autotutela per poi impugnare quest’ultimo eventuale
silenzio.
Rimarrebbe unicamente la difficoltà di trovare l’oggetto della revoca.
Se infatti la d.i.a. riguarda attività il cui esercizio dipenda esclusivamente
“dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi
a contenuto generale”, è chiaro che rimangono ben pochi margini per
l’esercizio di quella discrezionalità amministrativa che è presupposto della
revoca.
Dott. Benedetto Brancoli Busdraghi (*)
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187
(11) A tal fine, si fa presente che anche il comma 9 dell’art. 87 del D.Lgs. 259/2003 fa
riferimento al mancato diniego: “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui
al presente articolo, nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione
degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione
del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al comma
8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego”.
L’apporto di tale norme alla ricostruzione complessiva di tale istituto è tuttavia dubbio
proprio in ragione della peculiarità della variante d.i.a. in esso contenuta. Peraltro, anche su
tale fattispecie si registra la pronuncia del T.A.R. Campania, 23 dicembre 2005, n. 20645,
che configura ancora l’istituto come silenzio-assenso.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
Consiglio di Stato, sezione quinta, decisione 22 febbraio 2007 n. 948 – Pres. S. Santoro
– Rel. N. Russo – T.A.C.N. (Avv.ti A. Chiarelli, S. Nocentini) c/ T.L. S.C.A..R.L. (n.c.);
U.T. soc. coop. (Avv. A. Torricelli); Comune di [X] (Avv. D. Iaria); E.S. di N.T. & C.
S.A.S. (Avv. F. Falorni).
«Fatto – La Soc. Coop. T.L. è titolare di autorizzazione commerciale rilasciata dal
Comune di [X] in data 23 marzo 1990 per l’esercizio commerciale sito nel medesimo
Comune, avente una superficie di vendita di circa mq. 399,99.
L’area in cui ricade l’esercizio commerciale era ed è classificata, dal vigente piano di fabbricazione,
di tipologia “C” (residenziale), edificabile anche mediante piano di lottizzazione.
In tale zona, in data 29 giugno 1998, il Comune approvava un piano di lottizzazione
presentato per la realizzazione di un intervento edilizio ad uso prevalentemente residenziale;
di tale lottizzazione (insistente a poche centinaia di metri dall’esercizio commerciale
Coop) risultavano far parte anche alcuni fondi di proprietà dei signori T. A. C. e sui quali,
previo rilascio dei relativi titoli abilitativi da parte del Comune, venivano realizzati cinque
edifici, con destinazione residenziale ai piani terreno e primo, e non residenziale ai piani
seminterrati o interrati. Ultimati i lavori di costruzione, relativamente al seminterrato di uno
dei predetti cinque edifici, i proprietari, intendendo modificarne la destinazione d’uso per ivi
insediare una media struttura di vendita commerciale, presentavano al Comune una proposta
volta ad acquisire la proprietà di un terreno comunale adiacente all’immobile e necessario
nella prospettiva di dover dotare la struttura commerciale degli spazi a parcheggio previsti
dalla normativa; in relazione a ciò, e nelle more anteriori alla stipula della necessaria
convenzione, i proprietari presentavano due denunzie d’inizio di attività, una per cambio di
destinazione d’uso senza opere da garage a fondo commerciale e l’altra per i lavori per la
realizzazione del parcheggio oggetto della stipulanda convenzione. L’efficacia di quest’ultima,
approvata in schema dall’Amministrazione veniva sottoposta alla condizione dell’ottenimento
dei necessari atti di assenso sotto il profilo urbanistico-edilizio e commerciale
all’apertura della struttura di vendita in questione.
Infine, in data 22 luglio 2003, il Comune emanava, relativamente ai locali in questione,
un’autorizzazione commerciale per l’attivazione di una media struttura di vendita (per
una superficie complessiva di 750 mq) in favore della società E. che, quindi, avviava l’esercizio
commerciale.
La società Coop, pertanto, adìva il T.A.R. Toscana domandando l’annullamento dell
’autorizzazione commerciale, dell’atto di assenso edilizio, della deliberazione approvativa
dello schema di convenzione relativo al terreno adiacente e della conseguente convenzione
sottoscritta, deducendo i seguenti motivi:
1) “Eccesso di potere per sviamento e difetto dei presupposti – Violazione art. 19 della
legge n. 241/90 – Carenza di istruttoria e mancanza di motivazione – Violazione art. 15 del
regolamento edilizio del Comune di [X] – Violazione articolo 8 della legge Regionale n.
39/94 e art. 9 della Legge Regionale n. 52/99 – Violazione art. 97 della Costituzione”.
2) “Eccesso di potere per sviamento e carenza dei presupposti, con riferimento alla
autorizzazione commerciale n. 1/03 – Violazione art. 9 del Regolamento Regionale 26 luglio
1999 n. 4 nonché dell’art. 10 della deliberazione del Consiglio Regionale n. 137 del 25 maggio
1999 recante direttive per la programmazione urbanistica commerciale di cui alla Legge
Regionale 17 maggio 1999 n. 28. Violazione degli artt. 13 e 14 del Regolamento Comunale
sulla disciplina del commercio in sede fissa. – Eccesso di potere per contraddittorietà tra atti,
carenza di istruttoria e travisamento dei fatti”.
188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
3) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria e travisamento dei fatti. Carenza dei presupposti.
Violazione art. 2 delle N.T.A. del Piano di lottizzazione dell’art. 68 delle N.T.A.
del Piano di fabbricazione nonché dell’art. 9.2. del regolamento edilizio del Comune.
Insufficienza della motivazione e violazione art. 2. legge 241/90”.
4) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria e travisamento dei fatti – Carenza di
motivazione – Violazione art. 68 delle N.T.A. P.d.F. del Comune di [X] e dell’art. 10 delle
N.T.A. del P.d.L. (...). Violazione art. 9.2 del Regolamento urbanistico”.
5) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria e travisamento dei fatti nonché contraddittoriet
à tra gli atti – Eccesso di potere per sviamento – Violazione art. 4 Legge Regionale
Toscana n. 52/99 e artt. 9.2. del Regolamento edilizio del Comune di [X]. Violazione art. 62
punto 7 delle N.T.A. del Comune di [X] – Insufficienza della motivazione – Violazione art.
2 della legge n. 241/90”.
6) “Eccesso di potere per indeterminatezza e genericità e insussistenza dei presupposti.
Carenza di istruttoria e insufficienza della motivazione – Violazione art. 97 della
Costituzione. Illegittimità derivata per nullità della convenzione avente ad oggetto la cessione
di terreni necessari per il rispetto degli standards in materia di parcheggi – Violazione
art. 9 del Regolamento Regionale 26 luglio 1999 n. 4 art. 10 della Direttive regionali per la
programmazione urbanistica commerciale nonché dell’art. 14 del Regolamento comunale
sul commercio in sede fissa”.
7) “Eccesso di potere per sviamento – Violazione art. 40 della Legge Regionale
Toscana 5/95 e dei principi in materia di variazione degli strumenti urbanistici – Violazione
art. 97 della Costituzione”.
8) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria (sotto un ulteriore profilo) – Violazione
art. 11 del Regolamento comunale sulla disciplina del commercio in sede fissa del Comune
di [X] – Violazione art. 8 del Decreto Legislativo 114/98 e dell’art. 97 della Costituzione”.
9) “Eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria.
Contraddittorietà tra atti e carenza di motivazione”.
Si costituivano in giudizio l’Amministrazione intimata, i controinteressati proprietari
degli immobili e la controinteressata società titolare della nuova struttura, resistendo al
ricorso ed esponendo nelle successive e rispettive memorie le proprie argomentazioni difensive,
tra le quali eccezioni di irricevibilità ed inammissibilità del ricorso. Anche parte ricorrente
riassumeva in memoria le proprie tesi.
Con sentenza n. 2617 del 27 maggio 2005 la seconda sezione del T.A.R. adìto, in accoglimento
del terzo motivo di ricorso – e con implicito assorbimento degli altri motivi e previa
reiezione delle eccezioni di irricevibilità ed inammissibilità formulate dal Comune e dal
controinteressato – ha dichiarato l’inefficacia della d.i.a. edilizia presentata dai sigg.ri T. ed
altri in data 28 maggio 2003 ed ha annullato l’autorizzazione commerciale n. 1/2003, compensando
le spese di giudizio tra le parti.
Avverso detta sentenza hanno proposto appello la soc. N.G. di N.T. & C. s.a.s. (r.g. n.
5336/2005), la soc. E.S. di N.T. & C. s.a.s. (r.g. n. 5337/2005), il Comune di [X] (r.g. n.
6855/2005) e il sig. N. T. A. C. (r.g. n. 6856/2005).
La U. T. soc. Coop., stante l’assorbimento degli altri motivi di ricorso proposti dinanzi
al T.A.R., ha a sua volta proposto appello incidentale condizionato, riproponendo i motivi
di ricorso che il T.A.R. Toscana ha ritenuto, appunto, assorbiti e chiedendo che gli stessi
vengano esaminati neo caso in cui questo Consiglio ritenesse di dover riformare la sentenza
in accoglimento degli appelli principali proposti dalle controparti.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189
Con ordinanze n. 3485/2005 e 3486/2005 questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare
proposta dalle società N.G. ed E. In ragione della già disposta sospensione dell’efficacia
della sentenza impugnata, il sig. T. ed il Comune di [X] hanno rinunciato alla propria
domanda cautelare.
In vista dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie illustrative.
Tutti gli appelli, chiamati per la trattazione congiunta all’udienza pubblica del 16
dicembre 2005, sono stati trattenuti in decisione.
Diritto – Deve, preliminarmente, disporsi la riunione degli appelli in epigrafe, ai sensi
dell’art. 335 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, in quanto essi sono rivolti
avverso la medesima sentenza, n. 2617/2005.
Con tale sentenza il T.A.R. Toscana, premesso che “la posizione azionata dalla societ
à ricorrente si sostanzia primariamente nel censurare un provvedimento di rilascio di autorizzazione
commerciale in favore dei soggetti controinteressati … e la cui legittimità tuttavia
… deve essere vagliata alla stregua di tutti i presupposti della normativa urbanisticocommerciale
che l’Amministrazione è tenuta ad applicare” e ricordato che “al silenzio tenuto
dall’Amministrazione comunale a fronte di una denunzia di inizio di attività edilizia non
può essere attribuito il valore né di un tacito atto di assenso all’esercizio delle attività
denunciate dal privato né di un implicito provvedimento positivo di controllo a rilevanza
esterna, ma piuttosto di un mero comportamento, rapportabile, sul piano degli effetti legali
tipici, ad un’attività di verifica conclusasi positivamente … e quindi inidonea di per sé a
sostanziare un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente impugnabile
in sede giurisdizionale con un’azione di annullamento” con la conseguenza che, in tali
casi, “l’azione di annullamento proposta dal ricorrente, che rispetto alla denunzia de quo
riveste la posizione di terzo, si risolve in una domanda di accertamento … nei limiti della
verifica dei cennati necessari presupposti per il rilascio dell’autorizzazione commerciale
che su quella d.i.a. si è fondata”, ha ritenuto fondato il ricorso proposto da U.T. e, per l’effetto,
ha dichiarato “l’inefficacia della d.i.a. edilizia 28 maggio 2003” ed ha annullato l’autorizzazione
commerciale n. 1/2003.
La questione centrale della presente controversia attiene, dunque, al problema della
esperibilità dei rimedi da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a..
A tale proposito, la giurisprudenza, dopo iniziali oscillazioni, sembra pervenuta ad un
assetto definitivo, secondo il quale l’unico rimedio esperibile da parte del soggetto che si
ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale l’Amministrazione non abbia esercitato
alcuna potestà repressiva, consiste nel rivolgere formale istanza all’Amministrazione e nell
’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 settembre
2002, n. 4453).
La conferma di tale orientamento si ha in una recente decisione di questo Consiglio
(cfr. Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916). Secondo tale orientamento – che la Sezione
ritiene di dover condividere, non sussistendo valide ragioni per discostarsene – nella ricostruzione
del sistema cui dà luogo l’istituto della denuncia di inizio attività – con riferimento
particolare alla materia edilizia e alla normativa vigente anteriormente alle richiamate
modifiche legislative dell’istituto in generale, la cui portata innovativa sulla d.i.a. edilizia
non rileva nel presente giudizio – è necessario distinguere tra due distinti rapporti: quello tra
denunciante e amministrazione e quello che riguarda i controinteressati all’intervento. Tali
rapporti, pur attenendo a una medesima vicenda sostanziale, possono essere tenuti distinti
sul piano delle tutele, anche in considerazione della diversità dei poteri di cui dispone l’amministrazione.
Vero è, invece, che, proprio perché trattasi di situazioni direttamente collega-
190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
te all’esercizio di un potere pubblicistico dell’amministrazione cui possono contrapporsi
interessi legittimi dei vari interessati, le relative controversie rientrano comunque nella giurisdizione
del giudice amministrativo (salve le ipotesi di concorrenti azioni tra privati sulla
base delle norme del codice civile sui rapporti di vicinato).
Nei rapporti tra denunciante e amministrazione, la denuncia di inizio attività si pone
come atto di parte, che, pur in assenza di un quadro normativo di vera e propria liberalizzazione
dell’attività, consente al privato di intraprendere un’attività in correlazione all’inutile
decorso di un termine, cui è legato, a pena di decadenza, il potere dell’amministrazione, correttamente
definito inibitorio dell’attività. Sul piano pratico, rileva poco se, in forza di un’inversione
procedimentale, la fattispecie dia luogo, con la scadenza del termine, a un titolo
abilitativo tacito o al consolidarsi, per volontà legislativa, degli effetti di un atto di iniziativa
di parte. L’interessato potrà contestare l’esercizio del potere inibitorio, tale qualificato
dall’amministrazione, vuoi per motivi formali (decadenza dal termine), vuoi sul piano
sostanziale (sussistenza dei requisiti). A tale potere resta estraneo, sul piano normativo della
qualificazione degli interessi, colui che si oppone all’intervento, perché la norma sulla
denuncia di inizio attività non prende (ancora) formalmente in considerazione la sua posizione,
per qualificarla in senso legittimante, ed egli, in definitiva, non può opporsi, in sede
di giurisdizione amministrativa, all’attività del privato.
Una volta decorso il termine senza l’esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza,
generalmente ritenuta, del generale potere repressivo degli abusi edilizi, colui che si oppone
all’intervento, essendosi consolidata la fattispecie complessa che abilita, ex lege o ex actu
non rileva, il privato a costruire, sarà legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i
provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del
silenzio, che pertanto non avrà, né potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio dell
’amministrazione – essendo decorso, a tacer d’altro, il relativo termine, con la conseguenza,
sottolineata in dottrina, che il giudice non potrà costringere l’amministrazione a esercitare
un potere da cui è decaduta – bensì il generale potere sanzionatorio, salvo poi a stabilire
se tale potere abbia carattere vincolato (come ritengono i più) o sia comunque esercitabile
alla stregua dei princìpi dell’autotutela (come mostra di ritenere Cons. St., sez. VI, n.
4453/02, cit.).
La tesi esposta, da un lato, consente di attenuare i profili critici di ordine generale cui
conduce l’utilizzazione normativa della denuncia di inizio attività in termini di semplificazione
procedimentale anzi che di supporto ad attività liberalizzate; dall’altro, consente di
assicurare la tutela dei terzi in termini ragionevoli con lo strumento del silenzio, secondo
uno schema più lineare e quindi semplice, rispetto alle variegate ipotesi cui in pratica possono
condurre le altre tesi sin qui prospettate, tutte accomunate dal non irrilevante problema
della precisa individuazione dell’oggetto del giudizio, come si evince dallo stesso tenore
della sentenza impugnata, dal momento che il Tribunale ha, comunque, sindacato la legittimit
à d.i.a., ancorché quale mero presupposto per il rilascio della autorizzazione commerciale,
trasformando la domanda di annullamento della d.i.a., quale espressamente proposta
dalla società ricorrente, in una domanda di accertamento dei presupposti necessari al rilascio
dell’autorizzazione commerciale.
Non possono essere condivise, per quanto dianzi argomentato, né la tesi per cui oggetto
dell’impugnativa siano gli effetti della d.i.a. (tesi, sia pure non con assoluta linearità, sostenuta
dal primo giudice), né la tesi che configura la d.i.a. come un provvedimento tacito.
Alla luce di quanto sin qui esposto, ne consegue che la società ricorrente in primo
grado, come fondatamente dedotto dagli appellanti, avrebbe dovuto, per tutelare in sede giu-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191
risdizionale i propri interessi asseritamene lesi dalla presentazione della d.i.a. in questione,
diffidare il Comune di [X] a procedere alla verifica della legittimità dell’attività denunciata
attraverso l’esercizio dei poteri inibitori/repressivi ad esso spettanti in materia, per poi impugnare
l’eventuale silenzio serbato dall’Amministrazione comunale o, se del caso, il provvedimento
espresso adottato dalla stessa all’esito dell’avvenuta verifica.
La ricostruzione del sistema nei termini poc’anzi prospettati esclude in radice che tali
atti possano assumere valore provvedimentale, in quanto il principio di legalità e di conseguente
tipicità dei provvedimenti amministrativi esclude che possano essere inseriti nella
sequenza procedimentale provvedimenti non espressione di poteri tipici previsti dalla legge.
Ai fini, dunque, delle modalità di contestazione della realizzabilità dell’intervento da
parte del terzo non rileva che l’intervento medesimo sia escluso in radice dalla normativa
urbanistica o che lo stesso non potesse ritualmente essere avviato tramite d.i.a.: in entrambe
le ipotesi, occorre che il terzo stimoli il potere repressivo dell’amministrazione, diverse
potendo essere solo le conseguenze che derivino dall’accoglimento dell’asserito motivo di
illegittimità.
In definitiva, nel caso in esame, come fondatamente dedotto dagli appellanti, l’impugnazione
originaria è da considerare inammissibile, sicché il T.A.R. sarebbe dovuto prevenire
alla conclusione della inoppugnabilità della d.i.a. edilizia e, perciò, della sua persistente
idoneità a mutare la destinazione d’uso del locale da garage a fondo commerciale, dichiarando
inammissibili tutte le domande e le censure nei riguardi di essa proposte, ivi comprese
quelle – rimaste assorbite in prime cure – riproposte nel presente grado di giudizio attraverso
l’appello incidentale dalla U.T.
In conclusione, pronunciando sugli appelli riuniti, la Sezione, in riforma della sentenza
del Tribunale amministrativo, ritiene debba dichiararsi l’inammissibilità del ricorso originario.
In considerazione della complessità delle questioni trattate nonché della peculiarità
della vicenda in esame, ricorrono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese del
doppio grado di giudizio.
P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quinta, riunisce gli appelli,
proposti in via principale e incidentale, e, pronunciando sugli stessi, dichiara inammissibile
l’impugnazione originariamente proposta, in riforma della impugnata sentenza n.
2617/2005 del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 16 dicembre 2005».
192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S. – Parere del 10 marzo 2005 n. 33752.
Contenzioso Tributario in materia catastale. Giurisdizione sulle controversie
relative alle intestazioni delle unità immobiliari urbane (consultivo
1774/05, avvocato L. Caputi Iambrenghi).
«Codesta Agenzia, nella nota a riscontro, chiede di chiarire la reale portata
dell’art. 2 comma 2 del D.Lgs. 546/1992 in relazione alla sua formulazione
letterale. Con riferimento infatti ai terreni, il comma citato devolve alla
giurisdizione delle Commissioni Tributarie “…le controversie promosse dai
singoli possessori concernenti l’intestazione, la figura, l’estensione, il classamento
... e la ripartizione dell’estimo tra i compossessori a titolo di promiscuit
à di una stessa particella...”, mentre per le unità immobiliari urbane la
giurisdizione è limitata letteralmente alle “…controversie concernenti la
consistenza il classamento ... e l’attribuzione della rendita catastale”.
In altri termini il dubbio attiene alle controversie relative alla “intestazione
catastale” delle unità immobiliari urbane, non espressamente citate
nella norma in esame.
Pare a questa Avvocatura che le premesse concettuali da cui prendere le
mosse siano costituite dalla natura giuridica e dalla funzione del catasto.
Per quanto attiene al primo aspetto, è opinione diffusa in dottrina
(RUMBOLD in Enciclopedia del Diritto, Vol. VI, voce Catasto) che il catasto
integri un insieme di atti e registri contenenti i risultati di operazioni di accertamento,
misurazione e stima che, con riferimento ai beni immobili ne stabiliscono
la consistenza, le persone alle quali appartengono e la rendita.
In altri termini il catasto ha una valenza descrittiva, risolvendosi in un
inventario generale dei beni immobili con l’indicazione della loro capacità di
reddito, espressa nella rendita, nonché delle persone che li possiedono.
Per quanto attiene al secondo aspetto, il catasto, e per esso la rendita
catastale, nel solco di una antica tradizione di politica tributaria, è utilizzato
per la determinazione della base imponibile di numerose imposte, criterio
questo che da tempo ha superato il vaglio del giudice delle leggi (cfr. Corte
I P A R E R I
D E L C O M I TAT O
C O N S U LT I V O
Costituzionale sent. n. 16/1965) e che risponde, peraltro, ad esigenze di semplificazione
e rapidità dell’accertamento, nonché di economia processuale.
Sulla base ditali premesse, va anzitutto osservato che natura e finalità del
Catasto urbano sono identiche a quelle del Catasto terreni.
Va poi sottolineato che, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. 650/1972 (richiamato
anche dalla più recente normativa sulla utilizzazione di procedure telematiche
in subiecta materia: v. art. 5 d.P.R. 308/2000), le norme sulle volture
dettate per il Catasto terreni “regolano anche le volture dei beni iscritti nel
Catasto edilizio urbano” (che attengono appunto alle intestazioni delle partite
catastali).
Le controversie che dall’esecuzione/non esecuzione delle anzidette formalit
à possono sorgere appaiono essere quindi dello stesso tipo per i terreni
e per le unità immobiliari urbane. In particolare, tenuto conto dell’essenziale
differenza tra titolarità del bene ed intestazione catastale del medesimo (v.
parere cs. 52698/04), le controversie inerenti a quest’ultime attengono sempre
e comunque al rispetto delle nonne specificamente dettate per la tenuta e
conservazione del Catasto, rispetto alle quali identica è la situazione soggettiva
dell’interessato.
Non si ravvisano pertanto motivi per una diversificazione di giurisdizione
ed una ipotetica competenza dell’A.G.O. in materia di intestazioni catastali
per le unità immobiliari urbane (…)».
A.G.S. – Parere del 18 dicembre 2006 n. 144804.
Indennità corrisposta ai sensi dell’articolo 7, comma 2, O.P.C.M. n.
3379 del 5 novembre 2004. Funzionari prefettizi in posizione di comando
presso la struttura commissariale (consultivo 8453/06, avvocato D.
Ranucci)
«Il commissario delegato per l’emergenza ambientale in Calabria, premesso
che un viceprefetto in servizio presso la Prefettura di Bari è utilizzato
presso la struttura commissariale, con funzione di “responsabile amministrativo
”, ha chiesto parere in ordine alle seguenti questioni:
1) se la indennità da corrispondere al predetto funzionario, ex art. 1 co.
9° e 10° O.P.C.M. n. 3343/2004, richiamato dall’art. 7 comma 2° O.P.C.M.
n. 3379/2004, abbia o meno natura di emolumento accessorio;
2) se avendo il Ministero dell’Interno sospeso la corresponsione dell’indennit
à di posizione al funzionario prefettizio, comandato o collocato fuori
ruolo ai sensi dell’articolo 25 comma 1 del D.Lgs. 139 del 2000, tale indennit
à debba continuare ad essere erogata dalla struttura commissariale.
I due quesiti non sono in sequenza logica necessaria. Inoltre, mentre il
secondo di essi concerne l’Ufficio Commissariale, il primo interessa anzitutto
ed essenzialmente l’amministrazione dell’Interno.
Al secondo quesito è agevole rispondere che la struttura commissariale
né deve né può erogare l’indennità di posizione “in sostituzione” dell’amministrazione
(prefettizia) di appartenenza, la quale abbia, per qualsivoglia
ragione, “sospeso” l’erogazione di detta indennità.
194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La struttura commissariale è tenuta a corrispondere, con proprie risorse,
la particolare indennità mensile prevista dalle citate ordinanze, non anche ad
assicurare comunque al personale di cui si avvale un livello retributivo complessivo
non inferiore alla addizione della remunerazione che avrebbe ottenuto
rimanendo in servizio presso l’amministrazione di provenienza più
l’anzidetta indennità mensile.
La risposta al primo quesito risulta meno agevole, anche perché non è
esplicitato a quali effetti – di interesse dell’Ufficio Commissariale (e non del
Ministero dell’Interno) – esso sia stato posto.
Nella nota 26 gennaio 2006 n. 1054 è riferito che l’indennità mensile
erogata al “responsabile amministrativo” in questione è stata nel settembre
2004 commisurata ad un “trattamento economico annuo”, che parrebbe riferito
all’anno solare 2003; trattamento includente l’indennità di posizione
quantificata nella misura minima (euro 16.553).
Giova precisare che non è prospettato dubbio circa il periodo di tempo
cui la quantificazione in concreto del “100% degli emolumenti allo stato in
godimento” debba essere riferita; appare peraltro palese che detto periodo
deve essere individuato secondo un costante criterio oggettivo.
Comunque il secondo quesito attiene alla interpretazione dell’art. 21
comma 4 del d.P.R. 23 maggio 2001 n. 316, di recepimento di accordo ai
sensi del D.Lgs. 10 maggio 2000 n. 139; detto art. 21 (intitolato retribuzione
di posizione) reca al comma 4 una disposizione a favore dei funzionari
prefettizi comandati o fuori ruolo “ ai quali non vengano corrisposti emolumenti
accessori a qualsiasi titolo” o i predetti emolumenti “vengano corrisposti
in misura inferiore agli importi…”.
La disposizione non altera il (e non deroga al) principio stabilito dall’art.
20 del D.Lgs. 19 maggio 2000 n. 139, secondo cui la retribuzione di posizione
è “correlata alle posizioni funzionali ricoperte ed agli incarichi ed alle
responsabilità esercitati”.
Ciò posto questa Avvocatura ritiene che l’indennità di cui all’art. 1
O.P.C.M. n. 3343/2004, richiamato dall’art. 7 O.P.C.M. n. 3379/2004, abbia
natura soggettivamente accessoria, nel senso cioè di costituire un accessorio
del trattamento economico fisso, che il funzionario continua a percepire, a
carico dell’amministrazione di provenienza, in ragione della sua qualifica.
Considerato che il funzionario prefettizio conserva la propria retribuzione
pur quando sia collocato fuori ruolo o comandato presso altra amministrazione,
l’indennità ulteriore che l’ufficio di destinazione gli versa è attribuita,
non per il grado occupato o la funzione esercitata dallo stesso nell’ambito
della Amministrazione dell’Interno, ma in relazione alle diverse e specifiche
competenze attribuite nel caso concreto.
Da ultimo si rileva che le ordinanze di protezione civile esaminate appaiono
effettivamente non sufficientemente chiare nel dettato testuale, per cui per
il futuro, ed al fine di prevenire eventuale contenzioso, si suggerisce alla
Presidenza di precisare in ordinanza le voci retributive da considerare ai fini
del computo della indennità Commissariale. Dovrebbero escludersi dal computo
di detta indennità le componenti accidentali e provvisorie, quali l’inden-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 195
nità di risultato, quella di lavoro straordinario (Consiglio di Stato, IV, n. 2465
del 6 maggio 2002; C.d.S., IV, n. 287; 16 febbraio 1998; TAR Lazio, II, n. 4536
del 23 maggio 2001), nonché l’indennità di posizione nella quota variabile,
che rappresenta una voce reddituale che l’amministrazione può inserire nel
trattamento economico di un determinato soggetto come ulteriore compenso
per lo svolgimento, in un contesto particolare, di una determinata attività: l’indennit
à di posizione variabile non rappresenta una voce permanente del trattamento
economico, ma un quid pluris concordato tra la singola Amministrazione
e il funzionario per lo svolgimento di un particolare compito, esaurito il
quale, anche qualora tale soggetto rimanga nella stessa Amministrazione, ma
con un incarico differente, nulla è dovuto a titolo di indennità di posizione
variabile, salvo che la stessa sia nuovamente rinegoziata (…)».
A.G.S. – Parere del 10 maggio 2007 n. 56119.
Art. 15 del d.P.R. 601/73. Sua applicabilità alle operazioni di cessione
di credito tra istituti di credito e alle formalità eseguite successivamente alle
cessioni medesime (consultivo 19070/03, avvocato M. Mari).
«(…) codesta Agenzia ha chiesto il parere della scrivente in ordine alla
questione in oggetto, così come proposta da un quesito rivolto all’Area legale
di codesta Agenzia medesima da uno studio legale e fiscale.
La questione attiene all’applicazione del regime fiscale agevolativo ex
art. 15 del d.P.R. 601/73 nel caso di cessione del credito derivante da finanziamento,
garantito da ipoteca, già erogato da istituti di credito fruenti dell’applicazione
dell’imposta sostitutiva di cui al predetto art. 15 e segg., nella sussistenza,
pertanto, dei requisiti soggettivo ed oggettivo previsti dalla citata
norma. Ciò si potrebbe materializzare tanto laddove il cessionario del credito
sia un ulteriore soggetto terzo, sempre in possesso dei requisiti soggettivi di
cui all’art. 15, che si va a sostituire al precedente istituto (caso descritto nel
quesito dello studio legale), quanto qualora il finanziamento sia stato erogato
da due diversi istituti di credito, ognuno per una quota parziale, e la cessione
avvenga tra gli stessi istituti, di talché una quota del credito confluisca e si
consolidi nell’altra quota, onde rimane in vita il finanziamento originario con
un unico soggetto creditore che, oltre alla sua quota, acquisisce anche quella
dell’altro istituto, ferma restando la persona del debitore (parzialmente) ceduto
(caso evidenziato più specificamente da codesta Agenzia).
Ciò posto, la richiesta della nota a riferimento si biforca in due diverse
direzioni, tese a verificare, da un parte, se la cessione del credito stessa, per
come prospettata, sia in ogni caso sussumibile nell’ambito di operatività del
ridetto art. 15 (come vorrebbe lo studio professionale proponente il quesito)
e, dall’altra, a conoscere se il medesimo regime agevolativo torni applicabile
anche alle vicende modificative ed estintive del credito successive alla sua
cessione, indipendentemente dal trattamento tributario che sia stato riservato
alla cessione stessa e cioè se, soprattutto, possa in ogni caso applicarsi, ad
esempio all’estinzione della garanzia ipotecaria chiesta dal debitore al termine
del finanziamento, il trattamento tributario agevolato, malgrado il credito
196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
originario possa essere stato ceduto, durante il corso del rapporto, attraverso
negozi non più assoggettabili all’applicazione del medesimo art. 15 (tesi
pure a favore della quale si pone lo studio), con una sorta di “reviviscenza”
(come la definisce la nota a riscontro) del regime fiscale da quest’ultima
norma previsto, nel caso in cui si sia verificata una soluzione di continuità
nella applicazione della stessa.
A) Venendo anzitutto ad affrontare i termini della prima parte del quesito
(sussunzione della cessione del credito nell’ambito di operatività dell’art.
15), va rilevato come, sul punto, codesta Agenzia citi alcuni precedenti di
prassi amministrativa (Ris. Min. n. 310273 del 18 aprile 1988 e n. 310932
del 4 aprile 1989), i quali, peraltro risalenti nel tempo, si pongono in contrasto
con la tesi dell’applicabilità del regime agevolato anche in caso di cessione
del credito. Per far ciò, nelle citate risoluzioni il Ministero pone un preciso
spartiacque attraverso il concetto di “inerenza” della cessione con la causa
negoziale del finanziamento.
In effetti, è da riconoscere che in questa tematica il concetto di “inerenza
” della cessione con lo scopo di finanziamento assume un connotato di particolare
rilevanza, posto che la stessa lettera della norma (art. 15) - laddove
si legge che “le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine
e tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità” devono essere “inerenti
alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione
” (incluse le vicende legate alle garanzie connesse), “ivi comprese le cessioni
di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti” — postula siffatta
inerenza come elemento cardine per l’ottenimento del regime agevolativo.
Ed allora, il concetto di inerenza delineato dalle risoluzioni ministeriali
sopra citate tende indiscutibilmente a legare il mutuo che deriva dalle
descritte operazioni con l’intento di favorire l’accesso al credito a medio e
lungo termine, cui è preordinata l’agevolazione fiscale concessa dall’art. 15
del d.P.R. 601/73. Il finanziamento, pertanto, crea un rapporto credito —
debito complesso, destinato a durare nel tempo (con limitazioni minime fissate
dalla norma), il quale, nel perdurare della originaria finalizzazione coincidente
con la “ratio legis”, attrae nella portata dell’ambito agevolativo tutto
ciò che ne è connesso in termini di esecuzione, modificazione ed estinzione.
Pertanto, la posizione ministeriale emergente dalle dette risoluzioni
amministrative (che, a quanto pare, non hanno avuto ulteriori, specifiche
evoluzioni) è quella limitativa, che sgancia il concetto di inerenza dalla semplice
connessione o derivazione, anche cronologica, di un atto o negozio da
altro di sicura natura finanziatoria, per rinvenire la necessità di una continuit
à della presenza della causa negoziale di accesso al credito affinché si possa
versare nelle variegate ipotesi contemplate dall’art. 15.
Per cui, ciò posto, la cessione di un credito derivante da un rapporto di
finanziamento sarebbe operazione del tutto autonoma ed indipendente rispetto
al rapporto obbligatorio da cui deriva, ancorché posta in essere da un istituto
bancario cedente nei confronti di altro istituto bancario cessionario, vale
a dire da due soggetti entrambi in possesso dei requisiti soggettivi previsti
dallo stesso art. 15.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197
La cessione del credito di cui parla espressamente l’art. 15, quindi, non
sarebbe questa appena descritta, bensì la cessione di un credito che venga
posta in essere proprio con le stesse finalità descritte dalla norma fiscale agevolativa,
vale a dire il credito come risorsa economica di cui beneficia il
mutuatario (il quale prenderebbe a prestito un diritto di credito da esigere).
Solo siffatta cessione qualificata dall’inerenza potrebbe usufruire delle agevolazioni,
nella misura in cui, ovviamente, ricorra anche il requisito soggettivo.
La scrivente è del parere che la posizione assunta a livello ministeriale
mantenga una sua validità e debba continuare ad essere seguita, nei sensi che
si vanno ad indicare.
La cesura che verrebbe a praticarsi nelle originarie motivazioni che avevano
dato vita al rapporto di mutuo agevolato non consentirebbe la permanenza
della “ratio” normativa di favore quando la cessione del credito coinvolga
soggetti, ancorché abilitati al credito e, perciò, in possesso del requisito
soggettivo voluto dallo stesso art. 15, che si muovano in un ottica autonoma,
nel perseguimento di interessi altri rispetto a quelli che accompagnano
il mutuo fondiario.
È evidente, infatti, che la permanenza del requisito soggettivo in capo al
cessionario, il quale, cioè, sia anch’esso istituto bancario abilitato al credito
a medio e lungo termine, non è di per sé sola sufficiente per predicare l’applicabilit
à del regime agevolativo ex art. 15 ad un eventuale cessione del credito
che sia sorto da un’operazione di finanziamento già fruente delle medesime
agevolazioni.
Ma allorché la cessione, pur riguardando un credito (o parte di esso)
sorto a seguito di un precedente finanziamento agevolato, è a sua volta finalizzata
ad un operazione di finanziamento, essa viene ad integrare il requisito
dell’inerenza, per come ipotizzato dalle relazioni ministeriali che si sono
sopra citate e, perciò, sempre nella permanenza del requisito soggettivo, si
colloca nell’ambito applicativo dell’art. 15.
Malgrado codesta Agenzia sembri propensa ad accogliere una nozione di
inerenza più lata, la quale colga il collegamento da semplici elementi di
diretta correlazione o connessione e, fatto sempre salvo il requisito soggettivo,
ciò nonostante si ritiene che non possa prescindersi da un concetto di
“inerenza” che sia correlato direttamente alle funzioni sottese alla norma di
favore, la quale, anche per questa sua natura, non potrebbe che essere di
stretta interpretazione.
Quanto sopra, inoltre, sembra trovare una conferma alla luce della giurisprudenza
“medio tempore” intervenuta, anche successiva alla richiesta di
parere cui si risponde.
In particolare ci si riferisce alla sentenza Cass., sez. V, 23 novembre
2004, n. 24164, che accoglie un ricorso della scrivente.
Questa sentenza (che, peraltro, si occupa di ipotesi diversa dalla cessione
del credito, vale a dire della surroga con pagamento nella posizione del
creditore), trae argomenti per affermare una identità di possibilità applicativa
dei medesimi principi in tema proprio di cessione del credito. Viene, infat-
198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ti, detto nella parte motiva della sentenza che “il momento genetico al quale
rapportare la spettanza del beneficio è quello della cessione medesima”. Ciò
significa che, una volta fatte le debite distinzioni tra l’ipotesi di surroga del
creditore — con conseguente estinzione dell’obbligazione originaria — e cessione
del credito — ove il nuovo creditore subentra nella medesima obbligazione
— in entrambe le ipotesi è comunque necessario, per stabilire la sopravvivenza
delle agevolazioni ex art. 15 del d.P.R. 601/73, fare riferimento al
momento dell’ingresso del nuovo soggetto e, perciò, nel nostro caso, al
momento della cessione, perchè il perpetuarsi dell’applicazione dei benefici
non potrebbe non essere legato alla permanenza della “ratio” che li ha introdotti,
e cioè il favorire l’accesso al credito bancario “lato sensu” inteso.
La decisione che si è sintetizzata, in buona sostanza, sembra aderire ad
un concetto di “inerenza” della cessione del credito all’originario mutuo ipotecario
che si connette anche con le su citate risoluzioni ministeriali del 1988
e 1989, escludendo che ci si possa disinteressare di una ricerca, caso per
caso, della sussistenza delle ragioni di finanziamento nei motivi del contratto
di cessione.
In pari tempo, potrebbe utilizzarsi la sentenza della sez.V della
Cassazione n. 16410 del 3 novembre 2003, ove è escluso che le agevolazioni
ex art. 15 si applichino laddove “viene meno la possibilità di un collegamento
fra la garanzia e l’operazione di finanziamento agevolato”, in una
fattispecie in cui si trattava di applicazione (negata) delle agevolazioni all’ipoteca
concessa a garanzia della restituzione di somme portate da cambiali
ipotecarie rilasciate dal mutuatario all’istituto di credito finanziatore, nella
considerazione che, in tal caso, l’evenienza della possibilità di circolazione
del titolo (e, con esso, dell’ipoteca), è suscettibile di provocare un’eventuale
utilizzazione della garanzia ipotecaria per fini diversi da quelli originari attinenti
al credito agevolato.
Può, allora, trarsi da quanto esposto la conclusione in base alla quale
condizioni, entrambe necessarie, a che si possa continuare ad applicare l’art.
15 in caso di cessione del credito oggetto del finanziamento sono le seguenti:
che la cessione del credito, già agevolato ex art. 15 del d.P.R. 601/73,
avvenga tra due soggetti — cedente e cessionario — abilitati entrambi all’esercizio
del credito a medio e lungo termine, e che la cessione stessa sia sorretta
da motivazioni che abbiano a che fare con un finanziamento ovvero con
l’incremento dell’entità o dell’accessibilità dello stesso.
B) Passando alla seconda questione, viene, in buona sostanza, proposta
l’ipotesi di mutuo che parte agevolato e che, durante la sua esistenza, subisca
una modificazione soggettiva dal lato del creditore del rapporto per l’intervento
di una cessione del credito: in siffatto caso l’operatività delle agevolazioni
disposte dall’art. 15 che afferiscono alla parte finale ed estintiva del
rapporto sarebbe da escludere a causa della cessione predetta, ovvero potrebbe
comunque applicarsi per le sole formalità eseguite successivamente alla
cessione, poste nell’interesse del debitore (estinzione ipotecaria)?
Secondo codesta Agenzia, nel caso in questione sussisterebbero dubbi in
quanto, se si volesse favorire il debitore ceduto in sede di formalità di chiu-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199
sura del rapporto, ciò comporterebbe la necessità di contemplare una vera e
propria “reviviscenza” dell’applicazione dell’art. 15, interrotta, come si è
detto, dalla precedente intervenuta cessione, accadimento, questo, che, sempre
secondo codesta Agenzia, potrebbe non essere consentaneo ai meccanismi
impositivi tipici dei regimi tributari sostitutivi.
A parere della scrivente non si può parlare in siffatti casi di “reviviscenza
”, considerato che le condizioni che avevano dato luogo all’agevolazione
al momento dell’accesso al credito permangono, in capo al beneficiato,
anche nella fase della chiusura del rapporto, non sussistendo, in relazione a
siffatto soggetto, alcuna soluzione di continuità dell’inerenza dell’operazione
fruente delle agevolazioni fiscali (estinzione dell’ipoteca) con la “ratio”
della concessione del finanziamento.
Ciò avviene, perciò, a prescindere dalla evenienza o meno di una cessione
del credito nel corso della durata del periodo di finanziamento, inerente o
non inerente secondo la prospettazione data alla precedente lettera A).
Un diverso approccio, infatti, comporterebbe ingiustificabili effetti pregiudizievoli
in capo al debitore. Questi, giunto alla conclusione del rapporto
di mutuo ipotecario e dovendo accollarsi l’effettuazione delle formalità
di chiusura (ci si riferisce, come detto, soprattutto alla cancellazione dell’ipoteca),
si vedrebbe rifiutare, dall’Ufficio competente dell’Agenzia, l’applicazione
del regime agevolativo, in ragione del mutamento del soggetto creditore,
avvenuto in forza di un atto del tutto estraneo alla sua sfera giuridica
e nei riguardi del quale, come noto, il debitore ceduto è in una condizione
di mera soggezione, non potendo opporvisi, né essendo richiesto il suo
consenso.
Non appare, in tal modo, disarmonico al sistema il non sfavorire il soggetto
debole e direttamente beneficiano dell’agevolazione, in relazione all’evoluzione
temporale di un rapporto di finanziamento che può contemplare
vicende sorrette da scelte puramente aziendali da parte dell’istituto di credito
mutuante.
Sicché, se si verifica una cessione del credito anche non inerente al primitivo
rapporto di finanziamento, gli originari benefici fiscali non potranno
non continuare ad applicarsi, nella fase terminale del rapporto, al beneficiato
finale, coincidente con il debitore ceduto, con esclusione, per converso,
della continuazione, nell’applicazione dei benefici stessi, nei casi in cui di
essi fossero destinatari il creditore cedente ed il cessionario di una cessione
non “inerente”, nel senso richiesto dal medesimo art. 15.
Si può, pertanto, concludere la presente consultazione, riepilogandone
sinteticamente i contenuti ai seguenti punti:
1) la non inerenza della cessione del credito agevolato, intesa come
insussistenza dei requisiti soggettivi e come venir meno degli scopi di finanziamento
di cui all’art. 15 del d.P.R. 601/73 — nel senso derivabile altresì
dalla citata giurisprudenza della Cassazione — comporta l’interruzione nell
’applicazione dei benefici fiscali recati dalla norma predetta, la quale ultima
continua ad applicarsi solo qualora sia rispettata, anche dopo la cessione, la
predetta “inerenza”;
200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
2) anche in caso di cessione dell’originario credito che costituiva oggetto
dell’operazione di finanziamento agevolato, inerente o non inerente, i
benefici fiscali recati dalla norma di cui all’art. 15 continueranno ed essere
applicabili alle vicende modificative ed estintive dell’originario rapporto
obbligatorio che riguardino il debitore ceduto (…)».
A.G.S. – Parere del 15 maggio 2007 n. 57544.
Rivalutazione indennità integrativa speciale ex art. 1 comma 2 Legge 25
febbraio 1992 n. 210 (consultivo 7530/06, avvocato M. Russo).
«La questione, proposta all’attenzione dell’Avvocatura Generale dello
Stato con nota del Ministero della Salute n. 2419 del 3 febbraio 2006, ha ad
oggetto la condotta processuale da tenere nei giudizi in cui si faccia questione
della spettanza di interessi e rivalutazione sulla componente dell’indennizzo
di cui alla legge 210/92 commisurata all’indennità integrativa speciale,
alla luce della sentenza n. 1589/05, della Corte di Cassazione.
La problematica aperta da tale sentenza, può essere così sintetizzata:
In passato, nei giudizi aventi ad oggetto richieste di indennizzo ex lege
210/92, si era sempre sostenuta la tesi della non debenza della rivalutazione
monetaria sulla componente dell’indennizzo di cui alla L. 210/92 commisurata
all’indennità integrativa speciale.
La Corte di Cassazione, con la citata sentenza n. 1589/05, ha disatteso le
argomentazioni che la difesa dell’Amministrazione aveva posto a fondamento
della propria posizione.
Quanto all’argomentazione che valorizzava – ai fini dell’esclusione
della debenza della rivalutazione monetaria sulla componente dell’indennizzo
commisurata all’I.I.S. – il fatto che quest’ultima per sua stessa natura
fosse già rivalutata, la Corte di cassazione ha osservato:
- che l’art. 3 del D.L. 70/84 ha fissato nella misura massima di due punti
la variazione dell’I.I.S.;
- che il sistema della cosiddetta “scala mobile” è, in generale, venuto
meno nell’ordinamento italiano, come espressamente constatato
dall’Accordo Governo/Sindacati del 31 luglio 1992.
Da ciò, la Corte trae argomento per superare l’osservazione della difesa
di parte pubblica, secondo cui non si potrebbe accordare una “doppia rivalutazione
” sulla medesima componente dell’indennizzo.
Quanto all’argomento testuale, pure sfruttato dalla difesa del Ministero
della Salute, secondo cui la locuzione contenuta nell’art. 2 comma I l. 210/92
“è rivalutato annualmente sulla base del tasso d’inflazione programmato”
sarebbe riferibile solo all’indennizzo come definito dallo stesso art. 2 comma
1°, e non anche alla sua integrazione commisurata all’I.I.S. (di cui al II
comma dell’art. 2 cit.), lo stesso è superato dalla Corte in considerazione del
fatto che – se non rivalutato in ogni sua componente – l’indennizzo ex lege
210/92 perderebbe quella caratteristica di equità, rapportata al pregiudizio
alla salute, valorizzata come essenziale dalla Corte Costituzionale nelle sentenze
307/90 e 118/96.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201
Ciò premesso, la Scrivente, ha reiteratamente richiesto (note 72834 del
16 giugno 2006, 82241 dell’11 luglio 2006, 105834 del 20 settembre 2006,
135048 del 25 novembre 2006 ed infine 30134 dell’8 marzo 2007) al
Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato informazioni circa l’eventuale
esistenza, al momento attuale, di meccanismi di rivalutazione
dell’IIS, sia con riferimento ai trattamenti economici del personale contrattualizzato
e non, sia con riferimento agli emolumenti pensionistici.
Nelle more delle richieste istruttorie di cui sopra, comunque, il contenzioso
non veniva coltivato in sede di legittimità, onde evitare l’aggravio di
spese ad esso collegato, considerata la prospettiva di esito sfavorevole in presenza
del citato precedente.
La Ragioneria, evadendo in parte il quesito proposto (nota del 16
novembre 2006 n. 148060), ha sostanzialmente manifestato adesione alle
tesi della Corte di Cassazione, illustrando come ormai l’IIS costituisca una
componente fissa dello stipendio, destinata – quindi - solo a concorrere alla
determinazione della base di calcolo, in sede di contrattazione collettiva, per
la complessiva periodica rivalutazione degli stipendi.
Il Ministero della Salute, dal canto suo, ha confermato con nota 5517 del
9 marzo 2007, la circostanza che l’IIS – in sede di liquidazione in via amministrativa
degli indennizzo ex lege 210/92 - non viene ormai più rivalutata di
anno in anno.
Tutto ciò premesso, grazie a tale ultima precisazione del Ministero della
Salute, è ormai comunque certo che, di fatto, la componente di indennizzo
commisurata all’IIS non viene da tempo più adeguata, di anno in anno, al
potere di acquisto della moneta, allorquando l’indennizzo stesso venga liquidato
in via amministrativa.
Tale circostanza fattuale, a ben vedere - anche indipendentemente dall’esistenza
di un meccanismo di rivalutazione periodica degli stipendi complessivamente
considerati, ovvero di un sistema adeguativo dell’IIS rispetto al
personale non contrattualizzato ed alle pensioni – sembra rendere di difficile
superamento l’argomentazione della Corte di Cassazione con cui si smentisce
la tesi difensiva della “doppia rivalutazione”.
Infatti se, ormai da anni, all’atto pratico, l’Amministrazione considera –
ai fini dell’inclusione nell’indennizzo – un importo fisso e predeterminato
per così dire “congelato”, non si può più utilmente sostenere la tesi secondo
cui la rivalutazione non spetta perché l’IIS nasce già rivalutata.
Resterebbe, quindi, la sola argomentazione inerente l’asserita mancanza
di equità dell’indennizzo che venga calcolato senza la rivalutazione di tutte
le sue componenti.
Vero è che tale tesi si presterebbe ad essere confutata, in quanto la valutazione
di sproporzione rispetto all’effettivo danno patito dal richiedente
pare inconferente, trattandosi non di vero e proprio risarcimento del danno,
ma di un mero indennizzo, ed essendo sufficiente - ai fini indennitari - che il
ristoro erogato non sia irrisorio, mentre non è indispensabile che esso copra
integralmente il pregiudizio subito; tuttavia, occorre tenere conto anche di un
ulteriore argomento di carattere testuale, non favorevole all’Amministrazione,
che pare invece più difficilmente superabile.
202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In effetti, la lettera della norma di cui all’art. 2 legge 210/92 è formulata
in maniera non univoca: il comma I, nel riferirsi all’indennizzo di cui
all’art. 1, prevede: “è rivalutato annualmente sulla base del tasso d’inflazione
programmato”. Si tratta, allora, di stabilire se tale espressione vada riferita
solo all’indennizzo, come definito dallo stesso art. 2 comma I, o – piuttosto
- all’indennizzo complessivamente considerato, comprensivo - cioè -
anche alla sua integrazione commisurata all’I.I.S. (di cui al II comma dell
’art. 2 cit.).
La questione, essendo di mera interpretazione ed appalesandosi alquanto
incerta, non sembra offrire prospettive certe di successo per la tesi più
favorevole all’Amministrazione, tanto più in presenza di un precedente giurisprudenziale
sfavorevole quale quello sopra richiamato.
Aciò va aggiunto che il carattere seriale delle controversie in materia, ed
il lungo tempo necessario ad ottenere un nuovo pronunciamento della Corte
(in genere anni), comporterebbero la necessità di incardinare – nelle more di
un nuovo pronunciamento della Suprema Corte – numerosissimi giudizi,
forse inutili, ed anzi potenzialmente forieri di ulteriori spese.
Si ritiene, dunque, di non riproporre la questione in sede di legittimità.
(…)».
A.G.S. - Parere del 16 maggio 2007 n. 58330.
Ministero della Pubblica istruzione (contenzioso 128205/96, avvocato
M. Russo).
«(…) il legale di controparte richiede il pagamento della quota di
Imposta di Registro integralmente corrisposta dalla Sua assistita per la sentenza
n. 4968/03 del Tribunale di Roma, a Suo avviso da porsi a carico
dell’Amministrazione, in proporzione della quota di compensazione delle
spese.
Con la presente nota, si invita L’Amministrazione in indirizzo a dare
corso a tale richiesta.
La Scrivente ritiene infatti che la stessa debba essere accolta, alla luce
del quadro normativo vigente.
Al Ministero, infatti – che fruisce dell’istituto della prenotazione a debito
delle spese di lite, definito all’art. 3 lett. S del d.P.R. 115/02 come “ l’annotazione
a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento,
ai fini dell’eventuale successivo recupero” – si applica la norma di
cui all’art. 159 d.P.R. cit. che, a sua volta, prevede: “Nel caso di compensazione
delle spese, se la registrazione è chiesta dall’amministrazione, l’imposta
di registro della sentenza è prenotata a debito, per la metà, o per la quota
di compensazione, ed è pagata per il rimanente dall’altra parte; se la registrazione
è chiesta dalla parte diversa dall’amministrazione, nel proprio
interesse o per uno degli usi previsti dalla legge, l’imposta di registro della
sentenza è pagata per intero dalla stessa parte.
Tale previsione, relativa alle modalità di corresponsione dell’imposta
(che peraltro, nella specie, è stata invece intimata a mezzo cartella esattoria-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203
le rivolta alla parte privata) va coordinata con la norma tributaria di cui
all’art. 57 I° comma d.P.R. 131/86, che pone l’obbligo di pagamento dell’imposta
stessa solidalmente a carico delle parti in causa, intesa dalla consolidata
giurisprudenza di legittimità (ex multis Cass. SS.UU. 8533/90) nel senso
che, nei rapporti interni fra le parti in causa, all’anticipatario solidalmente
coobbligato al pagamento spetta la ripetizione della quota gravante sull’altra
parte.
Per tale ragione, nonché in base ad una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 159 cit., spetta a controparte la restituzione della metà dell’importo
versato. (…)».
A.G.S. – Parere del 26 maggio 2007 n. 62762.
Comando del personale militare – ammissibilità (consultivo 38914/06,
avvocato P. Gallo).
«1.- (…) codesto Ufficio chiede un parere circa l’applicabilità dell’istituto
del comando, di cui agli artt. 56 e 57 d.P.R. n. 3 del 1957, anche al personale
militare; ed a tal fine rappresenta che:
- negli anni, si è instaurata e consolidata una prassi amministrativa che
ha consentito l’utilizzo del comando anche per il personale militare, nel convincimento
che tale istituto sia da ritenersi applicabile, per analogia, anche
al predetto personale;
- lo stesso Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato IGOP si
è espresso favorevolmente, nel 2003, su un provvedimento di comando di un
ufficiale dell’Aeronautica militare presso un ente pubblico;
- successivamente, nel rispondere ad un quesito con il quale il Ministero
degli Affari Esteri chiedeva di poter destinare quote del FUA al personale
delle Forze armate in posizione di comando, il medesimo Dipartimento
esprimeva incidentalmente l’avviso che l’istituto del comando in esame non
potesse trovare applicazione per i militari, nel presupposto che l’ambito operativo
della normativa sarebbe ristretto esclusivamente al personale civile; ed
a sostegno di tale tesi l’IGOP ha evidenziato che l’articolo 17 del d.p.c.m. 25
settembre 1999, n. 448, come sostituito dal d.p.c.m. 14 gennaio 2005, n. 93,
al comma 3, in base al quale è stato disposto il comando di personale militare
al Ministero degli Affari Esteri, nel rinviare per il personale militare ai
rispettivi ordinamenti, intenderebbe confermare l’inapplicabilità dell’istituto
del comando al citato personale;
- con nota DFP/10048/1232 del 2 marzo 2006, l’Ufficio Personale
Pubbliche Amministrazioni (UPPA) del Dipartimento della Funzione
Pubblica, ha richiamato la natura pubblicistica dell’ordinamento delle forze
armate e l’assoggettamento a regolamentazione speciale, ai sensi dell’articolo
3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, osservando conclusivamente che, dall’esame
di tale disciplina di settore, non emergono rinvii all’istituto del comando
né alle norme generali concernenti il pubblico impiego tali da consentire il
ricorso al predetto istituto;
204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
- a tale conclusione potrebbero tuttavia ostare un complesso di indici
normativi e giurisprudenziali che, anche se non espressamente, hanno sempre
implicitamente considerato applicabile l’istituto in esame anche al personale
militare.
2.- Premesso quanto precede, ritiene la Scrivente che l’istituto del
comando disciplinato agli artt. 56 e 57 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, possa
considerarsi applicabile anche al personale militare sulla base delle considerazioni
che seguono.
In primo luogo deve considerarsi che una tale estensione, largamente
diffusa in via di prassi, è già stata considerata legittima, anche se solo implicitamente,
in diverse pronunce giurisprudenziali: così nella decisione resa da
Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2828, che, come ricordato da codesto
Dipartimento, nel riconoscere la possibilità di attribuire l’indennità giudiziaria
al personale militare in posizione di comando presso gli Uffici giudiziari
presuppone evidentemente la legittimità di una tale forma di impiego;
nella decisione resa da Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 44; nonché,
ancora, nella decisione resa da Cons. Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5759.
Nello stesso senso si è espressa anche la Scrivente Avvocatura Generale
dello Stato, con specifico riferimento al problema dell’applicabilità del
comando o distacco di militari della Guardia di finanza presso organi regionali,
rendendo parere positivo con nota del 5 luglio 2005 n. 90825.
3.- Sotto altro profilo, all’impiego del personale militare in posizione di
comando presso altre Amministrazioni non osta nemmeno l’argomento della
generale inapplicabilità del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (recante approvazione
del testo unico degli impiegati civili dello Stato) al personale militare,
posto che in alcuni casi la giurisprudenza non ha esitato ad attribuire alle
disposizioni del testo unico suddetto il valore di norme di diritto comune del
pubblico impiego, vieppiù in difetto di specifiche disposizioni dell’ordinamento
giuridico militare: così, ad esempio, con riferimento ai diversi termini
del procedimento disciplinare (su cui, ex multis, cfr. Corte Cost., 27 luglio
2000, n. 375; Corte Cost., 11 marzo 1991, n. 104; Cons. Stato, sez. IV, 19
aprile 1999, n. 659; Cons. Stato, sez. IV, 27 marzo 1995, n. 195; Cons. Stato,
sez. IV, 3 ottobre 1994, n. 773).
4.- Per quanto concerne poi il profilo della compatibilità del ricorso all’istituto
del comando con lo status giuridico del personale militare, talché
l’applicazione del primo non deve comportare una sostanziale modifica del
secondo, una valutazione a priori risulta in proposito estremamente difficoltosa,
posto che l’assenza di astratti parametri di riferimento rendono ampiamente
opinabile ogni possibile conclusione. Sul punto potrebbe peraltro
osservarsi che la astratta compatibilità del comando con lo status giuridico
del personale militare sembra potersi desumere dalla diffusione che una tale
applicazione ha conosciuto nella prassi amministrativa. Benché un tale argomento
non possa certo essere considerato risolutivo, atteso che il formarsi di
una prassi di per sé non assicura la legittimità dell’azione amministrativa, ciò
non toglie tuttavia che la stessa possa nel caso di specie costituire un fattuale
ed utile indice di riferimento al fine di formulare quello che costituisce un
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205
difficile apprezzamento di merito (l’incertezza del quale renderebbe comunque
opportuno un intervento normativo ad hoc).
Una tale valutazione, come visto comunque difficile ed opinabile in
astratto, risulta invero molto più agevole in concreto (con riferimento cioè
alle singole posizioni di comando di volta in volta disposte) ove l’estremo
della compatibilità potrà e dovrà quindi essere apprezzato caso per caso.
5.- L’applicabilità del comando anche al personale militare sembra infine
potersi considerare autorizzata anche in base ad un argomento di diritto
positivo, desunto da un’attenta analisi del combinato disposto degli artt. 17
d.p.c.m. 14 gennaio 2005, n. 93, e 30 l. 9 luglio 1990, n. 185.
Tale ultima disposizione prevede infatti che “per lo svolgimento delle
attività connesse al rilascio delle autorizzazioni previste dalla presente
legge, nel regolamento d’esecuzione di cui all’articolo 29 saranno emanate,
ai sensi degli articoli 56 e seguenti del decreto del Presidente della
Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, norme per il distacco al Ministero degli
affari esteri di personale di altre amministrazioni”. L’art. 17 cit. a sua volta
stabilisce che “con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta
nominativa o per unità organiche del Ministro degli affari esteri, di
concerto con i Ministri interessati, viene stabilito ed aggiornato il contingente
di personale, anche militare, di altre amministrazioni, dotato dei
requisiti di professionalità necessari per lo svolgimento delle attività di cui
alla legge e al presente regolamento, da distaccare al Ministero degli affari
esteri ai sensi dell’articolo 30 della legge e delle seguenti disposizioni”
(comma 1) e che “il personale di cui al comma 1 è collocato presso il
Ministero degli affari esteri in posizione di comando per un periodo non
inferiore a due anni” (comma 2).
Orbene, una tale disposizione è stata invocata in senso ostativo all’applicazione
del comando al personale militare adducendo che la stessa sarebbe
da considerare di carattere eccezionale e, quindi, espressione di un generale
principio di incompatibilità tra l’istituto del comando e l’impiego militare.
Una tale conclusione non pare tuttavia corretta. In proposito bisogna
infatti considerare che l’art. 30 cit., nel rinviare all’emanando regolamento
di esecuzione, fa espresso riferimento agli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St.,
senza espressamente autorizzare in tale cornice anche l’impiego di personale
militare. L’applicazione delle disposizioni degli artt. 56 e 57 cit. anche al
personale militare è prevista unicamente ed esclusivamente nel testo del
regolamento di esecuzione, adottato appunto con d.p.c.m. 14 gennaio 2005,
n. 93, il cui art. 17, comma 1, contempla il personale “anche militare … da
distaccare al Ministero degli affari esteri ai sensi dell’articolo 30 della legge
e delle seguenti disposizioni”.
Una tale disposizione, dovendo osservare i confini ed i limiti dell’art. 30
cit. cui espressamente rinvia, non avrebbe potuto estendere ex se, vieppiù in
deroga ad un eventuale divieto di rango legislativo, l’applicazione dell’istituto
del comando “anche al personale militare”: una tale disposizione di
rango regolamentare non può infatti assumere, essa sola, valore di norma
eccezionale e derogatoria bensì postula, al contrario, che una tale estensione
206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sia già consentita nel sistema normativo di riferimento dello stesso art. 30
cit., costituito appunto dagli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St.
Né in senso contrario si dica che l’art. 30 cit. menziona solamente l’istituto
del distacco e non quello del comando; tale disposizione infatti intende
il termine distacco come sinonimo di quello di comando, atteso l’espresso
rinvio della stessa disposizione agli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St., che disciplinano
appunto il comando e non il distacco degli impiegati dello Stato.
Alla luce di tali considerazioni, quindi, l’art. 17 cit. deve intendersi quale
confermativo di un principio generale che include il personale militare nell
’ambito di applicazione degli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St., posto che diversamente
lo stesso sarebbe addirittura da considerarsi in parte qua illegittimo,
perché adottato in difetto di una disposizione di legge che autorizzerebbe la
supposta deroga.
Considerato quanto precede, si esprime dunque l’avviso che l’istituto del
comando di cui agli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St. possa considerarsi applicabile
anche al personale militare, nonostante il difetto di specifiche disposizioni
in tal senso. (…)».
A.G.S. – Parere del 26 maggio 2007 n. 62781.
Uso del nome a dominio www.forzearmate.org (consultivo 5464/07,
avvocato V. Rago).
«Si chiede alla Scrivente di valutare l’opportunità di avviare un’azione
legale a tutela dell’immagine e dell’identità dell’Amministrazione nei confronti
di una società di servizi che possiede e gestisce un sito Web denominato
www.militari.org, collegato strettamente ad altro sito Web
www.Forzearmate.org, contenente materiale giuridico ed utilità di vario tipo,
predisposto specificamente per militari.
Si ritiene il sito lesivo perché l’uso del nome a dominio “forze armate
potrebbe ingenerare delle false conoscenze da parte degli utenti, in quanto
potrebbe essere ritenuto un sito ufficiale del Dicastero della Difesa, che invece
è www.difesa.it. Il fatto che vi siano servizi a pagamento potrebbe comportare
una visione poco edificante dell’immagine dell’Amministrazione
della Difesa”. Si precisa, inoltre, che si potrebbe anche valutare di ritenere
sussistente il reato di contraffazione del marchio relativo al sito ufficiale del
Ministero, peraltro mai registrato come marchio.
Giova precisare che, così come è stato chiarito dalla Scrivente in una
precedente consultazione, il successo di Internet è coinciso con la crescita
esponenziale dei computer interconnessi. Per tale ragione è divenuto urgente
aiutare i fruitori a districarsi tra i milioni di siti che offrono informazioni
attraverso lo sviluppo dei cd. strumenti NIR (Network Information
Retrieval), volgarmente detti software di navigazione. Tra questi il più diffuso,
come a tutti noto, è il World Wide Web, con architettura ipertestuale.
Ogni singolo computer interconnesso ad Internet ha, in tale contesto, un
identificativo di carattere numerico, l’indirizzo IP, come avviene per gli
apparecchi telefonici. Allo scopo di rendere più agevole lo stabilire una rela-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207
zione tra un numero e una qualche entità - ad esempio il soggetto che immette
informazioni in un determinato host - si è pensato di istituire un altro sistema
per individuare computer interconnessi nella rete: il cd. FQDN (Fully
Qualified Domain Name) basato sui domini.
Tale premessa, che richiama fatti noti ormai a tutti, sembra comunque un
valido punto di partenza per chiarire come il nome di dominio esplichi a livello
essenziale e ontologico, prima ancora che giuridico, una vera e propria funzione
di identificazione e di localizzazione dei nodi e dei loro gestori.
Non sembra pertinente al caso di specie la pur copiosa serie di precedenti
che equipara il domain name al marchio o comunque al segno distintivo,
in almeno uno dei soggetti in contesa che agisca al fine di tutelare il proprio
dominio-marchio da pregiudizi arrecati da terzi, che siano o non imprenditori
oppure il titolare del marchio da terzi anche non imprenditori che registrino
domini caratterizzati dal marchio.
Nel caso in esame, poi, non sembra che il sito www.forzearmate.org contenga
- da un punto di vista formale - alcun riferimento al nome “ministero
della difesa”.
Oltre tutto codesto Ministero riferisce di non avere mai provveduto a
registrare come marchio il sito “www.difesa.it”.
Il caso sembra piuttosto inquadrabile, a titolo puramente descrittivo, nel
cd. “domain name grabbing”, consistente nella registrazione da parte di terzi
in malafede di un nome di persona.
Occorre, nel caso di specie, interrogarsi se sussistono i presupposti per
ritenere che il nome a dominio “militari.org”, ovvero il sito a cui tale nome
viene rilanciato “forzearmate.org” sia stato o meno registrato con malafede,
in spregio della denominazione di un soggetto pubblico investito di funzioni
particolarmente delicate, quale il Ministero della Difesa.
Nel precedente parere sopra citato, questa Avvocatura aveva, in effetti,
ritenuto esistente una confusione negli utenti, perché il sito aveva come
nome di dominio proprio “sismi.it”, identico al termine sintetico con il quale
vengono comunemente identificati i Servizi di Informazione e Sicurezza
della Repubblica Italiana.
Ove anche nella fattispecie in esame fosse possibile riscontrare le stesse
caratteristiche di confusione, poiché i due siti hanno utilizzato l’estensione
“.org” (e non quella “.it”), non potrebbe utilizzarsi il sistema di tutela -
peraltro di tipo privatistico - assicurato dalla “Commissione per le regole e
procedure tecniche costituita nell’ambito dell’Istituto di Informatica e telematica
del C.N.R. per le attività di Registro del country code Top Level
Domain “it””(si allega, per ogni buon conto, il Regolamento di detta
Commissione).
Si potrebbe, invece, ipotizzare la tutela del nome prevista dall’art. 7 c.c.
sui noti presupposti dell’usurpazione e del pregiudizio economico e morale
che può derivare a danno del titolare, anche in sede cautelare.
In questo senso si è già pronunciata la giurisprudenza, in modo condivisibile
e in situazioni analoghe al caso di specie, avendo riconosciuto la ricorrenza
degli estremi del “domain name grabbing”, appropriazione del nome
208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
altrui attraverso la registrazione (per tutti si veda Tribunale di Torino del 23
dicembre 2000, presidente Salvetti).
Ciò premesso, giova osservare che, ad avviso di questa Avvocatura, un
rischio di confusione non appare così sicuramente sussistente, come sostenuto
da codesta Amministrazione, ove si consideri che, a ben vedere, il sito ritenuto
lesivo dell’immagine dell’Amministrazione non sembrerebbe contenere
elementi che ingenerano una vera e propria confusione con quello del
Ministero della Difesa e, comunque, in ogni caso, la prova della confusione
sembrerebbe di difficile dimostrazione in un eventuale giudizio, avuto
riguardo alle seguenti osservazioni.
Ed infatti, negli utenti, non è pacifica una vera e propria confusione,
sia perché l’estensione è, come detto, quella “.org” e non quella “.it”, utilizzata
per tutti i siti istituzionali;
sia perchè nel sito in questione non viene mai citato il nome del
Ministero della Difesa;
sia perché digitando, con uno dei motori di ricerca più utilizzati, quale
www.google.it , i termini “difesa”, “stato maggiore”, “esercito” o simili, vengono
raggiunte tutte pagine del sito istituzionale (esercito, persmil, aeronautica,
ecc.) e non anche quelle del sito www.forzeramate.org , ritenuto lesivo.
Digitando, invece, il termine “militari o quello “forze armate”, si raggiungono,
in effetti, le pagine del sito in questione, ma nella stringa di ricerca,
vi è la indicazione “società SideWeb”, senza alcun riferimento alla circostanza
che si tratta di un sito istituzionale.
Esaminando la “home page” del detto sito, subito accanto alla dizione
www.forzearmate.org - assente il termine “Ministero della Difesa” - appare
subito in evidenza il nome della società, con la precisazione che si tratta di
un sito di “Informazione - Tutela legale consulenza telefonica, scritta e assistenza
- Banca dati giuridica”.
Nella pagina non vi è alcun elemento che possa collegare il sito ad uno
“istituzionale” proprio dell’Amministrazione; in particolare, non vi è il logo
della “Repubblica Italiana, che si trova in tutti i siti istituzionali di
Amministrazioni statali.
Entrando nelle sottopagine, facilmente raggiungibili attraverso dei
“links”, posti nelle immediate vicinanze del nome del sito - sezione “Chi
siamo – I servizi” -, si chiarisce che il sito è gestito da una società di servizi
che “fornisce informazione, assistenza e consulenza legale, al fine di offrire
a tutti i cittadini, militari inclusi, un punto di riferimento solido e sicuro in
merito a tali attività. In particolare, si occupa di studio e approfondimento
della legislazione nazionale e comparativa relativa agli appartenenti alle
forze armate e forze di polizia”. Si precisano anche le modalità di utilizzazione
dei servizi del sito, alcuni dei quali sono a pagamento.
Tornando alla “home page”, essa si compone di tre colonne. Nella prima
si trovano alcuni “links”, contenenti utilità varie, sia di carattere generale
(giornali, stampa, borsa. Finanza, titoli, lotto, salute, promozioni, offerte,
ecc), sia di collegamento tra utenti del sito (chat, newsletter, blog). Nella
seconda colonna, alcuni argomenti in “primo piano, contenenti notizie rela-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209
tive allo stato giuridico dei militari, oltre a news su convegni e/o concorsi
pubblici. Nella terza colonna, vi è la pubblicità su alcuni servizi di consulenza
e assistenza legale offerti dal sito.
Ciò premesso, si ribadisce anzitutto che è da escludere la possibilità di
un’azione a tutela di un marchio, ove si consideri anche che, come viene riferito
nella richiesta di parere e come già sopra precisato, il sito ufficiale del
Ministero della Difesa non è mai stato registrato.
A ciò aggiungasi, in ogni caso, che la giurisprudenza di legittimità, con
riferimento all’ipotesi di contraffazione di marchio, ha, anche di recente,
avuto modo di chiarire che “Ai fini della configurazione del reato di cui
all’art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere
dell’ingegno o di prodotti industriali) non è sufficiente la mera possibilità di
confusione tra due marchi, regolarmente registrati, ma è necessaria la materiale
contraffazione o alterazione dell’altrui marchio (Cass., sez. V, 9 marzo
2006).
Nel caso di specie, questo requisito sembra mancare, perché nel sito
www.forzearmate.org non si riscontra una contraffazione o alterazione del
marchio del Ministero, peraltro neanche registrato.
Né si può ipotizzare una violazione dell’identità dell’Amministrazione
nella sola utilizzazione del nome “forze armate”, tenuto conto che vi sono,
all’attualità, molte riviste cartacee che, pur contenendo nel nome il riferimento
a corpi militari (es., Carabinieri, Polizia Oggi, ecc.), è chiaro che si
tratta di riviste proprie di associazioni sindacali inserite nell’ambito
dell’Amministrazione militare.
Il sito www.forzearmate.org, piuttosto, si presenta come un sito di servizio
- per cittadini e militari - peraltro svincolato da una funzione ed una veste
istituzionale.
Nondimeno, poiché permane, comunque, un dubbio, questa Avvocatura
provvederà ad inviare alla società un invito, perché venga, in ogni caso, inserita
nel sito la precisazione che non si tratta di un sito istituzionale del
Ministero della Difesa.
Sin d’ora si precisa, peraltro, che ove l’invito dovesse avere esito negativo,
ben difficilmente un’azione legale promossa nei confronti della società
potrebbe avere un esito favorevole e comporterebbe un inutile aggravio di
spese di lite (…)».
A.G.S. – Parere del 14 giugno 2007 n. 69504
Risultanze verifica amministrativo-contabile dell’Ispettorato Generale
di Finanza sulla Croce Rossa Italiana (consultivo 12990/07, avvocato V.
Rago).
«(…) è stato chiesto alla Scrivente un parere circa “la possibilità di considerare
definitivamente acquisite, per il Personale Dipendente, le somme
già riscosse a titolo di compenso incentivante negli anni pregressi”.
Secondo quanto riferito da codesto Ente, il quesito investe principalmente
i pagamenti effettuati negli anni 2003 e 2004. Nel 2005 sono stati versati
210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ai dipendenti solo acconti, ai quali non ha fatto seguito il saldo per l’intimazione
del Collegio dei Revisori a non provvedere a pagamenti ulteriori.
La restituzione di quanto già pagato può essere richiesta solo a titolo di
indebito.
