RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO ANNO LIX – N. 2 APRILE-GIUGNO 2007 COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – Condirettori: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Vittorio Cesaroni – Lorenzo D’Ascia – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Massimo Santoro – Carlo Sica – Mario Antonio Scino. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Valerio Balsamo - Maila Bevilacqua - Alejandra Boto Alvarez - Benedetto Brancoli Busdraghi - Cinzia F. Coduti - Giulia De Dominicis - Pasquale Fava - Wally Ferrante - Serena Iannicelli - Giuseppe Fabrizio Maiellaro - Domenico Maimone - Roberto Mastroianni - Sara Ronconi - Emanuela Rosanò - Vittorio Russo - Francesco Vignoli SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi Telefono 066829431 – E-mail: francesca.pioppi@avvocaturastato.it GESTIONE DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI: Antonella Quirini Telefono 066829205 – E-mail: antonella.quirini@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ........................................................................ € 40,00 UN NUMERO ......................................................................................... € 12,00 AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it – Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 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V, ord. 13 agosto 2007, n. 4447) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 Alejandra Boto Álvarez, Alcuni appunti sulle norme processuali di favore che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato porta con sé nel diritto spagnolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 6 CONTENZIOSO INTERNAZIONALE E COMUNITARIO Roberto Mastroianni, Osservazioni sul sistema italiano di applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza: i recenti sviluppi . . . . . » 21 1.- Le decisioni Cinzia F. Coduti, Appalto pubblico o concessione di servizi? La Corte enfatizza il criterio del rischio (Corte di giustizia CE, sez. II, sent. 18 luglio 2007 nella causa C-382/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 64 L’obbligo di gara sulle concessioni di scommesse ippiche (Corte di giustizia CE, sent. 13 settembre 2007 nella causa C- 260/04) . . . . . . . . . . . . . . . . . » 88 Giuseppe Fiengo, Le prove nei giudizi comunitari; in tema di “valutazioni d’incidenza” per le aree naturali protette (Corte di giustizia CE, sez. IV, sentt. 20 settembre 2007 nelle cause C-304/05 e C-388/05; sent. 4 ottobre 2007 nella causa C-179/06) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 95 CONTENZIOSO NAZIONALE Wally Ferrante, La sanatoria sulle abilitazioni non si applica ai concorsi (Corte Cost.le, ord. 20 luglio 2007 n. 312) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 123 Uditori giudiziari “non idonei” (C.d.S., sez. IV, sent. 14 dicembre 2006 n. 7470) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 128 Francesco Vignoli, Legge Pinto e sospensione dei termini nel periodo feriale (Corte d’appello di Milano, decreti 5 -22 luglio 2006 e 10-29 gennaio 2007) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 131 Domenico Maimone, Il principio di successione delle leggi nel tempo in materia penale applicato agli elementi normativi della fattispecie. Brevi osservazioni (Trib. penale di Catania, sez. Acireale, sent. 21 marzo 2007 n.318) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136 Valerio Balsamo, Sindacabilità giurisdizionale della revoca dell’incarico di assessore comunale (C.d.S., sez. V, sent. 23 gennaio 2007 n. 209) . . . . . . . . » 165 Benedetto Brancoli Busdraghi, La d.i.a. Un nuovo silenzio? (C.d.S., sez. V, sent. 22 febbraio 2007 n. 948) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 177 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 193 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Vittorio Russo, La crisi dell’impresa beneficiaria di aiuti. Disfunzioni dei mezzi di recupero e ripercussioni nel sistema degli interventi . . . . . . . . . . . . » 235 Maila Bevilacqua, La colpa grave nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 251 Giulia De Dominicis, Giuseppe Fabrizio Maiellaro, La scelta del socio privato nella S.p.A. a capitale pubblico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 276 Pasquale Fava, Le tecniche di consultazione degli interessati nei procedimenti di regolazione delle Agencies statunitensi e gli standards minimi di consultation della Commissione europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 289 Sara Ronconi, Il fatto eccessivo colposo. I limiti di operatività: l’errore colposo su scriminante non esistente (art.59, u.c., c.p.) e il fatto colposo giustificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 348 Emanuela Rosanò, Le procedure di affidamento degli incarichi di progettazione nel nuovo codice degli appalti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 357 RECENSIONI Serena Iannicelli a: J. GALLO CURCIO, Lineamenti di diritto dell’urbanistica . . . . » 369 INDICI SISTEMATICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 371 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO C’era una volta… lo “Stato in giudizio”. (Consiglio di Stato, sezione quinta, ordinanza 13 agosto 2007, n. 4447) di Maurizio Borgo Le brevi riflessioni traggono spunto dalla lettura della recentissima ordinanza della V Sezione del Consiglio di Stato n. 4447/07 con la quale il Massimo Organo della magistratura amministrativa ha affermato che l’art. 9, comma 2, della legge 21 luglio 2000, n. 205, il quale prevede che “a cura della segreteria è notificato alle parti costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell’udienza con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell’avviso medesimo. I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti con le modalità di cui all’ultimo comma dell’articolo 26 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente articolo” – trova applicazione anche nel caso in cui l’unica parte costituita sia un’amministrazione statale o regionale, difesa in giudizio dall’Avvocatura dello Stato. La conseguenza che i giudici di Palazzo Spada fanno discendere dalla predetta affermazione è che, al fine di evitare la perenzione, l’Avvocatura dello Stato dovrà depositare in giudizio, entro sei mesi dalla notifica dell’avviso, proveniente dalla segreteria del T.A.R. o del Consiglio di Stato, una nuova istanza di fissazione che dovrà recare la firma, oltre che dell’Avvocato dello Stato, incaricato della trattazione dell’affare contenzioso, anche dell ’organo statale o regionale competente ad adottare l’indicata dichiarazione (organo che andrà individuato, secondo il Consiglio di Stato, “in base alle regole proprie di ciascun ordinamento, in funzione dell’oggetto della controversia ”. Nel leggere la pronuncia in commento, sono andato subito con la mente al fortunato ed icastico titolo del libro che l’attuale Avvocato Distrettuale dello Stato di Catania, Pietro Ugo Pavone, ha dedicato all’Istituto: “Lo Stato T E M I I S T I T U Z I O N A L I 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO in giudizio”; un titolo che mi colpì fin da quando, Procuratore dello Stato, di fresca nomina e con destinazione di servizio proprio all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania, ebbi modo di imbattermi nel predetto volume. Perché si tratta di un titolo fortunato e, prima ancora, di una espressione indovinata? La risposta è semplice: perché rende, meglio di qualunque argomentazione, l’essenza propria dell’Avvocatura dello Stato ovvero il suo essere l’Organo Legale dello Stato ovvero ancora la immedesimazione organica esistente fra Avvocatura Erariale e Amministrazione statale patrocinata. Non sarà certo contento il mio primo Avvocato Distrettuale quando verrà a sapere che l’efficacia di quel titolo è stata offuscata dalla ordinanza in commento. Ma andiamo ad esaminare le motivazioni, addotte dai giudici di Palazzo Spada, a supporto della predetta affermazione. Per onestà intellettuale, deve riconoscersi al Consiglio di Stato di essersi fatto carico della prevedibile obiezione che poteva essere mossa alla conclusione, più sopra riportata ovvero che l’Avvocatura dello Stato “svolge la propria attività istituzionale di patrocinio senza necessità di procura, né di determinazione di stare in giudizio” e che “si potrebbe osservare, allora, che, non essendo necessaria alcuna positiva manifestazione di volontà dei rappresentanti legali dell’amministrazione per l’iniziale decisione di promuovere o resistere alla lite, non avrebbe alcuna giustificazione logica pretendere la formulazione di una dichiarazione di analogo contenuto, diretta ad evitare la perenzione decennale”. Ma secondo il Consiglio di Stato, la predetta obiezione “non risulta persuasiva ” (sic!) per le seguenti ragioni. “L’introduzione dell’istituto della perenzione decennale costituisce una delle applicazioni concrete del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, mirando a definire i giudizi che non risultano più sorretti dalla positiva ed esplicita manifestazione di interesse delle parti sostanziali. La portata della regola, quindi, non può che essere generalizzata, non essendo giustificato un trattamento differenziato per i soggetti pubblici difesi istituzionalmente dall’Avvocatura dello Stato”. Trattasi di considerazioni che non convincono o, per usare le stesse parole del Consiglio di Stato, che non persuadono. L’intento del legislatore del 2000, nell’introdurre la previsione di cui al comma 2 dell’art. 9 della legge n. 205/2000, è stato, senza dubbio, quello di “provocare una manifestazione espressa di volontà da parte dei diretti interessati, per evitare che le istanze possano essere proposte “rutinariamente” dai difensori senza una previa verifica dell’effettiva sussistenza dell’interesse in capo ai loro assistiti, per cui è richiesta espressamente dalla norma (oltre, ovviamente, alla consueta sottoscrizione dei procuratori), anche la firma dei ricorrenti” (cfr. Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa – sezione autonoma per la provincia di Bolzano, sentenza 23 gennaio 2007, n. 35). TEMI ISTITUZIONALI 3 Ma è proprio il predetto pericolo che non può porsi con riferimento agli Avvocati dello Stato. Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del R.D. n. 1611/1933, gli avvocati dello Stato (lo stesso dicasi per i procuratori dello Stato) non hanno bisogno, nell ’esercizio delle loro funzioni, di mandato; neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità. Dalla norma citata, collegata con altre più specifiche disposizioni, possono enuclearsi alcuni importanti principi. In via generale, si rileva che i poteri degli avvocati dello Stato sono molto più ampi di quelli dei difensori, liberi professionisti, forniti di procura; i primi, infatti, in virtù della loro qualifica, possono compiere, pur senza mandato speciale, tutti gli atti processuali che le ordinarie norme di procedura vietano ai difensori con procura che non siano forniti di mandato o procura speciale. Il che significa che l’Avvocato dello Stato, a differenza del comune difensore, ha la c.d. “disponibilità della lite”. Ma se così è (e lo riconosce lo stesso Consiglio di Stato nella stessa ordinanza in commento), non si comprende perché l’istanza di fissazione di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 205/2000 non possa essere firmata dal solo Avvocato dello Stato, ovvero dal soggetto che ha la disponibilità della lite, senza dovere inutilmente “scomodare” l’organo “competente ad adottare l’indicata dichiarazione” che, per inciso, con riferimento alle Amministrazioni dello Stato dovrebbe essere individuato addirittura nel Ministro (individuazione che sembra avvalorata dalla circostanza che la stessa V sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza 24 maggio 2007, n. 2627 – ordinanza in cui si intravedevano già le “intenzioni” poi manifestamente esternate dai giudici di Palazzo Spada con l’ordinanza in commento – ha affermato che “la nuova domanda di fissazione di udienza in data è stata sottoscritta direttamente dall’Avvocato dello Stato Paolo Gentili e non anche dal Presidente in carica della Giunta Regionale dell’Umbria”). Da ultimo, sia consentito osservare come l’ordinanza in commento, dopo avere messo in evidenza le peculiarità del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato rispetto al patrocinio dei “comuni” difensori, cada in evidente contraddizione laddove afferma che non sarebbe “giustificato (con riferimento alla disciplina dei ricorsi ultradecennali: N.d.R.) un trattamento differenziato per i soggetti pubblici difesi istituzionalmente dall’Avvocatura dello Stato”. Ed invero, delle due, l’una: o il patrocinio erariale è particolare ed allora non è possibile applicare allo stesso le disposizioni processuali, di carattere generale, che vanificano (per non dire, mortificano) la sua peculiarità; oppure il patrocinio erariale non è particolare, con tutte le conseguenze che se ne debbono trarre ovvero anche la incostituzionalità (sempre esclusa dalla pacifica giurisprudenza), tra gli altri, dell’art. 1, comma 2, del R.D. n. 1611/1993; tertium non datur!. Né, al fine di sottrarsi alla predetta stringente alternativa, vale affermare, come fatto dal Consiglio di Stato, che “l’introduzione dell’istituto della perenzione decennale costituisce una delle applicazioni concrete del principio costituzionale della ragionevole durata del processo”; un riferimento, questo ultimo, di difficile comprensione, escludendo, chi scrive, che i giudici di Palazzo Spada abbiano potuto soltanto pensare che l’Avvocato dello Stato, che depositi in giudizio l’istanza di fissazione dell’udienza di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 205/2000, faccia ciò al fine di determinare quella durata irragionevole del processo di cui, come noto, gli Avvocati dello Stato sono vittime, dovendo curare la difesa delle Amministrazioni statali chiamate a rispondere, sotto il profilo risarcitorio, di quella durata irragionevole ai sensi della c.d. “legge Pinto”. Consiglio di Stato, sezione quinta, ordinanza 13 agosto 2007, n. 4447 – Pres. S. Santoro – Rel. M. Lipari – Regione Calabria (Avvocatura Generale) c/ S. B. (n.c.) «Fatto – 1. La sentenza impugnata ha accolto, in parte, il ricorso proposto dal Sig. S.B., per l’annullamento del provvedimento n. 443 del 20 gennaio 1992, con cui il Comitato Regionale di Controllo aveva annullato la delibera della giunta municipale di (…) del 28 novembre 1991, concernente l’attribuzione all’interessato della indennità di vigilanza. 2. La Regione contesta la pronuncia del tribunale, deducendo l’infondatezza dell’originario ricorso. 3. L’appellato, pur ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio. 4. Il Collegio osserva, preliminarmente, che il ricorso in epigrafe, depositato nel 1992 (ricorso ultradecennale), è assoggettato alla disciplina dell’art. 26, ultimo comma della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come sostituito dall’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n. 205. 5. Detta norma prevede al comma 2: <>. 6. In forza di tale disposizione non può essere presa cognizione del ricorso in epigrafe se non in presenza di una nuova istanza di fissazione d’udienza, da presentare con le modalit à e nei termini suindicati. 7. Il Collegio deve farsi carico, di ufficio, della questione riguardante l’applicabilità della disposizione nel caso in cui l’unica parte costituita sia un’amministrazione statale o regionale, difesa in giudizio dall’Avvocatura dello Stato, che svolge la propria attività istituzionale di patrocinio senza necessità di procura, né di determinazione di stare in giudizio. 8. Si potrebbe osservare, allora, che, non essendo necessaria alcuna positiva manifestazione di volontà dei rappresentanti legali dell’amministrazione per l’iniziale decisione di promuovere o resistere alla lite, non avrebbe alcuna giustificazione logica pretendere la formulazione di una dichiarazione di analogo contenuto, diretta ad evitare la perenzione decennale. 9. Questa tesi non risulta persuasiva. 10. L’introduzione dell’istituto della perenzione decennale costituisce una delle applicazioni concrete del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, mirando 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO a definire i giudizi che non risultano più sorretti dalla positiva ed esplicita manifestazione di interesse delle parti sostanziali. 11. La portata della regola, quindi, non può che essere generalizzata, non essendo giustificato un trattamento differenziato per i soggetti pubblici difesi istituzionalmente dall’Avvocatura dello Stato. 12. Del resto, la richiesta di una dichiarazione del rappresentante sostanziale dell’amministrazione regionale o statale difesa dall’Avvocatura non pare particolarmente gravosa, considerando che il termine di sei mesi previsto per rendere la dichiarazione di interesse appare sufficientemente lungo, e consente al soggetto pubblico di compiere tutte le opportune e responsabili valutazioni. 13. È appena il caso di aggiungere, poi, che l’individuazione dell’organo statale o regionale competente ad adottare l’indicata dichiarazione va effettuata in base alle regole proprie di ciascun ordinamento, in funzione dell’oggetto della controversia. 14. Pertanto, la Sezione, trattandosi di appello ultradecennale, manda – ai sensi dell’art. 9 della legge n. 205 del 21 luglio 2002 – alla Segreteria perché verifichi l’avvenuto espletamento delle procedure e relazioni su esse e, in caso negativo, notifichi alle parti costituite apposito avviso in virtù del quale è fatto onere all’appellante di presentare nuova istanza di fissazione dell’udienza, con la propria firma, entro sei mesi dalla data di notifica dell’avviso medesimo; con l’avvertenza che l’appello, nel caso in cui non venga presentata una nuova domanda di fissazione, verrà, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarato perento con le modalità di cui all’ultimo comma dell’articolo 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dal comma 1 dello stesso art. 9. Per questi motivi il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, riservata ogni definitiva determinazione sull’appello indicato in epigrafe, manda alla segreteria per l’esecuzione degli adempimenti di cui in motivazione; ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 maggio 2007 (…)». TEMI ISTITUZIONALI 5 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Alcuni appunti sulle norme processuali di favore che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato porta con sé nel diritto spagnolo di Alejandra Boto Álvarez (*) 1. I c.d. privilegi processuali della Pubblica Amministrazione Fra i principi processuali fondamentali dell’ordinamento spagnolo c’è quello relativo alla parità tra le parti (1). Pertanto, nei trattati di Diritto Processuale è frequente trovare enunciata l’uguaglianza delle parti nel processo all’interno del più ampio diritto ad un’effettiva tutela giudiziaria (2), in conformità alla giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale (3), secondo la quale, peraltro, l’uguaglianza in giudizio non è un principio assoluto, cosicché non si può pretendere sempre un trattamento omogeneo in ogni causa. Determinate situazioni di disuguaglianza materiale sarebbero possibili purché abbiano una base razionale e obiettiva e non lascino la parte debole indifesa. Questo può accadere quando la Pubblica Amministrazione è parte in un processo giacché è da più d’un secolo che gode in giudizio d’una serie di “specialità”, spesso censurate in quanto viste come “privilegi” (4). (*) Borsista del Programma Nazionale F.P.U. - Dipartimento di Diritto Pubblico, Università di Oviedo. (1) Ad esempio v. GIMENO SENDRA, V., Fundamentos de Derecho Procesal, Civitas, Madrid, 1981; GUASP, J., Concepto y método de Derecho Procesal, Civitas, Madrid, 1997; ASENCIO MELLADO, J.M., Introducción al Derecho Procesal, 3ª ed., Tirant Lo Blanch, Valencia, 2004; VALENCIA MIRÓN, A.J., Introducción al Derecho Procesal, 8ª ed., Comares, Granada, 2004; VV.AA., Derecho Jurisdiccional, I. Parte General, 14ª ed., Tirant Lo Blanch, Valencia, 2005. (2) Per esemplificare, v. GIMENO SENDRA, V., Introducción al Derecho Procesal, 2ª ed., Colex, Madrid, 2004, pp. 223 e ss.; GÓMEZ DE LIAÑO, F., Introducción al Derecho Procesal, 5ª ed., Forum, Oviedo, 1997, p. 203; RAMOS MÉNDEZ, F., El Sistema Procesal Español, Bosch, Barcelona, 2000, pp. 38 e ss. (3) V. sentenze 155/1988 del 22 luglio; 245/1988, del 19 novembre e 226/1988 del 28 novembre. (4) Sul dibattito terminologico, la nozione di “privilegio” e le conseguenze di scegliere una concreta denominazione (“specialità”, “dispensa”, “prerogativa”, “vantaggio”, etc.) v. ABAD PÉREZ, J.J., Principio de igualdad y las partes en el proceso in VV.AA., El principio de igualdad en la Constitución española, vol. II, Ministerio de Justicia, Madrid, 1991, p. 1745; BUTRÓN BALIÑA, P.M., Los privilegios procesales del Estado y la Ley 52/1997, de 27 de noviembre, La Ley, vol. 6/1998, p. 2344; MONTÓN GARCÍA, M.L., Un recorrido por los privilegios de las Administraciones Públicas en el proceso civil (referencia a la Ley de Enjuiciamiento Civil de 7 de enero de 2000), Studia Carande. Revista de Ciencias Sociales y Jurídicas, n. 6, 2001, pp. 57 e 58, oppure VICTORIA BOLÍVAR, S., Las partes en el proceso civil, Revista Jurídica de la Comunidad de Madrid, n. 8, mayo-septiembre 2000, nota 35. TEMI ISTITUZIONALI 7 La posizione privilegiata dell’Amministrazione davanti al giudice si presenta in ogni sorta di giudizio (5), sebbene la più evidente disuguaglianza processuale si osservi in materia civile per la esistenza di privilegi (come il Foro dello Stato) che in Spagna operano soltanto in questa materia. Nel diritto comparato, la dottrina è in generale riluttante a parlare di “privilegi ” o “prerogative” processuali della Pubblica Amministrazione (6). Infatti, anche quando si trova utilizzata un’espressione del genere, di solito le viene attribuita una connotazione ben diversa (7). Tant’è vero che, ad esempio, la tradizione anglosassone vede il régime administratif nell’insieme come l’erede rivoluzionario dei privilegi del principe decapitato dalla stessa rivoluzione e, così, l’atto amministrativo in sé viene definito come un privilegio (8). È in Italia dove si può trovare l’esperienza comparata più vicina alla realtà giuridica spagnola in materia di norme processuali di favore (9), ma le (5) Così in materia amministrativa basta citare le differenze di trattamento in materia di termini o di mora, tradizionalmente giustificate con l’interesse comune perseguito dalla Pubblica Amministrazione e con la funzione della sua difesa svolta dai Tribunali Amministrativi (in proposito si devono menzionare gli studi classici di ÁLVAREZ-GENDÍN Y BLANCO, S., La especialización de los tribunales contencioso-administrativos, RAP, n. 35, 1961, pp. 9-43; GARCÍA DE ENTERRÍA, E., La jurisdicción contencioso-administrativa hoy, Documentación Administrativa, n. 220, 1989, pp. 11-18 e FERNÁNDEZ, T.R., Juzgar a la Administración contribuye también a administrar mejor, REDA, n. 76, 1992, pp. 511-532). In materia di lavoro i privilegi competono alla Pubblica Amministrazione in quanto parte del processo sia come gestrice di servizi sociali, che come garante delle pensione oppure come datrice diretta di lavoro. In quest’ultimo caso è singolare come il particolare status dell’Amministrazione non si raccordi con l’abituale ruolo dei Tribunali sociali, tendenti alla protezione del lavoratore (v. ROMERO RODENAS, M., Algunas particularidades del proceso de trabajo contra las administraciones públicas, Actualidad Laboral, n. 25, 1998, pp. 493- 508 e MAIRAL JIMÉNEZ, op. cit., pp. 108 e 110). Ancora in materia penale la Pubblica Amministrazione gode di privilegi processuali condizionati all’intervento dell’Avvocato dello Stato sia come accusatore privato o in rappresentanza dell’ente offeso dal reato, o come difensore d’un funzionario pubblico o come rappresentante dell’ente pubblico eventuale responsabile civile (in proposito, v. MAS RAUCHWERK, M., Especialidades y competencias de los diversos órdenes jurisdiccionales en el enjuiciamiento del Estado: Orden penal in VV.AA., La Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones Públicas. Estudios en Homenaje a José Antonio Piqueras Bautista, Aranzadi, Navarra, 1999, pp. 238 e ss.). In base al principio d’unità d’azione disciplinato nell’articolo 3 della Legge 52/1997, i privilegi processuali dell’Amministrazione sono anche in vigore in materia militare (sebbene in questa sede abbiano un rilievo minore: v. BLANQUE AVILÉS, J.M. e ARANDA ESTÉVEZ, J.L., Especialidades y competencias de los diversos órdenes jurisdiccionales en el enjuiciamiento del Estado: Orden militar, in Ibidem, pp. 254 e ss.). (6) V. nella dottrina francese e belga, GOFFAUX, P., L’inexistence des privilèges de l’Administration et le pouvoir d’éxécution forcée, Bruylant, Bruxelles, 2002, p. 345. (7) Invece, nel senso di potestà sanzionatrice, esecuzione degli atti amministrativi o anche espropriazione forzata. (8) V. MEILÁN GIL, J.L., Sobre el acto administrativo y los privilegios de la Administración, Actualidad Administrativa, n. 10/1987, pp. 529 e 530. (9) Anche in Italia la dottrina, piuttosto che a sottolineare i “privilegi processuali” sembra orientata a mettere in evidenza che la Pubblica Amministrazione ha in giudizio la stes8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO differenze fra i due ordinamenti sono talmente chiare che non sembra possibile parlare d’una disciplina identica. 2. La genesi dei privilegi. Il ruolo dell’Avvocato dello Stato Lo status particolare della Pubblica Amministrazione nel processo si basa su norme che risalgono all’inizio del secolo diciannovesimo. Malgrado lo studio dei precedenti possa essere di qualche utilità, il solo dato storico non riesce ad illustrare in modo esauriente perché la Pubblica Amministrazione abbia una posizione differenziata nel processo (10). Tradizionalmente, la posizione processuale della Pubblica Amministrazione veniva disciplinata da una serie di disposizioni disperse, disseminate senza un nesso chiaro, di rango a volte imprecisabile e con un contenuto già superato in molti casi (11). La necessità di una nuova Legge che raccogliesse la materia era molto sentita e periodicamente veniva denunciata dalla dottrina (12), sopratutto dopo la Carta Costituzionale del 1978 (13). sa posizione da un’altro soggetto qualsiasi, anche se con alcune singolarità in ragione della particolare natura degli enti pubblici (v. PAVONE, P., Lo Stato in giudizio. Enti pubblici ed Avvocatura dello Stato, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 2002, pp. 167 e ss.; VIRGA, P., La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, 4ª ed., Giuffrè, Milano, 2003, pp. 69 e ss.; CANGELLI, F., Le parti in VV.AA. Giustizia Amministrativa, 2ª ed., Giappichelli, Torino, 2006, pp. 175 e ss.). (10) Nella dottrina spagnola, GARCÍA DE ENTERRÍA e FERNÁNDEZ insistono anche sull’insufficienza degli argomenti storici per spiegare il peculiare rapporto fra Amministrazione e Giurisdizione. Ad avviso di tali autori nemmeno basta fare riferimento a principi politici come la divisione dei poteri. Bisogna considerare il principio giuridico-amministrativo dell’autotutela per essere in grado di capire il particolare status della Pubblica Amministrazione nel processo (v. GARCÍA DE ENTERRÍA y FERNÁNDEZ, Curso de Derecho Administrativo, vol. I, 13º ed., Civitas, Madrid, 2006, pp. 508 e ss.). (11) V. MARTÍN RETORTILLO BAQUER, S., La defensa en derecho del Estado, Civitas, Madrid, 1986 e GARCÍA DE ENTERRÍA, E. y FERNÁNDEZ, T.R., Curso de Derecho Administrativo, vol. II, 11º ed., Civitas, Madrid, 2006, concretamente pp. 675 e ss. Fra le anzidette norme si devono menzionare: prima di tutto l’Estatuto de la Dirección General de lo Contencioso y del Cuerpo de Abogados del Estado, approvato nel 1925 con forma di legge, nel quale sono riportate le norme sulle funzione degli Avvocati dello Stato, partendo dalle consuetudini in materia di procedimenti giudiziari contro l’Amministrazione (sui dubbi circa la natura di questo Statuto come legge formale, v.MARTÍN RETORTILLO BAQUER, op. cit., pp. 217- 221); e poi, il Reglamento orgánico, del 1943, decreto nel quale sono riportate diverse norme alcune risalenti fino al 1877 (Ibidem, pp. 238-239). (12) Servano come esempio, oltre alle opere citate precedentemente, i lavori critici di SAAVEDRA GALLO, P., Prerrogativas del Estado en los procesos civil y administrativo (examen crítico sobre las razones que las fundamentan), in VV.AA., El principio de igualdad en la Constitución Española, vol. II, Ministerio de Justicia, Madrid, 1991, pp. 1945-1971; PEDRAZ PEÑALVA, E., Privilegios de las Administraciones Públicas en el proceso civil, Civitas, Madrid, 1993 oppure MAIRAL JIMÉNEZ, M., Los privilegios de la Administración Pública en el proceso laboral, Temas Laborales, n. 45, 1997, pp. 107-138. (13) È stato rilevato come i privilegi della Pubblica Amministrazione fossero incompatibili con i principi processuali d’uguaglianza, contraddittorio e tutela effettiva consacrati TEMI ISTITUZIONALI 9 Questo era all’origine il risultato a cui si voleva giungere con la Legge 52/1997, del 27 di novembre, di Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones públicas. Poiché la posizione processuale dello Stato è una modulazione del principio d’uguaglianza, sembrava logico che venissero ordinate in una norma con rango formale di legge con la quale definire la posizione processuale dell’Amministrazione in qualunque tipo di giudizio. Tuttavia non si può dire che il risultato sia stato raggiunto. Certamente non era un obiettivo facile da perseguire. Nei dibattiti parlamentari il progetto di Legge era stato duramente criticato e, in realtà, il testo finale sembra soltanto una riedizione delle disposizione precedenti, troppo eterogenee per essere chiarificatrici. La Legge regola tutta una serie di prerogative diverse fra di loro, senza classificarle secondo i loro titolari, o il loro scopo. Si sarebbe, ad esempio, dovuto fare una distinzione fra le norme applicabili soltanto alle Amministrazioni in senso stretto, quelle applicabili soltanto agli enti difesi dall’Avvocatura dello Stato ed infine quelle che presentano un legame ancora più stretto con l’Avvocatura in quanto applicabili a tutti i suoi “clienti”, chiunque siano (14). Inoltre, la Legge 52/1997 non impedisce che per leggi speciali si amplino i privilegi processuali. L’argomento più ripetuto per giustificare il trattamento della Pubblica Amministrazione come parte nel processo è fondato sulla natura pubblica degli interessi che persegue (15) oppure sulla complessità della sua organizdal testo Costituzionale (v. ad esempio, LORCA NAVARRETE, A.M., La posición del Estado en el proceso, Justicia, 3/1987, pp. 650 o ABAD PÉREZ, op. cit., pp. 1721-1765) e che le norme statutarie del 1925 non avessero abbastanza sostegno formale per venire applicate alle Regioni Autonome (appena create dalla Costituzione del 1978) ed ai loro difensori in giudizio (v. MÉNDEZ CANSECO, J.F., Las administraciones públicas ante la Jurisdicción ordinaria in VV.AA., Planes provinciales y territoriales de formación: recopilación de ponencias y comunicaciones: año 1996, vol. III, CGPJ, Madrid, p. 104). (14) In Spagna l’Avvocatura dello Stato assiste ex lege (patrocinio obbligatorio e gratuito) l’Amministrazione Generale dello Stato, gli organi costituzionali e gli Organismi Autonomi. Ci sono alcune eccezioni in materia militare e di sicurezza sociale (art. 1 comma 1 e 2 della Legge 52/1997). Il patrocinio è invece facoltativo per le Regioni ed i Comuni (art. 1 comma 3), gli Enti Pubblici imprenditoriali e le c.d. Autorità Indipendenti (art. 1 comma 4), che possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura a seguito di un accordo oneroso di collaborazione. Se ricorre il patrocinio facoltativo deve essere verificato nel caso concreto consultando la normativa specifica e gli statuti dell’ente. Inoltre la Legge 50/1998, del 30 dicembre ha esteso il patrocinio facoltativo al di fuori dell’ambito pubblico in senso rigoroso, autorizzandolo anche in favore delle s.p.a. e delle fondazioni (Disposizione Addizionale quinta). Per complicare la situazione ancora di più, nella pratica sono stati firmati, senza previsione legale specifica, accordi di assistenza con diversi consorzi. La grande varietà dei potenziali clienti dell’Avvocatura dello Stato è, naturalmente, motivo di confusione. (15) V. MEILÁN GIL, op. cit., pp. 529-538; RODRÍGUEZ ARJONA, M., Comentarios preliminares sobre algunas prerrogativas procesales de la Administración Pública, Revista de la Facultad de Ciencias Jurídicas y Políticas, n. 106, 1998, p. 321. 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zazione o sulla rigidità del suo funzionamento (16). Eppure i dubbi sulla legittimità e perfino sulla costituzionalità di queste prerogative persistono (17). Viene in genere rilevato che sono incompatibili, oltre che con il principio d’uguaglianza, con valori come la celerità e speditezza della giurisdizione (18) in quanto residui di vecchi privilegi e di comodità corporative che erano state richieste dagli Avvocati dello Stato nel passato, che bisogna lasciare indietro (19). Secondo la Legge 52/1997, in Spagna oggi il solo fatto di essere assistito in giudizio dall’Avvocatura dello Stato comporta il godimento di una serie di specialità processuali di grande rilevanza (20). La facoltà di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato costituisce un privilegio di per sé, dato che garantisce una difesa professionale da parte di un corpo d’élite, per giunta a buon mercato (a volte perfino gratuitamente). Ma non è questo l’aspetto del quale si intende trattare. Quello che interessa rilevare è che, in Spagna, non è possibile conoscere la posizione processuale d’un singolo ente né i privilegi di cui potrà fruire in lite senza verificare prima il modello della sua difesa giuridica, dal momento che ci sono privilegi operanti soltanto quando si usufruisce del patrocinio di un Avvocato dello Stato. Ce ne sono altri, invece, che sono legati al soggetto difeso ed alle sue particolarità, e non alla qualità dell’avvocato, privilegi che fanno sorgere meno problemi dal punto di vista tecnico- giuridico. È la combinazione non sistematizzata d’entrambi che costituisce un elemento perturbatore, dato che lascia troppe zone d’ombra. Per illustrare meglio questo punto, è utile proporre qualche esempio fra i privilegi processuali disciplinati dalla Legge 52/1997. 3. Singolarità in materia di notifica degli atti giudiziari Questo privilegio viene disciplinato direttamente dall’articolo 11 della Legge 52/1997, di Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones públicas. Sotto il titolo Notificaciones, citaciones, emplazamientos y demás actos de comunicación procesal, si dispone che: (16) V. LORCA NAVARRETE, op. cit., p. 650; LÓPEZ-FONT MÁRQUEZ, J.F., La derogación del fuero territorial del Estado y sus Organismos Autónomos y del régimen especial de notificaciones, REDA, n. 75, 1992, p. 433; MONTÓN GARCÍA, op. cit., p. 76. (17) V. PINAZO HERNANDIS, J., Las especialidades procesales de las Administraciones Públicas y el Proyecto de Ley de Enjuiciamiento Civil, Revista General de Derecho, n. 663, 1999, p. 14153. (18) V. PEDRAZ PEÑALVA, op. cit., p. 233. (19) V. DIEZ-PICAZO GIMÉNEZ, I., Algunas observaciones sobre la Ley 52/1997, de 27 de noviembre, de Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones Públicas, Tribunales de Justicia, n. 2/1998, pp. 175 e 176. (20) Infatti, privilegi processuali in materia di giudizi contro l’Amministrazione e patrocinio dell’Avvocatura dello Stato sono due questioni fortemente legate, tanto che la suddetta Legge 52/1997 le disciplina insieme. TEMI ISTITUZIONALI 11 “1. En los procesos seguidos ante cualquier jurisdicción en que sean parte la Administración General del Estado, los Organismos autónomos o los órganos constitucionales, salvo que las normas internas de estos últimos o las leyes procesales dispongan otra cosa, las notificaciones, citaciones, emplazamientos y demás actos de comunicación procesal se entenderán directamente con el Abogado del Estado en la sede oficial de la respectiva Abogacía del Estado. 2. Cuando las entidades públicas empresariales u otros Organismos públicos regulados por su normativa específica sean representados y defendidos por el Abogado del Estado se aplicará igualmente lo dispuesto en el apartado anterior. 3. Serán nulas las notificaciones, citaciones, emplazamientos y demás actos de comunicación procesal que no se practiquen con arreglo a lo dispuesto en este artículo”. L’articolo stabilisce, in termini generali, e sotto pena di nullità, che tutte le comunicazioni processuali indirizzate all’Amministrazione statale ed ai suoi Organismi Autonomi (21) si devono rivolgere direttamente all’Avvocato dello Stato nella sede della rispettiva Avvocatura distrettuale. Identico regime è applicabile quando altri enti pubblici si avvalgano dei servizi dell’Avvocatura dello Stato. La legge prevede un sistema speciale per la notifica agli enti pubblici che dipende però non dal tipo di ente, ma dal modello della sua assistenza legale nel processo. Il primo paragrafo della norma si riferisce alle Amministrazioni statali e agli Organismi Autonomi, entrambi difesi ex lege dall’Avvocatura dello Stato. Il paragrafo secondo si riferisce agli altri enti strumentali, che non sempre potranno godere del patrocinio dell’Avvocatura. Gli Enti Pubblici Imprenditoriali (22) possono usufruirne soltanto in base ad un accordo di assistenza legale con i Servizi Giuridici dello Stato. Per quanto riguarda le c. d. Amministrazioni Indipendenti, la persona del loro difensore nella lite dipender à in ogni caso dalle loro normative specifiche, e soltanto quando siano difese dall’Avvocatura dello Stato verrà applicato il privilegio in materia di notificazioni processuali. (21) Gli Organismi Autonomi (Organismos Autonomos) sono un tipo di enti pubblici strumentali disciplinati dalla Legge 6/1997, del 14 aprile sull’Organizzazione Generale dello Stato (LOFAGE, d’ora in poi). Rispondono al principio di decentralizzazione funzionale e sono organismi che agiscono sempre in regime di Diritto Amministrativo. Godono del patrocinio obbligatorio e gratuito dell’Avvocatura dello Stato (v. supra nota 14). (22) Le Entità Pubbliche Imprenditoriali (Entidades Públicas Empresariales) sono anche un tipo di Organismi pubblici disciplinati dalla LOFAGE. Esse hanno però un regime duplice: come regola generale agiscono in regime di Diritto privato ma vengono sottoposte al Diritto Amministrativo in alcune materie, come l’esercizio delle potestà amministrative o in materia finanziaria. Possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura, ma soltanto in base ad una convenzione (v. supra nota 14). 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il testo dell’articolo 11 della Legge sull’Assistenza legale agli enti pubblici non è stato modificato per adeguarsi alle nuovissime Agenzie statali (l’Agenzia è un nuovo modello di organizzazione amministrativa introdotto nel Diritto spagnolo a metà dell’anno scorso (23)), per cui non si può sapere con certezza a quale paragrafo dell’articolo 11 ci si debba riferire. In ogni caso, la questione non è particolarmente rilevante dato che sarà l’intervento in giudizio dell’Avvocato dello Stato il fattore che determinerà le forme della notifica, senza che il titolo in virtù del quale intervenga (mandato legale generale, provvedimento specifico o accordo contrattuale) abbia importanza. L’articolo 11 include fra gli enti strumentali, eventuali beneficiari del privilegio, soltanto gli Organismi pubblici statali e regionali (24). Non menziona però altri tipi di enti che, pur avendo in un certo senso una funzione strumentale, non rientrino nella definizione di Organismo pubblico della LOFAGE. Per questo le tre categorie di Organismi pubblici tipizzate nella LOFAGE (Organismi Autonomi, Entità Pubbliche Imprenditoriali e Agenzie statali) vengono comprese nel regime dell’articolo 11, insieme ai c. d. enti sui generis e le Amministrazioni indipendenti. Restano fuori, di contro, i consorzi, le fondazioni e le società pubbliche per azioni (25) dato che, anche se non può essere contestata la loro natura strumentale, non rientrano nella figura di Organismo pubblico. In Spagna, al di là della particolare concezione dell’Avvocato dello Stato come elemento determinante del privilegio, il regime della notifica speciale all’Amministrazione è sempre lo stesso. Diversamente dal diritto italiano, lo spagnolo non distingue la comunicazione iniziale dalle successive. Peraltro nel diritto spagnolo, la forma della notifica degli atti giudiziari agli enti pubblici è un privilegio generale, concerne cioè tutte le materie a meno che le leggi processuali speciali dispongano diversamente. Così, in materia di contratto di lavoro, è previsto (26) che una notifica irregolare si può salvare se la parte ne ha notizia ugualmente. Questo vuol dire che, nel diritto del lavoro, una notifica, effettuata in forma non corretta, può essere convalidata mentre nelle altre materie resterebbe nulla (27). La situazione, (23) Legge 28/2006, del 18 luglio, sulle Agencias Estatales para la mejora de los servicios públicos. Le Agenzie si convertono così nel terzo tipo di Organismi pubblici previsti dalla LOFAGE. La Legge 28/2006 dispone che anche le Agenzie fruiscono del patrocinio dell’Avvocatura, ma non chiarisce se il patrocinio è a titolo obbligatorio o facoltativo. Su questa problematica in esteso, v. BOTO ÁLVAREZ, A., El servicio de la Abogacía del Estado a la Administración Instrumental in La Abogacía del Estado para una Administración del siglo XXI. XXVIII Jornadas de estudio de la Abogacía General del Estado, in corso di stampa. (24) Disposizione Addizionale quarta, Legge 52/1997. (25) Cfr., in senso contrario, DIEZ-PICAZO GIMÉNEZ, op. cit., p. 176. (26) Art. 60 e 61 Regio Decreto-Legislativo 2/1995, del 7 aprile, trasfusi nella Legge di procedura in materia di lavoro. (27) L’interpretazione può sembrare troppo formalista e rigida, ma continua ad essere seguita dalle diverse sezioni provinciali dei Tribunali: v. sent. Audiencias Provinciales di Almería del 5 novembre di 2001; Cádiz del 2 giugno di 2003; Almería del 13 giugno di 2003 oppure Sevilla del 12 aprile di 2004. TEMI ISTITUZIONALI 13 dunque, è diversa da quella riscontrabile in Italia, dove da tempo si ritiene che la nullità della notifica della citazione viene sanata nel caso in cui l’Amministrazione si costituisca in giudizio con il patrocinio dell’Avvocatura. Il privilegio in materia di notifica agli enti pubblici si spiega con la dispersione e la complessità dell’organizzazione amministrativa, che rende necessario accentrare le comunicazioni a determinati organi allo scopo di un esercizio efficace del diritto di difesa (28), anche se la forma attuale del privilegio è difficile da giustificare per le distorsioni che produce. Così, prima di fare causa contro un ente pubblico si dovrà indagare sul suo sistema di assistenza legale e, se c’è un accordo con l’Avvocatura dello Stato, rivolgersi ad essa sotto pena di nullità insanabile. Ci sono esempi di enti che hanno persino tre possibilità di assistenza in giudizio (Servizi legali propri, avvocati di libero foro ed Avvocatura dello Stato) e la scelta finale non sempre si conosce al momento della citazione in giudizio (29) cosicché le difficoltà sono ancora maggiori per chi deve procedere alla notifica. La complessità burocratica non sembra bastevole per imporre ai privati che intendono proporre una causa contro l’Amministrazione (in realtà contro quasi qualsiasi cliente dell’Avvocatura dello Stato) un onere simile. La necessità di una modifica del regime vigente sembra incontestabile. Sarebbe indispensabile abbandonare l’interpretazione rigida e formalistica attuale e, seguendo il modello italiano e l’esempio che in Spagna ha anche scelto il legislatore del lavoro, rendere sanabile la notifica nulla. Allo stesso tempo, in particolare per gli enti strumentali con diverse possibilit à di assistenza legale, sarebbe utile introdurre una disciplina che differenziasse gli atti introduttivi del giudizio rispetto agli atti giudiziari successivi, con il diritto italiano come punto di riferimento. Sarebbe molto utile perché permetterebbe di rendere compatibile il vantaggio che per l’Amministrazione comporta la notifica nella sede dell’Avvocatura dello Stato (quando questo sia il patrocinio del quale decida avvalersi) con l’onere a carico della controparte: il privato si rivolgerebbe nella fase iniziale direttamente all’ente nel suo domicilio e poi, una volta che questo abbia scelto il difensore (Avvocato dello Stato, avvocato proprio o di libero foro) e sia noto l’interlocutore in giudizio, si rivolgerebbe a questo. 4. La dispensa dal pagamento preventivo L’articolo 12 della Legge 52/1997, con il titolo Exención de depósitos y cauciones dispone: (28) V. sent. Audiencia Provincial La Coruña dell’8 novembre di 2000. (29) V. le opinioni di BUTRÓN BALIÑA, op. cit., p. 2346 e di RISQUETE FERNÁNDEZ in VV.AA., La Asistencia Jurídica al Estado en el siglo XXI (Primer Congreso de la Abogacía del Estado), Aranzadi, Navarra, 2000, p. 267. “El Estado y sus Organismos autónomos, así como las entidades públicas empresariales, los Organismos públicos regulados por su normativa específica dependientes de ambos y los órganos constitucionales, estarán exentos de la obligación de constituir los depósitos, cauciones, consignaciones o cualquier otro tipo de garantía previsto en las leyes. En los Presupuestos Generales del Estado y demás instituciones públicas se consignarán créditos presupuestarios para garantizar el pronto cumplimiento, si fuere procedente, de las obligaciones no aseguradas por la exención”. Lo Stato, gli organi costituzionali, le Regioni e tutti gli organismi pubblici non sono tenuti a prestare garanzia processuale in quanto persone pubbliche, sempre solventi. Si tratta, pertanto, di un privilegio della Pubblica Amministrazione come tale. Il privilegio, come si è già rilevato, è automatico, nel senso che opera ogni volta che sia parte del processo uno degli enti menzionati, indipendentemente dal modello concreto della sua difesa giuridica. Ciò nonostante, quando c’è il patrocinio dell’Avvocatura, l’Avvocato dello Stato ha la funzione di vigilante del rispetto del privilegio (30). La legge gli affida la osservanza della norma, perfino di fronte al giudice. Quindi, la presenza dell’Avvocatura non è condicio sine qua non per la operatività del privilegio, ma vi gioca un ruolo importante. Nonostante questa costruzione concettuale teorica, nella pratica i giudici sono in generale contrari ad ammettere il privilegio in beneficio di enti non difesi dall’Avvocatura dello Stato. Le maggiori contestazioni vertono intorno agli enti pubblici strumentali che agiscono secondo il diritto privato (31) e a quelli che hanno avuto modificazioni formali (32). Il nodo gordiano della questione andrebbe sciolto stabilendo se la presunzione di solvenza dello Stato si possa sempre estendere ai suoi Organismi pubblici. I Tribunali non ne sono sicuri. Da ciò deriva la mancanza d’uniformità nelle loro pronunce. Di sicuro una riforma chiarificatrice, anche su questo punto della Legge, sarebbe la benvenuta. 5. Interruzione del computo dei termini processuali L’articolo 14 prevede la sospensione del corso degli atti processuali a favore dello Stato, dei suoi Organismi Autonomi e delle entità dipendenti d’entrambi quando vengano imputati. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (30) Articolo 38 del Regio Decreto 997/2003, del 25 luglio: En los casos en que así proceda, los Abogados del Estado cuidarán de la observancia por los juzgados y tribunales de la exención de depósitos, cauciones o cualquier otro tipo de garantías, e interpondr án, en caso contrario, los recursos procedentes. (31) Sopratutto l’ente delle Ferrovie dello Stato ed il Consorzio per la Compensazione di Assicurazioni: v. sent. Tribunale Superiore di Giustizia di Asturias del 9 marzo di 2001 e Sent. Aud. Prov. Cádiz a Ceuta del 13 luglio di 2001. (32) Il caso paradigmatico è quello della Posta, oggi s.p.a. Su questo: v. Sent. Tribunali Superiori di Giustizia della Comunidad Valenciana del 9 luglio di 2003 e di Cataluña del 12 e 19 giugno di 2003. “1. En los procesos civiles que se dirijan contra el Estado, sus Organismos autónomos, entidades públicas dependientes de ambos o los órganos constitucionales, el Abogado del Estado recabará los antecedentes para la defensa de la Administración, Organismo o entidad representada, así como elevará, en su caso, consulta ante la Dirección del Servicio Jurídico del Estado. A tal fin, al recibir el primer traslado, citación o notificaci ón del órgano jurisdiccional podrá pedir, y el Juez acordará, la suspensi ón del curso de los autos, salvo que, excepcionalmente, y por auto motivado, se estime que ello produciría grave daño para el interés general. El plazo de suspensión será fijado discrecionalmente por el Juez, sin que pueda exceder de un mes ni ser inferior a quince días. Dicho plazo se contar á desde el día siguiente al de la notificación de la providencia por la que se acuerde la suspensión, no cabiendo contra tal providencia recurso alguno. 2. En los interdictos, procedimientos del artículo 41 de la Ley Hipotecaria, aseguramiento de bienes litigiosos e incidentes, el plazo de suspensión será fijado discrecionalmente por el Juez, no siendo superior a diez días ni inferior a seis”. Può sembrare un beneficio in favore dell’Amministrazione in generale, comprendendovi tutti gli enti statali e anche tutti gli enti pubblici strumentali. Lo stesso regime si estende agli enti regionali secondo le disposizioni finali della Legge (33). Stando alla formulazione letterale dell’articolo, anche le nuove Agenzie sembrerebbero partecipi del privilegio, in quanto elementi dell’Amministrazione, intesa come personificazione complessa. Secondo questa interpretazione l’eventuale intervento di un Avvocato dello Stato non sarebbe rilevante al fine del beneficio. Questa è però una lettura affrettata e non soddisfacente. L’articolo dispone letteralmente che il corso normale dei termini processuali si ferma per fornire all’Avvocato dello Stato il tempo necessario per raccogliere i dati che un’adeguata difesa in giudizio dell’Amministrazione esige e, se occorresse, anche per consultare la Direzione del Servizio Giuridico dello Stato. Il privilegio della sospensione dei termini è, dunque, concesso soltanto quando l’ente abbia il patrocinio (legale, autorizzato o contrattato: non si possono fare distinzioni dato che il testo dell’articolo non le fa) dell’Avvocatura dello Stato. Questa interpretazione può, peraltro, portare a conseguenze in contrasto con lo scopo della norma. Così, nella pratica giudiziaria ci sono casi in cui si finisce per estendere il privilegio anche a favore di società commerciali che hanno un accordo di assistenza legale con l’Avvocatura dello Stato (34), interpretazione che rischia di essere addirittura contra legem. TEMI ISTITUZIONALI 15 (33) Secondo quanto viene disposto dalla Disposizione Adicionale quarta della Legge 52/1997. (34) Ad esempio, sent. Aud. Prov. Zaragoza del 2 marzo di 2004, ancora sulla s.p.a. della Posta. L’interruzione della decorrenza dei termini è richiesta dall’Avvocato dello Stato in forma unilaterale, in base ad una previsione legale stabilita nel suo solo interesse (35) operante solo in materia civile. Il giudice la consente, fissandone la durata entro il limite massimo di un mese. Per quanto riguarda il contratto di lavoro, c’è nel diritto spagnolo una istituzione simile: a seguito dell’intervento dell’Avvocato dello Stato l’inizio del giudizio viene differito allo scopo di fornirgli un lasso di tempo (ventidue giorni) nel quale possa consultare la Direzione del Servizio Giuridico (36). In questo caso la specialità della disciplina viene incontestabilmente legata alla persona dell’Avvocato; si tratta di una specie di superprotezione processuale (37) assolutamente sorprendente dato che, in termini tradizionali, il processo in materia di lavoro tende a proteggere i lavoratori piuttosto che il datore di lavoro, benché questo sia un ente pubblico. Per legittimare la proroga privilegiata dei termini ordinari (tanto in materia civile come per il contratto di lavoro) si fa in genere riferimento ancora alla complessità organizzativa dell’Amministrazione (38). L’argomento non è convincente, in particolare nei casi in cui è stato precedentemente proposto il reclamo amministrativo preventivo (39) perché l’Avvocato ha già avuto un tempo sufficiente per predisporre una difesa opportuna (40). 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (35) Infatti l’altra parte processuale non può contrapporsi. (36) Art. 82.3, comma b, del Regio Decreto-Legislativo 2/1995, del 7 aprile. Testo rifuso della Legge di procedura in materia di lavoro. (37) V. MAIRAL JIMÉNEZ, op. cit., p.127. (38) V. ad esempio la sentenza del Tribunal Supremo del 13 novembre di 2001. Il privilegio è visto in genere come essenziale per garantire l’uniformità dell’azione amministrativa e l’unità di dottrina nell’Avvocatura. In realtà il grosso problema sembra essere la sconnessione tra le diverse entità amministrative, che rende necessario un certo tempo per mettere insieme tutti i dati necessari alla difesa in giudizio, dato che queste entità non sempre collaborano come dovrebbero. Se nella pratica la cooperazione amministrativa fosse effettiva, il privilegio delle sospensione dei termini processuali non sarebbe necessario. Proprio per questo il privilegio è più difficile da giustificare quando interessate sono le Amministrazioni regionali (soprattutto quelle piccole per territorio) considerato che il contatto diretto, per la prossimità geografica, è più facile. Su questo punto si richiamano le osservazioni di GARCIA GOMEZ DE MERCADO in VV.AA., La asistencia jurídica al Estado en el siglo XXI (Primer Congreso de la Abogacía del Estado), Aranzadi, Navarra, 2000, pp. 261-262. (39) In Spagna, fare un reclamo amministrativo preventivo è obbligatorio, in termini generali, prima di esercitare un’azione civile o di lavoro contro un ente qualsiasi della Pubblica Amministrazione (art. 120-126 della Legge 30/1992, del 26 novembre, di procedura amministrativa comune). La differenza con il diritto italiano è evidente sebbene, nei tempi più recenti, la giurisprudenza spagnola tenda a fare un’interpretazione più flessibile. Così si dice oggi che la mancanza del reclamo in materia civile può essere sanata, mentre per quanto riguarda il contratto di lavoro può venire sostituita dal tentativo di conciliazione. V. le sentenze del Tribunal Supremo del 30 novembre di 2000; 14 maggio di 2002; 21 ottobre di 2002 e 16 novembre di 2004. (40) V. PEDRAZ PEÑALVA, op. cit., pp. 133 e ss.; DIEZ-PICAZO JIMÉNEZ, op. cit., p. 176 e MONTÓN GARCÍA, op. cit., p. 69. Che la organizzazione burocratica amministrativa richieda un certo allungamento dei termini processuali può ritenersi accettabile giacché, alla fine, la difesa dell’Amministrazione comporta anche la difesa degli interessi comuni. Dovrebbe, peraltro, essere chiaro che il motivo del privilegio è la complessità organizzativa dell’ente convenuto e non la persona dell’avvocato che lo assiste, né le esigenze dell’organizzazione di cui quest’ultimo fa parte quando si tratti dell’Avvocatura dello Stato. Una volta separato il privilegio dalla persona dell’Avvocato dello Stato, la sospensione dei termini processuali risulterebbe meglio giustificata. Un trattamento flessibile dell’Amministrazione verrebbe a compensare le formalit à e la lentezza conseguente con cui essa è costretta ad agire a causa del suo carattere pubblico. Estendere il privilegio ad enti di diritto privato, di conseguenza, non avrebbe senso (neanche se potessero avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura grazie ad un accordo ad hoc) perché, non dovendo seguire le forme del provvedimento amministrativo e del procedimento connesso, non ci sono complessità da compensare. 6. Il Foro dello Stato Il privilegio del Foro viene disciplinato dall’articolo 15 della Legge 52/1997. Viene chiamato in generale “Foro dello Stato” ma in realtà ne beneficiano, oltre alle Amministrazioni statali, anche le Regioni e alcuni enti pubblici: “Para el conocimiento y resolución de los procesos civiles en que sean parte el Estado, los Organismos públicos o los órganos constitucionales, serán en todo caso competentes los Juzgados y Tribunales que tengan su sede en las capitales de provincia, en Ceuta o en Melilla. Esta norma se aplicar á con preferencia a cualquier otra norma sobre competencia territorial que pudiera concurrir en el procedimiento. Lo dispuesto en este artículo no será de aplicación a los juicios universales ni a los interdictos de obra ruinosa”. Anche se soltanto in materia civile, sono derogate le regole generali sulla competenza territoriale. La competenza per le cause nelle quali sia parte uno dei soggetti pubblici anzidetti spetta al Giudice o Tribunale del capoluogo della provincia corrispondente. Il privilegio opera tanto quando gli enti pubblici vengono convenuti come quando sono attori. Di solito la specialità si giustifica con la necessità di precisare un luogo dove convenire lo Stato dato che esso non ha un proprio indirizzo a cui rivolgersi (41). L’argomento perde di valore nei confronti degli enti strumentali che hanno un indirizzo sempre determinato. TEMI ISTITUZIONALI 17 (41) V. ABAD PÉREZ, op. cit., p. 1754, che cita una vecchia pronuncia del Tribunal Supremo di 1894. Lo stesso argomento si può trovare poi in CREVILLEN VERDET in VV.AA., La Asistencia Jurídica al Estado e Instituciones Públicas. Estudios en Homenaje a José Antonio Piqueras Bautista, Aranzadi, Navarra, 1999, p. 339. La disciplina spagnola del Foro dello Stato sarà sorprendente per lo studioso italiano. In teoria in Spagna il privilegio del Foro non è limitato alle Amministrazioni statali, né si basa sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. È possibile trovare enti pubblici dotati di personalità propria, perfino che agiscano nell’ambito del diritto commerciale, che ciò non ostante si giovano del beneficio del Foro dello Stato. Basta che rientrino formalmente nell ’ambito dell’articolo 15 della Legge 52/1997 (42). Malgrado questa definizione teorica, i giudici a volte graduano l’interpretazione del Foro dello Stato nella pratica, mostrandosi favorevoli ad un’applicazione limitata del privilegio. Ci sono parecchi esempi in cui è stato deciso che, quando la difesa legale di un ente pubblico si affida ad un avvocato del libero foro, invece che all’Avvocato dello Stato, non c’è più ragione di applicare il foro speciale (43). Si trova anche precisato che del foro soltanto dovrebbero beneficiare gli enti pubblici che si avvalgono dell’Avvocatura (44). Per un riflesso quasi freudiano il Foro si trova talvolta definito come “territoriale speciale dell’Avvocatura dello Stato” (45) invece di “Foro dello Stato” oppure di “Foro della Pubblica Amministrazione”. Per giustificare il privilegio si argomenta talvolta anche che il miglioramento dei sistemi di comunicazione e dei mezzi di trasporto moderni lo rende oggi meno oneroso per la controparti per le quali non costituisce un aggravio eccessivo spostarsi nel capoluogo della provincia (46). L’argomento è debole e reversibile. Neppure per l’Amministrazione sarebbe un gran inconveniente che il suo avvocato si trasferisca provvisoriamente fuori della sua sede. Anzi, sarebbe obiettivamente meglio che lo facesse perch é per il privato la prospettiva di uno spostamento può avere un effetto dissuasivo tale da farlo rinunciare all’azione contro l’Amministrazione; mentre questa gode già naturalmente e strutturalmente di tutti i mezzi materiali e umani occorrenti per il giudizio. In ogni caso non sembra facile oggi trovare per il privilegio un fondamento che non sia la comodità e non le reali esigenze della difesa dell’Amministrazione (47). 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (42) Ad esempio, sent. Aud. Prov. Badajoz del 9 aprile di 1999 sull’ente pubblico delle Ferrovie dello Stato (RENFE) prima della sua trasformazione in s.p.a. Anche sent. Aud. Prov. Pontevedra del 15 marzo di 2001 e Murcia del 21 aprile di 2001 sul Consorzio di Assicurazioni. (43) V. sent. Tribunal Supremo del 25 febbraio di 1992. (44) Pronuncia Aud. Prov. Madrid del 16 aprile di 2001. (45) V. sent. Aud. Prov. Málaga del 2 febbraio di 2001. (46) V. GUTIÉRREZ DELGADO, J.M., El fuero territorial del Estado y otras entidades públicas: historia, razón de ser y plena vigencia en nuestro ordenamiento, RAP, n. 135, septiembre- diciembre 1994, pp. 348 e ss. (47) Così viene disposto, ad esempio, nella sent. Aud. Prov. Las Palmas, del 27 luglio di 2000. 7. Conclusioni Di altre numerose specialità processuali sarebbe utile lo studio per mettere in evidenza il ruolo essenziale che il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato gioca in Spagna nel definire la posizione processuale di un ente pubblico in giudizio. Così, si potrebbe parlare, per esempio, delle regole particolari in materia delle spese del giudizio, della prova o dell’esecuzione delle sentenze. Il loro esame però oltrepasserebbe l’ambito e lo scopo del presente scritto. Qui si è cercato di mettere in evidenza i privilegi più rilevanti con il proposito di mostrare come, nel diritto spagnolo, la posizione processuale e l’assistenza legale sono due nozioni intensamente legate, poiché il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato porta con sé l’applicazione di un certo numero di specialità processuali a beneficio del suo cliente, chiunque sia. In questo modo il privato, che deve fare causa contro un ente pubblico, non potrà conoscere esattamente quali privilegi gode la controparte fino a che non sappia se si avvarrà del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. La situazione è particolarmente preoccupante quando interessate sono le Amministrazioni strumentali dato che questo tipo di enti hanno un sistema di assistenza legale proprio. La tendenza non è nel senso di arrivare ad una disciplina generale, ma di continuare in un regime giuridico atomizzato, fondato su previsioni ad hoc che proliferano e mutano con enorme rapidità. La situazione è aggravata dal fatto che gli accordi di collaborazione fra l’Avvocatura dello Stato e gli enti pubblici non sempre ricevono un’adeguata pubblicità cosicché agli interessati viene anche a mancare la necessaria fonte di informazione. La posizione pregiudicata nella quale il privato finisce col trovarsi in giudizio di fronte agli enti pubblici sembra incontestabile. Ed è una situazione sempre più frequente visto che oggi la grande maggioranza dei nuovi servizi pubblici è affidata agli enti strumentali dell’Amministrazione. Se gli enti strumentali che operano nelle forme di diritto privato, evitando quelle di diritto pubblico con le garanzie amministrative connesse, davanti al privato in giudizio possano continuare a godere dei vantaggi pubblici per il solo fatto di essere difesi dall’Avvocatura dello Stato, invece che da un avvocato di libero foro, meriterebbe una verifica approfondita. In questa sede si può solo rilevare che il vincolo fra i privilegi processuali e la difesa dell’Avvocato dello Stato provoca distorsioni non di poco conto giacché l’Avvocatura ha un elenco variopinto di clienti. TEMI ISTITUZIONALI 19 Osservazioni sul sistema italiano di applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza: i recenti sviluppi di Roberto Mastroianni (*) SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Le evoluzioni del public antitrust enforcement – 3. Le misure cautelari nei procedimenti antitrust interni – 4. Gli impegni – 5. Il programma nazionale di clemenza – 6. La responsabilità dell’Agcm per violazione del diritto comunitario della concorrenza – 7. La legittimazione ad impugnare i provvedimenti dell’Agcm: le recenti pronunce interne – 8. L’“ascesa” del private antitrust enforcement – 9. Alcune questioni in tema di risarcimento del danno anticoncorrenziale – 10. Brevi cenni sui recenti sviluppi in materia di aiuti di Stato – 11. Considerazioni conclusive. 1. Premessa Lo scopo principale di questo lavoro consiste in un’analisi del sistema italiano di applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza, con l’obiettivo di provare a valutarne il grado di compatibilità e di adeguatezza rispetto al diritto comunitario ed allo standard di tutela delle posizioni I L C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E (*) Ordinario di Diritto dell’Unione Europea nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Il presente lavoro riproduce la relazione presentata al Convegno “Il principio di concorrenza tra regolazione e autoregolazione dei mercati”, svoltosi il 22 giugno 2007 nell’Aula Magna del Centro Congressi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. L’A. intende ringraziare sentitamente per la preziosa collaborazione il dr. Oreste Pallotta, dottore di ricerca in Diritto della concorrenza e del mercato nell’Unione Europea nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. giuridiche soggettive che esso impone; a tal fine, si terrà conto sia delle innovazioni apportate alla legge nazionale antitrust, sia della più recente giurisprudenza interna sul tema (1). Si tratta, evidentemente, di un esercizio non nuovo, ma pur sempre necessario in ragione dell’obbligo d’interpretazione conforme al diritto comunitario previsto dall’art. 1, comma quarto, della legge antitrust italiana n. 287/90 (2). Inoltre, un tale sforzo non appare, oggi, superfluo se si tiene conto, da un lato, delle importanti novelle che hanno riguardato quest’ultima e, dall’altro, dell’ampliamento, operato per via pretoria, dell’ambito di applicazione soggettivo delle norme di concorrenza comunitarie e nazionali. Secondo un famoso grand arrêt delle Sezioni Unite della Cassazione, infatti, «la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo» (3). L’estensione anche agli utenti finali dell’ambito dei destinatari diretti delle norme di concorrenza appare perfettamente in linea con il diritto comunitario antitrust, poiché, come precisato dalla Commissione europea, «la concorrenza effettiva apporta dei benefici ai consumatori, quali prezzi bassi, prodotti di alta qualità, un’ampia gamma di beni e servizi, e innovazione» (4). 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Questo contributo prosegue, ed in parte aggiorna, le riflessioni già compiute sull’applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza in Italia, contenute in Osservazioni in merito alla effettività del sistema italiano di tutela « decentrata » del diritto comunitario della concorrenza, in Dir. Un. Eur., 2001, p. 78 ss., cui ci sia consentito rinviare per il resto. (2) Come correttamente rileva l’Avvocato Generale Kokott nelle recenti Conclusioni del 3 luglio 2007, presentate nella causa C-280/06, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato c. Ente Tabacchi Italiani – ETI SpA e altri, « nel settore del diritto della concorrenza questo interesse ad un’interpretazione e ad un’applicazione il più possibile uniformi delle disposizioni vigenti a livello comunitario è particolarmente spiccato poiché in questo campo il diritto nazionale si orienta sul diritto comunitario con particolare frequenza. Ciò non vale soltanto a partire dall’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1/2003, con il quale si è pervenuti ad una correlazione particolarmente stretta tra la normativa nazionale in materia di concorrenza e il diritto comunitario. Già prima, cioè ancora ai tempi in cui vigeva il regolamento n. 17, la normativa nazionale in materia di concorrenza di numerosi Stati membri si ispirava, anche per dirimere situazioni puramente interne, al diritto comunitario. Questo si verifica, non da ultimo, anche per la legge italiana 287/90». (3) Cass., S.U., sentenza 20 gennaio–4 febbraio 2005, n. 2207, par. 1.f; in Foro it., 2005, I, c. 1014 ss., con note di A. PALMIERI, c. 1014 ss.; di A. PALMIERI e R. PARDOLESI, L’antitrust per il benessere (e il risarcimento del danno) dei consumatori, c. 1015 ss.; di E. SCODITTI, L’antitrust dalla parte del consumatore, c. 1018 ss.. Secondo G. ALPA, invece, «con l’introduzione della disciplina della concorrenza «e del mercato», si investono necessariamente in modo diretto gli interessi dei consumatori: non quindi sub specie di tutela della concorrenza, ma sub specie di tutela del mercato», sicché « l’impressione che si ricava, a una lettura complessiva del testo, è che l’interesse dei consumatori sia preso in considerazione solo come punto di riferimento, come metro di valutazione dell’anticoncorrenzialit à di un atto o di una pratica, cioè come mezzo, piuttosto che come fine»; v. G. ALPA, Introduzione al diritto dei consumatori, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 74-75. (4) Cfr. Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni tra imprese, in G.U.U.E. C 31, del 5 febbraio 2004, p. 5 ss. Pertanto, occorre non solo giudicare (ex novo) la conformità con le regole comunitarie degli “strumenti” recentemente offerti dal legislatore italiano all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito: Agcm), tenendo in debito conto la loro possibile operatività nei confronti di un più ampio numero di interessati (comprensivo anche dei consumatori finali), ma anche (ri)valutare l’adeguatezza dei “vecchi” rimedi in funzione della più ampia ed eterogenea schiera di soggetti sui quali – come oggi si ritiene – le alterazioni patologiche della libera concorrenza possono incidere in senso sfavorevole. Risulta intuitivo, a tal punto, che il fondamentale principio della tutela piena ed effettiva delle posizioni giuridiche soggettive conferite dal diritto comunitario assume, nei casi che ci interessano, una struttura elastica, che consente di adattare di volta in volta il giudizio di conformità agli standards europei al particolare status dei soggetti di cui si esige la protezione; infatti, l’ampiezza del numero dei destinatari del diritto della concorrenza e, soprattutto, la sua varietà (imprenditori concorrenti, intermediari, utenti finali, ecc.) escludono l’individuazione di un unico modello paradigmatico di tutela ed inducono a relativizzare la portata del principio comunitario di effettivit à. In questo senso, il compito dell’interprete odierno appare più faticoso di quello di ieri. Infine, le esigenze crescenti di semplificazione delle procedure applicative delle norme comunitarie di concorrenza rivolte agli Stati hanno indotto la Comunità ad esigere un maggiore coinvolgimento di quest’ultimi nel procedimento di controllo sugli aiuti di Stato; nel far ciò, si sta riducendo – seppur in misura ancora minima – la competenza esclusiva della Commissione europea, grazie alla progressiva adozione di regolamenti di esenzione per determinate categorie di aiuti, per i quali viene meno il controllo preventivo. In tal modo, si estendono pure i compiti dei giudici nazionali, i quali, nella materia in questione, non sono più confinati nello stretto ambito dell’art. 88, par. 3, CE, ma riguardano anche le norme direttamente applicabili contenute nei regolamenti di esenzione adottati dalla Commissione. 2. Le evoluzioni del public antitrust enforcement Il sistema di applicazione delle norme comunitarie di concorrenza da parte delle autorità pubbliche è stato oggetto, in questi anni, di importanti riforme tanto a livello comunitario, in particolar modo con l’entrata a regime del reg. CE 1/2003 (di seguito: il regolamento) (5), quanto nazionale, con le modifiche apportate alla legge 287/90 relative all’allargamento di competen- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 (5) Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del trattato, in G.U.C.E. L 1 del 4 gennaio 2003, p. 1 ss., entrato in vigore il 1 maggio 2004. ze dell’Agcm (6) ed all’attribuzione dei nuovi poteri che verranno di seguito illustrati. In particolare, il nuovo sistema di eccezione legale e l’introduzione di precisi obblighi di collaborazione all’interno dell’European Competition Network (di seguito: ECN) hanno stimolato un notevole dibattito, cui è possibile solo rinviare (7) e che ci consente, tuttavia, di tralasciare in questa sede aspetti pur rilevanti dell’attuale public antitrust enforcement europeo. Le considerazioni che seguono, quindi, muovono da presupposti ben noti, in primis l’obbligo per le autorità nazionali di concorrenza, introdotto dall’art. 3 del regolamento, di applicare «anche» le norme contenute negli artt. 81 e 82 CE nelle ipotesi in cui esse utilizzino la propria legislazione interna per le fattispecie di rilevanza comunitaria; ciò non vale nelle sole ipotesi in cui le norme nazionali perseguano un obiettivo differente rispetto a quello degli artt. 81 e 82 CE. In secondo luogo, al fine di una più efficace applicazione delle norme comunitarie di concorrenza, l’art. 5 del regolamento attribuisce alle autorità nazionali il potere, esercitabile d’ufficio o su denuncia, di ordinare la cessazione di un’infrazione, di disporre misure cautelari, di accettare impegni e di comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale. Infine, nel valutare le fattispecie rilevanti per il diritto comunitario della concorrenza, le autorità nazionali sono tenute ad una costante collaborazione con la Commissione europea, specie sotto forma di scambi d’informazioni (8). 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (6) Si vedano in particolare le nuove competenze in materia bancaria previste dai commi 5 e 5-bis, introdotti dall’art. 2 del decreto legislativo 29 dicembre 2006, n. 303, intitolato “Coordinamento con la legge 28 dicembre 2005, n. 262, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (T.U.B.) e del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (T.U.F.); in G.U. n. 7 del 10 gennaio 2007. (7) V., tra i commenti più recenti, per limitarci alla dottrina italiana, R. NAZZINI, Procedure comunitarie e nazionali in materia antitrust. Sui profili processuali del rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, in Dir. Un. Eur., 2006, p. 97 ss.; G. M. ROBERTI E M. ORLANDI, Le procedure applicative delle regole di concorrenza, in A. TIZZANO (a cura di), Il diritto privato dell’Unione Europea, II ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, Tomo II, p. 1589 ss.; P. CASSINIS, I nuovi poteri dell’Autorità nell’ambito della dialettica tra public e private enforcement, in Contr. imp./Europa, 2006, p. 719 ss.; G. ROMANO, La messa in opera delle norme antitrust, in A. FRIGNANI E R. PARDOLESI (a cura di), La concorrenza, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 299 ss.; M. ANTONIOLI, Concorrenza, in M. P. CHITI e G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte speciale, II ed., Giuffrè Editore, Milano, 2007, Tomo II, p. 847 ss.; L. F. PACE, Diritto europeo della concorrenza. Divieti antitrust, controllo delle concentrazioni e procedimenti applicativi, Padova, CEDAM, 2007; A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di), L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza – Commentario al regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002 , Giuffrè Editore, Milano, 2007. (8) V. art. 11 del regolamento, il cui primo paragrafo dispone che «la Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri applicano le regole comunitarie in stretta collaborazione». Le modifiche apportate dal legislatore italiano alla legge 287/90, in particolare quelle introdotte con la conversione in legge dell’art. 14, comma 1, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (9), quindi, s’innestano nel solco tracciato dal regolamento, che mira ad un potenziamento degli strumenti istruttori e sanzionatori attribuiti alle autorità nazionali di concorrenza; ed è alla luce di esso, nonché della giurisprudenza comunitaria che lo riguarda, che esse vanno più attentamente valutate. 3. Le misure cautelari nei procedimenti antitrust interni Con la conversione in legge del decreto cd. Bersani, il legislatore nazionale ha espressamente attribuito all’Agcm il potere/dovere di adottare misure cautelari; l’art. 14-bis, primo comma, della legge 287/90 dispone che «nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza, l’Autorità può, d’ufficio, ove constati ad un sommario esame la sussistenza di un’infrazione, deliberare l’adozione di misure cautelari» (10). Tale previsione riproduce sostanzialmente sul piano nazionale quanto disposto per la Commissione dall’art. 8 del regolamento, salvo poi discostarsene in modo palese al secondo comma, ove si prescrive che «le decisioni adottate ai sensi del comma 1 non possono essere in ogni caso rinnovate o prorogate » (11). L’attribuzione del potere cautelare all’Agcm risponde ad un’esigenza fondamentale di tutela delle posizioni giuridiche soggettive conferite dagli artt. 81 e 82 CE e di garanzia del loro effetto utile, già denunciata in precedenza (12); tuttavia, non può nemmeno tacersi come l’attuale art. 14-bis riproduca, almeno per le fattispecie di rilevanza comunitaria, norme imme- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 (9) V. legge 4 agosto 2006, n. 248, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto- legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”, in G.U. n. 186, dell’11 agosto 2006, S.O. n. 183. (10) Con riguardo al campo d’applicazione delle misure in questione, si tenga presente che esse si applicano unicamente alle ipotesi di intese o d’abuso di posizione dominante, poich é l’art. 14-bis è inserito nel titolo II, capo II, della l. 287/90; mentre, per le concentrazioni di dimensione nazionale, l’Agcm può “solo” ordinare alle imprese di sospendere l’operazione ex art. 17 l. 287/90. (11) L’art. 8, secondo paragrafo, del regolamento, invece, prevede che « le decisioni adottate ai sensi del paragrafo 1 sono applicabili per un determinato periodo di tempo e possono, se necessario ed opportuno, essere rinnovate ». V. M. RICCHIARI, Commento all’art. 8, in A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di), L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, cit., p. 112 ss. (12) Si vedano le nostre precedenti Osservazioni, cit., p. 87 ss., e la bibliografia ivi indicata, cui adde H. GONZALEZ DURANTEZ, E. NAVARRO VARONA, Interim Measures in Competition Cases Before the European Commission and Courts, in Eur. Comp. L. Rev., 2002, p. 512 ss.; A. NORDSJO, Regulation 1/2003: Power of the Commission to Adopt Interim Measures, in Eur. Comp. L. Rev., 2006, p. 299 ss.; F. CASTILLO DE LA TORRE, Interim measures in Community Courts: Recent Trends, in Comm. Market Law Rev., 2007, p. 273 ss. diatamente applicabili già presenti nel regolamento, il cui art. 5 – come anticipato – conferisce alle autorità nazionali il potere di adottare misure cautelari (13). Secondo quanto dichiarato dal Tar del Lazio nel caso Merck (14), «i soggetti destinatari della norma sono le autorità garanti nazionali, e non gli Stati membri, i quali non possono modificare la titolarità delle attribuzioni, concesse direttamente dall’art. 5, alle ANC», cosicché «la non necessità di un intervento del legislatore nazionale è, da ultimo, confermata dal principio del primato del diritto comunitario…per cui l’art. 5 è direttamente applicabile e cogente alla scadenza del termine del 1° maggio 2004, anche in deroga al diritto nazionale previgente» (15). Di conseguenza, la portata innovativa della modifica introdotta alla legge 287/90 va limitata alle sole fattispecie di dimensione nazionale. Quanto ai presupposti per l’esercizio del potere cautelare da parte dell’Agcm, essi consistono nei tradizionali requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora (16). Sotto il primo profilo, l’adozione della misura cautelare segue l’accertamento prima facie della possibile alterazione della concorrenza da parte dei comportamenti oggetto d’indagine; detta cognizione, quantunque sommaria, dovrebbe in ogni caso tenere conto di elementi tali da connotare l’esistenza della violazione in termini probabilistici, non essendo sufficiente la semplice presunzione richiesta per l’apertura di un procedimento istruttorio ex art. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (13) È noto che la giurisprudenza comunitaria si è da tempo espressa non solo sull’inopportunit à, ma anzi sulla illegittimità comunitaria del comportamento dello Stato membro che riproduca in un testo di legge interna il contenuto di un regolamento comunitario. La diretta applicabilità dei regolamenti, come prescritta dall’art. 249 del Trattato CE, comporta infatti che i regolamenti non hanno bisogno di alcun atto di recezione o di attuazione da parte degli Stati membri: anzi, qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve considerarsi illegittima, poiché potrebbe “nascondere agli amministrati la natura comunitaria di una norma giuridica” e “sminuire la competenza della Corte a pronunciarsi su qualsiasi questione di interpretazione del diritto comunitario”: cfr. per tutte la sentenza 10 ottobre 1973, Variola, causa 34/73, in Racc., p. 981. (14) Sentenza n. 1713/2006, del 9 novembre 2005, reperibile per esteso sul sito www.giustizia-amministrativa.it, così come tutte le altre sentenze dei giudici amministrativi di seguito citate; nonché in Foro it., 2007, III, c. 89, con nota di G. FAELLA, Potere cautelare in materia antitrust, rifiuto di licenza e certificati complementari di protezione, c. 91 ss.V. anche il provvedimento dell’Agcm n. 14388, in Boll. n. 23, del 27 giugno 2005, specie §. 160 ss. (15) Tale pronuncia sorge da un ricorso avverso un provvedimento cautelare dell’Agcm adottato prima delle modifiche legislative in commento e, quindi, in assenza di un’apposita previsione di legge nazionale. Sull’art. 5 del regolamento, cfr. F. IPPOLITO, Commento all’art. 5, in A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di), L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, cit., p. 65 ss. (16) Cfr. la Comunicazione dell’Agcm, Applicazione dell’articolo 14 bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287, adottata con provv. n. 16218 del 14 dicembre 2006, in Boll. n. 48 del 18 dicembre 2006, p. 83. 14, comma 1, legge 287/90 (17). Diversamente, l’adozione di misure cautelari diverrebbe automatica e conseguente al solo avvio di un’indagine da parte dell’Agcm; e ciò non può essere. Maggiori problemi interpretativi, invece, crea il requisito del periculum in mora, poiché occorre stabilire l’ambito della nozione di pregiudizio grave ed irreparabile alla concorrenza, cioè se essa riguardi unicamente l’assetto del mercato visto in un’ottica pubblicistica o anche l’eventuale lesione degli interessi privati delle imprese concorrenti e dei consumatori finali. Sotto tale profilo, la citata pronuncia del Tar del Lazio sul caso Merck sembra orientata nel primo senso, avendo i giudici amministrativi dichiarato che il potere cautelare dell’Agcm si distingue da quello del giudice ordinario, «laddove quest’ultimo si pronuncia soltanto su ricorso di parte (in genere, imprese concorrenti) per la tutela di un interesse privato, mentre l’Autorità agisce di sua iniziativa per tutelare l’interesse pubblico primario di rilevanza comunitaria e costituzionale, alla salvaguardia di un mercato concorrenziale». Ne deriva che l’adozione di provvedimenti cautelari da parte dell’Agcm sarebbe giustificata unicamente dall’esistenza di un pregiudizio grave ed irreparabile ad un interesse pubblico. Tali conclusioni trovano sostegno in una parte della dottrina interna, la quale fa anche leva sulle previsioni dell’art. 8 del regolamento e dell’art. 14- bis della legge 287/90, secondo cui la Commissione e l’Agcm possono adottare misure cautelari d’ufficio; tali norme vengono quindi assunte ad indice dell’irrilevanza degli interessi privati rispetto alla nozione in esame di pregiudizio alla concorrenza (18). Nondimeno, una simile interpretazione sembrerebbe sostenuta dalla stessa Commissione, la quale, con riferimento ai propri poteri cautelari, dichiara che «dall’articolo 8 del regolamento 1/2003 risulta chiaramente che gli autori di una denuncia ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento stesso non possono chiedere misure cautelari» (19). Tuttavia, ritengo che una corretta analisi dei poteri in esame richiede alcune distinzioni. In primo luogo, la questione delle modalità applicative delle misure cautelari non va necessariamente identificata con quella relativa alla natura degli interessi tutelati; in secondo luogo, bisogna distinguere tra i poteri cautelari della Commissione e quelli delle autorità nazionali di concorrenza. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 (17) In tal senso, v. M. SIRAGUSA, E. GUERRI, G. FAELLA, Gli impegni e le misure cautelari, atti del Convegno “Recenti innovazioni in materia di sanzioni antitrust”, Fondazione CESIFIN, 2 marzo 2007, pubblicati sul sito www.giustamm.it; nonché P. CASSINIS, op. cit., p. 722. (18) Cfr. M. SIRAGUSA, E. GUERRI, G. FAELLA, cit.; M. RICCHIARI, cit., in particolare p. 115 ss. (19) Cfr. Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del trattato CE, in G.U.U.E. C 101, del 27 aprile 2004, p. 65 ss., par. 80. V. però la nota 70, dove si afferma che « a seconda del caso, le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri possono essere ugualmente in una posizione idonea per adottare misure cautelari ». In relazione al primo aspetto, infatti, l’adozione di provvedimenti cautelari solo d’ufficio non esclude che l’autorità procedente prenda in considerazione anche gli interessi privati, nonostante la tutela dell’interesse pubblico rimanga assorbente. In riferimento al secondo, la previsione dell’art. 14-bis, nella parte in cui dispone che l’Agcm possa adottare misure cautelari d’ufficio, deve essere coordinata, a pena di conflitto con le disposizioni comunitarie, con le norme direttamente applicabili dell’articolo 5 del regolamento, in base al quale le autorità nazionali possono farlo «agendo d’ufficio o in seguito a denuncia» (20). Considerata la differenza di formulazione testuale e di destinatari (nel caso dell’art. 8, la Commissione; nel caso dell’art. 5, le autorità nazionali), potrebbe sostenersi che la norma di riferimento per il potere delle autorità nazionali di adottare misure cautelari in fattispecie di rilievo comunitario è in realtà la seconda, e non la prima, peraltro senza la necessità di tradurre detta regola (e dunque detto potere) in una disposizione interna. La differenza rispetto alle ipotesi in cui è la Commissione ad adottare misure cautelari potrebbe spiegarsi in ragione dell’opinione oramai consolidata, per quanto non totalmente convincente, secondo cui la Commissione opera a tutela dell ’interesse pubblico allo sviluppo di un mercato concorrenziale, con la facolt à, tra l’altro, di operare una selezione dei casi da trattare in base alla presenza o meno di un “interesse comunitario” (21). Ma la medesima ratio non viene in rilievo per le autorità nazionali, per cui l’intervento su istanza di parte (e dunque a tutela dei diritti dei privati) appare, in questo caso, del tutto legittimo. Ad ogni modo, anche l’interpretazione fatta propria dalla stessa Commissione, per cui l’art. 8 del regolamento avrebbe limitato ai casi di tutela dell’interesse pubblico la facoltà di adottare misure cautelari, va sottoposta ad un vaglio critico. Difatti, focalizzando l’attenzione sul dato letterale dell’art. 8 (e dunque dell’art. 14-bis della legge) può evidenziarsi come il paragrafo 1 non imponga di adottare provvedimenti cautelari solo d’ufficio, ma prescrive che la Commissione può deliberarli in tal modo. Pertanto, potrebbe ritenersi che la disposizione in esame abbia un intento ampliativo, in quanto concede alla Commissione e all’Agcm la possibilità di prendere provvedimenti cautelari pur in assenza di una richiesta di parte. E non può non evidenziarsi, a questo proposito, che il Preambolo del regolamento, laddove si occupa di offrire una motivazione alla codificazione del potere della 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (20) Cfr. L. ARNAUDO, Le misure cautelari nel diritto antitrust comunitario e nazionale, in Riv. it. dir. pub. com., 2006, p. 983 ss., secondo cui « nel rivolgersi alle autorità nazionali, il regolamento faccia riferimento a un’azione «d’ufficio o in seguito a denuncia», quasi a tradire, si ritiene, una differente valutazione di priorità degli interessi coinvolti nell’intervento antitrust a seconda dei livelli comunitario o nazionale». (21) Per tutte, v. le sentenze del T.P.I. 18 settembre 1992, causa T-24/90, Automec c. Commissione, in Racc., 1992, p. II-2223, e 24 gennaio 1994, BENIM, causa T-114/92, ivi, 1994, p. II-147. Commissione di adottare misure cautelari, si limita a far riferimento alla necessità di «prevedere espressamente il potere, riconosciuto alla Commissione dalla Corte di giustizia, di adottare decisioni che dispongano misure cautelari» (Considerando n. 11): potrebbe quindi ritenersi che l’intenzione del Consiglio sia stata quella di riferirsi alla giurisprudenza della Corte, la quale, come visto, non distingue tra poteri d’ufficio o su istanza di parte. Appare dunque difficile sostenere che, in un contesto di dichiarato “consolidamento” della prassi e della giurisprudenza precedente, si sia inteso intervenire con un’innovazione così rilevante. Ma, in realtà, la limitazione della nozione di pregiudizio, rilevante ai fini cautelari, al solo interesse pubblico alla libera concorrenza sembra muovere da una errata concezione degli interessi alla cui tutela il public antitrust enforcement è teleologicamente orientato e per i quali le relative funzioni pubbliche sono conferite. L’ordinamento comunitario, infatti, lungi dall’effettuare una netta separazione tra private e public enforcement sulla base degli interessi protetti, ne sostiene, invece, il carattere (sempre più) complementare (22); così, come attraverso la tutela del più ampio numero possibile di interessi privati alla libera concorrenza può realizzarsi quello pubblico alla conservazione di un mercato non falsato, allo stesso modo, mediante la salvaguardia della concorrenza intesa come bene pubblico, si proteggono gli interessi dei singoli. Valgono a tal proposito le considerazioni della Commissione europea, secondo cui «entrambe le forme di applicazione fanno parte di un sistema di applicazione comune e perseguono lo stesso obiettivo: impedire le pratiche anticoncorrenziali vietate dalla normativa antitrust e tutelare le imprese e i consumatori da tali pratiche e dai danni che ne possono conseguire» (23). D’altra parte, già nella celeberrima ordinanza Camera Care la Corte di giustizia aveva inequivocabilmente dichiarato che l’adozione di misure cautelari può essere necessaria «quando le pratiche di determinate imprese in materia di concorrenza ledano gli interessi di Stati membri, danneggino altre imprese, o mettano in causa in modo inaccettabile il regime comunitario della concorrenza»; pertanto, aveva proseguito la Corte, detti provvedimenti possono essere adottati in casi d’urgenza «per far fronte ad una situazione tal da causare un danno grave e irreparabile alla parte che li richiede, o intollerabile per l’interesse pubblico» (24). Ciò premesso, l’esclusione dall’ambi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 (22) V. Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del trattato CE, cit., § 1. (23) Cfr. Libro Verde della Commissione Europea, Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust, del 19 dicembre 2005, par. 1.1, in G.U.U.E. C 49, del 28 febbraio 2006, p. 33 ss. (24) Ordinanza della Corte, del 7 gennaio 1980, causa 792/79 R, in Racc. 1980, p. 119 ss., § 14 e 19. Cfr. anche la sentenza del T.P.I. del 24 gennaio 1992, La Cinq SA c. Commissione, Causa T-44/90, ivi, 1992, p. II-1, § 28, e della Corte del 26 ottobre 2001, IMS Health c. Commissione, ivi, 2001, p. II-3193. to della nozione di pregiudizio grave ed irreparabile alla concorrenza della lesione degli interessi privati potrebbe essere sospettata di illegittimità comunitaria. Tanto più ove il pregiudizio arrecato ai privati dovesse rivelarsi di estrema diffusione, come nel caso dei contratti di massa conclusi con i consumatori finali. Pertanto, a mio avviso, l’Agcm dovrebbe avere il potere di agire in via cautelare ex art. 14-bis, legge 287/90, anche nei casi in cui il pregiudizio grave ed irreparabile riguardi gli interessi dei privati alla libera concorrenza; e la prassi anche recente non appare smentire questa conclusione (25). Né ci sembra che il requisito dell’irreparabilità possa essere in ogni caso escluso dalla semplice prospettiva di un risarcimento del danno antitrust, tanto più in considerazione delle difficoltà che – come si dirà – ancora rischiano di disincentivare i privati (specie se consumatori finali) ad agire in tal senso. In ultimo, in merito al procedimento per l’adozione delle misure cautelari nazionali, la relativa comunicazione dell’Agcm indica due distinte ipotesi: una procedura ordinaria, che prevede il preventivo contraddittorio con le parti interessate, ed un’altra, utilizzabile nei casi di estrema gravità ed urgenza, che consente all’autorità di adottare la misura inaudita altera parte e di differire il confronto su di essa (26). Quest’ultima procedura sembra in 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (25) Cfr. provv. 15 giugno 2006, n. 14388 (A364), Merck-Principi attivi, cit., § 155- 157; provv. 18 settembre 2006, n. 15908 (I675), ABI: modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, in Boll. 35-36/2006, § 27; provv. 27 settembre 2006, n. 15938 (I678), Distribuzione di farmaci senza obbligo di ricetta alle parafarmacie, in Boll. 37/2006, § 26. (26) Quanto al procedimento per l’adozione di misure cautelari, si veda il provvedimento dell’Agcm n. 16218, con il quale è stata adottata una comunicazione relativa all’applicazione dell’art. 14 bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287. Tale comunicazione distingue le ipotesi ordinarie da quelle di estrema gravità ed urgenza. Nel primo caso, si prevede che « l’Autorità, qualora ritenga prima facie sussistenti i presupposti per l’adozione di misure cautelari, avvia il procedimento, anche contestualmente all’avvio dell’istruttoria, ed indica alle parti un termine, non inferiore a sette giorni, entro il quale esse possono presentare memorie scritte e documenti. Le parti possono altresì chiedere di essere sentite dinanzi al Collegio. A tal fine il responsabile del procedimento fissa alle parti un termine entro il quale esse possono presentare detta richiesta. Laddove tale richiesta sia presentata, il Collegio fissa la data dell’audizione, che è comunicata alle parti interessate. Valutati gli elementi acquisiti, l’Autorità delibera in merito alle misure cautelari e delibera altresì che le parti interessate inviino un’informativa circa le iniziative adottate per conformarsi alla delibera». Nel secondo, che «nel caso di estrema gravità ed urgenza, tale da rendere indifferibile l’intervento, l’Autorità adotta, anche contestualmente all’avvio dell’istruttoria, misure cautelari provvisorie. Entro il termine di 7 giorni dalla notifica del provvedimento con cui è adottata la misura cautelare provvisoria, le parti interessate possono presentare memorie scritte e documenti e chiedere di essere sentite dinanzi al Collegio. Valutate le argomentazioni delle parti, l’Autorità conferma le misure cautelari e delibera altresì che le parti interessate inviino un’informativa circa le iniziative adottate per conformarsi alla misura». Inoltre, in base all’art. 14-bis, terzo comma, l. 287/90, «l’Autorità, quando le imprese non adempiano a una decisione che dispone misure cautelari, può infliggere sanzioni amministrative pecuniarie fino al 3 per cento del fatturato». contrasto con i requisiti minimi di tutela dei privati imposti dal diritto comunitario, tenuto conto che, con riferimento ai provvedimenti adottati dalla Commissione in materia di politica di concorrenza, nel regolamento è prescritta l’audizione delle imprese destinatarie «prima di adottare qualsiasi decisione» (27) e che tale regola appare come una manifestazione particolare del più generale principio comunitario di buona amministrazione. Quindi, almeno in relazione alle fattispecie di rilevanza comunitaria, il provvedimento dell’Agcm che adotta la comunicazione in commento può ritenersi illegittimo nella parte de qua e, qualora tali previsioni venissero consolidate dalla prassi, si configurerebbe un palese contrasto tra l’ordinamento comunitario e quello interno, anche in considerazione della disparità di trattamento che una medesima fattispecie comunitaria potrebbe subire in ragione dell’autorità procedente all’interno dell’ECN (Commissione o Agcm). Ma anche sotto il profilo della legittimità interna, possono nutrirsi dubbi sull’adottabilità di misure cautelari inaudita altera parte. Infatti, l’art. 14-bis tace al riguardo, cosicché dovrebbero trovare applicazione, in assenza di disposizioni specifiche, le regole generali sul procedimento amministrativo; ed, inoltre, nemmeno può essere sottovalutato il potenziale conflitto delle regole in esame con la libertà d’impresa sancita dall’art. 41 Cost., se si tiene conto dell’impatto che le misure cautelari dell’Agcm, a contenuto atipico, possono produrre sulle scelte imprenditoriali, per cui andrebbe quantomeno garantita in ogni caso la partecipazione preventiva dei soggetti destinatari dei provvedimenti in oggetto. 4. Gli impegni L’ulteriore novità, introdotta nella disciplina nazionale di concorrenza all’art. 14-ter, è rappresentata dall’istituto dei cd. impegni, ovvero dalla possibilit à per le imprese di assumere obblighi idonei ad attenuare i profili di anticoncorrenzialità delle fattispecie per le quali è stata avviata un’istruttoria da parte dell’Agcm; il vantaggio che esse ne ricavano, in caso di accoglimento da parte dell’Autorità, consiste nella chiusura del procedimento a loro carico senza l’accertamento dell’infrazione (28), evitando anche il conse- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 (27) Sancisce l’art. 27, par. 1, del regolamento : «Prima di adottare qualsiasi decisione prevista dagli articoli 7, 8, 23 e 24, paragrafo 2, la Commissione dà modo alle imprese e associazioni di imprese oggetto del procedimento avviato dalla Commissione di essere sentite relativamente agli addebiti su cui essa si basa. La Commissione basa le sue decisioni solo sugli addebiti in merito ai quali le parti interessate sono state poste in condizione di essere sentite. I ricorrenti sono strettamente associati al procedimento». L’art. 30, par. 1, del regolamento prevede poi la pubblicazione delle decisioni della Commissione, adottate sulla base degli artt. da 7 a 10 del medesimo regolamento. (28) Infatti, l’art. 14-ter, primo paragrafo, l. 287/90 stabilisce che: «Entro tre mesi dalla notifica dell’apertura di un’istruttoria per l’accertamento della violazione degli articoli 2 o 3 della presente legge o degli articoli 81 o 82 del Trattato CE, le imprese possono presentare impegni tali da far venire meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria. guente svantaggio probatorio che esse diversamente subirebbero nelle eventuali azioni di danno attivate dai terzi (29). Ad ogni modo, il provvedimento di chiusura del procedimento antitrust è pur sempre vincolante per le imprese, posto che, in caso d’inottemperanza agli impegni resi obbligatori, è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria e la riapertura del procedimento originario (30). Anche ad una prima lettura delle disposizioni in commento, quindi, emerge subito la loro chiara ispirazione europea, non solo per l’espresso rinvio ai limiti posti dall’ordinamento comunitario, ma anche per la sostanziale riproduzione delle norme contenute all’art. 9 del regolamento, in base al quale «qualora intenda adottare una decisione volta a far cessare un’infrazione e le imprese interessate propongano degli impegni tali da rispondere alle preoccupazioni espresse loro dalla Commissione nella sua valutazione preliminare, la Commissione può, mediante decisione, rendere detti impegni obbligatori per le imprese»; tali decisioni, secondo quanto chiarito dal tredicesimo considerando del regolamento, «dovrebbero accertare che l’intervento della Commissione non è più giustificato, senza giungere alla conclusione dell’eventuale sussistere o perdurare di un’infrazione». Le corrispondenze tra la disciplina comunitaria e quella interna della materia si estendono, poi, anche alle ipotesi di riapertura del procedimento (31) ed alla commisurazione della sanzione in caso d’inottemperanza (32); ciò nonostante, però, le decisioni della Commissione, che accettano gli impegni proposti dalle imprese e li rendono obbligatori, non vincolano le autorit à ed i giudici nazionali, i quali possono pur sempre avviare un autonomo procedimento quando ne sussistano i presupposti previsti dallo stesso ordinamento comunitario (33). 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’Autorità, valutata l’idoneità di tali impegni, può nei limiti previsti dall’ordinamento comunitario, renderli obbligatori per le imprese e chiudere il procedimento senza accertare l’infrazione». V. M. SIRAGUSA, E. GUERRI, G. FAELLA, cit.; nonché P. CASSINIS, cit., da p. 722 ss. Cfr. anche provv. dell’Agcm n. 16709 del 18 aprile 2007, Accordi interbancari “ABICOGEBAN ”, in Boll. n. 14 del 24 aprile 2007. (29) Cfr. anche S. AMADEO, Commento all’art. 9, in A. ADINOLFI, L. DANIELE, B. NASCIMBENE, S. AMADEO (a cura di), L’applicazione del diritto comunitario della concorrenza, cit., p. 124 . (30) In base al secondo paragrafo dell’art. 14-ter, «l’Autorità in caso di mancato rispetto degli impegni resi obbligatori ai sensi del comma 1 può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato». Il terzo paragrafo, poi, prevede che «l’Autorità può d’ufficio riaprire il procedimento se: a) si modifica la situazione di fatto rispetto ad un elemento su cui si fonda la decisione; b) le imprese interessate contravvengono agli impegni assunti; c) la decisione si fonda su informazioni trasmesse dalle parti che sono incomplete, inesatte o fuorvianti ». (31) V. art. 9, par. 2, del regolamento. (32) V. art. 23, par. 2, lett. c) del regolamento. (33) Cfr. il tredicesimo considerando del regolamento. Tanto premesso, possono estendersi anche all’art. 14-ter i dubbi di legittimit à circa le disposizioni interne meramente riproduttive di quelle comunitarie, considerato che il più volte citato art. 5 del regolamento, immediatamente applicabile, già conferisce alle autorità di concorrenza nazionali il potere di accettare impegni per le fattispecie di rilevanza comunitaria; così come possono sollevarsi perplessità sull’articolo in commento, nella parte in cui dispone che l’Agcm «può d’ufficio» riaprire il procedimento nelle ipotesi prima specificate, senza far riferimento all’iniziativa dei privati interessati. In tal caso, non solo valgono tutte le considerazioni già espresse in merito alla natura degli interessi tutelati dal public antitrust enforcement, ma appare anche evidente il contrasto con le corrispondenti disposizioni comunitarie. Infatti, l’art. 5 del regolamento attribuisce espressamente alle autorit à nazionali la possibilità d’esercitare i loro poteri «agendo d’ufficio o in seguito a denuncia», ed anche lo stesso art. 9, secondo paragrafo, prevede che la Commissione, nell’ipotesi in cui abbia in precedenza reso obbligatori determinati impegni, può nei casi tassativamente previsti riaprire il procedimento «su domanda o d’ufficio». Se poi si procede ad un raffronto più dettagliato tra i poteri dell’Agcm in questione e quelli analoghi spettanti alla Commissione, risulta che quest’ultima può anche adottare le relative decisioni «per un periodo di tempo determinato » (34) e, nel caso d’inottemperanza, può anche irrogare alle imprese o alle associazioni d’imprese penalità di mora ex art. 24, paragrafo 1, lett. c), del regolamento; inoltre, la possibilità di presentare impegni alla Commissione non è sottoposta ad alcun termine, diversamente da quanto prescritto dall’art. 14-ter, che impone alle imprese di procedere entro tre mesi dalla notifica dell’apertura del procedimento istruttorio. Con riguardo, invece, ai limiti che conformano l’esercizio del potere dell’Agcm di accettare impegni, l’art. 14-ter opera un generico rinvio all’ordinamento comunitario, per cui spetta all’interprete ricostruirli anche alla luce delle singole fattispecie che si presentano. In via analogica, tuttavia, un limite sempre valido dovrebbe essere individuato con riferimento al tredicesimo considerando del regolamento, secondo cui «le decisioni concernenti gli impegni non sono opportune nei casi in cui la Commissione intenda comminare un’ammenda» (35); un tale limite imperativo, quindi, andrebbe esteso anche alle autorità nazionali, almeno quando decidono in merito a fattispecie di rilievo comunitario. Le modalità applicative dell’art. 14-ter sono state poi precisate, con maggior dettaglio, nell’apposita comunicazione dell’Agcm relativa tanto alle IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 (34) Cfr. art. 9, par. 1, del regolamento. (35) Sui criteri di applicazione e di calcolo delle sanzioni pecuniarie, v. gli Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003, in G.U.U.E. C 210, del 1 settembre 2006, p. 2 ss. In proposito, v. F. AMATO, I nuovi orientamenti della Commissione in materia di ammenda per violazione del diritto di concorrenza, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 239 ss. ipotesi di intese e/o abusi di dimensione nazionale quanto a quelle di rilevanza comunitaria (36). In essa, l’Autorità ha previsto la possibilità per le imprese di presentare una versione provvisoria degli impegni al fine di un dialogo preventivo con le competenti Direzioni istruttorie, utile alla formulazione definitiva degli impegni da assumere entro i termini di legge; inoltre, si prevede la loro pubblicazione sul sito internet per consentire ai terzi di formulare osservazioni ed instaurare così un contraddittorio procedimentale in merito (37), conformemente a quanto previsto per le decisioni della Commissione (38). 5. Il programma nazionale di clemenza Tra le recenti innovazioni apportate alla disciplina interna della concorrenza rientra anche la regolamentazione, modellata sull’esempio europeo, del fenomeno del pentitismo antitrust, ovvero della spontanea collaborazione con l’Agcm delle imprese colluse al fine di svelare i cartelli segreti. Infatti, il nuovo comma 2-bis dell’art. 15, legge 287/90 (39), prevede che «l’Autorità, in conformità all’ordinamento comunitario, definisce con proprio provvedimento generale i casi in cui, in virtù della qualificata collaborazione prestata dalle imprese nell’accertamento di infrazioni alle regole di concorrenza, la sanzione amministrativa pecuniaria può essere non applicata ovvero ridotta nelle fattispecie previste dal diritto comunitario». L’esistenza di una “copertura” legislativa al programma di clemenza interno appare una scelta sicuramente felice, coerente con il principio di legalità dell’azione amministrativa, tenuto conto che all’esito della partecipazione collaborativa delle imprese al public antitrust enforcement, ed in considerazione del suo valore probatorio, può anche giungersi alla non applicazione della sanzione amministrativa pur in presenza di una violazione (accertata per ammissione) delle norme comunitarie e nazionali di concorrenza; diversamente, qualora per tali casi non vi fosse stata un’apposita previsione di legge, la concessione di un’immunità da parte dell’Agcm sarebbe andata ben al di là del normale esercizio della discrezionalità amministrativa, integrando, invece, un’ipotesi non prevista dall’ordinamento interno, né 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (36) Comunicazione sulle procedure di applicazione dell’art. 14 ter della legge n. 287/90, adottata con provv. n. 16015 del 12 ottobre 2006, in Boll. n. 39 del 16 ottobre 2006. (37) Ad es., v. provv. n. 16909, relativo al procedimento n. A382, Autostrade/Carta prepagata Viacard, pubblicata sul sito internet www.agcm.it (38) V. art. 24, par. 4, del regolamento. (39) Come modificato dall’art. 11, comma 4, della l. 5 marzo 2001, n. 57, recante “Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati” e dall’articolo 14, comma 2, del decreto-legge 223/2006 convertito, con modifiche, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248 recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”. da quello comunitario, di disapplicazione di norme di legge a contenuto sanzionatorio. Sotto tale profilo, quindi, il sistema italiano di applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza appare offrire sufficienti garanzie e certezze tanto alle imprese colluse, che spontaneamente collaborano al fine di ottenere i benefici, quanto a quelle concorrenti ed agli stessi consumatori finali, che, al contrario, hanno interesse all’adozione di provvedimenti sanzionatori deterrenti (40); peraltro, dette garanzie risultano anche maggiori di quelle previste dall’ordinamento comunitario, tenuto conto che i leniency programmes della Commissione europea trovano fondamento unicamente nelle sue stesse comunicazioni (41). Sulla base del citato articolo 15 legge 287/90, quindi, l’Agcm ha adottato, con provvedimento n. 16472 del 15 febbraio 2007 (42), una Comunicazione sulla non imposizione e sulla riduzione delle sanzioni ai sensi dell’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (di seguito: la comunicazione). La ratio del programma nazionale di clemenza va individuata, sulla scorta dell’analoga comunicazione comunitaria, nell’intento di agevolare i compiti istruttori spettanti all’Agcm, grazie alla spontanea collaborazione delle imprese che abbiano partecipato ad un cartello segreto di rilevanza comunitaria o anche nazionale; e ciò perché – si ritiene correttamente – riveste un maggiore interesse per il mercato la cessazione tempestiva di comportamenti anticoncorrenziali, piuttosto che la tardiva imposizione di sanzioni amministrative a chi li abbia commessi. Come dichiara la stessa Commissione europea, «il vantaggio che i consumatori e i cittadini traggono dalla certezza che le intese segrete siano scoperte e sanzionate è primario rispetto all’interesse d’infliggere sanzioni pecuniarie alle imprese che consentono alla Commissione di scoprire e vietare pratiche di questo tipo» (43). Quanto all’ambito di operatività della comunicazione in commento, essa «si applica alle intese orizzontali segrete, anche nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica, con particolare riguardo a quelle consistenti nella fissazio- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 (40) La certezza del diritto per le imprese assume, nel campo antitrust, una valenza particolare, poiché « contribuisce alla promozione dell’innovazione e degli investimenti »; cfr. considerando 38 del regolamento. (41) Da ultimo, v. Comunicazione della Commissione relativa all’immunità dalle ammende o alla riduzione del loro importo nei casi di cartelli tra imprese, in G.U.U.E. C 298, dell’8 dicembre 2006. Sul tema, v. C. GAUER – M. JASPERS, The European Competition Network Achievements and challenger – a case in point: leniency, in Comp. Pol. Newsletter, 1-2006, p. 8 ss.; id., ECN Model Leniency Programme – a first step towards a harmonised leniency policy in the EU, ibidem, 1-2007, p. 35 ss.; R. INCARDONA, The fight against Hardcore Cartels and the New EU Leniency Notice, in The Eur. Legal Forum, 1-2/2007, p. I-39 ss.; M. CLARICH, I programmi di clemenza nel diritto antitrust, in Dir. Amm. 2007, p. 265 ss. (42) In Boll. n. 6, del 26 febbraio 2007. (43) Comunicazione, cit., par. 3. ne dei prezzi d’acquisto o di vendita, nella limitazione della produzione o delle vendite e nella ripartizione dei mercati»; inoltre, come già accennato, essa riguarda tanto i casi di violazione dell’art. 2 legge 287/90 quanto dell’art. 81 CE. Sennonché, già su questo punto può segnalarsi un primo possibile profilo d’incongruità rispetto al diritto comunitario, individuabile nella limitazione dell’istituto ai soli casi di intese orizzontali e non anche a quelle verticali; ed infatti, nonostante la Comunità mostri talvolta un atteggiamento più mite nei confronti di quest’ultime, l’analoga comunicazione europea coinvolge ogni ipotesi di cartello segreto, senza alcuna preclusione di sorta (44). Andando poi ai contenuti della comunicazione dell’Agcm, la prima ipotesi disciplinata consiste nella non imposizione delle sanzioni a quelle imprese che, avendo preso parte alla realizzazione di un cartello segreto lesivo della concorrenza, successivamente contribuiscano in modo determinante al suo accertamento (45). Più in dettaglio, ai fini dell’immunità, occorre che l’impresa fornisca, spontaneamente e per prima, prove che non siano già state acquisite dall’Agcm, che esse siano decisive per l’accertamento dell’illecito ed, infine, che l’impresa stessa ponga fine ai propri comportamenti anticoncorrenziali (46), collaborando per tutta la durata del procedimento istruttorio ed osservando l’obbligo di segretezza. Nel caso in cui tali condizioni sussistano cumulativamente, l’Agcm accoglie inizialmente la richiesta con decisione condizionata e poi, concluso il procedimento, decide definitivamente al riguardo con il provvedimento finale; se, invece, dopo aver assunto la decisione condizionata, l’autorità accerti l’insussistenza delle condizioni o l’inottemperanza da parte dell’impresa, la esclude da ogni beneficio. Come seconda ipotesi, poi, viene considerata la possibilità di una riduzione delle sanzioni per le imprese che collaborino con l’autorità, fornendo evidenze che «rafforzino in misura significativa, in ragione della loro natura o del livello di dettaglio, l’impianto probatorio di cui l’Autorità già disponga, contribuendo in misura apprezzabile alla capacità dell’Autorità di fornire la prova dell’infrazione». In tal caso, qualora l’impresa rispetti anche gli obblighi di collaborazione predetti, può ottenere uno sconto sulla sanzione di regola non superiore al 50%, rispetto all’importo derivante dall’applicazione dei criteri ordinari ex art. 15, co. 1, legge 287/90. In riferimento a tali previsioni, però, è possibile muovere alcuni rilievi: innanzitutto, dal tenore letterale della disposizione in esame sembrerebbero 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (44) Afferma la Commissione che «la presente comunicazione stabilisce le linee generali per ricompensare la cooperazione all’indagine della Commissione fornita da imprese che fanno o hanno fatto parte di cartelli segreti aventi ripercussioni negative sulla Comunità»; Comunicazione, cit., § 1. (45) V. provv. dell’Agcm n. 16835, Produttori di pannelli truciolati in legno, in Boll. n. 20 del 5 giugno 2007, § 255 ss. (46) Secondo la comunicazione nazionale, «l’Autorità, tuttavia, può richiedere o consentire all’impresa di non sospendere taluni comportamenti, qualora ciò sia ritenuto necessario al fine di salvaguardare il buon esito dell’accertamento ispettivo»; par. 7, lett. a). possibili ulteriori sconti di sanzione in casi eccezionali che non vengono specificati; inoltre, la comunicazione fissa unicamente il limite massimo di riduzione (individuato nel 50%), con la possibilità per l’Agcm di esercitare un notevole potere discrezionale entro tale spazio, prendendo in considerazione i soli criteri generici della tempestività della collaborazione fornita dalle imprese e del suo valore probatorio. Ciò non sembra pienamente conforme alla prassi comunitaria, specie se si considera che la comunicazione della Commissione europea del dicembre 2006 stabilisce, al contrario, una scaletta di possibili percentuali di sconti sull’ammenda da applicare in base al differente ordine e al grado di collaborazione prestata dalle imprese “pentite”, nell’intento di fornire un quadro giuridico di maggiore certezza per le imprese (47). Considerando, poi, gli aspetti più critici del programma di clemenza nazionale, essi appaiono i medesimi posti a livello europeo, cioè l’utilizzabilit à delle informazioni spontaneamente rese dalle imprese, in caso di non accoglimento delle domande di trattamento favorevole, e la difficile conciliabilit à di simili programmi con le evoluzioni più recenti del private antitrust enforcement. Per quanto riguarda l’utilizzabilità delle risultanze istruttorie provenienti dalle “confessioni” delle imprese, un primo labile riferimento è nel paragrafo 6 della comunicazione italiana, riguardante i casi di riduzione delle sanzioni, ove si dichiara che qualora il «materiale probatorio consenta all’Autorità di stabilire fatti nuovi e aggiuntivi che abbiano una rilevanza diretta ai fini del computo della sanzione, anche come circostanze aggravanti, tali fatti non saranno addebitati ai fini della determinazione della sanzione da applicarsi all’impresa che ha fornito questo materiale» (48). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 (47) Precisa la Commissione: «Nella decisione finale che adotta alla conclusione del procedimento amministrativo, la Commissione determina l’entità della riduzione dell’importo dell’ammenda di cui beneficerà l’impresa, rispetto a quello che altrimenti le sarebbe imposto. Rispettivamente per - la prima impresa che fornisca elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo: riduzione del 30-50%, - le seconda impresa che fornisca elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo: riduzione del 20-30%, - le altre imprese che forniscano elementi probatori aventi un valore aggiunto significativo: riduzione fino al massimo del 20%»; cfr. Comunicazione, cit., par. 26. (48) Ciò in analogia con la comunicazione comunitaria, secondo la quale «se l’impresa che chiede una riduzione dell’ammenda è la prima a presentare elementi probatori concludenti (…) che serviranno alla Commissione per accertare altri fatti tali da accrescere la gravità o la durata dell’infrazione, la Commissione non terrà conto di questi elementi nel determinare l’importo di eventuali ammende da infliggere all’impresa che li ha forniti »; par. 26. V. anche la Comunicazione della Commissione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza, in G.U.U.E. C 101, del 27 aprile 2004, p. 43 ss. Secondo quanto stabilito dalla Commissione, infatti, «le informazioni trasmesse alla rete ai sensi dell’articolo 11 non potranno essere utilizzate dagli altri membri della rete per avviare un’indagine per loro conto ai sensi delle regole di concorrenza comunitarie o, nel caso I paragrafi 11 e 14, invece, consentono all’impresa di ritirare gli elementi di prova trasmessi all’Agcm, nel caso di non ammissione ai benefici (49); si tratta, però, ancora una volta di previsioni non del tutto chiare, poiché la facoltà di ritiro di dette prove da parte delle imprese non implica necessariamente l’impossibilità di utilizzare contro di esse informazioni di cui, comunque, l’Agcm è venuta a conoscenza e che, quantomeno, possono indirizzare le indagini successive, agevolandole e riducendo l’onere probatorio spettante all’autorità procedente (50). Nel silenzio della legge, il tema in questione può trovare una propria soluzione nel diritto comunitario; è convinzione quasi unanime, infatti, che tali casi andrebbero risolti con riferimento al divieto di autoincriminazione (51), identificabile alla stregua di un principio comunitario generalmente applicabile e, quindi, valido anche nel diritto della concorrenza. Tale regola sembra peraltro essere richiamata dal ventitreesimo considerando del regolamento, relativo al potere della Commissione di richiedere informazioni alle imprese, il quale, però, dopo aver stabilito che «nel conformarsi a una decisione della Commissione le imprese non possono essere costrette ad ammettere di aver commesso un’infrazione», dichiara successivamente che esse «sono in ogni caso tenute a rispondere a quesiti concreti e a fornire documenti, anche se tali informazioni possono essere utilizzate per accertare contro di esse o contro un’altra impresa l’esistenza di un’infrazione». Maggiori indicazioni potrebbero, invece, trarsi dal richiamo ai diritti fondamentali (anche questo ricognitivo) effettuato dal regolamento (52), tra i quali va incluso, stando alla giurisprudenza di Strasburgo relativa all’art. 6 CEDU, il diritto a non autoincriminarsi (53). La conseguenza di 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO delle autorità nazionali garanti della concorrenza, ai sensi del diritto nazionale in materia di concorrenza e di altre disposizioni nazionali»; inoltre, «le informazioni fornite volontariamente dal soggetto che ha richiesto di beneficiare del trattamento favorevole possono essere trasmesse ad un altro membro della rete conformemente all’articolo 12 del Regolamento del Consiglio solo con il consenso del soggetto che ha richiesto il trattamento favorevole». Cfr. § 39-40. (49) Lo stesso è previsto dalla Commissione nel caso di mancata concessione dell’immunit à; cfr. § 20. (50) La comunicazione della Commissione, infatti, dopo aver precisato che le imprese possono ritirare gli elementi di prova secondo quanto suddetto, dichiara poi che «ciò non impedisce alla Commissione di avvalersi dei suoi normali poteri d’indagine per ottenere le informazioni»; § 20. (51) Si vedano le osservazioni presentate all’Agcm in sede di adozione della Comunicazione, reperibili sul sito www.agcm.it (52) V. considerando 37, secondo cui « il presente regolamento ottempera ai diritti fondamentali e osserva i principi sanciti in particolare nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Esso pertanto dovrebbe essere interpretato e applicato in relazione a detti diritti e principi ». In tema, v. U. DRAETTA, Diritto dell’Unione europea e principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano: un contrasto non più solo teorico, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 13 ss. (53) V. esemplificativamente Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito, ric. n. 6563/03. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 una tale interpretazione sarebbe l’inutilizzabilità delle prove acquisite contro le stesse imprese che le abbiano fornite alle autorità operanti all’interno dell’ECN. Ciò detto, simili interpretazioni a vantaggio delle imprese che commettono illeciti antitrust vanno, comunque, contemperate con le esigenze di tutela di interessi altrettanto degni di protezione e, quindi, attentamente valutate. In primo luogo, secondo la Corte di giustizia, il divieto di autoincriminazione riguarda i casi in cui le imprese siano obbligate a rispondere alle richieste delle autorità di concorrenza a pena di ammenda; pertanto, la spontaneit à delle dichiarazioni rese dalle imprese che partecipano ai programmi di clemenza giocherebbe un ruolo decisivo, consentendo alle autorità di controllo di utilizzare le prove così ottenute (54). In secondo luogo, occorre anche valutare la possibilità di abuso dell’istituto del programma di clemenza da parte delle imprese che elusivamente potrebbero fornire all’Agcm elementi a loro carico, privi di quel quid pluris probatorio richiesto per i benefici in questione, al solo fine di “bruciarli”, impedendone l’utilizzabilità. Sotto tale profilo, quindi, l’onere per le imprese di valutare preventivamente il significato probatorio del loro “pentimento ” e l’obbligo di leale collaborazione con le autorità di controllo durante il procedimento per il trattamento favorevole potrebbero essere giustificati dall ’intento di responsabilizzazione delle imprese, che permea l’intero sistema predisposto dal regolamento comunitario e che trova il suo massimo esempio nel dovere delle imprese di valutare ex se la liceità o meno delle proprie condotte sul mercato (sistema di eccezione legale). Inoltre, la possibilità che le autorità utilizzino le prove fornite dalle imprese contro di esse, nel caso non sussistano i presupposti per l’ottenimento dei benefici previsti dai programmi di clemenza, non impedisce, anzi impone, che esse tengano comunque conto della collaborazione fornita dalle imprese in sede di calcolo dell’ammenda sotto forma di circostanza attenuante. Secondo gli Orientamenti per il calcolo delle ammende, l’importo di base può essere ridotto «quando l’impresa collabora efficacemente con la Commissione al di fuori del campo di applicazione della comunicazione sul trattamento favorevole e oltre quanto richiesto dagli obblighi di collaborazione previsti dalla legge» (55). Ciò, peraltro, è quanto accaduto in un recente caso relativo ad un presunto cartello operante tra i principali trasformatori italiani di tabacco greggio (56). Nel provvedimento finale attualmente sub iudice, la Commissione ha (54) Cfr. sentenza del 25 gennaio 2007, causa C-407/04, Dalmine S.p.A., § 35. (55) Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003, in G.U.U.E. C 210, del 1 settembre 2006, p. 2 ss., § 29. (56) V. la decisione della Commissione del 20 ottobre 2004, caso COMP/C.38.281/B.2 – Tabacco greggio – Italia, con particolare riferimento ai § 385 ss. La decisione è stata impugnata dinanzi al Tribunale di primo grado (causa T-29/05). 