Ai sensi dell’art. 2033 c.c. il presupposto per la configurabilità di un
indebito è che si sia eseguito una pagamento non dovuto.
Secondo quanto riferito da codesto Ente il personale ha ricevuto compensi,
determinati in conformità alla contrattazione collettiva, per prestazioni
effettivamente effettuate.
Sono stati, dunque, pagati crediti sulla cui esistenza non sono state sollevate
contestazioni in alcuna sede.
Eventuali richieste di restituzione, come pure rilevato da codesto Ente,
provocherebbero di sicuro un ampio contenzioso il cui esito, altrettanto sicuramente,
sarebbe negativo con aggravio delle spese.
I rilievi dei Revisori dei conti investono i criteri di formazione dei Fondi
utilizzati per i pagamenti.
Come è stato messo in rilievo nella nota che si riscontra, le argomentazioni
che li sorreggono attengono all’aspetto finanziario e non toccano la esistenza
dei crediti degli interessati e, di conseguenza, le obbligazioni a carico
di codesto Ente.
Dalle informazioni fornite risulta che i rilievi di ordine finanziario sono
in via di superamento.
Gli aspetti civilistici, attinenti alle obbligazioni nei confronti dei dipendenti,
saranno indifferenti alla soluzione che sarà data ai problemi finanziari,
qualunque essa sia, cosicché manca qualunque possibilità che i pagamenti
intervenuti, che attualmente sicuramente non lo sono, possano diventare
indebiti successivamente (…)».
A.G.S. - Parere del 14 giugno 2007 n. 69515
Cittadini esteri coinvolti in situazioni di emergenza in Italia. Tutela della
privacy e rispetto della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni
consolari (consultivo 13697/07, avvocato D. Ranucci).
«(…) codesta Amministrazione rappresenta che l’Unità di Crisi si è
spesso trovata nella situazione di dover fornire alle Rappresentanze diplomatico-
consolari accreditate in Italia i nominativi di cittadini stranieri coinvolti
in situazioni di emergenza.
Ciò è accaduto anche di recente, in occasione del dirottamento di un
aereo della Turkish Airlines, poi atterrato a Brindisi.
Il problema applicativo sorge per effetto dell’ipotetico contrasto tra la
disciplina nazionale in materia di privacy e gli obblighi derivanti dalla
Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari (la cui
ratifica ed esecuzione sono contenute nella legge 9 agosto 1967, n. 804).
Infatti mentre ai sensi dell’art. 1 del codice privacy (d.vo 30 giugno
2003, n. 196) “chiunque – compreso il cittadino straniero presente sul territorio
nazionale - ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguarda-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211
no”, gli artt. 36 e 37 della Convenzione sanciscono l’obbligo dello Stato di
residenza di informare gli uffici consolari accreditati presso di esso, in ordine
al coinvolgimento di loro cittadini in determinate fattispecie di evento (arresto,
incarcerazione, decesso, nomina di curatori o tutori, disastro navale).
Posto che, a parere della Scrivente, le disposizioni della convenzione,
emanata nel 1967, si prestano ad una interpretazione estensiva tale per cui
possono ritenersi applicabili anche a ulteriori situazioni di emergenza non ivi
espressamente contemplate, quali quelle, conseguenti ad atti di terrorismo o
disastri aerei, tipiche dell’attuale momento storico, che la realtà sociale e
giuridica dell’epoca, palesemente diversa dalla attuale, non poteva prevedere
per evidenti ragioni oggettive, la soluzione del quesito posto alla attenzione
della Scrivente postula l’analisi, in via prioritaria, dei rapporti tra le due
fonti normative.
Note sono le problematiche che si sono poste a seguito della modifica
dell’art. 117 Cost. attuata con L.Cost. n. 3/2001, atteso che essa ha profondamente
mutato il quadro dei rapporti tra norme esterne e norme interne.
Prima della modifica infatti si riteneva che i trattati internazionali venissero
ad assumere nell’ordinamento interno la medesima posizione dell’atto
che avesse dato loro esecuzione, con la conseguenza di concludere che
“quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria essi acquistano la
forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da
una legge ordinaria successiva” (Corte cost. 6 giugno 1989, n. 323).
Dalla analisi dell’art. 10, primo comma, Cost. (“l’ordinamento italiano
si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute
”) si inferiva infatti che il costituente avesse inteso dotare di copertura
costituzionale solo le norme di origine consuetudinaria e non quelle del diritto
internazionale convenzionale.
Tale impostazione, secondo parte della dottrina, appare essere mutata, e
la questione del rango, nel nostro sistema, delle fonti di produzione delle
norme convenzionali introdotte nell’ordinamento interno tramite ordine di
esecuzione, avrebbe avuto una significativa svolta a seguito dell’emanazione
della citata legge costituzionale, che ha modificato l’art. 117 Cost. nel
senso che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto … dei vincoli derivanti ... dagli obblighi internazionali”.
Si sostiene quindi da taluni autori che la modifica costituzionale sia
intervenuta sul sistema della gerarchia delle fonti di produzione nel senso di
attribuire alle norme, introdotte per mezzo di ordine di esecuzione contenuto
in legge, una tutela costituzionale rafforzata rispetto alle altre norme dello
stesso rango, così mutuando la soluzione già prevista dall’art. 10 Cost.,
comma secondo, per gli accordi internazionali relativi alla condizione giuridica
dello straniero (“la condizione giuridica dello straniero è dettata dalla
legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”; in tal senso
CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2002, p. 321).
Ciò peraltro non comporterebbe che il diritto internazionale pattizio occupi
nel sistema delle fonti la stessa posizione delle “norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute”, atteso che mentre i trattati, una volta entrati
212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
a far parte dell’ordinamento, occupano un rango superlegislativo ma subcostituzionale,
la giurisprudenza costituzionale afferma che l’art. 10, primo comma,
garantisce l’adattamento (automatico) del diritto interno alle norme corrispondenti
a consuetudini internazionali anche quando ciò comporta deroghe alle
norme della Costituzione (Corte cost. 18 giugno 1979, n. 48).
Ciò posto, a parere di questa Avvocatura, la soluzione del quesito sembra
potersi trarre più che dall’art. 117 Cost, le cui difficoltà applicative sono
subito state individuate e dalla dottrina e dalla giurisprudenza, dal precedente
art. 10 Cost., nella considerazione che gli artt. 36 e 37 Convenzione di
Vienna sono in realtà espressione di un principio consuetudinario, ribadito
anche nell’art. 5 lett. e) della stessa convenzione, secondo cui gli Stati (di
invio) hanno il diritto/dovere di tutelare i propri cittadini che si trovino all’estero
in situazioni di emergenza.
In questa prospettiva l’oggetto dell’analisi si sposta dal tema del rapporto
tra diritto consolare/diritto interno a quello del rapporto tra norme consuetudinarie/
norme interne, e trova quindi soluzione nel principio di adattamento
automatico del diritto interno alle norme espressione di consuetudini internazionali,
recato dall’art. 10 Cost.
Ad analoga conclusione si giunge inoltre anche attraverso l’ulteriore
percorso interpretativo accolto, in analoga fattispecie, dalla giurisprudenza,
post modifica art. 117 Cost., secondo la quale “ la regolamentazione di un
rapporto contenuta in un Trattato internazionale ratificato da legge interna,
trova fondamento nella Costituzione (artt. 10 e 117) e costituisce disciplina
eccezionale, non applicabile se non nei casi previsti (art. 14 preleggi), in
deroga alle previsioni normative sulla successione delle leggi nel tempo (ar1
e 15 preleggi)” (Cass. Sez. I, n. 5352/2007).
In tale decisione la Suprema Corte ha chiarito che la norma nazionale
successiva non può derogare né entrare in conflitto con la norma pattizia
anteriore, nella considerazione che la disciplina contenuta nella norma pattizia
ha natura eccezionale, tale da giustificare la sussistenza di un rapporto di
specialità tra norma pattizia e norma interna.
Da tanto discende che, a fronte di un contrasto tra norma convenzionale
introdotta con legge e legge interna successiva, gli organi nazionali dovranno
assicurare la prevalenza della norma internazionale.
Tale prevalenza dovrà innanzitutto provare ad essere realizzata sul piano
interpretativo e, laddove l’incongruenza non sia componibile su tale piano,
in base al principio di specialità dovrà applicarsi la norma pattizia quale
norma eccezionale che deroga alla norma generale.
In conclusione, in virtù del principio di specialità deve darsi prevalenza
alla norma convenzionale sulla norma legislativa nazionale, e quindi assicurare
la piena esecuzione dell’art. 36, primo comma, lett. a), della
Convenzione, che stabilisce che “i funzionari consolari devono poter liberamente
comunicare con i cittadini dello Stato d’invio e recarsi presso di loro”,
e che “le leggi e i regolamenti dello Stato di residenza devono permettere la
completa realizzazione degli obiettivi per i quali i diritti sono accordati in
virtù del presente articolo”.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213
Da quanto esposto discende che la richiesta di informazioni ex art. 36
Conv., proveniente dalle Rappresentanze diplomatico-consolari estere accreditate
in Italia, pone l’obbligo di codesta Amministrazione di fornire loro i
nominativi di cittadini stranieri coinvolti in situazioni di emergenza nel territorio
italiano, senza che possa ipotizzarsi quale ostacolo l’applicabilità
della disciplina nazionale sulla privacy.
Analoga conclusione si impone anche in relazione alla diversa ipotesi, di
cui all’art. 37 lett. c) della Convenzione, che prevede un obbligo di informazione
che prescinde da qualsiasi richiesta, a carico delle Autorità nazionali.
Tale norma infatti obbliga l’amministrazione competente ad informare
l’ufficio consolare più vicino al luogo ove si è verificato l’evento, in caso di
incidente navale relativo a imbarcazione avente nazionalità dello Stato d’invio
(cioè estera) o ivi immatricolata.
Vero è che tale disposizione ha riguardo ad una specifica fattispecie di
emergenza, l’incidente navale: tuttavia della stessa appare opportuna, per le
ragioni sopra esposte, una lettura estensiva ed evolutiva, che tenga conto del
rilievo che ha assunto negli ultimi tempi il pericolo connesso al terrorismo
internazionale, così da ritenerne la riferibilità anche ad eventi analoghi a
quelli in essa contemplati, come il dirottamento di un aereo o il coinvolgimento
di cittadini stranieri in attentati terroristici.
Alla conclusione accolta si perviene infine anche per altra via, e quindi
prescindendo dalle considerazioni sopra svolte, qualora si consideri che in
situazioni di emergenza, quali il dirottamento di un aereo o calamità naturali,
la comunicazione dei nominativi dei cittadini dello Stato estero coinvolti
alle relative Rappresentanze diplomatiche risponde alla necessità di tutelare
diritti primari, perché relativi alla sicurezza e incolumità delle persone, di
rango senza dubbio superiore rispetto al diritto alla riservatezza.
In tali ipotesi, pur volendo considerare la comunicazione in discorso in
contrasto con il diritto alla privacy, non è dubbio che la condotta appare giustificata
dalla esigenza di tutelare il diritto di tali soggetti a ricevere assistenza
da parte dello Stato di appartenenza, necessaria in situazioni di estrema
emergenza quali appunto il coinvolgimento in attentati terroristici.
In questa prospettiva le problematiche legate alla disciplina sulla privacy
appaiono pertanto superate, vertendosi in una classica ipotesi di stato di
necessità o di adempimento di un dovere (…)».
A.G.S. – Parere del 15 giugno 2007, n. 70269.
Atti di pignoramento ex art. 72 bis d.P.R. 602/73 (consultivo 1303/07,
avvocato M. Russo).
«(…) codesta Avvocatura riferisce che il Comando Generale dell’Arma
dei Carabinieri ha formulato richiesta di parere in ordine alla problematica di
cui all’oggetto. Trattandosi di questione di rilevanza di massima, la stessa è
stata quindi sottoposta dall’Avvocatura Distrettuale de l’Aquila all’attenzione
della Scrivente, la quale rende al riguardo il seguente parere.
Si premette che i quesiti articolati dal Comando Generale in indirizzo
214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
attengono, in particolare, al comportamento da serbare da parte del terzo
pignorato nelle procedure esecutive presso terzi poste in essere dal
Concessionario, alla luce del sopravvenuto intervento legislativo che ha
significativamente inciso sul testo dell’art. 72 bis citato.
In particolare, con il primo quesito, l’Amministrazione chiede di conoscere
quale condotta tenere nel caso di:
– incapienza per concorso di cessione e più delegazioni di pagamento,
anche quando tale concorso comporti una riduzione del trattamento economico
pignorato oltre il 50%;
– alimenti già altrimenti dovuti dal pignorato, anche con superamento
del 50% del trattamento stipendiale, ovvero entro il predetto limite anche se
in concorso con più cessioni o delegazioni;
– sospensione dall’impiego con riduzione del trattamento stipendiale al
50%;
Con riferimento al suesposto quesito la Scrivente ritiene che, come correttamente
osservato dall’Avvocatura Distrettuale in indirizzo, a fronte di
notifica di pignoramento ex art. 72 bis cit., l’Amministrazione possa legittimamente
rimanere inottemperante all’ordine e continuare a corrispondere al
militare esecutato il trattamento economico spettategli, ove l’incapienza stipendiale
sia dovuta a:
concorso di cessioni e/o delegazioni di pagamento, qualora tale concorso
comporti una riduzione del trattamento economico del pignorato del 50%
(limite stabilito dagli artt. 68, II comma e 69, II comma del d.P.R. 180/1950);
- alimenti già altrimenti dovuti dal pignorato, con superamento del 50%
del trattamento stipendiale, ovvero entro il predetto limite, ma in concorso
con cessioni o delegazioni di pagamento con riduzione complessiva del trattamento
economico del pignorato dei 50% (limite desumibile, quanto agli
alimenti, dall’art. 545, commi III e V, c.p.c.)
- sospensione dall’impiego con riduzione del trattamento stipendiale al
50% (trattasi, in tal caso, di credito per “assegno alimentare” - v. art. 82
d.P.R. 3/1957 -, non pignorabile dal Concessionario della riscossione in forza
dell’art. 545, I comma, c.p.c.).
Parrebbe tuttavia opportuno, pur nel silenzio normativo ma al fine di
prevenire eventuali rilievi di responsabilità a carico dell’operatore amministrativo,
che detta inottemperanza venga esplicitata tramite invio di circostanziata
dichiarazione stragiudiziale direttamente al Concessionario procedente,
con l’indicazione delle disposizioni di legge che nei casi specifici
impongono di non dar seguito all’ordine medesimo.
Ovviamente, la procedura ora descritta parrebbe senz’altro adottabile, in
via generale, anche nei casi di incapienza dovuta a precedenti pignoramenti
(art. 545, commi IV e V, c.p.c.).
Si viene, ora, all’analisi della seconda parte del quesito proposto
dall’Amministrazione in indirizzo, con la quale si chiede di conoscere quale
condotta tenere con riferimento ai casi di pignoramenti notificati prima della
novella di cui al d.l. 262/06, con particolare riferimento agli emolumenti
pensionistici.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 215
Si pone infatti, al riguardo, un problema di individuazione del regime
intertemporale applicabile, posto che la norma è stata novellata dal d.l.
262/06: nell’originaria formulazione – infatti – l’art. 72 bis del d.P.R. 602/73
recitava: “L’atto di pignoramento del quinto dello stipendio contiene, in
luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, n. 4), del codice
di procedura civile, l’ordine al datore di lavoro di pagare direttamente al
concessionario, fino a concorrenza del credito per il quale si procede e
fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e
sesto dello stesso codice di procedura civile:
a) nel termine di quindici giorni dalla notifica del predetto atto, il quinto
degli stipendi non corrisposti per i quali, sia maturato, anteriormente alla
data di tale notifica, il diritto alla percezione;
b) alle rispettive scadenze, il quinto degli stipendi da corrispondere e
delle somme dovute a seguito della cessazione del rapporto di lavoro”; il
testo novellato, invece, reca la seguente modifica: “Salvo che per i crediti
pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi
quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento
dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione
di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura
civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario,
fino a concorrenza del credito per cui si procede…”
In effetti, il problema dell’applicabilità dell’art. 72 bis alla materia pensionistica,
ora espressamente esclusa - ma che doveva probabilmente esser
tale anche nella precedente formulazione dell’articolo - nasce dalla circostanza
in punto di fatto che in talune sedi erano stati effettuati pignoramenti
relativi a redditi di pensione.
Ciò posto, è altresì opportuno specificare che, a ben considerare, con la
norma in parola non è stata introdotta un’ “impignorabilità” stricto sensu di
tali ultimi emolumenti, atteso che la norma prevede piuttosto (solamente) la
non praticabilità nei confronti degli stessi della procedura esecutiva presso
terzi semplificata di cui all’art. 72 bis.
Una volta chiarito quanto sopra, si espone quanto segue.
Occorre, prima di tutto, chiarire cosa debba intendersi per “atti compiuti
nella vigenza del vecchio testo” dell’ art. 72 bis del d.P.R. 602/73 (prima,
cioè, dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte con l’art. 2 comma VI
del d.l. 262/06): sembra, al riguardo, che debbano intendersi compiuti nella
vigenza del vecchio testo, a prescindere dalla data di formale notifica, i
pignoramenti per i quali, alla data di entrata in vigore del nuovo testo dell’
art. 72 bis cit., in alternativa:
- Sia già maturata l’inottemperanza all’ordine di pagamento per scadenza
del relativo termine;
- Si sia già ottemperato all’ordine di pagamento;
Ebbene, prendendo le mosse dal presupposto di cui sopra, si può affermare,
con riferimento ai pignoramenti compiuti nella vigenza del nuovo regime
normativo introdotto con D.L. 262/06 (cioè per i quali a tale data non
siano stati ancora eseguiti o iniziati i pagamenti, ovvero non sia ancora matu-
216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
rata l’inottemperanza all’ordine per scadenza del termine) la necessità di
considerare colpiti da invalidità ed inefficacia sopravenute (quindi ex nunc)
i pignoramenti aventi ad oggetto crediti pensionistici.
Ed infatti, la circostanza dell’intervenuto compimento, nel senso anzidetto,
dell’atto impeditivo sotto il “vecchio regime” vale a cristallizzare, una
volta per tutte, la validità del pignoramento dell’emolumento pensionistico
solo nel caso – fuor di dubbio - in cui sotto la vigenza del vecchio testo normativo
il pagamento sia stato del tutto perfezionato, ma non anche nell’eventualit
à in cui l’ordine di pagare sia rimasto del tutto inevaso per lo spirare del
termine fissato per l’ottemperanza all’ordine (e si debba pertanto proseguire
nelle forme ordinarie ex art. 72 n. 2 d.P.R. 602/73) né, infine, nel caso in cui
il pagamento sia iniziato nella vigenza del vecchio regime ma debba ancora
proseguire, dopo la novella normativa, relativamente ai ratei maturandi (art.
72 bis comma 1^ lettera B) nella vigenza della disciplina più restrittiva.
Sembra alla Scrivente, infatti, che, in tali ultime due ipotesi, proprio la
natura processuale della norma e la sua conseguente immediata applicabilit
à, per il principio tempus regit actum, comportino sempre – indipendentemente
dalla data di formale notifica, e ferma restando la validità ed efficacia
dei pagamenti già iniziati ed eseguiti nella vigenza della vecchia norma
- l’illegittimità sopravvenuta del pignoramento limitatamente ai pagamenti
ancora da eseguire, alle rispettive scadenze, sotto la vigenza della nuova
disciplina.
In breve, dunque, si ritiene che in tutti i casi in cui - alla data di entrata
in vigore del “nuovo” art. 72 bis si debba procedere nelle forme ordinarie ex
art. 72 II comma cit., oppure nei casi in cui siano ancora in corso trattenute
di emolumenti pensionistici ancorché iniziate nella vigenza del testo precedente,
ferma restando la legittimità di quelle già compiute - la sopravvenuta
espressa sottrazione degli emolumenti pensionistici all’ordine di pagamento
precluda la possibilità di effettuare ritenute di tali emolumenti per il
tempo a venire.
Una volta precisato che la sopravvenuta impossibilità di esperire la procedura
di cui all’art. 72 bis nei confronti degli emolumenti pensionistici
porta, in relazione alle procedure incardinate prima della modificazione della
norma, all’impossibilità di effettuare ritenute su tali emolumenti per il tempo
a venire, gioverà altresì, a titolo cautelativo, comunicare al Concessionario
che il versamento diretto sarà sospeso, ma che le somme saranno comunque
accantonate e non versate al debitore pignorato per un breve periodo (che qui
si indica in non più di venti giorni) decorso il quale - in mancanza di sopravvenuti
atti idonei, a mente dell’art. 69 della legge di contabilità di Stato, a
determinare il fermo delle somme – gli importi saranno senz’altro versati al
debitore.
Quanto, infine, alla problematica sollevata dall’Amministrazione in
indirizzo circa l’estinzione derivante da rinuncia al pignoramento da parte
del Concessionario, si ritiene che l’effetto estintivo deriverà automaticamente
dalla rinuncia (con conseguente liberazione delle somme), trattandosi di
procedura non giurisdizionale. Tuttavia, ove risultasse che, nella prassi dei
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 217
singoli tribunali locali, presso la cancelleria del Tribunale venga aperto un
fascicolo, per la restituzione di quanto fosse ancora eventualmente trattenuto,
dovrà richiedersi, per doverosa cautela, l’adozione di un espresso provvedimento
di estinzione della procedura con certificazione dell’infruttuoso
decorso del termine per il reclamo avverso l’ordinanza (…)».
A.G.S. – Parere del 19 luglio 2007 n. 81929.
Disposizioni in materia di servizio nazionale della riscossione – Art. 3,
c. 40, lett. a) del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (consultivo 61078/05, avvocato
M. Mari).
«Con nota in data 13 dicembre 2005, prot. n. 167116P, la Scrivente, condividendo
le argomentazioni svolte da codesta Direzione nella nota 29
novembre 2005, prot. n. 83024, espresse l’avviso che la norma di cui all’art.
47 bis d.P.R. n. 602/1973 - inserito dall’art. 3 e. 40 lettera a) del D.L.
203/2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248/2005 - dovesse
essere ritenuta applicabile unicamente a favore dei Concessionari della
riscossione, escludendo l’estensibilità dell’esenzione tributaria prevista per
lo svolgimento dell’attività di misurazione ipotecaria e catastale a soggetti
diversi da quelli specificamente indicati nella disposizione.
Con la nota a riscontro codesta Agenzia ha chiesto un riesame della questione
con riferimento all’ipotesi in cui l’espletamento dell’attività di rilevazione
e ricerca presso il Catasto e i Registri Immobiliari venga affidata dal
Concessionario della riscossione a soggetti terzi — in genere, agenzie di
visura — sulla base di un mandato con rappresentanza.
Successivamente, codesta Direzione, con fax 4 dicembre 2006, 20
dicembre 2006, 22 gennaio 2007, in seguito a richieste formulate nelle vie
brevi, ha trasmesso alla Scrivente ulteriore documentazione riguardante la
suddetta questione.
In particolare: nota della società G. in data 23 giugno 2006 con allegato
schema del contratto di mandato con rappresentanza e parere reso alla detta
Società dallo Studio F.; provvedimento dell’Agenzia delle Entrate 18 dicembre
2006 avente per oggetto l’individuazione di dipendenti degli agenti della
riscossione che possono accedere ai dati trasmessi all’Anagrafe Tributaria
dagli operatori finanziari e dei dipendenti degli agenti di riscossione che possono
accedere ai restanti dati rilevanti ai fini della riscossione mediante
ruolo; copia di ricorso proposto dalla Soc. G. alla C.T.P. di Foggia avverso
provvedimento con il quale l’Agenzia aveva respinto l’istanza di rimborso in
data 20 settembre 2006 in materia di tasse e diritti per visure ipotecarie e
catastali e copia della nota 12 febbraio 2007 prot. 13512 inviata dall’Agenzia
a tutti gli Uffici Provinciali al fine della difesa in giudizio nei contenziosi
instaurati dalla G. per il rimborso dei tributi versati.
La Scrivente riesaminata la questione sulla base della documentazione
trasmessa esprime l’avviso - in attesa delle decisioni del Giudice Tributario
ed a prescindere dalla giuridica possibilità di affidare a soggetti terzi l’attivit
à di cui trattasi, questione sulla quale vengono peraltro formulate alcune
218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
considerazioni nel prosieguo del presente parere - che il parere in precedenza
espresso possa essere confermato anche con riferimento alla nuova fattispecie
segnalata.
Ciò in base alle seguenti considerazioni.
È pur vero che gli artt. 1704 e 1388 c.c. nel prevedere la cd. contemplatio
domini, consentono di attuare un collegamento diretto tra mandante e
terzo, tanto che gli effetti dell’operazione compiuta si producono nella sfera
giuridica del rappresentato senza alcuna mediazione, ma alla tesi dell’utilizzazione
di siffatto modulo contrattuale al fine di svolgere le attività gestorie
di cui si tratta, beneficiando all’uopo del regime esentativo previsto dalla
legge, ostano sia la natura della disposizione de qua sia il tenore letterale di
ulteriori disposizioni dettate in materia di riscossione di tributi.
Quale norma di agevolazione tributaria, l’art. 47 bis cit. rientra nel novero
delle norme di stretta interpretazione, ossia delle norme sottratte al criterio
analogico (art. 14 disp. prel. c.c.), sia sotto il profilo soggettivo che sotto
il profilo oggettivo, in ossequio ad un generale principio di tassatività dei
casi in esse contemplati (Cass., sez. tributaria, n. 4530 e n. 4611/2002).
Come evidenziato nella nota a margine indicata, nulla fa ritenere che
nella norma di cui si discute possa ravvisarsi l’intenzione del legislatore di
voler esentare dai tributi ipotecari e catastali previsti anche le visure eseguite
da soggetti diversi dai concessionari, ossia da soggetti sprovvisti di quel
particolare status giuridico legittimante l’agevolazione tributaria.
In particolare, giova precisare che il carattere oggettivo dell’agevolazione
in esame è soltanto prevalente ma non esclusivo rispetto a quello soggettivo.
Se, infatti, la relativa rado sembra riposare sulla particolare attività
svolta dal soggetto, in quanto propedeutica alla riscossione coattiva delle
somme non pagate spontaneamente dal contribuente, ciò non preclude in
astratto la configurabilità di un’autonoma rilevanza dell’elemento soggettivo,
costituito dal possesso della specifica qualificazione di “concessionario
della riscossione” e dall’espressa previsione di una sfera ben delimitata di
legittimati.
Nel caso di specie, quindi, prescindendo dalla potenziale violazione dell
’art. 1 co. 367 legge n. 311/2004 (il cui rilievo sembra doversi escludere ai
fini che qui interessano, in virtù della clausola inserita all’art. 6 del contratto
tra la G. S.p.a. e la S. S.p.a., con cui quest’ultima si è impegnata a non
riutilizzare, commercializzare, trattenere e conservare i documenti, i dati e le
informazioni catastali ed ipotecarie acquisite, in esenzione da imposte, dagli
archivi degli Uffici dell’Agenzia del Territorio in esecuzione del mandato),
ciò che preclude la legittimità della pretesa al riconoscimento del beneficio
fiscale è la non demandabilità dell’incarico. Se è vero che il concessionario
sotto il profilo oggettivo svolge una pubblica funzione e sotto il profilo soggettivo
agisce in sostituzione del soggetto pubblico istituzionalmente competente,
tanto da potersi definire come longa manus di quest’ultimo ed organo
indiretto della P.A., deve ritenersi che neanche un mandato con rappresentanza
possa costituire titolo legittimante l’attività di visura di cui trattasi da
parte di soggetti diversi dal Concessionario, nonostante la sua tipica struttu-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 219
ra consenta l’imputazione diretta delle fattispecie e dei conseguenti effetti
giuridici in capo al mandante.
Atale conclusione non osta il carattere non autoritativo dell’attività svolta,
in quanto essa è meramente strumentale alla riscossione coattiva dei tributi,
la quale è tipico esempio di pubblico potere, e, quindi, la P.A. non opera
in senso stretto iure privatorum.
Peraltro, come suggerito da codesta Agenzia del Territorio, il
Concessionario si surroga alla P.A. nei rapporti con i contribuenti e, quindi,
agisce nell’interesse della stessa P.A., di talché la norma di cui si contesta
l’interpretazione implica l’esistenza di un rapporto che, travalicando i limiti
del semplice svolgimento di attività gestoria, si risolve in un rapporto
fiduciario “intuitu personae”, come, del resto, si evince dal tenore di alcune
disposizioni riguardanti i requisiti di onorabilità e professionalità dei partecipanti
al capitale sociale e di coloro che svolgono funzioni di amministrazione,
direzione e controllo delle società affidatarie, la necessità della
preventiva autorizzazione del Ministero delle finanze per l’efficacia dei trasferimenti
delle azioni per atto tra vivi, delle fusioni e delle scissioni, l’obbligo
di rispetto del codice deontologico sulla correttezza nella gestione
delle procedure.
In secondo luogo, a sostegno di siffatta interpretazione depongono dati
letterali, i quali, lungi dal fornire una esegesi formalistica e sterile, individuano
con precisione l’estensione applicativa della norma.
L’Agenzia delle Entrate con il provvedimento 18 dicembre 2006 ha proceduto
all’individuazione dei dipendenti degli agenti della riscossione che
possono accedere ai dati di cui all’art. 35 c. 25 e 26 D.L. n. 223/2006, convertito
dalla legge n. 248/2006. Limitando l’analisi ai dati cui si riferisce il
c. 26 dell’articolo citato, ossia a tutti i dati rilevanti ai fini della riscossione
coattiva (salvo quelli relativi ai rapporti detenuti con gli operatori finanziari
e messi da questi ultimi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria) e,
quindi, anche ai dati ipotecari e catastali in questione, il provvedimento summenzionato
stabilisce che l’accesso viene autorizzato ai dipendenti indicati
dal relativo direttore generale, sulla base di valutazioni di competenza e professionalit
à, e il cui rapporto di lavoro con l’agente della riscossione è in
essere da almeno un anno.
E pur vero che, in linea generale, i soggetti pubblici sono liberi di avvalersi
di modelli giuridici rientranti nella disciplina civilistica, ma pur sempre
nei limiti dei principi e con gli effetti giuridici fissati dalla legge. Il silenzio
della legge, in questo caso, è sintomatico di una contraria volontà del legislatore,
il quale, nella redazione di una norma derogatoria e, quindi, speciale
rispetto all’ordinario trattamento fiscale previsto per l’attività di visurazione
ipocatastale, avrebbe dovuto stabilire espressamente la sua applicabilità a
soggetti terzi in qualità di mandatari.
In conclusione, l’interpretazione sistematica suggerisce una lettura
restrittiva dell’art. 47 bis d.P.R. cit., giustificata da fattori tanto soggettivi
quanto oggettivi, e, quindi, nega il beneficio fiscale in questione al terzo
mandatario della società concessionaria (…)».
220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S. – Circolare del 9 agosto 2007, n. 35 - Comunicazione di servizio
n.93/07.
Legittimazione nelle cause relative ai beni immobili dello Stato.
«Come è noto, l’art. 65 D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, attribuisce
all’Agenzia del Demanio (ora ente pubblico economico: art. 1 D.Lgs. 3
luglio 2003, n. 173) “l’amministrazione dei beni immobili dello Stato, con il
compito di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego, di sviluppare il sistema
informativo sui beni del demanio e del patrimonio, utilizzando in ogni caso,
nella valutazione dei beni a fini conoscitivi ed operativi, criteri di mercato,
di gestire, con criteri imprenditoriali, i programmi di vendita, di provvista,
anche mediante l’acquisizione sul mercato, di utilizzo e di manutenzione
ordinaria e straordinaria di tali immobili”.
I rapporti del Ministero dell’Economia e delle Finanze con l’Agenzia del
Demanio (così come con le altre Agenzie fiscali istituite con il medesimo
D.Lgs. n. 300/99) sono disciplinati in particolare dall’ art. 59, nel quale si
prevedono l’attività di indirizzo ministeriale e la stipulazione di apposite
convenzioni con le quali vengono fissati, tra l’altro, gli obiettivi da raggiungere,
le direttive generali sui criteri di gestione, le risorse disponibili, le
modalità di vigilanza, gli aspetti economici del rapporto (oneri di gestione,
quota incentivante etc.).
Ho dovuto constatare che nella gestione delle controversie relative ai
beni immobili si sono tenuti, da parte dell’Avvocatura dello Stato, comportamenti
diversi in ordine all’individuazione del soggetto titolare della legittimazione
processuale, probabilmente coerenti, ciascuno, con il convincimento
raggiunto in merito alla titolarità del bene; è così avvenuto che a volte
si è eccepito il difetto di legittimazione passiva del Ministero predetto nelle
cause di usucapione promosse dai possessori o in quelle di rivendica promosse
da chi assume di essere proprietario dei beni; a volte si è eccepito,
ceteris paribus, il difetto di legittimazione dell’Agenzia; a volte, specie per
le cause attive, si è proceduto per entrambi. È chiaro che la soluzione da dare
al tema processuale della legittimazione postula la risposta al quesito circa la
titolarità sostanziale, essendo evidente che se si ritiene il trapasso della propriet
à dei beni al Demanio non può dubitarsi della legittimazione processuale
di questo; viceversa, nell’ipotesi di conservata titolarità (o “appartenenza”
o “proprietà’) dei beni allo Stato (e, dunque, per esso, al Ministero
dell’Economia e delle Finanze), resterebbe il problema di una legittimazione
del Demanio “aggiuntiva” a quella statale, derivante dalle funzioni di
amministrazione, dalle quali non è aliena l’attività di difesa in giudizio della
stessa titolarità.
Non pare che per i beni patrimoniali (quelli del “patrimonio disponibile
” in ordine ai quali la posizione dominicale dell’ente titolare non è diversa
da quella di qualsiasi privato proprietario) si ponga un reale dubbio: l’art. 65
sopraindicato ha certamente attribuito l’amministrazione, e non la proprietà,
all’ente Demanio; il problema si pone, invece, per i beni della c.d. proprietà
pubblica (demanio e patrimonio indisponibile) per i quali è ancora discusso
in dottrina e in giurisprudenza il tema del confine tra dominium (della res) ed
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 221
esercizio funzionale dei poteri (qui la res è intesa come mero strumento della
funzione), di modo che il passaggio della gestione e delle competenze all’
Agenzia del Demanio potrebbe sollecitare il dubbio circa l’effettiva attribuzione
anche della “titolarità” del bene: ed il dubbio è stato ampiamente
discusso anche all’interno del Ministero, sostenendo divergenti opinioni il
Dipartimento per le politiche fiscali, orientato nel senso di escludere un qualsiasi
coinvolgimento del Ministero quale soggetto attivo o passivo di procedimenti
contenziosi, e il Dipartimento del Tesoro, che, viceversa, ritiene titolare
del patrimonio che l’Agenzia amministra il “soggetto Stato” alla cui
autorizzazione peraltro è subordinato l’esercizio diretto del potere di disposizione
dei cespiti da parte dell’Agenzia.
Nel quadro appena delineato ritengo necessario indicare comunque una
linea operativa unitaria che, salvo diverse indicazioni che dovessero in seguito
emergere dalla giurisprudenza, al momento dispongo, sentito il Comitato
Consultivo, sia la seguente:
1) nelle controversie di impugnazione di atti si costituirà nei giudizi a
difendere l’atto solo il soggetto che ne è stato l’autore; parimenti si costituir
à il solo autore del “comportamento” quando la causa abbia ad oggetto le
conseguenti pretese del terzo interessato, ed il solo stipulante nelle cause
relative a contratti;
2) nelle azioni reali relative alla “proprietà” dell’immobile, ad esempio
nelle cause di usucapione o rivendica o negatorie reali e simili, e comunque
in ogni vicenda in cui si tratti di “acquistare” o di “perdere” o di “modificare
” o di “limitare” la proprietà di un bene, l’Avvocatura si costituirà in giudizio
per entrambi gli Enti (il MEF e il Demanio), il MEF essendo ancora il
centro di riferimento e di imputazione della “proprietà” statale e il Demanio
essendo il gestore amministratore (tra i compiti dell’amministratore non può
escludersi la difesa della proprietà); in tali casi la costituzione per entrambi
avverrà a prescindere dall’individuazione del convenuto, tra i due predetti,
fatta dall’attore, e si eviterà qualsiasi eccezione di difetto di legittimazione.
Gli elementi per la difesa vanno in ogni caso richiesti all’Agenzia del
Demanio, che fornirà tutto il necessario supporto.
La presente direttiva non esclude l’eventualità che singoli casi di specie
possano suggerire un diverso comportamento, che dovrà comunque essere
segnalato, ove possibile previamente, a questa Avvocatura Generale.
L’Avvocato Generale Oscar Fiumara»
A.G.S. – Parere del 23 agosto 2007, n. 91651(*).
Disciplina fiscale applicabile, ai fini delle imposte indirette, alle operazioni
di cessione dei beni di proprietà indivisa di coniugi in regime di comunione
legale (consultivo 16086/07, avvocato G. De Bellis)
222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in via ordinaria.
«(…) codesta Agenzia ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla
disciplina fiscale applicabile, ai fini delle imposte indirette, alle operazioni
di cessione dei beni di proprietà indivisa di coniugi in regime di comunione
legale, ma utilizzati integralmente nell’impresa di uno dei coniugi.
In particolare viene evidenziato che la posizione dell’Amministrazione
secondo cui l’atto sarebbe assoggettabile per metà ad IVA e per l’altra metà
(relativa alla quota del coniuge non soggetto IVA) ad imposta di registro, non
è stata condivisa in vari pronunce della Suprema Corte, anche recenti.
Questa Avvocatura ritiene che la posizione di codesta Agenzia debba
essere confermata.
Non sembra infatti condivisibile la tesi espressa dalla Cassazione nella
sentenza 12 luglio 2004 n. 12853 secondo cui “l’assoggettamento ad IVA dell
’atto di cessione di un bene, che sia oggetto di comunione legale tra coniugi,
è assorbente rispetto alla sottoposizione all’imposta di registro. L’assorbimento
deriva dal fatto che, dal punto di vista del diritto tributario, l’atto di cessione
non è un atto plurimo avente per oggetto singole quote di comune propriet
à valutabili separatamente in dipendenza della natura dei soggetti proprietari,
ma un atto unitario, rilevante oggettivamente come atto d’impresa”.
È innegabile infatti che da un punto di vista civilistico, il coniuge non
soggetto IVA ha operato una vendita di un suo bene (rectius: della sua quota
del 50%) personale, come tale soggetto ad imposta di registro, mentre l’assorbimento
nell’altra operazione imponibile ai fini IVA (la cessione dell’altro
coniuge, soggetto passivo IVA, della sua quota del 50%) non risulta previsto
in alcuna disposizione.
La mera circostanza che l’intero bene sia utilizzato nell’attività economica
di uno dei coniugi non è tale da incidere sul fatto, di per sé decisivo,
che cedenti sono entrambi i coniugi, mentre assoggettato agli obblighi IVA è
solo uno di essi; ed infatti l’operazione posta in essere dal coniuge non soggetto
IVA non può ritenersi imponibile per mancanza del requisito soggettivo
previsto dall’art. 9 n. 1 della direttiva 2006/112/CE, in forza del quale “Si
considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in
qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai
risultati di detta attività”.
A meno che non si configuri l’ipotesi prevista dall’art. 178 c.c, in base
al quale “I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita
dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente
si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al
momento dello scioglimento di questa”.
Si ritiene infatti che tali acquisti (anche immobiliari) entrino a far parte
solo della c.d. “comunione de residuo”, con la conseguenza che fino allo
scioglimento della comunione i beni restano nella esclusiva titolarità del
coniuge che li utilizza nell’ambito della sua impresa.
In applicazione di tale principio in tema di detrazione dell’IVA la
Suprema Corte ha affermato di recente che «Ove un imprenditore in regime
di comunione legale con il coniuge (non imprenditore) acquisti un immobile
destinato alla propria attività (con il consenso del coniuge), la relativa ope-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 223
razione rientra integralmente nell’ambito dell’attività di impresa (e perciò
l’Iva versata al venditore è deducibile in toto) poiché i beni d’impresa entrano
nella comunione coniugale solo “se sussistono al momento dello scioglimento
” (art. 178 del codice civile) e, quindi, il diritto del coniuge non imprenditore
sui beni dell’impresa del coniuge imprenditore si configura come diritto
personale e non reale» (Cass. Sez. Trib. 9 maggio 2007 n. 10608).
Peraltro tale non sembra essere il caso prospettato, dal momento che trattasi
di bene in comunione legale alla cui cessione partecipa anche il coniuge non
soggetto IVA(sul presupposto evidentemente della sua comproprietà del bene).
Così come sembra doversi escludere la sussistenza di una società di fatto
tra i coniugi (non identificabile nella mera comunione legale dei beni: Cass.
1 giugno 1995 n. 6142), la cui esistenza avrebbe comportato di certo l’assoggettamento
ad IVA dell’intera cessione.
Il citato principio di “assorbimento” affermato nelle pronunce della
Suprema Corte, appare inoltre in contrasto con i principi generali in materia
di IVA, desumibili sia dalla normativa comunitaria (in particolare dalla direttiva
2006/112/CE) sia dalla interpretazione che la Corte di Giustizia delle
Comunità Europee ne ha dato.
In alcuni casi infatti la Corte di Giustizia ha espressamente previsto la
possibilità che nell’ambito di una medesima cessione (nella fattispecie si
trattava di un veicolo), fosse assoggettabile ad IVA solo una parte relativa a
singoli elementi dello stesso bene.
Ha infatti affermato la Corte che “Quando un soggetto passivo preleva
a fini estranei all’impresa un bene (nella fattispecie, un veicolo) acquistato
senza possibilità di dedurre l’imposta sul valore aggiunto e che è stato
oggetto, in un momento successivo al suo acquisto, di lavori per i quali l’imposta
sul valore aggiunto è stata dedotta, l’imposta sul valore aggiunto
dovuta in forza dell’art. 5, n. 6, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio
1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli
Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di
imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, riguarda solo gli
«elementi che compongono il bene» che hanno consentito una deduzione, e
cioè gli elementi che hanno definitivamente perduto le loro caratteristiche
distintive fisiche ed economiche nel momento in cui sono stati incorporati al
veicolo, in un momento successivo al suo acquisto, in seguito ad operazioni
di cessioni di beni che hanno comportato un incremento duraturo del valore
del veicolo, non interamente consumato al momento del prelievo” (sentenza
17 maggio 2001 in cause riunite C-322/99 e C-323/99).
Se addirittura nell’ambito di una cessione di un unico bene si è ritenuto
possibile assoggettare ad IVA la parte di cessione relativa ad alcuni componenti
dello stesso, non v’è ragione di escludere tale possibilità per una quota
indivisa di un immobile, tenuto conto altresì che il cedente tale quota non è
soggetto passivo IVA e che viene quindi a mancare il necessario requisito
soggettivo di cui al citato art. 9 par. 1 della direttiva 2006/112/CE.
Ulteriore conseguenza della tesi sostenuta dalla Suprema Corte, sarebbe
quella secondo cui l’acquirente soggetto IVA, porterebbe in detrazione l’in-
224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tera imposta assolta su tutto l’immobile, in violazione dei principi in tema di
detraibilità dell’IVA contenuti negli artt. 19 e ss. del d.P.R. n. 633/72 e 167 e
ss. della direttiva 2006/112/CE, che non consentono di detrarre l’imposta
assolta se non relativa ad operazioni effettivamente imponibili.
Circa la posizione della giurisprudenza, questa Avvocatura cercherà di
ottenerne una modifica, eventualmente sollecitando la Suprema Corte a sollevare
una questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia ai sensi
dell’art. 234 del Trattato.
A tal fine è opportuno che codesta Agenzia segnali alla Scrivente eventuali
situazioni pendenti da utilizzare come cause “pilota”».
A.G.S. - Parere del 30 agosto 2007, n. 93512(*).
Riforma delle esecuzioni mobiliari ex art. 547 c.p.c. (consultivo
30175/07, avvocato M. Borgo).
«(…) codesto Dicastero ha chiesto alla Scrivente di esprimere il proprio
parere in ordine alla correttezza delle richieste, formulate dai creditori del
personale della Polizia di Stato, di ricevere la dichiarazione di quantità ex art.
547 c.p.c. a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno e si rappresenta
quanto segue.
La legge n. 52/06, come noto, ha innovato, tra le altre cose, in materia di
forma del pignoramento presso terzi e della relativa dichiarazione di quantità.
A seguito della predetta novella legislativa, la dichiarazione di cui
all’art. 547 c.p.c. deve essere resa dal terzo innanzi al Giudice unicamente
nel caso in cui il pignoramento riguarda i crediti di cui all’art. 545, commi
terzo e quarto (somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di
altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego comprese quelle
dovute a causa di licenziamento).
Nelle altre ipotesi, la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. deve essere
comunicata al creditore procedente a mezzo raccomandata entro dieci giorni
dalla notificazione dell’atto di pignoramento.
In ragione di tali novità, l’atto di pignoramento deve contenere rispettivamente:
- la citazione del terzo e del debitore a comparire davanti al Giudice del
luogo di residenza del terzo, affinché questi faccia la dichiarazione di cui
all’art. 547 c.p.c. ed il debitore sia presente alla dichiarazione e agli atti ulteriori,
con invito al terzo a comparire, nel caso in cui il pignoramento riguarda
i crediti di cui all’art. 545, commi terzo e quarto, c.p.c.;
- l’invito rivolto al terzo a comunicare la dichiarazione di cui all’art. 547
c.p.c. al creditore procedente, a mezzo raccomandata e nel termine di dieci
giorni, negli altri casi.
Alla luce del predetto quadro normativo, questo Generale Ufficio ritiene
che, allorché il pignoramento presso terzi abbia ad oggetto lo stipendio del
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 225
(*) Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in via ordinaria.
personale della Polizia di Stato, la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c.
debba essere resa da codesto Dicastero innanzi al Giudice; in tale caso, infatti,
viene in rilievo il pignoramento di un credito retributivo in ordine al quale
il legislatore della novella ha ritenuto opportuno conservare le maggiori
garanzie procedimentali in precedenza previste (comparizione del terzo
davanti al Giudice).
Né, al fine di pervenire ad una diversa conclusione, varrebbe valorizzare
la circostanza che l’art. 545, comma 3, del c.p.c. fa riferimento alle
“somme dovute dai privati a titolo di stipendio….”; tale espressione si spiega
agevolmente con il fatto che la disposizione codicistica si riferisce alle
retribuzioni corrisposte da soggetti privati, atteso che il pignoramento degli
stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazione
trova la propria disciplina nella normativa di settore e precisamente nel
d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180.
Da ultimo, si evidenzia che, ove dovesse ritenersi che, con riferimento ai
pignoramenti dei crediti retributivi del personale delle pubbliche amministrazioni,
la dichiarazione di quantità ex art. 547 c.p.c. debba essere effettuata
a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno da indirizzarsi al creditore
procedente, si verrebbe a creare una disomogeneità di disciplina rispetto
ai pignoramenti dei crediti retributivi del personale dipendente da soggetti
privati, che mal si concilierebbe con il processo di c.d. privatizzazione del
rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, avviato
da ormai un decennio».
A.G.S. - Parere del 3 ottobre 2007 n. 105161(*)
Equiparabilità del decreto penale alla sentenza penale di condanna ai
fini dell’esclusione dall’arruolamento (consultivo 28755/07, avvocato D.
Ranucci).
«(…) codesta amministrazione ha richiesto il parere della Scrivente circa
la equiparabilità del decreto penale di condanna alla sentenza penale di condanna
ai fini dell’esclusione dall’arruolamento e/o decadenze dalla ferma,
tenuto conto che i bandi di arruolamento prevedono tra i requisiti necessari
a tal fine l’assenza di sentenze penali per delitti non colposi, comprese le
sentenze pronunciate ex art. 444 c.p.p., che, secondo il successivo art. 445,
“salve diverse disposizioni di legge sono equiparate ad una pronuncia di condanna
”.
1) L’art. 459 c.p.p. dispone che “ nei procedimenti per reati perseguibili
d’ufficio ed in quelli perseguibili a querela se questa è stata validamente presentata
… il P.M. , quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena
pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può pre-
226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in via ordinaria.
sentare al G.I.P. … richiesta motivata di emissione di decreto penale di condanna,
indicando la misura della pena”.
Il procedimento per decreto appartiene al genus dei cd. riti semplificati,
e si caratterizza per il fatto che la “condanna” è pronunciata allo stato degli
atti, ed il concreto esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato è previsto
solo nella fase successiva, ed eventuale, della opposizione.
Secondo la giurisprudenza penale (Cass. Sez. V°, n. 10621 del 7 marzo
2003) poi “l’opposizione a decreto penale di condanna è una forma di impugnazione,
anche se speciale, soggetta alla disciplina e ai principi generali per
esse previste”.
2) Ciò posto, occorre preliminarmente prendere atto di orientamenti non
univoci, espressi dalla giurisprudenza amministrativa nelle diverse materie
nelle quali si è posto il problema in esame.
In materia di concessione/revoca della carta di soggiorno a soggetti
extracomunitari (art. 9, comma 3, d.vo 286/98) si è ritenuto da parte della
giurisprudenza (TAR Marche n. 320/2006) che il riferimento al “concetto di
“«sentenza» va interpretato in senso stretto, visto il riferimento esplicito alle
sole sentenze e non anche al decreto di condanna. Si tratta di provvedimenti
che hanno un non analogo regime, visto che la sentenza deriva da un procedimento
caratterizzato dal dibattimento, invece del tutto assente, se non in
via eventuale e su iniziativa del soggetto condannato, nel procedimento per
decreto. D’altra parte vi è anche diversità di effetti , visto che il decreto di
condanna non ha efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi,
per cui i fatti posti a base della condanna non sono considerati coperti dalla
incontrovertibilità propria del giudicato che scaturisce da una sentenza”.
Analogamente, sempre in tema di carta/permesso di soggiorno, il TAR
Friuli (n. 692/2006) ha affermato che “ai sensi dell’art. 460, 5° comma,
c.p.p. il decreto penale di condanna, anche se divenuto esecutivo, non fa
stato nel giudizio civile o amministrativo. Ciò significa che esso non ha rilevanza
nel procedimento (amministrativo diretto al rilascio della carta), e
non può essere valutato in senso sfavorevole al richiedente per il giudizio, di
carattere amministrativo, di pericolosità ex lege di colui nei confronti del
quale è stato emesso decreto penale. Lo dimostra, a fortiori, il fatto che,
quando la legge ha voluto, in via eccezionale, far discendere l’esclusione
dalla possibilità di ottenere un provvedimento amministrativo di carattere
ampliativo, a causa dell’emissione di un decreto penale di condanna, ha
dovuto statuirlo espressamente (v. p. es. art. 38, 1° comma, lett. c) del D.
Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 in materia di contratti pubblici)”.
In senso opposto TAR Piemonte (n. 1122/2006) secondo cui “il decreto
penale di condanna spiega comunque i suoi effetti preclusivi del rilascio
della carta di soggiorno ai sensi dell’art. 9 comma 1 del d.vo 286/98, che
prevede il mancato rilascio della carta di soggiorno anche in caso di sentenze
di condanna non definitive (com’è il decreto penale di condanna ancora
suscettibile di essere opposto), né la natura del decreto penale di condanna
si discosta da quella di una rituale sentenza di condanna sotto il profilo dell
’accertamento della responsabilità penale ... pertanto la sua emanazione da
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 227
parte del GIP deve considerarsi fatto ostativo al rilascio della carta di soggiorno
al pari delle altre forme di accertamento della responsabilità”.
In materia di esclusione da gare il TAR Veneto (n. 1909/06) afferma che
“la non applicabilità dell’esclusione prevista dall’art. 75 lett. C) del d.P.R. n.
554 del 1999 nei casi di condanna con decreto penale appare ricavabile,
innanzitutto, dal dato letterale della norma che, per quanto qui più rileva, indica,
tra le ipotesi che determinano l’esclusione dalle procedure per l’affidamento
dei pubblici appalti e l’impossibilità di stipulare i relativi contratti, esclusivamente
l’aver riportato «sentenza di condanna passata in giudicato, oppure
di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura
penale, per reati che incidono sull’affidabilità morale e professionale»,
senza che si faccia menzione alcuna della peculiare fattispecie, disciplinata
dagli articoli 459 e seguenti cod. proc. pen., del (procedimento per) decreto
penale di condanna. Sotto un primo profilo, se in sede di adozione del regolamento
n. 554 del 1999 si fosse voluto dare rilievo, ai fini dell’esclusione, anche
al decreto penale di condanna, sarebbe stato agevole aggiungere, alla lettera
c), le parole «oppure decreto penale di condanna divenuto irrevocabile», o
espressione analoga. Sempre dal punto di vista letterale appare significativo
soggiungere che mentre l’ultima parte dell’art. 75, comma 1, cit. fa salva l’applicabilit
à dell’art. 178 c. p., relativo alla riabilitazione dalle sentenze di condanna,
e dell’art. 445, comma 2, c.p.p., sull’estinzione del reato nei casi di sentenza
pronunciata ex art. 444 c.p.p., nessun cenno viene fatto alla omologa
disposizione dettata dall’art. 460, comma 5 c.p.p. sull’estinzione del reato, in
relazione ai procedimenti definiti con decreto penale di condanna: anche per
questa ragione si può plausibilmente sostenere che il decreto penale di condanna
non rientra tra le pronunce dell’autorità giudiziaria in grado di precludere
la partecipazione alla gara. A sostegno dell’interpretazione su esposta vale
soggiungere che la formulazione dell’art. 75/C) è sì generica, ma non per ciò
che riguarda i provvedimenti giurisdizionali considerati dalla norma stessa.
Sotto un secondo aspetto la condanna con decreto penale si differenzia in
maniera significativa dalla condanna derivante da sentenza. E infatti: - al procedimento
per decreto si può ricorrere soltanto qualora il pubblico ministero
ritenga che si debba applicare unicamente una pena pecuniaria, anche se
inflitta in sostituzione di pena detentiva: si tratta, per lo più, di reati di scarsa
rilevanza dal punto di vista dell’allarme sociale; - il decreto penale viene
emesso in assenza di contraddittorio (al condannato spetta un contraddittorio
«differito», se lo chiede, in sede di opposizione ex art. 461 c.p.p.); - il decreto
penale si differenzia dalla sentenza anche perché il primo non ha efficacia di
giudicato nel giudizio civile o amministrativo (cfr. art. 460, n. 5, c.p.p.)”.
In tema di diniego del porto d’armi il TAR Aosta, con sentenza n.
75/2004, ha ritenuto che “i fatti sui quali si fonda il decreto penale di condanna
non sono il risultato di un accertamento dibattimentale, ma rientrano tra
quelli indicati dal P.M. nel proprio atto di accusa, per cui essi non possono,
ex se, giustificare l’adozione dell’atto impugnato. Proprio per l’assenza di
accertamento nel giudizio dei fatti ascritti al condannato nel decreto penale,
la giurisprudenza ha chiarito che gli effetti di esso non possono ritenersi pari-
228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ficabili a quelli di una sentenza di condanna (TAR Friuli Venezia Giulia, 29
luglio 1998 n. 1003; TAR Abruzzo, Pescara, 16 maggio 1998 n. 405, nella
quale ultima sentenza si è ritenuto che il decreto penale di condanna non
fosse ostativo al conseguimento della qualifica di guardia giurata)”.
In senso opposto è tuttavia, proprio in punto di gare, il Cons. St. sez. VI,
n.7195/06 secondo cui “è vero che l’art. 75 co. 1 lett. c menziona le sentenze
di condanna passate in giudicato e di applicazione della pena su richiesta ex
art. 444 c.p.p. e non il decreto penale di condanna tra le ipotesi incidenti sull
’affidabilità morale e professionale del contraente. È però altrettanto vero che
il decreto penale di condanna va ad essi equiparato ai fini dell’esistenza del
fatto da valutare come significativo dell’esclusione. Anche se non produce gli
stessi effetti della sentenza passata in giudicato, il decreto penale di condanna
ha pur sempre valore decisorio dell’esistenza del fatto penalmente contestato.
L’art. 460 c.p.p. prescrive che il decreto debba contenere l’enunciazione del
fatto, delle circostanze e delle disposizioni di legge violate nonché la concisa
esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata. Una
volta esecutivo, l’accertamento contenuto nel decreto è pertanto suscettibile di
essere utilizzato per tutte le valutazioni conseguenti, senza la possibilità di
discussione del suo valore probatorio in analogia al giudicato esterno”.
Nello stesso senso (Cons. St. n. 811/2006) secondo cui “quanto alla
insufficienza del decreto penale di condanna a costituire fonte di prova della
responsabilità per l’illecito penale, deve osservarsi che tale decreto contiene
un sia pur sintetico accertamento di reità come risulta dall’art. 460, lett.
c), c.p.p., tanto che la giurisprudenza amministrativa ritiene esattamente che
in sede disciplinare non possa tenersi conto delle prove contrarie sull’esistenza
e qualificazione del fatto offerte dal condannato, dato che la lievità
del fatto e la tenuità della pena non influiscono sulla qualificazione del
reato, (cfr. Cons. giust. amm., sez. riun., 18 maggio 1999 n. 828/1997). Sotto
tale angolazione non rileva che il decreto penale esecutivo sia caratterizzato
dalla c.d. inefficacia extrapenale, non dispiegando effetti sui giudizi
amministrativi e civili ex art. 460, co. 5, c.p.p., essendo l’autorità disciplinare
sempre vincolata alle risultanze del processo penale quanto all’accertamento
dei fatti materiali, quale che sia l’esito dello stesso”.
Dalla analisi effettuata emerge che la giurisprudenza pur quando evidenzia
il dato per cui il decreto penale “non ha efficacia nel giudizio civile o
amministrativo” (art. 460, comma 5, c.p.p.), tuttavia, sotto diverso profilo,
non manca di sottolineare che il decreto penale di condanna contiene comunque
l’accertamento della responsabilità penale del soggetto interessato, come
ha lucidamente chiarito il Consiglio di Stato: “deve osservarsi che tale decreto
contiene un sia pur sintetico accertamento di reità” (n. 811/2006 cit.).
In realtà, a parere della Scrivente, che il decreto penale attesti l’esistenza
del fatto penalmente contestato discende palesemente dalla considerazione
che esso deve contenere “l’enunciazione del fatto e delle disposizioni di
legge violate”, nonché “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto
su cui la decisione è fondata” (art. 460, comma 1, c.p.p.), e che, l’art. 460 co.
5espressamente dispone che “il reato è estinto …. in questo caso si estingue
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 229
ogni effetto penale e la condanna…”, elementi univoci nel senso che comunque
la condotta sanzionata tramite il procedimento per decreto ha natura di
reato e che il decreto stesso contiene una pronuncia di condanna.
Ciò significa che l’accertamento relativo alla commissione del reato contenuto
nel decreto è certamente suscettibile di essere utilizzato per ogni conseguente
valutazione, in conformità a quanto in tal senso osservato dal C.d.S.
nella decisione n. 811/2006, specie quando oggetto della valutazione stessa sia
un provvedimento amministrativo, ampliativo della sfera giuridica dell’istante.
Applicando gli esposti principi al caso in esame, a parere di questa Avvocatura
sembra corretto concludere nel senso che il decreto penale di condanna costituisce
l’affermazione, espressa in sede giurisdizionale, della commissione di un
reato, per cui l’aver riportato un decreto penale di condanna si pone, alla stregua
della sentenza di condanna o di patteggiamento, quale condizione incompatibile
con l’arruolamento nella organizzazione militare dello Stato italiano, attesa la
peculiarità della funzione che il militare è destinato a svolgere, di precipuo rilievo
pubblico in quanto connessa con esigenze di tutela e difesa dello Stato.
Pertanto, sebbene i singoli bandi non prevedano espressamente, tra i
requisiti per l’arruolamento, l’assenza di decreti penali di condanna, tuttavia
tale condizione deve ritenersi implicitamente ricompresa nella sfera di applicazione
nella norma, laddove la ratio sottesa alla richiesta assenza di sentenze
penali di condanna per delitti non colposi (ovvero di procedimenti penali
in corso per delitti non colposi), non può che essere quella di escludere dall
’arruolamento i soggetti nei confronti dei quali sia stata accertata, a qualunque
titolo, una responsabilità penale.
Da ultimo in questo senso, in conformità d’altra parte con l’orientamento
del Consiglio di Stato che, come visto, appare essere più rigoroso e restrittivo
rispetto ai tribunali di I° grado, si è espresso anche il TAR Lazio (sez. 1
bis, n. 1474 del 20 febbraio 2007(*)), secondo cui il decreto penale di condanna
“legittima comunque un giudizio di disfavore al fine della ammissione
alla richiesta rafferma” e “si pone come insuperabile causa ostativa (alla
rafferma stessa) ”.
Le considerazioni esposte hanno portata assorbente del secondo quesito
articolato da codesta amministrazione ,“se la presenza del decreto penale di
condanna configuri comunque il difetto di moralità e condotta a carico dell
’aspirante, in quanto il reato sia idoneo a manifestare una contraddizione
con i compiti istituzionali”.
Quanto infine all’ultimo quesito, si evidenzia che analoga soluzione
deve essere accolta anche per il caso in cui l’aspirante abbia ottenuto il condono
della pena a seguito di indulto, sia che la pena sia relativa a sentenza di
condanna che a decreto penale di condanna per delitto non colposo. Infatti
l’indulto, ai sensi dell’art. 174 c.p., “non estingue le pene accessorie e neppure
gli altri effetti penali della condanna”, trattandosi di causa di estinzione
230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) Di seguito pubblicata.
della pena e non , a differenza dell’amnistia, del reato.
Da ciò consegue che, anche in presenza di tale forma di condono, rimane
fermo l’accertamento giudiziale relativo alla commissione del reato, che pertanto
deve necessariamente essere considerato ostativo ai fini dell’arruolamento.
In conclusione, allo stato e salvo ripensamenti del massimo organo di
giustizia amministrativa, codesta Amministrazione dovrà escludere dalla
selezione i soggetti che abbiano riportato decreti penali di condanna, evidenziandosi
inoltre che appare opportuno modificare i prossimi bandi nel senso
di includere espressamente tale causa ostativa, anche al fine di evitare eventuale
contenzioso».
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Roma, sezione prima bis, sentenza
20 febbraio 2007, n. 1474 - Pres. Elia Orciuolo – Rel. D. Scala – B.A. (Avv. A.F.
Tartaglia) c/ Ministero della Difesa (Avv. dello Stato D. Ranucci).
«Fatto - Espone il ricorrente, caporal maggiore dell’esercito in rafferma biennale fino
al 4 dicembre 2006, di avere presentato domanda di rafferma per ulteriori anni due e di non
essere stato ammesso a tanto con l’impugnato provvedimento prot. nr. MD/GMIL 03
II/7/4/2006/0096492 per essere stato egli destinatario di un decreto penale di condanna per
delitto non colposo (artt. 56, tentativo, e 494, sostituzione di persona, del codice penale),
emesso il 6 luglio 2006 dal GIP del Tribunale di Salerno.
Il ricorrente ha contrastato tale provvedimento di non ammissione e gli atti connessi,
deducendone la illegittimità sotto vari aspetti e concludendo per il loro annullamento, previa
sospensione; con vittoria di spese.
Il Ministero della Difesa si è costituito in giudizio, senza peraltro, spiegare memoria
difensiva.
Nella camera di consiglio del 14 febbraio 2007, fissata per l’esame della istanza cautelare,
ritenendosi non necessario l’espletamento di istruttoria e ravvisandosi inoltre la possibilit
à, in relazione alle censure dedotte, di definire immediatamente la questione nel merito,
il ricorso è stato ritenuto al fine della emanazione di decisione in forma semplificata, previo
avviso datone alle parti presenti.
Diritto - Il ricorso è infondato e va respinto, per quanto si viene a dire in relazione alle
censure in essere.
Con il primo motivo è dedotta illegittimità dell’art. 3, primo comma, lett. d, e secondo
comma, del D.M. (Difesa) 8 luglio 2005 (concernente le modalità di ammissione alle rafferme
biennali dei volontari in ferma prefissata quadriennale dell’Esercito, della Marina e
dell’Aeronautica) relativo, nelle disposizioni richiamate, alla condizione, al fine della
ammissione alle rafferme, di non avere riportato condanne penali per delitti non colposi, sia
al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda, sia successivamente
fino alla data di ammissione alla rafferma richiesta.
La illegittimità è dedotta nella considerazione che il decreto penale in questione non
potrebbe essere tenuto presente in quanto egli ricorrente ha tempestivamente proposto opposizione
(chiedendo il giudizio ordinario), cosicché il decreto non è divenuto esecutivo e
dovrebbe quindi prevalere il principio di cui all’art. 27, secondo comma, della Costituzione,
in base al quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva;
l’Amministrazione quindi avrebbe tratto, dalla sola emissione di un decreto penale, conse-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 231
guenze negative contrastanti con la presunzione di innocenza.
La censura non è fondata.
Il principio di presunzione di innocenza fino alla sentenza di condanna definitiva, affermato
dalla Costituzione, è inanemente invocato, dato che, sia nel provvedimento di non
ammissione alla rafferma, sia nella normativa dettata dal sopra citato decreto ministeriale,
non si fa questione di colpevolezza dell’interessato ma, soltanto, per quanto qui occorre, di
condanna per delitto non colposo.
E, nella fattispecie, il ricorrente risulta condannato con il decreto penale sopra citato, né
tale decreto risulta, allo stato, essere stato oggetto di un eventuale provvedimento di revoca.
Il che, pur in assenza di un ordine di esecuzione del decreto, legittima comunque un
giudizio di disfavore al fine della ammissione alla richiesta rafferma, manifesto essendo che
la posizione di un soggetto condannato, pur se con provvedimento non definitivo, è diversa
dalla posizione di un soggetto che tale non sia; cosicché si presenta non fondata anche la
deduzione di disparità di trattamento (contenuta nelle pagg. 7-8 del ricorso), che il ricorrente
assume consumarsi in danno dei condannati rispetto a coloro che non sono coinvolti in
alcuna vicenda penale.
E tanto esclude altresì che l’Amministrazione si sia determinata, come invece assume
il ricorrente a pag. 6 del ricorso, sulla base dell’inesistente presupposto della definitività del
decreto di condanna.
Quanto, poi, alla deduzione, anch’essa contenuta nel motivo in trattazione, secondo la
quale l’Amministrazione avrebbe potuto, eventualmente, disporre l’ammissione con riserva
del ricorrente alla rafferma in attesa della definitiva conclusione del procedimento penale,
va osservato che ciò non risulta previsto dalla normativa, né il ricorrente ha fornito una
eventuale indicazione sul punto.
Quanto, infine, alla ulteriore deduzione con la quale si rappresenta che il ricorrente ha
mantenuto eccellenti qualità morali e di condotta nel periodo di oltre cinque anni già trascorso
nell’esercito, per cui l’ostatività alla rafferma, desunta dalla circostanza del coinvolgimento
in un procedimento penale per un fatto di nessuna rilevanza penale e comunque non
avvenuto ma solo affermato ingiustamente (cfr. pag. 11 del ricorso), darebbe luogo ad ingiustizia
e discriminazione, va osservato che sarebbe irrilevante, oltre che improprio, investigare
sulla posizione del ricorrente nell’ambito del procedimento penale che lo vede coinvolto,
tenuto conto che, a fronte della previsione della necessità che il richiedente non sia condannato
per delitto non colposo, una condanna come quella comminata al ricorrente si pone
come insuperabile causa ostativa.
Con il secondo motivo è dedotta illegittimità nella considerazione che l’esclusione da una
procedura selettiva sarebbe atto discrezionale, per cui l’Amministrazione, prima di procedere
nel senso, avrebbe dovuto valutare la posizione del ricorrente nell’ambito del procedimento
penale che lo vede coinvolto, tanto più che, essendo terminato il periodo della rafferma (a cui
il ricorrente era stato in precedenza ammesso) il 4 dicembre 2006, ed essendo stato notificato
l’impugnato provvedimento di diniego di nuova rafferma il successivo 11 dicembre 2006, si
era ormai ingenerato nel ricorrente, che era rimasto in servizio, un affidamento circa l’ammissione
alla nuova rafferma, tutelato dall’ordinamento; è altresì dedotto che tale provvedimento
di diniego costituirebbe atto di autotutela, adottato in carenza di potere, questo essendo da ritenere
ormai consumato per avere il ricorrente presentato domanda di rafferma da tempo ben
anteriore alla notificazione, avvenuta il 29 novembre 2006, del decreto penale, e privo (l’atto
di autotutela) della motivazione sull’interesse pubblico all’adozione dello stesso atto, motivazione
necessaria a cagione del citato affidamento.
232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il motivo si rivela non fondato.
E invero, quanto al primo aspetto della censura, va osservato che la non ammissione,
essendo conseguente alla carenza di una condizione per ottenere la rafferma, non può essere
qualificata come atto discrezionale, dato che, in esito alla riscontrata mancanza di una
condizione del genere, l’Amministrazione non può che adottare il provvedimento prescritto,
e cioè un atto di non ammissione.
Quanto al secondo aspetto, va osservato che l’affidamento sulla ormai intervenuta
ammissione alla richiesta rafferma non ha assunto, nella specie, carattere di stabilità; e invero,
stante la estrema vicinanza temporale (sette giorni, dal 4 all’11 novembre) delle date
sopra menzionate, il periodo del servizio prestato dopo la scadenza della rafferma alla quale
il ricorrente era stato a suo tempo ammesso si presenta manifestamente non utile a far ingenerare
nell’interessato il ragionevole convincimento del superamento, per motivo non noto,
della causa preclusiva della ammissione alla rafferma richiesta.
Ciò comporta il rigetto altresì delle ulteriori deduzioni sulla illegittimità dell’atto di
diniego ove considerato come atto di autotutela: sia perché un eventuale pregresso atto di
ammissione non risulta essere stato mai emanato; sia perché, stante la predetta estrema vicinanza
temporale, un eventuale atto di autotutela non avrebbe avuto necessità di una particolare
motivazione in ordine alla sussistenza di ragioni di pubblico interesse per la sua adozione,
principio essendo che ragioni del genere occorrono allorquando, e per quanto si è osservato
non ricorre il caso, possa ritenersi essersi consolidata la posizione dell’interessato.
Con il terzo, ed ultimo, motivo, è dedotta illegittimità per tardività del provvedimento di
non ammissione, essendo stato superato il termine di giorni novanta entro il quale l’Amministrazione
avrebbe dovuto determinarsi sulla domanda di prolungamento della ferma, con ciò violandosi
il disposto dell’art. 2, terzo comma, della legge 7 agosto 1990 n. 241 e successive modificazioni
e integrazioni, che prevede un siffatto generale termine di giorni novanta per la conclusione
dei procedimenti allorquando, come nella specie, non è fissato un termine diverso.
La censura non è fondata.
È principio secondo cui i termini previsti dalla norma per lo svolgimento del procedimento
amministrativo sono ordinatori, salvo che essi siano dichiarati espressamente perentori,
e salvo che la perentorietà si desuma inequivocabilmente dalla finalità che si intende
perseguire con la fissazione di essi (cfr., per quanto occorre: Cons. Stato: VI, 19 febbraio
2003 n. 939; VI, 17 settembre 2003 n. 5266).
La ragione di tale principio si rinviene nella considerazione che la scansione del procedimento
anche mediante la fissazione di termini per l’adozione degli atti intermedi e dell’atto
finale ha lo scopo di evitare che la mancata adozione di detti atti nei tempi ritenuti ragionevoli
dal legislatore comporti inconvenienti per i soggetti che siano in attesa degli stessi; cosicché
la non tempestiva adozione dei medesimi atti, dovendo l’azione amministrativa essere esplicata
per il raggiungimento dei connessi scopi di pubblico interesse, non può risolversi senz’altro
nella preclusione all’adozione degli atti mancati; in caso del genere, infatti, verrebbe definitivamente
meno la possibilità di perseguire proprio quello scopo di pubblico interesse per il
cui raggiungimento il legislatore ha conferito all’Amministrazione le relative facoltà.
Conseguenza, questa, contraria alla necessità della cura del pubblico interesse.
Non sembra inutile osservare che la mancata osservanza del termine prescritto, se non
preclude la possibilità di adottare, sia pure tardivamente, il provvedimento previsto, non è
comunque priva di qualsivoglia conseguenza; sia nei rapporti con gli amministrati, questi
ultimi potendo attivare quanto meno le consuete procedure giurisdizionali per ottenere che
il procedimento venga concluso; sia nei rapporti interni fra responsabile del procedimento e
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 233
Amministrazione, potendo questa far valere, nei confronti del primo, responsabilità disciplinari
o di altro genere, ove ne ricorrano le condizioni.
Se la sopra citata finalità costituisce la ragione dell’affermazione del cennato principio,
la stessa finalità spiega anche perché a volte, pur in mancanza di espressa previsione normativa,
la perentorietà del termine possa desumersi dal fine che con la fissazione dello stesso termine
si sia inteso perseguire; come avviene, esemplificativamente, allorquando il termine sia
fissato per la partecipazione a una procedura concorsuale, in cui la perentorietà assicura l’espletamento
ordinato della stessa procedura e la par condicio dei concorrenti.
Con riferimento alla fattispecie in esame, è agevole osservare, tenendo presente quanto
testé detto, che il sopra citato termine di giorni 90 per la conclusione del procedimento
non può determinare, ove rimasto inosservato, la decadenza per l’Amministrazione di concludere
lo stesso procedimento; una ipotetica conseguenza del genere, infatti, comporterebbe
la impossibilità di concludere il procedimento e, pertanto, la sopravvenuta inutilità di
tutta l’attività in precedenza svolta, anche da parte del richiedente.
Il che, all’evidenza, configge con la finalità di pubblico interesse tesa al reclutamento,
mediante rafferme, di militari.
Del resto, l’art. 2 della sopra citata legge n. 241 del 1990 prescrive che il procedimento
deve essere concluso con l’adozione di un provvedimento espresso; per cui non è neanche ipotizzabile
che, una volta scaduto il termine previsto, il procedimento, a cagione della impossibilit
à per l’Ammini-strazione di pronunciarsi, resti indefinitamente in uno stato di pendenza.
Deve il Collegio, ad abundantiam, evidenziare che, anche a volere seguire la tesi del
ricorrente – irrilevanza di sopravvenienze giuridiche rispetto alla data di presentazione della
domanda nelle more dell’istruttoria avviata, ove il procedimento non si concluda nel termine
di legge – l’eventuale conseguita rafferma, a questo punto in via automatica ed in assenza
della previa valutazione della sussistenza dei richiesti requisiti, sarebbe esposta comunque
alla caducità della stessa posizione, secondo quanto previsto dall’art. 8, d.P.R. 2 settembre
1997 n. 332, che prescrive il proscioglimento dalla ferma d’ufficio nel caso, tra gli altri,
di avere riportato condanna penale per delitto non colposo.
Consegue il rigetto della censura.
Infine, non giova, al ricorrente, il richiamo al precedente di questa sezione espresso
nella sentenza n. 8304 del 2005. Ciò, sia perché le considerazioni sopra svolte vengono ritenute
non superabili, il che induce il collegio a rivisitare il pregresso orientamento, sia perché,
con riferimento a detta sentenza, il caso presentatosi allora all’esame risentiva della particolarit
à consistente nell’avere l’Amministrazione ammesso quel ricorrente al corso di interesse
non avvedendosi, per una omissione dell’organo istruttore nel compilare la scheda notizie,
che sussisteva una ragione ostativa; e nell’avere, inoltre, adottato il provvedimento di esclusione
al termine del corso biennale.
Il ricorso, conclusivamente, va respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale - Sezione prima bis, definitivamente
pronunciando:
- Respinge il ricorso in epigrafe (…)
- Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del predetto Ministero, delle spese,
delle competenze e degli onorari del presente giudizio, che liquida forfetariamente nella
complessiva somma di euro 1.000,00 (mille/00);
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma il 14 febbraio 2007, in Camera di consiglio».
234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La crisi dell’impresa beneficiaria di aiuti.
Disfunzioni dei mezzi di recupero e ripercussioni
nel sistema degli interventi(*)
di Vittorio Russo (*)
Nel quotidiano dell’attività del mio Istituto in campo di aiuti statali alle
imprese, possono rilevarsi alcune criticità della fase di recupero dei relativi
contributi, che riterrei interessante proporre in questa sede perché, con l’andare
a toccare dinamiche produttive sempre più ‘snazionalizzate’ dalla loro
intercomunicabilità finanziaria e commerciale, le stesse tendono a pervadere
lo scenario economico europeo.
Mi riferisco in particolare agli interventi ex lege 19 dicembre 1992 n.
488, sicuramente i più diffusi e conosciuti, che in deroga al “divieto di aiuti
di Stato” sostengono in alcune aree ‘svantaggiate’ lo sviluppo c.d. sostenibile,
ossia quei programmi, iniziative o oggetti di ricerca che si dispongano
lungo linee evolutive di accettabile impatto socio-ambientale, in un mondo
che si presenta sempre più condizionato, anzi ‘disegnato’ dalle tecnologie.
Dal che discende, oltre al cofinanziamento comunitario, un appropriato regime
di controlli e/o limitazioni degli Organi CE.
La relativa specifica disciplina è comunque soltanto elemento di sfondo,
su cui dunque non ci si soffermerà, rispetto a quel che qui più interessa, ossia
ciò che succede sullo scenario pubblico-economico, quando l’impresa che ha
beneficiato di questi aiuti entra poi in crisi. Discorso che, per certe angolature,
potrebbe però più in generale riguardare l’intera area della gestione contenziosa
degli interventi statali e comunitari, nei vari settori economico-produttivi.
(*) Relazione dell’Avvocato dello Stato Vittorio Russo al XXI congresso dell’Unione
degli Avvocati europei (U.A.E.): Impresa in crisi. Quali norme e quali principi di diritto
comunitario, Catania, 12, 13, 14 e 15 luglio 2007.
D O T T R I N A
DAL PUNTO DI VISTA PUBBLICO
La legge 488 mira dunque, come già accennato, allo sviluppo di alcune
aree svantaggiate attraverso la crescita degli investimenti e la creazione di
posti di lavoro, in deroga al generale ‘divieto di aiuti di Stato’. Suo dato prenormativo
fondamentale è proprio infatti la concomitante esigenza di favorire
alcune iniziative localizzate in aree ‘svantaggiate’, innestandosi così alle
previsioni del paragrafo 3 lettere a e c dell’art. 87 Tratt. ist. C.E., il quale
sancisce l’ammissibilità in deroga al “divieto di aiuti di Stato” di quelli,
rispettivamente, “destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni
ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave
forma di sottoccupazione” (quelle del nostro Mezzogiorno, secondo l’impianto
della normativa in questione) e “di quelli destinati ad agevolare lo
sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non
alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse”
(Regioni del Centro Nord d’Italia). Essa sostiene a tal fine programmi di
investimento delle imprese per la realizzazione di nuovi impianti, e l’ampliamento,
l’ammodernamento, la ristrutturazione, la riconversione, la riattivazione
e la delocalizzazione di quelli esistenti, con particolare favor per le
azioni che puntano al raggiungimento di condizioni di maggiore sicurezza
per l’ambiente.
Già dal dato teleologico può arguirsi l’impatto che questi interventi possono
avere nelle dinamiche di circolazione dei beni e dei servizi in Europa,
e dunque perché debbano costantemente ‘far i conti’, oltre che col detto
generale divieto di aiuti di Stato, col connesso regime comunitario della libera
concorrenza. Col sancire infatti l’incompatibilità con il mercato comune
degli aiuti che, favorendo talune imprese o produzioni falsino o minaccino
di falsare la concorrenza, l’art. 87 cit. persegue il raggiungimento dei maggiori
e migliori livelli produttivi, per garantire sia uno sviluppo socio-economico
omogeneo dell’area comunitaria, che la massima competitività di questa
verso l’esterno.
È vero anche, d’altra parte, che il principio dinamico della libera concorrenza
opera in economie evolute; allo stesso modo che la lotta rafforza i forti,
e dunque anche il loro gruppo. In aree di economia debole un’interpretazione
pura di questo principio evolutivo sortirebbe l’effetto opposto, per ovvi
motivi, e dunque è preferibile far ricorso all’effetto ‘moltiplicativo del reddito
’, di nuove realtà produttive e/o del rilancio di quelle esistenti, di modo
che anche queste diventino in grado di competere, ed il sistema economico
generale riprenda un giorno ‘con gli interessi’ ciò che a tal fine investe. La
Comunità si riserva dunque una costante attività di monitoraggio e controllo
della normativa nazionale, fondamentalmente attraverso la necessità di
approvazione di ogni nuovo regime di aiuti, da parte della Commissione
Europea, o l’emanazione di appositi regolamenti e/o un’idonea attività di
sorveglianza.
È intuitiva l’estrema delicatezza del miscelare accortamente questi due
fattori di sviluppo, funzione che richiede cabine di regia molto attente, professionali
e ben posizionate, ed in grado di intervenire sul complesso scena-
236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
rio con la maggiore libertà di movimenti. Dal che può facilmente arguirsi
come ogni disfunzione di un sistema di interventi come quello qui da noi
della 488, oltre a vulnerare la finanza statale e comunitaria latamente intesa,
ossia come insieme di tutte le risorse, si pone prima ancora come ostruzione
all’accennata sinergia di sviluppo. E di tutto il suo indotto in termini socioeconomici
e culturali.
Questa è l’idea di fondo del presente discorso.
DAL PUNTO DI VISTA DEI PRIVATI
La legge 488 rappresenta, com’ è noto, un’opportunità molto appetita per
le imprese. Anche perché l’art. 7 del suo Regolamento di attuazione, D.M.
20 ottobre 1995 n. 527, prevede che la prima, delle due o tre quote che vengono
erogate dalla banca concessionaria “può anche essere erogata a titolo
di anticipazione, previa presentazione di fidejussione bancaria o polizza
assicurativa irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima richiesta, di
importo pari alla somma da erogare e di durata adeguata”.
Questa caratteristica, di ‘preventività’ del finanziamento è divenuta elemento
essenziale dell’intervento in questione, a far data dal 1° gennaio 2000,
diversamente dal preesistente regime ‘a consuntivo’, ed in coerenza col
nuovo principio di necessità dell’aiuto (v. dec. Comm. eur. 12 luglio 2000).
Se questo elevato livello di provvidenzialità degli aiuti ha consentito l’ingresso
nel mondo dell’impresa ad operatori altrimenti impossibilitati, per gli alti
costi sia d’impianto di aziende tecnologicamente sempre più sofisticate, sia del
lavoro e sia dell’accesso al credito, i relativi volumi di denaro hanno per converso
attratto anche affaristi, faccendieri, imprenditori improvvisati e talvolta,
specie nel Mezzogiorno d’Italia, gli appetiti di note organizzazioni criminali.
RIMEDI E …PROBLEMI
1. La normativa c.d. antimafia.
Ci si riferisce alle “informazioni prefettizie” previste dai noti D.Lgs. n.
490/94 e d.P.R. n. 252/98 quali presupposti indefettibili per la stipulazione di
ogni contratto della P.A. con soggetti privati, o per l’erogazione di incentivi in
favore di questi ultimi, su eventuali “tentativi di infiltrazione mafiosa nelle
società ed imprese interessate” che, se positive – ed alla p.a. stipulante o concedente
non è lasciato alcuno spazio discrezionale – assumono valenza ostativa
o interdittiva nell’ambito del procedimento per il quale sono state richieste.
Alle ordinarie misure di prevenzione antimafia si è pertanto aggiunto
questo ulteriore strumento di contrasto della criminalità organizzata, consistente
appunto nell’esclusione dell’imprenditore sospettato di legami o condizionamenti
da infiltrazioni mafiose, dai pubblici appalti e, più in generale,
dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che
presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e/o l’utilizzo di
risorse della collettività (sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 24 ottobre 2000, n.
5710). Si tratta di misure di natura preventiva certamente drastiche, di una
‘difesa avanzata’ che presenta forse discutibili profili legali, ma del tutto
DOTTRINA 237
comprensibile almeno sul piano effettuale, nelle storiche criticità socio-economiche
di alcune regioni, e nella pericolosità a volte drammatica di questo
tipo di delinquenza.
Non occorrerà spendere troppe parole, davanti ad un uditorio di esperti
del diritto comunitario, sull’attenzione dell’Unione verso questa vera e propria
piaga dello sviluppo.
I soggetti di questa rete – si parla ormai di crimine ‘transnazionale’ – non
sono più i singoli delinquenti, e nemmeno la ‘mafia’, la ‘ndrangheta’ o la
‘camorra’, ma il linguaggio tecnico più al passo coi tempi li identifica com’è
più esatto, con le ‘mafie’, che nascono ed operano in tutto il mondo. Tanto per
citare uno dei tanti documenti di questo interesse europeo, più per l’intensità
del titolo che per una sua importanza maggiore di altri, si ricorda il “Piano d’azione
di lotta contro il crimine organizzato” del 1997. E, senza voler nemmeno
entrare in spazi sempre più ‘transnazionali’ del ‘diritto penale dell’economia
’, si accennerà solo alle nuove figure di reati contro la p.a. o il patrimonio,
che vedono oggi come soggetto passivo la stessa Comunità (v. art. 316 bis c.p.,
malversazione a danno dello Stato o delle Comunità europee), o il 316 ter
(indebita percezione di erogazioni dallo Stato, enti pubblici e organi comunitari);
il 640 bis (truffa aggravata per conseguire le stesse erogazioni).
L’esperienza dei processi che vedono impegnata l’Avvocatura dello Stato parrebbe
confermare l’idea che si vada affermando in Italia un tipo di criminalità
di stampo manageriale, che trova la sua massima efficienza sempre meno nel
gangsterismo classico ‘dell’altra parte’ della società, ma situandosi ai margini
della legalità – il che la rende più pericolosa – dialogando e collegandosi in una
sinergia, sempre meglio attrezzata, di partners internazionali.
I giudici amministrativi non possono, per parte loro, che rispondere con una
costante attenzione, di cui va dato pubblicamente atto, nel loro sindacato di
legittimità, su quelle situazioni amministrative che potrebbero favorirla. È noto
infatti che la criminalità predilige assetti pubblici stagnanti e disfunzionali, che
vengono invece vivificati da un efficace sindacato del giudice. Sindacato che
deve dunque estendersi anche ai certificati antimafia; non potendo certo, una
tale pur grave emergenza, dar ingresso a soluzioni da ‘Stato di Polizia’.
Poiché peraltro l’autorità governativa è deputata a valutare la sussistenza
di tali pericoli da semplici “informazioni”, e non necessariamente da vere
e proprie notitiae criminis, le quali imporrebbero l’adozione in sede penale
di altro tipo d’iniziative (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 5 ottobre 2006, n.
5935; Sez. VI, 26 ottobre 2005 n. 5981) ci si attenderebbe, nella logica di tale
sistema, che la sindacabilità in sede giurisdizionale di questi “sbarramenti”
del pubblico denaro verso suoi possibili usi distorti e perversi, sia limitata a
casi limite percepibili ab exstrinseco dallo stesso certificato. Bisogna
comunque dare atto che quasi sempre, ‘a percezione’ direi in un 80-90% dei
casi almeno, i TT.AA.RR. respingono i ricorsi, ed anche le domande cautelari,
dando così buona prova di una certa … doverosa circospezione, nel
valutare le doglianze dei ricorrenti (ex multis, TAR Lazio, Sez. III ter, 15
marzo 2007 n. 385).
238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
2. Una …falla del sistema
Ma elementi di criticità vengono introdotti nel sistema da alcune soluzioni
istruttorie, che si vedono piuttosto spesso adottate, già in fase cautelare.
È noto come nel corso degli ultimi decenni, si siano andati, man mano
erodendo i tradizionali limiti della giurisdizione di legittimità sui provvedimenti
amministrativi, per consentirne un vaglio sempre più penetrante e con
maggiori possibilità esplorative del relativo procedimento. Il che ha notoriamente
prodotto grandi miglioramenti, in termini di efficienza della giustizia
amministrativa in Italia. Ma, come tutte le terapie, anche questa presenta
qualche controindicazione; e può qualche volta anche succedere che il rimedio
si riveli …peggiore del male.
Il mezzo cautelare si basa infatti su un fondato timore, di un danno grave
ed irreparabile al bene di cui chiede la protezione giudiziaria, durante il
tempo a ciò occorrente. Costituisce peraltro ormai ferma acquisizione della
giurisprudenza amministrativa la sempre immanente necessità, in questo
campo, di una comparazione del periculum in mora paventato da chi invochi
l’inibitoria, col danno che all’opposto la sospensiva cagionerebbe ai pubblici
interessi amministrati dalla p.a..
Ma s’è appena visto che anche gli strumenti interdettivi, della legislazione
antimafia in esame, si basano su un timore. E certamente più grave di
quello del privato frustrato nelle sue pur (astrattamente) legittime aspirazioni!
Parrebbe infatti addirittura ovvia la prevalenza dei pericoli per la collettivit
à di iniezioni di capitali ‘freschi’ nelle casse della malavita organizzata,
rispetto al mancato conseguimento di attribuzioni comunque gratuite o della
possibilità di stipulare un determinato contratto col soggetto pubblico da
parte del privato. Il quale, latamente e tecnicamente parlando, agisce de lucro
captando. E comunque la misura degli interessi in campo è data dalla legge.
Ci si attenderebbe dunque che la possibilità di inibitorie giudiziali di
questo tipo di provvedimenti resti poco più che teorica, apparendo ardua
operazione logica il neutralizzare una cautela per cautelarsi da un male minore;
nel che, giusta le premesse, parrebbe in ultima analisi risolversi una
sospensiva di questo tipo. Ma se ne vedono (TAR Lazio, Sez. III ter, 9 giugno
2005 n. 869, per citarne una). Non sembra tuttavia questo, l’aspetto più
critico del procedimento cautelare in questa materia, essendo ben possibile
che anche le ‘informazioni prefettizie’ sbaglino, e giusto che ci sia sempre e
per tutti un’“ultima spiaggia”. La quale, in una società civile, meriterebbe
comunque sempre il prezzo del possibile errore del giudice.
Quel che appare francamente più difficile da comprendere, sono invece i
frequenti provvedimenti istruttori che ordinano sic et simpliciter
all’Amministrazione, per le necessità connesse a tale prima indagine giudiziale
– si è sempre, lo si ricorda, in sede cautelare – di versare agli atti di causa
gli elementi su cui si fonda il provvedimento prefettizio (ex plurimis, TAR
Calabria, 20 aprile 2006, n. 126; TAR Calabria, Sez. II, 12 gennaio 2006; TAR
Lazio, Sez. III ter, 9 giugno 2005 n. 869; TAR Campania, 21 febbraio 2002 n.
1256). E non occorre dire – è nelle regole del processo – che ciò equivale a
divulgazione dei medesimi a tutte le parti del giudizio, compreso e prima di
DOTTRINA 239
tutti il ricorrente, che di regola è naturalmente lo stesso sospettato, o suo
parente o consocio! E nemmeno occorrerà spiegare che questa documentazione
è normalmente costituita da rapporti, referti d’indagine, comunque concernenti
notizie di reato, con altri nomi ed in ordine ai quali potrebbero esservi
altre indagini od operazioni in corso…E meno spendere parole sulla prioritaria
esigenza di una loro estrema riservatezza, quando addirittura non si tratti
di atti coperti da segreto istruttorio! A questo talvolta si aggiunge, nella concreta
e quotidiana esperienza delle aule, la sensazione, anche un po’ inquietante,
di ricorsi ‘senza speranza’, rivolti forse proprio ad esplorare i risultati delle
indagini di polizia sottostanti alle “informazioni prefettizie”, attraverso sollecitazioni
a volte ‘abili’ e a volte accanite di queste necessità …istruttorie, da
parte delle private difese. Il pericolo comunque di involontarie ‘rotte di collisione
’ fra funzioni dello Stato che richiederebbero invece la massima sinergia
di sistema, derivante da questa diciamo ‘standardizzazione’ di criteri processuali,
sembra a dir poco evidente. Al pari dell’ulteriore vantaggio per la criminalit
à. Cui certo non corrisponde un vantaggio per il tessuto comunitario.
3. Le garanzie fidejussorie
L’adozione del provvedimento definitivo in favore dell’impresa beneficiaria,
ai sensi della legge 488/1992, richiede la positiva verifica di una serie
di indici rivelatori di un’affidabile raggiungibilità degli obiettivi dell’investimento,
i quali possono tuttavia richiedere un sostegno economico immediato.
Il che dà normalmente ingresso al cd. ‘sistema delle anticipazioni’, previso
dall’art. 7 d.m. cit., il quale stabilisce innanzitutto l’‘impegno’ dell’importo
dell’agevolazione “con il decreto di concessione provvisoria” da parte del
Ministero oggi dello Sviluppo Economico, che viene reso disponibile, a
seconda dei casi, in due o tre quote annuali, erogate “dalla banca concessionaria
subordinatamente all’effettiva realizzazione della corrispondente
parte degli investimenti, eccezion fatta per la prima, che può anche essere
erogata a titolo di anticipazione, previa presentazione di fidejussione bancaria
o polizza assicurativa irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima
richiesta, di importo pari alla somma da erogare e di durata adeguata”.
Ed è a questo punto, ossia dopo l’anticipazione della prima tranche del
contributo, che sopraggiungono molti insuccessi dell’iniziativa, dovuti a problemi
di realizzazione dell’opificio, al mancato ottenimento di concessioni e/o
altre difficoltà di avvio della produzione o di altra natura, che una buona tecnica
d’impresa dovrebbe di regola superare. È difficile stabilire quante volte
ciò vada ricollegato a gravi mancanze di professionalità imprenditoriale, o
costituisca espressione di veri e propri iniziali disegni truffaldini o comunque
di modalità dolose di ottenimento del contributo. Discorso questo che non
appare comunque utile sviluppare in questa sede, stanti anche la difficoltà di
precise linee di demarcazione fra le due fattispecie (culpa gravis proxima
dolo), ed altri essendo comunque gli aspetti che più preme approfondire.
Quali che siano le sue cause e modalità, l’insuccesso dell’iniziativa dà
ingresso al procedimento di ‘revoca’ del contributo che la sosteneva. La
prassi amministrativa usa ormai in modo piuttosto indifferenziato questo ter-
240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mine, con buona pace della più appropriata terminologia della teoria generale
degli atti ‘di ritiro’ e della giurisprudenza, che tradizionalmente distinguono
fra annullamento, revoca, e dichiarazione di decadenza. E dunque anche
qui, in coerenza col dato di prassi, da sempre fonte primaria in materia di
concessioni, si userà il termine “revoca”, sia che la provvidenza venga meno
a seguito dell’accertamento ‘ab origine’ di taluno dei suoi presupposti, sia
per motivi sopravvenuti, ossia in pratica per il mancato adempimento degli
obblighi del beneficiario. Criterio questo che è alla base del tradizionale
riparto di giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario (Cass.,
SS.UU., 29 settembre 2004, n. 18844).
Non appena rilevata taluna delle patologie, è in genere lo stesso istituto
di credito concessionario a richiedere al soggetto ‘fidejussore’ la restituzione
della prima rata del contributo, attraverso gli adempimenti nelle modalità
descritte dal su riportato art. 7 d.m. 527/92 cit.. Ed ecco che un primo elemento
campeggia in questo scenario: mentre le coperture bancarie non
danno quasi mai luogo a problemi, quelle assicurative comportano un vastissimo
contenzioso.
4. Il ‘problema’ delle inibitorie giudiziali
4.1. Tipicamente questo inizia con un ricorso ex art. 700 c.p.c. e/o 29
D.Lgs. 46/1999, che il più delle volte riesce ad ottenere l’ordinanza si sospensione
dell’esecutività della cartella. Salvo il reclamo ex art. 669 terdecies
c.p.c., che comporta una revisione collegiale (il più delle volte confermativa)
da parte dello stesso tribunale che in sede monocratica aveva concesso l’inibitoria,
non vi sono altre possibilità di gravame, e l’effetto inibitorio si protrae
per tutto il tempo del giudizio di merito, pari a cinque anni almeno.
Tali ricorsi in genere s’infulcrano, in punto di fumus boni juris, sulla
necessità del previo provvedimento di revoca, o sul già avvenuto esaurimento
del periodo di validità nei confronti del garantito e, motivo che sembra di
gran lunga il più fortunato, sull’asserita non utilizzabilità della cartella esattoriale.
Quanto invece al requisito del danno grave ed irreparabile, questo normalmente
si risolve in un giro di parole per spiegare, più o meno circostanziatamente
… il peso dell’esborso per l’impresa; sul che si tornerà più avanti.
Altre volte è il ‘garantito’ (beneficiario del contributo revocato) a ricorrere,
paventando il periculum in mora della rivalsa da parte del fidejussore,
ove non ne venga inibita la previa escussione. Ma questi ultimi ricorsi sono
in genere proposti al TAR – la giurisprudenza amministrativa che afferma la
mera consequenzialità della cartella rispetto al provvedimento di recupero, e
dunque la vis atractiva della relativa giurisdizione del G.A. è piuttosto pacifica
– dove essi incontrano decisamente …minor fortuna, per fortuna dei
pubblici interessi amministrati. Ma spesso, e specie quelli aventi ad oggetto
somme più rilevanti vengono proposti, rimodellando opportunamente i ricorsi,
sia davanti al TAR che davanti al Tribunale, essendo, com’è chiaro, il
provvedimento sospensivo quel che più importa, da dove che venga.
4.2. Tornando ai ricorsi delle imprese assicuratrici, il diffondersi della
cennata giurisprudenza cautelare a loro favore, tende a neutralizzare la risor-
DOTTRINA 241
sa legislativa di cui al cit. art. 7. Ma questo è entro certi limiti un aspetto
fisiologico di ogni sistema di grandi tradizioni civili, e pur sembrando tuttavia
affiorare, da alcune soluzioni giurisprudenziali, un’ancor scarsa percezione
‘europea’ dei problemi.
Discorso che deve necessariamente muovere da alcuni aspetti tecnici
della garanzia prevista dal su riportato art. 7 Reg. 488, e consistente nella
“fidejussione bancaria o polizza assicurativa irrevocabile, incondizionata ed
escutibile a prima richiesta”.
Si verrà subito al cuore di un’ormai antica questione, cui è stata finora
attribuita un’importanza che forse non merita. Ossia ci si è posto il problema
se, in presenza della sua escutibilità “a prima richiesta”, si versi in ipotesi di
vera e propria fidejussione, caratterizzata dalla sua accessorietà al rapporto
principale fra creditore (nella specie lo Stato) e debitore (il beneficiario del
contributo revocato), o non piuttosto di un “contratto autonomo di garanzia”
– distinzione questa valorizzata principalmente al fine di escludere, insieme
all’accessorietà del rapporto creditore-terzo fidejussore (l’assicuratore), la
diretta ‘escutibilità’ (anche) di questo (in quanto non si tratterebbe di un vero
e proprio fidejussore) attraverso cartella esattoriale.
Sul fronte assicurativo si tende a sostenere, per paralizzare la pretesa
dello Stato al recupero in quella direzione, che si tratta di un rapporto di tipo
essenzialmente assicurativo, fra un “fidejussore” soltanto di nome e il beneficiario
che si appresta a ricevere la prima tranche del contributo, che vede
lo Stato terzo beneficiario dell’‘indennizzo’, al verificarsi dell’evento-rischio
della mancata restituzione del contributo, in caso di revoca.
A ciò si ribatte, prescindendosi da aspetti dottrinali che poco interessano,
che ben possono le parti nella loro autonomia comunque porre in essere
anche contratti atipici, sol che resti lecita la loro causa; e dunque nulla vieta
di considerare queste polizze un prodotto lato sensu finanziario, che adempie
alla funzione, questo davvero conta, di assicurare allo Stato il pronto rientro
della liquidità appena intervenga o anche soltanto si profili la revoca,
com’ è nell’evidente logica dell’art. 7 cit.
4.3. Ma la singolarità della vicenda trascende i suoi aspetti strettamente ermeneutici.
Di solito, infatti, questa diatriba in sede teorica non si riflette sull’an
del debito dell’assicuratore verso lo Stato, ma si esaurisce – ciò a quanto pare
basta ad ottenere la sospensione della cartella – nella sola questione della diretta
recuperabilità mediante cartella esattoriale anche verso esso “fidejussore”.
Sostengono in punto le società assicuratrici fidejubenti che, trattandosi
di obbligazione civilistica e non tributaria verso la P.A., di carattere meramente
privatistico, e non avendo il D.M. di revoca la consistenza di titolo
esecutivo nei loro confronti, non si potrebbe provvedere alla loro iscrizione
a ruolo, a norma dell’art. 21 D.Lgs. 26 febbraio 1999, e dunque alla notifica
della cartella esattoriale.
Al che non si manca di rispondere che l’art. 17 D.Lgs. cit. espressamente
estende la possibilità di riscossione mediante ruolo a tutte le entrate dello
Stato, e dunque non solo per quelle aventi natura tributaria, mentre l’art. 24,
comma 32 della legge n. 449/97 più specificamente dispone, che “il provve-
242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dimento di revoca delle agevolazioni disposte dal Ministro dell’Industria, del
commercio e dell’artigianato, in materia di incentivi all’impresa costituisce
titolo per l’iscrizione al ruolo, ai sensi dell’art. 67, comma 2 del decreto del
Presidente della Repubblica 28 gennaio 1998 n. 43, e successive modificazioni,
degli importi corrispondenti degli interessi e delle sanzioni”.
Parrebbe davvero meridiana e conclusiva l’evidenza del combinato di
queste due norme, che privilegiano la funzione di questi crediti della finanza
pubblica, la quale richiede ogni mezzo di più pronto recupero di quel denaro,
appena si vede che per qualsiasi motivo esso abbia mancato l’obiettivo incentivale,
per reimpiegarlo subito! E tanto più che la disposizione da ultimo
richiamata fa parte di una ‘legge finanziaria’, protesa a rafforzare ogni strumento
propulsivo dello sviluppo economico, e non certo gli aspetti soggettivi
passivi della relativa obbligazione. Resterebbe altrimenti da spiegare perch
é mai, in un ottica di …pronta cassa, il legislatore andrebbe a preoccuparsi
di potenziare i mezzi di recupero verso un debitore (‘principale’) che il più
delle volte si è reso insolvibile, per lasciare invece i comodi di cavilli giuridici
e cinque anni almeno di causa (il cd. …articolo quinto…) al soggetto di
sicura solvibilità, che sta lì proprio come garante di quell’adempimento!
Quand’ ancora occorresse, è proprio l’art. 7 Reg. 488 cit. – per circa la metà
finanziata, lo si ricorda, dal denaro comunitario – a pretendere dal “fidejussore
”, quale indefettibile presupposto della provvisoria anticipazione e dunque
della garanzia che egli a tal fine fornisce al percettore, il ruolo di ‘prolungamento
’ della solvibilità’ di questi in quella stessa obbligazione restitutoria che
segue la revoca, e non di contraente di un’altra, sulla scorta di elaborazioni
teoriche forse valide in generale, ma nella specie avulse dall’evidente concreta
funzione dello strumento economico-finanziario, ed utili soltanto per non
pagare: ‘in claris non fit interpretatio’, verrebbe proprio da dire.
Né manca un’avveduta giurisprudenza, a convalidare i pur semplici
argomenti ora esposti, col mettere in chiaro questi punti:
a) la cartella di pagamento non rappresenta che un atto meramente consequenziale
rispetto al provvedimento con cui è disposta la revoca delle agevolazioni
(v. parere Consiglio di Stato del 7 ottobre 2003 n. 583 reso in parere
su ric.straord Tris Cotton srl c/MICA, ordinanza TAR Sicilia n. 1173/02 in
causa Distil.Co.Vi. scarl c/ MAP) o “con cui è disposto il recupero”; TAR
Lazio n. 8148/01 in causa Mobilificio Gare c/ MAP, e dunque la società assicuratrice
non otterrebbe alcun vantaggio dal solo annullamento della cartella
esattoriale, in assenza di una pronuncia di annullamento del prodromico
provvedimento di revoca;
b) È del tutto legittima la riscossione mediante ruolo impiegata dalla P.A.
nei confronti dei garanti, stante proprio che “l’art. 17 del D.Lgs. 46/99 ha
esteso l’impiego della riscossione mediante ruolo a tutte le entrate dello
Stato anche diverse dalle imposte e anche aventi causa in rapporti di diritto
privato, come si ricava dall’art. 21 del medesimo decreto. Perciò l’esecuzione
in base ai ruoli si è sostituita al più antico strumento dell’esecuzione in
base ad ingiunzione, disciplinato dal R.D. 639/1910. E il ruolo può essere
impiegato anche nei confronti della assicurazione in quanto obbligata soli-
DOTTRINA 243
dalmente ex art. 1944 c.c., in forza della polizza fidejussoria divenuta operativa
col provvedimento di revoca che ha disposto contestualmente l’escussione
del fidejussore ed è stato a questi notificato”;
3) Ogni residuo dubbio resterebbe fugato proprio dal già visto art. 24
comma 32 della L. 449/97, che costituisce “titolo per l’iscrizione a ruolo…
ovviamente rispetto a tutti gli obbligati. Una diversa interpretazione, che
ammettesse l’esecuzione coattiva solo rispetto al debitore principale, sarebbe
irragionevole perché verrebbe di fatto ad annullare la funzione di rafforzamento
delle ragioni creditorie perseguite con il vincolo della solidarietà
che invece, per realizzarsi, deve consentire l’azione indifferentemente contro
il debitore principale o contro il fidejussore anche sotto il profilo degli strumenti
di riscossione utilizzabili.” (Trib.Trieste, 5 maggio 2005 n. 714, in
causa RAS Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.A. c/M.A.P.).
4.4. Sennonché, le suaccennate distinzioni, per negare che si possa azionare
con la cartella esattoriale il credito anche verso il garante, continuano ad
incontrare un’incredibile fortuna presso molti giudici in sede cautelare, che inibiscono
il recupero del contributo revocato alle casse della collettività (ex multis,
Trib. Potenza, 5 giugno 2001, ric. Generali; 15 febbraio 2002, ric. Generali;
Trib. Roma, 18 marzo 2002, ric. Generali; Trib. Napoli, 2 ottobre 2002 ric.
Generali; Trib. Napoli, 26 novembre 2002 ric. Generali; Trib. Napoli, 18
novembre 2003 ric. Generali; Trib. Roma, 2 marzo 2005, ric. Generali; Trib.
Roma, 30 gennaio 2006, Trib. Roma, 13 luglio 2006, ric. Generali ric. S.I.C.;
Trib. Roma, 19 settembre 2006 ric. INA Assitalia; Trib. Roma, 18 novembre
2006, ric. Generali; Trib. Roma, 20 aprile 2007 ric. INA Assitalia.
Potrebbe rispondersi che nemmeno il solve et repete dà a nessuno, neanche
allo Stato, il diritto di andare ad escutere militari manu l’obbligato, e che
anche la cartella esattoriale deve avere un suo giudice. E nonostante tutto
quel che s’ è detto debba concedersi l’ipotesi che un fumus boni juris vi sia,
sempre spettando l’ultima parola al giudice. Sul che dovrebbe naturalmente
convenirsi.
L’oggetto dell’inibitoria giudiziale è qui, tuttavia, il più energico strumento
di recupero delle pubbliche risorse, eretto a presidio della stessa collettivit
à, sia statale che europea – questo è il dato di mentalità che si va cercando
– stante il fatto che l’Europa non può che cercare le sue risorse all’interno
degli Stati e per mezzo dei loro organi. Dal che ci si attenderebbe
un’indagine particolarmente accurata, prima di ‘legare le mani’ alla P.A. nel
recupero di contributi co-finanziati dall’Europa, sul periculum in mora
richiesto dagli artt. 700 c.p.c. (“chi ha fondato motivo di temere che durante
il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia
minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile” può ottenere “i
provvedimenti d’urgenza che appaiono secondo le circostanze, più idonei ad
assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito”) e 29
D.Lgs. 46/1999 (“Per le entrate … non tributarie, il giudice competente a
conoscere le controversie concernenti il ruolo può sospendere la riscossione
se ricorrono gravi motivi”), in base ai quali, congiuntamente, vengono di
solito richieste le inibitorie di cui ci si sta occupando.
244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Orbene, le motivazioni in relazione al periculum in mora, e specie alla
luce del ruolo funzionale appena rimarcato della garanzia fidejussoria,
mostrano un ragionamento di tipo circolare, ossia finiscono col postulare il
danno nel fatto stesso che l’assicuratore dovrebbe altrimenti pagare il rilevante
importo cui si era impegnato, ossia a ben vedere …nello stesso contenuto
obbligazione contrattuale! Ed infatti, anche se non sempre è enunciato in
modo lineare nelle scarne motivazioni dei provvedimenti, emessi tutti in base
all’art. 29 cit.: 1) la stessa prestazione dedotta in contratto, ossia l’obbligo di
pagare in luogo dell’assicurato, diventa il pregiudizio; 2) la stessa immediata
esigibilità “a prima richiesta” viene a realizzare il requisito dell’‘imminenza
’; 3) quanto all’irreparabilità, ravvisata nell’eccessiva onerosità dell’importo
assicurato per la tenuta finanziaria dell’assicuratore, questa era, invece,
proprio il presupposto della idoneità a prestare quella fidejussione, ossia il
requisito soggettivo richiesto da quel contratto! Il che aggiunge un sapore
paradossale alla singolare soluzione motivazionale, essendo peraltro chiaro
che l’importo garantito è in funzione del premio che lo stesso assicuratore ha
percepito dall’assicurato, verso il quale ha a sua volta adottato tutta una serie
di misure di rivalsa proprio per l’eventualità del pagamento.
Si riportano qui di seguito una tipica motivazione di questi provvedimenti:
“…l’ingente importo del credito integra il requisito del ‘periculum in
mora’ …sotto il profilo della compressione della libertà negoziale e più specificamente
della libertà di esercizio dell’impresa della società assicurativa,
venendo sottratte in difetto della cautela ingenti risorse economiche al sistema
cd. del ‘ciclo produttivo invertito’” (Trib. Roma, 13 luglio 2006, cit.).
Non sfuggirà la genericità della motivazione, ed in quest’ultimo caso si
parlava di oltre 1.000.000 Euro… Ma soprattutto resterebbe da sciogliere il
paradosso dell’esigenza della fidejussione in relazione all’importanza delle
somme anticipate, quando poi questa stessa diventerebbe un ostacolo per
riscuoterle … dal garante. Né il giudice sembra essersi minimamente posto
il problema di cosa significasse invece quel denaro per lo Stato e la
Comunità. E, soprattutto, a cosa funzionasse.
4.5. Come già accennato e meglio si vedrà, provvedimenti giudiziari di
questo tipo vengono a disporsi in posizione interdittiva rispetto agli obiettivi
comunitari della legge 488.
Il progressivo espandersi, d’altra parte, della funzione normativa europea,
col relativo ridimensionamento della stessa sovranità statale, riesce
peraltro, attraverso soluzioni molto evolutive della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee, sempre meglio a ‘smaltire’ gli effetti di sentenze di giudici
nazionali che vanno, sia pur inavvertitamente, a porsi in rotta di collisione
con i ‘trascendenti’ obiettivi comunitari.
Importanti decisioni di questa hanno portato alla ribalta della giurisprudenza
il problema dell’attuabilità del diritto comunitario di fronte ad una
contrastante res judicata di un giudice nazionale, la cui autorità è comunemente
riconosciuta nell’interesse della certezza del diritto, sia pur con deroghe
negli stessi ordinamenti interni, ed a certe condizioni in quello comunitario,
come stiamo per vedere (seguendo la traccia delle conclusioni presen-
DOTTRINA 245
tate dall’Avvocato Generale L.A. Geelhoed il 14 settembre 2006 nella causa,
su questione pregiudiziale, C-119/05 Ministero dell’Industria, del
Commercio e dell’Artigianato contro Lucchini Siderurgica SpA). Si tratta
delle note sentenze Eco-Swiss (1° giugno 1999, causa C-126/97), Köbler
(30 settembre 2003, C-224/01), Kühne & Heitz (13 gennaio 2004, C-453/00)
Kapferer (16 marzo 2006, C-234/04). Si è ritenuto che al di là dell’enfasi
della c.d. ‘intangibilità del giudicato’, questo non abbia un valore assoluto,
per il suo venir meno di fronte alla frode o alla flagrante violazione dei diritti
fondamentali o, già nella giurisprudenza della Corte europea per i diritti
dell’uomo, alla violazione di diritti comunitari fondamentali (16 aprile 2002,
Ric. n. 36677/97 S.A. Dangeville/Francia).
Partendo proprio dalla preminenza del diritto comunitario, la
Commissione distingue tra l’autorità conferita a sentenze di organi giurisdizionali
nazionali in cui vengono accertati in contraddittorio diritti disponibili,
e quella di sentenze nel settore degli aiuti statali, che s’infulcrano sulla
questione fondamentale della loro legittimità, retta da norme comunitarie
vincolanti. Si distingue ancora, quanto agli effetti di una sentenza di un giudice
civile relativi ai poteri della pubblica amministrazione, tra livello
nazionale e livello (superiore) di procedura di concessione di aiuto, che
richiede per il suo perfezionamento l’approvazione da parte della
Commissione all’aiuto notificato, in conformità agli obblighi imposti dal
diritto comunitario, ed alla stregua di una decisione inappellabile, vincolante
per tutti gli organi dello Stato; nel che si esprime anche la certezza del
diritto a livello comunitario. Diritto destinato ad affermarsi anche e soprattutto
a livello nazionale e nella sua piena effettività, giusta l’obbligo di
applicazione delle norme interne in modo da non rendere praticamente
impossibile la ripetizione dell’aiuto in forza del diritto comunitario (sentenze
20 settembre 1990, c. C-5/89, Commissione/Germania (BUG-Alutechniek),
e 20 marzo 1997, c.C-24/95, Alcan Deutschland), ed il sempre immanente
primato del diritto comunitario (sentenza 7 gennaio 2005, c. C-
201/02, Wells; 28 giugno 2001, c.C-118/00, Larsy; Kühne & Heitz, già citata,
punti 23-28). Nelle quattro sentenze su menzionate (Eco-Swiss , Köbler,
Kühne & Heitz e Kapferer), rileva l’Avvocato generale, non si metteva in
discussione “l’esercizio di una facoltà comunitaria in quanto tale”. Quando
invece ciò avvenga, come nel caso sottoposto al suo esame, che “scavalca”
la giurisdizione riservata, “anche in prima istanza” e secondo il diritto
comunitario, alla Corte sulla legittimità dell’aiuto e sui connessi obblighi
dello Stato membro (questione che), “il principio ‘res judicata pro veritate
habetur’ che vale per le parti interessate, deve soccombere di fronte ad un
interesse legittimo più rilevante”.
4.6. Non di sentenze, però, ci si sta qui occupando, e meno che meno di
‘giudicati’, riferendosi a questi la breve rassegna che precede.
L’enunciata riaffermazione del primato del diritto comunitario, incontra
così, nel nostro caso, un doppio limite funzionale: i dicta giudiziari presi qui
in considerazione sono provvedimenti ‘cautelari’, ossia per definizione
destinati a scongiurare per l’immediato un danno grave ed irreparabile, sia
246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
pur attraverso un sommaria delibazione del fumus boni juris, ad essere poi –
e purtroppo in Italia molto poi – superati dalla sentenza definitiva.
Il che introduce una problematicità per alcuni versi peculiare.
Già di per sé in forza della loro intrinseca natura esecutiva, e pur non
avendo valore formale di sentenze, questi possono neutralizzare o falsare
l’intervento comunitario modificando, anche con effetti a catena, gli equilibri
del sistema.
Si è infatti già accennato al fatto che il mancato tempestivo recupero del
contributo lo distoglie definitivamente dalla sua funzione, non rientrando più
nei ‘bandi 488’. E dunque, oltre al danno preesistente al procedimento giudiziale
d’urgenza, del non essere l’esborso statale e comunitario più servito
a dar vita all’impresa produttiva, vi si aggiunge quello di non poter ridisporre
di quel denaro per sostenerne un’altra. Il che arreca una perturbazione l’intero
sistema di valori presidiato dall’art. 87 CE, ossia: a) innanzitutto alle
esigenze di sviluppo e dunque al reddito della zona del territorio nazionale
in cui viene, per il mancato recupero e reimpiego del contributo, a mancare
l’(altra) realtà produttiva che si sarebbe potuta, in alternativa, vitalizzare con
quel denaro; b) all’equilibrio delle deroghe ‘di zona’ al divieto d’aiuti, risultando
per tal via relativamente avvantaggiata un’altra zona, dove le risorse
comunitarie e nazionali si riescono a mettere meglio a frutto, ma nel contempo
frenandosi la sinergia continentale; c) venendo a mancare uno degli operatori
in concorrenza, che resta così indebolita.
4.7. Vero è che questi danni si verificano anche a seguito di giudicati, ed
anche quando può riaffermarsi il primato del sistema istituzionale comunitario,
evidenti ragioni pratiche rendono pressoché impossibile una loro riparazione
per così dire ‘in forma specifica’.
Ma mentre nel caso di un provvedimento concessivo dell’aiuto da parte
dell’autorità amministrativa nazionale, illegittimo che poi risultasse, così
come nel caso di un giudicato del giudice nazionale contrastante con l’attribuzione
comunitaria, comunque v’è stata una compiuta valutazione degli
interessi in campo sulla scorta di tutti i dati a disposizione, e dunque può
pagarsi il prezzo dell’errore, nei casi dei provvedimenti cautelari invece (che
possono essere concessi anche inaudita altera parte, e comunque senza veri
e propri oneri di contraddittorio), il giudice decide soltanto in base ad una
‘delibazione’, ossia in sostanza, ad una prima idea sulla scorta di un rapido
esame alle carte. Sono previsti, è vero, anche dei ‘reclami’ avverso queste
ordinanze, ma con un rito parimenti d’urgenza, e davanti allo stesso ufficio
giudiziale, appena allargato in composizione collegiale.
E ciò senza considerare che, mentre, il procedimento amministrativo si
svolge sotto un qualche controllo della Commissione, oltre che con la possibilit
à del ricorso del privato ex art. 230 CE, e quello giurisdizionale dispone
della risorsa del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 234 CE, in
sede cautelare quel che di più preme è l’urgenza del provvedimento, che pertanto
non segue ad alcun vero e proprio approfondimento della questione.
Ma v’è di più. Questi provvedimenti incidono su assetti economici di attribuzione
comunitaria in via indiretta e di fatto e per questo, soprattutto si sot-
DOTTRINA 247
traggono da una qualsiasi gestione unitaria e globale dei vari aspetti del problema.
4.8. Nei ricorsi ex art. 700 c.p.c. e 29 D.Lgs. 46/1999, chi ricorre di regola
è, come già s’è visto, l’impresa assicuratrice per veder inibire l’escussione
della polizza a prima richiesta, da parte dell’Amministrazione che deve
recuperare il contributo revocato verso di esso. Questo rapporto processuale
non ha dunque per oggetto il rapporto fra amministrazione erogante ed
amministrato revocato, il quale appartiene al giudice amministrativo, davanti
al quale spesso si svolge parallelamente. Tutti i tentativi della difesa
dell’Amministrazione di trasferire la causa davanti allo stesso giudice del
rapporto assicurato, per avere una gestione unitaria della res litigiosa, s’imbattono
in una piuttosto ferma giurisprudenza dei giudici ordinari che, insensibile
a questo vincolo funzionale, privilegia l’‘alterità’ dei due rapporti. E
tant’è. Il problema della legittimità della revoca, e quello spesso connesso
della legalità comunitaria dell’aiuto, restano così disarticolati fra di loro, per
essere autonomamente gestiti, anche nella eventuale sede cautelare, ciascuno
dal suo giudice.
Ora però, mentre per la sua naturale vocazione pubblicistica, il giudice
amministrativo è più portato, anche e soprattutto in sede cautelare, a comparare
il danno paventato dal privato con quello che nel caso di concessione dell
’inibitoria deriverebbe ai pubblici interessi amministrati, in una visione
opportunamente bilanciata – onde sono state prima elaborate dalla giurisprudenza
cautelare dei TT.AA.RR., e poi recepite nella legge 205/2000, forme di
contemperamento interinale degli opposti interessi – il giudice ordinario riesce
più difficilmente a staccarsi da quella classica visione intersoggettiva di tipo
privatistico del rapporto fra il privato e la P.A., il cui procedimento di recupero
viene avvertito come aspirazione di (ri)appropriazione del denaro concesso,
contrapposta a quella del cittadino su un medesimo piano patrimoniale.
Da questo atteggiamento culturale proprio, parrebbero nascere alcuni
problemi ‘di tenuta comunitaria’ del nostro sistema giurisdizionale. Si nota
infatti una costante difficoltà – viene spesso invocato nelle difese
dell’Amministrazione davanti al G.O., ma di rado se ne ritrova poi traccia
nell’iter motivazionale – a guardare ai capitali pubblici non più, come statici
elementi patrimoniali, in una visione ancora ‘dominicale’ del denaro, ma
piuttosto alla stregua di ‘fattori della produzione’, con un ruolo dinamico
fondamentale nel progresso economico di qualsiasi gruppo ed impresa
umana. In quanto è ciò stesso a renderli formidabili mezzi di politica economica,
l’importanza delle pubbliche sovvenzioni dovrebbe trascendere sul
piano funzionale quella del contrapposto “diritto soggettivo del privato”; ed
anche gli spazi economici nazionali, in un’economia ormai globalizzata. E
dunque in giudice nazionale, che voglia rendersi reale interprete di una
società sempre più complessa, dovrebbe sempre sentirsi responsabilizzato
dal fatto che, più che somme di denaro, i suoi provvedimenti in questo
campo ‘muovono’ interventi di politica economica.
E dovrebbe trattarsi di una considerazione fortemente motivante. Se è
infatti un’indubbia conquista di civiltà poter portare anche lo Stato dinanzi al
248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
giudice, ed a questi correlativamente è data l’alta responsabilità di giudicare
anche del suo operato, questa giurisdizionalizzazione del rapporto Stato-cittadino
non può però valere anche ad omogeneizzare i valori in campo: quello
del soggetto amministrato, sia pure mediante strumenti de iure privatorum,
resterà sempre interesse del privato, mentre quello dello Stato non
smette di situarsi, per essere stato questo tratto davanti al giudice ‘dei diritti
’, in posizione funzionalmente sovraordinata a quella del singolo. E ciò
senza minimamente turbare i sonni di Montesquieu!
Non si vuole, infatti, con ciò né sostenere che per lo Stato debbano valere
regole diverse da quelle del privato, né cercare di ridare ingresso ad ormai
… stagionate ‘presunzioni di legittimità’, ma semplicemente, e con riferimento
alla sede cautelare, riconoscere l’evidente trascendenza del danno alla funzione
pubblico economica, rispetto al danno comunque patrimoniale del privato
assicuratore, che sta solo cercando di non sborsare l’importo della fidejussione.
E non di danno alle casse del Ministero si sta parlando, ma di perturbazione,
il che in una prospettiva di pianificazione-politica significa sempre
danno, alla sfera d’intervento pubblico, europeo, nell’economia.
Quando infatti viene ‘revocato’ ed il recupero non avvenga in tempi rapidi,
il contributo viene perso per sempre alla funzione incentivale cui era stato
destinato. Se anche un giorno, che i tempi del giudizio ordinario provvedono
a tenere ben lontano, si riuscisse infatti a recuperarlo, esso non potrebbe più
essere destinato a quel programma d’aiuti, per essersi questo nel frattempo …
concluso – quanto ai fondi 488, la programmazione CE 2000-2006 è finita
infatti col 31 dicembre u.s. – e verrebbe così fatalmente reinstradato verso
altre destinazioni di spesa, restando comunque irreversibilmente defunzionalizzato
dal fine originario, di riscatto economico dell’area depressa. E ciascuno
può intendere quanto sarebbe stato meglio, invece, reimpiegarlo subito,
per finanziare altri e più meritevoli aspiranti in attesa nello stesso o nel successivo
bando. Cosa impedita o dal mancato recupero – è verosimile che il
giudice segua poi la stessa linea anche nella sentenza che definisce il giudizio,
o potrebbe succedere, e non sarebbe la prima volta, che l’impresa assicuratrice
finisca in liquidazione coatta amministrativa – o dal tardivo recupero.
Il che è esattamente ciò che il legislatore si era riproposto di evitare con
la previsione della fidejussione a prima richiesta.
CONCLUSIONI
Tutto questo dipenderà certo da ‘errori di sistema’, fra i quali si annovererebbero
in primo luogo i problemi della lunga durata dei processi, che proprio
in ambito UAE è stato scandagliato al massimo livello nello storico Convegno
di Venezia dello scorso novembre. Ma anche forse da un dato di mentalità.
Ci si rende conto che non è certo questa la sede di replica delle difese
dell’Amministrazione, e né si è venuti a Catania per …vincere le cause che
si perdono a Roma. Lo stare decisis, anche se del caso senza esperire tutte le
possibilità d’impugnazione, e dare pareri anziché sentenze ai suoi ‘clienti’ –
dai quali dipende in larga parte la qualità della vita dei cittadini – è anzi uno
dei contributi che l’Avvocatura dello Stato riesce a dare, sia alla buona
DOTTRINA 249
amministrazione che alla funzione giurisdizionale, come si è messo in luce
proprio al Convegno di Venezia. E può darsi benissimo, del resto, che non
ostante un’…apparente linearità delle sue difese, l’Amministrazione abbia
poi torto, in realtà: chi è chiamato a stabilirlo è comunque il giudice. Ed un
volta che l’avvocato dello Stato abbia messo la sua tecnicalità al servizio
della questione, partecipando così alla ricostruzione del giusto con spirito di
sinergia col giudice, egli davvero ha sempre vinto.
Ma il problema qui è un altro, che trascende lo stretto merito delle questioni
giuridiche affrontate: le ‘soluzioni cautelari’ che si sono viste finiscono
con l’interporsi, inavvertitamente ma in modo irreversibile, alle funzioni
nazionali e comunitarie (ma è tutt’uno) in materia di aiuti. S’è visto infatti
che, ove non recuperato subito, il contributo funzionalmente è perso, ossia
quel denaro ha perso il suo ‘valore aggiunto’, a scapito della Comunità, dello
Stato e, soprattutto dei cittadini.
Nei casi che si sono visti, indipendentemente dal fondamento delle eccezioni
delle compagnie assicuratrici che comprensibilmente cercano di non
pagare, e non potendosi d’altra parte impedire a nessuno il ricorso al giudice,
andava forse in questa chiave meglio compreso il dato dinamico dell’intervento
ex lege 488: nella rapida scansione temporale dei suoi bandi, si anticipano
subito ed in via provvisoria i contributi, perché nelle attuali evoluzioni
dei livelli tecno-produttivi e dei mercati le risposte imprenditoriali vanno attivate
senza perder tempo, ma proprio in quanto lo consenta la possibilità di
recuperare con altrettanta rapidità quelle preziose risorse, che tutti noi vi
scommettiamo. Nel che è la logica funzionale dell’art. 7 Reg.: appena si vede
che l’iniziativa non ha funzionato, si recuperi intanto il denaro (e non alle
‘casse’ di questo o di quello, ma) alla funzione di sviluppo cui era stato assegnato.
E dal soggetto finanziariamente solido che sta lì proprio darne sicurezza
(“incondizionatamente” ed “a prima richiesta”): intanto paghi, e poi discuta
di tutto ciò che vuole e con le più ampie garanzie giurisdizionali. Vale a dire
che, se la copertura fidejussoria non era in realtà operante – cosa che si stabilir
à con sentenza – lo Stato restituirà, e con gli interessi, e se del caso risarcir
à anche. Ma la funzione di pubblico servizio del fidejubente è, chiaramente,
proprio quella di garantire alla finanza pubblica, a fronte di rischi altrimenti
non sostenibili di grosse somme di denaro dei contribuenti, la loro funzionalit
à. Se poi si tratti di un solve et repete (peraltro perfettamente valido in ambito
contrattuale – v. art. 1462 c.c.) e/o una fidejussione vera e propria o un ‘rapporto
autonomo di garanzia, questo non cambia la sostanza, che è quella che
s’è vista – di un debitore che il più delle volte, nello specifico concreto nemmeno
contesta di dover pagare, per concentrare invece le sue difese sul mezzo
di riscossione – e cui il giudizio deve essenzialmente servire.
Lungi dal voler raggiungere in argomento traguardi dottrinali, o meno
ancora essere percepite quali preoccupazioni di indole istituzionale, queste
semplici testimonianze di vita, e passione forense, vorrebbero più modestamente
e soprattutto più costruttivamente contribuire, anch’esse un po’, al diffondersi
di una sempre maggiore sensibilità europea dei problemi.
250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La colpa grave nel procedimento di riparazione
per ingiusta detenzione
di Maila Bevilacqua (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La colpa grave ex art. 314 c.p.p.: profili civili e penali.
- 2.1. Segue: il confine con il dolo. - 2.2. Segue: le figure sintomatiche ed i criteri di individuazione.
- 3. La colpa grave nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione
Penale. - 4. Disamina della giurisprudenza penale di merito: la colpa grave secondo la
Corte d’Appello di Trieste. - 4.1. Segue: profili generali dell’esclusione del diritto alla riparazione.
- 4.2. Segue: definizioni. - 4.3. Segue: valutazione giudiziale della condotta gravemente
colposa. - 4.4. Segue: profili probatori. - 4.5. Segue: casistiche. - 5. Considerazioni
conclusive: una questione interpretativa irrisolta.
1. Premessa.
Nel tenore letterale e logico della disposizione codicistica in materia, il
presupposto oggettivo della riparazione per ingiusta detenzione è rappresentato
dai casi di detenzione ingiusta (art. 314 commi 1 e 3 c.p.p.) e di detenzione
illegittima (art. 314 comma 2 c.p.p.).
Si prospetta una detenzione ingiusta nei casi previsti dall’art. 314
comma 1 c.p.p., quando all’esito del procedimento penale l’imputato viene
prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver
commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla
legge come reato e nei casi previsti dal comma 3, quando nei confronti dell
’indagato sia emesso un decreto di archiviazione o sia pronunciata una sentenza
di non luogo a procedere.
Il secondo comma del medesimo articolo, contempla, invece, il caso
della detenzione illegittima che si profila quando il soggetto (condannato o
prosciolto per qualsiasi causa) sia stato sottoposto a custodia cautelare in
assenza dei presupposti richiesti dalla legge agli artt. 273 e 280 c.p.p. e ciò
risulti accertato con decisione irrevocabile.
L’esame nel merito della domanda di riparazione per ingiusta detenzione,
nei sopraccitati casi previsti dall’art. 314 c.p.p., concerne l’accertamento della
condotta del richiedente: la domanda è, infatti, accolta solo qualora l’interessato
all’indennizzo non abbia dato o concorso a dare causa al provvedimento
restrittivo della libertà personale “per dolo o colpa grave” (art. 314 comma 1
c.p.p.) (1). È, dunque, onere del convenuto Ministero dell’Economia e delle
DOTTRINA 251
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato.
(1) R. VANNI, Nuovi profili della riparazione dell’errore giudiziario, Cedam, Padova,
1992, p. 84 ss.. Si ricorda che con riferimento a questo particolare procedimento anche il
giudizio di Cassazione è esteso al merito per sopperire alla mancanza dei tre ordinari gradi
di giudizio.
Finanze provare i fatti eventualmente impeditivi, modificativi o estintivi del
diritto alla riparazione, tra cui, in particolare, il dolo o la colpa grave dell’interessato,
salvi comunque i poteri officiosi di accertamento ed eventuale integrazione
probatoria esercitabili dal Giudice della riparazione.
La ratio dell’esclusione del fondamento oggettivo della riparazione per
ingiusta detenzione va individuata in un principio generale dell’ordinamento
giuridico. La clausola contenuta nell’ultima parte del primo comma dell
’art. 314 c.p.p. è, infatti, la traduzione normativa di quel principio di ordine
generale che considera soggetto passivo di un pregiudizio soltanto chi non
abbia potuto evitarlo ed è prevista al fine di prevenire gli abusi che possono
derivare da un utilizzo improprio dello strumento riparatorio (2).
Analoga disposizione è prevista per l’ipotesi di riparazione dell’errore
giudiziario ex art. 643 c.p.p. che presuppone, sotto il profilo oggettivo, che il
condannato sia stato prosciolto in sede di revisione e, sotto il profilo soggettivo,
che non abbia dato causa all’errore per dolo o colpa grave.
Oltre che al fine di evitare abusi e speculazioni fraudolente, dovendosi
impedire ogni forma di lucro ovvero un ristoro eccessivo rispetto ad una
reale esigenza di riparazione (3), la previsione delle cause ostative risponde,
altresì, ad un principio generale di equità e si pone, in tal senso, come un
limite naturale alla riparazione.
La definizione della colpa grave, quale fattispecie soggettiva idonea ad
escludere il fondamento oggettivo della riparazione per ingiusta detenzione,
va delineata sulla base di una disamina giurisprudenziale della casistica
fenomenologia emersa nella prassi, ovverosia dal particolare al generale,
avvalendosi del metodo induttivo (v. infra, par. 3 e 4).
2. La colpa grave ex art. 314 c.p.p.: profili civili e penali.
La giurisprudenza fissa il fondamento giustificativo delle cause soggettive
di esclusione previste nell’art. 314 c.p.p. nei criteri civilistici individuati dagli
artt. 1227 e 2056 c.c. (che regolano i rapporti tra il creditore di una data prestazione
e il debitore della stessa) ma estendibili all’intero ordinamento (4).
252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(2) G. CONSO – V. GREVI, sub art. 314 c.p.p., Commentario breve al codice di procedura
penale, Cedam, Padova, 2005, p. 1071; M. CHIAVARIO, Problemi attuali della libertà
personale. Tra “Emergenze” e “Quotidiano” della giustizia penale, Giuffrè, Milano, 1985,
p. 137.
(3) M. CHIAVARIO, voce Libertà personale – Dir. proc. pen., in Enc. Giur., Roma, 1990,
vol. XIX, p. 18; M.G. COPPETTA, La condotta dolosa o gravemente colposa in materia di
riparazione per ingiusta detenzione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 1170.
(4) Conformemente alla precedente giurisprudenza maggioritaria delle Sezioni semplici,
Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43: “(…) È noto che, proprio in applicazione di
tali generali principi, è positivamente stabilito che il creditore deve comportarsi secondo
buona fede, che non deve creare situazioni che artificiosamente producano o amplino ragioni
di avere (di credito), e che non deve aggravare le conseguenze del fatto fonte della pretesa,
cioè della situazione dalla quale scaturisce l’obbligazione di controparte (artt. 1175-1227
Il principio base che ha spinto il legislatore ad inserire nell’art. 314 c.p.p.
una simile causa di esclusione ha, come visto, una portata generale (v. supra,
par. 1) e trova applicazione anche nel codice civile. Il succitato art. 1227 c.c.
stabilisce, infatti, che l’incidenza del danno grava sul creditore (o sul danneggiato
ex art. 2056 c.c. che al precedente articolo fa espresso rinvio) in
proporzione al suo grado di colpa ed, inoltre, esclude il risarcimento per i
danni successivi all’evento dannoso che il creditore (o il danneggiato) avrebbe
potuto evitare con l’ordinaria diligenza: in particolare, se il fatto colposo
del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito
secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate;
in secondo luogo, il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore
avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
Vi sono, peraltro, delle significative differenze tra la disciplina della riparazione
ex art. 314 c.p.p. e quella civilistica in tema di risarcimento del danno:
– la riparazione si sostanzia in un’indennità per i danni causati da comportamenti
cagionati secundum jus dall’Autorità Giudiziaria e si differenzia
dal risarcimento del danno conseguente ad attività antigiuridiche del soggetto
agente;
– ex artt. 1227 e 2056 c.c., si ricava una graduazione nella rifusione dei
danni e non una radicale esclusione, prevista, invece, nell’art. 314 c.p.p..
Secondo una certa opinione (5), tuttavia, la disciplina civilistica non
sarebbe estranea all’ipotesi contemplata dall’art. 314 c.p.p., essendo sufficiente
un adeguamento interpretativo della disposizione penale ai principi
generali operanti nell’intero ordinamento giuridico (opererebbe, in questo
senso, lo strumento interpretativo dell’analogia juris). È, dunque, necessario
tenere in considerazione sia l’incidenza che la condotta colposa ha rappresentato
nel determinismo della custodia cautelare, sia l’incidenza che questo
comportamento deve avere nella valutazione delle conseguenze che ha provocato
e tutto ciò attraverso un criterio di graduazione delle responsabilità
delle parti interessate (cittadino e Stato).
Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre procedere ad un’ulteriore
distinzione, tra la condotta colposa che abbia contribuito ad originare la situazione
di custodia cautelare e quella che abbia aggravato la permanenza di uno
status detentivo già determinatosi. Nel primo caso, se la condotta colposa dell
’interessato ha contribuito efficacemente alla sua situazione detentiva non può
questo comportamento non aver effetti in sede di ristoro dei danni. Nell’ipotesi,
invece, di aggravamento, vi è da dire che per risalire alla causa della detenzio-
DOTTRINA 253
e 2055-2056 del codice civile: cfr. Cass. Civ., Sez I, 20 novembre 1991, n. 12439).
Abbandonare una tale regola significa affidarsi ad ipotesi che potrebbero portare alla disapplicazione
della legge nella parte in cui condiziona il sorgere del diritto riparatorio all’assenza
di dolo o di colpa grave (considerati, in quanto all’eziologia, sullo stesso piano).(…)”.
(5) P. A. SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Giappichelli, Torino, 1992, p.
28 ss..
ne non occorre certo muovere dalla condotta del soggetto, poiché è un comportamento
statale ad avere determinato l’attività di indagine e la detenzione.
Entrambe le ipotesi riconducono alle conseguenze che il comportamento
colposo dell’interessato ha determinato nella causazione dei danni provocati.
L’art. 314 c.p.p. prevede due casi: il caso della condotta in concorso, come nell
’art. 1227 c.c., e quello della condotta che da sola cagiona l’evento detenzione.
Da tale distinzione la menzionata dottrina ricava che nell’ipotesi in cui la
condotta sia concorsuale rispetto all’evento detenzione dovrebbe derivare unicamente
un’incidenza sul quantum debeatur e solo in casi limite di condotta
gravemente colposa che da sola ha cagionato l’evento si potrebbe ipotizzare il
rigetto della domanda, con radicale esclusione del presupposto oggettivo.
Si considera, invece, ormai pacificamente superato quell’indirizzo che
ritiene la colpa lieve funzionale ad incidere sul quantum della riparazione in
applicazione del principio civilistico di autoresponsabilità (6).
2.1. Segue: il confine con il dolo.
Secondo un’autorevole dottrina (7), il dolo “non va inteso nel senso civilistico,
implicante mosse fraudolente; è dolosa ogni azione od omissione
consapevolmente diretta a quell’esito, anche dove non sia biasimevole (ad
esempio: appena voglia, N dissipa gli indizi a suo carico, sennonché coinvolgerebbe
P, e allora tace stoicamente, confidando nell’acume dei giudici, alla
fine gli va bene, ma imputet sibi la sciagura)”.
Secondo altri (8), il concetto di dolo andrebbe, invece, riferito alla teoria
generale del negozio giuridico, per questo si avrebbe comportamento doloso
quando con artifici e raggiri si sia ingannato il Giudice, direttamente (es.
autoincolpazione), o indirettamente (es. subornazione di testimone, perito o
interprete), sia con condotte attive (esempi precedenti), sia omissive (es. omessa
difesa da un’accusa calunniosa per perseguire fini illeciti di altre persone).
Più in generale, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, per
dolosa deve intendersi non solo la condotta volta alla realizzazione di un
evento voluto e rappresentato nei termini fattuali, ossia l’azione in concreto
preordinata all’adozione a al mantenimento della misura custodiale, ma
anche quella consapevole e volontaria che, valutata secondo l’id quod plerumque
accidit, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso
intervento dell’Autorità Giudiziaria a tutela della comunità (9).
254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(6) Cass. Pen., S. U., 13 gennaio 1995, n. 1.
(7) F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 1991, p. 504.
(8) P. A. SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Giappichelli, Torino, 1992,
cit., p. 31; M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, Padova, 1993,
p. 191, rileva che la nozione in questione è nozione di natura civile che permette di allargare
l’ambito di operatività della causa ostativa dell’indennizzo e, conseguentemente, riduce
l’applicabilità dell’istituto della riparazione, in quanto il comportamento è ritenuto doloso
anche a prescindere dalla previsione dell’evento conseguente alla condotta.
(9) Cass. Pen., 22 gennaio 1994; Cass. Pen., 20 gennaio 1992.
Mossa dall’esigenza di una corretta applicazione delle norme del codice
di rito, la suprema Corte pare fornire una nozione di dolo che trascende dai
più o meno astratti inquadramenti dogmatici dell’elemento psicologico,
ancorati a criteri strettamente penalistici o civilistici (10).
Diversamente da quanto sino a qui delineato, si definisce gravemente
colposo il comportamento cosciente e volontario di chi per negligenza,
imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari
abbia creato una situazione che renda prevedibile ed inevitabile,
anche se non voluta, l’adozione del provvedimento cautelare o la sua mancata
revoca (es. di ipotesi se non dolose, perlomeno gravemente colpose:
volontario silenzio su di un alibi; creazione fraudolenta di prove a proprio
danno; autoattribuzione di un delitto per vanteria o altro biasimevole motivo;
alibi falso o mendace; ecc.) (11). Opera, dunque, il brocardo “nimia
negligentia, id est non intelligere quod omnes intellegunt”.
Secondo la sopraccitata autorevole dottrina (12), “la colpa è grave quando
esce dai limiti dell’imprudenza o ignavia abituali fra i meno accorti (ad
esempio, N, caduto in bocca a un difensore infedele che lavora ad affossarlo,
l’ha lasciato fare, sordo degli avvertimenti)”.
2.2. Segue: le figure sintomatiche ed i criteri di individuazione.
Un frequente indice sintomatico, emergente nella prassi, della sussistenza
di una colpa grave in capo all’indagato/imputato è rappresentato da una
sentenza di assoluzione con formula dubitativa: il “dubbio”, infatti, potrebbe
essere stato generato dalla colpa del soggetto passivo delle indagini e vale
quale spunto per un esame più approfondito da svolgersi in tale direzione.
Per quanto concerne le strategie poste in essere dalla difesa nella fase
antecedente al verificarsi del presupposto oggettivo della riparazione (v.
supra, par. 1), è indubbio il rispetto dovuto per la libertà sulla linea difensiva
prescelta. Tuttavia, partendo da tale assunto, alcuni criticano l’incoerenza,
rispetto al suddetto generalizzato e condivisibile riconoscimento di libert
à, della sindacabilità delle modalità di estrinsecazione della difesa nell’ambito
dell’indagine soggettiva di merito ai fini della riparazione. A tale obiezione
si deve contestare che è necessario operare dei distinguo caso per caso,
essendovi, a ben vedere, dei limiti a ciò che l’indagato/imputato può fare
restando assolutamente immune da qualsivoglia conseguenza sul piano giuridico.
Tale questione merita un approfondimento.
DOTTRINA 255
(10) Cass. Pen., 13 dicembre 1995, n. 43.
(11) Cass. Pen., S. U., 26 giugno 2002, n. 34623; Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995,
n. 43, cit.. Si veda contra Cass. Pen., Sez. V, 28 aprile 1998, n. 6890, secondo cui non configura
colpa grave la condotta illecita che non integra un reato per il quale sia consentita la
compressione della libertà personale e Cass. Pen., Sez. VI, 24 gennaio 1997, n. 2727, per la
quale è gravemente colposa solo la condotta che denoti un vizio di coscienza e sia in grado
di prospettare un meccanismo di imputazione del fatto non dissimile dal dolo.
(12) F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 1991, cit., p. 504.
Il fondamento costituzionale del diritto riconosciuto ad ogni soggetto
passivo di un procedimento di non collaborare in concreto con l’Autorità
Giudiziaria, tacendo, ovvero mentendo, si individua nell’art. 24 comma 2
Cost., in rapporto all’art. 27 comma 2 Cost..
La prima norma riconosce all’indagato/imputato una sfera di libera autodeterminazione
circa la scelta del comportamento da tenere a propria difesa.
Si individua, anzi, una componente “negativa” del diritto di difesa, in base
alla quale l’accusato ha la piena facoltà di non fornire le prove della propria
eventuale colpevolezza e, più in generale, le prove suscettibili di pregiudicare
gli assunti difensivi nel processo.
Vista l’ampia possibilità di scelta della linea difensiva da parte del sottoposto
alle indagini, questi può, in virtù della presunzione di non colpevolezza
ex art. 27 comma 2 Cost., optare per una linea difensiva passiva, qualora
non intenda svolgere alcuna attività probatoria o voglia limitarsi a negare
le accuse senza confutarle nell’ambito del contraddittorio.
La considerazione complessiva di tali norme costituzionali, unitamente
all’art. 13 Cost., posto a tutela della libertà personale del singolo, rivela una
precisa scelta di principio del Costituente, orientata nel senso di subordinare
il funzionamento dell’apparato processuale all’intangibilità dei valori facenti
capo alla persona. Dal principio per cui l’indagato/imputato non può essere
costretto a collaborare con l’Autorità Giudiziaria discende, pertanto, quale
garanzia fondamentale per una moderna civiltà giuridica, l’incoercibilità di
potenziali apporti attivi rispetto all’accertamento del fatto.
All’interno del tessuto codicistico, la norma cardine del diritto al silenzio
può essere rinvenuta nell’art. 64 comma 3 lett. c c.p.p. che, nel contesto
delle regole generali per l’interrogatorio, expressis verbis attribuisce all’interrogato,
irrobustendola con il correlativo diritto ad esserne preliminarmente
avvertito, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, una facoltà di
non rispondere che è stata interpretata come il segno evidente della volontà
del legislatore di escludere che dall’esercizio dello ius tacendi possano essere
desunti elementi di convincimento a favore dell’accusa (13).
I molteplici richiami alla “norma madre” disseminati nel codice di rito
conferiscono al diritto di “difendersi non collaborando” una portata “panprocessuale
” (14): esso, infatti, attraversando orizzontalmente e permeando le
diverse fasi del procedimento prima e del processo poi, trova applicazione in
tutte le sedi in cui si instauri un confronto dialettico fra accusato e Autorità
Giudiziaria, dalle “sommarie informazioni di polizia” ex art. 350 c.p.p., all’interrogatorio
di fronte al P.M., svolto ai sensi degli artt. 294 comma 6, 364 e 388
c.p.p., dall’interrogatorio dinanzi al G.I.P. (ad esempio, ai sensi degli artt. 294
256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(13) È di questo avviso, fra gli altri, V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, Giuffrè,
Milano, 1972, p. 61 ss..
(14) Efficace espressione utilizzata da P. CORSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere
o ingombro processuale da rimuovere?, in Ind. pen., 1999, p. 1083.
comma 4, 302 e 391 c.p.p.) o al G.U.P. ex artt. 421 comma 2 e 422 comma 3
c.p.p., sino all’escussione in sede dibattimentale, di cui all’art. 503 c.p.p..
A completamento del quadro delle disposizioni che prevedono il diritto
al silenzio a favore dell’inquisito, si individuano l’art. 392 c.p.p., a proposito
dell’interrogatorio in sede di incidente probatorio, l’art. 441 c.p.p., con
riguardo ai riti speciali e l’art. 598 c.p.p., in relazione al grado di appello.
Mentre il silenzio si configura, indiscutibilmente, come un diritto, il
“mendacio” dell’inquisito è soltanto un comportamento penalmente non
punibile, in quanto non contemplato come reato da alcuna norma incriminatrice.