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sanzionato la principale impresa, cui era stata inizialmente concessa l’immunit à condizionata, per aver svelato alle altre di aver preso parte ad un programma comunitario di trattamento favorevole, facendola decadere dal beneficio; tuttavia, la Commissione ha ridotto poi del 50% l’importo base dell’ammenda, tenuto conto, come circostanza attenuante, della collaborazione comunque prestata dall’impresa alle indagini. Ad ogni modo, i principali problemi per il corretto ed effettivo funzionamento dei programmi di clemenza provengono dal progressivo potenziamento del cd. private antitrust enforcement, cioè dalle azioni private che i terzi intraprendono a tutela dei propri interessi, eventualmente violati dalle condotte anticoncorrenziali delle imprese. Senza poter qui anticipare le considerazioni successive, si segnala sin d’ora la crescente attenzione delle corti nazionali ed europee sul tema (57), anche per la maggiore efficacia deterrente delle azioni private, tanto più che la giurisprudenza comunitaria ha anche ammesso la legittimità del danno punitivo (58). Così, allo stato attuale, il principale rischio economico, per le imprese che violano le norme di concorrenza, non è tanto costituito dall’imposizione delle sanzioni pecuniarie amministrative, calcolate entro stringenti limiti percentuali, quanto dalle eventuali richieste risarcitorie dei terzi interessati. Di conseguenza, il potenziamento del private enforcement può nel tempo rivelarsi dannoso per i programmi di clemenza, disincentivando alla collaborazione le imprese, che così evitano il rischio di auto-produrre evidenze che possono essere utilizzate contro di loro in sede civilistica, attraverso il provvedimento finale dell’Agcm. Infatti, in nessun caso la collaborazione delle imprese all’istruttoria amministrativa antitrust può limitare le azioni attivate dai terzi danneggiati (consumatori inclusi), cosicché, secondo quanto precisato apertis verbis dalla Commissione, «la concessione dell’immunità da un’ammenda o della riduzione del suo importo non sottrae l’impresa alle conseguenze sul piano del diritto civile derivanti dalla sua partecipazione ad un’infrazione dell’articolo 81 del trattato CE» (59). Nonostante, poi, la comunicazione dell’Agcm non contenga alcun riferimento a tale aspetto, non sembra in alcun modo dubitabile, sulla base del principio del neminem laedere, che anche il “pentimento” davanti all’autorità italiana lasci intatta la possibilità per i terzi danneggiati di agire – sotto ogni forma ed in modo pieno – a tutela dei propri interessi violati dalle imprese colpevoli di aver commesso un illecito antitrust. (57) V. sentenze Cass. S.U., 20 gennaio - 4 febbraio 2005, n. 2207, cit., e Corte di giustizia, 13 luglio 2006, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, in Racc., p. I- 6619. (58) Sentenza Manfredi, cit. (59) Cfr. Comunicazione della Commissione, cit. par. 39. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 Tanto considerato, la difficile conciliabilità tra private antitrust enforcement e leniency programmes (60) giustifica il vigore del dibattito in corso. Nel Libro Verde sulle Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, la Commissione propone in proposito tre opzioni: «Esclusione di qualsiasi diffusione della domanda di trattamento favorevole per proteggere la riservatezza delle comunicazioni trasmesse all’autorit à garante della concorrenza nel quadro della domanda stessa». «Concessione di una riduzione condizionata su tutte le domande di risarcimento del danno per l’impresa che ha chiesto di beneficiare del trattamento favorevole, mentre le domande di risarcimento nei confronti di altri autori dell’infrazione – responsabili in solido dell’intero danno – restano immutate». «Soppressione della responsabilità solidale per l’impresa che ha chiesto di beneficiare del trattamento favorevole, limitando così la sua esposizione alle domande di risarcimento del danno. Una possibile soluzione consisterebbe nel limitare la responsabilità di tale impresa all’ammontare del danno corrispondente alla sua parte nel mercato soggetto a cartello» (61). Secondo il mio punto di vista, invece, ferma restando l’impossibilità che la concessione di un trattamento favorevole alle imprese “pentite” possa avere riflessi sulla determinazione del risarcimento del danno riparatorio, sembra ragionevole escludere la possibilità per i giudici nazionali di infliggere danni punitivi a quelle imprese che abbiano aiutato le autorità a svelare i cartelli segreti. Ciò perché sarebbe assolutamente illegittimo, anche dal punto di vista comunitario, rendere disponibile alle autorità antitrust il fondamentale diritto dei terzi al risarcimento dei danni subiti. Ci si stupisce, quindi, di come tale eventualità sia anche solo stata presa in considerazione dal Libro Verde. 6. La responsabilità dell’Agcm per violazione del diritto comunitario della concorrenza Un altro profilo di particolare interesse riguarda la possibilità di configurare un’eventuale responsabilità dell’Agcm per violazione del diritto comunitario della concorrenza, anche sulla scorta di quanto recentemente (60) La stessa Commissione, nella comunicazione sui programmi di trattamento favorevole, cit., osserva che «i potenziali interessati a chiedere l’applicazione della clemenza potrebbero essere dissuasi dal cooperare con la Commissione ai sensi della presente comunicazione se ne possa risultare indebolita la loro posizione, rispetto alle imprese che non cooperano, nell’ambito di procedimenti giudiziari in sede civile. Un tale inauspicabile effetto danneggerebbe gravemente il pubblico interesse ad assicurare l’effettiva applicazione dell ’articolo 81 CE da parte dell’autorità pubblica nei casi di cartelli e, quindi, la sua effettiva applicazione, conseguente o parallela, in sede privata»; § 6. (61) Libro Verde, cit., § 2.7. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO stabilito dai giudici comunitari per la Commissione europea (62); in riferimento a tale aspetto, tuttavia, è possibile in questa sede solo porre degli interrogativi, in ragione della penuria di precedenti sui quali fondare un sicuro e più completo giudizio. Ci si domanda, ad esempio, se sia possibile per i singoli, che presumono di aver subito un danno da un provvedimento dell’autorità nazionale antitrust, successivamente dichiarato illegittimo, agire in risarcimento nei suoi confronti; come anche se essi possano, dopo aver subito un pregiudizio da un comportamento anticoncorrenziale delle imprese, chiedere i danni non solo a quest’ultime, ma anche alla stessa Agcm, nel caso in cui la realizzazione dell’illecito antitrust e la produzione dei suoi effetti negativi siano stati co-determinati dall’inerzia colpevole dell’autorità di controllo o dalla falsa applicazione delle regole di concorrenza comunitarie. In quest’ultima ipotesi, appare chiaro che il modello cui si pensa è la responsabilità aquiliana delle autorità indipendenti per omessa vigilanza, secondo lo schema già sperimentato per la Consob, nei cui confronti – s’è chiarito – i risparmiatori vantano un diritto soggettivo all’integrità del proprio patrimonio economico, risarcibile dinanzi al giudice ordinario nei casi di colpevoli condotte omissive (63). Un tale schema potrebbe ben ritenersi applicabile anche all’Agcm, tanto più sulla base delle norme comunitarie di concorrenza che essa è chiamata ad applicare direttamente e di cui è tenuta a garantire il necessario effetto utile, tutelando nel contempo (ed in via parimenti principale) tanto l’interesse pubblico al mantenimento di un regime di (62) V. Tribunale di Primo Grado, sentenza dell’11 luglio 2007, causa T-351/03, Schneider Electric SA c. Commissione delle Comunita europee. Il Tribunale ha, infatti, applicato per la prima volta (ed in ciò consiste la maggiore novità del decisum!) le ordinarie regole sulla responsabilità extracontrattuale della Comunità anche alle ipotesi di violazione delle norme europee antitrust. In tali casi, posto che gli elementi costitutivi della responsabilità non differiscono da quelli già da tempo stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria sulla base dell’art. 288 CE, secondo comma, (in argomento v. R. BARATTA, Commento all’art. 288 TCE, in Trattati dell’Unione Europea e della Comunità Europea, a cura di A. TIZZANO, Giuffrè Editore, Milano, 2004, p. 1290 ss.), i maggiori problemi sorgono nell’ipotesi di esercizio di poteri caratterizzati da un forte tasso di discrezionalità amministrativa e tecnica, in riferimento ai quali l’ambito del sindacato giurisdizionale incontra notevoli limiti. Pertanto, i giudici lussemburghesi hanno precisato, con riferimento ad un caso di controllo sulle concentrazioni, che: «Ne peut donc être tenu pour constitutif d’une violation suffisamment caractérisée du droit communautaire, aux fins de l’engagement de la responsabilit é non contractuelle de la Communauté, le manquement à une obligation légale, qui, pour regrettable qu’il soit, peut être expliqué par les contraintes objectives qui pèsent sur l’institution et sur ses agents par l’effet des dispositions régissant le contrôle des concentrations. Est en revanche ouvert le droit à la réparation des dommages qui résultent du comportement de l’institution lorsque celui-ci se traduit par un acte manifestement contraire à la règle de droit et gravement préjudiciable aux intérêts de tiers à l’institution et ne saurait trouver ni justification ni explication dans les contraintes particulières qui s’imposent objectivement au service dans un fonctionnement normal» ; cfr. § 123-124. V. in proposito D. BAILEY, Damages actions under the EC merger regulation, in Comm. market Law Rev., 2007, p. 101 ss. (63) Si veda l’ordinanza delle Sezioni Unite del 27 luglio 2005, n. 15916. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 concorrenza non falsata nel mercato quanto gli interessi privati coinvolti dalle dinamiche concorrenziali. Così, se in un determinato caso dovesse risultare accertato che il danno ai terzi, arrecato da un illecito antitrust delle imprese, sarebbe stato evitabile sulla base di una diligente applicazione del diritto comunitario della concorrenza da parte dell’autorità nazionale, non si vedono motivi ostativi ad una estensione anche all’Agcm della giurisprudenza citata in tema di omessa vigilanza. Peraltro, i casi suddetti non rappresentano nient’altro che una species del più ampio genus della responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario, di cui dovrebbero unicamente ricorrere i presupposti (interesse giuridico di fonte comunitaria, violazione grave e manifesta, danno e nesso di causalità) (64). Pertanto, e tenuto conto anche del recente esempio comunitario, non ci si può dispensare dal sollevare forti dubbi di legittimità comunitaria in relazione al nuovo comma 6-bis dell’art. 24 della legge 262/2005, in base al quale «nell’esercizio delle proprie funzioni le Autorità di cui al comma 1 e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, i componenti dei loro organi nonché i loro dipendenti rispondono dei danni cagionati da atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave» (65). La questione è nel considerare se la limitazione di responsabilità alle sole ipotesi di dolo o colpa grave, con esclusione della colpa semplice, sia o meno compatibile con le regole comunitarie in tema di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario. Tanto più che – si badi – la norma non riguarda i soli atti o comportamenti posti in essere dai componenti e/o dipendenti, al fine di stabilire un’eventuale azione di rivalsa della p.a. nei loro confronti, ma anche dalla stessa Autorità, cioè dallo Stato. Il riferimento comunitario, a tal punto, non può che essere alla sentenza della Corte di giustizia Traghetti del Mediterraneo, con la quale s’è dichiarato che «il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente» (66). (64) V. F. FERRARO, Questioni aperte sul tema della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, in. Dir. Un. Eur., 2007, p. 55 ss. (65) Introdotto dall’art. 4, paragrafo 3, lett. d), del decreto legislativo 29 dicembre 2006, n. 303, cit. (66) Sentenza del 13 giugno 2006, causa C-173/03, in Racc., 2006, I-5177. V. i commenti di M. RUFFERT, in Comm. Mark Law Rev., 2007, p. 479 ss., di E. SCODITTI, Violazione del diritto comunitario derivante da un provvedimento giurisdizionale: illecito dello Stato e non del giudice, c. 418 ss., di A. PALMIERI, Corti di ultima istanza, diritto comunitario e responsabilità dello Stato: luci ed ombre di una tendenza irreversibile, c. 420 ss., nonché di P. PIVA, La tradizionale irresponsabilità del giudice davanti al diritto comunitario. Note a margine della “Köblerizzazione” del diritto comunitario e del diritto degli Stati membri, in Il diritto della Regione, 2004, p. 809 ss. Peraltro, la Corte di Giustizia ha anche precisato 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Sebbene il predetto caso riguardi la limitazione di responsabilità prevista dall’ordinamento italiano per i giudici nazionali, ci sembra – in prospettiva futura – che la massima citata possa essere estesa anche alle ipotesi di violazione del diritto comunitario da parte delle autorità indipendenti (Agcm compresa), perché, pur tralasciando la questione del ruolo giusdicente o paragiurisdizionale delle authorities, nessuna discriminazione può essere fatta tra applicazione delle norme europee da parte dei giudici o delle amministrazioni, essendo tutti chiamati alla leale collaborazione ex art. 10 CE e, nello specifico, a garantire l’effetto utile degli art. 81 CE ss. (67) 7. La legittimazione ad impugnare i provvedimenti dell’Agcm: le recenti pronunce interne La questione della legittimazione ad agire contro i provvedimenti dell’Agcm è sempre stata uno dei temi sensibili dell’applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza in Italia; non occorre dire, infatti, come tale aspetto incida fortemente sull’effetto utile dei divieti posti dagli artt. 81 e 82 CE, attraverso il controllo di legalità dell’azione dell’autorità nazionale. Proprio per tale motivo avevo in passato formulato un giudizio negativo sulla compatibilità con il diritto comunitario delle restrizioni che la giurisprudenza amministrativa interna poneva alla possibilità di agire contro i provvedimenti dell’Agcm, sostanzialmente riducendo l’ambito dei legittimati alle sole imprese destinatarie del provvedimento finale; tanto più che, al contrario, i giudici lussemburghesi hanno da sempre fornito, in materia di concorrenza, un’interpretazione dell’art. 230, quarto comma, CE più ampia di quella utilizzata per gli atti adottati nell’ambito delle altre politiche comunitarie (68) e che in parte attenua il rigore della formula Plaumann (69). che «il diritto comunitario pretende quindi un risarcimento effettivo e non ammette alcuna condizione aggiuntiva proveniente dal diritto dello Stato membro che possa rendere eccessivamente difficile ottenere il risarcimento danni o altre modalità risarcitorie»; cfr. sentenza del 17 aprile 2007, causa C-470/03, A.G.M.-COS.MET Srl, non ancora pubblicata in Raccolta, § 90. (67) Per quanto riguarda la responsabilità dei singoli funzionari, la Corte ha dichiarato (sibillinamente) che «in caso di violazione del diritto comunitario, questo non osta all’accertamento della responsabilità in capo a un funzionario, in aggiunta a quella dello Stato membro, ma neanche l’impone»; sentenza A.G.M.-COS.MET Srl, cit., § 99. (68) Non solo, infatti, la giurisprudenza comunitaria ha ammesso la legittimazione ad impugnare i provvedimenti della Commissione di chiunque, persona fisica o giuridica, abbia presentato una denuncia, ma anche di chi, pur avendovi un interesse, non abbia preso parte al procedimento. Secondo quanto ha dichiarato il Tribunale, «subordinare la legittimazione attiva dei terzi qualificati che fruiscono di diritti procedurali nel corso del procedimento amministrativo alla loro effettiva partecipazione a tale procedimento porterebbe a introdurre un requisito di ricevibilità supplementare, sotto forma di un procedimento precontenzioso obbligatorio non previsto dall’art. 173 del Trattato» (ora 230); cfr. Tribunale di Primo Grado, sentenza 11 luglio 1996, Metropole Television SA, T-528/93, in Racc. p. II-3805. La IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 Tuttavia, le più recenti pronunce dei giudici amministrativi riconducono, anche sotto tale profilo, l’ordinamento italiano ad una maggiore conformità con lo standard di tutela richiesto dal diritto comunitario. Innanzitutto, non sussistono più dubbi circa la legittimazione ad agire delle imprese concorrenti; infatti, il Consiglio di Stato (di seguito: CdS) ha dichiarato che «le imprese concorrenti (nel medesimo settore economico) non si trovano sullo stesso piano degli altri appartenenti alla collettività, dato che non sono portatrici di un interesse indifferenziato alla concorrenza nel mercato. Esse vantano invece un interesse personale e individuale al rispetto della normativa antitrust, in quanto dalle determinazioni dell’Autorità, dirette ad altri, possono derivare uno svantaggio (in presenza di deliberazioni di natura autorizzatoria, come nella specie) – o un vantaggio (come nel caso di provvedimenti inibitori e sanzionatori) – chiaramente riferibile alla loro sfera individuale» (70) . Tale giurisprudenza è stata di seguito confermata anche con riferimento alle ipotesi di concentrazioni tra imprese, in riferimento alle quali il CdS ha precisato che «l’azione proposta dall’impresa concorrente non mira a stiggiurisprudenza più recente appare tuttavia imporre cumulativamente il requisito della partecipazione al procedimento e dell’incidenza del provvedimento della Commissione (nella specie, la clearance di una operazione di concentrazione) sulla posizione di mercato dell ’impresa ricorrente. Cfr. ad es. la sentenza del 4 luglio 2006, easyJet c. Commissione, causa T-177/04 (in Racc., 2006, p. II-1931), ove si legge al § 35 che: «Nel caso di una decisione che constati la compatibilità dell’operazione di concentrazione con il mercato comune e qualora si tratti di un’impresa terza, si deve determinare se questa sia individualmente interessata in funzione, da un lato, della sua partecipazione al procedimento amministrativo e, dall’altro, dell’incidenza sulla sua posizione sul mercato. Se è vero che la semplice partecipazione al procedimento non è, di per sé, certamente sufficiente a dimostrare che la ricorrente sia individualmente interessata dalla decisione, specie nell’ambito delle concentrazioni, il cui dettagliato esame richiede contatti regolari con numerose imprese, la partecipazione attiva al procedimento amministrativo costituisce tuttavia un elemento regolarmente preso in considerazione dalla giurisprudenza in materia di concorrenza, anche nel settore più specifico del controllo delle concentrazioni, per accertare, unitamente ad altre circostanze specifiche, la ricevibilità di un ricorso». Cfr, anche le sentenze della Corte 28 gennaio 1986, causa 169/84, Cofaz e a. c. Commissione, in Racc., p. 391, punti 24 e 25, e 31 marzo 1998, cause riunite C-68/94 e C-30/95, Francia e a. c. Commissione («Kali & Salz»), ivi, p. I-1375, punti 54-56; la sentenza del Tribunale 3 aprile 2003, causa T-114/02, BaByliss c. Commissione, ivi, 2003, p. II-1279, § 95. Sul punto, ci sia consentito ancora una volta rinviare alle nostre precedenti Osservazioni, in particolare p. 81 ss., e la bibliografia ivi richiamata, cui adde P. TROIANIELLO, Le situazioni giuridiche di chi denuncia violazioni antitrust tra diritto comunitario e nuovo procedimento amministrativo interno, in Dir. com. sc. int., 2006, p. 7 ss.; L. DANIELE, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2007, p. 247 ss. (69) Corte di giustizia, sentenza del 15 luglio 1963, causa 25/62, Plaumann, in Racc. p. 199. A questo riguardo, si veda anche la puntuale ricostruzione della giurisprudenza comunitaria operata dal CdS nella sentenza 14 maggio 2004, n. 3865, Motorola c. Agcm. (70) Sentenza n. 3865/04, cit., par. 4.2. Il caso era relativo all’impugnazione di un provvedimento con il quale l’Agcm autorizzava in deroga un’intesa ex art. 4, primo comma, l. 287/90. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO matizzare la concentrazione ex se intesa ma a censurare l’intermediazione pubblicistica data dall’esercizio del potere conformativo di carattere discrezionale teso ad enucleare le misure reputate efficaci onde rimuovere le ragioni del divieto» (71). Al contrario, non sembra essere stata definitivamente risolta la questione delle legittimazione dei consumatori finali e delle loro associazioni rappresentative ad impugnare i provvedimenti dell’Agcm, già da tempo ammessa dalla giurisprudenza comunitaria (72). Infatti, sebbene la giurisprudenza del CdS sembra orientarsi in modo progressivo verso una soluzione positiva del problema, pur sempre analizzato attraverso i criteri imprescindibili della differenziazione e della qualificazione dell’interesse violato, le sentenze dei giudici di prime cure sembrano invece muoversi nella direzione opposta. Ad ogni modo, un primo punto fermo è rappresentato dalla legittimazione delle associazioni dei consumatori ad impugnare i provvedimenti con cui l’Agcm considera non ingannevoli determinati messaggi pubblicitari; con la sentenza n. 280/2005, il CdS ha dichiarato, in materia di pubblicità ingannevole, che «dalla lettura combinata delle disposizioni interne e di quelle comunitarie emerge chiaramente come il ruolo delle associazioni dei consumatori non possa essere limitato alla presentazione di una richiesta all’autorit à amministrativa, ma si estenda anche alla possibilità di contestare in giudizio il mancato intervento dell’autorità» (73). Tale pronuncia, peraltro, sembra contenere più di un elemento a favore dell’estensione di tale regola anche ai provvedimenti antitrust dell’Agcm, a cominciare dai frequenti parallelismi operati tra la disciplina nazionale e comunitaria di concorrenza strictu sensu e quella in materia di pubblicità commerciale (74); in questo senso, una volta accertata l’esistenza di diritti degli utenti finali attribuiti dagli artt. 81 e 82 CE in forza della loro efficacia diretta, le considerazioni in merito (71) Sentenza del 18 gennaio 2005, n. 1113, Fondiaria Industriale Romagnola S.P.A. c. Agcm. Secondo il CdS, quindi, è « ammissibile in linea astratta il ricorso avanti il giudice amministrativo da parte di imprese terze portatrici di una situazione differenziata nel mercato di riferimento che contestino l’efficacia delle misure e, quindi, mirino a stigmatizzare il cattivo uso a loro danno di un potere conformativo speso in modo non idoneo a rimuovere efficacemente la connotazione anticompetitiva dell’operazione ». Cfr. § 4.7.2 della sentenza. (72) V. Sentenza del Tribunale di Primo Grado, del 18 maggio 1994, causa T-37/92, Bureau europeen des unions de consommateurs in Racc. 1994, p. II-00285, con la quale era stata ammessa l’impugnazione di una decisione della Commissione da parte di una associazione dei consumatori, sul presupposto che « nell’interesse e di una sana amministrazione della giustizia e di una corretta applicazione degli artt. 85 e 86 del Trattato, è opportuno che le persone fisiche o giuridiche che hanno facoltà di presentare una domanda…siano legittimate, se la loro domanda viene respinta, in tutto o in parte, ad esperire un’azione a tutela dei loro legittimi interessi »; cfr. § 36. (73) CdS, sez. VI, decisione 3 febbraio 2005, n. 280, Codacons c. Agcm; in Foro it., 2005, III, c. 403 ss., con nota di A. PALMIERI. (74) Cfr. § 1.5. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 alla legittimazione processuale delle associazioni dei consumatori, esposte dalla sentenza n. 280/2005, potrebbero essere estese anche ai provvedimenti antitrust. Sennonché, con la successiva sentenza n. 1371/2006 (75), il Tar del Lazio, sul presupposto che «non sia possibile una trasposizione secca delle coordinate relative ai giudizi in materia di pubblicità ingannevole, nell’ambito delle controversie concernenti i provvedimenti assolutori in materia antitrust», ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da un’associazione dei consumatori contro un provvedimento dell’Agcm, in considerazione della «natura indiretta» del danno cagionato dall’illecito anticoncorrenziale ai consumatori finali (76). Secondo lo stesso giudice, poi, nemmeno si può giungere ad una differente soluzione sulla base dell’ampia legittimazione attribuita alle associazioni dei consumatori dall’art. 139 del Codice del consumo (77). Sempre in tema di legittimazione delle associazioni dei consumatori, però, uno “spiraglio” può essere individuato nella recente sentenza n. 2307/07, avente ad oggetto un ricorso contro un provvedimento dell’Agcm con il quale veniva autorizzata un’operazione di concentrazione; nel caso di specie, il Tar del Lazio, pur respingendo il ricorso per difetto di legittimazione ad agire, sembra attribuire un ruolo determinante all’iscrizione all’elenco istituito presso il Ministero delle attività produttive, disciplinato ora dall’art. 137 del Codice del consumo. In relazione ad esso, il Tar dichiara che «siffatta legittimazione ex lege rappresenta infatti l’approdo del tentativo di individuare una “soddisfacente tecnica di protezione degli interessi diffusi in un contesto processuale tuttora retto dal principio personalistico”» (78). (75) Sentenza del 23 novembre 2005. (76) Afferma il Tribunale: «le associazioni dei consumatori, pur vantando facoltà partecipative previste a vario titolo dall’ordinamento, non sono tuttavia intestatarie di posizioni giuridiche soggettive che abilitino all’impugnativa dei provvedimenti assolutori dell’Autorità. Qui si esula del tutto dalla tematica della tutela del terzo, posto che i consumatori e le relative associazioni non si trovano in diretto collegamento con le scelte del regolatore, anche quando queste si inverino attraverso l’esercizio di prerogative che, sebbene connotate in termini di reazione a pretesi illeciti, sono sicuramente idonee a determinare un peculiare (pur se a loro dire criticabile) assetto del mercato di riferimento. Ne segue che i consumatori e le relative associazioni non possono dolersi del mancato esercizio delle prerogative istituzionali dell’Autorità antitrust, stante la natura indiretta della lesione derivante dall’illecito anticoncorrenziale»; par. 2.4.1. (77) Secondo la sentenza n. 1371/2006, tale legittimazione «non è così vasta da ricomprendere qualsiasi attività di tipo pubblicistico che si rifletta economicamente sui cittadini, dovendo al contrario esser commisurata solo a quegli atti che siano idonei ad interferire con specificità ed immediatezza sulla posizione dei consumatori e degli utenti. Ed è agevole rilevare come nel catalogo di cui all’art. 2, 2° comma, Cod. cons. non sia incluso (né sia rinvenibile) un diritto ad ottenere il rispetto della normativa antitrust da parte delle imprese attive sul mercato »; § 2.4.3. (78) Sentenza del 9 febbraio 2007, n. 2307. Nel caso in questione, l’Associazione per la tutela degli interessi e dei diritti degli utenti di servizi pubblici e privati, non iscritta all’elenco istituito presso il Ministero dello Sviluppo, aveva impugnato il provvedimento col Alla luce di un tale quadro delle più recenti pronunce dei giudici amministrativi può concludersi nel senso di un progressivo allineamento della giurisprudenza interna allo standard di tutela richiesto dal diritto comunitario per i diritti da esso conferiti. Il punto più opinabile della giurisprudenza fin qui ricostruita, ovvero l’esclusione delle associazioni dei consumatori dall ’ambito dei legittimati ad agire contro i provvedimenti antitrust, può essere infatti considerato una momentanea défaillance del sistema interno. D’altra parte, come detto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno già chiarito l’esistenza di interessi (anche individuali) dei consumatori finali alla libera concorrenza; ed anche il CdS non ha potuto non rilevare come «nel senso dell’estensione della legittimazione a far valere la violazione delle norme antitrust in capo a tutti i soggetti portatori di interessi giuridicamente rilevanti aventi natura differenziata e qualificata…depone il recente decisum delle sezioni unite della Corte di Cassazione 4 febbraio 2005, n. 2207» (79). Sulla base di tali premesse, quindi, ci si attende una prossima estensione della legittimazione ad impugnare i provvedimenti nazionali antitrust. 8. L’“ascesa” del private antitrust enforcement Come anticipato, per private antitrust enforcement s’intende «l’applicazione della normativa antitrust in occasione delle controversie civili davanti ai tribunali nazionali» (80). Il suo ambito, quindi, dipende dal numero di rimedi civilistici attivabili dai terzi che dichiarino di subire un pregiudizio dalla violazione delle regole comunitarie di concorrenza. Stando alla lettera delle disposizioni in materia, esso non sarebbe così ampio, considerato che, com’è noto, l’unico rimedio in tal senso previsto dal Trattato è la nullità delle intese ex art. 81, par. 2, CE; dal canto suo, invece, 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO quale l’Agcm autorizzava l’acquisizione, da parte della Cirio S.P.A., della Centrale del Latte di Roma S.P.A., a seguito della sua privatizzazione deliberata dal Comune di Roma. (79) C.d.S., sentenza n. 1113/05, cit., § 4.5. (80) Questa definizione è fornita dalla Commissione nel Libro Verde, cit., § 1.1 Sul tema, v., ex multis, W. VAN GERVEN, Substantive remedies for the private enforcement of EC Antitrust rules before national courts, in Modernisation of European Competition Law, edited by J. Stuyck – H. Gilliams, Intersentia, Oxford, 2002, p. 93 ss.; G. TESAURO, Private Enforcement of EC Antitrust Rules in Italy: The procedural Issues, in C. D. Ehlermann and I. Atanasiu (edited by), European Competition Law Annual: 2001 – Effective private Enforcement of EC Antitrust Law, Hart Publishing, Oxford – Portland Oregon, 2003, p. 276 ss.; K. HOLMES, Public Enforcement or Private Enforcement? Enforcement of Competition Law in the EC and UK, in Eur. comp. law rev., 2004, p. 25 ss.; C. A. JONES, Private Antitrust Enforcement in Europe: A Policy Analysis and Reality Check, in World Comp., 2004, p. 13 ss.; W. P. J. WILS, Principles of European Antitrust Enforcement, Hart Publishing, Oxford – Portland Oregon, 2005, p. 122 ss.; C. HODGES, Competition Enforcement, Regulation and Civil Justice: What is the Case?, in Comm. Market Law Rev., 2006, p. 1381 ss.; N. REICH, Horizontal liability in EC law: hybridization of remedies for compensation in case of breaches of EC rights, in Comm. Mark. Law Rev., 2007, p. 705 ss. la legge 287/90 cita, al secondo comma dell’art. 33, le sole azioni di nullità e di risarcimento del danno. Sul piano comunitario, tuttavia, una prima estensione dell’ambito di operatività del private antitrust enforcement può provenire dall’interpretazione estensiva della nullità su ricordata, intendendo quest’ultima non già stricto sensu, ma come un più generale divieto, imposto dal Trattato, di produzione di qualsivoglia effetto giuridicamente valido da parte dei cartelli illeciti. In tale prospettiva, ciò che conta per l’ordinamento comunitario è l’impossibilità che un cartello illecito produca effetti vincolanti per le parti e per i terzi, di modo che non rilevi tanto il rimedio con cui ciò si fa valere, quanto l’effetto utile del divieto in questione. Una tale interpretazione trova nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale Ruiz-Jarabo Colomer, presentate nella causa Bagnasco, una significativa manifestazione, avendo quest’ultimo precisato, con riguardo al tema connesso della sorte dei contratti cd. “a valle” (cioè dei contratti conclusi con gli utenti finali, che rappresentano un’esecuzione più o meno diretta del comportamento anticompetitivo tenuto dalle imprese “a monte”), che «il giudice nazionale non è obbligato a desumere automaticamente dalla nullità degli elementi della decisione di associazione di imprese, considerati nulli ai sensi dell’art. 85 n. 2, la nullità dei singoli contratti conclusi in applicazione della detta decisione. È possibile che altre sanzioni previste dall’ordinamento interno sui contratti, come l’annullabilità, l’impossibilità di opporre alcune loro clausole, il risarcimento del danno o la ripetizione dell’indebito, siano più idonee a risolvere il caso concreto» (81). Sul piano nazionale, poi, la questione dell’interpretazione dell’istituto della nullità antitrust in senso restrittivo o meno svolge un ruolo fondamentale anche nell’individuazione del giudice competente, stante la competenza speciale della Corte d’appello ex art. 33, secondo comma, legge 287/90 per le sole azioni di nullità e risarcimento dei danni (pertanto: quid iuris per le ulteriori azioni civili che possono servire a tutelare i terzi dalle conseguenze illecite di una condotta anticoncorrenziale, come nel caso, ad esempio, della ripetizione dell’indebito?); in tal modo, qualora si affermasse anche nell’ordinamento italiano un’interpretazione ampia dell’istituto della nullità antitrust sulla scorta del trend europeo, tale da assorbire fino a confondere un tale rimedio con quello più generale dell’inefficacia, si determinerebbe un notevole allargamento dell’ambito di applicazione della norma interna sulla competenza speciale, con l’esclusione del doppio grado di merito per una larga parte di rimedi civilistici a protezione dei terzi danneggiati dagli illeciti anticoncorrenziali. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 (81) Conclusioni del 15 gennaio 1998, Carlo Bagnasco e a. contro Banca Popolare di Novara soc. coop. arl. e Cassa di Risparmio di Genova e Imperia SpA, cause riunite C- 215/96 e C-216/96, in Racc. 1999, p. I-00135, con commento di F. CAMMELLI, Le clausole ABI tra politica comunitaria antitrust e promozione della «consumer confidence»: la sentenza Bagnasco, in Dir. Un. Eur., 2000, p. 331 ss. Sennonché, occorre precisare che, sebbene l’ordinamento comunitario lasci in tema di competenza ampia discrezionalità agli Stati membri sulla base del principio di autonomia procedurale, con i soliti limiti dell’effettivit à e dell’equivalenza dei rimedi giurisdizionali, la competenza speciale in questione si applica unicamente alle fattispecie di rilevanza nazionale (secondo quanto stabilito dalla legge stessa), mentre per quelle comunitarie si applicano le ordinarie regole di competenza in forza della efficacia diretta delle norme antitrust del Trattato CE (82). Ciò nonostante, la questione della legittimità dell’unico grado di giudizio ha acquisito nuova vitalità, sia per l’inclusione dei consumatori finali tra i destinatari diretti della normativa interna di concorrenza, sia per il progressivo riconoscimento giurisprudenziale delle cd. discriminazioni alla rovescia. Sotto il primo profilo, infatti, i consumatori sono – evidentemente – portatori di più forti istanze di tutela, che potrebbero essere frustrate dalla limitazione dei gradi di giudizio; e tale problema solo in parte può essere eclissato facendo riferimento all’applicazione ormai residuale delle norme interne di concorrenza, dovuta alla forza espansiva della nozione di pregiudizio agli scambi intracomunitari. Sotto il secondo, invece, i dubbi di costituzionalità già sollevati sull’art. 33, secondo comma, legge 287/90 risultano rafforzati dall’interpretazione dell’art. 3 Cost. fornita dalla Corte Costituzionale, che vieta le «situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, o delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto comunitario» (83). 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (82) Ci sia consentito rinviare sul punto alle nostre precedenti Osservazioni. Questo specifico aspetto è stato anche oggetto di un quesito pregiudiziale sollevato dal giudice di pace di Bitonto, al quale la Corte di giustizia, nella citata causa Manfredi, ha replicato che « per quanto riguarda la questione se l’art. 33, n. 2, della legge n. 287/90 si applichi alle sole azioni di risarcimento danni fondate sulla violazione delle norme nazionali in materia di concorrenza o anche alle azioni di risarcimento danni fondate sulla violazione degli artt. 81 CE e 82 CE, la Corte non è competente ad interpretare il diritto interno né ad esaminare la sua applicazione al caso di specie»; concludendo, poi, che «spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza dell ’effetto diretto del diritto comunitario, purché tali modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall ’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)». Cfr. § 70-71. (83) Corte Cost., sentenza n. 443/1997. Corte Cost., sentenza n. 443/1997. In tema, v., da ultimo, E. PAGANO, Discriminazioni a rovescio, principio di uguaglianza e situazione di rilevanza comunitaria, in Quaderni del Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, curati dall’Istituto Italiano di Scienze Umane – Università degli Studi di Napoli Federico II, Jovene editore, Napoli, vol. 3, 2006, p. 91 ss., e la dottrina ivi citata. In merito alla costituzionalit à dell’art. 33 l. 287/90 si è pronunciata positivamente la Corte Cost. con ordinanza n. 351 del 2007, ma su profili diversi da quelli indicati nel testo. Le medesime considerazioni valgono anche per le azioni di risarcimento del danno antitrust, quando sono fondate sulle norme di concorrenza nazionali; sul fronte comunitario, invece, la loro ammissibilità è stata definitivamente sancita dalla Corte di giustizia con i leading cases Courage (84) e Manfredi (85). Tanto premesso, ciò che in questa sede preme evidenziare è l’acquisizione, da parte del private enforcement, di un ruolo sempre maggiore nell’applicazione delle regole comunitarie di concorrenza, come anche di quelle nazionali. Sebbene, infatti, l’ordinamento comunitario abbia da sempre previsto il sistema del cd. doppio binario di tutela degli interessi giuridicamente protetti dalle regole di concorrenza, ovvero la possibilità per i singoli di attivare tanto un procedimento amministrativo dinanzi alle autorità interne ed alla Commissione, quanto un giudizio dinanzi ai giudici nazionali in forza dell’efficacia diretta dei divieti antitrust del Trattato, comincia a trasparire una certa predilezione per l’applicazione giudiziaria delle norme in questione. A tal proposito, è significativo che sia la stessa Commissione europea ad indurre fortemente i singoli ad agire in giudizio, “svelando” i vantaggi che IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 (84) Sentenza della Corte di Giustizia del 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage, in Racc. 2001, p. I-06297; nonché in Foro it., 2002, IV, c. 75, con note di A. PALMIERI E R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: «chi è causa del suo mal…si lagni e chieda i danni», c. 76 ss.; di E. SCODITTI, Danni da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, c. 84 ss.; G. ROSSI, «Take Courage»! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust, c. 90 ss. Si veda pure S. BASTIANON, Intesa illecita e risarcimento del danno a favore della parte debole, in Danno e resp., 2001, p. 1151 ss.; L. VALENTINO, Violazione di situazioni giuridiche soggettive di matrice comunitaria: decentrati solo gli obblighi o anche le garanzie?, in Riv. dir. pub. comp. eur., 2002, p. 192 ss.; N. REICH, The “Courage” doctrine: encouraging or discouraging compensation for antitrust injuries?, in Comm. Mark. Law Rev., 2005, p. 35 ss.; V. J. DREXL, Do We Need “Courage” for International Antitrust Law? Choosing between Supranational and International Law Principles of Enforcement, in J. DREXL (editor), The Future of Transnational Antitrust – From Comparative to Common Competition Law, Staempfli Publisher Ltd, Berne, 2003, p. 311 ss. (85) Sentenza citata. In commento, v. E. DE SMIJTER – D. O’ SULLIVAN, The Manfredi judgment of the ECJ and how it relates to the Commission’s iniziative on EC antitrust damages actions, in Comp. Pol. Newsletter, 3-2006, p. 23 ss.; O. PALLOTTA, Consumatori e concorrenza: le questioni irrisolte nella causa Manfredi, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 305 ss.; S. MONTEMAGGI, Dalla Corte di Giustizia nuovi spunti di riflessione per una tutela effettiva del consumatore vittima di pratiche anticoncorrenziali, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2007, parte prima, p. 631 ss.; E. SALOMONE, Il risarcimento del danno da illeciti antitrust: profili di tutela interna e comunitaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 875 ss.; G.A. BENACCHIO - M. CARPAGNANO, L’azione di risarcimento del danno per violazione delle regole comunitarie sulla concorrenza, Trento, 2007, p. 69 ss.; M. CARPAGNANO, Private enforcement delle regole di concorrenza: analisi comparata della giurisprudenza comunitaria e nazionale, in G.A. BENACCHIO - M. CARPAGNANO (a cura di), Il private enforcement del diritto comunitario della concorrenza: ruolo e competenze dei giudici nazionali. Atti del convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento 15-16 giugno 2007, Trento, 2007, p. 185 ss. l’applicazione delle norme di concorrenza da parte dei giudici nazionali comporta per i privati che presumono essere stati lesi dagli illeciti anticoncorrenziali (86). Sul piano della politica di concorrenza, peraltro, occorre tenere conto della progressiva perdita di deterrenza (generale e speciale) delle ammende previste dai regolamenti comunitari, che impongono rigorosi limiti percentuali al loro calcolo, computato sulla base del fatturato annuo realizzato dalle imprese nell’esercizio sociale precedente. Ciò rende possibile alle imprese, unitamente alla preventiva pubblicazione da parte della Commissione degli Orientamenti per il detto calcolo, una valutazione della sanzione amministrativa in termini di costi e benefici in relazione ai proventi illeciti derivabili dalla realizzazione del comportamento anticoncorrenziale. Diversamente, non è possibile alcuna previsione sulle conseguenze civilistiche degli illeciti antitrust, specie dell’entità e della quantità dei risarcimenti possibili; ed in ciò si realizza il cd. effetto deterrente delle azioni civili (87). L’attualità del tema è peraltro confermata dalla recente adozione, da parte della Commissione, del citato Libro Verde sulle Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, che mira ad «un sistema più efficace per l’introduzione delle domande di risarcimento del danno» (88). 9. Alcune questioni in tema di risarcimento del danno anticoncorrenziale L’ampiezza del tema riguardante il risarcimento dei danni antitrust consente in questa sede di valutare unicamente – in sintonia con l’intento inizialmente dichiarato – l’attuale applicazione delle norme comunitarie di concorrenza da parte dei giudici civili rispetto allo standard di tutela europeo. A tal proposito occorre pure premettere che, anche a seguito di vicende contingenti dal forte impatto “popolare” (ci si riferisce alla ben nota vicenda del car- 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (86) V. Comunicazione della Commissione sulla procedura applicabile alle denunce presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del trattato CE, in G.U.U.E. C 101, del 27 aprile 2004, p. 65 ss., par. 16 (87) V. Libro Verde della Commissione europea, Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, del 19 dicembre 2005, § 1.1, in G.U.U.E. C 49, del 28 febbraio 2006, p. 33. (88) Cit. In proposito, v., tra gli altri, S. BASTIANON, Il risarcimento del danno antitrust tra esigenze di giustizia e problemi di efficienza – Prime riflessioni sul Libro Verde della Commissione, in Merc. conc. reg., 2006, p. 321 ss.; L. DI GIANBATTISTA, Damages actions for breach of EC Treaty antitrust rules: a critical assessment of the European Commission’s Green Paper, in Dir. Un. Eur., 2006, p. 729 ss.; E. DE SMIJTER – C. STROPP – D. WOODS, Green Paper on damages actions for breach of the EC antitrust rules, in Comp. Pol. Newsletter, 1-2006, p. 1 ss.: T. EILMANSBERGER, The green paper on damages actions for breach of the EC antitrust rules and beyond: reflections on the utility and feasibility of stimulating private enforcement through legislative action, in Comm. Mark. Law Rev., 2007, p. 431 ss. tello r.c. auto (89)), il dibattito sul private antitrust enforcement è stato quasi monopolizzato dalla questione relativa alla legittimazione dei consumatori finali, positivamente risolta, sul piano interno, dalla citata pronuncia a Sezioni Unite della Cassazione n. 2207/05. Con riferimento al diritto comunitario, alcuni punti fermi in tema di risarcimento dei danni antitrust sono stati posti dalla già ricordata sentenza Manfredi della Corte di giustizia, nella quale si è affermato che: a) chiunque può esigere tale risarcimento «quando esiste un nesso di causalità tra tale danno e un’intesa o pratica vietata dall’art. 81 CE» (90); b) in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta a ciascun ordinamento degli Stati membri individuare il giudice competente per dette azioni e prevederne le modalità procedurali, purché siano rispettati i principi di equivalenza ed effettività (91); c) alle stesse condizioni, ciascuno Stato può stabilire il termine di prescrizione per le azioni di risarcimento del danno derivante da un illecito antitrust e la determinazione del dies a quo per il calcolo di detto termine, spettando al giudice interno valutare se la disciplina nazionale renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile la tutela dei diritti conferiti dal diritto comunitario (92); d) nella quantificazione del risarcimento dei danni, bisogna tenere conto del danno reale, del mancato guadagno e degli interessi (93); e) se un ordinamento nazionale prevede la possibilità, per le fattispecie in questione, d’infliggere danni punitivi o esemplari, un tale rimedio deve essere esteso, sulla base del principio di equivalenza, anche alle analoghe fattispecie di rilevanza comunitaria, salvo l’obbligo dei giudici nazionali di accertare che da tali forme di risarcimento non derivi un ingiustificato arricchimento degli aventi diritto (94). Com’è evidente, quindi, i giudici lussemburghesi hanno lasciato, in materia di risarcimento dei danni antitrust, un’ampia discrezionalità agli Stati membri in ordine alle forme ed ai mezzi di tutela, con il solo limite dei principi di effettività e di equivalenza. Alla luce di quanto detto, sembra che le più recenti pronunce interne rispondano appieno alle regole dettate dalla Corte di giustizia; anzi, con particolare riferimento al tema della tutela dei contraenti “a valle” danneggiati dalle intese “a monte”, le ultime sentenze della Corte di Cassazione appaiono fornire forme avanzate di tutela, palesemente ispirate alla regola ermeneutica del favor consumatoris. In particolare, meritano menzione le soluzioni offerte dalla sentenza della terza sezione della Cassazione n. 2305/07, relative ai due aspetti più IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 (89) Provv. n. 8546 del 28 luglio 2000, in Boll. n. 30 del 14 agosto 2000. (90) Cfr. § 61. (91)Cfr. § 62. (92) Cfr. §81-82. (93) Cfr. § 95. (94) Cfr. § 99. controversi delle azioni di risarcimento dei danni antitrust attivate dai consumatori finali: la ripartizione dell’onere della prova relativa al nesso di causalit à tra illecito anticoncorrenziale “a monte” e danno lamentato “a valle” e l’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione di tali azioni. Sotto il primo profilo, la Corte, dichiaratamente ispiratasi a modelli penalistici, ha considerato accertabile il nesso di causalità sulla base di criteri presuntivi e di alta probabilità logica, consentendo al giudice nazionale di «desumere il legame eziologico tra comportamento anticoncorrenziale e danno lamentato attraverso presunzioni probabilistiche che si fondino sul rapporto di sequenza costante tra antecedente e dato consequenziale», spostando l’onere della prova contraria in capo alle imprese resistenti (95). Tale soluzione sembra assolutamente coerente con la lettura unitaria dell ’art. 81 CE, che considera lecite unicamente quelle intese che producono gli effetti procompetitivi indicati nel terzo paragrafo, ivi compresa la congrua parte degli utili agli utilizzatori; peraltro, il riparto probatorio previsti dalla Cassazione sembra costituire nient’altro che l’applicazione dell’art. 2 del regolamento alle controversie risarcitorie tra imprese e consumatori finali (96). Con riguardo al secondo aspetto indicato, la Corte ha ancora una volta fornito una soluzione tesa a garantire un più forte livello di tutela dei consumatori dagli illeciti antitrust; infatti, dopo aver debitamente evidenziato come i cartelli segreti siano per loro stessa natura inconoscibili ai terzi, la Cassazione ha dichiarato che il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c. «inizia a decorrere non dal momento in cui l’agente compie l’illecito o da quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile». Tale regola, se giustificata dalla lungolatenza del danno cagionato ai consumatori finali dai cartelli segreti, andrà valutata nel prossimo futuro, tenuto conto della sua applicazione concreta e del fondamentale principio comunitario della certezza del diritto per le imprese, che potrebbe essere messo a rischio da un’eccessiva “soggettivizzazione” del dies a quo. In ultimo, in relazione ai danni punitivi, la giurisprudenza interna di legittimità categoricamente esclude l’utilizzo, nell’ordinamento italiano, di un tale istituto giudicato contrario all’ordine pubblico interno; pertanto, sono state finora rigettate le richieste di delibazione di sentenze straniere 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (95) Cass. n. 2305/07, del 2 febbraio 2007, par. III. 2, rinvenibile sul sito www.cortedicassazione. it, come le altre sentenze della Cassazione di seguito citate. Nonché in Foro. it., 2007, I, c. 1097 ss., con nota di A. PALMIERI E DI R. PARDOLESI, Il danno antitrust in cerca di disciplina (e di identità?), c. 1102 ss. (96) Si tenga presente, poi, che il più delle volte dette azioni seguono il giudicato amministrativo formatosi sul provvedimento di accertamento dell’Agcm. contenenti condanne ai punitive damages (97). Tale giurisprudenza non appare ex se in contrasto con quella della Corte di giustizia, avendo quest ’ultima condizionato l’applicazione dei danni punitivi per le fattispecie di rilevanza comunitaria all’ammissione di un tale istituto nell’ordinamento interno. 10. Brevi cenni sui recenti sviluppi in materia di aiuti di Stato Seguendo il medesimo filo conduttore che ha fin qui orientato il discorso, ovvero l’applicazione delle norme comunitarie di concorrenza da parte degli organi degli Stati membri e la loro collaborazione al raggiungimento dell’effetto utile dei divieti antitrust posti dal Trattato, alcuni cenni meritano gli sviluppi che hanno progressivamente coinvolto, nell’ultimo decennio, la disciplina sugli aiuti di Stato. Si tratta di una sorta di “nuova frontiera” per gli organi nazionali, specie per i giudici, i quali sono così chiamati ad esercitare ulteriori compiti, che trovano nel diritto comunitario della concorrenza la propria origine. È noto che il sistema di controllo in materia, secondo quanto previsto dagli artt. 87 CE ss., si fonda sulla competenza esclusiva della Commissione europea nel valutare preventivamente se un determinato aiuto, concesso dagli Stati alle imprese, sia o meno in grado di pregiudicare gli scambi intracomunitari e minacciare o falsare la concorrenza; a tal fine, l’art. 88, par. 3, CE impone agli Stati, che intendano effettuare un aiuto, di comunicare preventivamente alla Commissione i relativi progetti e di non dare esecuzione alle misure previste prima dell’adozione della decisione finale (98). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 (97) V. Cass. n. 1183 del 19 gennaio 2007, con la quale è stata esclusa per tale motivo la delibazione di una sentenza di una Corte distrettuale dell’Alabama. A commento di tale pronuncia, v. P. PARDOLESI, Danni punitivi: frustrazione da ‘vorrei, ma non posso?’, in Riv. critica dir. priv., 2007, p. 341 ss.; di recente sul tema, v. anche E. D’ALESSANDRO, Pronunce americane di condanna al pagamento di punitive damages e problemi di riconoscimento in Italia, in Riv. dir. civ., 2007, p. 383 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Danno da violazione della disciplina antitrust e rimedi, in Riv. dir. comm., 2006, p. 727 ss. (98) Ex plurimis, v. A. BLASI – F. MUNARI, Commento agli artt. 87 e 88 TCE, in A. TIZZANO (a cura di), Trattati dell’Unione Europea e della Comunità Europea, Giuffrè Editore, Milano, 2004, p. 592 ss.; G. STROZZI, Gli aiuti di Stato, in G. STROZZI (a cura di), Diritto dell’Unione Europea, Parte speciale, seconda ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2005, p. 361 ss.; S. MARINO, Gli aiuti di Stato nella recente giurisprudenza comunitaria (200-2005), in Dir. Un. Eur., 2006, p. 607 ss.; M. ORLANDI, La disciplina degli aiuti di Stato, in A. TIZZANO (a cura di), Il diritto privato dell’Unione Europea, seconda ed., tomo II, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 1668 ss.; A. BIONDI, Gli aiuti di Stato, in A. FRIGNANI – R. PARDOLESI (a cura di), La concorrenza, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 447 ss.; C. MALINCONICO, Aiuti di Stato, in M. P. CHITI – G. GRECO (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, parte speciale, Tomo I, Giuffrè Editore, Milano, 2007, p. 65 ss.; E. TONETTI, I poteri amministrativi comunitari in materia di aiuti di Stato, in Riv. tr. dir. pub., 2007, p. 443 ss. Tuttavia, anche in tale ambito, il progressivo allargamento dell ’Unione, l’esigenza di decongestionamento dell’attività delle istituzioni comunitarie, in primis della Commissione europea, e di semplificazione dell’attività di controllo amministrativo hanno indotto il legislatore comunitario a distribuire competenze storicamente sottoposte ad un esercizio centralizzato. Sebbene in materia non possa parlarsi di un vero e proprio decentramento, o almeno non nel senso forte prescritto dal reg. 1/2003 per gli artt. 81 e 82 CE, quantomeno si è assistito negli ultimi anni ad un progressivo coinvolgimento e ad una maggiore responsabilizzazione degli stessi Stati nel sistema di controllo sugli aiuti; tale fenomeno si è realizzato unitamente allo snellimento delle procedure di controllo amministrativo (99). L’esempio più evidente di ciò è rappresentato dal numero crescente di regolamenti della Commissione contenenti esenzioni per categoria, che trovano la propria base giuridica nel regolamento del Consiglio n. 994/98, sull ’applicazione degli articoli 92 e 93 (ora 87 e 88) del trattato che istituisce la Comunità europea a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali (100). Infatti, gli artt. 1 e 2 del regolamento attribuiscono alla Commissione il potere di dichiarare, mediante proprio regolamento, che talune categorie di aiuti «sono compatibili con il mercato comune e non soggette all’obbli- 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (99) Afferma la Commissione che, per far fronte ai tempi lunghi per i controlli essa «nel quadro dei regolamenti di procedura in vigore, migliorerà, dove possibile, l’amministrazione e la prassi interna, accrescerà l’efficienza e potenzierà l’attuazione e il controllo »; tuttavia – prosegue – «dato che il successo in questo ambito dipenderà anche dalle prassi seguite dagli Stati membri, anch’essi sono chiamati a compiere sforzi per accrescere l’efficienza, la trasparenza e l’attuazione della politica degli aiuti di Stato ». In modo ancor più chiaro, poi, la Commissione precisa che « sebbene competente per l’adozione delle norme di dettaglio in materia di aiuti di Stato sia la Commissione, l’applicazione corretta delle norme e delle procedure dipende in larga misura dagli Stati membri. Nel quadro dell’allargamento, il controllo delle misure di aiuto di Stato nei nuovi Stati membri è stato effettuato da autorità di controllo indipendenti sotto il profilo funzionale. È stata un’esperienza che ha dato buoni risultati e di cui occorrerà tenere conto nel valutare l’opportunità di intensificare la cooperazione tra la Commissione e tutti gli Stati membri. A questo proposito, la Commissione esaminerà se autorità indipendenti negli Stati membri possano assisterla nell ’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato (accertamento e recupero a titolo provvisorio di aiuti concessi illegalmente, esecuzione delle decisioni di recupero)». Cfr. Piano di azione nel settore degli aiuti di Stato, Aiuti di Stato meno numerosi e più mirati: itinerario di riforma degli aiuti di Stato 2005-2009 (Documento di consultazione), del 7 giugno 2005, COM (2005) 107 def., § 49 e 51. (100) Reg. CE n. 994/98 del Consiglio, del 7 maggio 1998, in G.U.C.E. L 142 del 14 maggio 1998, p. 1 ss. V. anche la proposta di regolamento del Consiglio, recante modifica del regolamento (CE) n. 994/98 del Consiglio, del 7 maggio 1998, sull’applicazione degli articoli 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità europea a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali, presentata dalla Commissione il 5 ottobre 2006; nonché il progetto di regolamento generale di esenzione per categoria adottato dalla Commissione il 24 aprile 2007, in G.U.U.E., C 210 dell’8 settembre 2007, p. 14. go di notifica» (101) ; in tal modo, il tradizionale dogma della competenza esclusiva della Commissione e del controllo ex ante viene sostituito, per determinate fattispecie, da un meccanismo di esenzione legale e di controllo successivo. Ciò che ai nostri fini rileva, però, è che un tale sistema, per poter correttamente funzionare ed evitare distorsioni, richiede una maggiore collaborazione degli stessi Stati nella fase di controllo. Pertanto, secondo quanto prescritto dall’art. 3, par. 1, reg. 994/98, «la Commissione impone agli Stati membri norme precise per garantire la trasparenza e il controllo sugli aiuti esentati dall ’obbligo di notifica ai sensi degli stessi regolamenti»; in particolare: a) appena sono effettuati aiuti esentati ai sensi dei relativi regolamenti, gli Stati membri trasmettono alla Commissione, ai fini della pubblicazione in G.U.U.E., una sintesi delle informazioni relative ad essi; IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 (101) Secondo l’art. 1, paragrafo 1, del reg. n. 994/98, « la Commissione può, mediante regolamenti adottati secondo la procedura di cui all’articolo 8 del presente regolamento e a norma dell’art. 92 del trattato, dichiarare che le seguenti categorie di aiuti sono compatibili con il mercato comune e non soggette all’obbligo di notifica di cui all’art. 93, paragrafo 3 del trattato: a) gli aiuti a favore : i) delle piccole e medie imprese, ii) della ricerca e dello sviluppo, iii) della tutela dell’ambiente, iv) dell’occupazione e della formazione b) gli aiuti che rispettano la mappa approvata dalla Commissione per ciascuno Stato membro per l’erogazione degli aiuti a finalità regionale». In base all’art. 2, invece, « la Commissione può, mediante regolamenti adottati secondo la procedura di cui all’articolo 8 del presente regolamento, decidere che, visto lo sviluppo e il funzionamento del mercato comune, alcuni aiuti non soddisfano tutti i criteri di cui all’articolo 92, paragrafo 1 del trattato e sono pertanto dispensati dalla procedura di notifica di cui all’art. 93, paragrafo 3 del trattato, a condizione che gli aiuti concessi ad una stessa impresa in un determinato arco di tempo non superino un importo prestabilito ». Peraltro, secondo l’art. 1 della proposta di modifica al reg. 994/98, cit., all’art. 1, paragrafo 1, lett. a), summenzionato andrebbero aggiunti gli aiuti a favore: v) della promozione della cultura e della conservazione del patrimonio, vi) dei danni causati dalle calamità naturali, vii) della produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Inoltre, stando a quanto previsto dall’art. 1, par. 1, del citato progetto di regolamento generale di esenzione per categoria, proposto dalla Commissione, l’obbligo di notifica dovrebbe venir meno per gli: a) aiuti regionali agli investimenti e all’occupazione; b) aiuti agli investimenti in favore delle PMI; c) aiuti per la tutela dell’ambiente; d) aiuti alle PMI per servizi di consulenza e partecipazione a fiere; e) aiuti sotto forma di capitale di rischio; f) aiuti alla ricerca e sviluppo; g) aiuti alla formazione; h) aiuti in favore di lavoratori svantaggiati e disabili. b) gli Stati membri registrano ed elaborano tutte le informazioni riguardanti l’applicazione delle esenzioni per categoria, mettendole a disposizione della Commissione, qualora essa le richieda per valutare la conformità di un aiuto con i regolamenti di esenzione; c) gli Stati membri trasmettono alla Commissione, almeno una volta all’anno, una relazione sull’applicazione delle esenzioni per categoria (102). Ugualmente, sono esentati dall’obbligo di notifica preventiva gli aiuti di Stato sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, concessi, a determinate condizioni, alle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale (103); anche in tali casi, sugli Stati incombono precisi obblighi di cooperazione (104). 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (102) Cfr. art. 3, cit., par. 2, 3 e 4. Tali disposizioni sono sostanzialmente riprodotte in tutti i regolamenti di esenzione adottati dalla Commissione, sulla base del reg. n. 994/98. In particolare si vedano: - l’art. 7 del reg. CE n. 68/2001 della Commissione, del 12 gennaio 2001, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti destinati alla formazione, in G.U.U.E. L 10, del 13 gennaio 2001, p. 20 ss.; - l’art. 9 del reg. CE n. 70/2001 della Commissione, del 12 gennaio 2001, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese, in G.U.U.E. L 10, del 13 gennaio 2001, p. 33 ss.; - l’art. 10 del reg. CE n. 2204/2002 della Commissione, del 12 dicembre 2002, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione, in G.U.U.E. L 337 del 13 dicembre 2002, p. 3 ss.; - l’art. 8 del reg. CE n. 1628/2006 della Commissione, del 24 ottobre 2006, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti di Stato per investimenti a finalit à regionale, in G.U.U.E. L 302, del 1 novembre 2006, p. 29 ss.; - l’art. 20 del reg. CE n. 1857/2006, del 15 dicembre 2006, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese attive nella produzione di prodotti agricoli e recante modifica del regolamento (CE) n. 70/2001, in G.U.U.E. L 358, del 16 dicembre 2006, p. 3 ss.; - l’art. 3, par. 3, del reg. CE n. 1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006, relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore (de minimis), in G.U.U.E. L 379, del 28 dicembre 2006, p. 5 ss. Tali disposizioni trovano, poi, una formulazione unitaria nell’art. 9 del progetto di regolamento generale di esenzione per categoria, cit. (103) Cfr. art. 1 della Decisione della Commissione, del 28 novembre 2005, riguardante l’applicazione dell’articolo 86, paragrafo 2, del trattato CE agli aiuti di Stato sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, concessi a determinate imprese incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale, in G.U.U.E. L 312, del 29 novembre 2005, p. 67 ss. Della legittimità di tale decisione può, tuttavia, seriamente dubitarsi, dal momento che non trova fondamento in alcun regolamento di autorizzazione del Consiglio e, quindi, violerebbe l’art. 89 CE. In tema, v. M. MARTINELLI, Compensazioni finanziarie di oneri di servizio pubblico e aiuti di Stato, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2007, p. 113 ss. (104) In base all’art. 6, primo paragrafo, « gli Stati membri eseguono o fanno eseguire controlli regolari per garantire che le imprese non ricevano una compensazione eccessiva rispetto all’importo stabilito ai sensi dell’articolo 5 ». V. anche quanto previsto dagli artt. 7 e 8. Alla luce di quanto premesso, la sottrazione di sfere di competenza al controllo esclusivo della Commissione in materia di aiuti di Stato, determina, in modo correlato, un ampliamento dei poteri dei giudici nazionali nell ’applicazione delle norme comunitarie in questione. Nei casi suddetti, quest ’ultimi non limitano la propria azione al solo ambito dell’art. 88, par. 3, che – com’è noto – è provvisto di efficacia diretta (105), ma possono immediatamente applicare le norme contenute nei regolamenti di esenzione per categoria adottati dalla Commissione. Secondo quanto dichiarato dal quinto considerando dello stesso reg. 944/98, infatti, i regolamenti di esenzione per categoria «possono essere direttamente applicati dai giudici nazionali, fatti salvi gli articoli 5 e 177 del trattato» (ora 10 e 234 CE). In tal modo, l’applicazione decentrata, da parte dei giudici nazionali, assume un ruolo fondamentale nel controllo relativo alle norme sugli aiuti di Stato, reso ancor più importante nelle ipotesi in cui non v’è obbligo di notifica preventiva. Come sostiene la Commissione nel Piano d’azione nel settore degli aiuti di Stato, «un altro settore in cui i giudici nazionali potrebbero svolgere un ruolo maggiore è quello del controllo dell’effettiva risponden- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 (105) Come precisato dalla Corte di Giustizia, applicando l’art. 88.3 CE, « il giudice nazionale deve salvaguardare gli interessi dei singoli. Tuttavia, in tale contesto, esso deve anche prendere in piena considerazione l’interesse comunitario »; cfr. sentenza del 5 ottobre 2006, causa C-368/04, Transalpine Ölleitung, § 48, in Racc., 2006, I-9957. Dal canto suo, afferma la Commissione che «s’impegnerà anche in azioni di sensibilizzazione, per incoraggiare le parti interessate a vigilare sulla piena osservanza delle norme in materia di aiuti di Stato. L’articolo 88, paragrafo 3, del trattato CE è direttamente applicabile e conferisce ai giudici nazionali il potere di sospendere o di recuperare a titolo provvisorio gli aiuti concessi illegalmente prima della loro approvazione da parte della Commissione. I ricorsi dei privati cittadini dinanzi ai giudici nazionali potrebbero pertanto rafforzare la disciplina nel settore degli aiuti di Stato. Occorre inoltre sensibilizzare maggiormente i revisori dei conti, le autorità nazionali di regolamentazione dei mercati, le Corti dei conti nazionali. A questo scopo, la Commissione ha avviato uno studio che pone l’accento su due aspetti importanti dell’applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato a livello nazionale, ossia il ruolo delle giurisdizioni nazionali nella tutela dei diritti dei terzi interessati, in particolare i concorrenti dei beneficiari di aiuti concessi illegalmente, e l’esecuzione a livello nazionale delle decisioni negative, soprattutto le decisioni che prevedono un obbligo di recupero »; Piano d’azione nel settore degli aiuti di Stato, cit., §55. Sull’applicazione dell’art. 88, par. 3, CE da parte dei giudici nazionali, v. la Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra i giudici nazionali e la Commissione in materia di aiuti di Stato, in G.U.C.E. C 13, del 23 novembre 1995, p. 8 ss. Di recente, la Corte di giustizia è giunta a dichiarare finanche «che il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva»; sentenza del 18 luglio 2007, causa C-119/05, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c. Lucchini SpA, § 63, non ancora pubblicata nella Raccolta. 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO za ai criteri necessari delle misure rientranti nel campo di applicazione di un’esenzione per categoria o alle quali si applicano le soglie de minimis e che non sono state quindi notificate alla Commissione» (106). Inoltre, l’idea di una governance migliore in materia di aiuti di Stato è anche supportata dal Parlamento europeo, il quale «sostiene con forza l’idea di formare una rete più fitta di organi di controllo, per esempio corti dei conti degli Stati membri, in grado di promuovere la coerenza nell’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato» (107). 11. Considerazioni conclusive A distanza di qualche anno dalle mie prime considerazioni sul sistema italiano di applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza, occorre senz’altro rivedere in senso positivo il giudizio su di esso. Infatti, sia gli ultimi interventi del legislatore nazionale, sia – anzi soprattutto – la più recente giurisprudenza civile e amministrativa hanno ricondotto tale sistema su di un piano di maggiore conformità ai livelli di tutela delle posizioni giuridiche soggettive che l’ordinamento comunitario prescrive. Peraltro, alcune delle soluzioni individuate dai giudici nazionali, volte a proteggere i terzi lesi dalle condotte anticoncorrenziali delle imprese, appaiono fornire modelli di tutela “esportabili”, perchè capaci di garantire una maggiore giustizia sostanziale; il riferimento è, in particolare, al riparto dell’onere della prova, stabilito dalla Cassazione nelle controversie di risarcimento dei danni anticoncorrenziali tra consumatori e imprese. Restano alcuni punti critici, che però – ed è questa l’anomalia – si risolvono in uno svantaggio ed in una diminuzione di garanzie per le situazioni soggettive che trovano nel diritto interno, non in quello comunitario, la loro fonte. È il caso, si diceva, dell’unico grado di giudizio previsto dall’art. 33, secondo comma, della legge 287/90 per le sole fattispecie nazionali, in relazione al quale occorre attendere un auspicato intervento del legislatore o della Corte Costituzionale, volto ad eliminare una tale discriminazione a rovescio, contraria all’art. 3 Cost. A fronte del positivo attivismo mostrato di recente dalla giurisprudenza italiana, sempre più animata da “spirito” comunitario, bisogna invece ammettere che, negli ultimi anni, il principale assente nella tutela dei priva- (106) Cfr. § 56. (107) Si veda la Risoluzione del Parlamento europeo sulla riforma degli aiuti di Stato 2005-2009 (2205/2165(INI)), § 48. Inoltre, il Parlamento «sottolinea che qualsiasi decentramento di competenze a favore delle autorità nazionali richiede un attento monitoraggio e coordinamento a garanzia di un’applicazione coerente delle norme in tutti gli Stati membri; ritiene che il decentramento possa comportare il rischio di un’applicazione incoerente delle norme sugli aiuti di Stato, in particolare a causa della varietà di strutture, di livelli di esperienza e di perizia delle autorità competenti degli Stati membri; sottolinea l’importanza di una rete funzionale, che raggruppi le autorità competenti negli Stati membri» (§ 49). ti lesi dagli illeciti antitrust di rilevanza comunitaria è la Corte di giustizia; sui temi “caldi” del diritto della concorrenza, primo fra tutti la protezione dei consumatori, il richiamo costante al principio di autonomia procedurale degli Stati membri, effettuato dai giudici lussemburghesi, se tante volte rappresenta il necessario corollario delle politiche di decentramento, in altre può apparire come una declinazione di responsabilità. Tanto più che, in molti casi, sarebbe preferibile un’interpretazione uniforme degli istituti del diritto comunitario della concorrenza (in primis delle azioni di risarcimento dei danni), per evitare che l’autonomia esercitabile dagli ordinamenti nazionali si risolva in una disparità di trattamento di uguali diritti attribuiti ai privati dall’ordinamento comunitario. Se questo è lo “stato dell’arte” in tema di applicazione decentrata delle norme comunitarie di concorrenza, la nuova “sfida” sembra essere – come già indicato – la partecipazione degli organi nazionali (giudici ordinari, corti dei conti, revisori contabili, ecc.) al controllo sugli aiuti di Stato, cosicché la tutela dei terzi dalle alterazioni della concorrenza, causate dall’intervento degli Stati nell’economia a favore di determinate imprese, possa divenire il principale strumento con il quale garantire l’effetto utile delle norme degli artt. 86 CE ss. In epilogo, tutte le riflessioni sin qui compiute, dall’analisi dei nuovi poteri dell’Agcm alle interrelazioni tra public e private enforcement, rimandano alla questione dell’indipendenza delle autorità nazionali di concorrenza, che potrebbe essere radicata nell’ordinamento comunitario, prim’ancora che in quello interno (108). Da un lato, infatti, l’attribuzione dei poteri descritti (primo fra tutti quello cautelare) e la progressiva estensione dell’azione delle autorità anche alla tutela degli interessi privati appaiono ridurre sempre più le differenze tra i loro compiti e quelli propri dei giudici interni, allorquando applicano le norme comunitarie di concorrenza. Dall’altro, la previsione di moduli consensualistici all’interno del procedimento antitrust e di strumenti di eliminazione concordata, tra imprese ed autorità di controllo, degli effetti anticompetitivi riducono la possibilità di contenziosi successivi tra imprese destinatarie del provvedimento finale ed autorità; e così viene limitata de facto la possibilità di controllo, da parte dei giudici, sulla legittimità dell’azione delle autorità amministrative indipendenti. Quindi, il consolidamento delle funzioni paragiurisdizionali delle autorit à antitrust nazionali e l’assottigliamento delle sfere d’intervento dei giudici, in sede di sindacato successivo, rafforzano ancor di più l’esigenza dell’in- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 (108) In base all’art. 35, primo paragrafo, del regolamento «gli Stati membri designano l’autorità o le autorità garanti della concorrenza responsabili dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato in modo da garantire un’efficace conformità alle disposizioni del presente regolamento». dipendenza delle prime non solo rispetto all’esecutivo (109), ma anche allo stesso mercato (110); tanto più che, come detto, si profila un crescente coinvolgimento degli organi interni anche nel sistema di controllo sugli aiuti di Stato. Peraltro, rafforzando l’indipendenza delle autorità nazionali in questione potrebbe anche giungersi nel tempo ad una loro legittimazione ex art. 234 CE, che servirebbe a migliorare in modo considerevole la corretta ed uniforme applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza da parte delle stesse autorità (111). Tuttavia, mentre si rassegnano queste conclusioni, si apprende che il Consiglio Europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 ha definitivamente abbandonato il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, dando contestualmente incarico alla Conferenza Intergovernativa per la redazione di un nuovo “trattato di riforma” da approvare entro la fine di quest’anno (112). A leggere il mandato, che intende rilanciare il processo d’integrazione europea, emerge subito la sottrazione della libera concorrenza dall’ambito degli obiettivi primari dell’Unione; il futuro art. 3, par. 3, TUE, infatti, dovrebbe limitarsi a prevedere che «l’Unione instaura un mercato interno» (113), senza più precisare, come nel precedente trattato costituzionale, che in 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (109) A tale proposito, si veda il disegno di legge n. 1366, contenente Disposizioni in materia di regolazione e vigilanza sui mercati e di funzionamento delle Autorità indipendenti preposte ai medesimi; nella relazione di accompagnamento si sostiene la necessità «che i processi di liberalizzazione siano accompagnati da un efficace sistema di regolazione e di vigilanza, fondato sull’azione di organismi pubblici dotati di un alto livello di indipendenza, di autonomia e di capacità tecnica, in grado di agire in modo efficace e trasparente». Si vedano, in particolare, gli articoli contenuti al Capo IV della proposta. Sul tema, v. F. GHEZZI, L’Autorità garante della concorrenza e il disegno di legge governativo di riforma delle autorità indipendenti, in Riv. soc., 2007, p. 532 ss. (110) In questo senso, sembrano condivisibili le preoccupazioni espresse sulle modalit à di autofinanziamento dell’attività di controllo sulle concentrazioni di dimensione nazionale da parte dell’Agcm; cfr. P. DE PASQUALE, Ipotesi di discriminazione alla rovescia nel comma 69 della legge finanziaria 2006, in Dir. pub. comp. eur., 2006, p. 1375 ss. V. anche F. GHEZZI, op. cit., con particolare riferimento alle p. 559 ss. (111) Legittimazione allo stato esclusa dalla Corte di giustizia sulla base delle considerazioni espresse nella sentenza del 31 maggio 2005, causa C-53/03, SYFAIT, par. 29 ss.; in proposito v. L. RAIMONDI, La nozione di giurisdizione nazionale ex art. 234 TCE alla luce della recente giurisprudenza comunitaria, in Dir. Un. Eur., 2006, p. 369 ss. (112) Cfr. Consiglio europeo di Bruxelles 21 e 22 giugno 2007, Conclusioni della presidenza, Bruxelles, 23 giugno 2007, § 10-11. Con esse «il Consiglio europeo invita la futura Presidenza a elaborare un progetto di testo del trattato in linea con i termini del mandato e a sottoporlo alla CIG non appena questa sia avviata. La CIG concluderà i lavori al più presto possibile, e in ogni caso entro il 2007, al fine di concedere tempo sufficiente perché il trattato risultante possa essere ratificato prima delle elezioni del Parlamento europeo del giugno 2009». (113) V. Mandato della CIG del 2007, del 26 giugno 2007, Allegato I, Modifiche al Trattato UE, § 3, reperibile sul sito www.europa.eu.int. ed ora anche il Progetto di Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, del 5 ottobre 2007. Sul processo di revisione v. anche la Comunicazione della Commissione al Consiglio, La revisione dell’Europa per il XXI secolo, del 10 luglio 2007. esso «la concorrenza è libera e non falsata» (114). Ed un tale vulnus non sembra possa essere compensato dalla prevista adozione di un Protocollo sul mercato interno e sulla concorrenza (115), da allegare al trattato di riforma. Se a ciò si darà seguito, com’è verosimile, si paventa il rischio di una declassificazione della politica comunitaria di concorrenza rispetto alle altre e di un suo depotenziamento. Certo, resteranno ferme le attuali regole contenute agli artt. 81 CE ss., da trasfondere in un venturo trattato sul funzionamento dell’Unione, nonché l’acquis giurisprudenziale, ma una tale omissione volontaria rischia di sortire effetti nei confronti dell’esercizio della sovranit à statale, specie qualora esso si tramuti in intervento pubblico nell’economia; in tali casi il diritto comunitario potrebbe ritrarsi, svincolando gli ordinamenti nazionali da una serie di obblighi finora imposti proprio sulla base della leale collaborazione al raggiungimento degli obiettivi primari della Comunità, tra i quali oggi figura l’instaurazione di un regime di concorrenza non falsata nel mercato interno. Accantonando per il momento ogni considerazione sulle conseguenze giuridiche di tutto ciò, resta una scelta governativa che non tiene conto dei fatti, delle istanze sociali, delle concrete dinamiche del mercato e delle sue reali esigenze, emerse in cinquant’anni d’integrazione europea, che identificano, invece, la libera concorrenza come un bene pubblico ed un valore fondamentale, come uno dei tanti aspetti della libertà dell’individuo. Viene in mente, allora, quanto si chiedeva Mazzini: «Perché maledire a un’idea, quando, superato lo stadio, nel quale il dubbio è concesso, s’è fatto verbo dei milioni e simbolo d’intere nazioni?» (116). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 (114) Cfr. art. I-3, par. 2, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. (115) In esso si dovrebbe prevedere che : «Le alte parti contraenti, considerando che il mercato interno ai sensi dell’art. 3 del trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata, hanno convenuto che, a tal fine, l’Unione adotta, se necessario, un’azione in base alle disposizioni del trattato, compreso in base all’articolo 308 del trattato sul funzionamento dell’Unione». Cfr. Protocollo n. 6 al nuovo Trattato. In un suo comunicato stampa, la Commissione giustifica la mancata inclusione tra gli obiettivi primari dell’Unione sostenendo «that competition is not an objective in itself but a means to an end»; cfr. Memo/07/283, del 10 luglio 2007, reperibile nel sito www.europa.eu.int (116) G. MAZZINI, Pensieri sulla democrazia in Europa, in G. MAZZINI, Opere, Biblioteca Treccani, 2006, p. 239 ss. 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Appalto pubblico o concessione di servizi? La Corte enfatizza il criterio del rischio. (Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione seconda, sentenza 18 luglio 2007 nella causa C-382/05) Con il proprio ricorso la Commissione ha chiesto alla Corte di Giustizia che venisse sanzionata la violazione della direttiva 92/50/CEE da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per avere quest’ultima indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani senza la pubblicazione dell’apposito bando di gara d’appalto nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee. Il ricorso per infrazione avviato, ex art. 226 TCE, dalla Commissione Europea avverso il comportamento lesivo dello Stato italiano nei confronti della direttiva 92/50/CEE (1), si è di recente concluso con l’emanazione di una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo, con la quale sono stati forniti - in seguito ad una interpretazione autentica della direttiva elusa, ed in particolare dei suoi artt. 1,11, 15 e 17 – particolari chiarimenti in materia di appalti pubblici di servizi, al fine di tenere distinto tale fenomeno da quello delle concessioni. Oggetto di contestazione è la procedura di stipula delle convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della Regione siciliana. Tale procedura, indetta nel 2002 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione civile – Ufficio delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia, sarebbe stata realizzata senza rispettare le forme di pubblicit à espressamente previste dalla direttiva citata, consistenti nella pubblicazione dell’apposito bando di gara sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee (2). Ad avviso del governo italiano, ed alla luce della giurispruden- LE DECISIONI (1) Si tratta della direttiva adottata dal Consiglio il 18 giugno 1992 (G.U. L209, p. 1), che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, successivamente modificata dalla direttiva 2001/78/CE della Commissione, del 13 settembre 2001 (G.U. L285, p. 1). Più recente è la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2004/18/CE, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, cd. “direttiva unificata” (G.U. L134 pp. 114-240). (2) Sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee era stato pubblicato, in data 16 agosto 2002, un avviso conforme al modello di avviso “indicativo” di cui all’allegato III IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 65 za interna, le procedure oggetto di contestazione, non avrebbero dovuto essere assoggettate alle forme di pubblicità richieste dalla direttiva in materia di appalti pubblici di servizi, trattandosi, nel caso di specie, del diverso fenomeno della concessione di servizi. Nella fase precontenziosa la Commissione aveva inviato alla Repubblica italiana una lettera di diffida imputando a tale Stato membro la violazione degli artt. 11,15 e 17 della direttiva 92/50. Le osservazioni presentate dall’Italia in risposta alla lettera di messa in mora non venivano considerate sufficienti dalla Commissione, la quale provvedeva a trasmettere allo Stato – in via definitiva – il parere motivato (3), invitando quest’ ultimo a porre fine all’inadempimento contestato entro il termine di due mesi. La Commissione aveva successivamente dato avvio alla fase contenziosa, considerando poco soddisfacente la risposta fornita dallo Stato italiano al parere motivato. Durante tale fase emergeva quale primo punto controverso quello concernente la natura delle quattro convenzioni stipulate dal Presidente della Regione siciliana, nella qualità di Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia: ad avviso della Commissione “le convenzioni controverse non possono essere qualificate come concessioni di servizi escluse, come sostenuto dalla Repubblica italiana, dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50” … “non sono state concluse nel rispetto dei requisiti di pubblicità derivanti da tale direttiva”. Atal riguardo veniva richiamato dalla Commissione l’art. 1, lett. a) della direttiva, in virtù del quale sono appalti pubblici di servizi “i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice…”. I successivi articoli invocati prescrivono, in capo all’amministrazione aggiudicatrice di un appalto di servizi, adeguate forme di pubblicità; in particolare la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee della direttiva 92/50, il quale tuttavia non rispettava appieno tutti i requisiti del modello di bando di gara d’appalto, come indicati nel medesimo allegato. Il 9 agosto dello stesso anno veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana il cd. “avviso controverso”, comprendente tre allegati: l’allegato A che indicava le “linee guida per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata prodotta nei Comuni della regione siciliana”, l’allegato B intitolato “Piano finanziario riassuntivo” e l’allegato C contenente una convenzione tipo da stipulare con gli operatori prescelti. La normativa comunitaria prevede infatti l’obbligo per le amministrazioni che intendono aggiudicare un appalto pubblico di servizi mediante procedura aperta, ristretta o negoziata, di rendere nota tale intenzione con un bando di gara che deve essere pubblicato per esteso sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee e nella banca dati TED, nelle rispettive lingue originali. (3) Il parere motivato è l’atto, a carattere non obbligatorio, con il quale si chiude la fase precontenziosa; la non obbligatorietà dello stesso ne impedisce l’impugnabilità, ai sensi dell ’art. 230 TCE. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO del bando relativo, il quale deve essere redatto secondo i modelli contenuti negli allegati. Pertanto, l’omissione delle forme di pubblicità prescritte integrava la violazione del diritto comunitario da parte dell’Italia. Per inciso, degna di rilievo è la circostanza che la direttiva 92/50/CE non fornisce alcuna definizione del diverso fenomeno della concessione di servizi. Dalle ricostruzioni fornite dalle parti emergevano difficoltà, e sul modo di valutare la remunerazione spettante all’operatore, e sul rischio inerente al servizio erogato. In relazione alla prima difficoltà (la remunerazione), al punto 20 della sentenza si legge che secondo la Commissione “la remunerazione consisterebbe in una tariffa versatagli direttamente dal Commissario delegato, tariffa il cui importo viene fissato in euro per tonnellata di rifiuti trasferita all’operatore dai comuni” . Sempre secondo la Commissione, “i redditi che l’operatore sarebbe in grado di trarre dalla vendita di energia elettrica prodotta in occasione della termovalorizzazione dei rifiuti non costituirebbero un elemento del corrispettivo di detto operatore”. Al contrario, il governo italiano qualificava dette convenzioni come concessioni di servizi - pertanto escluse dall’ambito di applicazione della direttiva (4) - perché i servizi venivano erogati direttamente agli utenti, tenuti pertanto a versare ai comuni una tariffa diretta a coprire tanto la raccolta quanto il trattamento dei rifiuti, mentre il Commissario delegato si sarebbe limitato a svolgere un ruolo di mero intermediario (punto 24). Inoltre, proprio in relazione alla natura di concessione delle convenzioni, la remunerazione poteva consistere tanto nel prezzo pagato dall’utente, quanto in altre attività connesse al servizio prestato, e quindi anche nella vendita di energia ricavata dalla termovalorizzazione dei rifiuti (punto 25). Quanto alla seconda difficoltà riscontrata, concernente cioè il rischio connesso al servizio erogato, la Commissione rilevava la natura di appalto di servizi delle convenzioni, le quali prevedevano il conferimento di un quantitativo annuo minimo di rifiuti all’operatore, il quale pertanto non avrebbe sopportato personalmente il rischio inerente a tale attività (punto 21); al contrario il governo italiano faceva notare come i proventi da realizzare da parte dell’operatore presentassero carattere aleatorio, tenuto conto anche dell’importanza finanziaria degli investimenti effettuati e della durata ventennale delle convenzioni controverse (punto 26), nonché del ruolo di mera vigilanza dell’Amministrazione. La Corte di Lussemburgo, sposando appieno le argomentazioni della Commissione, è intervenuta in primo luogo a chiarire, o meglio a confutare, (4) Tale esclusione è stata poi confermata dalla Corte nella sentenza che si commenta, al punto 29, esclusione che “risulta da giurisprudenza costante”: vengono a tal fine richiamate le sentenze 21 luglio 2005, causa C-231/03, Consorzio Aziende Metano (Coname) c. Comune di Cingia de’ Botti (Coname), in Racc. p. I – 7287, punto 9, e 13 ottobre 2005, causa C- 458/03 Parking Brixen GmbH c. Gemeinde Brixen, Stadtwerke Brixen Ag, (Parking Brixen), in Racc. p. I – 8585, punto 42. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 67 quanto sostenuto dal governo italiano secondo il quale le convenzioni controverse “come emerge dalla giurisprudenza nazionale, devono essere qualificate come concessioni di servizi” escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50 CE. La definizione di appalto pubblico di servizi rientra invece nella sfera del diritto comunitario e pertanto “la qualificazione delle convenzioni controverse nell’ordinamento italiano non è pertinente al fine di accertare se queste ultime rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 92/50 ” (5). Alivello comunitario ciò che rileva ai fini della qualificazione di un contratto come appalto pubblico di servizi o come concessione di servizio pubblico è l’oggetto del contratto e le modalità di remunerazione pattuite: nel caso di specie, ad una prima rapida scorsa delle convenzioni, si potrebbe concludere che esse rientrino nell’appalto di servizi perchè hanno come oggetto il servizio di raccolta e trattamento di rifiuti non speciali (servizio che può essere compreso tra quelli di cui all’allegato IA della direttiva - eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti; disinfestazione e servizi analoghi) (6) e perché la remunerazione consiste nel versamento di una tariffa fissa all’operatore da parte del Commissario delegato. Pertanto, la circostanza ultronea che i prestatori fossero in grado di beneficiare dei proventi derivanti dalla rivendita dell’energia elettrica prodotta a seguito della termovalorizzazione dei rifiuti, non è stato considerato dalla Corte argomento sufficiente a sostenere la natura di concessione della convenzione, dal momento che l’art. 1, lett. a) della direttiva 92/50, nel fornire la nozione di appalto pubblico, parla di “contratto a titolo oneroso”, ove l’onerosit à è riferita alla controprestazione offerta al prestatore (consistente nel pagamento da parte del Commissario delegato dell’importo della tariffa) a fronte della prestazione del servizio di trattamento dei rifiuti conferiti con recupero di energia (punti 39-40). Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto di poter affermare la natura di appalti pubblici di servizi delle convenzioni controverse ritenendo pertanto che la loro aggiudicazione si sarebbe potuta realizzare soltanto in osservanza della predetta direttiva ed in particolare dei suoi artt. 11, 15 e 17. Al punto 34 la Corte, richiamando la giurisprudenza comunitaria più recente (7), osservava come la concessione di servizi si caratterizzi per le (5) Punto 30 della sentenza che si commenta. La Corte richiama inoltre alcuni precedenti giurisprudenziali: la sentenza 20 ottobre 2005, causa C-264/03, Commissione c. Francia, Racc. p. I-8831, punto 36, e 18 gennaio 2007, causa C- 220/05, Auroux e ac.Commune de Roanne, pubblicata in Racc. p. I-00389, 2007 (punto 40). (6) A tal proposito non è stato considerato rilevante dalla Corte, al fine di qualificare la procedura de qua come concessione di servizi, il fatto che il trattamento di rifiuti rientrasse nell’interesse generale, come invece teneva a precisare il governo italiano (punti 23-43). (7) Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia del 7 dicembre 2000, causa C- 324/98, Telaustria Verlags GmbH, Telefonadress GmbH c. Telekom Austria AG (Telaustria e Telefonadress), in Racc. p. I-10745, punto 58, sentenza Parking Brixen, cit., punto 40. 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO peculiari modalità di remunerazione dell’operatore, consistenti nel diritto di quest’ultimo di sfruttare la propria prestazione con annessa assunzione del rischio collegato alla gestione dei servizi in questione. Al contrario, nel caso di specie, tale operatore risultava remunerato dal Commissario delegato il quale si impegnava a garantire che tutti i comuni interessati conferissero all’operatore l’integralità della loro frazione residua di rifiuti e che un quantitativo minimo di essi venisse conferito a quest’ultimo (punto 36). La Corte accoglieva il ricorso della Commissione e condannava l’Italia alle spese. L’orientamento manifestato dalla Corte di Giustizia risulta essere in sintonia con l’intenzione di garantire la concorrenza e la parità nelle possibilità di accesso alle procedure da parte di tutti gli operatori economici comunitari. Per tale ragione i giudici di Lussemburgo hanno avuto la premura di specificare che “la definizione di appalto pubblico di servizi rientra nella sfera del diritto comunitario” (punto 30). L’assenza di una definizione normativa di concessione di servizi, tanto in ambito nazionale quanto in ambito comunitario, è stata superata soltanto di recente, in seguito alla adozione delle direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del 2004, i cui contenuti sono stati interamente ripresi dal Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163/2006 e successive modificazioni). A livello comunitario, le difficoltà che si incontravano (e che tuttora si incontrano) nel definire la concessione di servizi pubblici erano legate ai diversi modi in cui gli ordinamenti dei vari Stati membri disciplinavano l’istituto. In particolare l’Italia e la Francia basavano la concessione su un rapporto fiduciario tra amministrazione e terzo concessionario, basato sull’intuitu personae, al quale ultimo, venivano trasferiti, attraverso un atto concessorio, i compiti propri della prima. Si sottolineava pertanto che le procedure dell’evidenza pubblica, sebbene più adeguate ad assicurare la concorrenza, avrebbero minato il carattere fiduciario dei rapporti della PA, limitando di conseguenza l’efficienza della stessa (8). Successivamente, la Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni, adottata il 12 aprile 2000 e pubblicata in GURI C-121 del 29 aprile 2000, individuava l’elemento distintivo della nozione di concessione di lavori (ma la stessa definizione è stata poi estesa alla concessione di servizi) nell’attribuzione del diritto di gestire l’opera: “Anzitutto il diritto di gestione consente al concessionario di percepire proventi dall’utente (ad esempio, in forma di pedaggio o di canone) per un determinato periodo di tempo. La dura- Rileva al riguardo anche l’ordinanza 30 maggio 2002, causa C-358/00, Buchhändler- Vereinigung, Racc .p. I- 4685, punti 27-28. (8) In tal senso B. MAMELI, Servizio pubblico e concessione : l’influenza del mercato unico sui regimi protezionistici e regolamentati, Milano, 1998, pp. 440 ss. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 69 ta della concessione rappresenta, pertanto, un elemento importante della remunerazione del concessionario. Quest’ultimo non è quindi direttamente remunerato dall’autorità aggiudicatrice, ma ottiene da questa il diritto di percepire i proventi derivanti dall’uso dell’opera realizzata. Il diritto di gestione implica anche il trasferimento della responsabilità di gestione. Tale responsabilit à investe al tempo stesso gli aspetti tecnici, finanziari e gestionali dell’opera. Spetta pertanto al concessionario effettuare gli investimenti perché l’opera possa utilmente essere messa a disposizione degli utenti e sopportarne l’onere di ammortamento. Inoltre, il concessionario assume non soltanto i rischi inerenti ad una qualsiasi attività di costruzione ma dovrà sopportare quelli connessi alla gestione e all’uso abituale dell’impianto”. Allo stesso modo, l’ordinanza commissariale del 1° marzo 2005, nell’autorizzare la realizzazione del progetto presentato da Sicil Power SpA - una delle società con le quali il Commissario ha stipulato le “convenzioni controverse” - relativo al sistema di gestione integrato per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata (Sistema Messina-Catania), faceva gravare proprio sulla società i rischi connessi alla realizzazione e alla gestione degli impianti di termovalorizzazione, stabilendo alla lettera g) dell ’art. 5 che “gli impianti devono essere sempre mantenuti nel miglior stato di efficienza tale da garantire sempre il rispetto della presente ordinanza e delle caratteristiche tecniche relative a ciascuna tipologia di impianto”, nonché i relativi adempimenti e la prestazione di idonee garanzie finanziarie “a copertura delle spese derivanti da eventuali operazioni di smaltimento di rifiuti, compresa la bonifica ed il ripristino ambientale” (art. 7 dell’ordinanza). Al punto 36 della sentenza della Corte di Giustizia che qui si commenta, si legge che “detto operatore risulta remunerato dal Commissario mediante una tariffa fissa conferitagli per tonnellata di rifiuti….tali convenzioni prevedono inoltre l’adeguamento dell’importo della tariffa nell’ipotesi in cui la quantità annua effettiva di rifiuti conferiti sia minore del 95% o maggiore del 115% rispetto alla suddetta quantità minima garantita, ciò al fine di garantire l’equilibrio finanziario ed economico dell’operatore. Queste stesse convenzioni prevedono inoltre, che la tariffa sia rinegoziata qualora, per conformarsi ad un mutamento del quadro normativo l’operatore debba affrontare investimenti eccedenti un certo livello”. L’analisi di questo punto risulta particolarmente significativa sotto più profili, tutti indirizzabili verso la individuazione di una concreta sopportazione dei rischi da parte dell’operatore, chiamato a garantire una duratura ed efficiente stabilità al sistema di gestione dell’impianto, stabilità per la quale è tenuto ad effettuare investimenti pluriennali di entità più o meno rilevante (a seconda cioè che si tratti di realizzare un impianto ex novo - nel qual caso si pone la necessità di far fronte a rischi ulteriori connessi alle scelte di ubicazione del termovalorizzatore con conseguenti e non meno importanti rischi ambientali - ovvero di destinare alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti un impianto già esistente per il quale occorre sempre effettuare, prima della sua messa in funzione, una campagna di monitoraggio dell’ambiente nella zona interessata dall’intervento autorizzato). 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La Corte ha escluso la sussistenza del regime concessorio sulla base della presenza di una tariffa fissa conferita all’operatore dal Commissario delegato in relazione alle tonnellate di rifiuti: eppure si tratta di dati entrambi variabili ed incerti, i quali non assicurano che i costi sopportati siano effettivamente coperti dai ricavi conseguiti. Ciò è tanto più vero se si considera che è stata avvertita la necessità di prevedere una revisione dei prezzi ed un adeguamento della tariffa “nell’ipotesi in cui la quantità annua effettiva di rifiuti conferiti sia minore del 95% o maggiore del 115% rispetto alla quantità minima garantita” e “in relazione all’andamento dei costi relativi al personale, ai materiali di consumo e alle manutenzioni”. Pertanto, nonostante la garanzia di una tariffa minima, che già di per sé non si pone in contrasto con il regime concessorio – come ribadito ed ora esplicitato nel Codice dei contratti pubblici all’art. 30 (ove è chiaramente consentita la concessione di un servizio pubblico dietro pagamento di un prezzo “qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell’ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio prestato”) – un rischio connesso alla quantità annua dei rifiuti conferiti è comunque sopportato dall’operatore economico, anche nell’ipotesi in cui consegua un utile da tale attività. Pertanto, anche alla luce della impostazione comunitaria, per la quale il rischio è elemento fondamentale nella individuazione del regime concessorio, non può escludersi che anche nel caso di specie ci si trovi in presenza di una concessione. A questi dati, sui quali si è soffermata la Corte di Giustizia, ne vanno aggiunti dei successivi, i quali, pur non essendo stati sottoposti all’attenzione della Corte, sono necessari per completare il quadro di riferimento: in data 27 settembre 2004 è stato approvato lo schema di atto aggiuntivo alla convenzione già firmata con gli operatori permettendo il conferimento agli inceneritori anche dei rifiuti speciali e dei sovvalli provenienti dalle operazioni di selezione e valorizzazione della frazione secca raccolta in modo differenziato. Ciò ha consentito di ottenere che la tariffa fissata per il conferimento ai quattro sistemi da realizzare in Sicilia non variasse all’aumentare della raccolta differenziata. Quindi, “solo se il totale dei rifiuti conferiti al sistema – urbani, speciali, sovvalli - dovesse scendere al di sotto della quantità pari al 65% del totale dei rifiuti urbani prodotti in Sicilia e certificati dall’Apat, sorgerebbe la necessità di una rinegoziazione della convenzione e di una eventuale modifica tariffaria” (9). (9) V. Relazione della Corte dei Conti del 2005 – Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato – Programma delle attività di controllo sulla gestione per l’anno 2005 (deliberazione n. 1/2005/G) – La gestione dell’emergenza rifiuti effettuata dai Commissari Straordinari del Governo. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 71 Si è cercato in questo modo di trovare la soluzione più idonea ad evitare che i cittadini subissero le conseguenze di una situazione di sistemica incertezza connessa alla quantità annua di rifiuti effettivamente conferita ad ogni impianto, riducendo le notevoli ripercussioni sulla spesa del servizio, variabile in relazione a tali quantitativi e facendo chiaramente gravare sull’operatore il rischio della gestione di tale sistema integrato. Una chiosa: l’art. 9 dell’ordinanza del 1° marzo 2005 definisce “concessionari del servizio integrato” gli operatori industriali ai quali è stata affidata la gestione del servizio, mentre al 3°comma dell’art. 117 del Testo Unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000, da ultimo modificato dal D.Lgs. 152/2006, le cui disposizioni si applicano in quanto compatibili con le attribuzioni previste dallo statuto della Regione siciliana e dalle relative norme di attuazione) si legge che “qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall’ente pubblico per effetto di particolari convenzioni e concessioni dell’ente ……….. la tariffa è riscossa dal soggetto che gestisce i servizi pubblici”. Non risulta pertanto difficile concludere, che almeno a livello nazionale, si fosse convinti di aver concluso una convenzione avente ad oggetto una concessione e non un appalto. Sul piano del diritto nazionale va rilevato come soltanto di recente, sulla scia della direttiva 2004/18/CE (10), sia stata fornita una nozione di concessione di servizi. A tal riguardo vale la pena richiamare l’art. 3, comma 10 e 12 e l’art. 30 del D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163, e successive modificazioni (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori servizi e forniture, emanato in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). In particolare, il comma 12 dell’art. 3 dispone che “la concessione di servizi è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo, in conformità all’art. 30”; e secondo tale ultimo articolo “le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di servizi” ; al 2° comma poi si legge che “nella concessione di servizi la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio…”. (10) In verità, un primo tentativo di definizione del fenomeno a livello normativo era contenuto in una prima proposta della Direttiva servizi, in base alla quale doveva intendersi per “concessione di pubblico servizio…un contratto diverso dalla concessione di lavori pubblici…conclusi tra un amministratore ed un altro ente di sua scelta in forza del quale l’amministrazione trasferisce all’ente l’esecuzione di un servizio pubblico di sua competenza e l’ente accetta di svolgere tale attività avendo come corrispettivo il diritto di sfruttare il servizio oppure tale diritto accompagnato da controprestazione pecuniaria”. Tale passo della Proposta venne poi stralciato dal testo definitivo della direttiva 92/50, come ricorda G. GRECO, Appalti pubblici di servizi e concessioni di servizio pubblico, F. MASTRAGOSTINO (a cura di), Padova, 1998, p. 8. 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Pertanto la concessione si presenta come una mera modalità di erogare a terzi gli stessi servizi che le pubbliche amministrazioni possono garantire attraverso l’appalto. Più di recente il TAR Lombardia (sez. I, sent. 9 gennaio 2007 n. 4) affermando che la distinzione tra appalto e concessione si individua in relazione al rischio inerente alla gestione del servizio, ha considerato sussistenti i presupposti dell’appalto quando il corrispettivo viene pagato al prestatore direttamente dall’Amministrazione aggiudicatrice, mentre ricorrono i presupposti della concessione quando “la remunerazione del prestatore di servizi proviene non già dall’autorità pubblica interessata, bensì dagli importi versati dai terzi per l’utilizzo del servizio, con la conseguenza che il prestatore assume il rischio della gestione dei servizi in questione” (11). Si potrebbe altresì affermare che il concessionario assume su di sé il rischio della gestione anche nell’ipotesi, tra l’altro supportata normativamente dall’art 30, 1° comma del Codice dei contratti pubblici, in cui il diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio reso sia integrato da una remunerazione in denaro “qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio reso”. In dottrina è stato affermato che se è vero che la distinzione tra concessione e appalto pubblico di servizi passa attraverso il carattere oneroso del servizio - inteso in senso economico e finanziario - è anche vero che non bisogna confondere l’aspetto del corrispettivo con le “particolari modalità di pagamento, dipendenti dal sistema di prelievo” le quali costituiscono “un elemento estrinseco ed occasionale”. Pertanto si conclude nel senso della qualificazione “di vere e proprie concessioni, nel caso, ad esempio, della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, i cui oneri non si può certo dire che non siano sostenuti dagli utenti sol perché su di essi gravano tasse e non tariffe. Le tasse – che sono, com’è noto, in funzione e in proporzione del servizio reso – costitui- (11) Si veda anche la sentenza del Consiglio di Stato, 15 maggio 2002, n. 2634, sez. VI, secondo la quale “è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi. Pertanto un servizio pubblico si rivela quale appalto di servizi quando il suo onere sia interamente a carico dell’amministrazione, mentre se il servizio venga reso non a favore dell’amministrazione ma di una collettività indifferenziata di utenti e venga almeno in parte pagato dagli utenti all’operatore del servizio allora si è in ambito concessorio”. Cfr. anche la sentenza del Consiglio di Stato , 30 aprile 2002, n. 2294, sez. V, a mente della quale non è sufficiente la trilateralità del rapporto tra amministrazione, concessionario ed utenti per configurare una concessione di servizi, risultando rilevante il fatto che il rischio economico della gestione sia a carico del concessionario, con la conseguenza che la stessa attività può essere conferita in appalto o in concessione a seconda dell’imputazione del rischio della gestione in capo all’uno o all’altro contraente. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 73 scono pur sempre ricavi dello “sfruttamento” del servizio reso e sono ben diverse dall’eventuale ulteriore corrispettivo a carico dell’Amministrazione, per i casi in cui il servizio non sia idoneo ad autofinanziarsi” (12). Per mera esigenza di completezza preme ricordare che il Decreto Ronchi (D.Lgs.22/97 abrogato dal D.Lgs. 152/2006, cd. Codice dell’ambiente, e successive modificazioni), ha previsto l’ introduzione obbligatoria della TIA (la Tariffa di Igiene ambientale) diretta a sostituire la Tassa per lo smaltimento Rifiuti (Tarsu). La tassa e la tariffa non presentano particolari differenze sul piano tecnico-giuridico (13); tuttavia è rilevante soffermarsi sulla struttura della tariffa, la quale infatti, articolata per fasce di utenza e territoriali, si presenta divisa in due parti: una quota fissa, determinata “in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e relativi ammortamenti”, ed una quota variabile in relazione alla quantità di rifiuti prodotti, e cioè “rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio” (art. 49, comma 4, D.Lgs.22/97, corrispondente all’attuale art. 238, 4° comma del Codice dell’ambiente). Si potrebbe in tal caso convenire con il governo italiano che i “servizi in questione sarebbero erogati direttamente agli utenti, ossia alla collettività degli abitanti che producono i rifiuti, abitanti sui quali graverebbe alla fine il costo della tariffa versata all’operatore ” (punto 24) e che “l’obbligo di smaltire rifiuti con produzione di energia …rientrerebbe nell’oggetto delle convenzioni controverse” essendo “tipico che la remunerazione di una concessione provenga non solamente dal prezzo pagato dall’utente ma anche da altre attività connesse al servizio erogato”. In effetti le rimostranze dei cittadini siciliani, preoccupati dell’aumento dei costi del servizio di smaltimento rifiuti al fine di garantirne il corretto ed efficiente espletamento, potrebbe essere un dato chiaro e sufficiente a provare che è proprio sugli abitanti che graverebbe il costo della tariffa versata all’operatore, con conseguente affidamento del servizio secondo lo schema proprio della concessione e non già dell’appalto. (12) In questo senso si è espresso G. GRECO, in Appalti di servizi e concessioni di servizio pubblico, op. cit., pp. 15-16. (13) La tassa rappresenta, da un punto di vista economico, il corrispettivo legato alla emanazione di un atto o di un provvedimento amministrativo o ancora alla prestazione di un servizio, mentre dal punto di vista giuridico è un tributo, un’obbligazione avente come presupposto la funzione di un servizio pubblico o l’adozione di un atto amministrativo. La tariffa è invece il prezzo, il corrispettivo di un contratto privatistico in virtù del quale l’utente riceve un servizio pubblico liberamente richiesto. La Cassazione a SS.UU. ha affermato che la tariffa è comunque una tassa presentando di quest’ultima gli stessi requisiti, con un meccanismo strutturato a tariffa (Cass. SS.UU., 1 marzo 2002, n. 3030). La tariffa può dunque riguardare qualsiasi forma di imposizione tributaria, avendo essa soltanto la funzione di equilibrare il quantum debeatur. 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ma ancora più a monte particolarmente difficoltosa si presenta la distinzione tra servizio pubblico e appalto di servizi, distinzione che nel caso che ci riguarda presenta una sua concreta utilità, soprattutto alla luce delle recentissime novità in materia, contribuendo a fornire una chiave di lettura degli argomenti forniti dalle parti in sede di ricorso. Al fine di tracciare la distinzione tra appalto di servizi e concessione di servizi pubblici, la dottrina tradizionale ha individuato una molteplicità di criteri utilizzabili, analiticamente elencati nella circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, n. 3944 del 1° marzo 2002 (Procedure di affidamento delle concessioni di servizi e di lavori) quali: 1. Il carattere surrogatorio dell’attività svolta dal concessionario di pubblico servizio contrapposta all’attività di mera rilevanza economica svolta dall’appaltatore nell’interesse del committente pubblico; 2. la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio pubblico, che si contrappone al carattere negoziale dell’appalto; 3. il trasferimento di potestà pubbliche in capo al concessionario, contrapposte alle prerogative proprie di qualsiasi soggetto economico riconosciute all’appaltatore che non opera quale organo indiretto dell’amministrazione; 4. l’effetto accrescitivo tipico della concessione. Il Consiglio di Stato, nella successiva sentenza n. 2294 del 30 aprile 2002 (sez. V), ha individuato come criterio più convincente quello relativo all’oggetto dei contrapposti istituti “che si riflette anche sulla fisionomia dei rapporti considerati”. Pertanto, mentre l’appalto di servizi “riguarda, di regola, servizi resi alla PA e non al pubblico degli utenti; non comporta il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione accompagnata eventualmente da un prezzo e l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario” (14), la concessione di servizi riguarda sempre un articolato rapporto trilaterale, che interessa l’amministrazione, il concessionario e gli utenti del servizio. Ciò comporta di regola ulteriori conseguenze in ordine alla individuazione dei soggetti tenuti a pagare il corrispettivo dell’attivit à svolta. Solitamente nella concessione di pubblici servizi il costo del servizio grava sugli utenti mentre negli appalti di servizi spetta all’amministrazione l’onere di compensare l’attività svolta dal privato. Tale criterio integrativo assume peraltro un apprezzabile significato quando il servizio reso, per le sue caratteristiche oggettive è divisibile tra gli utenti che ne beneficiano. Il Consiglio di Stato poi prosegue affermando “l’oggetto del rapporto riguardante il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, è riconducibile senz’altro alla figura dell’affidamento di un servizio pubblico: le prestazio- (14) In tal senso, F. MASTRAGOSTINO, Le concessioni di servizi, R.GAROFOLI e M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo diritto degli appalti pubblici: nella direttiva 2004/18/CE e nella legge comunitaria n. 62/2005, Milano, 2005 p. 108. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 75 ni richieste al privato “appaltatore” sono rivolte non già a vantaggio dell ’amministrazione, ma riguardano in modo generalizzato, le collettività locali rappresentate dai due comuni”. Anche alla luce di tale precedente, che tra l’altro interviene proprio sul problema dello smaltimento dei rifiuti, oggetto delle convenzioni “controverse ”, si può affermare che il caso di specie può essere agevolmente configurato come concessione. Le attuali disposizioni introdotte nel Contratto degli appalti pubblici dispongono che l’affidamento della gestione dei servizi possa avvenire secondo una procedura particolare che rispetti, s’intende, le norme ed i principi sanciti dal Trattato e dalla giurisprudenza della Corte. Infatti l’art. 30 del Codice, che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento – ut supra ricordato - una specifica disciplina sulla concessione di servizi, prevede al 3° comma, che la scelta del concessionario avvenga sulla base di una gara informale in seguito a trattativa privata, a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, e con predeterminazione dei criteri selettivi. La trattativa privata, come è stato sottolineato in dottrina, costituisce un minimum inderogabile, che pertanto non vieta alla Pubblica Amministrazione concedente, ma neppure obbliga la medesima, a procedere ad una vera e propria gara ad evidenza pubblica completa (15). Tale gara, sebbene informale, oltre ad essere in linea con il diritto comunitario consente inoltre di pervenire alla scelta del concessionario in maniera più semplice rispetto a quanto accade per la concessione di lavori pubblici, e ciò in sintonia con le finalità perseguite dalla legge 62/2005 (legge comunitaria 2004), che, nel delegare il Governo al recepimento delle direttive comunitarie sugli appalti 2004/18 e 2004/17, ha imposto non soltanto la raccolta in un unico testo normativo della disciplina degli appalti e concessioni di rilevanza comunitaria e degli appalti e concessioni sotto soglia, ma ha previsto che tale obiettivo fosse perseguito nel rispetto dei principi di semplificazione, riduzione dei tempi e massima flessibilità degli strumenti giuridici. Tale procedura trova il suo noto antesignano nella disciplina della finanza di progetto, definita come “concessione di costruzione e gestione ad inziativa privata” (16), la cui disciplina è stata inserita nella legge quadro in materia di lavori pubblici (L. 109/94, cd. Legge Merloni) dalla L. 415 del 1998, e ha subito notevoli modifiche con la successiva legge 166 del 2002 (cd. Legge Merloni quater). Attualmente l’intera normativa è confluita nel recen- (15) In questo senso E. MELE, in AA.VV., Commento al codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Torino, 2007, pp. 86-87. Tale concessione ha in comune con quella di servizi pubblici lo svolgimento di un’attività riconducibile alla categoria del servizio pubblico. (16) Definizione di G. FIDONE, in Aspetti giuridici della finanza di progetto, Luiss University press, 2007, p. 44. 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO te Codice dei contratti pubblici (agli artt. 152-160), senza tuttavia subire sostanziali cambiamenti. La disciplina in questione è diretta a realizzare un bilanciamento fra l’esigenza di efficienza ed effettività dei risultati e la necessità che vengano rispettati i modelli procedimentali, in sintonia con il principio di legalità dell ’azione amministrativa (17). Gli artt. 37 bis e seguenti della Legge quadro hanno introdotto, dunque, nel nostro ordinamento un nuovo modo di avviare la realizzazione di lavori in concessione, ad iniziativa del soggetto privato. È previsto infatti che quest ’ultimo possa presentare alle amministrazioni aggiudicatrici proposte di finanza di progetto per la realizzazione di lavori pubblici inseriti nella programmazione triennale o negli strumenti di programmazione formalmente approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente (v. art. 14, 2° comma della legge 109/94, recepito dall’art. 128 del Codice dei contratti). Entro venti giorni dalla avvenuta redazione dei programmi, le amministrazioni aggiudicatrici rendono pubblica la presenza, negli stessi programmi, di interventi realizzabili con capitali privati, suscettibili di gestione economica, con la pubblicazione di un avviso indicativo, il quale rileva ai fini della individuazione del momento iniziale dell’intera procedura per l’aggiudicazione della concessione. Si ritiene che il primo atto formale dell’amministrazione diretto a conferire rilevanza pubblica alla procedura di scelta del contraente per l’affidamento della concessione sia quello della pubblicazione dell’avviso in oggetto (18). Il riferimento a tale avviso indicativo non è casuale nel caso di specie, presentandosi anzi come possibile chiave di lettura delle difese approntate dallo Stato italiano nel ricorso che ci occupa, difese basate su orientamenti giurisprudenziali in tema di concessione (della quale il Project Financing rappresenta una alternativa), che, seppur richiamati in modo generico dal governo italiano sono profondamente radicati nella cultura giuridica nazionale, trovando oltremodo sostegno nella giurisprudenza più recente. E così, in tema di valutazione delle proposte nell’ambito della finanza di progetto, la sentenza del TAR Toscana n. 2860 del 2004 secondo la quale “pur se l’art. 37 ter legge 109/94 non procedimentalizza l’attività di valutazione dell’ amministrazione con espresso riferimento alle procedure di gara, (17) Il procedimento previsto per l’affidamento della concessione di costruzione e gestione, ex art. 37 bis della legge quadro, ha inizio con la presentazione di una proposta da parte di un privato, il promotore, avente ad oggetto l’esecuzione e la gestione di un intervento già inserito dalla PA nella propria programmazione triennale da realizzarsi con finanziamento privato. (18) Il Consiglio di Stato ha infatti in più occasioni affermato il carattere unitario della procedura per l’affidamento della concessione su iniziativa del promotore, sottolineando l’aspetto del tutto secondario della pubblicazione del bando di gara: in tal senso, Consiglio di Stato, sez. V, 20 ottobre 2002, n. 6847 e Consiglio di Stato sez. V, 10 febbraio 2004, n. 495. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 77 tuttavia la necessità che tale valutazione si svolga all’insegna dei criteri di par condicio e di trasparenza (richiesti per il corretto svolgimento delle vere e propri procedure di gara) appare intrinseca alla stessa natura para-concorsuale emergente nella scelta del promotore, quale attività volta a realizzare l’interesse pubblico alle migliori condizioni possibili per l’amministrazione aggiudicatrice”, è stata superata dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 6287 del 10 novembre 2005, con la quale è stato confermato l’orientamento tradizionale e corrispondente alla giurisprudenza maggioritaria secondo la quale la scelta della proposta, in caso di più aspiranti promotori per un medesimo intervento, è esercizio di un potere discrezionale della P.A. “in quanto riguarda la comparazione degli interessi rilevanti al momento attuale” e pertanto “il modulo procedimentale in parola e la natura delle determinazioni che il gestore del programma deve assumere nella scelta del promotore, non consentono di applicare analogicamente al procedimento in esame le regole dell’evidenza pubblica”. Spetta infatti all’amministrazione il compito di valutare se il progetto proposto abbia o meno i contenuti necessari a soddisfare l’interesse pubblico in funzione del quale il programma è stato concepito (19). Quanto poi alla distinzione tra “attività prioritarie” e “attività residuali” operata dal legislatore comunitario nella direttiva 92/50/CE, in base alla quale soltanto per le prime è prevista l’applicazione integrale della direttiva medesima, non è dato di sapere con certezza se i proventi derivanti dalla vendita di energia elettrica abbiano assunto o meno, nelle intenzioni delle parti, il carattere di remunerazione principale anziché accessoria rispetto alla tariffa ricevuta dal Commissario delegato, considerando che il recupero energetico è definito come “prevalente interesse pubblico” nel Decreto Ronchi (art. 9 D.Lgs.22/1997 abrogato dal Codice dell’ambiente; si ora il comma 7 art. 216), e che la produzione di energia elettrica è condizione necessaria per l’avviamento di un impianto di termovalorizzazione (All. I lett c), Ordinanza Commissariale 1° marzo 2005). Ora, se alla base della distinzione tra appalto pubblico e concessione assume rilevanza la nozione di rischio, le considerazioni che precedono portano chiaramente in nuce la soluzione al contrasto sollevato dalla Commissione nel caso di specie: un rischio infatti sussiste anche in questo caso in capo al concessionario il quale è tenuto comunque a sopportare i costi della gestione già per la “semplice” attività di recupero dell’energia, con la conseguenza che gli eventuali e successivi proventi presentano un carattere (19) Si tratta di un orientamento assai diffuso tra i TAR e sostenuto più volte dall’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici, che trova il proprio risalente fondamento nella legge 24 giugno 1929, n. 1137, che ha riconosciuto la parità tra concessioni a soggetti privati e pubblici, attribuendo una notevole discrezionalità alla PA nella scelta dei concessionari. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO comunque aleatorio, riposando in questo caso il rischio sull’utile stesso; un rischio inoltre si individua anche nella consistenza finanziaria degli investimenti effettuati dal concessionario e nella durata ventennale delle convenzioni controverse, dati rilevanti che sottendono l’assunzione di un rischio da parte dell’operatore al fine di garantire la stabilità, l’efficienza e la continuit à del servizio, anche attraverso la assidua manutenzione degli impianti. A sostegno di quanto precede appare opportuno un richiamo (completo e non limitato solo ad alcune sue parti come invece risulta dal testo della sentenza de qua) all’art. 5 dell’ O.P.C.M. n. 3190/2002, secondo il quale “Il Commissario delegato – Presidente della regione siciliana, sentito il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, stipula convenzioni per la durata massima di venti anni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della Regione siciliana, con operatori industriali che si impegnino a trattare in appositi impianti la frazione residuale dei rifiuti e ad utilizzarla in impianti di termovalorizzazione con recupero di energia da realizzarsi in siti idonei ovvero in propri impianti industriali o di cui abbiano la disponibilità gestionale, esistenti nel territorio della regione, ivi compresi quelli per la produzione di energia elettrica in sostituzione totale o parziale di combustibili ora impiegati”. La fattispecie concessoria presenta la caratteristica di essere costituita da due atti: un provvedimento amministrativo (la concessione) e un contratto, in genere qualificato di diritto privato. Mentre il provvedimento contiene la determinazione con cui l’amministrazione dispone dell’interesse pubblico connesso al bene e ha lo scopo di giustificare la scelta del concessionario dal punto di vista dei principi di imparzialità e buon andamento, il contratto, che svolge un ruolo attuativo, strumentale ed accessorio, regola gli aspetti patrimoniali del rapporto, le responsabilità ed i rischi connessi alla concessione del servizio, costituendo il fondamento delle obbligazioni che il provvedimento non è in grado di imporre autonomamente (20). Scopo di un contratto è quello di stabilire la distribuzione dei profitti e delle perdite contrattuali con le varie conseguenze che da ciò possono derivare nello scambio di beni o servizi. Un rischio è pertanto insito nella stessa stipulazione del contratto, con tutte le circostanze che possono influire sull ’adempimento (21). (20) In tal senso D. SORACE - C. MARZUOLI, in Digesto delle discipline pubblicistiche, voce “Concessioni Amministrative”, vol. III, Torino, 1989, p. 284. (21) I problemi connessi al rischio e alla stessa nozione di rischio sono stati analizzati da G. ALPA, in Enciclopedia del Diritto, voce “Rischio” (dir. vig.), vol. XV, Milano, 1989, pp. 1144 e ss., il quale fa riferimento anche al rischio connesso alla diminuita soddisfazione economica dell’affare, per la preesistenza, o la sopravvenienza di circostanze, previste, prevedibili o non previste e non prevedibili che non comportano inadempimento in senso tecnico ma sconvolgimento dell’economia originaria dell’affare. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 79 La distinzione tra appalto e concessione di servizi pubblici (22) è, come più volte ricordato, particolarmente delicata per le implicazioni che ne derivano sul piano degli effetti e della individuazione della normativa di volta in volta applicabile. Già la definizione di servizio pubblico presenta difficoltà interpretative non solo nell’ordinamento amministrativo, ma anche in quello comunitario, ove la locuzione “servizi pubblici” è più spesso sostituita da quella di “servizi di interesse economico generale” e “servizi universali”. Più di recente la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204, pur non intervenendo in maniera esplicita nel settore dei pubblici servizi, ha condizionato la sussistenza di questi ultimi alla presenza di atti di concessione o affidamento o ad altri provvedimenti della pubblica amministrazione, che riguardino anche la vigilanza e il controllo nei confronti del gestore del servizio pubblico. Inoltre, la sentenza della Corte Costituzionale 27 luglio 2004, n. 272 ha evidenziato come i servizi pubblici non possano essere visti solo come attivit à imprenditoriali da regolare secondo le norme della concorrenza dovendo riconoscersi un ruolo particolare anche alla attività istitutiva ed organizzativa della pubblica amministrazione nella fase della prestazione del servizio pubblico, in particolare quando quest’ultimo è affidato a privati. Nello stesso senso, sul piano comunitario risulta che, potendo il servizio essere gestito e materialmente condotto non solo da soggetti pubblici ma anche da soggetti privati, esso non si identifica con qualsiasi attività sottoposta a programmi pubblici o autorizzazioni amministrative, ma con prestazioni alla collettività e agli utenti per le quali è centrale il ruolo di affidamento da parte della pubblica amministrazione. È stato affermato pertanto in dottrina, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 86 (ex art. 90) del Trattato CE, secondo il quale le imprese, sia pubbliche che private sono incaricate della gestione dei servizi di interesse (economico) generale e hanno una “specifica missione loro affidata”, che “non sussiste il servizio pubblico per il solo svolgimento di una determinata attivit à di prestazioni di servizi da parte delle imprese, ma in quanto vi è stato un incarico o affidamento del compito, pur nel rispetto dei principi di concorrenza e delle libertà economiche che devono ispirare la gestione (condu- (22) Per inciso, occorre rilevare che il Codice dei Contratti pubblici parla di concessione di servizi e non di concessioni di servizio pubblico, in linea con l’accezione comunitaria di concessione che prescinde dall’oggetto e dunque dal tipo di servizio reso, consentendo l’affidamento in concessione di tutti i servizi idonei ad essere gestiti economicamente. Si è rilevato che l’appalto di servizi può ricorrere anche “nel caso di servizi a favore del pubblico, allorché il rischio economico della gestione o la parte più significativa di esso resti a carico dell’amministrazione concedente”. Pertanto nulla vieta che una medesima attività possa essere ascritta, in relazione all’imputabilità/rischio di gestione, tanto al modello concessorio quanto alla figura dell’appalto di servizi”. In tal senso, F. MASTRAGOSTINO in Le concessioni di servizi, op. cit., pp. 108-109. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione) del servizio pubblico una volta affidato” (23). Si sottolinea come tale aspetto sia ulteriormente avvalorato “dal testo di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, ove, riprendendosi l’art. 16 del Trattato CE, si stabilisce che per i servizi di interesse economico generale le Autorità pubbliche provvedono affinché «tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti», precisandosi inoltre che «la legge europea stabilisce principi e fissa tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel rispetto della Costituzione, di fornire, far eseguire e finanziare tali servizi» (art.III-122). Pertanto anche in base al diritto europeo il servizio pubblico o di interesse generale non è qualsivoglia attività economica di prestazione di servizi, ma quella rispetto alla quale la pubblica amministrazione svolge un ruolo di istituzione e/o organizzazione, fermo restando che il servizio pubblico ben può essere e sempre più sarà gestito da soggetti privati in forza di un atto amministrativo (anche consensuale) di «incarico» o «affidamento»…” Eppure, nonostante i frequenti interventi di dottrina e giurisprudenza in materia, le difficoltà di giungere ad una nozione univoca del fenomeno permangono tanto nel diritto interno quanto nel diritto comunitario, perché la necessità di conciliare interessi spesso contrapposti ma ugualmente rilevanti si scontra altrettanto spesso con l’esigenza di operare classificazioni nelle quali collocare stabilmente categorie di istituti che al contatto con la realtà non sono più agevolmente riconducibili a classi omogenee. A tali considerazioni si giunge già semplicemente confrontando la situazione di emergenza nella quale è stato chiamato ad operare il Commissario delegato con le esigenze di trasparenza e di pubblicità imposte dalla Comunità nella selezione degli operatori affidatari del servizio di smaltimento dei rifiuti (24). È evidente come la necessità di rimediare al disagio ambientale che negli ultimi decenni ha interessato (e continua ad interessare) non soltanto la Sicilia ma anche il Lazio, la Campania, la Puglia e la Calabria, abbia determinato una restrizione della concorrenza nelle procedure di affidamento di opere e servizi, imponendo un sacrificio tanto agli operatori dei Paesi terzi quanto agli operatori nazionali. Spunti interessanti in tal senso si rinvengono nella Relazione della Corte dei Conti (Programma delle attività di controllo sulla gestione per l’anno (23) Si vedano le considerazioni di G. CAIA, in Diritto Amministrativo, II, Parte Speciale e Giustizia Amministrativa, AA.VV (a cura di), 2005, Bologna, pp. 135 ss. (24) Il bando si rivolgeva ad “operatori industriali che si impegnino, a far tempo dal 31 marzo 2004, a trattare in appositi impianti la frazione residuale dei rifiuti e ad utilizzarla in impianti di termovalorizzazione con recupero di energia da realizzarsi in siti idonei ovvero in propri impianti industriali, o di cui abbiano la disponibilità gestionale, esistenti nel territorio della Regione, ivi compresi quelli per la produzione di energia elettrica in sostituzione totale o parziale di combustibili ora impiegati”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 81 2005) nella quale si pone in evidenza che “L’avviso pubblico per la stipula delle convenzioni riguardanti il sistema di gestione integrato per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti solidi urbani al netto della raccolta differenziata, in ottemperanza alle ordinanze 2983/2002 e 3190/2002, fu pubblicato in data 9 agosto 2002, imponendo, peraltro, un termine assai breve di 80 giorni (il minimo previsto dalla legge nazionale vigente) per la presentazione della proposta di partecipazione alla gara, sul presupposto dell’urgenza”. Come spesso accade quando più valori egualmente rilevanti vengono a trovarsi in reciproca tensione tra loro, nel senso che il soddisfacimento dell’uno comporta inevitabilmente un sacrificio, più o meno accentuato, dell’altro, si crea la necessità di un bilanciamento tra gli stessi (25), che necessita inevitabilmente di una considerazione effettiva del dato reale e cioè se, nel caso di specie la situazione di grave disagio ambientale nel quale si trovano a vivere i cittadini siciliani possa o meno essere considerata come prioritaria rispetto alla necessità di osservare una procedura che impone attività e adempimenti ulteriori che inevitabilmente rallentano la realizzazione di un rilevante servizio pubblico, attribuito, secondo la Corte di Giustizia, a titolo di appalto anziché di concessione. Dott.ssa Cinzia F. Coduti (*) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione seconda, sentenza 18 luglio 2007 nella causa C-382/05 (ricorso per inadempimento) - Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. K. Schiemann – Avv. Gen. J. Mazák «1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che, dato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione civile – Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia ha indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della Regione Siciliana e ha concluso le dette convenzioni senza applicare le procedure previste dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1), come modificata dalla direttiva della Commissione 13 settembre 2001, 2001/78/CE (G.U. L 285, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 92/50»), e, in particolare, senza la pubblicazione dell’apposito bando di gara sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della predetta direttiva e, in particolare, dei suoi artt. 11, 15 e 17. (25) Si leggano al riguardo le significative pagine di A. D’ATENA dedicate all’argomento, in Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 2006 pp. 14 ss. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO CONTESTO NORMATIVO Normativa comunitaria 2.- L’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50 stabilisce: «a) “appalti pubblici di servizi”, i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice (…)» 3.- L’art. 8 di tale direttiva dispone: «Gli appalti aventi per oggetto servizi elencati nell’allegato I A vengono aggiudicati conformemente alle disposizioni dei titoli da III a VI». 4 .- L’art. 15, n. 2, della direttiva 92/50, il quale figura nel titolo V di quest’ultima, recita: «Le amministrazioni che intendono aggiudicare un appalto pubblico di servizi mediante procedura aperta, ristretta o, nei casi stabiliti nell’art. 11, negoziata, rendono nota tale intenzione con un bando di gara». 5.- Ai sensi dell’art. 17 della direttiva 92/50: «1. I bandi o avvisi vanno redatti conformemente ai modelli contenuti negli allegati III e IV e devono fornire le informazioni richieste in tali modelli (…). 4. I bandi di gara di cui all’art. 15, nn. 2 e 3, sono pubblicati per esteso nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee e nella banca di dati TED, nelle rispettive lingue originali. Un riassunto degli elementi importanti di ciascun bando viene pubblicato nelle altre lingue ufficiali delle Comunità; il testo nella lingua originale è l’unico facente fede. (…)». 6.- L’allegato I Adella direttiva 92/50, intitolato «Servizi a norma dell’art. 8», comprende segnatamente la categoria 16, denominata «Eliminazione di scarichi di fogna e di rifiuti; disinfestazione e servizi analoghi», alla quale corrisponde il numero di riferimento CPC 94. 7.- L’allegato III di detta direttiva contiene in particolare i modelli di «avviso indicativo » e di «bando di gara d’appalto». Normativa nazionale 8.- L’art. 4 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 31 maggio 1999, n. 2983 (GURI n. 132 dell’8 giugno 1999), come modificata dall’ordinanza 22 marzo 2002, n. 3190 (in prosieguo: l’«ordinanza n. 2983/99»), dispone: «Il Commissario delegato, Presidente della Regione Siciliana, sentito il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio, stipula convenzioni per la durata massima di venti anni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della Regione Siciliana (…). A tal fine il Commissario delegato, Presidente della Regione Siciliana, individua gli operatori industriali in base a procedure di evidenza pubblica, in deroga alle procedure di gara comunitarie (…)». 9.- Le parole «in deroga alle procedure di gara comunitarie» di cui alla predetta disposizione sono state soppresse per effetto dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 gennaio 2004, n. 3334 (GURI n. 26 del 2 febbraio 2004). FATTI DI CAUSA E PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO 10.- Con ordinanza 5 agosto 2002, n. 670, il Presidente della Regione Siciliana, agendo nella sua qualità di Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia (in prosieguo: il «Commissario delegato») e in base all’art. 4 dell’ordinanza n. 2983/99, ha approvato un documento intitolato «Avviso pubblico per la stipula di convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nella Regione Siciliana» (in prosieguo: l’«avviso controverso»). L’avviso controverso comprende tre allegati. L’allegato Aenuncia le «[l]inee guida per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata prodotta nei Comuni della Regione Siciliana». L’allegato B s’intitola «Piano finanziario riassuntivo» e l’allegato C contiene una convenzione tipo da stipulare con gli operatori prescelti (in prosieguo: la «convenzione tipo»). 11.- Il 7 agosto 2002, un avviso relativo alle convenzioni summenzionate, predisposto sulla base del modello di avviso denominato «Avviso indicativo» contenuto nell’allegato III della direttiva 92/50, è stato inviato all’Ufficio delle pubblicazioni. Tale avviso è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee (G.U. S 158, versione elettronica) in data 16 agosto 2002. 12.- L’avviso controverso è stato invece pubblicato il 9 agosto sulla Gazzetta ufficiale della Regione Siciliana. 13.- Avendo ricevuto un reclamo riguardante tale procedura, il 15 novembre 2002 la Commissione ha trasmesso alle autorità italiane una lettera di richiesta di informazioni, alla quale queste ultime hanno risposto con lettera del 2 maggio 2003. 14.- Il 17 giugno 2003, il Commissario delegato ha stipulato quattro convenzioni, ricalcate sostanzialmente sulla convenzione tipo, rispettivamente con la Tifeo Energia Ambiente S.c.p.a., la Palermo Energia Ambiente S.c.p.a., la Sicil Power S.p.A. e la Platani Energia Ambiente S.c.p.a. (in prosieguo: le «convenzioni controverse»). 15.- Il 17 ottobre 2003, la Commissione, ai sensi dell’art. 226 CE, ha inviato alla Repubblica italiana una lettera di diffida imputando a tale Stato membro una violazione della direttiva 92/50, in particolare degli artt. 11, 15 e 17 di quest’ultima. Non soddisfatta della risposta del 1°aprile 2004 a tale diffida, in data 9 luglio 2004 la Commissione ha trasmesso alla Repubblica italiana un parere motivato invitando quest’ultima a porre fine all’inadempimento contestatole entro il termine di due mesi. 16.- Nella loro risposta al predetto parere motivato, intervenuta il 24 settembre 2004, le autorità italiane hanno contestato l’inadempimento sopra citato. 17.- Non giudicando soddisfacente siffatta risposta, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. SUL RICORSO Argomenti delle parti 18.- La Commissione sostiene che le convenzioni controverse costituiscono appalti pubblici di servizi ai sensi dell’art. 1 della direttiva 92/50 e che non sono state concluse nel rispetto dei requisiti di pubblicità derivanti da tale direttiva. Essa rileva, in particolare, che l’avviso pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee non è stato pubblicato mediante il modello di bando di gara d’appalto prescritto dall’allegato III di suddetta direttiva per l’aggiudicazione di appalti pubblici, bensì facendo uso del modello cosiddetto «indicativo» di cui al medesimo allegato. I prestatori di servizi non nazionali sarebbero stati inoltre discriminati rispetto agli operatori nazionali che hanno beneficiato di un bando di gara d’appalto dettagliato pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Regione Siciliana. 19.- Secondo la Commissione, le convenzioni controverse non possono essere qualificate come concessioni di servizi escluse, come sostenuto dalla Repubblica italiana, dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50. Infatti, la remunerazione degli operatori non consisterebbe nel loro diritto di sfruttare la propria prestazione riscuotendo proventi presso l’utente e assumendosi nel contempo tutti i rischi legati a detta attività. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 83 20.- Da un lato, la remunerazione dell’operatore consisterebbe, nella fattispecie, in una tariffa versatagli direttamente dal Commissario delegato, tariffa il cui importo viene fissato, dalle convenzioni controverse, in euro per tonnellata di rifiuti trasferita all’operatore dai comuni. Per quanto riguarda i redditi che l’operatore sarebbe, peraltro, in grado di trarre dalla vendita di energia elettrica prodotta in occasione della termovalorizzazione dei rifiuti, essi non costituirebbero un elemento del corrispettivo di detto operatore. 21.- D’altro lato, l’operatore non sopporterebbe il rischio inerente a tale attività, poich é, in particolare, le convenzioni controverse gli garantiscono il conferimento di un quantitativo annuo minimo di rifiuti, mentre prevedono l’adeguamento annuo dell’importo della tariffa al fine di tener conto dell’evoluzione dei costi da lui sostenuti. Inoltre, tali convenzioni contemplerebbero un adeguamento di suddetta tariffa nell’ipotesi in cui la quantità annua effettiva di rifiuti conferita risulti minore del 95% ovvero maggiore del 115% rispetto alla quantità minima garantita, e ciò al fine di garantire l’equilibrio economico e finanziario dell’operatore. 22.- Il governo italiano sostiene, all’opposto, così come emerge in particolare dalla giurisprudenza nazionale, che le convenzioni controverse configurano concessioni di servizi escluse dal campo di applicazione della direttiva 92/50. 23.- In primo luogo, tali convenzioni avrebbero ad oggetto la delega di un servizio di interesse generale la cui continuità dev’essere garantita dall’operatore. 24.- In secondo luogo, i servizi in questione sarebbero erogati direttamente agli utenti, ossia alla collettività degli abitanti dei comuni che producono i rifiuti, abitanti sui quali graverebbe alla fine il costo della tariffa versata all’operatore, dovendo essi pagare ai comuni una tariffa che copre tanto la raccolta quanto il trattamento dei rifiuti, e i quali remunerebbero dunque tali servizi. Il Commissario delegato svolgerebbe, a tal riguardo, unicamente un ruolo di intermediario. 25.- In terzo luogo, l’obbligo di smaltire i rifiuti con produzione di energia e, pertanto, la vendita di quest’ultima, rientrerebbe appunto nell’oggetto delle convenzioni controverse. Sarebbe d’altronde tipico che la remunerazione di una concessione provenga non solamente dal prezzo pagato dall’utente, ma anche da altre attività connesse al servizio erogato. 26.- In quarto luogo, e tenuto conto dell’importanza finanziaria degli investimenti effettuati dall’operatore, che sarebbero vicini ad un miliardo di euro, nonché alla lunga durata delle convenzioni controverse, vale a dire 20 anni, i proventi da realizzare da parte dell ’operatore presenterebbero carattere aleatorio tanto più che una parte di essi deriverebbe dalla vendita dell’energia prodotta. 27.- In quinto luogo, la responsabilità dell’organizzazione e della gestione dei servizi in tal modo delegati graverebbe esclusivamente sull’operatore, visto che l’amministrazione si limita ad un mero ruolo di vigilanza. 28.- Per quanto riguarda le concessioni di servizi, la trasparenza richiesta potrebbe essere garantita con ogni mezzo appropriato, fra cui la pubblicazione, come nella specie, di un avviso in quotidiani nazionali specializzati. Giudizio della Corte 29.- Come risulta da una giurisprudenza costante, le concessioni di servizi sono escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50 (v., in particolare, sentenze 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 9, nonché 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen, Racc. pag. I-8585, punto 42). 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 30.- Poiché il governo italiano ha insistito diverse volte sul fatto che, secondo la giurisprudenza nazionale, convenzioni come quelle controverse devono essere qualificate come concessioni di servizi, è opportuno rammentare, in via preliminare, che la definizione di appalto pubblico di servizi rientra nella sfera del diritto comunitario, per cui la qualificazione delle convenzioni controverse nell’ordinamento italiano non è pertinente al fine di accertare se queste ultime rientrino nell’ambito d’applicazione della direttiva 92/50 (v., in tal senso, sentenze 20 ottobre 2005, causa C-264/03, Commissione/Francia, Racc. pag. I-8831, punto 36, e 18 gennaio 2007, causa C-220/05, Auroux e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 40). 31.- Di conseguenza, la questione se le convenzioni controverse debbano o meno essere qualificate come concessioni di servizi va valutata esclusivamente alla luce del diritto comunitario. 32.- Atal proposito occorre rilevare, da un lato, che dette convenzioni prevedono il versamento, da parte del Commissario delegato all’operatore, di una tariffa il cui importo è fissato in euro per tonnellata di rifiuti conferita a quest’ultimo dai comuni interessati. 33.- Orbene, come statuito in precedenza dalla Corte, dalla definizione di cui all’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50 discende che un appalto pubblico di servizi ai sensi di tale direttiva comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi (citata sentenza Parking Brixen, punto 39). Ne consegue che una tariffa del tipo di quella prevista dalle convenzioni controverse può caratterizzare un contratto a titolo oneroso ai sensi dell’art. 1, lett. a), e quindi un appalto pubblico (v., per quanto riguarda il pagamento di un importo fisso per ogni bidone o cassonetto da parte di un comune ad una società incaricata in via esclusiva della raccolta e del trattamento di rifiuti, sentenza 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705, punti 8 e 32). 34.- D’altra parte, dalla giurisprudenza della Corte emerge che si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (v. sentenza 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress, Racc. pag. I-10745, punto 58, e ordinanza 30 maggio 2002, causa C-358/00, Buchhändler-Vereinigung, Racc. pag. I-4685, punti 27-28, nonché sentenza Parking Brixen, cit., punto 40). 35.- Orbene, a tal proposito è giocoforza constatare che le modalità di remunerazione previste dalle convenzioni controverse non rientrano nel diritto di gestire i servizi di cui trattasi, né implicano l’assunzione, da parte dell’operatore, del rischio legato a tale gestione. 36.- Infatti, non solo detto operatore risulta, in sostanza, remunerato dal Commissario delegato mediante una tariffa fissa conferitagli per tonnellata di rifiuti, come ricordato al punto 32 della presente sentenza, ma risulta assodato che, in forza delle convenzioni controverse, il Commissario delegato s’impegna, da una parte, a far sì che tutti i comuni interessati conferiscano all’operatore l’integralità della loro frazione residua di rifiuti e, dall’altra, a far sì che un quantitativo annuo minimo di rifiuti sia conferito a quest’ultimo. Tali convenzioni prevedono inoltre l’adeguamento dell’importo della tariffa nell’ipotesi in cui la quantit à annua effettiva di rifiuti conferiti sia minore del 95% o maggiore del 115% rispetto alla suddetta quantità minima garantita, ciò al fine di garantire l’equilibrio finanziario ed economico dell’operatore. Esse prevedono altresì che l’importo della tariffa sia annualmente rivalutato in relazione all’andamento dei costi relativi al personale, ai materiali di consumo e alle manutenzioni, nonché in relazione ad un indicatore finanziario. Queste stesse conven- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 85 zioni prevedono, inoltre, che la tariffa sia rinegoziata qualora, per conformarsi ad un mutamento del quadro normativo, l’operatore debba affrontare investimenti eccedenti un certo livello. 37.- Sulla scorta di quanto precede, le convenzioni controverse devono essere considerate come appalti pubblici di servizi soggetti alla direttiva 92/50 e non come concessioni di servizi da essa esclusi. 38.- Peraltro, nessuno degli argomenti addotti dal governo italiano per contestare tale qualificazione risulta convincente. 39.- Anzitutto, per quanto riguarda la circostanza che gli operatori sono in grado, oltre alla riscossione della tariffa pattuita, di beneficiare di proventi finanziari derivanti dalla rivendita dell’energia elettrica prodotta a seguito della termovalorizzazione dei rifiuti, giova ricordare che l’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50, il quale definisce la nozione di appalto pubblico, parla di un «contratto a titolo oneroso» e che l’onerosità di un contratto si riferisce alla controprestazione offerta al prestatore a motivo della prestazione di servizi prevista dall’amministrazione aggiudicatrice (v., in tal senso, citata sentenza Auroux e a., punto 45). 40.- Nella fattispecie, è evidente che la controprestazione ottenuta dall’operatore a fronte della prestazione di servizi prevista dal Commissario delegato, ossia il trattamento dei rifiuti conferiti con recupero di energia, consiste essenzialmente nel pagamento, da parte del Commissario delegato, dell’importo della tariffa. 41.- Anche supponendo che il prodotto della vendita di energia elettrica possa essere parimenti interpretato come corrispettivo dei servizi previsti dal Commissario delegato, in particolare, in ragione del fatto che nelle convenzioni controverse quest’ultimo si impegna ad agevolare tale vendita presso terzi, la sola circostanza che l’operatore, oltre alla remunerazione percepita a titolo oneroso dal detto Commissario delegato, sia così in grado di ricavare accessoriamente determinati proventi da terzi come corrispettivo della sua prestazione di servizi non può essere sufficiente a privare le convenzioni controverse della loro qualifica di appalti pubblici (v., per analogia, sentenza Auroux e a., cit., punto 45). 42.- Neppure la lunga durata delle convenzioni controverse e il fatto che la loro esecuzione sia accompagnata da rilevanti investimenti iniziali a carico dell’operatore costituiscono poi circostanze determinanti ai fini della qualificazione di siffatte convenzioni, giacché tali caratteristiche possono riscontarsi tanto negli appalti pubblici quanto nelle concessioni di servizi. 43.- Lo stesso vale per il fatto che il trattamento di rifiuti rientra nell’interesse generale. A tal proposito occorre d’altronde ricordare che, come emerge dall’allegato I A della direttiva 92/50, tra i «[s]ervizi a norma dell’art. 8», ai quali si può applicare la direttiva, figura la categoria dei servizi di «[e]liminazione di scarichi di fogna e di rifiuti; disinfestazione e servizi analoghi», rispetto alla quale la Corte ha in precedenza stabilito che essa ricomprende i servizi di raccolta e di trattamento dei rifiuti (v., in tal senso, citata sentenza Commissione/Austria, punto 32). 44.- Infine, neppure la circostanza che le prestazioni erogate dall’operatore siano eventualmente tali da richiedere, da parte di quest’ultimo, una notevole autonomia esecutiva risulta determinante per la qualificazione del contratto come appalto pubblico ovvero come concessione di servizi. 45.- Poiché le convenzioni controverse danno luogo ad appalti pubblici di servizi ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 92/50, la loro aggiudicazione poteva intervenire soltanto in osservanza delle disposizioni della predetta direttiva, in particolare dei suoi artt. 11, 15 e 17. Orbene, in forza di queste ultime l’amministrazione aggiudicatrice interessata era 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tenuta a pubblicare un avviso di bando di gara d’appalto conforme al modello previsto dall ’allegato III della suddetta direttiva, cosa che essa non ha fatto. 46.- Ne consegue che il ricorso della Commissione dev’essere accolto e che occorre dichiarare che, dato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione civile – Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia, ha indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della Regione Siciliana e ha concluso le dette convenzioni senza applicare le procedure previste dalla direttiva 92/50 e, in particolare, senza la pubblicazione dell’apposito bando di gara d’appalto nella Gazzetta ufficiale della Comunità europee, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della predetta direttiva e, in particolare, dei suoi artt. 11, 15 e 17. SULLE SPESE 47.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha chiesto la condanna della Repubblica italiana, che è rimasta soccombente, quest’ultima dev’essere condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce: 1) Dato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la protezione civile – Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in Sicilia, ha indetto la procedura per la stipula delle convenzioni per l’utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta differenziata, prodotta nei comuni della Regione Siciliana e ha concluso le dette convenzioni senza applicare le procedure previste dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, come modificata dalla direttiva della Commissione 13 settembre 2001, 2001/78/CE, e, in particolare, senza la pubblicazione dell ’apposito bando di gara d’appalto nella Gazzetta ufficiale della Comunità europee, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della predetta direttiva e, in particolare, dei suoi artt. 11, 15 e 17. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 87 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’obbligo di gara sulle concessioni di scommesse ippiche (Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 13 settembre 2007 nella causa C-260/04) La Corte, pur affermando che le concessioni di servizi pubblici come le agenzie ippiche italiane esulano dal campo di applicazione della direttiva sugli appalti n. 92/50, ha precisato: a) che le pubbliche Amministrazioni che li stipulano “sono tenute a rispettare le norme fondamentali del Trattato, in generale, e il divieto di discriminazione in base alla cittadinanza”; b) che tali principi “comportano, in particolare, un obbligo di trasparenza che permette all’autorità pubblica concedente di assicurarsi che tali principi siano rispettati. Tale obbligo di trasparenza gravante sulle anzidette autorità consiste nella garanzia, a favore di ogni potenziale offerente, di un adeguato livello di pubblicità che consenta l’apertura della concessione di servizi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione”; c) che il rinnovo senza gara delle 329 concessioni “storiche” può essere giustificato “in forza delle deroghe espressamente previste dagli artt. 45 CE e 46 CE, ovvero se possa essere giustificato, conformemente alla giurisprudenza della Corte, da motivi imperativi di interesse generale”; d) che nella fattispecie “il rinnovo delle vecchie concessioni dell’UNIRE senza gara non è idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla Repubblica italiana ed eccede quanto necessario per evitare che gli operatori attivi nel settore delle scommesse ippiche siano coinvolti in attivit à criminose o fraudolente”; e) che per quanto riguarda “i motivi di carattere economico sollevati dal Governo italiano, quale il fatto di garantire ai concessionari la continuità, la stabilità finanziaria ed un congruo rendimento per gli investimenti realizzati nel passato, è sufficiente ricordare che essi non possono essere riconosciuti come motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare la restrizione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato”. Corte di Giustizia delle Comunità europee, quarta sezione, sentenza 13 settembre 2007 nella causa C-260/04 – Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. De Bellis), sostenuta da: Regno di Danimarca, Regno di Spagna – Avv. gen. E. Sharpston – Rel. G. Arestis. «1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo rinnovato 329 concessioni per l’esercizio delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE, e in particolare ha violato il principio generale di trasparenza nonché l’obbligo di pubblicità derivanti dagli artt. 43 CE e 49 CE. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 89 CONTESTO NORMATIVO Normativa nazionale 2 -In Italia, la gestione dei giochi e delle scommesse ippiche era inizialmente riservata all’Unione Nazionale per l’Incremento delle Razze Equine (in prosieguo : l’«UNIRE»), che poteva scegliere tra la gestione diretta o l’affidamento a terzi dei servizi di raccolta ed accettazione delle dette scommesse. L’UNIRE ha affidato tale gestione alle agenzie ippiche. 3.- La legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 303 del 28 dicembre 1996), ha affidato successivamente l’organizzazione e la gestione dei giochi e delle scommesse relative alle corse ippiche al Ministero delle Finanze nonché al Ministero delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali, i quali sono stati autorizzati a provvedervi direttamente o tramite enti pubblici, società o allibratori da essi individuati. L’art. 3, comma 78, di tale legge disponeva che si sarebbe provveduto con regolamento al riordino della materia dei giochi e delle scommesse relativi alle corse ippiche, per quanto attiene agli aspetti organizzativi, funzionali, fiscali e sanzionatori, nonché al riparto dei proventi di tali scommesse. 4.- In attuazione di codesto articolo della predetta legge, il Governo italiano ha emanato il decreto del Presidente della Repubblica 8 aprile 1998, n. 169 (G.U.R.I. n. 125 del 1° giugno 1998; in prosieguo : il «decreto n. 169/1998»), il cui art. 2 disponeva che il Ministero delle Finanze attribuisce, d’intesa con il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, con gara da espletare secondo la normativa comunitaria, le concessioni per la gestione delle scommesse ippiche a persone fisiche e società in possesso dei requisiti richiesti. In via transitoria, l’art. 25 del decreto n. 169/1998 ha previsto una proroga fino al 31 dicembre 1998 delle concessioni attribuite dall’UNIRE, ovvero, nell’impossibilità di espletare le gare entro tale data, fino al 31 dicembre 1999. 5.- Il decreto ministeriale 7 aprile 1999 (G.U.R.I. n. 86 del 14 aprile 1999) ha poi approvato il piano di potenziamento della rete di raccolta ed accettazione delle scommesse ippiche allo scopo di portare da 329 a 1000 i centri di raccolta sull’intero territorio italiano. Mentre per le 671 nuove concessioni sono state indette gare d’appalto, la direttiva del Ministro delle Finanze 9 dicembre 1999 ha previsto il rinnovo delle 329 «vecchie concessioni» dell’UNIRE. In attuazione di tale direttiva, la decisione del Ministero delle Finanze 21 dicembre 1999 (G.U.R.I. n. 300 del 23 dicembre 1999; in prosieguo: la «decisione controversa») ha rinnovato dette concessioni per un periodo di sei anni, a partire dal 1° gennaio 2000. 6.- In seguito, il decreto legge 28 dicembre 2001, n. 452 (G.U.R.I. n. 301 del 29 dicembre 2001), convertito con modificazioni nella legge 27 febbraio 2002, n. 16 (G.U.R.I. n. 49 del 27 febbraio 2002), ha disposto, da una parte, che le «vecchie concessioni» sarebbero state riattribuite ai sensi del decreto n. 169/1998, vale a dire tramite gara a livello comunitario, e, dall’altra, che tali concessioni sarebbero rimaste valide fino alla loro definitiva riattribuzione. 7.- Infine, il decreto legge 24 giugno 2003, n. 147, recante proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali (G.U.R.I. n. 145 del 25 giugno 2003), convertito in legge 1° agosto 2003, n. 200 (G.U.R.I. n. 178 del 2 agosto 2003; in prosieguo : la «legge n. 200/2003»), prevede, al suo art. 8, primo comma, la ricognizione della situazione finanziaria di ciascun concessionario al fine di risolvere il problema del «minimo garantito», ossia della quota di prelievo che ogni concessionario era tenuto a versare all’UNIRE indipendentemente dal volume effettivo dei proventi relativi all’anno in corso, che si era rivelato eccessivo ed aveva condotto ad una crisi economica del settore delle scommesse ippiche. In ese90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO cuzione di tale legge, il commissario straordinario designato dall’UNIRE ha emanato la decisione 14 ottobre 2003, n. 107, la quale ha prorogato le concessioni già assegnate al fine di procedere alla determinazione delle somme da versare da parte dei concessionari fino al termine di scadenza dell’ultimo pagamento, individuato al 30 ottobre 2011 e, in ogni caso, fino alla data di assegnazione delle nuove concessioni tramite gara. FATTI E FASE PRECONTENZIOSA 8.- In seguito a una denuncia presentata da un operatore privato del settore delle scommesse ippiche, il 24 luglio 2001 la Commissione ha inviato alle autorità italiane una lettera di diffida ai sensi dell’art. 226 CE, la quale attirava la loro attenzione sull’incompatibilità con il principio generale di trasparenza e con l’obbligo di pubblicità, derivanti dagli artt. 43 CE e 49 CE, del sistema italiano di concessione dell’esercizio delle scommesse ippiche e, in particolare, del rinnovo, previsto dalla decisione controversa, delle 329 vecchie concessioni attribuite all’UNIRE senza gara. Il governo italiano ha risposto con lettere datate 30 novembre 2001 e 15 gennaio 2002, annunciando la predisposizione nonché l’adozione della legge 27 febbraio 2002, n. 16. 9.- Non essendo rimasta soddisfatta del seguito dato alle disposizioni di predetta legge, il 16 ottobre 2002 la Commissione ha emesso un parere motivato, invitando la Repubblica italiana ad adottare le misure necessarie per conformarsi ad esso entro due mesi dalla sua ricezione. Con lettera datata 10 dicembre 2002, il governo italiano ha risposto che, prima di dar corso alle gare, era necessario procedere ad una puntuale ricognizione della situazione finanziaria relativa ai titolari delle concessioni ancora in vigore. 10.- Non avendo ricevuto alcuna informazione supplementare riguardo alla conclusione di suddetta operazione di ricognizione e all’apertura di una gara per la riattribuzione delle concessioni controverse, la Commissione ha deciso di introdurre il presente ricorso. 11.- Il Regno di Danimarca e il Regno di Spagna sono intervenuti a sostegno della Repubblica italiana. SUL RICORSO 12.- La Commissione solleva una sola censura a sostegno del suo ricorso. Essa fa valere che la Repubblica italiana, avendo rinnovato le 329 vecchie concessioni dell’UNIRE per la gestione delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato, e in particolare ha violato il principio generale di trasparenza nonché l’obbligo di pubblicità derivanti dagli artt. 43 CE e 49 CE. 13.- Nel suo ricorso, la Commissione fa notare che, ai fini dell’ordinamento comunitario, l’attribuzione della gestione e della raccolta di scommesse ippiche in Italia dev’essere considerata una concessione di servizio pubblico. A tale titolo, detta attribuzione non rientrerebbe nel campo di applicazione della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L. 209, pag. 1). Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte, e in particolare dalla sentenza 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress (Racc. pag. I-10745), emergerebbe che le autorità nazionali che procedono ad una tale attribuzione sono tenute ad osservare il divieto di discriminazione e il principio di trasparenza al fine di garantire un adeguato livello di pubblicità, che consenta l’apertura del mercato dei servizi alla concorrenza nonché il controllo sull’imparzialità dei procedimenti di aggiudicazione. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 91 14.- La Commissione rileva a tal riguardo che, in occasione del rinnovo, senza gara, delle 329 concessioni dell’UNIRE già esistenti, il governo italiano non ha rispettato gli obblighi derivanti da tali principi. Infatti, ad avviso della Commissione, sono ammesse deroghe a tali principi solo nei casi e per i motivi stabiliti dagli artt. 45 CE e 46 CE. Orbene, le giustificazioni invocate dal governo italiano non rientrerebbero tra quelle espressamente previste da tali articoli e, ad ogni modo, detto governo non avrebbe dimostrato la necessità e la proporzionalità di dette deroghe rispetto agli obiettivi indicati. 15.- Nel suo controricorso, il governo italiano fa valere che la legge n. 200/2003 e la decisione n. 107/2003 sono conformi agli obblighi di diritto comunitario in materia di concessione di pubblici servizi. Secondo lo stesso governo, la proroga delle vecchie concessioni dell’UNIRE sarebbe giustificata dalla necessità di garantire ai concessionari la continuit à, la stabilità finanziaria ed un congruo rendimento per gli investimenti effettuati nel passato nonché dalla necessità di scoraggiare il ricorso ad attività clandestine, fino all’attribuzione delle dette concessioni tramite gare. Tali giustificazioni costituirebbero motivi imperativi di interesse generale tali da legittimare deroghe ai principi del Trattato che implicano l’obbligo di aprire il mercato dei servizi alla concorrenza. 16.- Il governo danese mette in discussione l’interpretazione proposta dalla Commissione della citata sentenza Telaustria e Telefonadress relativamente alla portata dell ’obbligo di trasparenza in circostanze come quelle della presente causa. Per quanto riguarda il governo spagnolo, esso svolge considerazioni in ordine alle specificità dell’autorizzazione e dell’organizzazione delle scommesse di cui, a suo avviso, la Commissione non avrebbe tenuto conto. 17.- In via preliminare, occorre rilevare che il governo italiano non nega il fatto che la legge n. 200/2003 e la decisione n. 107/2003 siano intervenute dopo la scadenza del termine prescritto nel parere motivato. 18.- A tal proposito, è opportuno ricordare che, secondo giurisprudenza costante della Corte, la sussistenza di un inadempimento dev’essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e che la Corte non può tenere conto dei mutamenti successivi (v., in particolare, sentenze 2 giugno 2005, causa C-282/02, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-4653, punto 40, e 26 gennaio 2006, causa C-514/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-963, punto 44). 19.- Di conseguenza, le disposizioni delle legge n. 200/2003 e della decisione n. 107/2003 non possono assumere rilievo ai fini della valutazione dell’inadempimento addebitato alla Repubblica italiana. Ne consegue che il presente ricorso si fonda unicamente sull ’esame della decisione controversa. 20.- Come dedotto a giusto titolo dalla Commissione, il governo italiano non ha messo in dubbio, né durante la fase precontenziosa né nel corso della presente causa, che l’attribuzione della gestione e della raccolta di scommesse ippiche in Italia costituisce una concessione di servizio pubblico. Siffatta qualificazione è stata accolta dalla sentenza 6 marzo 2007, cause riunite C-338/04, C-359/04 e C-360/04, Placanica e a. (non ancora pubblicata nella Raccolta), in cui la Corte ha interpretato gli artt. 43 CE e 49 CE alla luce della medesima normativa nazionale. 21.- Orbene, è pacifico che le concessioni di pubblici servizi sono escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 92/50 (v. sentenza 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen, Racc. pag. I-8585, punto 42). 22.- La Corte ha statuito che, benché i contratti di concessione di pubblici servizi, allo stadio attuale del diritto comunitario, siano esclusi dalla sfera di applicazione della direttiva 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 92/50, ciò nondimeno le pubbliche amministrazioni che li stipulano sono tenute a rispettare le norme fondamentali del Trattato, in generale, e il divieto di discriminazione in base alla cittadinanza, in particolare (v., in tal senso, sentenze Telaustria e Telefonadress, cit., punto 60, 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 16, nonché Parking Brixen, cit., punto 46). 23.- La Corte ha poi statuito che le disposizioni del Trattato applicabili alle concessioni di servizi pubblici, segnatamente gli artt. 43 CE e 49 CE, nonché il divieto di discriminazione per motivi di cittadinanza sono specifica espressione del principio della parità di trattamento (v., in tal senso, sentenza Parking Brixen, cit., punto 48). 24.- A tal riguardo, il principio della parità di trattamento e il divieto di discriminazione in base alla cittadinanza comportano, in particolare, un obbligo di trasparenza che permette all’autorità pubblica concedente di assicurarsi che tali principi siano rispettati. Tale obbligo di trasparenza gravante sulle anzidette autorità consiste nella garanzia, a favore di ogni potenziale offerente, di un adeguato livello di pubblicità che consenta l’apertura della concessione di servizi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione (v., in tal senso, citate sentenze Telaustria e Telefonadress, punti 61 e 62, nonché Parking Brixen, punto 49). 25.- Nel caso di specie, occorre constatare che la totale mancanza di procedure di gara ai fini dell’attribuzione delle concessioni per la gestione delle scommesse ippiche non è conforme agli artt. 43 CE e 49 CE, e in particolare viola il principio generale di trasparenza nonch é l’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità. Infatti, il rinnovo senza gara delle 329 vecchie concessioni impedisce l’apertura di dette concessioni alla concorrenza ed il controllo sull’imparzialità delle operazioni di aggiudicazione. 26.- Ciò premesso, occorre esaminare se il rinnovo di cui trattasi possa essere ammesso in forza delle deroghe espressamente previste dagli artt. 45 CE e 46 CE, ovvero se possa essere giustificato, conformemente alla giurisprudenza della Corte, da motivi imperativi di interesse generale (v., in tal senso, sentenze 6 novembre 2003, causa C-243/01, Gambelli e a., Racc. pag. I-13031, punto 60, nonché Placanica e a., cit., punto 45). 27.- La giurisprudenza ha riconosciuto la rilevanza, a tal proposito, di un certo numero di motivi imperativi di interesse generale, quali gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione della frode e dell’incitazione dei cittadini ad una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale (v. sentenza Placanica e a., cit., punto 46). 28.- Benché gli Stati membri siano liberi di fissare gli obiettivi della loro politica in materia di giochi d’azzardo e, eventualmente, di definire con precisione il livello di protezione perseguito, le restrizioni che essi impongono devono soddisfare tuttavia le condizioni che risultano dalla giurisprudenza della Corte per quanto riguarda la loro proporzionalità (sentenza Placanica e a., cit., punto 48). 29.- Di conseguenza, occorre esaminare se il rinnovo di concessioni al di fuori di ogni procedura di gara sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla Repubblica italiana e non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento. In ogni caso, detto rinnovo non dev’essere applicato in modo discriminatorio (v., in tal senso, citate sentenze Gambelli e a., punti 64 e 65, nonché Placanica e a., punto 49). 30.- È pacifico che il governo italiano ha approvato il piano di potenziamento della rete di raccolta ed accettazione delle scommesse ippiche allo scopo di portare da 329 a 1000 i centri di raccolta e di accettazione di dette scommesse sull’intero territorio italiano. Per realizzare IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 93 tale piano di potenziamento, 671 nuove concessioni sono state assegnate in esito ad una gara, mentre le 329 vecchie concessioni esistenti sono state rinnovate senza procedimento di gara. 31.- A tal riguardo, il governo italiano non ha invocato deroghe come quelle espressamente previste dagli artt. 45 CE e 46 CE. Tale governo ha invece giustificato il detto rinnovo senza gara adducendo la necessità di scoraggiare, in particolare, lo sviluppo di attività clandestine di raccolta e di assegnazione delle scommesse. 32.- Nel suo controricorso, il governo italiano non ha tuttavia spiegato su quale base l’assenza di qualsiasi procedura di gara sarebbe a tal fine necessaria, e non ha dedotto argomenti che valgano a confutare l’inadempimento rimproverato dalla Commissione. In particolare, detto governo non ha spiegato come il rinnovo delle concessioni esistenti al di fuori di qualsiasi procedimento di gara possa costituire un ostacolo allo sviluppo di attività clandestine nel settore delle scommesse ippiche, e si è limitato ad osservare che la legge n. 200/2003 e la decisione n. 107/2003 sono conformi ai principi del diritto comunitario in materia di concessione di pubblici servizi. 33.- Orbene, a tal riguardo occorre ricordare che spetta alle autorità nazionali competenti dimostrare, da un lato, che la loro normativa risponde ad un interesse essenziale ai sensi degli artt. 45 CE e 46 CE oppure ad un motivo imperativo d’interesse generale sancita dalla giurisprudenza e, dall’altro, che detta normativa è conforme al principio di proporzionalità (v., in tal senso, sentenze 2 dicembre 2004, causa C-41/02, Commissione/Paesi Bassi, Racc. p. I-11375, punto 47, 13 gennaio 2005, causa C-38/03, Commissione/Belgio, non pubblicata nella Raccolta, punto 20, nonché 15 giugno 2006, causa C-255/04, Commissione/Francia, Racc. pag. I-5251, punto 29). 34.- Occorre pertanto constatare che il rinnovo delle vecchie concessioni dell’UNIRE senza gara non è idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla Repubblica italiana ed eccede quanto necessario per evitare che gli operatori attivi nel settore delle scommesse ippiche siano coinvolti in attività criminose o fraudolente. 35.- Inoltre, per quanto riguarda i motivi di carattere economico sollevati dal governo italiano, quale il fatto di garantire ai concessionari la continuità, la stabilità finanziaria ed un congruo rendimento per gli investimenti realizzati nel passato, è sufficiente ricordare che essi non possono essere riconosciuti come motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare la restrizione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (v., in tal senso, sentenze 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, Racc. pag. I-4071, punto 48, e 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione/Italia, Racc. pag. I-721, punto 22). 36.- Ne consegue che non può essere accolto nessuno dei motivi imperativi di interesse generale addotti dal governo italiano per giustificare il rinnovo delle 329 vecchie concessioni al di fuori di ogni procedura di concorso. 37.- Pertanto, occorre dichiarare fondato il ricorso della Commissione. 38.- Da quanto precede risulta che la Repubblica italiana, avendo rinnovato 329 concessioni per l’esercizio delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 43 CE e 49 CE, e in particolare ha violato il principio generale di trasparenza nonché l’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità. SULLE SPESE 39.- A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, va condannata alle spese. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce: 1) La Repubblica italiana, avendo rinnovato 329 concessioni per l’esercizio delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 43 CE e 49 CE, e in particolare ha violato il principio generale di trasparenza nonché l’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese». Le prove nei giudizi comunitari; in tema di“valutazioni d’incidenza” per le aree naturali protette (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione quarta, sentenze 20 settembre 2007 nelle cause C-304/05 e C-388/05; 4 ottobre 2007 nella causa C-179/06) Si segnalano tre decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nelle quali la questione dell’inadempimento alle norme del trattato ed alle direttive della Repubblica Italiana è stata affrontata e risolta dai giudici di Lussemburgo, più che come momento di interpretazione del diritto comunitario, essenzialmente come “questione di prova”. Tutte e tre le decisioni concernono la cosiddetta “valutazione d’incidenza ” di progetti di opere in aree destinate alla conservazione degli habitat naturali, della flora e della fauna, ai sensi della direttiva 92/43/CEE, ovvero alla conservazione degli uccelli selvatici, ai sensi della direttiva 79/409/CEE. Nella prima, relativa alla causa C-304/05, è stato contestato alla Repubblica italiana di aver avviato i progetti di ampliamento e adattamento della zona sciistica di Santa Caterina Valfurva (sede dei campionati mondiali invernali del 2005) senza aver fatto precedere gli interventi da una valutazione d’incidenza delle opere programmate sull’area naturale protetta (SICp e/o ZPS). In realtà, anche in considerazione della circostanza che gran parte degli interventi dovevano svolgersi nell’ambito del territorio di pertinenza del Parco Nazionale dello Stelvio, le competenti amministrazioni, comuni, consorzi e regione Lombardia, a vari livelli avevano condotto studi, commissionato relazioni tecniche e prodotto specifiche autorizzazioni paesistiche/ambientali, preventive, concomitanti ed anche successive all’espletamento dei lavori (poi effettivamente svolti), imponendo in sede progettuale limiti, cautele e soprattutto prescrizioni. Tutto ciò non è bastato alla Corte di Giustizia per sottrarre la Repubblica italiana dalla condanna per inadempimento. La Corte infatti ha ritenuto tali valutazioni, pareri, prescrizioni etc. incompleti e/o tardivi: secondo i giudici europei la valutazione d’incidenza di un progetto ai sensi delle citate direttive, non può limitarsi ad un “giuridico favorevole con prescrizioni”, né può essere condotta solo su una parte del progetto, ma deve, testualmente, “dissipare qualsiasi ragionevole dubbio scientifico in merito agli effetti dei lavori previsti sulla zona di protezione speciale…” “…rilievi e conclusioni – aggiunge la Corte – erano indispensabili affinché le competenti autorità fossero in grado di acquisire le certezze necessarie per adottare la decisione che autorizza detti lavori”. Non quindi una preclusione assoluta, ma il dovere dello Stato membro di dare preventiva contezza agli effetti indotti da un progetto su un’area sensibile, anche eventualmente per attivare – ove il progetto debba essere comunque realizzato “per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico” – le previste misure compensative sugli impatti provocati dall’intervento di cui si discute. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 95 La responsabilità della Repubblica italiana è stata conseguentemente affermata anche sotto tale secondo profilo (la mancata evidenziazione dei motivi d’interesse pubblico che inducevano alla realizzazione di un’opera impattante) e sotto il terzo profilo, anch’esso consequenziale alla mancata valutazione, della mancata adozione delle misure compensative, una volta realizzata l’opera. Unico punto sul quale la Corte di Giustizia non ha seguito le tesi della Commissione è l’affermazione, contenuta nel ricorso introduttivo della causa, secondo cui l’Italia non avrebbe assicurato al sito d’importanza comunitaria “uno stato giuridico adeguato” al perseguimento in tale area degli obiettivi previsti dalle citate direttive “habitat” ed “uccelli”. Secondo la Corte di Giustizia esistono in generale nell’ordinamento giuridico italiano gli strumenti adeguati per dare un particolare statuto di tutela alle aree in questione (delimitazione come SICp o ZPS, istituzione di un parco nazionale etc..) sicché spettava alla Commissione dell’U.E provare in concreto che tali strumenti non sarebbero sufficienti ad attribuire all’area il particolare regime di tutela previsto dalle direttive. Tale prova – ad avviso della Corte – non è stata raggiunta. In sintesi le opere di cui si tratta (adeguamento e potenziamento degli impianti sciistici), potevano anche essere realizzate, come di fatto lo sono state, ma occorreva da parte delle autorità italiane porre particolare attenzione alle procedure, all’individuazione delle ragioni di interesse pubblico che, anche in presenza di rilevanti effetti negativi, avrebbero giustificato comunque la realizzazione delle opere, e alle misure compensative da adottare per reintegrare al meglio la rete europea di aree protette nota sotto la sigla “Natura 2000”. La confusione procedurale (relazioni, studi, procedure VIA etc. di volta in volta attivate su parte dei progetti, ovvero sull’intero complesso di opere, ma in maniera tardiva) diviene in pratica “ragione determinante” della condanna per inadempimento pronunciata dalla Corte di Giustizia. Più semplice è la vicenda giudiziale (causa C-388/05) che ha per oggetto la Zona di Protezione Speciale dei “Valloni e steppe pedegarganiche” in Puglia; una zona limitata e, per certi versi marginale, dell’area protetta è stata infatti interessata da interventi previsti dal “patto d’area” per lo sviluppo industriale di Manfredonia. Anche qui è mancata la preventiva “valutazione d’incidenza” ed il progetto di industrializzazione, sia pure – si ripete – per una zona limitatissima dell’intera area protetta, è stato portato avanti e realizzato in costanza dell’avvio da parte della Commissione UE della procedura di infrazione. Quel che più interessa è che, nel corso della procedura di infrazione, la Regione Puglia “ha affermato…la necessità di adottare misure compensative adeguate, prevedendo l’estensione della ZPS in esame o l’individuazione di una nuova ZPS avente fauna ed una vegetazione compatibile con quelle dell’habitat danneggiato”. La Corte di giustizia ha immediatamente colto l’affermazione: il riconoscimento implicito della propria responsabilità da parte della regione Puglia diviene così valida motivazione della sentenza di condanna ed ha esentato il giudice europeo dall’onere di ogni ulteriore argomentazione… 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Sulla terza questione (causa C-179/06) invece la Repubblica italiana è andata assolta; secondo la Corte di Giustizia la Commissione non ha fornito la prova che l’adozione/approvazione di quasi cento “accordi di programma ”, che prefiguravano altrettanti varianti al vigente PRG del Comune di Altamura, potesse avere un’incidenza effettiva sulla zona di protezione speciale e sito d’importanza comunitaria dell’Alta Murgia, in assenza di provvedimenti attuativi che avessero dato corso a uno o più piani in variante degli strumenti urbanistici ovvero all’inizio dei lavori. Va detto con realismo che – al di là della difesa giuridica in ordine alla valenza meramente procedurale dei cosiddetti contratti di programma, la cui approvazione da parte della Regione non equivale comunque all’adozione di un piano o al rilascio di un’autorizzazione e/o di una licenza – ha pesato moltissimo nella dinamica processuale la decisione assunta dal Comune di Altamura e dalla regione Puglia di sospendere ogni iniziativa fino alla definizione della causa in Corte di giustizia, affidando nel contempo a qualificati professionisti uno studio sull’incidenza delle varie iniziative nel loro complesso e nelle loro reciproche interferenze. Quello che forse, in queste tre vicende giudiziali, vale la pena di sottolineare è che le cause in Corte di Giustizia trovano spesso le loro ragioni, per essere decise in un modo o nell’altro, negli atti che sono stati acquisiti in sede di procedura d’infrazione, condotta dalla Commissione nei confronti dello Stato membro attraverso al lettera di “messa in mora”: ciò che si dice in quella fase è destinato ad assumere di fronte alla Corte di Giustizia valore di fonte privilegiata di prova, ed orienta la definizione della controversia il più delle volte in maniera irreversibile. Questo spiega anche la ragione per la quale è uso di tutti gli Stati membri rispondere, alle lettere di messa in mora ed ai pareri motivati successivamente emessi dalla Commissione UE, con l’ausilio di un ufficio legale esperto della procedure d’infrazione e dei giudizi comunitari. Tutto ciò non avviene in Italia dove, soprattutto per infrazioni che si collegano ad attività amministrative di competenza delle regioni e degli enti locali, la risposta “giuridica” alle lettere di messa in mora (in pratica l’impostazione della futura lite innanzi alla Corte di giustizia) resta affidato al rapporto del funzionario responsabile, la cui risposta, per il tramite degli Uffici centrali e della diplomazia finisce come fotocopia allegata sul tavolo della Commissione. Anche questo – oltre ai generali problemi di difficoltà di adeguamento e di vischiosità amministrativa – risulta pertanto essere un particolare fattore di rischio di soccombenza, in molte controversie comunitarie che concernono la Repubblica italiana. G. F. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione quarta, sentenza 20 settembre 2007 nella causa C-304/05 (ricorso per inadempimento) – Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. R. Silva de Lapuerta – Avv. gen. J. Kokott. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 97 «1.- Con il ricorso in esame, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che, nell’ambito del progetto relativo all’ampliamento e all’adattamento della zona sciistica di Santa Caterina Valfurva (piste denominate «Bucaneve» e «Edelweiss») e alla realizzazione delle correlate infrastrutture, in vista dei campionati mondiali di sci alpino del 2005, nella zona di protezione speciale IT 2040044, Parco Nazionale dello Stelvio (in prosieguo: il «Parco»), la Repubblica italiana: – avendo autorizzato misure suscettibili di avere un impatto significativo su tale zona senza assoggettarle ad un’appropriata valutazione della loro incidenza sul sito alla luce degli obiettivi di conservazione dello stesso e, in ogni caso, senza rispettare le disposizioni che permettono di realizzare un progetto, in caso di conclusioni negative della valutazione dell ’incidenza e in mancanza di soluzioni alternative, solo per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico e solo dopo avere adottato e comunicato alla Commissione ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata; – avendo omesso di adottare misure per evitare il degrado degli habitat naturali e degli habitat delle specie nonché la perturbazione delle specie per cui la zona è stata designata, e – avendo omesso di conferire alla zona uno status giuridico di protezione che possa garantire, in particolare, la sopravvivenza e la riproduzione delle specie di uccelli menzionate nell’allegato I della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 79/409»), e la riproduzione, la muta e lo svernamento delle specie migratorie non considerate nell’allegato I che ivi giungono regolarmente, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 6, nn. 2-4, e dell’art. 7 della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (G.U. L 206, pag. 7; in prosieguo: la «direttiva 92/43»), nonché dell’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva 79/409. CONTESTO NORMATIVO COMUNITARIO 2.- Scopo della direttiva 92/43 è contribuire a salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il Trattato CE. 3 .- Il decimo ‘considerando’ della direttiva così recita: «considerando che qualsiasi piano o programma che possa avere incidenze significative sugli obiettivi di conservazione di un sito già designato o che sarà designato deve formare oggetto di una valutazione appropriata». 4.- L’art. 3, n. 1, della direttiva prevede quanto segue: «È costituita una rete ecologica europea coerente di zone speciali di conservazione, denominata Natura 2000. Questa rete, formata dai siti in cui si trovano tipi di habitat naturali elencati nell’allegato I e habitat delle specie di cui all’allegato II, deve garantire il mantenimento ovvero, all’occorrenza, il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, dei tipi di habitat naturali e degli habitat delle specie interessati nella loro area di ripartizione naturale. La rete “Natura 2000” comprende anche le zone di protezione speciale classificate dagli Stati membri a norma della direttiva [79/409]». 5.- L’art. 4 della direttiva 92/43 disciplina il procedimento per la costituzione della detta rete Natura 2000, nonché per la designazione delle zone speciali di conservazione da parte degli Stati membri. 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 6.- L’art. 6 della direttiva, che stabilisce i provvedimenti di conservazione per tali zone, così recita: «(...) 2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva. 3. Qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso e necessario alla gestione del sito ma che possa avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti, forma oggetto di una opportuna valutazione dell’incidenza che ha sul sito, tenendo conto degli obiettivi di conservazione del medesimo. Alla luce delle conclusioni della valutazione dell’incidenza sul sito e fatto salvo il paragrafo 4, le autorità nazionali competenti danno il loro accordo su tale piano o progetto soltanto dopo aver avuto la certezza che esso non pregiudicherà l’integrità del sito in causa e, se del caso, previo parere dell’opinione pubblica. 4. Qualora, nonostante conclusioni negative della valutazione dell’incidenza sul sito e in mancanza di soluzioni alternative, un piano o progetto debba essere realizzato per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, lo Stato membro adotta ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata. Lo Stato membro informa la Commissione delle misure compensative adottate. Qualora il sito in causa sia un sito in cui si trovano un tipo di habitat naturale e/o una specie prioritari, possono essere addotte soltanto considerazioni connesse con la salute dell ’uomo e la sicurezza pubblica o relative a conseguenze positive di primaria importanza per l’ambiente ovvero, previo parere della Commissione, altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico». 7.- L’art. 7 della direttiva dispone quanto segue: «Gli obblighi derivanti dall’articolo 6, paragrafi 2, 3 e 4 della presente direttiva sostituiscono gli obblighi derivanti dall’articolo 4, paragrafo 4, prima frase, della direttiva [79/409] per quanto riguarda le zone classificate a norma dell’articolo 4, paragrafo 1, o analogamente riconosciute a norma dell’articolo 4, paragrafo 2 di detta direttiva a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente direttiva o dalla data di classificazione o di riconoscimento da parte di uno Stato membro a norma della direttiva [79/409] qualora essa sia posteriore». 8.- La direttiva 79/709 si prefigge la protezione, la gestione e la regolazione di tutte le specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il Trattato. 9.- L’art. 4 di tale direttiva prevede, per le specie di uccelli elencate nell’allegato I, misure speciali di conservazione per quanto riguarda l’habitat, per garantire la sopravvivenza e la riproduzione di dette specie nella loro area di distribuzione. Tale articolo così dispone: «1. Per le specie elencate nell’allegato I sono previste misure speciali di conservazione per quanto riguarda l’habitat, per garantire la sopravvivenza e la riproduzione di dette specie nella loro area di distribuzione. A tal fine si tiene conto: a) delle specie minacciate di sparizione; b) delle specie che possono essere danneggiate da talune modifiche del loro habitat; IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 99 c) delle specie considerate rare in quanto la loro popolazione è scarsa o la loro ripartizione locale è limitata; d) di altre specie che richiedono una particolare attenzione per la specificità del loro habitat. Per effettuare le valutazioni si terrà conto delle tendenze e delle variazioni dei livelli di popolazione. Gli Stati membri classificano in particolare come zone di protezione speciale i territori più idonei in numero e in superficie alla conservazione di tali specie, tenuto conto delle necessità di protezione di queste ultime nella zona geografica marittima e terrestre in cui si applica la presente direttiva. 2. Analoghe misure vengono adottate dagli Stati membri per le specie migratrici non menzionate nell’allegato I che ritornano regolarmente, tenuto conto delle esigenze di protezione nella zona geografica marittima e terrestre in cui si applica la presente direttiva per quanto riguarda le aree di riproduzione, di muta e di svernamento e le zone in cui si trovano le stazioni lungo le rotte di migrazione. A tale scopo, gli Stati membri attribuiscono una importanza particolare alla protezione delle zone umide e specialmente delle zone d’importanza internazionale. (...) 4. Gli Stati membri adottano misure idonee a prevenire, nelle zone di protezione di cui ai paragrafi 1 e 2, l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli che abbiano conseguenze significative tenuto conto degli obiettivi del presente articolo. Gli Stati membri cercheranno inoltre di prevenire l’inquinamento o il deterioramento degli habitat al di fuori di tali zone di protezione». IL PARCO Lo status del Parco nel diritto nazionale 10.- Il Parco fu istituito con legge 24 aprile 1935, n. 740, inizialmente nel solo territorio delle Province di Trento e di Bolzano, allo scopo di tutelare e migliorare la flora, di incrementare la fauna, e di conservare le speciali formazioni geologiche, nonché le bellezze del paesaggio. 11.- Con decreto del presidente della Repubblica 23 aprile 1977, il territorio del Parco venne esteso alle zone di Cancano e di Livigno, nonché ai monti Sobretta, Gavia e Serottini, situati nelle province di Sondrio e di Brescia, nel territorio della Regione Lombardia. 12.- Il Parco è un’area protetta ai sensi della legge 6 dicembre 1991, n. 394, legge quadro sulle aree protette. Tale legge detta i principi fondamentali che disciplinano le zone di cui trattasi, al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese. 13.- Con decreto del presidente del Consiglio 23 novembre 1993 è stato costituito il Consorzio del Parco Nazionale dello Stelvio (in prosieguo: il «Consorzio»). Uno statuto definisce le competenze e le funzioni assegnate al Consorzio. 14.- Ai sensi dell’art. 4 del detto statuto, il Consorzio ha il compito di garantire, nella gestione del Parco, la tutela della natura e la conservazione dei paesaggi. Lo status del Parco nel diritto comunitario 15.- Nel 1998 il Parco è stato classificato quale zona di protezione speciale ai sensi dell ’art. 4 della direttiva 79/409. Esso è stato indicato, nel capitolo «Regione Lombardia», con il codice IT 2040044. 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 16.- Come emerge dal formulario compilato dalla Repubblica italiana nel 1998, ai sensi della decisione della Commissione 18 dicembre 1996, 97/266/CE, concernente un formulario informativo sui siti proposti per l’inserimento nella rete Natura 2000 (G.U. L 107, pag. 1), il Parco ospita numerose specie di uccelli tutelate nell’allegato I della direttiva 79/409: l’aquila reale (Aquila chrysaetos), il falco pellegrino (Falco peregrinus), il falco pecchiaiolo (Pernis apivorus), la bonasia (Bonasa bonasia), la pernice bianca (Lagopus mutus helvetica), il fagiano di monte (Tetrao tetrix), il gallo cedrone (Tetrao urogallus) ed il picchio nero (Dryocopus martius) – nonché tre specie d’uccelli migratori: lo sparviero (Accipiter nisus), la poiana (Buteo buteo) e il picchio muraiolo (Tichodroma muraria). 17.- Un altro formulario, del 14 maggio 2004, menziona la presenza, nella detta zona, di altre specie figuranti nell’allegato I della direttiva 79/409, ossia l’avvoltoio degli agnelli (Gypaetus barbatus), il nibbio reale (Milvus milvus), il piviere tortolino (Charadrius morinellus), la civetta capogrosso (Aegolius funereus), la civetta nana (Glaucidium passerinum), il gufo reale (Bubo bubo), il picchio cenerino (Picus canus) e la coturnice (Alectoris graeca saxatilis). FATTI 18.- Il 4 ottobre 1999 veniva depositato presso le autorità regionali, in vista dei campionati mondiali di sci alpino del 2005, un progetto relativo a lavori di ristrutturazione della zona sciistica di Santa Caterina Valfurva e delle connesse infrastrutture. 19.- Tale progetto prevedeva la realizzazione di un corridoio per piste da sci in una zona di foresta. Esso verteva altresì sulla costruzione di una cabinovia che, dall’ingresso di Santa Caterina, doveva raggiungere la località di Plaghera e, con un secondo tratto, la Valle dell’Alpe. Esso prevedeva inoltre un collegamento tra la Valle dell’Alpe e Costa Sobretta con una seggiovia monofune a quattro posti. Al progetto erano strettamente collegate ulteriori opere: la realizzazione di una stazione di partenza, dello stadio dello sci, di un parcheggio in prossimità della stazione di partenza, della variante della pista «Edelweiss», di un ponte sul fiume Frodolfo, di un rifugio in Valle dell’Alpe, oltre che di strade di servizio, di un impianto di neve programmata e di un magazzino veicoli. 20.- Con decreto 30 maggio 2000, n. 13879, la Regione Lombardia, in base ad uno studio effettuato da un architetto per conto delle società Montagne di Valfurva e Santa Caterina Impianti, esprimeva un giudizio positivo di compatibilità ambientale del progetto, subordinato al rispetto di una serie di prescrizioni di carattere generale nonché di carattere specifico relative all’esecuzione dei singoli interventi previsti dal progetto. Il detto decreto precisava che, nell’ambito dei successivi iter autorizzativi, sarebbe stato necessario verificare l’osservanza delle dette condizioni, nonché di taluni divieti e compensazioni previste in materia ambientale. 21.- Nella premessa dello studio cui fa riferimento il detto decreto si indicava che lo stato degli impianti sciistici e delle infrastrutture della zona in questione era divenuto carente e che il loro ammodernamento risultava necessario, e ciò anche al fine di ottenere una sovvenzione per il progetto in esame. 22.- Secondo tale studio, non erano stati presi in considerazione l’effetto dell’aumento della pressione antropica sulle specie con attività riproduttiva sensibile alla presenza umana, in particolare la pernice bianca e la marmotta, né le possibili conseguenze sugli invertebrati e sugli anfibi, né gli effetti sui flussi migratori di uccelli limicoli. 23.- In tale studio si sosteneva che l’incidenza sull’ambiente e le questioni relative alle misure di mitigazione, di monitoraggio e di compensazione degli effetti delle opere previste IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 101 sulle varie componenti ambientali sarebbero stati affrontati in maniera sommaria e che la componente «flora, vegetazione e habitat» sarebbe stata analizzata solo in modo frammentario. Tale studio concludeva quindi che era necessario predisporre un progetto di ripristino morfologico/ambientale che affrontasse la tematica del rinverdimento dei luoghi una volta terminati i lavori. 24.- Il detto studio conteneva le seguenti conclusioni: «(…) La mancata realizzazione dell’intervento potrebbe avviare una lenta ma inesorabile decadenza [economica] non solo dell’area di S. Caterina ma dell’intero bacino sciabile. Pertanto, la proposta di potenziamento degli impianti di risalita e di realizzazione di nuove piste, con le infrastrutture connesse, risulta, per le sue valenze socio-economiche e con particolare riguardo agli aspetti turistici, meritoria di realizzazione. (…) Gli interventi progettati si possono ritenere ambientalmente compatibili alle seguenti condizioni: – l’intero progetto di riqualificazione impiantistica e conseguente attivazione dei nuovi impianti/servizi è subordinato alla realizzazione del parcheggio a valle dell’abitato di Santa Caterina quale logico supporto alla costruzione dei nuovi impianti. Considerata la natura ed entità economica del progetto del parcheggio, fermi restando i limiti contributivi autorizzati in sede comunitaria, si rileva l’opportunità che lo stesso sia prevalentemente autofinanziato dai richiedenti; (…) – per contenere il taglio del bosco, ridurre i movimenti di terra e limitare la larghezza del ponte sul torrente Frodolfo, la pista di raccordo (…) originariamente prevista con larghezza minima pari a 40 metri, dovrà essere ridotta in larghezza a 20 metri lineari (…); – le infrastrutture di valle (tribune, cabine telecronisti e cronometristi) dovranno essere oggetto di specifica progettazione (…); – la larghezza della fascia da disboscare per la realizzazione dell’impianto di risalita dovrà essere strettamente limitata a quella imposta dalle norme di sicurezza degli impianti (…); – la pista di raccordo fra le piste da sci esistenti e la nuova stazione di arrivo/partenza di località Plaghera dovrà essere ridimensionata nell’ampiezza per ridurre i movimenti di terra; (…) – per ridurre i movimenti di terra e la conseguente alterazione dei luoghi non dovranno essere realizzati [né] il corsello di collegamento tra la stazione di arrivo e il rifugio di Valle dell’Alpe [né] il previsto magazzino per il deposito delle cabine (…); – la nuova strada carrabile prevista per la cantierizzazione della seggiovia Vallalpe- Costa Sobretta, considerata l’eccessiva alterazione dei luoghi che comporterà, non dovrà essere realizzata (…); – considerato l’alto grado di naturalità dei luoghi (copertura vegetale di praterie naturali, cespugli e ambienti floristici rupicoli e di morena, rilevanze paesistiche del complesso articolarsi dei massicci delle linee verticali delle pareti rocciose e delle frastagliate linee di cresta), e le varie potenziali criticità sopra evidenziate per tale ambito territoriale, la progettazione esecutiva (...) dovrà essere comprensiva di tutte quelle indicazioni settoriali (flora, fauna, ecosistemi, geologia, idrogeologia, stabilità dei versanti etc.) per consentire una valutazione degli interventi previsti coerentemente con i livelli di tutela della massima espressione della naturalità alpina dei luoghi in esame. Nel caso di sostenibilità delle opere, la progettazione esecutiva [conterrà] anche (…) le seguenti prescrizioni: (…) – la perdita di patrimonio forestale dovuta al taglio piante dovrà essere compensata mediante idonee ripiantumazioni pari a due volte le essenze abbattute (…); 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – tutti i movimenti di terra dovranno essere sistemati ed inerbiti (…); – le linee di servizio (acquedotto, fognatura, elettricità, impianti per l’innevamento programmato) dovranno essere interrati. È vietata la posa di elettrodotti aerei a fianco degli impianti di risalita; – risulta necessaria ed indispensabile la predisposizione di un progetto di ripristino morfologico ambientale dei luoghi interessati dai lavori, che affronti a livello esecutivo la tematica del rinverdimento dei luoghi ad operazioni di cantierizzazione ultimate (…). Per il prosieguo della progettazione esecutiva sarà necessario che risultino adempiuti i seguenti aspetti: – sotto il profilo idrogeologico, siano trattate le problematiche connesse alle interferenze indotte dalla realizzazione delle piste da sci e dei previsti cantieri sull’assetto idrogeologico del territorio in località “Vallalpe” e sul versante sud della Costa Sobretta; – esecuzione di specifiche indagini relative all’assetto idrogeologico e geomeccanico, con studi sulla circolazione delle acque sotterranee (…); – verifica delle alterazioni degli assetti geostrutturali delle formazioni affioranti sulle pareti rocciose interessate dai lavori (…). Per quanto concerne la componente ambientale fauna risulta indispensabile riparametrare l’effetto dell’opera nel suo contesto globale (…)». 25.- Successivamente, nel settembre 2000, la Regione Lombardia incaricava l’Istituto di Ricerca per l’Ecologia e l’Economia applicate alle Aree Alpine (in prosieguo: l’«IREALP») di redigere una relazione sulla valutazione dell’impatto ambientale del progetto in esame. 26.- Questa relazione era intesa quale studio di fattibilità comprendente gli aspetti connessi con il recupero ambientale, le azioni di mitigazione, le opere di ingegneria naturalistica e la riqualificazione ambientale ritenute necessaire per l’avvio di una progettazione preliminare e, poi, definitiva. 27.- Il progetto controverso veniva poi modificato, per inserire in particolare un allargamento della pista «Edelweiss», la cui larghezza veniva portata da 20 a quasi 50 metri. 28.- Nel settembre 2002 l’IREALP rendeva pubblica la relazione sulla valutazione dell ’incidenza delle misure progettate. Tale relazione descriveva in modo sintetico l’area del sito interessata dal progetto come una «pecceta con poche specie rare, ma elevata diversità specifica propria della foresta subalpina; fragilità alta e rigenerazione in tempi lunghi». 29.- La detta relazione constatava la «presenza di animali di rilevante interesse […], nidificanti nel bosco: astore, picchio nero, picchio rosso maggiore, picchio verde». Tale relazione menzionava, tra i principali fattori di impatto del detto progetto in fase di cantiere, la «riduzione di habitat forestale idoneo alla nidificazione di specie di interesse conservazionistico ». 30.- Dalle conclusioni della relazione dell’IREALP risulta che le linee direttrici che lo studio aveva potuto considerare non erano ancora completamente definite, ma subivano una progressiva evoluzione anche sulla base delle conoscenze e delle precisazioni che via via emergevano nel corso del processo di realizzazione del progetto. Veniva parimenti osservato che la relazione costituiva l’occasione per presentare ulteriori proposte di miglioramento del bilancio ambientale della gestione dell’intero comprensorio sciistico, che non poteva essere visto come separato dalle più generali istanze di sviluppo sostenibile del territorio. 31.- La relazione precisava altresì quanto segue: «Se il processo indicato può essere considerato positivo, esso mostra peraltro anche aspetti meno positivi nel momento in cui riflette la necessità di ulteriori determinazioni di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 103 alcuni aspetti tecnici anche importanti, che richiederanno probabilmente precisazioni tecniche nelle prossime fasi. Anche il presente studio riflette evidentemente tale limite, e deve pertanto essere considerato come uno strumento di orientamento delle decisioni, che evidenzia rischi e fornisce suggerimenti per risolvere i problemi, piuttosto che come una misura precisa degli impatti ambientali che gli interventi previsti produrranno. Stime più precise di tali impatti (...) potranno essere fornite in futuro in studi di impatto ambientale che accompagnino l’evoluzione delle attuali linee progettuali (…)». 32.- Le conclusioni della relazione contenevano una serie di valutazioni relative alla fattibilità, sotto il profilo ambientale, delle linee direttrici del progetto studiato. Esse rilevavano ciò che segue: «In ogni caso la prosecuzione delle attività di progettazione dovrà prevedere un significativo contenimento delle interferenze sull’ambiente rispetto alle ipotesi iniziali, obiettivo [per il cui conseguimento si potranno] anche utilizzare i suggerimenti al riguardo contenuti nella presente relazione. Tal[e] obiettiv[o] dovr[à] essere perseguit[o] con maggior forza per quanto riguarda gli interventi in Valle dell’Alpe, per i quali potrà essere opportuno un ulteriore specifico studio di impatto ambientale una volta precisato l’insieme degli interventi ipotizzati». 33.- Il 3 ottobre 2002 il Consorzio dichiarava di approvare le misure e gli orientamenti raccomandati dalla relazione dell’IREALP, nonché le proposte ivi contenute. 34.- Il 14 febbraio 2003 il Consorzio rilasciava un’autorizzazione relativa al progetto di ampliamento e adattamento delle piste da sci alpino «Bucaneve» e «Edelweiss», nonché delle infrastrutture correlate in località Santa Caterina Valfurva (in prosieguo: «l’autorizzazione del 14 febbraio 2003»). Il Consorzio considerava i lavori previsti conformi al contenuto di tale relazione, precisando, tuttavia, che tale autorizzazione veniva concessa subordinatamente alla sussistenza di tale conformità. La detta autorizzazione veniva inoltre subordinata all’osservanza di una serie di condizioni e prescrizioni. 35.- A partire dal febbraio 2003, circa 2 500 alberi venivano abbattuti, su un’area di 50 metri di larghezza per 500 metri di lunghezza, a quote comprese fra 1 700 e 1 900 metri di altitudine. Inoltre, l’adattamento delle piste e delle infrastrutture sciistiche a Santa Caterina Valfurva, all’interno della zona di protezione speciale IT 2040044, causava la completa perdita di continuità degli habitat delle specie di uccelli presenti nel sito. 36.- Il 19 giugno 2003, sulla scorta delle indicazioni contenute nella relazione dell’IREALP, veniva pubblicato un nuovo progetto, corredato da uno studio complementare del comune di Valfurva relativo all’impatto ambientale. Nel luglio 2003 veniva avviata la procedura di valutazione dell’impatto ambientale, finalizzata al parere relativo alla parte del progetto localizzata tra Plaghera, Costa Sobretta e Valle dell’Alpe. 37.- Il 20 agosto 2003 il Consorzio emetteva parere negativo sulla compatibilità del progetto con l’ambiente, a causa dell’inosservanza delle indicazioni fornite nella relazione dell’IREALP. 38.- Il 16 ottobre 2003 veniva sottoscritto un documento d’intesa tra la Regione Lombardia, il Consorzio, il comitato organizzatore dei campionati mondiali di sci ed il responsabile del programma quadro relativo al progetto, al fine di mettere a punto gli elementi controversi del progetto. Tale intesa prevedeva: – l’individuazione delle modalità di acquisizione dei pareri per portare a termine le procedure regionali di valutazione; – l’adozione di una visione d’insieme degli interventi sottoposti ad istruttoria, coordinando per quanto possibile le relative procedure; 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – la garanzia del rispetto delle condizioni fissate dal consiglio direttivo del Consorzio; – la conferma della localizzazione della stazione intermedia a Plaghera e del rifugio in Valle dell’Alpe; – il riesame e l’adattamento dei progetti riferiti agli interventi nell’ambito del sito di Santa Caterina-Plaghera in funzione delle esigenze di tutela espresse dal Consorzio. 39.- Con decreto 28 novembre 2003, n. 20789, la Regione Lombardia dichiarava che il progetto di ristrutturazione degli impianti di risalita e dei servizi correlati nel territorio del comune di Valfurva era compatibile con l’ambiente della zona di protezione speciale IT 2040044. 40.- Il detto decreto, che recepisce anche le conclusioni di una valutazione di incidenza della competente Direzione generale Agricoltura della Regione Lombardia, affidava la vigilanza sul rispetto delle condizioni poste, in fase sia di approvazione dei progetti sia della loro esecuzione, al Comune di Valfurva. Esso stabiliva inoltre che i progetti definitivi avrebbero dovuto essere integrati con una serie di prescrizioni, tra cui la presentazione di uno studio di incidenza delle opere. FASE PRECONTENZIOSA DEL PROCEDIMENTO 41.- Conformemente all’art. 226 CE, la Commissione, con lettera 19 dicembre 2003, invitava la Repubblica italiana a trasmetterle le proprie informazioni in merito alla situazione della zona di protezione speciale IT 2040044. 42.- Non avendo ricevuto risposta a tale lettera, la Commissione inviava alla Repubblica italiana un parere motivato in data 9 luglio 2004. 43.- La Repubblica italiana rispondeva alle censure formulate dalla Commissione nel parere motivato con diverse comunicazioni ministeriali. 44.- La Commissione, ritenendo tali risposte insoddisfacenti, proponeva il ricorso in esame. SUL RICORSO 45.- La Commissione deduce quattro addebiti a carico della Repubblica italiana: i primi tre si riferiscono alla direttiva 92/43 ed il quarto riguarda la direttiva 79/409. Sul primo addebito, vertente sulla violazione del combinato disposto degli artt. 6, n. 3, e 7 della direttiva 92/43 – Argomenti delle parti 46.- La Commissione ritiene che l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 non fosse fondata su un’adeguata valutazione dell’impatto ambientale della decisione di ampliare le piste da sci «Bucaneve» e «Edelweiss» e di allestire varie infrastrutture correlate. 47.- La Commissione sottolinea che la relazione dell’IREALP non contiene un’adeguata valutazione degli effetti delle opere progettate sulla zona di protezione speciale IT 2040044. 48.- Essa rileva che la detta zona ospita numerose specie di uccelli protette, come emerge dalle indicazioni contenute nell’Atlas of European Breeding Birds, pubblicazione che raccoglie gli studi di oltre 10 000 ornitologi di tutta Europa e considerata quale opera estremamente attendibile in materia di uccelli nidificanti in Europa. 49.- La Commissione osserva inoltre che, sebbene la relazione dell’IREALP contenga utili raccomandazioni, di esse non si è tenuto debitamente conto nell’ambito dell’autorizzazione del 14 febbraio 2003. 50.- La Commissione giunge alla conclusione che la detta autorizzazione è stata accordata senza che le autorità nazionali avessero acquisito la certezza che le opere previste fos- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 105 sero prive di effetti pregiudizievoli per l’integrità della zona di protezione speciale in questione. 51.- La Repubblica italiana deduce che occorre distinguere tra due tipi di lavori, ossia, da un lato, quelli per cui è stata effettuata la procedura di valutazione dell’impatto ambientale e sono state indicate le misure da adottare per limitare tale impatto e, dall’altro, quelli per cui, in base alla relazione dell’IREALP, sono state previste talune modifiche. 52.- La Repubblica italiana osserva che per la prima categoria di lavori, che comprende le opere realizzate tra Plaghera e la Valle dell’Alpe, occorre determinare se le competenti autorità abbiano proceduto ad una valutazione degli interessi ambientali presenti nella zona di protezione speciale IT 2040044. Per gli altri lavori, ossia le opere realizzate tra Santa Caterina e Plaghera, occorrerebbe verificare se la stessa procedura abbia avuto corso e se il rinvio ad una fase successiva di affinamento progettuale delle misure di mitigazione delle ripercussioni sull’ambiente sia conforme alla direttiva 92/43. 53.- La Repubblica italiana sostiene che il decreto regionale 30 maggio 2000, n. 13879, pur non facendo espressamente riferimento alla valutazione dell’incidenza ambientale, è stato emanato previa analisi degli elementi di riferimento stabiliti da tale direttiva. 54.- Secondo la Repubblica italiana, ne consegue che la valutazione alla base di tale decreto costituisce un vincolo imprescindibile per ogni successivo provvedimento autorizzativo. – Giudizio della Corte 55.- In via preliminare occorre rilevare che le parti sono concordi sul fatto che i lavori di adattamento delle piste da sci e l’allestimento delle connesse infrastrutture erano tali da far sorgere l’obbligo di effettuare una previa valutazione d’incidenza ambientale, in conformit à all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43. 56.- Tale disposizione prevede un procedimento di valutazione diretto a garantire, mediante un controllo preventivo, che un piano o un progetto non direttamente connesso o necessario alla gestione del sito interessato, ma idoneo ad avere incidenze significative sullo stesso, possa essere autorizzato solo se non pregiudicherà l’integrità di tale sito (v. sentenze 7 settembre 2004, causa C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, Racc. pag. I-7405, punto 34, in prosieguo: la «sentenza Waddenzee»; nonché 26 ottobre 2006, causa C-239/04, Commissione/Portogallo, Racc. pag. I-10183, punto 19, in prosieguo: la «sentenza Castro Verde»). 57.- Per quanto riguarda la nozione di «opportuna valutazione» ai sensi dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, occorre rilevare che quest’ultima non definisce alcun metodo particolare per lo svolgimento di siffatta valutazione. 58.- Tuttavia, la Corte ha dichiarato che tale valutazione dev’essere concepita in modo tale che le autorità competenti possano acquisire la certezza che un piano o un progetto non pregiudicherà l’integrità del sito di cui trattasi, dato che, quando sussiste un’incertezza quanto alla mancanza di tali effetti, le dette autorità sono tenute a negare l’autorizzazione richiesta (v., in tal senso, le citate sentenze Waddenzee, punti 56 e 57, e Castro Verde, punto 20). 59.- Quanto agli elementi in base ai quali le competenti autorità possono acquisire la certezza necessaria, la Corte ha precisato che dev’essere escluso qualsiasi ragionevole dubbio da un punto di vista scientifico, fermo restando che le dette autorità devono fondarsi sulle migliori conoscenze scientifiche in materia (v. citate sentenze Waddenzee, punti 59 e 61, e Castro Verde, punto 24). 60.- Occorre pertanto verificare se, nel caso di specie, gli effetti dei lavori controversi sull’integrità del sito interessato siano stati esaminati prima del rilascio dell’autorizzazione del 14 febbraio 2003 in modo conforme ai suddetti parametri. 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 61.- Dagli atti di causa risulta che talune riflessioni preparatorie erano state svolte prima del rilascio della detta autorizzazione. Le valutazioni possibilmente idonee ai sensi dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 sono costituite, da una parte, da uno studio dell’impatto sull’ambiente realizzato nel 2000 e, dall’altra, da una relazione presentata nel 2002 (v. supra, punti 21-24 nonché 25-32). 62.- Per quanto attiene, da un lato, al suddetto studio, realizzato da un architetto per conto di due imprese di lavori pubblici, occorre osservare che, sebbene esso affronti la questione degli effetti delle opere progettate sulla fauna e sulla flora della zona, esso stesso evidenzia il carattere sommario e frammentario dell’analisi delle ripercussioni ambientali prodotte dall’allargamento delle piste da sci e dalla costruzione delle correlate infrastrutture. 63.- Si deve altresì sottolineare che il medesimo studio rileva un numero considerevole di elementi che non sono stati presi in considerazione. In particolare, esso raccomanda ulteriori analisi morfologiche e ambientali, nonché un nuovo esame degli effetti delle opere, nel loro contesto globale, sulla fauna selvatica in generale e sulla situazione di talune specie tutelate, in particolare nella zona di foresta da disboscare. 64.- Secondo il detto studio, inoltre, dal punto di vista economico la realizzazione delle opere progettate è auspicabile, ma deve avvenire nel rispetto di un elevato numero di prescrizioni a fini di tutela. 65.- È d’obbligo concludere che il detto studio non costituisce una valutazione opportuna ai sensi dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 sulla quale le autorità nazionali potessero fondarsi per autorizzare i lavori controversi. 66.- Per quanto concerne, dall’altro lato, la relazione dell’IREALP presentata nel 2002, va osservato che anch’essa descrive i lavori previsti, esaminandone l’incidenza sul regime idrogeologico e sulla geomorfologia, nonché sulla vegetazione della zona. Quanto agli uccelli per i quali il sito è stato classificato zona di protezione speciale, tale relazione non contiene un elenco esaustivo degli uccelli selvatici ivi presenti. 67.- Se è pur vero che la relazione dell’IREALP spiega che i principali elementi di disturbo che minacciano la fauna provengono dalla distruzione dei nidi durante la fase di disboscamento e dalla frammentazione dell’habitat, tale relazione è tuttavia caratterizzata da una serie di rilievi di carattere preliminare e dall’assenza di conclusioni definitive. Essa sottolinea, infatti, l’importanza di valutazioni da effettuarsi progressivamente, in particolare in base a conoscenze e precisazioni che possono emergere nel corso del processo di realizzazione del progetto. La detta relazione è stata peraltro concepita come un’occasione per presentare ulteriori proposte di miglioramento del bilancio ambientale degli interventi previsti. 68.- Da tali elementi si evince che neppure la relazione dell’IREALP può essere considerata quale valutazione opportuna dell’incidenza dei lavori controversi sulla zona di protezione speciale IT 2040044. 69.- Da tutte le suesposte considerazioni risulta che sia lo studio del 2000 sia la relazione del 2002 sono caratterizzati da lacune e dall’assenza di rilievi e di conclusioni completi, precisi e definitivi atti a dissipare qualsiasi ragionevole dubbio scientifico in merito agli effetti dei lavori previsti sulla zona di protezione speciale in questione. 70.- Orbene, rilievi e conclusioni di tale natura erano indispensabili affinché le competenti autorità fossero in grado di acquisire la certezza necessaria per adottare la decisione che autorizza i detti lavori. 71.- Pertanto, l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 non era conforme all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 107 72.- Quanto agli altri studi, è sufficiente osservare che essi non possono essere considerati pertinenti, dato che sono stati svolti o nel corso dei lavori, o dopo la loro realizzazione, ossia dopo il rilascio dell’autorizzazione del 14 febbraio 2003. 73.- Pertanto, l’inadempimento dell’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 dev’essere considerato dimostrato. Sul secondo addebito, vertente sulla violazione del combinato disposto degli artt. 6, n. 4, e 7 della direttiva 92/43 – Argomenti delle parti 74.- La Commissione ritiene che fosse evidente come i lavori previsti rischiassero di pregiudicare gravemente l’integrità della zona in questione. Ebbene, a suo avviso non è stata presa seriamente in considerazione nessuna alternativa. Il decreto regionale 30 maggio 2000, n. 13879, avrebbe evocato la possibilità di non modificare le piste da sci «Bucaneve» e «Edelweiss», ma piuttosto di mantenere, nei limiti del possibile, il tracciato attuale, per poi scostarsene in seguito. 75 .- La Commissione ne deduce che il progetto è stato autorizzato sebbene esistessero altre soluzioni meno dannose per l’ambiente della detta zona, le quali tuttavia non sono state prese in considerazione dalle autorità nazionali. 76.- La Commissione fa inoltre valere che la realizzazione dei lavori non era giustificata da motivi imperativi di rilevante interesse pubblico. Essa afferma, inoltre, che non è stata adottata alcuna misura compensativa. 77.- La Repubblica italiana sostiene che i lavori controversi sono stati oggetto di una doppia procedura di autorizzazione. La parte iniziale dei tracciati e degli impianti tra Santa Caterina e Plaghera sarebbe stata considerata compatibile con l’ambiente in forza del decreto regionale 30 maggio 2000, n. 13879, integrato dal successivo parere favorevole del Consiglio regionale della Lombardia. Per quanto riguarda la parte del progetto da realizzarsi tra Plaghera e la Valle dell’Alpe, essa afferma che è stata avviata una fase di revisione del progetto in seguito alle indicazioni contenute nella relazione dell’IREALP, al fine di dar corso alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale. 78.- La Repubblica italiana fa presente che la Regione Lombardia aveva imposto, quale condizione prevista dal decreto regionale 28 novembre 2003, n. 20789, contenente una valutazione d’incidenza ambientale relativa alla zona situata tra Plaghera e Valle dell’Alpe, che fosse presentato uno studio sull’impatto complessivo delle opere, riguardante anche la zona situata tra Santa Caterina e Plaghera. 79.- La Repubblica italiana aggiunge che le competenti autorità hanno acquisito la certezza che fosse necessario assoggettare a valutazione d’incidenza ambientale la totalità delle opere, comprese quelle autorizzate dal detto decreto regionale. – Giudizio della Corte 80.- Per quanto riguarda la fondatezza dell’addebito vertente sulla violazione dell ’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, occorre acclarare se l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 fosse conforme ai requisiti stabiliti dall’art. 6, n. 4, della direttiva. 81.- Tale disposizione prevede che, qualora, nonostante conclusioni negative della valutazione dell’incidenza effettuata in conformità all’art. 6, n. 3, primo periodo, di tale direttiva, un piano o progetto debba essere comunque realizzato per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e in mancanza di soluzioni alternative, lo Stato membro può adottare ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 82.- Come la Corte ha sottolineato ai punti 35 e 36 della citata sentenza Commissione/Portogallo, l’art. 6, n. 4, della detta direttiva, in quanto disposizione derogatoria rispetto al criterio di autorizzazione previsto dal secondo periodo del n. 3 del citato articolo, dev’essere interpretato restrittivamente. 83.- Occorre inoltre rilevare che l’art. 6, n. 4, della direttiva 92/43 può essere applicato solo dopo che l’incidenza di un piano o di un progetto sia stata valutata ai sensi dell’art. 6, n. 3, della direttiva medesima. La conoscenza di tale incidenza con riferimento agli obiettivi di conservazione relativi al sito in questione costituisce un presupposto imprescindibile ai fini dell’applicazione del detto art. 6, n. 4, dato che, in assenza di tali elementi, non può essere valutato alcun requisito di applicazione di tale disposizione di deroga. L’esame di eventuali motivi imperativi di rilevante interesse pubblico e quello dell’esistenza di alternative meno dannose richiedono, infatti, una ponderazione con riferimento ai danni che il piano o il progetto in questione cagiona al sito. Inoltre, per determinare la natura di eventuali misure compensative, i danni al detto sito devono essere individuati con precisione. 84.- Orbene, dalle considerazioni che precedono risulta che le autorità nazionali non disponevano di tali dati al momento dell’adozione della decisione di concedere l’autorizzazione del 14 febbraio 2003. Ne consegue che tale autorizzazione non può essere fondata sull ’art. 6, n. 4, della direttiva 92/43. 85.- Pertanto, l’autorizzazione del 14 febbraio 2003 dal Consorzio non era conforme all’art. 6, n. 4, della direttiva 92/43. 86.- Di conseguenza, anche sotto tale profilo il ricorso della Commissione è fondato. Sul terzo addebito, vertente sulla violazione del combinato disposto degli artt. 6, n. 2, e 7 della direttiva 92/43 – Argomenti delle parti 87.- La Commissione afferma che le autorità nazionali non erano autorizzate a concedere l’autorizzazione per i lavori di ampliamento e adattamento della zona sciistica alpina, dato che tali lavori erano suscettibili di arrecare grave pregiudizio all’integrità del parco. 88.- La Commissione sottolinea che la zona in questione ha subìto un notevole degrado in seguito ai lavori autorizzati dal Consorzio. Essa ricorda che l’adattamento delle piste da sci alpino «Bucaneve» e «Edelweiss» ha comportato l’abbattimento di circa 2 500 alberi che costituivano un habitat importante per numerose specie tutelate di uccelli. 89.- Secondo la Repubblica italiana, la circostanza che la realizzazione dell’opera controversa abbia comportato alcuni aspetti critici cui non è ancora stato posto rimedio non significa che gli interventi considerati non siano stati correttamente valutati. Quando lavori pubblici comportanti impatti negativi sull’ambiente risultano necessari, le disposizioni della direttiva 92/43 non implicano, a suo avviso, il divieto di realizzare tali lavori, bensì l’obbligo di adottare opportune misure compensative. 90.- La Repubblica italiana ritiene che siffatte misure debbano essere adottate, secondo le possibilità, prima, durante e dopo la realizzazione dei lavori in questione. – Giudizio della Corte 91.- Per accertare la fondatezza dell’addebito occorre esaminare se attività che incidono su una zona di protezione speciale possano violare l’art. 6, nn. 3 e 4, della direttiva 92/43 – come rilevato, nella specie, ai punti 73 e 85 della presente sentenza – nonché, contemporaneamente, il n. 2 dello stesso articolo. 92.- A tale proposito occorre osservare che quest’ultima disposizione stabilisce l’obbligo di adottare opportune misure di tutela, dirette ad evitare il degrado nonché le perturbazioni che possano avere effetti significativi per quanto riguarda gli obiettivi della direttiva 92/43. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 109 93.- Tale obbligo corrisponde all’obiettivo enunciato al settimo ‘considerando’ di tale direttiva, secondo il quale ogni zona di protezione speciale deve integrarsi in una rete ecologica europea coerente. 94.- Quando un’autorizzazione sia stata accordata per un piano o progetto in modo non conforme all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 – come emerge nella specie dall’esame della prima censura –, può essere rilevata una violazione del n. 2 del detto articolo con riferimento ad una zona di protezione speciale se risultino dimostrati il degrado di un habitat ovvero perturbazioni che colpiscono le specie per le quali la zona in questione è stata designata. 95.- Per quanto riguarda la causa in esame, occorre ricordare che all’interno della zona interessata – che costituisce l’habitat di specie di uccelli protetti, in particolare dell’astore, della pernice bianca, del picchio nero e del fagiano di monte – sono stati abbattuti circa 2 500 alberi. Di conseguenza, i lavori controversi hanno annientato i siti di riproduzione delle dette specie. 96.- È giocoforza concludere che i detti lavori, e le ripercussioni sulla zona di protezione speciale IT 2040044 che ne sono derivate, erano incompatibili con lo status giuridico di tutela di cui avrebbe dovuto beneficiare la detta zona in forza dell’art. 6, n. 2, della direttiva 92/43. 97.- Di conseguenza, il ricorso della Commissione dev’essere accolto anche sotto tale profilo. Sul quarto addebito, vertente sulla violazione dell’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva 79/409 – Argomenti delle parti 98.- La Commissione ritiene che l’analisi delle misure adottate dalle autorità nazionali dimostri come la zona di protezione speciale IT 2040044 non abbia beneficiato di uno status giuridico di protezione nel diritto nazionale atto a garantire, in particolare, la sopravvivenza e la riproduzione delle specie di uccelli menzionate nell’allegato I della direttiva 79/409 e la riproduzione, la muta e lo svernamento delle specie migratorie non considerate dal detto allegato che ivi ritornano regolarmente. 99.- Ad avviso della Commissione, i lavori intrapresi in seguito all’autorizzazione del 14 febbraio 2003 sarebbero tali da nuocere gravemente alle specie di uccelli presenti in tale zona di protezione speciale, in particolare durante il periodo riproduttivo. 100.- La Commissione precisa che, sebbene la detta zona sia soggetta a regolamentazione, la decisione del 14 febbraio 2003 dimostrerebbe come le autorità nazionali non abbiano preso le misure necessarie per istituire un regime giuridico atto ad assicurare non solo la tutela di tale zona, ma anche l’effettiva protezione delle specie di uccelli ivi presenti. 101.- La Repubblica italiana replica che la zona controversa costituisce uno spazio intensamente regolamentato. 102.- Essa spiega che dalla normativa istitutiva del Parco risulta che tale zona gode di uno status di tutela idoneo a garantire gli obiettivi previsti dalla normativa comunitaria. A suo avviso, la creazione del Parco ha lo scopo di proteggere la fauna instaurando un regime di gestione incentrato sulla conservazione di specie animali o vegetali. – Giudizio della Corte 103.- In via preliminare si deve rammentare che la zona oggetto del ricorso in esame è stata classificata zona di protezione speciale ai sensi delle disposizioni dell’art. 4 della direttiva 79/409. 104.- Occorre altresì rilevare che, se è pur vero che l’art. 7 della direttiva 92/43 produce l’effetto di sostituire gli obblighi imposti dall’art. 6, nn. 2-4, della detta direttiva a quelli 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO derivanti dall’art. 4, n. 4, della direttiva 79/409, gli obblighi dettati dai nn. 1 e 2 del citato art. 4 rimangono integralmente applicabili. Questi ultimi obblighi presentano infatti carattere autonomo e perseguono obiettivi diversi da quelli stabiliti all’art. 6, nn. 2-4, della direttiva 92/43. 105.- Ai fini della determinazione della fondatezza della censura va sottolineato che, per giurisprudenza costante, incombe alla Commissione provare la sussistenza dell’asserito inadempimento. Spetta infatti all’istituzione fornire alla Corte tutti gli elementi necessari affinché quest’ultima accerti l’esistenza dell’inadempimento, senza potersi basare su alcuna presunzione (v., in particolare, sentenze 6 novembre 2003, causa C-434/01, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-13239, punto 21; 29 aprile 2004, causa C-117/02, Commissione/Portogallo, Racc. pag. I-5517, punto 80, e 26 aprile 2007, causa C-135/05, Commissione/Italia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20). 106.- A tale proposito occorre osservare, come ha fatto la stessa Commissione, che la gestione della zona di protezione speciale in questione è disciplinata da diversi strumenti giuridici dell’ordinamento italiano. 107.- Incombeva quindi alla Commissione produrre la prova che il contesto giuridico delineato da tali diversi strumenti non è idoneo a conferire alla detta zona un adeguato status di tutela. 108.- Ebbene, la Commissione non ha dimostrato sotto quale profilo il detto contesto giuridico sia insufficiente alla luce delle disposizioni dell’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva. Essa si è infatti limitata ad eccepire l’adozione, da parte dell’autorità amministrativa, di una decisione di autorizzazione contraria all’art. 6 della direttiva 92/43, il che tuttavia non basta a dimostrare l’incompatibilità del detto contesto giuridico con l’art. 4 della direttiva 79/409. 109.- Conseguentemente, il quarto addebito della Commissione dev’essere respinto. SULLE SPESE 110.- A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta sostanzialmente soccombente, va condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce: 1) La Repubblica italiana, – avendo autorizzato misure suscettibili di avere un impatto significativo sulla zona di protezione speciale IT 2040044, Parco Nazionale dello Stelvio, senza assoggettarle ad un’opportuna valutazione della loro incidenza alla luce degli obiettivi di conservazione della detta zona; – avendo autorizzato siffatte misure senza rispettare le disposizioni che consentono la realizzazione di un progetto, in caso di conclusioni negative risultanti dalla valutazione dell ’incidenza sull’ambiente e in mancanza di soluzioni alternative, solo per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, e solo dopo avere adottato e comunicato alla Commissione delle Comunità europee ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata, e – avendo omesso di adottare misure per evitare il deterioramento degli habitat naturali e degli habitat delle specie nonché la perturbazione delle specie per le quali la zona di protezione speciale IT 2040044, Parco Nazionale dello Stelvio, è stata designata, è venuta meno agli obblighi ad essa imposti dall’art. 6, nn. 2-4, della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 111 seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, nel combinato disposto con l’art. 7 della medesima direttiva, nonché dall’art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici. 2) Il ricorso è respinto quanto al resto. 3) La Repubblica italiana è condannata alle spese». Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione seconda, sentenza 20 settembre 2007 nella causa C-388/05 (ricorso per inadempimento) – Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. L. Bay Larsen – Avv. gen. E. Sharpston. «1.- Con il presente ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, – prima del 28 dicembre 1998, data di designazione della zona di protezione speciale (in prosieguo: la «ZPS») «Valloni e steppe pedegarganiche», è venuta meno agli obblighi derivanti dall’art. 4, n. 4, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva sugli uccelli»), nella misura in cui ha omesso di adottare misure idonee a prevenire l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli selvatici che abbiano conseguenze significative, in riferimento al piano denominato «patto d’area » ed ai progetti ivi previsti, i quali erano suscettibili di avere un impatto sugli habitat e sulle specie all’interno della zona importante per la conservazione degli uccelli, detta Important Bird Area (in prosieguo: la «IBA») n. 94 del catalogo IBA 1989, «Promontorio del Gargano» e n. 129 del catalogo IBA 1998, «Promontorio del Gargano», e hanno effettivamente causato il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli selvatici presenti all’interno della suddetta zona; – dopo il 28 dicembre 1998, data di designazione della ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche », è venuta meno agli obblighi derivanti dagli artt. 6, nn. 2-4, e 7 della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (G.U. L 206, pag. 7; in prosieguo: la «direttiva sugli habitat»), nella misura in cui: in violazione dell’art. 6, n. 2, della direttiva in questione, ha omesso di adottare le opportune misure per evitare nella ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche» il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui tale ZPS è stata designata, in riferimento ai progetti previsti dal «patto d’area», allo stato attuale già realizzati, che hanno causato il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonch é la perturbazione delle specie all’interno di tale zona; in violazione dell’art. 6, n. 3, della stessa direttiva, ha omesso di effettuare una valutazione di incidenza ex ante conforme ai requisiti di cui al suddetto articolo, in riferimento ai progetti previsti dal «patto d’area», allo stato attuale già realizzati, che erano suscettibili di avere incidenze significative sulla ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche». in violazione dell’art. 6, n. 4, della medesima direttiva, ha omesso di applicare la procedura che permette di realizzare un progetto anche in caso di conclusioni negative della valutazione dell’incidenza sul sito e in mancanza di soluzioni alternative, per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica o consi- 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO derazioni connesse con la salute dell’uomo e la sicurezza pubblica o relative a conseguenze positive di primaria importanza per l’ambiente ovvero, previo parere della Commissione, altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, e di comunicare alla Commissione le misure compensative adottate necessarie per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 fosse tutelata, in riferimento ai progetti inseriti nel «patto d’area» che sono stati approvati, nonostante la loro rilevante incidenza sulla ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche», per fronteggiare la situazione di crisi socio-economica ed occupazionale dell’area di Manfredonia. CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 2.- L’art. 4 della direttiva sugli uccelli così prevede: «1. Per le specie elencate nell’allegato I sono previste misure speciali di conservazione per quanto riguarda l’habitat, per garantire la sopravvivenza e la riproduzione di dette specie nella loro area di distribuzione. (…) Gli Stati membri classificano in particolare come zone di protezione speciale i territori più idonei in numero e in superficie alla conservazione di tali specie, tenuto conto delle necessità di protezione di queste ultime nella zona geografica marittima e terrestre in cui si applica la presente direttiva. 2. Analoghe misure vengono adottate dagli Stati membri per le specie migratrici non menzionate nell’allegato I che ritornano regolarmente, tenuto conto delle esigenze di protezione nella zona geografica marittima e terrestre in cui si applica la presente direttiva per quanto riguarda le aree di riproduzione, di muta e di svernamento e le zone in cui si trovano le stazioni lungo le rotte di migrazione. A tale scopo, gli Stati membri attribuiscono una importanza particolare alla protezione delle zone umide e specialmente delle zone d’importanza internazionale. (…) 4. Gli Stati membri adottano misure idonee a prevenire, nelle zone di protezione di cui ai paragrafi 1 e 2, l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli che abbiano conseguenze significative tenuto conto degli obiettivi del presente articolo. Gli Stati membri cercheranno inoltre di prevenire l’inquinamento o il deterioramento degli habitat al di fuori di tali zone di protezione». 3.- L’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat dispone quanto segue: «2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva». 4.- L’art. 6, n. 3, della direttiva sugli habitat istituisce una procedura di valutazione degli effetti sulle zone tutelate dei piani o progetti che possano avere incidenze sulle stesse, mentre l’art. 6, n. 4, della medesima direttiva prevede l’adozione, qualora ricorrano talune condizioni, di misure compensative nel caso in cui un piano o progetto debba essere realizzato nonostante le conclusioni negative della valutazione dell’incidenza sul sito in questione. 5.- L’art. 7 della direttiva sugli habitat prevede che gli obblighi derivanti dall’art. 6, nn. 2-4, della stessa «sostituiscono gli obblighi derivanti dall’articolo 4, paragrafo 4, prima frase, della direttiva [sugli uccelli] per quanto riguarda le zone classificate a norma dell’articolo 4, paragrafo 1, o analogamente riconosciute a norma dell’articolo 4, paragrafo 2 di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 113 detta direttiva a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente direttiva o dalla data di classificazione o di riconoscimento da parte di uno Stato membro a norma della [direttiva sugli uccelli], qualora essa sia posteriore». FATTI E PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO 6.- Nel febbraio 2001 la Lega Italiana Protezione Uccelli ha presentato alla Commissione una denuncia secondo la quale l’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche », classificata come ZPS il 28 dicembre 1998, era oggetto di numerosi interventi industriali ed immobiliari, già ultimati o in corso di esecuzione, dannosi per l’habitat naturale e la conservazione di numerose specie di uccelli selvatici che vivevano o transitavano nella zona. 7.- Con lettera del 22 agosto 2001, la Commissione ha chiesto alla Repubblica italiana informazioni circa gli interventi realizzati e previsti all’interno di tale area, con particolare riferimento a quelli di cui al «patto d’area» per lo sviluppo industriale dell’area di Manfredonia, concluso dalla Regione Puglia e dal Comune di Manfredonia. 8.- Le autorità italiane hanno risposto con lettere della Rappresentanza permanente della Repubblica italiana presso l’Unione europea del 6 dicembre 2001 e del 15 febbraio 2002, nonché con lettera della Regione Puglia del 13 febbraio 2003. 9.- Con lettera del 19 dicembre 2003, la Commissione ha intimato alla Repubblica italiana di presentare osservazioni entro un termine di due mesi dalla notifica di tale lettera. 10.- Poiché tale Stato membro non ha risposto alla lettera, in data 9 luglio 2004 la Commissione gli ha inviato un parere motivato. 11.- La Repubblica italiana ha risposto al parere con lettera del 9 novembre 2004, affermando che avrebbe presto dato risposta alle contestazioni della Commissione. 12.- Non avendo ricevuto altre risposte, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. 13.- Dal momento che la Commissione ha tuttavia rinunciato ai punti del ricorso relativi alla violazione dell’art. 6, nn. 3 e 4, della direttiva sugli habitat, gli stessi non devono più essere esaminati. SUL RICORSO Argomenti delle parti 14.- La Commissione sostiene che il «patto d’area» per lo sviluppo industriale dell’area di Manfredonia è stato approvato nel marzo 1998 e che i relativi progetti sono stati avviati immediatamente, con pregiudizio per la tutela di numerose specie di uccelli protetti che vivevano o transitavano nell’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche », classificata come ZPS in data 28 dicembre 1998. Tali progetti sarebbero peraltro tuttora in corso di realizzazione. 15.- Tale «patto d’area» sarebbe stato approvato senza l’adozione di misure volte a prevenire l’inquinamento e il degrado degli habitat, nonché la perturbazione degli uccelli all’interno dell’area «Valloni e steppe pedegarganiche», e senza una valutazione preliminare delle incidenze su tale area. 16.- La Repubblica italiana riconosce che il «patto d’area» è stato approvato nel marzo 1998 senza alcuna procedura preliminare di valutazione della sua incidenza sull’area «Valloni e steppe pedegarganiche». Essa riconosce che gli impianti industriali hanno avuto un effetto diretto sulla scomparsa di un habitat naturale di interesse comunitario in tale zona. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Giudizio della Corte Sulla situazione precedente alla classificazione dell’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche» come ZPS. 17.- L’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli impone agli Stati membri di adottare misure idonee a prevenire nelle ZPS l’inquinamento o il deterioramento degli habitat, nonché le perturbazioni dannose agli uccelli che abbiano conseguenze significative tenuto conto degli obiettivi di tale articolo. 18.- Emerge dalla giurisprudenza della Corte che gli Stati membri devono rispettare gli obblighi che derivano in particolare dall’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli, anche nel caso in cui la zona interessata non sia stata classificata come ZPS dal momento in cui doveva esserlo (v. sentenza 18 marzo 1999, causa C-166/97, Commissione/Francia, Racc. pag. I- 1719, punto 38). 19.- A questo proposito la Corte ha affermato che l’elenco delle IBA, per quanto non sia giuridicamente vincolante per gli Stati membri interessati, contiene elementi di prova scientifica che consentono di valutare l’osservanza da parte di uno Stato membro dell’obbligo di classificare come ZPS i territori più appropriati per numero e superficie per la conservazione delle specie protette (v., in particolare, sentenza 7 dicembre 2000, causa C-374/98, Commissione/Francia, Racc. pag. I-10799, punto 25). 20.- Ebbene, è pacifico che l’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche », situata nella Regione Puglia, e più precisamente nel Comune di Manfredonia, ospita alcune rare specie di uccelli selvatici, cosicché essa è stata classificata nel 1989 quale IBA, con la denominazione di «Promontorio del Gargano», da parte di BirdLife International. Essa è stata altresì classificata come IBA nel catalogo IBA 1998. 21.- Risulta pertanto che tale area avrebbe dovuto essere classificata come ZPS prima del 28 dicembre 1998. 22.- Inoltre, non è contestato che la realizzazione dell’area industriale nell’ambito del «patto d’area» ha comportato la distruzione di una parte della zona «Valloni e steppe pedegarganiche », prima in buono stato di conservazione, pregiudicando la conservazione di numerose specie di uccelli protetti che frequentavano tale area. 23.- Si deve pertanto rilevare che, prima del 28 dicembre 1998, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli, e che il ricorso della Commissione deve essere accolto su tale punto. Sulla situazione successiva alla classificazione dell’area geografica denominata «Valloni e steppe pedegarganiche» come ZPS. 24.- Occorre osservare che, per quanto riguarda le zone classificate come ZPS, l’art. 7 della direttiva sugli habitat prevede che gli obblighi derivanti dall’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli siano sostituiti, segnatamente, dagli obblighi derivanti dall’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat, a decorrere dalla data di entrata in vigore di quest’ultima direttiva o dalla data di classificazione a norma della direttiva sugli uccelli, qualora tale ultima data sia posteriore (v. sentenza 13 giugno 2002, causa C-117/00, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I- 5335, punto 25). 25.- Dal momento che l’area «Valloni e steppe pedegarganiche» è stata classificata come ZPS il 28 dicembre 1998, nella fattispecie l’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat deve applicarsi a detta area a partire da tale data. 26.- Atal riguardo si deve ricordare che l’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat, al pari dell’art. 4, n. 4, prima frase, della direttiva sugli uccelli, impone agli Stati membri di adottare le misure idonee ad evitare, nelle ZPS classificate conformemente al n. 1 di quest’ulti- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 115 mo articolo, il degrado degli habitat nonché le perturbazioni dannose che pregiudichino in modo significativo le specie per le quali le ZPS sono state classificate (v., in tal senso, sentenza Commissione/Irlanda, cit., punto 26). 27.- Risulta dagli atti di causa che, dopo il 28 dicembre 1998, la situazione descritta al punto 22 della presente sentenza ha continuato a sussistere. Si deve in proposito ricordare che la Regione Puglia ha affermato, per rispondere alle contestazioni sollevate dalla Commissione con nota del 7 luglio 2004, di aver preso in considerazione la necessità di adottare misure compensative adeguate prevedendo l’estensione della ZPS in esame o l’individuazione di una nuova ZPS avente una fauna ed una vegetazione comparabili a quelle dell’habitat danneggiato. 28.- È di conseguenza fondata la censura secondo la quale la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat. Pertanto, il ricorso della Commissione deve essere accolto anche su tale punto. 29.- Si deve dunque dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo adottato i provvedimenti adeguati per evitare, nella ZPS «Valloni e steppe pedegarganiche», il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui tale zona è stata creata, è venuta meno, nel periodo precedente al 28 dicembre 1998, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 4, n. 4, della direttiva sugli uccelli e, nel periodo successivo a tale data, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 6, n. 2, della direttiva sugli habitat. SULLE SPESE 30.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce: 1) La Repubblica italiana, non avendo adottato i provvedimenti adeguati per evitare, nella zona di protezione speciale «Valloni e steppe pedegarganiche», il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui tale zona è stata creata, è venuta meno, nel periodo precedente al 28 dicembre 1998, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 4, n. 4, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, e, nel periodo successivo a tale data, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 6, n. 2, della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese». Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione quarta, sentenza 4 ottobre 2007 nella causa C-179/06 (ricorso per inadempimento) – Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (ct. 21257/07, Avv. dello Stato G. Fiengo) – Rel. R. Silva de Lapuerta – Avv. Gen. J. Kokott. «(…) 1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo il Comune di Altamura e la Regione Puglia approvato, a partire dal dicembre 2000, una modifica del piano urbanistico costituita da una 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO serie di interventi di edilizia industriale suscettibili di avere un impatto significativo nella zona di protezione speciale (in prosieguo: la «ZPS») e nel sito di importanza comunitaria proposto (in prosieguo: il «SICp») IT9120007 di Murgia Alta senza effettuare una previa procedura di valutazione dell’incidenza almeno per quanto riguarda l’impatto sulla ZPS, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, n. 3, e 7 della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (G.U. L 206, pag. 7). CONTESTO NORMATIVO COMUNITARIO 2.- La direttiva 92/43 ha come scopo di contribuire a salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri a cui si applica il Trattato CE. 3.- L’art. 4 della citata direttiva disciplina la procedura ai sensi della quale è costituita la rete denominata «Natura 2000», prevista all’art. 3 della medesima, così come l’identificazione delle zone speciali di conservazione da parte degli Stati membri. 4.- L’art. 6 della detta direttiva, che stabilisce le misure di conservazione per tali zone, prevede: «(...) 2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva. 3. Qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso e necessario alla gestione del sito ma che possa avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti, forma oggetto di una opportuna valutazione dell’incidenza che ha sul sito, tenendo conto degli obiettivi di conservazione del medesimo. Alla luce delle conclusioni della valutazione dell’incidenza sul sito e fatto salvo il paragrafo 4, le autorità nazionali competenti danno il loro accordo su tale piano o progetto soltanto dopo aver avuto la certezza che esso non pregiudicherà l’integrità del sito in causa e, se del caso, previo parere dell’opinione pubblica. (…)». 5.- L’art. 7 della direttiva 92/43 prevede che gli obblighi derivanti dall’art. 6, nn. 2-4, di quest’ultima sostituiscono gli obblighi derivanti dall’art. 4, n. 4, prima frase, della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1), per quanto riguarda le zone classificate a norma dell’art. 4, n. 1, di quest’ultima direttiva o analogamente riconosciute a norma dell’art. 4, n. 2, della medesima, a decorrere dalla data di entrata in vigore della direttiva 92/43 o dalla data di classificazione o di riconoscimento da parte di uno Stato membro a norma della direttiva 79/409, qualora essa sia posteriore. ZONA DI MURGIA ALTA 6.- Nel 1998 il sito di Murgia Alta è stato classificato come ZPS, in conformità all’art. 4, n. 1, della direttiva 79/409 (codice: IT9120007). Detto sito appartiene alla regione biogeografica mediterranea. La sua superficie è pari a 143 152 ettari. 7.- Tale ZPS ospita numerose specie di uccelli elencate nell’allegato I alla direttiva 79/409, in particolare la più importante popolazione, in Italia, della specie Falco naumanni. 8.- Due habitat prioritari menzionati nell’allegato I alla direttiva 92/43 sono presenti nella detta ZPS, l’habitat 6210, denominato «Formazioni erbose secche seminaturali e IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 117 facies coperte da cespugli su substrato calcareo (Festuco-Brometalia)», e l’habitat 6220, denominato «Percorsi substeppici di graminacee e piante annue dei Thero-Brachypodietea», nonché una pianta prioritaria, menzionata nell’allegato II alla direttiva 92/43, la Stipa austroitalica Martinovsky. 9.- Il sito di Murgia Alta è descritto nel formulario predisposto in forza della decisione della Commissione 18 dicembre 1996, 97/266/CEE, concernente un formulario informativo sui siti proposti per l’inserimento nella rete Natura 2000 (G.U. L 107, pag. 1), come segue: «Caratteristiche generali sito: Tipi di habitat % coperta Heath, Scrub, Maquis and Garrigue, Phygrana [brughiere, boscaglie, macchia, garighe, frigane] 20 Dry grassland, Steppes [praterie aride, steppe] 65 Evergreen woodland [foreste di sempreverdi] 15 Copertura totale habitat 100% Altre caratteristiche sito: Paesaggio suggestivo costituito da lievi ondulazioni e da avvallamenti doliniformi, con fenomeni carsici superficiali rappresentati dai puli e dagli inghiottitoi. Il substrato è di calcare cretaceo, generalmente ricoperto da calcarenite pleistocenica. Il bioclima è submediterraneo. Qualità e importanza: Subregione fortemente caratterizzata dall’ampio e brullo tavolato calcareo che culmina nei 679 m del monte Caccia. Si presenta prevalentemente come un altipiano calcareo alto e pietroso. È una delle aree substeppiche più vaste d’Italia, con vegetazione erbacea ascrivibile ai Festuco brometalia. La flora dell’area è particolarmente ricca, raggiungendo circa 1 500 specie. Da un punto di vista dell’avifauna nidificante sono state censite circa 90 specie, numero che pone quest’area a livello regionale al secondo posto dopo il Gargano. Le formazioni boschive superstiti sono caratterizzate dalla prevalenza di Quercus pubescens spesso accompagnate da Fraxinus ornus. Rare Quercus cerris e Q. frainetto. Vulnerabilità: Il fattore distruttivo di maggiore entità è rappresentato dallo spietramento del substrato calcareo che viene poi sfarinato con mezzi meccanici. In tal modo vaste estensioni con vegetazioni substeppiche vengono distrutte per la messa a coltura di nuove aree. L’operazione coinvolge spesso anche muri a secco e altre forme di delimitazione, con grossi pericoli di dissesto idrogeologico. Incendi ricorrenti, legati alla prevalente attività cerealicola. Insediamento di seconde case in località a maggiore attrattiva turistica. Uso improprio delle cavità carsiche per discarica di rifiuti solidi urbani e rifiuti solidi». FATTI 10.- Il 27 dicembre 2000 il Comune di Altamura, attraverso plurime deliberazioni della sua giunta comunale, ai sensi dell’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142, relativa all’ordinamento delle autonomie locali (Supplemento ordinario alla GURI n. 135, del 12 giugno 1990), ha approvato accordi di programma per circa un centinaio di interventi edilizi di tipo industriale, la gran parte dei quali ricadrebbe all’interno della ZPS e del SICp di Murgia Alta. Tali accordi riguardavano in particolare 34 opifici, per una superficie di ha 60, previsti in seno al progetto del Consorzio di Sviluppo Murgiano, e 11 opifici, per una superficie di ha 8, previsti dal progetto del Consorzio San Marco. Gli accordi in parola sono stati successivamente approvati mediante decreto dalla Giunta regionale della Regione Puglia. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 11.- Al fine di incentivare l’occupazione nel settore produttivo a carattere industriale e artigianale, i sindaci dei comuni interessati possono chiedere alla Giunta regionale la definizione di un accordo di programma per autorizzare la realizzazione di complessi che attivino immediatamente importanti livelli di occupazione. 12.- La sottoscrizione di un accordo di programma, che deve essere autorizzata dalla Giunta regionale, è ammissibile solo qualora il piano urbanistico vigente non preveda aree idonee con destinazione specifica operante e giuridicamente efficace per le opere da realizzare o qualora sia indispensabile l’ampliamento di strutture esistenti in aree contigue non destinate alle attività industriali e artigianali. 13.- Nel periodo dal 1998 al 2001, numerose imprese hanno presentato al Comune di Altamura istanze dirette ad ottenere accordi di programma di tipo industriale e artigianale, alcuni dei quali comportavano una variante al piano urbanistico generale. I procedimenti avviati sulla base di dette istanze non prevedevano alcuna fase di programmazione generale, bensì implicavano singole procedure di variante al citato piano. 14.- L’amministrazione regionale ha sottoposto i progetti di competenza del Consorzio di Sviluppo Murgiano ad una procedura di verifica con riferimento alla necessità di valutazione dell’impatto ambientale, ritenendo, tuttavia, che non occorresse sottoporre ad una tale procedura altri progetti, come quelli del Consorzio San Marco. Sulla base di tali accordi, il Comune di Altamura ha concesso un certo numero di licenze edilizie. FASE PRECONTENZIOSA 15.- Ai sensi dell’art. 226 CE, il 9 luglio 2004 la Commissione inviava una lettera di diffida alla Repubblica italiana, invitandola a trasmettere le proprie osservazioni in merito alla situazione della zona in questione riguardo agli obblighi enunciati agli artt. 6, n. 3, e 7 della direttiva 92/43. 16.- La Repubblica italiana rispondeva alla suddetta lettera mediante comunicazioni del 14 ottobre 2004 e del 9 giugno 2005, alle quali erano allegate diverse note del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio. 17.- Successivamente, in data 13 luglio 2005 la Commissione inviava alla Repubblica italiana un parere motivato, invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie per conformarvisi entro due mesi dal suo ricevimento. 18.- La Repubblica italiana rispondeva al detto parere mediante la trasmissione di due nuove note ministeriali, datate 3 ottobre 2005 e 7 ottobre 2005. 19.- Ritenendo persistesse una situazione insoddisfacente, la Commissione proponeva il presente ricorso. SUL RICORSO Argomenti delle parti 20.- La Commissione deduce che non è stata effettuata alcuna procedura di valutazione di incidenza di cui all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 relativamente all’insieme degli interventi previsti negli accordi di programma in parola, che possono avere un impatto significativo sulla zona in esame. 21.- Essa rileva che le svariate decisioni amministrative mediante le quali sono stati approvati gli interventi controversi contrastano con il citato art. 6, n. 3, in quanto, pur essen- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 119 do tali interventi atti ad avere un impatto significativo sulla ZPS e sul SICp di Murgia Alta, essi non hanno costituito oggetto di una procedura di valutazione di incidenza ambientale. 22.- La Commissione sottolinea che la natura giuridica degli accordi di programma e dei conseguenti atti è irrilevante rispetto agli obblighi che incombono agli Stati membri in forza di tale disposizione. 23.- Essa afferma inoltre che esiste contiguità tra le parti del territorio interessate dai progetti in questione e che, pertanto, possono prodursi significativi impatti complessivi. 24.- La Commissione deduce altresì l’irrilevanza del fatto che il Comune di Altamura abbia rilasciato solo un limitato numero di licenze edilizie, che nessun’altra licenza sia stata concessa nel 2003, che le altre richieste di licenza siano sottoposte a procedura di valutazione di incidenza e che sia stata avviata un’azione per procedere a una valutazione di incidenza globale sui siti oggetto degli insediamenti produttivi già programmati. 25.- Essa constata anche che non si è affatto provveduto a motivare l’omessa valutazione di incidenza e che nessuna informazione è stata fornita per dimostrare che gli interventi di edilizia industriale e artigianale di cui trattasi non potessero avere effetti significativi sulla zona protetta. 26.- La Repubblica italiana rileva che un accordo di programma non è né un atto che definisce una situazione giuridica, né un atto amministrativo, né un contratto, bensì costituisce un modulo procedurale nel quale soggetti pubblici e privati predeterminano i comportamenti e gli impegni da rispettare per giungere ad un risultato finale. Di conseguenza, a suo giudizio occorrono altri provvedimenti amministrativi affinché le iniziative oggetto del ricorso, previste negli accordi di programma, siano effettivamente realizzate. 27.- Questo Stato membro osserva inoltre che le disposizioni di legge relative all’incentivazione dell’occupazione non possono derogare alle norme in materia di tutela del territorio e dell’ambiente. Orbene, nell’ordinamento italiano, le ZPS e i siti di importanza comunitaria godrebbero di un regime molto simile a quello dei parchi e delle altre aree naturali vincolate ex lege. 28.- La Repubblica italiana osserva che il Comune di Altamura ha rilasciato solo un numero limitato di licenze edilizie per singole iniziative, in parte riferite ad ampliamenti di opifici esistenti, in parte ricadenti in zone destinate ad insediamenti industriali. Successivamente al giugno 2003 non risultano concesse ulteriori licenze, né risulta che sia stata rilasciata alcuna autorizzazione per le iniziative proposte dal Consorzio di Sviluppo Murgiano nonché dal Consorzio San Marco. 29.- Tale Stato membro sottolinea che sono stati effettivamente attivati solo quindici progetti, ognuno dei quali ha riguardato parti distinte del territorio e distinte modalità di realizzazione, consistenti, ad esempio, in costruzioni ex novo o in ampliamenti. Esso sostiene che non esiste alcuna contiguità tra tali progetti, né tanto meno un piano generale o territoriale che li riguardi. Alcuni di essi sono stati sottoposti a preventiva valutazione d’incidenza, mentre per altri era previsto il rilascio di diverse autorizzazioni in relazione agli aspetti ambientali e paesaggistici. 30.- La Repubblica italiana rileva che, per l’insieme dei progetti, il Comune di Altamura si appresta ad effettuare una valutazione globale di incidenza e a promuovere iniziative di mitigazione di eventuali effetti sull’ambiente. 31.- Essa deduce inoltre che sono stati sospesi tutti i procedimenti relativi alle istanze per insediamenti industriali previsti nel Comune di Altamura nelle more della definizione degli esiti di studi scientifici relativi alla valutazione di incidenza ambientale dei progetti interessati. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Giudizio della Corte 32.- In via preliminare occorre osservare che la disposizione di cui la Commissione invoca la violazione rientra in un complesso insieme di norme che vertono, come risulta dal terzo, quarto, quinto e sesto ‘considerando’ della direttiva, sull’istituzione e la gestione delle zone appartenenti alla rete europea Natura 2000. 33.- L’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 subordina l’obbligo di effettuare un’opportuna valutazione delle incidenze di un piano o progetto su un sito protetto alla condizione che questo sia idoneo a pregiudicare significativamente il sito interessato (v. sentenza 7 settembre 2004, causa C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, Racc. pag. I- 7405, punto 40; in prosieguo: la sentenza «Waddenzee»). 34.- La Corte ha altresì sottolineato, al punto 43 della detta sentenza, che l’avvio del meccanismo di tutela dell’ambiente previsto dall’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43 richiede l’esistenza di una probabilità o di un rischio che un piano o un progetto pregiudichi significativamente il sito interessato. 35.- Per quanto attiene a quest’ultimo criterio, la Corte ha precisato, ai punti 46-48 della stessa sentenza, che, come emerge dal combinato disposto dell’art. 6, n. 3, prima frase, della direttiva e del decimo ‘considerando’ della stessa, la significatività dell’incidenza su un sito di un piano o di un progetto deve essere messa in relazione con gli obiettivi di conservazione del sito stesso. Di conseguenza, quando un tale piano o progetto, pur avendo un’incidenza sul detto sito, non rischia di comprometterne gli obiettivi di conservazione, il piano o il progetto non può essere considerato idoneo a pregiudicare significativamente il sito in questione. La valutazione di un siffatto rischio deve essere effettuata segnatamente alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto. 36.- Al fine di verificare la fondatezza dell’addebito formulato nei confronti della Repubblica italiana, occorre collocare l’obbligo risultante dall’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, come precisato ai punti precedenti della presente sentenza, nell’ambito del ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 CE. 37.- Atale proposito occorre ricordare anzitutto che, per giurisprudenza costante, nell’ambito di un procedimento del genere, la Commissione ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza dell ’inadempimento contestato. Essa è infatti tenuta a fornire alla Corte tutti gli elementi necessari alla verifica, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di tale inadempimento, senza potersi basare su alcuna presunzione (v. sentenza 14 giugno 2007, causa C-342/05, Commissione/ Finlandia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 23 e giurisprudenza ivi citata). 38.- Inoltre, l’onere della prova gravante sulla Commissione nell’ambito di un ricorso per inadempimento deve essere individuato in funzione del tipo di obblighi imposti dalle direttive agli Stati membri e, dunque, quanto ai risultati che debbono essere raggiunti da questi ultimi (v., in tal senso, sentenza 18 giugno 2002, causa C-60/01, Commissione/Francia, Racc. pag. I-5679, punto 25). 39.- Per quanto riguarda l’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, spetta pertanto alla Commissione fornire la prova che un piano o un progetto, alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto, possa pregiudicare significativamente il sito in questione, in relazione agli obiettivi di conservazione stabiliti riguardo a quest’ultimo. 40.- Quanto alle misure su cui verte il ricorso e al fine di valutarne la fondatezza, occorre distinguere i vari accordi di programma dalle opere realizzate successivamente alla concessione, da parte del Comune di Altamura, di licenze edilizie. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 121 41.- Riguardo, in primo luogo, agli accordi di programma, che si trovano a livelli differenti di elaborazione, e considerato l’argomento della convenuta, secondo cui tali accordi non presentano le caratteristiche giuridiche di un piano o di un progetto di cui all’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43, occorre osservare che la Commissione, nell’ambito di un ricorso per inadempimento relativo agli obblighi previsti dalla norma menzionata, non può limitarsi a invocare la mera esistenza di tali accordi, ma deve anche fornire elementi sufficientemente concreti per poter dichiarare che questi accordi vanno al di là della fase di una riflessione amministrativa preliminare e comportano un livello di precisione nella pianificazione di cui trattasi che richiede una valutazione in termini ambientali dei loro effetti. 42.- Orbene, senza che occorra stabilire la portata e le conseguenze giuridiche derivanti dagli accordi di programma controversi in forza del diritto nazionale, si deve constatare che la Commissione, limitandosi a invocare tali accordi, non ha dimostrato l’esistenza di elementi sufficientemente precisi per consentire alla Corte di dichiarare che fossero in questione misure in grado di pregiudicare significativamente il sito interessato ai sensi dell ’art. 6, n. 3, della direttiva 92/43. 43.- Per quanto attiene, in secondo luogo, alle opere realizzate e agli elementi sui quali verte l’onere della prova relativo all’obbligo di effettuare una valutazione di incidenza ambientale, è d’uopo constatare che la Commissione non ha fornito alla Corte precise indicazioni in merito alla collocazione geografica e alla portata degli interventi edilizi posti in essere riguardo al sito. Essa d’altronde, in udienza, ha ammesso di non disporre di tali informazioni. 44.- La Commissione non ha nemmeno trasmesso dati relativi alla natura tecnica delle opere in parola né ha precisato in quale misura queste ultime, alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito, potrebbero pregiudicare quest’ultimo in modo significativo. 45.- Alla luce di tali circostanze, si deve concludere che la Commissione non ha adempiuto l’onere probatorio relativo all’invocato inadempimento. 46.- Di conseguenza, il ricorso deve essere respinto in toto. SULLE SPESE 47.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica italiana ne ha fatto domanda, la Commissione, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) La Commissione delle Comunità europee è condannata alle spese». 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La sanatoria sulle abilitazioni non si applica ai concorsi (Corte Costituzionale, ordinanza 10-20 luglio 2007, n. 312) Con l'ordinanza n. 312/07, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile, per irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 comma 2 bis legge 168/05, in base al quale "conseguono ad ogni effetto l'abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d'esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l'ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela". Il giudizio di irrilevanza si fonda sulla ritenuta inapplicabilità della norma al caso di specie, in quanto il Consiglio di Stato aveva annullato l'ordinanza del T.A.R. con conseguente caducazione di tutti gli atti adottati in esecuzione della stessa ovvero la ricorrezione delle prove scritte con esito positivo e il successivo superamento delle prove orali. La Corte premette infatti che la questione di legittimità costituzionale si incentra sulla idoneità della norma censurata a rendere irreversibile l'esito finale dell'esame e quindi il conseguimento dell'abilitazione professionale, impedendo ogni ulteriore accertamento giudiziale sul merito della pretesa fatta valere dal candidato ed attribuendo così al provvedimento cautelare il valore di un accertamento definitivo. La questione sollevata presuppone quindi, secondo la Corte, che la disposizione censurata abbia reso irretrattabile l'esito positivo della prova, il che è stato invece espressamente escluso nel caso di specie proprio in virtù del venir meno degli effetti prodotti dagli atti esecutivi dell'ordinanza cautelare successivamente annullata dal Consiglio di Stato. L'interpretazione della norma in questi termini potrebbe aprire lo spazio per un mutamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che sinora ha sempre dichiarato improcedibili gli appelli dell'amministrazione – ove, in esecuzione dell'ordinanza cautelare, fossero state superate le prove scritte ed orali – ritenendo prevalenti gli effetti "consolidanti" della norma I L C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO in questione sugli effetti caducanti di provvedimenti cautelari di secondo grado già emessi. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa invece aveva sospeso la decisione di tutti gli appelli nell'ambito dei quali era stata invocata la predetta norma nelle more della decisione della Corte Costituzionale e quindi, alla luce di tale pronuncia, dovrebbe presumibilmente accogliere i gravami pendenti. Avv. Wally Ferrante Corte Costituzionale, ordinanza 10-20 luglio 2007, n. 312 – Pres. F. Bile – Rel. S. Cassese – Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2-bis, del decretolegge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, promosso, con ordinanza del 28 luglio 2006, dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana sull’appello proposto dal Ministero della Giustizia ed altra contro E.N.B. «(...) Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2007 il Giudice relatore Sabino Cassese. Ritenuto che, con l’ordinanza in epigrafe, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2-bis, del decretolegge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168; che, in base alla norma censurata, «Conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela»; che la questione è stata sollevata nel corso del giudizio d’appello promosso dal Ministero della giustizia e dalla Commissione per gli esami di avvocato presso la Corte d’appello di Catania avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia-Sezione di Catania 23 luglio 2004, che ha dichiarato improcedibile, per intervenuta cessazione della materia del contendere, il ricorso di E. N. B., volto ad ottenere l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento di non ammissione alla prova orale degli esami di avvocato nella sessione dell’anno 2002; che l’efficacia di tale provvedimento era stata, in precedenza, sospesa con ordinanza del Tribunale amministrativo regionale della Calabria 16 luglio 2003, cui avevano fatto seguito la rivalutazione delle prove scritte ad opera della Commissione esaminatrice e l’ammissione alla prova orale, poi sostenuta con esito positivo; che, successivamente all’ordinanza del TAR Calabria 16 luglio 2003, l’Avvocatura dello Stato aveva proposto regolamento di competenza e che, su accordo delle parti, gli atti del giudizio erano stati trasmessi al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia-Sezione di Catania; che il Consiglio di Stato, con ordinanza 18 novembre 2003, aveva accolto l’appello, proposto dal Ministero della giustizia e dalla Commissione esaminatrice, contro l’ordinanIL CONTENZIOSO NAZIONALE 125 za cautelare del TAR Calabria 16 luglio 2003, «con conseguente caducazione di tutti gli atti» adottati dalla Commissione in seguito ad essa; che il Consiglio di giustizia amministrativa, escluso che l’ammissione alla prova orale e il suo superamento abbiano determinato – come invece ritenuto dalla menzionata sentenza del TAR Sicilia-Sezione di Catania – la cessazione della materia del contendere, ha, tuttavia, rilevato una causa di improcedibilità nella circostanza che, durante il giudizio, è entrato in vigore il menzionato art. 4, comma 2-bis, del decreto-legge n. 115 del 2005, il quale impone al collegio – secondo il remittente – di prendere atto che il candidato, ammesso alle prove orali – poi superate positivamente – dopo la rivalutazione delle prove scritte seguita all’ordinanza cautelare del TAR Calabria, ha ormai conseguito «ad ogni effetto» l’abilitazione professionale; donde l’impedimento ad emettere una pronuncia nel merito dell’appello, in quanto l’effetto provvisorio del provvedimento cautelare si sarebbe definitivamente consolidato, derivandone – appunto – l’improcedibilità dell’appello per cessazione della materia del contendere; che, pertanto, secondo il giudice remittente, la questione sollevata sarebbe rilevante ai fini della pronuncia sul merito della controversia; che, secondo il giudice remittente, sarebbero violati: l’art. 3 Cost., poiché la norma, non rispettando i principi del giusto processo (per i quali – fra l’altro – le parti hanno il diritto di agire e di difendersi in ogni stato e grado del giudizio, il giudice deve giudicare nel contraddittorio delle parti e il processo deve comprendere le impugnazioni), viola l’interesse dell’amministrazione che ha indetto il concorso o la sessione d’esame a far sì che la misura cautelare conservi il suo carattere strumentale rispetto alla decisione di merito, mentre la norma censurata rende avulsa la misura cautelare dal giudizio di merito; inoltre, la norma, consolidando gli effetti prodotti dall’ordinanza cautelare favorevole all’interessato, si pone in contrasto con il dovere dell’amministrazione di tutelare la par condicio degli esaminandi; gli artt. 24 e 111 Cost., che garantiscono il diritto al contraddittorio e la sua effettività, anche nelle situazioni in cui si tratta di contemperare questa garanzia con le esigenze di celerit à del processo; il che può avvenire solo attraverso lo schema del processo complessivamente considerato (quindi, comprensivo della fase cautelare e della fase di merito), laddove la norma denunciata introduce un modello di processo nel quale viene attribuita efficacia di giudicato all’esito di un giudizio che non è neppure a cognizione piena; al riguardo, non a caso la Corte costituzionale (sentenza n. 427 del 1999) – nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2 e 3, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui dispone che il giudice amministrativo può decidere immediatamente la controversia, ancorché sia stato chiamato a pronunciarsi su di una domanda cautelare – ha ritenuto che la finalità di accelerare lo svolgimento dei processi amministrativi non pregiudica il rispetto di precise regole (quali l’integrità del contraddittorio, la completezza delle prove, gli adempimenti processuali per la tutela del diritto di difesa di tutte le parti), che postulano un’effettiva e completa tutela giurisdizionale; il tutto, ferma restando l’appellabilità della decisione; l’art. 25 Cost., in quanto la rivalutazione delle prove scritte è avvenuta per effetto di una decisione cautelare emessa da un giudice (il TAR Calabria) che le stesse parti hanno riconosciuto incompetente; gli artt. 24, 111 e 113 Cost., in quanto la decisione cautelare favorevole al candidato diviene sostanzialmente inimpugnabile una volta che egli abbia superato le prove concorsuali scritte e orali, con ciò verificandosi, da un lato, che un’ordinanza di sospensiva produce effetti definitivi e irreversibili e, dall’altro lato, che la parte interessata perde la possibilit à di ottenere il riesame della decisione cautelare, ogni qualvolta la rivalutazione con esito positivo delle prove scritte si concluda – com’è nella normalità dei casi – prima della decisione sull’appello avverso l’ordinanza cautelare (e, ovviamente, prima della celebrazione del giudizio di merito, talché viene meno anche la possibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., il quale non è ammesso contro decisioni a carattere strumentale e interinale); gli artt. 111 e 113 Cost. sulla garanzia del doppio grado di giurisdizione, anche in violazione dei principi comunitari relativi alla qualità e all’efficacia della tutela giurisdizionale nell’ordinamento comunitario (viene richiamata la sentenza della Corte di giustizia CE, 17 dicembre 1998, n. 185, nella causa C-185/95P); che si è costituito, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il Ministro della giustizia, il quale ha contestato tutte le censure di illegittimità costituzionale formulate nell’ordinanza di rimessione, chiedendo che la Corte ne dichiari l’infondatezza. Considerato che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana si incentra sull’art. 4, comma 2-bis, del decreto- legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, nella parte in cui prevede che un provvedimento giurisdizionale, anche di natura cautelare, dal quale derivi l’obbligo per l’amministrazione di rivalutare le prove scritte sostenute da un candidato ad esami di Stato per l’abilitazione professionale, sia sufficiente a rendere irreversibile l’esito finale dell’esame (e, quindi, il conseguimento dell’abilitazione professionale), una volta che il candidato abbia positivamente superato le prove orali; con ciò impedendo ogni ulteriore accertamento giudiziale sul merito della pretesa fatta valere dal candidato in sede cautelare e, perciò, attribuendo al provvedimento cautelare il valore di un accertamento definitivo circa l’esito della prova scritta sostenuta dall’interessato; che la questione è insorta nel corso del giudizio d’appello avverso una sentenza che ha dichiarato improcedibile, per intervenuta cessazione della materia del contendere, il ricorso di un candidato agli esami di avvocato nella sessione dell’anno 2002, volto ad ottenere l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento di non ammissione alla prova orale degli esami stessi; che la questione è stata sollevata sul presupposto che, in esito agli atti compiuti dalla Commissione esaminatrice a seguito dell’ordinanza cautelare del TAR Calabria 16 luglio 2003, il candidato abbia senz’altro superato la prova orale degli esami e che la disposizione censurata abbia reso, ormai, irreversibile l’esito positivo della prova; che la questione è manifestamente inammissibile; che, infatti, il giudice remittente non ha considerato che l’ordinanza del Consiglio di Stato 18 novembre 2003, nel respingere – in accoglimento dell’appello avverso la menzionata ordinanza del TAR Calabria 16 luglio 2003 – la domanda cautelare dell’interessato e nel dichiarare la «conseguente caducazione di tutti gli atti» adottati in esecuzione di detta ordinanza del TAR Calabria, ha fatto venir meno gli effetti prodotti da tali atti e, cioè, il superamento delle prove scritte, l’ammissione del candidato alla prova orale e il superamento di questa; che lo stesso giudice remittente ha escluso che gli atti compiuti dalla Commissione esaminatrice siano andati oltre la necessaria conformazione all’ordinanza cautelare del TAR Calabria, talché le operazioni della Commissione – dalla rinnovata valutazione, con esito positivo, delle prove scritte alla valutazione positiva della prova orale – non hanno acquisi- 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO to «autonoma valenza sostanziale» e non possono considerarsi «come un quid pluris rispetto alla doverosa esecuzione» del provvedimento cautelare; che, pertanto, la situazione che si prospetta al giudice a quo è quella, precedente all’ordinanza cautelare del TAR Calabria 16 luglio 2003, nella quale il candidato è stato escluso, dopo la valutazione delle prove scritte, dall’ammissione alla prova orale; che, in presenza di tale situazione, il giudice remittente non è chiamato ad applicare la disposizione censurata, atteso che la caducazione dell’ordinanza del TAR Calabria 16 luglio 2003, nonché degli atti ad essa conseguenti e dei loro effetti, ha cancellato i presupposti (la rivalutazione delle prove scritte effettuata dalla Commissione d’esame, la successiva ammissione del candidato alla prova orale e il superamento di questa) per l’applicazione della disposizione censurata. Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2-bis, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), aggiunto dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 111 e 113 Cost., dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2007». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 127 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Uditori giudiziari “non idonei” (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 14 dicembre 2006, n. 7470) Con la sentenza di seguito pubblicata viene affermata per la prima volta da parte del Consiglio di Stato la legittimità della dizione “non idoneo” senza l’attribuzione di alcun voto. In particolare, nella causa in oggetto, era stato impugnato anche l’art. 16 del R.D. 15 ottobre 1925 n. 1860 (recante il regolamento per il concorso in magistratura) nella parte in cui non prevede l’attribuzione di alcun voto in caso di valutazione negativa. Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 14 dicembre 2006, n. 7470 – Pres. Est. C. Saltelli – S. C. (Avv. N. Rocchetti) c/ Ministero della Giustizia (Avv. dello Stato W. Ferrante) e Commissione esaminatrice del concorso per esami a 350 posti di uditore giudiziario indetto con d.m. 12 marzo 2002, in persona del presidente in carica (n.c.). «Fatto. Con la sentenza n. 7742 del 4 ottobre 2005 il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. I, ha respinto il ricorso proposto dal dott. S.C. avverso il provvedimento con cui la Commissione esaminatrice del concorso per esami a 350 posti di uditore giudiziario non lo aveva ammesso a sostenere le prove orali, giudicando non idonea la sua prova scritta di diritto amministrativo. In particolare, secondo il tribunale, il contestato giudizio di inidoneità era sufficiente a soddisfare l’onere della motivazione previsto dalla legge, né poteva ritenersi sussistente un interesse giuridicamente protetto del candidato a conoscere il grado di insufficienza riportato nella prova scritta concorsuale; il carattere valutativo e non didattico dell ’attività della commissione di concorso escludeva, poi, che la legittimità del giudizio di inidoneità potesse essere inficiata dalla asserita mancata apposizione di glosse o di segni di correzione sugli elaborati; non sussisteva, inoltre la dedotta illegittimità del giudizio di inidoneità della prova di diritto amministrativo per la asserita violazione degli stessi criteri di correzione, dal momento che questi ultimi non potevano ragionevolmente escludere l’apprezzamento discrezionale del contenuto della prova stessa; d’altra parte la valutazione degli elaborati di concorso da parte della commissione costituiva espressione della discrezionalità amministrativa, notoriamente insindacabile, salva la macroscopica arbitrariet à, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento di fatti, ipotesi tutte non ricorrenti nel caso di specie. Avverso tale statuizione ha proposto appello l’interessato, chiedendone la riforma alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “omessa pronuncia del tribunale – illegittimità dell’art. 16 del regolamento”, con il quale ha sostenuto che i primi giudici avevano inopinatamente rigettato la censura di difetto di motivazione del provvedimento impugnato invocando a tale fine l’articolo 16 del R.D. 15 ottobre 1925, n. 1860, senza tener conto che proprio di tale norma era stata dedotta l’illegittimità ed incorrendo, perciò, in un macroscopico vizio di omessa pronuncia e di violazione del principio fondamentale posto dall’articolo 112 del codice di procedure civile di corrispondenza tra chiesto e pronunciato; d’altra parte, il fatto che la predetta norma escludesse addirittura l’obbligo della commissioIL CONTENZIOSO NAZIONALE 129 ne di indicare il voto, sia pur numerico, a supporto della valutazione di insufficienza delle prove concorsuali, non poteva non costituire un evidentissimo vulnus alla posizione del candidato, impossibilitato a comprendere le ragioni di tale sfavorevole valutazione, tanto più che recentemente lo stesso legislatore era più volte intervenuto a disciplinare la materia con specifiche disposizioni a garanzia del principio di trasparenza dell’attività delle commissioni di concorso (art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1984 e articolo 9 della legge n. 48 del 2001, quest ’ultima specificamente relativa al concorso in magistratura), imponendo l’obbligo della predisposizione dei criteri di correzione e valutazione degli elaborati di concorso, proprio al fine di assicurare il giusto apporto motivazionale al voto numerico. Si è costituito in giudizio il Ministero della giustizia che ha resistito all’avverso gravame. Diritto. I. L’appello è infondato e deve essere respinto. Costituisce ormai principio consolidato quello secondo cui le valutazioni espresse da una commissione di concorso nelle prove scritte e orali dei candidati costituiscono espressione di un’ampia discrezionalità tecnica e come tali sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate ictu oculi da eccesso di potere sub specie delle sintomatiche figure dell’arbitrarietà, della irragionevolezza, della irrazionalità e del travisamento dei fatti. La giurisprudenza ha pure avuto modo di evidenziare che il voto numerico costituisce espressione sintetica, ma esaustiva, della valutazione della commissione, soddisfacendo adeguatamente l’onere della motivazione previsto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e, più in generale, dei principi costituzionali sanciti dall’articolo 97. Ciò precisato, la Sezione osserva che una disposizione come quella contenuta nell’articolo 15 del R.D. 15 ottobre 1925, n. 1860 (Modificazioni al regolamento per il concorso in magistratura contenuto nel R.D. 19 luglio 1924, n. 1218) che prevedendo, al secondo comma, che “prima dell’assegnazione dei punti la commissione o sottocommissione delibera per ciascuna prova, a maggioranza dei voti, se il candidato meriti di ottenere il minimo richiesto dall’approvazione” e, al terzo comma, che “nell’affermativa, ciascun commissario dichiara quanti punti intende assegnare al candidato…”, non viola le ricordate disposizioni in tema di motivazione del giudizio di inidoneità. Invero, il meccanismo delineato dalla predetta normativa non costituisce il frutto di una mera attività materiale della commissione di esame, ma è espressione di una valutazione positiva o negativa dell’elaborato: mentre nel primo caso alla valutazione positiva segue l’attribuzione di un punteggio, nel secondo caso viene espresso un giudizio di inidoneità che implica senza alcuna possibilità di dubbio il mancato raggiungimento della sufficienza; in altri termini, il giudizio di inidoneità contiene in sé implicitamente e manifestamente una valutazione di insufficienza della prova concorsuale che del tutto inutilmente dovrebbe essere ulteriormente esplicitato. Un difetto di motivazione di tale giudizio di inidoneità (e di mancato raggiungimento della sufficienza) potrebbe apprezzarsi soltanto ove il candidato provasse in assoluto la sua arbitrarietà, irragionevolezza o il travisamento dei fatti ovvero quanto meno relativamente ai criteri di valutazione della prova, preventivamente stabiliti dalla commissione, elementi tutti che, nel caso di specie, non ricorrono. Né sussiste una diversità di trattamento tra i candidati le cui prove sono state ritenute sufficienti e quelli che raggiungono la soglia della sufficienza e che ottengono l’attribuzione del punteggio: infatti, l’attribuzione del punteggio non ha la funzione di motivare il giudizio di sufficienza, bensì quello di graduare i candidati idonei. 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO D’altra parte, come correttamente rilevato dai primi giudici, non può neppure ammettersi ovvero è quanto meno oggetto di dubbio, in presenza del ricordato dettato normativo, lo stesso interesse del candidato di ottenere l’esplicitazione delle ragioni o del grado di insufficienza (conseguente al giudizio di inidoneità), non avendo notoriamente il concorso finalità didattiche. II. Alla stregua di tali osservazioni, le doglianze dell’appellante non meritano accoglimento. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal dott. S. C. avverso la sentenza n. 7742 del 4 ottobre 2005, sez. I, lo respinge. Condanna l’appellante al pagamento in favore della costituita amministrazione statale delle spese del presente grado di giudizio Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 31 ottobre 2006 (…)». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 131 Legge Pinto e sospensione dei termini nel periodo feriale (Corte d’Appello di Milano, decreti 5-22 luglio 2006 e 10-29 gennaio 2007) La Corte d’Appello di Milano, con la pronuncia 5-22 luglio 2006 che si pubblica, ritorna sulla vexata quaestio del significato da attribuire alla locuzione “decisione definitiva”, prevista dall’art. 4 della legge n. 89/01, e si riporta ad una contestata interpretazione giurisprudenziale più volte adottata nel foro ambrosiano. Si è già avuta occasione di esaminare su questa Rivista l’opzione esegetica che fa coincidere la definitività non con il passaggio in giudicato, ma con la pubblicazione della pronuncia ed è stato rilevato come detta interpretazione sia stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale che ha respinto, con ordinanza n. 74/05, la questione di legittimità proposta (1). Giova, pertanto, soffermarsi in questa sede soltanto su un interessante obiter dictum. La pronuncia si segnala per la ritenuta inapplicabilità ai procedimenti ex lege n. 89/01 della sospensione dei termini nel periodo feriale ai sensi dell’art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742. La Corte d’Appello di Milano ritiene di natura sostanziale il termine semestrale di proposizione della domanda di riparazione per irragionevole durata del processo. Secondo l’assunto del Collegio meneghino, il termine previsto dall’art. 4 della legge n. 89/91 si pone al di fuori e precede il giudizio essendo previsto, a pena di decadenza, per l’esercizio di un diritto. Per l’effetto, il termine di proposizione della domanda di riparazione non sarebbe soggetto a sospensione dal momento che sono sottoposti a sospensione i soli termini per il compimento degli atti del processo, di cui all’art. 152 c.p.c., e non i termini per l’esercizio di poteri sostanziali e quelli indicati a pena di decadenza per la proposizione dell’azione. L’opzione adottata, conforme ai precedenti decreti 28 giugno-5 luglio 2005 (R.G. 74/05), 11 aprile-5 maggio 2006 (R.G. 514/05) emessi dalla medesima Corte d’Appello, riprende un dibattito mai sopito accordando la sospensione feriale ai soli termini endoprocessuali i quali incidono sulla dinamica di un giudizio già in corso. Per contro, va segnalato che la Corte d’Appello di Milano, con successivo decreto 10 gennaio-29 gennaio 2007 di seguito pubblicato, ha riconosciuto la natura processuale del termine per la proposizione della domanda riparatoria. (1) Cfr. VIGNOLI, Ragionevole durata del processo e decisione definitiva: spunti critici da una recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano, 2004, 1251-1262; Id., Ragionevole durata del processo e decisione definitiva (Corte cost., ord. 7-11 febbraio 2005, n. 74), 2005, 133-138. 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In precedenza e più articolatamente la Corte d’Appello di Milano, con decreto 30 gennaio – 13 marzo 2002, aveva ritenuto, in una vertenza ex lege Pinto, che, stante la necessaria assistenza di un difensore nella proposizione della domanda, ricorressero le condizioni per la sospensione. L’opzione faceva richiamo alla giurisprudenza costituzionale che ha accordato una applicazione sempre più lata e pervasiva della sospensione (Corte Cost. sent. n. 268/93; 49/90; 255/87), confortata da un orientamento dei giudici di legittimità per la verità non sempre univoco (cfr. Cass. civ. n. 6041/91). Secondo l’assunto del Collegio milanese espresso nella richiamata pronuncia del 2002, non troverebbe applicazione per i giudizi radicati ex lege 89/01 la giurisprudenza formatasi relativamente ai procedimenti di riparazione per ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 315 c.p.p. (cfr. Cass. pen. n. 267/94) in quanto, per quest’ultimi, la domanda di riparazione può essere presentata “personalmente o per mezzo di procuratore speciale” ai sensi dell ’art. 645, I c., c.p.p., richiamato dall’art. 315 cit. Ad avviso della Corte, la facoltà di presentare domanda senza il necessario ministero di un difensore comporterebbe la carenza di un pericolo di perdita del diritto a causa della sospensione feriale dei termini. Ci si interroga se possa costituire argomento risolutivo per applicare la sospensione, con conseguente addizione di ulteriori quarantasei giorni al semestre previsto per proporre la domanda di riparazione, la finalità di assicurare agli avvocati “un periodo di riposo per ritemperare le energie corrose dall’esercizio forense” (2). Come noto, la sospensione è intesa a realizzare un periodo di stasi della normale attività processuale e comprende, salvo le eccezioni tassativamente previste, tutti i termini processuali incidenti sul periodo destinato alle ferie. Il punctum pruriens verte sulla nozione di termine processuale. Ai fini di una scelta interpretativa non pare dirimente il richiamo al dettato normativo. L’art. 1 della legge n. 742 del 1969 non ha risolto la questione se la sospensione riguardi solo i termini per il compimento degli atti del processo già iniziato. D’altra parte non è agevole distinguere termini processuali e termini sostanziali e non sempre la suddetta dicotomia è destinata a svolgere una funzione chiarificatrice. È sovente arduo discernere gli effetti processuali dai profili sostanziali, soprattutto se l’atto introduttivo del giudizio è l’unico strumento a disposizione dell’interessato per impedire la decadenza o interrompere la prescrizione. Pare indicativa della commistione fra rilevanza sostanziale e profili processuali l’ordinanza n. 213/05 della Corte Costituzionale. Il Giudice delle leggi ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, VII c., del D.Lgs. 30 marzo 2001, (2) Così testualmente nella relazione alla Camera dei deputati proponente la legge n. 818/65. Cfr. TARZIA, La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, in Riv. dir, proc., 1965, 593, n. 1. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 133 n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) nella parte in cui stabilisce il termine di decadenza del 15 settembre 2000 per la proposizione, davanti al giudice amministrativo, delle controversie riguardanti rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni purché relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998. La Consulta, rilevata l’esigenza di contenere gli effetti prodotti dal trasferimento della competenza giurisdizionale al giudice ordinario e dal temporaneo mantenimento di tale competenza in capo ai Tribunali amministrativi, ha reputato ragionevolmente giustificata la scelta di introdurre un termine di decadenza dal diritto di agire avente “effetti sul diritto sostanziale”, pur non escludendone “la natura di misura processuale”. A fronte di una incerta qualificazione della natura del termine per la proposizione della domanda riparatoria, rimane l’interrogativo se l’inapplicabilit à della sospensione durante il periodo feriale frustri il diritto di difesa ovvero se il termine per radicare il giudizio di riparazione sia ragionevole anche senza che il periodo dal 1° agosto al 15 settembre sia ritenuto tamquam non esset. A sostegno dell’indirizzo di non applicabilità della sospensione vi è la convinzione che, per le istanze di riparazione, il termine finale di un semestre dalla definitività della decisione sia ragionevolmente congruo e il dato normativo non renda difficoltosa la tutela giurisdizionale. A conforto della tesi opposta si contrappone l’indispensabilità del ministero di un difensore per proporre la domanda di ristoro nonché “la relativit à del metodo” per la qualificazione “basato su epidermiche formali distinzioni dei termini in sostanziali e processuali” (Cass. civ. n. 6041/91). In definitiva, risulterà chiarificatrice la Corte di Cassazione, investita della questione a seguito dell’impugnazione della pronuncia 11 aprile-5 maggio 2006 (R.G. 514/05) sopra richiamata, per verificare se l’opzione assunta dalla Corte d’Appello di Milano costituisca un fondato ripensamento all’orientamento, che oggi pare prevalente, volto ad accordare una ampia e comprensiva nozione di termine processuale tale da non limitarne la portata nell’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del processo. Dott. Francesco Vignoli (*) Corte di appello di Milano, sezione seconda civile, decreto del 5 luglio 2006 – Pres. G. Deodato – Rel. A. Santosuosso – A.B. (Avv. G. De Paola) c/ Ministero della Giustizia (Avvocatura distrettuale dello Stato di Milano). (*) Procuratore presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano. «Espone la ricorrente che, con ricorso depositato il 5 marzo 1998, ha adito la Corte dei Conti, avverso il Ministero della Difesa, per ottenere la riliquidazione del trattamento pensionistico in godimento, sulla base dello stipendio attribuito al personale in attività dì servizio. Con sentenza n. 1276/04, depositata in data 19 ottobre 2004, la Corte dei Conti ha respinto il ricorso summenzionato. Rileva la ricorrente che tra la data del deposito del ricorso e la data del deposito della sentenza n. 1276/04, sono decorsi 6 anni e 7 mesi e chiede, pertanto, il riconoscimento del diritto all’equa riparazione ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e della legge n. 89/2001, per l’eccessiva ed irragionevole durata del giudizio pensionistico in questione. La Corte rileva quanto segue. Il ricorso è inammissibile essendo la ricorrente incorsa nella decadenza del termine semestrale di cui all’art. 4 legge n. 89/01, secondo il quale “la domanda può essere proposta entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”. Come rilevato in alcuni precedenti di questa Corte, l’espressione decisione definitiva non è equivalente né all’irrevocabilità né al passaggio in giudicato, posto che la definitività non chiude il processo ma solo la fase ed il grado, onde il giudice, per effetto della pronunzia, si spoglia del processo, realizzatesi la coincidenza tra il momento da cui fa decorrere il semestre e quello del deposito in cancelleria dei motivi della decisione (pronuncia 29 settembre -22 ottobre 2004 di questa Sezione). L’atto introduttivo del presente giudizio è stato depositato presso la cancelleria della Corte d’Appello in data 28 aprile 2006 e, pertanto, in un tempo superiore a sei mesi dal deposito della sentenza, che ha definito il giudizio per cui si chiede riparazione, pubblicata in data 19 ottobre 2004. D’altra parte il ricorso è stato proposto fuori termine, anche ove si ritenesse .e il semestre decorre dal passaggio in giudicato della pronuncia, dal momento che al procedimento in questione non si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (legge n. 742 del 1969), essendo il termine per la presentazione della domanda di natura sostanziale e configurandosi come termine stabilito a pena di decadenza per l’esercizio di un diritto piuttosto che per il compimento di un’attività processuale. Segue la declaratoria di inammissibilità del ricorso. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna la ricorrente a rifondere alla parte resistente le spese di lite, (…). Così deciso, nella Camera di Consiglio della Corte di Appello di Milano, sezione seconda civile, il 5 luglio 2006». Corte di appello di Milano, sezione seconda civile, riunita in Camera di Consiglio, decreto 10-23 gennaio 2007 – Pres. R. Odorisio – Rel. C. Greco – C.G.A. ed altri c/ Presidenza del Consiglio dei Ministri. «A scioglimento della riserva assunta alla prima tenuta udienza del 10 gennaio 2007; visti gli atti del procedimento, i documenti depositati, i motivi della domanda di equa riparazione e le difese delle parti; rilevato (così l’esposizione della premessa) che con ricorso depositato il 22 giugno 1990 alla Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale di Roma, successivamente iscritto al n. 2835 del registro di Segreteria della Sezione Giurisdizionale per la Lombardia, “ i ricorrenti chiedevano la riliquidazione del loro trattamento pensionistico 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dal 1 gennaio 1988 sulla base delle retribuzioni spettanti al corrispondente personale in attivit à di servizio successivamente al collocamento in quiescenza e per la dichiarazione di illegittimit à costituzionale della legge 17 aprile 1985 n. 141 per contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione” e che la causa, chiamata per la prima volta alla pubblica udienza del 14 dicembre 2004, veniva decisa con sentenza n. 43/2005, depositata il 3 febbraio 2005, con durata complessiva del giudizio di circa 15 anni (sicché ciascun ricorrente, per l’eccessiva durata di 15 anni, chiedeva, in principalità, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma di Euro 30.000,00, oltre accessori); ritenuta, preliminarmente, la tempestività del ricorso (depositato in data 6 novembre 2006) per essere la sentenza della Corte dei Conti passata in cosa giudicata il 21 marzo 2006 e dovendosi valutare come di natura processuale il termine dalla legge previsto a pena di decadenza per la proponibilità della “domanda di riparazione”, con conseguente applicabilit à della sospensione nel periodo feriale; ritenuto che la durata del processo è stata di quasi 12 anni eccedente quella ragionevole per l’espletamento di un siffatto primo grado di giudizio (v. in diritto, sul punto e da ultimo, Cass. n. 1630/2006); rilevato, come ben evidenziato da parte resistente (in tesi anche ai fini dell’ an, in un giudizio da ritenersi, in effetti, particolarmente aleatorio, ma non, come eccepito, meramente pretestuoso), il comportamento del tutto omissivo tenuto dai ricorrenti che, non solo, si sono astenuti da qualsiasi atto d’impulso processuale (non avendo presentato, secondo prassi processuale sempre consentita nel giudizio pensionistico avanti la Corte dei Conti, alcuna istanza di impulso processuale e/o istanza di trattazione anticipata della causa, né istanza di prelievo), ma che si sono a tal punto disinteressati da non avere, neppure, presentato la prevista, a pena di decadenza dalla legge n. 19/1994, istanza di prosecuzione del giudizio (posto che, secondo quanto segnalato dallo stesso giudice pensionistico nella resa sentenza n. 43/2005, soltanto uno dei 61 ricorrenti aveva provveduto a presentare l’istanza de qua, cosi “manifestando interesse attuale a concreto alla pronuncia giudiziale”, con la conseguenza che la sentenza è stata notificata solo al ricorrente adempiente e alla sua Amministrazione di appartenenza); ritenuta in subiecta materia la sussistenza di prova in re ipsa del danno non patrimoniale, ma ritenuto, al contempo (v., sul punto, Cass. S.S.U.U. n. 28507/2005 e Cass. n. 180/06), che il comportamento del tutto omissivo tenuto dai ricorrenti ben possa e debba essere significativamente apprezzato al fine di stabilire il quantum della patita sofferenza e/o del sofferto danno non patrimoniale; ritenuto, di conseguenza, di dover equitativamente liquidare, in valuta attuale, omnicomprensiva di già maturati accessori, in Euro 3.600,00, il danno non patrimoniale spettante a ciascun ricorrente ritenuto, quanto alle spese, la sussistenza dei presupposti per una integrale compensazione, tenuto conto della misura sensibilmente ridotta in cui sono state accolte le pretese dei ricorrenti P.Q.M. La Corte, pronunciando nel procedimento promosso a norma degli artt. 2 e segg. della legge n. 89/2001, così provvede: condanna, per il titolo di cui in motivazione, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, a pagare ai ricorrenti la somma, ciascuno, di Euro 3.600,00, con interessi legali dalla data del presente decreto al saldo. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente procedimento. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di legge. Così deciso, in Milano, in Camera di Consiglio il 10 gennaio 2007». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 135 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il principio di successione delle leggi nel tempo in materia penale applicato agli elementi normativi della fattispecie. Brevi osservazioni. (Tribunale di Catania, sezione Acireale, sentenza 21 marzo 2007 n. 318) Il caso trattato dal giudice penale è quello di un contrabbando di banane dall’Equador con evasione di dazio comunitario di importazione perpetrato mediante formazione e/o utilizzo di certificati AGRIM falsi. La questione giuridica affrontata e risolta dal giudice di Acireale è quella della intervenuta abolitio criminis del reato di contrabbando. Invero, a causa della abrogazione del Reg. (CE) 93/404, per effetto del Reg. n. 2005/1964, e della conseguente soppressione dei diritti di confine gravanti sull’importazione, il legislatore comunitario ha indirettamente inciso sull’applicabilit à delle disposizioni di cui agli artt. 291, 292 e 295 T.U. n. 43/1973 Imposte Doganali (ritenute norme descrittive del precetto attraverso il rinvio ad elementi normativi della fattispecie). Occorre, innanzi tutto, precisare che il Tribunale ha correttamente ricondotto alla figura degli elementi normativi della fattispecie il richiamo, effettuato nella descrizione del fatto tipico dalle disposizioni in materia di contrabbando, ai diritti che sarebbero dovuti nelle operazioni di importazione all’interno della CE. Così facendo, il Tribunale siciliano ha mostrato di non condividere l’assimilazione della fattispecie al suo esame alla tematica più generale delle norme penali in bianco, come prospettato dall’accusa e dalla difesa degli imputati in sede di discussione conclusiva. Ai fini di un più corretto inquadramento sistematico della vicenda in esame, è opportuno rammentare brevemente quali siano i diversi meccanismi di integrazione della legge penale ad opera di fonti normative estranee a quell’ordinamento di settore. La fattispecie storicamente più discussa è quella delle cd. norme penali in bianco, ipotesi in cui la legge penale affida ad una fonte normativa estranea (generalmente secondaria) la determinazione delle condotte in concreto punibili. Limitandoci a due esempi emblematici, divenuti potremmo dire “di scuola ” perché ricordati nella gran parte dei manuali, vengono in rilievo la contravvenzione di Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità, di cui all’art. 650 c.p., e il delitto di Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, descritto dall’art. 73 del d.P.R. 309/90, Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. In entrambi i casi, il precetto si completa tramite rinvio ad una fonte subordinata (regolamento, ovvero, in alcuni casi, provvedimento amministrativo). La sanzione è determinata direttamente dalla norma penale; il precetto ha, invece, una connotazione generica e viene specificato da un atto di grado inferiore alla fonte primaria. È noto il dibattito – peraltro ormai sopito – della compatibilità di questa tecnica normativa con il principio di riserva di legge in materia penale che, IL CONTENZIOSO NAZIONALE 137 secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata (art. 25), è assoluta e non relativa. In particolare, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunziarsi sull’ammissibilità delle norme penali in bianco, con sentenza n. 168/1971 ha affermato in termini generali che le norme penali in bianco non violano il principio di legalità quando sia una legge dello Stato, anche se diversa da quella incriminatrice, ad indicare i presupposti, il contenuto e i limiti del provvedimento dell’Autorità Pubblica alla cui violazione la legge riconnette una sanzione penale. È chiaro che il principio della riserva di legge non è messo in discussione laddove l’integrazione del precetto avvenga ad opera di altra legge o, comunque, di una fonte di produzione che sia a quella equiparata (decreto legge, decreto legislativo, legge regionale). Ormai indiscutibile deve ritenersi poi, in base al principio di primazia dell’ordinamento comunitario, che l’integrazione possa avvenire attraverso il richiamo ad un atto normativo comunitario direttamente applicabile. Tale ultima questione non deve, però, essere confusa con una diversa e più generale tematica, che la necessaria brevità delle presenti osservazioni non consente di ripercorrere nel lungo precorso evolutivo tracciato dalla giurisprudenza interna (1) e comunitaria (2). Prescindendo, infatti, dall’oggetto principale dell’intervento (tecniche di integrazione del precetto penale), l’applicazione del principio di prevalenza del diritto comunitario rispetto alla fonte interna di disciplina implicherebbe l’approfondimento di altre e più complesse problematiche, relative all’obbligo per il giudice interno di disapplicare la normativa nazionale (ancorché, come quella penale, espressione della irrinunciabile potestà punitiva dello Stato) laddove essa appaia in contrasto con il diritto comunitario cogente (regolamenti, decisioni e direttive self executing) e con i principi del Trattato CE direttamente applicabili agli Stati (1) Nell’evoluzione complessiva dell’orientamento della Consulta possono, con buona approssimazione, individuarsi quattro fasi: 1) C.Cost. 7 marzo 1964 n. 14, in cui si esclude la prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale e si ritiene che il rapporto tra i due ordinamenti sia di equiordinazione; le norme comunitarie sono suscettibili di sindacato da parte della Corte non direttamente ma per il tramite della norma interna con cui lo Stato dà esecuzione al Trattato Istitutivo; 2) C.Cost. 17 dicembre 1973 n. 183 e 30 ottobre 1975, n. 232, in cui si afferma la primazia del diritto comunitario; la norma interna contrastante è incostituzionale per violazione dell’art. 11 Cost. e soggetta al sindacato accentrato della Corte; 3) C.Cost. 8 giugno 1984 n. 170, in cui si afferma che la primazia del diritto comunitario conduce alla disapplicazione diffusa della disposizione interna contrastante (pertanto, senza sindacato di costituzionalità ma con conseguente possibilità di reviviscenza); 4) C.Cost. 10 novembre 1994 n. 384 e 31 marzo 1995 n. 95, nelle quali si afferma che il sindacato diretto di costituzionalità della normativa interna contrastante deve effettuarsi nell’ipotesi in cui l’impugnazione della legge (nazionale o regionale) avvenga in via principale attraverso il ricorso presentato dallo Stato o da una Regione. (2) Per i più risalenti e noti pronunciamenti V. C.Giust. sent. Van Gend & Loos 5 febbraio 1963, 26/62 e 15 luglio 1964, 6/64; C.Giust. sent. Simmenthal 9 marzo 1978, causa 48/71. 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO membri (libertà di stabilimento, libertà di circolazione dei cittadini comunitari, divieto di discriminazioni, divieto di restrizioni alla concorrenza ecc.). Neppure in questa sede, tuttavia, è eludibile l’affermazione che l’ordinamento comunitario finisce per condizionare, in virtù del principio di primazia, l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice: si pensi, per esemplificare un caso giurisprudenziale di attualità, quello dell’attività di raccolta delle scommesse esercitata nel territorio nazionale senza la prescritta autorizzazione di P.S. (3). Al riguardo, va tuttavia precisato che, se pacifica è la piena applicabilità del diritto comunitario nel caso di riduzione in bonam partem della sfera di illiceità del sistema penale nazionale, controversa è, per contro, la prevalenza del diritto comunitario su quello interno nel caso di previsioni che, comportando modificazioni in malam partem del diritto nazionale, finiscono col derogare al principio di riserva di legge in materia penale sancito in ambito Costituzionale. Dalle norme penali in bianco devono essere nettamente distinti gli elementi normativi della fattispecie, pur essi costituendo tecniche di integrazione della norma penale ad opera di fonti normative estranee a quell’ordinamento. A differenza delle prime, qui il precetto è completo e non occorre fare riferimento a fonti normative estranee per descriverne o precisarne il contenuto. L’essenza dell’elemento normativo della fattispecie sta allora in ciò: nella descrizione del fatto tipico il legislatore rinvia ad un concetto o ad un istituto proprio di un’altra norma dell’ordinamento, sovente di altra branca del diritto oggettivo. L’elemento normativo descrive il fatto penalmente rilevante attraverso il riferimento ad un concetto, di per sé estraneo alla norma punitiva, che riassume e sintetizza un istituto importato da altro ramo del diritto. (3) Come è noto, l’orientamento della Cassazione sul punto è mutato. Secondo un’iniziale presa di posizione, l’articolo 4, comma 4-bis, della legge 13 dicembre 1989 n. 401 – che, in riferimento all’articolo 88 del regio decreto 18 giugno 1931 n. 773, sanziona penalmente chi, in assenza di concessione, autorizzazione o licenza, svolga in Italia attività organizzata di accettazione, raccolta, prenotazione, anche per via telefonica o telematica, di scommesse – non sarebbe stato in contrasto con la normativa comunitaria sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione dei servizi all’interno del territorio dell’Unione europea, trovando la previsione punitiva giustificazione nella perseguita finalità di controllo per motivi di ordine pubblico del settore dei giochi, delle scommesse e dei concorsi pronostici (Cass. pen. Sez. Unite, 26 aprile 2004, n. 23272). La Corte ha successivamente mutato orientamento, pervenendo alla conclusione opposta. V., tra le altre, le contestuali Cass. pen. Sez. III, 28 marzo 2007, n. 16968, n. 16969 e n. 18040. Sul versante della giurisprudenza comunitaria, il caso era stato già affrontato dalla Corte di Giustizia il 6 novembre 2003 sent. Gambelli, ove è stato affermato il principio che l’art. 4, comma 4 bis, della L. 13 dicembre 1989, n. 401, introdotto dall’art. 37, comma 5, della L. 23 dicembre 2000, n. 388, deve essere disapplicato dal giudice italiano, in quanto in contrasto con la normativa comunitaria sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione dei servizi all’interno del territorio dell’Unione Europea. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 139 L’ipotesi classica, sovente ricordata, è quella della cosa mobile altrui, di cui alla fattispecie penale del furto (art. 624 c.p.), ove l’altruità della cosa compendia in un solo sintagma tutti i modi di acquisto della proprietà mobiliare disciplinati dal diritto civile, siano essi a titolo originario oppure a titolo derivativo. Si pensi, ancora, al delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), in cui il richiamo ad istituti propri del diritto di famiglia, quali il domicilio domestico, gli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge consentono di semplificare notevolmente l’opera di descrizione dei comportamenti in concreto punibili rispettando, al contempo, il principio di tassatività. Un elemento normativo della fattispecie che trova origine nello stesso ordinamento penale si rinviene nel delitto di calunnia (art. 368 c.p.) ove la condotta giuridicamente vietata consiste nell’incolpare qualcuno, che si sa essere innocente, di avere commesso un reato. In questo ambito si colloca il caso sottoposto al Tribunale acese, chiamato a giudicare, insieme a diverse fattispecie di falsità in atti, di un contrabbando contestato ad alcuni imputati in forma aggravata. Ciò che rileva nel caso all’esame – muovendo dal presupposto della diretta applicabilità della normativa comunitaria – è l’integrazione del precetto penale (artt. 291 e 292 T.U. Imp. Dog.) attraverso elementi normativi della fattispecie che trovano origine nell’ordinamento comunitario e non in quello interno. Invero, come già anticipato, il giudice penale è stato chiamato ad occuparsi di un elemento normativo rimandante al Reg. 1993/404: diritti di confine che sarebbero dovuti nelle operazioni di importazione all’interno della CE. È avvenuto, però, che, per effetto dell’entrata in vigore del Reg. n. 2005/1964, i diritti di confine gravanti sull’importazione delle banane sono cessati nell’intervallo di tempo tra il tempus commissi delicti e l’emissione della sentenza. Più in dettaglio, l’importazione delle banane è adesso regolata da un sistema diverso che prevede l’applicazione di una tariffa unica per tonnellata, con un contingente tariffario autonomo di 775.000 tonnellate di peso netto a dazio zero, per l’importazione delle banane originarie dei paesi cd. ACP (Africa-Pacifico-Carabi). Punto cruciale della decisione assolutoria diviene, allora, il passaggio motivazionale in cui il giudice si interroga sulla disciplina applicabile in ipotesi di mutamento o abrogazione della norma integratrice del precetto. Anche in relazione agli elementi normativi della fattispecie, e non solo con riferimento alle norme penali in bianco, si pone invero il problema della applicabilit à dell’art. 2 c.p. a situazioni in cui la modifica normativa non tocca il precetto penale direttamente ma l’elemento integrativo di questo, proveniente dalla norma extrapenale. Il rilievo della sentenza del Giudice di Acireale sta proprio nell’avere fatto applicazione dei principi penalistici in tema di successione di leggi nel tempo e abolitio criminis (nullum crimen sine lege) alle ipotesi di integrazione della fattispecie penale attraverso il ricorso a norme penali in bianco e ad elementi normativi della fattispecie. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il tema non risulta, invero, sufficientemente affrontato in giurisprudenza e in dottrina. Con riferimento al panorama giurisprudenziale, i precedenti più interessanti (indicati, peraltro, dallo stesso Giudice acese) sono la sentenza Cass. pen., sez. III, n. 14329 del 4 febbraio 2003 (4) e la sentenza sez. III, n. 3905 del 22 febbraio 2000 (5). Il Tribunale acese enuclea il principio che l’indagine volta a stabilire se una modifica normativa (in questo caso inerente l’elemento normativo della fattispecie penale) abbia fatto venir meno, oppure no, la fattispecie criminosa, si avvale del criterio della cd. continuità normativa. La descritta successione di regolamenti comunitari e la sostanziale liberalizzazione del sistema di importazione delle banane avvenuta nel 2005 impedisce, ad avviso del decidente, di ravvisare tra i due regolamenti quella continuità normativa che è necessaria per escludere l’abolitio criminis . Ad analogo giudizio assolutorio si sarebbe probabilmente addivenuti laddove il Tribunale avesse optato per una ricostruzione del caso in termini di norma penale in bianco, ancorché la giurisprudenza abbia affermato in termini generali che “la successione di norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco di per sé non dà luogo ad una successione di leggi penali e tanto meno determina una ipotesi di abolitio criminis, occorrendo invece accertare se tale successione comporti o meno, rispetto al fatto, quella effettiva immutatio legis che è la ratio giustificatrice del principio di retroattività della legge più favorevole sancito dall’art. 2 comma secondo c.p.”. Infatti, l’applicazione pratica di tale affermazione finisce per comportare nella maggioranza dei casi, al di là delle premesse teoriche, esiti assolutori dei procedimenti (6). (4) La pronunzia, con riferimento all’ipotesi di contrabbando doganale consistente nell ’omissione del pagamento del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente dalla Repubblica Federale di Yugoslavia, ha ritenuto essersi realizzata la fattispecie di cui all’art. 2, comma 2, c.p. (abolitio criminis) in forza della sopravvenienza del Reg. (CE) 2000/2007 che ha fatto venir meno i diritti di confine gravanti sull’importazione: le norme impositive del dazio costituiscono, secondo il ragionamento della S.C., norme extrapenali integratrici del precetto penale e, in quanto tali, rientrano nell’ambito applicativo dell ’art. 2 cod. pen. (5) La sentenza si occupa di un tema parzialmente diverso poiché prende in esame un regolamento comunitario, il n. 1999/863, che aveva sospeso l’efficacia dell’embargo dei paesi CEE disposto nei confronti della Libia in forza del Reg. (CEE) n. 1993/3274 del 29 novembre 1993. La sentenza, facendo leva sul carattere temporaneo del regolamento 1999/863, ha ritenuto applicabile la disciplina discendente dall’art. 2, comma 4, del codice penale, pur nella vigenza del regolamento n. 863. (6) In tema di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 c.p.), la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di merito sul rilievo che l’art. 114 del nuovo c.p.p., a differenza dell’art. 164 c.p.p. del 1930, non contempla più, tra gli atti protetti dal divieto di pubblicazione, quello conclusivo della fase processuale antecedente al dibattimento, che sostituisce l’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore. (Cass. pen., sez. VI, 9 marzo 1994 in Riv. Pen., 1995, 917; Giust. Pen., 1995, II, 233). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 141 Su un piano astratto andrebbe forse considerato se la abrogazione della norma extrapenale prospetti o meno una modificazione delle regole di comportamento socialmente e giuridicamente accettate. Ma questo tipo di ragionamento finisce per involgere giudizi di valore in ordine ai quali occorre prestare la massima cautela a cospetto di un sistema, quello penalistico, ispirato al rigore logico e al principio di riserva assoluta di legge, irretroattività, tassatività e divieto di analogia. Accedendo – così come fatto dal Tribunale – alla soluzione che oggetto della abrogazione fosse un regolamento comunitario evocativo di elementi normativi della fattispecie (i diritti doganali dovuti in forza del Reg. 93/404), il modello di valutazione da cui muovere risulta sostanzialmente analogo: occorrerebbe distinguere a seconda che l’abrogazione della norma extrapenale integrativa dell’elemento normativo abbia fatto venir meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso. Nel caso concreto occorrerebbe ritenere che avere omesso di versare l’imposta il cui pagamento era dovuto all’epoca dei fatti abbia perso il disvalore penale originario per il successivo venir meno della fonte normativa comunitaria che rendeva obbligatoria l’importazione delle banane previo pagamento del dazio. Non nascondiamo che anche la soluzione opposta avrebbe potuto essere argomentata e condivisa perché l’essersi dolosamente sottratto all’imposizione tributaria attraverso la formazione e/o l’utilizzo di documenti di importazione falsi – per un operatore economico che deve muoversi in regime di concorrenza rispetto agli altri competitors del medesimo mercato – appare comunque un comportamento contrario a certi valori costituzionali e che denota un atteggiamento allarmante ed antisociale dell’autore. Diverso è il caso di un’associazione a delinquere finalizzata a commettere fatti ritenuti in precedenza reati ma che siano stati successivamente depenalizzati all’epoca del giudizio: invero, la tutela costituzionale della libertà di associazione (art. 18) rende certo che il reato associativo debba ritenersi venuto meno. Pertanto, nell’ipotesi affrontata dalla sentenza, avrebbe potuto anche prevalere la considerazione di ordine generale che l’intervenuta abrogazione del diritto di confine non elideva la illiceità penale del fatto di avere sottratto all’imposizione fiscale merci destinate al consumo dentro i confini della Comunità Europea. La soluzione adottata dal Tribunale è, tuttavia, ampiamente motivata in diritto e merita comunque apprezzamento per l’impegno argomentativo profuso. Inoltre, sul piano squisitamente pratico, l’aver fatto genericamente salvo il diritto al risarcimento del danno dello Stato, costituitosi parte civile nel processo, rende precorribile la via della separata azione civile per ottenere il ristoro del pregiudizio economico patito dall’erario per la illegittima sottrazione della merce in dogana al prelievo fiscale a suo tempo dovuto. Degno di menzione è, infine, il fatto di avere specificamente affrontato l’ulteriore elemento di complicazione della fattispecie – prospettato dalla pubblica accusa in sede di discussione finale – derivante dalla eventuale natura temporanea e/o eccezionale del regolamento comunitario 93/404. 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Venuto meno, infatti, ad opera dell’art. 24, comma 1, del D.Lgs. 30 dicembre 1999 n. 507, il principio di ultrattività della norma penale implicante violazioni di natura tributaria, principio sancito all’art. 20 della legge 4/1929 (7), le uniche deroghe alla prevalenza del favor rei di cui all’art. 2, commi 2 e 3, c.p. rimangono quelle delle norme eccezionali o temporanee previste al comma 4 della medesima disposizione. Il Giudice acese, all’esito di un’accurata ricostruzione della disciplina comunitaria, ha escluso che il Reg. 93/404 avesse natura di norma temporanea e, pertanto, applicabile ai fatti, ancorché successivamente abrogata dal successivo Reg. n. 05/1964. Ad avviso del sottoscritto, per chiarezza espositiva e per consistenza di contenuti ed argomentazioni, la sentenza può costituire un valido strumento di approfondimento, sia per lo studio della tematica dei diritti comunitari di confine (oltre gli ambiti strettamente correlati all’importazione delle banane) la cui disciplina è oggetto di frequenti ed incisive modifiche normative, sia per l’analisi del problema dell’applicabilità dell’art. 2, commi 2 e 3, c.p. nell ’ipotesi della successione di leggi extrapenali che integrano – seppur con diverse modalità – la fattispecie incriminatrice. Avv. Domenico Maimone Tribunale di Catania, sezione distaccata di Acireale, sentenza 6 dicembre 2006 – 21 marzo 2007 – G.U. M.P. Urso – Procedimento penale c/ G.A. (avv.ti G. Terranova e D. Siracusano), G.S. (avv.ti G. Terranova e S. Marchese) ed altri – Parte civile: Agenzia delle Dogane, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero delle Attività Produttive (ct. 3900/03, Avv.ti dello Stato D. Maimone e Di Gesu). «(…) Con decreto del 12 gennaio 2004 era disposto il rinvio a giudizio di G.A., G.S., [ed altri] per rispondere dei reati ascritti in rubrica. Preliminarmente, l’Agenzia delle dogane, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero delle Attività Produttive si costituivano Parte Civile. Assunte le prove, le Parti concludevano come in atti. I fatti che sono oggetto del presente giudizio scaturiscono da indagini avviate sul territorio di Catania ed estese, in seguito, ad altri distretti, in ragione delle acquisizioni cui lo stato delle indagini approdava. Stralciata la posizione processuale di coloro che, secondo l’accusa, (7) Il testo di legge recitava: “le disposizioni penali delle leggi finanziarie si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione”. Tra le prime applicazioni del superamento del principio di ultrattività della norma penale tributaria, V. Cass. pen. SS.UU, sent. n. 35 del 2001, secondo cui, dopo l’abrogazione dell’art. 20 legge 4/1929 ad opera dell’art. 24, primo comma, del D.Lgs. 30 dicembre 1999 n. 507 ed in assenza di norme disciplinanti il regime transitorio tra la vecchia e la nuova normativa, il problema dell’individuazione della norma incriminatrice ai fatti anteriormente commessi deve essere risolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto intertemporale in materia penale affermato in materia dall’art. 2 c.p. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 143 si sono resi responsabili di analoghe fattispecie di reato commesse in territorio di competenza di altre Procure, l’indagine è stata unitariamente portata all’attenzione di questo giudice per fatti di reato autonomi tra loro e tuttavia scaturiti, per acquisizione progressiva, da un’indagine iniziale avente ad oggetto la verifica fiscale su un’impresa operante nel settore delle importazioni delle banane. L’indagine può dunque idealmente suddividersi in tre ambiti: A) L’importazione di banane a tariffa doganale ridotta mediante l’utilizzo di certificati falsi. B) Il rilascio di certificati d’importazione in misura maggiore di quella spettante, ottenuto mediante false dichiarazioni inerenti la qualifica di maturatore di banane verdi o quella di secondo importatore. C) L’acquisizione della qualifica di operatore tradizionale mediante false dichiarazioni. I fatti descritti sub A) vanno ulteriormente distinti in tre sottogruppi, in considerazione dell’ambiente imprenditoriale cui ineriscono: A1) O.A. s.r.l. A2) S. s.r.l. A3) Sa. Essi, contestati ai capi A B C D E F G H I del decreto che dispone il giudizio, sono anche attribuiti, in concorso, ad un soggetto che – rivestito della qualifica di spedizioniere doganale – assume, nella costruzione accusatoria, il ruolo di coautore, rendendo possibile la consumazione di quei reati mediante l’assolvimento dei compiti che ineriscono, necessariamente, alla figura professionale di spedizioniere. Prima di passare alla narrazione dei fatti, pare opportuno, per ragioni di comodità espositiva, accennare brevemente ai principali aspetti in materia di regime di importazione di banane da Paesi Terzi rispetto alla Comunità Europea. La politica commerciale comune, descritta nei suoi contenuti peculiari dall’art. 133 e 135 CE, può essere definita come l’insieme delle competenze attribuite per il perseguimento degli scopi che, in via esemplificativa, sono indicati nel testo dell’art. 133 citato. A far data dal 1968, ovvero in prossimità della scadenza del c.d. periodo transitorio della libera circolazione delle merci, la Comunità ha introdotto una tariffa doganale comune applicata da tutti gli Stati membri ai prodotti importati dai paesi terzi. L’adozione di una singola tariffa esterna, peraltro, è anche l’aspetto che contraddistingue la nozione di unione doganale rispetto a quella della tradizionale zona di libero scambio (in cui i singoli Stati partecipanti mantengono una propria politica tariffaria verso l’esterno). La TDC viene fissata annualmente, per ogni singola voce o bene della c.d. “nomenclatura combinata”, da un regolamento del Consiglio ed è amministrata dalla Commissione che provvede all’aggiornamento immediato e permanente, curandone pure la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale prima del 31 ottobre che ne precede l’applicazione (a far data dal 1° gennaio successivo). In linea di principio, la TDC si applica anche ai prodotti agricoli, benché, per certuni di questi, la TDC sia completata ovvero sostituita da un “prelievo” secondo le modalità stabilite dai testi normativi concernenti l’organizzazione comune dei mercati agricoli. L’imposizione di diritti doganali consente alla Comunità di proteggere la propria economia interna modulando il rigore dei diritti all’entrata in funzione delle esigenze congiunturali dei diversi settori, benché le negoziazioni commerciali in seno al GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) in vista di riduzioni generalizzate dei dazi abbiano con il tempo attenuato l’importanza della politica tariffaria in senso stretto. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nel contesto di quest’ultima si può ricordare ad esempio il “sistema di preferenze generalizzate ” con cui la Comunità ha inteso favorire i paesi dell’area ACP (Africa, Carabi, Pacifico) accordando ai loro prodotti regimi preferenziali e forme di contingenti tariffari valevoli temporaneamente. Con regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio venne istituita un’organizzazione comune dei mercati nel settore delle banane. Esso prevedeva che l’importazione di banane da Paesi Terzi fosse controllata mediante un complesso sistema di sbarramenti che, in estrema sintesi, possiamo definire connotato da limitazioni di tipo quantitativo e qualitativo: A) a livello centrale, la Comunità Europea stabiliva il contingente di prodotto attribuito ad ogni singolo Paese membro; la CE stabiliva, cioè, la quantità di banane che ogni paese membro avrebbe potuto importare per il periodo di riferimento. B1) l’importazione di prodotto contingentato era soggetta ad un dazio PAC pari a 75/00 euro a tonnellata. B2) l’importazione di prodotto fuori contingente era soggetta ad un dazio PAC pari ad euro 850/00 a tonnellata. C) L’importazione di prodotto a dazio agevolato era assentibile mediante l’esibizione di un certificato AGRIM che, insieme ai documenti di rito (bolletta doganale, manifesto di carico e fattura), attribuiva al presentatore la possibilità di nazionalizzare il prodotto in Dogana. D) Il certificato AGRIM era rilasciato dal Ministero competente per il Paese importatore, che in Italia è il Ministero delle Attività produttive, in Francia è l’Office de Développement de l’Economie Agricole des Départements d’Outre Mer (ODEADOM). E) Abilitati al rilascio dei certificati AGRIM erano gli operatori del settore, variamente distinti in categorie, a seconda che fossero maturatori o importatori. Il rilascio dei detti certificati era, dunque, precluso a quei soggetti che erano privi dei requisiti citati. F) Il rilascio dei certificati AGRIM era, ancora, subordinato alla pregressa attività commerciale dell’operatore, il quale – ottenuto il rilascio del certificato – doveva dimostrare di avere utilizzato per intero il certificato medesimo, pena la sospensione dalla possibilità di importare o la limitazione quantitativa al rilascio di certificati. I certificati AGRIM potevano, poi, essere girati, esattamente come un titolo di credito. La girata poteva farsi in due modi: il sistema ortodosso consisteva nell’effettuare la girata presso l’Ente emittente, sì da informarlo del trasferimento del documento e, conseguentemente, del soggetto che – essendo divenuto il nuovo titolare – doveva versare la cauzione. Oppure la girata poteva essere effettuata con modalità non ufficiali, cioè senza informarne l’organo emittente: in questo caso, soggetto beneficiario restava il soggetto in favore del quale il certificato era stato rilasciato e, per conseguenza, solo egli era onerato delle vicende successive inerenti al titolo di importazione, ivi compreso lo svincolo della cauzione. Naturalmente, le possibilità offerte agli operatori del settore già per il solo fatto di avere il possesso di certificati AGRIM attribuivano a quei documenti un valore economico: infatti, il rilascio dei certificati Agrim attribuiva al beneficiario, oltreché la possibilità di importare a dazio agevolato, anche una sorta di prelazione, data dalla possibilità di acquisire, per il futuro, ulteriori certificati Agrim. La detta circostanza, costituita dal valore economico dei certificati Agrim, aveva favorito il ricorso al fenomeno della c.d. triangolazione: l’operatore, che chiameremo Z, che aveva la disponibilità di banane da importare ma che non era titolare del certificato Agrim per fruire del dazio agevolato, si rivolgeva ad un altro operatore, che chiameremo K, il quale si trovava nella condizione opposta, cioè titolare di certificato ma non in possesso di banane. A quel punto, l’operatore Z vendeva all’operatore K le banane allo stato estero, cioè prima di nazionalizzarle; l’operatore K, titolare del certificato, le presentava in dogana. Le banane erano importate con il suo nome ed erano subito dopo rivendute all’operatore Z il quale avrebbe pagato un prezzo, che era costituito, oltreché dal costo delle banane, anche da quello dei diritti doganali, dell’IVA e del margine del servizio che l’operatore K aveva reso, che includeva anche l’utilizzo del certificato. Il valore commerciale dei certificati Agrim era pari a 4-6 dollari per cassa di banane, avente un peso di kg. 18 circa. Poiché i diritti doganali riscossi dagli Stati membri affluiscono al bilancio della Comunità Europea, la regolarità del sistema che ruota attorno al prelievo di quei diritti costituisce interesse primario della Comunità che, a tal fine si avvale dell’OLAF (Organismo Europeo per la lotta alla Frode), un ufficio istituito presso l’Unione con compiti di intervento, cooperazione ed assistenza presso gli Stati membri. Sforniti di funzioni di Polizia Giudiziaria, i funzionari dell’OLAF svolgono attività di natura amministrativa, raccogliendo informazioni che possono essere utilizzate nei giudizi svolgentisi nei singoli Stati membri (v. regolamento del Consiglio 1073/99). Tanto premesso, prima di passare all’esposizione dei fatti, pare, ancora, opportuno indicare i principali nominativi che, a vario titolo, saranno citati nel prosieguo. G.A.: presidente del Consiglio di amministrazione della O.A. s.r.l., con sede in Acireale; G.M.: amministratore della O.A. s.r.l.; G.S.: amministratore unico di S. s.r.l. con sede in Acireale; B.M.: legale rappresentante della Sa. s.r.l. di Albenga (SV); B.A.: figlio di B. M., nel mercato delle banane da decenni; negli anni ‘90 inizia l’attivit à in proprio presso la Sa. e la Gi.; D.B.S.: spedizioniere, amministratore della So., dipendente della società O.A. s.r.l.; So.: acronimo di Società Generale Servizi, avente ad oggetto le operazioni di sdoganamento delle merci in transito al porto di Catania e quelle di imbarco e sbarco delle merci stesse (8). S.G.S.: multinazionale con sede in Svizzera, che si occupava anche di import-export nell’ambito delle operazioni doganali. Nell’anno 1999, nell’ambito dei poteri di vigilanza e controllo sopra accennati, l’OLAF indirizzava le prime richieste di informazioni presso gli Stati membri e, analizzando i dati delle importazioni, si avvedeva di un dato di difficile lettura, cioè un esubero di importazioni contingentate pari al 20-25%. L’indagine si appuntava sul Porto di Catania ove era individuato un trend di crescita del tutto ingiustificato sia per la posizione geografica, sia per la stranezza data dal fatto che, non essendo plausibile immaginare che quel quantitativo di banane fosse destinato al consumo locale, doveva esserci una ragione che pilotava le importazioni attraverso il porto di Catania. Sotto altro profilo, nell’estate del ‘99, su disposizione del Comando Generale, il comando Brigata Volante della Guardia di Finanza di Acireale avviava un controllo incrociato nei confronti della S. s.r.l. volto a verificare se, quale nuovo operatore, essa avesse i requisiti per importare banane. L’indagine accertava che tra la S. s.r.l. e l’O.A. s.r.l. vi erano rapporti commerciali molto stretti. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 145 (8) Soci della So. erano: D.B.L., figlio di D.B.S.; I.M., figlio di I.C., titolare, questi, dell’agenzia P., avente ad oggetto lo sdoganamento di merci al porto di Catania; F.E., R.S., M.S. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nello stesso periodo l’indagine era estesa alla società O.A. s.r.l.; precisamente l’indagine era volta a verificare la legittimità dell’importazione di banane. Durante il controllo erano acquisiti i relativi documenti presso la Dogana di Catania, mentre quelli richiesti presso la Dogana di Ravenna non erano resi disponibili, stante il rifiuto opposto da quell’ufficio. Dalla verifica della documentazione esibita dalla società O.A. s.r.l. emergeva subito una stranezza, cioè che, a fronte dell’acquisto dei titoli di importazione (che per il 90% erano di provenienza francese), mancava un riscontro di pagamento. La circostanza, illogica (essendo il titolo d’importazione un documento necessario ed insostituibile per l’importazione del prodotto nell’ambito del contingente stabilito a livello europeo), era acclarata da un incontro avuto il 4 dicembre 1999 presso la Procura di Trento. Al rientro, il Comandante Luog. C. riceveva disposizioni superiori di consegnare la pratica al Nucleo di Polizia Tributaria per il prosieguo delle indagini. Su delega della Procura della Repubblica di Catania, il Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza aveva, infatti, avviato indagini volte a verificare la regolarità delle importazioni di banane mediante il Porto di Catania. Società leader era O.A. s.r.l. Su disposizione del Comandante Provinciale, il Nucleo Polizia Tributaria acquisiva gli atti relativi all’indagine avviata dalla Brigata di Acireale; precisamente, bollette doganali con accluse copie di titoli d’importazione e altra documentazione attinente l’importazione. Ipotizzando che vi fosse un’importazione maggiore rispetto a quanto rappresentato nei documenti, i militari predisponevano un prospetto riepilogativo delle importazioni effettuate dai G., cioè dalla società O.A. s.r.l.. All’ultimazione del prospetto, ci si accorgeva di alcune incongruenze in merito soprattutto a un’importazione, cioè quella recata dalla bolletta doganale 173/s del mese di marzo 98. Il certificato di importazione recava un numero seriale francese diverso dall’altro, però i numeri progressivi, che in genere sono diversi, erano identici. Si trattava di certificati Agrim emessi dalla Francia. Per verificare la genuinità di quei certificati Agrim, inviati gli estremi identificativi dei titoli di importazione, si appurava presso l’Odeadom che si trattava di titoli falsi. Su 51 certificati controllati, 44 erano falsi. Aseguito di un vertice operativo tra i Magistrati inquirenti, la Guardia di Finanza e funzionari dell’OLAF, accertato che le società dei G. avevano subìto precedenti recenti indagini (una delle quali ad opera della Procura di Roma, poi conclusa con esito negativo, che nel mese di dicembre ‘99 aveva condotto ad un’approfondita perquisizione di una nave che trasportava un carico per conto dei G. e per la quale l’ipotesi investigativa era di contrabbando di droga), si stabiliva di mantenere l’investigazione sotto copertura e di procedere con le opportune verifiche presso la Dogana catanese in ordine all’eventuale coinvolgimento di funzionari doganali nella vicenda relativa all’accertata massiccia circolazione di certificati Agrim falsi. Frattanto, i militari apprendevano che una nave, l’Hamburg Trader, era approdata al Porto di Catania e stava per scaricare. In data 8 giugno i militari e alcuni funzionari dell’OLAF (…) si recavano in dogana per verificare la ritualità della documentazione necessaria per lo sdoganamento e, presa visione del certificato Agrim presentato per la nazionalizzazione del carico, si appurava che esso era falso. La nave recava un carico pari a 362.800 kg di banane. Il certificato Agrim, che corredava l’operazione, recava numero di rilascio 998070, data di rilascio 23 marzo 2000, il titolare del certificato era Frutera e la quantità di banane che quel certificato consentiva di sdoganare era pari a 2.000 tonnellate. Si procedeva al sequestro della documentazione doganale e del carico della nave. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 147 Perquisizioni erano avviate presso la sede della O.A. s.r.l, presso la sede della società S. s.r.l., presso le rispettive abitazioni di G.A., di G. S., di D. B. S. e presso la sede della società So. G.A., Presidente della O.A. s.r.l. e D. B. S., spedizioniere doganale, erano tratti in arresto per i delitti di contrabbando aggravato, di frode comunitaria e di falso. Dal conteggio delle importazioni effettuate con l’utilizzo dei 44 certificati falsi, era stato evaso il dazio doganale per un importo pari a lire 250 miliardi. All’esito della perquisizione presso l’O.A. i militari sequestravano alcune fatture commerciali relative all’acquisto di certificati Agrim da una società francese, T. F.; si trattava di n. 7 fatture e di uno scontrino. L’analisi di quei documenti rivelava la loro falsità: a) durante l’accertamento effettuato dalla Brigata di Acireale nell’anno 1998, quelle fatture – che si riferivano proprio a quell’anno – non erano state esibite; b) le fatture risultavano emesse in data 2000, benché fossero relative ad operazioni (la cessione di certificati Agrim) effettuate nell’anno 1998; c) quelle fatture non erano regolarmente registrate nella contabilità della società, risultando numerate progressivamente una dopo l’altra, a dimostrare che erano state ricevute tutte insieme; d) il documento redatto su un foglio formato A4 risultava privo dei segni di piegatura, come è, invece, necessario fare in caso di spedizione; e) il prezzo unitario dei cartoni che risultava corrisposto era incongruo, anzi irrisorio, essendo pari ad un centesimo per cartone, a fronte di un prezzo medio oscillante tra i 4 e i 6 dollari a cartone; f) l’intestazione del documento recava la denominazione sociale T.F. con l’indicazione del capitale sociale pari a 50.000 F, evidenziando un errore palese nell’abbreviazione del termine “franco francese”, che avrebbe dovuto essere stampato con la doppia F. Identificato e interrogato, il legale rappresentante della società T. F., dichiarava di non conoscere i G. e di non avere mai avuto rapporti commerciali con quelli. Quelle fatture risultavano riscontrate dai bonifici effettuati dai G. mediante il Credito Italiano; precisamente: la fattura n. 1 del 10 gennaio 2000 era riscontrata da un bonifico in data 20 marzo 2000, di pari importo, cioè 41.250 franchi; il destinatario è G. B., Parigi, (…), con causale “ a saldo della fattura 1 della T. F.; la fattura n. 2 risulta riscontrata in due soluzioni, la prima di 45.000 franchi, con valuta 29 marzo 2000, diretta a G. B., con causale acconto fattura n. 2 T. F., e saldo di 24.750 franchi con valuta 5 aprile 2000, con lo stesso beneficiario e la motivazione “ a saldo fattura n. 2”. Per la fattura n. 4, esistono due acconti, il primo di 49.000 franchi, con valuta 5 aprile 2000 e il secondo di 45.000 franchi con valuta 13 aprile 2000, con lo stesso beneficiario e la stessa motivazione. Le fatture n. 8, n. 9, n. 10 e n. 14 non sono riscontrate da bonifico. In tutte le fatture, poi, era attaccato un bigliettino con la dicitura “fatture da ricevere”, che significava che il conto non è ancora chiuso, non essendo stata pagata la fattura ancora da ricevere, benché fosse stato fatto anche il calcolo della valuta. Durante la perquisizione presso la sede della società O.A. s.r.l. i militari trovavano un fax recante, quale mittente, G. B., (…), Parigi; sulla destra recava la frase “A Marie”, più a destra “all’attenzione di Sebastiano”, ed era annotato un numero di telefono cellulare. La verifica effettuata dalla Guardia di Finanza appurava che esso era stato spedito il giorno 1 aprile 2000 alle ore 11.01 dalla S. P. 3S. Legale rappresentante della società mittente era tale G. F. Il contenuto del fax consisteva nella comunicazione di un nuovo numero di conto su cui effettuare “le prelevement”: tale ultimo termine – che evoca quello italiano di prelevamento, non esiste in lingua francese. Tornando ai certificati Agrim utilizzati dai G., si appurava che la maggior parte di essi era di provenienza francese, qualcuno era italiano e qualcun altro era spagnolo. 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Acquisiti presso la Dogana di Catania i certificati Agrim, in copia, utilizzati dai G. per l’importazione delle banane, i militari predisponevano un elenco, ove era indicato il numero seriale. Inviato all’Odeadom, la signora (…), funzionario presso quel Ministero, comunicava che tra i certificati indicati nell’elenco, alcuni erano autentici, altri non erano mai stati rilasciati dall’organismo emittente: precisamente 84 certificati erano estranei al Ministero francese. Di questi, 81 erano quelli utilizzati dalla società O.A. s.r.l. Due di quei certificati erano stati utilizzati dalla S. e uno dalla Sa., società, questa, intestata a B. M., di Albenga. S., che si inseriva quell’anno come nuovo importatore, nuovo operatore, si occupava di commercio all’ingrosso di ortofrutta e aveva importato banane dall’Ecuador, utilizzando certificati Agrim. Amministratore era G. S. Per l’importazione di ingenti quantitativi di banane erano stati utilizzati due certificati falsi che, però, recavano lo stesso numero seriale e lo stesso numero progressivo di due certificati autentici utilizzati dalla società O.A. s.r.l. per l’importazione di banane. Si tratta dei seguenti certificati: 1) il primo recante il numero seriale Francia FRAOO203, progressivo 980845, titolare Cobana, Bordeaux, “Sedex”, Parigi, diritti trasmessi S. a via (...), Acireale, quantitativo 1000 tonnellate, interamente utilizzato tramite bolletta doganale 8/N, 2.11.98, Porto di Catania; 2) il secondo, FRAOO202, progressivo 980844, quantitativo di 1000 tonnellate, utilizzato per 957,814 tonnellate, con bolletta doganale identica alla predetta, 8/N del 2.12.98, Catania. Si trattava di due documenti “cloni” di quelli autentici, già legittimamente utilizzati dalla società O.A. s.r.l.: 00202 del 21 settembre 1998, con numero seriale 990844, e FRAOO203, rilasciato il 21 settembre 1998, seriale 980845, utilizzati per importare 119,900 tonnellate, il secondo, e per importare 150 tonnellate, il primo. La falsità dei certificati utilizzati da S. era accertata mediante la verifica effettuata presso l’Odeadom che comunicava di avere rilasciato i due certificati utilizzati da O.A. s.r.l., mentre disconosceva quelli utilizzati da S. I documenti sono stati acquisiti (…). Tra la documentazione sequestrata presso le società O.A. s.r.l. e S. non ve n’era alcuna che comprovava la restituzione del certificato al titolare; circostanza, questa, che non avrebbe consentito al titolare del documento di riscuotere l’importo già versato a titolo di cauzione. L’ultimo certificato falso sequestrato presso la Dogana era stato utilizzato da Sa.: si tratta del certificato FR n. A22201 rilasciato il 23 dicembre 1997 con il numero progressivo 971281 dall’Odeadom ed utilizzato dalla ditta Sa. s.r.l. per importare 2000 tonnellate. Interpellato circa l’autenticità del documento, l’Odeadom riferiva che il certificato corrispondente al progressivo 971281, che riportava 2000 tonnellate e che risultava rilasciato alla B., in realtà era stato rilasciato alla ditta C. per una quantità pari a tonnellate 74,056 per il paese di origine Costarica. Il fax proveniente dall’Odeadom relativo all’accertamento circa l’autenticità dei certificati era acquisito (…). In data 5 luglio 2000 ufficiali della Guardia di Finanza di Catania e della Regione Liguria si presentano presso la sede delle società Sa. e Gi. in Albenga per dare esecuzione ai decreti di perquisizione e sequestro emessi dalla Procura Distrettuale della Repubblica di Catania nell’ambito dell’indagine che aveva preso le mosse dal sequestro del carico di banane in data 8 giugno 2000. Era, dunque, effettuata la perquisizione presso i locali aziendali della Sa. di Albenga; legale rappresentante era B.M. I locali erano anche sede della Gi., parimenti intestata a B.M. La perquisizione era estesa alla Gi. e, all’esito delle operazioni, erano sequestrati documenti inerenti l’attività delle aziende. Presente sui luoghi durante la perquisizione era B. A., figlio del legale rappresentante ed effettivo gestore delle attività. B.A. si dichiara il responsabile della gestione delle imprese e, dandone dimostrazione, esibisce la documentazione. Dal controllo dei certificati ricevuti tramite tale C. L. si evince che 9 certificati presentati al porto di Ravenna sono falsi. Destinatario della merce è sempre B. di Verona. Nel ‘98, altri 11 certificati risultano falsi. Anch’essi sono destinati a B., tranne che per un certificato utilizzato in marzo e destinato alla società O. di Acireale. I pagamenti dei certificati al C. avvenivano tramite bonifico bancario. Titolare di una società con sede in Monaco, A.B.P., B.A. aveva operato la cessione di certificati Agrim appoggiandosi alla società A.B.P., ricevuti tramite il C. Assunto a deporre, B. A. rilasciava alcune dichiarazioni e redigeva una piantina raffigurante gli uffici dell’Odeadom e la stanza visitata dal C. in una circostanza relativa al ritiro di certificati Agrim (9). Si accertò, poi, che la Sa. aveva utilizzato altri certificati falsi e che le operazioni di sdoganamento erano avvenute tramite il porto di Ravenna. Si trattava di certificati Agrim francesi e si accertava che alcuni di quei certificati erano stati ceduti da Sa. a B.I. di Verona. Erano rinvenuti, altresì, certificati falsi spagnoli. B.A. consegnava documenti relativi ai rapporti intrattenuti con il C. ( in atti: riferimento pag. 60 della testimonianza resa dal Mar. R.; documenti prodotti dalla Difesa, ma anche in rogatoria). Tutte le operazioni doganali effettuate dall’O.A., dalla S. e dalla Sa. presso il Porto di Catania erano state espletate con la partecipazione necessaria dello spedizioniere che, nel nostro caso era D.B.S., il quale aveva curato l’importazione delle banane tramite quei certificati Agrim oggetto della contestazione. È utile precisare, al riguardo, che il controllo presso la Dogana era limitato alla verifica del possesso materiale del documento da parte del presentatore, ma non era previsto che esso riguardasse la regolarità sostanziale del documento; ciò che, anzi, era escluso dal codice di attenzione stabilito per i certificati Agrim destinati all’importazione delle banane; codice che era convenzionalmente indicato in verde, e che significava attenzione minima. Il certificato Agrim, poi, dopo la presentazione in Dogana, era restituito al presentatore sì da con- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 149 (9) B.A., imputato in procedimento connesso, figlio di B.M., assunto nel presente giudizio ai sensi dell’art. 210 c.p.p., dichiara di gravitare nel settore commerciale dell’ortofrutta sin dagli anni 88-89, iniziando a lavorare quale dipendente presso la S. di Savona. Alla fine degli anni ‘90, transitato frattanto alle dipendenze di un’altra agenzia che si occupava di banane, inizia l’attività in proprio presso la Sa. e la Gi.. Inizia ad occuparsi di banane nel 94. Cominciava così il suo pellegrinaggio in Francia al mercato di Rungis e in Spagna alla ricerca di certificati per le importazioni. Dopo aver acquistato certificati di importazione presso [varie] società [...] nel 97-98 entra in scena C.L. da cui il B.A. acquista certificati di importazione francesi sino al 2000, anno in cui si accerta che i certificatoiprovenienti dal C.L. sono falsi. C.L. è una vecchia conoscenza dei B., conosciuto tramite il padre B.M. nel ‘93. Risiedeva in Montecarlo, destinazione ove di lì a poco il B.A. avrebbe fissato la propria resi150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sentirgli di consegnarlo all’ente emittente per svincolare la cauzione. Non era prescritto all’Ufficio Doganale l’obbligo di conservare una copia del certificato utilizzato per la nazionalizzazione (10). Dalla lettura del verbale di constatazione redatto dal ricevitore capo delle Dogane di Catania, (…), si apprende che il dazio evaso con l’operazione dell’8 giugno 2000 era pari a 4 miliardi, 889 milioni, 141 mila, 767 lire. L’atto e i due allegati (costituiti dalla dichiarazione degli elementi relativi al valore in dogana e dal titolo di importazione FRA17578, numero progressivo 988070) erano acquisiti (pag. 90 della testimonianza resa dal Mar. R.). Il fax spedito in data 8 giugno 2000 dall ’Odeadom ed avente ad oggetto la comunicazione circa la non autenticità del titolo presentato quel giorno in Dogana era acquisito (riferimento pag. 91 della testimonianza resa dal Mar. R.). Nel mese di novembre 2001 la Guardia di Finanza, su disposizione del Comando Generale del Corpo, emana una circolare obbligando tutti i comandi competenti per territorio di verificare la posizione relativa all’anno 1998 di tutti gli operatori che commercializzavano banane o che maturavano banane e che erano titolari di certificati di importazione italiani. denza dopo aver fondato la società A. e B.D. Nel 96, il C.L. gli propone l’acquisto di banane, avendo la disponibilità di un fornitore, tale S.O. e l’acquisto di certificati di importazione, affermando di averne possibilità avendo conosciuto un funzionario. La proposta è subito accettata dal neo importatore che inizia ad acquistare titoli di importazione francesi tramite il C.L. La prima consegna di certificati avviene via posta, la seconda e la terza si svolgono a Parigi: nell’abitazione del C.L., la prima, e all’Odeadom, all’interno del palazzo ministeriale, la seconda. La merce era venduta ad una società di Verona, B.I., tranne per un caso in cui le banane erano state vendute alla società Ortofrutticola. I rapporti con C.L., dice il B., si interrompono nel ‘98 allorché, invitato dal B.A. a ridurre il prezzo delle banane, i due litigano e il C.L. sparisce. Alla residenza di [...], qualcuno lo informa che il C.L. aveva avuto problemi finanziari ed era sparito. I due si incontrano nel marzo 2000 allorché, dinanzi all’Autorità Giudiziaria francese, essi sono messi a confronto mentre sono in stato di detenzione. Verso fine 98, su richiesta di B.I., una partita di licenze era stata trasferita direttamente a suo nome. Giunti i certificati, la B.I. chiede al Bolla se era possibile mettersi in contatto con l’Odeadom per verificare l’autenticità dei certificati. Informatosi presso il C.L., questi forniva al Bolla il numero telefonico di fax che era stato richiesto. Quel numero era, poi, comunicato a B.I.. Il fax viene spedito e, in risposta, B.I. ne riceve uno che, al vaglio degli inquirenti, risulterà proveniente da un numero intestato alla convivente di C.L., compilato in una lingua che imita quella francese. (10) Nel 2000 un nuovo regolamento comunitario ha stabilito che una copia del certificato presentato per lo sdoganamento, doveva essere conservata presso gli uffici della Dogana e che il controllo sui certificati presentati per lo sdoganamento deve estendersi alla legittimità della loro emissione e provenienza, attuabile mediante la verifica in tempo reale presso il Ministero emittente. Nel territorio italiano l’accertamento è svolto con il tramite del Secondo Reparto Comando Generale della Guardia di Finanza. Naturalmente, l’operazione di sdoganamento si completa solo dopo la verifica della legittimità della provenienza del certificato. Il carico di banane non è comunque oggetto d’ispezione, sia per ragioni di contaminazione, sia per evitare una precoce maturazione. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 151 Le figure professionali erano tre: primo importatore, secondo importatore e maturatore. L’imprenditore che avesse voluto richiedere il rilascio di certificati Agrim presso il Ministero avrebbe dovuto autocertificare la pregressa attività nel settore, specificando se avesse effettuato importazioni come primo importatore o come secondo importatore, oppure se avesse soltanto la funzione di maturatore. Indagando sugli anni di riferimento, 94, 95, 96, si accertava che l’O.A. s.r.l. aveva dichiarato di essere maturatore e, in piccola quota, secondo importatore: le dichiarazioni relative agli anni 94 e 95 erano state fatte da G. M., mentre quelle relative all’anno 96 erano state rese da G.A.. L’indagine della Guardia di Finanza si concentrava sulla verifica della qualifica di maturatore per gli anni 94, 95, 96. Richiesti di esibire le tre autodichiarazioni, i G. non erano in grado di ottemperare. L’acquisizione di quei documenti, disposta presso il Ministero, consentiva di accertare che le banane verdi, acquistate presso un importatore internazionale (ad esempio, Del Monte), dopo il carico e il trasporto, erano avviate, non già presso la sede della società O.A. s.r.l. in Acireale, ma in quel di Siracusa, località T., o, alternativamente, al mercato ortofrutticolo di Siracusa; luoghi, questi, sostanzialmente coincidenti. Presso l’Ufficio IVA si accertava che nel mese di gennaio 1996 la società O.A. s.r.l. aveva comunicato una variazione dati con riferimento alla data del 25 aprile 1995 avente ad oggetto la disponibilità di magazzini in contrada T. di Siracusa. La società O.A. forniva, inoltre, copia dei contratti di locazione dei locali a decorrere dal mese di giugno 95. Sennonché, dal 10 gennaio 94 al 31 maggio 95, mancava la copertura formale costituita dalla disponibilità dei depositi come, invece, essa era stata denunciata dalla variazione effettuata presso l’Ufficio IVA per il relativo periodo. I magazzini risultavano in uso alla ditta dei Fratelli R. che esibivano il contratto di locazione con scadenza agosto ‘95. Da una verifica si appurava che le banane verdi che l’O.A. aveva acquistato per la maturazione erano contemporaneamente (cioè istantaneamente) vendute alla ditta R. di Siracusa. La merce partiva da Albenga e dopo 36 ore arrivava in Sicilia, dove era immediatamente ceduta, cioè venduta, ai Fratelli R. La fattura di vendita da Ortofrutticola alla ditta R. recava il riferimento della bolla del mittente di Albenga. Nell’anno 1994 tutte le 1851 tonnellate acquistate dalla Ortofrutticola erano cedute alla ditta R. Se ne deduceva che le banane erano vendute senza aver proceduto alla devertizzazione e che pertanto la società O. non era maturatore. Peraltro, il prezzo di vendita delle banane da O. a R. era tale da non consentire di individuarvi neppure un minimo margine di guadagno, avuto riguardo ai costi della maturazione. Nella bolla che accompagnava il carico da Albenga risultava l’indicazione di un numero telefonico che, da accertamenti presso Telecom, era intestato ai R. fino al terzo bimestre ‘95. Inoltre, il contratto di fornitura dell’energia elettrica per il funzionamento delle tre celle e che era pari a lire 300.000 mensili a cella non era a carico né dei Fratelli R. né della O. Non risultavano accordi scritti fra la ditta R. e la O. circa l’uso comune delle celle di maturazione delle banane. Il calcolo si riferiva al più tardi al 30 aprile ‘95, data in cui, essendo intervenuta la disdetta del contratto di locazione dei magazzini da parte della ditta R., si era ipotizzata un’effettiva utilizzazione di quelle celle ad opera della O. quale maturatore. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Va ancora detto che, al fine di acquisire la qualifica di maturatore, era necessario che le banane verdi acquistate per la devertizzazione recassero la categoria A: qualunque altra categoria non sarebbe stata idonea a far conseguire la qualifica di maturatore. Dalla verifica delle fatture, tale dato non si evinceva. Richiesto, il Ministero rispondeva che tale riscontro non era stato effettuato per gli anni ’94 e ‘95 ma solo a decorrere dal ‘96. Dal prospetto dei fornitori della O. inviato dal Ministero si evinceva che la S. e la B. avevano venduto rispettivamente 3000 tonnellate e 2000 tonnellate. In molti documenti la categoria non era riportata. Per l’anno ‘96, la Guardia di Finanza sottraeva dal quantitativo che l’O. aveva autocertificato tutto il prodotto (banane) che sulle fatture d’acquisto non riportava esplicitamente la dizione categoria A, così sottraendo 2000 tonnellate circa. Per gli anni ‘94 e ‘95, mancando il controllo da parte del Ministero, la verifica della Guardia di Finanza si limitava ad escludere dal calcolo quei quantitativi di banane che non potevano essere state maturate mancando i magazzini per la devertizzazione. Per l’anno ‘96, invece, a fronte di 6.608 tonnellate di banane che l’O. aveva dichiarato di aver maturato, il calcolo della Guardia di Finanza recava una possibilità di importare banane pari a 618 tonnellate, a fronte di 825 tonnellate concesse dal Ministero a conclusione dei calcoli effettuati senza tener conto della media ponderata dei tre anni di riferimento precedenti. La differenza tra i due valori comportava l’obbligo di pagarvi un dazio intero (11). Il dazio evaso era pari a euro 153.040, 00 più IVA pari a euro 8.695,44. Il documento recante il calcolo effettuato dal ricevitore capo della dogana (…) era acquisito al fascicolo (rif. pag. 64 testimonianza Mar. C.). Dalla lettura del provvedimento di revoca inviato dal Ministero del Commercio con l’Estero alla Commissione U.E.– D.G. VI – Settore Banane si apprende che, «a seguito di un riesame generalizzato di tutte le richieste di registrazione quali operatore tradizionale nel commercio delle banane, riesame iniziato di recente, è emerso che la ditta O.A. s.r.l. ha reso delle dichiarazioni non veritiere quanto alla operatività pregressa. Tale ditta ha infatti dichiarato una operatività per l’anno 1995 pari a tonn. 2.050,370 in luogo della effettiva di tonn. 205,037 e per l’anno 1996 di tonn. 4.386,130 in luogo della effettiva di tonn. 438,613. Pertanto, in applicazione dell’art. 13 par. 2 del re. 2362/98 si dispone la revoca della registrazione quale operatore tradizionale per la ditta in questione». Spedizioniere in tutte le operazioni di importazione, come abbiamo anticipato, era sempre stato D.B.S. che, all’epoca dei fatti, era dipendente della So., ma disponeva anche di un ufficio presso l’O.A. s.r.l. La figura dell’imputato D.B.S., correo di G.A., di G. S. e di altro soggetto con riferimento ai fatti di Albenga, si arricchisce di particolari significativi esplorando quei fatti che (11) Va segnalato che durante l’acquisizione erano rinvenuti alcuni moduli per certificati Agrim in bianco e privi del sigillo di Stato. Si appurava che era prassi consegnare quei certificati alle associazioni di categoria, quali, ad esempio, ANIPO, che li avrebbe, poi, restituiti dopo averli compilati. Richiesto di fornire chiarimenti in proposito, il Ministero rispondeva nel senso indicato, rilevando, però, la stranezza dell’assenza del sigillo di Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 153 svelano l’interesse manifestato dall’imputato alla conduzione delle imprese O.A. s.r.l. e S. s.r.l. (12). Da deposizione testimoniale di M.S. abbiamo appreso che, quale socio con una quota del 25% della So., egli vi aveva lavorato occupandosi del controllo contabile della società. In qualità di socio, il M. partecipava regolarmente alle assemblee, ma era anche capitato che aveva dato la delega a C. G. per il quale, in realtà, il M. costituiva il riferimento all’interno della società. Ad un certo punto, il M. cede la propria quota alla moglie del C.G. e nel ‘99 questi ricopre la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione. Nell’ottobre 1999, nell’ambito del riordino dell’organigramma aziendale, a seguito delle incomprensioni e delle tensioni createsi nell’azienda, D.B.S. invita perentoriamente il M. a lasciare la società. A sua volta, D.B.S. si dimette sia dalla carica di direttore che da quella di amministratore delegato e viene assunto alle dipendenze della società O.A. s.r.l.. Oltre a D.B.S., altre cinque o sei persone lasciarono la So. e confluirono in una società di nuova costituzione, So.[1], poi trasformata in So.[2]. Soci, oltre a D.B.L., fondatore, sono T.A., T.R. e S.P. Identico oggetto sociale della So., contigua la sede delle due società. La O.A. s.r.l. era il cliente più importante della So. fino a quando, fondata la So.[1] e poi la So.[2], quella società azzerò le commesse che, da quel momento furono affidate alle società di nuova costituzione: in un caso, ad esempio, avente ad oggetto lo sdoganamento di merce da una nave per una ditta operante nel messinese, la ditta revocò la commessa nel volgere di 24 ore per affidarla alla So.[2] Il servizio che la So. svolgeva per conto del cliente O. era quello standard: cioè, occuparsi dello sdoganamento e dello sbarco della merce (in questo caso, banane) da navi frigorifero. Talvolta, poi, la So. si occupava di reperire la nave sul porto di Catania; infine, la societ à di servizi si occupava di assicurare il carico. Le operazioni di sdoganamento erano fatturate dalla So. ma erano rese possibili dalla qualifica di spedizioniere che il D.B.S. possedeva. Estranea ai compiti della So. era, invece, la gestione commerciale della merce, come, ad esempio, collocare la merce sul mercato interno, procurare i certificati per le importazioni et similia. È stato accertato che tale tipo di attività era svolta per conto della O. come dimostrato anche dai contatti telefonici intrattenuti dal D.B.S. con diversi soggetti, oltreché da un documento proveniente dalla O. ed indirizzato al D.B.S. ove risultava annotata la seguente richiesta: “vedi se puoi avere informazioni su un tizio” in Turchia. Parimenti significativi nel senso detto sono risultati i documenti contrassegnati con i numeri da 2 a 28 della produzione del P.M.(13). (12) “D.B. professionale, sa anche tutte le lingue, sa tutto, sa… conosce il marittimo abbastanza bene, accordi internazionali e tutto, per quello era stato preso dall’O. A., per gestire il traffico navale, compresi tutti i contratti che si facevano in giro.”(esame dell’imputato G.A. pag. 63, udienza del 19 ottobre 2005). (13) Il teste, consultando i documenti contraddistinti con i numeri da 2 a 11 della produzione del P.M., dichiara che essi sono stati rinvenuti nella sede delle So.: dalla lettura del loro contenuto si evince che trattasi di corrispondenza tra la So. e operatori commerciali stranieri. In uno di essi, una società turca scrive alla O. e annota “alla cortese attenzione del signor D.B.”. Il fax proviene dal numero 095/877801. 