Tuttavia, dalla sua “tollerabilità” da parte dell’ordinamento penale non
può desumersi la sua natura di diritto in senso proprio, non essendovi nell
’impianto normativo nessuna disposizione esplicita in tal senso e, come tale,
idonea ad inserirlo nello spazio giuridico riservato ai diritti.
Fatte tali premesse, alla piena consapevolezza in merito alla libertà
difensiva fa riscontro, inevitabilmente, la presa d’atto che la scelta non collaborativa,
pur se garantita dalla Costituzione, non esime il soggetto che la
persegua dal sopportarne alcune conseguenze: si tratta di una scelta, come
visto, senz’altro libera, ma non vi sono dubbi sul fatto che essa deve essere,
al contempo, anche una scelta responsabile.
La non collaborazione dell’indagato/imputato all’accertamento del fatto
può avere, infatti, delle conseguenze penali stante l’esistenza di obblighi
penalmente sanzionati che segnano il confine tra l’esercizio del diritto di
difesa e l’abuso del medesimo diritto: nel codice penale esiste, infatti, l’art.
384 che, stabilendo la non punibilità di determinati delitti contro l’attività
giudiziaria, delimita la soglia entro la quale un soggetto può difendersi lecitamente
anche mediante un atteggiamento omissivo o non collaborativo.
Sotto il profilo della valutazione giudiziale della colpa grave (o del dolo,
per il quale valgono analoghe considerazioni), questi vanno individuati sia
con riferimento al momento genetico della misura custodiale, sia con riferimento
alla fase di esecuzione della stessa e, pertanto, di mantenimento dello
stato di privazione della libertà personale; è poi fondamentale l’individuazione
del nesso consequenziale materiale (in termini di causa o concausa) tra lo
stato soggettivo rilevante e l’evento detenzione.
Per quanto concerne, in particolare, l’individuazione del momento da cui
lo stato soggettivo della colpa grave rileva ai fini dell’art. 314 c.p.p., la giurisprudenza
si è consolidata su un’interpretazione non restrittiva della norma,
ritenendo degna di considerazione anche la condotta gravemente colposa
antecedente alla legale conoscenza di indagini a proprio carico o della formulazione
di un’accusa in senso proprio (15).
DOTTRINA 257
(15) Si veda, a titolo esemplificativo, Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit.,
che risolve i conflitti insorti tra le Sezioni semplici in merito all’individuazione dell’ambito
temporale di condotta valutabile dal Giudice della riparazione. Tale orientamento è supportato
dalla sent. della Corte Costituzionale n. 426 del 1993.
3. La colpa grave nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione
Penale.
Dall’esame del panorama giurisprudenziale della suprema Corte Penale,
emerso negli ultimi anni sul tema, si evince quanto segue.
Le norme che escludono il diritto alla riparazione nei casi in cui si sia
dato (o si sia concorso a dare) causa alla detenzione per dolo o colpa grave
rispondono alla finalità di evitare che possa riconoscersi il diritto all’indennizzo
in quelle situazioni in cui, nonostante il proscioglimento in sede penale,
pur giustamente imposto dalle norme sostanziali e processuali che prevedono
che la responsabilità penale sia provata oltre ogni ragionevole dubbio,
si evidenzi comunque un comportamento dell’accusato che appaia censurabile
sotto il profilo intenzionale (dolo) o quantomeno della correttezza (colpa
grave) e che lo faccia ritenere non meritevole del beneficio in questione.
Mentre, dunque, il presupposto del proscioglimento in sede penale è l’assenza
o la non sufficienza degli elementi oggettivi o soggettivi del contestato
reato, il presupposto della riparazione è solo l’assenza di dolo o colpa grave
e cioè l’impossibilità di rivolgere all’interessato un rimprovero anche solo di
negligenza o imprudenza rispetto al comportamento tenuto (16). Questa è,
quindi, la ratio della normativa in esame.
Sotto il profilo definitorio, dolosa deve giudicarsi non solo la condotta
volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini
fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione
di legge), ma anche la condotta consapevole e volontaria che, valutata
con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza
comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme
sociale e di doveroso intervento dell’Autorità Giudiziaria a tutela della
comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo, sicché l’essenza del dolo sta,
appunto, nella volontarietà e consapevolezza della condotta con riferimento
all’evento voluto, non nella valutazione dei relativi esiti, circa i quali non
rileva il giudizio del singolo, bensì quello del Giudice del procedimento riparatorio
(17).
Il concetto e la conseguente area applicativa della colpa, invece, vanno
ricavati dall’art. 43 c.p.: è colposo il comportamento cosciente e volontario
al quale, senza volontà e senza rappresentazione degli effetti (anche se adottando
l’ordinaria diligenza essi si sarebbero potuti prevedere ed evitare),
consegue un evento idoneo a trarre in errore l’Organo Giudiziario. In tal
caso, la condotta del soggetto, connotata da profili di colpa (negligenza,
imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari),
pone in essere una situazione tale da dare una non voluta ma prevedibile
ragione di intervento dell’Autorità Giudiziaria che si può sostanziare
258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(16) Cass. Pen., Sez. VII, 6 ottobre 2005, n. 41927.
(17) Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2004, n. 15416.
nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella
mancata revoca di un provvedimento già emesso (18).
Anche per la Cassazione più recente, conforme alle linee già tracciate
dalla precedente menzionata sentenza (v. supra, nota 18), integra la colpa
grave dell’interessato, ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione,
quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, per evidente e macroscopica
negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o
norme disciplinari, determini una situazione tale da costituire una almeno
prevedibile ragione di intervento dell’Autorità Giudiziaria che si sostanzi
nell’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella
mancata revoca di un provvedimento simile già emesso, condotta che deve
avere, quindi, un’incidenza causale nella produzione dell’evento detenzione,
agendo come fattore condizionante del provvedimento di limitazione della
libertà (19); ovverosia quel comportamento incauto che abbia avuto incidenza
causale sull’evento della carcerazione preventiva in quanto valutato come
uno degli elementi fondanti i gravi indizi di colpevolezza che furono posti
alla base del provvedimento restrittivo della libertà personale (20).
Ciò posto, la valutazione del Giudice della riparazione si svolge su un
piano diverso ed autonomo rispetto a quello del Giudice del processo penale,
pur dovendo eventualmente operare sullo stesso materiale: tale ultimo
Giudice deve valutare la sussistenza o meno di una ipotesi di reato ed eventualmente
la sua riconducibilità all’imputato; il primo, invece, deve valutare
non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se esse si posero
come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla
produzione dell’evento detenzione.
Il rapporto tra giudizio penale e giudizio della riparazione si risolve,
dunque, solo nel condizionamento del primo rispetto al presupposto dell’al-
DOTTRINA 259
(18) Cass. Pen., S. U., n. 43 del 1996.
(19) Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2004, n. 15416. Nel caso di specie, la connivenza
manifestata con l’autore del reato, valutata nell’ambito del giudizio volto ad accertare la
fondatezza dell’azione riparatoria, assumeva una connotazione colposa di grave imprudenza
e leggerezza non conciliabile con l’accoglimento della domanda. Dopo i fatti, inoltre, il
soggetto aveva offerto all’Autorità Giudiziaria una falsa rappresentazione dell’accaduto che
aveva contribuito a rendere non credibile l’ipotesi della mera connivenza. Dalla presente
sentenza emerge che nel caso in cui sia contestato un reato in concorso con altre persone, si
concorre a dare causa alla misura della custodia cautelare se si sia al corrente dell’attività
delittuosa di altri e, ciò nonostante, pur non concorrendo in quella attività, si ponga in essere,
con evidente e macroscopica imprudenza, una condotta che si presti, sul piano logico, ad
essere interpretata come contigua a quell’attività. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile
2004, n. 37567, secondo cui la connivenza non è, certamente, concorso nel reato, ma, in presenza
di determinati dati di fatto, come quelli sottolineati dalla Corte d’Appello nel caso di
specie, può essere interpretata, almeno inizialmente, come concorso, con possibili conseguenze
negative in tema di libertà, conseguenze dovute, perlomeno, anche alla vistosa trascuratezza
e superficialità di chi, semplice connivente, non tiene nel dovuto conto che quei
dati di fatto potrebbero oggettivamente coinvolgerlo.
(20) Cass. Pen., Sez. IV, 9 maggio-16 giugno 2006, n. 20814.
260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tro, spettando al Giudice della riparazione una serie di accertamenti e valutazioni
da condurre in piena autonomia e con l’ausilio dei criteri propri dell
’azione esercitata dalla parte (21).
Alla luce di tale premessa, il Giudice della riparazione deve seguire un
iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto al Giudice del processo
penale e rientrano nel suo potere-dovere la selezione e la valutazione delle
circostanze di fatto idonee ad integrare o ad escludere la sussistenza delle
condizioni preclusive al riconoscimento del diritto fatto valere, con l’obbligo
di dare, al riguardo, adeguata ed esaustiva motivazione da dispiegare
secondo le regole della logica, giacché il mancato assolvimento di tale obbligo,
in termini di adeguatezza, congruità e logicità, è censurabile in
Cassazione ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e c.p.p..
In tale contesto, non è affatto inibito al Giudice della riparazione di utilizzare
ed apprezzare circostanze di fatto già accertate nel giudizio di merito,
da valutare, ovviamente, non ai fini dell’accertamento della responsabilit
à penale, ma solo a quelli della sussistenza o meno dei requisiti di legge per
il conseguimento del diritto alla riparazione richiesta (22).
(21) Cass. Pen., S. U., n. 43 del 1996, cit..
(22) Cass. Pen., Sez. IV, 14 ottobre 2005, n. 46265. Nella specie, la Cassazione osserva
che i Giudici di merito hanno rilevato che i periti sia di parte che d’ufficio (pur pervenendo
la sentenza definitiva ad una assoluzione per non aver commesso il fatto, la sentenza di
primo grado, invece, conformemente agli esiti di quegli accertamenti tecnici, aveva concluso
per il proscioglimento dell’imputato per vizio totale di mente) hanno accertato “uno stato
di totale incapacità di intendere e di volere” dell’istante al momento della commissione del
fatto e delle rese dichiarazioni autoaccusatorie e da tanto hanno logicamente dedotto che non
poteva farsi carico all’istante medesimo di una autoincolpazione in senso proprio, essa provenendo
da soggetto non compos sui, incolpevolmente privo, quindi, di ogni cosciente
discernimento ed apporto in ordine alle conseguenze che tali dichiarazioni comportavano,
sia quanto alla realizzazione dell’evento non voluto, sia quanto ad un (in)esigibile comportamento
improntato ad ordinaria diligenza, cosciente e volontario. E, quanto al comportamento
dell’istante successivo alla instaurazione del suo stato detentivo, logicamente condivisibile
è anche l’assunto del provvedimento impugnato, secondo il quale “vero è che non
risultano essere stati disposti accertamenti ai sensi dell’art. 70 c.p.p. e comunque non risulta
essere stata disposta la sospensione del procedimento per sua accertata incapacità”, ma
tanto afferisce, in sostanza, solo ai profili processuali rilevanti nel giudizio di merito. Il comportamento
successivo, d’altra parte, può rilevare solo sotto i profili del dolo o della colpa
grave in riferimento al mantenimento del già instaurato stato detentivo, profili che nella specie
non sono stati ritenuti sussistenti anche in riferimento a tale periodo successivo al reso
provvedimento cautelare. D’altra parte, il successivo ricovero dell’istante (che, peraltro,
“frattanto nel secondo interrogatorio davanti al P.M. ritrattava la confessione”) dapprima
presso la casa di cura (...), agli arresti domiciliari, poi presso l’abitazione della sorella, con
sostegno attraverso un programma terapeutico predisposto dal locale centro di salute mentale,
indi in ospedale psichiatrico giudiziario (che lo stesso ricorrente prospetta essere stato
improntato, “principalmente all’esigenza di cura del soggetto” e disposto sul presupposto di
una sua pericolosità sociale) postulava ancora a quel momento la ritenuta permanenza della
patologia psichica già riferita al momento precedente, sicché logicamente e correttamente la
Corte territoriale non ha ravvisato, neppure sotto tale riguardo, un comportamento doloso o
DOTTRINA 261
Più approfonditamente, per valutare se chi ha subito l’ingiusta detenzione
vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, il Giudice
deve considerare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori
disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che
rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza, violazione di
leggi, regolamenti o norme disciplinari, fornendo del convincimento conseguito
motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di
legittimità.
La Corte ha ripetutamente affermato che il Giudice deve fondare la deliberazione
conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni,
esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita
della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che
quest’ultimo abbia avuto dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire,
con valutazione ex ante, non se tale condotta integri gli estremi di un
reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in
presenza di un errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua
configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto
di causa ed effetto (23).
Il Giudice della riparazione non può, quindi, rivalutare i fatti di causa per
cogliere elementi di responsabilità ormai definitivamente esclusa, ma può
apprezzarli al fine di configurare la colpa grave o il dolo del richiedente quali
cause o concause della patita carcerazione (24).
Il Giudice ha pertanto il dovere di verificare se il comportamento tenuto
dall’istante, quale risulta dagli atti, sia stato tale da porre in essere un contributo
causale rispetto all’emissione del provvedimento restrittivo della libert
à, ovvero, questo emesso, se abbia trascurato di portare alla cognizione
dell’Autorità elementi idonei a far cessare lo stato di custodia cautelare.
In particolare, l’omessa dimostrazione o allegazione da parte dell’inquisito
di una ragione plausibile o di una finalità convincente in ordine ai singoli
elementi ascrittigli nel provvedimento restrittivo della libertà personale,
gravemente colposo dell’istante, idoneo a porsi in relazione causale con il permanere della
sua condizione limitativa della libertà personale, avuto presente il disposto dell’art. 313
comma 3 c.p.p., quanto alla estensione delle norme sulla riparazione per l’ingiusta detenzione
ai casi di applicazione provvisoria di misure di sicurezza.
(23) Cass. Pen., Sez. IV, 13 dicembre 2005, n. 2895; Cass. Pen., S. U., 26 giugno 2002,
n. 34559.
(24) Cass. Pen., Sez. III, 12 febbraio 2004, n. 16506. In particolare, la Corte ha rilevato
come i Giudici di merito non avessero sufficientemente apprezzato una serie di fatti,
atteggiamenti, pratiche poco chiare e sospette di Tizio e la loro possibile sinergia sulla adozione
della misura cautelare. In base a tale emergenza, è legittimo e ragionevole concludere
che Tizio, pur dichiarato non colpevole nel giudizio penale, abbia tenuto una condotta
incauta (dalla quale sono derivati gli estremi dei gravi indizi di colpevolezza e non dei meri
sospetti) che ha giustificato l’intervento della Autorità Giudiziaria ed ha legittimato il provvedimento
restrittivo della libertà.
262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
così da neutralizzare i gravi indizi di colpevolezza rilevati a suo carico e da
ricondurre la sua complessiva attività (attribuitagli come illecito penale) nell
’orbita del lecito, vale a integrare gli estremi quantomeno della colpa grave
quale condizione ostativa della legittimazione all’esercizio dell’azione volta
a conseguire un’equa riparazione a seguito della detenzione che si assume
ingiustamente sofferta (25).
I comportamenti da valutare hanno natura sia processuale, sia extra-processuale
e vanno considerati, quindi, sia quelli tenuti anteriormente, sia quelli
posti in essere successivamente al momento di restrizione della libertà personale
(26).
Resta però la necessità di accertare che tali condotte abbiano avuto una
effettiva incidenza causale sull’emissione del provvedimento cautelare e
siano state cioè tali (come espressamente previsto dal dato letterale e logico
dell’art. 314 comma 1 c.p.p.) da dare causa o concorrere a dare causa all’applicazione
del provvedimento restrittivo, ovvero alla sua permanenza (27).
(25) Cass. Pen., Sez. III, 26 marzo 2004, n. 20128.
(26) Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit..
(27) Cass. Pen., Sez. IV, 2 luglio 2004, n. 37664. Dalla menzionata sentenza emerge
che il mero stato di tossicodipendenza, pur costituendo un illecito amministrativo in caso di
importazione, acquisto o detenzione illecita di sostanze stupefacenti per uso personale, non
può da solo dare causa al provvedimento privativo della libertà personale. Il Giudice di
merito ha peraltro distinto “l’operazione logica propria del Giudice del processo penale,
volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell
’imputato, da quella propria del Giudice della riparazione il quale, pur dovendo eventualmente
operare sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto
autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno
reato, ma se queste si siano poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’errore
altrui) alla produzione dell’evento detenzione; ed in relazione a tale aspetto della decisione
egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per
rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione, sia
in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione
del diritto alla riparazione”. La Corte territoriale ha preso in considerazione vari elementi
risultanti dal procedimento penale che, pur se non idonei ad una declaratoria di condanna,
avevano dato causa all’applicazione della misura restrittiva della libertà personale e cioè: lo
stato di tossicodipendenza del ricorrente; il possesso di sostanza stupefacente in luogo pubblico;
il confezionamento in tre dosi dell’eroina; il quantitativo corrispondente a sette dosi
con effetto drogante; la circostanza che il soggetto si era recato con tali dosi di eroina in un
luogo “ritrovo abituale di spacciatori e tossicodipendenti”. Si veda sul punto anche F. IZZO
(magistrato), nota a Cass. Pen., Sez. IV, 2 luglio 2004, n. 37664, cit., Ti hanno arrestato? È
solo colpa tua, D&G, 2004: “(…) Dando uno sguardo alla casistica e partendo dalla sentenza
in commento, è stato ritenuto gravemente colposo e causativo dell’errore del Giudice, il
comportamento del tossicodipendente che in strada pubblica, luogo notoriamente di ritrovo
di tossicodipendenti, deteneva una pluralità di dosi confezionate di stupefacente. In altri
casi, è stata riconosciuta la colpa grave in chi, pur non concorrendo in un’associazione per
delinquere (dalla quale era stato assolto), aveva utilizzato detta organizzazione per realizzare
occasionalmente un contrabbando di reperti archeologici (Cassazione 268/98); in chi era
stato assolto da un omicidio, ma aggredendo la vittima nella stanza da bagno, aveva causaDOTTRINA
263
Per quanto concerne l’irrevocabilità della sentenza assolutoria stabilita
dall’art. 648 c.p.p., si osserva che essa riguarda la res in iudicium deducta e,
quindi, la valutazione di colpevolezza o di non colpevolezza dell’imputato,
ma non può estendersi ad altri giudizi, quale il giudizio riparatorio che ha
una natura del tutto autonoma.
Sotto il profilo del comportamento tenuto in un fase successiva all’applicazione
della misura custodiale, con particolare riferimento alle strategie
difensive, il silenzio, la reticenza o il mendacio rientrano indubbiamente nei
mezzi che l’indagato/imputato ha diritto di utilizzare per difendersi dall’accusa,
ma ciò non esclude che possano essere valutati dal Giudice della riparazione
come un comportamento doloso o gravemente colposo del soggetto
che ai sensi dell’art. 314 c.p.p. abbia concorso a dare causa alla ingiusta
detenzione.
Una cosa è il diritto di difendersi con qualsiasi mezzo per preservare la
propria libertà personale da un’imputazione penale, altra cosa è il diritto ad
una riparazione giudiziaria quando la detenzione patita si rivela ingiusta perch
é la strategia difensiva ha avuto successo o ha comunque ottenuto l’assoluzione
dall’imputazione: il legislatore, infatti, non ha riconosciuto incondizionatamente
siffatto diritto alla riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso
quando il comportamento dell’indagato/imputato, da solo o con altre circostanze,
abbia indotto in errore il Giudice cautelare circa l’esistenza di indizi
di colpevolezza a suo carico e ciò in forza del principio generale stabilito dall
’art. 1227 comma 2 c.c. (v. supra par 2), secondo cui il risarcimento del
danno non è dovuto quando il creditore avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria
diligenza.
Anche su questo punto opera, dunque, l’autonomia dei due giudizi: nel
giudizio penale, l’imputato ha diritto di difendersi con qualsiasi mezzo,
anche con il silenzio e il mendacio; nel giudizio di natura civilistica per la
riparazione, il Giudice può valutare quegli stessi mezzi per escludere il suo
diritto all’equo indennizzo; spetterà poi allo stesso Giudice della riparazione
decidere se il silenzio o il mendacio bastino da soli o necessitino del concorso
di altri elementi di colpa per escludere il diritto all’indennizzo (in questo
ambito, questi potrà, per esempio, valutare se il silenzio ha svolto colposato
la caduta dell’asciugacapelli in acqua, determinandone la morte involontariamente
(Cassazione 1558/94); in chi aveva taciuto nell’immediatezza del fatto un valido alibi ed
aveva prospettato invece altre circostanze poi risultate false (Cassazione 1373/94); in chi
era stato prosciolto da accuse di reati sessuali per difetto di querela, essendo venuta meno
la condizione di procedibilità della commissione di atti osceni in luogo pubblico
(Cassazione 40126/02). Di contro, sono state ritenute condotte non ostative all’indennizzo
quelle di chi aveva avuto colloqui telefonici intercettati di contenuto «poco consono alla
sua qualifica di libero professionista» (Cassazione 4927/92); di chi aveva tenuto una
“intensa frequentazione” con altro imputato condannato per droga (Cassazione 179/97); di
chi era fuggito da un’auto di provenienza furtiva unitamente ad altre tre persone
(Cassazione 1870/94). (…)”.
264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mente un ruolo sinergico nel giustificare la misura detentiva in quanto ha
ritardato l’acquisizione di elementi a discarico) (28).
Spetta, in particolare, alla parte resistente, sia essa il Ministero
dell’Economia e delle Finanze oppure il Procuratore Generale, provare le
cause ostative o estintive di quel diritto alla riparazione, cioè il fatto doloso
o gravemente colposo del richiedente l’indennizzo, che ha dato o concorso a
dare causa alla custodia cautelare (29).
Riassumendo, in conclusione, i criteri fondamentali elaborati e ripetutamente
affermati dalla costante giurisprudenza della suprema Corte (a partire
da una fondamentale sentenza delle Sezioni Unite (30), sino alle più recenti
decisioni sul tema (31)), emerge quanto segue.
a) Esclusione del diritto alla riparazione e valutazione giudiziale della
condotta dell’istante. Il Giudice di merito, per valutare se chi ha patito la
custodia cautelare vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o
colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi
probatori a sua disposizione, con particolare riferimento alla sussistenza
di condotte che rivelino gli estremi di tali stati soggettivi, fornendo del
convincimento conseguito una motivazione che se adeguata e congrua è
incensurabile in sede di legittimità.
Il Giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi,
esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita
della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che
quest’ultimo abbia avuto dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire,
con valutazione ex ante (e secondo un iter logico-motivazionale del
tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo penale di merito), non
se tale condotta integri gli estremi di un reato, ma solo se sia stata il presupposto
che abbia ingenerato, ancorché in presenza di un errore dell’Autorità
procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale,
dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ed effetto (32).
b) Definizione della condotta gravemente colposa. Secondo un assunto
interpretativo ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di
colpa grave di cui all’articolo 314 comma 1 c.p.p., ostativa del diritto alla riparazione
dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa
ad altri risultati, ponga in essere, per evidente e macroscopica negligenza,
imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disci-
(28) Cass. Pen., Sez. IV, 4 dicembre 2003, n. 46470; Cass. Pen., Sez. IV, 8 aprile 2003,
n. 16370; Cass. Pen., Sez. IV, 7 giugno 2001, n. 22986; Cass. Pen., Sez. IV, 22 aprile 1998,
n. 956.
(29) Cass. Pen., Sez. III, 17 febbraio 2005, n. 13714.
(30) Cass. Pen., S. U., 13 gennaio 1995, n. 1, cit..
(31) Ex pluribus, Cass. Pen., Sez. IV, 14 febbraio-14 luglio 2006, n. 24355.
(32) Ex pluribus, Cass. Pen., Sez. IV, 14 febbraio-14 luglio 2006, n. 24355, cit.; Cass.
Pen., Sez. IV, 07 aprile 2005.
DOTTRINA 265
plinari, una situazione tale da costituire una non voluta ma prevedibile (e, quindi,
anche preventivamente evitabile) ragione di intervento dell’Autorità
Giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento
restrittivo della libertà personale.
Atale riguardo, la colpa grave può concretarsi in comportamenti sia processuali,
sia extra-processuali, come la grave leggerezza o la macroscopica
trascuratezza, tenuti sia anteriormente, sia successivamente al momento
restrittivo della libertà personale; onde l’applicazione della suddetta disciplina
non può non imporre l’analisi dei comportamenti tenuti dall’interessato
anche prima dell’inizio dell’attività investigativa e della relativa conoscenza
da parte di quest’ultimo, indipendentemente dalla circostanza che tali comportamenti
non integrino reato (anzi, questo è, a ben vedere, il presupposto
essenziale dell’intervento del Giudice della riparazione) (33).
c) Valutazione delle strategie difensive. Sul punto, con argomentazioni qui
di immediata utilità, si è parimenti affermato che non può comunque fondarsi la
colpa dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione, solo sul
silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio davanti al P.M. o al G.I.P.,
giacché la scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non
può valere ex se per fondare un giudizio positivo di sussistenza di uno stato soggettivo
colposo, per il rispetto che è dovuto alle strategie difensive che abbia
ritenuto di adottare chi è stato privato della libertà personale. Ciò anche qualora
a tali strategie possa attribuirsi, a posteriori, un contributo negativo di non chiarificazione
del quadro probatorio legittimante la privazione della libertà (34).
Essendo pacifico che non possa attribuirsi rilievo ex se al silenzio o alla
reticenza nel corso dell’interrogatorio (tenuto conto dell’insindacabile diritto
al silenzio, alla reticenza o alla menzogna spettante alla persona sottoposta
alle indagini e all’imputato), si ritiene, tuttavia, possa attribuirsi rilievo al
mancato esercizio di una facoltà difensiva da parte dell’interessato, quantomeno
sul piano della mancata allegazione di fatti risolutivamente favorevoli
a lui noti che, se non può essere da sola posta a fondamento dell’esistenza
della colpa grave, può valere però a fare ritenere l’esistenza di un comportamento
omissivo casualmente efficiente nel permanere della misura cautelare,
del quale può tenersi conto nella valutazione globale della condotta, in
presenza di altri elementi di colpa.
Pertanto, qualora soltanto l’indagato/imputato sia in grado di fornire una
logica e plausibile spiegazione al fine di eliminare il valore indiziante di elementi
acquisiti nel corso delle indagini, il mancato esercizio di una facoltà
difensiva, quantomeno di allegazione di elementi favorevoli, vale a fare ritenere
l’esistenza di un comportamento omissivo casualmente efficiente nel
permanere della misura cautelare (35).
(33) Cfr., Cass. Pen., Sez. IV, 7 aprile 2005, cit.; Cass. Pen., Sez. IV, 07 ottobre 2003.
(34) Cass. Pen., Sez. IV, 7 ottobre 2003, cit..
(35) Cass. Pen., Sez. IV, 14 febbraio-14 luglio 2006, n. 24355, cit..
266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
d) Profili probatori. Sotto il profilo dell’onere probatorio che caratterizza
la subiecta materia, deve escludersi che spetti a colui che chiede l’equa
riparazione dimostrare, oltre che di avere subito l’ingiusta detenzione e di
essere stato assolto dalle imputazioni che lo avevano privato delle libertà, di
non avere contribuito, con la propria condotta dolosa o gravemente colposa,
a determinare l’ingiusta detenzione.
Un tale onere probatorio potrebbe giustificarsi solo se la domanda proposta
ai sensi dell’art. 314 c.p.p. avesse natura civilistica, ma il procedimento
per la riparazione dell’ingiusta detenzione, lungi dall’essere un procedimento
civile che si svolge dinanzi al Giudice penale, costituisce un procedimento
penale autonomo che presuppone definitivamente concluso il rapporto
processuale instauratosi per effetto dell’esercizio dell’azione penale.
Pertanto, la relativa disciplina non può che essere ricercata nell’ambito
dell’ordinamento processuale penale, le cui disposizioni, in assenza di un’espressa
deroga, devono trovare in questa materia integrale applicazione.
Ne deriva, quindi, non solo che non spetta a colui che chiede l’equa riparazione
di provare di non avere dato causa o contribuito a dare causa alla custodia
cautelare, ma che sia onere del Giudice accertare, anche d’ufficio, se ricorrano
le due condizioni richieste dalla legge per l’accoglimento della domanda,
ovverosia la “condizione positiva” di essere stato il richiedente ingiustamente
privato della libertà e di essere stato prosciolto dalle imputazioni che gli erano
state ascritte e la “condizione negativa” di non avere, l’interessato, dato o concorso
a dare causa alla custodia cautelare applicata a suo carico (36).
4. Disamina della giurisprudenza penale di merito: la colpa grave secondo
la Corte d’Appello di Trieste.
Dall’analisi del recente panorama giurisprudenziale delle Sezioni Penali
del Distretto di Corte d’Appello di Trieste (2004-2007), si ricava un filone
(36) Cass. Pen., Sez. IV, 4 ottobre 2005, n. 45154; Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile 2004,
n. 23630. Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva ritenuto che Tizio, nell’omettere in
sede di interrogatorio di riferire una circostanza a lui favorevole (in particolare che la missiva
a sua firma, oggetto della contestazione, si riferiva in realtà a vicenda diversa da quella
oggetto del procedimento penale) avesse, con colpa grave, contribuito al rigetto dell’istanza
di revoca della misura cautelare. È una argomentazione che secondo la Cassazione non
appare in linea con quanto affermato in merito ai requisiti per la configurabilità della colpa
grave, laddove si è finanche escluso che questa posso fondarsi ex se sull’esercizio da parte
dell’interessato della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio. Ma il Giudicante è
incorso in un ulteriore errore di valutazione allorquando ha ritenuto che la dimenticanza di
Tizio fosse da considerarsi dimostrativa di “evidente trascuratezza e negligenza”.
L’affermazione è, a ben vedere, meramente assertiva e non supportata da adeguato sforzo
motivazionale diretto a smentire le argomentazioni dell’interessato (lungo arco temporale
decorso tra i fatti ed il provvedimento restrittivo; numero consistente di pratiche analoghe
trattate, tale da non consentire di apprezzare una particolare singolarità di quella sub iudice).
Il Giudice della riparazione non avrebbe potuto, dunque, come immotivatamente ed
erroneamente ha fatto, fare discendere tout court dalla dimenticanza di Tizio un apprezzamento,
in termini di colpa grave, condizionante il riconoscimento dell’indennizzo.
DOTTRINA 267
interpretativo uniforme sui criteri di valutazione ed il campo di operatività
della condotta gravemente colposa del richiedente la riparazione, quale causa
di esclusione del diritto all’indennizzo.
La posizione assunta dalla Corte territoriale è pienamente conforme agli
orientamenti, ormai pienamente consolidati, delineati negli ultimi anni dalla
suprema Corte, ai quali la stessa Corte Distrettuale fa costante ed espresso
rinvio (37).
4.1. Segue: profili generali dell’esclusione del diritto alla riparazione.
L’analisi operata dalla Corte inizia da un punto fermo ispirato al tenore
letterale dell’art. 314 c.p.p.: ai fini dell’esclusione del presupposto oggettivo
della riparazione sono richiesti profili specifici di colpa grave (o, a fortiori,
dolo), sinergici alla instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare.
Si ritiene che dalla condotta dell’indagato/imputato debbano emergere
elementi gravi e precisi di colpevolezza idonei, nella specifica fase processuale,
alla adozione della misura cautelare applicata, ovverosia debba derivarne
una situazione oggettivamente adeguata a provocare interventi coercitivi
dell’Autorità Giudiziaria (38).
Analoghe considerazioni valgono anche per il comportamento tenuto in
un momento successivo a quello dell’arresto, per i profili di mancata revoca
della misura restrittiva già adottata (39).
4.2. Segue: definizioni.
Sotto il profilo definitorio, conformemente all’ormai consolidata giurisprudenza
di legittimità, si considera dolosa la condotta volontaria e consapevole
che, antecedentemente alla privazione della libertà personale o nel
corso di essa, sia valutabile sulla base delle comuni regole di esperienza
come oggettivamente idonea a creare situazioni atte a determinare interventi
coercitivi dell’Autorità Giudiziaria.
Dolosa non è, oltretutto, solo la condotta volta alla realizzazione di un
evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente
o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e
volontaria i cui esiti, valutati dal Giudice del procedimento riparatorio con il
parametro dell’id quod plerumque accidit, siano tali da creare una situazione
di allarme sociale e di doveroso intervento dell’Autorità Giudiziaria a
tutela della comunità.
(37) Per una nozione aggiornata e completa della colpa grave, con molteplici richiami
alla consolidata giurisprudenza della suprema Corte, si veda l’ordinanza della Corte
d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 3 luglio 2007.
(38) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 22 giugno 2004.
(39) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 10 novembre 2004.
Idem altre due ordinanze della medesima Corte Distrettuale, Sez. Pen. I, dd. 2 maggio 2005
e Sez. Pen. I, dd. 2 ottobre 2006.
268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nella nozione generale di dolo va ricompreso poi anche il “dolo eventuale
” (fattispecie soggettiva di elaborazione dottrinale, al confine con la
“colpa cosciente” o “con previsione”) di chi agisce prevedendo la concreta
possibilità o probabilità del verificarsi di un dato evento: il soggetto pone
comunque in essere l’azione, accettando il rischio delle conseguenze derivanti
dalla propria condotta.
Si ritiene, invece, gravemente colposa la condotta caratterizzata da noncuranza,
negligenza, imprudenza o indifferenza per quanto possa da essa prevedibilmente
derivare sul piano penale (40).
La nozione di colpa a cui la Corte aderisce è quella penalistica emergente
dall’art. 43 c.p., secondo il quale si configura tale stato soggettivo qualora
l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa
della sua negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero per l’inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Il parametro della valutazione è rappresentato dal buon senso di un
“uomo non particolarmente avveduto”, il quale identifica, in concreto, il c.d.
“agente modello” (41): essendo questi l’agente “ideale”, si può comprendere
come il giudizio sulla condotta colposa sia da effettuare con estremo rigore
e severità, contrariamente ad una linea di pensiero per cui sarebbe consentito
a ciascun individuo di vivere sempre ai confini del reato pur nella totale
immunità da qualsivoglia conseguenza sul piano personale (42).
4.3. Segue: valutazione giudiziale della condotta gravemente colposa.
È pacifico che la valutazione da parte del Giudice della riparazione,
come già visto in precedenza nell’esame della giurisprudenza di Cassazione,
abbia natura civilistica e non penalistica (43) e l’iter logico che questi deve
seguire sia, nel suo complesso, molto diverso da quello del Giudice della
cognizione (44).
Il giudizio sulla condotta deve essere effettuato ex ante e sulla base dell
’idoneità di questa a trarre in inganno l’Autorità Giudiziaria ed a porsi come
situazione sinergica alla causazione dell’evento detenzione (45).
(40) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005.
Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005. Conforme,
Cass. Pen., Sez. IV, 22.-20 aprile 1996, n. 204624.
(41) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit..
Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit..
(42) Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit..
(43) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, conformemente
al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.
(44) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, cit.,
conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.
(45) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit..
Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit..
Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 13 aprile-18 maggio 1999, n. 1114.
DOTTRINA 269
Il Giudice della riparazione, pur operando necessariamente sullo stesso
materiale probatorio acquisito nel giudizio di cognizione, non deve stabilire
se determinate condotte costituiscano o meno un reato, ma se esse si siano
poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore che,
peraltro, è il presupposto necessario della riparazione) rispetto alla produzione
dell’evento detenzione, per l’idoneità di tali condotte (come visto, da
valutarsi ex ante) a trarre in inganno l’Autorità Giudiziaria.
In particolare, perché la condotta difensiva (la quale va valutata con particolare
prudenza, dovendosi sempre rispettare le scelte in merito alle strategie
di difesa, tenendo presente la tutela di rango costituzionale riconosciuta
a tale diritto) possa essere considerata ostativa rispetto al riconoscimento del
diritto all’indennizzo, è indispensabile non solo che si tratti di una condotta
scorretta (come, per esempio, il fornire un alibi falso), ma che ricorra anche
il rapporto sinergico di causa ed effetto tra la condotta colposa e l’evento
detenzione (46).
4.4. Segue: profili probatori.
La prova della condotta colposa non può che emergere dalla fonte dalla
quale scaturisce la privazione della libertà personale, cioè l’ordinanza cautelare,
la quale, dovendo essere rigorosamente motivata, come esige l’art. 292
c.p.p. (nel quale il legislatore ha indicato non solo gli elementi oggetto della
motivazione, ma anche il contenuto della medesima), deve necessariamente
indicare anche le condotte dell’indagato che, considerate in quel momento
come gravi indizi di colpevolezza, in prosieguo possono risolversi, invece,
in condotte gravemente colpose o dolose, irrilevanti ai fini della affermazione
della responsabilità penale, ma sinergicamente incidenti sulla privazione
della libertà e, quindi, in condotte che escludono l’equa riparazione (47).
La sussistenza della colpa grave deve, pertanto, risultare o desumersi dal
provvedimento restrittivo della libertà o dagli eventuali provvedimenti successivi
di riesame o di appello (48).
4.5. Segue: casistiche.
Il Giudice deve valutare la condotta sia prima, sia dopo il momento della
perdita della libertà e, più in generale, anteriormente alla legale conoscenza
(46) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit..
Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit..
Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 10 marzo-12 aprile 2000, n. 1705.
(47) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 10 novembre 2004,
cit.. Idem ordinanze della medesima Corte Distrettuale, Sez. Pen. I, dd. 2 maggio 2005, cit.
e Sez. Pen. I, dd. 2 ottobre 2006, cit.. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile 2004, n. 42298.
(48) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005 cit..
Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005 cit..
Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 24 aprile 2003, n. 19523.
270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
da parte di un soggetto dell’attivazione di indagini a suo carico, con la precisazione
che la valutazione dei comportamenti successivi a tale conoscenza
deve essere effettuata con particolare cautela, dovendosi sempre e con adeguato
rigore avere rispetto per le strategie difensive, essendo il diritto alla
difesa un diritto fondamentale e inviolabile, costituzionalmente garantito ex
art. 24 comma 2 della Carta fondamentale (49).
In proposito, si propongono, a titolo esemplificativo, alcune ipotesi.
A) Sotto il profilo delle condotte “processuali”, si possono presentare le
seguenti casistiche:
– la confessione di un delitto che consente l’adozione di misure cautelari
costituisce certamente un fatto colposo impeditivo dell’accoglimento della
domanda di riparazione (condotta processuale attiva) (50);
– appare condivisibile l’orientamento giurisprudenziale in base al quale
non può fondarsi la colpa dell’interessato solo sul silenzio da questi serbato
in sede di interrogatorio davanti al P.M. o al G.I.P., giacchè la scelta defensionale
di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere ex se per
fondare un giudizio positivo di sussistenza della responsabilità, per il rispetto
che è dovuto alle strategie difensive anche qualora a queste possa essere
attribuito, a posteriori, un contributo negativo di non chiarificazione del quadro
probatorio legittimante la privazione della libertà (condotta processuale
omissiva “sotto soglia di rilevanza”) (51);
– la prospettiva entro cui occorre muoversi è, dunque, quella della possibile
qualificazione della “non collaborazione” dell’inquisito come contributo
causale (in termini di dolo o colpa grave) alla genesi o al mantenimento
della detenzione in un secondo momento rivelatasi ingiusta: la giurisprudenza
di Cassazione, seguita dalla Corte territoriale, ha più volte precisato
che è legittimo trarre dal comportamento processuale del ricorrente, il quale
non abbia risposto in sede di interrogatorio ed abbia così omesso di fornire
spiegazioni su elementi obiettivamente indizianti, ragioni per disattendere la
richiesta di riparazione, nel senso che non è il silenzio (o la reticenza) in
quanto tale che rileva, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quantomeno
sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli (condotta processuale
omissiva “sopra soglia di rilevanza”) (52).
(49) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit..
Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit..
Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 13 marzo-23 aprile 1996, n. 849; Cass. Pen., S. U., 13 dicembre
1995-9 febbraio 1996, n. 43, cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez.
Pen. I, dd. 08 giugno 2005, cit., conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza
di legittimità.
(50) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 15 dicembre 2004.
(51) Cass. Pen., Sez. IV, 4 ottobre 2005, n. 45154; ordinanza della Corte d’Appello di
Trieste, Sez. Pen. I, dd. 2 ottobre 2006, cit..
(52) Cass. Pen., Sez. IV, 8 aprile 2003, n. 16270; Cass. Pen., Sez. IV, 7 giugno 2001, n.
22986; Cass. Pen., Sez. IV, 14 aprile 1995, n. 1365; Cass. Pen., Sez. VI, 24 gennaio 1992,
n. 4189; ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, cit..
B) Sotto il profilo delle condotte “extra-processuali”, si profilano le
seguenti soluzioni:
– in generale, sono da considerarsi gravemente colposi i comportamenti
seriamente autoindizianti che configurino un contributo personale alla creazione
dell’apparenza delle condizioni impositive sia dell’adozione che del
mantenimento della misura custodiale (53);
– la mera “connivenza passiva” rispetto all’attività criminosa di altri non
può considerasi ex se condotta dolosa o colposa idonea a concorrere alla causazione
dell’evento detenzione, essendo tale contributo assolutamente irrilevante
sia rispetto alla compartecipazione al reato, secondo il consolidato principio
per cui, ai fini dell’incriminazione, l’apporto minimo per la configurazione
del concorso di persone ex art. 110 c.p. è rappresentato dal rafforzamento
(anche solo su un piano psicologico/morale) dell’altrui proposito criminoso,
sia, a maiori ad minus, rispetto all’idoneità di tale condotta a creare il
fumus commissi delicti per l’applicazione della misura custodiale (54);
– in particolare, si concorre a dare causa alla misura cautelare se si sia al
corrente nell’attività delittuosa di altri e ciò nonostante, pur non concorrendo
in quella attività, si pongano in essere, con evidente e macroscopica
imprudenza, condotte che si prestino, sul piano logico, alla deduzione della
contiguità del concorso in termini di “connivenza attiva” e di sostegno indiretto
all’altrui progetto criminoso (es. frequentazione di persone dedite allo
spaccio; frequenti contatti telefonici con le stesse; ecc.) (55). Ciò tenendo
anche conto del fatto che, nel caso di specie esaminato dalla Corte territoriale,
le dichiarazioni rese nell’interrogatorio, in sede di convalida della misura,
non avevano minimamente modificato o scalfito il quadro probatorio e
gravemente indiziario offerto al G.I.P. al momento dell’adozione del provvedimento
di custodia cautelare (56).
5. Considerazioni conclusive: una questione interpretativa irrisolta.
La quaestio si incardina su una clausola di esclusione per sua natura,
come visto, passibile di diverse interpretazioni (57). L’elasticità della formulazione
(“[…] qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo
o colpa grave”) rende dubbio il suo campo di applicazione; anche la previsione
dell’ipotesi del concorso della condotta dell’istante rispetto alla produzio-
DOTTRINA 271
(53) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, cit..
(54) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 27 settembre 2005.
Secondo Cass. Pen., 21 dicembre 2006, n. 42039, la connivenza costituisce comportamento
gravemente colposo rilevante ai fini dell’esclusione del diritto alla riparazione allorché tale
atteggiamento risulti aver rafforzato la volontà criminosa dell’agente.
(55) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 1 dicembre 2005.
(56) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 22 giugno 2004, cit.,
con richiamo a Cass. Pen., Sez. IV, 23 settembre 1994, n. 598.
(57) G. CONSO – V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam,
Padova, 2005, cit., p. 1071.
272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ne dell’evento detenzione (è, come noto, sufficiente che, tra i molteplici fattori
all’origine della misura coercitiva, almeno uno sia attribuibile all’interessato)
(58), omessa nell’art. 643 c.p.p. sulla riparazione dell’errore giudiziario,
complica ulteriormente l’interpretazione sui confini di operatività della colpa.
Il problema ha, dunque, una duplice natura: da un lato, si rende necessario
interpretare il significato della colpa grave ai fini dell’art. 314 c.p.p., non
avendo il legislatore risolto alla radice tale questione (non palesando, expressis
verbis, a quale nozione di colpa ci si debba riferire); dall’altro si ricade
nel complesso e parzialmente irrisolto tema della causalità che da sempre
divide la dottrina juspenalistica e juscivilistica, nonchè la giurisprudenza, su
quale debba essere la più idonea definizione del nesso causale e quale il suo
criterio di individuazione, unitamente alle problematiche emergenti dall’ipotesi
del concorso di cause rispetto alla produzione del medesimo evento. Tali
sforzi dottrinali e giurisprudenziali sono volti a ricercare una nozione di causalit
à che, astraendosi dalle scienze naturali, sia valida anche per il diritto e
con essa un unico e sicuro criterio di accertamento del rapporto causale, utile
all’interprete per affermare con sufficiente grado di certezza se un dato fatto
risulti cagionato da una data condotta (59).
Per quanto concerne poi l’operatività della condizione soggettiva negativa
nell’ambito del ventaglio di ipotesi oggettive di riparazione previste dall
’art. 314 c.p.p., si ritiene che la causa di esclusione del dolo o colpa grave
prevista dal primo comma (casi di detenzione ingiusta: proscioglimento con
sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il
fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come
reato) operi anche per il secondo comma (è il caso della detenzione illegittima,
in cui risulta accertato, con decisione irrevocabile, che il provvedimento
che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero
le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.) (60).
È pacifico, visto l’espresso richiamo ex lege ai commi precedenti, che la
causa di esclusione operi anche per le altre ipotesi di detenzione ingiusta previste
dal terzo comma: provvedimento di archiviazione o sentenza di non
luogo a procedere.
Risolte tali questioni preliminari, l’analisi interpretativa deve partire da un
condivisibile assunto: il pericolo dell’errore giudiziario, come scriveva il Carnelutti,
è “come una gran nube che oscura il cielo del diritto processuale”(61):
(58) Critica la previsione del “concorso” ed auspica che sul punto la disciplina sia emendata,
M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, Padova, 1993, cit., p. 188
ss., soprattutto sottolineando la mancanza di confini normativi certi della fattispecie e, conseguentemente,
il rischio di un suo impiego quale comodo espediente per negare la riparazione.
(59) R. GAROFALI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Giuffrè, Milano, 2003,
p. 281.
(60) G. CONSO – V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam,
Padova, 2005, cit., p. 1071.
(61) F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 277.
DOTTRINA 273
da ciò l’esigenza di un istituto come quello della riparazione per l’ingiusta
detenzione che attenui gli effetti di una sofferenza ingiustamente patita.
Le limitazioni al diritto all’indennizzo sono, tuttavia, ragionevolmente
necessarie e trovano il proprio fondamento nei sopramenzionati principi generali
di equitas giuridica che ristabilizzano il giusto equilibrio in capo ad un soggetto
sì ingiustamente leso, ma, al contempo, anche imprudentemente causa o
concausa del suo male: la colpa grave non può, di certo, diventare uno strumento
asettico per eludere il riconoscimento del diritto all’indennizzo, ma tale
ragionevole considerazione non può, d’altra parte, nemmeno giustificare una
attenuazione del rigore nell’individuazione delle situazioni impeditive.
Secondo alcuni (62), il diniego del ristoro economico avrebbe un carattere
“criptopunitivo” nei confronti di condotte penalmente non vietate e la custodia
non riparabile in via economica assumerebbe il senso di una sanzione sostanziale
indiretta. Si ritiene che il rischio di tali ultime valutazioni sia quello di
estremizzare le conseguenze in una direzione opposta a quella temuta, ovverosia
di riconoscimento indiscriminato della riparazione in tutte le ipotesi in cui
sussistano gli estremi oggettivi per la stessa, tralasciando, a priori, una indagine
sulla condotta dell’istante, con l’effetto di disattendere il valore originario
della previsione normativa e trasfigurare la colpa grave in una causa impeditiva
priva di un effettivo valore sostanziale e di una concreta capacità operativa.
Spetta comunque al Giudice il compito di dare un senso alla clausola di
esclusione del diritto all’indennizzo e di delinearne i confini secondo la concezione
etico-sociale del suo tempo, nel maggior rispetto possibile dovuto
alla ratio (v. supra, par. 1) che ha indotto il legislatore ad introdurre tale condizione
ostativa nella sistematica della disciplina riparatoria (63).
Il mancato assolvimento dell’obbligo di motivazione (logica, congrua e
completa) è, infine, come noto, sempre censurabile in Cassazione ex art. 606
comma 1 lett. e c.p.p.. Si tratta del rimedio generalmente riconosciuto avverso
a tutte le decisioni che presentino un vizio di mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento
impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati
nei motivi di gravame, ma contraddistinto, con riferimento alla speciale procedura
di cui trattasi, da alcuni profili di peculiarità e differenziazione.
In primis, qualora legittimamente posto in essere, il giudizio dinanzi alla
suprema Corte rappresenta il secondo ed ultimo grado di giustizia esperibile,
essendo il primo grado di spettanza della Corte d’Appello.
Secondariamente, la Cassazione si è riservata un’ampia discrezione nell
’individuazione dei confini da assegnare alla colpa grave, spesso interloquendo
nel merito con i Giudici del rinvio, assoggettati al vincolo decisorio
(62) Così M. D’AGNOLO, Connivenza e frequentazioni «ambigue» come limiti alla
riparazione per l’ingiusta detenzione, in Cass. Pen., 2004, p. 2962.
(63) P. A. SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Giappichelli, Torino, 1992,
cit., p. 30 ss..
ex art. 623 c.p.p. (64), stabilendo, di volta in volta, nella sua duplice funzione
di Giudice investito del caso concreto con il mezzo dell’impugnazione e
Giudice dell’esatta osservanza ed uniforme interpretazione del diritto, quali
elementi rientrino nella soglia dell’irrilevanza ai fini della riparazione,
comunque garantita, e quali, invece, siano idonei a configurare un fattore inibitorio
rispetto al diritto all’equo indennizzo (65).
Un’indagine introspettiva sullo stato interiore dell’agente nella fase di
compimento di un’azione dà origine ad un percorso cognitivo arduo e difficoltoso,
dai risultati spesso altalenanti, soprattutto qualora tale stato non si
avvicini, per grado di intensità, al dolo, o, comunque, non si proietti in indici
sintomatici oggettivi di emblematica evidenza. Tesa al principio della certezza
e della uniforme applicazione del diritto, a cui da sempre l’ordinamento
aspira, la suprema Corte ha comunque sforzato il proprio operato interpretativo
oltre gli ostacoli del relativismo, cercando di delineare, con tendenziale
costanza, i margini definitori della colpa grave e svolgendo, per il tramite
di un canale posto ex lege e rappresentato dalla frequente ipotesi fenomenologica
dell’annullamento con rinvio per error in iudicando, un’attività ermeneutica
al limite tra l’ordinaria funzione di nomofilachia che le è propria ed
i poteri di cognizione tipici del Giudice di merito.
Al di là di ogni possibile sforzo ermeneutico, permane, tuttavia, il fatto
che l’esaminata formula di esclusione rappresenta, senza alcun dubbio, l’anello
più debole di una procedura per il resto fortemente connotata da predefiniti
e puntuali parametri garantistici di natura oggettiva. Residuano, in particolare,
alcune questioni interpretative irrisolte, individuabili in quegli indici
sintomatici della colpa (quale, come visto, la connivenza passiva) talvolta
valutati di per sé insufficienti a rappresentare una causa di esclusione dell’indennizzo,
ma talvolta, se cumulati ad altri (seppur di per sé labili) elementi
indizianti a carico dell’indagato, considerati idonei a delineare un concorso
colposo nell’applicazione e/o conservazione della misura cautelare: una
“zona grigia” che, a ben vedere, investe la Cassazione di un ampio potere
interpretativo non assoggettato ad alcun controllo legislativo, risultando,
d’altra parte, di difficile ipotesi, anche in una prospettiva de jure condendo,
un’anticipazione astratta delle diverse possibili sfaccettature di una condotta
colposa emergenti nella prassi.
274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(64) Come noto, qualora una decisione sia valutata dalla Corte come formalmente valida
ma affetta da un errore sul merito (error in iudicando), non potendosi sostituire al
Giudice di merito, questa rinvia al secondo il giudizio, ma con un vincolo decisorio ineludibile
che si sostanzia nella formulazione di massime di diritto.
(65) Per un approfondimento, R. VANNI, Nuovi profili della riparazione dell’errore giudiziario,
Cedam, Padova, 1992, cit., p. 84 ss., il quale ritiene che, con riferimento al procedimento
di riparazione dell’errore giudiziario, la cognizione della suprema Corte sia estesa
anche al merito, per sopperire all’assenza dei tre ordinari gradi di giudizio e garantire,
comunque, un riesame completo della vicenda anche sotto il profilo sostanziale, oltre che
della legittimità procedurale.
Le ripercussioni più gravi delle predette incertezze definitorie si riscontrano
a livello probatorio, in un aggravamento dell’onere posto a carico della
Procura e del convenuto Ministero: i maggiori ostacoli si concentrano, infatti,
proprio su quei confini sfumati e di incerta individuazione della colpa, là
dove, come visto, nemmeno gli stessi indici casistici di matrice giurisprudenziale
maturati sino ad oggi sono riusciti a prospettare un chiaro e definitivo
(oltre che, pro futuro, auspicato) discrimen tra le allegazioni effettivamente
idonee ad avere una incidenza processuale e quelle, al contrario, costituenti
un mero fumus “sotto soglia di rilevanza”.
DOTTRINA 275
276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La scelta del socio privato nella s.p.a.
a capitale pubblico
di Giulia De Dominicis e Giuseppe Fabrizio Maiellaro (*)
In relazione alla determinazione di una S.p.A. con capitale a totale partecipazione pubblica
(nella fattispecie, costituita con capitale 100% di un Comune), incaricata della realizzazione,
della gestione e della erogazione dei servizi di un parcheggio comunale, di aprire
al mercato il proprio capitale, è sorto il problema di individuare i termini e le modalità per
addivenire all’individuazione di un socio privato alla stregua delle vigenti disposizioni di
legge.
1. La disciplina della gestione ed erogazione di servizi pubblici alla stregua
del D.Lgs. n. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali)
Una corretta trattazione della questione esige anzitutto l’individuazione
della natura di un soggetto istituito da un Comune per la realizzazione, erogazione
e gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica (1). Tale
natura può essere definita alla stregua delle vigenti disposizioni di legge che
regolano le attività, quali quelle in esame, poste in essere dagli enti locali.
Al riguardo, si rammenta che l’art. 113 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267
e s.m.i. (c.d. “Testo Unico degli Enti Locali”, di seguito, per brevità, anche
“T.U.E.L.”) disciplina la gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica e consente, al comma 5, che l’erogazione del
servizio avvenga secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa
dell’Unione Europea, con conferimento della titolarità del servizio:
(*) Avvocati in Roma.
(1) In proposito, vale rammentare che la differente ipotesi dello svolgimento delle attivit
à di sola gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti
locali è invece disciplinata dal comma 4 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 267/2000. Nella specie,
la norma in questione stabilisce che “qualora sia separata dall’attività di erogazione dei
servizi, per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali gli enti
locali, anche in forma associata, si avvalgono:
a) di soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione
totalitaria di capitale pubblico, cui può essere affidata direttamente tale attività, a
condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo
analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più
importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano;
b) di imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica, ai sensi
del comma 7”.
A sua volta, il comma 7 richiamato prevede che “la gara di cui al comma 5 è indetta
nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio
e di sicurezza definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa,
dagli enti locali”.
DOTTRINA 277
“a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare
con procedure ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato
venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza
pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie
in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle
autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli
enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo
analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la
parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che
la controllano”.
Dunque rileva in primo luogo la nozione di servizio pubblico locale a
rilevanza economica, cui la norma fa espresso riferimento.
Una definizione di servizio pubblico locale, seppure di carattere piuttosto
generico, può anzitutto rinvenirsi a livello normativo nell’art. 112, comma 1,
del T.U.E.L., il quale dispone che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive
competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per
oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”.
In merito alla rilevata genericità della definizione appena riportata, la giurisprudenza
ha avuto modo di precisare che “la genericità della norma si spiega
con la circostanza che gli enti locali, ed il comune in particolare, sono enti
a fini generali dotati di autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria
(art. 3 T.U.E.L.) nel senso che essi hanno la facoltà di determinare per sé i propri
scopi e, in particolare, di decidere quali attività di produzione di beni ed
attività, purché genericamente rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere
lo sviluppo civile ed economico della comunità locale di riferimento (art. 112
T.U.E.L.), assumere come doverose. Quel che rileva è perciò la scelta politicoamministrativa
dell’ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in
modo continuativo obiettive esigenze della collettività” (2).
Alla luce di quanto precede – e ferma evidentemente l’autonomia del
Comune nell’individuazione delle attività che ritenga di assumere per perseguire
il menzionato sviluppo della propria comunità locale di riferimento –
la realizzazione, gestione ed erogazione dei servizi di un parcheggio pubblico
sembrerebbe quindi riconducibile alla nozione di servizio pubblico locale,
e rientrerebbe, di conseguenza, tra le facoltà del Comune quella di affidare
l’erogazione del predetto servizio con una delle modalità alternative individuate
dal già citato art. 113, comma 5, del T.U.E.L.
E, nell’ipotesi in cui il Comune abbia provveduto ad affidare direttamente
ad una S.p.A. a capitale interamente pubblico la realizzazione e gestione
di un’area di parcheggio, potrebbe configurarsi una fattispecie riconducibile
(2) Così Consiglio di Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369.
278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
all’affidamento c.d. “in house”, così come previsto dal citato art. 113,
comma 5, lett. c) (3) e dall’elaborazione giurisprudenziale dell’istituto sviluppatasi
negli anni (4).
In tal senso, difatti, il Comune ha operato mediante l’affidamento (“in
house”) dell’esercizio delle attività in argomento ad una società che rappresenta
il suo braccio operativo, una “longa manus” dell’amministrazione affidante,
pur conservando natura distinta ed autonoma rispetto all’apparato
organizzativo dell’amministrazione medesima (5).
2. Le S.p.A. costituite dagli Enti Locali nel quadro normativo del D.Lgs. n.
163/2006 (Codice dei Contratti Pubblici relativi al lavori, servizi e forniture)
Le premesse di cui al precedente paragrafo ci consentono ora di procedere
alla individuazione della normativa applicabile alla problematica in
argomento e, in particolare, all’ipotesi in cui un soggetto pubblico (costituito
nella forma societaria di una S.p.A. a capitale interamente pubblico), incaricato
della realizzazione e gestione di un parcheggio, voglia aprire il proprio
capitale al mercato e, in tal senso, debba individuare un socio privato.
(3) Ai sensi della norma in questione, i requisiti che devono sussistere al fine di procedere
ad un affidamento diretto, senza violare i principi comunitari in materia di affidamenti,
sono il controllo sull’ente concessionario esercitato dall’autorità pubblica concedente,
analogo a quello che la stessa esercita sui propri servizi, e la realizzazione da parte dell’ente
concessionario della maggior parte della propria attività con l’autorità concedente.
(4) Cfr, ex multis, Corte di Giustizia Europea, 18 novembre 1999, causa C-107/98
Teckal; id., 12 dicembre 2002, causa C-270799 Universale Bau-AG; id. 27 febbraio 2003,
causa C-373/00 Truley; id. 11 gennaio 2005, causa C-26/03 Stadt Halle; 13 ottobre 2005
causa C-458/03 Parking Brixen) sulla individuazione dei requisiti del controllo analogo e
dello svolgimento della maggior parte dell’attività in favore dell’ente pubblico.
Con specifico riferimento al caso succitato, preme peraltro rilevare come la Corte di
Giustizia Europea, nella citata sentenza C-458/03 Parking Brixen, abbia delineato con molta
chiarezza gli elementi da tenere in considerazione al fine di valutare la legittimità di un affidamento
diretto di tale tipo. In particolare, i Giudici comunitari sono stati interrogati sulla
legittimità dell’attribuzione di una concessione di servizi senza svolgimento di pubblica
gara, qualora l’impresa concessionaria sia una società costituita mediante la trasformazione
di un’azienda speciale di un’autorità pubblica ed il capitale sociale sia al momento dell’attribuzione
interamente detenuto dall’autorità pubblica concedente, il cui Consiglio di
Amministrazione disponga però dei più ampi poteri di ordinaria amministrazione e possa
concludere autonomamente, senza l’accordo dell’assemblea dei soci, taluni negozi entro un
valore di cinque milioni di euro. In tal caso la Corte ha sottolineato come la trasformazione
dell’azienda speciale in S.p.A. abbia fatto acquisire alla stessa un carattere commerciale
(come risulta da una serie di elementi quali l’ampliamento dell’oggetto sociale in nuovi e
importanti settori, l’apertura obbligatoria della società ad altri capitali, l’espansione territoriale
delle attività e i considerevoli poteri del Consiglio di Amministrazione, a prescindere
dal fatto che il capitale sia detenuto al 100% da un soggetto pubblico) che impedisce all’autorit
à pubblica concedente di esercitare sulla stessa un controllo analogo a quello esercitato
sui propri servizi. Pertanto, il giudice ha ritenuto che non possa ritenersi legittimo l’affidamento
diretto ad una società con le caratteristiche individuate dalla sentenza in commento.
(5) Cfr. TAR Campania, 30 marzo 2005, n. 2784.
DOTTRINA 279
In primo luogo, si evidenzia che il D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e s.m.i.
– Codice dei Contratti Pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione
delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE – nel definire il proprio
ambito di operatività a livello soggettivo, prevede all’art. 32, comma 1, lett.
a), l’applicabilità del codice ai “lavori, servizi e forniture affidati dalle
amministrazioni aggiudicatrici”.
Ai sensi dell’art. 3, comma 25, del Codice medesimo, tra le amministrazioni
aggiudicatrici risultano espressamente annoverati anche gli organismi
di diritto pubblico, ovverosia, ai sensi del successivo comma 26 della medesima
norma, quegli organismi istituiti, anche in forma societaria:
– al fine di soddisfare esigenze di interesse generale di carattere non
industriale, né commerciale;
– dotati di personalità giuridica;
– la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, da enti
pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, ovvero la cui
gestione sia soggetta al controllo di tali soggetti o ancora il cui organo di
amministrazione, direzione o vigilanza sia costituito da membri dei quali più
della metà sia designata dai predetti soggetti pubblici.
Ai sensi della successiva lett. c) del predetto art. 32, comma 1, il Codice
risulta altresì applicabile anche ai “lavori, servizi e forniture affidati dalle
società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi
di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione
di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati
ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese
le società di cui agli articoli 113, 113 bis, 115 e 116 del D.Lgs.
267/2000, T.U. delle leggi sugli ordinamenti degli enti locali”.
Ciò posto, occorre in ogni caso segnalare che lo specifico inquadramento
soggettivo della società a capitale interamente pubblico costituita dal
Comune quale organismo di diritto pubblico necessita di una verifica condotta
sulla base di concreti elementi di fatto, soprattutto con particolare
riguardo alla sussistenza del più problematico dei suddetti tre requisiti, ovverosia
quello degli specifici fini (soddisfare esigenze di interesse generale che
abbiano carattere non industriale e non commerciale) per i quali il soggetto
stesso è stato istituito.
In ordine alla verifica sulla effettiva sussistenza del requisito relativo ai
bisogni di interesse generale di carattere non industriale o commerciale,
difatti, la giurisprudenza, sia a livello comunitario che a livello nazionale, in
assenza di specifiche previsioni normative, ha fornito indicazioni su eventuali
indici rivelatori della sussistenza del requisito (6).
(6) A livello comunitario, tra l’altro, la giurisprudenza ha rilevato la definizione della
nozione di “interesse generale” quale genus della species di quella di ”interesse generale di
carattere non industriale o commerciale” (Corte di Giustizia CE, 27 febbraio 2003, C-
373/2000 Truley), nonché la sussistenza del requisito de quo ove il soggetto in questione
non sia istituzionalmente preposto al soddisfacimento di bisogni diffusi, con prestazione di
280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ad ogni modo, sulla base quanto sopra specificato, può comunque ritenersi
che, nella fattispecie, trovino applicazione le norme del Codice dei
Contratti Pubblici.
servizi in favore della collettività (ossia singoli e molteplici consumatori), bensì faccia fronte
alle esigenze del singolo ente di riferimento (Corte di Giustizia CE, 5 gennaio 1998, causa
C-44/96 Mannesmann). Altresì, la giurisprudenza della Corte ha elaborato due indici sintomatici
del carattere industriale o commerciale, ovverosia il regime concorrenziale (Corte di
Giustizia CE, 10 novembre 1998, causa C-360/1996 Gemeente Arnhem e altro c. BFI
Holding; cfr. anche 27 febbraio 2003, C-373/2000 Truley, cit.) ed il rischio di impresa (Corte
di Giustizia CE, 22 maggio 2003, causa C-18/2001 Taitotalo Oy), fattori in presenza dei
quali dovrebbe escludersi la sussistenza del requisito in parola.
La giurisprudenza di livello nazionale, a sua volta, si è pronunciata sullo specifico
aspetto in esame nel solco tracciato dalle sentenze del Giudice comunitario di cui sopra.
Nella specie, tale giurisprudenza, in linea con le pronunce della Corte di Giustizia CE,
ha evidenziato i caratteri del requisito di che trattasi, passando al vaglio la possibilità di qualificare
come organismi di diritto pubblico specifici soggetti: cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
23 gennaio 2006, n. 182 (Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti
qualificabile come organismo di diritto pubblico); Consiglio di Stato, sez. V, 27 ottobre
2005, n. 5998 (Firenze Parcheggi S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico);
Cassazione, sez. un., 12 maggio 2005, n. 9940 e Consiglio di Stato, sez. V, 22 agosto
2003, n. 4748 (Interporto Padova S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico);
Consiglio di Stato, ad. Pl., 23 luglio 2004, n. 9 (Grandi Stazioni S.p.A. qualificabile come
organismo di diritto pubblico) Cass., 4 maggio 2006, n. 10218 (che invece nega la natura di
organismo di diritto pubblico alla medesima Grandi Stazioni S.p.A. in sede di regolamento
di giurisdizione); Cass., sez. un., 1 aprile 2004, n. 6408 (Autovie Venete S.p.A. qualificabile
come organismo di diritto pubblico); Consiglio di Stato, sez. VI, 17 settembre 2002, n.
4711 (Enel S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico); TAR Lazio, sez. III-ter,
9 giugno 2004, n. 5460 (RAI S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico).
Al tal proposito, la stessa giurisprudenza ha rimarcato tra l’altro che la natura imprenditoriale
del soggetto e la sua collocazione in ambito concorrenziale di mercato, in linea di
principio, non sono in contrasto col fine pubblico e non escludono dunque la sussistenza del
requisito relativo all’interesse generale di carattere non industriale o commerciale, purché
l’imprenditorialità risulti effettivamente funzionalizzata al soddisfacimento dei bisogni
generali della collettività (in tal senso Consiglio di Stato, sez. VI, 17 settembre 2002, n.
4711, cit.; TAR Sardegna, 29 agosto 2003, n. 1040; TAR Lazio sez. III, 12 febbraio 2002,
n. 917). L’attività industriale o commerciale svolta in stretta correlazione con un interesse
pubblico perde difatti la sua tradizionale connotazione giuridica ed economica, per acquistare
quella specifica dell’ordinamento comunitario; sicché il carattere non industriale va individuato
quando sussista un collegamento ad un interesse che il legislatore ha inteso sottrarre
ai mercati improntati esclusivamente ad una ordinaria attività imprenditoriale, industriale
o commerciale (così Consiglio di Stato, sez. V, 22 aprile 2004, n. 2292).
Sugli indici sintomatici suddetti dello scopo di lucro e del rischio imprenditoriale, tra
l’altro, v. TAR Lombardia Brescia, 9 marzo 2004, n. 203, che ha specificato che “l’elemento
discriminante è invece costituito dalle circostanze in cui l’organismo è stato costituito e
dalle modalità e condizioni in cui esercita l’attività: se opera secondo le regole del mercato,
persegue lo scopo di lucro ed assume il rischio imprenditoriale – senza beneficiare di
finanziamenti pubblici a fronte di eventuali perdite – il bisogno di interesse generale riveste
carattere commerciale o industriale e la persona giuridica non è qualificabile come
organismo di diritto pubblico. Viceversa, se agisce avendo quale obiettivo primario l’inteDOTTRINA
281
3. L’apertura del capitale totalmente pubblico della S.p.A. al socio privato:
il dibattito sui profili di criticità
Come già accennato dianzi, l’art. 113 del T.U.E.L. consente ad un ente
locale di procedere, ai sensi della lett. b) della norma stessa, all’affidamento
della gestione ed erogazione del servizio ad una società a capitale misto
(pubblico e privato), nella quale il socio privato sia stato scelto mediante
esperimento di una procedura ad evidenza pubblica (7).
Con riguardo a tale fattispecie, vale altresì segnalare che anche l’art. 1,
comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006, nel definire l’oggetto del Codice, richiama
tale ipotesi, specificando che “nei casi in cui le norme vigenti consentano
la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera
pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure
ad evidenza pubblica.”
3.1. L’effettivo portato del predetto art. 113 ha tuttavia sollevato nella giurisprudenza
più di una perplessità, generando anche posizioni contrastanti in
particolare sulla conformità di tale istituto ai principi ed alle regole di ispirazione
comunitaria.
Talune pronunce hanno difatti negato la legittimità dello stesso, alla luce
dei principi di matrice comunitaria in materia di affidamenti, statuendo che
“è illegittimo l’affidamento diretto del servizio pubblico locale di rilevanza
economica (…) disposto in favore della società mista pubblico-privata, con
capitale detenuto in maggioranza dalla parte pubblica ancorché il socio di
minoranza sia stato scelto a seguito di gara comunitaria. Non si esclude che
l’affidamento in parola ad una società costituita appositamente per la
gestione di servizi di parcheggio ed ormeggio possa rientrare nella possibilit
à di deroga normativa – consentita expressis verbis dall’art. 113, comma
5, lettera b) del D.Lgs. 267/2000 – all’obbligo secondo cui l’erogazione del
resse generale e la copertura dei costi – ove non si raggiunga con i proventi dell’attività –
è assicurata da finanziamenti pubblici o ricapitalizzazioni, il bisogno riveste carattere non
industriale o commerciale e la persona giuridica è sussumibile nella categoria dell’organismo
di diritto pubblico (…)”.
Sulla distinzione tra organismo di diritto pubblico ed impresa pubblica, cfr. TAR
Puglia, sez. II – Lecce, 23 settembre 2005, 4318.
(7) Giova rammentare che la società mista costituisce, infatti, una novità reintrodotta
nel nostro ordinamento (successivamente alla avvenuta abrogazione nel 2001 di una analoga
disposizione contenuta nella legge 142/1990) con l’art. 14 del D.L. 269/2003, e rappresenta
una ipotesi intermedia tra la gara vera e propria per l’affidamento del servizio pubblico
(lettera a) dell’art. 113 T.U.E.L.) e l’affidamento diretto in house (ai sensi della lettera c)
della medesima norma).
Nell’ipotesi di cui alla lett. b), la norma consente infatti di procedere all’affidamento
diretto alla società mista purché la scelta del socio privato avvenga con una procedura ad
evidenza pubblica, in tal modo, infatti, si garantisce “a monte” l’apertura alla concorrenza
ed al mercato, senza che sia poi necessario ripetere, per l’affidamento del servizio, la procedura
ad evidenza pubblica.
282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
servizio stesso può essere effettuata da società di capitali individuate soltanto
attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica.
Motivo della ritenuta illegittimità risiede, invero, nella incompatibilità di siffatto
affidamento, ovvero di una tale deroga, con le norme fondamentali del
trattato, in generale, e con il principio di non discriminazione in base alla
nazionalità in particolare; ciò che comporta, in ragione della immediata
vincolatività dei precetti comunitari, la prevalenza di quest’ultimi sulla normativa
interna” (8).
Una diversa pronuncia, invece, ha negato la possibilità di procedere ai
sensi della lett. b) dell’art. 113 T.U.E.L. ponendo in relazione tale fattispecie
con quella dell’affidamento “in house” (art. 113, comma 5, lett. c) ed evidenziando
che, in caso di ricorso alla predetta formula della società mista,
verrebbero violati i principi sottesi all’affidamento “in house” medesimo.
La pronuncia rileva segnatamente che “il sistema di affidamento diretto
alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del
socio privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di
fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario – se, infatti, un’impresa
privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere
che l’autorità aggiudicatrice non possa esercitare su tale società un “controllo
analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”; una partecipazione
minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza
di un’operazione interna. In conclusione dunque la costituzione di
una società mista (con partner scelto dopo gara) non esime dalla evidenza
pubblica le procedure di affidamento del servizio” (9).
Non mancano tuttavia, da parte di un differente orientamento giurisprudenziale,
indicazioni di portata maggiormente favorevole all’operatività dell
’istituto dell’affidamento diretto a società mista.
Infatti, è stato anche sottolineato come “la circostanza che attività, astrattamente
considerate, siano di rilevanza economica e possano pertanto formare
oggetto di contratti a titolo oneroso di lavori e/o di servizi ai sensi della l.
109/94 e del D.Lgs. 157/1995 non concreta una violazione dei fondamentali
principi di concorrenza di cui all’art. 86 del Trattato CE, posto che, salva l’ipotesi
eccezionale dell’affidamento così detto in house, per il conferimento
della titolarità del servizio pubblico a società di capitali o per la scelta del
socio privato nella società a capitale misto l’art. 113 comma 5 T.U.E.L. impone
di regola l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pubblica, sicch
é il confronto concorrenziale è comunque garantito a monte” (10).
Nella stessa direzione si è espresso altresì il Consiglio di Stato (11), statuendo
che “la società a capitale misto è costituita attraverso procedura ad
(8) In tal senso, T.A.R. Lazio, Latina, 5 maggio 2006, n. 310.
(9) Consiglio Giustizia Amministrativa Regione Siciliana, 27 ottobre 2006, n. 589.
(10) V. TAR Liguria, sez. II, 28 aprile 2005, n. 527.
(11) Consiglio di Stato, sez. V, 18 aprile 2005, n. 671.
DOTTRINA 283
evidenza pubblica ed allo specifico scopo di affidarle servizi pubblici
dell’Ente locale che l’ha costituita, è immediatamente consequenziale che il
relativo affidamento debba avvenire in modo diretto”.
Degna di particolare nota, a tal proposito, una più recente pronuncia che,
nell’esprimere un orientamento più cauto, ha invitato gli operatori del settore
a valutare in concreto la legittimità del ricorso dell’affidamento ad una
società mista, alla stregua della sussistenza di determinate circostanze e del
rispetto di determinati principi (12).
Tale pronuncia difatti sottolinea come “la compatibilità dell’affidamento
diretto a società miste con i principi comunitari deve essere valutata in
concreto. La giurisprudenza comunitaria evidenzia che l’attribuzione di un
appalto pubblico a una società mista pregiudica la concorrenza in particolare
nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata
presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi
concorrenti. (…) È inoltre irrilevante che la società sia già esistente al
momento dell’affidamento o sia costituita in vista di tale operazione. Il problema
è fino a che punto la scelta dei soci con procedura ad evidenza pubblica
riequilibri la distorsione della concorrenza. A questo proposito si può
ritenere che quando la costituzione di una società o l’apertura a terzi del
capitale sia presentata con la necessaria trasparenza verso tutti i potenziali
interessati come una forma di affidamento di un servizio pubblico il risultato
sia effettivamente assimilabile a quello di una gara” (13).
Fermo quanto sopra, deve altresì evidenziarsi che il Consiglio di Stato
(14) è ritornato recentemente sul dibattito, negando la percorribilità di
entrambe le predette ipotesi interpretative.
È stato, infatti, sottolineato come “non appare, in primo luogo, condivisibile
alla Sezione la posizione – estrema – secondo la quale, per il solo fatto
che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe
in ogni caso possibile l’affidamento diretto. Soprattutto tale ipotesi suscita
perplessità per il caso di società miste – aperte – nelle quali il socio, ancorché
selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come
partner privato per una società generalista cui affidare direttamente l’erogazione
di servizi non ancora identificati al momento della scelta del socio (…)”.
(12) Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 2 maggio 2006, n. 422.
(13) Sul punto, la stessa relazione al predetto articolo 1 del Codice dei Contratti
Pubblici, redatta in sede di discussione ed approvazione del Codice stesso, nel commentare
il comma 2 della norma riporta espressamente che “va premesso che la norma non intende
affermare come principio la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi
ammesse nei soli casi già previsti dalle norme vigenti.
È diritto vivente il principio secondo cui per la scelta del socio privato nelle società a
partecipazione pubblica, anche non prevalente, finalizzate alla realizzazione e/o gestione di
opere e servizi pubblici, occorre seguire procedure di evidenza pubblica”.
(14) Cfr., Parere 18 aprile 2007, n. 456.
284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il Consiglio di Stato ha tuttavia proseguito affermando anche che “non
sembra alla Sezione condivisibile neppure l’opposta ipotesi – estrema – secondo
la quale la giurisprudenza comunitaria in materia di in house, e in particolare
quella secondo la quale il controllo analogo è escluso quando la società
è partecipata da privati, comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi
comunitari, in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.”
Nel negare la condivisibilità di tale seconda tesi, il Consiglio di Stato ha
in particolare precisato che “se è vero che la società mista, in quanto tale,
non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio
la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata
con procedure ad evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione
è, cioè, reperita con il ricorso ad un mercato che è certamente
premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della chiusura in se stessa
dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione.”.
3.2. Altra questione interessata dal dibattito qui riportato e, alla stregua
di talune pronunce della giurisprudenza, connotata da ulteriori profili di criticit
à, è quella inerente alla caratterizzazione del socio privato: segnatamente
non è a tutt’oggi chiaro se lo stesso debba configurarsi come socio operativo
ovvero possa essere anche un semplice socio finanziatore.
Una parte della giurisprudenza, infatti, ha escluso che il socio privato
possa fornire esclusivamente un apporto economico, sottoscrivendo quote
del patrimonio sociale, ritenendo invece che esso debba caratterizzarsi come
socio imprenditore che, dotato di significativi requisiti tecnico-finanziari e
strutturali, svolga anche compiti di gestione ed attività di carattere amministrativo
(15).
A tal proposito, la Circolare del Ministero dell’Ambiente e Tutela del
Territorio del 6 dicembre 2004 ha peraltro precisato che “per quanto attiene
alla natura del soggetto privato da selezionare, si ritiene che nella suddetta
tipologia di società mista, il privato debba avere determinati requisiti di
capacità tecnico-gestionale oltrechè finanziaria. Contrariamente verrebbe
meno il rispetto dell’intendimento del legislatore e non risulterebbero perseguiti
gli obiettivi che il medesimo si era prefisso quando ha configurato l’utilizzo
del modello societario anche per la gestione dei servizi pubblici locali”.
Sulla stessa linea interpretativa, si sono espressi di recente i giudici del
Consiglio di Stato (16) superando le tesi elaborate dalla precedente giurisprudenza
e fornendo una terza via interpretativa rispetto alle precedenti
posizioni assunte dalla giurisprudenza.
In particolare, i suddetti giudici hanno sostenuto che “sembra ammissibile
il ricorso alla figura della società mista (quantomeno) nel caso in cui
essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un affidamento diretto,
(15) Così Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192.
(16) Cfr. parere 18 aprile 2007, n. 456, citato.
DOTTRINA 285
plessità sia con riguardo alla necessità di valutare l’astratta compatibilità di
siffatta previsione con i principi enucleati in ambito comunitario (in particolare
nella sentenza della Corte di Giustizia “Stadt Halle”, cui si è fatto precedentemente
riferimento), sia con riferimento all’impatto sulla concorrenza
di una siffatta previsione normativa ed al “rischio di creazione di mercati
“riservati” dei lavori pubblici”.
3.4. Tanto precisato, è d’uopo inoltre segnalare che, secondo quanto previsto
dall’art. 113, comma 12, del T.U.E.L., “l’ente locale può cedere in tutto
o in parte la propria partecipazione nelle società erogatrici di servizi
mediante procedure ad evidenza pubblica da rinnovarsi alla scadenza del
periodo di affidamento. Tale cessione non comporta effetti sulla durata delle
concessioni e degli affidamenti in essere”.
In tale ipotesi, la norma pare infatti disciplinare la peculiare fattispecie
di una società a totale partecipazione pubblica già costituita in precedenza
per l’erogazione di un servizio pubblico e nella quale, solo successivamente
alla costituzione, si verifichi la volontà dell’ente pubblico di cedere al privato
una parte del capitale. La norma in questione impone allora, nel dar luogo
a tale apertura, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica.
La giurisprudenza ha peraltro sottolineato proprio a tale riguardo che, una
volta effettuata tale operazione di cessione delle quote, la società – divenuta in
tal modo mista – non potrà essere affidataria in via diretta di nuovi servizi,
dovendosi, a tal fine, attivare delle procedure ad evidenza pubblica (17).
4. Spunti di riflessione sulle modalità di esperimento della procedura per la
scelta del socio privato
Vale infine rilevare che sia nell’ipotesi in cui si proceda tanto ai sensi
dell’art. 113, comma 5, lett. b), che nell’ipotesi in cui si proceda ai sensi del
comma 12 del medesimo articolo, non è dato rinvenire espresse previsioni
normative in merito alle concrete modalità da seguire per l’esperimento della
prescritta procedura ad evidenza pubblica.
Può tuttavia, richiamarsi una recente statuizione del Consiglio di Stato
(18) alla stregua della quale, proprio in tema di procedura selettiva per la
scelta del socio privato, non si è in presenza di una procedura ad evidenza
pubblica vincolata a rigidi schemi predeterminati. Sussiste difatti in tale caso
la possibilità, del tutto legittima, che l’amministrazione si riservi espressamente
nella lex specialis di gara ampi margini discrezionali di valutazione –
quali, come nella fattispecie sottoposta al vaglio del Supremo Consesso,
anche quelli contenuti in una lex specialis secondo cui, a seguito della individuazione
della migliore offerta, poteva seguire una diretta negoziazione
con i partecipanti ed anche la decisione di non individuare infine alcun socio.
(17) V. Consiglio di Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369.
(18) Consiglio di Stato, sez. V, 20 febbraio 2007, n. 919.
286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento
disposto, con gara, al socio operativo della società. (…) In altri
termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento
esterno integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un
modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie:
1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento
del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si
configuri come un socio industriale od operativo che concorre materialmente
allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;
2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione – alla scadenza
del periodo di affidamento – evitando così che il socio divenga socio stabile
della società mista (…)”.
3.3. Da ultimo, giova altresì evidenziare, per completezza espositiva, che
il citato art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006 individua una eccezione in
merito alla applicabilità del Codice per le società di cui al comma 1, lett. c),
del medesimo articolo – ovverosia le “società con capitale pubblico, anche
non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad
oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione
di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in
regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113,
113 bis, 115 e 116 del D.Lgs. 267/2000, T.U. delle leggi sugli ordinamenti
degli enti locali”.
Tale norma dispone infatti che le suddette società “non sono tenute ad
applicare le disposizioni del presente codice limitatamente alla realizzazione
dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente
costituite se ricorrono le seguenti condizioni:
1) la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure ad evidenza
pubblica;
2) il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente
codice in relazione alla presentazione per cui la società è stata costituita;
3) la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del
servizio in misura superiore al 70% del relativo importo.”
La precisazione operata dalla legge, nei termini appena riportati, appare
di indubbia rilevanza, giacché consente alle predette società, in presenza dei
presupposti espressamente individuati, di procedere direttamente alla realizzazione
dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state
specificamente costituite.
Essa sembra comunque ricalcare gli orientamenti espressi dalla pronuncia
del Consiglio di Stato n. 192/1998 e dalla Circolare del 6 dicembre 2004
di cui sopra, nella misura in cui tale norma prevede che, nel caso in cui il socio
privato della società mista abbia i necessari requisiti di qualificazione (e pertanto
i requisiti necessari ai fini della concreta esecuzione dell’opera o del servizio),
non sia necessario procedere ad una ulteriore procedura di gara.
Vale, tuttavia, evidenziare che in relazione a tale norma il Consiglio di
Stato, nel parere reso dalla sezione atti normativi n. 355 del 6 febbraio 2006
in relazione al Codice dei Contratti Pubblici, ha manifestato più di una perDOTTRINA
287
Fermo quanto sopra, non può non evidenziarsi che la prescrizione normativa
di esperire una procedura ad evidenza pubblica esige in ogni caso il
rispetto di determinati principi fondamentali, quali quelli di economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento e proporzionalità (19).
Ed in tal senso, pur nella maggiore libertà dovuta all’assenza di specifici
e rigidi schemi da seguire (rimarcata dalla giurisprudenza appena citata),
non può escludersi che anche il riferimento contenuto nel già citato art. 1 del
D.Lgs. n. 163/2006 alle “procedure di evidenza pubblica” richiami la necessit
à, per il soggetto che indice la procedura di che trattasi, di assicurare il
rispetto dei suddetti principi (20).
Ciò posto, al fine di dare concreta attuazione a tali principi nell’esperimento
della procedura selettiva, utili riferimenti potrebbero rinvenirsi anzitutto
nelle surriportate indicazioni operative fornite dalla Commissione Europea.
Difatti, di fronte alla difficoltà riscontrata dagli operatori e dalle stazioni
appaltanti di dare concreta applicazione ai principi richiamati, la
Commissione Europea si è preoccupata di precisare, nella comunicazione
interpretativa 2006/C 179/02, il diritto comunitario applicabile alle aggiudicazioni
di appalti esclusi in tutto o in parte dall’applicazione della direttiva
sugli appalti pubblici (21).
(19) Si rammenta difatti che i principi di che trattasi sono espressamente richiamati
anche dall’art. 27 del D.Lgs. n. 163/2006, norma che disciplina le procedure di affidamento
dei contratti esclusi dall’applicazione del decreto medesimo ed impone in ogni caso, il
rispetto dei principi suddetti anche nell’esperimento di tali procedure. Nella specie, l’art. 27
menzionato stabilisce che “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi
e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’applicazione del presente codice, avviene nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, proporzionalit
à. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se
compatibile con l’oggetto del contratto. Si applica altresì l’articolo 2, commi 2, 3 e 4”.
Asua volta, il citato articolo 2, commi 2, 3 e 4, del D.Lgs. n. 163/2006 fa riferimento alla
possibilità di subordinare il principio di economicità ai criteri ispirati ad esigenze sociali, nonch
é alla tutela della salute e dell’ambiente ed alla promozione dello sviluppo sostenibile.
Inoltre prevede che per le procedure di affidamento e le altre attività amministrative in materia
di contratti pubblici, in quanto non espressamente previsto dal D.Lgs. n. 163/2006 stesso,
trovino applicazione le norme della Legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo. Il
comma 4, infine, precisa che, per quanto non espressamente previsto dal Codice dei Contratti
Pubblici, trovino applicazione all’attività contrattuale dei soggetti di cui all’art. 1 (stazioni
appaltanti, enti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori) le disposizioni stabilite dal codice civile.
(20) A tale proposito il Consiglio di Stato ha sottolineato, nel predetto parere n. 456 del
18 aprile 2007, come con l’art. 1, comma 2, “si codifica soltanto il principio secondo il
quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire con procedura ad evidenza
pubblica (non necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice)”.
(21) Dal momento che la comunicazione menzionata è rivolta all’osservanza dei principi
suddetti nell’esperimento delle procedure non disciplinate o solo parzialmente disciplinate
dalla direttiva “appalti pubblici”, può legittimamente ritenersi che quanto in essa specificato
abbia vieppiù valore in caso di affidamenti non sottratti all’ambito di applicazione
della menzionata direttiva e, nella fattispecie, del Codice dei contratti pubblici.
288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La comunicazione di che trattasi contiene evidentemente alcune indicazioni
e principi che sembrerebbero avere portata più generale e, di conseguenza,
costituire un’utile riferimento per il soggetto aggiudicatore anche nel
caso di specie.
In particolare, nel ribadire la necessaria applicazione dei principi delineati
dal Trattato, la Commissione pone l’accento sugli adempimenti tesi a
garantire una adeguata pubblicità dell’affidamento, tale da consentire una
effettiva apertura alla concorrenza. In tal senso propone di procedere alla
“pubblicazione di un avviso pubblicitario sufficientemente accessibile prima
dell’aggiudicazione dell’appalto” ricorrendo alle forma di pubblicità ritenute
più opportune (internet, gazzette ufficiali, quotidiani, mezzi di pubblicazione
locali, etc.).
Altresì, a garanzia della imparzialità dello svolgimento della procedura
di aggiudicazione (e sempre in applicazione dei principi del Trattato), la
Commissione ritiene necessario che vi sia una adeguata e non discriminatoria
descrizione dell’oggetto dell’appalto (22), l’uguaglianza di accesso per
gli operatori economici di tutti gli Stati membri, il reciproco riconoscimento
di diplomi, certificati ed altre attestazioni formali, termini adeguati per la
presentazione della manifestazione di interesse o dell’offerta ed un approccio
trasparente ed oggettivo, che consenta a tutti i concorrenti di conoscere
anticipatamente le regole applicabili ed avere certezza che le stesse vengano
applicate nello stesso modo a tutti gli operatori in fase di aggiudicazione
della procedura (23).
Ciò posto, anche nell’espletamento della procedura per la scelta del socio
privato l’osservanza delle indicazioni appena riportate da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice risulterebbe senz’altro opportuna anche al fine di evitare
eventuali censure sulla condotta del soggetto che indice la procedura.
Indicazioni utili possono infine essere ricavate dal d.P.R. 16 settembre
1996, n. 533, contenente il “Regolamento recante norme sulla costituzione
di società miste in materia di servizi pubblici degli enti territoriali”, che –
pur disciplinando la diversa procedura di costituzione delle società per azioni
con partecipazione minoritaria dell’ente locale per i servizi che non abbiano
necessariamente rilevanza economica – contiene alcune precisazioni che
potrebbero risultare fruibili anche nelle ipotesi qui esaminate, con particolare
riferimento al contenuto del bando di selezione, alle modalità di svolgimento
della procedura ed agli elementi di valutazione dell’offerta.
(22) In tal senso, la Commissione tra l’altro sconsiglia il riferimento ad una fabbricazione
o provenienza determinata, ad un marchio commerciale, ad un brevetto, ad una origine
o produzione determinati.
(23) In ordine alla concreta interpretazione ed applicazione di tali principi, seppur con
riferimento al diverso e specifico ambito dell’affidamento dei servizi di progettazione e direzione
lavori di importo inferiore a 100.000 euro, cfr. anche Autorità di vigilanza per i lavori
pubblici, determinazione 19 gennaio 2006, n. 1.
Le tecniche di consultazione degli interessati
nei procedimenti di regolazione delle Agencies
statunitensi e gli standards minimi
di consultation della Commissione europea
di Pasquale Fava
SOMMARIO: Sezione I. - La consultazione degli interessati negli Stati Uniti - 1.
Morfologia essenziale delle Agencies nell’ordinamento statunitense alla luce dell’Administrative
Procedure Act. - 2. I rulemaking powers delle Agencies. La non applicabilità della
due process clause e le eccezioni alla consultazione. - 3.1. Le tecniche di consultazione degli
interessati nelle procedure di formal e informal rulemaking. La preferenza per la procedura
informale e la stretta alternatività con quella formale impone l’inammissibilità del tertium
genus (la c.d. hybrid rulemaking procedure). - 3.2. L’introduzione della negotiated
rulemaking e le ragioni del suo scarso utilizzo. - 4. La posizione dell’OCSE sulle tecniche
consultative statunitensi: pur se si riconosce che la notice and comment procedure rispetta
gli standards internazionali di good practices for transparency sarebbe opportuno renderla
più flessibile e meno adversarial per ridurre costi ed oneri burocratici. - 5.1. I confini del
sindacato giurisdizionale sugli atti di regolazione delle Agencies. La judicial review sulle
questions of law (la Chevron doctrine come rivisitata in Mead e Christensen). - 5.2. La judicial
review sulle questions of fact: l’omologazione concreta dell’arbitrary and capricious
test (elaborato per l’informal rulemaking procedure) al substantial evidence test (applicato
alla formal rulemaking procedure). - 5.3. La judicial review sulle scelte di policy (discretion)
dell’Agency (l’hard look doctrine di State Farm). – Sezione II – La consultazione degli
interessati nell’Unione Europea. - 1. Le previsioni del Trattato sulla motivazione degli atti
comunitari vincolanti e la giurisprudenza della Corte di Giustizia che differenzia gli atti
generali da quelli individuali in relazione al contenuto e all’estensione della justification.
2. La “giustificazione scientifica” degli atti comunitari relativi alla tutela della salute, dell
’ambiente e dei consumatori secondo la Corte di Giustizia. 3. Le ragioni politico-diplomatiche
fondanti le previsioni del Trattato impositive dell’obbligo di giustificare gli atti comunitari
vincolanti. 4. La consultazione nelle politiche comunitarie di better regulation e i suoi
rapporti con l’impact assessment analysis (c.d. AIR). 5. Gli standards minimi di partecipazione
definiti con la Comunicazione sulla consultazione degli interessati dell’11 dicembre
2002 (COM(2002)704).
Sezione I
LA CONSULTAZIONE DEGLI INTERESSATI NEGLI STATI UNITI
1. Morfologia essenziale delle Agencies nell’ordinamento statunitense alla
luce dell’Administrative Procedure Act.
Con il termine Agencies nell’ordinamento statunitense ci si riferisce non
soltanto a quelle etichettate nel diritto nostrano “Autorità amministrative
DOTTRINA 289
indipendenti”, ma anche a tutte quelle figure riconducibili all’ampio concetto
di Pubblica Amministrazione (1).
Ai fini dell’applicazione dell’Administrative Procedure Act (2) (APA),
secondo la giurisprudenza della Corte Suprema (3), le Agencies sono quei
290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Così, da ultimo, MARCHETTI B., Pubbliche Amministrazioni e Corti negli Stati
Uniti. Il judicial review sulle administrative agencies, CEDAM, 2005, 23.
In precedenza studi approfonditi del sistema statunitense sono stati effettuati da BARRA
CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A.
Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli,
Torino, 1997 e TESAURO P., Lezioni di diritto pubblico americano, Napoli, Liguori, 1985.
Tra le principali opere manualistiche statunitensi di diritto amministrativo AMAN A.C.,
MAYTON W.T., Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 1997; BRYNER G.C., Bureaucracy
Discretion Law and Policy in Federal Regulatory Agencies, New York, 1987; DAVISW. Jr., An
Introduction to Public Administration, Politics, Policy, and Bureaucracy, New York – London,
1974; EDLEY C.F., Administrative Law, Rethinking Judicial Control of Bureaucracy, Yale
University Press, New Haven – London, 1990; FRIENDLY H.J., The Federal Administrative
Agencies, The Need for Better definition of Standards, Cambridge, 1962; GELLHORN E., LEVIN
R.M., Administrative Law and Process in a Nutshell, St. Paul, Minnesota, 1997; KETTL D.F.,
The Transformation of Governance: Public Administration for Twenty-First Century America,
Baltimore – London, 2002; LAWSON G., Federal Administrative Law, St. Paul, Minnesota,
2001; MORROW W.L., Public Administration, New York, 1975; PIERCE R.J., SHAPIRO S.A.,
VERKUIL P.R., Administrative Law and Process, New York, 1999; PIERCE R.J., Administrative
Law Treatise, New York – Gaithersburg, 2002; Sharkansky I., Public Administration, Policy-
Making in Government Agencies, Chicago, 1975.
(2) Administrative Procedure Act 1946, Pub. L. No 79-404, 60 Stat. 237 (1946), ora in
U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5.
Per i principali contributi sull’APA BREYER S.G., STEWART R.B., SUNSTEIN C.S., SPITZER
M.L., Administrative Law and Regulatory Policy. Problems, Texts and Cases, New York, 1999;
GELLHORN W., The Administrative Procedure Act: The Beginnings, 72 Virg. Law Rev., 1946,
219; PIERCE R. Jr., Rulemaking and the Administrative Procedure Act, 32 Tulsa Law Journal,
1996, 185; SCHWARTZ B., Adjudication and the Administrative Procedure Act, 32 Tulsa Law
Journal, 1996, 203; SHAPIRO M., APA. Past, Present and Future, 72 Virg. Law Rev., 1986, 447.
Di preziosa consultazione è il Manuale di procedura amministrativa dell’Attorney
General (Attorney General’s Manual on the Administrative Procedure Act, United States
Department of Justice, 1947).
La dottrina italiana, talvolta senza chiarire esaustivamente la differenza tra rules (atti
di regolazione) e orders (provvedimenti concreti), si è interessata all’APA specialmente per
analizzare i confini delle facoltà partecipative riconosciute dallo statute in relazione ai procedimenti
amministrativi di adjudication (ALDISERT R.J., Osservazioni sul diritto amministrativo
statunitense, in Dir. Proc. Amm., 1986, 473; ARENA G., La partecipazione dei privati
al procedimento amministrativo: analisi dell’esperienza americana, Riv. Trim. Dir.
Pubbl., 1976, 279; Id., La legge sul diritto all’informazione e la pubblicità degli atti dell
’amministrazione negli Stati Uniti, Pol. Dir., 1978, 279; BETTINI R., Aspetti della partecipazione
amministrativa negli U.S.A., Studi Parl. Pol. Cost., 1975, 117; COMBA M.,
Riflessioni sul diritto al giusto procedimento negli Stati Uniti d’America, Dir. Soc., 1992,
269; FERRARI G.F., Il procedimento amministrativo nell’esperienza anglo-americana, Dir.
Proc. Amm., 1993, 421; Gardini G., Legislazione federale e legislazione statale in materia
di procedimento amministrativo: l’esperienza degli Stati Uniti, in Reg. Gov. Loc., 1992, 757;
PEREZ R., L’istruzione del procedimento amministrativo (studio sui mezzi di informazione
della pubblica amministrazione negli Stati Uniti), Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1966, 623).
soggetti titolari del potere di adottare atti idonei a vincolare all’esterno
l’Amministrazione (binding effect) e assoggettabili al sindacato giurisdizionale
(judicial review).
Tutte le figure che compongono l’Amministrazione federale statunitense
possono essere sussunte sotto tre modelli organizzatori principali che si
distinguono secondo il livello di autonomia riconosciuto dal Congresso a
ciascuna Agency rispetto ai poteri del Presidente degli Stati Uniti che, secondo
la Costituzione, è il capo dell’Esecutivo (U.S. Cost., art. II, Sect. 1 (4)).
Il primo modello è quello dei Cabinet Departments consistenti in una
organizzazione articolata secondo linee gerarchiche al cui vertice si trova il
Secretary (figura equiparabile al Ministro) nominato “with senatorial confirmation
to serve at the pleasure of the President”. I Departments hanno raramente
compiti di regolazione (rulemaking) e amministrazione giudiziale
(adjudiacation). Talvolta al loro interno si collocano strutture organizzative
compiute (Administration o Bureaus) con rilevantissime funzioni di implementazione
dei programmi politici che, al di là della loro collocazione strutturale
operano liberamente in quanto indipendenti nella leadership, atteso
che il Congresso, nell’approvare le relative leggi costitutive, ha riconosciuto
loro una certa autonomia dall’influenza dell’esecutivo (5).
Il secondo modello organizzatorio, corrispondente alle nostre Agenzie fiscali,
è quello delle Indipendent Executive Agencies (IECs) che, pur se dette independent
in ragione della loro collocazione istituzionale (sostanziale autonomia
dai Cabinets), sono soggette agli indirizzi di politica generale del Presidente (6).
Il terzo modello, corrispondente alle nostre Autorità amministrative indipendenti,
è quello delle Indipendent Regulatory Commissions (IRCs) che
vengono istituite dal Congresso per creare un’entità che sfugga interamente
DOTTRINA 291
(3) Renegotiation Board v. Grumman Aircraft Engineering Corp., 421, U.S. 168
(1975); Renegotiation Board v. Bannercraft Clothing Co., 418 U.S. 1 (1974).
La Corte Suprema ha escluso che il Presidente degli Stati Uniti possa essere considerato
un’Agency ai sensi dell’APA in carenza di una specifica previsione espressa di legge
(statute) con la conseguenza che i suoi atti non sono assoggettabili a sindacato giurisdizionale
(Franklin v. Massachusetts, 505 U.S. 788 (1992); Dalton v. Specter, 511 U.S. 462
(1994)).
In dottrina sul punto Pierce R.J., Administrative Law Treatise, New York –
Gaithersburg, 2002, 5.
(4) L’art. II, Sect. 1, della Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che “The executive
powers shall be vested in a President of The United States”.
Tuttavia, anche recenti analisi dottrinali (PERCIVAL R.V., Presidential Management of
The Administrative State: the Not-So-Unitary Executive, 51 Duke Law Journal, 963, 2003)
hanno confermato che il potere esecutivo ha subito profonde trasformazioni rispetto al
modello presidenziale accentrato prospettato dalla Costituzione.
(5) Ne costituisce esempio la Food and Drug Administration collocata all’interno del
Department of Health and Human Service.
(6) Appartiene a questa categoria la Environmental Protection Agency.
Si tratta di figure simili alle nostre Agenzie fiscali o all’Istituto per il Commercio
Estero.
alla sfera di controllo del Presidente (7). Si tratta delle c.d. big seven (8) i cui
commissari sono generalmente nominati dal Presidente con il consenso del
Senato ma, contrariamente a quanto accade in relazione ai Secretaries e ai
commissari delle IECs, non sono liberamente revocabili dal primo (at will)
ma solo per dimostrate inefficienze nella gestione o per condotta illecita (9).
2. I rulemaking powers delle Agencies. La non applicabilità della due process
clause e le eccezioni alla consultazione.
In linea generale alle Agencies sono riconosciuti poteri stricto sensu esecutivi
(power to enforce the law), di adjudication (potere di adottare provvedimenti
concreti vincolanti – orders – con destinatari determinati o determinabili)
nonché di rulemaking (potere di adottare atti normativi subordinati
alla legge – statute – o atti amministrativi generali (10)).
L’attenzione della dottrina e della giurisprudenza statunitense si è sempre
incentrata su queste ultime due funzioni (adjudication e rulemaking)
292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(7) “Offices of law-administration at the greatest distance from the presidential control”,
STRAUSS P.L., Administrative Justice in the United States, Durham, North Carolina, 2002, 133.
(8) Appartengono alla famiglia delle Indipendent Regulatory Commissions la Interstate
Commerce Commission (ICC), la Federal Trade Commission (FTC), la Federal Energy
Regulatory Commission (FERC), il National Labor Relations Board (NLRB), la Nuclear
Regulatory Commission (NRC), la Federal Communication Commission (FCC) e la
Security and Exchange Commission (SEC).
(9) Non è un caso che tra le più significative questioni relative alla compatibilità delle
figure delle IRCs con il sistema costituzionale statunitense sia stata posta proprio quella
afferente l’estensione dei poteri presidenziali di rimozione dei membri delle IRCs.
La Corte Suprema, non senza contrasti interni e oscillazioni giurisprudenziali, si è attestata
sulla costituzionalità del modello con l’esclusione di un potere di revoca ad nutum del
Presidente, essendo per converso ammissibile la rimozione per giusta causa (Myers v. United
States, 272 U.S. 52(1926); Humphrey’s Executor v. United States, 295 U.S. 629 (1935);
Bowsher v. Synar, 478 U.S., 714 (1986); Mistretta v. United States, 488 U.S. 361 (1989)).
(10) La Section 551 dell’APA definisce la rule come “the whole or a part of an agency
statement og general or particolar applicabilità and future effect designed to implement,
interpret, or prescrive law or policy or describing the organization, procedure, or practice
requirements of an agency”.
MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review
sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 52, efficacemente chiarisce come il termine
rule adottato dalla Section 551 dell’APA (ora 5 U.S. Code) identifica non solo gli autentici
atti regolamentari di natura generale, astratta e innovativa ma anche i meri atti amministrativi
generali (quali gli atti approvativi di tariffe per servizi pubblici). In precedenza, nello
stesso senso, BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell
’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio
di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 86-87.
Storicamente i problemi dell’ammissibilità e dei limiti alla regolazione pubblicistica dell
’attività economica dei privati si sono posti negli Stati Uniti a partire dalla fine del XIX secolo.
La conclusione della guerra civile (1870) comportò una crescita vertiginosa della rete
ferroviaria e l’acuirsi del contrasto tra contadini e commercianti da una parte ed imprese ferroviarie
dall’altra.
attese le rilevanti questioni costituzionali sollevate in relazione alle previsioni
che, conformemente al modello illuministico di tripartizione dei poteri cui
la Costituzione degli Stati Uniti rigorosamente s’ispira, riservano quello nor-
DOTTRINA 293
Il c.d. “Granger Movement” (“rivolta dei fattori”) denunciò fermamente le tariffe
discriminatorie praticate dalle compagnie ferroviarie in posizione monopolistica che comportavano
restrizioni nello scambio delle merci e dei prodotti agricoli.
Si sentì, pertanto, l’esigenza di istituire entità dotate di incisivi poteri pubblicistici finalizzati
alla gestione dei conflitti economici e sociali dell’epoca. Le scelte degli Stati federati
furono, tuttavia, diverse. Gli Stati dell’Est seguirono un modello morbido di weak
Commissions con poteri deboli mentre quelli dell’Ovest, per converso, crearono soggetti
con forti e penetranti poteri tariffari e sanzionatori. Tuttavia, a seguito di due pronunce della
Corte Suprema che sancirono l’illegittimità costituzionale delle leggi statali di regolazione
pubblica dei servizi privati di interesse generale anche per incompetenza territoriale (Munn
v. Illinois, 1876 e Wabash, St. Louis & Pacific Railroad Company v. Illinois, 118 U.S. 557,
1886), fu necessario l’intervento del legislatore federale che il 4 febbraio 1887 approvò
l’Interstate Commerce Act istitutivo della Intestate Commerce Commission cui furono attribuiti
poteri di regolazione tariffaria, ispettivi e sanzionatori (privi, tuttavia, di carattere
imperativo ed esecutorio in quanto l’obbligo di conformazione per la compagnia ferroviaria
poteva sorgere solo a seguito di un giudizio intentato dalla stessa Commissione).
Innanzi alle resistenze degli operatori professionali refrattari a subire imposizioni regolatorie
di carattere pubblicistico la Corte Suprema annullò il potere tariffario della ICC nella
parte in cui proibiva alle compagnie di praticare discriminazioni tariffarie nelle tratte ferroviarie
brevi (ICC v. Cincinnati, New Orleans and Texas Pac. R. Co., 167 U.S. 479, 1897).
Nonostante la posizione contraria della Corte Suprema, la necessità della regolazione
pubblicistica del mercato si rafforzava progressivamente anche a causa di rilevanti market
failures (crisi del 1929). Il Congresso, pertanto, restituì ampi poteri della ICC e istituì nuove
Commissioni indipendenti di regolazione.
Il rinnovato sviluppo della regolazione fu fronteggiato dal movimento dell’American
Bar Association che segnalava l’incompatibilità costituzionale del modello delle Regulatory
Commissions le quali detenevano poteri normativi al di fuori del circuito democratico non
dovendo rendere conto ad alcuno attesa l’ampia indipendenza riconosciuta alle medesime.
Per reagire alle critiche dell’ABA il Congresso implementò l’Administrative Procedure
Act che per la prima volta impose alle Agencies di seguire specifiche procedure ampiamente
partecipate prima di adottare nuovi atti di regolazione. In questo modo, attraverso la consultation
of interested parties si arginava il deficit di democraticità e si recuperava la legittimazione
regolatoria delle Agencies.
Sulla nascita della regolazione delle attività economiche e la sua evoluzione BREYER
G.S., STEWART B.R., Administrative Law and Regulatory Policy, Little Brown and Company,
Boston-Toronto, 1992; CASSESE S., Le Autorità indipendenti: origini storiche e problemi
odierni, in CASSESE S., FRANCHINI C. (a cura di), I garanti delle regole, Bologna, Il Mulino,
1996; Daintith, Regulation, in Enciclopedia of Comparative Law, XVII, 10, Tubingen,
Dorodrect, Boston, Lanchaster, 1997; D’ALBERTI M., Diritto Amministrativo comparato.
Trasformazioni dei sistemi amministrativi in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia,
Bologna, Il Mulino, 1992; FERRARI P., Agenzismo: La regolazione degli interessi tra passato
europeo e modello americano, Trento, 1993; FLOREAN M., Le origini americane della
regolazione, in VALENTINI S. (a cura di), Diritto e istituzioni della regolazione, Milano,
Giuffrè, 2005, 125-144; FRIEDMAN M.L., History of American Law, Simon & Schuster, New
York, 1985 (traduzione italiana a cura di Alpa G., Marchisiello M., REBUFFA G., Storia del
diritto americano, Giuffrè, 1995); GUARINI C.P., Contributo alla studio della regolazione
indipendente del mercato, Bari, Cacucci, 2005, 163-174; PATRONO M., Sistema dei regulamativo
esclusivamente in capo al Congresso (U.S. Cost., art. I (11)), quello
giudiziario alle corti (U.S. Cost., art. III (12)) e quello esecutivo al Presidente
(U.S. Cost., art. II (13)).
294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tory powers e Corte Suprema federale, Milano Giuffrè, 1974; ROSEMBLOOM H.D.,
SCHWARTZ D.R., Handbook of Regulation and Administrative Law, Marcel Dekker Inc.,
New York, Basel, Hong Kong, 1994; SCALIA A., Le Indipendent Regulatory Agencies nell
’ordinamento statunitense, Rass. Giur. En. El., 1996, 313 ss.; SCHWARTZ B., The Economic
Regulation of Business and Industry. A Legislative History of U.S. Regulatory Agencies,
New-York-London, 1973; TESAURO P., Le “Indipendent Regulatory Commissions”. Organi
di controllo dei pubblici servizi negli Stati Uniti, Napoli, 1966; TORICELLI S., La regolazione
del sistema ferroviario negli Stati Uniti: un modello anomalo, in Dir. Pubbl., 2000, 965
ss.; ZORZI GIUSTINIANI A., Alle origini dello Stato Regolatore (1874-1910). La Corte
Suprema Americana e le libertà economiche nella fase di transizione dall’interventismo statale
al controllo federale delle public utilities e dei monopoli, in Giur Cost., 2003, 4027 ss.
(11) La Section 1 dell’articolo 1 della Costituzione degli Stati Uniti prevede che “All
Legislative Power herein granted shall be vested in a Congress of the United States, which
shall consist of a Senate and House of Representatives”.
La Costituzione statunitense, quindi, a differenza di quelle italiane e francese, non prevede
espressamente la possibilità di attribuire il potere normativo all’Esecutivo.
La Suprema Corte, elaborando la c.d. delegation doctrine, ha, tuttavia, chiarito che
questa possibilità è sottesa alle previsioni della Section 8 del medesimo articolo che implicitamente
la consentono specie nei casi in cui per ragioni di efficienza del sistema normativo
è opportuno che la regolazione sia implementata da soggetti dotati di alte capacità tecniche
e di maggiore flessibilità decisionale di guisa che le rules prontamente possano adeguarsi
al rapido sviluppo tecnologico e scientifico che caratterizza taluni settori economici.
Ammessa in astratto la legittimità costituzionale di deleghe di potere normativo dal
Congresso all’Esecutivo, la questione si è progressivamente spostata sulla identificazione
dei limiti della delegation.
Già in Buttfield v. Stranahan (192 U.S. 470 (1904)), in J.W. Hampton Ir. & Co. v.
United States (276 U.S. 394 (1928)), in Panama Refining Co. V. Ryan (293 U.S. 388 (1935))
e in A.L.A. Schechter Poultry Co. V. United States (295 U.S. 495 (1935)) la Corte Suprema
aveva avuto modo di individuare tra i requisiti di legittimità costituzionale della delega di
potere normativo l’esistenza di principi e criteri direttivi intelligibili cui l’Agency avrebbe
dovuto attenersi, di guisa che il Congresso non avrebbe potuto abdicare ai propri poteri normativi
con deleghe in bianco.
Successivamente in Yakus v. United States (321 U.S. 414 (1944)), Skinner v. Mid-
America Pipeline Co. (490 U.S. 212 (1989)) e Mistretta v. United States (488 U.S. 361
(1989)) la Corte Suprema ha maturato un orientamento più elastico ammettendo deleghe
implicite di potere normativo il cui esercizio è comunque assoggettato al vaglio della magistratura
attraverso l’analisi delle previsioni dello statute di riferimento al fine di stabilire
esattamente “how much power Congress has delegated to an Agency” (così AMAN A.C.,
MAYTON W.T., Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 1997, 28).
Come è stato acutamente osservato (DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso,
Giappichelli, Torino, 2004, 98-100) il nuovo orientamento della giurisprudenza statunitense
“venne così a creare una situazione di delega solo apparente, perché il Congresso al più
definiva l’oggetto del traferimento, astenendosi dal porre quel principio di normazione
generale, sufficientemente compiuto da funzionare come primary standard, rimesso all’intervento
del potere delegato solo per gli sviluppi successivi. L’omessa indicazione di criteri
direttivi non fu compensata neanche con la prescrizione di precisi fini cui orientare il
potere delegato, che a questo punto solo una finzione giuridica avrebbe potuto ancora
La tematica della consultazione degli interessati negli atti di regolazione
delle Agencies afferisce strettamente alle funzioni di rulemaking.
DOTTRINA 295
acquisire allo schema del “power ti fill up the details”. Le I.R.C. erano diventate, grazie
alla broad delegation disegnata dal legislatore e avallata dai giudici un polo normativo primario
autoreferenziale rispetto a quello legislativo, che condivideva del potere derivato il
solo fatto di esistere per volontà di legge, con tutte le conseguenze del caso: nel senso che
la legge come lo aveva attivato, così avrebbe potuto congelarlo o comprimerlo. Ma dinanzi
a leggi povere di indirizzi, leggere negli standards, e carenti di regole generali, continuare
ad affermare che il potere regolativi esisteva nei limiti in cui una legge lo prevedeva equivaleva
a dire una cosa non vera, perché la legge non prescriveva più alcun limite”.
Sulla delegation doctrine BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione
neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana,
Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 82-85; CARATALE G., Il
Governo legislatore. Esecutivo ed attività normativa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti,
Milano, Giuffrè, 2004, 191 e ss.; DEMINICO G., Regole. Comando e Consenso, Giappichelli,
Torino, 2004, 98-101; PATRONO M., Sistema dei “Regulatory Powers” e Corte Suprema
Federale, Giufrè, Milano, 1974, 90.
(12) Le Sections 1 e 2 dell’articolo III, della Costituzione degli Stati Uniti stabiliscono
rispettivamente che “The Judicial Power of the United States shall be vested in one supreme
Court, and in such inferior Courts as the Congress may from time to time ordain and
establish” e che “The judicial power shall extend to all cases, in Law and Equity, arising
under this Constitution, the Laws of the United States, and the Treaties made, or which shall
be made, under their Authority…”.
I poteri di adjudication (adozione di provvedimenti amministrativi concreti – orders)
riconosciuti dagli statutes alle Agencies specie nella misura in cui siano volti alla risoluzione
delle controversie potrebbero profilarsi in contrasto con le menzionate disposizioni della
Costituzione.
La Corte Suprema in Crowell v. Benson (285 U.S. 22 (1932)) e Northern Pipeline
Construction Co. v. Matathon Pipe Line Co. (458 U.S. 50 (1982)) ha escluso tale eventualit
à elaborando la differenza tra “public” e “private” rights. I primi, in considerazione dei
poteri autoritativi riconosciuti alle Agencies, potrebbero essere conosciuti in prima battuta
da queste ultime salva la judicial review delle corti; in relazione ai secondi, viceversa, attesa
la loro natura privatistica sarebbe più forte la garanzia costituzionale che, imponendo la
necessità della cognizione della magistratura ordinaria, impedisce al Congresso di affidarli
in prima battuta alle cure dell’Agency.
La giurisprudenza della Corte Suprema successiva (Thomas v. Union Carbide Agric.
Products Co., 473 U.S. 568 (1985) e Commodity Futures Trading Commission v. Schor, 478
U.S. 833 (1986)), tuttavia, pur prestando formale adesione alla differenza tra public e private
rights, ha sostanzialmente sconfessato la perdurante vigenza del criterio, ammettendo la
possibilità di estendere la cognizione delle Agencies in sede di adjudication anche alle situazioni
soggettive privatistiche, atteso che le medesime presentano gli stessi caratteri di imparzialit
à ed indipendenza dei giudici.
Il nuovo orientamento del Supremo consesso di giustizia federale considera e valorizza
le rigorose garanzie procedimentali fissate dall’APA ed elaborate dalla stessa giurisprudenza
in relazione all’adjudication.
Quest’ ultima, difatti, se ha luogo attraverso la formal procedure è in tutto simile ad un
processo svolgendosi in contraddittorio innanzi ad un Administrative Law Judge.
Le guarentigie procedimentali, tuttavia, non vengono meno ove, viceversa, l’adjudication
si svolga secondo la informal procedure. Ove essa coinvolga situazioni soggettive di
natura costituzionale e, secondo un certo orientamento (si rinvia ai casi descritti da Aman
A.C., MAYTON W.T., Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 1997, 151-152), l’apporto
partecipativo del privato abbia effettivamente una qualche utilità, sarà necessario che
l’Agency articoli il procedimento nel rispetto della due process clause sancita dal V emendamento
della Costituzione a tutela di “life, liberty or property”. La Corte Suprema, difatti,
in Mathews v. Eldrige, 424 U.S. 319 (1976), ha affermato la necessità di assicurare un rapporto
di proporzionalità tra privazione causata dall’Agency al privato e costi conseguenti
all’adozione delle garanzie procedimentali da ricercarsi alla luce di tre fattori: l’importanza
della privazione subita il relazione alla natura giuridica dell’interesse leso, l’eventuale vantaggio
derivante da una procedura alternativa più garantistica e la determinazione del costo
di quest’ultima.
Strettamente connessa alla tematica dei requisiti procedurali imposti dalla due process
clause è l’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte Suprema che, superando
la tradizionale bipartizione right di common law/privileges (situazione soggettiva del privato
innanzi all’esercizio del potere dell’Agency o interessi che trovano la loro fonte in atti
ampliativi delle medesime) affermata già in McAuliffe v. Mayor of New Bedford, 29 N.E.
517 (1892), ha allargato la nozione dei primi recependo, prima implicitamente (Shapiro v.
Thompson (394 U.S. 618 (1969)), poi chiaramente (Goldberg v. Kelly, 397 U.S. 254 (1970)
e Regents of State Collages v. Roth, 408 U.S. 564 (1972)) le indicazioni dottrinali tese ad
elaborare un concetto ampio di property comprensivo delle “nuove ricchezze” connesse
all’attività di prestazione dell’Amministrazione (REICH C., The New Property, 73 Yale Law
Journal, 733 (1964) e Id., Individual Rights and Social Welfare: The Emeging Legal Issues,
74 Yale Law Journal, 1245 (1965)).
In particolare, si è chiarito che costituiscono meri privileges solo quelle situazioni che
chiameremmo interessi legittimi pretensivi (privato che richiede una certa utilità all’Agency)
mentre vanno ricondotti alla categoria dei rights gli interessi legittimi oppositivi (privato
che si oppone al un provvedimento di autotutela con cui l’Agency revoca un beneficio precedentemente
concesso).
Va comunque segnalato che anche laddove la situazione soggettiva abbia natura giuridica
di mero privilege è consentito che l’Agency si autovincoli a rispettare regole procedimentali
specifiche a garanzia del privato in via di prassi o con proprio regolamento.
(13) Circa i rapporti tra Presidente e IRCs sia consentito rinviare a quanto già osservato
in nota 3, 4 e 9.
(14) D’ALBERTI M., Diritto Amministrativo comparato. Trasformazioni dei sistemi
amministrativi in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia, Bologna, Il Mulino, 1992, 109
ss.
Si è anche successivamente evidenziato che le regole partecipative imposte nell’attivit
à di regolazione non comportano l’equivalenza funzionale tra il modello di “interest representation
” e il “political process” (DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso,
Giappichelli, Torino, 2004, 103). Entrambi i modelli condividono l’obiettivo finale: conseguire
il common good. Si differenziano, tuttavia, per il metodo da seguire per la determinazione
del bene pubblico: nell’“interest representation model” è affidata al confronto diretto
tra gli attori sociali mentre nel “political process model” è rimessa alla mediazione politica
tra i rappresentanti del popolo.
Il riconoscimento della legittimità costituzionale dei poteri di regolazione
delegati dal Congresso alle Agencies è stato agevolato e consentito proprio
dalla introduzione con l’Administrative Procedure Act (APA) di meccanismi
di democrazia partecipativa che, aumentando la rappresentatività dei
regolatori, hanno imposto alle regolatory Agencies di consultare preventivamente
i destinatari delle nuove regole (rules) al fine di acquisire informazioni
sul loro punto di vista, sulle esigenze coinvolte e sugli interessi incisi dalla
regolazione (c.d. stakeholders) (14).
296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Le regole sulla consultazione, peraltro, sono di importanza centrale atteso
che è principio consolidato in giurisprudenza e dottrina che la guarentigia
costituzionale del due process non si applica all’attività di rulemaking.
L’ambito applicativo della garanzia è, difatti, limitato all’attività di adjudication
in considerazione degli effetti circoscritti al piano individuale dell’in-
DOTTRINA 297
Va chiarito che il metodo della consultazione degli interessati non comporta di per sé
l’identificazione del common good. La sommatoria delle osservazioni e delle proposte
modificative dei cittadini e delle imprese non costituisce automaticamente una soluzione
necessariamente conforme all’interesse pubblico trattandosi, più limitatamente, della concretizzazione
di taluni interessi di parte che sono stati fatti valere nel procedimento regolatorio
e che nel concreto potrebbero anche portare le nuove rules a perseguire obiettivi corporativi
che si allontanano dall’interesse pubblico, anzi ad esso contrari.
La scelta finale del regolatore, quindi, non dovrebbe essere il frutto di una negoziazione
tra i soli soggetti che hanno avuto la possibilità di partecipare al procedimento di regolazione,
né tampoco il risultato di oscure operazioni di cattura da parte degli operatori professionali
forti, ma dovrebbe essere rimessa alla libera scelta dell’Autorità con la possibilità per
quest’ultima di ricercare il corretto punto di bilanciamento degli interessi in gioco da valutarsi
anche alla luce degli elementi conoscitivi acquisiti durante la public consultation.
Anche la dottrina che si è interessata fonditus del problema ha segnalato, pur se specificamente
in relazione alla negotiatied rulemaking, che la consultazione degli interessati,
anche se è “in principio idonea ad assicurare la presenza paritaria degli interessati al tavolo
delle trattative, non garantisce comunque il common good. In questo caso, la causa ostativa
non è rappresentata dalla minaccia di cattura, perché il voto di ciascun partecipante
pesa quanto quello dell’altro, ma se l’Autorità non è tirata da una sola parte lo è da tutte
contemporaneamente. È la logica del “getting to yes”: in pratica la preoccupazione di chiudere
su di un testo di gradimento comune rende l’Autorità dispnibile a scambiare il bene
pubblico contro l’adesione dei regolati alle regole. L’Autorità da “sovereign actor” del
common good passa a promotrice della trattativa negoziale: ciò che conta è sigliare l’accordo,
indipendentemente da considerazioni in merito alla compatibilità del suo contenuto
pattizio con il bene medesimo. Dunque, la negotiated rulemaking altera la funzione del processo
regolatorio, la cui finalità di cura esclusiva dei valori oggettivi si annulla nella ricerca
del consensus in idem placitum tra i regolati… In sintesi la partecipazione sociale come
“surrogato” della rappresentanza politica non si è dimostrata all’altezza del compito.
L’equo contemperamento degli interessi, consegnato al contraddittorio sociale, si è concluso
nell’involuzione privatistica dei processi regolativi pubblicistici. Ne sia prova il suo
esito: sono state prodotte regola pubbliche unicamente nella forma, ma nel merito obbedienti
a logiche individualistiche. La dislocazione in basse del potere politico sposta poi la
questione della legittimazione democratica dalle Autorità ai governi privati di interesse,
ammessi a compiere scelte sostanzialmente politiche vincolanti l’intera collettività” (DE
MINICO G., Regole. Comando e Consenso, cit., 105-106).
Per ulteriori rilievi critici mossi alla negotiated rulemaking si rinvia a ACKERMAN S.R.,
Consensus versus incentives: a skeptical look at regulatory negotiation, 43 Duke Law
Journal, 1994, 1206; FIORINO, Regulatory Negotiation as a Policy Process, Public Admin.
Law, 1988, 48; FUNK W., When smoke gets in your eyes: regulatory negotiation and the
public interest EPA’s woodstove standards, 18 Environ. Law, 1987, 97; Id., Barbaining,
toward the new millennium: regulatory negotiation and the subversion of the public interest,
46 Duke Law Journal, 1997, 1378; HARTER P.J., Negotiating Regulation: a Cure for
Malaise, Georgetown Law Journal, 1982, I; Id., A talk with, Dispute Resolution Forum,
1986, 11 ss.; MANZELLAA., Brevi cenni sulla regulatory negotiation, Riv. Trim. Dir. Pubbl.,
1994, 279 ss.
ciso mentre va escluso che operi nei confronti delle rules che, viceversa, producono
effetti generali (class-like effects) (15).
Va preliminarmente chiarito, tuttavia, che dagli atti di rulemaking da assoggettarsi
alla previa consultazione degli interessati prevista dall’APA vanno
esclusi, in virtù dell’eccezione stabilita dalla Section 553 (b, 3, A) del menzionato
statute (16), i policy statements (mere dichiarazioni generali di policy con
cui l’Agency dà informazioni ai cittadini sugli obiettivi e sugli strumenti futuri
della sua attività), le interpretative rules (atti con cui l’Agency fornisce la propria
interpretazione autentica di norme preesistenti) nonché le procedural rules
(norme a contenuto sostanzialmente procedimentale o organizzatorio).
Le prime due categorie di atti di regolazione sono escluse dalla consultazione
perché non hanno un impatto sostanziale sui privati essendo inidonee
a modificarne la sfera giuridica per carenza di efficacia vincolante (17).
La giurisprudenza e la dottrina statunitense (18) hanno chiarito che l’esclusione
della terza tipologia, viceversa, dipende dal fatto che le procedural
rules, pur se vincolanti, non sarebbero idonee a conformare la “public
conduct”.
298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(15) Bi Metallic Investment Co. v. State Bd. Of Equalization, 239 U.S. 411 (1915).
Per la dottrina italiana MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati
Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 62 e 256-257 nonch
é BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento
U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato,
Giappichelli, Torino, 1997, 124-125.
(16) La Section 553 (b, 3, A) dell’APA stabilisce che “Except when notice or hearing
is required by statute, this subsection does not apply – (A) to interpretative rules, general
statements of policy, or rules of agency organization, procedure, or practice…” (U.S. Code,
Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure).
(17) ANTHONY R.A., Interpretative Rules, Policy Statements, Guidances, Manuals and
the Like – Should Federal Agencies Use Them to Bind The Public?, Duke Law Journal,
1992, 1311.
Con riferimento alla distinzione tra substantive rules (che richiedono la consultazione
degli interessati) e i policy statements (che sono esclusi dagli oneri della consultation of the
interested parties) una pregevole decisione della Corte d’Appello del distretto di Columbia
ha precisato che “a properly adopted substantive rule establishes a standard of conduct
which has the force of law (…) A general statement of policy, on the other hand, does not
establish a “binding norm”. It is not finally determinative of the issues or rights to which it
is addressed” (Pacific Gas & Electric Co. v. FPC, 506 F.2d 33 (D.C. Cir. 1974)).
Circa la distinzione tra substantive rules (che richiedono la consultazione degli interessati)
e interpretative rules (che sono escluse dagli oneri della consultation of interested parties)
si segnala un’interessante pronuncia della Corte d’appello del nono distretto dalla quale
può evincersi il principio che, pur se in astratto ogni rules può avere un substantial impact,
tuttavia, anche alla luce delle previsioni dello statute attributivo del potere, potrebbe escludersi
in concreto un contenuto normativo delle rules approvate dall’Agency (Alcatraz v.
Block, 746 F.2d 593 (9th Cir. 1984)).
(18) United States Dept. of Labour v. Kast Metals Corp., 744 F.2d 1145 (5th Cir. 1984).
In dottrina WEAVER R.L., An APA Provision on Nonlegislative Rules?, Admin. Law
Rev., 2004, 1179.
A ciò si aggiunga che la Section 553 (b, 3, B) dell’APA (19) prevede
un’esenzione di carattere generale in relazione a quelle ipotesi in cui la consultazione
sia “impracticable, unnecessary, or contrary to the public interest
”. Ove l’Agency voglia avvalersi di tale esenzione (per esempio nei casi
di urgenza o di scarsa rilevanza innovativa della normazione) dovrà dare
adeguata motivazione che sarà sindacabile in sede giurisdizionale.
3.1. Le tecniche di consultazione degli interessati nelle procedure di formal
e informal rulemaking. La preferenza per la procedura informale e la stretta
alternatività con quella formale impone l’inammissibilità del tertium
genus (la c.d. hybrid rulemaking procedure).
Per le (substantial) rules da assoggettarsi alla consultazione degli interessati
l’Administrative Procedure Act prevede due diverse rulemaking procedures.
È la legge istitutiva dell’Agency che deve prevedere le ipotesi in cui
vada seguita la procedura formale (formal rulemaking procedure) e quelle
in cui, per converso, è sufficiente procedere con quella informale (informal
rulemaking procedure conosciuta anche come notice and comment procedure).
La Corte Suprema (20) ha, peraltro, sancito una preferenza per la procedura
informale nelle ipotesi in cui le previsioni dello statute siano dubbie
prestandosi a diverse interpretazioni oppure nei casi di lacune normative.
In entrambe le ipotesi il procedimento attraverso cui viene esercitato il
potere normativo è aperto e partecipato in modo da consentire all’Agency di
elaborare una soluzione regolatoria ottimale anche attraverso la previa acquisizione
di elementi informativi esaustivi in relazione alla realtà da disciplinare
e agli interessi in gioco, il cui punto di bilanciamento va, comunque,
identificato liberamente dal regolatore che gode al riguardo di un’ampia
discrezionalità normativa.
Attesi i costi e la macchinosità della formal rulemaking procedure, la
prassi delle Agencies, avallata dagli orientamenti della giurisprudenza federale,
va nel senso di preferire il ricorso alla procedura informale di notice and
comment (21).
DOTTRINA 299
(19) La Section 553 (b, 3, B) dell’APA sancisce che “Except when notice or hearing is
required by statute, this subsection does not apply – …(B) when the agency for good cause
finds (and incorporates the finding and a brief statement of reasons therefore in the rules
issued) that notice and public procedure thereon are impracticable, unnecessary, or contrary
to the public interest” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure,
Section 553, Rule Making).
(20) United States v. Florida East Coast Ry., 410 U.S. 244 (1973).
(21) In proposito RUBIN E., It’s time to Make The Administrative Procedure Act
Administrative, 89 Cornell Law Rev., 2003, 95.
Alla luce delle previsioni della Section 553 dell’APA (22) dedicata
all’attività di rulemaking, la procedura informale di consultazione può essere
divisa in tre fasi.
Secondo la lettera b) della menzionata Section 553 (23), nella prima fase
l’Agency è tenuta a pubblicare nel Federal Register un avviso da cui risultino:
1) l’indicazione delle tempistiche, dei luoghi e della natura del procedimento
di consultazione; 2) il riferimento alle previsioni normative che fondano
il potere normativo esercitato; 3) i termini o la sostanza della regolazione
adottanda proposta o una descrizione delle principali questioni rilevanti.
Ove la regolazione coinvolga soggetti specifici identificati, l’avviso deve
essere accompagnato dalla notifica o da altre forme di comunicazione individuale
previste dalla legge.
È stato rilevato che, pur se nella prassi le Agencies predispongono avvisi
molto dettagliati, la giurisprudenza è abbastanza elastica, rifuggendo da
orientamenti formali e guardando alla sostanza dei contenuti della notice,
che dovrà comunque consentire l’effettiva possibilità alle parti interessate di
partecipare alla procedura di regolazione e, ove non presenti una proposta di
regolazione completa, dovrà quanto meno rendere noti i dati e le metodologie
di cui l’Agency intende avvalersi per formulare le rules (24). Le informazioni
contenute nell’avviso, quindi, dovranno essere chiare, complete e idonee
a consentire ai potenziali soggetti regolati di valutare il loro interesse a
partecipare al procedimento di regolazione.
300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(22) U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule
Making.
(23) La Section 553 alla lettera b) stabilisce che “General notice of proposed rule
making shall be published in the Federal Register, unless persons subject thereto are named
and either personally served or otherwise have actual notice thereof in accordance with law.
The notice shall include – (1) a statement of the time, place, and nature of public rule
making proceedings; (2) reference to the legal authority under which the rule is proposed;
and (3) either the terms or substance of the proposed rule or a description of the subjects
and issues involved” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure,
Section 553, Rule Making).
(24) United States v. Nova Scotia Food Products Corp., 568 F.2d (2nd Cir. 1977).
In Italia la dottrina (BARRA CARACCIOLO, cit., 94) ha efficacemente osservato che “la giurisprudenza
è alquanto elastica circa la sufficienza del contenuto di tale avviso, nel senso che
non esige una puntuale tripartizione conforme allo schema legale; tuttavia, ciò che non può
mancare è la sostanza funzionale dell’avviso, cioè lo “stabilire un’effettiva opportunità per le
parti interessate di partecipare al rulemaking”, sicchè l’avviso è ritenuto sufficiente se consente
correttamente (“fairly”) agli interessati di valutare la materia e le questioni all’attenzione
dell’agenzia. A tal fine, la giurisprudenza, specie laddove l’avviso non contiene già un testo
articolato della “regulation” proposta, esige che lo stesso renda noti i dati e le metodologie di
cui l’Amministrazione intende avvalersi per formulare le norme. Nella pratica, l’orientamento
è di fornire nell’avviso notizie piuttosto dettagliate; ciò si è rivelato opportuno allorché l’expertise
delle parti private possa risultare superiore a quella dell’agenzia, sicchè la loro risposta
può immediatamente essere utile in termini di dati e metodologie. Per le parti che non
disponessero, invece, di particolare “expertise”, l’eccesso di dettagli tecnici può rendere oscuOve
il testo delle rules venga modificato dal regolatore nel corso dell’attivit
à conoscitiva la giurisprudenza ha affermato che non è necessario pubblicare
un nuovo avviso proprio perché il cambiamento dovrebbe essere il
normale risultato delle acquisizioni informative risultanti dalle osservazioni
e dai commenti dei cittadini e delle imprese, purché non si tratti di un “illogical
outgrowth” rispetto all’originaria proposta di regolazione (25).
La fase della pubblicazione è strumentale alla partecipazione degli interessati
al procedimento regolatorio che interviene nella seconda fase. Pur se
normalmente la consultazione avviene attraverso l’invio di osservazioni
scritte all’Agency da parte degli stakeholders, il regolatore può liberamente
decidere di raccogliere testimonianze o commenti in forma orale (26). Le
facoltà partecipative previste dall’APA costituiscono un catalogo aperto che
spazia dalla presentazione di controproposte, di argomenti difensivi, di materiale
probatorio, all’illustrazione di tesi scientifiche e di tutto quello che il
soggetto destinatario della regolazione possa ritenere pertinente e rilevante
in relazione alla proposta in esame. Tutta l’attività conoscitiva compiuta
dall’Agency dovrà essere raccolta in un registro (record) da tenersi anche su
supporto informatico e del quale va garantita l’ampia accessibilità da parte
di tutti i soggetti interessati (27).
DOTTRINA 301
ra la portata delle regole proposte: nella ricerca di un equilibrio fra queste diverse esigenze,
le agenzie tendono a servirsi di un modulo di avviso “tipizzato”, che include un preambolo che
enuncia lo scopo fondamentale e l’impatto generale della regulation, un riferimento alla base
legale della sua emanazione, ed il testo delle regole proposte. Questa descrizione per linee
essenziali è accompagnata, peraltro, da un’appendice contenente il tipo di informazioni di dettaglio
tecnico che possono interessare i destinatari dotati di conoscenza più sofisticate”.
(25) Chocolate Manufacturers Association v. Block, 755 F.2d 1005 (4th Cir. 1985).
In termini BARRA CARACCIOLO, cit., 94 e 95 che rileva come “può frequentemente verificarsi,
poi, che, durante il procedimento, le norme proposte siano ritenute suscettibili di
cambiamento da parte dell’agenzia che ha pubblicato l’avviso. In tal caso non è richiesta
la pubblicazione di un nuovo avviso perchè il cambiamento dovrebbe normalmente essere
proprio il risultato delle acquisizioni procedimentali. La giurisprudenza ha in proposito stabilito
che il mutare del testo di una proprosta di “regulation” esiga un nuovo avviso solo
nel caso che esso non sia una “logical outgrowth” dell’originaria formulazione; ciò viene
escluso quando il cambiamento nasca autonomamente rispetto all’ambito di dati e metodologie
apparsi nell’avviso ed acquisiti in coerenza con esso”.
(26) La lettera c) della Section 553 dell’APA, stabilisce che “After notice required by
this section, the agency shall give interested persons an opportunity to participate in the rule
making thrrsi nell’avviso ed ough submission of written data, views, or arguments with or
without opportunity for oral presentation” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5,
Administrative Procedure, Section 553, Rule Making).
(27) Questo modello tuttavia comporta una instabilità ontologica del record il contenuto
è destinato ad mutare ripetutamente nel tempo. Ciò impone agli interessati una continua
ed estenuante attività di aggiornamento.
Al fine di temperare questi problemi l’Agency può organizzare incontri in cui possa
effettuarsi la comparazione simultanea delle varie proposte.
La dottrina ha, altresì, osservato che “tutto il materiale esibito durante la procedura
viene schedato e raccolto in un record, che accompagna la pratica dall’inizio alla fine.
Nella terza ed ultima fase l’Agency approva e pubblica (28) le nuove
rules.
Nell’atto normativo o amministrativo generale oltre alle rules sono presenti
anche i c.d. feedbacks (29), cioè una giustificazione relativa all’orientamento
espresso dall’Autorità di regolazione sulle osservazioni pervenute.
Nei feedbacks l’Agency chiarisce come e in che misura abbia tenuto conto
delle indicazioni fornite dagli interessati in sede di consultazione oppure le
ragioni per cui si sia discostata dalle osservazioni degli stakeholders. Non si
tratta comunque di un onere motivazionale stringente equiparabile a quello
imposto in relazione ai provvedimenti amministrativi concreti (orders) bensì
di una più tenue giustificazione che può limitarsi a dare conto delle questioni
più rilevanti e sensibili e dei punti che durante la consultazione hanno formato
oggetto di osservazioni divergenti e conflittuali (“a concise general
302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Benché rappresenti il supporto cartaceo del sindacato di legittimità sulle rules, la sua
funzione di salvaguardia non si esaurisce nel fornire una base testuale al giudice per raffrontare
l’atto concretamente posto in essere con il modello astratto di provvedimento legittimo,
consistendo piuttosto nell’“enlighten and shape the agency’s exercise of its discretion
by ensuring input of evidences and views by interested persons”. Quest’ultima funzione verrebbe
meno se il record si formasse a procedura ultimata: esso, invece, si compone passo
dopo passo, perché segue in tempo reale gli sviluppi istruttori e ne dà conto, in modo che
ciascuna parte, prendendone visione, possa essere informata di ciò che sta accadendo, per
formulare controdeduzioni radicate nei fatti. Il sistema di conoscibilità descritto non ha
però conseguito l’effetto sperato: cioè consentire una partecipazione con cognizione di
causa variabile dipendente dal modo di essere della partecipazione. Se questa è cartacea
con sovrapposizioni successive dei singoli apporti degli intervenienti, il difetto di un forum
per il confronto simultaneo delle osservazioni ostacola la circolazione delle idee, nel senso
che il flusso informativo si blocca in capo a ciascuno. A questo inconveniente la procedura
negoziata ha cercato di porre rimedio, avvalendosi del metodo della simultaneità anche
nella circolazione delle informazioni. Con ciò non si vuole disconoscere l’indubbia portata
innovativa del sistema del record che consentiva ai terzi di conoscere la provenienza soggettiva
degli apporti istruttori e, quindi, di distinguere il contributo dell’Autorità da quello
delle parti” (DE MINICO, op.cit., 116-117).
(28) La Section 553 (d) dell’APAstabilisce che il periodo di vacation legis dovrà, salvo
talune eccezioni, essere almeno pari a 30 giorni “The required publication or service of a
substantive rule shall be made not less than 30 days before its effective date, except – (1) a
substantive rule which grants or recognizes an exemption or relieves a restriction; (2) interpretative
rules and statements of policy; or (3) as otherwise provided by the agency for good
cause found and published with the rule” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5,
Administrative Procedure, Section 553, Rule Making).
(29) La lettera c) della Section 553 dell’APA, stabilisce che “After consideration of the
relevant matter presented, the agency shall incorporate in the rules adopted a concise general
statement of their basis and purpose” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5,
Administrative Procedure, Section 553, Rule Making).
La giurisprudenza non aveva richiesto inizialmente una giustificazione rigorosa atteso
che l’expertise di cui risultavano depositarie consentiva alle Agencies intuizioni dettate dall
’esperienza non sottoponibile ad analisi (Chicago, Barlington and Quincy Co v. Babcock,
statement of their basis and purpose”). Difatti, il termine giustificazione si
riferisce propriamente agli atti di regolazione in quanto le ragioni di fatto e
di diritto che fondano la decisione regolatoria hanno un contenuto e un’estensione
diversa da quello che caratterizza la motivazione dei provvedimenti
amministrativi puntuali (c.d. orders).
L’Agency, inoltre, non è tenuta a dare risposta dettagliatamente motivata
in relazione a tutti i commenti e le osservazioni che potrebbero essere
anche meramente pretestuose e dilatorie.
La giurisprudenza (30) ha richiesto una certa giustificazione (“reasoned
decision-making” (31)) esclusivamente in relazione a quei comments che
superino la soglia di rilevanza (materiality) da accertarsi in concreto da parte
del giudice. La imprevedibilità degli esiti giudiziari (32), tuttavia, ha originato
una prassi delle Agenzie di regolazione tesa ad accrescere il supporto
motivazionale degli atti di approvazione delle nuove rules e ad ergere “barriere
formali protettive” finalizzate ad evitare dichiarazioni di illegittimità
per difetto di giustificazione che ha finito per produrre rallentamenti ed
innalzamenti dei costi della regolazione senza benefici sostanziali sotto il
profilo del miglioramento della qualità delle regole (33).
DOTTRINA 303
204 U.S. 585, 1907). Solo verso la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 si cominciò
ad affermare che sulle Agencies incombesse un onere di razionalità oggettiva e, quindi, di
spiegazione e giustificazione della sostanza dei precetti formulati (per la ricostruzione storica
dell’evoluzione giurisprudenziale si rinvia a BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa
e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza
italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 89, che indica
anche le ragioni che hanno stimolato il mutamento di indirizzo giurisprudenziale: l’“aspirazione
di controllo della comunità e perciò di trasparenza democratica”, la circostanza che
“gli esperti hanno certo il loro peso nell’indicare le soluzioni, ma il valore in termini di
effettività di una regola dipende da come sono storicamente e strutturalmente sistemati gli
interessi coinvolti nella sua creazione, secondo la percezione che ne hanno i rispettivi titolari
”, nonché quella che la giustificazione delle regole “dando risposta alle posizioni emerse
dalla partecipazione aiuta a dissipare il sospetto del pregiudizio della scorrettezza o dell
’improprio influenzamento dei un’agenzia” (BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa
e amministrazione cit., 1997, 89-90).
(30) International Harvester Co. v. Ruckelhaus, 478 F.2d 615 (D.C. Cir. 1980); United
States v. Nova Scotia Food Products Corp., 568 F.2d (2nd Cir. 1977); Chamber of
Commerce of U.S. v. OSHA, 636 F.2d 464 (D.C. Cir. 1980); Chocolate Manufacturers
Association v. Block, 755 F.2d 1105 (4th Cir. 1985).
(31) Espressione utilizzata in Greater Boston Televsion Corp. v. FCC, 444 F.2d 851
(D.C. Cir. 1970).
(32) Criticata da PIERCE R. Jr., Seven Way sto Deossify Agency Regulation, Adm. Law
Rev., 1995, 59.
(33) “La soglia oltre la quale la rilevanza (“materiality”) del commento impone la
considerazione è difficilmente definibile in astratto, tanto che la giurisprudenza enunciando
i predetti principi si riserva uno spazio di indagine aperto. L’elasticità dell’orientamento
delle corti ha però prodotto un inconveniente da più parti lamentato: le agenzie per evitare
di incorrere nella censura di omessa considerazione della rilevanza di un contributo di
parte, e, quindi, di difetto di motivazione per non aver fornito la dovuta puntuale risposta,
Peraltro, il fascicolo relativo all’attività conoscitiva svolta dall’Agency
durante la consultation tende sempre più ad assomigliare nella prassi al
record relativo agli elementi istruttori fondanti gli orders adottati in sede di
adjudication con l’incomprensibilità del poderoso fascicolo e il rischio che
il giudice effettui di fatto un sindacato sostitutivo valutando in modo diverso
dall’Agency elementi conoscitivi risultanti dal record (34).
304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
si fanno carico di un onere di motivazione che ha assunto ormai dimensioni imponenti e che
ha allungato tempi e costi dell’attività normativa dell’Amministrazione a livelli spesso elevatissimi.
Si lamenta che l’interferenza delle corti ha ormai snaturato la previsione della
sez. 553 dell’A.P.A., conducendo il procedimento sul terreno del contenzioso giurisdizionale,
il quale finisce per essere l’ovvia via d’uscita per ogni parte scontante che abbia – come
spesso accade .- sufficienti risorse per adire le vie giudiziali e ricercare puntigliosamente le
contraddizioni e le lacune di elaborati che raggiungono migliaia di pagine e vertono su questioni
scientifiche di estrema complessità” (BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e
amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana,
Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 96).
In senso analogo, successivamente, è stato autorevolmente osservato che “la procedura
di rulemaking non implica, in via di principio, l’attuazione di un contraddittorio formale
di tipo contenzioso sul modello dell’adjudication, e dunque non sembra sussistere un
obbligo per l’Agenzia di rispondere formalmente a tutti i commenti ricevuti, ma la giurisprudenza
ritiene che il regolatore è tenuto a “replicare” al privato ogni volta che l’osservazione
di quest’ultimo si riveli particolarmente significativa ovvero dotata di “cogente
rilevanza”. La difficoltà di individuazione a priori di tale soglia, che determina l’obbligo
per l’Agenzia di rispondere formalmente, pena l’illegittimità del procedimento sotto il profilo
del difetto di motivazione, induce le Agenzie ad adempiere sempre all’onere di motivazione
con appesantimenti – di tempi e di costi – della procedura. Si determina così anche
un avvicinamento della tipologia procedurale della rulemaking a quella della adjudication,
ove la decisione è adottata sulla base del record, vale a dire di una sorta di fascicolo d’ufficio
che raccoglie tutte le argomentazioni e le prove assunte in contraddittorio in udienza
pubblica (la c.d. hearing). Pertanto anche nella procedura di rulemaking si ritiene necessario,
ai fini della comprensibilità dell’operato dell’Agenzia, raccogliere gli sviluppi dell’iter
procedimentale raggruppando in un record, di contenuto limitato, gli elementi e i dati
utilizzati, i commenti ricevuti e le risposte formulate dai funzionari, nonché le trascrizioni
delle eventuali audizioni orali svolte nel corso della procedura. Attraverso tale record
l’Agenzia dimostra l’adempimento dei necessari “passaggi” volti a giungere ad una decisione
meditata (reasoned decision making), in conformità con quanto richiesto dalla giurisprudenza,
secondo cui tale procedura, oltre a quello della partecipazione, deve soddisfare
anche i requisiti della “comprensività” e della “razionalità”” (TITOMANLIO R., Funzione di
regolazione e potestà sanzionatoria, Milano, Giuffrè, 2007, 377 e 378).