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’istruttoria dibattimentale conclama la responsabilità degli imputati G.A., G.M., G.S. e D.B.S. per tutti i capi di imputazione, fatta eccezione per quelli di contrabbando, come si dirà appresso. La responsabilità penale dei fatti ascrittigli è, invece, da escludere per B.M. Partendo da tale ultima posizione processuale, ritiene il giudice che alla figura professionale e al ruolo attribuiti all’imputato B.M. non hanno fatto eco le risultanze processuali, che anzi paiono radicare una responsabilità in capo a B.A., reale amministratore delle societ à Sa. e Gi., come ampiamente dimostrato dalla sua conoscenza dei fatti, dalla sua partecipazione personale alla gestione della vicenda “certificati”, dai rapporti intrattenuti personalmente con la società B. Import e con C. L.; senza che, a tale personale gestione si sia mai accompagnata una compartecipazione di B. M. L’imputato va, per conseguenza, assolto da tutti i capi ascrittigli per non averli commessi. Quanto a G.A., G.M., G.S. e D.B.S., ritiene il giudice che le numerose dettagliate testimonianze, riscontrate dai verbali di perquisizione domiciliare, di sequestro, di arresto, dalle In un altro documento, costituente una bozza di contratto commerciale, si legge la scritta in calce “da D.B. a Pippo”. Un altro documento è costituito da una guida della banane ove risulta annotata la marca Dole Bananas. Un altro documento è costituito da una lettera inviata dalla So. alla S.I.C. Il documento reca il timbro D.B.S. per la So. In un caso, il D.B.S. aveva proposto a C.G., titolare dell’impresa Commerciale Agricola, di presentare domanda al Ministero per ottenere il rilascio di certificati Agrim. La domanda fu, poi, presentata, ma con esito negativo (documento n. 7 della produzione documentale del P.M., rif. pag. 31 della testimonianza resa da M.), mancando il requisito oggettivo della commercializzazione di frutta fresca. La pratica, ricorda Mazzone, fu presentata in Roma presso lo studio di tale dottor F. il quale, a sua volta, avrebbe curato la pratica di rilascio dei certificati presso il Ministero. Dalla documentazione rinvenuta presso la So. si era appreso che D.B. curava il reperimento dei certificati Agrim per conto della O. Dal documento n. 8 e 9 si evince che la So. aveva inviato due lettere alla Ma. s.r.l., con sede in Genova. Broker assicurativo, Ma. curava la stipula dei contratti di assicurazione delle merci che venivano spediti alla So. e, poi, consegnati alla O. Titolare della Ma. era tale G. che aveva lavorato presso la S.G.S. insieme con il D.B. Il documento n. 10 è una lettera datata 10 marzo 2000 spedita dalla O. alla So., epoca in cui quell’impresa non era più cliente della So. In quella lettera la O. chiede alla So. la documentazione relativa ad indennizzi assicurativi vantati per risarcimento danni. Si trattava di un servizio aggiuntivo che era prestato alla O. Il documento n. 11, formato da tre allegati, concerne un resoconto contabile che il mittente So. comunica alla O. e che è relativo ai certificati Agrim utilizzati. Quei certificati erano utilizzati anche per altre società. I documenti dal n. 12 al n. 28 prodotti dal P.M. (II produzione) provengono da C.: essi sono stati trovati nella cassettiera della scrivania del D.B. presso So. dopo le dimissioni, ed in occasione di un’apertura forzata effettuata dalla P.G. su denuncia da parte del C. che aveva lamentato la mancanza di alcuni documenti. Nel cercare quei documenti, il C. notò una risma di carta bianca intestata O.: prodotta in altro autonomo procedimento penale, la produzione documentale nel presente giudizio è costituita da una fotocopia campione di uno di quei fogli, tutti identici tra loro. Il documento n. 18 è costituito da una lettera della T. di Amburgo scritta da tale S. che concerne l’acquisto di titoli d’importazione per banane “per amici di Acireale”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 155 rogatorie internazionali commissionate con lo Stato francese, dai processi verbali di violazione delle leggi doganali, da quelli di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza, dalle relazioni redatte dall’OLAF (documenti, questi, aventi valore di prova ai sensi dell’art. 9 Reg (CE) n. 1073/99 del 25 maggio 1999) conclamano la responsabilità di quegli imputati per le ipotesi delittuose concorsuali racchiuse ai capi B C F H I L M N P Q. Procurandosi falsi certificati Agrim, o creandoli, nel caso di S., e, in entrambi i casi, utilizzandoli, G.A. in concorso con D.B.S., G. S. in concorso con D.B.S. e D.B.S., in concorso con altro soggetto, importavano banane a dazio agevolato (14) (15). Pare utile riportare sinteticamente il contenuto dell’esame reso dagli imputati G.A. e D.B.S. Confermando la versione offerta in sede di udienza di convalida del suo arresto, G.A. ha dichiarato di essere stato raggirato da tale G. B., ottantenne, di origine italiana, residente in Francia, il quale – mostrandosi interessato all’ottenimento di certificati Agrim del Camerun – aveva offerto, in cambio, la disponibilità di certificati Ecuador, cioè quelli che costituivano oggetto precipuo dell’interesse del G. La consegna dei certificati Agrim era avvenuta in Italia, presso l’azienda O.A. s.r.l. ove il G.B. si era recato più volte in compagnia di un terzo soggetto, non meglio indicato, per consegnare (e consegnando) i certificati Ecuador, di poi ritirando quelli che erano già stati utilizzati per la nazionalizzazione. In quelle occasioni, il G.B. apriva una valigetta da cui prelevava i certificati Ecuador per O.A. s.r.l., mostrando di custodirne centinaia per Ecuador, Costa Rica, Colombia, destinati ad altri porti italiani: Ravenna, Genova, Livorno, Rotterdam, Amburgo. L’accordo, riferiva il G., era stato verbale e non era stato pattuito alcun corrispettivo o anticipo fino a quando, dopo i fatti della nave Ice River che aveva gettato un’ombra di discredito sull’impresa condotta dai G., il G.B. aveva preteso il pagamento: di qui, l’emissione delle fatture ad opera della Trinacria France; di qui i versamenti fatti dal G. su diversi conti esteri intestati al G.B. che, ad un certo punto, aveva chiesto di effettuare le operazioni (indicate con il termine “le prelevement”) su un conto diverso. G.B. portava un orologio Vacheron Constantin al polso, viaggiava a bordo di una Peugeot e, durante i suoi viaggi in Italia, non aveva mai accettato una cena o un caffè. Misterioso, taciturno, vantava, però, conoscenze importanti, quale quella personale con il Presidente Pertini e con altri politici italiani, diceva di lavorare per grossi nomi francesi (politici) che stavano realizzando grossi affari con le importazioni di banane dal Camerun dove possedevano grosse piantagioni. Lui, il G., ci credeva. Come e dove si erano conosciuti i due? Tramite G.F., broker, che procurava i certificati ai G. Un giorno, mentre G. e G.F. si trovavano, per ragioni di lavoro (l’acquisto di frutta), al mercato di Parigi, il broker manifestava difficoltà a mantenere l’impegno di procurare certificati; aveva, così, presentato G.B. a G.A. (14) Pacifica, in dottrina e in giurisprudenza, è la configurabilità del concorso tra l’ipotesi criminosa della ricettazione e quella di falso (v. S.U. sent. 23427 del 7 giugno 2001, rv. 218771, in materia di concorso tra il delitto di cui all’art. 648 c.p. e quello di cui all’art. 474 c.p.). (15) Locus commissi delicti è quello contestato in imputazione, non essendo stata sollevata tempestivamente alcuna questione preliminare. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Alle contestazioni mossegli dal P.M. circa la diversa versione resa in sede di udienza di convalida, il G. replica affermando che le condizioni determinate dallo stato di arresto, gli avevano fatto perdere lucidità. Quante volte il G.B. si era recato in Italia? 20, 18 o forse 16 volte, afferma il G. Alle contestazioni mossegli dal P.M. circa la diversa versione da egli resa in sede di udienza di convalida dell’arresto, egli replica che “non è che ogni volta…scrivevo”. Richiesto di chiarire dove e come era avvenuto l’incontro (anzi, la conoscenza) tra i due, se in Italia presso l’azienda, ove il G.B. si era presentato dopo averli contattati telefonicamente, o a Parigi, l’imputato risponde che la verità “è sempre ammucchiata là”. Alla contestazione logica mossa dal P.M. circa l’impossibilità, per l’imputato, di mantenere fede all’impegno contrattuale asseritamente assunto con il G.B., cioè l’obbligo di procurargli certificati del Camerun per importare un quantitativo enorme di banane (pari a tutto il contingente di banane di provenienza dal Camerun assegnato all’intera Europa), quegli dichiara di non essersene reso conto. Alla domanda del P.M. che chiedeva di spiegare l’annotazione del numero di fax (risultato intestato a G.F., il broker con cui si erano interrotti gli affari da tre anni circa) sulla lettera apparentemente spedita nell’anno 2000 da Garibaldi ed avente ad oggetto la richiesta di effettuare “le operazioni” (le prelevement) su un diverso conto corrente, l’imputato dichiarava di non conoscere la grafia apposta su quel foglio e di non sapere spiegare la ragione di quell’annotazione. Alla contestazione circa il riscontro di telefonate dal numero intestato al G.F. alla O. ancora nell’anno 2000, il G. si difende affermando che, comunque, si trattava di un soggetto con cui erano in affari per il commercio di frutta. Richiesto di spiegare il significato di un punto rosso sulla cartina geografica in corrispondenza della zona del catanese nella brochure contenente la pubblicità della società P., il G. dichiarava che la società O. poteva considerarsi affiliata alla società francese e che, dunque, forse era questo il significato da attribuire a quel disegno pubblicitario. Con riferimento ai rapporti con il D. B., il G. ha dichiarato che, allorché l’azienda aveva intrapreso l’attività di importazione di banane, aveva avvertito l’esigenza di avvalersi della collaborazione di un esperto della materia. Le indicazioni convergevano su D.B.S., spedizioniere presso la So. L’incontro avviene nel 96. Poi, egli viene assunto dalla O.A. con il ruolo di dirigente. Però, affermava il G., lo spedizioniere D. B. si occupava anche degli aspetti assicurativi del carico, e, talvolta, di procurare titoli di importazione per conto della O. Tali attivit à aggiuntive, si affretta a precisare il G., erano però effettuate a titolo di cortesia, una tantum e, sempre, a fronte di una precisa richiesta del G. Questi, profittando della perfetta conoscenza delle lingue vantata dal D. B. e dai suoi rapporti internazionali con operatori del settore, si era talvolta avvalso di qualche informazione in più “per non farsi fregare i soldi”. A fronte della contestazione mossa dal P.M. circa la diversa versione resa in sede di udienza di convalida, il G. ribadiva la versione dibattimentale e cioè che il D.B. si era interessato di certificati Agrim, cioè di procurarli alla O., anche se non li aveva mai utilizzati in proprio, cioè per importare personalmente. Alla contestazione logica mossa dal P.M. circa la non conducenza di quanto affermato dall’imputato per giustificare la sostanziale diversit à tra le due versioni da egli rese, il G. ribadiva pervicacemente che l’avere, egli, affermato in sede di convalida che il D. B. non si era mai interessato di procurare certificati Agrim, era da intendersi che quegli non se ne era mai interessato “per se stesso”. Chiesto di spiegare la ragione per la quale in data 18 gennaio 1999 dalla So. era stata spedita una lettera a firma D. B. indirizzata alla P., Parigi ed avente ad oggetto l’importazioIL CONTENZIOSO NAZIONALE 157 ne di banane, con cui si trasmettevano i documenti relativi (tra cui il certificato di importazione), il G. spiega che si era trattato di una triangolazione. Dall’esame dell’imputato D.B. si apprende che egli entra a far parte della So. nell’anno 1995 con un contratto di collaborazione continuativa; era il direttore generale, ma non era organicamente inquadrato nella società. Nell’anno 1998, egli viene assunto. Soci della So. erano anche D.B.L., figlio dell’imputato, e C.M., figlio di C.I., il rag. M. I tre soci erano, di fatto, sostituiti dall’imputato D.B.S., da C. I. e da C.: i quali adottavano le decisioni societarie. Nel 1998, tra i settanta/ottanta clienti della So. emerge il nome di O.A. s.r.l., nuovo volto nel ristretto settore delle imprese di importazione di banane, che conta nomi quotati in borsa: Del Monte, Ciquita, Dole, per citarne alcuni. La O.A. inizia a importare moltissimo. Nel 2000, nel mese di marzo, il D.B. transita, quale dirigente, alla O.A. s.r.l. La ragione, chiarisce l’imputato, è da ricercare nel rischio imminente di fallimento della SO. che aveva un temibile concorrente, C., socio e accomandatario della Commerciale Agricola. Il D.B. fiuta il pericolo e si dimette. Il 70% dei soci segue quella saggia decisione, costituendo una società del tutto analoga alla So.: So.[1]. Perché il D.B., nel dimettersi, sceglie di rimanere nel mercato del lavoro e di remorare la pensione? Per conseguire l’anzianità della qualifica dirigenziale, che non deve essere inferiore a quindici anni. Alla richiesta di spiegare il contenuto della lettera spedita da Mr. S. di Amburgo per conto della T. ed indirizzata a “Mr. D. B. per amici di Acireale”, l’imputato dichiarava che la T. è una multinazionale che tratta prodotti per la zootecnia, cereali, una grossa multinazionale con cui egli aveva lavorato da 30 anni almeno. Mister S. era il direttore commerciale. Dopo aver premesso di non ricordare perfettamente, l’imputato dichiarava che si era, forse, trattato di un caso in cui i G. gli avevano chiesto di informarsi (dato che egli conosceva le lingue e aveva rapporti internazionali) se c’era in Amburgo qualcuno disposto a vendere certificati. Ma, si affretta a precisare l’imputato, la cosa finì lì, perché si trattava di un’azienda facente parte del gruppo Del Monte, interessata ad acquistare titoli e non a venderli. A fronte della lettura di un brano di quel documento “ there is a possibilità to make a business in banana” (chiaramente riferentesi alla possibilità di fare affari nel settore delle banane), l’imputato dichiara che si trattò, comunque, dell’unico caso (pag. 135, udienza 19 ottobre 2005). Richiesto di riferire se avesse mai avuto problemi con i titoli di importazione e se, dunque, gli fosse mai capitato di essersi recato in Dogana per parlare con qualcuno, l’imputato risponde che in 40 anni di attività non gli erano mai capitati problemi con i certificati e che, sì, talvolta egli si era pure recato in Dogana ma, così, per apporre qualche firma. Non sapeva, se non per averlo appreso dai G., che i certificati avevano un valore commerciale. Non sapeva, se non dopo i fatti per cui è processo, che fosse difficile reperire certificati Agrim sul mercato per importare grosse quantità di banane da uno stesso paese, ad esempio l’Ecuador, come invece avevano fatto i G. nel volgere di qualche anno. Non gli interessava leggere il regolamento, gli bastava essere in possesso dei documenti necessari per lo sdoganamento. Chiesto di spiegare se non gli fosse sorto il legittimo dubbio circa la rapida ed inspiegabile espansione commerciale della O.A., l’imputato afferma di non averci badato (pag. 139 ud. 19 ottobre 2005). 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Chiesto di spiegare se non gli fosse sorto il legittimo dubbio circa l’esagerata quantità di banane recata dai certificati italiani, l’imputato ribadiva di non averci badato e che comunque non gli interessava. Quanto all’operazione di nazionalizzazione, l’imputato chiariva che il suo compito si limitava a raccogliere i documenti necessari per l’operazione di sdoganamento e a farli presentare in Dogana da uno dei dipendenti della So. La documentazione era consegnata da O.A. a T. A., collaboratore del D. B., che, abitando in Acicatena, aveva il compito di recarsi in azienda ad Acireale per prendere in consegna la documentazione. Chiesto di spiegare perché in un caso risulta che il certificato Agrim fu restituito alla P. e, invece, non vi è traccia di tanto per quelli, risultati falsi, l’imputato chiariva che la necessaria restituzione del certificato al titolare era effettuata dalla O. che, talvolta (come deve essere avvenuto per il caso del certificato P.), chiedeva al D. B. di occuparsene: eppure, contestava il P.M., i G. non conoscevano le lingue, essi si erano avvalsi della consulenza globale del D.B. Non era, dunque, illogico, che quella società, che pure aveva assunto un dirigente, provvedesse in economia a spedire i certificati compilando le necessarie lettere di accompagnamento senza ricorrere al facile (e pattuito) aiuto del dirigente D.B., che parlava le lingue? Eppure, come egli dichiara nel preambolo della sua presentazione in sede di esame, “io, guardi, vengo da una grossa organizzazione dove alla base c’era la formazione, c’era l’organizzazione, tutto messo a posto, in regola.” (pag. 130, esame). “Io vengo da una grossa formazione di una grossa multinazionale, dove lavorai 34 anni”. La consapevolezza dell’illecita provenienza dei certificati (16), pienamente provata in giudizio e non scalfita dall’esame dell’imputato G.A. (è sufficiente richiamare, in proposito, la gratuità dell’acquisto dei certificati, a fronte di un valore di mercato compreso tra 4 e 6 dollari; la singolare tardiva produzione di fatture emesse nell’anno 2000 a fronte di acquisti risalenti ad alcuni anni prima, la numerazione continua e progressiva di quei documenti, a dimostrazione della coeva emissione, la illogicità di un sistema di procacciamento di certificati affidato ad operatori non iscritti, quali, nella prospettazione difensiva, sarebbero stati G.B. e T.F.), reca la declaratoria di responsabilità di G.A. per i reati di cui ai capi B C, riqualificato tale ultimo reato ai sensi dell’art. 489 in relazione all’art. 477-482 c.p., in concorso con D.B.S. La riqualificazione del reato contestato al capo C è dettata dalle emergenze dibattimentali, che hanno escluso l’autenticità della firma apposta sui certificati Agrim. Del pari, la circostanza data dall’essere i due certificati descritti al capo D i doppioni di due autentici rilasciati alla società O.A. s.r.l. reca l’inconfutabile prova che G.S. in concorso con D.B.S. si procurava, realizzandoli, i due falsi certificati, così importando a dazio agevolato. Analogamente, D.B. S. concorreva nella condotta concernente la vicenda Sa. procurando il falso certificato Agrim ed importando a dazio agevolato. (16) Non appare utile, per escludere la responsabilità degli imputati, fare riferimento alla sentenza n. 398/02 resa in data 6 ottobre 2004 dal Tribunale di Ravenna che ha assolto, ai sensi dell’art. 530 comma 2° c.p.p., gli imputati M.P. e A.F.G. dai reati ascritti con formula per non aver commesso il fatto (capo A), fatto non costituisce reato (capo B) e fatto non sussiste (capo C): si tratta di provvedimento reso dal GUP all’esito di giudizio abbreviato per imputazioni non pienamente coincidenti con quelle che formano oggetto del presente giudizio. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 159 Perché G.A., G. S. e D.B.S. sapevano di utilizzare falsi certificati Agrim? Esattamente rileva il P.M. che, esperti del settore, essi sapevano quali fossero le possibilit à di crescita di un’impresa, relativamente nuova, quale era la O.A. s.r.l. e la S. s.r.l., nel mercato delle importazioni delle banane. Essi sapevano che per importare lecitamente, sarebbe stato necessario procurarsi quei certificati e sapevano che – per le connotazioni del sistema – i certificati cui avrebbero avuto diritto, essendo nuovi importatori, sarebbero stati esigui. Dunque, essi non sono stati truffati. Non è supportata da rigore logico la tesi sostenuta da G.A. secondo cui i certificati, ritenuti veri, gli furono forniti da G. B., in cambio della promessa di certificati di provenienza Camerun che quegli richiedeva. Basti considerare che il G.A. non avrà la disponibilità di quei certificati che aveva promesso di scambiare. Inoltre, come ha esattamente osservato il P.M., costituisce una stortura logica sostenere che un accordo di tal fatta, avente un valore economico notevole, non era supportato documentalmente. Né, a sostenere la tesi difensiva soccorre la prova documentale fornita circa il pagamento di quei certificati sui conti correnti intestati a G. B. Non solo perché comunque il pagamento si riferirebbe all’ultima tranche di certificati, non solo perché appare davvero incomprensibile la lettera con cui si indicano le nuove coordinate bancarie su cui effettuare i prelevamenti, non solo perché delle centinaia di certificati di cui il G.B. (secondo la versione del G.) dimostrava di essere in possesso non si è trovata che una minima traccia, non solo perché le visite del G.B. in territorio acese sono incompatibili con la quantità di certificati di cui i G. erano in possesso, ma soprattutto perché le fatture (emesse, peraltro, per un prezzo fuori mercato), ostentate per dimostrare la ritualità delle operazioni, non furono trovate allorché nel 1999 la Guardia di Finanza, dopo averne fatto espressa richiesta, dovette constatare che, sul punto, non vi era riscontro. Non vi è traccia di contatti telefonici tra G.B. e la società O.A.. G. B., ottantenne all’epoca di fatti, deambulava con difficoltà. Quanto ai capi E F ascritti a G. S. e a D.B.S., corretta appare, alla luce delle risultanze dibattimentali, la riqualificazione dei fatti ascritti sub F ai sensi degli artt. 477/482 c.p., evidente essendo che i due certificati falsi sono nati in casa S.-O.A., stante la sovrapponibilità a quelli autentici rilasciati alla O.A. s.r.l. Ne deriva l’assoluzione degli imputati per il delitto di cui al capo E (ricettazione). Quanto al capo F, va pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ritenendo quale epoca del commesso reato quella del 21 settembre 1998, data in cui i certificati sono stati creati. Parimenti per il capo I ascritto a D.B.S. va pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Parimenti fondata è l’accusa con riferimento ai capi L M N P Q della rubrica, essendo stato dimostrato che falsamente G. M. e G.A. dichiaravano le circostanze ivi indicate, così conseguendo indebitamente, nell’un caso, il rilascio di 6 certificati Agrim e, nell’altro caso, l’iscrizione quale operatore tradizionale. Quanto ai capi L -M -P va pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Analoga pronuncia va emessa nei confronti di G. M. per il capo N, concesse le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, in considerazione della marginalità dell’episodio e dell’incensuratezza dell’imputato. Quanto al delitto di contrabbando aggravato contestato a G.A., G. S. e D.B.S., ritiene il giudice che l’entrata in vigore del Reg.(CE) n. 1964/2005 del Consiglio ha comportato un’a160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO bolitio criminis che, in applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p., impone l’assoluzione perché il fatto non è più previsto come reato. Il delitto di contrabbando contestato ai capi A D O costituisce una fattispecie causalmente orientata o a condotta libera, il cui precetto, compiutamente definito, consta di alcuni elementi normativi. Nel nostro caso, l’elemento normativo è costituito dai “diritti di confine ” che sono “dovuti”. I diritti di confine sono quelli previsti dal Reg.(CE) 404/93. Per effetto dell’entrata in vigore del Reg. (CE) del Consiglio n. 1964/2005, i diritti di confine gravanti sull’importazione delle banane sono cessati; cioè essi non sono più “dovuti ”. L’importazione delle banane è ora regolata da un sistema tariffario secco pari a euro 176/00 per tonnellata con un contingente tariffario autonomo di 775.000 tonnellate di peso netto a dazio zero per le importazioni di banane dai paesi ACP. «A decorrere dal 1° gennaio 2006 l’aliquota tariffaria applicabile alle banane è fissata in euro 176/00 per tonnellata. (art. 1 comma 1°, Reg. (CE) cit.). Dal 1° gennaio di ogni anno, a partire dal 1° gennaio 2006, viene aperto un contingente tariffario autonomo di 775000 tonnellate di peso netto a dazio zero per le importazioni di banane originarie dei paesi ACP». Con Reg.(CE) n. 2014/2005 della Commissione, modificato con Reg. (CE) n. 566/2006 della Commissione, l’immissione in libera pratica di banane al tasso del dazio della tariffa doganale comune è soggetto alla presentazione di un titolo d’importazione, subordinato alla costituzione di una cauzione. In diritto, la vicenda va sussunta nell’ambito del fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, come disciplinato dall’art. 2 c.p.. Le regole ivi stabilite si applicano, come è noto, a tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, siano essi interni al sistema penale o di derivazione esterna. L’indagine volta a stabilire se una modifica normativa – in questo caso inerente l’elemento normativo della fattispecie penale – incida (abbia inciso), oppur no, sulla fattispecie criminosa si avvale del criterio della cd. continuità normativa. Per illustrare le ragioni della decisione adottata da questo giudice, pare opportuno soffermarsi sul sistema di importazione come ridisegnato dal Reg. (CE) n. 1964/2005. La lettura degli articoli citati rende evidente che l’organizzazione del mercato comune delle banane è ora improntata al sistema esclusivamente tariffario. La presentazione del titolo di importazione, pur prevista, ha mutato radicalmente la sua causa che, da documento necessario per importare a dazio ridotto all’interno del contingente, è divenuto strumento per monitorare il mercato: a tal riguardo il Reg.(CE) n. 2014/2005 della Commissione reca: «L’istituzione di un regime d’importazione basato sull’applicazione di un dazio doganale a un tasso adeguato e corredato di una preferenza tariffaria nell’ambito di un contingente tariffario per le importazioni originarie dei paesi ACP richiede un meccanismo di sorveglianza delle importazioni che consente di conoscere con regolarità i quantitativi immessi in libera pratica nella Comunità. Lo strumento idoneo a realizzare tale obiettivo è costituito dal rilascio di titoli d’importazione previa costituzione di una cauzione a garanzia dell’esecuzione delle operazioni per le quali i titoli sono richiesti». Per importare banane dai paesi terzi non è più previsto il possesso di certificati Agrim; non è più previsto il pagamento di diritti di confine; il contingente permane, ma con altro oggetto e con diversa finalità; il certificato Agrim permane per altre ragioni. Siffatta profonda modifica del sistema impedisce di ravvisare tra i due regolamenti quella continuità normativa che è necessaria per escludere l’abolitio criminis. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 161 I diritti di confine, che erano previsti, non sono più contemplati. Quei diritti di confine non sono più dovuti (17). Sulla questione va, ora, affrontato il tema della ultrattività del sistema istituito con Reg. (CE) n. 404/93, come prospettato dal P.M. Valorizzando il dato costituito dal tenore letterale dell’art. 32 del Reg. citato, il P.M. individua un’ipotesi di norma temporanea che renderebbe applicabile la previsione normativa contenuta nell’art. 2 comma 4 ° c.p. Osserva il P.M. che l’art. 32 del Reg. (CE) n. 404/93 rivela la natura temporanea della disciplina: «al più tardi entro il 31 dicembre 2004, la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione, corredata se del caso di proposte sul funzionamento del presente regolamento e di eventuali alternative, in particolare per quanto concerne il regime di importazione. (comma 1).Tale relazione reca in particolare un’analisi dell’evoluzione del flusso di commercializzazione delle banane comunitarie, delle banane ACP e delle banane di Stati terzi e una valutazione del funzionamento del regime di importazione. In questo contesto, si presterà particolare attenzione alla misura in cui i fornitori ACP più vulnerabili sono stati in grado di mantenere la loro posizione sul mercato della Comunità. (comma 2). Condividendo la tesi offerta dalla Difesa, non pare a questo giudice che né dalla lettera, né dalla ratio di quell’articolo possa trarsi la natura temporanea del Reg. (CE) n. 404/93. L’ultimo articolo del Reg. citato, cioè quello dedicato alle statuizioni circa la vigenza dell’atto normativo cui esso si riferisce, recita: «Il presente regolamento entra in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee. Esso è applicabile a decorrere dal 1° luglio 1993. Il presente regolamento è obbligatorio in tutti suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri». Alla data del 31 dicembre 2004, individuata come termine ultimo, ma non unico (al più tardi), la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione, corredata se del caso di proposte sul funzionamento del presente regolamento e di eventuali alternative, in particolare per quanto concerne il regime di importazione. Non un termine di vigenza del Regolamento, dunque, ma un termine per la presentazione di una relazione il cui contenuto, peraltro, solo in via eventuale avrebbe potuto contenere alternative per il regime di importazione. Ancora, con Reg. (CE) n. 216/2001 del Consiglio, per porre fine alle contestazioni suscitate dal regime d’importazione definito dal regolamento (CEE) n. 404/93 e per tener conto delle conclusioni del gruppo speciale istituito nell’ambito del sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC (1° Considerando al Regolamento citato), il regolamento (CEE) n. 404/93 è modificato come segue: gli articoli da 16 a 20 sono sostituiti dai seguenti: articolo 16 comma 1: «Il presente articolo e gli articoli da 17 a 20 si applicano all’impor- (17) Può richiamarsi, in proposito, la sentenza Cass. Sez. 3, n. 14329 del 4 febbraio 2003 che, con riferimento all’ipotesi di contrabbando doganale consistente nell’omissione del pagamento del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente dalla Repubblica Federale Yugoslavia, ha ritenuto l’abolitio criminis in virtù della sopravvenienza del reg. (CE) n. 2007 del 2000 che ha sottratto tale merce ai diritti di confine sulla stessa gravanti, in quanto le norme impositive del dazio costituiscono norme extrapenali integratrici del precetto penale ed, in quanto tali, rientranti nell’ambito di applicazione dell ’art. 2 cod. pen. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tazione di prodotti freschi fino all’entrata in vigore del tasso della tariffa doganale comune per tali prodotti, al più tardi il 1° gennaio 2006». È temporanea quella legge che, per disposizione espressa, fissa un termine di durata, cioè di vigenza. La legge temporanea ha una vigenza limitata da due date: quelle iniziale e quella finale. Nel nostro caso, premesso che non risulta indicato che si tratta di termine di vigenza della legge, esso (il termine) individua l’epoca in cui, al più tardi, si introdurrà un regime diverso. Non pare a questo giudice che le due situazioni siano assimilabili. Prendendo a prestito un istituto tipico del diritto civile, in materia negoziale, possiamo ritenere che un termine indicato in un atto normativo, intanto ne individua la durata in quanto possiede le caratteristiche di termine essenziale: dies interpellat pro homine, senza che vi sia bisogno di un ulteriore atto da cui quella cessazione sia fatta dipendere. Non pare neppure invocabile la disciplina concernente le norme eccezionali. Il P.M., richiamandosi al principio di diritto internazionale della libertà di commercio degli Stati, individua l’ultrattività del sistema introdotto con il Reg. (CE) n. 4040/93 ritenendolo ispirato e sorretto da contingenze eccezionali. Non ritiene il giudice di poter condividere quella tesi che, prendendo spunto dalla sentenza sul cd. caso Libia (18), non si attaglia al caso che ci occupa: non si tratta di aver vietato l’importazione ma di averla regimentata; né si tratta di misure punitive, ma protezionistiche, assolutamente applicative di compiti descritti nel Trattato istituivo della CEE: primo fra tutti il conseguimento delle finalità di unione doganale desumibili dall’art. 27 del Trattato CE, che potrebbe promuovere gli scambi con Stati terzi e favorire l’approvvigionamento di materie prime. La previsione della TDC nell’ambito della disciplina sulla libera circolazione delle merci può considerarsi giustificata dai collegamenti significativi che possono sussistere tra il commercio intracomunitario e quello con Stati terzi e che sono ricavabili dall’art. 23, par. 2, e dall’art. 24 del Trattato. Sotto altro profilo, ritiene il giudice che la via obbligata dell’assoluzione per i capi A D O si impone esplorando il complesso sistema dei rapporti tra diritto nazionale e diritto comunitario. Come è noto, il diritto comunitario spiega efficacia diretta all’interno del sistema giuridico degli Stati membri: si parla, in proposito, di primato del diritto comunitario. Se controversa è la prevalenza automatica del diritto comunitario su quello interno nel caso di previsioni che comportando modificazioni in malam partem del diritto nazionale, finiscono con l’incidere sulla riserva di legge in materia penale sancita dall’art. 25 Cost., pacifica è, per contro, la piena applicabilità del diritto comunitario nel caso opposto di riduzione in bonam partem della sfera di illiceità del sistema penale nazionale. (18) Il reg. (CE) n. 863/99 aveva sospeso l’embargo istituito con reg. (CE) n. 3274/93 del 29 novembre ‘93 nei confronti della Libia e, con sent. Cass. Sez. 3 n. 3905 del 22 febbraio 2000, il Supremo Collegio aveva ritenuto applicabile la disciplina dettata dal quarto comma dell’art. 2 c.p. pur in vigenza del reg. n. 863/99. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 163 In questo caso, utilizzando un istituto proprio del diritto amministrativo (art. 5 All. E L. 2248/1865), si parla di disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con norme di diritto comunitario. Applicando tale concetto al caso che ci occupa, possiamo ritenere che la fattispecie di reato racchiusa ai capi A D O, pur non abrogata, non va applicata in subiecta materia per incompatibilità della normativa nazionale con la fonte europea. Passando al calcolo della pena, valutati gli elementi di cui all’art. 133 c.p. appare equo irrogare la pena di anni tre e mesi sette di reclusione ed euro 5000/00 di multa a G.A. e la pena di anni tre e mesi cinque di reclusione ed euro 8000/00 di multa a D.B.S. La pena è stata così determinata: A) per G.A.: pena base per il capo B: anni tre di reclusione ed euro 5000/00 di multa, aumentata di mesi due per il capo C, aumentata di mesi tre per il capo N, aumentata di mesi due per il capo Q. B) per D.B.S.: pena base per il capo B: anni tre di reclusione ed euro 5000/00 di multa, aumentata di mesi due di reclusione per il capo C, aumentata di mesi tre di reclusione ed euro 3.000/00 di multa per il capo H. Gli imputati vanno condannati, in solido, al pagamento delle spese processuali. Essi vanno condannati al risarcimento del danno in favore della Parte Civile e non disponendo di elementi su cui fondare la decisione, le Parti vanno rimesse dinanzi al Giudice Civile per la liquidazione. Gli imputati vanno condannati al pagamento delle spese processuali in favore della Parte Civile per la somma che è indicata in dispositivo. Quanto al corpo di reato (19) va disposta la confisca della somma in sequestro, ai sensi dell’art. 240 c.p. e 301 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 (20). P.Q.M. Visti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara G.A. colpevole dei reati ascritti ai capi B C N Q e, riqualificato il capo C ai sensi degli artt. 489 c.p. in relazione agli artt. 477/482 c.p., ritenuto l’art. 81 c.p. lo condanna alla pena di anni tre e mesi sette di reclusione ed euro 5.000/00 di multa e al pagamento delle spesse processuali. Visti gli artt. 529/531 c.p.p. (19) Il carico della nave, oggetto di sequestro, fu immediatamente affidato in custodia giudiziaria (v. verbale di nomina di custode giudiziario dell’Avv. Vito Branca, in atti) e, dopo qualche giorno, venduto a paesi dell’ex Yugoslavia. Il ricavato della vendita, inizialmente depositato presso un Istituto di credito, fu poi trasferito in un libretto postale infruttifero acceso presso le Poste Italiane. (20) La pronuncia di assoluzione per i capi relativi al contrabbando non impedisce, secondo il giudice, la confisca del corpo del reato, avuto riguardo al disposto dell’art. 301 primo comma d.P.R. n. 43/73 in base al quale il giudice procedente per il delitto di contrabbando deve sempre ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il profitto o il prodotto. Il disposto dell’art. 301 deroga alla disciplina generale posta dall’art. 240 c.p. in tema di confisca. Infatti il decreto citato ne rende obbligatoria l’applicazione tanto nel caso in cui l’imputato sia stato dichiarato colpevole e condannato, tanto nel caso in cui il medesimo sia stato assolto o prosciolto per cause che non interrompono il rapporto tra le cose ed il fato della loro introduzione nel territorio dello Stato (Sez. 3 sent. 9569 del 31 ottobre 1984, rv. 166484). dichiara non doversi procedere nei confronti dell’imputato per i reati ascritti ai capi M P per prescrizione. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dai reati ascritti ai capi A O perché il fatto non è previsto come reato. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve G. S. dal reato ascritto al capo D perché il fatto non è previsto come reato. Visti gli artt. 529/531 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il reato ascritto al capo F per prescrizione, riqualificato ai sensi degli artt. 110, 482, 477 c.p. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dal reato ascritto al capo E perch é il fatto non sussiste. Visti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara D.B.S. colpevole dei reati ascritti ai capi B C H, riqualificato il reato sub C ai sensi degli artt. 489, 482, 477 c.p. e, ritenuto l’art. 81 c.p., lo condanna alla pena di anni tre e mesi sette di reclusione ed euro 8.000,00 di multa e al pagamento delle spese processuali. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dai reati ascritti ai capi A D G perché il fatto non è previsto come reato. Visti gli artt. 529/531 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti dell’imputato per i reati ascritti ai capi F I per prescrizione. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato dal reato ascritto al capo E perché il fatto non sussiste. Visto l’art. 530 c.p.p. assolve B. M. dal reato ascritto al capo G perché il fatto non è previsto come reato e dai reati ascritti ai capi H I per non aver commesso il fatto. Visti gli artt. 529/531 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti di G. M. per i reati ascritti ai capi L N per prescrizione, concesse per tale ultimo reato le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante. Condanna gli imputati G.A. e D.B.S. al risarcimento del danno in favore della Parte Civile e rimette le Parti dinanzi al Giudice Civile per la liquidazione. Condanna gli imputati alla refusione delle spese di costituzione di Parte Civile, complessivamente liquidate in euro 8.000/00. Visti gli artt. 240 c.p. e 301 d.P.R. 301 43/73 dispone la confisca di quanto in sequestro. Fissa in giorni novanta il termine per la motivazione. Acireale, 6 dicembre 2006». 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 165 Sindacabilità giurisdizionale della revoca dell ’incarico di assessore comunale (Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 23 gennaio 2007 n. 209) Con la sentenza n. 209/07 la quinta Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di pronunciarsi sull’interessante e delicata tematica relativa alla natura politica o amministrativa dell’atto di revoca di un assessore comunale, e conseguente sindacabilità giurisdizionale dello stesso. Fatto – Il sindaco di un comune disponeva la revoca dell’incarico di un assessore il quale, lamentando la violazione (in via principale) dell’articolo 7 e dell’articolo 3 della legge n. 241/90, proponeva ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per chiedere l’annullamento dell’atto impugnato. Il Tribunale adito, mentre aveva rigettato la censura involgente il lamentato vizio di carenza di motivazione (art. 3 cit.), accoglieva il ricorso con riferimento alla mancata comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 cit.). Il Comune convenuto, senza prestare acquiescenza alla pronuncia – giacché il Sindaco aveva provveduto a rinnovare tale provvedimento, emendato dal vizio riconosciuto –, interponeva appello avverso la suddetta pronuncia, denunciando in via principale l’inammissibilità del ricorso originario, all’uopo evidenziando la natura di atto politico del provvedimento di revoca dell’incarico di assessore, così inquadrabile nella categoria di cui all’art. 31 R.D. n. 1054/24 (TU sul Consiglio di Stato). Sosteneva, inoltre, che la ritenuta violazione del principio di cui all’art. 7 Legge n. 241/90 non fosse ravvisabile alla luce della natura peculiare del procedimento sotteso all’emanazione del provvedimento impugnato. Proponeva altresì appello incidentale l’assessore avverso la statuizione concernente il rigetto della censura di difetto di motivazione. Sulla natura di atto politico della revoca dell’incarico di assessore – Il Consiglio di Stato ha in primo luogo ritenuto priva di pregio la censura afferente la natura di atto politico del provvedimento di revoca dell’assessore. Rigettando l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario ai sensi dell ’art. 31 R.D. n. 1054/24, ha escluso la ricomprensione del provvedimento impugnato nella suddetta categoria. Per giungere a tale conclusione, che, come a breve si dirà, potrebbe non apparire del tutto convincente, la quinta Sezione del Consiglio di Stato ha proceduto ad una rassegna dell’evoluzione dogmatica del concetto stesso di atto politico (1). (1) Per una ricostruzione in termini generali del concetto di atto politico (rectius: atto di governo) in relazione all’ostensibilità dello stesso ai sensi dell’art. 22 L. n. 241/90 si veda in questa rivista V. BALSAMO, Esclusione del diritto di accesso per gli atti politici, I, 2005. 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La categoria degli atti politici – si è sostenuto – è stata da sempre individuata con criteri restrittivi, riconducendovi unicamente quegli atti che trovano causa obiettiva nella ragione di Stato, indipendentemente dai motivi specifici che ne hanno determinato l’adozione. Tale lettura restrittiva è stata vieppiù sostenuta all’indomani dell’entrata in vigore della Carta Costituzionale, giusto il principio di indefettibilità della tutela giurisdizionale cristallizzato nel combinato disposto di cui agli articoli 24 e 113 della stessa. È stato così precisato che possono considerarsi politici unicamente quegli atti che promanano dai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (2). Anche a seguito della riforma del titolo V della Costituzione – che, come noto, ha fatto venir meno la struttura verticale delle autonomie con al vertice lo Stato (proprio del sistema delineato nel 1948) – si è ribadito che, pur in presenza di un sistema istituzionale costituito da una pluralità di ordinamenti giuridici autonomi (3), il principio della tutela giurisdizionale avverso gli atti della P.A. ha portata generale. Con la diretta conseguenza logica che, in quanto consistente in una deroga a tale principio, la categoria degli atti politici debba essere ridotta ad una ristretta cerchia di atti, concreta espressione di scelte di specifico rilievo politico e costituzionale, in relazione ai quali un intervento giurisdizionale si presenterebbe come un’ingerenza del potere (rectius: ordine) giudiziario nell’esclusiva sfera di competenza di altri poteri (4). Con riferimento specifico ai Comuni il Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire da un lato la mancanza di rilievo costituzionale degli organi di vertice – diversamente da quanto esplicitamente statuito con riferimento alle Regioni ai sensi dell’art. 121 Cost. – dall’altro la natura di atto amministrativo della revoca dell’incarico di assessore, in quanto non libera nei fini e, per di più, sottoposta alla valutazione del consiglio comunale ai sensi dell ’art. 46, ultimo comma, D.Lgs. n. 267/00. Se con riferimento alla prima osservazione, riguardante il rilievo costituzionale degli organi di vertice dell’ente territoriale in questione, le conclusioni cui pervengono i giudici di palazzo Spada non appaiono sfornite di un adeguato supporto logico, non altrettanto sembra potersi affermare con riferimento alla seconda osservazione, involgente, invece, la ritenuta natura amministrativa dell’atto impugnato nel caso in specie. Orbene, è doveroso evidenziare sin da subito come la definizione di atto politico, ed ancor prima la delimitazione di un confine tra il concetto di atto politico ed atto amministrativo, sembra colorata da un’innegabile dose di opinabilità, stante l’(indefettibile) margine di discrezionalità che connota tale ricostruzione ermeneutica. Di tal che, sebbene non si possa (2) C.d.S., Sez. IV, n. 340/2001. (3) Cass., Sez. un., n. 12868/05. (4) Cass., Sez. un., n. 11623/06. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 167 giungere ad una diretta critica riguardo le conclusioni cui è pervenuta la V Sezione del Consiglio di Stato, appare tuttavia possibile formulare alcune riserve: circa i presupposti logici assunti a base dell’iter argomentativo; circa la (appena accennata) motivazione riguardante la presunta (non) libert à nei fini dell’atto e, da ultimo, al valore attribuito alla valutazione effettuata sul provvedimento stesso dal consiglio comunale ai sensi dell’art. 46, ult. co., D.Lgs., n. 267/00. i) Con riferimento ai presupposti assunti a fondamento della ricostruzione storica della categoria degli atti politici il Collegio sottolinea la lettura restrittiva che, anche precedentemente all’entrata in vigore della Costituzione del 1948, ha caratterizzato le posizioni dell’unanime giurisprudenza. Ora, se risulta non revocabile in dubbio l’osservazione secondo cui, costituendo una vera e propria deroga alla generale sindacabilità giurisdizionale degli atti promananti dalla P.A. – principio ora costituzionalmente cristallizzato –, l’atto politico debba essere circoscritto in una ristretta categoria di atti, nei limiti in cui già si è precisato, è altresì vero che tale impostazione ermeneutica, quantunque finalizzata ad impedire l’insorgere di zone “franche” nell’operato dell’Amministrazione, non può, d’altra parte, assumere i contorni di un limite ultroneo a qualsiasi esigenza di effettiva tutela e ridursi, per tal via, ad una mera massima tralatizia. Sembra così eccessivo circoscrivere tale categoria solo agli atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico (S.U., n. 11623/06) quando invece, soprattutto a seguito della citata riforma del titolo V della Costituzione, si è pervenuti ad una evidente frammentazione dell’operare politico, non più esclusivo appannaggio del governo centrale. ii) Con riferimento all’osservazione riguardante la mancata libertà dei fini nell’adozione del provvedimento di revoca di un assessore occorre muovere alcune precisazioni. In primo luogo, a prescindere dall’adesione o meno alle conclusioni cui perviene la quinta Sezione a riguardo, occorre evidenziare la (quantomeno) inadeguata motivazione addotta a sostegno di tale dictum: “essendo [l’atto] sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del sindaco”. Che l’atto di revoca fosse teleologicamente preordinato a migliorare la compagine di ausilio del sindaco non sembra certo dubitabile, ma attribuire a tale affermazione – peraltro già facilmente desumibile – un peso specifico tale da supportare le conclusioni cui addiviene il Consiglio di Stato appare opinabile. Sembra di comprendere – e in questo la laconicità del passaggio non aiuta – che l’esistenza di un tale fine, ossia quello del corretto e migliore componimento della compagine del sindaco, sia in grado di attribuire tout court all’atto in questione il valore di atto vincolato nel fine e, quindi, per definizione non politico. Una tale automatica assimilazione, tuttavia, non sembra essere particolarmente convincente, anche alla luce di quanto più sopra esposto con riferimento all’interpretazione restrittiva da fornire al concetto di atto politico. Se tuttavia si assume, con un’autorevole dottrina (5), che l’atto politico rappresenta segnatamente l’espressione di governo, quale estrinsecazione del potere politico affidato dal corpo elettorale, potrebbe pervenirsi a conclusioni difformi se si leggesse il generale contesto in cui origina il provvedimento di revoca di un assessore. Proprio il suddetto fine di miglioramento della compagine del sindaco sembra colorare in tal guisa il provvedimento de quo che non sembra involgere le competenze istituzionali attribuite per legge agli organi di vertice dell’ente locale – con conseguente rilievo per gli interessi della collettività – bensì sembra riguardare unicamente il rapporto fiduciario, esclusivamente riconducibile alla sfera politica, nel senso sopra delineato: ossia come estrinsecazione del potere affidato dal corpo elettorale. Più che di legittimità – potrebbe dirsi – sembra vertere in una condizione di opportunità politica, che può trovare la propria soluzione unicamente nelle dinamiche politiche e non già giudiziarie. A riguardo, e con finalità meramente esemplicative – non potendo disconoscersi l’innegabile difformità delle fattispecie sub iudice –, possono richiamarsi le affermazioni svolte dalla Corte Costituzionale nella nota vicenda Mancuso (6). Pronunciatasi sul conflitto di attribuzioni sollevato da quest’ultimo avverso la mozione di sfiducia “individuale” votata dal Senato, la Consulta – dopo aver dichiarato comunque ammissibile il ricorso del Ministro – ne ha sancito l’assoluta infondatezza sulla scorta di precise osservazioni. La sfiducia, infatti, involge un giudizio esclusivamente politico, con la conseguenza che “l’oggetto del ricorso contiene valutazioni che, proprio perché espressione della politicità dei giudizi a quest’ultimo spettanti, si sottraggono in questa sede a qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico” (7). Ora, se come già affermato, non può sicuramente attribuirsi valore decisivo a tali ultime osservazioni, attesa la peculiarità di una pronuncia della Corte Costituzionale in materia di conflitto di attribuzione tra un Ministro ed il Senato, è altresì vero che non può non riconoscersi una valenza generale alla ratio decidendi sottesa nel passaggio motivazionale di cui sopra. La Corte, infatti, scolpisce con chiarezza il principio per cui il merito politico di un atto non può essere contestato in sede di conflitto, con buona pace della “illuministica illusione” – per utilizzare una nota espressione di Crisafulli – di rendere giustiziabili i comportamenti degli organi politici. 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (5) A. GIANNINI, Atto di governo (atto politico), in Enc. Dir., I, p. 223 ss. (6) Riferimenti puntuali alla sentenza n. 470/95 in AA.VV., Risposte alle sei domande ai costituzionalisti provocate dal caso Mancuso, in Giur. Cost., 1995, II, 4646 ss.; S. BARTOLE, Il conflitto di attribuzione e la politica, in Giur. Cost., I, 1996, 74 ss. (7) Tale conclusione della Consulta sposa pienamente le argomentazioni svolte in sede di giudizio dall’Avvocatura dello Stato. In questa rivista (1996, I, 1ss.) se ne è un pubblicato uno stralcio ove si legge, tra l’altro: “Se davvero l’attività svolta dal Ministro diverga dagli indirizzi governativi e dalla finalità della competenza a lui attribuita […] tutto ciò appartiene al potere parlamentare di valutare e controllare l’opera del governo; potere sovrano e perciò stesso insindacabile, se non in sede esclusivamente politica”. Sebbene in un contesto assolutamente difforme, osservazioni non eccessivamente dissimili sembrano essere sollevate anche dallo stesso Consiglio di Stato quando, nella parte motiva, afferma: “la revoca dell’incarico è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco […] l’obbligo di motivazione può senz’altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politicoamministrative […] tenendo presente che trattasi non di un tipico procedimento sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente sindacabile”. Orbene, nonostante queste (implicite) aperture verso una connotazione politica del provvedimento in questione – suffragate anche dalle posizioni assunte con riferimento al lamentato vizio di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, dove le censure dell’originario ricorrente sono state respinte sulla scorta di tali considerazioni: “la partecipazione diventa indifferente in un contesto nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al sindaco […] con sottoposizione del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale” – la V Sezione conclude comunque per la natura amministrativa dell’atto. iii) Da ultimo ci si sofferma sulla portata attribuita al disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 46 D.Lgs. n. 267/00, dove si prevede che dell’atto di revoca si dia motivata comunicazione al consiglio comunale, chiamato a dare una valutazione sullo stesso, potenzialmente comportante una mozione di sfiducia ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. cit. Orbene, a ben vedere, tale disposizione normativa, lungi dal suffragare le tesi sostenute dalla V Sezione, sembra militare a sostegno della tesi qui argomentata, circa la natura politica dell’atto in questione. Se, come sembra incontrovertibile, si attribuisce al consiglio comunale il potere-dovere di verificare le ragioni (evidentemente politiche) sottese all’adozione di un siffatto provvedimento, con la possibile adozione di una apposita mozione di sfiducia qualora le stesse non appaiano condivisibili, non sembra del tutto erronea l’affermazione di cui sopra secondo la quale un tale atto rientra unicamente in una dimensione politica e non già amministrativa. Conclusioni – Alla luce di quanto brevemente sostenuto in questa nota si può fornire – sebbene si sia precisata la difficoltà di tracciare una linea di demarcazione dai confini non labili tra la categoria di atti politici e di atti amministrativi – una diversa lettura al caso sub iudice. Nonostante le finalità perseguite dal Consiglio di Stato, in uno con la unanime giurisprudenza della Cassazione, non possano che essere condivise, giusta l’affermazione inequivoca del principio costituzionale della tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A., si può tuttavia osservare che nel caso in specie una diversa conclusione – con il riconoscimento della natura politica dell’atto di revoca – probabilmente non avrebbe arrecato alcun vulnus al suddetto principio. Se si considera, come sembra di aver dimostrato, che il rapporto che intercorre tra sindaco ed assessore si esaurisce nell’ambito del rapporto politico- fiduciario che contrassegna le relative cariche, non appare completamente errato escludere la natura amministrativa ad atti che attengono unica- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 169 mente all’estrinsecazione di tale rapporto. Con l’ulteriore considerazione che, come si è visto, esiste una espressa disposizione di legge che prevede una verifica ad opera del consiglio comunale sull’opportunità del provvedimento adottato. Tale ricostruzione eviterebbe l’inconveniente di generare, come invece sembra fare la sentenza in commento, una sorta di tertium genus tra gli atti politici e gli atti amministrativi nei confronti del quale, per le concrete difficolt à a far valere i propri interessi in sede processuale – non necessarietà di comunicazione di avvio del procedimento; obbligo di motivazione praticamente ridotto ai minimi termini; insindacabilità del coefficiente di opportunit à dell’atto stesso –, il vulnus paventato dal Consiglio di Stato non sembra certo scongiurato. Dott. Valerio Balsamo (*) Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 23 gennaio 2007 n. 209 – Pres. A. Elefante – Est. A. Cerreto - Comune di Grado (Avv.ti C. Belletti, L. Presot, R. Adamo) c. P.G. (avv.ti A. Scorsolini, B. Garlatti, M. Sanino). Riforma della sentenza del TAR Friuli Venezia Giulia n. 47/2004, resa tra le parti, concernente revoca dalla carica di assessore. «Fatto e diritto 1.- Con la sentenza in epigrafe, il TAR ha accolto il ricorso proposto dall’interessato, ravvisando fondato il vizio di violazione degli artt. 7 ed 8 Legge 7 agosto 1990 n. 241 e successive modificazioni per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca dell’incarico di assessore comunale e nel contempo ha rigettato la censura di mancanza di motivazione in relazione a quanto indicato nella nota sindacale in data 30 luglio 2003 di accompagnamento del provvedimento impugnato. 2.- Avverso detta sentenza ha proposto appello il Comune, deducendo quanto segue: - inammissibilità del ricorso originario, essendo l’atto di revoca di un assessore comunale inquadrabile negli atti politici di cui all’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato di cui al R. D. 26 giugno 1924 n. 1054, in quanto da una parte proviene dal massimo organo di indirizzo e direzione dell’Amministrazione comunale e dall’altra è rivolto, nell’esercizio del potere politico riconosciuto al Sindaco, alla tutela del regolare funzionamento dell’organo di governo Giunta comunale; - contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, la comunicazione di avvio del procedimento deve trovare applicazione solo nel caso in cui la partecipazione del cittadino all’iter procedimentale sia idonea astrattamente ad influire in qualche modo sulle determinazioni dell ’amministrazione, risultando invece superflua quando l’opportunità offerta all’interessato sarebbe comunque inidonea ad apportare una qualsivoglia utilità all’azione amministrativa; 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Dottore in giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. - l’atto di revoca dell’incarico di assessore comunale si configura come atto della massima espressione della discrezionalità amministrativa, per la quale unico criterio di riferimento rimane il programma politico amministrativo a cui il sindaco eletto si è autovincolato nei confronti degli elettori e la cui attuazione è l’unico parametro cui deve uniformarsi l’azione del Capo dell’Amministrazione e dei suoi collaboratori; - di conseguenza non poteva avere alcuna incidenza l’eventuale partecipazione dell’interessato al relativo procedimento, dal momento che il provvedimento di revoca trova la sua motivazione in un palese contrasto politico amministrativo che aveva portato al venir meno del rapporto fiduciario, la cui valutazione è di competenza esclusiva del Sindaco che ne assume la responsabilità politica davanti al Consiglio comunale, come del resto statuito dal TAR Sicilia, Sez. I, con sentenza n. 146 del 5 marzo 2004. Infine, l’appellante ha fatto presente che nel frattempo, senza porre acquiescenza alla sentenza del TAR, il Sindaco aveva dovuto procedere all’adozione di un nuovo provvedimento di revoca al fine di non paralizzare l’attività della Giunta comunale. 3.- Costituitosi in giudizio, il sig. P. ha chiesto il rigetto dell’appello, ribadendo l’utilit à della comunicazione di avvio del procedimento, essendogli stato imputato un comportamento scorretto per non essersi presentato ad una riunione di Giunta e per essersi autosospeso dall’incarico di assessore. Ha inoltre, in via subordinata, proposto appello incidentale nei confronti della sentenza del TAR nella parte in cui aveva rigettato la censura di difetto di motivazione, rilevando che il provvedimento di revoca dell’incarico di assessore era privo di qualsiasi motivazione e la nota sindacale in data 30 luglio 2003 (inviata successivamente a mezzo posta) costituiva soltanto un tentativo di fornire a posteriori una giustificazione ad un provvedimento finale immotivato. 4.- Con ordinanza n. 2369/2004, questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare proposta dal Comune appellante considerando che “sembra da approfondire la questione concernente l’obbligo di fornire comunicazione di avvio del procedimento di revoca dell’incarico di assessore, tenuto conto del tipo di rapporto intercorrente fra sindaco ed assessori a norma dell’art. 46 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267”. In prossimità dell’udienza pubblica di discussione del ricorso, entrambe le parti hanno depositato memoria conclusiva. Alla pubblica udienza del 24 ottobre 2006 il ricorso è stato trattenuto in decisione. 5.- Priva di pregio è l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario, sollevata dal Comune in base al rilievo che l’atto di revoca dell’incarico di assessore comunale sarebbe inquadrabile tra gli atti politici e perciò non impugnabile davanti al giudice amministrativo alla stregua dell’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato di cui al R. D. 26 giugno 1924 n. 1054, in base al quale “il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. 5.1.- Come è noto, fino ad epoca recente la categoria degli atti politici è stata individuata con criteri restrittivi, sia prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948, evidenziandosi che essi debbono trovare causa obiettiva nella ragione di Stato indipendentemente dai motivi specifici che ne abbiano in concreto determinato l’emanazione (V. la decisione di questo Consiglio, Sez. IV n. 351 del 20.1.21946), sia principalmente dopo il 1948 in ossequio al principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione, e sono stati inclusi in essa generalmente gli atti che attengono alla direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali (V. l’accenno fatto in Corte cost. n. 103 del 19 marzo 1993). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 171 È stato al riguardo precisato che gli atti politici costituiscono espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (V. la decisione di questo Consiglio, sez. IV n. 340 del 14.4.2001) e che essi sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge (V. Cass. S. U. n. 1170 del 13 novembre 2000). Si è sottolineato inoltre che essi sono caratterizzati da due profili: l’uno soggettivo, dovendo provenire l’atto da organo di pubblica amministrazione, seppure preposto in modo funzionale e, nella specifica vicenda, all’indirizzo e alla direzione al massimo livello della cosa pubblica, e l’altro oggettivo, dovendo riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione (V. le decisioni di questo Consiglio Sez. IV, n. 1397 del 12 marzo 2001 e n. 217 del 29 settembre 1996). 5.2.- La categoria degli atti politici è stata recentemente sottoposta a rivisitazione a seguito delle modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione di cui alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, che ha fatto venir meno la struttura verticale delle autonomie, con al vertice lo Stato, che era proprio della Costituzione del 1948, essendosi previsto che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, e che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (nuovo art. 114 Cost.). Per cui è stata riconosciuta la presenza ormai di “un sistema istituzionale costituito da una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, nel quale le esigenze unitarie si coordinano con il riconoscimento e la valorizzazione delle istituzioni locali” (V. Cass. S. U. sentenza n. 12868 del 16 giugno 2005). Peraltro, pur nell’ambito di una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, è stato ribadito che il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti della Amministrazione pubblica (art. 113 Cost.) ha portata generale e coinvolge, in linea di principio, tutte le Amministrazioni anche di rango elevato e di rilievo costituzionale. Per cui le deroghe a simile principio debbono essere ancorate a norme di carattere costituzionale. Tanto è vero che nel nostro attuale sistema di garanzie persino gli atti legislativi del Parlamento nazionale e delle Regioni sono soggetti ad un sindacato giurisdizionale, sia pure circoscritto e riservato ad un Giudice di particolare natura quale la Corte Costituzionale. Non sono quindi, per i loro caratteri intrinseci, soggetti a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del Giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (V. Cass. S. U. sentenza n. 11623 del 16 maggio 2006). 5.3.- Per quanto riguarda in particolare l’autonomia dei comuni, è da far presente che il nuovo art. 117 Cost., nel ripartire la competenza legislativa tra Stato e Regioni, attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città metropolitane”. Con la conseguenza che la determinazione degli organi di governo dei Comuni, con le connesse sfere di competenza, appartiene in via esclusiva alla legislazione statale, la quale delinea il riparto di competenze tra consiglio comunale e giunta nel senso che l’organo elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali, ai sensi dell’art. 42 D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, mentre 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO la giunta municipale, che è l’organo chiamato a collaborare con il sindaco nel governo del Comune, ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o di altri organi di decentramento (V. la decisione di questa Sezione n. 832 del 3 marzo 2005). 5.4.- Ne discende da un lato che il sindaco del comune ( come del resto il consiglio e le giunta comunale), non è un organo di rilievo costituzionale (V. art. 121 Cost., che invece per le regioni ne stabilisce direttamente gli organi e relativi compiti) e che la giunta comunale non è di per sé abilitata alla direzione al massimo livello dell’Amministrazione comunale (V. il parere di questo Consiglio sez. 1° n. 4391/2005 del 12 aprile 2006), mentre l’atto sindacale di revoca di un assessore (o di più assessori) da un lato non è libero nella scelta dei fini, essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del sindaco nell’amministrazione del comune, e dall’altro è sottoposto alla valutazione del consiglio comunale ai sensi dell’art. 46, ultimo comma, D.Lgs. n. 267/2000. Di conseguenza, deve ritenersi ammissibile l’impugnativa di un atto del genere davanti al giudice amministrativo in quanto posto in essere da un’autorità amministrativa e nell’esercizio di un potere amministrativo, sia pure ampiamente discrezionale. 6.- Peraltro, l’appello del Comune è fondato nel merito, mentre deve essere rigettato l’appello incidentale del ricorrente originario. 7.- Al fine di poter adeguatamente valutare le questioni prospettate (obbligo o meno della comunicazione di avvio del relativo procedimento e sussistenza o meno nel caso in esame della motivazione) si rende necessario chiarire il contesto normativo di riferimento. 7.1.- Al riguardo il Collegio non ha motivi per discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuta questa Sezione per un caso analogo con la decisione n. 944 dell’8 marzo 2005. Con la menzionata decisione sono stati evidenziati essenzialmente i seguenti aspetti: - l’evoluzione normativa intervenuta, atteso che la legge n. 81/1993 puntualizza (art. 12, che premette un comma all’art. 36 legge n. 142/1990) che il sindaco ed il presidente della provincia sono gli organi responsabili dell’amministrazione del comune o della provincia, propongono gli indirizzi generali di governo da approvare da parte del consiglio ed attribuisce (art. 16, che sostituisce l’art. 34 legge n. 142/1990) esclusivamente al sindaco o al presidente della provincia, non più eletto dal consiglio, ma investito direttamente dal corpo elettorale, la potestà di nominare e revocare uno o più assessori, prevedendo solo di darne motivata comunicazione al consiglio (la disposizione si riferiva letteralmente solo al sindaco, ma era indubbiamente estensibile anche al presidente della provincia). Poi è intervenuta la legge 3 agosto 1999 n. 265 che ha assegnato direttamente al sindaco o al presidente della provincia, sentita la giunta, il compito di formulare il programma di governo, senza prevedere una formale approvazione da parte del consiglio (art. 11, comma 10). La materia è ora disciplinata dal testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) che, per quanto interessa, dispone che : «Il sindaco e il presidente della provincia nominano i componenti della giunta (...). Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione; - la circostanza che generalmente le disposizioni del D.Lgs. n. 267/2000 concernono direttamente la motivazione del provvedimento, in conformità a quanto disposto dall’art. 3 legge 7 agosto 1990 n. 241 ed alla costante giurisprudenza di questo Consiglio, che da tempo ha posto in luce la distinzione tra il provvedimento e la sua comunicazione o notificazione, precisando l’irrilevanza, ai fini della validità del provvedimento stesso, della man- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 173 canza di motivazione nella comunicazione o notificazione (cfr., sez. IV n. 99 del 22 gennaio 1974; sez. VI n. 428 del 30 novembre 1976 e n. 470 del 7 aprile 1978) o della presenza di eventuali irregolarità intervenute in esse (sez. IV n. 740 del 1 luglio 1980); - l’anomalia del caso in esame rispetto all’enunciato principio generale, in quanto si prevede una comunicazione motivata al Consiglio per la revoca dell’incarico di assessore, senza preoccuparsi della giustificazione da rendere al diretto interessato e senza prevedere uno specifico voto di ratifica da parte del consiglio stesso; - congruenza della riscontrata anomalia nel contesto normativo illustrato, che tende a favorire la effettiva gestione dell’amministrazione locale da parte del sindaco o del presidente della provincia, senza curarsi eccessivamente dell’eventuale cessazione di singoli assessori nello svolgimento quinquennale del mandato, purché ciò sia sostanzialmente condiviso dal consiglio, anche implicitamente; - la revoca dell’incarico di assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco o del presidente della provincia e che la comunicazione motivata è tendenzialmente diretta al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra sindacogiunta/ presidente provincia -giunta ed il consiglio comunale o provinciale, il quale potrebbe eventualmente opporsi ad un atto del genere, ma con l’estremo rimedio della mozione di sfiducia motivata (art. 37 legge n. 142/1990, come sostituito dall’art. 18 legge n. 81/1993 ed art. 52 D.Lgs. n. 267/2000), che però comporta in caso di approvazione lo scioglimento del consiglio stesso; - l’obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell’incarico di un singolo assessore (o di più assessori) va valutato nel descritto quadro normativo ed esso può senz ’altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al sindaco o al presidente della provincia, tenendo conto sia di esigenze di carattere generale, quali ad es. rapporti con l’opposizione o rapporti interni alla maggioranza consiliare, sia di particolari esigenze di maggiore operosità ed efficienza di specifici settori dell’amministrazione locale o per l’affievolirsi del rapporto fiduciario tra il capo dell’amministrazione e singolo assessore; tenendo presente che trattasi non di un tipico procedimento sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non sotto i profili formali e l’aspetto dell’evidente arbitrarietà, in relazione all’ampia discrezionalità spettante al capo dell’amministrazione locale (cfr., con riferimento alla revoca del presidente del consiglio comunale ed alla revoca di un consigliere comunale componente di una comunità montana, le recenti decisioni di questa sezione, rispettivamente, n. 1042 del 3 aprile 2004 e n. 5864 del 7 settembre 2004). 7.2. Prima di esaminare il profilo in base al quale è stato accolto il ricorso dal TAR (mancanza della comunicazione di avvio del procedimento), si rende opportuno esaminare il problema della sussistenza o meno nel caso in esame di una motivazione, riproposto dal ricorrente originario. Su punto va condiviso quanto statuito dal TAR. Invero, anche se il provvedimento di revoca dell’incarico di assessore in data 30 luglio 2003 è formalmente privo di motivazione, limitandosi ad enunciare l’opportunità di procedere alla revoca dell’incarico, una qualche motivazione emerge dalla lettera di accompagnamento del provvedimento impugnato prot. n. 22842 del 30 luglio 2003 inviata dal Sindaco al sig. P. Inoltre, se è vero che, come dichiarato dal ricorrente, la lettera (recapitata tramite posta) è pervenuta successivamente alla consegna del provvedimento impugnato (notificato trami- 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO te messo comunale), tuttavia è da ritenersi che essa faccia parte integrante del procedimento sotto il profilo motivazionale. Pertanto, essendo stato dedotto in appello solo il vizio della mancanza di un qualsivoglia apparato giustificativo (senza contestare in alcuno modo le ragioni addotte dal Sindaco: dichiarazioni apparse sulla stampa, inadempienza alle funzioni delegate da martedì scorso; mancata presenza alla riunione del 29 luglio 2003; autosospensione di fatto dall’incarico), la relativa doglianza non può che essere rigettata. 7.3. Residua il problema della necessità o meno della comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca dell’incarico di assessore. 7.3.1. La giurisprudenza finora intervenuta sulla specifica questione è alquanto incerta, ritenendosi in alcune sentenze la normale applicabilità degli artt. 7 e 8 legge n. 241/1990 e successive modificazioni (V. TAR Puglia, Lecce, sez. 2°, n. 4740 del 14 luglio 2003; TAR Friuli Venezia Giulia n. 478 del 28 maggio 2005; TAR Molise n. 235 del 28 marzo 2006), mentre in altre occasioni o si è escluso del tutto l’obbligo della comunicazione di avvio del relativo procedimento per la particolarità della fattispecie (V. TAR Sicilia, Palermo, sez. 1°, n. 466 del 5 marzo 2004 ed il parere di questo Consiglio n. 4391/2005 del 12 aprile 2006) oppure sono stati prospettati dubbi al riguardo (V. ordinanza di questa Sezione n. 2639 dell’8 giugno 2004, riguardante proprio la controversia in esame, e la decisione di questa Sezione n. 944/2005, già citata). Il Collegio ritiene che la revoca dell’incarico di assessore comunale sia immune dalla previa comunicazione dell’avvio del procedimento in considerazione della specifica disciplina normativa vigente in materia, come in precedenza illustrata. Invero, le prerogative della partecipazione possono essere invocate quando l’ordinamento prende in qualche modo in considerazione gli interessi privati in quanto ritenuti idonei ad incidere sull’esito finale per il migliore perseguimento dell’interesse pubblico, mentre tale partecipazione diventa indifferente in un contesto normativo nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’amministrazione del Comune nell’interesse della comunità locale, con sottopozione del merito del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale (è sostanzialmente in tal senso il parere di questo Consiglio, Sez. 1°, n. 4391/2005, già citato). Il relativo procedimento è perciò semplificato al massimo per consentire un’immediata soluzione della crisi intervenuta nell’ambito del governo locale, articolandosi nei seguenti passaggi: valutazione della situazione da parte del sindaco, scelta sindacale di modificare la composizione della giunta nell’interesse della comunità locale e comunicazione motivata di ciò al consiglio comunale, senza l’interposizione della comunicazione dell’avvio del procedimento all’assessore assoggettato alla revoca, la cui opinione è irrilevante per la normativa attuale salvo che non venga fatta propria dal consiglio comunale. D’altra parte, nel caso in esame deve ritenersi inutile la comunicazione dell’avvio del procedimento anche in relazione alle specifiche lamentele prospettate dall’appellante incidentale in questo grado di giudizio, atteso che essendo stata rigettata l’unica doglianza sollevata con riferimento alla mancanza di motivazione del provvedimento di revoca dell’incarico, l’apporto dell’interessato non potrebbe comunque modificare la decisione sindacale, che nel merito risulta incontestata. 8.- Per quanto considerato, deve essere accolto l’appello principale del comune e respinto l’appello incidentale del ricorrente originario. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 175 Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei due gradi di giudizio, in relazione ai diversi orientamenti giurisprudenziali illustrati. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l’appello principale e respinge l’appello incidentale e, in riforma della sentenza del TAR, respinge il ricorso originario. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 ottobre 2006». 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177 La d.i.a. Un nuovo silenzio? (Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 22 febbraio 2007, n. 948) SOMMARIO: 1.– Decisione del Consiglio di Stato, sez. V, del 22 febbraio 2007 n. 948. 2.- Verso un nuovo assetto della d.i.a.? a) Necessità di un nuovo orientamento a seguito della Legge 80/2005. b) T.A.R. Abruzzo, 11 marzo 2004, n. 267. c) La d.i.a. come meccanismo opposto all’autorizzazione. d) (segue) La d.i.a. può venire intrapresa prima del decorso del termine entro cui l’Amministrazione può inibire l’attività. e) Verso un nuovo tipo di silenzio significativo? Il silenzio-rinuncia. 1. Decisione del Consiglio di Stato, sez. V, del 22 febbraio 2007, n. 948 Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato ritorna sulla questione dei meccanismi a tutela del terzo controinteressato avverso la d.i.a. E lo fa ribadendo la posizione già consolidata di Palazzo Spada (1). Nel caso di specie, il giudice di primo grado, il T.A.R. Toscana (sentenza n. 2617 del 27 maggio 2005), aveva ricordato che “al silenzio tenuto dall’Amministrazione comunale a fronte di una denunzia di inizio di attività edilizia non può essere attribuito il valore né di un tacito atto di assenso all’esercizio delle attività denunciate dal privato né di un implicito provvedimento positivo di controllo a rilevanza esterna, ma piuttosto di un mero comportamento, rapportabile, sul piano degli effetti legali tipici, ad un’attività di verifica conclusasi positivamente… e quindi inidonea di per sé a sostanziare un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente impugnabile in sede giurisdizionale con un’azione di annullamento”. Da ciò conseguiva che “l’azione di annullamento proposta dal ricorrente, che rispetto alla denunzia de quo riveste la posizione di terzo, si risolve in una domanda di accertamento [...] nei limiti della verifica dei cennati necessari presupposti per il rilascio dell’autorizzazione commerciale che su quella d.i.a. si è fondata”. Tuttavia, se il T.A.R. dichiarava, tra l’altro, “l’inefficacia della d.i.a. edilizia 28 maggio 2003”, il giudice d’appello riformava la sentenza. Ribadiva così il Consiglio di Stato che “l’unico rimedio esperibile da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale l’Amministrazione non abbia esercitato alcuna potestà repressiva consiste nel rivolgere formale istanza all’Amministrazione e nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi”. Veniva così confermato l’orientamento già espresso dalla quarta sezione il 22 luglio 2005, con la decisione n. (1) Per un’attenta ricostruzione delle posizioni espresse in materia, vd. da ultimo I. MORICCA, La natura della d.i.a. e la tutela giurisdizionale dei terzi, in Rass. Avv., 4/2006, pp. 358 e ss. 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 3916. Secondo tale orientamento, nella d.i.a. sarebbe necessario distinguere “tra due distinti rapporti: quello tra denunciante e amministrazione e quello che riguarda i controinteressati all’intervento”. Tali rapporti, pur attenendo a una medesima vicenda sostanziale, potrebbero così essere tenuti distinti sul piano delle tutele, anche in considerazione della diversità dei poteri di cui dispone l’amministrazione. Palazzo Spada conferma l’orientamento tradizionale secondo cui, nei rapporti tra denunciante e amministrazione, la denuncia di inizio attività si porrebbe come atto di parte. Tale atto, pur in assenza di un quadro normativo di vera e propria liberalizzazione dell’attività, consentirebbe al privato di intraprendere un’attività in relazione all’inutile decorso di un termine cui è legato, a pena di decadenza, il potere dell’amministrazione di inibire l’attività. Per quanto riguarda la posizione del terzo, questi rimarrebbe comunque estraneo alla d.i.a., sul piano normativo della qualificazione degli interessi, proprio perché la norma sulla denuncia di inizio attività non lo prende formalmente in considerazione. Egli non potrebbe quindi opporsi all’attività del privato in sede di giurisdizione amministrativa. Così, una volta decorso il termine senza che la P.A. abbia esercitato il suo potere inibitorio, il terzo “sarà legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio, che pertanto non avrà, né potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio dell’amministrazione – essendo decorso, a tacer d’altro, il relativo termine, con la conseguenza, sottolineata in dottrina, che il giudice non potrà costringere l’amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta – bensì il generale potere sanzionatorio, salvo poi a stabilire se tale potere abbia carattere vincolato (come ritengono i più) o sia comunque esercitabile alla stregua dei princìpi dell’autotutela [...]”. Tale tesi da un lato consentirebbe di attenuare i profili critici di ordine generale cui conduce l’utilizzazione normativa della denuncia di inizio attivit à in termini di semplificazione procedimentale anzi che di supporto ad attività liberalizzate; dall’altro, consentirebbe “di assicurare la tutela dei terzi in termini ragionevoli con lo strumento del silenzio, secondo uno schema più lineare e quindi semplice, rispetto alle variegate ipotesi cui in pratica possono condurre le altre tesi sin qui prospettate, tutte accomunate dal non irrilevante problema della precisa individuazione dell’oggetto del giudizio”. Il Collegio conclude affermando che non potrebbero essere condivise né la tesi per cui oggetto dell’impugnativa sono gli effetti della d.i.a. – che sarebbe stata implicitamente avvalorata dal T.A.R. Toscana – , né la tesi che configura la d.i.a. come un provvedimento tacito. 2. Verso un nuovo assetto della d.i.a.? a) Necessità di un nuovo orientamento a seguito della Legge 80/2005 La sentenza 948 si colloca esattamente nel segno della giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato. Pur essendo resa in materia di d.i.a. edilizia, sembra che le indicazioni in essa contenute possano comunque venire IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179 intese come applicabili anche all’istituto di cui all’art. 19 Legge 241/1990. Invero, tale impianto lascia insoluti alcuni problemi pratici e giuridici. La pronuncia in esame continua a basarsi su una particolare qualificazione della d.i.a. Tramontata definitivamente l’idea secondo cui l’oggetto dell’impugnazione sarebbe direttamente la dichiarazione del privato (2), ed accettata l’idea secondo cui la dichiarazione di inizio di attività si configurerebbe come un atto di iniziativa privata, il Consiglio di Stato afferma che la legittimazione all’esercizio dell’attività non sarebbe fondata su un atto di consenso della P.A., ma troverebbe la propria fonte direttamente nella legge. Non sussistendo un vero e proprio provvedimento da annullare, la tutela del terzo passerebbe quindi attraverso la sollecitazione del potere sanzionatorio o di autotutela della P.A. In caso di inerzia di quest’ultima, sarebbe esperibile il meccanismo a tutela del privato contro il silenzio di cui all’art. 21 bis Legge 1034/1971 (3). (2) Secondo parte della giurisprudenza, il terzo che si ritenesse leso potrebbe così impugnare direttamente la dichiarazione. Questa opinione è stata suffragata da una parte della giurisprudenza. Il T.A.R. Veneto (sent. 3405/2003) ha infatti ritenuto, in materia di d.i.a. edilizia, che la dichiarazione costituisce il titolo abilitativo vero e proprio, non essendo prevista l’emanazione di alcun tipo di provvedimento. In altri termini, secondo il giudice di Venezia, “la d.i.a., nel disegno della l. n. 662/1996, si comporta allo stesso modo della vecchia autorizzazione tacita: cioè come un titolo che si forma silenziosamente, con il possesso di tutti i requisiti formali e sostanziali prescritti”. Prosegue il T.A.R. Veneto asserendo che tale assunto sarebbe avvalorato dall’art. 23 del T.U. sull’edilizia come modificato dal D.Lgs. 301/2002. Si legge infatti in tale norma che “la sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”. La d.i.a. non sarebbe quindi un’attivit à privata, bensì un “titolo abilitativo, che proviene dall’Amministrazione, sia pure in forma silenziosa o per inerzia (cioè, per non aver la P.A., nel termine perentorio stabilito dalla legge, il proprio potere inibitorio)” Infatti, se la d.i.a. fosse un atto privato, al quale la P.A. resta estranea, “tranne che per [...] eventualmente sanzionare l’attività non conforme alle norme, sarebbe del tutto priva di logica, in quanto non avrebbe senso prevedere l’annullamento del titolo [...] essendo sufficiente l’intervento successivo/repressivo”. Non sembra tuttavia che oggetto dell’impugnazione possa essere direttamente la dichiarazione. La d.i.a. è infatti comunque un atto proveniente da un privato, che non potrebbe in alcun modo assurgere alla dignità provvedimentale, neanche se combinata con altri elementi. La stessa P.A. è solamente destinataria della dichiarazione. Sul piano giurisdizionale, il terzo potrebbe solamente adire il giudice ordinario, richiedendo, se del caso il risarcimento del danno, ma difficilmente potrebbe ottenere soddisfazione su altri piani. Infatti, neanche in materia edilizia un’azione di denuncia di opera nuova, in presenza del titolo legittimante della d.i.a., potrebbe essere utilmente esperita. La giurisprudenza ha peraltro più volte ribadito che la d.i.a. costituisce un atto privato, con ciò escludendo la possibilità che essa stessa sia oggetto di una censura davanti al T.A.R.. Si veda da ultimo Cons. Stato, sez. V, 22 luglio 2005, n. 3916; precedentemente, Cons. St., sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453 (su cui vd. Urb. e App., 2003, pp. 837 ss., con nota di A. MANDARANO, Denuncia di inizio attività e sindacato del giudice amministrativo), nonché T.A.R. Marche, 7 luglio 2003, n. 315; T.A.R. Marche, 6 dicembre 2001, n. 1241; T.A.R. Liguria, 22 gennaio 2003, n. 113. (3) Da ultimo, Cons. Stato, sez. IV 22 luglio 2005, n. 3916. Tale tesi, tuttavia, non risolve il nodo del potere di autotutela della P.A.. La teoria in esame porterebbe a ritenere che non sia presente un provvedimento amministrativo in senso proprio. In tal caso, però, non sarebbe agevole capire quale sia l’oggetto su cui la P.A. può esercitare il potere di autotutela. Infatti, fatto salvo il caso di un intervento volto ad inibire l’attività, non si riscontrerebbe alcun provvedimento da annullare o revocare. Si potrebbe allora ritenere che oggetto dell’autotutela possa essere unicamente un eventuale provvedimento inibitorio adottato dalla P.A. In questo caso, non si porrebbe neanche un vero problema di legittimazione all’impugnazione del terzo, visto che egli non avrebbe motivo di intervenire, né, presumibilmente, alcun interesse ad agire. Una simile ricostruzione avrebbe però la pericolosa conseguenza di impedire alla P.A. qualunque intervento su un’attività esercitata da un privato in assenza dei presupposti di legge e non inibita nei trenta giorni successivi alla d.i.a. Questo, naturalmente, non pare accettabile. La giurisprudenza ha tuttavia ritenuto questo rilievo privo di pregio. Il Consiglio di Stato, sez. V, nella pronuncia n. 3586 del 19 giugno 2006, ha affermato che “si tratterà [...] di un’autotutela sui generis poiché non andrà ad incidere su un atto amministrativo, ma consisterà nella possibilità per la P.A. di adottare, successivamente alla scadenza del termine di trenta giorni dalla comunicazione di avvio dell’attività, provvedimenti di divieto di prosecuzione della stessa e di rimozione dei suoi effetti, condizionata, però, dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto, ulteriore e diverso rispetto a quello volto al mero ripristino della legalità violata”. Sulla base di ciò, Palazzo Spada ha potuto affermare che “il riferimento all’autotutela può, quindi, spiegarsi anche restando nei confini della linea interpretativa secondo cui la d.i.a. è un atto del privato” (4). Bisogna tuttavia considerare che tale pronuncia è stata resa in una fattispecie disciplinata dalla Legge 241 prima della novella del 2005. A seguito delle modifiche introdotte dalla Legge 80/2005, l’art. 19 della legge sul procedimento (che disciplina la d.i.a.) fa ora espresso rinvio agli art. 21 quinquies e 21 nonies. Tali norme, a loro volta, fanno espresso riferimento ad un “provvedimento amministrativo” (5). Questo significa che, sotto la 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (4) In tal senso anche T.A.R. Campania, 28 aprile 2006, n. 3858: nel caso di mancato esercizio del potere inibitorio da parte della P.A., non si forma alcun provvedimento di silenzio- assenso suscettibile di impugnazione. La tutela del terzo opponente passerebbe allora necessariamente attraverso la procedura disciplinata dall’art. 21-bis, legge n. 1034 del 1971, fermo restando che tale procedura non potrebbe avere come riferimento l’esercizio del potere inibitorio dell’Amministrazione (perché il giudice non può evidentemente costringere l’Amministrazione ad esercitare un potere da cui è decaduta), bensì il generale potere di repressione degli abusi edilizi che non soggiacerebbe ad alcun termine di decadenza. (5) Parte della dottrina ha tuttavia ritenuto che il richiamo al potere di autotutela sia in realtà una “fictio iuris da un lato ispirata a recepire il ricordato orientamento giurisprudenziale creativo dell’intervento repressivo oltre i termini e, dall’altro, atta a differenziare tale vigente legislazione, se si vuole evitare di forzare la lettera della norma, occorre individuare un provvedimento su cui esercitare l’annullamento d’ufficio e la revoca (6). La teoria del potere di autotutela sui generis ne risulta pertanto fortemente indebolita. Allo stato attuale, sembra che il meccanismo della d.i.a. debba necessariamente implicare un provvedimento, seppur tacito. Tale provvedimento, così come potrà essere oggetto di IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181 ultimo controllo da quello speciale e vincolato attuabile nei termini decadenziali di cui all’art. 19”. La novella avrebbe così “solo subordinato l’esercizio del potere di inibizione e di sanzione di interventi assoggettati a d.i.a., una volta che sia inutilmente decorso il termine di decadenza entro il quale va attuato il potere vincolato di controllo, alla ricorrenza dei presupposti richiesti dagli artt. 21 – quinquies e 21 – nonies per l’adozione dei provvedimenti di secondo grado quali l’annullamento e la revoca. Adifferenza, quindi, dell’intervento repressivo nei termini, che ha carattere vincolato ed è estinguibile, il potere di autotutela esercitabile oltre i termini [avrebbe] natura discrezionale e [sarebbe] attuabile solo nel rispetto dei principi e delle norme regolanti l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio e di revoca, vale a dire solo in presenza di un interesse pubblico prevalente, entro un termine ragionevole e previa ponderazione dell’interesse pubblico con quello del destinatario e dei controinteressati” (A. GRAZIANO, La denuncia di inizio attività nella l. 80/2005 secondo l’ultima giurisprudenza. Natura giuridica dell’istituto, autotutela della P.A. e tutela giurisdizionale del controinteressato, in www.giustizia-amministrativa.it). (6) Così, il T.A.R. Abruzzo, con la sentenza 494/2005 ha ribadito la tesi della natura complessa della d.i.a. La possibilità dell’esercizio dei poteri di autotutela da parte dell’Amministrazione sarebbe indice della presenza di un provvedimento nel meccanismo della d.i.a.. Il Collegio di Pescara ha così ritenuto che “il legislatore abbia in realtà considerato la denunzia di inizio di attività come un atto abilitativo tacito formatosi a seguito della denuncia del privato e della successiva inerzia dell’Amministrazione”. Su tale provvedimento implicito il Comune potrebbe esercitare i propri poteri di autotutela “solo ove ricorrano i presupposti di legge (ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole, esame degli interessi del destinatario e dei controinteressati); solo, infine, dopo l’adozione di tali provvedimenti di secondo grado (revoca o annullamento d’ufficio) possono poi essere assunti eventuali provvedimenti sanzionatori”. Sulla base di ciò, il T.A.R. Abruzzo ritiene che con la nuova formulazione del predetto art. 19 il legislatore abbia nella sostanza aderito alla tesi che ha qualificato la d.i.a. come un atto abilitativo tacito. Dal punto di vista del terzo controinteressato, secondo il TAR Abruzzo non sarebbe possibile che questi diffidi l’amministrazione ad esercitare il potere di annullamento o di revoca, ostandovi la giurisprudenza del Consiglio di Stato che nega l’esistenza in capo alla P.A. di un obbligo di pronunciarsi sull’atto di diffida del privato volto ad ottenere che la P.A. annulli o revochi un suo precedente provvedimento, stante l’ampia discrezionalità che caratterizza l’esercizio del potere di autotutela (Cons. di Stato , sez. IV, 10 novembre 2003, n. 7136). Il terzo quindi non potrebbe innescare la procedura del silenzio – inadempimento in ordine all’esercizio del potere di autotutela sulla d.i.a. Il terzo che si ritenesse leso potrebbe quindi adire il T.A.R. al fine di vedere adottate “le misure previste dal sistema volte a non far realizzare le opere non consentite”, ovvero al fine di far rilevare “l’obbligo dell’Amministrazione di esercitare il potere di rimozione delle opere realizzate senza titolo (con la possibilità che in sede cautelare sia sospesa l’attività edilizia col conseguente obbligo di conformazione dell’Amministrazione o del Commissario in sua vece nominato)”. autotutela, potrà essere oggetto anche di impugnazione. Si tratta dunque di individuarlo (7). Il raffinato meccanismo della decisione n. 3586 non consente peraltro di dare una sufficiente tutela al terzo controinteressato. Se è vero che la procedura di cui all’art. 21 bis Legge 1034/1971 è piuttosto veloce, la costruzione suggerita dalla decisione n. 3586 costringe il privato a esperire una procedura assai più macchinosa di un’impugnazione diretta (8). Tra l’altro, nelle more del giudizio, il soggetto autore della d.i.a. potrà comunque esercitare l’attività dichiarata. Se anche il controinteressato riuscisse finalmente ad ottenere una pronuncia del T.A.R. favorevole, potrebbero nel frattempo essersi prodotti effetti irreversibili. b) T.A.R. Abruzzo, 11 marzo 2004, n. 267 La ricerca di una soluzione al caso porta a rispolverare una sentenza del T.A.R. Abruzzo emessa ormai tre anni fa. Si tratta della pronuncia dell’11 marzo 2004, n. 267. Tale sentenza affronta di petto l’oggetto dell’impugnazione nelle controversie in tema di d.i.a. Così, i giudici di Pescara si soffermano sull’eventuale inammissibilità del ricorso per la parte impugnatoria del “provvedimento concessorio formatosi a seguito del decorso dei venti giorni dalla presentazione della d.i.a.”. Il Collegio parte dal presupposto che la controversia verte in materia urbanistica ed edilizia, vale a dire in materia che l’art. 34 del D.Lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del G.A. L’oggetto del giudizio può quindi essere costituito da “atti, provvedimenti e comportamenti” delle amministrazioni pubbliche. Alla luce di ciò, ritiene il T.A.R. Abruzzo che dovrebbe essere ricompreso fra i comportamenti impugnabili anche “il comportamento di non interdire ovvero consentire la realizzazione di un’opera che risulti conseguenza (in quanto ad esso conforme) di uno strumento urbanistico che si assuma illegittimo”. Il T.A.R. rileva così che se la tesi che la d.i.a. sia un istituto volto a semplificare l’attività delle due parti dirette del rapporto, da una parte l’Am- 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (7) Rimane naturalmente la possibilità di continuare ad agire secondo il (più impegnativo) meccanismo prospettato dalla decisione 3586 del Consiglio di Stato. Si veda infatti la sentenza del T.A.R. Campania, sez. III, n. 2/2007, resa su un caso successivo alla riforma della legge 241, con cui viene ammessa l’impugnazione di un silenzio rifiuto sull’istanza di autotutela presentata dal privato. (8) Si legge infatti nella pronuncia che “ la giurisprudenza, dopo iniziali oscillazioni, sembra pervenuta ad un assetto definitivo, secondo il quale l’unico rimedio esperibile da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale l’Amministrazione non abbia esercitato alcuna potestà repressiva, consiste nel rivolgere formale istanza all’Amministrazione e nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453)”. ministrazione pubblica e dall’altra il soggetto privato che intenda intraprendere quelle attività cui l’istituto stesso è applicabile, non sembra sostenibile, occorre comunque evitare che il suo utilizzo possa appesantire la posizione del terzo controinteressato, costringendolo a diffidare previamente l’Amministrazione affinché questa proceda a verifica della stessa d.i.a. e quindi, all’esito, esperire le azioni a difesa dei propri interessi o diritti. Conclude il Collegio nel senso di ritenere esperibile, da parte del terzo, “un’azione diretta a provocare in sede di giurisdizione esclusiva, secondo i motivi dedotti, un sindacato da parte del giudice in ordine alla corrispondenza, o meno, di quanto dichiarato dall’interessato e di quanto previsto dal relativo progetto rispetto ai canoni normativi stabiliti per la realizzazione dell’attivit à edilizia in questione”. La pronuncia tuttavia, è stata resa prima dell’avvento della sentenza della Corte Costituzionale 204/2004, e della Legge 80/2005. Così, sembra restare a metà del guado in merito all’esistenza o meno di un provvedimento. Secondo il T.A.R., infatti, l’istituto della d.i.a. “liberalizza l’accesso alle attività edilizie cui è applicabile, sicché per queste non sussiste la subordinazione ad un provvedimento amministrativo, in quanto le attività stesse sono legittimate direttamente dalla legge”. Caratteristica fondamentale della d.i.a. sarebbe proprio “il venir meno di un titolo provvedimentale di legittimazione, lasciando in capo all’Amministrazione solo un potere di controllo con carattere inibitorio che deve essere esercitato nel termine perentorio prescritto dalla legge; ed il decorso di tale termine non ha come effetto la formazione di un provvedimento tacito di assenso o concessorio”. In tale circostanza il T.A.R. Abruzzo ha quindi dato prova di notevole finezza giuridica individuando l’oggetto dell’impugnazione nel comportamento della P.A., ma sotto la normativa vigente tale definizione non è più sufficiente. Alla luce del richiamo espresso del potere di autotutela, che a sua volta presuppone un provvedimento, ci si chiede se non sia possibile rinvenire un provvedimento tacito. La dottrina tende ad individuare vari tipi di silenzio significativo: silenzio- assenso, silenzio-rigetto, silenzio-rifiuto, silenzio-inadempimento. E se non fossimo di fronte ad un ulteriore tipo di silenzio? Un’interpretazione innovativa permetterebbe forse di risolvere alcuni dei problemi rimasti insoluti. c) La d.i.a. come meccanismo opposto all’autorizzazione È necessario in primo luogo fare un passo indietro, e partire dalla prima funzione della d.i.a. Come è stato più volte correttamente affermato, la dichiarazione di inizio attività è stata introdotta per liberalizzare determinati settori. Non si tratta tanto di snellire l’azione amministrativa, bensì proprio di liberalizzare attività, sottraendole al regime autorizzatorio precedente. Del resto, tutto l’impianto della Legge 80/2005 è nel senso della liberalizzazione delle attività. La d.i.a. è pertanto un meccanismo molto diverso da quello dell’autorizzazione. Infatti, l’autorizzazione è un atto volto a rimuovere un limite all’eser- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183 cizio dell’attività. La d.i.a., invece, postula un’attività già di per sé lecita. Se pertanto l’attività è già lecita e consentita, non può essere presente un’istanza, ma si rinviene invece una mera comunicazione. Dopo tutto, il primo esempio di d.i.a. è presente addirittura nella Carta fondamentale, all’art. 17 (9). Per tale motivo, il meccanismo del silenzio-assenso non può funzionare: non può tecnicamente parlarsi di silenzio-assenso se non c’è un’istanza. d) (segue) La d.i.a. può venire intrapresa prima del decorso del termine entro cui l’Amministrazione può inibire l’attività Vi sono anche altre ragioni per le quali non può applicarsi il meccanismo del silenzio assenso. A ben guardare, infatti, nell’ambito della procedura generale tracciata dalla legge, l’attività in questione potrebbe essere lecitamente iniziata anche prima del decorso del termine necessario per la formazione del silenzio significativo, secondo uno schema simile a quello che esisteva fino al 2005. Nella versione previgente al D.L. 35/2005, la d.i.a. si poneva in termini diversi. Il privato poteva infatti denunciare l’inizio dell’attività e contestualmente iniziare l’attività stessa. Con la riforma del 2005, si è creduto che tutto fosse cambiato, perché apparentemente l’attività dichiarata non sembrerebbe essere esercitabile prima del decorso del termine di 30 giorni necessario per la formazione di quello che – forse impropriamente nel caso in esame – viene chiamato silenzio assenso. Ebbene, questo cambiamento, se c’è stato, non è così evidente. In primo luogo, si rileva una piccola discrasia terminologica. Si legge infatti nel secondo comma dell’art. 19 della legge sul procedimento che “l’attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all’amministrazione competente ”. Il successivo terzo comma, invece, afferma che “l’amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti”. Potrebbe trattarsi anche di una mera imprecisione terminologica. Ma il fatto che una norma parli di presentazione, ed il comma successivo parli di ricevimento, non può non far ritenere che potrebbe esserci una discrasia temporale. Qualora infatti la domanda venisse presentata tramite raccomandata 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (9) Com’è noto, tale articolo disciplina la libertà di riunione. Così, dopo un postulato generale circa il fatto che “i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi”, la norma precisa che “per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso ”. Invece, “delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Non è forse anche questo un meccanismo analogo a quello di avviso dello svolgimento di un’attivit à di per sé lecita? con ricevuta di ritorno (ove ammesso), vi sarebbe una differenza di due o tre giorni tra il momento della presentazione e quello della ricezione, vale a dire l’ordinario periodo di tempo necessario per recapitare una lettera. Con il risultato che il privato potrebbe iniziare l’attività in pendenza della possibilit à per l’amministrazione di esercitare il suo potere inibitorio. Del resto, questa ricostruzione sarebbe avvalorata anche dal fatto che il comma tre dell’art. 19 ripete espressamente il termine di trenta giorni, senza richiamare minimamente la pendenza del termine del secondo comma. Sembra dunque che il dies a quo da cui decorrono il termine per l’inizio dei lavori da un lato e quello per l’esercizio dell’azione inibitoria dall’altro non debbano necessariamente essere coincidenti. Ariprova di questo sta anche il secondo periodo del secondo comma dell ’art. 19, che si richiama: “contestualmente all’inizio dell’attività, l’interessato ne dà comunicazione all’amministrazione competente”. Orbene, a cosa gioverebbe la comunicazione in esame se si fosse formato un silenzio assenso? Lo scopo è quello di avvertire la P.A. del fatto che sta si sta iniziando effettivamente l’attività denunciata (rectius: dichiarata). Da tale momento in poi, pertanto, valgono tutte le congetture fatte sulla d.i.a. precedentemente alla novella del 2005. Pertanto, in pendenza del decorso del termine di trenta giorni, ben può il denunciante iniziare l’attività. La funzione del termine è quella di rallentare l’inizio dell’attività, in modo da consentire alla P.A. di intervenire quando i lavori non sono ancora iniziati, o comunque quando non sono iniziati da troppo tempo. In altri termini, la norma è assai utile, e va a tutelare il privato. Questi potrebbe aver effettuato la valutazione circa la sussistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività con troppa leggerezza. In tal caso, egli potrebbe essersi poi lanciato nell’attività iniziando i lavori in modo troppo precipitoso rischiando di incorrere in una successiva diffida della P.A. dal continuare l’attività, con la conseguente perdita patrimoniale dell’investimento effettuato. La norma sarebbe quindi nel senso di rallentare l’attività del privato di un mese. Il problema è risolto più radicalmente in materia edilizia, in quanto l’art. 23 del T.U. sull’edilizia stabilisce che “Il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”. In questo campo, il momento della presentazione sembra necessariamente coincidere con quello della ricezione della domanda, ed i termini decorrono allora dal medesimo giorno, vale a dire dalla presentazione della denuncia allo sportello. Questa distinzione terminologica non è peraltro l’unico elemento che porta a ritenere che l’attività possa essere esercitata prima che sia decorso il periodo necessario alla formazione dell’eventuale silenzio-assenso. Il terzo periodo del terzo comma dell’art. 19 citato recita infatti: “Nei casi in cui la IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185 legge prevede l’acquisizione di pareri di organi o enti appositi, il termine per l’adozione dei provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti sono sospesi, fino all’acquisizione dei pareri, fino a un massimo di trenta giorni, scaduti i quali l’amministrazione può adottare i propri provvedimenti indipendentemente dall’acquisizione del parere. Della sospensione è data comunicazione all’interessato”. Tali disposizioni stabiliscono che viene sospeso il termine entro il quale la P.A. può esercitare il potere inibitorio, di cui al medesimo terzo comma. Non viene invece affatto sospeso quello che deve decorrere prima che il cittadino possa iniziare l’attività – di cui al secondo comma. Il cittadino viene posto a conoscenza del fatto che il termine è stato sospeso allo scopo di tutelarne l’affidamento, vale dire di fargli conoscere quando la sua attività diventerà incomprimibile, salvo l’esercizio del potere di autotutela (10). Tuttavia, stando alla lettera della legge non è sospeso il decorrere del termine a conclusione del quale egli potrà iniziare l’attività dichiarata. Pertanto, si può avere legittimamente esercizio dell’attività anche prima che sia maturato il silenzio assenso. In tal senso anche il fatto che la stessa legge parli anche di “rimozione degli effetti”. Se l’attività non potesse essere intrapresa prima del decorso del termine entro cui la P.A. la può inibire, quali effetti sarebbe mai necessario rimuovere? Il legislatore sembra lasciar aperta la possibilità di un’attività prima della scadenza dei termini assegnati all’Amministrazione. Alla luce di tutto ciò, sorge un interrogativo: quale silenzio-assenso può essere la d.i.a., se il privato può porre in essere l’attività prima dell’avvento di quella che viene spesso chiamata del tutto impropriamente “autorizzazione ”? Lo stesso dicasi per la teoria della “fattispecie a formazione progressiva: in realtà, sembra che la denuncia del privato non faccia in alcun modo parte dell’agere amministrativo, ma pare invece che ne rappresenti soltanto il presupposto logico ed indispensabile. e) Verso un nuovo tipo di silenzio significativo? Il silenzio-rinuncia Visto che pertanto il meccanismo del silenzio-assenso si attaglia così male alla d.i.a., e considerato che anche il meccanismo della fattispecie a formazione progressiva non può funzionare per gli stessi motivi. In realtà, per capire quale sia la natura della d.i.a. e quale debba essere l’oggetto dell’impugnazione forse bisognerebbe prendere le mosse dal fatto che la P.A. può esercitare un potere di autotutela. Se è vero che, in via generale, questo potere presuppone un provvedimento amministrativo, significa che anche nel caso in esame tale provvedimento deve necessariamente essere presente. E se detto provvedimento è presente, allora sembra proprio che esso debba essere l’oggetto dell’impugnazione. Si tratta pertanto di individuarlo. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (10) Potere, questo, che si basa su autonomi presupposti, come da Cons. di Stato, sez. V, nella pronuncia n. 3586 del 19 giugno 2006. Come visto supra, il meccanismo è opposto a quello dell’istanza di autorizzazione. Nella d.i.a., infatti, non è presente un’istanza del privato volta ad ottenere l’assenso della P.A. su qualcosa, ma al contrario si tratta di un’attività che, in linea generale, è consentita dall’ordinamento. Alla P.A. non viene chiesta alcuna autorizzazione o rimozione di limiti, visto che si tratta di un’attività libera (11). Tuttavia, all’amministrazione viene concessa la possibilità di rifiutare ove questa ritenga non sussistenti le condizioni per l’esercizio dell’attività. Quello che danneggia eventualmente il terzo è il non esercizio di un potere amministrativo. È dunque in questo comportamento inerziale che deve essere ravvisata la base del provvedimento. Per aversi provvedimento, deve tuttavia aversi quantomeno un comportamento significativo. Non sarebbe allora configurabile una nuova tipologia di silenzio? Visto che il meccanismo del silenzio – assenso non pare funzionare, non potrebbe trattarsi di una nuova tipologia di silenzio, vale a dire il “silenzio – rinuncia”? In altri termini la P.A. che non interviene a vietare l’attività denunciata nella d.i.a. viene a rinunciare tacitamente al proprio diritto di divieto. E proprio questa rinuncia sarebbe il provvedimento da impugnare. Con questa ricostruzione verrebbe agevolata la ricerca circa la natura della d.i.a. (che rientrerebbe definitivamente tra gli atti privatistici), verrebbe giustificato adeguatamente l’esercizio del potere di autotutela e verrebbe individuato l’oggetto dell’impugnazione. In questo modo, il privato sarebbe esonerato dalla macchinosa procedura della diffida alla P.A. volta ad ottenere l’esercizio del potere di autotutela per poi impugnare quest’ultimo eventuale silenzio. Rimarrebbe unicamente la difficoltà di trovare l’oggetto della revoca. Se infatti la d.i.a. riguarda attività il cui esercizio dipenda esclusivamente “dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale”, è chiaro che rimangono ben pochi margini per l’esercizio di quella discrezionalità amministrativa che è presupposto della revoca. Dott. Benedetto Brancoli Busdraghi (*) IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187 (11) A tal fine, si fa presente che anche il comma 9 dell’art. 87 del D.Lgs. 259/2003 fa riferimento al mancato diniego: “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al comma 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego”. L’apporto di tale norme alla ricostruzione complessiva di tale istituto è tuttavia dubbio proprio in ragione della peculiarità della variante d.i.a. in esso contenuta. Peraltro, anche su tale fattispecie si registra la pronuncia del T.A.R. Campania, 23 dicembre 2005, n. 20645, che configura ancora l’istituto come silenzio-assenso. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Consiglio di Stato, sezione quinta, decisione 22 febbraio 2007 n. 948 – Pres. S. Santoro – Rel. N. Russo – T.A.C.N. (Avv.ti A. Chiarelli, S. Nocentini) c/ T.L. S.C.A..R.L. (n.c.); U.T. soc. coop. (Avv. A. Torricelli); Comune di [X] (Avv. D. Iaria); E.S. di N.T. & C. S.A.S. (Avv. F. Falorni). «Fatto – La Soc. Coop. T.L. è titolare di autorizzazione commerciale rilasciata dal Comune di [X] in data 23 marzo 1990 per l’esercizio commerciale sito nel medesimo Comune, avente una superficie di vendita di circa mq. 399,99. L’area in cui ricade l’esercizio commerciale era ed è classificata, dal vigente piano di fabbricazione, di tipologia “C” (residenziale), edificabile anche mediante piano di lottizzazione. In tale zona, in data 29 giugno 1998, il Comune approvava un piano di lottizzazione presentato per la realizzazione di un intervento edilizio ad uso prevalentemente residenziale; di tale lottizzazione (insistente a poche centinaia di metri dall’esercizio commerciale Coop) risultavano far parte anche alcuni fondi di proprietà dei signori T. A. C. e sui quali, previo rilascio dei relativi titoli abilitativi da parte del Comune, venivano realizzati cinque edifici, con destinazione residenziale ai piani terreno e primo, e non residenziale ai piani seminterrati o interrati. Ultimati i lavori di costruzione, relativamente al seminterrato di uno dei predetti cinque edifici, i proprietari, intendendo modificarne la destinazione d’uso per ivi insediare una media struttura di vendita commerciale, presentavano al Comune una proposta volta ad acquisire la proprietà di un terreno comunale adiacente all’immobile e necessario nella prospettiva di dover dotare la struttura commerciale degli spazi a parcheggio previsti dalla normativa; in relazione a ciò, e nelle more anteriori alla stipula della necessaria convenzione, i proprietari presentavano due denunzie d’inizio di attività, una per cambio di destinazione d’uso senza opere da garage a fondo commerciale e l’altra per i lavori per la realizzazione del parcheggio oggetto della stipulanda convenzione. L’efficacia di quest’ultima, approvata in schema dall’Amministrazione veniva sottoposta alla condizione dell’ottenimento dei necessari atti di assenso sotto il profilo urbanistico-edilizio e commerciale all’apertura della struttura di vendita in questione. Infine, in data 22 luglio 2003, il Comune emanava, relativamente ai locali in questione, un’autorizzazione commerciale per l’attivazione di una media struttura di vendita (per una superficie complessiva di 750 mq) in favore della società E. che, quindi, avviava l’esercizio commerciale. La società Coop, pertanto, adìva il T.A.R. Toscana domandando l’annullamento dell ’autorizzazione commerciale, dell’atto di assenso edilizio, della deliberazione approvativa dello schema di convenzione relativo al terreno adiacente e della conseguente convenzione sottoscritta, deducendo i seguenti motivi: 1) “Eccesso di potere per sviamento e difetto dei presupposti – Violazione art. 19 della legge n. 241/90 – Carenza di istruttoria e mancanza di motivazione – Violazione art. 15 del regolamento edilizio del Comune di [X] – Violazione articolo 8 della legge Regionale n. 39/94 e art. 9 della Legge Regionale n. 52/99 – Violazione art. 97 della Costituzione”. 2) “Eccesso di potere per sviamento e carenza dei presupposti, con riferimento alla autorizzazione commerciale n. 1/03 – Violazione art. 9 del Regolamento Regionale 26 luglio 1999 n. 4 nonché dell’art. 10 della deliberazione del Consiglio Regionale n. 137 del 25 maggio 1999 recante direttive per la programmazione urbanistica commerciale di cui alla Legge Regionale 17 maggio 1999 n. 28. Violazione degli artt. 13 e 14 del Regolamento Comunale sulla disciplina del commercio in sede fissa. – Eccesso di potere per contraddittorietà tra atti, carenza di istruttoria e travisamento dei fatti”. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 3) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria e travisamento dei fatti. Carenza dei presupposti. Violazione art. 2 delle N.T.A. del Piano di lottizzazione dell’art. 68 delle N.T.A. del Piano di fabbricazione nonché dell’art. 9.2. del regolamento edilizio del Comune. Insufficienza della motivazione e violazione art. 2. legge 241/90”. 4) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria e travisamento dei fatti – Carenza di motivazione – Violazione art. 68 delle N.T.A. P.d.F. del Comune di [X] e dell’art. 10 delle N.T.A. del P.d.L. (...). Violazione art. 9.2 del Regolamento urbanistico”. 5) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria e travisamento dei fatti nonché contraddittoriet à tra gli atti – Eccesso di potere per sviamento – Violazione art. 4 Legge Regionale Toscana n. 52/99 e artt. 9.2. del Regolamento edilizio del Comune di [X]. Violazione art. 62 punto 7 delle N.T.A. del Comune di [X] – Insufficienza della motivazione – Violazione art. 2 della legge n. 241/90”. 6) “Eccesso di potere per indeterminatezza e genericità e insussistenza dei presupposti. Carenza di istruttoria e insufficienza della motivazione – Violazione art. 97 della Costituzione. Illegittimità derivata per nullità della convenzione avente ad oggetto la cessione di terreni necessari per il rispetto degli standards in materia di parcheggi – Violazione art. 9 del Regolamento Regionale 26 luglio 1999 n. 4 art. 10 della Direttive regionali per la programmazione urbanistica commerciale nonché dell’art. 14 del Regolamento comunale sul commercio in sede fissa”. 7) “Eccesso di potere per sviamento – Violazione art. 40 della Legge Regionale Toscana 5/95 e dei principi in materia di variazione degli strumenti urbanistici – Violazione art. 97 della Costituzione”. 8) “Eccesso di potere per carenza di istruttoria (sotto un ulteriore profilo) – Violazione art. 11 del Regolamento comunale sulla disciplina del commercio in sede fissa del Comune di [X] – Violazione art. 8 del Decreto Legislativo 114/98 e dell’art. 97 della Costituzione”. 9) “Eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di istruttoria. Contraddittorietà tra atti e carenza di motivazione”. Si costituivano in giudizio l’Amministrazione intimata, i controinteressati proprietari degli immobili e la controinteressata società titolare della nuova struttura, resistendo al ricorso ed esponendo nelle successive e rispettive memorie le proprie argomentazioni difensive, tra le quali eccezioni di irricevibilità ed inammissibilità del ricorso. Anche parte ricorrente riassumeva in memoria le proprie tesi. Con sentenza n. 2617 del 27 maggio 2005 la seconda sezione del T.A.R. adìto, in accoglimento del terzo motivo di ricorso – e con implicito assorbimento degli altri motivi e previa reiezione delle eccezioni di irricevibilità ed inammissibilità formulate dal Comune e dal controinteressato – ha dichiarato l’inefficacia della d.i.a. edilizia presentata dai sigg.ri T. ed altri in data 28 maggio 2003 ed ha annullato l’autorizzazione commerciale n. 1/2003, compensando le spese di giudizio tra le parti. Avverso detta sentenza hanno proposto appello la soc. N.G. di N.T. & C. s.a.s. (r.g. n. 5336/2005), la soc. E.S. di N.T. & C. s.a.s. (r.g. n. 5337/2005), il Comune di [X] (r.g. n. 6855/2005) e il sig. N. T. A. C. (r.g. n. 6856/2005). La U. T. soc. Coop., stante l’assorbimento degli altri motivi di ricorso proposti dinanzi al T.A.R., ha a sua volta proposto appello incidentale condizionato, riproponendo i motivi di ricorso che il T.A.R. Toscana ha ritenuto, appunto, assorbiti e chiedendo che gli stessi vengano esaminati neo caso in cui questo Consiglio ritenesse di dover riformare la sentenza in accoglimento degli appelli principali proposti dalle controparti. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189 Con ordinanze n. 3485/2005 e 3486/2005 questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare proposta dalle società N.G. ed E. In ragione della già disposta sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, il sig. T. ed il Comune di [X] hanno rinunciato alla propria domanda cautelare. In vista dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie illustrative. Tutti gli appelli, chiamati per la trattazione congiunta all’udienza pubblica del 16 dicembre 2005, sono stati trattenuti in decisione. Diritto – Deve, preliminarmente, disporsi la riunione degli appelli in epigrafe, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, in quanto essi sono rivolti avverso la medesima sentenza, n. 2617/2005. Con tale sentenza il T.A.R. Toscana, premesso che “la posizione azionata dalla societ à ricorrente si sostanzia primariamente nel censurare un provvedimento di rilascio di autorizzazione commerciale in favore dei soggetti controinteressati … e la cui legittimità tuttavia … deve essere vagliata alla stregua di tutti i presupposti della normativa urbanisticocommerciale che l’Amministrazione è tenuta ad applicare” e ricordato che “al silenzio tenuto dall’Amministrazione comunale a fronte di una denunzia di inizio di attività edilizia non può essere attribuito il valore né di un tacito atto di assenso all’esercizio delle attività denunciate dal privato né di un implicito provvedimento positivo di controllo a rilevanza esterna, ma piuttosto di un mero comportamento, rapportabile, sul piano degli effetti legali tipici, ad un’attività di verifica conclusasi positivamente … e quindi inidonea di per sé a sostanziare un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente impugnabile in sede giurisdizionale con un’azione di annullamento” con la conseguenza che, in tali casi, “l’azione di annullamento proposta dal ricorrente, che rispetto alla denunzia de quo riveste la posizione di terzo, si risolve in una domanda di accertamento … nei limiti della verifica dei cennati necessari presupposti per il rilascio dell’autorizzazione commerciale che su quella d.i.a. si è fondata”, ha ritenuto fondato il ricorso proposto da U.T. e, per l’effetto, ha dichiarato “l’inefficacia della d.i.a. edilizia 28 maggio 2003” ed ha annullato l’autorizzazione commerciale n. 1/2003. La questione centrale della presente controversia attiene, dunque, al problema della esperibilità dei rimedi da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a.. A tale proposito, la giurisprudenza, dopo iniziali oscillazioni, sembra pervenuta ad un assetto definitivo, secondo il quale l’unico rimedio esperibile da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei riguardi della quale l’Amministrazione non abbia esercitato alcuna potestà repressiva, consiste nel rivolgere formale istanza all’Amministrazione e nell ’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453). La conferma di tale orientamento si ha in una recente decisione di questo Consiglio (cfr. Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916). Secondo tale orientamento – che la Sezione ritiene di dover condividere, non sussistendo valide ragioni per discostarsene – nella ricostruzione del sistema cui dà luogo l’istituto della denuncia di inizio attività – con riferimento particolare alla materia edilizia e alla normativa vigente anteriormente alle richiamate modifiche legislative dell’istituto in generale, la cui portata innovativa sulla d.i.a. edilizia non rileva nel presente giudizio – è necessario distinguere tra due distinti rapporti: quello tra denunciante e amministrazione e quello che riguarda i controinteressati all’intervento. Tali rapporti, pur attenendo a una medesima vicenda sostanziale, possono essere tenuti distinti sul piano delle tutele, anche in considerazione della diversità dei poteri di cui dispone l’amministrazione. Vero è, invece, che, proprio perché trattasi di situazioni direttamente collega- 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO te all’esercizio di un potere pubblicistico dell’amministrazione cui possono contrapporsi interessi legittimi dei vari interessati, le relative controversie rientrano comunque nella giurisdizione del giudice amministrativo (salve le ipotesi di concorrenti azioni tra privati sulla base delle norme del codice civile sui rapporti di vicinato). Nei rapporti tra denunciante e amministrazione, la denuncia di inizio attività si pone come atto di parte, che, pur in assenza di un quadro normativo di vera e propria liberalizzazione dell’attività, consente al privato di intraprendere un’attività in correlazione all’inutile decorso di un termine, cui è legato, a pena di decadenza, il potere dell’amministrazione, correttamente definito inibitorio dell’attività. Sul piano pratico, rileva poco se, in forza di un’inversione procedimentale, la fattispecie dia luogo, con la scadenza del termine, a un titolo abilitativo tacito o al consolidarsi, per volontà legislativa, degli effetti di un atto di iniziativa di parte. L’interessato potrà contestare l’esercizio del potere inibitorio, tale qualificato dall’amministrazione, vuoi per motivi formali (decadenza dal termine), vuoi sul piano sostanziale (sussistenza dei requisiti). A tale potere resta estraneo, sul piano normativo della qualificazione degli interessi, colui che si oppone all’intervento, perché la norma sulla denuncia di inizio attività non prende (ancora) formalmente in considerazione la sua posizione, per qualificarla in senso legittimante, ed egli, in definitiva, non può opporsi, in sede di giurisdizione amministrativa, all’attività del privato. Una volta decorso il termine senza l’esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza, generalmente ritenuta, del generale potere repressivo degli abusi edilizi, colui che si oppone all’intervento, essendosi consolidata la fattispecie complessa che abilita, ex lege o ex actu non rileva, il privato a costruire, sarà legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio, che pertanto non avrà, né potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio dell ’amministrazione – essendo decorso, a tacer d’altro, il relativo termine, con la conseguenza, sottolineata in dottrina, che il giudice non potrà costringere l’amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta – bensì il generale potere sanzionatorio, salvo poi a stabilire se tale potere abbia carattere vincolato (come ritengono i più) o sia comunque esercitabile alla stregua dei princìpi dell’autotutela (come mostra di ritenere Cons. St., sez. VI, n. 4453/02, cit.). La tesi esposta, da un lato, consente di attenuare i profili critici di ordine generale cui conduce l’utilizzazione normativa della denuncia di inizio attività in termini di semplificazione procedimentale anzi che di supporto ad attività liberalizzate; dall’altro, consente di assicurare la tutela dei terzi in termini ragionevoli con lo strumento del silenzio, secondo uno schema più lineare e quindi semplice, rispetto alle variegate ipotesi cui in pratica possono condurre le altre tesi sin qui prospettate, tutte accomunate dal non irrilevante problema della precisa individuazione dell’oggetto del giudizio, come si evince dallo stesso tenore della sentenza impugnata, dal momento che il Tribunale ha, comunque, sindacato la legittimit à d.i.a., ancorché quale mero presupposto per il rilascio della autorizzazione commerciale, trasformando la domanda di annullamento della d.i.a., quale espressamente proposta dalla società ricorrente, in una domanda di accertamento dei presupposti necessari al rilascio dell’autorizzazione commerciale. Non possono essere condivise, per quanto dianzi argomentato, né la tesi per cui oggetto dell’impugnativa siano gli effetti della d.i.a. (tesi, sia pure non con assoluta linearità, sostenuta dal primo giudice), né la tesi che configura la d.i.a. come un provvedimento tacito. Alla luce di quanto sin qui esposto, ne consegue che la società ricorrente in primo grado, come fondatamente dedotto dagli appellanti, avrebbe dovuto, per tutelare in sede giu- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191 risdizionale i propri interessi asseritamene lesi dalla presentazione della d.i.a. in questione, diffidare il Comune di [X] a procedere alla verifica della legittimità dell’attività denunciata attraverso l’esercizio dei poteri inibitori/repressivi ad esso spettanti in materia, per poi impugnare l’eventuale silenzio serbato dall’Amministrazione comunale o, se del caso, il provvedimento espresso adottato dalla stessa all’esito dell’avvenuta verifica. La ricostruzione del sistema nei termini poc’anzi prospettati esclude in radice che tali atti possano assumere valore provvedimentale, in quanto il principio di legalità e di conseguente tipicità dei provvedimenti amministrativi esclude che possano essere inseriti nella sequenza procedimentale provvedimenti non espressione di poteri tipici previsti dalla legge. Ai fini, dunque, delle modalità di contestazione della realizzabilità dell’intervento da parte del terzo non rileva che l’intervento medesimo sia escluso in radice dalla normativa urbanistica o che lo stesso non potesse ritualmente essere avviato tramite d.i.a.: in entrambe le ipotesi, occorre che il terzo stimoli il potere repressivo dell’amministrazione, diverse potendo essere solo le conseguenze che derivino dall’accoglimento dell’asserito motivo di illegittimità. In definitiva, nel caso in esame, come fondatamente dedotto dagli appellanti, l’impugnazione originaria è da considerare inammissibile, sicché il T.A.R. sarebbe dovuto prevenire alla conclusione della inoppugnabilità della d.i.a. edilizia e, perciò, della sua persistente idoneità a mutare la destinazione d’uso del locale da garage a fondo commerciale, dichiarando inammissibili tutte le domande e le censure nei riguardi di essa proposte, ivi comprese quelle – rimaste assorbite in prime cure – riproposte nel presente grado di giudizio attraverso l’appello incidentale dalla U.T. In conclusione, pronunciando sugli appelli riuniti, la Sezione, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo, ritiene debba dichiararsi l’inammissibilità del ricorso originario. In considerazione della complessità delle questioni trattate nonché della peculiarità della vicenda in esame, ricorrono giusti motivi per compensare tra tutte le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quinta, riunisce gli appelli, proposti in via principale e incidentale, e, pronunciando sugli stessi, dichiara inammissibile l’impugnazione originariamente proposta, in riforma della impugnata sentenza n. 2617/2005 del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, addì 16 dicembre 2005». 