(34) “La procedura tende infatti a concretizzarsi in un record; esso è l’insieme delle
prove e delle argomentazioni addotte in contraddittorio, più specificamente, in una pubblica
udienza, e dal cui ambito esclusivo va ricavata la decisione. L’istituto è tipico della procedura
quasi-giurisdizionale dell’adjudication, ma nel “rulemaking”, il record si compendia in
un quid necessariamente più limitato, e cioè nella raccolta degli elementi che illustrino un
percorso logico fondato su fatti rilevanti come tali posti a fondamento delle determinazioni
adottate. Esso include, infatti, le “prove del processo decisionale che siano sufficienti a
mostrare la razionalità dell’iter seguito in sede giurisdizionale”, ma non necessariamente
abbraccia ogni atto ed argomentazione prodotta nel procedimento. Sotto la spinta della giurisprudenza
che ha imposto il “reasoned decisionmaking”, la stessa sez. 553, lett c) è stata
Quando lo statute impone la formal rulemaking procedure l’Amministrazione
è tenuta a seguire una procedura più garantistica e complessa, per certi
versi simile al procedimento amministrativo di formal adjudication (orders) e,
quindi, equiparabile ad un vero e proprio processo. Atteso che, come si è rilevato
in precedenza, la Corte Suprema accorda preferenza all’informal procedure
di notice and comment, la legge deve utilizzare una terminologia inequivoca
richiedendo espressamente un trial-type hearing.
Attraverso la formal rulemaking procedure si consente alle parti interessate
di dibattere, in un contraddittorio di tipo processuale (anche con un’autentica
cross-examination), il contenuto della norme da emanare in relazione
ai propri opposti interessi (35).
L’Autorità di regolazione è tenuta ad osservare questi specifici obblighi
procedimentali la cui violazione può comportare, a differenza dell’informal
rulemaking procedure, l’annullamento delle nuove rules (36).
DOTTRINA 305
riletta come un precetto prescrivente la formazione e la ostensione di tale record; la norma
richiede, infatti, “una concisa dichiarazione generale della base e delle finalità della normativa
”, e tale precisazione è ritenuta idonea a prescrivere la tenuta di un siffatto record, avendo
la ratio di consentire ai giudici di poter rilevare la cornice di fatto e di diritto sottostante
l’azione delle agenzie. Secondo una prassi che è conseguita a tale interpretazione, il rulemaking
record dovrebbe così includere i dati utilizzati e le inferenze da essi tratte, i commenti
del pubblico e le relative risposte dei funzionari, nonché le trascrizioni delle eventuali audizioni
tenute nel corso del procedimento. Se necessario, occorrerà anche includere gli studi
interni, compiuti o acquisisti dall’agenzia, se utilizzati per la decisione, onde evitare la censura
di un motivazione scorretta in quanto incoerente con le risultanze del record.
Certamente la complessità e il pluralismo delle fonti acquisitive dei dati insita nel rulemaking
non è facilmente racchiudibile in un siffatto record. Si corre così il pericolo che in esso
si ammassi una ridda incoerente ed incontrollabile di elementi, formalmente esauriente, ma
troppo vaga per evidenziare realmente il processo decisionale; il record è divenuto così poco
illuminante che un giudice, dovendo decidere in base ad esso, finisce per avere tanto spazio
da assecondare le sue personali preferenze di policy e giunge così ad essere un soggetto attivo
della policy stessa al di fuori del circuito istituzionale delineato dalla Costituzione”
(BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento
U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato,
Giappichelli, Torino, 1997, 96-97).
(35) Si è di recente efficacemente segnalato che “In tal caso, i costi (procedurali ed
economici) e la macchinosità della procedura formal (detta anche on the record) appaiono
onerosi: la lunga durata dello hearing, la complessità della documentazione da raccogliere,
la cross-examination sugli elementi raccolti hanno addirittura portato alcune agencies
ad abbandonare il proprio regulatory program. Inoltre, se l’amministrazione si rifiuta di
concedere la discosure dei dati in proprio possesso (per motivi di riservatezza) impedendo
così agli interessati di effettuare una efficace e completa cross-examination, la corte può per
tale ragione, decidere di annullare le rules che costituiscono il prodotto finale della procedura.
Così un complesso e lungo iter di approvazione delle norme può essere facilmente
vanificato per il mancato rispetto di minimi requisiti procedurali” (MARCHETTI B., Pubblica
Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies,
CEDAM, 2005, 62).
(36) Wirtz v. Baldor Elec. Co., 337 F.2d 518 (D.C. Cir. 1963).
Le procedure di rulemaking previste dall’APAsi pongono tra loro in rapporto
di stretta alternatività con preferenza di quella informale, senza che
possa configurarsi un tertium genus procedimentale a metà strada tra l’eccessiva
rigidità della formal rulemaking procedure e la morbida elasticità dell
’informal rulemaking procedure.
Atteso che in quest’ultima, a differenza della prima, le violazioni procedimentali
afferenti la consultazione non danno luogo all’annullamento dell’atto
di regolazione, un certo orientamento della giurisprudenza statunitense (37) ha
cominciato ad imporre di fatto alle Agencies il rispetto di oneri procedimentali
non richiesti espressamente dalla legge (statute), elaborando in tal modo una
nuova “hybrid” rulemaking procedure di conio giurisprudenziale.
La Corte Suprema (38), però, ha rigettato questa tesi affermando che i
giudici non hanno il potere di imporre all’Amministrazione requisiti procedurali
diversi da quelli richiesti nell’Amministrative Procedure Act, nella
legge istitutiva dell’Autorità o in altri statutes applicabili. Tra le giustificazioni
addotte dal Supremo Consesso di giustizia federale sussiste quella di
evitare che le Agencies, preoccupate di incorrere in annullamenti fondati sul
mancato rispetto di procedure non previste dalla legge ed imposte in concreto
dai giudici, utilizzino nella prassi procedimenti regolatori articolati, lunghi,
dispendiosi e privi di utilità concreta alla luce della materia da regolare
senza alcuna base normativa.
3.2. L’introduzione della negotiated rulemaking (39) e le ragioni del suo
scarso utilizzo.
La disciplina del procedimento di regolazione è stata arricchita nel 1990 di
un nuovo strumento che nelle intenzioni del Congresso avrebbe dovuto consen-
306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(37) Si consentito rinviare alle teorie del giudice Bazelor che saranno tra breve descritte.
Descrive puntualmente questa linea di pensiero giurisprudenziale MARCHETTI B.,
Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative
Agencies, CEDAM, 2005, 62.
(38) Vermont Yankee Nuclear Power Corp. V. Natural Resources Defence Council Inc.,
435 U.S. 519 (1978).
(39) Sulla negotiated rulemaking procedure ACKERMAN S.R., Consensus versus incentives:
a skeptical look at regulatory negotiation, 43 Duke Law Journal, 1994, 1206; BARRA
CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A.
Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli,
Torino, 1997, 92; CHOO R., Judicial Review of Negotiated Rulemaking: Should Chevron
Deference Apply?, 52 Rutgers Law Rev., 2000, 1074; DE MINICO G., Regole. Comando e
Consenso, Giappichelli, Torino, 2004, 118-121; FIORINO, Regulatory Negotiation as a
Policy Process, Public Admin. Law, 1988, 48; FUNK W., When smoke gets in your eyes:
regulatory negotiation and the public interest EPA’s woodstove standards, 18 Environ. Law,
1987, 97; Id., Barbaining, toward the new millennium: regulatory negotiation and the subversion
of the public interest, 46 Duke Law Journal, 1997, 1378; HARTER P.J., Negotiating
Regulation: a Cure for Malaise, Georgetown Law Journal, 1982, I; Id., A talk with, Dispute
Resolution Forum, 1986, 11 ss.; MANZELLAA., Brevi cenni sulla regulatory negotiation, Riv.
tire agli interessati di incidere effettivamente sulla predisposizione della proposta
relativa alle nuove rules che sovente è adottata dalle Agencies “al buio” e,
talvolta, anche ispirata da soggetti regolati titolari di forti interessi economici.
Chiudendo il cerchio degli strumenti già conosciuti, alla programmazione
regolatoria (che impone all’Autorità di regolazione di far conoscere anticipatamente
le materie e le questioni che saranno oggetto di regolazione) e al diritto
di petizione (40) (facoltà di sollecitare un intervento regolatorio di competenza
dell’Autorità presentando una proposta) previsti dalla Section 553, lett.
e, Title V, U.S. Code (“Each agency shall give an interested person the right
to petition for the issuance, amendment, or repeal of a rule”), si è aggiunta la
negotiated rulemaking procedure che s’invera in una fase eventuale e preliminare
alla public consultation tesa a sollecitare la partecipazione degli interessati
già nella fase di predisposizione della proposta di regolazione.
In particolare le Sections 583-570a, Title V, U.S. Code (41), disciplinano
la negotiated rulemaking procedure in virtù della quale l’Autorità di regolazione
può, previo accertamento della sussistenza dei rigorosi presupposti
richiesti per procedere con questo modulo procedimentale (tra cui, in primis,
la sussistenza di interessi chiaramente distinguibili, la possibilità di rappresentarli
nonchè quella di individuare un termine finale per la decisione del
comitato di negoziazione) (42), pubblicare nel Federal Register un avviso
che descriva l’oggetto e la portata della regola da sviluppare, una lista degli
DOTTRINA 307
Trim. Dir. Pubbl., 1994, 279 ss.; TITOMANLIO R., Funzione di regolazione e potestà sanzionatoria,
Milano, Giuffrè, 2007, 380-381.
(40) Non si tratta di un autentico diritto soggettivo in quanto non nasce alcun obbligo
dell’Agency di adottare una regolazione conformemente alle richieste del privato, ma solo
quello di prendere in esame la proposta del cittadini e, più spesso, dell’impresa specie ove
l’iniziativa privata sia conforme alle previsioni dell’atto di programmazione. In questi termini
BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento
U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di
Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 89 che acutamente osserva che “questa facoltà di petizione
è consentita in concreto proprio dalla preesistenza della agenda, nella quale, muovendo
dal presupposto che le risorse sono limitate, l’agenzia stabilisce, tenendo presente le proprie
incombenze legali di intervento e le scadenza temporali prefissate per il loro esercizio,
quali problemi possano, e in che ordine di priorità, richiedere una risposta in forma di disciplina
normativa”.
(41) Negotiated Rulemaking Act 1990, Pub. L. 101-648 (S. 303), November 29, 1990.
L’approvazione dello statute era stato preceduta da ampie sperimentazioni tese a rimediare
alle principali disfunzioni del modello partecipativo originario quali i costi insostenibili
dell’istruttoria appesantita da oneri burocratici eccessivi, i ritardi nella conclusione del procedimento
di regolazione, l’inoperoso atteggiamento e le condotte dilatorie paralizzanti dei
regolati, disposti anche a impugnare in sede giurisdizionale l’atto di regolazione che non avesse
soddisfatto le proprie pretese attraverso il supino recepimento delle proprie osservazioni.
(42) La lettera a) della Section 563, Title V, Subchapter III, U.S. Code, recante
“Determination of Need by the Agency” stabilisce che “An agency may establish a negotiated
rulemaking committee to negotiate and develop a proposed rule, if the head of the
agency determines that the use of the negotiated rulemaking procedure is in the public
interest. In making such a determination, the head of the agency shall consider whether –
interessati che potrebbero essere incisi dalla stessa in modo significativo e
delle persone designate come rappresentanti nonché la facoltà concessa ad
ogni interessato di designare un procuratore nel comitato di negoziazione.
Quindi solo qualora sussistano i requisiti prescritti dalla lettera a) della
Section 563 e l’Agency opti di avvalersi della negotiated rulemaking procedure
convincendosi della praticabilità del metodo alternativo (anche attraverso una
serie di incontri con i soggetti potenzialmente interessati all’atto di regolazione)
potrà iniziare la fase dedicata alla c.d. feasibility analysis che si apre con la pubblicazione
del menzionato avviso sul Federal Register e termina con la (eventuale)
integrazione del comitato di negoziazione con i rappresentanti degli interessi
che l’Autorità di regolazione non avesse ancora preso in considerazione.
Se tale fase ha esito negativo l’Agency comunica, con avviso pubblicato
nel Federal Register, l’abbandono della negotiated rulemaking procedure e
l’attivazione di quella ordinaria (notice and comment).
In caso contrario in seno al comitato dei rappresentanti viene elaborata e
discussa la proposta di regolazione che verrà sottoposta alla successiva fase
di consultazione pubblica solo in caso di raggiungimento di un consenso
unanime sulla medesima.
I rappresentanti degli interessi coinvolti dalla nuova regolazione fanno
parte di un comitato (composto al massimo da venticinque componenti) presieduto
da un mediatore (facilitator) nominato dallo stesso committee di cui
fa parte anche un rappresentante dell’Agency che partecipa alle riunioni su di
un piano di equiordinazione con le parti private, essendogli attribuite le stesse
facoltà riconosciute agli altri membri.
La proposta di regolazione elaborata sarà poi sottoposta all’informal
rulemaking procedure e le rules adottate potranno comunque essere assoggettate
a sindacato giurisdizionale (43).
308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) there is a need for a rule;
(2) there are a limited number of identifiable interests that will be significantly affected
by the rule;
(3) there is a reasonable likelihood that a committee can be convened with a balanced
representation of persons who- (A) can adequately represent the interests identified under
paragraph (2); and (B) are willing to negotiate in good faith to reach a consensus on the
proposed rule;
(4) there is a reasonable likelihood that a committee will reach a consensus on the proposed
rule within a fixed period of time;
(5) the negotiated rulemaking procedure will not unreasonably delay the notice of proposed
rulemaking and the issuance of the final rule;
(6) the agency has adequate resources and is willing to commit such resources, including
technical assistance, to the committee; and
(7) the agency, to the maximum extent possible consistent with the legal obligations of
the agency, will use the consensus of the committee with respect to the proposed rule as the
basis for the rule proposed by the agency for notice and comment”.
(43) In base alla Section 570, Title V, Subchapter III, U.S. Code, recante disposizioni
in tema di judicial review “Any agency action relating to establishing, assisting, or termiÈ
stato rilevato (44) in particolare che la negotiated rulemaking procedure
avrebbe reso tempestiva ed effettiva la partecipazione degli interessati,
consentendo a tutti i soggetti regolati di contribuire alla redazione della proposta
normativa (che precedentemente era oggetto di segreto accordo tra i
soggetti regolati forti e l’Autorità la quale lasciava sovente ai primi il compito
di definirla), e che si sarebbero importati nella sfera dell’esercizio dei
poteri di regolazione le tecniche e le logiche contrattuali di matrice privatistica
attesa l’equiordinazione sostanziale delle parti che impone il raggiungimento
dell’in idem placitum con il connesso potere di veto di ciascun componente
il comitato (45).
L’applicazione dello strumento, tuttavia, non ha prodotto i frutti sperati
perché si è risolto in un aggravamento della procedura di consultazione
(sempre necessaria) con un aumento dei costi e dei tempi della regolazione,
senza alcuna riduzione del contenzioso non potendo impedire di impugnare
le nuove rules ai soggetti che avessero subito un’estorsione di consenso in
sede di negoziazione in quanto dissenzienti su talune scelte particolari ma
interessati comunque a far passare il nuovo atto di regolazione.
Le Agenzie, dunque, non hanno fatto ricorso a tale strumento anche per
una motivata diffidenza nei confronti del medesimo che cristallizza in un atto
pubblicistico formale l’esito di un accordo tra soggetti portatori di interessi
privati, senza che sia possibile all’Autorità di regolazione influenzare e dire-
DOTTRINA 309
nating a negotiated rulemaking committee under this subchapter shall not be subject to judicial
review. Nothing in this section shall bar judicial review of a rule if such judicial review
is otherwise provided by law. A rule which is the product of negotiated rulemaking and is
subject to judicial review shall not be accorded any greater deference by a court than a rule
which is the product of other rulemaking procedures”.
(44) DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso, Giappichelli, Torino, 2004, 119.
(45) Osserva ancora efficacemente la DE MINICO, op.cit., 119-120 che “la proposta …
diventa l’oggetto del procedimento, definibile secondo la logica privatistica della libera
trattativa tra le parti. In un contesto di equiordinazione, le parti forti siedono al tavolo delle
trattative accanto alle deboli, ciascuna conta quanto l’altra, perché il consenso intorno ad
un’ipotesi di proposta richiede l’adesione di tutti, essendo a tal fine irrilevante se il veto al
raggiungimento dell’accordo sia quello espresso dai gruppi “well structured ad well founded
” o da quelli meno fortunati in risorse e organizzazione. La negoziazione richiede che
ciascuna parte sia disponibile a rivedere le sue posizioni per concordare un testo di gradimento
comune. L’intervento contestuale, l’esistenza di un forum per lo scambio di idee e per
la circolazione delle esperienze, la medesima unità di tempo e di spazio, pongono sullo stesso
piano i contributi, perché gli argomenti a sostegno di una tesi diventano patrimonio
comune, da cui poter desumere spunti utili per la costruzione di una disciplina di equilibrio
piuttosto che “be seen as arguments to be rebutted or anticipated later in litigation, left largely
to technical and legale staff”. La condotta avversariale, antagonista, difetto del modello
partecipativo tradizionale, si converte in un atteggiamento di cooperazione reciproca,
che smussa le posizioni più estreme per cercare una soluzione normativa di equilibrio.
Cambiano la ragioni della partecipazione: non si vuole più convincere l’Autorità della
bontà delle propri tesi e strappare così la regola a sé più favorevole, ma confrontare i diversi
punti di vista per costruire un’ipotesi regolativa di gradimento comune”.
zionare le scelte regolatorie verso il perseguimento effettivo e concreto dell
’interesse pubblico (46).
4. La posizione dell’OCSE sulle tecniche consultative statunitensi: si riconosce
che la notice and comment procedure rispetta gli standards internazionali
di good practices for transparency ma sarebbe opportuno renderla più
flessibile e meno adversarial per ridurre costi ed oneri burocratici.
Di recente l’Organization for Economic Co-operation and Development
(OCSE) ha sottoposto a review il sistema statunitense al fine di valutare la
capacità del Governo di assicurare una regolazione di alta qualità.
Si è segnalato che l’esperienza statunitense, pur essendo in linea con gli
standards internazionali di good practices for transparency e ponendosi
sullo scenario mondiale come autentico benchmark, è, tuttavia, migliorabile
sotto diversi profili.
L’OCSE ha sottolineato che “Public consultation is highly developed in the
United States. Almost all federal regulations are developed through mandatory
administrative procedures intended to ensure public consultation and openness...
The American system of notice and comment has resulted in an extremely
open and accessible regulatory process at the federal level that is consistent
with international good practices for transparency… That said, there are
serious problems with consultation that are rooted in the legalistic and adversarial
tendencies of the American regulatory system. Notice and comment has
tended to develop into a legalistic, formalistic process that can prevent rather
than promote dialogue, co-operation, and communication” (47).
L’organizzazione internazionale è stata ancora più chiara nella successiva
versione del rapporto pubblicata nel 2001 laddove si è affermato che
“With some exceptions, the 1946 Administrative Procedure Act (APA) esta-
310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(46) Così ancora DE MINICO, Regole. Comando e Consenso, cit., 120 che evidenzia
come si capovolga il rapporto autorità/regolati (“L’Autorità si spoglia della sua potestà
d’imperio per sedere, come parte tra le parti, al tavolo delle trattative con gli stessi diritti
e doversi dei privati, con la stessa autorità che avrebbe avuto il regolato di arrestare o promuovere
il consenso su di un testo. Quindi, la novella del 1990 interessa proprio la natura
della decisione normativa, la quale, da un punto di vista sostanziale, convertitasi in un
negozio regolamentare concluso tra i diversi attori, pubblici e privati, rischia di sacrificare
l’interesse pubblico, che l’Autorità potrebbe essere pronta a cedere contro l’assenso sul
testo condiviso. La veste formale della decisione normativa, rimane invece, un atto autoritativo
imputabile ad un soggetto pubblico, e ciò perché la proposta, una volta concordata,
viene restituita all’ordinario corso della procedura di rule-making, essendo la negoziazione
momento convenzionale interno al procedimento partecipato: come tale continuerà a
concludersi nell’atto imperativo”).
(47) OECD, OECD Reviews of Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United
States. Government Capacity to Assure High Quality Regulation In the United States, Paris,
1999, 26. Cfr. anche l’edizione del 2001, 22-23, della review dell’OCSE avente il medesimo
titolo.
blished a legal right for citizens to participate in rulemaking activities of the
federal government on the principle of open access to all. The APA sets out
specific requirements for administrative procedures to be followed in promulgating
subordinate regulation, and hence meets the OECD benchmark in
this area. The key mechanism through which participation occurs is known
as “notice and comment”” e che l’ordinamento statunitense presento uno dei
metodi di consultazione più trasparenti tra quelli implementati dagli Stati
OCSE “Transparency of the regulatory system is essential to establishing a
stable and accessible regulatory environment that promotes competition,
trade, and investment, and helps ensure against undue influence by special
interests. Just as important is the role of transparency in reinforcing the legitimacy
and fairness of regulatory processes. Transparency is a multi-faceted
concept that is not easy to change in practice. It involves a wide range of
practices, including standardised processes for making and changing regulations;
consultation with interested parties; plain language in drafting;
publication, codification, and other ways of making rules easy to find and
understand; and implementation and appeals processes that are predictable
and consistent. The US regulatory system is one of the most transparent
among OECD Members, but some problems merit attention” (48).
L’Organization for Economic Co-operation and Development, pur giudicando
buona la situazione dell’ordinamento statunitense federale (49), ha,
DOTTRINA 311
(48) OECD, OECD Reviews of Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United
States. Government Capacity to Assure High Quality Regulation In the United States, Paris,
2001, 20 e 21.
(49) Si è segnalato che la consultazione statunitense ha un carattere aperto perchè consente,
almeno in astratto, a tutti i cittadini di partecipare al procedimento di regolazione
attraverso la comunicazione di osservazioni scritte contenenti argomenti di fatto o di diritto
circa gli effetti delle nuove regole. Si predilige, quindi, un sistema che non è fondato sulla
partecipazione circoscritta ai soli gruppi rappresentativi di interessi per accrescere la legittimazione
democratica del regolatore evitandone la cattura da parte di gruppi corporativi di
pressione titolari di situazioni soggettive forti a livello economico o politico.
“Public consultation is highly developed in the United States. Almost all federal regulations
are developed through mandatory administrative procedures intended to ensure
public consultation and openness. These “notice and comment” procedures dominate the
rulemaking process in Washington by establishing the channels through which multiple interest
groups strive to influence the regulatory decision by developing empirical or legal arguments
supporting their positions.
The Administrative Procedure Act, enacted in 1946, establishes minimum procedural
requirements for rulemaking. While it leaves agencies great flexibility to develop procedures,
the Act requires that an agency publish a proposed rule in the Federal Register. Except
for some widely used exceptions, the public must be given at least 30 days to comment in
writing and the agency must consider any comments received. The comments themselves are
made public via the establishment of a legal rulemaking “record”, which contains all factual
material received and potentially relied upon in the regulatory decision. When an
agency publishes a final rule, it must explain the factual and logical basis for its decision,
how it reached its conclusion, and how it dealt with the public comments received. Where
tuttavia, segnalato la necessità di migliorare l’attuale procedura di notice and
comment che in più occasioni non ha portato i frutti auspicati per l’eccessivo
appesantimento procedimentale congegnato sulla falsariga di un autentico
processo, per la difficoltà dei cittadini di partecipare effettivamente alla
consultazione, atteso l’estremo tecnicismo delle questioni prospettate nella
proposta di regolazione non temperato da spiegazioni chiare del regolatore,
per il limitato accesso alla consultation dei soli operatori professionali –
unici soggetti a possedere i mezzi economici e tecnici per poter affrontare il
costo del confronto – che di fatto hanno utilizzato la procedura non a fini di
cooperazione ma quasi come un primo grado di giudizio (“That said, there
are serious problems with consultation that are rooted in the legalistic and
adversarial tendencies of the American regulatory system. Notice and comment
has tended to develop into a legalistic, formalistic process that can prevent
rather than promote dialogue, co-operation, and communication. The
role of the formal record in subsequent court challenges has too often meant
that interest groups use it as the first stage of litigation, rather than as an
honest inquiry. This has helped to discredit consultation. The Clinton
Administration noted that, in the past, the agencies had already made up
their minds even during the comment period and were unlikely to make changes
based on public comment. Too, effective ability to participate is often
limited by the complexity of the rules in question, particularly where scientific
or technical matters dominate. The failure of regulators to clearly state
the implications of regulatory decisions leaves the field to well-funded
experts representing highly organised interests. Rather than organising
information and communication, regulators have a passive role, in most
cases simply waiting for the public to respond” (50)).
312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
important new material is received, there may be a need for more than one round of comments.
Rules must be published not less than 30 days before becoming effective.
Written comments may be supplemented by a public hearing. Hearings tend to be formal
in character, with limited opportunity for dialogue or debate among participants.
Experimentation with “online” hearings has also commenced. A separate consultation process
on paperwork requirements is established by the Paperwork Reduction Act, which is
described below.
The American system of notice and comment has resulted in an extremely open and
accessibile regulatory process at the federal level that is consistent with international good
practices for transparency. The theory of this process is that it is open to all citizens, rather
than being based on representative groups. This distinguishes the method from those used in
more corporatist models of consultation, and also from informal methods that leave regulators
considerable discretion in who to consult. Its effect is to increase the quality and legitimacy of
policy by ensuring that special interests do not have undue influence” (OECD, OECD Reviews
of Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United States. Government Capacity to
Assure High Quality Regulation In the United States, Paris, 1999, 26-27 e Id., 2001, 22-23).
(50) OECD, OECD Reviews of Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United
States. Government Capacity to Assure High Quality Regulation In the United States, Paris,
1999, 26-27 e Id., 2001, 22-23.
Si è, altresì, evidenziato come siano state le stesse Istituzioni statunitensi
(Presidente Clinton e National Performance Review (51)) a stimolare le
Agencies verso una maggiore partecipazione degli interessati attraverso
metodologie più flessibili che consentano di raggiungere consistenti risultati
di miglioramento nella qualità della regolazione con una riduzione dei
costi amministrativi (52).
L’OCSE, riconoscendo che le stesse Istituzioni statunitensi hanno rilevato
che le Agencies federali difficilmente hanno modificato la propria proposta
di regolazione durante la consultazione pubblica, ha evidenziato come si
sia cercato di reagire al questo mal costume introducendo la c.d. “negotiated
rulemaking”, tesa a stimolare un’effettiva partecipazione degli interessati
nelle fasi iniziali del procedimento di regolazione che consenta di raggiungere
un consenso ampiamente condiviso tra tutti i gruppi esponenziali degli
interessi in gioco su proposte di regolazione che poi vengono assoggettate
all’ordinaria fase di notice and comment (53).
DOTTRINA 313
(51) Che ha approvato un rapporto finale in cui si indicano gli strumenti per assicurare
contestualmente il miglioramento dell’efficienza dell’Amministrazione e la riduzione dei
costi delle strutture pubbliche (Vice Presidente GORE, A., From red tape to results: creating
a government that works better and costs less. Report of the National Performance Review,
7 settembre 1993).
(52) “The key task is to marry a high level of transparency with development of a less
adversarial system for consultation. The National Performance Review considered the performance
of existing consultation processes. It concluded that, notwithstanding the extensive
consultation processes already in place, “without exception”, all groups wanted earlier and
more frequent consultation opportunities. Moreover, while these were potentially costly, there
were significant potential benefits in terms of greater regulatory quality and compliance.
NPR recommended that agencies investigate more flexible and more interactive means of
consultation, provide assistance to regulated groups to enable them to participate more effectively,
increase programme evaluation, and make better use of information technologies.
The 1993 Clinton executive order, too, dealt with a number of these concerns.
Consultation periods for proposed regulations have increased from an average of 30 to an
average of 60 days. Agencies were ordered to involve affected parties earlier in the regulatory
development process and to use consensual mechanisms such as negotiated rulemaking.
There has been progress, as noted above in the section on state co-ordination and
below in the discussion on negotiated rulemaking (though assessments indicate that this
approach has been unsuccessful to date). Another important reform with the potential to
transform access to the US consultation system is that public comments are now solicited
through the Internet, which has noticeably increased participation. The United States probably
conducts more communication with the public on regulatory matters through the
Internet than any other country. The limitations of this method in providing equal access in
practice have not, however, been adequately assessed” (OECD, OECD Reviews of
Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United States. Government Capacity to
Assure High Quality Regulation In the United States, Paris, 1999, 26-27 e Id., 2001, 22-23).
(53) “Negotiated rulemaking, new to the United States, is familiar in most OECD countries
where consensus-based approaches to regulation are used. Involvement of affected
parties in decisions seeks to improve regulatory performance in several ways: by drawing
on the expertise of the regulated to improve the technical quality of regulation; by fostering
Nel rapporto OCSE, tuttavia, pur mantenendo un giudizio nel complesso
positivo (54), si è segnalato che lo strumento non è decollato perché la
prassi applicativa non ha comportato alcuna riduzione dei tempi e dei costi
della regolazione né quella del contenzioso, atteso che la negotiated rulemaking
ha imposto esclusivamente l’introduzione di una nuova fase procedimentale
preliminare a quella della consultazione pubblica (notice and comment)
lasciando insolute tutte le questioni controverse su cui non sia stato
raggiunto un accordo in sede di negoziazione con successiva riproposizione
delle medesime in sede giurisdizionale (55).
314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
“ownership” of the outcome and, hopefully, the level of consent and voluntary compliance;
by increasing the legitimacy of regulations; by diminishing the risk of hostile litigation by
achieving a high degree of consensus; and by reducing the time to develop and implement
new rules.
The legalistic environment for rulemaking in the United States has discouraged consensus-
based approaches. The Negotiated Rulemaking Act of 1990 formalised a legal process
to bring stakeholders into the process of developing rules at an early stage. It sets out
a range of process requirements that establish a framework for attempts by regulators to
reach consensus among major regulated groups on new regulations. It is carried out via an
iterative, committee-based approach to rule development, with safeguards to ensure that all
significant interest groups have an opportunity to request involvement. The negotiation is an
additional element in the rulemaking process. The agreed text is published as a proposed
rule and undergoes subsequent consultation in the normal way” (OECD, OECD Reviews of
Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United States. Government Capacity to
Assure High Quality Regulation In the United States, Paris, 2001, 30-31).
(54) “Despite these concerns, it remains possible that negotiated rulemaking has
improved the technical quality of regulations. It seems to work best when there is a defined
number of players, and the issue is concrete and well-defined. As noted above, attempts to
reform consultation procedures in general have pointed toward the need for more intensive,
iterative procedures which commence far earlier in the development of regulatory proposals.
Negotiated rulemaking appears to respond to all of these requirements. Moreover, the
theoretical potential for it to compromise regulatory quality via the insertion of self-serving
elements in proposed rules by the parties must be much attenuated by the very open “notice
and comment” process which must be undertaken after the negotiations and by the real
threat of subsequent litigations.
There is also the possibility that a number of the shortcomings of negotiated rulemaking
result at least partly from relative inexperience with its use by all parties. If so, this may
be a self-sustaining problem, as agencies may be reluctant to extend their use of the process
precisely because early experiences are not favourable”(OECD, OECD Reviews of
Regulatory Reform. Regulatory Reform in the United States. Government Capacity to
Assure High Quality Regulation In the United States, Paris, 2001, 32).
(55) “While there were some experiments with negotiated rulemaking in the 1970s and
1980s, the passage of the Negotiated Rulemaking Act in 1990 gave it a higher profile in the
regulatory system. This innovation received significant political support. A 1993 executive
order asked agency heads to identify potential areas for negotiated rulemaking. By the end
of 1996 — or almost six years after the introduction of the Act — 17 agencies had initiated
at least one negotiated rulemaking. The total number of negotiated rule-makings was 67,
although approximately one quarter of these predated the introduction of the 1990 Act
which formalised the process. Agencies had abandoned the process without any consensus
5.1. I confini del sindacato giurisdizionale sugli atti di regolazione delle
Agencies. La judicial review sulle questions of law (la Chevron doctrine
come rivisitata in Mead e Christensen).
Venendo all’analisi dei confini del sindacato giurisdizionale (judicial
review (56)) sugli atti di regolazione (rules), va preliminarmente segnalato
DOTTRINA 315
in at least 13 of these cases. As these figure suggest, negotiated rulemaking carries risks.
The process can be resource intensive and yield little if agreement is not reached. The parties
may use the process as a rent seeking opportunity by trying to insert particular advantages
for their constituents into the regulation. The low rate of use suggests that regulators
are unconvinced as to the benefits of using the process or, alternatively, that the situations
where negotiated rulemaking can be useful are rare. Early assessments suggested that significant
time savings had been achieved by negotiated rulemaking, but a subsequent comprehensive
study disputes this finding and adds that not only has the process failed to save time,
it has also required a more intensive use of agency resources. This observation has intuitive
merit since the negotiated rulemaking process is conceived formally as an addition to
processes already mandated in the Administrative Procedure Act. The notice and comment
procedures still apply at the conclusion of negotiations. This design of negotiated rulemaking
reflects a desire to maintain an “open” process of consultation in all cases and avoid
charges of “corporatism” and lack of transparency, but results in a process still mired in
formalistic and time-consuming steps. Similarly, evidence suggests that negotiated rulemaking
has failed to reduce the incidence of legal challenge to regulations. Analysis of EPA’s
experience (EPA is the largest user of negotiated rulemaking) indicates that the incidence of
litigation is no lower than for conventionally made rules, despite the fact that the criteria
for use imposed by the Act would tend to favour the selection of rules which were likely to
be less prone to litigation. Possible explanations for this observation include the exclusion
of affected interests from the negotiations, the extent to which the final rule reflects the
agreed consensus and conflict over matters not dealt with in the agreements. It has also been
suggested that, by raising expectations of accommodation of private interests in the rulemaking
process, regulatory negotiation may make parties more sensitive to outcomes adverse
to their interests and so more inclined to litigate” (OECD, OECD Reviews of Regulatory
Reform. Regulatory Reform in the United States. Government Capacity to Assure High
Quality Regulation In the United States, Paris, 2001, 31-32).
(56) La Section 706 dell’APA stabilisce che “To the extent necessary to decision and
when presented, the reviewing court shall decide all relevant questions of law, interpret constitutional
and statutory provisions, and determine the meaning or applicability of the terms
of an agency action.
The reviewing court shall –
(1) compel agency action unlawfully withheld or unreasonably delayed; and
(2) hold unlawful and set aside agency action, findings, and conclusions found to be—
(A) arbitrary, capricious, an abuse of discretion, or otherwise not in accordance with law;
(B) contrary to constitutional right, power, privilege, or immunity;
(C) in excess of statutory jurisdiction, authority, or limitations, or short of statutory
right;
(D) without observance of procedure required by law;
(E) unsupported by substantial evidence in a case subject to sections 556 and 557 of
this title or otherwise reviewed on the record of an agency hearing provided by statute; or
(F) unwarranted by the facts to the extent that the facts are subject to trial de novo by
the reviewing court.
che il sistema statunitense si differenzia da quello europeo continentale non
solo per l’esistenza di una giurisdizione unica (57) ma anche perché talvolta
le previsioni normative impongono la necessità di impugnare gli atti regolamentari
entro un ristretto termine di decadenza (58).
316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In making the foregoing determinations, the court shall review the whole record or
those parts of it cited by a party, and due account shall be taken of the rule of prejudicial
error”.
Mancano nella Costituzione statunitense previsioni simili agli art. 24 e 113 Cost. che
assicurano il diritto di difesa sia in linea generale che specificamente in relazione alle controversie
nei confronti dell’Amministrazione.
Non sussistendo, quindi, un right to judicial review of Agencies action, sarebbe costituzionalmente
ammissibile che il Congresso implementi uno statute che escluda il diritto
d’azione in relazione a provvedimenti specifici dell’Amministrazione.
La Corte Suprema ha, tuttavia, precisato che in caso di assenza di previsione di legge
vale la presunzione di giustiziabilità delle decisioni (Abbott Laboratories v. Gardner, 387
U.S. 136 (1967)) e che, in ogni caso, il Congresso non può escludere l’esercizio del diritto
di difesa a tutela di situazione soggettive di rilievo costituzionale (Johnson v. Robinson, 415
U.S. 361 (1974)), pur se gli è consentito introdurre limiti allo stesso, quale la fissazione di
termini di decadenza (Yakus v. United States, 321 U.S. 414 (1944)).
L’ammissibilità del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Amministrazione viene per
la prima volta affermata in Inghilterra nell’ambito della common law nel celebre caso Dr.
Bonham (così JAFFE L., HENDERSON E., Judicial Review and the Rule of Law: Historical
Origins, 72 Law Quartely Rev., 345 (1956)) ove il menzionato dottore, nell’ambito di un’azione
risarcitoria esperita per il ristoro del danno derivatogli dalla reclusione conseguente
all’esercizio di professione medica senza la prescritta autorizzazione, richiese l’accertamento
preliminare dell’invalidità del diniego espresso dall’Amministrazione.
Successivamente il principio della sindacabilità degli atti delle Agencies si afferma
anche negli Stati Uniti attraverso gli strumenti dei writs (of certiorari e of mandamus), ove,
similmente al sistema inglese, la judicial review viene affidata ai giudici ordinari.
Tuttavia, anche a seguito di una posizione sostanzialmente negativa della Corte Suprema
in merito all’uso dei writs nei confronti delle Agencies (Degge v. Hitchcock, 229 U.S. 162
(1913)), il rimedio viene abbandonato anche perché il Congresso andava introducendo strumenti
di tutela di carattere sia generale [la c.d. federal question jurisdiction introdotta dalla
Sect. 1331, Title 28, U.S. Code in virtù della quale è sempre ammessa la tutela giurisdizionale
in relazione alla violazione di disposizioni federali nonché i rimedi previsti dal Mandamus
and Venue Act (ora Sect. 1361, Title 28, U.S. Code) e dal Civil Rights Act (ora Sect. 1343, Title
28, U.S. Code)] che speciale (relativi a specifiche azioni di diverse amministrazioni).
Si segnala, altresì, che, non sussistendo un’esecutorità generalizzata degli atti amministrativi,
le Agencies debbano agire innanzi alle corti per l’enforcement (esecuzione) delle
proprie decisioni, sovente l’illegittimità dei provvedimenti sia dedotta dai privati in via di
eccezione.
(57) La magistratura ordinaria è competente a risolvere le controversie impugnatorie e
risarcitorie tra privati ed Agencies pur se il processo di caratterizza rispetto a quello comune
per le specificità introdotte dal legislatore e dalla stessa giurisprudenza.
(58) In Yakus v. United States, 321 U.S. 414 (1944) la Corte Suprema ha ritenuto legittime
le previsioni di legge impositive di termini di decadenza per l’impugnazione degli atti
di regolazione anche se l’effetto è quello di impedire ogni contestazione delle rules nel successivo
contenzioso relativo all’impugnazione di atti applicativi di enforcement che indicano
su situazioni di rilievo costituzionale.
DOTTRINA 317
Circa gli statutory remedies, in linea generale e similmente al modello
europeo continentale, alla magistratura statunitense è stato riconosciuto il
potere di annullare i provvedimenti illegittimi impugnati con il successivo
rinvio alla Pubblica amministrazione per l’ottemperanza al giudicato (vacation
with remand). Si tratta, quindi, di un modello molto simile alla giurisdizione
di legittimità essendo escluso ogni potere sostitutivo della magistratura
(59). Tuttavia, in relazione agli atti di regolazione (rules) talune corti (60),
ritenendo inopportuna una decisione caducatoria che creerebbe pericolosi
vuoti normativi, si sono limitate a mere pronunce di accertamento dell’ille-
Sul punto (MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial
review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 105-106, 126 e 275-276) che
osserva efficacemente “Diverso è il problema del termine in ordine alla contestazione delle
rules dell’agenzia: solitamente, infatti, la contestazione dei regolamenti emanati dalle agencies
avviene in occasione di enforcement proceedings azionati dall’amministrazione a fronte
della violazione di tali norme da parte dei suoi destinatari. In tal caso, non sussiste evidentemente
un problema di termini di decadenza, poiché trattandosi di un judicial review
finalizzato alla difesa dell’interessato in un’azione promossa dall’amministrazione, non gli
sarà opponibile alcuna eccezione di tardività. Peraltro…non mancano casi in cui lo statute
prevede un breve termine di decadenza per la contestazione delle rules, talvolta con l’indicazione
della esclusività di tale via di ricorso (c.d. di pre-enforcement review). In tal caso,
ovviamente, la mancata contestazione delle rules potrà implicare decadenza, e la corte,
applicando la sopra citata sez. 703 dell’APA, dichiarerà inammissibile il judicial review
presentato nella successiva enforcement action. Diverso è il caso in cui manchi un’espressa
previsione legislativa sulla jurisdiction, nel senso che nessuna azione diretta per la contestazione
della final actions di una agency venga specificamente indicata dallo statue. In
tal caso, facendosi ricorso alla federal question jurisdiction dinanzi alle corti distrettuali,
non è rinvenibile alcun termine di decadenza. Essendo questa una giurisdizione di equità,
la stessa questione della tempestività dell’esercizio dell’azione è infatti assegnata alla
discrezionalità della corte” e ancora “Per le rules emanate dalle agencies è stabilito sempre
più frequentemente un rimedio statutory da azionarsi entro un termine breve, consistente
nella impugnazione diretta del regolamento. Molto spesso, inoltre, tale statutory review
non è il rimedio esclusivo a disposizione del cittadino, il quale prima di subire gli effetti
della regolamentazione può altresì ricorrere all’esperimento dell’azione ordinaria (solitamente
ai sensi della federal question jurisdiction) al fine di ottenere il sindacato di legittimit
à della regolamentazione amministrativa”.
(59) Una giurisdizione di merito con poteri sostitutivi della magistratura resta ipotizzabile
solo in presenza di una chiara indicazione della legge (statute).
Peraltro laddove in sede di remand non sussista alcun residuo potere discrezionale in capo
all’Agency e un ulteriore ritardo esporrebbe il ricorrente ad un ingiusto pregiudizio la corte può
indicare all’Amministrazione anche i procedimenti concreti da adottare (Faucher v. Secretary
of Health & Human Services, 17 F.3d 171, 176 (6th Cir. 1994); Cissell Mfg. Co. V. Dept. Of
Labour, 101 F.3d 1132 (6th Cir. 1996); Ward v. Brown, 22 F.3d 516 (2nd Cir. 1994)).
(60) Seguono questo orientamento, limitandosi all’accertamento dell’illegittimità
senza annullamento con rinvio all’Amministrazione, Mid-Tex Electric Cooperative v.
FERC, 773 F.2d 327 (D.C. Cir. 1985); Allied Signal Inc. v. NRC, 988 F.2d 146 (D.C. Cir.
1993); Idaho Farm Bureau Federation v. Babbitt, 58 F.3d 1392 (9th Cir. 1995). Si tratta solitamente
di fattispecie di illegittimità per vizi formali in cui si ritiene che la rules sia sostanzialmente
corretta. Se l’Agency non procede ad eliminare il vizio on remand qualunque integittimit
à con rinvio all’Agency (remand without vacation) per la predisposizione
di una nuova disciplina (61).
Con particolare riferimento alle modalità di espressione del sindacato
giurisdizionale sugli atti di regolazione la giurisprudenza della Suprema
Corte ha definito i confini della judicial review distinguendo il grado di deference
(“rispetto” o, meglio, “non intromissione”) riservato dalla magistratura
alle Agencies a seconda che si controverta su questioni di diritto (questions
of law o legal determinations), su questioni di fatto (questions of fact o factual
determination) oppure sul concreto esercizio della discrezionalità amministrativa
(discretion o policy) per l’applicazione delle regole di diritto alla
fattispecie concreta.
318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ressato può adire la corte per contestare l’inottemperanza (MCI Telecommunication v. FCC,
143 F.3d 606 (D.C.Cir. (1998)).
Tuttavia, va segnalato che manca nel diritto statunitense un rimedio simile al giudizio
di ottemperanza nostrano e a ciò si aggiunge la tendenziale riottosità delle corti ad accogliere
le istanze di condanna per contempt of court avanzate nei confronti delle Agency (Natural
Resources Defense Council Inc. v. Train, 545 F.2d, 329 (2nd Cir. 1976). In termini
MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle
Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 134-135).
Ove, per converso, le corti ritengano che l’Agency non sia in grado di emendare il vizio
a seguito del remand, si preferisce ricorrere all’annullamento (Chemical Manifacturers
Assn. V. EPA, 28 F.3d 1259 (D.C. Cir. 1994)) anche parziale (Davis County Solid Waste
Management v. EPA, 108 F.3d 1454 (D.C. Cir. 1997)).
L’altro orientamento, invece, afferma la necessità di annullare in ogni caso le rules
affette da illegittimità (Checkosky v. SEC, 23 F.3d 452, 466 (D.C. Cir. (1994)).
Per la descrizione delle varie tesi giurisprudenziali LEVIN R.M., “Vacation” at Sea:
Judicial remedies and Equitable Discrezion in Administrative Law, 53 Duke Law Journal,
291, 2003.
(61) “La tipica pronuncia del giudice del judicial review amministrativo è dunque
costitutiva, salvo che (in presenza di rules) la rimozione dell’atto non appaia alla corte
inopportuna, nel qual caso il giudice può limitarsi a pronunciare una sentenza di accertamento
operando il remand alla agency affinchè riprovveda in conformità del decisum. In
questo ultimo caso, non dispone l’immediata caducazione dell’atto”, “Non raramente, tuttavia,
il giudice può anche decidere di rimandare all’amministrazione una decisione di cui
ha accertato l’illegittimità senza disporne l’annullamento: ciò accade…soprattutto in relazione
al sindacato operato sugli atti normativi (rules), qualora la corte consideri inopportuno
determinare, attraverso l’annullamento, una sorta di vuoto di disciplina. In tal caso, il
giudice accerta l’esistenza di una causa di invalidità della decisione adottata dall agency,
ma non ne dispone la rimozione dei casi in cui ritenga possibile la correzione del vizio nel
reasoning process operato dalla amministrazione on remand: essa dunque continuerà a
produrre i suoi effetti, salvo l’obbligo dell’amministrazione di provvedere a sanare il vizio
in conformità della decisione della corte” e ancora “talvolta, infatti, il sindacato sulle rules
emanate dall’amministrazione, si conclude, nonostante l’accertata illegittimità delle stesse,
con un remand without vacation, giustificato dalla necessità di non provocare un indesiderato
vuoto normativo. In questo caso l’amministrazione dovrà riprovvedere, senza che si
produca però alcuna soluzione di continuità in termini di efficacia delle norme stesse”
(Marchetti B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle
Administrative Agencies, CEDAM, 2005, rispettivamente p. 115, 118-119 e 133).
In relazione alle questioni di diritto, si dovrebbe ritenere che, essendo le
corti costituzionalmente titolari del potere di interpretare le leggi (U.S. Cost.,
art. III), atteggiamenti giudiziari di non ingerenza non dovrebbero essere
consentiti o, comunque, dovrebbero essere strettamente limitati. Dall’esame
degli orientamenti della giurisprudenza statunitense, per converso, si evince
che il grado di deference serbato nei confronti dell’operato dell’Amministrazione
è molto alto.
Ad un iniziale orientamento (62) di profondo rispetto delle scelte delle
Agencies se ne è affiancato un altro (63) che, viceversa, ha affermato l’ammissibilit
à, anzi la necessità, di una de novo review sulle questions of law
controverse su cui l’Agency si sia pronunciata.
Gli orientamenti sono stati composti dalla Corte Suprema nel celebre
caso Chevron (64) dove, facendo leva sull’exepertise e l’accountability delle
DOTTRINA 319
(62) La Corte Suprema ha manifestato un atteggiamento molto deferente in relazione
alle scelte delle Agencies in Rochester Telephone Corp. v. United States, 307 U.S. 125
(1939); Gray v. Powell, 314 U.S. 402 (1941); National Labor Relations Board v. Hearst
Publications, 322 U.S. 111 (1944) e Skidmore v. Swift, 323 U.S. 134 (1944).
(63) Il Supremo consesso di giustizia federale ha tenuto una posizione molto meno
rispettosa in NLRB v. Insurance Agents, 361 U.S. 477 (1960); Morton v. Ruiz, 415 U.S. 199
(1974); NLRB v. Bell Aerospace, 416 U.S. 267 (1974); FEC v. Democratic Senatorial
Campaign Comm., 454 U.S. 27 (1981); Alcoa v. Central Lincoln People’s Util. Dist., 467
U.S. 380 (1984).
(64) Chevron U.S.A. v. Natural Resources Defense Council Inc., 467 U.S. 837 (1984).
Sono sconfinati i riferimenti alla dottrina statunitense che si è occupata della Chevron
doctrine e del suo successivo percorso evolutivo. Tra i tanti contributi si segnalano
ANDERSEN W.R., Against Chevron – A Modest Proposal, 56 Admin. Law Rev., 2004, 957;
BREYER S.G., Judicial Review of Questions of Law and Policy, 38 Admin. Law Rev., 1986,
363; BYSE C., Judicial Review of Administrative Interpretation of Statutes: An Analysis of
Chevron’s Step Two, 2 Admin Law Journal, 255 (1988); JORDANW.S., Judges, Ideology and
Policy in the Administrative State: Lessons from a Decade of Hard Look Remands of EPA
Rules, 53 Admin. Law Rev., 45 (2001); MCGRUNTHER J.J., Chevron v. Stare Decisis: Should
Circuit Courts Follow Judicial Precedent or Defer Agencies as Mandated in Chevron
U.S.A., Inc. v. NRDC?, 81 Wash. Univ. Law Q., 611 (2003), ; MERRILL T., Judicial
Deference to Executive Precedent, 101 Yale Law Journal, 969 (1992); Id., Textualism and
the Future of the Chevron Doctrine, 72 Wash. Univ. Law Q., 351 (1994); PIERCE R., Chevron
and its Aftermath: Judicial Review of Agency Interpretations of Statutory Provisions, 41
Vand Law Rev., 301 (1988); Note, “How Clear is Clear” in Chevron’s Step One?, 118 Harv.
Law Rev., 1687 (2005); SCALIA A., Judicial Deference to Administrative Interpretations of
Law, Duke Law Journal, 511 (1989); SCHUCK P.H., ELLIOTT D.E., To The Chevron Station:
an empirical Study of federal Administrative Law, 984 Duke Law Journal, 1022 (1990);
STARR K., Judicial Review in the Post-Chevron Era, 3 Yale Journal Reg., 283 (1986);
STEPHENSON M.C., Mixed Signals: Reconsidering the Political Economy of Judicial
Deference to Administrative Agencies, 56 Admin. Law. Rev., 2004, 657.
In Italia cfr. CARLI C., Il caso Chevron. Interpretazione del giudice e interpretazione
dell’amministrazione negli Stati Uniti, Riv. Trim Dir. Pubbl., 1995, 971.
L’ambiguità dello statute profilata in Chevron s’incentrava sulla definizione di stationary
source posta da un emendamento del 1977 al Clean Air Act che obbligava gli Stati che
non avessero raggiunto i livelli di qualità ambientale posti dall’EPA a stabilire rigorose proAgencies,
il Supremo consesso di giustizia federale ha affermato che in caso
di ambiguità della legge (statute) deve ritenersi presente una delega implicita
di potere alle Agencies da parte del Congresso di tal che le prime sono
legittimate a fornire la loro interpretazione delle norme primarie anche attraverso
propri atti di regolazione che comunque sono assoggettati a sindacato
di ragionevolezza da parte delle corti federali.
In Chevron la Corte Suprema ha, quindi, ritenuto che quando il Congresso
“has explicitly left a gap for an agency to fill there is an express delegation of
authority to the agency to elucidate a specific provision of the statute by regulation
… any ensuing regulation is binding in the courts unless procedurally
defective, arbitrary or capricious in substance, or manifestly contrary to the
statute”. Accanto alle situazioni in cui vi sia un delega espressa di potere normativo
alle autorità federali in relazione all’“administrative implementation of
a particular statutory provision” da cui discenda la “Congress delegated
authority to the agency generally to make rules carring the force of law”, vi
sono quelle situazioni in cui la delega non è espressa ma implicita in quanto
necessaria e scaturente dall’interpretazione sistematica (65) dello statute della
cui attuazione è incaricata l’Agency che ha adottato il provvedimento impugnato
(“agency in charged with applying a statute it administers”).
320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
cedure di autorizzazione per l’installazione di fonti stabili di inquinamento atmosferico (stationary
source). Il Natural Resources Defense Council (NRDC) propose ricorso avverso
l’atto di regolazione dell’EPA con cui si stabiliva, contrariamente alla precedente disciplina
più protettiva approvata dalla stessa Agency, che non ci sarebbe stato più bisogno di autorizzazione
per le modifiche degli impianti (purchè ciò non comportasse un incremento delle
emissioni totali della fonte inquinante) atteso che il termine stationary source doveva essere
interpretato come riferito alla fonte inquinante nel suo complesso. La corte d’appello
annullò l’atto di regolazione in quanto inadeguato rispetto al perseguimento degli obiettivi
di riduzione dell’inquinamento dell’aria. La Corte Suprema, invece, ribaltò la decisione di
annullamento affermando la legittimità delle rules impugnate atteso che in relazione alla
questione specifica non sussisteva una chiara volontà del Congresso e che la scelta del regolatore
costituiva un ragionevole contemperamento degli interessi in gioco alla luce del complesso
quadro tecnico e normativo.
(65) “This Court in Chevron recognized that Congress not only engages in express delegation
of specific interpretative authority, but that sometimes the legislative delegation to an
agency on a particular question is implicit. Congress, that is, may not have expressly delegated
authority or responsibility to implement a particular provision or fill a particular gap. Yet
it can still be apparent from the agency’s generally conferred authority and other statutory
circustamces that Congress would expect the agency to be able to speak with the force of law
when it addresses ambiguity in the statute or fills a space in the enalcted law, even one about
which “Congress did not actually have an intent” as to a particular result. When circustamces
implying such an expectation exist, a reviewing court has no business rejecting an agency
’s exercise of its generally conferred authority to resolve a particular statutory ambiguity
simply because the agency’s choses resolution seems unwise but is obliged to accept the
agency’s position if Congress has not previously spoken to the point ai issue and the agency
’s interpretation is reasonable (a reviewing court shall set aside agency action, findings, and
conclusions found to be arvitrary, capricious, an abuse of discretion, or otherwise not in
accordance with law)” (United States v. Mead Corp., 533 U.S. 99-1434 (2001)).
In altri termini, per il rispetto del principio di legalità (rule of law) secondo
la Corte Suprema, è necessario che lo statute sia equivoco (perché ove sia chiaro
l’Agency non può adottare una disciplina contrastante con la volontà espressa
dal Congresso (66)), potendo tale ambiguità essere sciolta dall’Autorità di
regolazione con un propria rules che è legittima ove permissibile cioè ragionevole
alla luce degli obiettivi e della disciplina già contenuta nello statute.
L’applicazione dei principi sanciti dalla Corte Suprema in Chevron è stata,
tuttavia, problematica maturandosi nella giurisprudenza federale successiva un
palese contrasto tra una lettura forte e un’altra debole della Chevron doctrine sia
in relazione allo step one (afferente la verifica dell’ambiguità dello statute (67))
che in riferimento allo step two (relativo al sindacato di ragionevolezza (68)).
DOTTRINA 321
(66) Si veda al riguardo INS v. Cardoza-Fonseca, 480 U.S. 421 (1987) ove si censura
l’attività di regolazione dell’Agency in quanto non consentita dalla previsioni dello statute
espressive della chiara volontà del Congresso.
(67) Note, How Clear is Clear in Chevron’s Step One?, Harv. Law Rev., 1687 (2005).
La valutazione dell’esistenza di un’ambiguità nello statute è quanto mai problematica
in giurisprudenza. Dall’esito positivo di tale giudizio dipende l’applicazione della Chevron
doctrine.
Ritengono ambiguo lo statute Chemical Manufacturers Ass’n v. Natural Resources
Defense Council, 470 U.S. 116 (1985); Young v. Community Nutrition Institute, 476 U.S.
974 (1986); National R. Passenger Corp. v. Boston & Maine Corp., 503 U.S. 407 (1992).
Affermano, per converso, la chiarezza delle disposizioni di legge interpretate
dall’Agency K-Mart Corp. v. Cartier Corp., 486 U.S. 281 (1988); Mississipi Power & Light
Co. v. Mississipi Ex Rel. Moore, 487 U.S. 354 (1988); Dole v. United Steelworkers, 494 U.S.
26 (1990); Pauley v. Bethenergy Mines Inc., 501 U.S. 680 (1991); Food and Drug
Administration v. Brown & Williamson Tobacco Corporation, 529 U.S. 120 (2000).
È stato efficacemente osservato che “le conseguenze delle due diverse interpretazioni
sono evidenti: nel primo caso, una ricostruzione difficoltosa ed articolata del significato
della norma porterà ad un giudizio di probabile ambiguità, che porterà a legittimare la
deference della corte. Nel secondo caso, invece, il carattere convincente del risultato finale
della interpretazione operata dai giudici aprirà la possibilità del de novo review, senza
che rilevi lo sforzo compiuto dai giudici per perbìvenirvi” (MARCHETTI B., Pubblica
Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies,
CEDAM, 2005, 220).
(68) Affermata la natura ambigua della previsione di legge, la corte potrà spingersi a
valutare la ragionevolezza della rule dell’Agency alla luce del contenuto normativo, degli
obiettivi dello statute nonchè della effettiva valutazione da parte dell’Autorità delle possibili
alternative regolatorie (Detroit/Wayne County Port Authority v. ICC, 59 F.3d 1314 (D.C.
Cir. 1995); National Mining Association v. EPA, 59 F.3d 1351 (D.C. Cir. 1995)).
In giurisprudenza è stato oggetto di ampio dibattito la questione afferente i rapporti tra
il sindacato di ragionevolezza consentito dallo step two di Chevron e quello ammesso da
State Farm (Motor Vehicle Manufacturers Ass’n v. State Farm Mutual Automobile Insurance
Co., 463 U.S. 29 (1983)) sulla arbitrarietà della scelta discrezionale dell’Agency.
Secondo un primo orientamento i test sarebbero identici (Consumer Madison Gas &
Elec. Co. v. EPA, 25 F.3d 526 (7th Cir. 1994); Athens Community Hosp. V. Shalala, 21 F.3d
1176 (D.C. Cir. 1994); Cincinnati Bell Telephone Co. v. FCC, 69 F.3d 752 (6th Cir. 1995);
Consumer Federation of America v. Departement of Health & Human Services, 83 F. 3d
Tale circostanza ha aggravato il rischio di una rinuncia da parte dei giudici
al proprio ruolo di interprete privilegiato della legge non solo in relazione
alle questioni miste di fatto e di diritto (mixed questions of law and fact)
ma anche per le pure questioni di diritto (pure legal questions).
In realtà la Chevron doctrine di fatto consente alle corti federali un atteggiamento
di deferenza nei confronti dell’azione regolatoria delle Agencies
avente ad oggetto l’interpretazione della disciplina primaria (cui le stesse
dovrebbero essere soggette) che dovrebbe essere, per converso, sempre controllata
e verificata dalla magistratura. Peraltro, in questo modo, una lacuna
o un’ambiguità normativa si risolve sempre a vantaggio dell’Autorità di
regolazione che può risolverle attraverso proprie rules sull’assunto che il
Congresso, preponendo al settore un’entità fornita di conoscenze tecniche e
di indipendenza dal potere politico ed economico, abbia voluto comunque
implicitamente delegarle ogni potere necessario ad attuare gli obiettivi della
sua policy, purché tale azione sia ragionevole e non in contrasto con il sistema
delineato dallo statute.
La forza di resistenza alla judicil review degli atti regolazione delle
Agencies adottati in forza di una delega implicita è stata attenuata dalla stessa
Corte Suprema in Mead (69).
Mentre in Chevron la delega implicita di potere era equiparata a quella
esplicita e, conseguentemente, il sindacato giurisdizionale era limitato
all’irragionevolezza dell’interpretation (70) dell’Agency, in Mead la Corte
Suprema fa un salto indietro nel tempo recuperando quanto sostenuto in un
precedente caso risalente al 1944 (Skidmore v. Swift & Co., 323 U.S. 1134
(1944)).
322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
1497 (D.C. Cir. 1996); Animal Legal Defense Fund v. Glickman, 204 F.3d 229 (D.C. Cir.
2000)) mentre in altre pronunce si sostiene il carattere differenziato delle valutazioni affermando
che una certa interpretazione del statute potrebbe ben essere irragionevole (impermissible),
pur non essendo espressione di una decisione discrezionale arbitraria (Continental
Air Lines v. Departement of Transportation, 843 F.2d 1444 (D.C. Cir. 1988); Arent v.
Shalala, 70 F.3d 610 (D.C. Cir. 1995); Republican National Comm. V. Federal Election
Comm., 76 F.3d 400, 407 (D.C. Cir. 1996)).
(69) United States v. Mead Corp., 533 U.S. 99-1434 (2001).
(70) Si consideri quanto affermato dal giudice Scalia, nella dissentin opinion alla sentenza
Mead, che, citando, non senza ostentare un tono polemico, la giurisprudenza della
stessa Corte Suprema successiva a Chevron (“We accord deference to agencies under
Chevron because of a presumption that Congress, when it left ambiguity in a statute meant
for implementation by an agency, understood that the ambiguity would be resolved, first and
foremost, by the agency, and desired the agency (rather than the courts) to possess whatever
degree of discretion the ambiguity allows ”) ed esponendo il contenuto originario della
Chevron doctrine (“The doctrine of Chevron – that all authoritative agency interpretation
of statute they are charged with administering deserve deference – was rooted in a legal presumption
of congressional intent, important to the division of powers between the Second
and third Branches. When, Chevron said, Congress leaves an ambiguity in a statute that is
to be administered by an executive agency, it is presumed that Congress meant to give the
In Skidmore veniva sostenuto che la forza di resistenza alla judicial
review dipende dal “grado di persuasività” che presenta la regola imposta
dall’Agency (“the amount of weight given to an agency statutory interpretation
depends upon the thoroughness evident in its consideration, the validity
of its reasoning, its consistency with earlier and later pronuoncements, and
all those factors which give it power to persuade, if laking power to control
”). Si affermava, altresì, che l’attività regolamentare e/o interpretativa
delle Federal Agencies avrebbe meritato il rispetto (deference) delle corti
attesa la loro ampia conoscenza ed esperienza tecnica nel settore cui sono
preposte dal Congresso (“agency’s interpretation may merit some deference
given the specialized experience and broader investigations and information
available to the agency”).
In Mead la Corte, recuperando quanto affermato in Skidmore, sostiene
che Chevron non ha cancellato Skidmore e che, quindi, le due pronunce
vadano lette in modo complementare.
Secondo quanto sancito innovativamente dalla Corte Suprema in Mead,
quindi, la Chevron doctrine, che limita la judicial review sugli atti delle
Agencies al sindacato di irragionevolezza, non è abbandonata anzi è prevalente.
Ove, tuttavia, la stessa non possa trovare applicazione torna a valere
Skidmore che consente un sindacato giurisdizionale più esteso e dipendente
dal grado di persuasività della scelta regolatoria.
Le corti, pertanto, devono chiedersi quando si applichi l’uno o l’altro
precedente.
Ciò secondo Mead può dipendere dalla tipologia e dalla natura giuridica
dell’atto impugnato e dalle modalità procedimentali seguite dall’Agency nell
’adozione dello stesso.
Ove venga in rilevo un atto di regolazione anche solo di natura interpretativa
che sia stato adottato sulla base di una delega espressa da parte dal
Congresso e/o sia stato adottato con modalità precedimentali “partecipative
aggravate” (ad es. quelle previste nell’Administrative Procedure Act) si
applica Chevron che impone un sindacato “debole”, in quanto limitato alla
DOTTRINA 323
agency discretion, within the limits of reasonable interpretation, as to how the ambiguity is
to be resolved. By committing enforcement of statute to an agency rather than courts,
Congress committed its initial and primary interpretation to that branch as well”), afferma
“Today the court collapses this doctrine announcing instead a presumption that agency
discretion does not exist unless the statute, expressly or impliedly, says so. … The court has
largely replaced Chevron with that test most beloved by a court unwilling to be held to rules
(and most feared by litigants who wants to know what to expect): th’ ol’“totality of the circumstances
test”. What was previously a general presumption of authority in agencies to
resolve ambiguity in the statutes they have been authorized to enforce has been changed to
a presumption of no such authority, which must be overcome by affirmative legislative intent
to the contrary. And whereas previously, when agency authority to resolve ambiguity did not
exist the court was free to give the statute what is considered the best interpretation, henceforth
the couet must supposedly give the agency viwe some indeterminate amount od so-called
Skidmore deference ”.
sola irragionevolezza della regola adottata (cd judicial deference) (71): si
tratta, tra l’altro, delle ipotesi di “adjudications or notice-ad-comment rulemaking
or by some other indication of comparable congressional intent (or
by some other method by which Congress intended to grant comparable lawmaking
authority)” (72).
La Corte, peraltro, ammette che anche altri atti delle Agencies pur se non
adottati con procedure di adjudication o di notice-and-comment rulemaking
possano beneficiare della Chevron deference (73). Tuttavia, in queste fattispecie,
l’assenza di una procedura “formale di garanzia” richiederebbe un’analisi
più dettagliata che sembrerebbe essere simile a quella prevista in
Skidmore.
In tutti gli altri casi, gli atti delle Agencies potranno essere assoggettati a
judicial review in base a quanto affermato in Skidmore, cioè in ragione del
grado di persuasione che reca la regola o l’interpretazione dell’Agency, valutazione
che sarà effettuata con il c.d. “totality of circustamces test” (“thoroughness
evident in its consideration, the validity of its reasoning, its consistency
with earlier and later pronuoncements, and all those factors which
give it power to persuade, if laking power to control”) (74).
324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(71) “It is fair to assume generally that Congress contemplates administrative action
with the effect of law when it provides for a relatively formal administrative procedure
tending to foster the fairness and deliberation that should underlie a pronouncement of
such force. Cf. Smiley v. Citibank (South Dakota), N.A., 517 U.S. 735, 741 (1996) (APA
notice and comment “designed to assure due deliberation”). Thus, the over whelming
number of our cases applying Chevron deference have reviewed the fruits of notice-andcomment
rulemaking and adjudication. That said, and as significant as notice-and-comment
is in pointing to Chevron authority, the want of that procedure here does not decide
the case, for we have something found reasons for Chevron deference even when no such
administrative formality was required and none was afforded, see, e.g., NationsBank of
N.C., N.A. v. Variable Annuality Life Ins. Co., 513 U.S. 251, 256-257(1995). The fact that
the tariff classification here was not a product of such formal process does not alone, therefore,
bar the application of Chevron” (United States v. Mead Corp., 533 U.S. 99-1434
(2001)).
(72) United States v. Mead Corp., 533 U.S. 99-1434 (2001).
(73) Come già affermato in NationsBank of N.C., N.A. v. Variable Annuality Life Ins.
Co., 513 U.S. 251, 256-257(1995).
(74) LASTOWKA J.A., SAPPER A.G., The Supreme Court substantially cuts back on
Chevron deference, Energy & Mineral Law Annual institute Proceedings, 2001, 20 (“The
essence of Mead and Christensen together is that Chevron-style deference applies only to
agency interpretations that result from formal adjudication, notice-and-comment rulemaking,
or through some other method by which Congress intended to grant comparable lawmaking
authority. Where Chevron does not apply, the agency’s statutory interpretation is
reviewed de novo and is entitled only to “weight” under Skidmore v. Swift &Co. Skidmore
holds that the amount of weight given to an agency’s statutory interpretation depends upon
“the thoroughness evident in its consideration, the validity of its reasoning, its consistency
with earlier and later pronouncements, and all those factors which give it power to persuade,
if laking power to control””).
Peraltro, la Corte Suprema, richiamando una propria decisione
(Christensen v. Harris County, 529 U.S. 576 (2000)) (75), chiarisce che le
risposte a quesiti (ruling letters) anche se aventi portata generale (classification
rulings) non beneficiano della Chevron deference come pure le mere
interpretazioni contenute in policy statements, agency manuals e enforcement
giudelines, che sono adottate solitamente senza i rigorosi crismi procedimentali
che attribuiscono il “grado di persuasività” (“weight”) richiesto da
Skidmore. Nel caso in cui detto grado di persuasività non sia raggiunto, dunque,
le corti federali potranno conoscere dell’operato delle Agencies non
applicandosi il sindacato debole di cui alla Chevron judicial deference.
5.2. La judicial review sulle questions of fact: l’omologazione concreta dell
’arbitrary and capricious test (elaborato per l’informal rulemaking procedure)
al substantial evidence test (applicato alla formal rulemaking procedure).
Salvo che la legge (statute) prescriva espressamente una de novo facto
review (76), la giurisprudenza statunitense ha elaborato due formule finalizzate
a delimitare i confini del sindacato giurisdizionale sulle controversie
aventi ad oggetto questions of fact.
Al di là delle differenze terminologiche l’arbitrary and capricious test
elaborato dalla giurisprudenza in relazione all’informal rulemaking procedure
nelle applicazioni concrete tende a somigliare sempre più al substantial
evidence test (77) applicato dalle corti alla formal rulemaking procedure.
DOTTRINA 325
(75) Si trattava dell’impugnazione di un’opinion letter emessa dal Department of
Labor in relazione all’interpretazione da dare al fair Labor Standards Act (FLSA 1938),
nella parte in cui riconosceva agli Stati e alle loro suddivisioni politiche di attribuire in luogo
del corrispettivo monetario un periodo di riposo compensativo, per il lavoro straordinario
prestato dai propri lavoratori. La Corte Suprema ha stabilito che “A Department of Labor
opinion letter taking the position that an employer may compel the use of compensatory time
only if the employee has agreed in advance to such a practice is not entitled to deference
under Chevron. Interpretations such as those in opinion letters – like interpretations contained
in policy statements, agency manuals, and enforcement guidelines, all of which lack the
force of law – do not warrant Chevron style deference. They are entitled to respect but only
to the extent that they are persuasive according to Skidmore” (Christensen v. Harris County,
529 U.S. 576 (2000)).
(76) Secondo la Corte Suprema la de novo judicial review comporta una nuova autonoma
rivalutazione dei fatti da parte della corte senza che le adeguate acquisizioni istruttorie
dell’Agency possano bloccare i poteri giudiziari di accertamento (“an indipendent determination
of the issue … unfettered by any prejudice from the (prior) agency proceeding and
free from any claim that the (agency) determination is supported by a substantial evidence”
Chandler v. Roudebush, 425 U.S. 840 (1976) e Renegotiation Bd. V. Bannercraft Coating
Co., 415 U.S. 1, 23 (1974)).
(77) Il substantial evidence test, sancito dalla Corte Suprema nel 1913 (ICC v. Lousville
& Nashville R.R., 227 U.S. 88 (1913)), è stato positivizzato per tutte le Agencies nel 1946
con la Section 706 (2, E) dell’Administrative Procedure Act “The reviewing court shall hold
unlawful and set aside agency action, findings, and conclusions found to be unsupported by
Questa omologazione dei due test ha portato la dottrina statunitense ad
auspicarne la riconduzione ad unità (78) anche perché entrambi si prestano
ad applicazioni divergenti da parte della giurisprudenza che manifesta sia
orientamenti restrittivi (minoritari) che deferenti (prevalenti).
Per i procedimenti formali (formal rulemaking), in cui la decisione
dell’Agency è preceduta da un’attività conoscitiva svolta con forme equiparabili
al contraddittorio processuale, la giurisprudenza, prendendo a modello
la review operata dalle corti superiori sulle decisioni dei giudici inferiori, ha
affermato che in presenza di atti di regolazione fondati su una substantial
evidence (elementi di prova tali che qualunque persona ragionevole accetterebbe
come idonei ed adeguati a supportare una decisione) scatta una presunzione
di attendibilità delle determinazioni amministrative che assicura l’intangibilit
à delle scelte da parte delle corti. In Universal Camera Corp. V.
NLRB (79) la Corte Suprema, confermando per certi versi gli orientamenti
tradizionali, ha chiarito che il substantial evidence test consente al giudice di
verificare le risultanze istruttorie poste dall’Agency a fondamento delle proprie
scelte senza impedire l’accertamento dell’illegittimità di una determinazione
amministrativa che non abbia alcun fondamento nelle prove raccolte
durante la procedura formale. Implicitamente la decisione manifesta un
atteggiamento di forte deferenza poiché è sufficiente ad escludere la judicial
review una scelta dell’Agency supportata da un qualche elemento di prova
ragionevole (substantial evidence) (80).
326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
substantial evidence in a case subject to sections 556 and 557 of this title or otherwise reviewed
on the record of an agency hearing provided by statute”.
In precedenza era stato previsto ex lege solo per la FTC dal Federal Trade Commission
Act 1914 (ora 15 U.S. Code, § 15).
La giurisprudenza lo aveva comunque applicato costantemente (NLRB v. Columbian E
& S.Co., 306 U.S. 292 (1939); Consolidated Edison v. NLRB, 305 U.S. 197 (1938)).
In dottrina per un’analisi approfondita delle applicazioni giurisprudenziali del substantial
evidence test COOPER J., Administrative Law: The Substantial Evidence Rule, 44 A.B.A.
Journal, 945 (1958) e JAFFE L., Judicial Review: Substantial Evidence on the Whole Record,
64 Harv. Law Rev., 1233 (1951).
(78) “We think that the time will soon come when reviewing courts agree that the arbitrary
and capricious test, as the test is applied to findings fact, is functionally indistinguishable
from the substantial evidence test … uniform application of the substantial evidence
test to all agency findings of fact would eliminate some of the unnecessary confusion that
now affects the law of substantive review of agency action” (PIERCE R.J., SHAPIRO S.A.,
Verkuil P.R., Administrative Law and Process, New York, 1999, 368).
(79) Universal Camera Corp. V. NLRB, 340 U.S. 474 (1951).
(80) Circa l’approccio deferente in relazione alle controversie su questions of fact di atti
di regolazione approvati all’esito di procedure formali, è stato osservato che “…i giudici
seguono nell’applicazione del substantive evidence test alcune linee guida significative di
tale approccio deferente. Secondo tali principi guida non costituisce substantial evidence una
diceria (hearsay) che sia “opposed by competent evidence”, una conclusione della agency
contraria ad una testimonianza (non contraddetta), una prova debole (slight) e vaga
(sketchy) in termini assoluti, o una prova che possa considerarsi slight in relazione a più soliIn
relazione ai procedimenti informali (informal rulemaking), in cui l’attivit
à conoscitiva che precede la decisione dell’Agency si svolge secondo forme
non rigorose e flessibili, la giurisprudenza ha elaborato l’arbitrary and capricious
test in virtù del quale una scelta dell’Agency per non essere considerata
arbitraria e irragionevole deve avere un qualche fondamento probatorio. Circa
la corposità dei rilievi istruttori su cui l’Agency può legittimamente basare le
proprie decisioni regolatorie la Corte Suprema in Pacific State Box & Basket
Co. V. White (81) ha manifestato la propria deference rispetto alla decisione
dell’Agency impugnata ritenendola non arbitrary né capricious. La giurisprudenza
successiva, salvo un caso isolato (Ethyl Corp. V. EPA (82)), ha seguito
l’orientamento del Supremo consesso di giustizia federale.
Al di là delle formule utilizzate è stato da più parti osservato che i test
tendono sostanzialmente a somigliarsi in quanto il fondamento istruttorio
richiesto affinchè una regolazione adottata con la procedura informale non
abbia carattere arbitrario non potrebbe essere diverso da quello necessario
per affermare la legittimità di rules approvate con procedura formale. In altri
termini, anche in relazione all’informal rulemaking, al di là della diversa
locuzione utilizzata (arbitrary and capricious), sarebbe comunque necessaria
(e sufficiente) la presenza della substantial evidence (83).
DOTTRINA 327
di elementi probatori di segno contrario. Inoltre, la circostanza che un ALJ sia giunto a conclusioni
divergenti rispetto a quelle della agency così come l’esistenza di opinioni divergenti
all’interno della agency costituiscono significant factors che depongono nel senso del mancato
assolvimento del substantial evidence test. Infine, le corti tendono a negare la substantial
evidence quando l’amministrazione dà sistematicamente credito ai propri testimoni, screditando
quelli della parte avversa” (MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli
Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 225).
Tra le decisioni che seguono un atteggiamento deferente in linea con Universal
Camera si segnalano Elliot v. Commodity Futures Trading Commission, 202 F.3d 926 (7th
Cir.2000), Earle Industries v. NLRB, 75 F.3d 400 (8th Cir. 1996), Sanchet v. Charter, 78 F.3d
305 (7th Cir. 1996).
Di recente, tuttavia, la Corte Suprema ha accolto un orientamento meno deferente
(Allentown Mak Sales and Service v. NLRB, 522 U.S. 359 (1998)).
(81) Pacific State Box & Basket Co. V. White, 296 U.S. 176 (1935).
(82) Ethyl Corp. V. EPA, 541 F.2d 35 (D.C. Cir. 1976).
Con questa decisione la corte d’appello ha annullato la regolazione impugnata ritenendo
insufficienti gli elementi fattuali su cui l’Agency aveva giustificato la propria regolazione.
(83) Anche il giudice Scalia nell’opinion resa nel caso Association of Data Processing
Service Organization Inc. v. Board of Governors of the Federal Reserve System, 745 F.2d 677
(D.C. Cir. 1984) ha affermato l’equiparazione tra i test nella verifica della sufficienza degli elementi
istruttori posti dall’Agency a fondamento della propria scelta regolatoria (“when the
arbitrary and capricious standard is performing that function of assuring factual support,
there is no substantive difference between what it requires and what would be required by the
substantial evidence test, since it is impossibile to conceive of a “nonarbitrary” factual judgement
supported only by evidence that is not substantial in the APA sense”).
Tra le decisioni che ritengono sostanzialmente identici i due test Pacific Legal
Foundation v. DOT, 593 F.2d 1338 (D.C. Cir. 1979), Associated Industries v. U.S. Dept. Of
Labour, 487 F.2d 342 (2nd Circ. 1973), Aman v. FFA, 856 F.2d, 946 (7th Cir. 1983).
5.3. La judicial review sulle scelte di policy (discretion) dell’Agency (l’hard
look doctrine di State Farm).
Superando l’originario orientamento restrittivo, la Corte Suprema nei casi
Overton Park (1971) (84) e State Farm (1983) (85) ha sancito l’ammissibilità
di un sindacato giurisdizionale sulle scelte regolatorie delle Agencies, affermando,
tra l’altro, la possibilità di valutare la ragionevolezza delle nuove rules
attraverso l’indagine sulla giustificazione addotta dall’Autorità di regolazione.
Già nel 1943 in SEC v. Chenery Corp.(86) la Corte Suprema dichiarava
la necessità che le Amministrazioni giustificassero le proprie determinazioni
(“a rational agency explanation”) affinché alle corti fosse possibile valutare,
anche attraverso le motivazioni addotte (che avrebbero dovuto essere evidenti
e conoscibili), se l’azione dell’Agency si fosse mantenuta all’interno
dei limiti fissati dalle legge.
È soltanto tra gli anni sessanta e settanta che i giudici cominciano a rendere
più penetrante la loro judicial review richiedendo non una qualunque
giustificazione ma una motivazione congrua e ragionevole (87).
In questi anni all’interno della Corte d’appello del distretto di Columbia
maturano due opposti orientamenti sulle tecniche di valutazione dei poteri
discrezionali delle Agencies.
Da un lato il giudice Bazelon ha sostenuto la necessità di un sindacato
incentrato esclusivamente sugli aspetti di natura procedimentale escludendo,
conseguentemente, la possibilità di pronunce di annullamento delle rules attraverso
il remand all’Agency per consentirle di emendarle da vizi formali (88).
Dall’altro il giudice Leventhal ha ritenuto che il sindacato debba all’opposto
estendersi a valutazioni di natura sostanziale e che le corti debbano, altres
ì, giudicare la ragionevolezza delle nuove previsioni di regolazione (89).
328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(84) Citizens to Preserve Overton Park v. Volpe, 401 U.S. 402 (1971).
(85) Motor Vehicle Manufacturers Ass’n v. State Farm Mutual Automobile Insurance
Co., 463 U.S. 29 (1983).
(86) SEC v. Chenery Corp., 318 U.S. 80 (1943).
(87) “È in questi anni che nasce la c.d. hard look doctrine, inizialmente volta a sollecitare
ed indurre un attento esame (hard look) della agency sui fatti rilevanti per l’emanazione
della decisione, ma successivamente adottato dalle corti stesse quale criterio di sindacato
penetrante sulla logicità e completezza del procedimento amministrativo” (Marchetti
B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle
Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 236 che si fonda sull’analisi svolta da BREYER
S.G., STEWART R.B., SUNSTEIN C.R., SPITZER M.L., Administrative Law and Regulatory
Policy, New York, 2002, 416).
(88) Recepisce la tesi di Bazelon Environmental Defense Fund Inc. v. Ruckleshaus 439
F.2d 584 (D.C. Cir. 1971).
(89) Applica la tesi di Leventhal Greater Boston Television Corp. v. FCC, 444 F.2d 841
(D.C. Cir. 1970). Nella decisione di afferma che le corti dovrebbero sindacare anche gli elementi
istruttori relativi a questioni tecniche o specialistiche “the evidence on technical and
specialized matters”.
La Corte Suprema in particolare ha bocciato la tesi di Bazelon in Federal
Power Commission v. Transcontinental Gas Pipe Line Corp. (90) sposando
quella di Leventhal prima timidamente in Overton Park (91) e poi modo convinto
e definitivo in State Farm (92).
Prendeva piede, pertanto, la substantial hard look doctrine attraverso cui
le corti avevano la possibilità di andare a sindacare la ragionevolezza sostanziale
dei nuovi atti di regolazione attraverso le giustificazioni addotte
dall’Agency a fondamento della propria opzione regolatoria. Si affermava,
quindi, una judicial review molto forte e intrusiva, per nulla deferente.
Sezione II
LA CONSULTAZIONE DEGLI INTERESSATI NELL’UNIONE EUROPEA.
1. Le previsioni del Trattato sulla motivazione degli atti comunitari vincolanti
e la giurisprudenza della Corte di Giustizia che differenzia gli atti
generali da quelli individuali in relazione al contenuto e all’estensione della
justification.
In base all’articolo 253 (già 190) del Trattato “i regolamenti, le direttive
e le decisioni … sono motivati…”.
La motivazione (the giving of the reasons), che permette ai singoli e agli
Stati membri di valutare se l’atto sia inficiato da un vizio contestandone la
legittimità e agli organi di giustizia comunitaria di esercitare un adeguato
sindacato giurisdizionale (93), costituisce elemento essenziale di tutti gli atti
comunitari vincolanti che è solitamente presente nel preambolo dell’atto (i
c.d. “considerando” o recitals) (94).
DOTTRINA 329
(90) Federal Power Commission v. Transcontinental Gas Pipe Line Corp., 423 U.S.
326 (1976).
La Corte Suprema con tale pronuncia affermò il divieto per le corti di imporre oneri
procedurali non richiesti espressamente dalla legge sconfessando la teoria di Bazelor che,
per converso, si fondava proprio su siffatta possibilità.
(91) Citizens to Preserve Overton Park v. Volpe, 401 U.S. 402 (1971).
(92) Motor Vehicle Manufacturers Ass’n v. State Farm Mutual Automobile Insurance
Co., 463 U.S. 29 (1983).
La Suprema Corte affermò l’irragionevolezza della decisione della National Highway
Traffic Safety Administration con cui, modificando senza giustificazioni fondate le proprie
precedenti determinazioni, si era eliminato l’obbligo per i costruttori di automobili di munirle
di cintura di sicurezza ed airbags.
(93) Corte di Giustizia, sentenza 14 febbraio 1990, C 350/88 (Delacre), sentenza 4 febbraio
1997, C-23 e C-156/95.
(94) All’uopo si consideri che l’Accordo Interistituzionale del 22 dicembre 1998 in
materia di orientamenti comuni relativi alla qualità redazionale della legislazione comunitaria
(G.U.C.E. C 73 del 17 marzo 1999), adottato in attuazione della Dichiarazione n. 39 allegata
all’atto finale del Trattato di Amsterdam, prevede che “gli atti comunitari generali sono
redatti secondo una struttura uniforme (titolo, preambolo, articolato e – all’occorrenza –
allegati)” e che “i considerando motivano in modo conciso le norme essenziali dell’articoIn
linea generale secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia la
mancanza di motivazione (elementi di fatto e di diritto sui quali l’Istituzione
fonda la propria decisione) come pure l’incompletezza o l’incoerenza della
stessa concretano un’ipotesi di violazione delle forme sostanziali (95) che
rende l’atto illegittimo.
Nella giurisprudenza comunitaria, tuttavia, l’obbligo di motivazione ha
un contenuto variabile che dipende dalla natura dell’atto.
Per gli atti di natura normativa la motivazione può limitarsi ad indicare
la situazione complessiva che ha condotto alla loro emanazione, il contesto
normativo in cui l’atto si inserisce nonché gli scopi generali che essi si propongono,
non richiedendosi una motivazione specifica e dettagliata quale
quella necessaria per la legittimità di una decisione o di un atto di portata
individuale (96). Si è, pertanto, esclusa la necessità di una motivazione
espressa ammettendosi che la stessa possa desumersi, oltre che dal testo dell
’atto normativo, dall’insieme delle norme giuridiche che disciplinano la
330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
lato senza riprodurre o parafrasarne il contenuto e senza contenere enunciati di carattere
normativo o dichiarazioni di natura politica”. Sempre in base al menzionato Accordo
Interistituzionale gli atti comunitari generali devono presentare una serie di “visto” che concernono
sia l’indicazione della base giuridica, sia quella delle “fasi essenziali del suo procedimento
di formazione”. Al riguardo cfr. ESPOSITO A., La struttura e gli effetti degli atti
giuridici comunitari nella ricerca della qualità della legislazione, in A.A.V.V., Istruttoria
parlamentare e qualità della normazione, CEDAM, 2002.
In diritto comunitario sono, pertanto, obbligatorie sia la mera giustificazione (l’identificazione
dei presupposti normativi e di fatto che stanno a fondamento del potere esercitato
inveratosi nell’atto) che la motivazione vera e propria (l’enunciazione delle ragioni prospettiche
e degli obiettivi in base ai quali l’atto è stato approvato).
(95) La violazione di forme sostanziali attiene al mancato rispetto di regole procedimentali
(infringement of essential procedural requirements) che le Istituzioni devono osservare
nel corso della formazione dell’atto per esprimere legalmente la loro volontà (“La
Corte di giustizia esercita un controllo di legittimità sugli atti … destinati a produrre effetti
giuridici nei confronti dei terzi. A tal fine la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi
per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del presente Trattato o di
qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione, ovvero per sviamento di potere…”
art. 230 del Trattato).
(96) Corte di Giustizia, sentenza 13 marzo 1968, C 5/67 ( “The extent of the requirement
laid down by Artiche 190 [ora 253] of the Treaty to state the reasons on which measures
are based, depends on the nature of the measure in question. It is a question in the
present case of a regulation, that is to say, of a measure intended to have general application,
the preamble to which may be confined to indicating the general situation which
led to its adoption, on the one hand, and the general objectives which it intended to achieve
on the other. Consequently, it is not possible to require that it should set out the various
facts, which are often very numerous and complex, on the basis of which the regulation
was adopted or a fortiori that it should provide a more or less complete evaluation of
those facts” Beus), sentenza 23 febbraio 1978, C 92/77 (An Bord Bainne), sentenza 29
febbraio 1984, C 37/83 (Rewe), sentenza 17 novembre 1987, C 142 e 156/84
(BAT&Reynolds).
materia cui l’atto medesimo afferisce (97). Sulla stessa linea si è affermato
che se il regolamento indica sostanzialmente lo scopo perseguito, è eccessivo
pretendere una motivazione specifica per ciascuna delle scelte tecniche
effettuate (98) anche perché le parti regolate potrebbero avanzare numerosissime
osservazioni per imbrigliare il processo di regolazione (99).
La motivazione, viceversa, deve essere più dettagliata per gli atti di portata
individuale (100) e va comunicata all’interessato contestualmente all’atto
DOTTRINA 331
(97) La soluzione potrebbe essere criticata in quanto avrebbe l’effetto di eliminare un
requisito di validità formale dell’atto imposto inequivocamente dal Trattato. Ma potrebbe
replicarsi che anche a livello comunitario si profila l’opportunità, conformemente alle tradizioni
degli Stati membri, di garantire la discrezionalità politica del legislatore comunitario,
salve le specificità derivanti dall’applicazione dei principi di proporzionalità e sussidiarietà
che garantiscono che l’Unione si muova entro i confini assegnati dal Trattato.
(98) Corte di Giustizia, sentenza 22 gennaio 1986, C 250/84 (Eridania), sentenza 30
novembre 1978, C- 87/78 (Welding /Hauptzollamt), sentenza 24 gennaio 1991, C-27/90
(Siipa/Oniflhor) “la motivazione può limitarsi all’indicazione della situazione generale che
ha causato la sua adozione nonché agli scopi generali che esso persegue” mentre “non si
può pretendere che essa specifichi i vari fatti, talvolta molto numerosi e complessi, in vista
dei quali il regolamento è stato adottato, né, a fortiori, che essa ne fornisca una valutazione
tecnica più o meno esauriente”, semprechè gli elementi di fatto di diritto in questione
“siano in armonia con il contesto normativo di cui fanno parte” .
(99) CRAIG & DE BURCA, EU Law (Text, Cases and Materials), Oxford University
Press, Second Edition, 122 che si riporta a SHAPIRO, The Giving reasons requirement,
University of Chicago Legal Forum, 1992, 179 e 203-204, condividendone le idee e segnalando
l’inesistenza (al tempo in cui scriveva) nelle procedure di regolazione comunitaria di
meccanismi partecipativi simili a quelli sviluppati nell’esperienza statunitense (cfr. anche
Craig, Democracy and Rule-making in the EC: An Empirical and Normative Assessment, in
Craig & Harlow, Lawmaking in the European Union, Kluwer, 1998, Capitolo 2).
(100) Corte di Giustizia, sentenza 16 dicembre 1963, C 18/62, sentenza 1963, C 24/62
(Germania c Commissione).
Pur se la Commissione non è tenuta a prendere posizione su tutti gli elementi di fatto
e di diritto rilevanti (Corte di Giustizia, sentenza 7 febbraio 1990, C-213/87), “qualora la
decisione contenga un provvedimento sfavorevole, essa deve fornire al destinatario le indicazioni
necessaire per accertare se sia fondata o meno” in quanto la “necessità della motivazione
si valuta in funzione delle circostanze concrete, in particolare del contenuto dell’atto,
della natura dei motivi addotti e dell’interesse che i destinatari – o le altre persone legittimate
all’impugnazione ai sensi dell’art. 230 – possono avere alle relative spiegazioni”
(Corte di Giustizia, sentenza 13 marzo 1985, C-296 e C-318/82).
Tuttavia, se l’atto rientra in una prassi costante o segue una procedura ripetitiva, se i
destinatari siano stati coinvolti nel procedimento di formazione dell’atto o se si tratta dell
’applicazione di precedenti decisioni, la motivazione può anche essere più sommaria (Corte
di Giustizia, sentenza 25 ottobre 1984, C185/83 (Università Groningen), sentenza 13 luglio
1988, C102/87 (Francia c/ Commissione), sentenza 7 febbraio 1990, C213/87 (Comune di
Amsterdam), sentenza 14 febbraio 1990, C 350/88 (Delacre), sentenza 12 giugno 1997, T-
504/93 (Tiercé Ladbroke c/ Commissione), sentenza 22 ottobre 1997, T-18/96 (SCK e FNK
c Commissione)). È ritenuta legittima anche la motivazione per relationem (Corte di
Giustizia, sentenza 9 luglio 1969, C 1/69). Se, tuttavia, si tratta di decisione con pluralità di
destinatari la stessa va motivata in relazione a ciascuno dei destinatari (Tribunale, sentenza
28.4.1994, T-38/92 (All Wheather Sports)).
che gli arreca pregiudizio non potendo il difetto di motivazione essere sanato
nell’ambito del processo che si svolge innanzi al giudice comunitario (101).
In ogni caso, è elemento fondamentale della motivazione l’indicazione
della base giuridica, ossia delle disposizioni del Trattato dalle quali le
Istituzioni desumono la propria competenza in ordine all’emanazione dell
’atto medesimo (“la scelta della base giuridica deve fondarsi su elementi
obiettivi, suscettibili di controllo giurisdizionale” (102)). L’aspetto è rilevante
sia in relazione al rapporto Unione/Stati membri sia a quello tra diverse
Istituzioni comunitarie (103).
2. La “giustificazione scientifica” degli atti comunitari relativi alla tutela
della salute, dell’ambiente e dei consumatori secondo la Corte di Giustizia.
Con particolare riferimento agli atti comunitari coinvolgenti materie legate
alla tutela della salute, dell’ambiente, della sicurezza e dei consumatori potrebbe
apparire che talune disposizioni specifiche del Trattato possano essere interpretate
nel senso di imporre un allargamento del contenuto motivazionale.
Gli articoli 95, par.3, 152, par. 1, comma 1, e l’art. 174, par.3, stabiliscono
che l’obiettivo del raggiungimento di un elevato livello di protezione in
materia sia perseguito basandosi su “dati scientifici e tecnici disponibili” e
aggiornati (“nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici”).
In relazione alle menzionate previsioni è stato autorevolmente osservato
che “la disposizione, non essendo la Commissione in grado di compiere
direttamente e integralmente le necessarie valutazioni, implica la consultazione
di esperti, eventualmente organizzati in comitati permanenti o ad hoc”
(104). Peraltro la giurisprudenza impone l’obbligo per le Istituzioni, nelle
materie relativamente alle quali è necessario valutare i rischi per la salute
umana, di “garantire che le loro decisioni siano adottate in piena considerazione
dei migliori dati scientifici disponibili e che siano fondate sui più
recenti risultati dalle ricerca internazionale” (105).
332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(101) Corte di Giustizia, sentenza 26 novembre 1981, C 195/80 (Michel c/Parlamento).
(102) Corte di Giustizia, sentenza 13 marzo 1993, C-155/91.
(103) Con riferimento a quest’ultimo aspetto cfr. Corte di Giustizia, sentenza 2 marzo
1984, C-316/91, Parlamento c Consiglio (“i Trattati hanno un sistema di ripartizione delle competenze
tra le varie istituzioni della Comunità secondo il quale ciascuna svolge una propria
specifica funzione nella struttura istituzionale della Comunità e nella realizzazione dei compiti
affidatile. Spetta alla Corte garantire il mantenimento di siffatto equilibrio istituzionale assicurando
la completa applicazione delle disposizioni dei Trattati relative alla ripartizione delle
competenze” ) e, in termini, sentenza 22 maggio 1990, C-70/88 (Parlamento c Consiglio).
(104) ESPOSITO A., La delega di poteri dal Consiglio alla Commissione, Profili giuridici
della comitologia, Quaderno 1/04 de “La cittadinanza europea”, Philos Ed., 2004, 97.
(105) Tribunale, sentenza 11 settembre 2002 (Pfizer Animal Health S.A./N.V. c
Consiglio), causa T-13/99, in Raccolta 2002, II, 3305. Al riguardo ESPOSITO A., La delega
di poteri dal Consiglio alla Commissione, Profili giuridici della comitologia, Quaderno 1/04
de “La cittadinanza europea”, Philos Ed., 2004, 97.
Potrebbe sembrare, quindi, nelle specifiche materia indicate (in particolare
con riferimento alla tutela della salute e dell’ambiente) il regolatore comunitario
debba dare una motivazione puntuale e dettagliata circa i dati tecnicoscientifico
esistenti anche acquisendo l’expertise di comitati settoriali.
Tuttavia, la giurisprudenza comunitaria è stata piuttosto attenta a non
allargare pericolosamente i confini della motivazione degli atti vincolanti a
carattere generale proprio in questi settori ad alto contenuto specialistico in
cui anche i comitati di settore, pur se composti da esperti nazionali, potrebbero
catturare il regolatore vincolando e limitando la decisione politica. Ha,
pertanto, confermato, anche in questa peculiare materia e al di là delle “apparenti
previsioni specifiche” del Trattato, il proprio orientamento che discrimina
il contenuto motivazionale secondo la natura generale o puntuale dell
’atto comunitario vincolante (106).
In relazione agli atti comunitari vincolanti a contenuto generale le Corti
dell’Unione hanno affermato che l’obbligo di dare la c.d. “giustificazione
scientifica” non impone che l’azione comunitaria sia “circoscritta alle sole
ipotesi suffragate da giustificazioni scientificamente dimostrate” (107) nè un
DOTTRINA 333
(106) Per gli atti comunitari vincolanti a contenuto puntuale la Corte di Giustizia (sentenza
21 novembre 1991 (Technische Universität München c.Hauptzollamt München-
Mitte), causa C-269/90, in Racc., 1991, I-5469) ha affermato, come attentamente messo in
evidenza dalla migliore dottrina, che il “generale obbligo delle istituzioni di provvedere, nell
’esercizio di competenze amministrative caratterizzate da ampia discrezionalità, ad un
esame accurato e imparziale di tutti gli elementi rilevanti della fattispecie, comporta, ove
previsto dall’atto di base, anche la consultazione di comitati o gruppi di esperti. Affinché
l’obbligo in questione possa considerarsi adempiuto non è sufficiente la mera consultazione
di un gruppo di esperti, ma occorre che il medesimo gruppo sia formato da persone in
possesso delle conoscenze tecniche richieste ovvero che i componenti del gruppo si avvalgano
della consulenza di soggetti in possesso di dette conoscenze” (ESPOSITO A., La delega
di poteri dal Consiglio alla Commissione, Profili giuridici della comitologia, Quaderno 1/04
de “La cittadinanza europea”, Philos Ed., 2004, 100). Peraltro, secondo Esposito “proprio
dalla sentenza Technische Universitaet München e, più in generale, dalla giurisprudenza
relativa al procedimento amministrativo comunitario, è sembrata, invece, possibile argomentare
che, con riferimento all’esercizio delle competenze esecutive di natura amministrativa,
l’acquisizione di adeguate valutazioni tecniche e scientifiche costituisca un vincolo
procedimentale, a prescindere da specifiche disposizioni legislative. Tale vincolo potrebbe
essere inteso, infatti, quale esplicazione del più generale principio per cui l’amministrazione
agente è tenuta ad esaminare in maniera accurata e imparziale i fatti e gli interessi rilevanti
ai fini della decisione” (ESPOSITO A., La delega di poteri dal Consiglio alla
Commissione, Profili giuridici della comitologia, cit., 102).
(107) Corte di Giustizia, sentenza 12 novembre 1996 (Regno Unito c Consiglio), causa
C-84/94, in Raccolta 1996, I, 5755.
È stato altresì affermato che in materia di tutela della salute pubblica il principio di precauzione
rende legittime azioni comunitarie preventive senza attendere piene dimostrazioni
scientifiche (“attendere che la realtà e la gravità di tali rischi siano pienamente dimostrati
”) purchè ci si trovi in presenza di un rischio che implichi un certo grado di probabilità
relativa alla sopravvenienza di elementi negativi, che si cerca appunto di evitare con l’adozione
di tale misura. Il grado di rischio non può essere stabilito ad un livello pari a “rischio
generale obbligo di sentire il parere degli esperti (108) e che la mancata audizione
di un comitato non comporta violazioni di forma sostanziale (109),
restando, tuttavia, in facoltà della Commissione richiedere avvisi tecnici ove
lo ritenga opportuno anche se non espressamente previsti (110). Peraltro, il
parere del comitato tecnico-scientifico non esonera la Commissione dall’obbligo
di giustificazione scientifica sui rischi per la salute umana (111).
3. Le ragioni politico-diplomatiche fondanti le previsioni del Trattato impositive
dell’obbligo di giustificare gli atti comunitari vincolanti.
A questo punto risulta legittimo interrogarsi sulle ragioni che hanno
spinto gli Stati membri a prevedere in sede di redazione e approvazione
del Trattato l’obbligo di motivazione in relazione agli atti normativi, contrariamente
a quel che accadeva (e tuttora accade) in larga parte degli Stati
membri.
I policy rationales andrebbero ricercati non tanto nella fine motivazione
giuridica che argomenta in relazione all’assenza nell’ordinamento comunitario
di una chiara e completa distinzione tipologica tra atti normativi e atti
334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zero” in quanto l’autorità pubblica deve procedere ad una valutazione dello stesso che consideri
sia il profilo scientifico (valutazione scientifica il più esaustiva possibile tenuto conto
dell’urgenza di provvedere) che quello politico (c.d. “gestione dei rischi” nell’ambito della
quale l’autorità pubblica deve scegliere la misura preventiva appropriata in considerazione
del livello di rischio da essa riconosciuto).
Attenendosi ai sovra esposti principi il Tribunale di primo grado (sentenza 11 settembre
2002 (Pfizer Animal Health S.A./N.V. c Consiglio), causa T-13/99, in Raccolta 2002, II,
3305 e sentenza 11 settembre 2002 (Alpharma Inc. c Consiglio), causa T-70/99, in Raccolta,
2002, II, 3495) ha rigettato l’azione di annullamento avverso il Regolamento del Consiglio
del 17 dicembre 1998 con cui escludendosi taluni antibiotici dall’elenco degli additivi autorizzati
nell’alimentazione animale se ne imponeva il divieto di commercializzazione affermando
che la misura (divieto) non è sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (tutela
della salute).
(108) Tribunale, sentenza 11 settembre 2002 (Pfizer Animal Health S.A./N.V. c
Consiglio), causa T-13/99, in Raccolta 2002, II, 3305 e Id., sentenza 11 settembre 2002
(Alpharma Inc. c Consiglio), causa T-70/99, in Raccolta, 2002, II, 3495.
(109) Tribunale, sentenza 11 settembre 2002 (Pfizer Animal Health S.A./N.V. c
Consiglio), causa T-13/99, in Raccolta 2002, II, 3305.
(110) Sulla possibilità per la Commissione di acquisire il parere di comitati tecnicoscientifici
anche in assenza di previsioni della normativa di riferimento cfr. Corte di
Giustizia, Corte di Giustizia, sentenza 18 novembre 1999 (Pharos c Commissione), causa C-
151/98 P in Raccolta 1999, I, 8157 nonchè Id., sentenza 4 luglio 2000 (Bargaderm e Goulip
c Commissione), causa C-352/98 P, in Raccolta 2000, I, 5291.
(111) La consultazione dei comitati di comitatologia non può “in alcun modo esonerare
le istituzioni comunitarie dal loro obbligo di effettuare una valutazione scientifica dei
rischi e, a tal fine, di fondarsi, in linea di principio, su un parere scientifico emesso dal
comitato scientifico competente istituito a livello comunitario o, in circostanze eccezionali,
su altri elementi scientifici idonei” (Tribunale, sentenza 11 settembre 2002 (Pfizer Animal
Health S.A./N.V. c Consiglio), causa T-13/99, in Raccolta 2002, II, 3305).
amministrativi (112), quanto piuttosto nella ricerca di strumenti che accrescano
il consenso attorno alla regolazione comunitaria e che aumentino la
legittimazione democratica delle Istituzioni nonché nella creazione di una
barriera tecnica vincolante che argini i rischi di “sconfinamento” dell’azione
comunitaria in ambiti nei quali gli Stati membri non hanno proceduto a
rinuncia di sovranità (in conformità al principio di attribuzione).
Sotto quest’ultimo profilo è di estrema importanza la motivazione relativa
al rispetto dei principi di sussidiarietà (113) e proporzionalità (114), posto che
l’onere della prova circa la necessità dell’azione comunitaria incombe sulle
Istituzioni coinvolte nel processo di regolazione comunitaria (115).
Pertanto, le Istituzioni dovranno espressamente motivare in ordine alla
conformità della loro iniziativa di regolazione ai menzionati principi (“organising
and guiding principles”).
DOTTRINA 335
(112) Per effetto di tale caratteristica dell’ordinamento comunitario “accade che alla
forma “regolamento” si faccia ricorso sia per l’emanazione di norme a carattere generale,
sia per atti a contenuto puntuale e provvedimentale; e che gli uni come gli altri siano preceduti
da una motivazione (che ovviamente assume caratteri e significati diversi” LUPO, La
motivazione delle leggi alla luce del nuovo Titolo V Cost., in www.parlamentiregionali.it).
Sull’inesistenza di chiari criteri discretivi tra atti normativi e amministrativi in diritto
comunitario DE VERGOTTINI, Note sugli atti normativi e amministrativi dell’ordinamento
comunitario europeo, in Riv. Trim. Dir. Pubblic., 1963, 887 e, più di recente, TIZZANO, La
gerarchia delle norme comunitarie, in Il Diritto dell’Unione Europea, 1996, 57 e 83.
(113) Il principio di sussidiarietà consente di tracciare la linea di confine tra le competenze
dell’Unione e quelle degli Stati membri nelle materie ad attribuzione concorrente (la
sussidiarietà, viceversa, non opera nelle materie in cui all’Unione sono riconosciuti poteri di
intervento esclusivi).
La sussidiarietà statuisce chiaramente una presunzione in favore dell’azione a livello di
Stati membri: la Comunità potrà agire solo se gli obiettivi non possono essere sufficientemente
soddisfatti dagli Stati membri (“necessity test”) e possono essere raggiunti meglio a
livello comunitario (“value-added test” o “compared effectiveness test”).
Il principio di sussidiarietà non va confuso con quello di prossimità, anche se può nel
concreto portare a risultati coincidenti, in quanto la sussidiarietà implica una valutazione
relativa all’individuazione del livello di azione più appropriato che non è necessariamente
quello più prossimo ai cittadini.
(114) Il principio di proporzionalità, viceversa, trova applicazione in tutte le ipotesi di
azione a livello comunitario (sia esclusiva che concorrente) e postula che le iniziative intraprese
non devono andare al di là di quanto sia strettamente necessario (“minimal proporzionality
” o stretta proporzionalità) per raggiungere gli obiettivi del Trattato (“…l’azione della
Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del
Trattato” – Protocollo n. 7 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità
allegato al Trattato di Amsterdam).
(115) Dall’analisi della recente giurisprudenza delle corti comunitarie (che nel quadro
Istituzionale comunitario sono deputate ad effettuare il controllo ex post in ordine al rispetto
dei principi di sussidiarietà e proporzionalità) risulta che nessun provvedimento è stato
annullato per carenza di motivazione afferente alla sussidiarietà nel corso del 2004 (dati
risultanti dal Rapporto annuale della Commissione “Better Lawmaking 2004” del 25.3.2005,
COM(2005)98, p. 27, nota 2).
Sotto questo profilo l’obbligo di motivazione ha ricevuto forti stimoli sul
piano dell’effettività a seguito del Consiglio Europeo di Edimburgo (11-12
dicembre 1992) nonché dell’approvazione dell’Accordo Interistituzionale
del 1993 (116) e del Protocollo n. 7 sull’applicazione dei principi di sussidiariet
à e proporzionalità allegato al Trattato di Amsterdam del 1997.
In base al menzionato Protocollo “le motivazioni di ciascuna proposta
normativa sono esposte, onde giustificare la conformità della proposta ai
principi di sussidiarietà e proporzionalità” e “le ragioni che hanno portato
a concludere che un obiettivo comunitario può essere conseguito meglio
dalla Comunità devono essere confortate da indicatori qualitativi o, ove possibile,
quantitativi”.
In particolare la Commissione dovrebbe “…effettuare ampie consultazioni
prima di proporre atti legislativi e se necessario pubblicare i documenti
delle consultazioni”, “giustificare la pertinenza delle sue proposte con riferimento
al principio di sussidiarietà; se necessario la motivazione che
accompagna la proposta fornirà dettagli a questo riguardo” e “tenere nel
debito conto la necessità che gli oneri siano essi finanziari o amministrativi,
che ricadono sulla Comunità, sui Governi nazionali, sugli enti locali,
sugli operatori economici, sui cittadini, siano minimi e commisurati all’obiettivo
da conseguire” (stretta proporzionalità). A ciò si aggiunga che la
Comunità “legifera soltanto per quanto necessario” (quindi anche la scelta
dello strumento utilizzato andrebbe motivata (117)).
Il Parlamento e il Consiglio effettuano il controllo in ordine al rispetto
dei principi da parte della Commissione (come esplicitati nell’explanatory
memorandum) (118).
336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(116) Accordo Interistituzionale tra Parlamento, Consiglio e Commissione sulle procedure
di applicazione del principio di sussidiarietà adottato il 17 novembre 1993 (in G.U.C.E.
del 6 dicembre 1993, C 329,132).
(117) Sul punto dal Rapporto annuale della Commissione “Better Lawmaking 2004”
del 25 marzo 2005 (COM(2005)98), emerge l’impegno della Commissione non solo a stimolare
l’uso di strumenti alternativi di regolazione (self-regulation, co-regulation e targetbased
tripartite contracts and agreements) ma anche a ricorrere allo strumento formale più
leggero (lo testimoniano i dati afferenti alla drastica riduzione del numero dei regolamenti
e delle direttive rispetto al numero di decisioni e raccomandazioni sia in termini assoluti che
relativi).
(118) Per completezza si segnala che la Costituzione europea prevede un nuovo meccanismo
di controllo per assicurare un maggiore rispetto del principio di sussidiarietà che
opera in via preventiva su tutte le proposte di iniziativa a livello comunitario (non solo da
parte della Commissione).
È previsto che i Parlamenti nazionali possano inviare un early warning in forma di
parere motivato se gli stessi ritengono che l’iniziativa comunitaria non sia conforme al principio
di sussidiarietà.
Se il numero di pareri negativi raggiunge 1/3 dei voti attribuiti ai sistemi parlamentari
nazionali l’Istituzione che ha preso l’iniziativa di regolazione è obbligata a rivedere il
progetto.
Si è in tal modo analizzato il primo blocco del contenuto obbligatorio
della motivazione che dipende da aspetti specifici che caratterizzano l’ordinamento
comunitario alla luce del principio di attribuzione. In altri termini,
le Istituzioni dovranno giustificare adeguatamente il fondamento (base giuridica)
dei loro poteri nonché la necessità di un’azione comunitaria (che va
preferita a quella nazionale) e la stretta proporzionalità dell’intervento (che
non deve imporre oneri di regolazione superiori a quelli strettamente necessari
al raggiungimento degli obiettivi comunitari).
La valutazione afferente a tali aspetti unitamente ad una maggiore attenzione
all’analisi economica della regolazione è stata di recente arricchita a
seguito del forte impulso impresso alle politiche comunitarie di miglioramento
della qualità della regolazione (better regulation).
Anche al fine di porre rimedio alla crisi di legittimazione delle Istituzioni
della Comunità e alle critiche afferenti all’opacità dei processi decisionali
dell’Unione, ci si è diretti verso l’implementazione di procedure di consultazione
degli interessati di carattere aperto e trasparente e la messa a punto di
sistemi di analisi di impatto preventiva che mettano in evidenza le conseguenze
della nuova regolazione non solo sulle imprese ma anche sulla societ
à civile e l’amministrazione (comunitaria, nazionale e locale).
4. La consultazione nelle politiche comunitarie di better regulation e i suoi
rapporti con l’impact assessment analysis (c.d. AIR).
A livello comunitario è da tempo acquisita la consapevolezza che gli
strumenti di miglioramento della qualità della regolazione accrescono da un
lato la legittimazione democratica delle Istituzioni europee e dall’altro il
livello di competitività del sistema economico (119).
Il loro utilizzo, peraltro, potrebbe comportare riflessi sul contento della
motivazione degli atti comunitari di natura regolatoria con potenziale incidenza
sugli orientamenti della giurisprudenza delle corti comunitarie maturati
sull’applicazione dell’articolo 253 del Trattato.
DOTTRINA 337
(119) Una maggiore attenzione al rapporto tra miglioramento della qualità della regolazione
e aumento del tasso di competitività del sistema economico europeo è stata recentemente
messa in evidenza da uno studio del Fondo Monetario Internazionale che “ha rilevato
come i miglioramenti della qualità della regolamentazione europea possano condurre ad
un aumento fino al 7% del PIL e ad un aumento del 3% della produttività, nel lungo periodo
” (BASILICA, La qualità della regolamentazione tra ordinamento internazionale e ordinamento
nazionale, in Rass. Avv. Stato, 2004, 786).
Nel febbraio 2004 anche i Presidenti di Inghilterra, Francia e Germania hanno segnalato
il problema alla Commissione europea con una lettera congiunta invitandola ad effettuare
valutazioni dell’impatto della nuova regolazione sulle imprese con modalità più rigorose
al fine di non ostacolare innovazione e competitività.
La Commissione, anche su invito degli incontri ECOFIN del marzo, dell’ottobre e del
dicembre 2004, ha, pertanto, approvato la Comunicazione “Better Regulation for Growth
and Jobs in the European Union” del 16 marzo 2005, COM(2005)97.
La politica comunitaria di miglioramento della qualità della regolazione
è stata fortemente stimolata sin dai Consigli europei di Edimburgo (11 e 12
dicembre 1992) e di Amsterdam (16 e 17 giugno 1997) fino a quelli di
Lisbona (23 e 24 marzo 2000), Stoccolma (23 e 24 marzo 2001), Göteborg
(15 e 16 giugno 2001), Laeken (8 e 9 dicembre 2001) e Barcellona (15 e 16
marzo 2002) che hanno dato impulso non solo ai programmi SLIM (Simpler
Legislation for the Internal Market, A Pilot Project) (120) e BEST (Business
Environment Simplification Task Force) (121) ma anche all’opera di profonda
rivisitazione delle procedure decisionali delle Istituzioni orientandole
verso una maggiore partecipazione degli interessati e un utilizzo più esteso
delle tecniche di analisi economica della regolazione (analisi di impatto). Un
grosso impulso è, altresì, derivato dall’Accordo Interistituzionale Better
Lawmaking del 13 dicembre 2003 (122).
La Commissione, sulla base dei principi sulla buona governance delineati
nel Libro bianco sulla Governance europea (123) nonché delle raccomandazioni
contenute nel rapporto del Mandelkern Group (124), ha definito, in linea con
338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(120) COM(1996)204, in www.europa.eu.int.
(121) Nel Consiglio europeo di Amsterdam del giugno 1997 tutti i leaders europei
confermarono il loro “strong committment to the simplification of existing and new legal
and administrative regulations in order to improve the quality of Community legislation
and reduce its administrative burden on European business, particularly small and
medium-sized businesses” invitando la Commissione a costituire una task force per conseguire
i risultati di semplificazione normativa e di riduzione degli oneri amministrativi per
le imprese.
(122) G.U.C.E. C 321, del 31 dicembre 2003, p.1.
(123) Commissione europea, Libro bianco “La Governance europea”, COM(2001)428
del 5 agosto 2001, in www.europa.eu.int.
La strategia politica del Libro Bianco sulla governance europea cerca di identificare gli
strumenti necessari ad arginare la profonda crisi di legittimazione delle Istituzioni
dell’Unione Europea.
La Commissione ha proposto di incrementare l’apertura nei processi di elaborazione
delle politiche comunitarie e nei processi decisionali delle Istituzioni in modo da garantire
una partecipazione più ampia dei cittadini e delle organizzazioni. Il rafforzamento della cultura
della consultazione e del dialogo e lo sviluppo del sentimento di appartenenza
all’Unione europea può raggiungersi, ad avviso della Commissione, solo attraverso la predisposizione
di un codice di condotta che fissi criteri qualitativi minimi standardizzati che
riducano il rischio che i politici si limitino ad ascoltare argomentazioni unilaterali oppure
provenienti da determinati gruppi che si assicurino un accesso privilegiato al processo decisionale
comunitario in base a interessi settoriali o alla cittadinanza (circostanza che costituiva
un punto debole dei metodi di consultazione che la Commissione utilizzava al tempo di
adozione del Libro bianco [per es. organizzazione di comitati consultivi, di gruppi consultivi
di imprese (c.d. business test panels) oppure di consultazioni ad hoc]).
(124) Nel rapporto (scaricabile dal sito www.cabinetoffice.gov.uk), consegnato alla
Commissione il 13 novembre 2001 e presentato al Consiglio europeo di Laeken del dicembre
2001, i Ministri per la Funzione Pubblica degli Stati membri hanno raccomandato ai
Governi nazionali il rispetto di talune pratiche per migliorare i processi di regolazione nazionali
anche se non relativi al recepimento della disciplina comunitaria.
la Comunicazione di pari data “European Governance: Better Lawmaking
”(125), il piano di azione sulla semplificazione e il miglioramento della
regolazione (Piano d’azione “Semplificare e migliorare la regolazione” (126)).
Il Piano prevede l’adozione di una serie di misure volte ad introdurre, a
livello di regolazione comunitaria (127), una disciplina più puntuale ed efficace
in materia di impact assessment e consultazione degli interessati attraverso
l’adozione di due comunicazioni specifiche in materia. L’Action Plan
contempla, altresì, il miglioramento del contenuto dell’explanatory memo-
DOTTRINA 339
Le raccomandazioni adottate sono: 1) considerare tutte le possibili opzioni di regolazione
(“always consider the full range of possible policy options”), 2) fondare la regolazione
su valutazioni di impatto e consultazioni (“base policy on impact assessment and wide
consultation”), 3) porre in essere un programma sistematico di semplificazione e codificazione
(“set up a systematic programme of simplification and consolidation”), 4) consentire
un accesso agevole alla legislazione (“provide easy access to legislation (through
Information Communication Technologies)”) e 5) istituire strutture adeguate per l’implementazione
e promozione degli strumenti di miglioramento della qualità della regolazione
(“set up appropriate supporting structures for the promotion of better regulation”).
All’interno del c.d. Group on Regulatory Quality si svolge la cooperazione informale
tra i Ministri per la Funzione Pubblica dell’Unione e tra dirigenti ed esperti competenti per
materia che è funzionale allo scambio delle informazioni e delle migliori pratiche ed esperienze
sviluppate all’interno dei vari Stati membri. Il gruppo effettua, altresì, il monitoraggio
dell’attuazione dei principi di qualità della regolazione concordati nella redazione del
Rapporto Mandelkern 2001 a livello di regolazione comunitaria e nazionale redigendo specifici
reports.
Di recente è stato finalizzato il Comparative Analysis of Regulatory Impact Assessment
in Ten EU Coutries (Rapporto comparativo sull’analisi di impatto della regolazione in dieci
Paesi dell’UE) che ha condotto all’identificazione di alcuni elementi essenziali ed unanimemente
condivisi nell’ambito dei principi, della procedure e delle tecniche di analisi di impatto
dei vari ordinamenti nazionali chiudendo la prima fase di un’iniziativa lanciata durante il
semestre di Presidenza italiana. La seconda fase del progetto, afferente alla comparazione di
un’analisi di impatto condotta nei vari Paesi durante i negoziati di una proposta di direttiva
(è stata scelta la Groundwater directive), è attualmente in via di sviluppo.
All’intero del gruppo si stanno anche sviluppando modelli di misurazione del oneri
amministrativi per le imprese (in particolare si sta cercando di migliorare e sviluppare il
modello olandese fondato sul criterio dei “costi standardizzati”).
(125) Commissione europea, Comunicazione “European Governance: Better
Lawmaking” del 5 giugno 2002, COM(2002)275, in www.europa.eu.int.
(126) Commissione europea, Comunicazione “Piano d’azione: semplificazione e migliorare
la regolamentazione” del 5 giugno 2002, COM(2002)278, in www.europa.eu.int.
(127) In realtà il Piano d’azione cerca anche di stimolare le politiche nazionali. Gli Stati
Membri, difatti, sono invitati a predisporre procedure di analisi di impatto della regolazione
e consultazione al fine di migliorare la qualità della regolazione nazionale di recepimento
del diritto comunitario (in particolare per quanto riguarda le disposizioni supplementari
aggiuntive degli atti legislativi nonché le misure oggetto di notifica alla Commissione).
Di recente il legislatore nazionale ha disciplinato nell’ambito della legge 4 febbraio
2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo
dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari) talune
disposizioni in materia di consultazione degli interessati.
randum (128) che accompagna le iniziative regolamentari della Commissione,
il più frequente utilizzo delle review clauses (clausole di valutazione),
la semplificazione e riduzione della legislazione comunitaria (consolidation,
recasting e simplification through codification (129)).
Con la Comunicazione sull’impact assessment (130) la Commissione si
è impegnata a realizzare gradualmente, a partire dal 2003, valutazioni di
impatto per tutte le iniziative legislative e politiche più importanti sulla cui
base potrà decidersi se l’azione di regolazione dovrà essere presa a livello
comunitario (alla luce del Trattato e del Protocollo n. 7 sull’applicazione dei
principi di sussidiarietà e proporzionalità), migliorando la qualità e la
coerenza delle politiche comunitarie.
È espressamente sancito che la valutazione di impatto costituisce esclusivamente
un ausilio al procedimento di regolazione e non può costituire un
vincolo o un condizionamento alle decisioni politiche nelle proprie scelte di
merito (“impact assessment is an aid to decision-making, not a substitute for
political judgement”).
340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nella fase ascendente di partecipazione al processo di formazione degli atti comunitari
da parte dell’Italia l’articolo 3, comma 7, della legge stabilisce che sui progetti di atti
comunitari i competenti organi parlamentari possano, al fine di formulare osservazioni e
adottare ogni opportuno atto di indirizzo, richiedere al Governo una relazione tecnica che
dia conto, dello stato dei negoziati, delle eventuali osservazioni espresse da soggetti già consultati
nonché dell’impatto sull’ordinamento, sull’organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e sull’attività dei cittadini e delle imprese.
È, altresì, prevista dall’articolo 7 della medesima legge (sempre all’interno della fase
ascendente) la possibilità di organizzare, al fine di assicurare un più ampio coinvolgimento
delle categorie produttive e delle parti sociali, apposite sezioni di studio ai cui lavori possa
essere invitato ogni soggetto interessato.
Sempre nell’ambito della fase di partecipazione al processo decisionale comunitario si
profila la questione dell’analisi di impatto “concorrente” a livello nazionale durante lo sviluppo
dell’AIR a livello comunitario o in sede di negoziati. A livello comunitario si sta studiando
come coordinare gli sforzi delle Istituzioni europee con quelli degli Stati membri al
fine di acquisire informazioni e dati il più precisi e attendibili possibile. Resta, comunque,
salvo il principio che il potere decisionale politico spetta solo alle Istituzioni comunitarie
che valuteranno accuratamente le informazioni fornite dagli Stati membri.
(128) L’explanatory memorandum è un documento estremamente rilevante perché con
esso la Commissione dimostra sia alle altre Istituzioni, sia agli Stati membri, sia ai cittadini
che sta esercitando correttamente il suo potere di iniziativa (right of initiative). In attuazione
dell’Accordo interistituzionale del dicembre 2003 e del Piano di azione sulla European
governance del 2002, la Commissione ha approvato nuove regole interne che consentono di
migliorare la valutazione e l’esternazione degli elementi che consentono di accertare il
rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.
(129) Secondo RESCIGNO (Le tecniche della legislazione nella CE, in www.luiss.it) nei
documenti comunitari tradotti in italiano i termini consolidazione, rifusione e codificazione
dovrebbero essere intesi rispettivamente come testo unico meramente compilativo (consolidazione),
testo unico normativo (rifusione) e testo unico di natura mista (codificazione).
(130) Commissione europea, Comunicazione “Impact Assessment” del 5 giugno 2002,
COM(2002)276, in www.europa.eu.int.
La precisazione viene ribadita sia nella Comunicazione sui principi e
standards minimi di consultazione degli interessati (131) sia dal disegno del
legge di semplificazione 2005 (132).
Si tratta di una puntualizzazione estremamente rilevante con cui, recependo
le indicazioni della migliore dottrina (133), ci si sforza di ergere barriere
per evitare che il “regolatore” sia catturato dai lacci tesi dai destinatari
della regolazione (regolati) che potrebbero cercare di inabissare il progetto
di regolazione presentando un numero enorme di osservazioni “paralizzanti”
non aventi alcun fondamento tecnico, scientifico, economico e sociale.
Le preoccupazioni del legislatore comunitario, pur sembrando giustificate,
non pare siano state tenute nella dovuta considerazione da una recente
pronuncia della Corte costituzionale (134) che sarà successivamente esaminata
e che, viceversa, ha riposto forse troppa fiducia nella legge regionale (“il
quarto comma dello stesso articolo 17 impugnato affida alla legge regionale
la regolamentazione delle modalità di attuazione dell’istruttoria pubblica
stabilendo i termini per la conclusione delle singole fasi e dell’intero procedimento
”), pur a fronte di specifiche fondate deduzioni della difesa erariale.
Sulla base delle guidelines predisposte dalla Commissione tutte le iniziative
e le proposte che si vogliono includere nell’APS (Annual Policy
Strategy) e nel CLWP (Commission’s Legislative and Work Programme)
devono essere precedute dal preliminary impact assessment (documento di
un paio di paginette a cura del capo della Direzione Generale in cui sono
indicati succintamente le questioni fondamentali che la proposta intende
regolare, i suoi obiettivi, le scelte regolatorie e il loro possibile impatto sociale,
ambientale e economico). Sulla base delle indicazioni contenute nel pre-
DOTTRINA 341
(131) Commissione europea, Comunicazione “Verso una cultura di maggiore consultazione
e dialogo – Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate
ad opera della Commissione” dell’11 dicembre 2002, COM(2002)704, in
www.europa.eu.int, ove è precisato che “la consultazione degli ambienti interessati […] può
sempre costituire solo un completamento e non può sostituire le procedure e le decisioni di
organi legislativi democraticamente legittimati; a livello di procedura legislativa possono
decidere responsabilmente solo il Consiglio e il Parlamento, in quanto legislatori” (è
importante segnalare che la traduzione italiana non è pienamente soddisfacente in quanto
non traspare con evidenza il significato dell’ultima frase che mira a porre in evidenza che
solo sul Consiglio e il Parlamento, oltre che sulla Commissione, può ricadere una responsabilit
à politica per attività legislative compiute nell’ambito delle procedure decisionali comunitarie
“only the Council and Parliament, as co-legislator, can take responsabile decisions
on the context of legislative procedures”).
(132) Disegno di legge A.C. 5864, articolo 5, comma 2, “l’AIR costituisce supporto
alle decisioni dell’organo politico di vertice dell’amministrazione in ordine all’opportunità
dell’intervento normativo”.
(133) CRAIG & DE BURCA, EU Law (Text, Cases and Materials), Oxford University
Press, Second Edition, 122; SHAPIRO, The Giving Reasons Requirement, University of
Chicago Legal Forum, 1992, 179 e 203-204.
(134) C. cost., 6 dicembre 2004, n. 379.
liminary impact assessment in merito all’opinione del capo Direzione circa
la necessità di procedere con un extended impact assessment, la Commissione
decide quali proposte meritano un’analisi di impatto approfondita in
relazione alla portata degli effetti economici, politici e sociali che la nuova
disciplina è destinata a produrre.
Di recente (135) la Commissione ha deciso di generalizzare il ricorso
all’IA (impact assessment) per tutte le iniziative previste nel Legislative and
Work Programme 2005, per le iniziative legislative chiave e per le più significative
iniziative politiche a carattere non legislativo e, al fine di agevolare
la conoscenza delle iniziative in materia, ha stabilito di pubblicare Impact
Assessment Roadmaps che diano una prima sommaria indicazione delle principali
aree che saranno sottoposte a valutazione. Si sono anche approvate le
nuove guidelines sull’IA (136).
5. Gli standards minimi di partecipazione definiti con la Comunicazione sulla
consultazione degli interessati dell’11 dicembre 2002 (COM(2002)704).
Dopo circa un anno e mezzo di distanza dal Libro bianco sulla
Governance europea del 5 agosto 2001 e a poco più di sei mesi dalla definizione
del Piano d’azione “Semplificare e migliorare la regolazione” del 5
giugno 2002, la Commissione ha completato il quadro aggiungendo allo
strumento dell’impact assessment (già disciplinato con la Comunicazione
del 5 giugno 2002) la consultazione degli interessati, approvando una
Comunicazione specifica che ha fissato principi generali e requisiti minimi
sulla consultation (137) nonché un’altra comunicazione di disciplina del
ricorso alle consulenze di esperti esterni (138).
342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(135) Comunicazione della Commissione europea “Better Regulation for Growth and
Jobs in the European Union” del 16 marzo 2005, COM(2005)97, in www.europa.eu.int.
(136) Commissione europea, “Impact Assessment Guidelines” del 15 giugno 2005,
SEC(2005)791.
(137) Commissione europea, Comunicazione “Verso una cultura di maggiore consultazione
e dialogo – Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate
ad opera della Commissione” dell’11 dicembre 2002, COM(2002)704, in
www.europa.eu.int.
La comunicazione è stata adottata successivamente alle altre in quanto sulla stessa è
stata effettuata un’attività di ampia consultazione degli interessati cui sono conseguite profonde
modifiche nel documento di consultazione (COM(2002)277 del 5 giugno 2002). La
decisione della Commissione è stata lodata da numerosi commentatori che hanno osservato
che “il fatto che la Commissione stia procedendo a una consultazione in ordine ai principi
generali e ai requisiti minimi proposti, costituisce di per sé una dimostrazione di un corretto
processo di consultazione”.
(138) Commissione europea, Comunicazione “Collection and use of expertise by the
Commission: principles and guidelines” (Scelta e utilizzo dei consulenti esterni da parte
della Commissione: principi e linee-guida) dell’11 dicembre 2002, COM(2002)713, in
www.europa.eu.int.
Come noto l’obbligo di procedere alle consultazioni è imposto alla
Commissione dal Protocollo n. 7 allegato al Trattato di Amsterdam che prevede
“the Commission should […] consult widely before proposing legislation
and, wherever appropriate, publish consultation documents” (la
Commissione dovrebbe […] effettuare ampie consultazioni prima di proporre
atti legislativi, e se necessario pubblicare i documenti di consultazione).
Il principio di democrazia partecipativa è stato da ultimo riaffermato
dalla Costituzione europea che all’articolo I-47 prevede che “Le istituzioni
danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni
canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le
loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione e mantengono un dialogo
aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la
società civile. Al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni
dell’Unione, la Commissione procede ad ampie consultazioni delle parti
interessate”. L’ultimo paragrafo della norma prevede anche la possibilità di
invitare la Commissione a presentare una proposta appropriata su materie in
merito alle quali i cittadini dell’Unione (che raggiungano la soglia di almeno
1 milione di persone) ritengano necessario un atto giuridico comunitario
per l’attuazione della Costituzione.
Nella prima delle due comunicazioni la Commissione chiarisce come
non vi sia contraddizione tra il procedere ad ampie consultazioni e il concetto
di democrazia rappresentativa in quanto come dichiarato dallo stesso
Parlamento europeo in occasione della propria Risoluzione sul libro bianco
in materia di governance “la consultazione degli ambienti interessati […]
può sempre costituire solo un completamento e non può sostituire le procedure
e le decisioni di organi legislativi democraticamente legittimati; a livello
di procedura legislativa possono decidere responsabilmente solo il
Consiglio e il Parlamento, in quanto legislatori”(139).
Il principio cui si ispira la Commissione è di permettere alle parti interessate
di esprimere un’opinione, non già un voto (“the guiding principle
for the Commissione is therefore to give interested parties voice, but not a
vote” (140)).
La Commissione chiarisce che è interesse comunitario stimolare un
maggiore coinvolgimento di tutti i soggetti interessati alle politiche e agli atti
di regolazione comunitari attraverso l’implementazione di procedure di consultazione
più trasparenti, efficaci, sistematiche e razionali che consentano
DOTTRINA 343
(139) Parlamento europeo, Risoluzione A5-0399/2001, in www.europa.eu.int
(“Consultation of interested parties […] can only ever supplement and never replace the
procedures and decisions of legislative bodies which possess democratic legitimacy; only
the Council and Parliament as co-legislators, can take responsible decisions on the context
of legislative procedures […]”).
(140) Commissione europea, Comunicazione cit nota 49.
anche la partecipazione delle organizzazioni e associazioni espressione della
società civile (141).
La Comunicazione fissa, pertanto, principi generali (142) e requisiti
minimi (143) in materia di consultazione.
Entrambi non hanno natura giuridica vincolante (derivante dalla natura
dello strumento utilizzato).
La Commissione opta per tale soluzione per due ragioni, manifestando
un orientamento contrario a molte delle osservazioni pervenute nel corso
della consultazione aperta sul testo della proposta di comunicazione (144).
344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(141) Ciò in perfetta sintonia con l’articolo 12 della Carta europea dei diritti fondamentali
(che riconosce ad ogni individuo “il diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libert
à di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico”) e con
le previsioni del Libro bianco sulla governance europea (“La società civile svolge un ruolo
importante, poiché esprime le preoccupazioni dei cittadini e fornisce servizi in risposta alle
esigenze di tutti. […] Sempre più la società civile ritiene che l’Europa costituisca una piattaforma
adeguata per cambiare gli orientamenti politici e la società. […] Vi è la possibilit
à di far partecipare più attivamente i cittadini al conseguimento degli obiettivi dell’Unione
e di offrire loro un canale strutturato per le loro reazioni, critiche e proteste”).
(142) I principi sono quello di partecipazione (“la qualità delle politiche dell’Unione
dipende dall’ampia partecipazione che si saprà assicurare lungo tutto il loro percorso,
dalla prima elaborazione all’esecuzione”), di apertura e responsabilizzazione (“le istituzioni
devono operare in modo più aperto se si vuole accrescere la fiducia dei cittadini in istituzioni
complesse”), di efficacia (“le politiche dell’Unione devono essere efficace e tempestive,
producendo i risultati richiesti”) e coerenza (“le politiche e gli interventi dell’Unione
devono essere coerenti”).
(143) I requisiti minimi sono la chiarezza sull’oggetto (“ogni comunicazione relativa a
una consultazione deve essere chiara e coincisa, oltre a contenere tutte le informazioni atte
ad agevolare le prese di posizione degli interlocutori”), l’identificazione dei destinatari (“nel
definire le categorie di destinatari della consultazioni, la Commissione deve accertarsi che
tutte le parti interessate abbiano la possibilità di esprimere il loro punto di vista”) e i termini
finali della consultazione (“nella sua programmazione, la Commissione dovrebbe sempre
lasciare un tempo sufficiente per rispondere agli inviti e inviare contributi scritti. La
Commissione attualmente è del parere che si dovrebbero prevedere almeno 8 settimane, affinch
é nelle consultazioni per procedura scritta le risposte possano pervenire, mentre le convocazioni
alle riunioni andrebbero inviate con un anticipo di 20 giorni lavorativi”), la pubblicazione
(“La Commissione dovrebbe provvedere a diffondere le informazioni necessarie per
sensibilizzare l’opinione pubblica e adattare i propri canali di comunicazione per raggiungere
le varie tipologie di pubblico. Senza escludere altri strumenti di comunicazione, gli esiti
delle consultazioni pubbliche dovrebbero sempre essere presentati su Internet e annunciati su
un punto unico di accesso”) nonché la ricevuta ed i feedbacks sugli esiti della procedura (“La
Commissione accusa ricevuta dei contributi inoltrati. I risultati della consultazione pubblica
aperta vengono diffusi sui siti collegati al punto unico di accesso via Internet”).
(144) “Alcuni interlocutori hanno criticato la scelta della Commissione di definire i
requisiti per le consultazioni sotto forma di comunicazione (ovvero di documento di strategia),
anziché adottare uno strumento giuridicamente vincolante. Secondo loro in tal modo i
requisiti risulterebbero scarsamente incisivi e la Commissione non sarebbe in grado di
garantire la coerenza e l’uniformità delle sue campagne di consultazione. La Commissione
resta però convinta che un’impostazione giuridicamente vincolante vada evitata nel caso di
In primo luogo ciò consente di distinguere il procedimento decisionale
istituzionale e obbligatorio in quanto formalmente definito dal Trattato (che
è vincolante e la cui inosservanza comporta l’annullamento dell’atto per vizi
di forma sostanziale e violazione del Trattato) da quello volontario, implementato
dalla Commissione per migliorare la qualità della regolazione
comunitaria, che non può dare luogo a vizi a meno che non si dimostri (ma
è questione diversa da quella del mancato rispetto delle regole di consultazione)
che la Commissione non tenendo in considerazione le osservazioni
degli interessati abbia violato i principi di sussidiarietà e proporzionalità
(non “meramente” per non averle tenute in considerazione o per non aver
motivato al riguardo ma solo ove sia data prova sostanziale della fondatezza
delle osservazioni nel contesto giurisdizionale ove si effettua il sindacato ex
post sul rispetto della sussidiarietà e della proporzionalità).
In secondo luogo si è inteso “evitare che vengano a determinarsi situazioni
in cui una proposta della Commissione possa essere impugnata dinanzi
alla Corte di Giustizia per una presunta insufficienza di consultazione
delle parti interessate” (145) per esempio dovuta alla violazione delle regole
della Comunicazione stessa o all’adozione di metodi di partecipazione non
idonei che hanno impedito la partecipazione di taluni soggetti che in realtà
erano effettivamente incisi dalla regolazione.
Nel futuro bisognerà monitorare gli orientamenti della giurisprudenza
comunitaria per valutare come ed entro che limiti nell’esercizio del sindacato
giurisdizionale sugli atti di regolazione si darà peso alle osservazioni degli
interessati (che possono “entrare” solo in via mediata e indiretta nei considerando
e nell’explanatory memorandum) e alle tecniche di analisi economica
delle norme (la scheda AIR è solo un allegato).
Allo stato è arduo scorgere eventuali spazi per aperture giurisprudenziali
in materia perché dall’analisi degli orientamenti delle corti comunitarie
emerge che difficilmente si annulla un atto comunitario per violazione dei
principi di sussidiarietà o proporzionalità oppure per carenze motivazionali
afferenti all’applicazione degli stessi (146).
DOTTRINA 345
una consultazione, per due motivi: anzitutto va tracciata una chiara linea di separazione tra
le consultazioni che la Commissione avvia di propria iniziativa, prima di adottare una proposta,
e il successivo processo decisionale istituzionalizzato e obbligatorio, stabilito dai
trattati; in secondo luogo, occorre evitare che vengano a determinarsi situazioni in cui una
proposta della Commissione possa essere impugnata dinanzi alla Corte di giustizia per una
presunta insufficienza di consultazione delle parti interessate. Un approccio iperlegalistico
del genere risulterebbe incompatibile con l’esigenza di elaborare tempestivamente gli
orientamenti politici e con le aspettative dei cittadini, i quali dalle istituzioni europee si
attendono interventi di merito, anziché un’attenzione eccessiva agli aspetti procedurali”
(Commissione europea, Comunicazione cit. nota 49).
(145) Commissione europea, Comunicazione cit. nota 49.
(146) Dal rapporto annuale della Commissione relativo all’anno 2004 (Commissione
europea, “Better Lawmaking 2004”, del 21 marzo 2005, SEC(2005)364) risulta che in nesDai
rapporti annuali della Commissione sullo stato di attuazione degli
strumenti di qualità della regolazione e dei principi di sussidiarietà e proporzionalit
à (147) è possibile ricavare dati aggiornati, precisi e interessanti in
relazione a talune delle questioni finora sollevate.
È di tutta evidenza che gli ambiti di applicazione e di utilizzo dell’AIR e
delle procedure di consultazione possono anche non essere coincidenti. Coloro
che ritengono che la consultazione sia solo una parte, pur se la più rilevante,
dell’AIR vedono cadere le loro ricostruzioni teoriche innanzi al dato concreto.
Nella prassi della Commissione, per esempio, non si procede all’AIR in
relazione ai Libri verdi148 che, viceversa, possono essere sottoposti a consultazione
(dall’ultimo rapporto della Commissione risulta che ben sei libri
verdi sono stati sottoposti a procedure di consultazione).
Ulteriori dati che emergono dall’ultimo rapporto annuale (149) sono il
sensibile aumento delle consultazioni, anche grazie all’utilizzazione del
punto unico di accesso on line (“your voice in Europe” (150)), nonché il
rispetto dei principi e degli standards individuati dalla Comunicazione sulla
consultazione degli interessati (151), pur se la Commissione stessa riconosce
346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sun caso la Corte di Giustizia e il Tribunale hanno rilevato vizi risultanti dalla carenza
di motivazione afferente all’applicazione dei menzionati principi (“As of 31 December
2004, the case law of the Court of Justice and the Court of First Istance did not include any
judgments to the effect that the principle of subsidiarity had been contravened or that there
was a lack of motivation in applying this principle”).
(147) Il rapporto è obbligatorio dal Consiglio europeo di Edimburgo del 1992 (obbligo
ribadito dal Protocollo n. 7 al Trattato di Amsterdam del 1997) ma solo dal 1995 esso include
anche le azioni intraprese per migliorare la qualità (e l’accessibilità) della normativa.
L’allargamento dei contenuti è indice dell’acquisita consapevolezza che la sussidiarietà, la
proporzionalità e il miglioramento del contesto normativo sono strettamente legati (“La sussidiariet
à, la proporzionalità e il miglioramento del contesto normativo sono infatti strettamente
legati. Rispettando il principio di sussidiarietà, l’Unione limita la sua azione a ciò
che è necessario ed efficace. Rispettando il principio di proporzionalità, sceglie le modalit
à d’intervento più semplici possibili. Peraltro, le misure relative alla consultazione delle
parti interessate, alla raccolta dei pareri degli esperti ed alla valutazione dell’impatto, allo
sviluppo di modalità d’intervento alternative ed allo scambio di buone pratiche normative
contribuiscono ad una migliore definizione ed elaborazione di ciò che è necessario, efficace
e “leggero”. Un contributo in questo senso è apportato anche dalle iniziative in materia
di qualità redazionale, di disponibilità dei testi, di seguito dato all’attuazione delle norme
e di semplificazione dell’acquis” (Commissione europea, relazione “Legiferare meglio
2004” del 21 marzo 2005, COM(2005)98).
(148) È noto che mentre con i Libri Verdi la Commissione propone prime riflessioni su
un settore specifico che potrebbe essere oggetto di intervento comunitario, con Libri Bianchi
si presentano proposte più dettagliate che solitamente precedono l’approvazione di una
nuova regolazione.
(149) Commissione europea, “Better Lawmaking 2004”, del 21 marzo 2005,
SEC(2005)364.
(150) www.europa.eu.int.
(151) Commissione europea, Comunicazione “Verso una cultura di maggiore consultazione
e dialogo – Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti inteche
bisognerebbe accrescere la trasparenza delle procedure specie in relazione
all’ampiezza dei feedbacks.
Anche le analisi di impatto della regolazione finalizzate sono aumentate
e alle stesse si dà adeguata pubblicità (152). Tuttavia, al fine di migliorare la
qualità e la quantità delle IAs nonché per implementare una metodologia
armonizzata, la Commissione, su invito degli incontri ECOFIN (ma anche si
quelli del Consiglio Competitività) del marzo, dell’ottobre e del dicembre
2004, ha fatto partire progetti mirati (tra cui il famoso I.Q.Tools project) volti
a identificare una serie di indicatori e modelli per consentire una più efficace
valutazione degli oneri di regolazione per le imprese (administrative burdens)
(153).
DOTTRINA 347
ressate ad opera della Commissione” dell’11.12.2002, COM(2002)704, in www.europa.
eu.int.
(152) Sono tutte pubblicate sull’Impact Assessment page del sito www.europa.eu.int.
(153) Dagli studi (cfr. il Rapporto “Minimising administrative costs imposed by legislation
” (SEC(2005)175), allegato alla Comunicazione della Commissione europea “Better
Regulation for Growth and Jobs in the European Union” del 16 marzo 2005,
COM(2005)97) è emersa la preferenza della Commissione a optare per la c.d. “micro assessment
methodology” che, a differenza della “macro assessment methodology” (che si prefigge
di raggiungere risultati di analisi “di settore” che procedono per statistiche effettuate su
campioni rappresentativi di imprese cui viene solitamente richiesto di compilare un questionario),
effettua l’analisi di impatto seguendo un approccio individuale di valutazione su
provvedimenti normativi singolarmente considerati che si fondano prevalentemente su
interviste dirette di imprese e simulazioni di esperti.
Il metodo proposto dalla Commissione è il c.d. “EU Net Administrative Cost Model”
che, pur avendo in comune con lo “Standard Cost Model” olandese la natura di “micro
assessment methodology”, presenta rilevanti tratti caratteristici differenziali: 1) non è un
metodo limitato alle sole imprese (“assess net costs of administrative obligation imposed on
enterprises, the voluntary sector, public authorities and citizens, distinguishing between
national, EU and international origins”), 2) considera i costi netti (nuovi costi imposti meno
quelli soppressi), 3) comprende anche i one-off costs (occasionali).
La questione dei criteri di misurazione, pertanto, si pone in termini ancora più spinosi
anche per le analisi costi/benefici afferenti agli effetti della regolazione sul contesto sociale
e ambientale di riferimento (e, in generale, in relazione ai c.d. valori non monetizzabili).
348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il fatto eccessivo colposo.
I limiti di operatività: l’errore colposo su
scriminante non esistente (art. 59, u.c., c.p.)
e il fatto colposo giustificato
di Sara Ronconi (*)
L’articolo 50 del codice Zanardelli del 1889, dopo aver sancito all’art. 49
la non punibilità del fatto commesso per disposizione della legge e ordine
dell’Autorità, per legittima difesa o per stato di necessità, regolava l’“eccesso
scusabile”, stabilendo: “Colui che, commettendo un fatto nelle circostanze
prevedute dall’articolo precedente, ha ecceduto i limiti imposti dalla
legge, dall’Autorità o dalla necessità, è punito con la detenzione per un
tempo non inferiore a sei anni, ove la pena stabilita per il reato commesso
sia l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato medesimo
ridotto a misura non inferiore ad un sesto e non superiore alla metà, sostituita
la detenzione alla reclusione e l’interdizione temporanea dai pubblici
uffici all’interdizione perpetua”.
Il codice penale del 1889 considerava, dunque, l’eccesso come mera circostanza
attenuante senza che rilevassero, ai fini della sua applicabilità, i
possibili coefficienti psicologici, lasciando pertanto al giudice, nella latitudine
della pena diminuita, la valutazione della maggiore o minore gravità del
reato a seconda che l’eccesso fosse dovuto a dolo o colpa, o alla prevalenza
dell’uno o dell’altro elemento nell’ipotesi di contestuale concorso.
I codici penali per l’esercito e la marina del 1869 d’altra parte prevedevano
per il tempo di pace soltanto l’eccesso – sempre senza specificarne la
causa – nella legittima difesa per l’insubordinazione (art. 126 c.p. esercito,
146 c.p. marina) e nella esecuzione di ordini o di consegne per i reati di omicidio,
lesioni e percosse (art. 170 c.p. esercito, 192 c.p. marina).
La mancata definizione espressa dell’ambito soggettivo di applicazione
della norma ha indotto l’elaborazione dottrinaria verso una circospezione
della figura dell’eccesso scusabile ai casi di “esorbitanza colposa” dai limiti
scriminanti, posto che “la causa di questo speciale e favorevole trattamento,
sia nella quantità sia nella qualità della pena, risiede nel concetto, a cui si
informano le ipotesi di questo eccesso, cioè che l’agente nel commettere o
nell’omettere il fatto delittuoso manca di dolo, e l’azione o l’omissione sono
piuttosto informate a colpa” (1).