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO A.G.S. – Parere del 10 marzo 2005 n. 33752. Contenzioso Tributario in materia catastale. Giurisdizione sulle controversie relative alle intestazioni delle unità immobiliari urbane (consultivo 1774/05, avvocato L. Caputi Iambrenghi). «Codesta Agenzia, nella nota a riscontro, chiede di chiarire la reale portata dell’art. 2 comma 2 del D.Lgs. 546/1992 in relazione alla sua formulazione letterale. Con riferimento infatti ai terreni, il comma citato devolve alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie “…le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la figura, l’estensione, il classamento ... e la ripartizione dell’estimo tra i compossessori a titolo di promiscuit à di una stessa particella...”, mentre per le unità immobiliari urbane la giurisdizione è limitata letteralmente alle “…controversie concernenti la consistenza il classamento ... e l’attribuzione della rendita catastale”. In altri termini il dubbio attiene alle controversie relative alla “intestazione catastale” delle unità immobiliari urbane, non espressamente citate nella norma in esame. Pare a questa Avvocatura che le premesse concettuali da cui prendere le mosse siano costituite dalla natura giuridica e dalla funzione del catasto. Per quanto attiene al primo aspetto, è opinione diffusa in dottrina (RUMBOLD in Enciclopedia del Diritto, Vol. VI, voce Catasto) che il catasto integri un insieme di atti e registri contenenti i risultati di operazioni di accertamento, misurazione e stima che, con riferimento ai beni immobili ne stabiliscono la consistenza, le persone alle quali appartengono e la rendita. In altri termini il catasto ha una valenza descrittiva, risolvendosi in un inventario generale dei beni immobili con l’indicazione della loro capacità di reddito, espressa nella rendita, nonché delle persone che li possiedono. Per quanto attiene al secondo aspetto, il catasto, e per esso la rendita catastale, nel solco di una antica tradizione di politica tributaria, è utilizzato per la determinazione della base imponibile di numerose imposte, criterio questo che da tempo ha superato il vaglio del giudice delle leggi (cfr. Corte I P A R E R I D E L C O M I TAT O C O N S U LT I V O Costituzionale sent. n. 16/1965) e che risponde, peraltro, ad esigenze di semplificazione e rapidità dell’accertamento, nonché di economia processuale. Sulla base ditali premesse, va anzitutto osservato che natura e finalità del Catasto urbano sono identiche a quelle del Catasto terreni. Va poi sottolineato che, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. 650/1972 (richiamato anche dalla più recente normativa sulla utilizzazione di procedure telematiche in subiecta materia: v. art. 5 d.P.R. 308/2000), le norme sulle volture dettate per il Catasto terreni “regolano anche le volture dei beni iscritti nel Catasto edilizio urbano” (che attengono appunto alle intestazioni delle partite catastali). Le controversie che dall’esecuzione/non esecuzione delle anzidette formalit à possono sorgere appaiono essere quindi dello stesso tipo per i terreni e per le unità immobiliari urbane. In particolare, tenuto conto dell’essenziale differenza tra titolarità del bene ed intestazione catastale del medesimo (v. parere cs. 52698/04), le controversie inerenti a quest’ultime attengono sempre e comunque al rispetto delle nonne specificamente dettate per la tenuta e conservazione del Catasto, rispetto alle quali identica è la situazione soggettiva dell’interessato. Non si ravvisano pertanto motivi per una diversificazione di giurisdizione ed una ipotetica competenza dell’A.G.O. in materia di intestazioni catastali per le unità immobiliari urbane (…)». A.G.S. – Parere del 18 dicembre 2006 n. 144804. Indennità corrisposta ai sensi dell’articolo 7, comma 2, O.P.C.M. n. 3379 del 5 novembre 2004. Funzionari prefettizi in posizione di comando presso la struttura commissariale (consultivo 8453/06, avvocato D. Ranucci) «Il commissario delegato per l’emergenza ambientale in Calabria, premesso che un viceprefetto in servizio presso la Prefettura di Bari è utilizzato presso la struttura commissariale, con funzione di “responsabile amministrativo ”, ha chiesto parere in ordine alle seguenti questioni: 1) se la indennità da corrispondere al predetto funzionario, ex art. 1 co. 9° e 10° O.P.C.M. n. 3343/2004, richiamato dall’art. 7 comma 2° O.P.C.M. n. 3379/2004, abbia o meno natura di emolumento accessorio; 2) se avendo il Ministero dell’Interno sospeso la corresponsione dell’indennit à di posizione al funzionario prefettizio, comandato o collocato fuori ruolo ai sensi dell’articolo 25 comma 1 del D.Lgs. 139 del 2000, tale indennit à debba continuare ad essere erogata dalla struttura commissariale. I due quesiti non sono in sequenza logica necessaria. Inoltre, mentre il secondo di essi concerne l’Ufficio Commissariale, il primo interessa anzitutto ed essenzialmente l’amministrazione dell’Interno. Al secondo quesito è agevole rispondere che la struttura commissariale né deve né può erogare l’indennità di posizione “in sostituzione” dell’amministrazione (prefettizia) di appartenenza, la quale abbia, per qualsivoglia ragione, “sospeso” l’erogazione di detta indennità. 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La struttura commissariale è tenuta a corrispondere, con proprie risorse, la particolare indennità mensile prevista dalle citate ordinanze, non anche ad assicurare comunque al personale di cui si avvale un livello retributivo complessivo non inferiore alla addizione della remunerazione che avrebbe ottenuto rimanendo in servizio presso l’amministrazione di provenienza più l’anzidetta indennità mensile. La risposta al primo quesito risulta meno agevole, anche perché non è esplicitato a quali effetti – di interesse dell’Ufficio Commissariale (e non del Ministero dell’Interno) – esso sia stato posto. Nella nota 26 gennaio 2006 n. 1054 è riferito che l’indennità mensile erogata al “responsabile amministrativo” in questione è stata nel settembre 2004 commisurata ad un “trattamento economico annuo”, che parrebbe riferito all’anno solare 2003; trattamento includente l’indennità di posizione quantificata nella misura minima (euro 16.553). Giova precisare che non è prospettato dubbio circa il periodo di tempo cui la quantificazione in concreto del “100% degli emolumenti allo stato in godimento” debba essere riferita; appare peraltro palese che detto periodo deve essere individuato secondo un costante criterio oggettivo. Comunque il secondo quesito attiene alla interpretazione dell’art. 21 comma 4 del d.P.R. 23 maggio 2001 n. 316, di recepimento di accordo ai sensi del D.Lgs. 10 maggio 2000 n. 139; detto art. 21 (intitolato retribuzione di posizione) reca al comma 4 una disposizione a favore dei funzionari prefettizi comandati o fuori ruolo “ ai quali non vengano corrisposti emolumenti accessori a qualsiasi titolo” o i predetti emolumenti “vengano corrisposti in misura inferiore agli importi…”. La disposizione non altera il (e non deroga al) principio stabilito dall’art. 20 del D.Lgs. 19 maggio 2000 n. 139, secondo cui la retribuzione di posizione è “correlata alle posizioni funzionali ricoperte ed agli incarichi ed alle responsabilità esercitati”. Ciò posto questa Avvocatura ritiene che l’indennità di cui all’art. 1 O.P.C.M. n. 3343/2004, richiamato dall’art. 7 O.P.C.M. n. 3379/2004, abbia natura soggettivamente accessoria, nel senso cioè di costituire un accessorio del trattamento economico fisso, che il funzionario continua a percepire, a carico dell’amministrazione di provenienza, in ragione della sua qualifica. Considerato che il funzionario prefettizio conserva la propria retribuzione pur quando sia collocato fuori ruolo o comandato presso altra amministrazione, l’indennità ulteriore che l’ufficio di destinazione gli versa è attribuita, non per il grado occupato o la funzione esercitata dallo stesso nell’ambito della Amministrazione dell’Interno, ma in relazione alle diverse e specifiche competenze attribuite nel caso concreto. Da ultimo si rileva che le ordinanze di protezione civile esaminate appaiono effettivamente non sufficientemente chiare nel dettato testuale, per cui per il futuro, ed al fine di prevenire eventuale contenzioso, si suggerisce alla Presidenza di precisare in ordinanza le voci retributive da considerare ai fini del computo della indennità Commissariale. Dovrebbero escludersi dal computo di detta indennità le componenti accidentali e provvisorie, quali l’inden- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 195 nità di risultato, quella di lavoro straordinario (Consiglio di Stato, IV, n. 2465 del 6 maggio 2002; C.d.S., IV, n. 287; 16 febbraio 1998; TAR Lazio, II, n. 4536 del 23 maggio 2001), nonché l’indennità di posizione nella quota variabile, che rappresenta una voce reddituale che l’amministrazione può inserire nel trattamento economico di un determinato soggetto come ulteriore compenso per lo svolgimento, in un contesto particolare, di una determinata attività: l’indennit à di posizione variabile non rappresenta una voce permanente del trattamento economico, ma un quid pluris concordato tra la singola Amministrazione e il funzionario per lo svolgimento di un particolare compito, esaurito il quale, anche qualora tale soggetto rimanga nella stessa Amministrazione, ma con un incarico differente, nulla è dovuto a titolo di indennità di posizione variabile, salvo che la stessa sia nuovamente rinegoziata (…)». A.G.S. – Parere del 10 maggio 2007 n. 56119. Art. 15 del d.P.R. 601/73. Sua applicabilità alle operazioni di cessione di credito tra istituti di credito e alle formalità eseguite successivamente alle cessioni medesime (consultivo 19070/03, avvocato M. Mari). «(…) codesta Agenzia ha chiesto il parere della scrivente in ordine alla questione in oggetto, così come proposta da un quesito rivolto all’Area legale di codesta Agenzia medesima da uno studio legale e fiscale. La questione attiene all’applicazione del regime fiscale agevolativo ex art. 15 del d.P.R. 601/73 nel caso di cessione del credito derivante da finanziamento, garantito da ipoteca, già erogato da istituti di credito fruenti dell’applicazione dell’imposta sostitutiva di cui al predetto art. 15 e segg., nella sussistenza, pertanto, dei requisiti soggettivo ed oggettivo previsti dalla citata norma. Ciò si potrebbe materializzare tanto laddove il cessionario del credito sia un ulteriore soggetto terzo, sempre in possesso dei requisiti soggettivi di cui all’art. 15, che si va a sostituire al precedente istituto (caso descritto nel quesito dello studio legale), quanto qualora il finanziamento sia stato erogato da due diversi istituti di credito, ognuno per una quota parziale, e la cessione avvenga tra gli stessi istituti, di talché una quota del credito confluisca e si consolidi nell’altra quota, onde rimane in vita il finanziamento originario con un unico soggetto creditore che, oltre alla sua quota, acquisisce anche quella dell’altro istituto, ferma restando la persona del debitore (parzialmente) ceduto (caso evidenziato più specificamente da codesta Agenzia). Ciò posto, la richiesta della nota a riferimento si biforca in due diverse direzioni, tese a verificare, da un parte, se la cessione del credito stessa, per come prospettata, sia in ogni caso sussumibile nell’ambito di operatività del ridetto art. 15 (come vorrebbe lo studio professionale proponente il quesito) e, dall’altra, a conoscere se il medesimo regime agevolativo torni applicabile anche alle vicende modificative ed estintive del credito successive alla sua cessione, indipendentemente dal trattamento tributario che sia stato riservato alla cessione stessa e cioè se, soprattutto, possa in ogni caso applicarsi, ad esempio all’estinzione della garanzia ipotecaria chiesta dal debitore al termine del finanziamento, il trattamento tributario agevolato, malgrado il credito 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO originario possa essere stato ceduto, durante il corso del rapporto, attraverso negozi non più assoggettabili all’applicazione del medesimo art. 15 (tesi pure a favore della quale si pone lo studio), con una sorta di “reviviscenza” (come la definisce la nota a riscontro) del regime fiscale da quest’ultima norma previsto, nel caso in cui si sia verificata una soluzione di continuità nella applicazione della stessa. A) Venendo anzitutto ad affrontare i termini della prima parte del quesito (sussunzione della cessione del credito nell’ambito di operatività dell’art. 15), va rilevato come, sul punto, codesta Agenzia citi alcuni precedenti di prassi amministrativa (Ris. Min. n. 310273 del 18 aprile 1988 e n. 310932 del 4 aprile 1989), i quali, peraltro risalenti nel tempo, si pongono in contrasto con la tesi dell’applicabilità del regime agevolato anche in caso di cessione del credito. Per far ciò, nelle citate risoluzioni il Ministero pone un preciso spartiacque attraverso il concetto di “inerenza” della cessione con la causa negoziale del finanziamento. In effetti, è da riconoscere che in questa tematica il concetto di “inerenza ” della cessione con lo scopo di finanziamento assume un connotato di particolare rilevanza, posto che la stessa lettera della norma (art. 15) - laddove si legge che “le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine e tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità” devono essere “inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione ” (incluse le vicende legate alle garanzie connesse), “ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti” — postula siffatta inerenza come elemento cardine per l’ottenimento del regime agevolativo. Ed allora, il concetto di inerenza delineato dalle risoluzioni ministeriali sopra citate tende indiscutibilmente a legare il mutuo che deriva dalle descritte operazioni con l’intento di favorire l’accesso al credito a medio e lungo termine, cui è preordinata l’agevolazione fiscale concessa dall’art. 15 del d.P.R. 601/73. Il finanziamento, pertanto, crea un rapporto credito — debito complesso, destinato a durare nel tempo (con limitazioni minime fissate dalla norma), il quale, nel perdurare della originaria finalizzazione coincidente con la “ratio legis”, attrae nella portata dell’ambito agevolativo tutto ciò che ne è connesso in termini di esecuzione, modificazione ed estinzione. Pertanto, la posizione ministeriale emergente dalle dette risoluzioni amministrative (che, a quanto pare, non hanno avuto ulteriori, specifiche evoluzioni) è quella limitativa, che sgancia il concetto di inerenza dalla semplice connessione o derivazione, anche cronologica, di un atto o negozio da altro di sicura natura finanziatoria, per rinvenire la necessità di una continuit à della presenza della causa negoziale di accesso al credito affinché si possa versare nelle variegate ipotesi contemplate dall’art. 15. Per cui, ciò posto, la cessione di un credito derivante da un rapporto di finanziamento sarebbe operazione del tutto autonoma ed indipendente rispetto al rapporto obbligatorio da cui deriva, ancorché posta in essere da un istituto bancario cedente nei confronti di altro istituto bancario cessionario, vale a dire da due soggetti entrambi in possesso dei requisiti soggettivi previsti dallo stesso art. 15. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197 La cessione del credito di cui parla espressamente l’art. 15, quindi, non sarebbe questa appena descritta, bensì la cessione di un credito che venga posta in essere proprio con le stesse finalità descritte dalla norma fiscale agevolativa, vale a dire il credito come risorsa economica di cui beneficia il mutuatario (il quale prenderebbe a prestito un diritto di credito da esigere). Solo siffatta cessione qualificata dall’inerenza potrebbe usufruire delle agevolazioni, nella misura in cui, ovviamente, ricorra anche il requisito soggettivo. La scrivente è del parere che la posizione assunta a livello ministeriale mantenga una sua validità e debba continuare ad essere seguita, nei sensi che si vanno ad indicare. La cesura che verrebbe a praticarsi nelle originarie motivazioni che avevano dato vita al rapporto di mutuo agevolato non consentirebbe la permanenza della “ratio” normativa di favore quando la cessione del credito coinvolga soggetti, ancorché abilitati al credito e, perciò, in possesso del requisito soggettivo voluto dallo stesso art. 15, che si muovano in un ottica autonoma, nel perseguimento di interessi altri rispetto a quelli che accompagnano il mutuo fondiario. È evidente, infatti, che la permanenza del requisito soggettivo in capo al cessionario, il quale, cioè, sia anch’esso istituto bancario abilitato al credito a medio e lungo termine, non è di per sé sola sufficiente per predicare l’applicabilit à del regime agevolativo ex art. 15 ad un eventuale cessione del credito che sia sorto da un’operazione di finanziamento già fruente delle medesime agevolazioni. Ma allorché la cessione, pur riguardando un credito (o parte di esso) sorto a seguito di un precedente finanziamento agevolato, è a sua volta finalizzata ad un operazione di finanziamento, essa viene ad integrare il requisito dell’inerenza, per come ipotizzato dalle relazioni ministeriali che si sono sopra citate e, perciò, sempre nella permanenza del requisito soggettivo, si colloca nell’ambito applicativo dell’art. 15. Malgrado codesta Agenzia sembri propensa ad accogliere una nozione di inerenza più lata, la quale colga il collegamento da semplici elementi di diretta correlazione o connessione e, fatto sempre salvo il requisito soggettivo, ciò nonostante si ritiene che non possa prescindersi da un concetto di “inerenza” che sia correlato direttamente alle funzioni sottese alla norma di favore, la quale, anche per questa sua natura, non potrebbe che essere di stretta interpretazione. Quanto sopra, inoltre, sembra trovare una conferma alla luce della giurisprudenza “medio tempore” intervenuta, anche successiva alla richiesta di parere cui si risponde. In particolare ci si riferisce alla sentenza Cass., sez. V, 23 novembre 2004, n. 24164, che accoglie un ricorso della scrivente. Questa sentenza (che, peraltro, si occupa di ipotesi diversa dalla cessione del credito, vale a dire della surroga con pagamento nella posizione del creditore), trae argomenti per affermare una identità di possibilità applicativa dei medesimi principi in tema proprio di cessione del credito. Viene, infat- 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ti, detto nella parte motiva della sentenza che “il momento genetico al quale rapportare la spettanza del beneficio è quello della cessione medesima”. Ciò significa che, una volta fatte le debite distinzioni tra l’ipotesi di surroga del creditore — con conseguente estinzione dell’obbligazione originaria — e cessione del credito — ove il nuovo creditore subentra nella medesima obbligazione — in entrambe le ipotesi è comunque necessario, per stabilire la sopravvivenza delle agevolazioni ex art. 15 del d.P.R. 601/73, fare riferimento al momento dell’ingresso del nuovo soggetto e, perciò, nel nostro caso, al momento della cessione, perchè il perpetuarsi dell’applicazione dei benefici non potrebbe non essere legato alla permanenza della “ratio” che li ha introdotti, e cioè il favorire l’accesso al credito bancario “lato sensu” inteso. La decisione che si è sintetizzata, in buona sostanza, sembra aderire ad un concetto di “inerenza” della cessione del credito all’originario mutuo ipotecario che si connette anche con le su citate risoluzioni ministeriali del 1988 e 1989, escludendo che ci si possa disinteressare di una ricerca, caso per caso, della sussistenza delle ragioni di finanziamento nei motivi del contratto di cessione. In pari tempo, potrebbe utilizzarsi la sentenza della sez.V della Cassazione n. 16410 del 3 novembre 2003, ove è escluso che le agevolazioni ex art. 15 si applichino laddove “viene meno la possibilità di un collegamento fra la garanzia e l’operazione di finanziamento agevolato”, in una fattispecie in cui si trattava di applicazione (negata) delle agevolazioni all’ipoteca concessa a garanzia della restituzione di somme portate da cambiali ipotecarie rilasciate dal mutuatario all’istituto di credito finanziatore, nella considerazione che, in tal caso, l’evenienza della possibilità di circolazione del titolo (e, con esso, dell’ipoteca), è suscettibile di provocare un’eventuale utilizzazione della garanzia ipotecaria per fini diversi da quelli originari attinenti al credito agevolato. Può, allora, trarsi da quanto esposto la conclusione in base alla quale condizioni, entrambe necessarie, a che si possa continuare ad applicare l’art. 15 in caso di cessione del credito oggetto del finanziamento sono le seguenti: che la cessione del credito, già agevolato ex art. 15 del d.P.R. 601/73, avvenga tra due soggetti — cedente e cessionario — abilitati entrambi all’esercizio del credito a medio e lungo termine, e che la cessione stessa sia sorretta da motivazioni che abbiano a che fare con un finanziamento ovvero con l’incremento dell’entità o dell’accessibilità dello stesso. B) Passando alla seconda questione, viene, in buona sostanza, proposta l’ipotesi di mutuo che parte agevolato e che, durante la sua esistenza, subisca una modificazione soggettiva dal lato del creditore del rapporto per l’intervento di una cessione del credito: in siffatto caso l’operatività delle agevolazioni disposte dall’art. 15 che afferiscono alla parte finale ed estintiva del rapporto sarebbe da escludere a causa della cessione predetta, ovvero potrebbe comunque applicarsi per le sole formalità eseguite successivamente alla cessione, poste nell’interesse del debitore (estinzione ipotecaria)? Secondo codesta Agenzia, nel caso in questione sussisterebbero dubbi in quanto, se si volesse favorire il debitore ceduto in sede di formalità di chiu- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199 sura del rapporto, ciò comporterebbe la necessità di contemplare una vera e propria “reviviscenza” dell’applicazione dell’art. 15, interrotta, come si è detto, dalla precedente intervenuta cessione, accadimento, questo, che, sempre secondo codesta Agenzia, potrebbe non essere consentaneo ai meccanismi impositivi tipici dei regimi tributari sostitutivi. A parere della scrivente non si può parlare in siffatti casi di “reviviscenza ”, considerato che le condizioni che avevano dato luogo all’agevolazione al momento dell’accesso al credito permangono, in capo al beneficiato, anche nella fase della chiusura del rapporto, non sussistendo, in relazione a siffatto soggetto, alcuna soluzione di continuità dell’inerenza dell’operazione fruente delle agevolazioni fiscali (estinzione dell’ipoteca) con la “ratio” della concessione del finanziamento. Ciò avviene, perciò, a prescindere dalla evenienza o meno di una cessione del credito nel corso della durata del periodo di finanziamento, inerente o non inerente secondo la prospettazione data alla precedente lettera A). Un diverso approccio, infatti, comporterebbe ingiustificabili effetti pregiudizievoli in capo al debitore. Questi, giunto alla conclusione del rapporto di mutuo ipotecario e dovendo accollarsi l’effettuazione delle formalità di chiusura (ci si riferisce, come detto, soprattutto alla cancellazione dell’ipoteca), si vedrebbe rifiutare, dall’Ufficio competente dell’Agenzia, l’applicazione del regime agevolativo, in ragione del mutamento del soggetto creditore, avvenuto in forza di un atto del tutto estraneo alla sua sfera giuridica e nei riguardi del quale, come noto, il debitore ceduto è in una condizione di mera soggezione, non potendo opporvisi, né essendo richiesto il suo consenso. Non appare, in tal modo, disarmonico al sistema il non sfavorire il soggetto debole e direttamente beneficiano dell’agevolazione, in relazione all’evoluzione temporale di un rapporto di finanziamento che può contemplare vicende sorrette da scelte puramente aziendali da parte dell’istituto di credito mutuante. Sicché, se si verifica una cessione del credito anche non inerente al primitivo rapporto di finanziamento, gli originari benefici fiscali non potranno non continuare ad applicarsi, nella fase terminale del rapporto, al beneficiato finale, coincidente con il debitore ceduto, con esclusione, per converso, della continuazione, nell’applicazione dei benefici stessi, nei casi in cui di essi fossero destinatari il creditore cedente ed il cessionario di una cessione non “inerente”, nel senso richiesto dal medesimo art. 15. Si può, pertanto, concludere la presente consultazione, riepilogandone sinteticamente i contenuti ai seguenti punti: 1) la non inerenza della cessione del credito agevolato, intesa come insussistenza dei requisiti soggettivi e come venir meno degli scopi di finanziamento di cui all’art. 15 del d.P.R. 601/73 — nel senso derivabile altresì dalla citata giurisprudenza della Cassazione — comporta l’interruzione nell ’applicazione dei benefici fiscali recati dalla norma predetta, la quale ultima continua ad applicarsi solo qualora sia rispettata, anche dopo la cessione, la predetta “inerenza”; 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2) anche in caso di cessione dell’originario credito che costituiva oggetto dell’operazione di finanziamento agevolato, inerente o non inerente, i benefici fiscali recati dalla norma di cui all’art. 15 continueranno ed essere applicabili alle vicende modificative ed estintive dell’originario rapporto obbligatorio che riguardino il debitore ceduto (…)». A.G.S. – Parere del 15 maggio 2007 n. 57544. Rivalutazione indennità integrativa speciale ex art. 1 comma 2 Legge 25 febbraio 1992 n. 210 (consultivo 7530/06, avvocato M. Russo). «La questione, proposta all’attenzione dell’Avvocatura Generale dello Stato con nota del Ministero della Salute n. 2419 del 3 febbraio 2006, ha ad oggetto la condotta processuale da tenere nei giudizi in cui si faccia questione della spettanza di interessi e rivalutazione sulla componente dell’indennizzo di cui alla legge 210/92 commisurata all’indennità integrativa speciale, alla luce della sentenza n. 1589/05, della Corte di Cassazione. La problematica aperta da tale sentenza, può essere così sintetizzata: In passato, nei giudizi aventi ad oggetto richieste di indennizzo ex lege 210/92, si era sempre sostenuta la tesi della non debenza della rivalutazione monetaria sulla componente dell’indennizzo di cui alla L. 210/92 commisurata all’indennità integrativa speciale. La Corte di Cassazione, con la citata sentenza n. 1589/05, ha disatteso le argomentazioni che la difesa dell’Amministrazione aveva posto a fondamento della propria posizione. Quanto all’argomentazione che valorizzava – ai fini dell’esclusione della debenza della rivalutazione monetaria sulla componente dell’indennizzo commisurata all’I.I.S. – il fatto che quest’ultima per sua stessa natura fosse già rivalutata, la Corte di cassazione ha osservato: - che l’art. 3 del D.L. 70/84 ha fissato nella misura massima di due punti la variazione dell’I.I.S.; - che il sistema della cosiddetta “scala mobile” è, in generale, venuto meno nell’ordinamento italiano, come espressamente constatato dall’Accordo Governo/Sindacati del 31 luglio 1992. Da ciò, la Corte trae argomento per superare l’osservazione della difesa di parte pubblica, secondo cui non si potrebbe accordare una “doppia rivalutazione ” sulla medesima componente dell’indennizzo. Quanto all’argomento testuale, pure sfruttato dalla difesa del Ministero della Salute, secondo cui la locuzione contenuta nell’art. 2 comma I l. 210/92 “è rivalutato annualmente sulla base del tasso d’inflazione programmato” sarebbe riferibile solo all’indennizzo come definito dallo stesso art. 2 comma 1°, e non anche alla sua integrazione commisurata all’I.I.S. (di cui al II comma dell’art. 2 cit.), lo stesso è superato dalla Corte in considerazione del fatto che – se non rivalutato in ogni sua componente – l’indennizzo ex lege 210/92 perderebbe quella caratteristica di equità, rapportata al pregiudizio alla salute, valorizzata come essenziale dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 307/90 e 118/96. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201 Ciò premesso, la Scrivente, ha reiteratamente richiesto (note 72834 del 16 giugno 2006, 82241 dell’11 luglio 2006, 105834 del 20 settembre 2006, 135048 del 25 novembre 2006 ed infine 30134 dell’8 marzo 2007) al Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato informazioni circa l’eventuale esistenza, al momento attuale, di meccanismi di rivalutazione dell’IIS, sia con riferimento ai trattamenti economici del personale contrattualizzato e non, sia con riferimento agli emolumenti pensionistici. Nelle more delle richieste istruttorie di cui sopra, comunque, il contenzioso non veniva coltivato in sede di legittimità, onde evitare l’aggravio di spese ad esso collegato, considerata la prospettiva di esito sfavorevole in presenza del citato precedente. La Ragioneria, evadendo in parte il quesito proposto (nota del 16 novembre 2006 n. 148060), ha sostanzialmente manifestato adesione alle tesi della Corte di Cassazione, illustrando come ormai l’IIS costituisca una componente fissa dello stipendio, destinata – quindi - solo a concorrere alla determinazione della base di calcolo, in sede di contrattazione collettiva, per la complessiva periodica rivalutazione degli stipendi. Il Ministero della Salute, dal canto suo, ha confermato con nota 5517 del 9 marzo 2007, la circostanza che l’IIS – in sede di liquidazione in via amministrativa degli indennizzo ex lege 210/92 - non viene ormai più rivalutata di anno in anno. Tutto ciò premesso, grazie a tale ultima precisazione del Ministero della Salute, è ormai comunque certo che, di fatto, la componente di indennizzo commisurata all’IIS non viene da tempo più adeguata, di anno in anno, al potere di acquisto della moneta, allorquando l’indennizzo stesso venga liquidato in via amministrativa. Tale circostanza fattuale, a ben vedere - anche indipendentemente dall’esistenza di un meccanismo di rivalutazione periodica degli stipendi complessivamente considerati, ovvero di un sistema adeguativo dell’IIS rispetto al personale non contrattualizzato ed alle pensioni – sembra rendere di difficile superamento l’argomentazione della Corte di Cassazione con cui si smentisce la tesi difensiva della “doppia rivalutazione”. Infatti se, ormai da anni, all’atto pratico, l’Amministrazione considera – ai fini dell’inclusione nell’indennizzo – un importo fisso e predeterminato per così dire “congelato”, non si può più utilmente sostenere la tesi secondo cui la rivalutazione non spetta perché l’IIS nasce già rivalutata. Resterebbe, quindi, la sola argomentazione inerente l’asserita mancanza di equità dell’indennizzo che venga calcolato senza la rivalutazione di tutte le sue componenti. Vero è che tale tesi si presterebbe ad essere confutata, in quanto la valutazione di sproporzione rispetto all’effettivo danno patito dal richiedente pare inconferente, trattandosi non di vero e proprio risarcimento del danno, ma di un mero indennizzo, ed essendo sufficiente - ai fini indennitari - che il ristoro erogato non sia irrisorio, mentre non è indispensabile che esso copra integralmente il pregiudizio subito; tuttavia, occorre tenere conto anche di un ulteriore argomento di carattere testuale, non favorevole all’Amministrazione, che pare invece più difficilmente superabile. 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In effetti, la lettera della norma di cui all’art. 2 legge 210/92 è formulata in maniera non univoca: il comma I, nel riferirsi all’indennizzo di cui all’art. 1, prevede: “è rivalutato annualmente sulla base del tasso d’inflazione programmato”. Si tratta, allora, di stabilire se tale espressione vada riferita solo all’indennizzo, come definito dallo stesso art. 2 comma I, o – piuttosto - all’indennizzo complessivamente considerato, comprensivo - cioè - anche alla sua integrazione commisurata all’I.I.S. (di cui al II comma dell ’art. 2 cit.). La questione, essendo di mera interpretazione ed appalesandosi alquanto incerta, non sembra offrire prospettive certe di successo per la tesi più favorevole all’Amministrazione, tanto più in presenza di un precedente giurisprudenziale sfavorevole quale quello sopra richiamato. Aciò va aggiunto che il carattere seriale delle controversie in materia, ed il lungo tempo necessario ad ottenere un nuovo pronunciamento della Corte (in genere anni), comporterebbero la necessità di incardinare – nelle more di un nuovo pronunciamento della Suprema Corte – numerosissimi giudizi, forse inutili, ed anzi potenzialmente forieri di ulteriori spese. Si ritiene, dunque, di non riproporre la questione in sede di legittimità. (…)». A.G.S. - Parere del 16 maggio 2007 n. 58330. Ministero della Pubblica istruzione (contenzioso 128205/96, avvocato M. Russo). «(…) il legale di controparte richiede il pagamento della quota di Imposta di Registro integralmente corrisposta dalla Sua assistita per la sentenza n. 4968/03 del Tribunale di Roma, a Suo avviso da porsi a carico dell’Amministrazione, in proporzione della quota di compensazione delle spese. Con la presente nota, si invita L’Amministrazione in indirizzo a dare corso a tale richiesta. La Scrivente ritiene infatti che la stessa debba essere accolta, alla luce del quadro normativo vigente. Al Ministero, infatti – che fruisce dell’istituto della prenotazione a debito delle spese di lite, definito all’art. 3 lett. S del d.P.R. 115/02 come “ l’annotazione a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento, ai fini dell’eventuale successivo recupero” – si applica la norma di cui all’art. 159 d.P.R. cit. che, a sua volta, prevede: “Nel caso di compensazione delle spese, se la registrazione è chiesta dall’amministrazione, l’imposta di registro della sentenza è prenotata a debito, per la metà, o per la quota di compensazione, ed è pagata per il rimanente dall’altra parte; se la registrazione è chiesta dalla parte diversa dall’amministrazione, nel proprio interesse o per uno degli usi previsti dalla legge, l’imposta di registro della sentenza è pagata per intero dalla stessa parte. Tale previsione, relativa alle modalità di corresponsione dell’imposta (che peraltro, nella specie, è stata invece intimata a mezzo cartella esattoria- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203 le rivolta alla parte privata) va coordinata con la norma tributaria di cui all’art. 57 I° comma d.P.R. 131/86, che pone l’obbligo di pagamento dell’imposta stessa solidalmente a carico delle parti in causa, intesa dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (ex multis Cass. SS.UU. 8533/90) nel senso che, nei rapporti interni fra le parti in causa, all’anticipatario solidalmente coobbligato al pagamento spetta la ripetizione della quota gravante sull’altra parte. Per tale ragione, nonché in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 159 cit., spetta a controparte la restituzione della metà dell’importo versato. (…)». A.G.S. – Parere del 26 maggio 2007 n. 62762. Comando del personale militare – ammissibilità (consultivo 38914/06, avvocato P. Gallo). «1.- (…) codesto Ufficio chiede un parere circa l’applicabilità dell’istituto del comando, di cui agli artt. 56 e 57 d.P.R. n. 3 del 1957, anche al personale militare; ed a tal fine rappresenta che: - negli anni, si è instaurata e consolidata una prassi amministrativa che ha consentito l’utilizzo del comando anche per il personale militare, nel convincimento che tale istituto sia da ritenersi applicabile, per analogia, anche al predetto personale; - lo stesso Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato IGOP si è espresso favorevolmente, nel 2003, su un provvedimento di comando di un ufficiale dell’Aeronautica militare presso un ente pubblico; - successivamente, nel rispondere ad un quesito con il quale il Ministero degli Affari Esteri chiedeva di poter destinare quote del FUA al personale delle Forze armate in posizione di comando, il medesimo Dipartimento esprimeva incidentalmente l’avviso che l’istituto del comando in esame non potesse trovare applicazione per i militari, nel presupposto che l’ambito operativo della normativa sarebbe ristretto esclusivamente al personale civile; ed a sostegno di tale tesi l’IGOP ha evidenziato che l’articolo 17 del d.p.c.m. 25 settembre 1999, n. 448, come sostituito dal d.p.c.m. 14 gennaio 2005, n. 93, al comma 3, in base al quale è stato disposto il comando di personale militare al Ministero degli Affari Esteri, nel rinviare per il personale militare ai rispettivi ordinamenti, intenderebbe confermare l’inapplicabilità dell’istituto del comando al citato personale; - con nota DFP/10048/1232 del 2 marzo 2006, l’Ufficio Personale Pubbliche Amministrazioni (UPPA) del Dipartimento della Funzione Pubblica, ha richiamato la natura pubblicistica dell’ordinamento delle forze armate e l’assoggettamento a regolamentazione speciale, ai sensi dell’articolo 3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, osservando conclusivamente che, dall’esame di tale disciplina di settore, non emergono rinvii all’istituto del comando né alle norme generali concernenti il pubblico impiego tali da consentire il ricorso al predetto istituto; 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - a tale conclusione potrebbero tuttavia ostare un complesso di indici normativi e giurisprudenziali che, anche se non espressamente, hanno sempre implicitamente considerato applicabile l’istituto in esame anche al personale militare. 2.- Premesso quanto precede, ritiene la Scrivente che l’istituto del comando disciplinato agli artt. 56 e 57 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, possa considerarsi applicabile anche al personale militare sulla base delle considerazioni che seguono. In primo luogo deve considerarsi che una tale estensione, largamente diffusa in via di prassi, è già stata considerata legittima, anche se solo implicitamente, in diverse pronunce giurisprudenziali: così nella decisione resa da Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2828, che, come ricordato da codesto Dipartimento, nel riconoscere la possibilità di attribuire l’indennità giudiziaria al personale militare in posizione di comando presso gli Uffici giudiziari presuppone evidentemente la legittimità di una tale forma di impiego; nella decisione resa da Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 44; nonché, ancora, nella decisione resa da Cons. Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5759. Nello stesso senso si è espressa anche la Scrivente Avvocatura Generale dello Stato, con specifico riferimento al problema dell’applicabilità del comando o distacco di militari della Guardia di finanza presso organi regionali, rendendo parere positivo con nota del 5 luglio 2005 n. 90825. 3.- Sotto altro profilo, all’impiego del personale militare in posizione di comando presso altre Amministrazioni non osta nemmeno l’argomento della generale inapplicabilità del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (recante approvazione del testo unico degli impiegati civili dello Stato) al personale militare, posto che in alcuni casi la giurisprudenza non ha esitato ad attribuire alle disposizioni del testo unico suddetto il valore di norme di diritto comune del pubblico impiego, vieppiù in difetto di specifiche disposizioni dell’ordinamento giuridico militare: così, ad esempio, con riferimento ai diversi termini del procedimento disciplinare (su cui, ex multis, cfr. Corte Cost., 27 luglio 2000, n. 375; Corte Cost., 11 marzo 1991, n. 104; Cons. Stato, sez. IV, 19 aprile 1999, n. 659; Cons. Stato, sez. IV, 27 marzo 1995, n. 195; Cons. Stato, sez. IV, 3 ottobre 1994, n. 773). 4.- Per quanto concerne poi il profilo della compatibilità del ricorso all’istituto del comando con lo status giuridico del personale militare, talché l’applicazione del primo non deve comportare una sostanziale modifica del secondo, una valutazione a priori risulta in proposito estremamente difficoltosa, posto che l’assenza di astratti parametri di riferimento rendono ampiamente opinabile ogni possibile conclusione. Sul punto potrebbe peraltro osservarsi che la astratta compatibilità del comando con lo status giuridico del personale militare sembra potersi desumere dalla diffusione che una tale applicazione ha conosciuto nella prassi amministrativa. Benché un tale argomento non possa certo essere considerato risolutivo, atteso che il formarsi di una prassi di per sé non assicura la legittimità dell’azione amministrativa, ciò non toglie tuttavia che la stessa possa nel caso di specie costituire un fattuale ed utile indice di riferimento al fine di formulare quello che costituisce un I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205 difficile apprezzamento di merito (l’incertezza del quale renderebbe comunque opportuno un intervento normativo ad hoc). Una tale valutazione, come visto comunque difficile ed opinabile in astratto, risulta invero molto più agevole in concreto (con riferimento cioè alle singole posizioni di comando di volta in volta disposte) ove l’estremo della compatibilità potrà e dovrà quindi essere apprezzato caso per caso. 5.- L’applicabilità del comando anche al personale militare sembra infine potersi considerare autorizzata anche in base ad un argomento di diritto positivo, desunto da un’attenta analisi del combinato disposto degli artt. 17 d.p.c.m. 14 gennaio 2005, n. 93, e 30 l. 9 luglio 1990, n. 185. Tale ultima disposizione prevede infatti che “per lo svolgimento delle attività connesse al rilascio delle autorizzazioni previste dalla presente legge, nel regolamento d’esecuzione di cui all’articolo 29 saranno emanate, ai sensi degli articoli 56 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, norme per il distacco al Ministero degli affari esteri di personale di altre amministrazioni”. L’art. 17 cit. a sua volta stabilisce che “con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta nominativa o per unità organiche del Ministro degli affari esteri, di concerto con i Ministri interessati, viene stabilito ed aggiornato il contingente di personale, anche militare, di altre amministrazioni, dotato dei requisiti di professionalità necessari per lo svolgimento delle attività di cui alla legge e al presente regolamento, da distaccare al Ministero degli affari esteri ai sensi dell’articolo 30 della legge e delle seguenti disposizioni” (comma 1) e che “il personale di cui al comma 1 è collocato presso il Ministero degli affari esteri in posizione di comando per un periodo non inferiore a due anni” (comma 2). Orbene, una tale disposizione è stata invocata in senso ostativo all’applicazione del comando al personale militare adducendo che la stessa sarebbe da considerare di carattere eccezionale e, quindi, espressione di un generale principio di incompatibilità tra l’istituto del comando e l’impiego militare. Una tale conclusione non pare tuttavia corretta. In proposito bisogna infatti considerare che l’art. 30 cit., nel rinviare all’emanando regolamento di esecuzione, fa espresso riferimento agli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St., senza espressamente autorizzare in tale cornice anche l’impiego di personale militare. L’applicazione delle disposizioni degli artt. 56 e 57 cit. anche al personale militare è prevista unicamente ed esclusivamente nel testo del regolamento di esecuzione, adottato appunto con d.p.c.m. 14 gennaio 2005, n. 93, il cui art. 17, comma 1, contempla il personale “anche militare … da distaccare al Ministero degli affari esteri ai sensi dell’articolo 30 della legge e delle seguenti disposizioni”. Una tale disposizione, dovendo osservare i confini ed i limiti dell’art. 30 cit. cui espressamente rinvia, non avrebbe potuto estendere ex se, vieppiù in deroga ad un eventuale divieto di rango legislativo, l’applicazione dell’istituto del comando “anche al personale militare”: una tale disposizione di rango regolamentare non può infatti assumere, essa sola, valore di norma eccezionale e derogatoria bensì postula, al contrario, che una tale estensione 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sia già consentita nel sistema normativo di riferimento dello stesso art. 30 cit., costituito appunto dagli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St. Né in senso contrario si dica che l’art. 30 cit. menziona solamente l’istituto del distacco e non quello del comando; tale disposizione infatti intende il termine distacco come sinonimo di quello di comando, atteso l’espresso rinvio della stessa disposizione agli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St., che disciplinano appunto il comando e non il distacco degli impiegati dello Stato. Alla luce di tali considerazioni, quindi, l’art. 17 cit. deve intendersi quale confermativo di un principio generale che include il personale militare nell ’ambito di applicazione degli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St., posto che diversamente lo stesso sarebbe addirittura da considerarsi in parte qua illegittimo, perché adottato in difetto di una disposizione di legge che autorizzerebbe la supposta deroga. Considerato quanto precede, si esprime dunque l’avviso che l’istituto del comando di cui agli artt. 56 e 57 t.u. imp. civ. St. possa considerarsi applicabile anche al personale militare, nonostante il difetto di specifiche disposizioni in tal senso. (…)». A.G.S. – Parere del 26 maggio 2007 n. 62781. Uso del nome a dominio www.forzearmate.org (consultivo 5464/07, avvocato V. Rago). «Si chiede alla Scrivente di valutare l’opportunità di avviare un’azione legale a tutela dell’immagine e dell’identità dell’Amministrazione nei confronti di una società di servizi che possiede e gestisce un sito Web denominato www.militari.org, collegato strettamente ad altro sito Web www.Forzearmate.org, contenente materiale giuridico ed utilità di vario tipo, predisposto specificamente per militari. Si ritiene il sito lesivo perché l’uso del nome a dominio “forze armate potrebbe ingenerare delle false conoscenze da parte degli utenti, in quanto potrebbe essere ritenuto un sito ufficiale del Dicastero della Difesa, che invece è www.difesa.it. Il fatto che vi siano servizi a pagamento potrebbe comportare una visione poco edificante dell’immagine dell’Amministrazione della Difesa”. Si precisa, inoltre, che si potrebbe anche valutare di ritenere sussistente il reato di contraffazione del marchio relativo al sito ufficiale del Ministero, peraltro mai registrato come marchio. Giova precisare che, così come è stato chiarito dalla Scrivente in una precedente consultazione, il successo di Internet è coinciso con la crescita esponenziale dei computer interconnessi. Per tale ragione è divenuto urgente aiutare i fruitori a districarsi tra i milioni di siti che offrono informazioni attraverso lo sviluppo dei cd. strumenti NIR (Network Information Retrieval), volgarmente detti software di navigazione. Tra questi il più diffuso, come a tutti noto, è il World Wide Web, con architettura ipertestuale. Ogni singolo computer interconnesso ad Internet ha, in tale contesto, un identificativo di carattere numerico, l’indirizzo IP, come avviene per gli apparecchi telefonici. Allo scopo di rendere più agevole lo stabilire una rela- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207 zione tra un numero e una qualche entità - ad esempio il soggetto che immette informazioni in un determinato host - si è pensato di istituire un altro sistema per individuare computer interconnessi nella rete: il cd. FQDN (Fully Qualified Domain Name) basato sui domini. Tale premessa, che richiama fatti noti ormai a tutti, sembra comunque un valido punto di partenza per chiarire come il nome di dominio esplichi a livello essenziale e ontologico, prima ancora che giuridico, una vera e propria funzione di identificazione e di localizzazione dei nodi e dei loro gestori. Non sembra pertinente al caso di specie la pur copiosa serie di precedenti che equipara il domain name al marchio o comunque al segno distintivo, in almeno uno dei soggetti in contesa che agisca al fine di tutelare il proprio dominio-marchio da pregiudizi arrecati da terzi, che siano o non imprenditori oppure il titolare del marchio da terzi anche non imprenditori che registrino domini caratterizzati dal marchio. Nel caso in esame, poi, non sembra che il sito www.forzearmate.org contenga - da un punto di vista formale - alcun riferimento al nome “ministero della difesa”. Oltre tutto codesto Ministero riferisce di non avere mai provveduto a registrare come marchio il sito “www.difesa.it”. Il caso sembra piuttosto inquadrabile, a titolo puramente descrittivo, nel cd. “domain name grabbing”, consistente nella registrazione da parte di terzi in malafede di un nome di persona. Occorre, nel caso di specie, interrogarsi se sussistono i presupposti per ritenere che il nome a dominio “militari.org”, ovvero il sito a cui tale nome viene rilanciato “forzearmate.org” sia stato o meno registrato con malafede, in spregio della denominazione di un soggetto pubblico investito di funzioni particolarmente delicate, quale il Ministero della Difesa. Nel precedente parere sopra citato, questa Avvocatura aveva, in effetti, ritenuto esistente una confusione negli utenti, perché il sito aveva come nome di dominio proprio “sismi.it”, identico al termine sintetico con il quale vengono comunemente identificati i Servizi di Informazione e Sicurezza della Repubblica Italiana. Ove anche nella fattispecie in esame fosse possibile riscontrare le stesse caratteristiche di confusione, poiché i due siti hanno utilizzato l’estensione “.org” (e non quella “.it”), non potrebbe utilizzarsi il sistema di tutela - peraltro di tipo privatistico - assicurato dalla “Commissione per le regole e procedure tecniche costituita nell’ambito dell’Istituto di Informatica e telematica del C.N.R. per le attività di Registro del country code Top Level Domain “it””(si allega, per ogni buon conto, il Regolamento di detta Commissione). Si potrebbe, invece, ipotizzare la tutela del nome prevista dall’art. 7 c.c. sui noti presupposti dell’usurpazione e del pregiudizio economico e morale che può derivare a danno del titolare, anche in sede cautelare. In questo senso si è già pronunciata la giurisprudenza, in modo condivisibile e in situazioni analoghe al caso di specie, avendo riconosciuto la ricorrenza degli estremi del “domain name grabbing”, appropriazione del nome 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO altrui attraverso la registrazione (per tutti si veda Tribunale di Torino del 23 dicembre 2000, presidente Salvetti). Ciò premesso, giova osservare che, ad avviso di questa Avvocatura, un rischio di confusione non appare così sicuramente sussistente, come sostenuto da codesta Amministrazione, ove si consideri che, a ben vedere, il sito ritenuto lesivo dell’immagine dell’Amministrazione non sembrerebbe contenere elementi che ingenerano una vera e propria confusione con quello del Ministero della Difesa e, comunque, in ogni caso, la prova della confusione sembrerebbe di difficile dimostrazione in un eventuale giudizio, avuto riguardo alle seguenti osservazioni. Ed infatti, negli utenti, non è pacifica una vera e propria confusione, sia perché l’estensione è, come detto, quella “.org” e non quella “.it”, utilizzata per tutti i siti istituzionali; sia perchè nel sito in questione non viene mai citato il nome del Ministero della Difesa; sia perché digitando, con uno dei motori di ricerca più utilizzati, quale www.google.it , i termini “difesa”, “stato maggiore”, “esercito” o simili, vengono raggiunte tutte pagine del sito istituzionale (esercito, persmil, aeronautica, ecc.) e non anche quelle del sito www.forzeramate.org , ritenuto lesivo. Digitando, invece, il termine “militari o quello “forze armate”, si raggiungono, in effetti, le pagine del sito in questione, ma nella stringa di ricerca, vi è la indicazione “società SideWeb”, senza alcun riferimento alla circostanza che si tratta di un sito istituzionale. Esaminando la “home page” del detto sito, subito accanto alla dizione www.forzearmate.org - assente il termine “Ministero della Difesa” - appare subito in evidenza il nome della società, con la precisazione che si tratta di un sito di “Informazione - Tutela legale consulenza telefonica, scritta e assistenza - Banca dati giuridica”. Nella pagina non vi è alcun elemento che possa collegare il sito ad uno “istituzionale” proprio dell’Amministrazione; in particolare, non vi è il logo della “Repubblica Italiana, che si trova in tutti i siti istituzionali di Amministrazioni statali. Entrando nelle sottopagine, facilmente raggiungibili attraverso dei “links”, posti nelle immediate vicinanze del nome del sito - sezione “Chi siamo – I servizi” -, si chiarisce che il sito è gestito da una società di servizi che “fornisce informazione, assistenza e consulenza legale, al fine di offrire a tutti i cittadini, militari inclusi, un punto di riferimento solido e sicuro in merito a tali attività. In particolare, si occupa di studio e approfondimento della legislazione nazionale e comparativa relativa agli appartenenti alle forze armate e forze di polizia”. Si precisano anche le modalità di utilizzazione dei servizi del sito, alcuni dei quali sono a pagamento. Tornando alla “home page”, essa si compone di tre colonne. Nella prima si trovano alcuni “links”, contenenti utilità varie, sia di carattere generale (giornali, stampa, borsa. Finanza, titoli, lotto, salute, promozioni, offerte, ecc), sia di collegamento tra utenti del sito (chat, newsletter, blog). Nella seconda colonna, alcuni argomenti in “primo piano, contenenti notizie rela- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209 tive allo stato giuridico dei militari, oltre a news su convegni e/o concorsi pubblici. Nella terza colonna, vi è la pubblicità su alcuni servizi di consulenza e assistenza legale offerti dal sito. Ciò premesso, si ribadisce anzitutto che è da escludere la possibilità di un’azione a tutela di un marchio, ove si consideri anche che, come viene riferito nella richiesta di parere e come già sopra precisato, il sito ufficiale del Ministero della Difesa non è mai stato registrato. A ciò aggiungasi, in ogni caso, che la giurisprudenza di legittimità, con riferimento all’ipotesi di contraffazione di marchio, ha, anche di recente, avuto modo di chiarire che “Ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali) non è sufficiente la mera possibilità di confusione tra due marchi, regolarmente registrati, ma è necessaria la materiale contraffazione o alterazione dell’altrui marchio (Cass., sez. V, 9 marzo 2006). Nel caso di specie, questo requisito sembra mancare, perché nel sito www.forzearmate.org non si riscontra una contraffazione o alterazione del marchio del Ministero, peraltro neanche registrato. Né si può ipotizzare una violazione dell’identità dell’Amministrazione nella sola utilizzazione del nome “forze armate”, tenuto conto che vi sono, all’attualità, molte riviste cartacee che, pur contenendo nel nome il riferimento a corpi militari (es., Carabinieri, Polizia Oggi, ecc.), è chiaro che si tratta di riviste proprie di associazioni sindacali inserite nell’ambito dell’Amministrazione militare. Il sito www.forzearmate.org, piuttosto, si presenta come un sito di servizio - per cittadini e militari - peraltro svincolato da una funzione ed una veste istituzionale. Nondimeno, poiché permane, comunque, un dubbio, questa Avvocatura provvederà ad inviare alla società un invito, perché venga, in ogni caso, inserita nel sito la precisazione che non si tratta di un sito istituzionale del Ministero della Difesa. Sin d’ora si precisa, peraltro, che ove l’invito dovesse avere esito negativo, ben difficilmente un’azione legale promossa nei confronti della società potrebbe avere un esito favorevole e comporterebbe un inutile aggravio di spese di lite (…)». A.G.S. – Parere del 14 giugno 2007 n. 69504 Risultanze verifica amministrativo-contabile dell’Ispettorato Generale di Finanza sulla Croce Rossa Italiana (consultivo 12990/07, avvocato V. Rago). «(…) è stato chiesto alla Scrivente un parere circa “la possibilità di considerare definitivamente acquisite, per il Personale Dipendente, le somme già riscosse a titolo di compenso incentivante negli anni pregressi”. Secondo quanto riferito da codesto Ente, il quesito investe principalmente i pagamenti effettuati negli anni 2003 e 2004. Nel 2005 sono stati versati 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ai dipendenti solo acconti, ai quali non ha fatto seguito il saldo per l’intimazione del Collegio dei Revisori a non provvedere a pagamenti ulteriori. La restituzione di quanto già pagato può essere richiesta solo a titolo di indebito. Ai sensi dell’art. 2033 c.c. il presupposto per la configurabilità di un indebito è che si sia eseguito una pagamento non dovuto. Secondo quanto riferito da codesto Ente il personale ha ricevuto compensi, determinati in conformità alla contrattazione collettiva, per prestazioni effettivamente effettuate. Sono stati, dunque, pagati crediti sulla cui esistenza non sono state sollevate contestazioni in alcuna sede. Eventuali richieste di restituzione, come pure rilevato da codesto Ente, provocherebbero di sicuro un ampio contenzioso il cui esito, altrettanto sicuramente, sarebbe negativo con aggravio delle spese. I rilievi dei Revisori dei conti investono i criteri di formazione dei Fondi utilizzati per i pagamenti. Come è stato messo in rilievo nella nota che si riscontra, le argomentazioni che li sorreggono attengono all’aspetto finanziario e non toccano la esistenza dei crediti degli interessati e, di conseguenza, le obbligazioni a carico di codesto Ente. Dalle informazioni fornite risulta che i rilievi di ordine finanziario sono in via di superamento. Gli aspetti civilistici, attinenti alle obbligazioni nei confronti dei dipendenti, saranno indifferenti alla soluzione che sarà data ai problemi finanziari, qualunque essa sia, cosicché manca qualunque possibilità che i pagamenti intervenuti, che attualmente sicuramente non lo sono, possano diventare indebiti successivamente (…)». A.G.S. - Parere del 14 giugno 2007 n. 69515 Cittadini esteri coinvolti in situazioni di emergenza in Italia. Tutela della privacy e rispetto della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari (consultivo 13697/07, avvocato D. Ranucci). «(…) codesta Amministrazione rappresenta che l’Unità di Crisi si è spesso trovata nella situazione di dover fornire alle Rappresentanze diplomatico- consolari accreditate in Italia i nominativi di cittadini stranieri coinvolti in situazioni di emergenza. Ciò è accaduto anche di recente, in occasione del dirottamento di un aereo della Turkish Airlines, poi atterrato a Brindisi. Il problema applicativo sorge per effetto dell’ipotetico contrasto tra la disciplina nazionale in materia di privacy e gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari (la cui ratifica ed esecuzione sono contenute nella legge 9 agosto 1967, n. 804). Infatti mentre ai sensi dell’art. 1 del codice privacy (d.vo 30 giugno 2003, n. 196) “chiunque – compreso il cittadino straniero presente sul territorio nazionale - ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguarda- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211 no”, gli artt. 36 e 37 della Convenzione sanciscono l’obbligo dello Stato di residenza di informare gli uffici consolari accreditati presso di esso, in ordine al coinvolgimento di loro cittadini in determinate fattispecie di evento (arresto, incarcerazione, decesso, nomina di curatori o tutori, disastro navale). Posto che, a parere della Scrivente, le disposizioni della convenzione, emanata nel 1967, si prestano ad una interpretazione estensiva tale per cui possono ritenersi applicabili anche a ulteriori situazioni di emergenza non ivi espressamente contemplate, quali quelle, conseguenti ad atti di terrorismo o disastri aerei, tipiche dell’attuale momento storico, che la realtà sociale e giuridica dell’epoca, palesemente diversa dalla attuale, non poteva prevedere per evidenti ragioni oggettive, la soluzione del quesito posto alla attenzione della Scrivente postula l’analisi, in via prioritaria, dei rapporti tra le due fonti normative. Note sono le problematiche che si sono poste a seguito della modifica dell’art. 117 Cost. attuata con L.Cost. n. 3/2001, atteso che essa ha profondamente mutato il quadro dei rapporti tra norme esterne e norme interne. Prima della modifica infatti si riteneva che i trattati internazionali venissero ad assumere nell’ordinamento interno la medesima posizione dell’atto che avesse dato loro esecuzione, con la conseguenza di concludere che “quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria essi acquistano la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva” (Corte cost. 6 giugno 1989, n. 323). Dalla analisi dell’art. 10, primo comma, Cost. (“l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute ”) si inferiva infatti che il costituente avesse inteso dotare di copertura costituzionale solo le norme di origine consuetudinaria e non quelle del diritto internazionale convenzionale. Tale impostazione, secondo parte della dottrina, appare essere mutata, e la questione del rango, nel nostro sistema, delle fonti di produzione delle norme convenzionali introdotte nell’ordinamento interno tramite ordine di esecuzione, avrebbe avuto una significativa svolta a seguito dell’emanazione della citata legge costituzionale, che ha modificato l’art. 117 Cost. nel senso che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto … dei vincoli derivanti ... dagli obblighi internazionali”. Si sostiene quindi da taluni autori che la modifica costituzionale sia intervenuta sul sistema della gerarchia delle fonti di produzione nel senso di attribuire alle norme, introdotte per mezzo di ordine di esecuzione contenuto in legge, una tutela costituzionale rafforzata rispetto alle altre norme dello stesso rango, così mutuando la soluzione già prevista dall’art. 10 Cost., comma secondo, per gli accordi internazionali relativi alla condizione giuridica dello straniero (“la condizione giuridica dello straniero è dettata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”; in tal senso CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2002, p. 321). Ciò peraltro non comporterebbe che il diritto internazionale pattizio occupi nel sistema delle fonti la stessa posizione delle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, atteso che mentre i trattati, una volta entrati 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO a far parte dell’ordinamento, occupano un rango superlegislativo ma subcostituzionale, la giurisprudenza costituzionale afferma che l’art. 10, primo comma, garantisce l’adattamento (automatico) del diritto interno alle norme corrispondenti a consuetudini internazionali anche quando ciò comporta deroghe alle norme della Costituzione (Corte cost. 18 giugno 1979, n. 48). Ciò posto, a parere di questa Avvocatura, la soluzione del quesito sembra potersi trarre più che dall’art. 117 Cost, le cui difficoltà applicative sono subito state individuate e dalla dottrina e dalla giurisprudenza, dal precedente art. 10 Cost., nella considerazione che gli artt. 36 e 37 Convenzione di Vienna sono in realtà espressione di un principio consuetudinario, ribadito anche nell’art. 5 lett. e) della stessa convenzione, secondo cui gli Stati (di invio) hanno il diritto/dovere di tutelare i propri cittadini che si trovino all’estero in situazioni di emergenza. In questa prospettiva l’oggetto dell’analisi si sposta dal tema del rapporto tra diritto consolare/diritto interno a quello del rapporto tra norme consuetudinarie/ norme interne, e trova quindi soluzione nel principio di adattamento automatico del diritto interno alle norme espressione di consuetudini internazionali, recato dall’art. 10 Cost. Ad analoga conclusione si giunge inoltre anche attraverso l’ulteriore percorso interpretativo accolto, in analoga fattispecie, dalla giurisprudenza, post modifica art. 117 Cost., secondo la quale “ la regolamentazione di un rapporto contenuta in un Trattato internazionale ratificato da legge interna, trova fondamento nella Costituzione (artt. 10 e 117) e costituisce disciplina eccezionale, non applicabile se non nei casi previsti (art. 14 preleggi), in deroga alle previsioni normative sulla successione delle leggi nel tempo (ar1 e 15 preleggi)” (Cass. Sez. I, n. 5352/2007). In tale decisione la Suprema Corte ha chiarito che la norma nazionale successiva non può derogare né entrare in conflitto con la norma pattizia anteriore, nella considerazione che la disciplina contenuta nella norma pattizia ha natura eccezionale, tale da giustificare la sussistenza di un rapporto di specialità tra norma pattizia e norma interna. Da tanto discende che, a fronte di un contrasto tra norma convenzionale introdotta con legge e legge interna successiva, gli organi nazionali dovranno assicurare la prevalenza della norma internazionale. Tale prevalenza dovrà innanzitutto provare ad essere realizzata sul piano interpretativo e, laddove l’incongruenza non sia componibile su tale piano, in base al principio di specialità dovrà applicarsi la norma pattizia quale norma eccezionale che deroga alla norma generale. In conclusione, in virtù del principio di specialità deve darsi prevalenza alla norma convenzionale sulla norma legislativa nazionale, e quindi assicurare la piena esecuzione dell’art. 36, primo comma, lett. a), della Convenzione, che stabilisce che “i funzionari consolari devono poter liberamente comunicare con i cittadini dello Stato d’invio e recarsi presso di loro”, e che “le leggi e i regolamenti dello Stato di residenza devono permettere la completa realizzazione degli obiettivi per i quali i diritti sono accordati in virtù del presente articolo”. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213 Da quanto esposto discende che la richiesta di informazioni ex art. 36 Conv., proveniente dalle Rappresentanze diplomatico-consolari estere accreditate in Italia, pone l’obbligo di codesta Amministrazione di fornire loro i nominativi di cittadini stranieri coinvolti in situazioni di emergenza nel territorio italiano, senza che possa ipotizzarsi quale ostacolo l’applicabilità della disciplina nazionale sulla privacy. Analoga conclusione si impone anche in relazione alla diversa ipotesi, di cui all’art. 37 lett. c) della Convenzione, che prevede un obbligo di informazione che prescinde da qualsiasi richiesta, a carico delle Autorità nazionali. Tale norma infatti obbliga l’amministrazione competente ad informare l’ufficio consolare più vicino al luogo ove si è verificato l’evento, in caso di incidente navale relativo a imbarcazione avente nazionalità dello Stato d’invio (cioè estera) o ivi immatricolata. Vero è che tale disposizione ha riguardo ad una specifica fattispecie di emergenza, l’incidente navale: tuttavia della stessa appare opportuna, per le ragioni sopra esposte, una lettura estensiva ed evolutiva, che tenga conto del rilievo che ha assunto negli ultimi tempi il pericolo connesso al terrorismo internazionale, così da ritenerne la riferibilità anche ad eventi analoghi a quelli in essa contemplati, come il dirottamento di un aereo o il coinvolgimento di cittadini stranieri in attentati terroristici. Alla conclusione accolta si perviene infine anche per altra via, e quindi prescindendo dalle considerazioni sopra svolte, qualora si consideri che in situazioni di emergenza, quali il dirottamento di un aereo o calamità naturali, la comunicazione dei nominativi dei cittadini dello Stato estero coinvolti alle relative Rappresentanze diplomatiche risponde alla necessità di tutelare diritti primari, perché relativi alla sicurezza e incolumità delle persone, di rango senza dubbio superiore rispetto al diritto alla riservatezza. In tali ipotesi, pur volendo considerare la comunicazione in discorso in contrasto con il diritto alla privacy, non è dubbio che la condotta appare giustificata dalla esigenza di tutelare il diritto di tali soggetti a ricevere assistenza da parte dello Stato di appartenenza, necessaria in situazioni di estrema emergenza quali appunto il coinvolgimento in attentati terroristici. In questa prospettiva le problematiche legate alla disciplina sulla privacy appaiono pertanto superate, vertendosi in una classica ipotesi di stato di necessità o di adempimento di un dovere (…)». A.G.S. – Parere del 15 giugno 2007, n. 70269. Atti di pignoramento ex art. 72 bis d.P.R. 602/73 (consultivo 1303/07, avvocato M. Russo). «(…) codesta Avvocatura riferisce che il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ha formulato richiesta di parere in ordine alla problematica di cui all’oggetto. Trattandosi di questione di rilevanza di massima, la stessa è stata quindi sottoposta dall’Avvocatura Distrettuale de l’Aquila all’attenzione della Scrivente, la quale rende al riguardo il seguente parere. Si premette che i quesiti articolati dal Comando Generale in indirizzo 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO attengono, in particolare, al comportamento da serbare da parte del terzo pignorato nelle procedure esecutive presso terzi poste in essere dal Concessionario, alla luce del sopravvenuto intervento legislativo che ha significativamente inciso sul testo dell’art. 72 bis citato. In particolare, con il primo quesito, l’Amministrazione chiede di conoscere quale condotta tenere nel caso di: – incapienza per concorso di cessione e più delegazioni di pagamento, anche quando tale concorso comporti una riduzione del trattamento economico pignorato oltre il 50%; – alimenti già altrimenti dovuti dal pignorato, anche con superamento del 50% del trattamento stipendiale, ovvero entro il predetto limite anche se in concorso con più cessioni o delegazioni; – sospensione dall’impiego con riduzione del trattamento stipendiale al 50%; Con riferimento al suesposto quesito la Scrivente ritiene che, come correttamente osservato dall’Avvocatura Distrettuale in indirizzo, a fronte di notifica di pignoramento ex art. 72 bis cit., l’Amministrazione possa legittimamente rimanere inottemperante all’ordine e continuare a corrispondere al militare esecutato il trattamento economico spettategli, ove l’incapienza stipendiale sia dovuta a: concorso di cessioni e/o delegazioni di pagamento, qualora tale concorso comporti una riduzione del trattamento economico del pignorato del 50% (limite stabilito dagli artt. 68, II comma e 69, II comma del d.P.R. 180/1950); - alimenti già altrimenti dovuti dal pignorato, con superamento del 50% del trattamento stipendiale, ovvero entro il predetto limite, ma in concorso con cessioni o delegazioni di pagamento con riduzione complessiva del trattamento economico del pignorato dei 50% (limite desumibile, quanto agli alimenti, dall’art. 545, commi III e V, c.p.c.) - sospensione dall’impiego con riduzione del trattamento stipendiale al 50% (trattasi, in tal caso, di credito per “assegno alimentare” - v. art. 82 d.P.R. 3/1957 -, non pignorabile dal Concessionario della riscossione in forza dell’art. 545, I comma, c.p.c.). Parrebbe tuttavia opportuno, pur nel silenzio normativo ma al fine di prevenire eventuali rilievi di responsabilità a carico dell’operatore amministrativo, che detta inottemperanza venga esplicitata tramite invio di circostanziata dichiarazione stragiudiziale direttamente al Concessionario procedente, con l’indicazione delle disposizioni di legge che nei casi specifici impongono di non dar seguito all’ordine medesimo. Ovviamente, la procedura ora descritta parrebbe senz’altro adottabile, in via generale, anche nei casi di incapienza dovuta a precedenti pignoramenti (art. 545, commi IV e V, c.p.c.). Si viene, ora, all’analisi della seconda parte del quesito proposto dall’Amministrazione in indirizzo, con la quale si chiede di conoscere quale condotta tenere con riferimento ai casi di pignoramenti notificati prima della novella di cui al d.l. 262/06, con particolare riferimento agli emolumenti pensionistici. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 215 Si pone infatti, al riguardo, un problema di individuazione del regime intertemporale applicabile, posto che la norma è stata novellata dal d.l. 262/06: nell’originaria formulazione – infatti – l’art. 72 bis del d.P.R. 602/73 recitava: “L’atto di pignoramento del quinto dello stipendio contiene, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, n. 4), del codice di procedura civile, l’ordine al datore di lavoro di pagare direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per il quale si procede e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto dello stesso codice di procedura civile: a) nel termine di quindici giorni dalla notifica del predetto atto, il quinto degli stipendi non corrisposti per i quali, sia maturato, anteriormente alla data di tale notifica, il diritto alla percezione; b) alle rispettive scadenze, il quinto degli stipendi da corrispondere e delle somme dovute a seguito della cessazione del rapporto di lavoro”; il testo novellato, invece, reca la seguente modifica: “Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede…” In effetti, il problema dell’applicabilità dell’art. 72 bis alla materia pensionistica, ora espressamente esclusa - ma che doveva probabilmente esser tale anche nella precedente formulazione dell’articolo - nasce dalla circostanza in punto di fatto che in talune sedi erano stati effettuati pignoramenti relativi a redditi di pensione. Ciò posto, è altresì opportuno specificare che, a ben considerare, con la norma in parola non è stata introdotta un’ “impignorabilità” stricto sensu di tali ultimi emolumenti, atteso che la norma prevede piuttosto (solamente) la non praticabilità nei confronti degli stessi della procedura esecutiva presso terzi semplificata di cui all’art. 72 bis. Una volta chiarito quanto sopra, si espone quanto segue. Occorre, prima di tutto, chiarire cosa debba intendersi per “atti compiuti nella vigenza del vecchio testo” dell’ art. 72 bis del d.P.R. 602/73 (prima, cioè, dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte con l’art. 2 comma VI del d.l. 262/06): sembra, al riguardo, che debbano intendersi compiuti nella vigenza del vecchio testo, a prescindere dalla data di formale notifica, i pignoramenti per i quali, alla data di entrata in vigore del nuovo testo dell’ art. 72 bis cit., in alternativa: - Sia già maturata l’inottemperanza all’ordine di pagamento per scadenza del relativo termine; - Si sia già ottemperato all’ordine di pagamento; Ebbene, prendendo le mosse dal presupposto di cui sopra, si può affermare, con riferimento ai pignoramenti compiuti nella vigenza del nuovo regime normativo introdotto con D.L. 262/06 (cioè per i quali a tale data non siano stati ancora eseguiti o iniziati i pagamenti, ovvero non sia ancora matu- 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO rata l’inottemperanza all’ordine per scadenza del termine) la necessità di considerare colpiti da invalidità ed inefficacia sopravenute (quindi ex nunc) i pignoramenti aventi ad oggetto crediti pensionistici. Ed infatti, la circostanza dell’intervenuto compimento, nel senso anzidetto, dell’atto impeditivo sotto il “vecchio regime” vale a cristallizzare, una volta per tutte, la validità del pignoramento dell’emolumento pensionistico solo nel caso – fuor di dubbio - in cui sotto la vigenza del vecchio testo normativo il pagamento sia stato del tutto perfezionato, ma non anche nell’eventualit à in cui l’ordine di pagare sia rimasto del tutto inevaso per lo spirare del termine fissato per l’ottemperanza all’ordine (e si debba pertanto proseguire nelle forme ordinarie ex art. 72 n. 2 d.P.R. 602/73) né, infine, nel caso in cui il pagamento sia iniziato nella vigenza del vecchio regime ma debba ancora proseguire, dopo la novella normativa, relativamente ai ratei maturandi (art. 72 bis comma 1^ lettera B) nella vigenza della disciplina più restrittiva. Sembra alla Scrivente, infatti, che, in tali ultime due ipotesi, proprio la natura processuale della norma e la sua conseguente immediata applicabilit à, per il principio tempus regit actum, comportino sempre – indipendentemente dalla data di formale notifica, e ferma restando la validità ed efficacia dei pagamenti già iniziati ed eseguiti nella vigenza della vecchia norma - l’illegittimità sopravvenuta del pignoramento limitatamente ai pagamenti ancora da eseguire, alle rispettive scadenze, sotto la vigenza della nuova disciplina. In breve, dunque, si ritiene che in tutti i casi in cui - alla data di entrata in vigore del “nuovo” art. 72 bis si debba procedere nelle forme ordinarie ex art. 72 II comma cit., oppure nei casi in cui siano ancora in corso trattenute di emolumenti pensionistici ancorché iniziate nella vigenza del testo precedente, ferma restando la legittimità di quelle già compiute - la sopravvenuta espressa sottrazione degli emolumenti pensionistici all’ordine di pagamento precluda la possibilità di effettuare ritenute di tali emolumenti per il tempo a venire. Una volta precisato che la sopravvenuta impossibilità di esperire la procedura di cui all’art. 72 bis nei confronti degli emolumenti pensionistici porta, in relazione alle procedure incardinate prima della modificazione della norma, all’impossibilità di effettuare ritenute su tali emolumenti per il tempo a venire, gioverà altresì, a titolo cautelativo, comunicare al Concessionario che il versamento diretto sarà sospeso, ma che le somme saranno comunque accantonate e non versate al debitore pignorato per un breve periodo (che qui si indica in non più di venti giorni) decorso il quale - in mancanza di sopravvenuti atti idonei, a mente dell’art. 69 della legge di contabilità di Stato, a determinare il fermo delle somme – gli importi saranno senz’altro versati al debitore. Quanto, infine, alla problematica sollevata dall’Amministrazione in indirizzo circa l’estinzione derivante da rinuncia al pignoramento da parte del Concessionario, si ritiene che l’effetto estintivo deriverà automaticamente dalla rinuncia (con conseguente liberazione delle somme), trattandosi di procedura non giurisdizionale. Tuttavia, ove risultasse che, nella prassi dei I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 217 singoli tribunali locali, presso la cancelleria del Tribunale venga aperto un fascicolo, per la restituzione di quanto fosse ancora eventualmente trattenuto, dovrà richiedersi, per doverosa cautela, l’adozione di un espresso provvedimento di estinzione della procedura con certificazione dell’infruttuoso decorso del termine per il reclamo avverso l’ordinanza (…)». A.G.S. – Parere del 19 luglio 2007 n. 81929. Disposizioni in materia di servizio nazionale della riscossione – Art. 3, c. 40, lett. a) del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (consultivo 61078/05, avvocato M. Mari). «Con nota in data 13 dicembre 2005, prot. n. 167116P, la Scrivente, condividendo le argomentazioni svolte da codesta Direzione nella nota 29 novembre 2005, prot. n. 83024, espresse l’avviso che la norma di cui all’art. 47 bis d.P.R. n. 602/1973 - inserito dall’art. 3 e. 40 lettera a) del D.L. 203/2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248/2005 - dovesse essere ritenuta applicabile unicamente a favore dei Concessionari della riscossione, escludendo l’estensibilità dell’esenzione tributaria prevista per lo svolgimento dell’attività di misurazione ipotecaria e catastale a soggetti diversi da quelli specificamente indicati nella disposizione. Con la nota a riscontro codesta Agenzia ha chiesto un riesame della questione con riferimento all’ipotesi in cui l’espletamento dell’attività di rilevazione e ricerca presso il Catasto e i Registri Immobiliari venga affidata dal Concessionario della riscossione a soggetti terzi — in genere, agenzie di visura — sulla base di un mandato con rappresentanza. Successivamente, codesta Direzione, con fax 4 dicembre 2006, 20 dicembre 2006, 22 gennaio 2007, in seguito a richieste formulate nelle vie brevi, ha trasmesso alla Scrivente ulteriore documentazione riguardante la suddetta questione. In particolare: nota della società G. in data 23 giugno 2006 con allegato schema del contratto di mandato con rappresentanza e parere reso alla detta Società dallo Studio F.; provvedimento dell’Agenzia delle Entrate 18 dicembre 2006 avente per oggetto l’individuazione di dipendenti degli agenti della riscossione che possono accedere ai dati trasmessi all’Anagrafe Tributaria dagli operatori finanziari e dei dipendenti degli agenti di riscossione che possono accedere ai restanti dati rilevanti ai fini della riscossione mediante ruolo; copia di ricorso proposto dalla Soc. G. alla C.T.P. di Foggia avverso provvedimento con il quale l’Agenzia aveva respinto l’istanza di rimborso in data 20 settembre 2006 in materia di tasse e diritti per visure ipotecarie e catastali e copia della nota 12 febbraio 2007 prot. 13512 inviata dall’Agenzia a tutti gli Uffici Provinciali al fine della difesa in giudizio nei contenziosi instaurati dalla G. per il rimborso dei tributi versati. La Scrivente riesaminata la questione sulla base della documentazione trasmessa esprime l’avviso - in attesa delle decisioni del Giudice Tributario ed a prescindere dalla giuridica possibilità di affidare a soggetti terzi l’attivit à di cui trattasi, questione sulla quale vengono peraltro formulate alcune 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO considerazioni nel prosieguo del presente parere - che il parere in precedenza espresso possa essere confermato anche con riferimento alla nuova fattispecie segnalata. Ciò in base alle seguenti considerazioni. È pur vero che gli artt. 1704 e 1388 c.c. nel prevedere la cd. contemplatio domini, consentono di attuare un collegamento diretto tra mandante e terzo, tanto che gli effetti dell’operazione compiuta si producono nella sfera giuridica del rappresentato senza alcuna mediazione, ma alla tesi dell’utilizzazione di siffatto modulo contrattuale al fine di svolgere le attività gestorie di cui si tratta, beneficiando all’uopo del regime esentativo previsto dalla legge, ostano sia la natura della disposizione de qua sia il tenore letterale di ulteriori disposizioni dettate in materia di riscossione di tributi. Quale norma di agevolazione tributaria, l’art. 47 bis cit. rientra nel novero delle norme di stretta interpretazione, ossia delle norme sottratte al criterio analogico (art. 14 disp. prel. c.c.), sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo, in ossequio ad un generale principio di tassatività dei casi in esse contemplati (Cass., sez. tributaria, n. 4530 e n. 4611/2002). Come evidenziato nella nota a margine indicata, nulla fa ritenere che nella norma di cui si discute possa ravvisarsi l’intenzione del legislatore di voler esentare dai tributi ipotecari e catastali previsti anche le visure eseguite da soggetti diversi dai concessionari, ossia da soggetti sprovvisti di quel particolare status giuridico legittimante l’agevolazione tributaria. In particolare, giova precisare che il carattere oggettivo dell’agevolazione in esame è soltanto prevalente ma non esclusivo rispetto a quello soggettivo. Se, infatti, la relativa rado sembra riposare sulla particolare attività svolta dal soggetto, in quanto propedeutica alla riscossione coattiva delle somme non pagate spontaneamente dal contribuente, ciò non preclude in astratto la configurabilità di un’autonoma rilevanza dell’elemento soggettivo, costituito dal possesso della specifica qualificazione di “concessionario della riscossione” e dall’espressa previsione di una sfera ben delimitata di legittimati. Nel caso di specie, quindi, prescindendo dalla potenziale violazione dell ’art. 1 co. 367 legge n. 311/2004 (il cui rilievo sembra doversi escludere ai fini che qui interessano, in virtù della clausola inserita all’art. 6 del contratto tra la G. S.p.a. e la S. S.p.a., con cui quest’ultima si è impegnata a non riutilizzare, commercializzare, trattenere e conservare i documenti, i dati e le informazioni catastali ed ipotecarie acquisite, in esenzione da imposte, dagli archivi degli Uffici dell’Agenzia del Territorio in esecuzione del mandato), ciò che preclude la legittimità della pretesa al riconoscimento del beneficio fiscale è la non demandabilità dell’incarico. Se è vero che il concessionario sotto il profilo oggettivo svolge una pubblica funzione e sotto il profilo soggettivo agisce in sostituzione del soggetto pubblico istituzionalmente competente, tanto da potersi definire come longa manus di quest’ultimo ed organo indiretto della P.A., deve ritenersi che neanche un mandato con rappresentanza possa costituire titolo legittimante l’attività di visura di cui trattasi da parte di soggetti diversi dal Concessionario, nonostante la sua tipica struttu- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 219 ra consenta l’imputazione diretta delle fattispecie e dei conseguenti effetti giuridici in capo al mandante. Atale conclusione non osta il carattere non autoritativo dell’attività svolta, in quanto essa è meramente strumentale alla riscossione coattiva dei tributi, la quale è tipico esempio di pubblico potere, e, quindi, la P.A. non opera in senso stretto iure privatorum. Peraltro, come suggerito da codesta Agenzia del Territorio, il Concessionario si surroga alla P.A. nei rapporti con i contribuenti e, quindi, agisce nell’interesse della stessa P.A., di talché la norma di cui si contesta l’interpretazione implica l’esistenza di un rapporto che, travalicando i limiti del semplice svolgimento di attività gestoria, si risolve in un rapporto fiduciario “intuitu personae”, come, del resto, si evince dal tenore di alcune disposizioni riguardanti i requisiti di onorabilità e professionalità dei partecipanti al capitale sociale e di coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo delle società affidatarie, la necessità della preventiva autorizzazione del Ministero delle finanze per l’efficacia dei trasferimenti delle azioni per atto tra vivi, delle fusioni e delle scissioni, l’obbligo di rispetto del codice deontologico sulla correttezza nella gestione delle procedure. In secondo luogo, a sostegno di siffatta interpretazione depongono dati letterali, i quali, lungi dal fornire una esegesi formalistica e sterile, individuano con precisione l’estensione applicativa della norma. L’Agenzia delle Entrate con il provvedimento 18 dicembre 2006 ha proceduto all’individuazione dei dipendenti degli agenti della riscossione che possono accedere ai dati di cui all’art. 35 c. 25 e 26 D.L. n. 223/2006, convertito dalla legge n. 248/2006. Limitando l’analisi ai dati cui si riferisce il c. 26 dell’articolo citato, ossia a tutti i dati rilevanti ai fini della riscossione coattiva (salvo quelli relativi ai rapporti detenuti con gli operatori finanziari e messi da questi ultimi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria) e, quindi, anche ai dati ipotecari e catastali in questione, il provvedimento summenzionato stabilisce che l’accesso viene autorizzato ai dipendenti indicati dal relativo direttore generale, sulla base di valutazioni di competenza e professionalit à, e il cui rapporto di lavoro con l’agente della riscossione è in essere da almeno un anno. E pur vero che, in linea generale, i soggetti pubblici sono liberi di avvalersi di modelli giuridici rientranti nella disciplina civilistica, ma pur sempre nei limiti dei principi e con gli effetti giuridici fissati dalla legge. Il silenzio della legge, in questo caso, è sintomatico di una contraria volontà del legislatore, il quale, nella redazione di una norma derogatoria e, quindi, speciale rispetto all’ordinario trattamento fiscale previsto per l’attività di visurazione ipocatastale, avrebbe dovuto stabilire espressamente la sua applicabilità a soggetti terzi in qualità di mandatari. In conclusione, l’interpretazione sistematica suggerisce una lettura restrittiva dell’art. 47 bis d.P.R. cit., giustificata da fattori tanto soggettivi quanto oggettivi, e, quindi, nega il beneficio fiscale in questione al terzo mandatario della società concessionaria (…)». 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO A.G.S. – Circolare del 9 agosto 2007, n. 35 - Comunicazione di servizio n.93/07. Legittimazione nelle cause relative ai beni immobili dello Stato. «Come è noto, l’art. 65 D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, attribuisce all’Agenzia del Demanio (ora ente pubblico economico: art. 1 D.Lgs. 3 luglio 2003, n. 173) “l’amministrazione dei beni immobili dello Stato, con il compito di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego, di sviluppare il sistema informativo sui beni del demanio e del patrimonio, utilizzando in ogni caso, nella valutazione dei beni a fini conoscitivi ed operativi, criteri di mercato, di gestire, con criteri imprenditoriali, i programmi di vendita, di provvista, anche mediante l’acquisizione sul mercato, di utilizzo e di manutenzione ordinaria e straordinaria di tali immobili”. I rapporti del Ministero dell’Economia e delle Finanze con l’Agenzia del Demanio (così come con le altre Agenzie fiscali istituite con il medesimo D.Lgs. n. 300/99) sono disciplinati in particolare dall’ art. 59, nel quale si prevedono l’attività di indirizzo ministeriale e la stipulazione di apposite convenzioni con le quali vengono fissati, tra l’altro, gli obiettivi da raggiungere, le direttive generali sui criteri di gestione, le risorse disponibili, le modalità di vigilanza, gli aspetti economici del rapporto (oneri di gestione, quota incentivante etc.). Ho dovuto constatare che nella gestione delle controversie relative ai beni immobili si sono tenuti, da parte dell’Avvocatura dello Stato, comportamenti diversi in ordine all’individuazione del soggetto titolare della legittimazione processuale, probabilmente coerenti, ciascuno, con il convincimento raggiunto in merito alla titolarità del bene; è così avvenuto che a volte si è eccepito il difetto di legittimazione passiva del Ministero predetto nelle cause di usucapione promosse dai possessori o in quelle di rivendica promosse da chi assume di essere proprietario dei beni; a volte si è eccepito, ceteris paribus, il difetto di legittimazione dell’Agenzia; a volte, specie per le cause attive, si è proceduto per entrambi. È chiaro che la soluzione da dare al tema processuale della legittimazione postula la risposta al quesito circa la titolarità sostanziale, essendo evidente che se si ritiene il trapasso della propriet à dei beni al Demanio non può dubitarsi della legittimazione processuale di questo; viceversa, nell’ipotesi di conservata titolarità (o “appartenenza” o “proprietà’) dei beni allo Stato (e, dunque, per esso, al Ministero dell’Economia e delle Finanze), resterebbe il problema di una legittimazione del Demanio “aggiuntiva” a quella statale, derivante dalle funzioni di amministrazione, dalle quali non è aliena l’attività di difesa in giudizio della stessa titolarità. Non pare che per i beni patrimoniali (quelli del “patrimonio disponibile ” in ordine ai quali la posizione dominicale dell’ente titolare non è diversa da quella di qualsiasi privato proprietario) si ponga un reale dubbio: l’art. 65 sopraindicato ha certamente attribuito l’amministrazione, e non la proprietà, all’ente Demanio; il problema si pone, invece, per i beni della c.d. proprietà pubblica (demanio e patrimonio indisponibile) per i quali è ancora discusso in dottrina e in giurisprudenza il tema del confine tra dominium (della res) ed I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 221 esercizio funzionale dei poteri (qui la res è intesa come mero strumento della funzione), di modo che il passaggio della gestione e delle competenze all’ Agenzia del Demanio potrebbe sollecitare il dubbio circa l’effettiva attribuzione anche della “titolarità” del bene: ed il dubbio è stato ampiamente discusso anche all’interno del Ministero, sostenendo divergenti opinioni il Dipartimento per le politiche fiscali, orientato nel senso di escludere un qualsiasi coinvolgimento del Ministero quale soggetto attivo o passivo di procedimenti contenziosi, e il Dipartimento del Tesoro, che, viceversa, ritiene titolare del patrimonio che l’Agenzia amministra il “soggetto Stato” alla cui autorizzazione peraltro è subordinato l’esercizio diretto del potere di disposizione dei cespiti da parte dell’Agenzia. Nel quadro appena delineato ritengo necessario indicare comunque una linea operativa unitaria che, salvo diverse indicazioni che dovessero in seguito emergere dalla giurisprudenza, al momento dispongo, sentito il Comitato Consultivo, sia la seguente: 1) nelle controversie di impugnazione di atti si costituirà nei giudizi a difendere l’atto solo il soggetto che ne è stato l’autore; parimenti si costituir à il solo autore del “comportamento” quando la causa abbia ad oggetto le conseguenti pretese del terzo interessato, ed il solo stipulante nelle cause relative a contratti; 2) nelle azioni reali relative alla “proprietà” dell’immobile, ad esempio nelle cause di usucapione o rivendica o negatorie reali e simili, e comunque in ogni vicenda in cui si tratti di “acquistare” o di “perdere” o di “modificare ” o di “limitare” la proprietà di un bene, l’Avvocatura si costituirà in giudizio per entrambi gli Enti (il MEF e il Demanio), il MEF essendo ancora il centro di riferimento e di imputazione della “proprietà” statale e il Demanio essendo il gestore amministratore (tra i compiti dell’amministratore non può escludersi la difesa della proprietà); in tali casi la costituzione per entrambi avverrà a prescindere dall’individuazione del convenuto, tra i due predetti, fatta dall’attore, e si eviterà qualsiasi eccezione di difetto di legittimazione. Gli elementi per la difesa vanno in ogni caso richiesti all’Agenzia del Demanio, che fornirà tutto il necessario supporto. La presente direttiva non esclude l’eventualità che singoli casi di specie possano suggerire un diverso comportamento, che dovrà comunque essere segnalato, ove possibile previamente, a questa Avvocatura Generale. L’Avvocato Generale Oscar Fiumara» A.G.S. – Parere del 23 agosto 2007, n. 91651(*). Disciplina fiscale applicabile, ai fini delle imposte indirette, alle operazioni di cessione dei beni di proprietà indivisa di coniugi in regime di comunione legale (consultivo 16086/07, avvocato G. De Bellis) 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in via ordinaria. «(…) codesta Agenzia ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla disciplina fiscale applicabile, ai fini delle imposte indirette, alle operazioni di cessione dei beni di proprietà indivisa di coniugi in regime di comunione legale, ma utilizzati integralmente nell’impresa di uno dei coniugi. In particolare viene evidenziato che la posizione dell’Amministrazione secondo cui l’atto sarebbe assoggettabile per metà ad IVA e per l’altra metà (relativa alla quota del coniuge non soggetto IVA) ad imposta di registro, non è stata condivisa in vari pronunce della Suprema Corte, anche recenti. Questa Avvocatura ritiene che la posizione di codesta Agenzia debba essere confermata. Non sembra infatti condivisibile la tesi espressa dalla Cassazione nella sentenza 12 luglio 2004 n. 12853 secondo cui “l’assoggettamento ad IVA dell ’atto di cessione di un bene, che sia oggetto di comunione legale tra coniugi, è assorbente rispetto alla sottoposizione all’imposta di registro. L’assorbimento deriva dal fatto che, dal punto di vista del diritto tributario, l’atto di cessione non è un atto plurimo avente per oggetto singole quote di comune propriet à valutabili separatamente in dipendenza della natura dei soggetti proprietari, ma un atto unitario, rilevante oggettivamente come atto d’impresa”. È innegabile infatti che da un punto di vista civilistico, il coniuge non soggetto IVA ha operato una vendita di un suo bene (rectius: della sua quota del 50%) personale, come tale soggetto ad imposta di registro, mentre l’assorbimento nell’altra operazione imponibile ai fini IVA (la cessione dell’altro coniuge, soggetto passivo IVA, della sua quota del 50%) non risulta previsto in alcuna disposizione. La mera circostanza che l’intero bene sia utilizzato nell’attività economica di uno dei coniugi non è tale da incidere sul fatto, di per sé decisivo, che cedenti sono entrambi i coniugi, mentre assoggettato agli obblighi IVA è solo uno di essi; ed infatti l’operazione posta in essere dal coniuge non soggetto IVA non può ritenersi imponibile per mancanza del requisito soggettivo previsto dall’art. 9 n. 1 della direttiva 2006/112/CE, in forza del quale “Si considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”. A meno che non si configuri l’ipotesi prevista dall’art. 178 c.c, in base al quale “I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”. Si ritiene infatti che tali acquisti (anche immobiliari) entrino a far parte solo della c.d. “comunione de residuo”, con la conseguenza che fino allo scioglimento della comunione i beni restano nella esclusiva titolarità del coniuge che li utilizza nell’ambito della sua impresa. In applicazione di tale principio in tema di detrazione dell’IVA la Suprema Corte ha affermato di recente che «Ove un imprenditore in regime di comunione legale con il coniuge (non imprenditore) acquisti un immobile destinato alla propria attività (con il consenso del coniuge), la relativa ope- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 223 razione rientra integralmente nell’ambito dell’attività di impresa (e perciò l’Iva versata al venditore è deducibile in toto) poiché i beni d’impresa entrano nella comunione coniugale solo “se sussistono al momento dello scioglimento ” (art. 178 del codice civile) e, quindi, il diritto del coniuge non imprenditore sui beni dell’impresa del coniuge imprenditore si configura come diritto personale e non reale» (Cass. Sez. Trib. 9 maggio 2007 n. 10608). Peraltro tale non sembra essere il caso prospettato, dal momento che trattasi di bene in comunione legale alla cui cessione partecipa anche il coniuge non soggetto IVA(sul presupposto evidentemente della sua comproprietà del bene). Così come sembra doversi escludere la sussistenza di una società di fatto tra i coniugi (non identificabile nella mera comunione legale dei beni: Cass. 1 giugno 1995 n. 6142), la cui esistenza avrebbe comportato di certo l’assoggettamento ad IVA dell’intera cessione. Il citato principio di “assorbimento” affermato nelle pronunce della Suprema Corte, appare inoltre in contrasto con i principi generali in materia di IVA, desumibili sia dalla normativa comunitaria (in particolare dalla direttiva 2006/112/CE) sia dalla interpretazione che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ne ha dato. In alcuni casi infatti la Corte di Giustizia ha espressamente previsto la possibilità che nell’ambito di una medesima cessione (nella fattispecie si trattava di un veicolo), fosse assoggettabile ad IVA solo una parte relativa a singoli elementi dello stesso bene. Ha infatti affermato la Corte che “Quando un soggetto passivo preleva a fini estranei all’impresa un bene (nella fattispecie, un veicolo) acquistato senza possibilità di dedurre l’imposta sul valore aggiunto e che è stato oggetto, in un momento successivo al suo acquisto, di lavori per i quali l’imposta sul valore aggiunto è stata dedotta, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in forza dell’art. 5, n. 6, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, riguarda solo gli «elementi che compongono il bene» che hanno consentito una deduzione, e cioè gli elementi che hanno definitivamente perduto le loro caratteristiche distintive fisiche ed economiche nel momento in cui sono stati incorporati al veicolo, in un momento successivo al suo acquisto, in seguito ad operazioni di cessioni di beni che hanno comportato un incremento duraturo del valore del veicolo, non interamente consumato al momento del prelievo” (sentenza 17 maggio 2001 in cause riunite C-322/99 e C-323/99). Se addirittura nell’ambito di una cessione di un unico bene si è ritenuto possibile assoggettare ad IVA la parte di cessione relativa ad alcuni componenti dello stesso, non v’è ragione di escludere tale possibilità per una quota indivisa di un immobile, tenuto conto altresì che il cedente tale quota non è soggetto passivo IVA e che viene quindi a mancare il necessario requisito soggettivo di cui al citato art. 9 par. 1 della direttiva 2006/112/CE. Ulteriore conseguenza della tesi sostenuta dalla Suprema Corte, sarebbe quella secondo cui l’acquirente soggetto IVA, porterebbe in detrazione l’in- 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tera imposta assolta su tutto l’immobile, in violazione dei principi in tema di detraibilità dell’IVA contenuti negli artt. 19 e ss. del d.P.R. n. 633/72 e 167 e ss. della direttiva 2006/112/CE, che non consentono di detrarre l’imposta assolta se non relativa ad operazioni effettivamente imponibili. Circa la posizione della giurisprudenza, questa Avvocatura cercherà di ottenerne una modifica, eventualmente sollecitando la Suprema Corte a sollevare una questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato. A tal fine è opportuno che codesta Agenzia segnali alla Scrivente eventuali situazioni pendenti da utilizzare come cause “pilota”». A.G.S. - Parere del 30 agosto 2007, n. 93512(*). Riforma delle esecuzioni mobiliari ex art. 547 c.p.c. (consultivo 30175/07, avvocato M. Borgo). «(…) codesto Dicastero ha chiesto alla Scrivente di esprimere il proprio parere in ordine alla correttezza delle richieste, formulate dai creditori del personale della Polizia di Stato, di ricevere la dichiarazione di quantità ex art. 547 c.p.c. a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno e si rappresenta quanto segue. La legge n. 52/06, come noto, ha innovato, tra le altre cose, in materia di forma del pignoramento presso terzi e della relativa dichiarazione di quantità. A seguito della predetta novella legislativa, la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. deve essere resa dal terzo innanzi al Giudice unicamente nel caso in cui il pignoramento riguarda i crediti di cui all’art. 545, commi terzo e quarto (somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento). Nelle altre ipotesi, la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. deve essere comunicata al creditore procedente a mezzo raccomandata entro dieci giorni dalla notificazione dell’atto di pignoramento. In ragione di tali novità, l’atto di pignoramento deve contenere rispettivamente: - la citazione del terzo e del debitore a comparire davanti al Giudice del luogo di residenza del terzo, affinché questi faccia la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. ed il debitore sia presente alla dichiarazione e agli atti ulteriori, con invito al terzo a comparire, nel caso in cui il pignoramento riguarda i crediti di cui all’art. 545, commi terzo e quarto, c.p.c.; - l’invito rivolto al terzo a comunicare la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. al creditore procedente, a mezzo raccomandata e nel termine di dieci giorni, negli altri casi. Alla luce del predetto quadro normativo, questo Generale Ufficio ritiene che, allorché il pignoramento presso terzi abbia ad oggetto lo stipendio del I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 225 (*) Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in via ordinaria. personale della Polizia di Stato, la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. debba essere resa da codesto Dicastero innanzi al Giudice; in tale caso, infatti, viene in rilievo il pignoramento di un credito retributivo in ordine al quale il legislatore della novella ha ritenuto opportuno conservare le maggiori garanzie procedimentali in precedenza previste (comparizione del terzo davanti al Giudice). Né, al fine di pervenire ad una diversa conclusione, varrebbe valorizzare la circostanza che l’art. 545, comma 3, del c.p.c. fa riferimento alle “somme dovute dai privati a titolo di stipendio….”; tale espressione si spiega agevolmente con il fatto che la disposizione codicistica si riferisce alle retribuzioni corrisposte da soggetti privati, atteso che il pignoramento degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazione trova la propria disciplina nella normativa di settore e precisamente nel d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180. Da ultimo, si evidenzia che, ove dovesse ritenersi che, con riferimento ai pignoramenti dei crediti retributivi del personale delle pubbliche amministrazioni, la dichiarazione di quantità ex art. 547 c.p.c. debba essere effettuata a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno da indirizzarsi al creditore procedente, si verrebbe a creare una disomogeneità di disciplina rispetto ai pignoramenti dei crediti retributivi del personale dipendente da soggetti privati, che mal si concilierebbe con il processo di c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, avviato da ormai un decennio». A.G.S. - Parere del 3 ottobre 2007 n. 105161(*) Equiparabilità del decreto penale alla sentenza penale di condanna ai fini dell’esclusione dall’arruolamento (consultivo 28755/07, avvocato D. Ranucci). «(…) codesta amministrazione ha richiesto il parere della Scrivente circa la equiparabilità del decreto penale di condanna alla sentenza penale di condanna ai fini dell’esclusione dall’arruolamento e/o decadenze dalla ferma, tenuto conto che i bandi di arruolamento prevedono tra i requisiti necessari a tal fine l’assenza di sentenze penali per delitti non colposi, comprese le sentenze pronunciate ex art. 444 c.p.p., che, secondo il successivo art. 445, “salve diverse disposizioni di legge sono equiparate ad una pronuncia di condanna ”. 1) L’art. 459 c.p.p. dispone che “ nei procedimenti per reati perseguibili d’ufficio ed in quelli perseguibili a querela se questa è stata validamente presentata … il P.M. , quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può pre- 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in via ordinaria. sentare al G.I.P. … richiesta motivata di emissione di decreto penale di condanna, indicando la misura della pena”. Il procedimento per decreto appartiene al genus dei cd. riti semplificati, e si caratterizza per il fatto che la “condanna” è pronunciata allo stato degli atti, ed il concreto esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato è previsto solo nella fase successiva, ed eventuale, della opposizione. Secondo la giurisprudenza penale (Cass. Sez. V°, n. 10621 del 7 marzo 2003) poi “l’opposizione a decreto penale di condanna è una forma di impugnazione, anche se speciale, soggetta alla disciplina e ai principi generali per esse previste”. 2) Ciò posto, occorre preliminarmente prendere atto di orientamenti non univoci, espressi dalla giurisprudenza amministrativa nelle diverse materie nelle quali si è posto il problema in esame. In materia di concessione/revoca della carta di soggiorno a soggetti extracomunitari (art. 9, comma 3, d.vo 286/98) si è ritenuto da parte della giurisprudenza (TAR Marche n. 320/2006) che il riferimento al “concetto di “«sentenza» va interpretato in senso stretto, visto il riferimento esplicito alle sole sentenze e non anche al decreto di condanna. Si tratta di provvedimenti che hanno un non analogo regime, visto che la sentenza deriva da un procedimento caratterizzato dal dibattimento, invece del tutto assente, se non in via eventuale e su iniziativa del soggetto condannato, nel procedimento per decreto. D’altra parte vi è anche diversità di effetti , visto che il decreto di condanna non ha efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi, per cui i fatti posti a base della condanna non sono considerati coperti dalla incontrovertibilità propria del giudicato che scaturisce da una sentenza”. Analogamente, sempre in tema di carta/permesso di soggiorno, il TAR Friuli (n. 692/2006) ha affermato che “ai sensi dell’art. 460, 5° comma, c.p.p. il decreto penale di condanna, anche se divenuto esecutivo, non fa stato nel giudizio civile o amministrativo. Ciò significa che esso non ha rilevanza nel procedimento (amministrativo diretto al rilascio della carta), e non può essere valutato in senso sfavorevole al richiedente per il giudizio, di carattere amministrativo, di pericolosità ex lege di colui nei confronti del quale è stato emesso decreto penale. Lo dimostra, a fortiori, il fatto che, quando la legge ha voluto, in via eccezionale, far discendere l’esclusione dalla possibilità di ottenere un provvedimento amministrativo di carattere ampliativo, a causa dell’emissione di un decreto penale di condanna, ha dovuto statuirlo espressamente (v. p. es. art. 38, 1° comma, lett. c) del D. Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 in materia di contratti pubblici)”. In senso opposto TAR Piemonte (n. 1122/2006) secondo cui “il decreto penale di condanna spiega comunque i suoi effetti preclusivi del rilascio della carta di soggiorno ai sensi dell’art. 9 comma 1 del d.vo 286/98, che prevede il mancato rilascio della carta di soggiorno anche in caso di sentenze di condanna non definitive (com’è il decreto penale di condanna ancora suscettibile di essere opposto), né la natura del decreto penale di condanna si discosta da quella di una rituale sentenza di condanna sotto il profilo dell ’accertamento della responsabilità penale ... pertanto la sua emanazione da I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 227 parte del GIP deve considerarsi fatto ostativo al rilascio della carta di soggiorno al pari delle altre forme di accertamento della responsabilità”. In materia di esclusione da gare il TAR Veneto (n. 1909/06) afferma che “la non applicabilità dell’esclusione prevista dall’art. 75 lett. C) del d.P.R. n. 554 del 1999 nei casi di condanna con decreto penale appare ricavabile, innanzitutto, dal dato letterale della norma che, per quanto qui più rileva, indica, tra le ipotesi che determinano l’esclusione dalle procedure per l’affidamento dei pubblici appalti e l’impossibilità di stipulare i relativi contratti, esclusivamente l’aver riportato «sentenza di condanna passata in giudicato, oppure di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati che incidono sull’affidabilità morale e professionale», senza che si faccia menzione alcuna della peculiare fattispecie, disciplinata dagli articoli 459 e seguenti cod. proc. pen., del (procedimento per) decreto penale di condanna. Sotto un primo profilo, se in sede di adozione del regolamento n. 554 del 1999 si fosse voluto dare rilievo, ai fini dell’esclusione, anche al decreto penale di condanna, sarebbe stato agevole aggiungere, alla lettera c), le parole «oppure decreto penale di condanna divenuto irrevocabile», o espressione analoga. Sempre dal punto di vista letterale appare significativo soggiungere che mentre l’ultima parte dell’art. 75, comma 1, cit. fa salva l’applicabilit à dell’art. 178 c. p., relativo alla riabilitazione dalle sentenze di condanna, e dell’art. 445, comma 2, c.p.p., sull’estinzione del reato nei casi di sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p., nessun cenno viene fatto alla omologa disposizione dettata dall’art. 460, comma 5 c.p.p. sull’estinzione del reato, in relazione ai procedimenti definiti con decreto penale di condanna: anche per questa ragione si può plausibilmente sostenere che il decreto penale di condanna non rientra tra le pronunce dell’autorità giudiziaria in grado di precludere la partecipazione alla gara. A sostegno dell’interpretazione su esposta vale soggiungere che la formulazione dell’art. 75/C) è sì generica, ma non per ciò che riguarda i provvedimenti giurisdizionali considerati dalla norma stessa. Sotto un secondo aspetto la condanna con decreto penale si differenzia in maniera significativa dalla condanna derivante da sentenza. E infatti: - al procedimento per decreto si può ricorrere soltanto qualora il pubblico ministero ritenga che si debba applicare unicamente una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di pena detentiva: si tratta, per lo più, di reati di scarsa rilevanza dal punto di vista dell’allarme sociale; - il decreto penale viene emesso in assenza di contraddittorio (al condannato spetta un contraddittorio «differito», se lo chiede, in sede di opposizione ex art. 461 c.p.p.); - il decreto penale si differenzia dalla sentenza anche perché il primo non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo (cfr. art. 460, n. 5, c.p.p.)”. In tema di diniego del porto d’armi il TAR Aosta, con sentenza n. 75/2004, ha ritenuto che “i fatti sui quali si fonda il decreto penale di condanna non sono il risultato di un accertamento dibattimentale, ma rientrano tra quelli indicati dal P.M. nel proprio atto di accusa, per cui essi non possono, ex se, giustificare l’adozione dell’atto impugnato. Proprio per l’assenza di accertamento nel giudizio dei fatti ascritti al condannato nel decreto penale, la giurisprudenza ha chiarito che gli effetti di esso non possono ritenersi pari- 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ficabili a quelli di una sentenza di condanna (TAR Friuli Venezia Giulia, 29 luglio 1998 n. 1003; TAR Abruzzo, Pescara, 16 maggio 1998 n. 405, nella quale ultima sentenza si è ritenuto che il decreto penale di condanna non fosse ostativo al conseguimento della qualifica di guardia giurata)”. In senso opposto è tuttavia, proprio in punto di gare, il Cons. St. sez. VI, n.7195/06 secondo cui “è vero che l’art. 75 co. 1 lett. c menziona le sentenze di condanna passate in giudicato e di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. e non il decreto penale di condanna tra le ipotesi incidenti sull ’affidabilità morale e professionale del contraente. È però altrettanto vero che il decreto penale di condanna va ad essi equiparato ai fini dell’esistenza del fatto da valutare come significativo dell’esclusione. Anche se non produce gli stessi effetti della sentenza passata in giudicato, il decreto penale di condanna ha pur sempre valore decisorio dell’esistenza del fatto penalmente contestato. L’art. 460 c.p.p. prescrive che il decreto debba contenere l’enunciazione del fatto, delle circostanze e delle disposizioni di legge violate nonché la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata. Una volta esecutivo, l’accertamento contenuto nel decreto è pertanto suscettibile di essere utilizzato per tutte le valutazioni conseguenti, senza la possibilità di discussione del suo valore probatorio in analogia al giudicato esterno”. Nello stesso senso (Cons. St. n. 811/2006) secondo cui “quanto alla insufficienza del decreto penale di condanna a costituire fonte di prova della responsabilità per l’illecito penale, deve osservarsi che tale decreto contiene un sia pur sintetico accertamento di reità come risulta dall’art. 460, lett. c), c.p.p., tanto che la giurisprudenza amministrativa ritiene esattamente che in sede disciplinare non possa tenersi conto delle prove contrarie sull’esistenza e qualificazione del fatto offerte dal condannato, dato che la lievità del fatto e la tenuità della pena non influiscono sulla qualificazione del reato, (cfr. Cons. giust. amm., sez. riun., 18 maggio 1999 n. 828/1997). Sotto tale angolazione non rileva che il decreto penale esecutivo sia caratterizzato dalla c.d. inefficacia extrapenale, non dispiegando effetti sui giudizi amministrativi e civili ex art. 460, co. 5, c.p.p., essendo l’autorità disciplinare sempre vincolata alle risultanze del processo penale quanto all’accertamento dei fatti materiali, quale che sia l’esito dello stesso”. Dalla analisi effettuata emerge che la giurisprudenza pur quando evidenzia il dato per cui il decreto penale “non ha efficacia nel giudizio civile o amministrativo” (art. 460, comma 5, c.p.p.), tuttavia, sotto diverso profilo, non manca di sottolineare che il decreto penale di condanna contiene comunque l’accertamento della responsabilità penale del soggetto interessato, come ha lucidamente chiarito il Consiglio di Stato: “deve osservarsi che tale decreto contiene un sia pur sintetico accertamento di reità” (n. 811/2006 cit.). In realtà, a parere della Scrivente, che il decreto penale attesti l’esistenza del fatto penalmente contestato discende palesemente dalla considerazione che esso deve contenere “l’enunciazione del fatto e delle disposizioni di legge violate”, nonché “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata” (art. 460, comma 1, c.p.p.), e che, l’art. 460 co. 5espressamente dispone che “il reato è estinto …. in questo caso si estingue I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 229 ogni effetto penale e la condanna…”, elementi univoci nel senso che comunque la condotta sanzionata tramite il procedimento per decreto ha natura di reato e che il decreto stesso contiene una pronuncia di condanna. Ciò significa che l’accertamento relativo alla commissione del reato contenuto nel decreto è certamente suscettibile di essere utilizzato per ogni conseguente valutazione, in conformità a quanto in tal senso osservato dal C.d.S. nella decisione n. 811/2006, specie quando oggetto della valutazione stessa sia un provvedimento amministrativo, ampliativo della sfera giuridica dell’istante. Applicando gli esposti principi al caso in esame, a parere di questa Avvocatura sembra corretto concludere nel senso che il decreto penale di condanna costituisce l’affermazione, espressa in sede giurisdizionale, della commissione di un reato, per cui l’aver riportato un decreto penale di condanna si pone, alla stregua della sentenza di condanna o di patteggiamento, quale condizione incompatibile con l’arruolamento nella organizzazione militare dello Stato italiano, attesa la peculiarità della funzione che il militare è destinato a svolgere, di precipuo rilievo pubblico in quanto connessa con esigenze di tutela e difesa dello Stato. Pertanto, sebbene i singoli bandi non prevedano espressamente, tra i requisiti per l’arruolamento, l’assenza di decreti penali di condanna, tuttavia tale condizione deve ritenersi implicitamente ricompresa nella sfera di applicazione nella norma, laddove la ratio sottesa alla richiesta assenza di sentenze penali di condanna per delitti non colposi (ovvero di procedimenti penali in corso per delitti non colposi), non può che essere quella di escludere dall ’arruolamento i soggetti nei confronti dei quali sia stata accertata, a qualunque titolo, una responsabilità penale. Da ultimo in questo senso, in conformità d’altra parte con l’orientamento del Consiglio di Stato che, come visto, appare essere più rigoroso e restrittivo rispetto ai tribunali di I° grado, si è espresso anche il TAR Lazio (sez. 1 bis, n. 1474 del 20 febbraio 2007(*)), secondo cui il decreto penale di condanna “legittima comunque un giudizio di disfavore al fine della ammissione alla richiesta rafferma” e “si pone come insuperabile causa ostativa (alla rafferma stessa) ”. Le considerazioni esposte hanno portata assorbente del secondo quesito articolato da codesta amministrazione ,“se la presenza del decreto penale di condanna configuri comunque il difetto di moralità e condotta a carico dell ’aspirante, in quanto il reato sia idoneo a manifestare una contraddizione con i compiti istituzionali”. Quanto infine all’ultimo quesito, si evidenzia che analoga soluzione deve essere accolta anche per il caso in cui l’aspirante abbia ottenuto il condono della pena a seguito di indulto, sia che la pena sia relativa a sentenza di condanna che a decreto penale di condanna per delitto non colposo. Infatti l’indulto, ai sensi dell’art. 174 c.p., “non estingue le pene accessorie e neppure gli altri effetti penali della condanna”, trattandosi di causa di estinzione 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Di seguito pubblicata. della pena e non , a differenza dell’amnistia, del reato. Da ciò consegue che, anche in presenza di tale forma di condono, rimane fermo l’accertamento giudiziale relativo alla commissione del reato, che pertanto deve necessariamente essere considerato ostativo ai fini dell’arruolamento. In conclusione, allo stato e salvo ripensamenti del massimo organo di giustizia amministrativa, codesta Amministrazione dovrà escludere dalla selezione i soggetti che abbiano riportato decreti penali di condanna, evidenziandosi inoltre che appare opportuno modificare i prossimi bandi nel senso di includere espressamente tale causa ostativa, anche al fine di evitare eventuale contenzioso». Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Roma, sezione prima bis, sentenza 20 febbraio 2007, n. 1474 - Pres. Elia Orciuolo – Rel. D. Scala – B.A. (Avv. A.F. Tartaglia) c/ Ministero della Difesa (Avv. dello Stato D. Ranucci). «Fatto - Espone il ricorrente, caporal maggiore dell’esercito in rafferma biennale fino al 4 dicembre 2006, di avere presentato domanda di rafferma per ulteriori anni due e di non essere stato ammesso a tanto con l’impugnato provvedimento prot. nr. MD/GMIL 03 II/7/4/2006/0096492 per essere stato egli destinatario di un decreto penale di condanna per delitto non colposo (artt. 56, tentativo, e 494, sostituzione di persona, del codice penale), emesso il 6 luglio 2006 dal GIP del Tribunale di Salerno. Il ricorrente ha contrastato tale provvedimento di non ammissione e gli atti connessi, deducendone la illegittimità sotto vari aspetti e concludendo per il loro annullamento, previa sospensione; con vittoria di spese. Il Ministero della Difesa si è costituito in giudizio, senza peraltro, spiegare memoria difensiva. Nella camera di consiglio del 14 febbraio 2007, fissata per l’esame della istanza cautelare, ritenendosi non necessario l’espletamento di istruttoria e ravvisandosi inoltre la possibilit à, in relazione alle censure dedotte, di definire immediatamente la questione nel merito, il ricorso è stato ritenuto al fine della emanazione di decisione in forma semplificata, previo avviso datone alle parti presenti. Diritto - Il ricorso è infondato e va respinto, per quanto si viene a dire in relazione alle censure in essere. Con il primo motivo è dedotta illegittimità dell’art. 3, primo comma, lett. d, e secondo comma, del D.M. (Difesa) 8 luglio 2005 (concernente le modalità di ammissione alle rafferme biennali dei volontari in ferma prefissata quadriennale dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica) relativo, nelle disposizioni richiamate, alla condizione, al fine della ammissione alle rafferme, di non avere riportato condanne penali per delitti non colposi, sia al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda, sia successivamente fino alla data di ammissione alla rafferma richiesta. La illegittimità è dedotta nella considerazione che il decreto penale in questione non potrebbe essere tenuto presente in quanto egli ricorrente ha tempestivamente proposto opposizione (chiedendo il giudizio ordinario), cosicché il decreto non è divenuto esecutivo e dovrebbe quindi prevalere il principio di cui all’art. 27, secondo comma, della Costituzione, in base al quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva; l’Amministrazione quindi avrebbe tratto, dalla sola emissione di un decreto penale, conse- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 231 guenze negative contrastanti con la presunzione di innocenza. La censura non è fondata. Il principio di presunzione di innocenza fino alla sentenza di condanna definitiva, affermato dalla Costituzione, è inanemente invocato, dato che, sia nel provvedimento di non ammissione alla rafferma, sia nella normativa dettata dal sopra citato decreto ministeriale, non si fa questione di colpevolezza dell’interessato ma, soltanto, per quanto qui occorre, di condanna per delitto non colposo. E, nella fattispecie, il ricorrente risulta condannato con il decreto penale sopra citato, né tale decreto risulta, allo stato, essere stato oggetto di un eventuale provvedimento di revoca. Il che, pur in assenza di un ordine di esecuzione del decreto, legittima comunque un giudizio di disfavore al fine della ammissione alla richiesta rafferma, manifesto essendo che la posizione di un soggetto condannato, pur se con provvedimento non definitivo, è diversa dalla posizione di un soggetto che tale non sia; cosicché si presenta non fondata anche la deduzione di disparità di trattamento (contenuta nelle pagg. 7-8 del ricorso), che il ricorrente assume consumarsi in danno dei condannati rispetto a coloro che non sono coinvolti in alcuna vicenda penale. E tanto esclude altresì che l’Amministrazione si sia determinata, come invece assume il ricorrente a pag. 6 del ricorso, sulla base dell’inesistente presupposto della definitività del decreto di condanna. Quanto, poi, alla deduzione, anch’essa contenuta nel motivo in trattazione, secondo la quale l’Amministrazione avrebbe potuto, eventualmente, disporre l’ammissione con riserva del ricorrente alla rafferma in attesa della definitiva conclusione del procedimento penale, va osservato che ciò non risulta previsto dalla normativa, né il ricorrente ha fornito una eventuale indicazione sul punto. Quanto, infine, alla ulteriore deduzione con la quale si rappresenta che il ricorrente ha mantenuto eccellenti qualità morali e di condotta nel periodo di oltre cinque anni già trascorso nell’esercito, per cui l’ostatività alla rafferma, desunta dalla circostanza del coinvolgimento in un procedimento penale per un fatto di nessuna rilevanza penale e comunque non avvenuto ma solo affermato ingiustamente (cfr. pag. 11 del ricorso), darebbe luogo ad ingiustizia e discriminazione, va osservato che sarebbe irrilevante, oltre che improprio, investigare sulla posizione del ricorrente nell’ambito del procedimento penale che lo vede coinvolto, tenuto conto che, a fronte della previsione della necessità che il richiedente non sia condannato per delitto non colposo, una condanna come quella comminata al ricorrente si pone come insuperabile causa ostativa. Con il secondo motivo è dedotta illegittimità nella considerazione che l’esclusione da una procedura selettiva sarebbe atto discrezionale, per cui l’Amministrazione, prima di procedere nel senso, avrebbe dovuto valutare la posizione del ricorrente nell’ambito del procedimento penale che lo vede coinvolto, tanto più che, essendo terminato il periodo della rafferma (a cui il ricorrente era stato in precedenza ammesso) il 4 dicembre 2006, ed essendo stato notificato l’impugnato provvedimento di diniego di nuova rafferma il successivo 11 dicembre 2006, si era ormai ingenerato nel ricorrente, che era rimasto in servizio, un affidamento circa l’ammissione alla nuova rafferma, tutelato dall’ordinamento; è altresì dedotto che tale provvedimento di diniego costituirebbe atto di autotutela, adottato in carenza di potere, questo essendo da ritenere ormai consumato per avere il ricorrente presentato domanda di rafferma da tempo ben anteriore alla notificazione, avvenuta il 29 novembre 2006, del decreto penale, e privo (l’atto di autotutela) della motivazione sull’interesse pubblico all’adozione dello stesso atto, motivazione necessaria a cagione del citato affidamento. 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il motivo si rivela non fondato. E invero, quanto al primo aspetto della censura, va osservato che la non ammissione, essendo conseguente alla carenza di una condizione per ottenere la rafferma, non può essere qualificata come atto discrezionale, dato che, in esito alla riscontrata mancanza di una condizione del genere, l’Amministrazione non può che adottare il provvedimento prescritto, e cioè un atto di non ammissione. Quanto al secondo aspetto, va osservato che l’affidamento sulla ormai intervenuta ammissione alla richiesta rafferma non ha assunto, nella specie, carattere di stabilità; e invero, stante la estrema vicinanza temporale (sette giorni, dal 4 all’11 novembre) delle date sopra menzionate, il periodo del servizio prestato dopo la scadenza della rafferma alla quale il ricorrente era stato a suo tempo ammesso si presenta manifestamente non utile a far ingenerare nell’interessato il ragionevole convincimento del superamento, per motivo non noto, della causa preclusiva della ammissione alla rafferma richiesta. Ciò comporta il rigetto altresì delle ulteriori deduzioni sulla illegittimità dell’atto di diniego ove considerato come atto di autotutela: sia perché un eventuale pregresso atto di ammissione non risulta essere stato mai emanato; sia perché, stante la predetta estrema vicinanza temporale, un eventuale atto di autotutela non avrebbe avuto necessità di una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di ragioni di pubblico interesse per la sua adozione, principio essendo che ragioni del genere occorrono allorquando, e per quanto si è osservato non ricorre il caso, possa ritenersi essersi consolidata la posizione dell’interessato. Con il terzo, ed ultimo, motivo, è dedotta illegittimità per tardività del provvedimento di non ammissione, essendo stato superato il termine di giorni novanta entro il quale l’Amministrazione avrebbe dovuto determinarsi sulla domanda di prolungamento della ferma, con ciò violandosi il disposto dell’art. 2, terzo comma, della legge 7 agosto 1990 n. 241 e successive modificazioni e integrazioni, che prevede un siffatto generale termine di giorni novanta per la conclusione dei procedimenti allorquando, come nella specie, non è fissato un termine diverso. La censura non è fondata. È principio secondo cui i termini previsti dalla norma per lo svolgimento del procedimento amministrativo sono ordinatori, salvo che essi siano dichiarati espressamente perentori, e salvo che la perentorietà si desuma inequivocabilmente dalla finalità che si intende perseguire con la fissazione di essi (cfr., per quanto occorre: Cons. Stato: VI, 19 febbraio 2003 n. 939; VI, 17 settembre 2003 n. 5266). La ragione di tale principio si rinviene nella considerazione che la scansione del procedimento anche mediante la fissazione di termini per l’adozione degli atti intermedi e dell’atto finale ha lo scopo di evitare che la mancata adozione di detti atti nei tempi ritenuti ragionevoli dal legislatore comporti inconvenienti per i soggetti che siano in attesa degli stessi; cosicché la non tempestiva adozione dei medesimi atti, dovendo l’azione amministrativa essere esplicata per il raggiungimento dei connessi scopi di pubblico interesse, non può risolversi senz’altro nella preclusione all’adozione degli atti mancati; in caso del genere, infatti, verrebbe definitivamente meno la possibilità di perseguire proprio quello scopo di pubblico interesse per il cui raggiungimento il legislatore ha conferito all’Amministrazione le relative facoltà. Conseguenza, questa, contraria alla necessità della cura del pubblico interesse. Non sembra inutile osservare che la mancata osservanza del termine prescritto, se non preclude la possibilità di adottare, sia pure tardivamente, il provvedimento previsto, non è comunque priva di qualsivoglia conseguenza; sia nei rapporti con gli amministrati, questi ultimi potendo attivare quanto meno le consuete procedure giurisdizionali per ottenere che il procedimento venga concluso; sia nei rapporti interni fra responsabile del procedimento e I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 233 Amministrazione, potendo questa far valere, nei confronti del primo, responsabilità disciplinari o di altro genere, ove ne ricorrano le condizioni. Se la sopra citata finalità costituisce la ragione dell’affermazione del cennato principio, la stessa finalità spiega anche perché a volte, pur in mancanza di espressa previsione normativa, la perentorietà del termine possa desumersi dal fine che con la fissazione dello stesso termine si sia inteso perseguire; come avviene, esemplificativamente, allorquando il termine sia fissato per la partecipazione a una procedura concorsuale, in cui la perentorietà assicura l’espletamento ordinato della stessa procedura e la par condicio dei concorrenti. Con riferimento alla fattispecie in esame, è agevole osservare, tenendo presente quanto testé detto, che il sopra citato termine di giorni 90 per la conclusione del procedimento non può determinare, ove rimasto inosservato, la decadenza per l’Amministrazione di concludere lo stesso procedimento; una ipotetica conseguenza del genere, infatti, comporterebbe la impossibilità di concludere il procedimento e, pertanto, la sopravvenuta inutilità di tutta l’attività in precedenza svolta, anche da parte del richiedente. Il che, all’evidenza, configge con la finalità di pubblico interesse tesa al reclutamento, mediante rafferme, di militari. Del resto, l’art. 2 della sopra citata legge n. 241 del 1990 prescrive che il procedimento deve essere concluso con l’adozione di un provvedimento espresso; per cui non è neanche ipotizzabile che, una volta scaduto il termine previsto, il procedimento, a cagione della impossibilit à per l’Ammini-strazione di pronunciarsi, resti indefinitamente in uno stato di pendenza. Deve il Collegio, ad abundantiam, evidenziare che, anche a volere seguire la tesi del ricorrente – irrilevanza di sopravvenienze giuridiche rispetto alla data di presentazione della domanda nelle more dell’istruttoria avviata, ove il procedimento non si concluda nel termine di legge – l’eventuale conseguita rafferma, a questo punto in via automatica ed in assenza della previa valutazione della sussistenza dei richiesti requisiti, sarebbe esposta comunque alla caducità della stessa posizione, secondo quanto previsto dall’art. 8, d.P.R. 2 settembre 1997 n. 332, che prescrive il proscioglimento dalla ferma d’ufficio nel caso, tra gli altri, di avere riportato condanna penale per delitto non colposo. Consegue il rigetto della censura. Infine, non giova, al ricorrente, il richiamo al precedente di questa sezione espresso nella sentenza n. 8304 del 2005. Ciò, sia perché le considerazioni sopra svolte vengono ritenute non superabili, il che induce il collegio a rivisitare il pregresso orientamento, sia perché, con riferimento a detta sentenza, il caso presentatosi allora all’esame risentiva della particolarit à consistente nell’avere l’Amministrazione ammesso quel ricorrente al corso di interesse non avvedendosi, per una omissione dell’organo istruttore nel compilare la scheda notizie, che sussisteva una ragione ostativa; e nell’avere, inoltre, adottato il provvedimento di esclusione al termine del corso biennale. Il ricorso, conclusivamente, va respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale - Sezione prima bis, definitivamente pronunciando: - Respinge il ricorso in epigrafe (…) - Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del predetto Ministero, delle spese, delle competenze e degli onorari del presente giudizio, che liquida forfetariamente nella complessiva somma di euro 1.000,00 (mille/00); Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma il 14 febbraio 2007, in Camera di consiglio». 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La crisi dell’impresa beneficiaria di aiuti. Disfunzioni dei mezzi di recupero e ripercussioni nel sistema degli interventi(*) di Vittorio Russo (*) Nel quotidiano dell’attività del mio Istituto in campo di aiuti statali alle imprese, possono rilevarsi alcune criticità della fase di recupero dei relativi contributi, che riterrei interessante proporre in questa sede perché, con l’andare a toccare dinamiche produttive sempre più ‘snazionalizzate’ dalla loro intercomunicabilità finanziaria e commerciale, le stesse tendono a pervadere lo scenario economico europeo. Mi riferisco in particolare agli interventi ex lege 19 dicembre 1992 n. 488, sicuramente i più diffusi e conosciuti, che in deroga al “divieto di aiuti di Stato” sostengono in alcune aree ‘svantaggiate’ lo sviluppo c.d. sostenibile, ossia quei programmi, iniziative o oggetti di ricerca che si dispongano lungo linee evolutive di accettabile impatto socio-ambientale, in un mondo che si presenta sempre più condizionato, anzi ‘disegnato’ dalle tecnologie. Dal che discende, oltre al cofinanziamento comunitario, un appropriato regime di controlli e/o limitazioni degli Organi CE. La relativa specifica disciplina è comunque soltanto elemento di sfondo, su cui dunque non ci si soffermerà, rispetto a quel che qui più interessa, ossia ciò che succede sullo scenario pubblico-economico, quando l’impresa che ha beneficiato di questi aiuti entra poi in crisi. Discorso che, per certe angolature, potrebbe però più in generale riguardare l’intera area della gestione contenziosa degli interventi statali e comunitari, nei vari settori economico-produttivi. (*) Relazione dell’Avvocato dello Stato Vittorio Russo al XXI congresso dell’Unione degli Avvocati europei (U.A.E.): Impresa in crisi. Quali norme e quali principi di diritto comunitario, Catania, 12, 13, 14 e 15 luglio 2007. D O T T R I N A DAL PUNTO DI VISTA PUBBLICO La legge 488 mira dunque, come già accennato, allo sviluppo di alcune aree svantaggiate attraverso la crescita degli investimenti e la creazione di posti di lavoro, in deroga al generale ‘divieto di aiuti di Stato’. Suo dato prenormativo fondamentale è proprio infatti la concomitante esigenza di favorire alcune iniziative localizzate in aree ‘svantaggiate’, innestandosi così alle previsioni del paragrafo 3 lettere a e c dell’art. 87 Tratt. ist. C.E., il quale sancisce l’ammissibilità in deroga al “divieto di aiuti di Stato” di quelli, rispettivamente, “destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione” (quelle del nostro Mezzogiorno, secondo l’impianto della normativa in questione) e “di quelli destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse” (Regioni del Centro Nord d’Italia). Essa sostiene a tal fine programmi di investimento delle imprese per la realizzazione di nuovi impianti, e l’ampliamento, l’ammodernamento, la ristrutturazione, la riconversione, la riattivazione e la delocalizzazione di quelli esistenti, con particolare favor per le azioni che puntano al raggiungimento di condizioni di maggiore sicurezza per l’ambiente. Già dal dato teleologico può arguirsi l’impatto che questi interventi possono avere nelle dinamiche di circolazione dei beni e dei servizi in Europa, e dunque perché debbano costantemente ‘far i conti’, oltre che col detto generale divieto di aiuti di Stato, col connesso regime comunitario della libera concorrenza. Col sancire infatti l’incompatibilità con il mercato comune degli aiuti che, favorendo talune imprese o produzioni falsino o minaccino di falsare la concorrenza, l’art. 87 cit. persegue il raggiungimento dei maggiori e migliori livelli produttivi, per garantire sia uno sviluppo socio-economico omogeneo dell’area comunitaria, che la massima competitività di questa verso l’esterno. È vero anche, d’altra parte, che il principio dinamico della libera concorrenza opera in economie evolute; allo stesso modo che la lotta rafforza i forti, e dunque anche il loro gruppo. In aree di economia debole un’interpretazione pura di questo principio evolutivo sortirebbe l’effetto opposto, per ovvi motivi, e dunque è preferibile far ricorso all’effetto ‘moltiplicativo del reddito ’, di nuove realtà produttive e/o del rilancio di quelle esistenti, di modo che anche queste diventino in grado di competere, ed il sistema economico generale riprenda un giorno ‘con gli interessi’ ciò che a tal fine investe. La Comunità si riserva dunque una costante attività di monitoraggio e controllo della normativa nazionale, fondamentalmente attraverso la necessità di approvazione di ogni nuovo regime di aiuti, da parte della Commissione Europea, o l’emanazione di appositi regolamenti e/o un’idonea attività di sorveglianza. È intuitiva l’estrema delicatezza del miscelare accortamente questi due fattori di sviluppo, funzione che richiede cabine di regia molto attente, professionali e ben posizionate, ed in grado di intervenire sul complesso scena- 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO rio con la maggiore libertà di movimenti. Dal che può facilmente arguirsi come ogni disfunzione di un sistema di interventi come quello qui da noi della 488, oltre a vulnerare la finanza statale e comunitaria latamente intesa, ossia come insieme di tutte le risorse, si pone prima ancora come ostruzione all’accennata sinergia di sviluppo. E di tutto il suo indotto in termini socioeconomici e culturali. Questa è l’idea di fondo del presente discorso. DAL PUNTO DI VISTA DEI PRIVATI La legge 488 rappresenta, com’ è noto, un’opportunità molto appetita per le imprese. Anche perché l’art. 7 del suo Regolamento di attuazione, D.M. 20 ottobre 1995 n. 527, prevede che la prima, delle due o tre quote che vengono erogate dalla banca concessionaria “può anche essere erogata a titolo di anticipazione, previa presentazione di fidejussione bancaria o polizza assicurativa irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima richiesta, di importo pari alla somma da erogare e di durata adeguata”. Questa caratteristica, di ‘preventività’ del finanziamento è divenuta elemento essenziale dell’intervento in questione, a far data dal 1° gennaio 2000, diversamente dal preesistente regime ‘a consuntivo’, ed in coerenza col nuovo principio di necessità dell’aiuto (v. dec. Comm. eur. 12 luglio 2000). Se questo elevato livello di provvidenzialità degli aiuti ha consentito l’ingresso nel mondo dell’impresa ad operatori altrimenti impossibilitati, per gli alti costi sia d’impianto di aziende tecnologicamente sempre più sofisticate, sia del lavoro e sia dell’accesso al credito, i relativi volumi di denaro hanno per converso attratto anche affaristi, faccendieri, imprenditori improvvisati e talvolta, specie nel Mezzogiorno d’Italia, gli appetiti di note organizzazioni criminali. RIMEDI E …PROBLEMI 1. La normativa c.d. antimafia. Ci si riferisce alle “informazioni prefettizie” previste dai noti D.Lgs. n. 490/94 e d.P.R. n. 252/98 quali presupposti indefettibili per la stipulazione di ogni contratto della P.A. con soggetti privati, o per l’erogazione di incentivi in favore di questi ultimi, su eventuali “tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società ed imprese interessate” che, se positive – ed alla p.a. stipulante o concedente non è lasciato alcuno spazio discrezionale – assumono valenza ostativa o interdittiva nell’ambito del procedimento per il quale sono state richieste. Alle ordinarie misure di prevenzione antimafia si è pertanto aggiunto questo ulteriore strumento di contrasto della criminalità organizzata, consistente appunto nell’esclusione dell’imprenditore sospettato di legami o condizionamenti da infiltrazioni mafiose, dai pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e/o l’utilizzo di risorse della collettività (sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 24 ottobre 2000, n. 5710). Si tratta di misure di natura preventiva certamente drastiche, di una ‘difesa avanzata’ che presenta forse discutibili profili legali, ma del tutto DOTTRINA 237 comprensibile almeno sul piano effettuale, nelle storiche criticità socio-economiche di alcune regioni, e nella pericolosità a volte drammatica di questo tipo di delinquenza. Non occorrerà spendere troppe parole, davanti ad un uditorio di esperti del diritto comunitario, sull’attenzione dell’Unione verso questa vera e propria piaga dello sviluppo. I soggetti di questa rete – si parla ormai di crimine ‘transnazionale’ – non sono più i singoli delinquenti, e nemmeno la ‘mafia’, la ‘ndrangheta’ o la ‘camorra’, ma il linguaggio tecnico più al passo coi tempi li identifica com’è più esatto, con le ‘mafie’, che nascono ed operano in tutto il mondo. Tanto per citare uno dei tanti documenti di questo interesse europeo, più per l’intensità del titolo che per una sua importanza maggiore di altri, si ricorda il “Piano d’azione di lotta contro il crimine organizzato” del 1997. E, senza voler nemmeno entrare in spazi sempre più ‘transnazionali’ del ‘diritto penale dell’economia ’, si accennerà solo alle nuove figure di reati contro la p.a. o il patrimonio, che vedono oggi come soggetto passivo la stessa Comunità (v. art. 316 bis c.p., malversazione a danno dello Stato o delle Comunità europee), o il 316 ter (indebita percezione di erogazioni dallo Stato, enti pubblici e organi comunitari); il 640 bis (truffa aggravata per conseguire le stesse erogazioni). L’esperienza dei processi che vedono impegnata l’Avvocatura dello Stato parrebbe confermare l’idea che si vada affermando in Italia un tipo di criminalità di stampo manageriale, che trova la sua massima efficienza sempre meno nel gangsterismo classico ‘dell’altra parte’ della società, ma situandosi ai margini della legalità – il che la rende più pericolosa – dialogando e collegandosi in una sinergia, sempre meglio attrezzata, di partners internazionali. I giudici amministrativi non possono, per parte loro, che rispondere con una costante attenzione, di cui va dato pubblicamente atto, nel loro sindacato di legittimità, su quelle situazioni amministrative che potrebbero favorirla. È noto infatti che la criminalità predilige assetti pubblici stagnanti e disfunzionali, che vengono invece vivificati da un efficace sindacato del giudice. Sindacato che deve dunque estendersi anche ai certificati antimafia; non potendo certo, una tale pur grave emergenza, dar ingresso a soluzioni da ‘Stato di Polizia’. Poiché peraltro l’autorità governativa è deputata a valutare la sussistenza di tali pericoli da semplici “informazioni”, e non necessariamente da vere e proprie notitiae criminis, le quali imporrebbero l’adozione in sede penale di altro tipo d’iniziative (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 5 ottobre 2006, n. 5935; Sez. VI, 26 ottobre 2005 n. 5981) ci si attenderebbe, nella logica di tale sistema, che la sindacabilità in sede giurisdizionale di questi “sbarramenti” del pubblico denaro verso suoi possibili usi distorti e perversi, sia limitata a casi limite percepibili ab exstrinseco dallo stesso certificato. Bisogna comunque dare atto che quasi sempre, ‘a percezione’ direi in un 80-90% dei casi almeno, i TT.AA.RR. respingono i ricorsi, ed anche le domande cautelari, dando così buona prova di una certa … doverosa circospezione, nel valutare le doglianze dei ricorrenti (ex multis, TAR Lazio, Sez. III ter, 15 marzo 2007 n. 385). 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2. Una …falla del sistema Ma elementi di criticità vengono introdotti nel sistema da alcune soluzioni istruttorie, che si vedono piuttosto spesso adottate, già in fase cautelare. È noto come nel corso degli ultimi decenni, si siano andati, man mano erodendo i tradizionali limiti della giurisdizione di legittimità sui provvedimenti amministrativi, per consentirne un vaglio sempre più penetrante e con maggiori possibilità esplorative del relativo procedimento. Il che ha notoriamente prodotto grandi miglioramenti, in termini di efficienza della giustizia amministrativa in Italia. Ma, come tutte le terapie, anche questa presenta qualche controindicazione; e può qualche volta anche succedere che il rimedio si riveli …peggiore del male. Il mezzo cautelare si basa infatti su un fondato timore, di un danno grave ed irreparabile al bene di cui chiede la protezione giudiziaria, durante il tempo a ciò occorrente. Costituisce peraltro ormai ferma acquisizione della giurisprudenza amministrativa la sempre immanente necessità, in questo campo, di una comparazione del periculum in mora paventato da chi invochi l’inibitoria, col danno che all’opposto la sospensiva cagionerebbe ai pubblici interessi amministrati dalla p.a.. Ma s’è appena visto che anche gli strumenti interdettivi, della legislazione antimafia in esame, si basano su un timore. E certamente più grave di quello del privato frustrato nelle sue pur (astrattamente) legittime aspirazioni! Parrebbe infatti addirittura ovvia la prevalenza dei pericoli per la collettivit à di iniezioni di capitali ‘freschi’ nelle casse della malavita organizzata, rispetto al mancato conseguimento di attribuzioni comunque gratuite o della possibilità di stipulare un determinato contratto col soggetto pubblico da parte del privato. Il quale, latamente e tecnicamente parlando, agisce de lucro captando. E comunque la misura degli interessi in campo è data dalla legge. Ci si attenderebbe dunque che la possibilità di inibitorie giudiziali di questo tipo di provvedimenti resti poco più che teorica, apparendo ardua operazione logica il neutralizzare una cautela per cautelarsi da un male minore; nel che, giusta le premesse, parrebbe in ultima analisi risolversi una sospensiva di questo tipo. Ma se ne vedono (TAR Lazio, Sez. III ter, 9 giugno 2005 n. 869, per citarne una). Non sembra tuttavia questo, l’aspetto più critico del procedimento cautelare in questa materia, essendo ben possibile che anche le ‘informazioni prefettizie’ sbaglino, e giusto che ci sia sempre e per tutti un’“ultima spiaggia”. La quale, in una società civile, meriterebbe comunque sempre il prezzo del possibile errore del giudice. Quel che appare francamente più difficile da comprendere, sono invece i frequenti provvedimenti istruttori che ordinano sic et simpliciter all’Amministrazione, per le necessità connesse a tale prima indagine giudiziale – si è sempre, lo si ricorda, in sede cautelare – di versare agli atti di causa gli elementi su cui si fonda il provvedimento prefettizio (ex plurimis, TAR Calabria, 20 aprile 2006, n. 126; TAR Calabria, Sez. II, 12 gennaio 2006; TAR Lazio, Sez. III ter, 9 giugno 2005 n. 869; TAR Campania, 21 febbraio 2002 n. 1256). E non occorre dire – è nelle regole del processo – che ciò equivale a divulgazione dei medesimi a tutte le parti del giudizio, compreso e prima di DOTTRINA 239 tutti il ricorrente, che di regola è naturalmente lo stesso sospettato, o suo parente o consocio! E nemmeno occorrerà spiegare che questa documentazione è normalmente costituita da rapporti, referti d’indagine, comunque concernenti notizie di reato, con altri nomi ed in ordine ai quali potrebbero esservi altre indagini od operazioni in corso…E meno spendere parole sulla prioritaria esigenza di una loro estrema riservatezza, quando addirittura non si tratti di atti coperti da segreto istruttorio! A questo talvolta si aggiunge, nella concreta e quotidiana esperienza delle aule, la sensazione, anche un po’ inquietante, di ricorsi ‘senza speranza’, rivolti forse proprio ad esplorare i risultati delle indagini di polizia sottostanti alle “informazioni prefettizie”, attraverso sollecitazioni a volte ‘abili’ e a volte accanite di queste necessità …istruttorie, da parte delle private difese. Il pericolo comunque di involontarie ‘rotte di collisione ’ fra funzioni dello Stato che richiederebbero invece la massima sinergia di sistema, derivante da questa diciamo ‘standardizzazione’ di criteri processuali, sembra a dir poco evidente. Al pari dell’ulteriore vantaggio per la criminalit à. Cui certo non corrisponde un vantaggio per il tessuto comunitario. 3. Le garanzie fidejussorie L’adozione del provvedimento definitivo in favore dell’impresa beneficiaria, ai sensi della legge 488/1992, richiede la positiva verifica di una serie di indici rivelatori di un’affidabile raggiungibilità degli obiettivi dell’investimento, i quali possono tuttavia richiedere un sostegno economico immediato. Il che dà normalmente ingresso al cd. ‘sistema delle anticipazioni’, previso dall’art. 7 d.m. cit., il quale stabilisce innanzitutto l’‘impegno’ dell’importo dell’agevolazione “con il decreto di concessione provvisoria” da parte del Ministero oggi dello Sviluppo Economico, che viene reso disponibile, a seconda dei casi, in due o tre quote annuali, erogate “dalla banca concessionaria subordinatamente all’effettiva realizzazione della corrispondente parte degli investimenti, eccezion fatta per la prima, che può anche essere erogata a titolo di anticipazione, previa presentazione di fidejussione bancaria o polizza assicurativa irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima richiesta, di importo pari alla somma da erogare e di durata adeguata”. Ed è a questo punto, ossia dopo l’anticipazione della prima tranche del contributo, che sopraggiungono molti insuccessi dell’iniziativa, dovuti a problemi di realizzazione dell’opificio, al mancato ottenimento di concessioni e/o altre difficoltà di avvio della produzione o di altra natura, che una buona tecnica d’impresa dovrebbe di regola superare. È difficile stabilire quante volte ciò vada ricollegato a gravi mancanze di professionalità imprenditoriale, o costituisca espressione di veri e propri iniziali disegni truffaldini o comunque di modalità dolose di ottenimento del contributo. Discorso questo che non appare comunque utile sviluppare in questa sede, stanti anche la difficoltà di precise linee di demarcazione fra le due fattispecie (culpa gravis proxima dolo), ed altri essendo comunque gli aspetti che più preme approfondire. Quali che siano le sue cause e modalità, l’insuccesso dell’iniziativa dà ingresso al procedimento di ‘revoca’ del contributo che la sosteneva. La prassi amministrativa usa ormai in modo piuttosto indifferenziato questo ter- 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mine, con buona pace della più appropriata terminologia della teoria generale degli atti ‘di ritiro’ e della giurisprudenza, che tradizionalmente distinguono fra annullamento, revoca, e dichiarazione di decadenza. E dunque anche qui, in coerenza col dato di prassi, da sempre fonte primaria in materia di concessioni, si userà il termine “revoca”, sia che la provvidenza venga meno a seguito dell’accertamento ‘ab origine’ di taluno dei suoi presupposti, sia per motivi sopravvenuti, ossia in pratica per il mancato adempimento degli obblighi del beneficiario. Criterio questo che è alla base del tradizionale riparto di giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario (Cass., SS.UU., 29 settembre 2004, n. 18844). Non appena rilevata taluna delle patologie, è in genere lo stesso istituto di credito concessionario a richiedere al soggetto ‘fidejussore’ la restituzione della prima rata del contributo, attraverso gli adempimenti nelle modalità descritte dal su riportato art. 7 d.m. 527/92 cit.. Ed ecco che un primo elemento campeggia in questo scenario: mentre le coperture bancarie non danno quasi mai luogo a problemi, quelle assicurative comportano un vastissimo contenzioso. 4. Il ‘problema’ delle inibitorie giudiziali 4.1. Tipicamente questo inizia con un ricorso ex art. 700 c.p.c. e/o 29 D.Lgs. 46/1999, che il più delle volte riesce ad ottenere l’ordinanza si sospensione dell’esecutività della cartella. Salvo il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c., che comporta una revisione collegiale (il più delle volte confermativa) da parte dello stesso tribunale che in sede monocratica aveva concesso l’inibitoria, non vi sono altre possibilità di gravame, e l’effetto inibitorio si protrae per tutto il tempo del giudizio di merito, pari a cinque anni almeno. Tali ricorsi in genere s’infulcrano, in punto di fumus boni juris, sulla necessità del previo provvedimento di revoca, o sul già avvenuto esaurimento del periodo di validità nei confronti del garantito e, motivo che sembra di gran lunga il più fortunato, sull’asserita non utilizzabilità della cartella esattoriale. Quanto invece al requisito del danno grave ed irreparabile, questo normalmente si risolve in un giro di parole per spiegare, più o meno circostanziatamente … il peso dell’esborso per l’impresa; sul che si tornerà più avanti. Altre volte è il ‘garantito’ (beneficiario del contributo revocato) a ricorrere, paventando il periculum in mora della rivalsa da parte del fidejussore, ove non ne venga inibita la previa escussione. Ma questi ultimi ricorsi sono in genere proposti al TAR – la giurisprudenza amministrativa che afferma la mera consequenzialità della cartella rispetto al provvedimento di recupero, e dunque la vis atractiva della relativa giurisdizione del G.A. è piuttosto pacifica – dove essi incontrano decisamente …minor fortuna, per fortuna dei pubblici interessi amministrati. Ma spesso, e specie quelli aventi ad oggetto somme più rilevanti vengono proposti, rimodellando opportunamente i ricorsi, sia davanti al TAR che davanti al Tribunale, essendo, com’è chiaro, il provvedimento sospensivo quel che più importa, da dove che venga. 4.2. Tornando ai ricorsi delle imprese assicuratrici, il diffondersi della cennata giurisprudenza cautelare a loro favore, tende a neutralizzare la risor- DOTTRINA 241 sa legislativa di cui al cit. art. 7. Ma questo è entro certi limiti un aspetto fisiologico di ogni sistema di grandi tradizioni civili, e pur sembrando tuttavia affiorare, da alcune soluzioni giurisprudenziali, un’ancor scarsa percezione ‘europea’ dei problemi. Discorso che deve necessariamente muovere da alcuni aspetti tecnici della garanzia prevista dal su riportato art. 7 Reg. 488, e consistente nella “fidejussione bancaria o polizza assicurativa irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima richiesta”. Si verrà subito al cuore di un’ormai antica questione, cui è stata finora attribuita un’importanza che forse non merita. Ossia ci si è posto il problema se, in presenza della sua escutibilità “a prima richiesta”, si versi in ipotesi di vera e propria fidejussione, caratterizzata dalla sua accessorietà al rapporto principale fra creditore (nella specie lo Stato) e debitore (il beneficiario del contributo revocato), o non piuttosto di un “contratto autonomo di garanzia” – distinzione questa valorizzata principalmente al fine di escludere, insieme all’accessorietà del rapporto creditore-terzo fidejussore (l’assicuratore), la diretta ‘escutibilità’ (anche) di questo (in quanto non si tratterebbe di un vero e proprio fidejussore) attraverso cartella esattoriale. Sul fronte assicurativo si tende a sostenere, per paralizzare la pretesa dello Stato al recupero in quella direzione, che si tratta di un rapporto di tipo essenzialmente assicurativo, fra un “fidejussore” soltanto di nome e il beneficiario che si appresta a ricevere la prima tranche del contributo, che vede lo Stato terzo beneficiario dell’‘indennizzo’, al verificarsi dell’evento-rischio della mancata restituzione del contributo, in caso di revoca. A ciò si ribatte, prescindendosi da aspetti dottrinali che poco interessano, che ben possono le parti nella loro autonomia comunque porre in essere anche contratti atipici, sol che resti lecita la loro causa; e dunque nulla vieta di considerare queste polizze un prodotto lato sensu finanziario, che adempie alla funzione, questo davvero conta, di assicurare allo Stato il pronto rientro della liquidità appena intervenga o anche soltanto si profili la revoca, com’ è nell’evidente logica dell’art. 7 cit. 4.3. Ma la singolarità della vicenda trascende i suoi aspetti strettamente ermeneutici. Di solito, infatti, questa diatriba in sede teorica non si riflette sull’an del debito dell’assicuratore verso lo Stato, ma si esaurisce – ciò a quanto pare basta ad ottenere la sospensione della cartella – nella sola questione della diretta recuperabilità mediante cartella esattoriale anche verso esso “fidejussore”. Sostengono in punto le società assicuratrici fidejubenti che, trattandosi di obbligazione civilistica e non tributaria verso la P.A., di carattere meramente privatistico, e non avendo il D.M. di revoca la consistenza di titolo esecutivo nei loro confronti, non si potrebbe provvedere alla loro iscrizione a ruolo, a norma dell’art. 21 D.Lgs. 26 febbraio 1999, e dunque alla notifica della cartella esattoriale. Al che non si manca di rispondere che l’art. 17 D.Lgs. cit. espressamente estende la possibilità di riscossione mediante ruolo a tutte le entrate dello Stato, e dunque non solo per quelle aventi natura tributaria, mentre l’art. 24, comma 32 della legge n. 449/97 più specificamente dispone, che “il provve- 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dimento di revoca delle agevolazioni disposte dal Ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato, in materia di incentivi all’impresa costituisce titolo per l’iscrizione al ruolo, ai sensi dell’art. 67, comma 2 del decreto del Presidente della Repubblica 28 gennaio 1998 n. 43, e successive modificazioni, degli importi corrispondenti degli interessi e delle sanzioni”. Parrebbe davvero meridiana e conclusiva l’evidenza del combinato di queste due norme, che privilegiano la funzione di questi crediti della finanza pubblica, la quale richiede ogni mezzo di più pronto recupero di quel denaro, appena si vede che per qualsiasi motivo esso abbia mancato l’obiettivo incentivale, per reimpiegarlo subito! E tanto più che la disposizione da ultimo richiamata fa parte di una ‘legge finanziaria’, protesa a rafforzare ogni strumento propulsivo dello sviluppo economico, e non certo gli aspetti soggettivi passivi della relativa obbligazione. Resterebbe altrimenti da spiegare perch é mai, in un ottica di …pronta cassa, il legislatore andrebbe a preoccuparsi di potenziare i mezzi di recupero verso un debitore (‘principale’) che il più delle volte si è reso insolvibile, per lasciare invece i comodi di cavilli giuridici e cinque anni almeno di causa (il cd. …articolo quinto…) al soggetto di sicura solvibilità, che sta lì proprio come garante di quell’adempimento! Quand’ ancora occorresse, è proprio l’art. 7 Reg. 488 cit. – per circa la metà finanziata, lo si ricorda, dal denaro comunitario – a pretendere dal “fidejussore ”, quale indefettibile presupposto della provvisoria anticipazione e dunque della garanzia che egli a tal fine fornisce al percettore, il ruolo di ‘prolungamento ’ della solvibilità’ di questi in quella stessa obbligazione restitutoria che segue la revoca, e non di contraente di un’altra, sulla scorta di elaborazioni teoriche forse valide in generale, ma nella specie avulse dall’evidente concreta funzione dello strumento economico-finanziario, ed utili soltanto per non pagare: ‘in claris non fit interpretatio’, verrebbe proprio da dire. Né manca un’avveduta giurisprudenza, a convalidare i pur semplici argomenti ora esposti, col mettere in chiaro questi punti: a) la cartella di pagamento non rappresenta che un atto meramente consequenziale rispetto al provvedimento con cui è disposta la revoca delle agevolazioni (v. parere Consiglio di Stato del 7 ottobre 2003 n. 583 reso in parere su ric.straord Tris Cotton srl c/MICA, ordinanza TAR Sicilia n. 1173/02 in causa Distil.Co.Vi. scarl c/ MAP) o “con cui è disposto il recupero”; TAR Lazio n. 8148/01 in causa Mobilificio Gare c/ MAP, e dunque la società assicuratrice non otterrebbe alcun vantaggio dal solo annullamento della cartella esattoriale, in assenza di una pronuncia di annullamento del prodromico provvedimento di revoca; b) È del tutto legittima la riscossione mediante ruolo impiegata dalla P.A. nei confronti dei garanti, stante proprio che “l’art. 17 del D.Lgs. 46/99 ha esteso l’impiego della riscossione mediante ruolo a tutte le entrate dello Stato anche diverse dalle imposte e anche aventi causa in rapporti di diritto privato, come si ricava dall’art. 21 del medesimo decreto. Perciò l’esecuzione in base ai ruoli si è sostituita al più antico strumento dell’esecuzione in base ad ingiunzione, disciplinato dal R.D. 639/1910. E il ruolo può essere impiegato anche nei confronti della assicurazione in quanto obbligata soli- DOTTRINA 243 dalmente ex art. 1944 c.c., in forza della polizza fidejussoria divenuta operativa col provvedimento di revoca che ha disposto contestualmente l’escussione del fidejussore ed è stato a questi notificato”; 3) Ogni residuo dubbio resterebbe fugato proprio dal già visto art. 24 comma 32 della L. 449/97, che costituisce “titolo per l’iscrizione a ruolo… ovviamente rispetto a tutti gli obbligati. Una diversa interpretazione, che ammettesse l’esecuzione coattiva solo rispetto al debitore principale, sarebbe irragionevole perché verrebbe di fatto ad annullare la funzione di rafforzamento delle ragioni creditorie perseguite con il vincolo della solidarietà che invece, per realizzarsi, deve consentire l’azione indifferentemente contro il debitore principale o contro il fidejussore anche sotto il profilo degli strumenti di riscossione utilizzabili.” (Trib.Trieste, 5 maggio 2005 n. 714, in causa RAS Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.A. c/M.A.P.). 4.4. Sennonché, le suaccennate distinzioni, per negare che si possa azionare con la cartella esattoriale il credito anche verso il garante, continuano ad incontrare un’incredibile fortuna presso molti giudici in sede cautelare, che inibiscono il recupero del contributo revocato alle casse della collettività (ex multis, Trib. Potenza, 5 giugno 2001, ric. Generali; 15 febbraio 2002, ric. Generali; Trib. Roma, 18 marzo 2002, ric. Generali; Trib. Napoli, 2 ottobre 2002 ric. Generali; Trib. Napoli, 26 novembre 2002 ric. Generali; Trib. Napoli, 18 novembre 2003 ric. Generali; Trib. Roma, 2 marzo 2005, ric. Generali; Trib. Roma, 30 gennaio 2006, Trib. Roma, 13 luglio 2006, ric. Generali ric. S.I.C.; Trib. Roma, 19 settembre 2006 ric. INA Assitalia; Trib. Roma, 18 novembre 2006, ric. Generali; Trib. Roma, 20 aprile 2007 ric. INA Assitalia. Potrebbe rispondersi che nemmeno il solve et repete dà a nessuno, neanche allo Stato, il diritto di andare ad escutere militari manu l’obbligato, e che anche la cartella esattoriale deve avere un suo giudice. E nonostante tutto quel che s’ è detto debba concedersi l’ipotesi che un fumus boni juris vi sia, sempre spettando l’ultima parola al giudice. Sul che dovrebbe naturalmente convenirsi. L’oggetto dell’inibitoria giudiziale è qui, tuttavia, il più energico strumento di recupero delle pubbliche risorse, eretto a presidio della stessa collettivit à, sia statale che europea – questo è il dato di mentalità che si va cercando – stante il fatto che l’Europa non può che cercare le sue risorse all’interno degli Stati e per mezzo dei loro organi. Dal che ci si attenderebbe un’indagine particolarmente accurata, prima di ‘legare le mani’ alla P.A. nel recupero di contributi co-finanziati dall’Europa, sul periculum in mora richiesto dagli artt. 700 c.p.c. (“chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile” può ottenere “i provvedimenti d’urgenza che appaiono secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito”) e 29 D.Lgs. 46/1999 (“Per le entrate … non tributarie, il giudice competente a conoscere le controversie concernenti il ruolo può sospendere la riscossione se ricorrono gravi motivi”), in base ai quali, congiuntamente, vengono di solito richieste le inibitorie di cui ci si sta occupando. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Orbene, le motivazioni in relazione al periculum in mora, e specie alla luce del ruolo funzionale appena rimarcato della garanzia fidejussoria, mostrano un ragionamento di tipo circolare, ossia finiscono col postulare il danno nel fatto stesso che l’assicuratore dovrebbe altrimenti pagare il rilevante importo cui si era impegnato, ossia a ben vedere …nello stesso contenuto obbligazione contrattuale! Ed infatti, anche se non sempre è enunciato in modo lineare nelle scarne motivazioni dei provvedimenti, emessi tutti in base all’art. 29 cit.: 1) la stessa prestazione dedotta in contratto, ossia l’obbligo di pagare in luogo dell’assicurato, diventa il pregiudizio; 2) la stessa immediata esigibilità “a prima richiesta” viene a realizzare il requisito dell’‘imminenza ’; 3) quanto all’irreparabilità, ravvisata nell’eccessiva onerosità dell’importo assicurato per la tenuta finanziaria dell’assicuratore, questa era, invece, proprio il presupposto della idoneità a prestare quella fidejussione, ossia il requisito soggettivo richiesto da quel contratto! Il che aggiunge un sapore paradossale alla singolare soluzione motivazionale, essendo peraltro chiaro che l’importo garantito è in funzione del premio che lo stesso assicuratore ha percepito dall’assicurato, verso il quale ha a sua volta adottato tutta una serie di misure di rivalsa proprio per l’eventualità del pagamento. Si riportano qui di seguito una tipica motivazione di questi provvedimenti: “…l’ingente importo del credito integra il requisito del ‘periculum in mora’ …sotto il profilo della compressione della libertà negoziale e più specificamente della libertà di esercizio dell’impresa della società assicurativa, venendo sottratte in difetto della cautela ingenti risorse economiche al sistema cd. del ‘ciclo produttivo invertito’” (Trib. Roma, 13 luglio 2006, cit.). Non sfuggirà la genericità della motivazione, ed in quest’ultimo caso si parlava di oltre 1.000.000 Euro… Ma soprattutto resterebbe da sciogliere il paradosso dell’esigenza della fidejussione in relazione all’importanza delle somme anticipate, quando poi questa stessa diventerebbe un ostacolo per riscuoterle … dal garante. Né il giudice sembra essersi minimamente posto il problema di cosa significasse invece quel denaro per lo Stato e la Comunità. E, soprattutto, a cosa funzionasse. 4.5. Come già accennato e meglio si vedrà, provvedimenti giudiziari di questo tipo vengono a disporsi in posizione interdittiva rispetto agli obiettivi comunitari della legge 488. Il progressivo espandersi, d’altra parte, della funzione normativa europea, col relativo ridimensionamento della stessa sovranità statale, riesce peraltro, attraverso soluzioni molto evolutive della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sempre meglio a ‘smaltire’ gli effetti di sentenze di giudici nazionali che vanno, sia pur inavvertitamente, a porsi in rotta di collisione con i ‘trascendenti’ obiettivi comunitari. Importanti decisioni di questa hanno portato alla ribalta della giurisprudenza il problema dell’attuabilità del diritto comunitario di fronte ad una contrastante res judicata di un giudice nazionale, la cui autorità è comunemente riconosciuta nell’interesse della certezza del diritto, sia pur con deroghe negli stessi ordinamenti interni, ed a certe condizioni in quello comunitario, come stiamo per vedere (seguendo la traccia delle conclusioni presen- DOTTRINA 245 tate dall’Avvocato Generale L.A. Geelhoed il 14 settembre 2006 nella causa, su questione pregiudiziale, C-119/05 Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato contro Lucchini Siderurgica SpA). Si tratta delle note sentenze Eco-Swiss (1° giugno 1999, causa C-126/97), Köbler (30 settembre 2003, C-224/01), Kühne & Heitz (13 gennaio 2004, C-453/00) Kapferer (16 marzo 2006, C-234/04). Si è ritenuto che al di là dell’enfasi della c.d. ‘intangibilità del giudicato’, questo non abbia un valore assoluto, per il suo venir meno di fronte alla frode o alla flagrante violazione dei diritti fondamentali o, già nella giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, alla violazione di diritti comunitari fondamentali (16 aprile 2002, Ric. n. 36677/97 S.A. Dangeville/Francia). Partendo proprio dalla preminenza del diritto comunitario, la Commissione distingue tra l’autorità conferita a sentenze di organi giurisdizionali nazionali in cui vengono accertati in contraddittorio diritti disponibili, e quella di sentenze nel settore degli aiuti statali, che s’infulcrano sulla questione fondamentale della loro legittimità, retta da norme comunitarie vincolanti. Si distingue ancora, quanto agli effetti di una sentenza di un giudice civile relativi ai poteri della pubblica amministrazione, tra livello nazionale e livello (superiore) di procedura di concessione di aiuto, che richiede per il suo perfezionamento l’approvazione da parte della Commissione all’aiuto notificato, in conformità agli obblighi imposti dal diritto comunitario, ed alla stregua di una decisione inappellabile, vincolante per tutti gli organi dello Stato; nel che si esprime anche la certezza del diritto a livello comunitario. Diritto destinato ad affermarsi anche e soprattutto a livello nazionale e nella sua piena effettività, giusta l’obbligo di applicazione delle norme interne in modo da non rendere praticamente impossibile la ripetizione dell’aiuto in forza del diritto comunitario (sentenze 20 settembre 1990, c. C-5/89, Commissione/Germania (BUG-Alutechniek), e 20 marzo 1997, c.C-24/95, Alcan Deutschland), ed il sempre immanente primato del diritto comunitario (sentenza 7 gennaio 2005, c. C- 201/02, Wells; 28 giugno 2001, c.C-118/00, Larsy; Kühne & Heitz, già citata, punti 23-28). Nelle quattro sentenze su menzionate (Eco-Swiss , Köbler, Kühne & Heitz e Kapferer), rileva l’Avvocato generale, non si metteva in discussione “l’esercizio di una facoltà comunitaria in quanto tale”. Quando invece ciò avvenga, come nel caso sottoposto al suo esame, che “scavalca” la giurisdizione riservata, “anche in prima istanza” e secondo il diritto comunitario, alla Corte sulla legittimità dell’aiuto e sui connessi obblighi dello Stato membro (questione che), “il principio ‘res judicata pro veritate habetur’ che vale per le parti interessate, deve soccombere di fronte ad un interesse legittimo più rilevante”. 4.6. Non di sentenze, però, ci si sta qui occupando, e meno che meno di ‘giudicati’, riferendosi a questi la breve rassegna che precede. L’enunciata riaffermazione del primato del diritto comunitario, incontra così, nel nostro caso, un doppio limite funzionale: i dicta giudiziari presi qui in considerazione sono provvedimenti ‘cautelari’, ossia per definizione destinati a scongiurare per l’immediato un danno grave ed irreparabile, sia 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO pur attraverso un sommaria delibazione del fumus boni juris, ad essere poi – e purtroppo in Italia molto poi – superati dalla sentenza definitiva. Il che introduce una problematicità per alcuni versi peculiare. Già di per sé in forza della loro intrinseca natura esecutiva, e pur non avendo valore formale di sentenze, questi possono neutralizzare o falsare l’intervento comunitario modificando, anche con effetti a catena, gli equilibri del sistema. Si è infatti già accennato al fatto che il mancato tempestivo recupero del contributo lo distoglie definitivamente dalla sua funzione, non rientrando più nei ‘bandi 488’. E dunque, oltre al danno preesistente al procedimento giudiziale d’urgenza, del non essere l’esborso statale e comunitario più servito a dar vita all’impresa produttiva, vi si aggiunge quello di non poter ridisporre di quel denaro per sostenerne un’altra. Il che arreca una perturbazione l’intero sistema di valori presidiato dall’art. 87 CE, ossia: a) innanzitutto alle esigenze di sviluppo e dunque al reddito della zona del territorio nazionale in cui viene, per il mancato recupero e reimpiego del contributo, a mancare l’(altra) realtà produttiva che si sarebbe potuta, in alternativa, vitalizzare con quel denaro; b) all’equilibrio delle deroghe ‘di zona’ al divieto d’aiuti, risultando per tal via relativamente avvantaggiata un’altra zona, dove le risorse comunitarie e nazionali si riescono a mettere meglio a frutto, ma nel contempo frenandosi la sinergia continentale; c) venendo a mancare uno degli operatori in concorrenza, che resta così indebolita. 4.7. Vero è che questi danni si verificano anche a seguito di giudicati, ed anche quando può riaffermarsi il primato del sistema istituzionale comunitario, evidenti ragioni pratiche rendono pressoché impossibile una loro riparazione per così dire ‘in forma specifica’. Ma mentre nel caso di un provvedimento concessivo dell’aiuto da parte dell’autorità amministrativa nazionale, illegittimo che poi risultasse, così come nel caso di un giudicato del giudice nazionale contrastante con l’attribuzione comunitaria, comunque v’è stata una compiuta valutazione degli interessi in campo sulla scorta di tutti i dati a disposizione, e dunque può pagarsi il prezzo dell’errore, nei casi dei provvedimenti cautelari invece (che possono essere concessi anche inaudita altera parte, e comunque senza veri e propri oneri di contraddittorio), il giudice decide soltanto in base ad una ‘delibazione’, ossia in sostanza, ad una prima idea sulla scorta di un rapido esame alle carte. Sono previsti, è vero, anche dei ‘reclami’ avverso queste ordinanze, ma con un rito parimenti d’urgenza, e davanti allo stesso ufficio giudiziale, appena allargato in composizione collegiale. E ciò senza considerare che, mentre, il procedimento amministrativo si svolge sotto un qualche controllo della Commissione, oltre che con la possibilit à del ricorso del privato ex art. 230 CE, e quello giurisdizionale dispone della risorsa del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 234 CE, in sede cautelare quel che di più preme è l’urgenza del provvedimento, che pertanto non segue ad alcun vero e proprio approfondimento della questione. Ma v’è di più. Questi provvedimenti incidono su assetti economici di attribuzione comunitaria in via indiretta e di fatto e per questo, soprattutto si sot- DOTTRINA 247 traggono da una qualsiasi gestione unitaria e globale dei vari aspetti del problema. 4.8. Nei ricorsi ex art. 700 c.p.c. e 29 D.Lgs. 46/1999, chi ricorre di regola è, come già s’è visto, l’impresa assicuratrice per veder inibire l’escussione della polizza a prima richiesta, da parte dell’Amministrazione che deve recuperare il contributo revocato verso di esso. Questo rapporto processuale non ha dunque per oggetto il rapporto fra amministrazione erogante ed amministrato revocato, il quale appartiene al giudice amministrativo, davanti al quale spesso si svolge parallelamente. Tutti i tentativi della difesa dell’Amministrazione di trasferire la causa davanti allo stesso giudice del rapporto assicurato, per avere una gestione unitaria della res litigiosa, s’imbattono in una piuttosto ferma giurisprudenza dei giudici ordinari che, insensibile a questo vincolo funzionale, privilegia l’‘alterità’ dei due rapporti. E tant’è. Il problema della legittimità della revoca, e quello spesso connesso della legalità comunitaria dell’aiuto, restano così disarticolati fra di loro, per essere autonomamente gestiti, anche nella eventuale sede cautelare, ciascuno dal suo giudice. Ora però, mentre per la sua naturale vocazione pubblicistica, il giudice amministrativo è più portato, anche e soprattutto in sede cautelare, a comparare il danno paventato dal privato con quello che nel caso di concessione dell ’inibitoria deriverebbe ai pubblici interessi amministrati, in una visione opportunamente bilanciata – onde sono state prima elaborate dalla giurisprudenza cautelare dei TT.AA.RR., e poi recepite nella legge 205/2000, forme di contemperamento interinale degli opposti interessi – il giudice ordinario riesce più difficilmente a staccarsi da quella classica visione intersoggettiva di tipo privatistico del rapporto fra il privato e la P.A., il cui procedimento di recupero viene avvertito come aspirazione di (ri)appropriazione del denaro concesso, contrapposta a quella del cittadino su un medesimo piano patrimoniale. Da questo atteggiamento culturale proprio, parrebbero nascere alcuni problemi ‘di tenuta comunitaria’ del nostro sistema giurisdizionale. Si nota infatti una costante difficoltà – viene spesso invocato nelle difese dell’Amministrazione davanti al G.O., ma di rado se ne ritrova poi traccia nell’iter motivazionale – a guardare ai capitali pubblici non più, come statici elementi patrimoniali, in una visione ancora ‘dominicale’ del denaro, ma piuttosto alla stregua di ‘fattori della produzione’, con un ruolo dinamico fondamentale nel progresso economico di qualsiasi gruppo ed impresa umana. In quanto è ciò stesso a renderli formidabili mezzi di politica economica, l’importanza delle pubbliche sovvenzioni dovrebbe trascendere sul piano funzionale quella del contrapposto “diritto soggettivo del privato”; ed anche gli spazi economici nazionali, in un’economia ormai globalizzata. E dunque in giudice nazionale, che voglia rendersi reale interprete di una società sempre più complessa, dovrebbe sempre sentirsi responsabilizzato dal fatto che, più che somme di denaro, i suoi provvedimenti in questo campo ‘muovono’ interventi di politica economica. E dovrebbe trattarsi di una considerazione fortemente motivante. Se è infatti un’indubbia conquista di civiltà poter portare anche lo Stato dinanzi al 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO giudice, ed a questi correlativamente è data l’alta responsabilità di giudicare anche del suo operato, questa giurisdizionalizzazione del rapporto Stato-cittadino non può però valere anche ad omogeneizzare i valori in campo: quello del soggetto amministrato, sia pure mediante strumenti de iure privatorum, resterà sempre interesse del privato, mentre quello dello Stato non smette di situarsi, per essere stato questo tratto davanti al giudice ‘dei diritti ’, in posizione funzionalmente sovraordinata a quella del singolo. E ciò senza minimamente turbare i sonni di Montesquieu! Non si vuole, infatti, con ciò né sostenere che per lo Stato debbano valere regole diverse da quelle del privato, né cercare di ridare ingresso ad ormai … stagionate ‘presunzioni di legittimità’, ma semplicemente, e con riferimento alla sede cautelare, riconoscere l’evidente trascendenza del danno alla funzione pubblico economica, rispetto al danno comunque patrimoniale del privato assicuratore, che sta solo cercando di non sborsare l’importo della fidejussione. E non di danno alle casse del Ministero si sta parlando, ma di perturbazione, il che in una prospettiva di pianificazione-politica significa sempre danno, alla sfera d’intervento pubblico, europeo, nell’economia. Quando infatti viene ‘revocato’ ed il recupero non avvenga in tempi rapidi, il contributo viene perso per sempre alla funzione incentivale cui era stato destinato. Se anche un giorno, che i tempi del giudizio ordinario provvedono a tenere ben lontano, si riuscisse infatti a recuperarlo, esso non potrebbe più essere destinato a quel programma d’aiuti, per essersi questo nel frattempo … concluso – quanto ai fondi 488, la programmazione CE 2000-2006 è finita infatti col 31 dicembre u.s. – e verrebbe così fatalmente reinstradato verso altre destinazioni di spesa, restando comunque irreversibilmente defunzionalizzato dal fine originario, di riscatto economico dell’area depressa. E ciascuno può intendere quanto sarebbe stato meglio, invece, reimpiegarlo subito, per finanziare altri e più meritevoli aspiranti in attesa nello stesso o nel successivo bando. Cosa impedita o dal mancato recupero – è verosimile che il giudice segua poi la stessa linea anche nella sentenza che definisce il giudizio, o potrebbe succedere, e non sarebbe la prima volta, che l’impresa assicuratrice finisca in liquidazione coatta amministrativa – o dal tardivo recupero. Il che è esattamente ciò che il legislatore si era riproposto di evitare con la previsione della fidejussione a prima richiesta. CONCLUSIONI Tutto questo dipenderà certo da ‘errori di sistema’, fra i quali si annovererebbero in primo luogo i problemi della lunga durata dei processi, che proprio in ambito UAE è stato scandagliato al massimo livello nello storico Convegno di Venezia dello scorso novembre. Ma anche forse da un dato di mentalità. Ci si rende conto che non è certo questa la sede di replica delle difese dell’Amministrazione, e né si è venuti a Catania per …vincere le cause che si perdono a Roma. Lo stare decisis, anche se del caso senza esperire tutte le possibilità d’impugnazione, e dare pareri anziché sentenze ai suoi ‘clienti’ – dai quali dipende in larga parte la qualità della vita dei cittadini – è anzi uno dei contributi che l’Avvocatura dello Stato riesce a dare, sia alla buona DOTTRINA 249 amministrazione che alla funzione giurisdizionale, come si è messo in luce proprio al Convegno di Venezia. E può darsi benissimo, del resto, che non ostante un’…apparente linearità delle sue difese, l’Amministrazione abbia poi torto, in realtà: chi è chiamato a stabilirlo è comunque il giudice. Ed un volta che l’avvocato dello Stato abbia messo la sua tecnicalità al servizio della questione, partecipando così alla ricostruzione del giusto con spirito di sinergia col giudice, egli davvero ha sempre vinto. Ma il problema qui è un altro, che trascende lo stretto merito delle questioni giuridiche affrontate: le ‘soluzioni cautelari’ che si sono viste finiscono con l’interporsi, inavvertitamente ma in modo irreversibile, alle funzioni nazionali e comunitarie (ma è tutt’uno) in materia di aiuti. S’è visto infatti che, ove non recuperato subito, il contributo funzionalmente è perso, ossia quel denaro ha perso il suo ‘valore aggiunto’, a scapito della Comunità, dello Stato e, soprattutto dei cittadini. Nei casi che si sono visti, indipendentemente dal fondamento delle eccezioni delle compagnie assicuratrici che comprensibilmente cercano di non pagare, e non potendosi d’altra parte impedire a nessuno il ricorso al giudice, andava forse in questa chiave meglio compreso il dato dinamico dell’intervento ex lege 488: nella rapida scansione temporale dei suoi bandi, si anticipano subito ed in via provvisoria i contributi, perché nelle attuali evoluzioni dei livelli tecno-produttivi e dei mercati le risposte imprenditoriali vanno attivate senza perder tempo, ma proprio in quanto lo consenta la possibilità di recuperare con altrettanta rapidità quelle preziose risorse, che tutti noi vi scommettiamo. Nel che è la logica funzionale dell’art. 7 Reg.: appena si vede che l’iniziativa non ha funzionato, si recuperi intanto il denaro (e non alle ‘casse’ di questo o di quello, ma) alla funzione di sviluppo cui era stato assegnato. E dal soggetto finanziariamente solido che sta lì proprio darne sicurezza (“incondizionatamente” ed “a prima richiesta”): intanto paghi, e poi discuta di tutto ciò che vuole e con le più ampie garanzie giurisdizionali. Vale a dire che, se la copertura fidejussoria non era in realtà operante – cosa che si stabilir à con sentenza – lo Stato restituirà, e con gli interessi, e se del caso risarcir à anche. Ma la funzione di pubblico servizio del fidejubente è, chiaramente, proprio quella di garantire alla finanza pubblica, a fronte di rischi altrimenti non sostenibili di grosse somme di denaro dei contribuenti, la loro funzionalit à. Se poi si tratti di un solve et repete (peraltro perfettamente valido in ambito contrattuale – v. art. 1462 c.c.) e/o una fidejussione vera e propria o un ‘rapporto autonomo di garanzia, questo non cambia la sostanza, che è quella che s’è vista – di un debitore che il più delle volte, nello specifico concreto nemmeno contesta di dover pagare, per concentrare invece le sue difese sul mezzo di riscossione – e cui il giudizio deve essenzialmente servire. Lungi dal voler raggiungere in argomento traguardi dottrinali, o meno ancora essere percepite quali preoccupazioni di indole istituzionale, queste semplici testimonianze di vita, e passione forense, vorrebbero più modestamente e soprattutto più costruttivamente contribuire, anch’esse un po’, al diffondersi di una sempre maggiore sensibilità europea dei problemi. 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La colpa grave nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione di Maila Bevilacqua (*) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La colpa grave ex art. 314 c.p.p.: profili civili e penali. - 2.1. Segue: il confine con il dolo. - 2.2. Segue: le figure sintomatiche ed i criteri di individuazione. - 3. La colpa grave nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione Penale. - 4. Disamina della giurisprudenza penale di merito: la colpa grave secondo la Corte d’Appello di Trieste. - 4.1. Segue: profili generali dell’esclusione del diritto alla riparazione. - 4.2. Segue: definizioni. - 4.3. Segue: valutazione giudiziale della condotta gravemente colposa. - 4.4. Segue: profili probatori. - 4.5. Segue: casistiche. - 5. Considerazioni conclusive: una questione interpretativa irrisolta. 1. Premessa. Nel tenore letterale e logico della disposizione codicistica in materia, il presupposto oggettivo della riparazione per ingiusta detenzione è rappresentato dai casi di detenzione ingiusta (art. 314 commi 1 e 3 c.p.p.) e di detenzione illegittima (art. 314 comma 2 c.p.p.). Si prospetta una detenzione ingiusta nei casi previsti dall’art. 314 comma 1 c.p.p., quando all’esito del procedimento penale l’imputato viene prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato e nei casi previsti dal comma 3, quando nei confronti dell ’indagato sia emesso un decreto di archiviazione o sia pronunciata una sentenza di non luogo a procedere. Il secondo comma del medesimo articolo, contempla, invece, il caso della detenzione illegittima che si profila quando il soggetto (condannato o prosciolto per qualsiasi causa) sia stato sottoposto a custodia cautelare in assenza dei presupposti richiesti dalla legge agli artt. 273 e 280 c.p.p. e ciò risulti accertato con decisione irrevocabile. L’esame nel merito della domanda di riparazione per ingiusta detenzione, nei sopraccitati casi previsti dall’art. 314 c.p.p., concerne l’accertamento della condotta del richiedente: la domanda è, infatti, accolta solo qualora l’interessato all’indennizzo non abbia dato o concorso a dare causa al provvedimento restrittivo della libertà personale “per dolo o colpa grave” (art. 314 comma 1 c.p.p.) (1). È, dunque, onere del convenuto Ministero dell’Economia e delle DOTTRINA 251 (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) R. VANNI, Nuovi profili della riparazione dell’errore giudiziario, Cedam, Padova, 1992, p. 84 ss.. Si ricorda che con riferimento a questo particolare procedimento anche il giudizio di Cassazione è esteso al merito per sopperire alla mancanza dei tre ordinari gradi di giudizio. Finanze provare i fatti eventualmente impeditivi, modificativi o estintivi del diritto alla riparazione, tra cui, in particolare, il dolo o la colpa grave dell’interessato, salvi comunque i poteri officiosi di accertamento ed eventuale integrazione probatoria esercitabili dal Giudice della riparazione. La ratio dell’esclusione del fondamento oggettivo della riparazione per ingiusta detenzione va individuata in un principio generale dell’ordinamento giuridico. La clausola contenuta nell’ultima parte del primo comma dell ’art. 314 c.p.p. è, infatti, la traduzione normativa di quel principio di ordine generale che considera soggetto passivo di un pregiudizio soltanto chi non abbia potuto evitarlo ed è prevista al fine di prevenire gli abusi che possono derivare da un utilizzo improprio dello strumento riparatorio (2). Analoga disposizione è prevista per l’ipotesi di riparazione dell’errore giudiziario ex art. 643 c.p.p. che presuppone, sotto il profilo oggettivo, che il condannato sia stato prosciolto in sede di revisione e, sotto il profilo soggettivo, che non abbia dato causa all’errore per dolo o colpa grave. Oltre che al fine di evitare abusi e speculazioni fraudolente, dovendosi impedire ogni forma di lucro ovvero un ristoro eccessivo rispetto ad una reale esigenza di riparazione (3), la previsione delle cause ostative risponde, altresì, ad un principio generale di equità e si pone, in tal senso, come un limite naturale alla riparazione. La definizione della colpa grave, quale fattispecie soggettiva idonea ad escludere il fondamento oggettivo della riparazione per ingiusta detenzione, va delineata sulla base di una disamina giurisprudenziale della casistica fenomenologia emersa nella prassi, ovverosia dal particolare al generale, avvalendosi del metodo induttivo (v. infra, par. 3 e 4). 2. La colpa grave ex art. 314 c.p.p.: profili civili e penali. La giurisprudenza fissa il fondamento giustificativo delle cause soggettive di esclusione previste nell’art. 314 c.p.p. nei criteri civilistici individuati dagli artt. 1227 e 2056 c.c. (che regolano i rapporti tra il creditore di una data prestazione e il debitore della stessa) ma estendibili all’intero ordinamento (4). 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (2) G. CONSO – V. GREVI, sub art. 314 c.p.p., Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, Padova, 2005, p. 1071; M. CHIAVARIO, Problemi attuali della libertà personale. Tra “Emergenze” e “Quotidiano” della giustizia penale, Giuffrè, Milano, 1985, p. 137. (3) M. CHIAVARIO, voce Libertà personale – Dir. proc. pen., in Enc. Giur., Roma, 1990, vol. XIX, p. 18; M.G. COPPETTA, La condotta dolosa o gravemente colposa in materia di riparazione per ingiusta detenzione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 1170. (4) Conformemente alla precedente giurisprudenza maggioritaria delle Sezioni semplici, Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43: “(…) È noto che, proprio in applicazione di tali generali principi, è positivamente stabilito che il creditore deve comportarsi secondo buona fede, che non deve creare situazioni che artificiosamente producano o amplino ragioni di avere (di credito), e che non deve aggravare le conseguenze del fatto fonte della pretesa, cioè della situazione dalla quale scaturisce l’obbligazione di controparte (artt. 1175-1227 Il principio base che ha spinto il legislatore ad inserire nell’art. 314 c.p.p. una simile causa di esclusione ha, come visto, una portata generale (v. supra, par. 1) e trova applicazione anche nel codice civile. Il succitato art. 1227 c.c. stabilisce, infatti, che l’incidenza del danno grava sul creditore (o sul danneggiato ex art. 2056 c.c. che al precedente articolo fa espresso rinvio) in proporzione al suo grado di colpa ed, inoltre, esclude il risarcimento per i danni successivi all’evento dannoso che il creditore (o il danneggiato) avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza: in particolare, se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate; in secondo luogo, il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. Vi sono, peraltro, delle significative differenze tra la disciplina della riparazione ex art. 314 c.p.p. e quella civilistica in tema di risarcimento del danno: – la riparazione si sostanzia in un’indennità per i danni causati da comportamenti cagionati secundum jus dall’Autorità Giudiziaria e si differenzia dal risarcimento del danno conseguente ad attività antigiuridiche del soggetto agente; – ex artt. 1227 e 2056 c.c., si ricava una graduazione nella rifusione dei danni e non una radicale esclusione, prevista, invece, nell’art. 314 c.p.p.. Secondo una certa opinione (5), tuttavia, la disciplina civilistica non sarebbe estranea all’ipotesi contemplata dall’art. 314 c.p.p., essendo sufficiente un adeguamento interpretativo della disposizione penale ai principi generali operanti nell’intero ordinamento giuridico (opererebbe, in questo senso, lo strumento interpretativo dell’analogia juris). È, dunque, necessario tenere in considerazione sia l’incidenza che la condotta colposa ha rappresentato nel determinismo della custodia cautelare, sia l’incidenza che questo comportamento deve avere nella valutazione delle conseguenze che ha provocato e tutto ciò attraverso un criterio di graduazione delle responsabilità delle parti interessate (cittadino e Stato). Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre procedere ad un’ulteriore distinzione, tra la condotta colposa che abbia contribuito ad originare la situazione di custodia cautelare e quella che abbia aggravato la permanenza di uno status detentivo già determinatosi. Nel primo caso, se la condotta colposa dell ’interessato ha contribuito efficacemente alla sua situazione detentiva non può questo comportamento non aver effetti in sede di ristoro dei danni. Nell’ipotesi, invece, di aggravamento, vi è da dire che per risalire alla causa della detenzio- DOTTRINA 253 e 2055-2056 del codice civile: cfr. Cass. Civ., Sez I, 20 novembre 1991, n. 12439). Abbandonare una tale regola significa affidarsi ad ipotesi che potrebbero portare alla disapplicazione della legge nella parte in cui condiziona il sorgere del diritto riparatorio all’assenza di dolo o di colpa grave (considerati, in quanto all’eziologia, sullo stesso piano).(…)”. (5) P. A. SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Giappichelli, Torino, 1992, p. 28 ss.. ne non occorre certo muovere dalla condotta del soggetto, poiché è un comportamento statale ad avere determinato l’attività di indagine e la detenzione. Entrambe le ipotesi riconducono alle conseguenze che il comportamento colposo dell’interessato ha determinato nella causazione dei danni provocati. L’art. 314 c.p.p. prevede due casi: il caso della condotta in concorso, come nell ’art. 1227 c.c., e quello della condotta che da sola cagiona l’evento detenzione. Da tale distinzione la menzionata dottrina ricava che nell’ipotesi in cui la condotta sia concorsuale rispetto all’evento detenzione dovrebbe derivare unicamente un’incidenza sul quantum debeatur e solo in casi limite di condotta gravemente colposa che da sola ha cagionato l’evento si potrebbe ipotizzare il rigetto della domanda, con radicale esclusione del presupposto oggettivo. Si considera, invece, ormai pacificamente superato quell’indirizzo che ritiene la colpa lieve funzionale ad incidere sul quantum della riparazione in applicazione del principio civilistico di autoresponsabilità (6). 2.1. Segue: il confine con il dolo. Secondo un’autorevole dottrina (7), il dolo “non va inteso nel senso civilistico, implicante mosse fraudolente; è dolosa ogni azione od omissione consapevolmente diretta a quell’esito, anche dove non sia biasimevole (ad esempio: appena voglia, N dissipa gli indizi a suo carico, sennonché coinvolgerebbe P, e allora tace stoicamente, confidando nell’acume dei giudici, alla fine gli va bene, ma imputet sibi la sciagura)”. Secondo altri (8), il concetto di dolo andrebbe, invece, riferito alla teoria generale del negozio giuridico, per questo si avrebbe comportamento doloso quando con artifici e raggiri si sia ingannato il Giudice, direttamente (es. autoincolpazione), o indirettamente (es. subornazione di testimone, perito o interprete), sia con condotte attive (esempi precedenti), sia omissive (es. omessa difesa da un’accusa calunniosa per perseguire fini illeciti di altre persone). Più in generale, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, per dolosa deve intendersi non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei termini fattuali, ossia l’azione in concreto preordinata all’adozione a al mantenimento della misura custodiale, ma anche quella consapevole e volontaria che, valutata secondo l’id quod plerumque accidit, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’Autorità Giudiziaria a tutela della comunità (9). 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (6) Cass. Pen., S. U., 13 gennaio 1995, n. 1. (7) F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 1991, p. 504. (8) P. A. SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Giappichelli, Torino, 1992, cit., p. 31; M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, Padova, 1993, p. 191, rileva che la nozione in questione è nozione di natura civile che permette di allargare l’ambito di operatività della causa ostativa dell’indennizzo e, conseguentemente, riduce l’applicabilità dell’istituto della riparazione, in quanto il comportamento è ritenuto doloso anche a prescindere dalla previsione dell’evento conseguente alla condotta. (9) Cass. Pen., 22 gennaio 1994; Cass. Pen., 20 gennaio 1992. Mossa dall’esigenza di una corretta applicazione delle norme del codice di rito, la suprema Corte pare fornire una nozione di dolo che trascende dai più o meno astratti inquadramenti dogmatici dell’elemento psicologico, ancorati a criteri strettamente penalistici o civilistici (10). Diversamente da quanto sino a qui delineato, si definisce gravemente colposo il comportamento cosciente e volontario di chi per negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari abbia creato una situazione che renda prevedibile ed inevitabile, anche se non voluta, l’adozione del provvedimento cautelare o la sua mancata revoca (es. di ipotesi se non dolose, perlomeno gravemente colpose: volontario silenzio su di un alibi; creazione fraudolenta di prove a proprio danno; autoattribuzione di un delitto per vanteria o altro biasimevole motivo; alibi falso o mendace; ecc.) (11). Opera, dunque, il brocardo “nimia negligentia, id est non intelligere quod omnes intellegunt”. Secondo la sopraccitata autorevole dottrina (12), “la colpa è grave quando esce dai limiti dell’imprudenza o ignavia abituali fra i meno accorti (ad esempio, N, caduto in bocca a un difensore infedele che lavora ad affossarlo, l’ha lasciato fare, sordo degli avvertimenti)”. 2.2. Segue: le figure sintomatiche ed i criteri di individuazione. Un frequente indice sintomatico, emergente nella prassi, della sussistenza di una colpa grave in capo all’indagato/imputato è rappresentato da una sentenza di assoluzione con formula dubitativa: il “dubbio”, infatti, potrebbe essere stato generato dalla colpa del soggetto passivo delle indagini e vale quale spunto per un esame più approfondito da svolgersi in tale direzione. Per quanto concerne le strategie poste in essere dalla difesa nella fase antecedente al verificarsi del presupposto oggettivo della riparazione (v. supra, par. 1), è indubbio il rispetto dovuto per la libertà sulla linea difensiva prescelta. Tuttavia, partendo da tale assunto, alcuni criticano l’incoerenza, rispetto al suddetto generalizzato e condivisibile riconoscimento di libert à, della sindacabilità delle modalità di estrinsecazione della difesa nell’ambito dell’indagine soggettiva di merito ai fini della riparazione. A tale obiezione si deve contestare che è necessario operare dei distinguo caso per caso, essendovi, a ben vedere, dei limiti a ciò che l’indagato/imputato può fare restando assolutamente immune da qualsivoglia conseguenza sul piano giuridico. Tale questione merita un approfondimento. DOTTRINA 255 (10) Cass. Pen., 13 dicembre 1995, n. 43. (11) Cass. Pen., S. U., 26 giugno 2002, n. 34623; Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit.. Si veda contra Cass. Pen., Sez. V, 28 aprile 1998, n. 6890, secondo cui non configura colpa grave la condotta illecita che non integra un reato per il quale sia consentita la compressione della libertà personale e Cass. Pen., Sez. VI, 24 gennaio 1997, n. 2727, per la quale è gravemente colposa solo la condotta che denoti un vizio di coscienza e sia in grado di prospettare un meccanismo di imputazione del fatto non dissimile dal dolo. (12) F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 1991, cit., p. 504. Il fondamento costituzionale del diritto riconosciuto ad ogni soggetto passivo di un procedimento di non collaborare in concreto con l’Autorità Giudiziaria, tacendo, ovvero mentendo, si individua nell’art. 24 comma 2 Cost., in rapporto all’art. 27 comma 2 Cost.. La prima norma riconosce all’indagato/imputato una sfera di libera autodeterminazione circa la scelta del comportamento da tenere a propria difesa. Si individua, anzi, una componente “negativa” del diritto di difesa, in base alla quale l’accusato ha la piena facoltà di non fornire le prove della propria eventuale colpevolezza e, più in generale, le prove suscettibili di pregiudicare gli assunti difensivi nel processo. Vista l’ampia possibilità di scelta della linea difensiva da parte del sottoposto alle indagini, questi può, in virtù della presunzione di non colpevolezza ex art. 27 comma 2 Cost., optare per una linea difensiva passiva, qualora non intenda svolgere alcuna attività probatoria o voglia limitarsi a negare le accuse senza confutarle nell’ambito del contraddittorio. La considerazione complessiva di tali norme costituzionali, unitamente all’art. 13 Cost., posto a tutela della libertà personale del singolo, rivela una precisa scelta di principio del Costituente, orientata nel senso di subordinare il funzionamento dell’apparato processuale all’intangibilità dei valori facenti capo alla persona. Dal principio per cui l’indagato/imputato non può essere costretto a collaborare con l’Autorità Giudiziaria discende, pertanto, quale garanzia fondamentale per una moderna civiltà giuridica, l’incoercibilità di potenziali apporti attivi rispetto all’accertamento del fatto. All’interno del tessuto codicistico, la norma cardine del diritto al silenzio può essere rinvenuta nell’art. 64 comma 3 lett. c c.p.p. che, nel contesto delle regole generali per l’interrogatorio, expressis verbis attribuisce all’interrogato, irrobustendola con il correlativo diritto ad esserne preliminarmente avvertito, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, una facoltà di non rispondere che è stata interpretata come il segno evidente della volontà del legislatore di escludere che dall’esercizio dello ius tacendi possano essere desunti elementi di convincimento a favore dell’accusa (13). I molteplici richiami alla “norma madre” disseminati nel codice di rito conferiscono al diritto di “difendersi non collaborando” una portata “panprocessuale ” (14): esso, infatti, attraversando orizzontalmente e permeando le diverse fasi del procedimento prima e del processo poi, trova applicazione in tutte le sedi in cui si instauri un confronto dialettico fra accusato e Autorità Giudiziaria, dalle “sommarie informazioni di polizia” ex art. 350 c.p.p., all’interrogatorio di fronte al P.M., svolto ai sensi degli artt. 294 comma 6, 364 e 388 c.p.p., dall’interrogatorio dinanzi al G.I.P. (ad esempio, ai sensi degli artt. 294 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (13) È di questo avviso, fra gli altri, V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, Giuffrè, Milano, 1972, p. 61 ss.. (14) Efficace espressione utilizzata da P. CORSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?, in Ind. pen., 1999, p. 1083. comma 4, 302 e 391 c.p.p.) o al G.U.P. ex artt. 421 comma 2 e 422 comma 3 c.p.p., sino all’escussione in sede dibattimentale, di cui all’art. 503 c.p.p.. A completamento del quadro delle disposizioni che prevedono il diritto al silenzio a favore dell’inquisito, si individuano l’art. 392 c.p.p., a proposito dell’interrogatorio in sede di incidente probatorio, l’art. 441 c.p.p., con riguardo ai riti speciali e l’art. 598 c.p.p., in relazione al grado di appello. Mentre il silenzio si configura, indiscutibilmente, come un diritto, il “mendacio” dell’inquisito è soltanto un comportamento penalmente non punibile, in quanto non contemplato come reato da alcuna norma incriminatrice. Tuttavia, dalla sua “tollerabilità” da parte dell’ordinamento penale non può desumersi la sua natura di diritto in senso proprio, non essendovi nell ’impianto normativo nessuna disposizione esplicita in tal senso e, come tale, idonea ad inserirlo nello spazio giuridico riservato ai diritti. Fatte tali premesse, alla piena consapevolezza in merito alla libertà difensiva fa riscontro, inevitabilmente, la presa d’atto che la scelta non collaborativa, pur se garantita dalla Costituzione, non esime il soggetto che la persegua dal sopportarne alcune conseguenze: si tratta di una scelta, come visto, senz’altro libera, ma non vi sono dubbi sul fatto che essa deve essere, al contempo, anche una scelta responsabile. La non collaborazione dell’indagato/imputato all’accertamento del fatto può avere, infatti, delle conseguenze penali stante l’esistenza di obblighi penalmente sanzionati che segnano il confine tra l’esercizio del diritto di difesa e l’abuso del medesimo diritto: nel codice penale esiste, infatti, l’art. 384 che, stabilendo la non punibilità di determinati delitti contro l’attività giudiziaria, delimita la soglia entro la quale un soggetto può difendersi lecitamente anche mediante un atteggiamento omissivo o non collaborativo. Sotto il profilo della valutazione giudiziale della colpa grave (o del dolo, per il quale valgono analoghe considerazioni), questi vanno individuati sia con riferimento al momento genetico della misura custodiale, sia con riferimento alla fase di esecuzione della stessa e, pertanto, di mantenimento dello stato di privazione della libertà personale; è poi fondamentale l’individuazione del nesso consequenziale materiale (in termini di causa o concausa) tra lo stato soggettivo rilevante e l’evento detenzione. Per quanto concerne, in particolare, l’individuazione del momento da cui lo stato soggettivo della colpa grave rileva ai fini dell’art. 314 c.p.p., la giurisprudenza si è consolidata su un’interpretazione non restrittiva della norma, ritenendo degna di considerazione anche la condotta gravemente colposa antecedente alla legale conoscenza di indagini a proprio carico o della formulazione di un’accusa in senso proprio (15). DOTTRINA 257 (15) Si veda, a titolo esemplificativo, Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit., che risolve i conflitti insorti tra le Sezioni semplici in merito all’individuazione dell’ambito temporale di condotta valutabile dal Giudice della riparazione. Tale orientamento è supportato dalla sent. della Corte Costituzionale n. 426 del 1993. 3. La colpa grave nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione Penale. Dall’esame del panorama giurisprudenziale della suprema Corte Penale, emerso negli ultimi anni sul tema, si evince quanto segue. Le norme che escludono il diritto alla riparazione nei casi in cui si sia dato (o si sia concorso a dare) causa alla detenzione per dolo o colpa grave rispondono alla finalità di evitare che possa riconoscersi il diritto all’indennizzo in quelle situazioni in cui, nonostante il proscioglimento in sede penale, pur giustamente imposto dalle norme sostanziali e processuali che prevedono che la responsabilità penale sia provata oltre ogni ragionevole dubbio, si evidenzi comunque un comportamento dell’accusato che appaia censurabile sotto il profilo intenzionale (dolo) o quantomeno della correttezza (colpa grave) e che lo faccia ritenere non meritevole del beneficio in questione. Mentre, dunque, il presupposto del proscioglimento in sede penale è l’assenza o la non sufficienza degli elementi oggettivi o soggettivi del contestato reato, il presupposto della riparazione è solo l’assenza di dolo o colpa grave e cioè l’impossibilità di rivolgere all’interessato un rimprovero anche solo di negligenza o imprudenza rispetto al comportamento tenuto (16). Questa è, quindi, la ratio della normativa in esame. Sotto il profilo definitorio, dolosa deve giudicarsi non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione di legge), ma anche la condotta consapevole e volontaria che, valutata con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’Autorità Giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo, sicché l’essenza del dolo sta, appunto, nella volontarietà e consapevolezza della condotta con riferimento all’evento voluto, non nella valutazione dei relativi esiti, circa i quali non rileva il giudizio del singolo, bensì quello del Giudice del procedimento riparatorio (17). Il concetto e la conseguente area applicativa della colpa, invece, vanno ricavati dall’art. 43 c.p.: è colposo il comportamento cosciente e volontario al quale, senza volontà e senza rappresentazione degli effetti (anche se adottando l’ordinaria diligenza essi si sarebbero potuti prevedere ed evitare), consegue un evento idoneo a trarre in errore l’Organo Giudiziario. In tal caso, la condotta del soggetto, connotata da profili di colpa (negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari), pone in essere una situazione tale da dare una non voluta ma prevedibile ragione di intervento dell’Autorità Giudiziaria che si può sostanziare 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (16) Cass. Pen., Sez. VII, 6 ottobre 2005, n. 41927. (17) Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2004, n. 15416. nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di un provvedimento già emesso (18). Anche per la Cassazione più recente, conforme alle linee già tracciate dalla precedente menzionata sentenza (v. supra, nota 18), integra la colpa grave dell’interessato, ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, per evidente e macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, determini una situazione tale da costituire una almeno prevedibile ragione di intervento dell’Autorità Giudiziaria che si sostanzi nell’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di un provvedimento simile già emesso, condotta che deve avere, quindi, un’incidenza causale nella produzione dell’evento detenzione, agendo come fattore condizionante del provvedimento di limitazione della libertà (19); ovverosia quel comportamento incauto che abbia avuto incidenza causale sull’evento della carcerazione preventiva in quanto valutato come uno degli elementi fondanti i gravi indizi di colpevolezza che furono posti alla base del provvedimento restrittivo della libertà personale (20). Ciò posto, la valutazione del Giudice della riparazione si svolge su un piano diverso ed autonomo rispetto a quello del Giudice del processo penale, pur dovendo eventualmente operare sullo stesso materiale: tale ultimo Giudice deve valutare la sussistenza o meno di una ipotesi di reato ed eventualmente la sua riconducibilità all’imputato; il primo, invece, deve valutare non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se esse si posero come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento detenzione. Il rapporto tra giudizio penale e giudizio della riparazione si risolve, dunque, solo nel condizionamento del primo rispetto al presupposto dell’al- DOTTRINA 259 (18) Cass. Pen., S. U., n. 43 del 1996. (19) Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2004, n. 15416. Nel caso di specie, la connivenza manifestata con l’autore del reato, valutata nell’ambito del giudizio volto ad accertare la fondatezza dell’azione riparatoria, assumeva una connotazione colposa di grave imprudenza e leggerezza non conciliabile con l’accoglimento della domanda. Dopo i fatti, inoltre, il soggetto aveva offerto all’Autorità Giudiziaria una falsa rappresentazione dell’accaduto che aveva contribuito a rendere non credibile l’ipotesi della mera connivenza. Dalla presente sentenza emerge che nel caso in cui sia contestato un reato in concorso con altre persone, si concorre a dare causa alla misura della custodia cautelare se si sia al corrente dell’attività delittuosa di altri e, ciò nonostante, pur non concorrendo in quella attività, si ponga in essere, con evidente e macroscopica imprudenza, una condotta che si presti, sul piano logico, ad essere interpretata come contigua a quell’attività. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile 2004, n. 37567, secondo cui la connivenza non è, certamente, concorso nel reato, ma, in presenza di determinati dati di fatto, come quelli sottolineati dalla Corte d’Appello nel caso di specie, può essere interpretata, almeno inizialmente, come concorso, con possibili conseguenze negative in tema di libertà, conseguenze dovute, perlomeno, anche alla vistosa trascuratezza e superficialità di chi, semplice connivente, non tiene nel dovuto conto che quei dati di fatto potrebbero oggettivamente coinvolgerlo. (20) Cass. Pen., Sez. IV, 9 maggio-16 giugno 2006, n. 20814. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tro, spettando al Giudice della riparazione una serie di accertamenti e valutazioni da condurre in piena autonomia e con l’ausilio dei criteri propri dell ’azione esercitata dalla parte (21). Alla luce di tale premessa, il Giudice della riparazione deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto al Giudice del processo penale e rientrano nel suo potere-dovere la selezione e la valutazione delle circostanze di fatto idonee ad integrare o ad escludere la sussistenza delle condizioni preclusive al riconoscimento del diritto fatto valere, con l’obbligo di dare, al riguardo, adeguata ed esaustiva motivazione da dispiegare secondo le regole della logica, giacché il mancato assolvimento di tale obbligo, in termini di adeguatezza, congruità e logicità, è censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e c.p.p.. In tale contesto, non è affatto inibito al Giudice della riparazione di utilizzare ed apprezzare circostanze di fatto già accertate nel giudizio di merito, da valutare, ovviamente, non ai fini dell’accertamento della responsabilit à penale, ma solo a quelli della sussistenza o meno dei requisiti di legge per il conseguimento del diritto alla riparazione richiesta (22). (21) Cass. Pen., S. U., n. 43 del 1996, cit.. (22) Cass. Pen., Sez. IV, 14 ottobre 2005, n. 46265. Nella specie, la Cassazione osserva che i Giudici di merito hanno rilevato che i periti sia di parte che d’ufficio (pur pervenendo la sentenza definitiva ad una assoluzione per non aver commesso il fatto, la sentenza di primo grado, invece, conformemente agli esiti di quegli accertamenti tecnici, aveva concluso per il proscioglimento dell’imputato per vizio totale di mente) hanno accertato “uno stato di totale incapacità di intendere e di volere” dell’istante al momento della commissione del fatto e delle rese dichiarazioni autoaccusatorie e da tanto hanno logicamente dedotto che non poteva farsi carico all’istante medesimo di una autoincolpazione in senso proprio, essa provenendo da soggetto non compos sui, incolpevolmente privo, quindi, di ogni cosciente discernimento ed apporto in ordine alle conseguenze che tali dichiarazioni comportavano, sia quanto alla realizzazione dell’evento non voluto, sia quanto ad un (in)esigibile comportamento improntato ad ordinaria diligenza, cosciente e volontario. E, quanto al comportamento dell’istante successivo alla instaurazione del suo stato detentivo, logicamente condivisibile è anche l’assunto del provvedimento impugnato, secondo il quale “vero è che non risultano essere stati disposti accertamenti ai sensi dell’art. 70 c.p.p. e comunque non risulta essere stata disposta la sospensione del procedimento per sua accertata incapacità”, ma tanto afferisce, in sostanza, solo ai profili processuali rilevanti nel giudizio di merito. Il comportamento successivo, d’altra parte, può rilevare solo sotto i profili del dolo o della colpa grave in riferimento al mantenimento del già instaurato stato detentivo, profili che nella specie non sono stati ritenuti sussistenti anche in riferimento a tale periodo successivo al reso provvedimento cautelare. D’altra parte, il successivo ricovero dell’istante (che, peraltro, “frattanto nel secondo interrogatorio davanti al P.M. ritrattava la confessione”) dapprima presso la casa di cura (...), agli arresti domiciliari, poi presso l’abitazione della sorella, con sostegno attraverso un programma terapeutico predisposto dal locale centro di salute mentale, indi in ospedale psichiatrico giudiziario (che lo stesso ricorrente prospetta essere stato improntato, “principalmente all’esigenza di cura del soggetto” e disposto sul presupposto di una sua pericolosità sociale) postulava ancora a quel momento la ritenuta permanenza della patologia psichica già riferita al momento precedente, sicché logicamente e correttamente la Corte territoriale non ha ravvisato, neppure sotto tale riguardo, un comportamento doloso o DOTTRINA 261 Più approfonditamente, per valutare se chi ha subito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, il Giudice deve considerare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza, violazione di leggi, regolamenti o norme disciplinari, fornendo del convincimento conseguito motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. La Corte ha ripetutamente affermato che il Giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri gli estremi di un reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di un errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ed effetto (23). Il Giudice della riparazione non può, quindi, rivalutare i fatti di causa per cogliere elementi di responsabilità ormai definitivamente esclusa, ma può apprezzarli al fine di configurare la colpa grave o il dolo del richiedente quali cause o concause della patita carcerazione (24). Il Giudice ha pertanto il dovere di verificare se il comportamento tenuto dall’istante, quale risulta dagli atti, sia stato tale da porre in essere un contributo causale rispetto all’emissione del provvedimento restrittivo della libert à, ovvero, questo emesso, se abbia trascurato di portare alla cognizione dell’Autorità elementi idonei a far cessare lo stato di custodia cautelare. In particolare, l’omessa dimostrazione o allegazione da parte dell’inquisito di una ragione plausibile o di una finalità convincente in ordine ai singoli elementi ascrittigli nel provvedimento restrittivo della libertà personale, gravemente colposo dell’istante, idoneo a porsi in relazione causale con il permanere della sua condizione limitativa della libertà personale, avuto presente il disposto dell’art. 313 comma 3 c.p.p., quanto alla estensione delle norme sulla riparazione per l’ingiusta detenzione ai casi di applicazione provvisoria di misure di sicurezza. (23) Cass. Pen., Sez. IV, 13 dicembre 2005, n. 2895; Cass. Pen., S. U., 26 giugno 2002, n. 34559. (24) Cass. Pen., Sez. III, 12 febbraio 2004, n. 16506. In particolare, la Corte ha rilevato come i Giudici di merito non avessero sufficientemente apprezzato una serie di fatti, atteggiamenti, pratiche poco chiare e sospette di Tizio e la loro possibile sinergia sulla adozione della misura cautelare. In base a tale emergenza, è legittimo e ragionevole concludere che Tizio, pur dichiarato non colpevole nel giudizio penale, abbia tenuto una condotta incauta (dalla quale sono derivati gli estremi dei gravi indizi di colpevolezza e non dei meri sospetti) che ha giustificato l’intervento della Autorità Giudiziaria ed ha legittimato il provvedimento restrittivo della libertà. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO così da neutralizzare i gravi indizi di colpevolezza rilevati a suo carico e da ricondurre la sua complessiva attività (attribuitagli come illecito penale) nell ’orbita del lecito, vale a integrare gli estremi quantomeno della colpa grave quale condizione ostativa della legittimazione all’esercizio dell’azione volta a conseguire un’equa riparazione a seguito della detenzione che si assume ingiustamente sofferta (25). I comportamenti da valutare hanno natura sia processuale, sia extra-processuale e vanno considerati, quindi, sia quelli tenuti anteriormente, sia quelli posti in essere successivamente al momento di restrizione della libertà personale (26). Resta però la necessità di accertare che tali condotte abbiano avuto una effettiva incidenza causale sull’emissione del provvedimento cautelare e siano state cioè tali (come espressamente previsto dal dato letterale e logico dell’art. 314 comma 1 c.p.p.) da dare causa o concorrere a dare causa all’applicazione del provvedimento restrittivo, ovvero alla sua permanenza (27). (25) Cass. Pen., Sez. III, 26 marzo 2004, n. 20128. (26) Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit.. (27) Cass. Pen., Sez. IV, 2 luglio 2004, n. 37664. Dalla menzionata sentenza emerge che il mero stato di tossicodipendenza, pur costituendo un illecito amministrativo in caso di importazione, acquisto o detenzione illecita di sostanze stupefacenti per uso personale, non può da solo dare causa al provvedimento privativo della libertà personale. Il Giudice di merito ha peraltro distinto “l’operazione logica propria del Giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell ’imputato, da quella propria del Giudice della riparazione il quale, pur dovendo eventualmente operare sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si siano poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’errore altrui) alla produzione dell’evento detenzione; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione, sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione”. La Corte territoriale ha preso in considerazione vari elementi risultanti dal procedimento penale che, pur se non idonei ad una declaratoria di condanna, avevano dato causa all’applicazione della misura restrittiva della libertà personale e cioè: lo stato di tossicodipendenza del ricorrente; il possesso di sostanza stupefacente in luogo pubblico; il confezionamento in tre dosi dell’eroina; il quantitativo corrispondente a sette dosi con effetto drogante; la circostanza che il soggetto si era recato con tali dosi di eroina in un luogo “ritrovo abituale di spacciatori e tossicodipendenti”. Si veda sul punto anche F. IZZO (magistrato), nota a Cass. Pen., Sez. IV, 2 luglio 2004, n. 37664, cit., Ti hanno arrestato? È solo colpa tua, D&G, 2004: “(…) Dando uno sguardo alla casistica e partendo dalla sentenza in commento, è stato ritenuto gravemente colposo e causativo dell’errore del Giudice, il comportamento del tossicodipendente che in strada pubblica, luogo notoriamente di ritrovo di tossicodipendenti, deteneva una pluralità di dosi confezionate di stupefacente. In altri casi, è stata riconosciuta la colpa grave in chi, pur non concorrendo in un’associazione per delinquere (dalla quale era stato assolto), aveva utilizzato detta organizzazione per realizzare occasionalmente un contrabbando di reperti archeologici (Cassazione 268/98); in chi era stato assolto da un omicidio, ma aggredendo la vittima nella stanza da bagno, aveva causaDOTTRINA 263 Per quanto concerne l’irrevocabilità della sentenza assolutoria stabilita dall’art. 648 c.p.p., si osserva che essa riguarda la res in iudicium deducta e, quindi, la valutazione di colpevolezza o di non colpevolezza dell’imputato, ma non può estendersi ad altri giudizi, quale il giudizio riparatorio che ha una natura del tutto autonoma. Sotto il profilo del comportamento tenuto in un fase successiva all’applicazione della misura custodiale, con particolare riferimento alle strategie difensive, il silenzio, la reticenza o il mendacio rientrano indubbiamente nei mezzi che l’indagato/imputato ha diritto di utilizzare per difendersi dall’accusa, ma ciò non esclude che possano essere valutati dal Giudice della riparazione come un comportamento doloso o gravemente colposo del soggetto che ai sensi dell’art. 314 c.p.p. abbia concorso a dare causa alla ingiusta detenzione. Una cosa è il diritto di difendersi con qualsiasi mezzo per preservare la propria libertà personale da un’imputazione penale, altra cosa è il diritto ad una riparazione giudiziaria quando la detenzione patita si rivela ingiusta perch é la strategia difensiva ha avuto successo o ha comunque ottenuto l’assoluzione dall’imputazione: il legislatore, infatti, non ha riconosciuto incondizionatamente siffatto diritto alla riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso quando il comportamento dell’indagato/imputato, da solo o con altre circostanze, abbia indotto in errore il Giudice cautelare circa l’esistenza di indizi di colpevolezza a suo carico e ciò in forza del principio generale stabilito dall ’art. 1227 comma 2 c.c. (v. supra par 2), secondo cui il risarcimento del danno non è dovuto quando il creditore avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria diligenza. Anche su questo punto opera, dunque, l’autonomia dei due giudizi: nel giudizio penale, l’imputato ha diritto di difendersi con qualsiasi mezzo, anche con il silenzio e il mendacio; nel giudizio di natura civilistica per la riparazione, il Giudice può valutare quegli stessi mezzi per escludere il suo diritto all’equo indennizzo; spetterà poi allo stesso Giudice della riparazione decidere se il silenzio o il mendacio bastino da soli o necessitino del concorso di altri elementi di colpa per escludere il diritto all’indennizzo (in questo ambito, questi potrà, per esempio, valutare se il silenzio ha svolto colposato la caduta dell’asciugacapelli in acqua, determinandone la morte involontariamente (Cassazione 1558/94); in chi aveva taciuto nell’immediatezza del fatto un valido alibi ed aveva prospettato invece altre circostanze poi risultate false (Cassazione 1373/94); in chi era stato prosciolto da accuse di reati sessuali per difetto di querela, essendo venuta meno la condizione di procedibilità della commissione di atti osceni in luogo pubblico (Cassazione 40126/02). Di contro, sono state ritenute condotte non ostative all’indennizzo quelle di chi aveva avuto colloqui telefonici intercettati di contenuto «poco consono alla sua qualifica di libero professionista» (Cassazione 4927/92); di chi aveva tenuto una “intensa frequentazione” con altro imputato condannato per droga (Cassazione 179/97); di chi era fuggito da un’auto di provenienza furtiva unitamente ad altre tre persone (Cassazione 1870/94). (…)”. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mente un ruolo sinergico nel giustificare la misura detentiva in quanto ha ritardato l’acquisizione di elementi a discarico) (28). Spetta, in particolare, alla parte resistente, sia essa il Ministero dell’Economia e delle Finanze oppure il Procuratore Generale, provare le cause ostative o estintive di quel diritto alla riparazione, cioè il fatto doloso o gravemente colposo del richiedente l’indennizzo, che ha dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare (29). Riassumendo, in conclusione, i criteri fondamentali elaborati e ripetutamente affermati dalla costante giurisprudenza della suprema Corte (a partire da una fondamentale sentenza delle Sezioni Unite (30), sino alle più recenti decisioni sul tema (31)), emerge quanto segue. a) Esclusione del diritto alla riparazione e valutazione giudiziale della condotta dell’istante. Il Giudice di merito, per valutare se chi ha patito la custodia cautelare vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori a sua disposizione, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino gli estremi di tali stati soggettivi, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che se adeguata e congrua è incensurabile in sede di legittimità. Il Giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante (e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo penale di merito), non se tale condotta integri gli estremi di un reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di un errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ed effetto (32). b) Definizione della condotta gravemente colposa. Secondo un assunto interpretativo ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di colpa grave di cui all’articolo 314 comma 1 c.p.p., ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente e macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disci- (28) Cass. Pen., Sez. IV, 4 dicembre 2003, n. 46470; Cass. Pen., Sez. IV, 8 aprile 2003, n. 16370; Cass. Pen., Sez. IV, 7 giugno 2001, n. 22986; Cass. Pen., Sez. IV, 22 aprile 1998, n. 956. (29) Cass. Pen., Sez. III, 17 febbraio 2005, n. 13714. (30) Cass. Pen., S. U., 13 gennaio 1995, n. 1, cit.. (31) Ex pluribus, Cass. Pen., Sez. IV, 14 febbraio-14 luglio 2006, n. 24355. (32) Ex pluribus, Cass. Pen., Sez. IV, 14 febbraio-14 luglio 2006, n. 24355, cit.; Cass. Pen., Sez. IV, 07 aprile 2005. DOTTRINA 265 plinari, una situazione tale da costituire una non voluta ma prevedibile (e, quindi, anche preventivamente evitabile) ragione di intervento dell’Autorità Giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale. Atale riguardo, la colpa grave può concretarsi in comportamenti sia processuali, sia extra-processuali, come la grave leggerezza o la macroscopica trascuratezza, tenuti sia anteriormente, sia successivamente al momento restrittivo della libertà personale; onde l’applicazione della suddetta disciplina non può non imporre l’analisi dei comportamenti tenuti dall’interessato anche prima dell’inizio dell’attività investigativa e della relativa conoscenza da parte di quest’ultimo, indipendentemente dalla circostanza che tali comportamenti non integrino reato (anzi, questo è, a ben vedere, il presupposto essenziale dell’intervento del Giudice della riparazione) (33). c) Valutazione delle strategie difensive. Sul punto, con argomentazioni qui di immediata utilità, si è parimenti affermato che non può comunque fondarsi la colpa dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione, solo sul silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio davanti al P.M. o al G.I.P., giacché la scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere ex se per fondare un giudizio positivo di sussistenza di uno stato soggettivo colposo, per il rispetto che è dovuto alle strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è stato privato della libertà personale. Ciò anche qualora a tali strategie possa attribuirsi, a posteriori, un contributo negativo di non chiarificazione del quadro probatorio legittimante la privazione della libertà (34). Essendo pacifico che non possa attribuirsi rilievo ex se al silenzio o alla reticenza nel corso dell’interrogatorio (tenuto conto dell’insindacabile diritto al silenzio, alla reticenza o alla menzogna spettante alla persona sottoposta alle indagini e all’imputato), si ritiene, tuttavia, possa attribuirsi rilievo al mancato esercizio di una facoltà difensiva da parte dell’interessato, quantomeno sul piano della mancata allegazione di fatti risolutivamente favorevoli a lui noti che, se non può essere da sola posta a fondamento dell’esistenza della colpa grave, può valere però a fare ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo casualmente efficiente nel permanere della misura cautelare, del quale può tenersi conto nella valutazione globale della condotta, in presenza di altri elementi di colpa. Pertanto, qualora soltanto l’indagato/imputato sia in grado di fornire una logica e plausibile spiegazione al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini, il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quantomeno di allegazione di elementi favorevoli, vale a fare ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo casualmente efficiente nel permanere della misura cautelare (35). (33) Cfr., Cass. Pen., Sez. IV, 7 aprile 2005, cit.; Cass. Pen., Sez. IV, 07 ottobre 2003. (34) Cass. Pen., Sez. IV, 7 ottobre 2003, cit.. (35) Cass. Pen., Sez. IV, 14 febbraio-14 luglio 2006, n. 24355, cit.. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO d) Profili probatori. Sotto il profilo dell’onere probatorio che caratterizza la subiecta materia, deve escludersi che spetti a colui che chiede l’equa riparazione dimostrare, oltre che di avere subito l’ingiusta detenzione e di essere stato assolto dalle imputazioni che lo avevano privato delle libertà, di non avere contribuito, con la propria condotta dolosa o gravemente colposa, a determinare l’ingiusta detenzione. Un tale onere probatorio potrebbe giustificarsi solo se la domanda proposta ai sensi dell’art. 314 c.p.p. avesse natura civilistica, ma il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, lungi dall’essere un procedimento civile che si svolge dinanzi al Giudice penale, costituisce un procedimento penale autonomo che presuppone definitivamente concluso il rapporto processuale instauratosi per effetto dell’esercizio dell’azione penale. Pertanto, la relativa disciplina non può che essere ricercata nell’ambito dell’ordinamento processuale penale, le cui disposizioni, in assenza di un’espressa deroga, devono trovare in questa materia integrale applicazione. Ne deriva, quindi, non solo che non spetta a colui che chiede l’equa riparazione di provare di non avere dato causa o contribuito a dare causa alla custodia cautelare, ma che sia onere del Giudice accertare, anche d’ufficio, se ricorrano le due condizioni richieste dalla legge per l’accoglimento della domanda, ovverosia la “condizione positiva” di essere stato il richiedente ingiustamente privato della libertà e di essere stato prosciolto dalle imputazioni che gli erano state ascritte e la “condizione negativa” di non avere, l’interessato, dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare applicata a suo carico (36). 4. Disamina della giurisprudenza penale di merito: la colpa grave secondo la Corte d’Appello di Trieste. Dall’analisi del recente panorama giurisprudenziale delle Sezioni Penali del Distretto di Corte d’Appello di Trieste (2004-2007), si ricava un filone (36) Cass. Pen., Sez. IV, 4 ottobre 2005, n. 45154; Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile 2004, n. 23630. Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva ritenuto che Tizio, nell’omettere in sede di interrogatorio di riferire una circostanza a lui favorevole (in particolare che la missiva a sua firma, oggetto della contestazione, si riferiva in realtà a vicenda diversa da quella oggetto del procedimento penale) avesse, con colpa grave, contribuito al rigetto dell’istanza di revoca della misura cautelare. È una argomentazione che secondo la Cassazione non appare in linea con quanto affermato in merito ai requisiti per la configurabilità della colpa grave, laddove si è finanche escluso che questa posso fondarsi ex se sull’esercizio da parte dell’interessato della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio. Ma il Giudicante è incorso in un ulteriore errore di valutazione allorquando ha ritenuto che la dimenticanza di Tizio fosse da considerarsi dimostrativa di “evidente trascuratezza e negligenza”. L’affermazione è, a ben vedere, meramente assertiva e non supportata da adeguato sforzo motivazionale diretto a smentire le argomentazioni dell’interessato (lungo arco temporale decorso tra i fatti ed il provvedimento restrittivo; numero consistente di pratiche analoghe trattate, tale da non consentire di apprezzare una particolare singolarità di quella sub iudice). Il Giudice della riparazione non avrebbe potuto, dunque, come immotivatamente ed erroneamente ha fatto, fare discendere tout court dalla dimenticanza di Tizio un apprezzamento, in termini di colpa grave, condizionante il riconoscimento dell’indennizzo. DOTTRINA 267 interpretativo uniforme sui criteri di valutazione ed il campo di operatività della condotta gravemente colposa del richiedente la riparazione, quale causa di esclusione del diritto all’indennizzo. La posizione assunta dalla Corte territoriale è pienamente conforme agli orientamenti, ormai pienamente consolidati, delineati negli ultimi anni dalla suprema Corte, ai quali la stessa Corte Distrettuale fa costante ed espresso rinvio (37). 4.1. Segue: profili generali dell’esclusione del diritto alla riparazione. L’analisi operata dalla Corte inizia da un punto fermo ispirato al tenore letterale dell’art. 314 c.p.p.: ai fini dell’esclusione del presupposto oggettivo della riparazione sono richiesti profili specifici di colpa grave (o, a fortiori, dolo), sinergici alla instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare. Si ritiene che dalla condotta dell’indagato/imputato debbano emergere elementi gravi e precisi di colpevolezza idonei, nella specifica fase processuale, alla adozione della misura cautelare applicata, ovverosia debba derivarne una situazione oggettivamente adeguata a provocare interventi coercitivi dell’Autorità Giudiziaria (38). Analoghe considerazioni valgono anche per il comportamento tenuto in un momento successivo a quello dell’arresto, per i profili di mancata revoca della misura restrittiva già adottata (39). 4.2. Segue: definizioni. Sotto il profilo definitorio, conformemente all’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, si considera dolosa la condotta volontaria e consapevole che, antecedentemente alla privazione della libertà personale o nel corso di essa, sia valutabile sulla base delle comuni regole di esperienza come oggettivamente idonea a creare situazioni atte a determinare interventi coercitivi dell’Autorità Giudiziaria. Dolosa non è, oltretutto, solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal Giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’Autorità Giudiziaria a tutela della comunità. (37) Per una nozione aggiornata e completa della colpa grave, con molteplici richiami alla consolidata giurisprudenza della suprema Corte, si veda l’ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 3 luglio 2007. (38) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 22 giugno 2004. (39) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 10 novembre 2004. Idem altre due ordinanze della medesima Corte Distrettuale, Sez. Pen. I, dd. 2 maggio 2005 e Sez. Pen. I, dd. 2 ottobre 2006. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nella nozione generale di dolo va ricompreso poi anche il “dolo eventuale ” (fattispecie soggettiva di elaborazione dottrinale, al confine con la “colpa cosciente” o “con previsione”) di chi agisce prevedendo la concreta possibilità o probabilità del verificarsi di un dato evento: il soggetto pone comunque in essere l’azione, accettando il rischio delle conseguenze derivanti dalla propria condotta. Si ritiene, invece, gravemente colposa la condotta caratterizzata da noncuranza, negligenza, imprudenza o indifferenza per quanto possa da essa prevedibilmente derivare sul piano penale (40). La nozione di colpa a cui la Corte aderisce è quella penalistica emergente dall’art. 43 c.p., secondo il quale si configura tale stato soggettivo qualora l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa della sua negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero per l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Il parametro della valutazione è rappresentato dal buon senso di un “uomo non particolarmente avveduto”, il quale identifica, in concreto, il c.d. “agente modello” (41): essendo questi l’agente “ideale”, si può comprendere come il giudizio sulla condotta colposa sia da effettuare con estremo rigore e severità, contrariamente ad una linea di pensiero per cui sarebbe consentito a ciascun individuo di vivere sempre ai confini del reato pur nella totale immunità da qualsivoglia conseguenza sul piano personale (42). 4.3. Segue: valutazione giudiziale della condotta gravemente colposa. È pacifico che la valutazione da parte del Giudice della riparazione, come già visto in precedenza nell’esame della giurisprudenza di Cassazione, abbia natura civilistica e non penalistica (43) e l’iter logico che questi deve seguire sia, nel suo complesso, molto diverso da quello del Giudice della cognizione (44). Il giudizio sulla condotta deve essere effettuato ex ante e sulla base dell ’idoneità di questa a trarre in inganno l’Autorità Giudiziaria ed a porsi come situazione sinergica alla causazione dell’evento detenzione (45). (40) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 22.-20 aprile 1996, n. 204624. (41) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit.. (42) Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995, n. 43, cit.. (43) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità. (44) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, cit., conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità. (45) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit.. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 13 aprile-18 maggio 1999, n. 1114. DOTTRINA 269 Il Giudice della riparazione, pur operando necessariamente sullo stesso materiale probatorio acquisito nel giudizio di cognizione, non deve stabilire se determinate condotte costituiscano o meno un reato, ma se esse si siano poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore che, peraltro, è il presupposto necessario della riparazione) rispetto alla produzione dell’evento detenzione, per l’idoneità di tali condotte (come visto, da valutarsi ex ante) a trarre in inganno l’Autorità Giudiziaria. In particolare, perché la condotta difensiva (la quale va valutata con particolare prudenza, dovendosi sempre rispettare le scelte in merito alle strategie di difesa, tenendo presente la tutela di rango costituzionale riconosciuta a tale diritto) possa essere considerata ostativa rispetto al riconoscimento del diritto all’indennizzo, è indispensabile non solo che si tratti di una condotta scorretta (come, per esempio, il fornire un alibi falso), ma che ricorra anche il rapporto sinergico di causa ed effetto tra la condotta colposa e l’evento detenzione (46). 4.4. Segue: profili probatori. La prova della condotta colposa non può che emergere dalla fonte dalla quale scaturisce la privazione della libertà personale, cioè l’ordinanza cautelare, la quale, dovendo essere rigorosamente motivata, come esige l’art. 292 c.p.p. (nel quale il legislatore ha indicato non solo gli elementi oggetto della motivazione, ma anche il contenuto della medesima), deve necessariamente indicare anche le condotte dell’indagato che, considerate in quel momento come gravi indizi di colpevolezza, in prosieguo possono risolversi, invece, in condotte gravemente colpose o dolose, irrilevanti ai fini della affermazione della responsabilità penale, ma sinergicamente incidenti sulla privazione della libertà e, quindi, in condotte che escludono l’equa riparazione (47). La sussistenza della colpa grave deve, pertanto, risultare o desumersi dal provvedimento restrittivo della libertà o dagli eventuali provvedimenti successivi di riesame o di appello (48). 4.5. Segue: casistiche. Il Giudice deve valutare la condotta sia prima, sia dopo il momento della perdita della libertà e, più in generale, anteriormente alla legale conoscenza (46) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit.. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 10 marzo-12 aprile 2000, n. 1705. (47) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 10 novembre 2004, cit.. Idem ordinanze della medesima Corte Distrettuale, Sez. Pen. I, dd. 2 maggio 2005, cit. e Sez. Pen. I, dd. 2 ottobre 2006, cit.. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 2 aprile 2004, n. 42298. (48) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005 cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005 cit.. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 24 aprile 2003, n. 19523. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO da parte di un soggetto dell’attivazione di indagini a suo carico, con la precisazione che la valutazione dei comportamenti successivi a tale conoscenza deve essere effettuata con particolare cautela, dovendosi sempre e con adeguato rigore avere rispetto per le strategie difensive, essendo il diritto alla difesa un diritto fondamentale e inviolabile, costituzionalmente garantito ex art. 24 comma 2 della Carta fondamentale (49). In proposito, si propongono, a titolo esemplificativo, alcune ipotesi. A) Sotto il profilo delle condotte “processuali”, si possono presentare le seguenti casistiche: – la confessione di un delitto che consente l’adozione di misure cautelari costituisce certamente un fatto colposo impeditivo dell’accoglimento della domanda di riparazione (condotta processuale attiva) (50); – appare condivisibile l’orientamento giurisprudenziale in base al quale non può fondarsi la colpa dell’interessato solo sul silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio davanti al P.M. o al G.I.P., giacchè la scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere ex se per fondare un giudizio positivo di sussistenza della responsabilità, per il rispetto che è dovuto alle strategie difensive anche qualora a queste possa essere attribuito, a posteriori, un contributo negativo di non chiarificazione del quadro probatorio legittimante la privazione della libertà (condotta processuale omissiva “sotto soglia di rilevanza”) (51); – la prospettiva entro cui occorre muoversi è, dunque, quella della possibile qualificazione della “non collaborazione” dell’inquisito come contributo causale (in termini di dolo o colpa grave) alla genesi o al mantenimento della detenzione in un secondo momento rivelatasi ingiusta: la giurisprudenza di Cassazione, seguita dalla Corte territoriale, ha più volte precisato che è legittimo trarre dal comportamento processuale del ricorrente, il quale non abbia risposto in sede di interrogatorio ed abbia così omesso di fornire spiegazioni su elementi obiettivamente indizianti, ragioni per disattendere la richiesta di riparazione, nel senso che non è il silenzio (o la reticenza) in quanto tale che rileva, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quantomeno sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli (condotta processuale omissiva “sopra soglia di rilevanza”) (52). (49) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 20 gennaio 2005, cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 8 marzo 2005, cit.. Conforme, Cass. Pen., Sez. IV, 13 marzo-23 aprile 1996, n. 849; Cass. Pen., S. U., 13 dicembre 1995-9 febbraio 1996, n. 43, cit.. Idem ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 08 giugno 2005, cit., conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità. (50) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 15 dicembre 2004. (51) Cass. Pen., Sez. IV, 4 ottobre 2005, n. 45154; ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 2 ottobre 2006, cit.. (52) Cass. Pen., Sez. IV, 8 aprile 2003, n. 16270; Cass. Pen., Sez. IV, 7 giugno 2001, n. 22986; Cass. Pen., Sez. IV, 14 aprile 1995, n. 1365; Cass. Pen., Sez. VI, 24 gennaio 1992, n. 4189; ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, cit.. B) Sotto il profilo delle condotte “extra-processuali”, si profilano le seguenti soluzioni: – in generale, sono da considerarsi gravemente colposi i comportamenti seriamente autoindizianti che configurino un contributo personale alla creazione dell’apparenza delle condizioni impositive sia dell’adozione che del mantenimento della misura custodiale (53); – la mera “connivenza passiva” rispetto all’attività criminosa di altri non può considerasi ex se condotta dolosa o colposa idonea a concorrere alla causazione dell’evento detenzione, essendo tale contributo assolutamente irrilevante sia rispetto alla compartecipazione al reato, secondo il consolidato principio per cui, ai fini dell’incriminazione, l’apporto minimo per la configurazione del concorso di persone ex art. 110 c.p. è rappresentato dal rafforzamento (anche solo su un piano psicologico/morale) dell’altrui proposito criminoso, sia, a maiori ad minus, rispetto all’idoneità di tale condotta a creare il fumus commissi delicti per l’applicazione della misura custodiale (54); – in particolare, si concorre a dare causa alla misura cautelare se si sia al corrente nell’attività delittuosa di altri e ciò nonostante, pur non concorrendo in quella attività, si pongano in essere, con evidente e macroscopica imprudenza, condotte che si prestino, sul piano logico, alla deduzione della contiguità del concorso in termini di “connivenza attiva” e di sostegno indiretto all’altrui progetto criminoso (es. frequentazione di persone dedite allo spaccio; frequenti contatti telefonici con le stesse; ecc.) (55). Ciò tenendo anche conto del fatto che, nel caso di specie esaminato dalla Corte territoriale, le dichiarazioni rese nell’interrogatorio, in sede di convalida della misura, non avevano minimamente modificato o scalfito il quadro probatorio e gravemente indiziario offerto al G.I.P. al momento dell’adozione del provvedimento di custodia cautelare (56). 5. Considerazioni conclusive: una questione interpretativa irrisolta. La quaestio si incardina su una clausola di esclusione per sua natura, come visto, passibile di diverse interpretazioni (57). L’elasticità della formulazione (“[…] qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”) rende dubbio il suo campo di applicazione; anche la previsione dell’ipotesi del concorso della condotta dell’istante rispetto alla produzio- DOTTRINA 271 (53) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. I, dd. 8 giugno 2005, cit.. (54) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 27 settembre 2005. Secondo Cass. Pen., 21 dicembre 2006, n. 42039, la connivenza costituisce comportamento gravemente colposo rilevante ai fini dell’esclusione del diritto alla riparazione allorché tale atteggiamento risulti aver rafforzato la volontà criminosa dell’agente. (55) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 1 dicembre 2005. (56) Ordinanza della Corte d’Appello di Trieste, Sez. Pen. II, dd. 22 giugno 2004, cit., con richiamo a Cass. Pen., Sez. IV, 23 settembre 1994, n. 598. (57) G. CONSO – V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, Padova, 2005, cit., p. 1071. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ne dell’evento detenzione (è, come noto, sufficiente che, tra i molteplici fattori all’origine della misura coercitiva, almeno uno sia attribuibile all’interessato) (58), omessa nell’art. 643 c.p.p. sulla riparazione dell’errore giudiziario, complica ulteriormente l’interpretazione sui confini di operatività della colpa. Il problema ha, dunque, una duplice natura: da un lato, si rende necessario interpretare il significato della colpa grave ai fini dell’art. 314 c.p.p., non avendo il legislatore risolto alla radice tale questione (non palesando, expressis verbis, a quale nozione di colpa ci si debba riferire); dall’altro si ricade nel complesso e parzialmente irrisolto tema della causalità che da sempre divide la dottrina juspenalistica e juscivilistica, nonchè la giurisprudenza, su quale debba essere la più idonea definizione del nesso causale e quale il suo criterio di individuazione, unitamente alle problematiche emergenti dall’ipotesi del concorso di cause rispetto alla produzione del medesimo evento. Tali sforzi dottrinali e giurisprudenziali sono volti a ricercare una nozione di causalit à che, astraendosi dalle scienze naturali, sia valida anche per il diritto e con essa un unico e sicuro criterio di accertamento del rapporto causale, utile all’interprete per affermare con sufficiente grado di certezza se un dato fatto risulti cagionato da una data condotta (59). Per quanto concerne poi l’operatività della condizione soggettiva negativa nell’ambito del ventaglio di ipotesi oggettive di riparazione previste dall ’art. 314 c.p.p., si ritiene che la causa di esclusione del dolo o colpa grave prevista dal primo comma (casi di detenzione ingiusta: proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) operi anche per il secondo comma (è il caso della detenzione illegittima, in cui risulta accertato, con decisione irrevocabile, che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.) (60). È pacifico, visto l’espresso richiamo ex lege ai commi precedenti, che la causa di esclusione operi anche per le altre ipotesi di detenzione ingiusta previste dal terzo comma: provvedimento di archiviazione o sentenza di non luogo a procedere. Risolte tali questioni preliminari, l’analisi interpretativa deve partire da un condivisibile assunto: il pericolo dell’errore giudiziario, come scriveva il Carnelutti, è “come una gran nube che oscura il cielo del diritto processuale”(61): (58) Critica la previsione del “concorso” ed auspica che sul punto la disciplina sia emendata, M.G. COPPETTA, La riparazione per ingiusta detenzione, Cedam, Padova, 1993, cit., p. 188 ss., soprattutto sottolineando la mancanza di confini normativi certi della fattispecie e, conseguentemente, il rischio di un suo impiego quale comodo espediente per negare la riparazione. (59) R. GAROFALI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Giuffrè, Milano, 2003, p. 281. (60) G. CONSO – V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, Padova, 2005, cit., p. 1071. (61) F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 277. DOTTRINA 273 da ciò l’esigenza di un istituto come quello della riparazione per l’ingiusta detenzione che attenui gli effetti di una sofferenza ingiustamente patita. Le limitazioni al diritto all’indennizzo sono, tuttavia, ragionevolmente necessarie e trovano il proprio fondamento nei sopramenzionati principi generali di equitas giuridica che ristabilizzano il giusto equilibrio in capo ad un soggetto sì ingiustamente leso, ma, al contempo, anche imprudentemente causa o concausa del suo male: la colpa grave non può, di certo, diventare uno strumento asettico per eludere il riconoscimento del diritto all’indennizzo, ma tale ragionevole considerazione non può, d’altra parte, nemmeno giustificare una attenuazione del rigore nell’individuazione delle situazioni impeditive. Secondo alcuni (62), il diniego del ristoro economico avrebbe un carattere “criptopunitivo” nei confronti di condotte penalmente non vietate e la custodia non riparabile in via economica assumerebbe il senso di una sanzione sostanziale indiretta. Si ritiene che il rischio di tali ultime valutazioni sia quello di estremizzare le conseguenze in una direzione opposta a quella temuta, ovverosia di riconoscimento indiscriminato della riparazione in tutte le ipotesi in cui sussistano gli estremi oggettivi per la stessa, tralasciando, a priori, una indagine sulla condotta dell’istante, con l’effetto di disattendere il valore originario della previsione normativa e trasfigurare la colpa grave in una causa impeditiva priva di un effettivo valore sostanziale e di una concreta capacità operativa. Spetta comunque al Giudice il compito di dare un senso alla clausola di esclusione del diritto all’indennizzo e di delinearne i confini secondo la concezione etico-sociale del suo tempo, nel maggior rispetto possibile dovuto alla ratio (v. supra, par. 1) che ha indotto il legislatore ad introdurre tale condizione ostativa nella sistematica della disciplina riparatoria (63). Il mancato assolvimento dell’obbligo di motivazione (logica, congrua e completa) è, infine, come noto, sempre censurabile in Cassazione ex art. 606 comma 1 lett. e c.p.p.. Si tratta del rimedio generalmente riconosciuto avverso a tutte le decisioni che presentino un vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, ma contraddistinto, con riferimento alla speciale procedura di cui trattasi, da alcuni profili di peculiarità e differenziazione. In primis, qualora legittimamente posto in essere, il giudizio dinanzi alla suprema Corte rappresenta il secondo ed ultimo grado di giustizia esperibile, essendo il primo grado di spettanza della Corte d’Appello. Secondariamente, la Cassazione si è riservata un’ampia discrezione nell ’individuazione dei confini da assegnare alla colpa grave, spesso interloquendo nel merito con i Giudici del rinvio, assoggettati al vincolo decisorio (62) Così M. D’AGNOLO, Connivenza e frequentazioni «ambigue» come limiti alla riparazione per l’ingiusta detenzione, in Cass. Pen., 2004, p. 2962. (63) P. A. SODANI, Riparazione per l’ingiusta detenzione, Giappichelli, Torino, 1992, cit., p. 30 ss.. ex art. 623 c.p.p. (64), stabilendo, di volta in volta, nella sua duplice funzione di Giudice investito del caso concreto con il mezzo dell’impugnazione e Giudice dell’esatta osservanza ed uniforme interpretazione del diritto, quali elementi rientrino nella soglia dell’irrilevanza ai fini della riparazione, comunque garantita, e quali, invece, siano idonei a configurare un fattore inibitorio rispetto al diritto all’equo indennizzo (65). Un’indagine introspettiva sullo stato interiore dell’agente nella fase di compimento di un’azione dà origine ad un percorso cognitivo arduo e difficoltoso, dai risultati spesso altalenanti, soprattutto qualora tale stato non si avvicini, per grado di intensità, al dolo, o, comunque, non si proietti in indici sintomatici oggettivi di emblematica evidenza. Tesa al principio della certezza e della uniforme applicazione del diritto, a cui da sempre l’ordinamento aspira, la suprema Corte ha comunque sforzato il proprio operato interpretativo oltre gli ostacoli del relativismo, cercando di delineare, con tendenziale costanza, i margini definitori della colpa grave e svolgendo, per il tramite di un canale posto ex lege e rappresentato dalla frequente ipotesi fenomenologica dell’annullamento con rinvio per error in iudicando, un’attività ermeneutica al limite tra l’ordinaria funzione di nomofilachia che le è propria ed i poteri di cognizione tipici del Giudice di merito. Al di là di ogni possibile sforzo ermeneutico, permane, tuttavia, il fatto che l’esaminata formula di esclusione rappresenta, senza alcun dubbio, l’anello più debole di una procedura per il resto fortemente connotata da predefiniti e puntuali parametri garantistici di natura oggettiva. Residuano, in particolare, alcune questioni interpretative irrisolte, individuabili in quegli indici sintomatici della colpa (quale, come visto, la connivenza passiva) talvolta valutati di per sé insufficienti a rappresentare una causa di esclusione dell’indennizzo, ma talvolta, se cumulati ad altri (seppur di per sé labili) elementi indizianti a carico dell’indagato, considerati idonei a delineare un concorso colposo nell’applicazione e/o conservazione della misura cautelare: una “zona grigia” che, a ben vedere, investe la Cassazione di un ampio potere interpretativo non assoggettato ad alcun controllo legislativo, risultando, d’altra parte, di difficile ipotesi, anche in una prospettiva de jure condendo, un’anticipazione astratta delle diverse possibili sfaccettature di una condotta colposa emergenti nella prassi. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (64) Come noto, qualora una decisione sia valutata dalla Corte come formalmente valida ma affetta da un errore sul merito (error in iudicando), non potendosi sostituire al Giudice di merito, questa rinvia al secondo il giudizio, ma con un vincolo decisorio ineludibile che si sostanzia nella formulazione di massime di diritto. (65) Per un approfondimento, R. VANNI, Nuovi profili della riparazione dell’errore giudiziario, Cedam, Padova, 1992, cit., p. 84 ss., il quale ritiene che, con riferimento al procedimento di riparazione dell’errore giudiziario, la cognizione della suprema Corte sia estesa anche al merito, per sopperire all’assenza dei tre ordinari gradi di giudizio e garantire, comunque, un riesame completo della vicenda anche sotto il profilo sostanziale, oltre che della legittimità procedurale. Le ripercussioni più gravi delle predette incertezze definitorie si riscontrano a livello probatorio, in un aggravamento dell’onere posto a carico della Procura e del convenuto Ministero: i maggiori ostacoli si concentrano, infatti, proprio su quei confini sfumati e di incerta individuazione della colpa, là dove, come visto, nemmeno gli stessi indici casistici di matrice giurisprudenziale maturati sino ad oggi sono riusciti a prospettare un chiaro e definitivo (oltre che, pro futuro, auspicato) discrimen tra le allegazioni effettivamente idonee ad avere una incidenza processuale e quelle, al contrario, costituenti un mero fumus “sotto soglia di rilevanza”. DOTTRINA 275 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La scelta del socio privato nella s.p.a. a capitale pubblico di Giulia De Dominicis e Giuseppe Fabrizio Maiellaro (*) In relazione alla determinazione di una S.p.A. con capitale a totale partecipazione pubblica (nella fattispecie, costituita con capitale 100% di un Comune), incaricata della realizzazione, della gestione e della erogazione dei servizi di un parcheggio comunale, di aprire al mercato il proprio capitale, è sorto il problema di individuare i termini e le modalità per addivenire all’individuazione di un socio privato alla stregua delle vigenti disposizioni di legge. 1. La disciplina della gestione ed erogazione di servizi pubblici alla stregua del D.Lgs. n. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali) Una corretta trattazione della questione esige anzitutto l’individuazione della natura di un soggetto istituito da un Comune per la realizzazione, erogazione e gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica (1). Tale natura può essere definita alla stregua delle vigenti disposizioni di legge che regolano le attività, quali quelle in esame, poste in essere dagli enti locali. Al riguardo, si rammenta che l’art. 113 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e s.m.i. (c.d. “Testo Unico degli Enti Locali”, di seguito, per brevità, anche “T.U.E.L.”) disciplina la gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e consente, al comma 5, che l’erogazione del servizio avvenga secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione Europea, con conferimento della titolarità del servizio: (*) Avvocati in Roma. (1) In proposito, vale rammentare che la differente ipotesi dello svolgimento delle attivit à di sola gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali è invece disciplinata dal comma 4 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 267/2000. Nella specie, la norma in questione stabilisce che “qualora sia separata dall’attività di erogazione dei servizi, per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali gli enti locali, anche in forma associata, si avvalgono: a) di soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione totalitaria di capitale pubblico, cui può essere affidata direttamente tale attività, a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano; b) di imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica, ai sensi del comma 7”. A sua volta, il comma 7 richiamato prevede che “la gara di cui al comma 5 è indetta nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali”. DOTTRINA 277 “a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica; b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”. Dunque rileva in primo luogo la nozione di servizio pubblico locale a rilevanza economica, cui la norma fa espresso riferimento. Una definizione di servizio pubblico locale, seppure di carattere piuttosto generico, può anzitutto rinvenirsi a livello normativo nell’art. 112, comma 1, del T.U.E.L., il quale dispone che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. In merito alla rilevata genericità della definizione appena riportata, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “la genericità della norma si spiega con la circostanza che gli enti locali, ed il comune in particolare, sono enti a fini generali dotati di autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria (art. 3 T.U.E.L.) nel senso che essi hanno la facoltà di determinare per sé i propri scopi e, in particolare, di decidere quali attività di produzione di beni ed attività, purché genericamente rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo civile ed economico della comunità locale di riferimento (art. 112 T.U.E.L.), assumere come doverose. Quel che rileva è perciò la scelta politicoamministrativa dell’ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in modo continuativo obiettive esigenze della collettività” (2). Alla luce di quanto precede – e ferma evidentemente l’autonomia del Comune nell’individuazione delle attività che ritenga di assumere per perseguire il menzionato sviluppo della propria comunità locale di riferimento – la realizzazione, gestione ed erogazione dei servizi di un parcheggio pubblico sembrerebbe quindi riconducibile alla nozione di servizio pubblico locale, e rientrerebbe, di conseguenza, tra le facoltà del Comune quella di affidare l’erogazione del predetto servizio con una delle modalità alternative individuate dal già citato art. 113, comma 5, del T.U.E.L. E, nell’ipotesi in cui il Comune abbia provveduto ad affidare direttamente ad una S.p.A. a capitale interamente pubblico la realizzazione e gestione di un’area di parcheggio, potrebbe configurarsi una fattispecie riconducibile (2) Così Consiglio di Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO all’affidamento c.d. “in house”, così come previsto dal citato art. 113, comma 5, lett. c) (3) e dall’elaborazione giurisprudenziale dell’istituto sviluppatasi negli anni (4). In tal senso, difatti, il Comune ha operato mediante l’affidamento (“in house”) dell’esercizio delle attività in argomento ad una società che rappresenta il suo braccio operativo, una “longa manus” dell’amministrazione affidante, pur conservando natura distinta ed autonoma rispetto all’apparato organizzativo dell’amministrazione medesima (5). 2. Le S.p.A. costituite dagli Enti Locali nel quadro normativo del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei Contratti Pubblici relativi al lavori, servizi e forniture) Le premesse di cui al precedente paragrafo ci consentono ora di procedere alla individuazione della normativa applicabile alla problematica in argomento e, in particolare, all’ipotesi in cui un soggetto pubblico (costituito nella forma societaria di una S.p.A. a capitale interamente pubblico), incaricato della realizzazione e gestione di un parcheggio, voglia aprire il proprio capitale al mercato e, in tal senso, debba individuare un socio privato. (3) Ai sensi della norma in questione, i requisiti che devono sussistere al fine di procedere ad un affidamento diretto, senza violare i principi comunitari in materia di affidamenti, sono il controllo sull’ente concessionario esercitato dall’autorità pubblica concedente, analogo a quello che la stessa esercita sui propri servizi, e la realizzazione da parte dell’ente concessionario della maggior parte della propria attività con l’autorità concedente. (4) Cfr, ex multis, Corte di Giustizia Europea, 18 novembre 1999, causa C-107/98 Teckal; id., 12 dicembre 2002, causa C-270799 Universale Bau-AG; id. 27 febbraio 2003, causa C-373/00 Truley; id. 11 gennaio 2005, causa C-26/03 Stadt Halle; 13 ottobre 2005 causa C-458/03 Parking Brixen) sulla individuazione dei requisiti del controllo analogo e dello svolgimento della maggior parte dell’attività in favore dell’ente pubblico. Con specifico riferimento al caso succitato, preme peraltro rilevare come la Corte di Giustizia Europea, nella citata sentenza C-458/03 Parking Brixen, abbia delineato con molta chiarezza gli elementi da tenere in considerazione al fine di valutare la legittimità di un affidamento diretto di tale tipo. In particolare, i Giudici comunitari sono stati interrogati sulla legittimità dell’attribuzione di una concessione di servizi senza svolgimento di pubblica gara, qualora l’impresa concessionaria sia una società costituita mediante la trasformazione di un’azienda speciale di un’autorità pubblica ed il capitale sociale sia al momento dell’attribuzione interamente detenuto dall’autorità pubblica concedente, il cui Consiglio di Amministrazione disponga però dei più ampi poteri di ordinaria amministrazione e possa concludere autonomamente, senza l’accordo dell’assemblea dei soci, taluni negozi entro un valore di cinque milioni di euro. In tal caso la Corte ha sottolineato come la trasformazione dell’azienda speciale in S.p.A. abbia fatto acquisire alla stessa un carattere commerciale (come risulta da una serie di elementi quali l’ampliamento dell’oggetto sociale in nuovi e importanti settori, l’apertura obbligatoria della società ad altri capitali, l’espansione territoriale delle attività e i considerevoli poteri del Consiglio di Amministrazione, a prescindere dal fatto che il capitale sia detenuto al 100% da un soggetto pubblico) che impedisce all’autorit à pubblica concedente di esercitare sulla stessa un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Pertanto, il giudice ha ritenuto che non possa ritenersi legittimo l’affidamento diretto ad una società con le caratteristiche individuate dalla sentenza in commento. (5) Cfr. TAR Campania, 30 marzo 2005, n. 2784. DOTTRINA 279 In primo luogo, si evidenzia che il D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e s.m.i. – Codice dei Contratti Pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE – nel definire il proprio ambito di operatività a livello soggettivo, prevede all’art. 32, comma 1, lett. a), l’applicabilità del codice ai “lavori, servizi e forniture affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici”. Ai sensi dell’art. 3, comma 25, del Codice medesimo, tra le amministrazioni aggiudicatrici risultano espressamente annoverati anche gli organismi di diritto pubblico, ovverosia, ai sensi del successivo comma 26 della medesima norma, quegli organismi istituiti, anche in forma societaria: – al fine di soddisfare esigenze di interesse generale di carattere non industriale, né commerciale; – dotati di personalità giuridica; – la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, ovvero la cui gestione sia soggetta al controllo di tali soggetti o ancora il cui organo di amministrazione, direzione o vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà sia designata dai predetti soggetti pubblici. Ai sensi della successiva lett. c) del predetto art. 32, comma 1, il Codice risulta altresì applicabile anche ai “lavori, servizi e forniture affidati dalle società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113 bis, 115 e 116 del D.Lgs. 267/2000, T.U. delle leggi sugli ordinamenti degli enti locali”. Ciò posto, occorre in ogni caso segnalare che lo specifico inquadramento soggettivo della società a capitale interamente pubblico costituita dal Comune quale organismo di diritto pubblico necessita di una verifica condotta sulla base di concreti elementi di fatto, soprattutto con particolare riguardo alla sussistenza del più problematico dei suddetti tre requisiti, ovverosia quello degli specifici fini (soddisfare esigenze di interesse generale che abbiano carattere non industriale e non commerciale) per i quali il soggetto stesso è stato istituito. In ordine alla verifica sulla effettiva sussistenza del requisito relativo ai bisogni di interesse generale di carattere non industriale o commerciale, difatti, la giurisprudenza, sia a livello comunitario che a livello nazionale, in assenza di specifiche previsioni normative, ha fornito indicazioni su eventuali indici rivelatori della sussistenza del requisito (6). (6) A livello comunitario, tra l’altro, la giurisprudenza ha rilevato la definizione della nozione di “interesse generale” quale genus della species di quella di ”interesse generale di carattere non industriale o commerciale” (Corte di Giustizia CE, 27 febbraio 2003, C- 373/2000 Truley), nonché la sussistenza del requisito de quo ove il soggetto in questione non sia istituzionalmente preposto al soddisfacimento di bisogni diffusi, con prestazione di 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ad ogni modo, sulla base quanto sopra specificato, può comunque ritenersi che, nella fattispecie, trovino applicazione le norme del Codice dei Contratti Pubblici. servizi in favore della collettività (ossia singoli e molteplici consumatori), bensì faccia fronte alle esigenze del singolo ente di riferimento (Corte di Giustizia CE, 5 gennaio 1998, causa C-44/96 Mannesmann). Altresì, la giurisprudenza della Corte ha elaborato due indici sintomatici del carattere industriale o commerciale, ovverosia il regime concorrenziale (Corte di Giustizia CE, 10 novembre 1998, causa C-360/1996 Gemeente Arnhem e altro c. BFI Holding; cfr. anche 27 febbraio 2003, C-373/2000 Truley, cit.) ed il rischio di impresa (Corte di Giustizia CE, 22 maggio 2003, causa C-18/2001 Taitotalo Oy), fattori in presenza dei quali dovrebbe escludersi la sussistenza del requisito in parola. La giurisprudenza di livello nazionale, a sua volta, si è pronunciata sullo specifico aspetto in esame nel solco tracciato dalle sentenze del Giudice comunitario di cui sopra. Nella specie, tale giurisprudenza, in linea con le pronunce della Corte di Giustizia CE, ha evidenziato i caratteri del requisito di che trattasi, passando al vaglio la possibilità di qualificare come organismi di diritto pubblico specifici soggetti: cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 23 gennaio 2006, n. 182 (Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti qualificabile come organismo di diritto pubblico); Consiglio di Stato, sez. V, 27 ottobre 2005, n. 5998 (Firenze Parcheggi S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico); Cassazione, sez. un., 12 maggio 2005, n. 9940 e Consiglio di Stato, sez. V, 22 agosto 2003, n. 4748 (Interporto Padova S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico); Consiglio di Stato, ad. Pl., 23 luglio 2004, n. 9 (Grandi Stazioni S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico) Cass., 4 maggio 2006, n. 10218 (che invece nega la natura di organismo di diritto pubblico alla medesima Grandi Stazioni S.p.A. in sede di regolamento di giurisdizione); Cass., sez. un., 1 aprile 2004, n. 6408 (Autovie Venete S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico); Consiglio di Stato, sez. VI, 17 settembre 2002, n. 4711 (Enel S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico); TAR Lazio, sez. III-ter, 9 giugno 2004, n. 5460 (RAI S.p.A. qualificabile come organismo di diritto pubblico). Al tal proposito, la stessa giurisprudenza ha rimarcato tra l’altro che la natura imprenditoriale del soggetto e la sua collocazione in ambito concorrenziale di mercato, in linea di principio, non sono in contrasto col fine pubblico e non escludono dunque la sussistenza del requisito relativo all’interesse generale di carattere non industriale o commerciale, purché l’imprenditorialità risulti effettivamente funzionalizzata al soddisfacimento dei bisogni generali della collettività (in tal senso Consiglio di Stato, sez. VI, 17 settembre 2002, n. 4711, cit.; TAR Sardegna, 29 agosto 2003, n. 1040; TAR Lazio sez. III, 12 febbraio 2002, n. 917). L’attività industriale o commerciale svolta in stretta correlazione con un interesse pubblico perde difatti la sua tradizionale connotazione giuridica ed economica, per acquistare quella specifica dell’ordinamento comunitario; sicché il carattere non industriale va individuato quando sussista un collegamento ad un interesse che il legislatore ha inteso sottrarre ai mercati improntati esclusivamente ad una ordinaria attività imprenditoriale, industriale o commerciale (così Consiglio di Stato, sez. V, 22 aprile 2004, n. 2292). Sugli indici sintomatici suddetti dello scopo di lucro e del rischio imprenditoriale, tra l’altro, v. TAR Lombardia Brescia, 9 marzo 2004, n. 203, che ha specificato che “l’elemento discriminante è invece costituito dalle circostanze in cui l’organismo è stato costituito e dalle modalità e condizioni in cui esercita l’attività: se opera secondo le regole del mercato, persegue lo scopo di lucro ed assume il rischio imprenditoriale – senza beneficiare di finanziamenti pubblici a fronte di eventuali perdite – il bisogno di interesse generale riveste carattere commerciale o industriale e la persona giuridica non è qualificabile come organismo di diritto pubblico. Viceversa, se agisce avendo quale obiettivo primario l’inteDOTTRINA 281 3. L’apertura del capitale totalmente pubblico della S.p.A. al socio privato: il dibattito sui profili di criticità Come già accennato dianzi, l’art. 113 del T.U.E.L. consente ad un ente locale di procedere, ai sensi della lett. b) della norma stessa, all’affidamento della gestione ed erogazione del servizio ad una società a capitale misto (pubblico e privato), nella quale il socio privato sia stato scelto mediante esperimento di una procedura ad evidenza pubblica (7). Con riguardo a tale fattispecie, vale altresì segnalare che anche l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006, nel definire l’oggetto del Codice, richiama tale ipotesi, specificando che “nei casi in cui le norme vigenti consentano la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure ad evidenza pubblica.” 3.1. L’effettivo portato del predetto art. 113 ha tuttavia sollevato nella giurisprudenza più di una perplessità, generando anche posizioni contrastanti in particolare sulla conformità di tale istituto ai principi ed alle regole di ispirazione comunitaria. Talune pronunce hanno difatti negato la legittimità dello stesso, alla luce dei principi di matrice comunitaria in materia di affidamenti, statuendo che “è illegittimo l’affidamento diretto del servizio pubblico locale di rilevanza economica (…) disposto in favore della società mista pubblico-privata, con capitale detenuto in maggioranza dalla parte pubblica ancorché il socio di minoranza sia stato scelto a seguito di gara comunitaria. Non si esclude che l’affidamento in parola ad una società costituita appositamente per la gestione di servizi di parcheggio ed ormeggio possa rientrare nella possibilit à di deroga normativa – consentita expressis verbis dall’art. 113, comma 5, lettera b) del D.Lgs. 267/2000 – all’obbligo secondo cui l’erogazione del resse generale e la copertura dei costi – ove non si raggiunga con i proventi dell’attività – è assicurata da finanziamenti pubblici o ricapitalizzazioni, il bisogno riveste carattere non industriale o commerciale e la persona giuridica è sussumibile nella categoria dell’organismo di diritto pubblico (…)”. Sulla distinzione tra organismo di diritto pubblico ed impresa pubblica, cfr. TAR Puglia, sez. II – Lecce, 23 settembre 2005, 4318. (7) Giova rammentare che la società mista costituisce, infatti, una novità reintrodotta nel nostro ordinamento (successivamente alla avvenuta abrogazione nel 2001 di una analoga disposizione contenuta nella legge 142/1990) con l’art. 14 del D.L. 269/2003, e rappresenta una ipotesi intermedia tra la gara vera e propria per l’affidamento del servizio pubblico (lettera a) dell’art. 113 T.U.E.L.) e l’affidamento diretto in house (ai sensi della lettera c) della medesima norma). Nell’ipotesi di cui alla lett. b), la norma consente infatti di procedere all’affidamento diretto alla società mista purché la scelta del socio privato avvenga con una procedura ad evidenza pubblica, in tal modo, infatti, si garantisce “a monte” l’apertura alla concorrenza ed al mercato, senza che sia poi necessario ripetere, per l’affidamento del servizio, la procedura ad evidenza pubblica. 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO servizio stesso può essere effettuata da società di capitali individuate soltanto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica. Motivo della ritenuta illegittimità risiede, invero, nella incompatibilità di siffatto affidamento, ovvero di una tale deroga, con le norme fondamentali del trattato, in generale, e con il principio di non discriminazione in base alla nazionalità in particolare; ciò che comporta, in ragione della immediata vincolatività dei precetti comunitari, la prevalenza di quest’ultimi sulla normativa interna” (8). Una diversa pronuncia, invece, ha negato la possibilità di procedere ai sensi della lett. b) dell’art. 113 T.U.E.L. ponendo in relazione tale fattispecie con quella dell’affidamento “in house” (art. 113, comma 5, lett. c) ed evidenziando che, in caso di ricorso alla predetta formula della società mista, verrebbero violati i principi sottesi all’affidamento “in house” medesimo. La pronuncia rileva segnatamente che “il sistema di affidamento diretto alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario – se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità aggiudicatrice non possa esercitare su tale società un “controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna. In conclusione dunque la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo gara) non esime dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio” (9). Non mancano tuttavia, da parte di un differente orientamento giurisprudenziale, indicazioni di portata maggiormente favorevole all’operatività dell ’istituto dell’affidamento diretto a società mista. Infatti, è stato anche sottolineato come “la circostanza che attività, astrattamente considerate, siano di rilevanza economica e possano pertanto formare oggetto di contratti a titolo oneroso di lavori e/o di servizi ai sensi della l. 109/94 e del D.Lgs. 157/1995 non concreta una violazione dei fondamentali principi di concorrenza di cui all’art. 86 del Trattato CE, posto che, salva l’ipotesi eccezionale dell’affidamento così detto in house, per il conferimento della titolarità del servizio pubblico a società di capitali o per la scelta del socio privato nella società a capitale misto l’art. 113 comma 5 T.U.E.L. impone di regola l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pubblica, sicch é il confronto concorrenziale è comunque garantito a monte” (10). Nella stessa direzione si è espresso altresì il Consiglio di Stato (11), statuendo che “la società a capitale misto è costituita attraverso procedura ad (8) In tal senso, T.A.R. Lazio, Latina, 5 maggio 2006, n. 310. (9) Consiglio Giustizia Amministrativa Regione Siciliana, 27 ottobre 2006, n. 589. (10) V. TAR Liguria, sez. II, 28 aprile 2005, n. 527. (11) Consiglio di Stato, sez. V, 18 aprile 2005, n. 671. DOTTRINA 283 evidenza pubblica ed allo specifico scopo di affidarle servizi pubblici dell’Ente locale che l’ha costituita, è immediatamente consequenziale che il relativo affidamento debba avvenire in modo diretto”. Degna di particolare nota, a tal proposito, una più recente pronuncia che, nell’esprimere un orientamento più cauto, ha invitato gli operatori del settore a valutare in concreto la legittimità del ricorso dell’affidamento ad una società mista, alla stregua della sussistenza di determinate circostanze e del rispetto di determinati principi (12). Tale pronuncia difatti sottolinea come “la compatibilità dell’affidamento diretto a società miste con i principi comunitari deve essere valutata in concreto. La giurisprudenza comunitaria evidenzia che l’attribuzione di un appalto pubblico a una società mista pregiudica la concorrenza in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. (…) È inoltre irrilevante che la società sia già esistente al momento dell’affidamento o sia costituita in vista di tale operazione. Il problema è fino a che punto la scelta dei soci con procedura ad evidenza pubblica riequilibri la distorsione della concorrenza. A questo proposito si può ritenere che quando la costituzione di una società o l’apertura a terzi del capitale sia presentata con la necessaria trasparenza verso tutti i potenziali interessati come una forma di affidamento di un servizio pubblico il risultato sia effettivamente assimilabile a quello di una gara” (13). Fermo quanto sopra, deve altresì evidenziarsi che il Consiglio di Stato (14) è ritornato recentemente sul dibattito, negando la percorribilità di entrambe le predette ipotesi interpretative. È stato, infatti, sottolineato come “non appare, in primo luogo, condivisibile alla Sezione la posizione – estrema – secondo la quale, per il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile l’affidamento diretto. Soprattutto tale ipotesi suscita perplessità per il caso di società miste – aperte – nelle quali il socio, ancorché selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come partner privato per una società generalista cui affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati al momento della scelta del socio (…)”. (12) Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 2 maggio 2006, n. 422. (13) Sul punto, la stessa relazione al predetto articolo 1 del Codice dei Contratti Pubblici, redatta in sede di discussione ed approvazione del Codice stesso, nel commentare il comma 2 della norma riporta espressamente che “va premesso che la norma non intende affermare come principio la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi ammesse nei soli casi già previsti dalle norme vigenti. È diritto vivente il principio secondo cui per la scelta del socio privato nelle società a partecipazione pubblica, anche non prevalente, finalizzate alla realizzazione e/o gestione di opere e servizi pubblici, occorre seguire procedure di evidenza pubblica”. (14) Cfr., Parere 18 aprile 2007, n. 456. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il Consiglio di Stato ha tuttavia proseguito affermando anche che “non sembra alla Sezione condivisibile neppure l’opposta ipotesi – estrema – secondo la quale la giurisprudenza comunitaria in materia di in house, e in particolare quella secondo la quale il controllo analogo è escluso quando la società è partecipata da privati, comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi comunitari, in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.” Nel negare la condivisibilità di tale seconda tesi, il Consiglio di Stato ha in particolare precisato che “se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure ad evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione è, cioè, reperita con il ricorso ad un mercato che è certamente premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della chiusura in se stessa dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione.”. 3.2. Altra questione interessata dal dibattito qui riportato e, alla stregua di talune pronunce della giurisprudenza, connotata da ulteriori profili di criticit à, è quella inerente alla caratterizzazione del socio privato: segnatamente non è a tutt’oggi chiaro se lo stesso debba configurarsi come socio operativo ovvero possa essere anche un semplice socio finanziatore. Una parte della giurisprudenza, infatti, ha escluso che il socio privato possa fornire esclusivamente un apporto economico, sottoscrivendo quote del patrimonio sociale, ritenendo invece che esso debba caratterizzarsi come socio imprenditore che, dotato di significativi requisiti tecnico-finanziari e strutturali, svolga anche compiti di gestione ed attività di carattere amministrativo (15). A tal proposito, la Circolare del Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio del 6 dicembre 2004 ha peraltro precisato che “per quanto attiene alla natura del soggetto privato da selezionare, si ritiene che nella suddetta tipologia di società mista, il privato debba avere determinati requisiti di capacità tecnico-gestionale oltrechè finanziaria. Contrariamente verrebbe meno il rispetto dell’intendimento del legislatore e non risulterebbero perseguiti gli obiettivi che il medesimo si era prefisso quando ha configurato l’utilizzo del modello societario anche per la gestione dei servizi pubblici locali”. Sulla stessa linea interpretativa, si sono espressi di recente i giudici del Consiglio di Stato (16) superando le tesi elaborate dalla precedente giurisprudenza e fornendo una terza via interpretativa rispetto alle precedenti posizioni assunte dalla giurisprudenza. In particolare, i suddetti giudici hanno sostenuto che “sembra ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quantomeno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un affidamento diretto, (15) Così Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192. (16) Cfr. parere 18 aprile 2007, n. 456, citato. DOTTRINA 285 plessità sia con riguardo alla necessità di valutare l’astratta compatibilità di siffatta previsione con i principi enucleati in ambito comunitario (in particolare nella sentenza della Corte di Giustizia “Stadt Halle”, cui si è fatto precedentemente riferimento), sia con riferimento all’impatto sulla concorrenza di una siffatta previsione normativa ed al “rischio di creazione di mercati “riservati” dei lavori pubblici”. 3.4. Tanto precisato, è d’uopo inoltre segnalare che, secondo quanto previsto dall’art. 113, comma 12, del T.U.E.L., “l’ente locale può cedere in tutto o in parte la propria partecipazione nelle società erogatrici di servizi mediante procedure ad evidenza pubblica da rinnovarsi alla scadenza del periodo di affidamento. Tale cessione non comporta effetti sulla durata delle concessioni e degli affidamenti in essere”. In tale ipotesi, la norma pare infatti disciplinare la peculiare fattispecie di una società a totale partecipazione pubblica già costituita in precedenza per l’erogazione di un servizio pubblico e nella quale, solo successivamente alla costituzione, si verifichi la volontà dell’ente pubblico di cedere al privato una parte del capitale. La norma in questione impone allora, nel dar luogo a tale apertura, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica. La giurisprudenza ha peraltro sottolineato proprio a tale riguardo che, una volta effettuata tale operazione di cessione delle quote, la società – divenuta in tal modo mista – non potrà essere affidataria in via diretta di nuovi servizi, dovendosi, a tal fine, attivare delle procedure ad evidenza pubblica (17). 4. Spunti di riflessione sulle modalità di esperimento della procedura per la scelta del socio privato Vale infine rilevare che sia nell’ipotesi in cui si proceda tanto ai sensi dell’art. 113, comma 5, lett. b), che nell’ipotesi in cui si proceda ai sensi del comma 12 del medesimo articolo, non è dato rinvenire espresse previsioni normative in merito alle concrete modalità da seguire per l’esperimento della prescritta procedura ad evidenza pubblica. Può tuttavia, richiamarsi una recente statuizione del Consiglio di Stato (18) alla stregua della quale, proprio in tema di procedura selettiva per la scelta del socio privato, non si è in presenza di una procedura ad evidenza pubblica vincolata a rigidi schemi predeterminati. Sussiste difatti in tale caso la possibilità, del tutto legittima, che l’amministrazione si riservi espressamente nella lex specialis di gara ampi margini discrezionali di valutazione – quali, come nella fattispecie sottoposta al vaglio del Supremo Consesso, anche quelli contenuti in una lex specialis secondo cui, a seguito della individuazione della migliore offerta, poteva seguire una diretta negoziazione con i partecipanti ed anche la decisione di non individuare infine alcun socio. (17) V. Consiglio di Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369. (18) Consiglio di Stato, sez. V, 20 febbraio 2007, n. 919. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al socio operativo della società. (…) In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie: 1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un socio industriale od operativo che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso; 2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione – alla scadenza del periodo di affidamento – evitando così che il socio divenga socio stabile della società mista (…)”. 3.3. Da ultimo, giova altresì evidenziare, per completezza espositiva, che il citato art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006 individua una eccezione in merito alla applicabilità del Codice per le società di cui al comma 1, lett. c), del medesimo articolo – ovverosia le “società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113 bis, 115 e 116 del D.Lgs. 267/2000, T.U. delle leggi sugli ordinamenti degli enti locali”. Tale norma dispone infatti che le suddette società “non sono tenute ad applicare le disposizioni del presente codice limitatamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite se ricorrono le seguenti condizioni: 1) la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure ad evidenza pubblica; 2) il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente codice in relazione alla presentazione per cui la società è stata costituita; 3) la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio in misura superiore al 70% del relativo importo.” La precisazione operata dalla legge, nei termini appena riportati, appare di indubbia rilevanza, giacché consente alle predette società, in presenza dei presupposti espressamente individuati, di procedere direttamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite. Essa sembra comunque ricalcare gli orientamenti espressi dalla pronuncia del Consiglio di Stato n. 192/1998 e dalla Circolare del 6 dicembre 2004 di cui sopra, nella misura in cui tale norma prevede che, nel caso in cui il socio privato della società mista abbia i necessari requisiti di qualificazione (e pertanto i requisiti necessari ai fini della concreta esecuzione dell’opera o del servizio), non sia necessario procedere ad una ulteriore procedura di gara. Vale, tuttavia, evidenziare che in relazione a tale norma il Consiglio di Stato, nel parere reso dalla sezione atti normativi n. 355 del 6 febbraio 2006 in relazione al Codice dei Contratti Pubblici, ha manifestato più di una perDOTTRINA 287 Fermo quanto sopra, non può non evidenziarsi che la prescrizione normativa di esperire una procedura ad evidenza pubblica esige in ogni caso il rispetto di determinati principi fondamentali, quali quelli di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento e proporzionalità (19). Ed in tal senso, pur nella maggiore libertà dovuta all’assenza di specifici e rigidi schemi da seguire (rimarcata dalla giurisprudenza appena citata), non può escludersi che anche il riferimento contenuto nel già citato art. 1 del D.Lgs. n. 163/2006 alle “procedure di evidenza pubblica” richiami la necessit à, per il soggetto che indice la procedura di che trattasi, di assicurare il rispetto dei suddetti principi (20). Ciò posto, al fine di dare concreta attuazione a tali principi nell’esperimento della procedura selettiva, utili riferimenti potrebbero rinvenirsi anzitutto nelle surriportate indicazioni operative fornite dalla Commissione Europea. Difatti, di fronte alla difficoltà riscontrata dagli operatori e dalle stazioni appaltanti di dare concreta applicazione ai principi richiamati, la Commissione Europea si è preoccupata di precisare, nella comunicazione interpretativa 2006/C 179/02, il diritto comunitario applicabile alle aggiudicazioni di appalti esclusi in tutto o in parte dall’applicazione della direttiva sugli appalti pubblici (21). (19) Si rammenta difatti che i principi di che trattasi sono espressamente richiamati anche dall’art. 27 del D.Lgs. n. 163/2006, norma che disciplina le procedure di affidamento dei contratti esclusi dall’applicazione del decreto medesimo ed impone in ogni caso, il rispetto dei principi suddetti anche nell’esperimento di tali procedure. Nella specie, l’art. 27 menzionato stabilisce che “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, proporzionalit à. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto. Si applica altresì l’articolo 2, commi 2, 3 e 4”. Asua volta, il citato articolo 2, commi 2, 3 e 4, del D.Lgs. n. 163/2006 fa riferimento alla possibilità di subordinare il principio di economicità ai criteri ispirati ad esigenze sociali, nonch é alla tutela della salute e dell’ambiente ed alla promozione dello sviluppo sostenibile. Inoltre prevede che per le procedure di affidamento e le altre attività amministrative in materia di contratti pubblici, in quanto non espressamente previsto dal D.Lgs. n. 163/2006 stesso, trovino applicazione le norme della Legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo. Il comma 4, infine, precisa che, per quanto non espressamente previsto dal Codice dei Contratti Pubblici, trovino applicazione all’attività contrattuale dei soggetti di cui all’art. 1 (stazioni appaltanti, enti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori) le disposizioni stabilite dal codice civile. (20) A tale proposito il Consiglio di Stato ha sottolineato, nel predetto parere n. 456 del 18 aprile 2007, come con l’art. 1, comma 2, “si codifica soltanto il principio secondo il quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire con procedura ad evidenza pubblica (non necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice)”. (21) Dal momento che la comunicazione menzionata è rivolta all’osservanza dei principi suddetti nell’esperimento delle procedure non disciplinate o solo parzialmente disciplinate dalla direttiva “appalti pubblici”, può legittimamente ritenersi che quanto in essa specificato abbia vieppiù valore in caso di affidamenti non sottratti all’ambito di applicazione della menzionata direttiva e, nella fattispecie, del Codice dei contratti pubblici. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La comunicazione di che trattasi contiene evidentemente alcune indicazioni e principi che sembrerebbero avere portata più generale e, di conseguenza, costituire un’utile riferimento per il soggetto aggiudicatore anche nel caso di specie. In particolare, nel ribadire la necessaria applicazione dei principi delineati dal Trattato, la Commissione pone l’accento sugli adempimenti tesi a garantire una adeguata pubblicità dell’affidamento, tale da consentire una effettiva apertura alla concorrenza. In tal senso propone di procedere alla “pubblicazione di un avviso pubblicitario sufficientemente accessibile prima dell’aggiudicazione dell’appalto” ricorrendo alle forma di pubblicità ritenute più opportune (internet, gazzette ufficiali, quotidiani, mezzi di pubblicazione locali, etc.). Altresì, a garanzia della imparzialità dello svolgimento della procedura di aggiudicazione (e sempre in applicazione dei principi del Trattato), la Commissione ritiene necessario che vi sia una adeguata e non discriminatoria descrizione dell’oggetto dell’appalto (22), l’uguaglianza di accesso per gli operatori economici di tutti gli Stati membri, il reciproco riconoscimento di diplomi, certificati ed altre attestazioni formali, termini adeguati per la presentazione della manifestazione di interesse o dell’offerta ed un approccio trasparente ed oggettivo, che consenta a tutti i concorrenti di conoscere anticipatamente le regole applicabili ed avere certezza che le stesse vengano applicate nello stesso modo a tutti gli operatori in fase di aggiudicazione della procedura (23). Ciò posto, anche nell’espletamento della procedura per la scelta del socio privato l’osservanza delle indicazioni appena riportate da parte dell’amministrazione aggiudicatrice risulterebbe senz’altro opportuna anche al fine di evitare eventuali censure sulla condotta del soggetto che indice la procedura. Indicazioni utili possono infine essere ricavate dal d.P.R. 16 settembre 1996, n. 533, contenente il “Regolamento recante norme sulla costituzione di società miste in materia di servizi pubblici degli enti territoriali”, che – pur disciplinando la diversa procedura di costituzione delle società per azioni con partecipazione minoritaria dell’ente locale per i servizi che non abbiano necessariamente rilevanza economica – contiene alcune precisazioni che potrebbero risultare fruibili anche nelle ipotesi qui esaminate, con particolare riferimento al contenuto del bando di selezione, alle modalità di svolgimento della procedura ed agli elementi di valutazione dell’offerta. (22) In tal senso, la Commissione tra l’altro sconsiglia il riferimento ad una fabbricazione o provenienza determinata, ad un marchio commerciale, ad un brevetto, ad una origine o produzione determinati. (23) In ordine alla concreta interpretazione ed applicazione di tali principi, seppur con riferimento al diverso e specifico ambito dell’affidamento dei servizi di progettazione e direzione lavori di importo inferiore a 100.000 euro, cfr. anche Autorità di vigilanza per i lavori pubblici, determinazione 19 gennaio 2006, n. 1. Le tecniche di consultazione degli interessati nei procedimenti di regolazione delle Agencies statunitensi e gli standards minimi di consultation della Commissione europea di Pasquale Fava SOMMARIO: Sezione I. - La consultazione degli interessati negli Stati Uniti - 1. Morfologia essenziale delle Agencies nell’ordinamento statunitense alla luce dell’Administrative Procedure Act. - 2. I rulemaking powers delle Agencies. La non applicabilità della due process clause e le eccezioni alla consultazione. - 3.1. Le tecniche di consultazione degli interessati nelle procedure di formal e informal rulemaking. La preferenza per la procedura informale e la stretta alternatività con quella formale impone l’inammissibilità del tertium genus (la c.d. hybrid rulemaking procedure). - 3.2. L’introduzione della negotiated rulemaking e le ragioni del suo scarso utilizzo. - 4. La posizione dell’OCSE sulle tecniche consultative statunitensi: pur se si riconosce che la notice and comment procedure rispetta gli standards internazionali di good practices for transparency sarebbe opportuno renderla più flessibile e meno adversarial per ridurre costi ed oneri burocratici. - 5.1. I confini del sindacato giurisdizionale sugli atti di regolazione delle Agencies. La judicial review sulle questions of law (la Chevron doctrine come rivisitata in Mead e Christensen). - 5.2. La judicial review sulle questions of fact: l’omologazione concreta dell’arbitrary and capricious test (elaborato per l’informal rulemaking procedure) al substantial evidence test (applicato alla formal rulemaking procedure). - 5.3. La judicial review sulle scelte di policy (discretion) dell’Agency (l’hard look doctrine di State Farm). – Sezione II – La consultazione degli interessati nell’Unione Europea. - 1. Le previsioni del Trattato sulla motivazione degli atti comunitari vincolanti e la giurisprudenza della Corte di Giustizia che differenzia gli atti generali da quelli individuali in relazione al contenuto e all’estensione della justification. 2. La “giustificazione scientifica” degli atti comunitari relativi alla tutela della salute, dell ’ambiente e dei consumatori secondo la Corte di Giustizia. 3. Le ragioni politico-diplomatiche fondanti le previsioni del Trattato impositive dell’obbligo di giustificare gli atti comunitari vincolanti. 4. La consultazione nelle politiche comunitarie di better regulation e i suoi rapporti con l’impact assessment analysis (c.d. AIR). 5. Gli standards minimi di partecipazione definiti con la Comunicazione sulla consultazione degli interessati dell’11 dicembre 2002 (COM(2002)704). Sezione I LA CONSULTAZIONE DEGLI INTERESSATI NEGLI STATI UNITI 1. Morfologia essenziale delle Agencies nell’ordinamento statunitense alla luce dell’Administrative Procedure Act. Con il termine Agencies nell’ordinamento statunitense ci si riferisce non soltanto a quelle etichettate nel diritto nostrano “Autorità amministrative DOTTRINA 289 indipendenti”, ma anche a tutte quelle figure riconducibili all’ampio concetto di Pubblica Amministrazione (1). Ai fini dell’applicazione dell’Administrative Procedure Act (2) (APA), secondo la giurisprudenza della Corte Suprema (3), le Agencies sono quei 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Così, da ultimo, MARCHETTI B., Pubbliche Amministrazioni e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle administrative agencies, CEDAM, 2005, 23. In precedenza studi approfonditi del sistema statunitense sono stati effettuati da BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997 e TESAURO P., Lezioni di diritto pubblico americano, Napoli, Liguori, 1985. Tra le principali opere manualistiche statunitensi di diritto amministrativo AMAN A.C., MAYTON W.T., Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 1997; BRYNER G.C., Bureaucracy Discretion Law and Policy in Federal Regulatory Agencies, New York, 1987; DAVISW. Jr., An Introduction to Public Administration, Politics, Policy, and Bureaucracy, New York – London, 1974; EDLEY C.F., Administrative Law, Rethinking Judicial Control of Bureaucracy, Yale University Press, New Haven – London, 1990; FRIENDLY H.J., The Federal Administrative Agencies, The Need for Better definition of Standards, Cambridge, 1962; GELLHORN E., LEVIN R.M., Administrative Law and Process in a Nutshell, St. Paul, Minnesota, 1997; KETTL D.F., The Transformation of Governance: Public Administration for Twenty-First Century America, Baltimore – London, 2002; LAWSON G., Federal Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 2001; MORROW W.L., Public Administration, New York, 1975; PIERCE R.J., SHAPIRO S.A., VERKUIL P.R., Administrative Law and Process, New York, 1999; PIERCE R.J., Administrative Law Treatise, New York – Gaithersburg, 2002; Sharkansky I., Public Administration, Policy- Making in Government Agencies, Chicago, 1975. (2) Administrative Procedure Act 1946, Pub. L. No 79-404, 60 Stat. 237 (1946), ora in U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5. Per i principali contributi sull’APA BREYER S.G., STEWART R.B., SUNSTEIN C.S., SPITZER M.L., Administrative Law and Regulatory Policy. Problems, Texts and Cases, New York, 1999; GELLHORN W., The Administrative Procedure Act: The Beginnings, 72 Virg. Law Rev., 1946, 219; PIERCE R. Jr., Rulemaking and the Administrative Procedure Act, 32 Tulsa Law Journal, 1996, 185; SCHWARTZ B., Adjudication and the Administrative Procedure Act, 32 Tulsa Law Journal, 1996, 203; SHAPIRO M., APA. Past, Present and Future, 72 Virg. Law Rev., 1986, 447. Di preziosa consultazione è il Manuale di procedura amministrativa dell’Attorney General (Attorney General’s Manual on the Administrative Procedure Act, United States Department of Justice, 1947). La dottrina italiana, talvolta senza chiarire esaustivamente la differenza tra rules (atti di regolazione) e orders (provvedimenti concreti), si è interessata all’APA specialmente per analizzare i confini delle facoltà partecipative riconosciute dallo statute in relazione ai procedimenti amministrativi di adjudication (ALDISERT R.J., Osservazioni sul diritto amministrativo statunitense, in Dir. Proc. Amm., 1986, 473; ARENA G., La partecipazione dei privati al procedimento amministrativo: analisi dell’esperienza americana, Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1976, 279; Id., La legge sul diritto all’informazione e la pubblicità degli atti dell ’amministrazione negli Stati Uniti, Pol. Dir., 1978, 279; BETTINI R., Aspetti della partecipazione amministrativa negli U.S.A., Studi Parl. Pol. Cost., 1975, 117; COMBA M., Riflessioni sul diritto al giusto procedimento negli Stati Uniti d’America, Dir. Soc., 1992, 269; FERRARI G.F., Il procedimento amministrativo nell’esperienza anglo-americana, Dir. Proc. Amm., 1993, 421; Gardini G., Legislazione federale e legislazione statale in materia di procedimento amministrativo: l’esperienza degli Stati Uniti, in Reg. Gov. Loc., 1992, 757; PEREZ R., L’istruzione del procedimento amministrativo (studio sui mezzi di informazione della pubblica amministrazione negli Stati Uniti), Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1966, 623). soggetti titolari del potere di adottare atti idonei a vincolare all’esterno l’Amministrazione (binding effect) e assoggettabili al sindacato giurisdizionale (judicial review). Tutte le figure che compongono l’Amministrazione federale statunitense possono essere sussunte sotto tre modelli organizzatori principali che si distinguono secondo il livello di autonomia riconosciuto dal Congresso a ciascuna Agency rispetto ai poteri del Presidente degli Stati Uniti che, secondo la Costituzione, è il capo dell’Esecutivo (U.S. Cost., art. II, Sect. 1 (4)). Il primo modello è quello dei Cabinet Departments consistenti in una organizzazione articolata secondo linee gerarchiche al cui vertice si trova il Secretary (figura equiparabile al Ministro) nominato “with senatorial confirmation to serve at the pleasure of the President”. I Departments hanno raramente compiti di regolazione (rulemaking) e amministrazione giudiziale (adjudiacation). Talvolta al loro interno si collocano strutture organizzative compiute (Administration o Bureaus) con rilevantissime funzioni di implementazione dei programmi politici che, al di là della loro collocazione strutturale operano liberamente in quanto indipendenti nella leadership, atteso che il Congresso, nell’approvare le relative leggi costitutive, ha riconosciuto loro una certa autonomia dall’influenza dell’esecutivo (5). Il secondo modello organizzatorio, corrispondente alle nostre Agenzie fiscali, è quello delle Indipendent Executive Agencies (IECs) che, pur se dette independent in ragione della loro collocazione istituzionale (sostanziale autonomia dai Cabinets), sono soggette agli indirizzi di politica generale del Presidente (6). Il terzo modello, corrispondente alle nostre Autorità amministrative indipendenti, è quello delle Indipendent Regulatory Commissions (IRCs) che vengono istituite dal Congresso per creare un’entità che sfugga interamente DOTTRINA 291 (3) Renegotiation Board v. Grumman Aircraft Engineering Corp., 421, U.S. 168 (1975); Renegotiation Board v. Bannercraft Clothing Co., 418 U.S. 1 (1974). La Corte Suprema ha escluso che il Presidente degli Stati Uniti possa essere considerato un’Agency ai sensi dell’APA in carenza di una specifica previsione espressa di legge (statute) con la conseguenza che i suoi atti non sono assoggettabili a sindacato giurisdizionale (Franklin v. Massachusetts, 505 U.S. 788 (1992); Dalton v. Specter, 511 U.S. 462 (1994)). In dottrina sul punto Pierce R.J., Administrative Law Treatise, New York – Gaithersburg, 2002, 5. (4) L’art. II, Sect. 1, della Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che “The executive powers shall be vested in a President of The United States”. Tuttavia, anche recenti analisi dottrinali (PERCIVAL R.V., Presidential Management of The Administrative State: the Not-So-Unitary Executive, 51 Duke Law Journal, 963, 2003) hanno confermato che il potere esecutivo ha subito profonde trasformazioni rispetto al modello presidenziale accentrato prospettato dalla Costituzione. (5) Ne costituisce esempio la Food and Drug Administration collocata all’interno del Department of Health and Human Service. (6) Appartiene a questa categoria la Environmental Protection Agency. Si tratta di figure simili alle nostre Agenzie fiscali o all’Istituto per il Commercio Estero. alla sfera di controllo del Presidente (7). Si tratta delle c.d. big seven (8) i cui commissari sono generalmente nominati dal Presidente con il consenso del Senato ma, contrariamente a quanto accade in relazione ai Secretaries e ai commissari delle IECs, non sono liberamente revocabili dal primo (at will) ma solo per dimostrate inefficienze nella gestione o per condotta illecita (9). 2. I rulemaking powers delle Agencies. La non applicabilità della due process clause e le eccezioni alla consultazione. In linea generale alle Agencies sono riconosciuti poteri stricto sensu esecutivi (power to enforce the law), di adjudication (potere di adottare provvedimenti concreti vincolanti – orders – con destinatari determinati o determinabili) nonché di rulemaking (potere di adottare atti normativi subordinati alla legge – statute – o atti amministrativi generali (10)). L’attenzione della dottrina e della giurisprudenza statunitense si è sempre incentrata su queste ultime due funzioni (adjudication e rulemaking) 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (7) “Offices of law-administration at the greatest distance from the presidential control”, STRAUSS P.L., Administrative Justice in the United States, Durham, North Carolina, 2002, 133. (8) Appartengono alla famiglia delle Indipendent Regulatory Commissions la Interstate Commerce Commission (ICC), la Federal Trade Commission (FTC), la Federal Energy Regulatory Commission (FERC), il National Labor Relations Board (NLRB), la Nuclear Regulatory Commission (NRC), la Federal Communication Commission (FCC) e la Security and Exchange Commission (SEC). (9) Non è un caso che tra le più significative questioni relative alla compatibilità delle figure delle IRCs con il sistema costituzionale statunitense sia stata posta proprio quella afferente l’estensione dei poteri presidenziali di rimozione dei membri delle IRCs. La Corte Suprema, non senza contrasti interni e oscillazioni giurisprudenziali, si è attestata sulla costituzionalità del modello con l’esclusione di un potere di revoca ad nutum del Presidente, essendo per converso ammissibile la rimozione per giusta causa (Myers v. United States, 272 U.S. 52(1926); Humphrey’s Executor v. United States, 295 U.S. 629 (1935); Bowsher v. Synar, 478 U.S., 714 (1986); Mistretta v. United States, 488 U.S. 361 (1989)). (10) La Section 551 dell’APA definisce la rule come “the whole or a part of an agency statement og general or particolar applicabilità and future effect designed to implement, interpret, or prescrive law or policy or describing the organization, procedure, or practice requirements of an agency”. MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 52, efficacemente chiarisce come il termine rule adottato dalla Section 551 dell’APA (ora 5 U.S. Code) identifica non solo gli autentici atti regolamentari di natura generale, astratta e innovativa ma anche i meri atti amministrativi generali (quali gli atti approvativi di tariffe per servizi pubblici). In precedenza, nello stesso senso, BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell ’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 86-87. Storicamente i problemi dell’ammissibilità e dei limiti alla regolazione pubblicistica dell ’attività economica dei privati si sono posti negli Stati Uniti a partire dalla fine del XIX secolo. La conclusione della guerra civile (1870) comportò una crescita vertiginosa della rete ferroviaria e l’acuirsi del contrasto tra contadini e commercianti da una parte ed imprese ferroviarie dall’altra. attese le rilevanti questioni costituzionali sollevate in relazione alle previsioni che, conformemente al modello illuministico di tripartizione dei poteri cui la Costituzione degli Stati Uniti rigorosamente s’ispira, riservano quello nor- DOTTRINA 293 Il c.d. “Granger Movement” (“rivolta dei fattori”) denunciò fermamente le tariffe discriminatorie praticate dalle compagnie ferroviarie in posizione monopolistica che comportavano restrizioni nello scambio delle merci e dei prodotti agricoli. Si sentì, pertanto, l’esigenza di istituire entità dotate di incisivi poteri pubblicistici finalizzati alla gestione dei conflitti economici e sociali dell’epoca. Le scelte degli Stati federati furono, tuttavia, diverse. Gli Stati dell’Est seguirono un modello morbido di weak Commissions con poteri deboli mentre quelli dell’Ovest, per converso, crearono soggetti con forti e penetranti poteri tariffari e sanzionatori. Tuttavia, a seguito di due pronunce della Corte Suprema che sancirono l’illegittimità costituzionale delle leggi statali di regolazione pubblica dei servizi privati di interesse generale anche per incompetenza territoriale (Munn v. Illinois, 1876 e Wabash, St. Louis & Pacific Railroad Company v. Illinois, 118 U.S. 557, 1886), fu necessario l’intervento del legislatore federale che il 4 febbraio 1887 approvò l’Interstate Commerce Act istitutivo della Intestate Commerce Commission cui furono attribuiti poteri di regolazione tariffaria, ispettivi e sanzionatori (privi, tuttavia, di carattere imperativo ed esecutorio in quanto l’obbligo di conformazione per la compagnia ferroviaria poteva sorgere solo a seguito di un giudizio intentato dalla stessa Commissione). Innanzi alle resistenze degli operatori professionali refrattari a subire imposizioni regolatorie di carattere pubblicistico la Corte Suprema annullò il potere tariffario della ICC nella parte in cui proibiva alle compagnie di praticare discriminazioni tariffarie nelle tratte ferroviarie brevi (ICC v. Cincinnati, New Orleans and Texas Pac. R. Co., 167 U.S. 479, 1897). Nonostante la posizione contraria della Corte Suprema, la necessità della regolazione pubblicistica del mercato si rafforzava progressivamente anche a causa di rilevanti market failures (crisi del 1929). Il Congresso, pertanto, restituì ampi poteri della ICC e istituì nuove Commissioni indipendenti di regolazione. Il rinnovato sviluppo della regolazione fu fronteggiato dal movimento dell’American Bar Association che segnalava l’incompatibilità costituzionale del modello delle Regulatory Commissions le quali detenevano poteri normativi al di fuori del circuito democratico non dovendo rendere conto ad alcuno attesa l’ampia indipendenza riconosciuta alle medesime. Per reagire alle critiche dell’ABA il Congresso implementò l’Administrative Procedure Act che per la prima volta impose alle Agencies di seguire specifiche procedure ampiamente partecipate prima di adottare nuovi atti di regolazione. In questo modo, attraverso la consultation of interested parties si arginava il deficit di democraticità e si recuperava la legittimazione regolatoria delle Agencies. Sulla nascita della regolazione delle attività economiche e la sua evoluzione BREYER G.S., STEWART B.R., Administrative Law and Regulatory Policy, Little Brown and Company, Boston-Toronto, 1992; CASSESE S., Le Autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in CASSESE S., FRANCHINI C. (a cura di), I garanti delle regole, Bologna, Il Mulino, 1996; Daintith, Regulation, in Enciclopedia of Comparative Law, XVII, 10, Tubingen, Dorodrect, Boston, Lanchaster, 1997; D’ALBERTI M., Diritto Amministrativo comparato. Trasformazioni dei sistemi amministrativi in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia, Bologna, Il Mulino, 1992; FERRARI P., Agenzismo: La regolazione degli interessi tra passato europeo e modello americano, Trento, 1993; FLOREAN M., Le origini americane della regolazione, in VALENTINI S. (a cura di), Diritto e istituzioni della regolazione, Milano, Giuffrè, 2005, 125-144; FRIEDMAN M.L., History of American Law, Simon & Schuster, New York, 1985 (traduzione italiana a cura di Alpa G., Marchisiello M., REBUFFA G., Storia del diritto americano, Giuffrè, 1995); GUARINI C.P., Contributo alla studio della regolazione indipendente del mercato, Bari, Cacucci, 2005, 163-174; PATRONO M., Sistema dei regulamativo esclusivamente in capo al Congresso (U.S. Cost., art. I (11)), quello giudiziario alle corti (U.S. Cost., art. III (12)) e quello esecutivo al Presidente (U.S. Cost., art. II (13)). 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tory powers e Corte Suprema federale, Milano Giuffrè, 1974; ROSEMBLOOM H.D., SCHWARTZ D.R., Handbook of Regulation and Administrative Law, Marcel Dekker Inc., New York, Basel, Hong Kong, 1994; SCALIA A., Le Indipendent Regulatory Agencies nell ’ordinamento statunitense, Rass. Giur. En. El., 1996, 313 ss.; SCHWARTZ B., The Economic Regulation of Business and Industry. A Legislative History of U.S. Regulatory Agencies, New-York-London, 1973; TESAURO P., Le “Indipendent Regulatory Commissions”. Organi di controllo dei pubblici servizi negli Stati Uniti, Napoli, 1966; TORICELLI S., La regolazione del sistema ferroviario negli Stati Uniti: un modello anomalo, in Dir. Pubbl., 2000, 965 ss.; ZORZI GIUSTINIANI A., Alle origini dello Stato Regolatore (1874-1910). La Corte Suprema Americana e le libertà economiche nella fase di transizione dall’interventismo statale al controllo federale delle public utilities e dei monopoli, in Giur Cost., 2003, 4027 ss. (11) La Section 1 dell’articolo 1 della Costituzione degli Stati Uniti prevede che “All Legislative Power herein granted shall be vested in a Congress of the United States, which shall consist of a Senate and House of Representatives”. La Costituzione statunitense, quindi, a differenza di quelle italiane e francese, non prevede espressamente la possibilità di attribuire il potere normativo all’Esecutivo. La Suprema Corte, elaborando la c.d. delegation doctrine, ha, tuttavia, chiarito che questa possibilità è sottesa alle previsioni della Section 8 del medesimo articolo che implicitamente la consentono specie nei casi in cui per ragioni di efficienza del sistema normativo è opportuno che la regolazione sia implementata da soggetti dotati di alte capacità tecniche e di maggiore flessibilità decisionale di guisa che le rules prontamente possano adeguarsi al rapido sviluppo tecnologico e scientifico che caratterizza taluni settori economici. Ammessa in astratto la legittimità costituzionale di deleghe di potere normativo dal Congresso all’Esecutivo, la questione si è progressivamente spostata sulla identificazione dei limiti della delegation. Già in Buttfield v. Stranahan (192 U.S. 470 (1904)), in J.W. Hampton Ir. & Co. v. United States (276 U.S. 394 (1928)), in Panama Refining Co. V. Ryan (293 U.S. 388 (1935)) e in A.L.A. Schechter Poultry Co. V. United States (295 U.S. 495 (1935)) la Corte Suprema aveva avuto modo di individuare tra i requisiti di legittimità costituzionale della delega di potere normativo l’esistenza di principi e criteri direttivi intelligibili cui l’Agency avrebbe dovuto attenersi, di guisa che il Congresso non avrebbe potuto abdicare ai propri poteri normativi con deleghe in bianco. Successivamente in Yakus v. United States (321 U.S. 414 (1944)), Skinner v. Mid- America Pipeline Co. (490 U.S. 212 (1989)) e Mistretta v. United States (488 U.S. 361 (1989)) la Corte Suprema ha maturato un orientamento più elastico ammettendo deleghe implicite di potere normativo il cui esercizio è comunque assoggettato al vaglio della magistratura attraverso l’analisi delle previsioni dello statute di riferimento al fine di stabilire esattamente “how much power Congress has delegated to an Agency” (così AMAN A.C., MAYTON W.T., Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 1997, 28). Come è stato acutamente osservato (DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso, Giappichelli, Torino, 2004, 98-100) il nuovo orientamento della giurisprudenza statunitense “venne così a creare una situazione di delega solo apparente, perché il Congresso al più definiva l’oggetto del traferimento, astenendosi dal porre quel principio di normazione generale, sufficientemente compiuto da funzionare come primary standard, rimesso all’intervento del potere delegato solo per gli sviluppi successivi. L’omessa indicazione di criteri direttivi non fu compensata neanche con la prescrizione di precisi fini cui orientare il potere delegato, che a questo punto solo una finzione giuridica avrebbe potuto ancora La tematica della consultazione degli interessati negli atti di regolazione delle Agencies afferisce strettamente alle funzioni di rulemaking. DOTTRINA 295 acquisire allo schema del “power ti fill up the details”. Le I.R.C. erano diventate, grazie alla broad delegation disegnata dal legislatore e avallata dai giudici un polo normativo primario autoreferenziale rispetto a quello legislativo, che condivideva del potere derivato il solo fatto di esistere per volontà di legge, con tutte le conseguenze del caso: nel senso che la legge come lo aveva attivato, così avrebbe potuto congelarlo o comprimerlo. Ma dinanzi a leggi povere di indirizzi, leggere negli standards, e carenti di regole generali, continuare ad affermare che il potere regolativi esisteva nei limiti in cui una legge lo prevedeva equivaleva a dire una cosa non vera, perché la legge non prescriveva più alcun limite”. Sulla delegation doctrine BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 82-85; CARATALE G., Il Governo legislatore. Esecutivo ed attività normativa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, Milano, Giuffrè, 2004, 191 e ss.; DEMINICO G., Regole. Comando e Consenso, Giappichelli, Torino, 2004, 98-101; PATRONO M., Sistema dei “Regulatory Powers” e Corte Suprema Federale, Giufrè, Milano, 1974, 90. (12) Le Sections 1 e 2 dell’articolo III, della Costituzione degli Stati Uniti stabiliscono rispettivamente che “The Judicial Power of the United States shall be vested in one supreme Court, and in such inferior Courts as the Congress may from time to time ordain and establish” e che “The judicial power shall extend to all cases, in Law and Equity, arising under this Constitution, the Laws of the United States, and the Treaties made, or which shall be made, under their Authority…”. I poteri di adjudication (adozione di provvedimenti amministrativi concreti – orders) riconosciuti dagli statutes alle Agencies specie nella misura in cui siano volti alla risoluzione delle controversie potrebbero profilarsi in contrasto con le menzionate disposizioni della Costituzione. La Corte Suprema in Crowell v. Benson (285 U.S. 22 (1932)) e Northern Pipeline Construction Co. v. Matathon Pipe Line Co. (458 U.S. 50 (1982)) ha escluso tale eventualit à elaborando la differenza tra “public” e “private” rights. I primi, in considerazione dei poteri autoritativi riconosciuti alle Agencies, potrebbero essere conosciuti in prima battuta da queste ultime salva la judicial review delle corti; in relazione ai secondi, viceversa, attesa la loro natura privatistica sarebbe più forte la garanzia costituzionale che, imponendo la necessità della cognizione della magistratura ordinaria, impedisce al Congresso di affidarli in prima battuta alle cure dell’Agency. La giurisprudenza della Corte Suprema successiva (Thomas v. Union Carbide Agric. Products Co., 473 U.S. 568 (1985) e Commodity Futures Trading Commission v. Schor, 478 U.S. 833 (1986)), tuttavia, pur prestando formale adesione alla differenza tra public e private rights, ha sostanzialmente sconfessato la perdurante vigenza del criterio, ammettendo la possibilità di estendere la cognizione delle Agencies in sede di adjudication anche alle situazioni soggettive privatistiche, atteso che le medesime presentano gli stessi caratteri di imparzialit à ed indipendenza dei giudici. Il nuovo orientamento del Supremo consesso di giustizia federale considera e valorizza le rigorose garanzie procedimentali fissate dall’APA ed elaborate dalla stessa giurisprudenza in relazione all’adjudication. Quest’ ultima, difatti, se ha luogo attraverso la formal procedure è in tutto simile ad un processo svolgendosi in contraddittorio innanzi ad un Administrative Law Judge. Le guarentigie procedimentali, tuttavia, non vengono meno ove, viceversa, l’adjudication si svolga secondo la informal procedure. Ove essa coinvolga situazioni soggettive di natura costituzionale e, secondo un certo orientamento (si rinvia ai casi descritti da Aman A.C., MAYTON W.T., Administrative Law, St. Paul, Minnesota, 1997, 151-152), l’apporto partecipativo del privato abbia effettivamente una qualche utilità, sarà necessario che l’Agency articoli il procedimento nel rispetto della due process clause sancita dal V emendamento della Costituzione a tutela di “life, liberty or property”. La Corte Suprema, difatti, in Mathews v. Eldrige, 424 U.S. 319 (1976), ha affermato la necessità di assicurare un rapporto di proporzionalità tra privazione causata dall’Agency al privato e costi conseguenti all’adozione delle garanzie procedimentali da ricercarsi alla luce di tre fattori: l’importanza della privazione subita il relazione alla natura giuridica dell’interesse leso, l’eventuale vantaggio derivante da una procedura alternativa più garantistica e la determinazione del costo di quest’ultima. Strettamente connessa alla tematica dei requisiti procedurali imposti dalla due process clause è l’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte Suprema che, superando la tradizionale bipartizione right di common law/privileges (situazione soggettiva del privato innanzi all’esercizio del potere dell’Agency o interessi che trovano la loro fonte in atti ampliativi delle medesime) affermata già in McAuliffe v. Mayor of New Bedford, 29 N.E. 517 (1892), ha allargato la nozione dei primi recependo, prima implicitamente (Shapiro v. Thompson (394 U.S. 618 (1969)), poi chiaramente (Goldberg v. Kelly, 397 U.S. 254 (1970) e Regents of State Collages v. Roth, 408 U.S. 564 (1972)) le indicazioni dottrinali tese ad elaborare un concetto ampio di property comprensivo delle “nuove ricchezze” connesse all’attività di prestazione dell’Amministrazione (REICH C., The New Property, 73 Yale Law Journal, 733 (1964) e Id., Individual Rights and Social Welfare: The Emeging Legal Issues, 74 Yale Law Journal, 1245 (1965)). In particolare, si è chiarito che costituiscono meri privileges solo quelle situazioni che chiameremmo interessi legittimi pretensivi (privato che richiede una certa utilità all’Agency) mentre vanno ricondotti alla categoria dei rights gli interessi legittimi oppositivi (privato che si oppone al un provvedimento di autotutela con cui l’Agency revoca un beneficio precedentemente concesso). Va comunque segnalato che anche laddove la situazione soggettiva abbia natura giuridica di mero privilege è consentito che l’Agency si autovincoli a rispettare regole procedimentali specifiche a garanzia del privato in via di prassi o con proprio regolamento. (13) Circa i rapporti tra Presidente e IRCs sia consentito rinviare a quanto già osservato in nota 3, 4 e 9. (14) D’ALBERTI M., Diritto Amministrativo comparato. Trasformazioni dei sistemi amministrativi in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia, Bologna, Il Mulino, 1992, 109 ss. Si è anche successivamente evidenziato che le regole partecipative imposte nell’attivit à di regolazione non comportano l’equivalenza funzionale tra il modello di “interest representation ” e il “political process” (DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso, Giappichelli, Torino, 2004, 103). Entrambi i modelli condividono l’obiettivo finale: conseguire il common good. Si differenziano, tuttavia, per il metodo da seguire per la determinazione del bene pubblico: nell’“interest representation model” è affidata al confronto diretto tra gli attori sociali mentre nel “political process model” è rimessa alla mediazione politica tra i rappresentanti del popolo. Il riconoscimento della legittimità costituzionale dei poteri di regolazione delegati dal Congresso alle Agencies è stato agevolato e consentito proprio dalla introduzione con l’Administrative Procedure Act (APA) di meccanismi di democrazia partecipativa che, aumentando la rappresentatività dei regolatori, hanno imposto alle regolatory Agencies di consultare preventivamente i destinatari delle nuove regole (rules) al fine di acquisire informazioni sul loro punto di vista, sulle esigenze coinvolte e sugli interessi incisi dalla regolazione (c.d. stakeholders) (14). 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Le regole sulla consultazione, peraltro, sono di importanza centrale atteso che è principio consolidato in giurisprudenza e dottrina che la guarentigia costituzionale del due process non si applica all’attività di rulemaking. L’ambito applicativo della garanzia è, difatti, limitato all’attività di adjudication in considerazione degli effetti circoscritti al piano individuale dell’in- DOTTRINA 297 Va chiarito che il metodo della consultazione degli interessati non comporta di per sé l’identificazione del common good. La sommatoria delle osservazioni e delle proposte modificative dei cittadini e delle imprese non costituisce automaticamente una soluzione necessariamente conforme all’interesse pubblico trattandosi, più limitatamente, della concretizzazione di taluni interessi di parte che sono stati fatti valere nel procedimento regolatorio e che nel concreto potrebbero anche portare le nuove rules a perseguire obiettivi corporativi che si allontanano dall’interesse pubblico, anzi ad esso contrari. La scelta finale del regolatore, quindi, non dovrebbe essere il frutto di una negoziazione tra i soli soggetti che hanno avuto la possibilità di partecipare al procedimento di regolazione, né tampoco il risultato di oscure operazioni di cattura da parte degli operatori professionali forti, ma dovrebbe essere rimessa alla libera scelta dell’Autorità con la possibilità per quest’ultima di ricercare il corretto punto di bilanciamento degli interessi in gioco da valutarsi anche alla luce degli elementi conoscitivi acquisiti durante la public consultation. Anche la dottrina che si è interessata fonditus del problema ha segnalato, pur se specificamente in relazione alla negotiatied rulemaking, che la consultazione degli interessati, anche se è “in principio idonea ad assicurare la presenza paritaria degli interessati al tavolo delle trattative, non garantisce comunque il common good. In questo caso, la causa ostativa non è rappresentata dalla minaccia di cattura, perché il voto di ciascun partecipante pesa quanto quello dell’altro, ma se l’Autorità non è tirata da una sola parte lo è da tutte contemporaneamente. È la logica del “getting to yes”: in pratica la preoccupazione di chiudere su di un testo di gradimento comune rende l’Autorità dispnibile a scambiare il bene pubblico contro l’adesione dei regolati alle regole. L’Autorità da “sovereign actor” del common good passa a promotrice della trattativa negoziale: ciò che conta è sigliare l’accordo, indipendentemente da considerazioni in merito alla compatibilità del suo contenuto pattizio con il bene medesimo. Dunque, la negotiated rulemaking altera la funzione del processo regolatorio, la cui finalità di cura esclusiva dei valori oggettivi si annulla nella ricerca del consensus in idem placitum tra i regolati… In sintesi la partecipazione sociale come “surrogato” della rappresentanza politica non si è dimostrata all’altezza del compito. L’equo contemperamento degli interessi, consegnato al contraddittorio sociale, si è concluso nell’involuzione privatistica dei processi regolativi pubblicistici. Ne sia prova il suo esito: sono state prodotte regola pubbliche unicamente nella forma, ma nel merito obbedienti a logiche individualistiche. La dislocazione in basse del potere politico sposta poi la questione della legittimazione democratica dalle Autorità ai governi privati di interesse, ammessi a compiere scelte sostanzialmente politiche vincolanti l’intera collettività” (DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso, cit., 105-106). Per ulteriori rilievi critici mossi alla negotiated rulemaking si rinvia a ACKERMAN S.R., Consensus versus incentives: a skeptical look at regulatory negotiation, 43 Duke Law Journal, 1994, 1206; FIORINO, Regulatory Negotiation as a Policy Process, Public Admin. Law, 1988, 48; FUNK W., When smoke gets in your eyes: regulatory negotiation and the public interest EPA’s woodstove standards, 18 Environ. Law, 1987, 97; Id., Barbaining, toward the new millennium: regulatory negotiation and the subversion of the public interest, 46 Duke Law Journal, 1997, 1378; HARTER P.J., Negotiating Regulation: a Cure for Malaise, Georgetown Law Journal, 1982, I; Id., A talk with, Dispute Resolution Forum, 1986, 11 ss.; MANZELLAA., Brevi cenni sulla regulatory negotiation, Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1994, 279 ss. ciso mentre va escluso che operi nei confronti delle rules che, viceversa, producono effetti generali (class-like effects) (15). Va preliminarmente chiarito, tuttavia, che dagli atti di rulemaking da assoggettarsi alla previa consultazione degli interessati prevista dall’APA vanno esclusi, in virtù dell’eccezione stabilita dalla Section 553 (b, 3, A) del menzionato statute (16), i policy statements (mere dichiarazioni generali di policy con cui l’Agency dà informazioni ai cittadini sugli obiettivi e sugli strumenti futuri della sua attività), le interpretative rules (atti con cui l’Agency fornisce la propria interpretazione autentica di norme preesistenti) nonché le procedural rules (norme a contenuto sostanzialmente procedimentale o organizzatorio). Le prime due categorie di atti di regolazione sono escluse dalla consultazione perché non hanno un impatto sostanziale sui privati essendo inidonee a modificarne la sfera giuridica per carenza di efficacia vincolante (17). La giurisprudenza e la dottrina statunitense (18) hanno chiarito che l’esclusione della terza tipologia, viceversa, dipende dal fatto che le procedural rules, pur se vincolanti, non sarebbero idonee a conformare la “public conduct”. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (15) Bi Metallic Investment Co. v. State Bd. Of Equalization, 239 U.S. 411 (1915). Per la dottrina italiana MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 62 e 256-257 nonch é BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 124-125. (16) La Section 553 (b, 3, A) dell’APA stabilisce che “Except when notice or hearing is required by statute, this subsection does not apply – (A) to interpretative rules, general statements of policy, or rules of agency organization, procedure, or practice…” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure). (17) ANTHONY R.A., Interpretative Rules, Policy Statements, Guidances, Manuals and the Like – Should Federal Agencies Use Them to Bind The Public?, Duke Law Journal, 1992, 1311. Con riferimento alla distinzione tra substantive rules (che richiedono la consultazione degli interessati) e i policy statements (che sono esclusi dagli oneri della consultation of the interested parties) una pregevole decisione della Corte d’Appello del distretto di Columbia ha precisato che “a properly adopted substantive rule establishes a standard of conduct which has the force of law (…) A general statement of policy, on the other hand, does not establish a “binding norm”. It is not finally determinative of the issues or rights to which it is addressed” (Pacific Gas & Electric Co. v. FPC, 506 F.2d 33 (D.C. Cir. 1974)). Circa la distinzione tra substantive rules (che richiedono la consultazione degli interessati) e interpretative rules (che sono escluse dagli oneri della consultation of interested parties) si segnala un’interessante pronuncia della Corte d’appello del nono distretto dalla quale può evincersi il principio che, pur se in astratto ogni rules può avere un substantial impact, tuttavia, anche alla luce delle previsioni dello statute attributivo del potere, potrebbe escludersi in concreto un contenuto normativo delle rules approvate dall’Agency (Alcatraz v. Block, 746 F.2d 593 (9th Cir. 1984)). (18) United States Dept. of Labour v. Kast Metals Corp., 744 F.2d 1145 (5th Cir. 1984). In dottrina WEAVER R.L., An APA Provision on Nonlegislative Rules?, Admin. Law Rev., 2004, 1179. A ciò si aggiunga che la Section 553 (b, 3, B) dell’APA (19) prevede un’esenzione di carattere generale in relazione a quelle ipotesi in cui la consultazione sia “impracticable, unnecessary, or contrary to the public interest ”. Ove l’Agency voglia avvalersi di tale esenzione (per esempio nei casi di urgenza o di scarsa rilevanza innovativa della normazione) dovrà dare adeguata motivazione che sarà sindacabile in sede giurisdizionale. 3.1. Le tecniche di consultazione degli interessati nelle procedure di formal e informal rulemaking. La preferenza per la procedura informale e la stretta alternatività con quella formale impone l’inammissibilità del tertium genus (la c.d. hybrid rulemaking procedure). Per le (substantial) rules da assoggettarsi alla consultazione degli interessati l’Administrative Procedure Act prevede due diverse rulemaking procedures. È la legge istitutiva dell’Agency che deve prevedere le ipotesi in cui vada seguita la procedura formale (formal rulemaking procedure) e quelle in cui, per converso, è sufficiente procedere con quella informale (informal rulemaking procedure conosciuta anche come notice and comment procedure). La Corte Suprema (20) ha, peraltro, sancito una preferenza per la procedura informale nelle ipotesi in cui le previsioni dello statute siano dubbie prestandosi a diverse interpretazioni oppure nei casi di lacune normative. In entrambe le ipotesi il procedimento attraverso cui viene esercitato il potere normativo è aperto e partecipato in modo da consentire all’Agency di elaborare una soluzione regolatoria ottimale anche attraverso la previa acquisizione di elementi informativi esaustivi in relazione alla realtà da disciplinare e agli interessi in gioco, il cui punto di bilanciamento va, comunque, identificato liberamente dal regolatore che gode al riguardo di un’ampia discrezionalità normativa. Attesi i costi e la macchinosità della formal rulemaking procedure, la prassi delle Agencies, avallata dagli orientamenti della giurisprudenza federale, va nel senso di preferire il ricorso alla procedura informale di notice and comment (21). DOTTRINA 299 (19) La Section 553 (b, 3, B) dell’APA sancisce che “Except when notice or hearing is required by statute, this subsection does not apply – …(B) when the agency for good cause finds (and incorporates the finding and a brief statement of reasons therefore in the rules issued) that notice and public procedure thereon are impracticable, unnecessary, or contrary to the public interest” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule Making). (20) United States v. Florida East Coast Ry., 410 U.S. 244 (1973). (21) In proposito RUBIN E., It’s time to Make The Administrative Procedure Act Administrative, 89 Cornell Law Rev., 2003, 95. Alla luce delle previsioni della Section 553 dell’APA (22) dedicata all’attività di rulemaking, la procedura informale di consultazione può essere divisa in tre fasi. Secondo la lettera b) della menzionata Section 553 (23), nella prima fase l’Agency è tenuta a pubblicare nel Federal Register un avviso da cui risultino: 1) l’indicazione delle tempistiche, dei luoghi e della natura del procedimento di consultazione; 2) il riferimento alle previsioni normative che fondano il potere normativo esercitato; 3) i termini o la sostanza della regolazione adottanda proposta o una descrizione delle principali questioni rilevanti. Ove la regolazione coinvolga soggetti specifici identificati, l’avviso deve essere accompagnato dalla notifica o da altre forme di comunicazione individuale previste dalla legge. È stato rilevato che, pur se nella prassi le Agencies predispongono avvisi molto dettagliati, la giurisprudenza è abbastanza elastica, rifuggendo da orientamenti formali e guardando alla sostanza dei contenuti della notice, che dovrà comunque consentire l’effettiva possibilità alle parti interessate di partecipare alla procedura di regolazione e, ove non presenti una proposta di regolazione completa, dovrà quanto meno rendere noti i dati e le metodologie di cui l’Agency intende avvalersi per formulare le rules (24). Le informazioni contenute nell’avviso, quindi, dovranno essere chiare, complete e idonee a consentire ai potenziali soggetti regolati di valutare il loro interesse a partecipare al procedimento di regolazione. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (22) U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule Making. (23) La Section 553 alla lettera b) stabilisce che “General notice of proposed rule making shall be published in the Federal Register, unless persons subject thereto are named and either personally served or otherwise have actual notice thereof in accordance with law. The notice shall include – (1) a statement of the time, place, and nature of public rule making proceedings; (2) reference to the legal authority under which the rule is proposed; and (3) either the terms or substance of the proposed rule or a description of the subjects and issues involved” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule Making). (24) United States v. Nova Scotia Food Products Corp., 568 F.2d (2nd Cir. 1977). In Italia la dottrina (BARRA CARACCIOLO, cit., 94) ha efficacemente osservato che “la giurisprudenza è alquanto elastica circa la sufficienza del contenuto di tale avviso, nel senso che non esige una puntuale tripartizione conforme allo schema legale; tuttavia, ciò che non può mancare è la sostanza funzionale dell’avviso, cioè lo “stabilire un’effettiva opportunità per le parti interessate di partecipare al rulemaking”, sicchè l’avviso è ritenuto sufficiente se consente correttamente (“fairly”) agli interessati di valutare la materia e le questioni all’attenzione dell’agenzia. A tal fine, la giurisprudenza, specie laddove l’avviso non contiene già un testo articolato della “regulation” proposta, esige che lo stesso renda noti i dati e le metodologie di cui l’Amministrazione intende avvalersi per formulare le norme. Nella pratica, l’orientamento è di fornire nell’avviso notizie piuttosto dettagliate; ciò si è rivelato opportuno allorché l’expertise delle parti private possa risultare superiore a quella dell’agenzia, sicchè la loro risposta può immediatamente essere utile in termini di dati e metodologie. Per le parti che non disponessero, invece, di particolare “expertise”, l’eccesso di dettagli tecnici può rendere oscuOve il testo delle rules venga modificato dal regolatore nel corso dell’attivit à conoscitiva la giurisprudenza ha affermato che non è necessario pubblicare un nuovo avviso proprio perché il cambiamento dovrebbe essere il normale risultato delle acquisizioni informative risultanti dalle osservazioni e dai commenti dei cittadini e delle imprese, purché non si tratti di un “illogical outgrowth” rispetto all’originaria proposta di regolazione (25). La fase della pubblicazione è strumentale alla partecipazione degli interessati al procedimento regolatorio che interviene nella seconda fase. Pur se normalmente la consultazione avviene attraverso l’invio di osservazioni scritte all’Agency da parte degli stakeholders, il regolatore può liberamente decidere di raccogliere testimonianze o commenti in forma orale (26). Le facoltà partecipative previste dall’APA costituiscono un catalogo aperto che spazia dalla presentazione di controproposte, di argomenti difensivi, di materiale probatorio, all’illustrazione di tesi scientifiche e di tutto quello che il soggetto destinatario della regolazione possa ritenere pertinente e rilevante in relazione alla proposta in esame. Tutta l’attività conoscitiva compiuta dall’Agency dovrà essere raccolta in un registro (record) da tenersi anche su supporto informatico e del quale va garantita l’ampia accessibilità da parte di tutti i soggetti interessati (27). DOTTRINA 301 ra la portata delle regole proposte: nella ricerca di un equilibrio fra queste diverse esigenze, le agenzie tendono a servirsi di un modulo di avviso “tipizzato”, che include un preambolo che enuncia lo scopo fondamentale e l’impatto generale della regulation, un riferimento alla base legale della sua emanazione, ed il testo delle regole proposte. Questa descrizione per linee essenziali è accompagnata, peraltro, da un’appendice contenente il tipo di informazioni di dettaglio tecnico che possono interessare i destinatari dotati di conoscenza più sofisticate”. (25) Chocolate Manufacturers Association v. Block, 755 F.2d 1005 (4th Cir. 1985). In termini BARRA CARACCIOLO, cit., 94 e 95 che rileva come “può frequentemente verificarsi, poi, che, durante il procedimento, le norme proposte siano ritenute suscettibili di cambiamento da parte dell’agenzia che ha pubblicato l’avviso. In tal caso non è richiesta la pubblicazione di un nuovo avviso perchè il cambiamento dovrebbe normalmente essere proprio il risultato delle acquisizioni procedimentali. La giurisprudenza ha in proposito stabilito che il mutare del testo di una proprosta di “regulation” esiga un nuovo avviso solo nel caso che esso non sia una “logical outgrowth” dell’originaria formulazione; ciò viene escluso quando il cambiamento nasca autonomamente rispetto all’ambito di dati e metodologie apparsi nell’avviso ed acquisiti in coerenza con esso”. (26) La lettera c) della Section 553 dell’APA, stabilisce che “After notice required by this section, the agency shall give interested persons an opportunity to participate in the rule making thrrsi nell’avviso ed ough submission of written data, views, or arguments with or without opportunity for oral presentation” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule Making). (27) Questo modello tuttavia comporta una instabilità ontologica del record il contenuto è destinato ad mutare ripetutamente nel tempo. Ciò impone agli interessati una continua ed estenuante attività di aggiornamento. Al fine di temperare questi problemi l’Agency può organizzare incontri in cui possa effettuarsi la comparazione simultanea delle varie proposte. La dottrina ha, altresì, osservato che “tutto il materiale esibito durante la procedura viene schedato e raccolto in un record, che accompagna la pratica dall’inizio alla fine. Nella terza ed ultima fase l’Agency approva e pubblica (28) le nuove rules. Nell’atto normativo o amministrativo generale oltre alle rules sono presenti anche i c.d. feedbacks (29), cioè una giustificazione relativa all’orientamento espresso dall’Autorità di regolazione sulle osservazioni pervenute. Nei feedbacks l’Agency chiarisce come e in che misura abbia tenuto conto delle indicazioni fornite dagli interessati in sede di consultazione oppure le ragioni per cui si sia discostata dalle osservazioni degli stakeholders. Non si tratta comunque di un onere motivazionale stringente equiparabile a quello imposto in relazione ai provvedimenti amministrativi concreti (orders) bensì di una più tenue giustificazione che può limitarsi a dare conto delle questioni più rilevanti e sensibili e dei punti che durante la consultazione hanno formato oggetto di osservazioni divergenti e conflittuali (“a concise general 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Benché rappresenti il supporto cartaceo del sindacato di legittimità sulle rules, la sua funzione di salvaguardia non si esaurisce nel fornire una base testuale al giudice per raffrontare l’atto concretamente posto in essere con il modello astratto di provvedimento legittimo, consistendo piuttosto nell’“enlighten and shape the agency’s exercise of its discretion by ensuring input of evidences and views by interested persons”. Quest’ultima funzione verrebbe meno se il record si formasse a procedura ultimata: esso, invece, si compone passo dopo passo, perché segue in tempo reale gli sviluppi istruttori e ne dà conto, in modo che ciascuna parte, prendendone visione, possa essere informata di ciò che sta accadendo, per formulare controdeduzioni radicate nei fatti. Il sistema di conoscibilità descritto non ha però conseguito l’effetto sperato: cioè consentire una partecipazione con cognizione di causa variabile dipendente dal modo di essere della partecipazione. Se questa è cartacea con sovrapposizioni successive dei singoli apporti degli intervenienti, il difetto di un forum per il confronto simultaneo delle osservazioni ostacola la circolazione delle idee, nel senso che il flusso informativo si blocca in capo a ciascuno. A questo inconveniente la procedura negoziata ha cercato di porre rimedio, avvalendosi del metodo della simultaneità anche nella circolazione delle informazioni. Con ciò non si vuole disconoscere l’indubbia portata innovativa del sistema del record che consentiva ai terzi di conoscere la provenienza soggettiva degli apporti istruttori e, quindi, di distinguere il contributo dell’Autorità da quello delle parti” (DE MINICO, op.cit., 116-117). (28) La Section 553 (d) dell’APAstabilisce che il periodo di vacation legis dovrà, salvo talune eccezioni, essere almeno pari a 30 giorni “The required publication or service of a substantive rule shall be made not less than 30 days before its effective date, except – (1) a substantive rule which grants or recognizes an exemption or relieves a restriction; (2) interpretative rules and statements of policy; or (3) as otherwise provided by the agency for good cause found and published with the rule” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule Making). (29) La lettera c) della Section 553 dell’APA, stabilisce che “After consideration of the relevant matter presented, the agency shall incorporate in the rules adopted a concise general statement of their basis and purpose” (U.S. Code, Title 5, Part I, Chapter 5, Administrative Procedure, Section 553, Rule Making). La giurisprudenza non aveva richiesto inizialmente una giustificazione rigorosa atteso che l’expertise di cui risultavano depositarie consentiva alle Agencies intuizioni dettate dall ’esperienza non sottoponibile ad analisi (Chicago, Barlington and Quincy Co v. Babcock, statement of their basis and purpose”). Difatti, il termine giustificazione si riferisce propriamente agli atti di regolazione in quanto le ragioni di fatto e di diritto che fondano la decisione regolatoria hanno un contenuto e un’estensione diversa da quello che caratterizza la motivazione dei provvedimenti amministrativi puntuali (c.d. orders). L’Agency, inoltre, non è tenuta a dare risposta dettagliatamente motivata in relazione a tutti i commenti e le osservazioni che potrebbero essere anche meramente pretestuose e dilatorie. La giurisprudenza (30) ha richiesto una certa giustificazione (“reasoned decision-making” (31)) esclusivamente in relazione a quei comments che superino la soglia di rilevanza (materiality) da accertarsi in concreto da parte del giudice. La imprevedibilità degli esiti giudiziari (32), tuttavia, ha originato una prassi delle Agenzie di regolazione tesa ad accrescere il supporto motivazionale degli atti di approvazione delle nuove rules e ad ergere “barriere formali protettive” finalizzate ad evitare dichiarazioni di illegittimità per difetto di giustificazione che ha finito per produrre rallentamenti ed innalzamenti dei costi della regolazione senza benefici sostanziali sotto il profilo del miglioramento della qualità delle regole (33). DOTTRINA 303 204 U.S. 585, 1907). Solo verso la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 si cominciò ad affermare che sulle Agencies incombesse un onere di razionalità oggettiva e, quindi, di spiegazione e giustificazione della sostanza dei precetti formulati (per la ricostruzione storica dell’evoluzione giurisprudenziale si rinvia a BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 89, che indica anche le ragioni che hanno stimolato il mutamento di indirizzo giurisprudenziale: l’“aspirazione di controllo della comunità e perciò di trasparenza democratica”, la circostanza che “gli esperti hanno certo il loro peso nell’indicare le soluzioni, ma il valore in termini di effettività di una regola dipende da come sono storicamente e strutturalmente sistemati gli interessi coinvolti nella sua creazione, secondo la percezione che ne hanno i rispettivi titolari ”, nonché quella che la giustificazione delle regole “dando risposta alle posizioni emerse dalla partecipazione aiuta a dissipare il sospetto del pregiudizio della scorrettezza o dell ’improprio influenzamento dei un’agenzia” (BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione cit., 1997, 89-90). (30) International Harvester Co. v. Ruckelhaus, 478 F.2d 615 (D.C. Cir. 1980); United States v. Nova Scotia Food Products Corp., 568 F.2d (2nd Cir. 1977); Chamber of Commerce of U.S. v. OSHA, 636 F.2d 464 (D.C. Cir. 1980); Chocolate Manufacturers Association v. Block, 755 F.2d 1105 (4th Cir. 1985). (31) Espressione utilizzata in Greater Boston Televsion Corp. v. FCC, 444 F.2d 851 (D.C. Cir. 1970). (32) Criticata da PIERCE R. Jr., Seven Way sto Deossify Agency Regulation, Adm. Law Rev., 1995, 59. (33) “La soglia oltre la quale la rilevanza (“materiality”) del commento impone la considerazione è difficilmente definibile in astratto, tanto che la giurisprudenza enunciando i predetti principi si riserva uno spazio di indagine aperto. L’elasticità dell’orientamento delle corti ha però prodotto un inconveniente da più parti lamentato: le agenzie per evitare di incorrere nella censura di omessa considerazione della rilevanza di un contributo di parte, e, quindi, di difetto di motivazione per non aver fornito la dovuta puntuale risposta, Peraltro, il fascicolo relativo all’attività conoscitiva svolta dall’Agency durante la consultation tende sempre più ad assomigliare nella prassi al record relativo agli elementi istruttori fondanti gli orders adottati in sede di adjudication con l’incomprensibilità del poderoso fascicolo e il rischio che il giudice effettui di fatto un sindacato sostitutivo valutando in modo diverso dall’Agency elementi conoscitivi risultanti dal record (34). 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO si fanno carico di un onere di motivazione che ha assunto ormai dimensioni imponenti e che ha allungato tempi e costi dell’attività normativa dell’Amministrazione a livelli spesso elevatissimi. Si lamenta che l’interferenza delle corti ha ormai snaturato la previsione della sez. 553 dell’A.P.A., conducendo il procedimento sul terreno del contenzioso giurisdizionale, il quale finisce per essere l’ovvia via d’uscita per ogni parte scontante che abbia – come spesso accade .- sufficienti risorse per adire le vie giudiziali e ricercare puntigliosamente le contraddizioni e le lacune di elaborati che raggiungono migliaia di pagine e vertono su questioni scientifiche di estrema complessità” (BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 96). In senso analogo, successivamente, è stato autorevolmente osservato che “la procedura di rulemaking non implica, in via di principio, l’attuazione di un contraddittorio formale di tipo contenzioso sul modello dell’adjudication, e dunque non sembra sussistere un obbligo per l’Agenzia di rispondere formalmente a tutti i commenti ricevuti, ma la giurisprudenza ritiene che il regolatore è tenuto a “replicare” al privato ogni volta che l’osservazione di quest’ultimo si riveli particolarmente significativa ovvero dotata di “cogente rilevanza”. La difficoltà di individuazione a priori di tale soglia, che determina l’obbligo per l’Agenzia di rispondere formalmente, pena l’illegittimità del procedimento sotto il profilo del difetto di motivazione, induce le Agenzie ad adempiere sempre all’onere di motivazione con appesantimenti – di tempi e di costi – della procedura. Si determina così anche un avvicinamento della tipologia procedurale della rulemaking a quella della adjudication, ove la decisione è adottata sulla base del record, vale a dire di una sorta di fascicolo d’ufficio che raccoglie tutte le argomentazioni e le prove assunte in contraddittorio in udienza pubblica (la c.d. hearing). Pertanto anche nella procedura di rulemaking si ritiene necessario, ai fini della comprensibilità dell’operato dell’Agenzia, raccogliere gli sviluppi dell’iter procedimentale raggruppando in un record, di contenuto limitato, gli elementi e i dati utilizzati, i commenti ricevuti e le risposte formulate dai funzionari, nonché le trascrizioni delle eventuali audizioni orali svolte nel corso della procedura. Attraverso tale record l’Agenzia dimostra l’adempimento dei necessari “passaggi” volti a giungere ad una decisione meditata (reasoned decision making), in conformità con quanto richiesto dalla giurisprudenza, secondo cui tale procedura, oltre a quello della partecipazione, deve soddisfare anche i requisiti della “comprensività” e della “razionalità”” (TITOMANLIO R., Funzione di regolazione e potestà sanzionatoria, Milano, Giuffrè, 2007, 377 e 378). (34) “La procedura tende infatti a concretizzarsi in un record; esso è l’insieme delle prove e delle argomentazioni addotte in contraddittorio, più specificamente, in una pubblica udienza, e dal cui ambito esclusivo va ricavata la decisione. L’istituto è tipico della procedura quasi-giurisdizionale dell’adjudication, ma nel “rulemaking”, il record si compendia in un quid necessariamente più limitato, e cioè nella raccolta degli elementi che illustrino un percorso logico fondato su fatti rilevanti come tali posti a fondamento delle determinazioni adottate. Esso include, infatti, le “prove del processo decisionale che siano sufficienti a mostrare la razionalità dell’iter seguito in sede giurisdizionale”, ma non necessariamente abbraccia ogni atto ed argomentazione prodotta nel procedimento. Sotto la spinta della giurisprudenza che ha imposto il “reasoned decisionmaking”, la stessa sez. 553, lett c) è stata Quando lo statute impone la formal rulemaking procedure l’Amministrazione è tenuta a seguire una procedura più garantistica e complessa, per certi versi simile al procedimento amministrativo di formal adjudication (orders) e, quindi, equiparabile ad un vero e proprio processo. Atteso che, come si è rilevato in precedenza, la Corte Suprema accorda preferenza all’informal procedure di notice and comment, la legge deve utilizzare una terminologia inequivoca richiedendo espressamente un trial-type hearing. Attraverso la formal rulemaking procedure si consente alle parti interessate di dibattere, in un contraddittorio di tipo processuale (anche con un’autentica cross-examination), il contenuto della norme da emanare in relazione ai propri opposti interessi (35). L’Autorità di regolazione è tenuta ad osservare questi specifici obblighi procedimentali la cui violazione può comportare, a differenza dell’informal rulemaking procedure, l’annullamento delle nuove rules (36). DOTTRINA 305 riletta come un precetto prescrivente la formazione e la ostensione di tale record; la norma richiede, infatti, “una concisa dichiarazione generale della base e delle finalità della normativa ”, e tale precisazione è ritenuta idonea a prescrivere la tenuta di un siffatto record, avendo la ratio di consentire ai giudici di poter rilevare la cornice di fatto e di diritto sottostante l’azione delle agenzie. Secondo una prassi che è conseguita a tale interpretazione, il rulemaking record dovrebbe così includere i dati utilizzati e le inferenze da essi tratte, i commenti del pubblico e le relative risposte dei funzionari, nonché le trascrizioni delle eventuali audizioni tenute nel corso del procedimento. Se necessario, occorrerà anche includere gli studi interni, compiuti o acquisisti dall’agenzia, se utilizzati per la decisione, onde evitare la censura di un motivazione scorretta in quanto incoerente con le risultanze del record. Certamente la complessità e il pluralismo delle fonti acquisitive dei dati insita nel rulemaking non è facilmente racchiudibile in un siffatto record. Si corre così il pericolo che in esso si ammassi una ridda incoerente ed incontrollabile di elementi, formalmente esauriente, ma troppo vaga per evidenziare realmente il processo decisionale; il record è divenuto così poco illuminante che un giudice, dovendo decidere in base ad esso, finisce per avere tanto spazio da assecondare le sue personali preferenze di policy e giunge così ad essere un soggetto attivo della policy stessa al di fuori del circuito istituzionale delineato dalla Costituzione” (BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 96-97). (35) Si è di recente efficacemente segnalato che “In tal caso, i costi (procedurali ed economici) e la macchinosità della procedura formal (detta anche on the record) appaiono onerosi: la lunga durata dello hearing, la complessità della documentazione da raccogliere, la cross-examination sugli elementi raccolti hanno addirittura portato alcune agencies ad abbandonare il proprio regulatory program. Inoltre, se l’amministrazione si rifiuta di concedere la discosure dei dati in proprio possesso (per motivi di riservatezza) impedendo così agli interessati di effettuare una efficace e completa cross-examination, la corte può per tale ragione, decidere di annullare le rules che costituiscono il prodotto finale della procedura. Così un complesso e lungo iter di approvazione delle norme può essere facilmente vanificato per il mancato rispetto di minimi requisiti procedurali” (MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 62). (36) Wirtz v. Baldor Elec. Co., 337 F.2d 518 (D.C. Cir. 1963). Le procedure di rulemaking previste dall’APAsi pongono tra loro in rapporto di stretta alternatività con preferenza di quella informale, senza che possa configurarsi un tertium genus procedimentale a metà strada tra l’eccessiva rigidità della formal rulemaking procedure e la morbida elasticità dell ’informal rulemaking procedure. Atteso che in quest’ultima, a differenza della prima, le violazioni procedimentali afferenti la consultazione non danno luogo all’annullamento dell’atto di regolazione, un certo orientamento della giurisprudenza statunitense (37) ha cominciato ad imporre di fatto alle Agencies il rispetto di oneri procedimentali non richiesti espressamente dalla legge (statute), elaborando in tal modo una nuova “hybrid” rulemaking procedure di conio giurisprudenziale. La Corte Suprema (38), però, ha rigettato questa tesi affermando che i giudici non hanno il potere di imporre all’Amministrazione requisiti procedurali diversi da quelli richiesti nell’Amministrative Procedure Act, nella legge istitutiva dell’Autorità o in altri statutes applicabili. Tra le giustificazioni addotte dal Supremo Consesso di giustizia federale sussiste quella di evitare che le Agencies, preoccupate di incorrere in annullamenti fondati sul mancato rispetto di procedure non previste dalla legge ed imposte in concreto dai giudici, utilizzino nella prassi procedimenti regolatori articolati, lunghi, dispendiosi e privi di utilità concreta alla luce della materia da regolare senza alcuna base normativa. 3.2. L’introduzione della negotiated rulemaking (39) e le ragioni del suo scarso utilizzo. La disciplina del procedimento di regolazione è stata arricchita nel 1990 di un nuovo strumento che nelle intenzioni del Congresso avrebbe dovuto consen- 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (37) Si consentito rinviare alle teorie del giudice Bazelor che saranno tra breve descritte. Descrive puntualmente questa linea di pensiero giurisprudenziale MARCHETTI B., Pubblica Amministrazione e Corti negli Stati Uniti. Il judicial review sulle Administrative Agencies, CEDAM, 2005, 62. (38) Vermont Yankee Nuclear Power Corp. V. Natural Resources Defence Council Inc., 435 U.S. 519 (1978). (39) Sulla negotiated rulemaking procedure ACKERMAN S.R., Consensus versus incentives: a skeptical look at regulatory negotiation, 43 Duke Law Journal, 1994, 1206; BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 92; CHOO R., Judicial Review of Negotiated Rulemaking: Should Chevron Deference Apply?, 52 Rutgers Law Rev., 2000, 1074; DE MINICO G., Regole. Comando e Consenso, Giappichelli, Torino, 2004, 118-121; FIORINO, Regulatory Negotiation as a Policy Process, Public Admin. Law, 1988, 48; FUNK W., When smoke gets in your eyes: regulatory negotiation and the public interest EPA’s woodstove standards, 18 Environ. Law, 1987, 97; Id., Barbaining, toward the new millennium: regulatory negotiation and the subversion of the public interest, 46 Duke Law Journal, 1997, 1378; HARTER P.J., Negotiating Regulation: a Cure for Malaise, Georgetown Law Journal, 1982, I; Id., A talk with, Dispute Resolution Forum, 1986, 11 ss.; MANZELLAA., Brevi cenni sulla regulatory negotiation, Riv. tire agli interessati di incidere effettivamente sulla predisposizione della proposta relativa alle nuove rules che sovente è adottata dalle Agencies “al buio” e, talvolta, anche ispirata da soggetti regolati titolari di forti interessi economici. Chiudendo il cerchio degli strumenti già conosciuti, alla programmazione regolatoria (che impone all’Autorità di regolazione di far conoscere anticipatamente le materie e le questioni che saranno oggetto di regolazione) e al diritto di petizione (40) (facoltà di sollecitare un intervento regolatorio di competenza dell’Autorità presentando una proposta) previsti dalla Section 553, lett. e, Title V, U.S. Code (“Each agency shall give an interested person the right to petition for the issuance, amendment, or repeal of a rule”), si è aggiunta la negotiated rulemaking procedure che s’invera in una fase eventuale e preliminare alla public consultation tesa a sollecitare la partecipazione degli interessati già nella fase di predisposizione della proposta di regolazione. In particolare le Sections 583-570a, Title V, U.S. Code (41), disciplinano la negotiated rulemaking procedure in virtù della quale l’Autorità di regolazione può, previo accertamento della sussistenza dei rigorosi presupposti richiesti per procedere con questo modulo procedimentale (tra cui, in primis, la sussistenza di interessi chiaramente distinguibili, la possibilità di rappresentarli nonchè quella di individuare un termine finale per la decisione del comitato di negoziazione) (42), pubblicare nel Federal Register un avviso che descriva l’oggetto e la portata della regola da sviluppare, una lista degli DOTTRINA 307 Trim. Dir. Pubbl., 1994, 279 ss.; TITOMANLIO R., Funzione di regolazione e potestà sanzionatoria, Milano, Giuffrè, 2007, 380-381. (40) Non si tratta di un autentico diritto soggettivo in quanto non nasce alcun obbligo dell’Agency di adottare una regolazione conformemente alle richieste del privato, ma solo quello di prendere in esame la proposta del cittadini e, più spesso, dell’impresa specie ove l’iniziativa privata sia conforme alle previsioni dell’atto di programmazione. In questi termini BARRA CARACCIO L., Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell’ordinamento U.S.A. Profili comparativi con l’esperienza italiana, Quaderni del Consiglio di Stato, Giappichelli, Torino, 1997, 89 che acutamente osserva che “questa facoltà di petizione è consentita in concreto proprio dalla preesistenza della agenda, nella quale, muovendo dal presupposto che le risorse sono limitate, l’agenzia stabilisce, tenendo presente le proprie incombenze legali di intervento e le scadenza temporali prefissate per il loro esercizio, quali problemi possano, e in che ordine di priorità, richiedere una risposta in forma di disciplina normativa”. (41) Negotiated Rulemaking Act 1990, Pub. L. 101-648 (S. 303), November 29, 1990. L’approvazione dello statute era stato preceduta da ampie sperimentazioni tese a rimediare alle principali disfunzioni del modello partecipativo originario quali i costi insostenibili dell’istruttoria appesantita da oneri burocratici eccessivi, i ritardi nella conclusione del procedimento di regolazione, l’inoperoso atteggiamento e le condotte dilatorie paralizzanti dei regolati, disposti anche a impugnare in sede giurisdizionale l’atto di regolazione che non avesse soddisfatto le proprie pretese attraverso il supino recepimento delle proprie osservazioni. (42) La lettera a) della Section 563, Title V, Subchapter III, U.S. Code, recante “Determination of Need by the Agency” stabilisce che “An agency may establish a negotiated rulemaking committee to negotiate and develop a proposed rule, if the head of the agency determines that the use of the negotiated rulemaking procedure is in the public interest. In making such a determination, the head of the agency shall consider whether – interessati che potrebbero essere incisi dalla stessa in modo significativo e delle persone designate come rappresentanti nonché la facoltà concessa ad ogni interessato di designare un procuratore nel comitato di negoziazione. Quindi solo qualora sussistano i requisiti prescritti dalla lettera a) della Section 563 e l’Agency opti di avvalersi della negotiated rulemaking procedure convincendosi della praticabilità del metodo alternativo (anche attraverso una serie di incontri con i soggetti potenzialmente interessati all’atto di regolazione) potrà iniziare la fase dedicata alla c.d. feasibility analysis che si apre con la pubblicazione del menzionato avviso sul Federal Register e termina con la (eventuale) integrazione del comitato di negoziazione con i rappresentanti degli interessi che l’Autorità di regolazione non avesse ancora preso in considerazione. Se tale fase ha esito negativo l’Agency comunica, con avviso pubblicato nel Federal Register, l’abbandono della negotiated rulemaking procedure e l’attivazione di quella ordinaria (notice and comment). In caso contrario in seno al comitato dei rappresentanti viene elaborata e discussa la proposta di regolazione che verrà sottoposta alla successiva fase di consultazione pubblica solo in caso di raggiungimento di un consenso unanime sulla medesima. I rappresentanti degli interessi coinvolti dalla nuova regolazione fanno parte di un comitato (composto al massimo da venticinque componenti) presieduto da un mediatore (facilitator) nominato dallo stesso committee di cui fa parte anche un rappresentante dell’Agency che partecipa alle riunioni su di un piano di equiordinazione con le parti private, essendogli attribuite le stesse facoltà riconosciute agli altri membri. La proposta di regolazione elaborata sarà poi sottoposta all’informal rulemaking procedure e le rules adottate potranno comunque essere assoggettate a sindacato giurisdizionale (43). 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) there is a need for a rule; (2) there are a limited number of identifiable interests that will be significantly affected by the rule; (3) there is a reasonable likelihood that a committee can be convened with a balanced representation of persons who- (A) can adequately represent the interests identified under paragraph (2); and (B) are willing to negotiate in good faith to reach a consensus on the proposed rule; (4) there is a reasonable likelihood that a committee will reach a consensus on the proposed rule within a fixed period of time; (5) the negotiated rulemaking procedure will not unreasonably delay the notice of proposed rulemaking and the issuance of the final rule; (6) the agency has adequate resources and is willing to commit such resources, including technical assistance, to the committee; and (7) the agency, to the maximum extent possible consistent with the legal obligations of the agency, will use the consensus of the committee with respect to the proposed rule as the basis for the rule proposed by the agen