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
(1) G. CRIVELLA, Il codice penale per il Regno d’Italia (approvato dal r.d. 30 giugno
1889, con effetto dal 1° gennaio 1890) Torino, 1890-1898, II, 491, ss.
DOTTRINA 349
Si escludevano, quindi, dalla disciplina dell’art. 50 i casi di eccesso
doloso. Parimenti fuori dall’applicazione di tale norma restavano, secondo
l’opinione generale fondata sul testo della Relazione ministeriale del 1887
(“anche l’eccesso, però, deve andare impunito se non possa neanche imputarsi
a colpa […]” (2)), le ipotesi di eccesso incolpevole.
Mancando ogni formale riferimento al titolo soggettivo d’imputazione
del fatto commesso in eccesso e non essendo la (sia pure ridotta) punibilità
della condotta eccessiva subordinata alla previsione legale espressa della
corrispondente fattispecie colposa, la riduzione di pena ex art. 50 trovava il
proprio fondamento nella ritenuta opportunità che a tale condotta si applicasse
“la sanzione stabilita per il reato commesso [...] mitigata sensibilmente in
proporzione del carattere originariamente legittimo del fatto; ciò che meglio
non potrebbe farsi se non diminuendo la pena di una frazione determinata”
(Relazione ministeriale sul progetto del 22 novembre 1887). Il trattamento
sanzionatorio disposto per il corrispondente reato doloso, la cui realizzazione
risultava inizialmente giustificata, veniva mitigato, con parametri piuttosto
larghi, dalla scusante dell’art. 50, al fine di non mandare impunito l’autore
del fatto “per l’azione eccedente i limiti di quanto era richiesto dal proprio
dovere o dalla tutela del proprio o dell’altrui diritto” (3).
L’eccesso colposo, così come adesso dettagliatamente disciplinato e previsto
nell’art. 55 c.p., “può considerarsi un istituto penalistico senza veri e
propri precedenti legislativi” (4) .
Nei lavori preparatori per il codice penale vigente fu chiaramente illustrato,
stante la sottolineata mancanza di antecedenti codicistici, il concetto
che l’eccesso si risolve in un abuso del diritto determinato da errore che “se
dipendente da dolo, non è più errore, perché se uno erra dolosamente, non
erra; se uno abusa dolosamente del suo diritto, non è più possibile parlare di
errore: errore doloso è una contraddizione in termini...” (5); pertanto, le
cause di giustificazione vennero integrate da una norma riguardante l’eccesso
puramente colposo rispetto ai limiti per esse stabiliti dalla legge.
La Relazione ministeriale precisa la nozione di eccesso “colposo” nel
senso di “errore... conseguente a condotta colposa”, e ribadisce, in definitiva:
“l’avverbio colposamente... scolpisce il sistema, che può riassumersi
così: fuori dell’ipotesi di colpa nell’eccesso, non trova applicazione l’articolo
55” (6). Stando al parere dei compilatori del codice vigente, dunque, “alla
base dell’eccesso colposo vi sarebbe sempre, da parte dell’agente, un errore
di valutazione della situazione che costituisce il presupposto delle cause di
giustificazione”.
(2) Relazione ministeriale sul progetto del 22 novembre 1887.
(3) Relazione ministeriale sul progetto del 22 novembre 1887.
(4) P. SIRACUSANO, Eccesso colposo, in Dig. Disc. Pen., IV, 1990, 180 ss.
(5) Verbali della relazione ministeriale n. 14.
(6) Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, I, Roma, 1929, 99.
350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Esulano dalla previsione dell’art. 55 del codice Rocco le ipotesi di eccesso
doloso (o volontario) e di eccesso dovuto a caso fortuito (o incolpevole).
L’eccesso doloso si realizza quando il soggetto agente è consapevole di
superare i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti
dalla necessità e ciononostante pone volontariamente in essere la condotta
eccessiva.
La stessa legge penale in presenza di una causa di non punibilità
dichiara giustificata la lesione di un interesse penalmente protetto: il dolo
sta appunto nella coscienza di offendere oltre i limiti consentiti un bene
giuridico.
In particolare, la responsabilità a titolo di dolo dovrà riconoscersi “non
soltanto quando l’agente fosse consapevole del carattere esagerato o ultroneo
rispetto ai presupposti a lui noti della scriminante (valutazione di mero
fatto), ma anche quando l’agente abbia voluto l’evento causato ritenendo
più ampi i confini legislativi della causa di giustificazione (irrilevanza dell
’errore di diritto penale o errore sul divieto, art. 5 c.p.). Così, quando F
abbia preso a pugni il ragazzino che gli stava rubando alcune albicocche
dall’albero, verserà in eccesso doloso in legittima difesa sia che fosse consapevole
della sufficienza, per difendere i suoi beni, di una reazione meno
violenta, sia che ritenesse il suo comportamento autorizzato dall’ordinamento
” (7).
La stessa legge penale in presenza di una causa di non punibilità
dichiara giustificata la lesione di un interesse penalmente protetto: il dolo
sta appunto nella coscienza di offendere oltre i limiti consentiti un bene
giuridico.
L’eccesso dovuto a caso fortuito s’identifica, invece, in quelle ipotesi
caratterizzate dalla dipendenza del comportamento oggettivamente eccessivo
da un errore – non importa se intervenuto nella fase formativa della
volontà ovvero nella fase attuativa della condotta – incolpevole, ossia tale da
non poter essere evitato neppure da un ipotetico agente modello, che si fosse
trovato ad operare nelle medesime circostanze.
L’eccesso è dovuto ad errore, e non è quindi rappresentato e voluto dal
soggetto; poiché l’errore è imputabile a caso fortuito non può sorgere responsabilit
à penale nemmeno a titolo di colpa.
(7) M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1995, 500.
In giurisprudenza rilevano, fra le tante, le sentenze Cass. pen., sez. I, 15 aprile 1981, MP,
1981, n. 148.407, secondo cui l’eccesso consapevole e volontario, non rientrante nello schema
legale dell’art. 55 c.p., «si inserisce occasionalmente nel rapporto difesa-offesa, che utilizza per
la propria affermazione»; analogamente Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 1981, MP, 1981, n.
151.230; Cass. pen., sez. V, 5 ottobre 1982, MP, 1982, n. 155.353; Cass. pen., sez. V, 24 gennaio
1983, MP, 1983, n. 157.035, che ravvisa l’eccesso doloso nel caso di “scelta deliberata di una
determinata condotta reattiva, che superi dolosamente, ossia con coscienza e volontà, i limiti
imposti...)” ed ancora Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 1984, MP, 1984 n. 166.950; Cass. pen.. sez.
I. 6-7-1988, MP. 1988. n. 178.811; Cass. pen. sez. 1, 26 ottobre 1988. MP. 1988, n. 179.559.
DOTTRINA 351
Si pensi al caso dell’aggredito che abbia indirizzato correttamente lo sparo
verso parti non vitali dell’aggressore e ne abbia, tuttavia, causato la morte per
effetto di un improvviso ed imprevedibile spostamento della vittima (8).
È stato rilevato, però, che simile giudizio relativo alla natura dell’errore,
cui si deve l’eccesso, va formulato avendo riguardo non solo alla situazione
obiettiva, ma anche alle caratteristiche soggettive dell’agente concreto,
dovendosi valutare con maggiore rigore la condotta di coloro che sono specificamente
addestrati a gestire situazioni di pericolo (per es. agenti di pubblica
sicurezza) rispetto a quella di chi si trovi solo eccezionalmente ad
affrontare simili situazioni (9).
L’eccesso colposo è caratterizzato, invece, da un errore colposo in conseguenza
del quale l’agente ritiene di agire entro i limiti di ciò che è consentito:
l’oggetto della sua rappresentazione è una situazione lecita; poiché si
tratta di rappresentazione erronea colposa, la sua responsabilità non viene
meno quando il fatto è preveduto come delitto colposo.
Nel codice attuale l’art. 55 c.p. è “l’unica norma che si occupa specificamente
dell’eccesso nelle scriminanti” (10). Le due varianti psicologiche
dell’eccesso dai limiti di una causa di giustificazione, doloso ed incolpevole,
non avendo una disciplina ad hoc nel vigente assetto legislativo, saranno
trattati come un qualunque caso di responsabilità dolosa il primo, e come una
qualunque ipotesi di condotta incolpevole il secondo.
Un’altra questione è quella relativa alla necessità dell’effettiva esistenza
della causa di giustificazione, ammettendo o negando che la medesima possa
essere anche solo putativa. Il soggetto agente può, dunque, eccedere colposamente
i limiti di una scriminante effettivamente esistente od anche solo
creduta per errore esistente; agendo, cagiona un evento più grave di quello
che la situazione supposta avrebbe legittimato (es., ritiene che un aggressore
minacci la sua integrità fisica; potendo difendersi ferendo l’aggressore,
sbaglia maldestramente il colpo e cagiona la morte dell’aggressore).
L’art. 55 c.p., secondo parte della dottrina (11), prevedendo la commissione
di “alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54”, e di eccesso dai
“limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla
(8) L’esempio è riportato da T. PADOVANI, Difesa legittima, in Dig. Disc. pen., III,
Torino, 1989, 496 ss.
(9) S. MALIZIA, Eccesso colposo, cit., pp. 119-120.
La diversità di regime giuridico tra eccesso doloso, colposo e incolpevole è riconosciuta
in giurisprudenza. Cfr.: Cass. pen., sez. I, 5 luglio 1991, in Cass. pen. 1993, p. 820; Cass.
pen., sez. I, 5 agosto 1992, in Giust. pen., 1993, II, c. 299; Cass. pen., sez. I, 24 settembre
1997, n. 4781, ivi, 1998, II, c. 261.
(10) ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 1987, 497 ss.
S’intende nel diritto penale comune. Una figura di eccesso colposo molto simile a quella
prevista nell’art. 55 c.p. è disciplinata nell’art. 45 c.p.m.p.
(11) GROSSO, C.F., L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, 250 ss.; AZZALI G.,
L’eccesso colposo, 1965, 15 ss.; contra MALIZIA S., 119; in giurisprudenza: Cass. pen., 10
luglio 1967, in Cass. pen. Mass., 1968, 524; Cass. pen., 18 novembre 1971, ivi, 1973, 745.
352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
necessità”, sembra fare riferimento a situazioni reali. Se ciò è vero, dal suo
ambito di applicazione dovrebbero essere escluse tutte le ipotesi di eccesso nei
confronti di situazioni meramente putative, ed alla sua stregua rilevare soltanto
le situazioni di eccesso rispetto ad esimenti che esistono nella realtà.
Il discrimen rispetto all’ipotesi di cui all’art. 59, u.c., c.p. dell’erronea
supposizione di una scriminante di fatto non esistente sarebbe ravvisabile,
appunto, nella effettiva esistenza della causa di giustificazione nell’ipotesi di
cui all’art. 55 c.p..
A ben vedere, l’eccesso rappresenta una evoluzione del comportamento
dell’agente da una situazione scriminante che assume rilevanza ex se sia essa
oggettivamente esistente o anche solo soggettivamente esistente.
Per il soggetto agente il comportamento è consentito e il fine dal medesimo
voluto lecito. Pertanto nulla osta a che la scriminante di fatto non esista
purché il soggetto si determini all’azione sul presupposto erroneo della
sua esistenza. L’art. 55 disciplina l’evolversi di siffatto comportamento e del
fine non voluto eccedente il consentito e quindi ingiustificatamente lesivo,
che l’agente avrebbe potuto evitare.
La questione è risolvibile facendo ricorso alle norme che regolano in generale
il dolo e l’errore. “Se il soggetto suppone per errore colposo presente una
causa di giustificazione, l’evento cagionato, sia esso coperto dalla esimente
ritenuta erroneamente presente, o ecceda, invece, i limiti della situazione erroneamente
considerata presente, verrà addebitato a titolo di colpa ai sensi dell
’art. 59, ult. cpv., 2ª pt., c.p.; sarà, invece, imputato a titolo di dolo se il soggetto
era consapevole della reazione in eccesso rispetto al putativo (es., supposizione
erronea colposa di una aggressione che giustificherebbe una blanda
reazione contro l’aggressore; l’aggredito, pur rendendosi conto che il pericolo
giustificherebbe soltanto tale reazione, decide di sfruttare l’occasione per uccidere
il presunto aggressore, suo acerrimo nemico)” (12). Qualora, invece, l’erronea
supposizione degli estremi della causa di giustificazione sia scusabile,
l’evento verrà addebitato a titolo di colpa ove l’eccesso rispetto al putativo sia
dovuto a colpa. La consapevolezza dell’agente integra, invece, un’imputazione
a titolo di dolo e di non addebitabilità del fatto qualora sia dovuto ad errore
scusabile e pertanto all’agente non rimproverabile.
La contraria opinione condurrebbe all’assurdo o di mandare impunito
l’agente, nonostante l’eccesso colposo in una causa di non punibilità putativa,
oppure di equipararlo a chi agisce indipendentemente dall’opinione di
versare in una causa di non punibilità (13).
Sia in presenza dei presupposti oggettivi di una causa di esclusione della
punibilità, sia nelle ipotesi di esimente erroneamente supposta ex art. 59.4,
(12) C.F. GROSSO, Eccesso colposo, in Enc. Giur. Treccani, XII, 1989, 1 ss.
(13) Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che l’eccesso colposo si verifica
anche in presenza di una causa di giustificazione putativa, salvo le seguenti eccezioni: DE
MARSICO, Questioni in tema di legittima difesa putativa di eccesso di difesa, in Riv. Pen.,
1949, I, 545; ALIMENA F., Tentativo e colpa, in Giust. Pen., 1943, II, 262.
DOTTRINA 353
dunque, può accadere che l’agente, nel dar corso all’azione, superi involontariamente
i limiti richiamati dalle cause giustificatrici: o per un errore nell
’uso dei mezzi nella fase esecutiva (errore-inabilità), o per un errore di valutazione
della situazione di fatto (errore-motivo) dipendenti da difetto colpevole
di conoscenza da parte dell’agente o da altre inosservanze di norme di
condotta in cui può manifestarsi la colpa secondo l’art. 43 c.p.
Perché ricorra l’ipotesi prevista dall’art. 55 è necessario che ricorrano i
presupposti oggettivi di una causa di giustificazione, ovvero quelli richiesti per
l’applicazione dell’art. 59.4; che l’autore agisca nella consapevolezza di realizzare
una condotta corrispondente a quella prevista dalla norma permissiva;
che egli cagioni una lesione di beni, più grave di quella strettamente funzionale
alla realizzazione del fine contemplato nell’ipotesi giustificatrice (difesa,
adempimento di un dovere, salvaguardia della propria incolumità); che tale
eccesso dai fini dell’azione giustificata gli si possa addebitare a titolo di colpa.
L’eccesso configurato dall’art. 55 c.p. – riguardato sotto il profilo obiettivo
– consiste “nel fatto che, dall’ambito della circostanza scriminante,
sconfina in quello della norma incriminatrice” (14).
Codesto sconfinamento dalla sfera del penalmente giustificato a quella del
penalmente illecito è stata spiegata da parte della dottrina elaborando la c.d.
teoria delle due fasi. Il fatto, cioè, attraverserebbe due fasi diverse e distinguibili,
almeno logicamente, se non sempre in senso strettamente cronologico.
“Nell’eccesso ci troviamo in presenza di un fatto che, fino ad un certo
punto del suo svolgimento, è sorretto da una causa di giustificazione in realtà
esistente” (15). In una prima fase il comportamento sarebbe strutturalmente
riconducibile agli estremi tipologici e fattuali di una causa di giustificazione.
In concomitanza con l’esaurimento di codesta prima fase si perviene ad una
seconda fase l’apertura della quale sancirà che da questo momento in poi il comportamento
in questione non potrà più considerarsi “coperto dalla scriminante e,
proprio in quanto non più giustificato, diviene antigiuridico (illecito)” (16).
Una delle maggiori critiche sollevate avverso la concezione bifasica
della struttura oggettiva-fenomenica del fatto eccessivo consiste nell’esser
stata plasmata sul modello con la più alta frequenza statistica in tema di
eccesso colposo, cioè la legittima difesa. “[…] perché si abbia eccesso colposo
nella difesa occorre che il fatto sia stato cominciato nelle circostanze
presupposte dalla difesa legittima” (17), in un secondo momento, poi, il
comportamento difensivo-reattivo va fuori misura, diventa sproporzionato,
esuberante; “eccessivo” rispetto ad una “situazione aggressiva” (18) con
determinate connotazioni di intensità offensiva e di estensione temporale. In
particolare, è stato rilevato che nella legittima difesa l’eccesso colposo “può
(14) AZZALI, L’eccesso colposo, 1965.
(15) M. GALLO, Colpa penale, in Enc. Dir., 1960, 250 ss.
(16) ROMANO, Commentario, cit.
(17) MANZINI, Trattato, 368 ss.
(18) PADOVANI, Difesa legittima, 501.
354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
presentarsi come eccesso intensivo (superamento della misura della necessit
à di difesa o proporzione), o come eccesso estensivo (superamento dei limiti
cronologici dell’attualità dell’offesa)” (19).
“Dal punto di vista subiettivo possono individuarsi due distinte «forme» di
eccesso colposo” (20). La prima forma – in definitiva coincidente con quella
prospettata nella tesi monistica – sarebbe caratterizzata da un errore di valutazione
e si verifica allorché l’agente valuta erroneamente la situazione, ritenendo
così di rientrare nella scriminante, e, pertanto, vuole l’evento più grave. “Si
difende ad esempio il diritto ingiustamente aggredito uccidendo l’aggressore
senza che ricorrano i requisiti della necessità e della proporzione” (21).
La seconda forma, connotata invece dalla “colpa quale viene comunemente
intesa”, sarebbe riconducibile allo “schema dell’errore di esecuzione,
che importa una responsabilità colposa per quanto cagionato fuori o al di là
del voluto” (22).
Nell’ipotesi di errore-inabilità il soggetto valuta esattamente, come è
nella realtà, la situazione di fatto nella quale si trova ad agire ma per errore
di esecuzione cagiona un evento più grave di quello voluto.
Se nella prima forma di eccesso per errore-motivo “non vi è volontà dell
’evento, la cui realizzazione viene ritenuta necessaria ai fini di allontanare
il pericolo”; nella seconda per errore-inabilità “vi è la colpa quale viene
comunemente intesa” essendo tale ipotesi connotata dalla “[…] volontà della
condotta, mentre l’evento non è voluto e si verifica per imprudenza, negligenza,
imperizia nell’esecuzione della condotta” medesima (23).
Secondo parte della dottrina, però, l’eccesso colposo di cui all’art. 55
c.p. si esaurirebbe ai soli casi di eccesso dovuto ad errore sulle scriminanti
(tesi monistica). In particolare, l’art. 55 disciplinerebbe specificamente una
ipotesi di supposizione erronea della presenza di una causa di giustificazione,
che si differenzierebbe da quella prevista dall’art. 59, ult. cpv., c.p. perch
é se l’errore disciplinato da quest’ultimo articolo presuppone la mancanza
degli estremi oggettivi della esimente, quella contemplata dall’art. 55 c.p.
presuppone invece l’esistenza di una causa di giustificazione, sia pure in una
dimensione diversa da quella oggetto di rappresentazione da parte dell’agente.
“Di qui la prova che il legislatore ha verosimilmente pensato all’eccesso
colposo con riferimento al caso specifico dell’eccesso dovuto ad errore sulle
scriminanti, ed in questa prospettiva ha tracciato con precisione la linea di
demarcazione fra gli artt. 59, ult. cpv., e 55 c.p.” (24) .
“Il tema della struttura colposa dell’eccesso, in realtà, si propone e si
riassume là dove la norma contempla il fatto quale commesso colposamen-
(19) ROMANO, Commentario, cit., 501.
(20) V. P. NUVOLONE, Le due forme dell’eccesso colposo, in Trent’anni di diritto e procedura
penale, I, 1969, 613 ss.
(21) AZZALI G., L’eccesso colposo, 1965, 17 s.
(22) Così ancora NUVOLONE, op. loc. ult. cit.
(23) NUVOLONE, op. loc. ult. cit.
(24) C.F. GROSSO, op. ult. cit.
DOTTRINA 355
te” (25) ed, in particolare, con riferimento alle ipotesi di eccesso colposo
dovuto ad errore-motivo.
In questo caso, infatti, l’eccesso è determinato da un errore evitabile di
rappresentazione sui presupposti fattuali (descrittivi o normativi extrapenali)
della scriminante, tale da indurre il soggetto agente a volere il comportamento
tipico (eccessivo), credendolo giustificato dall’ordinamento. Ciò appare, evidentemente,
in contrasto con la definizione codicistica del delitto colposo
come delitto “contro l’intenzione”, connotato dall’involontarietà dell’evento.
In questa ipotesi “vi è la volontà della condotta e la volontà dell’evento,
la cui realizzazione viene per errore ritenuta necessaria ai fini di allontanare
il pericolo”. Si tratta, pertanto, di una “volontà viziata, tuttavia, da un errore
di valutazione” (26).
La giurisprudenza e la dottrina prevalente sono propense ad affermare la
natura sostanzialmente colposa anche dell’eccesso dovuto ad errore-motivo.
L’esclusione del dolo viene spiegata con la considerazione secondo cui,
in simili ipotesi, a determinare la volontà del soggetto non è l’evento eccessivo,
bensì la tutela di un bene giuridico che l’agente ritiene erroneamente di
poter realizzare per mezzo, proprio, di tale evento.
“La volontà che si dirige all’evento è dovuta ad una negligenza che si
instaura sul processo volitivo dell’azione, operando in modo da far travisare
al soggetto i limiti entro i quali può contenersi... È in base a tale negligenza
che egli aggredisce illecitamente gli altrui diritti” (27). Con riferimento all’ipotesi
di eccesso colposo in legittima difesa “involontario nell’eccesso colposo
non è l’evento, ma soltanto l’eccesso, il rapporto cioè di sproporzione
fra l’offesa e la difesa” (28).
Oggetto del rimprovero non è di aver voluto l’evento (che l’agente ha del
resto voluto in costanza di una rappresentazione erronea…), bensì di averlo
imprudentemente, negligentemente ecc.. causato. L’errore di valutazione
determina l’agente alla condotta eccessiva e a volere l’evento ulteriore.
Usando l’ordinaria diligenza questo sarebbe stato evitato. L’errore in quanto
evitabile diventa inescusabile ed al soggetto rimproverabile. La volontarietà
dell’evento è qui viziata da un errore inescusabile che si converte in una falsa
rappresentazione dei confini entro i quali è consentito agire; mancando l’esatta
conoscenza della situazione concreta, esula l’elemento del dolo.
In definitiva in questa forma di eccesso ricavabile dall’art. 55 c.p. può,
quindi, dirsi sussistente il dato strutturale psicologico-normativo “colpa”.
Una rilevante conseguenza che si trae da tale spiegazione è il venir meno
della distinzione tra colpa propria caratterizzata dalla mancanza di volontà
dell’evento e colpa impropria nella quale ultima si fanno tradizionalmente
(25) AZZALI F., L’eccesso, cit., 118.
(26) NUVOLONE, op. loc. ult. cit.
(27) PETTOELLO MANTOVANI, Il concetto ontologico del reato, 187.
(28) DELITALA, Legittima difesa e reato colposo, 461.
356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
rientrare i casi di eccesso colposo nelle cause di giustificazione (art. 55), di
erronea supposizione colposa di una scriminante (art 59, u.c.) e di errore di
fatto determinato da colpa (art. 47). L’ipotesi di colpa impropria si configurerebbe
eccezionalmente nonostante la volizione dell’evento.
Da quanto sopra sostenuto tutte queste ipotesi sono strutturalmente colpose:
nonostante la volizione in senso psicologico dell’evento il dolo non è
configurabile per la mancanza della coscienza e volontà dell’intero fatto tipico,
stante l’erronea rappresentazione di elementi non corrispondenti alla
realtà. Non si rimprovera all’agente di aver voluto l’evento, ma di averlo
cagionato per negligenza o imperizia.
Inoltre, e da altro punto di vista, la contraddizione tra la definizione legale
di delitto colposo incentrata sulla non volizione di un simile evento, e l’ipotesi
eccesso colposo per errore-motivo nella quale esso risulta voluto,
appare superabile ove si intenda il termine evento adoperato nell’art. 43.1
come offesa dell’interesse protetto dalla norma penale, e non come mero
risultato materiale della condotta.
Nell’eccesso colposo per errore-motivo, infatti, mentre, da una parte,
l’evento naturalistico può dirsi certamente voluto dall’agente, sia pure per un
errore sugli elementi descrittivi o normativi extrapenali della scriminante,
dall’altra, proprio per effetto di tale errore di rappresentazione, l’evento nella
sua accezione giuridica, quale offesa ad interessi normativamente tutelati dal
punto di vista penale, non può considerarsi oggetto dell’intenzione dell’agente,
essendo questa animata, piuttosto, dal fine di realizzare un’attività
ritenuta, per errore colposo, giustificata, analogamente a quanto accade nel
caso disciplinato dall’arto 59, ult. cpv., 2ª parte, c.p..
Il discrimen tra l’eccesso per errore colposo e il fatto colposo giustificato
è ravvisabile proprio nella volontà dell’evento. L’eccesso colposo presuppone,
infatti, un’azione intenzionalmente diretta a una lesione di beni che si
concretizza nella realizzazione di un evento ulteriore, eccessivo rispetto al
consentito ed alle necessità di tutela.
Nonostante non manchino contrasti in dottrina, si può affermare la applicabilit
à delle cause di giustificazione ai reati colposi sulla base delle seguenti
considerazioni.
Non solo gli art. 50-54 c.p., infatti, non distinguono in alcun modo tra
fatto doloso e fatto colposo; ma non vi è alcun dubbio che, anche in relazione
a questi ultimi, l’antigiuridicità – “indiziata” dalla sussistenza del fatto
tipico – possa risultare esclusa per il ricorrere dei presupposti di una causa di
giustificazione.
Se, infatti, la presenza dei presupposti di una causa di giustificazione ha
l’effetto di rendere non punibile la condotta dolosa che abbia cagionato una
determinata lesione di beni, a maggior ragione gli stessi effetti giuridici
dovranno conseguire, nell’ipotesi in cui, nelle medesime circostanze di fatto,
quella lesione di beni si verifichi come conseguenza di una condotta colposa:
una condotta, cioè, contrassegnata per definizione da un disvalore di
azione meno intenso, rispetto a quella dolosa.
DOTTRINA 357
Le procedure di affidamento degli incarichi di
progettazione nel nuovo codice degli appalti
di Emanuela Rosanò (*)
SOMMARIO: 1.- Sul dato normativo. 1.1.- Sull’ambito di applicazione del nuovo codice
degli appalti. 1.2.- In particolare, sulla nozione di organismo di diritto pubblico. 2.- Sulla
progettazione. In particolare sulla procedura di affidamento degli incarichi di progettazione.
2.1.- Contratti di rilevanza comunitaria (parte I, titolo I, artt. 28 ss.). 2.2.- Contratti
sotto soglia comunitaria (parte II, titolo II, artt. 121-125). 2.3.- Incarichi di progettazione
di importo inferiore a 100.000 euro (art. 91, comma 2). 2.4.- Regole comuni agli affidamenti
sopra e sotto soglia. 3.- Conclusioni.
1. Sul dato normativo
È opportuno il riferimento al codice degli appalti pubblici e privati
(D.Lgs. 163/06), entrato in vigore il 1 luglio 2006. La disciplina dei procedimenti
per la progettazione, verifica e validazione, nonché per i criteri di
selezione del progettista, è collocata negli artt. 90-112 (Capo IV, Titolo I,
Parte II). Allo, stato, tuttavia, come si dirà nel prosieguo, numerose disposizioni
che interessano la progettazione risiedono ancora nel d.P.R. 554/99 fino
alla pubblicazione del nuovo regolamento prevista entro un anno dal 1 luglio
2006.
1.1. Sull’ambito di applicazione del nuovo codice degli appalti
Ai sensi dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. 163/06 “Il presente codice disciplina
i contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti
aggiudicatori, aventi per oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori
e opere”. L’art. 3, comma 25, definisce «amministrazioni aggiudicatrici» “le
amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici
non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni,
consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti”.
La nozione di “organismo di diritto pubblico” è desumibile dal diritto
comunitario (cfr. art. 2 direttiva 2004/17 trasfuso nell’art. 3, comma 26 del
codice) ed identifica “qualsiasi organismo, anche in forma societaria:
– istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale,
aventi carattere non industriale o commerciale;
– dotato di personalità giuridica;
– la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli
enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui
(*) Avvocato del Foro di Firenze.
358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione,
di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali
più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da
altri organismi di diritto pubblico”.
L’art. 32 del D.Lgs. 163/06 individua i contratti per i quali trova applicazione
la disciplina dettata nel titolo I della parte II (concernente in particolare
i contratti nei settori ordinari), nonché nelle parti I, IV e V.
La disposizione deve essere letta in combinato disposto con l’art. 3, che
contiene le definizioni concernenti i soggetti richiamati dal medesimo articolo
32.
La previsione stabilisce, innanzitutto, un limite di tipo quantitativo: le
norme di cui alla parte II, titolo I, nonché quelle della parti I, IV e V, si applicano
ai contratti il cui importo sia pari o superiore alle soglie di rilevanza
comunitaria di cui all’art. 28 e fa riferimento, per quanto qui più rileva:
a) ai contratti di lavori, servizi e forniture affidati dalle amministrazioni
aggiudicatici;
b) agli appalti di lavori pubblici affidati dai concessionari di lavori pubblici
che non sono amministrazioni aggiudicatici, nei limiti stabiliti dall’art.
142;
c) ai contratti di lavori, servizi e forniture affidati dalle società con capitale
pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto
pubblico e che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori
o opere, ovvero la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati
sul mercato in regime di libera concorrenza. Fra queste vengono espressamente
richiamate le società che gestiscono i servizi pubblici locali previste
dagli artt. 113, 113-bis, 115 e 116 del T.U. 267/00.
Il terzo comma concerne esclusivamente le società miste locali che
gestiscono i servizi pubblici sulla base di affidamento diretto o in regime di
privativa, le quali non sono tenute ad applicare le norme previste dal codice
per l’affidamento dei contratti che attengono alla realizzazione dell’opera
pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente
costituite, a condizione che:
1) la scelta del socio privato sia avvenuta nel rispetto delle procedure di
evidenza pubblica;
2) il socio privato abbia i requisiti di qualificazione previsti dal codice in
relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita;
3) la società provveda in via diretta alla realizzazione dell’opera o del
servizio, in misura superiore al 70% del relativo importo.
1.2. In particolare, sulla nozione di organismo di diritto pubblico
Tra i soggetti sopra richiamati l’organismo di diritto pubblico è quello
che ha dato maggiori problemi di concreta identificazione.
Come detto, tali soggetti, si qualificano per la presenza necessaria e
cumulativa di tre parametri: a) il possesso della personalità giuridica, pubblica
o privata; b) il fine istituzionale, rivolto alla soddisfazione di bisogni di
interesse generale, diversi da quelli industriali e commerciali; c) il rapporto
DOTTRINA 359
di stretta dipendenza dallo Stato, da enti pubblici territoriali o da altri organismi
di diritto pubblico.
Quanto al primo requisito, costituiscono bisogni di interesse generale
aventi carattere non industriale o commerciale, quei bisogni che, da un lato,
sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato e,
dall’altro, al cui soddisfacimento lo Stato preferisce provvedere direttamente,
o con riguardo ai quali, preferisce mantenere un’influenza dominante (1).
Maggiori problemi pone l’individuazione del terzo requisito, e cioè, il
perseguimento di finalità di interesse generale aventi carattere non industriale
o commerciale.
La giurisprudenza, a tal proposito, non ha assunto univoci criteri; da ultimo
ha affermato che “devono intendersi per “bisogni di interesse generale”,
ai fini individuativi dell’organismo in parola, quelli riferibili ad una collettivit
à di soggetti, di ampiezza e contenuto tali da giustificare appunto la
creazione di apposito organismo, sottoposto all’influenza dominante dell
’autorità pubblica, deputato alla loro soddisfazione. E che non abbiano,
peraltro, carattere commerciale e industriale, nel senso che non devono
essere suscettibili, (detti bisogni) di soddisfacimento mediante attività, di
produzione o scambio di beni o servizi, connotata da imprenditorialità o
scopo di lucro”(2).
Il dato che assume rilevanza è, in buona sostanza, la finalizzazione dell
’attività dell’ente a soddisfare esigenze generali della collettività di natura
non commerciale o industriale.
La qualifica di organismo di diritto pubblico impone all’ente detentore
di rispettare la normativa comunitaria in materia di evidenza pubblica, in
sede di affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture, mediante il ricorso
a procedure concorrenziali di scelta del contraente.
1.2.1) Il requisito dello svolgimento di attività per la realizzazione di
lavori o opere o per la produzione di beni o servizi non destinati ad essere
collocati sul mercato in regime di libera concorrenza è previsto dal legislatore
anche con riferimento a società, non qualificabili come organismi di
diritto pubblico e, tuttavia, soggette al rispetto delle procedure dell’evidenza
(1) La giurisprudenza, comunitaria e nazionale, interpreta estensivamente il requisito
attribuendo la qualifica di organismo di diritto pubblico anche alle “società di diritto privato
che soddisfano i prefati requisiti, poiché è indifferente la forma di costituzione degli organismi
de quibus”(Corte di Giustizia CE 15 maggio 2003, CS, 2003, II, 1073).
(2) Cfr. Cass. Sez. Un., 4 maggio 2006 n. 10218, in www.giustamm.it, fattispecie resa
in relazione a gara di appalto bandita da S.p.AG. S. che, in forza di contratto con la Ferrovie
dello Stato S.p.A., svolge attività di riqualificazione, gestione e valorizzazione di spazi
interni all’edificio della stazione. Secondo la Cassazione la società non è qualificabile
“organismo di diritto pubblico” non essendo la sua attività finalizzata alla realizzazione di
bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale.
360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
pubblica (v. art. 32, comma 1. lett. c del D.Lgs. 163/06 che annovera tra i
soggetti aggiudicatori (diversi dalle amministrazioni aggiudicatrici) “ le
società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi
di diritto pubblico e che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione
di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi non destinati
ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza”).
La necessità di prevedere espressamente tale categoria tra quelle per le
quali si impone l’applicazione della disciplina pubblicistica è da rinvenirsi
nella circostanza che non sempre queste società costituiscono organismi di
diritto pubblico. In particolare, il legislatore ha voluto evitare che società pubbliche
che agiscono in una posizione privilegiata, in quanto i beni o servizi
prodotti ovvero le opere realizzate non sono collocati sul mercato in regime
di concorrenza, possano sfuggire ai vincoli dell’evidenza pubblica (3).
2. Sulla progettazione. In particolare sulla procedura di affidamento degli
incarichi di progettazione (4).
Occorre premettere che, ai sensi dell’art. 253, comma 1 bis,
D.Lgs.163/06 (comma aggiunto dall’art. 1 octies D.L. 12 maggio 2006 n.
173, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione e successivamente
modificato dall’art. 1 D.Lgs. 26 gennaio 2007 n. 7), per i contratti relativi
a lavori, servizi e forniture, nei settori ordinari e speciali, le disposizioni di
cui agli artt. 33, commi 1 e 2 nonché comma 3 secondo periodo limitatamente
alle centrali di committenza, all’art. 58 (dialogo competitivo) e 59, limitatamente
ai settori ordinari (accordi quadro), si applicano alle procedure per
bandi o avvisi pubblicati dopo il 1 agosto 2007.
Le norme in materia di progettazione e concorsi di progettazione sono
contenute all’interno della parte II, titolo I, capo IV, artt. 90-120.
L’art. 90 del Codice De Lise ribadisce con alcune modifiche meramente
formali i commi da 1 a 9 dell’art. 17 della legge Merloni.
Il ricorso a professionisti esterni all’amministrazione aggiudicatrice
(liberi professionisti singoli o associati, società di ingegneria, relativi raggruppamenti
temporanei e consorzi stabili di società di professionisti e di
società di ingegneria iscritti negli appositi albi professionali e nominativamente
indicati) per l’affidamento delle attività di progettazione (preliminare,
definitiva ed esecutiva) e di quale tecnico-amministrative attinenti alla progettazione
è consentito solamente qualora il responsabile del procedimento
abbia preventivamente accertato e verificato a) carenza in organico di perso-
(3) AA.VV. a cura di M. Sanino, Commento al codice dei contratti pubblici, Milano,
2006, 173.
(4) Sul punto, M. SANINO, op. cit., Milano, 2006 pagg. 377-392; DE GIOIA, La progettazione,
i concorsi di progettazione e i principi relativi all’esecuzione del contratto, in
Urbanistica e Appalti, 9/06, pagg. 997-1002.
DOTTRINA 361
nale tecnico, b) difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei
lavori o di svolgere le funzioni di istituto, c) speciale complessità o di rilevanza
architettonica o ambientale dei lavori, d) necessità di predisporre progetti
integrali che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (art.
90, comma 6). La norma non indica, tuttavia, le modalità attraverso le quali
il responsabile del procedimento accerta e certifica la presenza delle situazioni
che consentono l’affidamento degli incarichi a professionisti esterni
all’amministrazione aggiudicatrice.
Anche l’art. 91 in tema di affidamento di incarichi di progettazione ribadisce,
con qualche modifica sia letterale che di coordinamento, l’art. 17 della
legge 109/94 (c.d. Merloni) distinguendo tra affidamenti sopra e sotto soglia
dei 100.000 euro.
Il comma 1 dispone – per l’affidamento di incarichi di progettazione per
importi pari o superiori a 100.000 euro – l’applicabilità delle disposizioni di
cui alla parte II, titolo I (contatti di rilevanza comunitaria) e II (contratti sotto
soglia comunitaria), mentre per i soggetti operanti nei settori speciali, le
disposizioni previste nella parte III del codice (art. 206 ss.). Il comma 2
dispone, invece, che per gli incarichi di importo inferiori a 100.000 euro è
sempre consentito l’affidamento diretto (o c.d. fiduciario) ai soggetti esterni
alla P.A. prima indicati nel rispetto dei principi di non discriminazione, parit
à di trattamento, proporzionalità e trasparenza.
L’art. 91 necessita di combinata lettura con le disposizioni di cui agli
articoli 28 (importi delle soglie dei contratti pubblici di rilevanza comunitaria)
e 121 (disciplina comune applicabile ai contratti pubblici di lavori, servizi
e forniture, di importo inferiore alla soglia comunitaria).
L’art. 28 – esclusi dal meccanismo delle soglie gli appalti di forniture del
ministero della difesa – vincola – all’applicazione delle regole generali contenute
nel codice – gli appalti pubblici il cui valore stimato (al netto della
imposta) sul valore aggiunto sia pari o superiore, a seconda della tipologia
dell’appalto e del soggetto appaltante, a tre distinte soglie:
a) 137.000 euro, per gli appalti pubblici di forniture e di servizi diversi
da quelli di cui alla lettera b.2), aggiudicati dalle amministrazioni aggiudicatrici
che sono autorità governative centrali indicate nell’allegato IV;
b) 211.000 euro:
b.1) per gli appalti pubblici di forniture e di servizi aggiudicati da stazioni
appaltanti diverse da quelle indicate nell’allegato IV;
b.2) per gli appalti pubblici di servizi, aggiudicati da una qualsivoglia
stazione appaltante, aventi per oggetto servizi della categoria 8 dell’allegato
II A, servizi di telecomunicazioni della categoria 5 dell’allegato II A, le cui
voci nel CPV corrispondono ai numeri di riferimento C.P.C. 7524, 7525 e
7526, servizi elencati nell’allegato II B;
c) 5.278.000 euro per gli appalti di lavori pubblici e per le concessioni
di lavori pubblici.
L’art. 121 dispone che “Ai contratti pubblici aventi per oggetto lavori,
servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria,
si applicano oltre alle disposizioni della parte I, della parte IV, e della parte
362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
V. anche le disposizioni della parte II, in quanto non derogate dalle norme
del presente titolo”.
In sintesi:
ai contratti di importo pari o superiore alle soglie di cui all’art. 28 del
codice, si applicano le norme della parte I, titolo I;
ai contratti di importo compreso tra 100,000 euro e le soglie di cui
all’art. 28 del codice si applicano le norme di cui alla parte II, titolo II del
codice;
ai contratti di importo inferiore a 100.000 euro si applica la procedura
negoziata prevista dall’art. 57, comma 6 del codice.
2.1. Contratti di rilevanza comunitaria (parte I, titolo I, artt. 28 ss.)
Ai sensi dell’art. 54 del codice, per la scelta degli operatori economici
che possono presentare offerte per l’affidamento di un contratto pubblico, le
stazioni appaltanti utilizzano le procedure aperte, ristrette, negoziate ovvero
il dialogo competitivo.
• Procedure aperte e ristrette (art. 55)
Le procedure aperte sono definite dal legislatore “procedure in cui ogni
operatore economico interessato può presentare un’offerta” (art. 3, comma
37, codice De Lise).
Le procedure ristrette “procedure alle quali ogni operatore economico
può chiedere di partecipare e in cui possono presentare un’offerta soltanto
gli operatori economici invitati dalle stazioni appaltanti, con le modalità
stabilite dal presente codice” (art. 3, comma 38)
La legge prescrive che il provvedimento con cui la stazione appaltante
decide di addivenire ad un contratto con una procedura aperta o ristretta deve
essere motivato in ordine alla scelta effettuata.
Il legislatore formula un’opzione nei confronti delle procedure ristrette
“quando il contratto non ha per oggetto la sola esecuzione o quando il criterio
di aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.
Il bando di gara indica il tipo di procedura e l’oggetto del contratto e può
prevedere che la stazione appaltante non procederà ad aggiudicazione in presenza
di una sola offerta valida, ovvero che le offerte non saranno valutate se
dovessero essere soltanto due. Anche in mancanza della previsione, vale
comunque il principio generale secondo il quale le stazioni appaltanti possono
decidere di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti
conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto (art. 81, comma
3). La norma prevede inoltre che nelle procedure aperte gli operatori economici
presentino le offerte secondo le modalità indicate nel bando. Nelle procedure
ristrette, per contro, gli operatori presentano la richiesta di invito nel
rispetto delle modalità e dei termini previsti dal bando e, successivamente, le
offerte nel rispetto dei termini e delle modalità fissate nella lettera di invito.
Per l’esame delle norme procedurali per l’aggiudicazione della gara si
rinvia agli articoli 70-89 del codice.
DOTTRINA 363
• Procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara (art. 56)
Le procedure negoziate sono “le procedure in cui le stazioni appaltanti
consultano gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più
di essi le condizioni dell’appalto. Il cottimo fiduciario costituisce procedura
negoziata” (art. 3, comma, 40).
Tale procedura è circoscritta ai casi tassativamente indicati dal legislatore:
a) precedente gara non conclusa, in quanto tutte le offerte presentate
sono risultate irregolari o inammissibili con riferimento ai requisiti degli
offerenti e delle offerte. Tale disposizione si applica ai lavori di importo inferiore
a un milione di euro. Non possono essere modificate in termini sostanziali
le condizioni iniziali del contratto;
b) impossibilità di fissazione preliminare e globale dei prezzi in casi
eccezionali di lavori aventi particolare natura o che presentino imprevisti
non imputabili alla stazione appaltante;
c) nel caso di servizi finanziari e di prestazioni di natura intellettuale,
quali la progettazione di opere, se la natura della prestazione da fornire renda
impossibile stabilire le specifiche del contratto con la precisione sufficiente
per potere aggiudicare l’appalto selezionando l’offerta migliore secondo le
norme della procedura aperta o ristretta;
d) nel caso di lavori realizzati unicamente allo scopo di ricerca, sperimentazione
e messa a punto.
La negoziazione deve articolarsi attraverso vari passaggi:
a) in primo luogo deve essere garantita a tutti gli offerenti la parità di trattamento,
evitando tra l’altro di fornire informazioni discriminatorie che possono
avvantaggiare determinati concorrenti rispetto ad altri (art. 56, comma 3);
b) l’ente appaltatore può decidere, indicandolo nel bando, che vi siano
più fasi successive per ridurre il numero dei soggetti con cui negoziare. La
riduzione deve avvenire applicando i criteri di aggiudicazione indicati nel
bando (art. 56, comma 4);
c) la fase di negoziazione si conclude attraverso l’individuazione dell’offerta
migliore, che deve avvenire utilizzando il criterio del prezzo più basso
o quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 56, comma 2).
• Procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara (art. 57)
Nei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, la procedura è
consentita:
a) qualora in esito all’esperimento di una procedura aperta o ristretta non
sia stata presentata nessuna offerta, o nessuna offerta appropriata (5), o nessuna
candidatura.
(5) L’espressione “offerta non appropriata” deve intendersi in una accezione lata, comprensiva
sia della offerta irregolare, cioè quella viziata nella forma, sia quella inammissibile,
cioè quella in cui vi sia carenza dei requisiti sostanziali per la partecipazione alla gara –
364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Anche in questo caso sussistono i due limiti sopra menzionati: lavori di
importo inferiore a un milione di euro e divieto di modificare in termini
sostanziali le condizioni iniziali del contratto;
b) qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla
tutela di diritti esclusivi, il contratto possa essere affidato unicamente ad un
operatore economico determinato;
c) nella misura strettamente necessaria, quando l’estrema urgenza, risultante
da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con
i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette, o negoziate previa pubblicazione
di un bando di gara. Le circostanze invocate a giustificazione della
estrema urgenza non devono essere imputabili alle stazioni appaltanti (il caso
di scuola è rappresentato dal ricorso alla procedura negoziata giustificata
dall’urgenza in relazione alla paventata perdita di finanziamenti pubblici
qualora si superino determinati tempi per l’affidamento dei lavori).
Nei contratti pubblici relativi a servizi, la procedura negoziata senza
pubblicazione del bando è, inoltre, consentita qualora il contratto faccia
seguito ad un concorso di progettazione e debba, in base alle norme applicabili,
essere aggiudicato al vincitore o a uno dei vincitori del concorso; in
quest’ultimo caso tutti i vincitori devono essere invitati a partecipare ai
negoziati.
La procedura negoziata è, infine, ammessa anche per lavori di importo
complessivo inferiore a 100.000,00 euro (c.s. sotto soglia – art. 122, comma 7).
Secondo la dottrina (6) pur non essendo esplicitamente chiarito, si deve ritenere
che nel caso indicato si possa liberamente ricorrere alla procedura negoziata
senza bando, ferma restando, ovviamente, la facoltà della stazione appaltante
di utilizzare la diversa forma di procedura con preventiva pubblicità.
La scelta dei soggetti deve avvenire sulla base di informazioni riguardanti
le caratteristiche di qualificazione possedute dai concorrenti, desunte
dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione.
Alla procedura devono essere invitati a partecipare almeno tre soggetti, se
sussistono in tale numero soggetti idonei. Vi sono poi ulteriori due principi
cui deve uniformarsi lo svolgimento della procedura: il primo riguarda l’evasione
degli inviti a presentare l’offerta, che deve essere effettuata in contemporanea
a tutti i soggetti con cui si negozia; il secondo concerne i criteri
di aggiudicazione utilizzabili per l’affidamento dei lavori, che restano
quelli tradizionale del prezzo più basso e dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
(cfr. la giurisprudenza formatasi in sede di interpretazione dei decreti legislativi 157 e
158/95- Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2006 n. 3245, Id. sez. VI, 3 novembre 1998 n. 1513
in www.deaprofessionale.it).
(6) M. SANINO, Commento al Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture, Milano 2006, p. 238.
DOTTRINA 365
• Dialogo competitivo (art. 58)
La norma si applica alle procedure i cui bandi o avvisi siano pubblicati
successivamente al 1 agosto 2007 (art. 253, comma 1-bis, lett. c).
Presupposto per l’applicabilità dell’istituto è la particolare complessità
dell’appalto (sia di lavori che di forniture che di servizi) in relazione al quale
la stazione appaltante
– non è “oggettivamente in grado di definire (…) i mezzi tecnici atti a
soddisfare le sue esigenze o i suoi obiettivi;
– non è oggettivamente in grado di specificare l’impostazione giuridica
o finanziaria di un progetto. Possono, secondo le circostanze concrete, essere
considerati particolarmente complessi gli appalti per i quali la stazione
appaltante non dispone, a causa di fattori oggettivi ad essa non imputabili,
di studi in merito alla identificazione e quantificazione dei propri bisogni o
all’individuazione dei mezzi strumentali al soddisfacimento dei predetti
bisogni, alle caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economicofinanziarie
degli stessi e all’analisi dello stato di fatto e di diritto di ogni
intervento nelle sue eventuali componenti storico-artistiche, architettoniche,
paesaggistiche, nonché sulle componenti di sostenibilità ambientale, socioeconomiche,
amministrative e tecniche”.
L’unico criterio per l’aggiudicazione dell’appalto pubblico è quello dell
’offerta economicamente più vantaggiosa.
Per quanto concerne il procedimento è sufficiente segnalare quanto
segue:
a) vi è una prima fase iniziale di prequalifica, preceduta dalla pubblicazione
del bando, mediante la quale l’Amministrazione seleziona i candidati
con i quali avvierà il dialogo;
b) successivamente la stazione appaltante acquisisce le soluzioni tecnico-
progettuali che le imprese concorrenti le propongono per far fronte alle
necessità rappresentate nel bando o nel documento descrittivo a quest’ultimo
allegato;
c) le stazioni appaltanti possono motivatamente ritenere che nessuna delle
soluzioni proposte soddisfi le proprie necessità. In tale caso ai partecipanti non
spetterà alcun indennizzo o risarcimento, salvo che l’Amministrazione abbia
previsto nel bando premi o incentivi per i partecipanti;
d) la stazione appaltante invita i partecipanti a presentare l’offerta rivolta
alle imprese qualificate;
e) il contraente viene individuato con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa.
2.2. Contratti sotto soglia comunitaria (parte II, titolo II, artt. 121-125)
Il riferimento, per quanto qui più rileva, è agli appalti di servizi sotto
soglia.
Ai sensi dell’art. 124 del D.Lgs. 163/06 “Ai contratti di servizi e forniture
sotto soglia non si applicano le norme del presente codice che prevedono
obblighi di pubblicità e di comunicazione in ambito sopranazionale”. È
366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
inoltre prevista la facoltatività dell’avviso di preinformazione di cui all’art.
63. Il rinvio alle disposizioni della parte II consente, anche nei contratti sotto
soglia, l’applicazione di tutti gli strumenti di scelta del contraente ivi previsti.
Il legislatore affida al regolamento, da pubblicare entro il 1 luglio 2007,
l’individuazione dei requisiti di idoneità morale, capacità tecnico-professionale
ed economico-finanziaria degli operatori economici.
L’art. 125 detta, infine, la disciplina di principio con riferimento agli
appalti di lavori, servizi e forniture, in materia di procedure in economia,
demandando ad un futuro regolamento la normativa attuativa (comma 14).
Nelle more, tuttavia, si possono considerare vigenti i regolamenti già emanati,
in quanto compatibili. Ai sensi dell’art. 253, comma 22, lett. b) D.Lgs.
163/06, fino all’entrata in vigore del regolamento, le forniture e i servizi in
economia sono disciplinati dal d.P.R. n. 384/01, nei limiti di compatibilità
con le disposizioni del codice. Restano altresì in vigore, fino al loro aggiornamento,
i provvedimenti emessi dalle singole amministrazioni aggiudicatici
in esecuzione dell’articolo 2 del d.P.R. 384/01.
2.3. Incarichi di progettazione di importo inferiore a 100.000 euro (art. 91,
comma 2)
Come già detto in precedenza, per questo tipo di incarichi, è sempre consentito
il ricorso all’affidamento diretto. La scelta dovrà essere motivata dal
responsabile del procedimento e dovrà essere effettuata nel rispetto dei principi
di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza. Si
tratta della procedura negoziata –non preceduta da pubblicazione del bando – di
cui all’art. 56 già esaminato alla quale dovranno essere invitati a partecipare
almeno cinque soggetti (ma anche meno qualora non vi siano soggetti idonei a
sufficienza), scelti a rotazione, e individuati sulla base di informazioni di carattere
economico-finanziario e tecnico-organizzativo desunte dal mercato.
2.4. Regole comuni agli affidamenti sopra e sotto soglia
Sia per gli affidamenti sopra che per quelli sotto soglia dei 100.000,00
euro, ai sensi del terzo comma dell’art. 91 del codice De Lise, è fatto divieto
di subappaltare, salvo che non si tratti di attività altamente specialistica,
quali indagini geologiche, geotecniche e sismiche, sondaggi, rilievi, misurazioni,
picchettazioni, predisposizione di elaborati specialistici e di dettaglio,
con la sola esclusione della redazione delle relazioni geologiche e dei grafici
degli elaborati progettuali che dovranno essere espletate personalmente
dai soggetti incaricati. Per le attività subappaltate risponderà sempre il progettista.
Si ribadisce, poi, al quarto comma, la preferenza accordata all’affidamento
congiunto dell’attività di progettazione esecutiva e definitiva al
medesimo soggetto, salvo particolari ipotesi accertate e motivate dal responsabile
del procedimento e nelle quali sarà necessaria la previa accettazione
da parte del nuovo progettista dell’attività progettuale svolta nella precedente
fase di progettazione. Ai sensi del sesto comma l’affidamento diretto della
D.L. al progettista sarà consentito solo se il valore delle attività di progettaDOTTRINA
367
zione e direzione dei lavori complessivamente considerato non superi la
soglia comunitaria e, nel caso in cui tale valore sia superiore, solamente qualora
ciò sia consentito dal bando di gara per la progettazione. Infine, il
comma 8, ispirandosi al principio di legalità, stabilisce che non possono
essere affidati incarichi di progettazione, direzione dei lavori, collaudo e
ogni altra attività di supporto all’attività del responsabile del procedimento
mediante procedure diverse da quella previste dal codice.
I livelli di progettazione per gli appalti e per le concessioni di lavori sono
disciplinati dall’art. 93 del codice che, mutuando la disciplina offerta dall
’art. 16 della legge 109/94, continua ad individuare tre livelli di progettazione:
preliminare, definitiva ed esecutiva.
Per quanto concerne, invece, la materia degli appalti di servizi e forniture
l’art. 94 rinvia la determinazione dei livelli e dei requisiti dei progetti e i
requisiti di partecipazione e qualificazione dei progettisti, all’emanando
regolamento al quale spetterà stabilire i limiti entro cui estendere le disposizioni
dettate dall’art. 93 per gli appalti e le concessioni dei lavori anche agli
appalti di servizi e forniture.
Particolare attenzione merita l’esame dell’art. 92 del codice
Con specifico riferimento alle opere ammesse a finanziamento l’art. 92,
comma 1, D.Lgs. 163/06 (che ricalca l’art. 17, comma 12-bis legge 109/94)
dispone che “Le amministrazioni aggiudicatrici appaltanti non possono subordinare
la corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione
e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all’ottenimento
del finanziamento dell’opera progettata. Nella convenzione stipulata
fra stazione appaltante e progettista incaricato sono previste le condizioni
e le modalità per il pagamento dei corrispettivi con riferimento a quanto
previsto dagli articoli 9 e 10 della legge 2 marzo 1949, n. 143, e successive
modificazioni. Ai fini dell’individuazione dell’importo stimato il conteggio
deve ricomprendere tutti i servizi, ivi compresa la direzione dei lavori qualora
si intenda affidarla allo stesso progettista esterno”.
La norma in commento afferma inequivocabilmente il divieto per le stazioni
appaltanti di subordinare la corresponsione dei compensi relativi allo
svolgimento delle progettazioni, all’ottenimento del finanziamento dell’operato.
È inoltre ribadito l’obbligo del conferimento dell’incarico di progettazione
esterna a mezzo di convenzione conseguente ad un appalto di servizi
da aggiudicarsi nel rispetto delle procedure sopra indicate.
L’interpretazione proposta trova conferma anche nella necessità da parte
di una società pubblica di prevedere una spesa solo in presenza dei mezzi
necessari per l’esecuzione.
La mancanza di risorse potrebbe costituire fonte di responsabilità patrimoniale
degli amministratori, sia contrattuale, a seguito della stipula di un
contratto, che extracontrattuale ove la stazione appaltante non pervenga, per
tale motivo, alla aggiudicazione dei lavori e, quindi, alla sottoscrizione del
contratto con l’impresa.
Non è, pertanto, consentita l’indizione di un bando, con la condizione
della (successiva) acquisizione delle risorse finanziarie.
368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il comma 2 dell’art. 92 del codice De Lise prevede che con decreto del
Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, sono determinate le tabelle dei corrispettivi tenendo conto delle
tariffe previste per le categorie professionali interessate. Fino all’emanazione
del decreto continua ad applicarsi il decreto del Ministro della giustizia
del 4 aprile 2001 (v. art. 253, comma 17, del D.Lgs. 163/06). In considerazione
delle innovazioni legislative contenute nel D.L. 223/2006, come convertito
dalla legge 248/2006 – cd. Decreto Bersani – , che ha abrogato i
minimi inderogabili, sono da considerare implicitamente abrogati (v. in tal
senso determinazione n. 4 del 29 marzo 2007 pubblicata nella G.U. 11 aprile
2007 n. 84) l’ultimo periodo del comma 2, e il comma 4 dell’art. 92 del
codice (i corrispettivi determinati ai sensi del decreto del Ministero della
giustizia 4 aprile 2001 sono minimi inderogabili) e l’ultimo periodo del
comma 3, dell’art. 53 (le spese di progettazione esecutiva sono minimi inderogabili).
3. Conclusioni
Alla luce delle considerazioni che precedono è possibile pervenire alle
seguenti conclusioni:
– il ricorso alla progettazione esterna, con affidamento degli incarichi a
soggetti estranei alla struttura amministrativa dell’ente, è consentito solo in
presenza delle ipotesi tassativamente indicate dal legislatore nell’art. 90,
comma 6, D.Lgs. 163/06 (art. 17, comma 4, legge 109/94) accertate e certificate
dal responsabile unico del procedimento;
– per l’affidamento di incarichi di progettazione di importo pari o superiore
a 211.000 euro si applicano le norme di cui alla parte II, titolo I del
codice (precisando, tuttavia che la disposizione che prevede il dialogo competitivo
si applica alle procedure i cui bandi o avvisi siano pubblicati successivamente
al 1 agosto 2007);
– per incarichi di importo compreso tra 100.000 euro e 211.000 euro si
applicano le norme di cui alla parte II titolo II del codice (c.s. per il dialogo
competitivo);
– per incarichi di importo inferiore a 100.000 euro si applica la procedura
negoziata senza pubblicazione del bando prevista dall’art. 57;
– l’individuazione dei livelli e dei requisiti dei progetti nonché dei requisiti
di partecipazione e qualificazione dei progettisti è demandata all’emanando
regolamento la cui pubblicazione è prevista entro il 1 luglio 2007.
In buona sostanza, fuori dal caso di incarichi di progettazione di importo
inferiore a 100.000 euro, relativamente ai quali è consentito il ricorso alla trattativa
senza pubblicazione del bando, tanto per gli incarichi sopra soglia quanto
per quelli sotto soglia comunitaria (stante il rinvio alla parte II del codice),
la scelta del contraente avviene solitamente mediante le procedure aperte e
ristrette (art. 55), nei casi tassativi indicati dal legislatore mediante procedure
negoziate e (a far data 1 agosto 2007) con ricorso al dialogo competitivo (artt.
56-58) sopra descritte compatibilmente, con riguardo ai contratti sotto soglia,
con le disposizioni specifiche contenute negli artt. 121-125.
JACOPO GALLO CURCIO, Lineamenti di diritto dell’urbanistica, Aracne,
Roma, 2007.
In principio fu Icaria, la città ideale, a suggerire le linee direttrici di uno
spazio urbano finalmente ricomposto, ordinato. La disciplina dell’urbanistica
nasce così, tra le spinte utopiste della prima rivoluzione industriale e le
necessità derivanti dall’emergenza sanitaria e dal sovrappopolamento.
Il testo di Jacopo Gallo Curcio, (docente di Legislazione dell’Edilizia e
dell’Urbanistica presso la Facoltà di Architettura dell’Università “La
Sapienza” di Roma), Lineamenti di diritto dell’urbanistica (Aracne
Editrice), scava alle radici della materia, andando a ripercorrere l’evoluzione
storica e filosofica di un fenomeno in continua evoluzione, che attraversa
molteplici discipline, dall’architettura, appunto, all’ingegneria, alla sociologia
fino ad arrivare al diritto, capace di sintetizzare la realtà in “canoni normativi
”, come li definisce l’autore. La funzione ordinatrice del diritto e la sua
caratteristica di ridurre tutto “a sistema” viene scomposta e analizzata
dall’Autore con estrema chiarezza e semplicità, unite all’intenzione, assolutamente
illuminata (e illuminante), di seguire un filo conduttore lungo l’intero
discorso, onde evitare al lettore digiuno di qualsiasi rudimento di diritto
un comprensibile spaesamento.
I Lineamenti… sono infatti indirizzati ad un pubblico più vasto rispetto
a quello degli operatori del diritto e si adattano alle esigenze di chi, per lavoro
o per pura curiosità scientifica, voglia munirsi degli strumenti essenziali
per penetrare la materia senza perdersi nelle dispute dottrinarie o nei problemi
definitori. Di certo non si può prescindere dalla conoscenza di nozioni
tecniche come quella di azione amministrativa o di proprietà, ma l’Autore
possiede il raro dono di introdurre i relativi concetti nel bel mezzo di un
discorso storico o filosofico, senza far sentire il lettore comune impreparato
davanti al linguaggio impervio della Legge.
Lo jus, il diritto, è il collante che regge la società e la plasma attraverso
le sue enunciazioni in forma di comandi e divieti, mutando al mutare di essa,
pertanto la sua conoscenza è un dovere per tutti noi cittadini ed a maggior
ragione lo è per coloro che si trovano ad operare in settori in cui teoria e pratica
si intrecciano in modo inestricabile. Ciò è quanto accade per la materia
R E C E N S I O N I
dell’edilizia e dell’urbanistica, dove la costruzione di una casa passa attraverso
la posizione dei muri maestri e la richiesta del permesso di costruire,
fondendosi in un unicum che solo la complessa multiformità del diritto poteva
prevedere.
L’opera si divide in tre capitoli. Il primo tratta del diritto di proprietà e
della nascita della disciplina urbanistica. In questa parte iniziale le premesse
storiche sono affrontate in maniera ampia e puntuale. Il capitolo secondo
affronta l’esegesi dei distinti concetti di urbanistica, paesaggio e ambiente
alla luce delle disposizioni costituzionali e delle pronunce del Giudice delle
Leggi. Il terzo ed ultimo capitolo affronta il tema maggiormente “tecnico”,
ovvero quello degli strumenti urbanistici, all’interno dei quali l’Autore comprende
anche i vincoli e i provvedimenti abilitativi, oggetto di varie vicende
in sede legislativa.
Avv. Serena Iannicelli
370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
1. ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI
VALERIO BALSAMO, Sindacabilità giurisdizionale della revoca dell’incarico di
assessore comunale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 165
MAILA BEVILACQUA, La colpa grave nel procedimento di riparazione per
ingiusta detenzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 251
MAURIZIO BORGO, C’era una volta… lo “Stato in giudizio” . . . . . . . . . . . . . . . . .» 1
ALEJANDRA BOTO ÁLVAREZ, Alcuni appunti sulle norme processuali di favore
che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato porta con sé nel diritto
spagnolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 6
BENEDETTO BRANCOLI BUSDRAGHI, La d.i.a. Un nuovo silenzio? . . . . . . . . . . . » 177
CINZIA F. CODUTI, Appalto pubblico o concessione di servizi? La Corte enfatizza
il criterio del rischio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 64
GIULIA DE DOMINICIS, GIUSEPPE FABRIZIO MAIELLARO, La scelta del socio privato
nella S.p.A. a capitale pubblico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 276
PASQUALE FAVA, Le tecniche di consultazione degli interessati nei procedimenti
di regolazione delle Agencies statunitensi e gli standards minimi di
consultation della Commissione europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 289
WALLY FERRANTE, La sanatoria sulle abilitazioni non si applica ai concorsi . . . » 123
GIUSEPPE FIENGO, Le prove nei giudizi comunitari; in tema di “valutazioni
d’incidenza” per le aree naturali protette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 95
SERENA IANNICELLI, recensione a: J. GALLO CURCIO, Lineamenti di diritto del
l’urbanistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 369
DOMENICO MAIMONE, Il principio di successione delle leggi nel tempo in
materia penale applicato agli elementi normativi della fattispecie. Brevi
osservazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136
I N D I C I S I S T E M A T I C I
ROBERTO MASTROIANNI, Osservazioni sul sistema italiano di applicazione
decentrata del diritto comunitario della concorrenza: i recenti sviluppi . . . . pag. 21
L’obbligo di gara sulle concessioni di scommesse ippiche. . . . . . . . . . . . . . . . . » 88
SARA RONCONI, Il fatto eccessivo colposo. I limiti di operatività: l’errore colposo
su scriminante non esistente (art.59, u.c., c.p.) e il fatto colposo giustificato
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 348
EMANUELA ROSANÒ, Le procedure di affidamento degli incarichi di progettazione
nel nuovo codice degli appalti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 357
VITTORIO RUSSO, La crisi dell’impresa beneficiaria di aiuti. Disfunzioni dei
mezzi di recupero e ripercussioni nel sistema degli interventi . . . . . . . . . . . . » 235
Uditori giudiziari “non idonei” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 128
FRANCESCO VIGNOLI, Legge Pinto e sospensione dei termini nel periodo feriale . . » 131
2. INDICE DELLE SENTENZE
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE
Sez. 2°, sent. 18 luglio 2007 nella causa C-382/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 81
Sent. 13 settembre 2007 nella causa C- 260/04 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 88
Sez. 4°, sent. 20 settembre 2007 nella causa C-304/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 97
Sez. 4°, sent. 20 settembre 2007 nella causa C-388/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 112
Sez. 4°, sent. 4 ottobre 2007 nella causa C-179/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 116
CORTE COSTITUZIONALE
Ord. 20 luglio 2007 n. 312 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 124
CORTE D’APPELLO DI MILANO
Sez. 2° civ., decreto 5 luglio 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 133
Sez. 2° civ., decreto 10-23 gennaio 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 134
TRIBUNALE PENALE DI CATANIA
Sez. Acireale, sent. 6 dicembre 2006-21 marzo 2007 n. 318 . . . . . . . . . . . . . . . » 142
CONSIGLIO DI STATO
Sez. 4°, sent. 14 dicembre 2006 n. 7470 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 128
Sez. 5°, sent. 23 gennaio 2007 n. 209 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 170
Sez. 5°, sent. 22 febbraio 2007 n. 948 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 188
Sez. 5°, ord. 13 agosto 2007, n. 4447 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO
Roma, sez. 1° bis, sent. 14-20 febbraio 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 231
372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
3. INDICE DEGLI ARGOMENTI
ATTO AMMINISTRATIVO – Revoca – Atto politico – Natura – Provvedimento di
revoca dell’incarico di assessore comunale – Natura – Sindacabilità giurisdizionale
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 170
AVVOCATURA DELLO STATO – Attività di patrocinio - Istanza di fissazione di
udienza di cui all’art.9 co.2 L. 205/00 – Introduzione dell’istituto della
perenzione decennale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4
COMUNITÀ EUROPEE - Inadempimento di uno Stato – Appalti pubblici di servizi
– Direttiva 92/50/CEE – Convenzioni relative al trattamento di rifiuti
urbani – Qualificazione – Appalto pubblico – Concessione di servizi –
Misure di pubblicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 81
COMUNITÀ EUROPEE - Inadempimento di uno Stato - Conservazione degli
habitat naturali - Flora e fauna selvatiche – Zona di protezione speciale
“Valloni e steppe pedegarganiche” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 112
COMUNITÀ EUROPEE - Inadempimento di uno Stato – Direttiva 92/43/CEE –
Conservazione degli habitat naturali e della flora e fauna selvatiche –
Direttiva 79/409/CEE - Conservazione degli uccelli selvatici – Valutazione
dell’impatto ambientale di lavori di adattamento di piste da sci . . . . . . . . . . . » 97
COMUNITÀ EUROPEE - Inadempimento di uno Stato – Direttiva 92/43/CEE -
Conservazione degli habitat naturali e della flora e fauna selvatiche –
Valutazione di incidenza ambientale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 116
COMUNITÀ EUROPEE - Inadempimento di uno Stato – Libertà di stabilimento e
libera prestazione di servizi – Concessioni di servizio pubblico – Rinnovo
di 329 concessioni per la gestione e la raccolta di scommesse sulle corse
ippiche senza preventivo concorso – Obblighi di pubblicità e trasparenza . . » 88
CONCORSO per uditore giudiziario – Giudizio di inidoneità – Onere della motivazione
– Legittimità della dizione “non idoneo” senza attribuzione di voto .» 128
CORTE COSTITUZIONALE – Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale.
Professioni – Avvocato e Procuratore – Esami per l’abilitazione professionale.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 124
DECRETO PENALE DI CONDANNA – Legittima un giudizio di disfavore al fine
della ammissione alla richiesta rafferma – Causa ostativa alla rafferma . . . . » 231
DIRITTO PROCESSUALE – Processo equo – Termine ragionevole (Legge Pinto)
– Mancato rispetto – Equa riparazione – Termine di proposizione della
domanda di riparazione – Sospensione nel periodo feriale (L. 742/69, art.1)
– Inapplicabilità ai procedimenti ex L. 89/01. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 133
INDICI SISTEMATICI 373
EDILIZIA E URBANISTICA – Denuncia di inizio attività – Impugnazione di terzo . . pag. 188
PENALE – Principio di successione delle leggi nel tempo – Applicazione agli
elementi normativi della fattispecie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 142
4. PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI
A.G.S. – Parere del 10 marzo 2005 n. 33752.
Contenzioso Tributario in materia catastale. Giurisdizione sulle controversie
relative alle intestazioni delle unità immobiliari urbane (consultivo
1774/05, avvocato L. Caputi Iambrenghi). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 193
A.G.S. – Parere del 18 dicembre 2006 n. 144804.
Indennità corrisposta ai sensi dell’articolo 7, comma 2, O.P.C.M. n. 3379
del 5 novembre 2004. Funzionari prefettizi in posizione di comando presso la
struttura commissariale (consultivo 8453/06, avvocato D. Ranucci) . . . . . . . . . » 194
A.G.S. – Parere del 10 maggio 2007 n. 56119.
Art. 15 del d.P.R. 601/73. Sua applicabilità alle operazioni di cessione di
credito tra istituti di credito e alle formalità eseguite successivamente alle cessioni
medesime (consultivo 19070/03, avvocato M. Mari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 196
A.G.S. – Parere del 15 maggio 2007 n. 57544.
Rivalutazione indennità integrativa speciale ex art. 1 comma 2 Legge 25
febbraio 1992 n. 210 (consultivo 7530/06, avvocato M. Russo) . . . . . . . . . . . . » 201
A.G.S. - Parere del 16 maggio 2007 n. 58330.
Ministero della Pubblica istruzione (contenzioso 128205/96, avvocato
M. Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 203
A.G.S. – Parere del 26 maggio 2007 n. 62762.
Comando del personale militare – ammissibilità (consultivo 38914/06,
avvocato P. Gallo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 204
A.G.S. – Parere del 26 maggio 2007 n. 62781.
Uso del nome a dominio www.forzearmate.org (consultivo 5464/07,
avvocato V. Rago) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 207
A.G.S. – Parere del 14 giugno 2007 n. 69504
Risultanze verifica amministrativo-contabile dell’Ispettorato Generale di
Finanza sulla Croce Rossa Italiana (consultivo 12990/07, avvocato V. Rago) . .» 210
A.G.S. - Parere del 14 giugno 2007 n. 69515
Cittadini esteri coinvolti in situazioni di emergenza in Italia. Tutela della
privacy e rispetto della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni
consolari (consultivo 13697/07, avvocato D. Ranucci). . . . . . . . . . . . . . . . » 211
374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S. – Parere del 15 giugno 2007, n. 70269.
Atti di pignoramento ex art. 72 bis d.P.R. 602/73 (consultivo 1303/07,
avvocato M. Russo). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 214
A.G.S. – Parere del 19 luglio 2007 n. 81929.
Disposizioni in materia di servizio nazionale della riscossione – Art. 3, c.
40, lett. a) del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (consultivo 61078/05, avvocato
M. Mari). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . » 218
A.G.S. – Circolare del 9 agosto 2007, n. 35 - Comunicazione di servizio n.
93/07.
Legittimazione nelle cause relative ai beni immobili dello Stato. . . . . . . . » 221
A.G.S. – Parere del 23 agosto 2007, n. 91651 (reso dall’Avvocatura Generale
in via ordinaria).
Disciplina fiscale applicabile, ai fini delle imposte indirette, alle operazioni
di cessione dei beni di proprietà indivisa di coniugi in regime di comunione
legale (consultivo 16086/07, avvocato G. De Bellis). . . . . . . . . . . . . . . . » 222
A.G.S. - Parere del 30 agosto 2007, n. 93512 (reso dall’Avvocatura
Generale in via ordinaria).
Riforma delle esecuzioni mobiliari ex art. 547 c.p.c. (consultivo
30175/07, avvocato M. Borgo). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 225
A.G.S. - Parere del 3 ottobre 2007 n. 105161 (reso dall’Avvocatura
Generale in via ordinaria).
Equiparabilità del decreto penale alla sentenza penale di condanna ai fini
dell’esclusione dall’arruolamento (consultivo 28755/07, avvocato D.
Ranucci) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 226
INDICI SISTEMATICI 375
Finito di stampare nel mese di dicembre 2007
Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A.
Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma