RASSEGNA
AVVOCATURA
DELLO STATO
PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO
ANNO LVIII – N. 4 OTTOBRE-DICEMBRE 2006
COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino
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DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – Condirettore: Giacomo Arena.
COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello – Vittorio Cesaroni – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli
Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Carlo Sica – Mario Antonio Scino.
HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE NUMERO: Valerio Balsamo - Eva Calvi - Giuseppe Camardi
- Angela Cossiri - Chiara Di Seri - Pasquale Fava - Wally Ferrante - Andrea Guazzarotti -
Domenico Maimone - Iole Moricca - Carmela Pluchino - Daniele Rosato - Francesco Spada -
Lavinia Tirelli - Francesco Vignoli.
SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi
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La Rassegna è consultabile sul sito: www.avvocaturastato.it
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AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO
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di indirizzo
INDICE – SOMMARIO
TEMI ISTITUZIONALI
Wally Ferrante, Le misure cautelari nel processo amministrativo (intervento
al Convegno su Misure cautelari e sentenze in forma semplificata, in
occasione del conferimento del premio Sandulli all’Avvocato Generale
dello Stato Oscar Fiumara, 1 dicembre 2006) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE
Andrea Guazzarotti, Angela Cossiri, L’efficacia in Italia delle sentenze
della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente . . . . » 15
Daniele Rosato, Appalti in house: rassegna critica della giurisprudenza . . . . . » 33
1.- Le decisioni
Lavinia Tirelli, L’abuso del diritto (Corte Giust. Ce, Grande sez., sent.
16-21 febbraio 2006 nella causa C-223/03) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 63
Chiara Di Seri, L’obbligo di annullamento di atti amministrativi “anticomunitari”
(Corte Giust. Ce, Grande sez., sent. 19 settembre 2006,
in cause C 392/04 e C 422/04) . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . » 97
2.- I giudizi in corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 113
IL CONTENZIOSO NAZIONALE
Eva Calvi, Governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali come
prerogativa statale: i confini della Regione (Corte Cost., sent. 20 aprile
- 5 maggio 2006 n. 182) . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 169
Francesco Spada, La tutela risarcitoria nei confronti della attività provvedimentale
della pubblica amministrazione: sviluppi in tema di giurisdizione
e di pregiudizialità (Cass., Sez. un., ordd. 13 giugno 2006, nn.
13659 e 13660) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 177
Valerio Balsamo, Rilevabilità del giudicato esterno ed autonomia dei periodi
di imposta nel giudicato tributario (Cass., Sez. un., sent. 16 giugno
2006, n. 13916) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 185
Francesco Vignoli, Tesi a confronto sulla ammissibilità della costituzione di
parte civile nei confronti dell’ente imputato (Trib. Torino, ord. 26
giugno 2006; Trib. Milano, sez. 10°, 3 marzo 2005) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 202
Carmela Pluchino, Modalità di svolgimento di una procedura di gara a
trattativa privata, a seguito della formulazione da parte di una delle
imprese invitate di un’offerta qualificabile come “nuova” e non già
“migliorativa” (C.d.S., sez. 4°, sent. 2 ottobre 2006 n. 5745) . . . . . . . . . . . . » 213
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 233
DOTTRINA
Maria Vittoria Lumetti, La responsabilità del medico dipendente e l’uso
giurisprudenziale della teoria del contatto sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 261
Giuseppe Camardi, Responsabilità medica e consenso informato. Prospettive
di risoluzione stragiudiziale delle controversie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 301
Pasquale Fava, Le situazioni giuridiche soggettive dello straniero secondo
gli orientamenti della giurisprudenza: la disciplina dell’ingresso, permanenza
ed uscita dall’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 313
Domenico Maimone, La tutela ante causam nell’ambito della giurisdizione
esclusiva del G. A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 334
Iole Moricca, La natura della DIA e la tutela giurisdizionale dei terzi . . . . . . . . » 358
INDICI SISTEMATICI ANNUALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 379
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Le misure cautelari
nel processo amministrativo(*)
di Wally Ferrante
1. Evoluzione della tutela cautelare
Com’è noto, la misura cautelare, quale strumento per garantire l’effettività
della tutela giurisdizionale, ha conosciuto, nel processo amministrativo,
un lungo percorso giurisprudenziale, che ha segnato il passaggio da una tutela
imperniata esclusivamente sullo strumento della sospensione dell’atto
amministrativo impugnato lesivo di interessi oppositivi ad una tutela molto
più estesa, progressivamente assimilabile a quella apprestata dal giudizio
processualcivilistico, che consente al giudice amministrativo di concedere
misure cautelari propulsive che sollecitino la riedizione dell’esercizio del
potere da parte dell’amministrazione, in relazione ad interessi anche pretensivi,
nonché di adottare misure positive direttamente sostitutive, sia pure in
via provvisoria, dell’azione amministrativa, come nel caso dell’ammissione
con riserva a pubblici concorsi o a procedure di gara.
La misura cautelare diviene quindi non più soltanto strumento di conservazione
provvisoria di una situazione che rischia di essere irreparabilmente pregiudicata
quanto un mezzo a contenuto anticipatorio della stessa decisione di merito.
2. Dal processo sull’atto al processo sul rapporto
Tale itinerario giurisprudenziale, che è andato di pari passo con la progressiva
trasformazione del processo amministrativo dal modello strettamen-
T E M I I S T I T U Z I O N A L I
(*) Intervento dell’Avvocato dello Stato Wally Ferrante al convegno su “Misure cautelari
e sentenze in forma semplificata” in occasione del conferimento del premio Sandulli
all’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara, 1 dicembre 2006.
te impugnatorio, correlato all’accertamento della legittimità o meno dell’atto
amministrativo, al modello del vero e proprio giudizio sul rapporto, volto
ad accertare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, è culminato
con l’intervento del legislatore del 2000.
La legge 205/2000 ha infatti recepito gli orientamenti giurisprudenziali
che avevano teso all’ampliamento sia della sfera di applicabilità della tutela
cautelare, sia del tipo di misure concedibili, provvedendo inoltre ad introdurre
una dettagliata disciplina che arricchisce il testo dell’art. 21 della legge
T.A.R. di nuovi incisivi strumenti, destinati rendere ancor più efficace e satisfattoria
la tutela giurisdizionale.
È stata così sancita la definitiva transizione dalla cautela tipica della
sospensione dell’atto a quella atipica, rivolta espressamente anche ai comportamenti
di inerzia dell’amministrazione ed idonea ad adattarsi alle molteplici
esigenze del giudizio amministrativo, che ha visto progressivamente
ampliare i casi di giurisdizione esclusiva che si caratterizza spesso per l’assenza
di un atto da impugnare.
È evidente infatti che una tutela cautelare ritagliata esclusivamente sul
“congelamento” del provvedimento amministrativo mal si conciliava con un
giudizio chiamato a fronteggiare l’estensione del raggio di intervento della
pubblica amministrazione nei rapporti economici e sociali, sempre più marcatamente
inserito nella erogazione di servizi, a fronte del quale il privato
vanta interessi pretensivi non adeguatamente tutelabili con il rimedio tradizionale
della sospensiva.
3. Dagli interessi oppositivi agli interessi pretesivi
Peraltro, accanto agli interessi schiettamente oppositivi rispetto ad un
atto dell’amministrazione che depaupera il patrimonio del privato, come un
decreto di esproprio o una requisizione, si affiancano interessi oppositivi
rispetto ad atti formalmente negativi, come il diniego di esonero dal servizio
militare, che si traduce però in un provvedimento sostanzialmente positivo,
la chiamata alle armi. In proposito, la tutela cautelare apprestata dai giudici
di primo grado ha finito il più delle volte per paralizzare sine die la chiamata
alle armi nonostante l’annullamento da parte del Consiglio di Stato dell’ordinanza
di sospensione in quanto, trattandosi formalmente di un atto di
diniego di esonero dal servizio di leva, non suscettibile di reviviscenza per
effetto dell’annullamento del Consiglio di Stato, l’amministrazione era
costretta ad inviare una nuova “cartolina”, che veniva nuovamente impugnata
e sospesa dal T.A.R. e così potenzialmente all’infinito.
La tutela cautelare degli interessi pretensivi, invece, ai quali consegue
un ampliamento della sfera giuridica soggettiva del privato, si pensi al
conferimento di incarichi direttivi ai magistrati o ai visti di ingresso di cittadini
extracomunitari, si estrinseca nella tecnica del remand ovvero nell’intimazione
all’amministrazione di riesaminare la situazione, nell’ambito
del potere discrezionale che le compete, alla luce delle censure contenute
nel ricorso e ritenute ad un primo esame fondate dal giudice amministrativo.
2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Va detto che, in tali materie, sia il C.S.M. che il Ministero degli Affari
Esteri, nella stragrande maggioranza dei casi, tendono a confermare, anche
in sede di riesame, il provvedimento impugnato magari sorreggendolo da
una più ampia motivazione.
In proposito, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 175/1991, ha
chiarito che “il giudice non può determinare, rendendolo giuridicamente
necessario, un risultato che secondo l’ordinamento potrebbe scaturire solo da
una scelta amministrativa discrezionale”.
4. Interventi della Corte costituzionale
Una fondamentale apertura nel senso dell’atipicità della cautela invocabile
in materia di diritti soggettivi risale alla nota sentenza della Corte costituzionale
n. 190/1985 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 21 legge T.A.R. nella
parte in cui non consentiva al giudice amministrativo di adottare, nelle controversie
patrimoniali in materia di pubblico impiego, i provvedimenti d’urgenza
più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito.
La Consulta è nuovamente intervenuta, con la sentenza interpretativa di
rigetto n. 249/1996, pronunciata in relazione all’art. 31 bis della legge
Merloni (legge 109/1994), per affermare come il momento cautelare rappresenti
uno snodo fondamentale, precisando che “la disponibilità delle misure
cautelari è strumentale all’effettività della tutela giurisdizionale e costituisce
espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a
danno dell’attore che ha ragione, in attuazione dell’art. 24 Cost.”.
5. Rapporto tra durata del processo e misura cautelare
L’incremento esponenziale del contenzioso amministrativo, con le ovvie
conseguenze sui tempi occorrenti per la definizione dei giudizi, rende infatti
la tutela cautelare un momento cruciale per assicurare una giustizia non
solo giusta ma anche rapida e quindi effettiva.
Basti pensare che, sugli oltre 12.000 ricorsi presentati nel 2005 innanzi
al T.A.R. del Lazio, più di 8.000, ossia circa due su tre, contenevano un’istanza
cautelare.
Dalle numerosissime istanze di dichiarazione di sopravvenuta carenza di
interesse presentate al momento della fissazione dell’udienza di merito, a
seguito del rigetto dell’istanza cautelare – o in talune ipotesi anche in caso di
accoglimento, si pensi all’ammissione con riserva alle prove concorsuali alle
quali non sia poi conseguito il superamento delle prove medesime – può dedursi
che spessissimo il processo amministrativo si risolve nella tutela cautelare
che, per la sua celerità, e oggi anche per la sua atipicità, rivolta anche agli atti
di diniego ed ai comportamenti silenziosi, e supportata da un più ampio onere
motivazionale, si presta ad assicurare al privato una risposta pronta, sebbene
provvisoria, che può rendere superflua una tardiva decisione definitiva.
Nella prassi, l’istanza cautelare viene anche utilizzata per finalità perlustrative,
per sondare la difesa dell’amministrazione e per “barattare” la
rinuncia all’istanza di sospensione con una fissazione del merito a breve.
Va ricordato peraltro che, proprio con la legge 205/2000, viene stabilito
TEMI ISTITUZIONALI 3
il principio della priorità della fissazione della data di trattazione del ricorso
nel merito in caso di accoglimento dell’istanza cautelare, per non perpetuarne
gli effetti, per loro natura interinali, e viene introdotto un rito speciale
accelerato, per le materie particolarmente delicate rientranti nell’art. 23 bis
della legge T.A.R., che, oltre a prevedere il dimezzamento di tutti i termini
processuali, ad esclusione di quello per proporre ricorso, impone la fissazione
dell’udienza di merito alla prima udienza successiva al termine di trenta
giorni dalla data dell’ordinanza cautelare.
Il comma 5 dell’art. 23 bis prevede inoltre, “in caso di estrema gravità
ed urgenza” l’adozione di “opportune misure cautelari”, evidentemente
diverse ed ulteriori rispetto a quelle genericamente previste dal comma 3
della stessa norma, che enuncino “i profili che, ad un sommario esame, inducono
a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso”.
6. I due presupposti della misura cautelare
In proposito, il riferimento al presupposto del fumus boni iuris oltre a quello
del periculum in mora, sebbene pacificamente richiesto dalla giurisprudenza,
non era espressamente contemplato nel previgente art. 21 legge T.A.R., che
richiedeva esclusivamente la sussistenza di “danni gravi e irreparabili derivanti
dall’esecuzione dell’atto”. Nel testo novellato dalla legge 205/2000, l’art. 21
richiede esplicitamente una motivazione non solo in ordine alla valutazione del
“pregiudizio grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato,
ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione durante il tempo
necessario a giungere da una decisione sul ricorso” ma altresì in ordine ad un
sommario giudizio prognostico sull’esito del ricorso.
7. Motivazione del provvedimento cautelare
Va infatti rilevato che a seguito dell’entrata in vigore della legge 205/2000,
i provvedimenti cautelari che, precedentemente, si limitavano ad uno stereotipato
richiamo alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21 legge T.A.R., ai
limiti della conformità con l’art. 111 Cost., sono ora di norma diffusamente
motivati in ordine ad entrambi i presupposti del periculum in mora e del fumus
boni iuris , in particolare quelli di primo grado. La propensione del Consiglio
di Stato a motivare a volte ancora succintamente i provvedimenti cautelari può
peraltro giustificarsi con l’intento di non condizionare in modo troppo pregnante
il giudice di primo grado nella decisione di merito.
La motivazione delle ordinanze cautelari restituisce peraltro all’appello
la natura sua propria di gravame, atteso che in precedenza l’impugnazione si
traduceva sostanzialmente in una riproposizione dei motivi di ricorso, non
essendo possibile censurare il provvedimento giurisdizionale se non per
omessa motivazione.
8. Altri tipi di misure cautelari
Il novellato art. 21 legge T.A.R., abbandonando il tradizionale rimedio
della mera sospensione dell’atto, prevede “l’emanazione di misure cautelari,
compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono secondo le circo-
4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
stanze più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul
ricorso”.
Dal canto suo, l’art. 8 della legge 205/2000 introduce, nelle controversie
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la possibilità
di ottenere un decreto ingiuntivo a norma degli artt. 633 e ss. c.p.c. nonché
un’ordinanza provvisoriamente esecutiva che disponga in via provvisionale
la condanna al pagamento di somme di danaro, ricorrendo i presupposti
di cui agli artt. 186 bis e ter c.p.c., conferendo così al giudice amministrativo
ulteriori efficaci mezzi, tratteggiati sulla falsariga di quelli riconosciuti al
giudice ordinario, per assicurare l’effettività della tutela.
9. Decreto cautelare monocratico
Uno strumento particolarmente innovativo, introdotto dalla legge
205/2000, è il decreto presidenziale, pronunciato anche inaudita altera
parte, prima della trattazione della domanda cautelare “in caso di estrema
gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data
della camera di consiglio”. Il decreto monocratico, concesso con molta parsimonia
dal giudice amministrativo sia di primo che di secondo grado, stante
l’assenza di contraddittorio, ha efficacia temporanea nel breve tratto di
tempo intercorrente tra la sua emissione e la pronuncia del collegio, cui l’istanza
cautelare è sottoposta nella prima camera di consiglio utile.
10. Ammissione con riserva al concorso notarile
Per comprendere il grado di improcastinabilità del rimedio, richiesto
dalla giurisprudenza, si possono citare i numerosi decreti cautelari emessi dal
Presidente di sezione del Consiglio di Stato e successivamente confermati
dal Collegio (ex multis, sez. IV, ord. n. 4830/03 dell’11 novembre 2003) il
giorno prima dell’inizio delle prove scritte del concorso notarile in relazione
all’ammissione con riserva, disposta dal T.A.R., di tutti coloro che avevano
commesso un solo errore alla preselezione informatica.
Va ricordato che la quasi totalità dei ricorrenti esclusi per aver commesso un
errore nella prova preselettiva avevano proposto ricorso, così vanificando totalmente
l’intento del legislatore di limitare l’accesso alla procedura concorsuale al
fine di assicurarne un più celere ed efficiente svolgimento. L’effetto delle massicce
ammissioni con riserva, con sostanziale disapplicazione della legge, è stato
reputato dal Consiglio di Stato tale da legittimare l’adozione di provvedimenti
monocratici inaudita altera parte a tutela non solo dell’interesse dell’amministrazione
ad un regolare svolgimento della procedura concorsuale ma anche di
tutti coloro che avevano legittimamente superato la prova preselettiva e che avevano
visto ampliarsi, oltre i limiti consentiti dalla normativa vigente, il numero
dei concorrenti a fronte di un ristretto numero di posti banditi.
11. Parità di accesso ai mezzi di informazione
Un’altra ipotesi di improrogabilità della tutela cautelare nemmeno sino
alla prima camera di consiglio utile è stata ravvisata dal T.A.R. del Lazio
TEMI ISTITUZIONALI 5
(decreto cautelare n. 817/06) nell’ambito di un ricorso avverso un provvedimento
dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni che aveva intimato
l’inserimento, nella programmazione di una trasmissione televisiva di
approfondimento informativo, della presenza qualificata di un rappresentante
di un partito politico, da effettuarsi prima della data di convocazione dei
comizi elettorali per le elezioni politiche del corrente anno. In proposito, il
T.A.R. ha accolto con decreto monocratico l’istanza cautelare il giorno stesso
in cui doveva andare in onda la trasmissione televisiva oggetto del provvedimento
dell’AGCOM, alla luce dell’esiguità del tempo per reimpostare la
trasmissione già programmata.
In proposito, va rilevato che la legge n. 28/2000 sulla parità di accesso
ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali prevede, all’art. 10,
dei termini particolarmente stringenti sia per il perseguimento da parte
dell’Autorità delle violazioni alla predetta legge, sia per l’impugnazione dei
provvedimenti dell’Autorità che ordinano l’immediata sospensione delle trasmissioni
programmate in violazione della legge o il ripristino dell’equilibrio
degli spazi televisivi riservati ai vari soggetti politici. In particolare, detti
provvedimenti possono essere impugnati nel termine di trenta giorni e, in
caso di richiesta cautelare, le parti possono depositare memorie entro cinque
giorni dalla notifica e la domanda cautelare viene esaminata nella prima
camera di consiglio utile dopo la scadenza del predetto termine e comunque
non oltre il settimo giorno da questo.
In relazione al contenzioso in materia di par condicio, si è verificato che,
stante la possibilità di notificare il ricorso per posta, senza ricorrere all’ufficiale
giudiziario, il ricorso medesimo viene di norma depositato il giorno
stesso della spedizione ma è ricevuto dall’amministrazione il giorno prima o
a volte il giorno stesso della camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza
cautelare, con evidente intollerabile compressione del diritto di difesa.
In proposito, con l’ordinanza n. 168/06, emessa il 6 aprile 2006, tre giorni
prima della data delle elezioni politiche, il T.A.R. del Lazio, pur respingendo
l’istanza cautelare di un partito politico che lamentava di essere stato
pretermesso nei programmi di informazione, sollecitando in proposito il
potere di intervento dell’AGCOM, ha esaminato lo stesso l’istanza cautelare,
nonostante il ricorrente non avesse depositato la prova della ricezione a
mezzo posta del ricorso, in effetti non ancora ricevuto dall’AGCOM alla
data fissata per la camera di consiglio, “ritenuto che appare opportuno, a
garanzia dell’effettività della tutela generale sulla leale competizione politica,
prescindere … dall’eccepita inammissibilità della domanda cautelare per
incompletezza del contraddittorio”. In tal caso quindi l’effettività ed improcastinabilità
della tutela sono stati giudicati preminenti rispetto allo stesso
diritto di difesa dell’altra parte.
12. Tutela cautelare ante causam
Stante l’arricchimento del sistema cautelare delineatosi per effetto della
legge n. 205/2000, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 179/2002, ha
ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 legge
6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
T.A.R., come novellato dalla legge 205/2000, nella parte in cui non prevede
la tutela cautelare ante causam, atteso che “il completo sistema di tutela,
anche di urgenza e cautelare, che riguarda tutte le posizioni azionabili davanti
al giudice amministrativo, senza distinzione tra interessi legittimi e diritti
soggettivi, esclude l’applicabilità di altri istituti propri del processo civile”,
quale l’art. 700 c.p.c., ed è idoneo ad assicurare la tempestività e l’effettività
della tutela anche cautelare.
L’esigenza di una tutela cautelare ante causam è nata sulla scorta della giurisprudenza
comunitaria che, prima con la sentenza 19 settembre 1996, C-
236/95 emessa nei confronti della Grecia, poi con la sentenza 15 maggio 2003,
C-214/2000 emessa nei confronti della Spagna e infine con la sentenza 29 aprile
2004, C-202/03 emessa nei confronti dell’Italia, ha ribadito l’obbligo del
legislatore nazionale di attuare le disposizioni previste dalla c.d. direttiva ricorsi
n. 89/665, conferendo agli organi competenti “la facoltà di adottare, indipendentemente
dalla previa proposizione di un ricorso di merito, qualsiasi provvedimento
provvisorio, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far
sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica dell’appalto”.
13. Tutela cautelare e risarcimento per equivalente
Sempre in materia di appalti pubblici, va ricordato l’art. 14 del D.Lgs. n.
190/2002 attuativo della c.d. legge obiettivo (legge n. 443/2001) che, con
l’intento di imprimere una spinta acceleratoria alla realizzazione delle grandi
opere, ha indotto il legislatore delegato a disporre che “la valutazione del
provvedimento cautelare eventualmente richiesto deve tener conto delle probabili
conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono
essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione
dell’opera”. Il medesimo art. 14 prevede inoltre che “la sospensione
o l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione di prestazioni
pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del contratto eventualmente
già stipulato dai soggetti aggiudicatori; in tale caso, il risarcimento
degli interessi legittimi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione
della reintegrazione in forma specifica”. La disposizione, che muove da
una estrema valorizzazione dell’interesse pubblico, che è considerato a priori
prevalente rispetto a quello del privato, è destinata a sostituire la tutela
cautelare con quella risarcitoria per equivalente in tutti i casi in cui vi sia già
stata la stipulazione del contratto ed in tal senso è stata interpretata dal
Consiglio di Stato che ha respinto l’istanza cautelare a contratto già concluso
(sez. IV, n. 2807 del 2 luglio 2002 e n. 3244 del 30 luglio 2002).
14. Pregiudiziale costituzionale
La centralità, già in sede cautelare, dell’indagine sul fumus, assume rilevanza
anche in relazione alle questioni preliminari o pregiudiziali.
Quanto ai rapporti tra tutela cautelare e pregiudiziale costituzionale, va
ricordato che la giurisprudenza, sul solco già tracciato dalla nota pronuncia
dell’Adunanza plenaria n. 2 del 20 dicembre 1999 in tema di ammissione
con riserva alle prove scritte del concorso per uditore giudiziario dei candi-
TEMI ISTITUZIONALI 7
dati risultati non idonei alla prova preselettiva, ha ritenuto di poter concedere
la tutela cautelare sulla base del mero sospetto di incostituzionalità della
legge, previa formale rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Il T.A.R. Lazio, infatti, con numerose ordinanze (ex multis sez. I, ord.
3306 del 16 giugno 2004) ha ammesso con riserva alle prove scritte del concorso
per uditore giudiziario i candidati in possesso del titolo di avvocato,
ritenendo irragionevole il loro mancato esonero dalla prova preselettiva in
relazione all’esonero invece previsto dalla legge per i candidati in possesso
del diploma di specializzazione per professioni legali. Con separata ordinanza
(ex multis, sez. I, ord. n. 9289 del 16 settembre 2004), il T.A.R. del Lazio
ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme che appunto
non prevedevano l’esonero degli avvocati dalla prova preselettiva.
Tutte le ordinanze cautelari sono state confermate dal Consiglio di Stato
con altrettanti provvedimenti cautelari (ex multis, sez. IV, ord. 3486 del 29
luglio 2004) “ritenuto che al giudice adito in sede cautelare, non può precludersi,
se non a costo di rendere non effettiva e frustranea la tutela giurisdizionale,
in presenza di censure di illegittimità derivanti da norme sulle quali
ricade un sospetto di costituzionalità la cui questione sia già devoluta alla
Corte costituzionale (e la non manifesta infondatezza finisce per coincidere,
in sede cautelare, con il prescritto requisito del fumus boni iuris) il potere di
disapplicare, medio tempore, gli atti normativi in questione e di provvedere
all’ammissione con riserva fino all’esito del giudizio di costituzionalità”.
A fronte della situazione creatasi, nella scelta tra il proseguimento delle
operazioni concorsuali con la partecipazione alle prove scritte, senza previo
esperimento della prova preselettiva, dei soli candidati in possesso del titolo
di avvocato che avevano ottenuto una favorevole ordinanza cautelare, con
l’evidente disparità di trattamento nei confronti di coloro che egualmente
erano avvocati ma che non avevano proposto ricorso e l’alternativa di bloccare
il concorso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, l’amministrazione
ha imboccato una terza via, promuovendo l’emanazione, da parte
del governo, del decreto legge 7 settembre 2004, n. 234, convertito con
modificazioni dalla legge 5 novembre 2004 n. 262, che ha ampliato le categorie
degli aventi diritto all’esonero dalla prova preselettiva includendovi
non solo gli avvocati ma anche altre categorie di soggetti (giudici onorari,
dottori di ricerca e titolari di diplomi di specializzazione diversi da quelli
rilasciati dalle Scuole di specializzazione per professioni legali).
Tale vicenda rende conto ampiamente delle enormi potenzialità riconducibili
alla tutela cautelare per la sua tempestività, celerità ed efficacia, rilevandosi
che nella fattispecie la decisione di merito diviene ovviamente del
tutto superflua, avendo il privato già conseguito tutte le utilità cui tendeva
con l’accoglimento della misura cautelare, la cui portata propulsiva si è
rivolta non solo nei confronti dell’amministrazione ma anche dello stesso
legislatore.
15. Misura cautelare e regolamento di competenza
Altra questione pregiudiziale che assume rilievo nell’ambito del giudizio
cautelare è quella attinente all’incompetenza del T.A.R. adito e alla pos-
8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sibilità di adottare misure cautelari nonostante la proposizione del regolamento
di competenza.
Com’è noto, l’art. 30 della legge T.A.R. prevede, con riferimento al
regolamento di giurisdizione, che “la proposizione di tale istanza non preclude
l’esame della domanda di sospensione del provvedimento impugnato”.
In assenza di un’analoga norma per il regolamento di competenza, la
giurisprudenza ha ritenuto di poter estendere lo stesso principio per evitare
vuoti di tutela in attesa della decisione del Consiglio di Stato. Tale orientamento
è stato fatto proprio anche dall’Adunanza plenaria con la decisione n.
2 del 20 gennaio 1997.
In realtà la scissione tra tutela cautelare e tutela di merito sembra porsi
in contrasto con il principio di cui all’art. 25 Cost. del giudice naturale precostituito
per legge.
Sulla scorta delle modifiche apportate dalla legge 205/2000 che, all’art.
9, ha introdotto la previa delibazione del T.A.R. circa la non manifesta infondatezza
del regolamento di competenza proposto, vanno segnalati alcuni
interventi legislativi e giurisprudenziali che hanno segnato una netta inversione
di tendenza.
Innanzitutto, va sottolineata la portata decisamente innovativa del D.L. 19
agosto 2003 n. 220 convertito in legge n. 280/2003 che, sull’onda del clamore
della vicenda del Catania calcio, ha sancito, all’art. 3, comma 2 che “la competenza
di primo grado spetta in via esclusiva, anche per l’emanazione di misure
cautelari, al T.A.R. del Lazio con sede in Roma. Le questioni di competenza di
cui al presente comma sono rilevabili d’ufficio”. La rilevabilità d’ufficio è senz’altro
un’eccezione rispetto al principio generale di cui all’art. 31 legge
T.A.R.; v’è da chiedersi se anche l’esclusività della competenza ad emettere
misure cautelari da parte del giudice investito del merito possa considerarsi
ugualmente eccezionale. La soluzione negativa sembra senz’altro preferibile.
In proposito, l’inscindibilità tra la competenza del giudice della cautela
e quella del giudice di merito è stata successivamente affermata, salvo “in
casi eccezionalissimi” di assoluta improrogabilità della tutela richiesta, dalla
Corte Costituzionale, con ordinanza 2 marzo 2005 n. 82, riguardante la
vicenda del ponte sullo stretto di Messina.
Dal canto suo, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, con l’ordinanza n. 661 del 28 luglio 2004, ampiamente motivata,
ha annullato, ritenendo inammissibile la domanda cautelare, l’ordinanza di
sospensione emessa da un T.A.R. incompetente dopo l’avvenuta proposizione
del regolamento di competenza che non era stato preventivamente delibato
dallo stesso T.A.R..
Il C.G.A.R.S. ha ribadito l’esigenza che la delibazione sommaria del
regolamento di competenza già proposto preceda quella dell’istanza cautelare,
con la conseguente preclusione dell’adozione di una misura cautelare
quando il regolamento di competenza si appalesi manifestamente fondato.
Viene raggiunto così il giusto punto di equilibrio tra i due principi, entrambi
costituzionalmente rilevanti, del giudice naturale precostituito per legge e
dell’effettività della tutela giurisdizionale.
TEMI ISTITUZIONALI 9
16. Effetti dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare
Il fenomeno del c.d. forum shopping va inoltre arginato anche in relazione
alla tendenza di alcuni T.A.R. ad affermare, talvolta addirittura con decreto
cautelare inaudita altera parte ex art. 9 legge 205/2000, la cessazione
della materia del contendere a seguito dell’esecuzione della misura cautelare
con effetti provvisoriamente satisfattivi per il ricorrente.
In proposito, non può essere invocata la tendenza del legislatore ad introdurre,
con alcuni recenti interventi, una sorta di stabilizzazione degli effetti
della misura cautelare.
Si pensi agli artt. 23 e 24 del D.Lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003 di riforma
del rito societario che stabiliscono che i provvedimenti cautelari ante causam
non perdono efficacia se la causa di merito non viene iniziata o se si estingue
il giudizio di merito.
Si pensi inoltre all’art. 669 octies c.p.c., come modificato con il D.L. 30
dicembre 2005 n. 273 conv. in legge 23 febbraio 2006 n. 51 che, per le misure
cautelari diverse dai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. e diverse
dagli altri provvedimenti idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di
merito, sancisce che l’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia
dei provvedimenti cautelari, anche quando la relativa domanda è stata
proposta in corso di causa.
Innanzitutto la predetta norma non si applica espressamente ai provvedimenti
idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito quali sono tipicamente le
ordinanze cautelari propulsive del giudice amministrativo; in secondo luogo, la
richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 2002 ha precisato che il
legislatore non è tenuto a prevedere per il giudizio cautelare innanzi al giudice
amministrativo regole uniformi rispetto al processo civile; in terzo luogo, dette
norme non disciplinano gli effetti dell’esecuzione dei provvedimenti cautelari.
17. L’Adunanza Plenaria n. 3 del 2003
La giurisprudenza di alcuni T.A.R., sempre contrastata dal giudice di
appello, secondo la quale l’esecuzione doverosa di un provvedimento cautelare
immediatamente esecutivo può comportare, in caso di riesame favorevole,
la cessazione della materia del contendere, prende le mosse dalla nota
decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 27 febbraio
2003 che ha dichiarato l’improcedibilità dell’appello dell’amministrazione
in materia di mancata ammissione alle prove orali dell’esame di avvocato, a
seguito della positiva ricorrezione delle prove scritte.
Va precisato però che, in quel caso, l’amministrazione anziché limitarsi
ad eseguire pedissequamente il provvedimento cautelare, che imponeva solo
una motivazione analitica del giudizio negativo espresso con voto numerico,
aveva proceduto ad una rinnovazione della valutazione andando oltre il decisum
e compiendo quindi un atto del tutto nuovo ed autonomo, svincolato
dalla mera esecuzione del provvedimento cautelare.
Al di là di tale caso isolato, di solito, i T.A.R., in relazione alle procedure
concorsuali ed abilitative, emettono provvedimenti tipicamente propulsi-
10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
vi, che impongono la rivalutazione degli elaborati, dettando all’amministrazione,
tenuta a darvi esecuzione, specifiche disposizioni circa le modalità, le
forme e i tempi del riesame.
In tali casi il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’attività espletata dall’amministrazione
non può ritenersi espressione di autonoma scelta discrezionale,
in quanto imposta dall’imprescindibile esigenza di eseguire l’ordinanza
cautelare, procedendo nelle forme da questa puntualmente dettate. Ha
altresì precisato che la mera esecuzione puntuale di un’ordinanza cautelare
di tipo propulsivo (peraltro impugnata in appello) non costituisce attività di
autotutela e non può comportare il venir meno della res litigiosa in quanto le
utilità cui il ricorrente aspira saranno invece ritraibili solo quando una sentenza
di merito favorevole passata in giudicato avrà annullato il provvedimento
impugnato di non ammissione alle prove orali (Cons. Stato, sez. IV,
21 novembre 2003 n. 7634; id., 21 novembre 2003 n. 7630).
La nuova valutazione, effettuata in esecuzione dell’ordinanza cautelare,
non ha quindi alcuna attitudine a sostituirsi in toto e definitivamente al giudizio
negativo in sede di valutazione delle prove scritte ma è destinata a
regolare l’assetto dei rapporti tra le parti unicamente nelle more dell’esito del
giudizio di merito.
L’utilità della misura cautelare è infatti quella di ammettere con riserva
la parte ricorrente a sostenere le prove orali in condizioni di par condicio con
gli altri candidati, sempre a condizione che il giudizio di merito si concluda
favorevolmente alla stessa.
Peraltro, che lo stesso esito della nuova valutazione abbia carattere provvisorio,
conformemente alla natura interinale propria del giudizio cautelare,
non può essere posto in dubbio, tanto è vero che, qualsiasi giudizio emesso
in esecuzione dell’ordinanza di sospensione, sia esso positivo o nuovamente
negativo, non può in alcun modo impedire al giudice del merito di travolgerlo
con una sentenza di segno opposto, laddove ritenga insussistenti (o sussistenti)
– da un più approfondito esame - i vizi del provvedimento impugnato
riscontrati nella delibazione sommaria della fase cautelare.
Con la pronuncia di merito, infatti, cessa ogni efficacia dell’ordinanza
cautelare, come di ogni eventuale atto adottato in esecuzione della stessa.
L’istanza di sospensione, infatti, è strumentale rispetto alla statuizione
del giudice di merito ed è destinata ad essere assorbita da quest’ultima, senza
che i contenuti della sentenza che definisce il giudizio possano in alcun
modo essere condizionati dai provvedimenti adottati medio tempore dall’amministrazione
in esecuzione della misura cautelare.
Difficilmente può quindi concordarsi con l’orientamento di alcuni
T.A.R. che ritengono che la nuova valutazione delle prove scritte sia idonea
a comportare la cessazione della materia del contendere, in quanto destinata
a sovrapporsi e ad elidere quella originaria atteso che, in tal modo, la doverosa
ottemperanza alla misura cautelare, volta ad assicurare l’utilità degli
effetti dell’emananda sentenza di merito, diverrebbe paradossalmente ostativa
alla pronuncia di quest’ultima mentre il consolidamento degli effetti della
misura cautelare, per sua natura interinale e provvisoria, non può che deriva-
TEMI ISTITUZIONALI 11
re dalla conferma e dall’assorbimento della stessa nella pronuncia con cui
viene definito il giudizio.
L’infondatezza di tale assunto è evidente atteso che, altrimenti, l’esecuzione
di un’ordinanza immediatamente esecutiva - che, si ribadisce, costituisce un
comportamento doveroso per l’amministrazione - la renderebbe per ciò solo
inoppugnabile, in spregio al principio del doppio grado di giurisdizione.
L’esercizio del potere di impugnazione rimarrebbe infatti totalmente frustrato
laddove si ritenesse che l’eventuale riforma del provvedimento impugnato
non consenta di eliminare anche tutti gli effetti sfavorevoli derivanti
dallo stesso ed in primo luogo quelli connessi alla sua esecuzione.
Tale principio è chiaramente affermato dall’art. 336, comma 2 c.p.c. che
disciplina il c.d. effetto espansivo esterno della riforma o della cassazione
della sentenza sui provvedimenti e gli atti dipendenti dalla stessa.
Nell’ambito di operatività della predetta norma, la giurisprudenza ha
ricompreso non solo la sentenza definitiva rispetto alla sentenza non definitiva
riformata o cassata e i provvedimenti di natura istruttoria o decisoria
adottati in altro procedimento ma anche gli atti di esecuzione forzata o spontanea
compiuti in forza di sentenza esecutiva in seguito riformata (Cass.
SS.UU. 1669/82; Cass. SS.UU. 2872, 2873, 2874 del 10 maggio 1982; Cass.
SS.UU. 139 e 144 dell’8 gennaio 1983 e Cass. 4328/83).
La Suprema Corte ha inoltre più volte ribadito come l’esecuzione spontanea,
da parte del soccombente, della sentenza esecutiva, ancorché senza
riserve, non implichi acquiescenza (Cass. 66368/86; Cass. 2823/92), trattandosi
di comportamento necessitato, imposto dal comando contenuto nel
provvedimento giurisdizionale e suscettibile di esecuzione coattiva.
Del resto sarebbe contrario ad ogni logica ritenere che l’attività posta in
essere in esecuzione di un provvedimento giurisdizionale esecutivo, in pendenza
dell’appello, possa sopravvivere all’eventuale annullamento della pronuncia
di cui costituisce mera attuazione, salvo a voler privare l’istituto dell’impugnazione
della finalità che gli è propria e cioè quella di rimuovere il
provvedimento sfavorevole ed ogni suo effetto.
18. Art 4 comma 2 bis legge 168/2005
Un cenno va fatto all’art. 4, comma 2 bis, D.L. 30 giugno 2005 n. 115
convertito nella legge 17 agosto 2005 n. 168, recante “elezioni degli organi
degli ordini professionali e disposizioni in materia di abilitazioni professionali”,
in base al quale “conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale
o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per
partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed
orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione
della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito
di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”.
Alla luce di tale norma, l’amministrazione si è trovata costretta ad impugnare
in tempi ristrettissimi tutte le ordinanze cautelari emesse in materia di
esame per l’abilitazione alla professione forense con richiesta di misura cautelare
inaudita altera parte onde evitare il prodursi di effetti potenzialmente
12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
irreversibili che ponessero nel nulla l’appello, pur proposto nei termini, ma
non in tempo utile perché potesse essere esaminato prima dell’esecuzione
delle ordinanze impugnate.
Il Consiglio di Stato ha emesso numerosi decreti cautelari provvisori ex
art. 3 legge 205/2000 per tentare di arginare il fenomeno scatenato dalla predetta
norma che, come prevedibile, ha fatto crescere a dismisura il contenzioso,
atteso che la possibilità di poter beneficiare velocemente di una “seconda
chance” di valutazione si è accompagnata alla speranza di “saltare” sia il processo
di merito, sia, soprattutto, il giudizio di impugnazione che era precedentemente
il principale ostacolo per il ricorrente, stante il consolidato orientamento
del Consiglio di Stato contrario alle aperture di alcuni T.A.R. in tema di
insufficienza del voto numerico, di sindacabilità del giudizio tecnico discrezionale
della commissione esaminatrice, di infungibilità dei membri della commissione,
di incongruità dei tempi di correzione ed in relazione ad altre censure
ricorrenti e costantemente disattese dal Giudice di secondo grado.
In proposito, va sottolineato che la disposizione più volte richiamata
finisce per privilegiare chi è riuscito ad ottenere più velocemente l’esecuzione
dei provvedimenti cautelari, per ragioni del tutto contingenti e fattuali,
pur in presenza delle medesime censure.
Ne deriva infatti la palese disparità di trattamento in situazioni del tutto
identiche ed il totale svilimento del corretto ed equanime procedimento di
accesso alla professione forense, con evidente danno, in definitiva, non solo
all’interesse pubblico ma alla stessa categoria degli avvocati.
La norma in questione si traduce inoltre in un’inammissibile compromissione
del diritto di difesa dell’amministrazione (art. 24 Cost.) che si ritrova
privata del giudizio di merito e del giudizio di impugnazione nonchè del
principio di eguaglianza (art. 3), trovando applicazione, per una certa categoria
di controversie e senza alcuna giustificazione, un rito diverso da quello
applicabile nella generalità dei casi, che potrebbe esaurirsi – in alcune ipotesi
ed in altre no, solo per ragioni temporali, come tali del tutto contingenti
- nella fase cautelare e per giunta in unico grado.
Che il fatto storico dell’avvenuto superamento delle prove scritte ed
orali possa impedire la proposizione del gravame o vanificarne gli effetti se
già proposto e non ancora deciso, viola chiaramente sia l’art. 103 Cost. che
prevede la giuridizione del Consiglio di Stato, la cui funzione viene svuotata
di ogni pratica utilità, sia l’art. 113 Cost., in base al quale la “tutela giurisdizionale
non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione
o per determinate categorie di atti”, sia l’art. 25 Cost. che prevede il
giudice naturale precostituito per legge, atteso che il ricorso innanzi ad un
T.A.R. incompetente e scelto per la sua giurisprudenza favorevole - sebbene
contrastante con quella del giudice d’appello - rende inoperante ogni rimedio,
ivi compreso il regolamento di competenza.
Senza considerare la lesione che deriva ai principi di cui all’art. 97 Cost
che regola, oltre all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione,
anche l’accesso ai pubblici impieghi mediante pubblico concorso
fondato sull’anonimato.
TEMI ISTITUZIONALI 13
Con la sentenza n. 1791 del 6 aprile 2006, il Consiglio di Stato, nel ricordare
i principi consolidati della strumentalità e provvisorietà della misura
cautelare, la cui doverosa esecuzione non comporta acquiescenza, ha dovuto
ammettere, dichiarando l’improcedibilità dell’appello dell’amministrazione,
che gli stessi “sono completamente ribaltati per volontà e per effetto dell’art.
4 comma 3 della legge 168/2005” e che “l’art. 4 comma 2 bis legge
168/05 sovverte, per legge, inoltre, il su ricordato principio della continenza
del rimedio cautelare, che non può, di regola, comportare effetti ulteriori
(che eventualmente sono determinati solo dalla successiva fase di esecuzione)
rispetto a quelli determinati dall’esito positivo del giudizio di merito …”.
I dubbi di costituzionalità della norma sono stati confermati dall’ordinanza
n. 479/06 del 28 luglio 2006 del Consiglio di Giustizia Amministrativa
per la Regione Siciliana che ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4, comma 2 bis della legge n. 168/05 per violazione degli artt.
3, 24, 25, 101, comma 2, 104 comma 1, 111 comma 2 e 113 Cost.
Va ricordato inoltre che con le sentenze n. 4582, 4583, 4584 e 4585 del
18 luglio 2006, n. 5743, 5744 del 2 ottobre 2006 e n. 6170 del 16 ottobre
2006, il Consiglio di Stato ha poi cercato di arginare gli effetti della suddetta
norma, escludendone l’applicazione ai concorsi ed alle procedure selettive
a numero chiuso.
Il Consiglio di Stato ha affermato che sia sul piano letterale, sia su quello
sistematico “risulta evidente la necessità di applicare la normativa in rassegna
in modo costituzionalmente orientato e quindi rifiutandone interpretazioni
estensive che ne minerebbero irrimediabilmente la ragionevolezza. In
questa ottica è infatti da rilevare che tra le procedure di stampo idoneativo e
quelle concorsuali o selettive propriamente dette sussiste una radicale ed
ontologica differenziazione”.
Nelle citate decisioni, il Consiglio di Stato ha inoltre precisato che “l’applicazione
del comma 2 bis anche ai concorsi (come quello notarile) per il
conferimento di posti a numero limitato è impraticabile perché lede – oltre
alle garanzie di difesa dell’Amministrazione – la posizione degli altri concorrenti,
i quali hanno diritto ad ottenere dal giudice una pronuncia di merito
che accerti definitivamente se l’ammissione (o la rinnovata valutazione
delle prove) del loro antagonista fosse o meno legittima”.
È stato inoltre confermato il definitivo abbandono dell’orientamento
fondato sul c.d. principio dell’assorbimento, risalente all’isolata pronuncia
dello stesso Consiglio di Stato n. 2191/2001, già superata dalla decisione
della medesima sezione n. 2794/2004, chiarendo che “il superamento della
preselezione costituisce un vero e proprio titolo di ammissione alle prove
scritte, in un contesto in cui la procedura si articola dunque in tre scansioni
che vanno tutte autonomamente superate”.
In attesa di una presa di posizione della Consulta, appare quindi quanto
mai opportuna un’interpretazione restrittiva della norma in questione.
14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte
europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi
più recente
di Andrea Guazzarotti (*) e Angela Cossiri (**)
1. La condanna della Corte europea può travolgere il giudicato interno?
La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), analizzata in passato prevalentemente sotto il profilo
del suo rango nel sistema italiano delle fonti (1), è oggi sempre più al
centro d’interesse per il diverso profilo della forza vincolante delle sentenze
di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo negli ordinamenti
nazionali (2). Alcuni recenti casi hanno interessato anche il nostro ordinamento
e i nostri giudici, ormai giunti a prese di posizione particolarmente
avanzate. La più importante e recente di queste vicende giurisprudenziali
sembra quella culminata nella sentenza della Cassazione nel caso Somogyi
(3), in tema di giudizio contumaciale, dove il giudice di legittimità ha formu-
I L C O N T E N Z I O S O
C O M U N I TA R I O
E D I N T E R N A Z I O N A L E
(*) Professore Associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara, autore dei
paragrafi 1,3, 5.
(**) Avvocato del Foro di Terni e Dottore di ricerca in Diritto costituzionale,
Università di Ferrara, autrice dei paragrafi 2,4 e 6.
(1) Cfr. la panoramica offerta da G. SORRENTI, Le Carte internazionali sui diritti umani:
un’ipotesi di “copertura” costituzionale “a più facce”, in Pol. dir. 1997, 363 ss.
(2) Cfr. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei
diritti dell’uomo, Milano 2004, passim; B. RANDAZZO, Giudici comuni e Corte europea dei
diritti, in FALZEA, SPADARO, VENTURA, La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Torino
2003, 217 ss.; G. GRECO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto amministrativo
italiano, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2000, 37 ss.
(3) Cass., Sez. I pen., sent. 12 luglio 2006, n. 32678 (dep. 3 ottobre 2006), reperibile al
sito internet www.eius.it .
lato il seguente principio di diritto: «nel pronunciare su una richiesta di
restituzione nel termine per appellare proposta da un condannato dopo che
il suo ricorso è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il giudice
è tenuto a conformarsi alla decisione di detta Corte, con cui è
stato riconosciuto che il processo celebrato “in absentia” è stato non equo:
di talché il diritto al nuovo processo non può essere negato escludendo la
violazione dell’art. 6 della Convenzione europea, (…) né invocando l’autorità
del pregresso giudicato formatosi in ordine alla ritualità del giudizio
contumaciale in base alla normativa del codice di procedura penale».
Si tratta, come si vede, di un principio che instaura un collegamento
diretto tra il giudizio di Strasburgo e quello dinanzi al giudice italiano, quasi
a configurare un vero e proprio quarto grado di giudizio (4). La decisione
non giunge isolata, ed è frutto di un’evoluzione che negli ultimi anni ha portato
sempre più spesso il giudice nazionale a confrontarsi con pronunce della
Corte europea, non solo sull’interpretazione da dare a un certo diritto (equo
processo, diritto di proprietà, ecc.), bensì anche sulla valutazione da dare agli
stessi fatti (5).
16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(4) Nonostante il fallimento delle proposte legislative finora avanzate in Italia per introdurre
proprio la possibilità di riaprire il processo, a seguito di condanna della Corte europea
che abbia, appunto, giudicato quel processo non equo, ex art. 6 CEDU. Cfr., da ultimo, il
d.d.l. n. 3354, Atto Senato, che, contestualmente alla ratifica del 14° Protocollo aggiuntivo
alla CEDU (proprio in tema di efficacia delle sentenze della Corte europea, non ancora in
vigore), prevedeva l’introduzione di nuove ipotesi di revisione e revocazione a seguito di
sentenza di Strasburgo, e tuttavia la legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo (l. 15
dicembre 2005, n. 280) non contiene alcuna norma di modifica dei codici di procedura, limitandosi
al solo ordine di esecuzione (cfr. B. NASCIMBENE, Violazione «strutturale», violazione
«grave» ed esigenze interpretative della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in
Riv. dir. internaz. priv. proc. 2006/3, p. 655; P. TANZARELLA, Nuovi compiti al Presidente del
Consiglio per l’esecuzione delle sentenze di Strasburgo, in Quad. cost., 2/2006, 372).
(5) Cfr., senza pretese di completezza, Cass., Sez. I civ., ord. 23 marzo 2005, n.
6324/2005, Gizzi c. Comune di Ceprano (in www.dirittiuomo.it), in materia di espropriazione,
che, preso atto della pendenza sullo stesso oggetto della causa di un processo dinanzi a
Strasburgo, ha deciso il rinvio della trattazione al fine di «attendere la decisione della
Grande Chambre onde evitare possibili contrasti di giudicato»; cfr. anche la sentenza con
cui la Cassazione (sez. I pen., sent. 22 settembre-3 ottobre 2005, n. 35616, in Guida al dir.
2005, n. 43, 84) ha invitato il giudice dell’esecuzione penale a valutare se la CEDU «precluda
l’esecuzione nell’ordinamento italiano di una sentenza di condanna emessa a conclusione
di un processo giudicato “non equo” dalla Corte (europea…), ovvero se, in assenza di
un apposito rimedio previsto dall’ordinamento interno, debba comunque prevalere il giudicato
(italiano)»; cfr. anche l’ordinanza adottata il 18 settembre 2000 dal Tribunale per i
minorenni di Firenze, in “ottemperanza” alla sent. Scozzari e Giunta c. Italia, del 13 luglio
2000 (cfr. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti
dell’uomo, cit., 112 ss.). Di particolare rilievo anche l’ordinanza della Corte d’Appello di
Bologna, 22 marzo 2006, n. 337, in G.U., 1^ Serie speciale, n. 39, 27 settembre 2006, con
cui viene sollevata la questione di legittimità costituzionale sull’art. 630, lett. a), c.p.p., nella
parte in cui esclude, dai casi di revisione del processo, l’impossibilità che i fatti stabiliti a
fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza definitiva
della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del procesNella
Cassazione Somogyi, cit., si è affermato un principio – apparentemente
“dirompente” – di piena vincolatività per il giudice italiano delle sentenze
di condanna pronunciate a Strasburgo sugli stessi fatti oggetto di causa.
È interessante notare come la Cassazione incentri il suo discorso sull’art. 46
CEDU (“Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”) (6), aderendo
espressamente alla dottrina che lo intende diretto non solo allo Stato-persona,
bensì anche ai suoi organi, giudici compresi (7). Per giungere a simile risultato,
la Cassazione si appoggia, da un lato, sulle spalle del legislatore interno
(8), da un altro, sulla precedente “dottrina” delle Sezioni Unite civili, circa la
vincolatività della giurisprudenza di Strasburgo ai fini dell’applicazione della
legge “Pinto” (9). Secondo quest’ultimo – ben consolidato – orientamento,
l’applicazione della disciplina interna volta ad assicurare un “equo indennizzo”
ai soggetti vittime dell’irragionevole durata di un processo non può che
conformarsi alle nozioni di “irragionevole durata”, “vittima”, “equo indennizzo”
fornite dalla giurisprudenza di Strasburgo (10). E ciò, non tanto in virtù
della forza di giudicato di queste ultime, ai sensi dell’art. 46 CEDU, bensì in
virtù della stessa ratio della legge Pinto (esigenze deflattive del contenzioso
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17
so, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, per contrasto con gli artt. 3, 10 e 27 Cost. Va sottolineato
come, prima di sollevare la questio legitimiatis, il giudice ha sospeso, con separata ordinanza,
l’esecuzione della pena ex art. 635 c.p.p. (potestà che la Corte d’appello può esercitare
solo a seguito di apertura di un giudizio di revisione), proprio «in ossequio… alla forza
vincolante delle sentenze della Corte europea», ex art. 46 CEDU, oltre che in considerazione
della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
(6) «Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della
Corte sulle controversie nelle quali sono parti. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa
al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione».
(7) Cfr. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei
diritti dell’uomo, cit., 127, e dottrina ivi citata. Per la letteratura europea, tra gli altri, C.
GRABENWARTER, Europäische Menschenrechtskonvention, München 2005, 95; E. LAMBERT,
La pratique rècente de rèparation des violations de la Convention européenne de sauvegarde
des droits de l’homme et des libertés fondamentale, in Rev. trim. dr. h., 2000, 207.
(8) Deducendo dalla ratifica del Protocollo n. 14 addizionale alla CEDU, avvenuta con
legge n. 280 del 2005, cit., la «precisa volontà del legislatore (italiano) di accettare incondizionatamente
la forza vincolante delle sentenze della Corte di Strasburgo» (§ 10). Si tratta di
un’argomentazione discutibile, poiché il Protocollo (modificante, tra l’altro, l’art. 46 CEDU,
sulla forza vincolante delle condanne di Strasburgo), oltre a non essere ancora in vigore, si
limita a prevedere (all’art. 16) un ricorso alla Corte europea sollevato dal Comitato dei ministri
nel caso in cui lo Stato membro «rifiuti di conformarsi» a una condanna di questa, ammettendo
dunque la possibilità di “non diretta applicabilità” interna delle sentenze di Strasburgo.
(9) Legge 24 marzo 2001, n. 89, “Previsione di equa riparazione in caso di violazione
del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura
civile”.
(10) Cass., S.U. civ., sentt. 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339, 1340, 1341, in Giust. civ.,
2004, 907 ss., e in Giur. it., 944 ss, cui adde la sent. n. 28507 del 23 dicembre 2005, in
www.dirittiuomo.it. Sulla vicenda, cfr. R. RAIA, L’equa riparazione per la durata irragionevole
dei processi nel dialogo tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo, in www.forumcostituzionale.
it .
italiano a Strasburgo sull’irragionevole durata dei processi) (11), tale da rendere
irrazionale un’autonoma (e più restrittiva) interpretazione del giudice
nazionale sui requisiti per accedere al rimedio offerto dall’art. 6.1 CEDU. Si
tratta, evidentemente, di un contesto ben diverso e circoscritto rispetto alle
generalizzazioni della Cassazione Somogyi. E, tuttavia, un simile schema si
sarebbe potuto, forse, applicare anche al caso del giudizio contumaciale,
posto che la disciplina processualpenalistica introdotta con il nuovo art. 175
c.p.p. (12) si fonda espressamente sull’esigenza di rimediare alle condanne
subite dall’Italia a Strasburgo per la contrarietà tra la previgente disciplina
contumaciale con l’art. 6 CEDU (13). Di nient’altro si tratterebbe, dunque,
che di interpretazione conforme della legge interna rispetto alla disposizione
internazionale, secondo la migliore dottrina internazionalistica (14).
2. Travolgimento del giudicato o mera interpretazione conforme alla CEDU
della disciplina processualpenalistica?
Come già rilevato, la sentenza della Cassazione Somogyi stabilisce due
principi: l’obbligo per il giudice di conformare la propria decisione all’accertamento
fatto a Strasburgo rispetto alla compatibilità con l’art. 6 CEDU dello
svolgimento del processo; l’impossibilità per il giudice di sottrarsi al vincolo
della sentenza europea, invocando l’autorità del giudicato che consegue
all’applicazione del rito processuale italiano. Per quanto riguarda questo
secondo profilo, la novità potrebbe essere più apparente che reale, ove si
tenga in considerazione l’entrata in vigore della modifica di cui all’art. 175
c.p.p., applicabile al caso di specie in virtù del principio tempus regit actum
(15). Tra l’altro, l’assenza di una norma italiana che contrasti la restitutio in
18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(11) Come noto, era stata la stessa Corte europea a “suggerire” all’Italia simile rimedio
(Brusco c. Italia, 6 settembre 2001): cfr., tra gli altri, F. RIGANO, La Corte di Strasburgo
s’arrende e il legislatore italiano trasforma in moneta il diritto alla ragionevole durata del
processo, in FALZEA, SPADARO, VENTURA, La Corte costituzionale e le Corti d’Europa,
Torino 2003, 499.
(12) Legge 22 aprile 2005, n. 60 di conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17.
(13) Come la stessa Cassazione Somogyi, cit., riconosce al punto 13: «Che il nuovo art.
175 c.p.p. costituisca, nel caso di specie, strumento idoneo per consentire quella restitutio in
integrum invocata dalla Corte di Strasburgo non può essere seriamente revocato in dubbio,
sol che ci si soffermi sul tenore della Relazione che accompagna il disegno di legge per la
conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17. Nel documento, non a caso richiamato
dal ricorrente, si afferma la necessità della modifica normativa al fine di adeguare il
nostro ordinamento alla giurisprudenza della Corte europea, citando espressamente, tra l’altro,
proprio il caso “Somogyi contro l’Italia” concluso con la sentenza 18 maggio 2004».
(14) B. CONFORTI, Diritto internazionale, VI ed., Napoli 2002, 320 ss.
(15) La sentenza Somogyi, cit., dà conto della tempestività della richiesta di restituzione
nel termine, che ai sensi del comma 2-bis dell’art. 175 c.p.p. deve avvenire entro 30 giorni dall’effettiva
conoscenza del provvedimento. Più precisamente, secondo la Cassazione, la difesa
Somogyi ha rispettato il termine di decadenza poiché l’“istanza di revisione processuale”, presentata
dal ricorrente pochi giorni prima dell’entrata in vigore del d.l. 21 febbraio 2005 n. 17,
integrum può essere la ragione per cui la sentenza non affronta i temi generali
del rango della Convenzione e delle sue applicazioni giurisprudenziali,
nonché del meccanismo teorico che giustifica la loro prevalenza.
In conseguenza della novella legislativa, nel caso di specie, l’imputato
ha il diritto di ottenere la rimessione nei termini per l’impugnazione, posto
che l’accertamento fatto a Strasburgo è vincolante per il giudice italiano. In
effetti, la modifica legislativa prevista dalla legge n. 60 del 2005 ha prodotto
un allargamento delle ipotesi in cui è ammessa l’impugnazione tardiva
delle sentenze contumaciali, sostituendo alla prova della non conoscenza del
procedimento una presunzione di non conoscenza (16); con il nuovo art. 175,
comma 2, c.p.p., quindi, è lo stesso ordinamento italiano a prevedere una
causa di arretramento del “giudicato” non correttamente formatosi, quando
la sentenza di condanna sia contumaciale, salvo che l’imputato abbia avuto
effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento; e la sentenza
della Corte europea ha accertato, nel caso Somogyi, che questa effettiva
conoscenza non vi è stata.
Da questa interpretazione sembra derivare, come regola generale, che, in
tutti i casi in cui non vi sia stata conoscenza dell’avvio del procedimento
penale, il mezzo di impugnazione “restituito” ex art. 175, c. 2, c.p.p., dovrebbe
essere ordinario e precisamente dovrebbe trattarsi dell’appello; in questo
modo, la disposizione potrebbe coprire anche i casi di passaggio in giudicato
della sentenza per esaurimento dei mezzi di impugnazione ordinari. In
queste situazioni, infatti, è in primo grado che è mancata la conoscenza del
procedimento e tutto il successivo iter processuale non si è correttamente
formato. Così inteso, l’art. 175, comma 2, potrebbe coprire anche la carenza,
nella disciplina processuale italiana, di un motivo di revisione ad hoc per
il caso della sentenza contumaciale, quando vi sia un contrasto tra il giudicato
nazionale e quello europeo (17).
3. I vincoli derivanti dalle pronunce di Strasburgo e la loro base normativa
Nonostante simile possibilità di interpretazione conforme della nuova
legge italiana, le peculiarità del caso assieme all’evoluzione della giurisprudenza
di Strasburgo in tema di effetti delle proprie condanne (artt. 41 e 46
CEDU) hanno spinto la Cassazione così in avanti, fino a ritenere il giudizio
di Strasburgo come un vero e proprio ulteriore grado di giudizio rispetto a
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19
deve essere riqualificata come “istanza di rimessione in termini” alla luce dello ius superveniens;
tale possibilità deriva dall’applicazione dei principi di successione delle leggi nel tempo,
di conservazione degli atti processuali e del favor rei (cfr. punto 12 delle osservazioni).
(16) Cass. pen., Sez. I, 10 maggio 2006, n. 16002.
(17) Peraltro, una diversa interpretazione, che limitasse l’applicazione dell’art. 175, co.
2, c.p.p., ai soli casi in cui non sono stati esauriti i mezzi di impugnazione ordinari, potrebbe
rappresentare un’ingiustificata discriminazione rispetto a situazioni in cui la sentenza si
divenuta definitiva in primo o secondo grado.
quelli interni, dotato della forza di vincolare il giudice nazionale successivamente
investito della stessa questione (18).
La vicenda in commento appare l’ultima di una serie di casi con cui vengono
ribaltate due vulgate sul meccanismo di protezione offerto dalla CEDU.
Da un lato, quella per cui la Corte europea non giudica la normativa nazionale,
sotto il profilo della compatibilità o meno con la Convenzione, bensì giudica
solo sul caso del ricorrente, con effetti inter partes (19). In realtà, per restare
al solo caso della contumacia, la Corte di Strasburgo inequivocabilmente ha
censurato la disciplina italiana sulla materia, tanto da farla modificare a più
riprese (20). Da un altro lato, la vulgata per cui il giudice nazionale non ha
alcun legame processuale diretto con i giudici della Convenzione (inesistenza
del rinvio pregiudiziale, come previsto dall’art. 234 TCE per la Corte di
Giustizia), potendo al massimo utilizzare quella giurisprudenza a fini interpretativi
della Convenzione, quale disciplina astratta vigente nel proprio ordinamento
(21). Lo stesso meccanismo internazionalistico dell’esaurimento dei
20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(18) La Cassazione Somogyi, cit., appare intendere in modo ampio – non limitato al
giudizio contumaciale – la vincolatività delle condanne di Strasburgo: ad esse il giudice
italiano dovrebbe conformarsi «anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione,
attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato
» (§ 11).
(19) Cfr., ad es., Cass., S.U., sent. 31 gennaio 1987, in Giust. pen. 1987, III, 200.
(20) Sent. 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia, §§40 s., §55 (di poco successiva alla
decisione Somogyi c. Italia, del 18 maggio 2004, cit.) secondo cui i rimedi adottati dal legislatore
italiano (legge 23 gennaio 1989, n. 22) a seguito della condanna della stessa Corte
europea nel caso Colozza del 12 febbraio 1985 in tema di giudizio contumaciale (nuovo art.
175 c.p.p.) non hanno permesso di raggiungere il risultato richiesto dall’art. 6 CEDU, rilevando,
ai sensi dell’art. 46 CEDU, una situazione di natura strutturale che impone l’adozione
di misure generali in attuazione della sentenza stessa. A ciò ha fatto seguito l’adozione
del D.L. n. 17/2005, convertito in legge n. 60/2005. Su questa modifica, la Corte europea
(Grande Camera) ha avuto modo di pronunciarsi (sent. 1 marzo 2006, Sejdovic c. Italia), ma
in modo interlocutorio (posto che la nuova disciplina non era applicabile al caso in oggetto),
affermando la necessità di verificare come le giurisdizioni interne daranno applicazione
a tale novella (§123).
Per la disciplina italiana sulla c.d. espropriazione indiretta, o occupazione acquisitiva,
alle condanne dell’Italia nei casi Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura (entrambi
del 30 maggio 2000), in cui la Corte europea abbastanza chiaramente evidenziava l’incompatibilità
in astratto dell’istituto in questione con la Convenzione, seguivano una serie di
pronunce della Cassazione tese a confinare gli effetti di quelle condanne entro le sole fattispecie
decise da Strasburgo (tra le tante, Cass. S.U., sent. 14 aprile 2003, n. 5902, in Giur.
it. 2003, 2244; Id., sent. 6 maggio 2003, n. 6853, in Foro it. 2003, I, 2368), pronunce contraddette
da innumerevoli condanne dell’Italia, in cui la Corte europea ribadisce l’incompatibilità
dell’istituto dell’espropriazione “sine titulo”, ammettendo anche domande non precedute
dall’esaurimento dei ricorsi interni, sull’implicito presupposto che è la legge e non la
sua applicazione a confliggere con la CEDU (cfr., tra i tanti, i casi Scozzari e altri, del 15
dicembre 2005; Serrilli, del 6 dicembre 2005; Binotti n. 2, del 13 ottobre 2005; Istituto diocesano
per il sostentamento del clero, del 17 novembre 2005).
(21) Cass., sez. I civ., sent. 10 aprile 2003, n. 5664, in Foro it. 2005, I, 191.
ricorsi interni, quale condizione di proponibilità del ricorso a Strasburgo (22),
sembra, del resto, presupporre il formarsi di un giudicato interno che i giudici
europei in nessun modo possono travolgere. Ma, nuovamente, il caso in questione
smentisce simile schema rassicurante: il giudice nazionale è vincolato
anche alla valutazione in concreto svolta da Strasburgo (23).
Stiamo assistendo a una forzatura della Convenzione, tanto da parte del
giudice europeo che di quello italiano? Sembra che ciò possa escludersi, alla
luce dei dati testuali della Convenzione stessa. Quanto al potere di valutare
l’incompatibilità anche astratta tra normazione interna e le norme CEDU
fatte valere, in virtù dell’art. 41 combinato con l’art. 46, e con il più generale
principio di collaborazione tra Stati membri e organi del Consiglio
d’Europa, non può ritenersi affatto arbitrario che la Corte evidenzi chiaramente,
tra i motivi di condanna, il fondamento anche normativo delle violazioni
interne della Convenzione, permettendo allo Stato membro e ai suoi
organi di porvi rimedio in modo efficace, al fine di evitare il perpetuarsi di
ricorsi e condanne “seriali” (lo Stato è messo nella condizione di sapere chiaramente
come evitare future condanne; la Corte non sarà più intasata da
ricorsi sullo stesso oggetto) (24). L’unica obiezione di tenore formale potrebbe
appunto essere quella per cui la Corte, come qualsiasi giudice internazionale,
è tenuta soltanto a pronunciarsi sul vincolo di risultato imposto dalla
norma pattizia di volta in volta invocata, non sui mezzi precisi cui lo Stato
membro deve far ricorso. Ma si tratta di un’impostazione che ormai non
regge più con il sistema CEDU, per come esso si è evoluto e per le dimensioni
che esso ha raggiunto (si pensi solo all’allargamento dei Membri della
Convenzione e alla paralisi cui andrebbe incontro la Corte europea, in caso
di ricorsi seriali). Un’impostazione, appunto, tipicamente internazionalistica,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21
(22) Art. 35 CEDU, su cui cfr. R. PISILLO MAZZESCHI, Art. 35, Condizioni di ricevibilità,
in S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI (cur.), Commentario alla Convenzione europea
per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova 2001, 586, 595.
(23) In particolare, nel caso Somogyi, la valutazione sull’autenticità della firma del contumace,
più in generale, sulla natura indimostrata della volontaria sottrazione al processo,
quale presupposto per il giudizio in contumacia (Cass., Sez. I pen., 12 luglio-3 ottobre 2006,
cit.). Cfr. l’ordinanza della Corte d’Appello di Bologna,15 marzo-21 marzo 2006, cit., in cui
si lamenta l’irragionevole disparità di trattamento tra il caso in cui il giudizio di revisione,
ex art. 630 lett. a), c.p.p., può essere aperto laddove vi sia contrasto tra fatti stabiliti nella
sentenza di condanna e quelli stabiliti nella sentenza penale di altro giudice, e il caso in cui
tale contrasto sussista rispetto un accertamento contenuto in una sentenza della Corte europea
(ove questa sia entrata nel merito della legittimità delle prove già acquisite e, dunque,
dei fatti accertati dalla sentenza di condanna irrevocabile, dimostrandone l’inconsistenza).
(24) Cfr. la Risoluzione, Res.(2004)3, § I, nonché la Raccomandazione, Rec (2004)6,
adottate entrambe dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 maggio 2004
(reperibili al sito ufficiale: http://www.coe.int/t/cm/home_fr.asp), cui ha fatto seguito la sentenza
della Corte europea del 22 giugno 2004, Broniowski c. Polonia, § 193. Cfr., in dottrina,
M. DE SALVIA, La Cour Européenne des Droits de l’Homme est-elle, par la nature de
ses arrets, un veritable tribunal de pleine juridiction?, in Rev. trim. dr. h. (67) 2006, 495.
che ha in mente una Corte internazionale occupata con pochi ricorsi interstatuali
di portata intrinsecamente politica, piuttosto che una Corte chiamata a
pronunciarsi su un numero aperto di ricorsi individuali, in modo pienamente
“terzo” rispetto agli Stati membri (25).
Per ciò che riguarda il vincolo delle sentenze di condanna CEDU in termini
di puntuale accertamento di violazioni, destinato a ripercuotersi sul giudizio
interno, occorre rilevare come simile meccanismo non sia affatto escluso
dagli art. 41 e 46 della Convenzione. Partendo dal primo, laddove esso
attribuisce il potere alla Corte europea di riconoscere un equo indennizzo
alla vittima della violazione, occorre sottolineare come simile riconoscimento
sia subordinato alla valutazione dell’impossibilità che gli effetti della violazione
possano essere integralmente rimossi nell’ordinamento interno (26).
La Corte dovrebbe, dunque, essere legittimata a verificare che l’ordinamento
interno offre la possibilità di rimedi, indicando, per forza di cose, anche
quale tipo di rimedio puntuale essa ha in mente (altrimenti la vittima si troverebbe
nel rischio di essere “palleggiata” tra Strasburgo e il giudice interno,
che potrebbe agevolmente farsi scudo della laconicità della sentenza
europea sul punto). Il giudice interno, dal canto suo, sarà tenuto a far il massimo
sforzo possibile per dar seguito alla pronuncia di Strasburgo, posto che
esso è destinatario del vincolo di osservanza delle condanne di Strasburgo
sancito all’art. 46 CEDU, al pari degli altri organi costituzionali statali.
Certo, si tratta di un’interpretazione particolarmente delicata, per l’ampiezza
degli esiti che ne possono derivare (27), ma, appunto, non si tratta di un’opzione
disancorata dalla lettera della Convenzione stessa.
4. Le affinità con l’approccio del Tribunale costituzionale tedesco alla forza
vincolante delle sentenze CEDU
Dinanzi a queste evoluzioni interpretative della CEDU, che da tempo
sembrano accolte dalla prassi degli organi di Strasburgo (28), e dinanzi alla
22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(25) Sulla natura pienamente giurisdizionale assunta dal sistema riformato (con il Prot.
add. XI, vigente dal 1998) di controllo della CEDU, cfr. M. DE SALVIA, La nuova Corte
europea dei diritti dell’uomo tra continuità e riforma, in Riv. int. dir. uomo, 1999, 704 ss.
(26) «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli
e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di
rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione
alla parte lesa.» Significativamente la Cassazione, Somogyi, cit., contesta al giudice del
merito l’aver ritenuto che l’equa soddisfazione concessa a Strasburgo presuppone proprio l’impossibilità
di un rimedio, sottolineando invece come dalla corretta lettura della sent. Somogyi
c. Italia, cit., emerga proprio la mancata liquidazione dell’equa soddisfazione, sul presupposto
che il rimedio più opportuno sia appunto quello della nuova celebrazione del processo.
(27) Cfr. M. DE SALVIA, La Cour Européenne des Droits de l’Homme est-elle…, cit., 499.
(28) Cfr. sempre M. DE SALVIA, La Cour Européenne des Droits de l’Homme estelle…,
cit., 492 ss., nonché A. GUAZZAROTTI, La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze
giurisprudenziali recenti e nuove esigenze teoriche, in Quad. cost. 2006/3, 491 ss.
scarsa trasparenza della Corte costituzionale italiana sul valore della CEDU
(29), non appare perciò sorprendente che la Cassazione Somogyi, cit., abbia
preferito aggirare del tutto la questione del rango rivestito dalla Convenzione
nel nostro sistema delle fonti, per concentrarsi semplicemente e direttamente
sulla questione della forza vincolante delle sentenze CEDU di condanna
dirette specificamente al nostro Stato. Si tratta, del resto, di un approccio non
isolato, nel panorama europeo. Lo stesso Tribunale costituzionale tedesco ha
recentemente concentrato la sua attenzione proprio sulla forza delle sentenze
di condanna di Strasburgo, per giungere a conclusioni non molto dissimili
da quelle della Cassazione. Se, per quanto riguarda il suo valore formale,
la Convenzione, pur rivestendo rango primario, può comunque costituire un
mezzo d’interpretazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione
tedesca (30), per quanto riguarda le sentenze pronunciate nei confronti
dello Stato tedesco, il punto di partenza è costituito dal fatto che, ai sensi
dell’art. 41 CEDU, tutti gli organi investiti di potestà sovrane [«hoheitlicher
Gewalt»] sono in principio vincolati dalle decisioni della Corte europea,
inclusi quindi i giudici comuni (31). Ne consegue che per tutti i giudici che
dovessero essere chiamati a pronunciarsi sulla stessa questione decisa a
Strasburgo, v’è un obbligo di tener conto della decisione CEDU [«berücksichtigen
»], e cioè confrontarsi espressamente con questa ed eventualmente
giustificare in modo comprensibile perché non possono seguire l’interpretazione
conforme all’obbligo internazionale costituito dalla Convenzione (32).
In applicazione di simili – pur flessibili – criteri, lo stesso giudice costituzionale
tedesco ha ripetutamente annullato – su ricorso in via diretta
(Verfassungsbeschwerde) – le decisioni del giudice ordinario che si ostinava-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23
(29) Cfr. la recente, quanto meno laconica, ordinanza n. 464 del 2005, in cui si afferma
che «l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non assume il valore di
norma parametro». Cfr. la ricostruzione dei diversi – non sempre coerenti – orientamenti
della Corte costituzionale, in V. PUGLIESE, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
la giurisprudenza della Corte costituzionale, in Riv. pen. 12/2004, 1161 ss.
(30) Cfr. la decisione del Bundesverfassungsgericht del 14 ottobre 2004, 2 BvR
1481/04, §§ 32 ss., al sito ufficiale http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/
2004/10/14, commentata, tra gli altri, da J. GERKRATH, L’effet contraignant des arrêts
de la Cour européenne des droits de l’homme vu à travers le prisme de la Cour constitutionnelle
allemande, in Rev. trim. dr. h. (67) 2006, 713 ss. ; M. HARTWIG, Much Ado About
Human Rights: The Federal Constitutional Court Confronts the European Court of Human
Rights, 6 German Law Journal No. 5 (1 May 2005), in www.germanlawjournal.com . Per
analoghe prese di posizione della nostra Corte costituzionale, cfr. C. cost., sent. 388/1999
(cui adde le, formalmente diverse ma sostanzialmente analoghe, sentt. 376/2000 e
445/2002). In dottrina, tra gli altri, M. RUOTOLO, La “funzione ermeneutica” delle convenzioni
internazionali sui diritti umani nei confronti delle disposizioni costituzionali, in Diritto
e Società 2000, 291 ss.
(31) BverGe, 2 BvR 1481/04 cit., §46.
(32) «(E)rkennbar auseinandersetzen und gegebenenfalls nachvollziehbar begründen,
warum sie der völkerrechtlichen Rechtsauffassung gleichwohl nicht folgen»: ibidem, § 50.
no – dietro lo scudo del giudicato – a negare efficacia sui processi interni alle
condanne di Strasburgo, in una vicenda che presenta interessanti analogie
con quello della Cassazione italiana, Somogyi, cit.(33).
5. I vincoli CEDU nella nuova formulazione dell’art. 117, co. 1, cost. e il
problema del rapporto tra Consulta e Corte europea dei diritti
Tornando alla giurisprudenza italiana, va rilevato come il versante
“formale” del rango gerarchico della CEDU non sia affatto scomparso
dall’orizzonte. La Corte costituzionale, infatti, sarà presto chiamata a pronunciarsi
su almeno due questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalla Cassazione (34), in cui finalmente si invoca, con riguardo alla
CEDU, il parametro del nuovo art. 117, 1° co., cost., sul rispetto degli
obblighi internazionali anche per il legislatore statale (35). Il dato è rilevante,
nella misura in cui precedentemente la stessa Cassazione aveva, da
un lato, espressamente negato che la nuova formulazione dell’art. 117
cost. potesse alterare la gerarchia delle fonti (36), da un altro, aggirato
l’incidente di costituzionalità per contrarietà con la CEDU di una norma
di legge italiana (37). Con le due ordinanze menzionate, infatti, non solo
24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(33) Cfr. le decisioni BVerfG, 1 BvR 2790/04, 10 giugno 2005; BVerfG, 1 BvR
1664/04, 5 aprile 2005, epilogo della questione decisa inizialmente con la sent. 2 BvR
1481/04, sopra citata. Il caso verteva su una questione di diritto di famiglia, in cui il giudice
minorile tedesco si era a più riprese rifiutato di concedere al padre naturale alcun diritto
(anche sotto la forma del diritto di visita) nei confronti del figlio, di cui le autorità tedesche
avevano stabilito l’adozione sulla base della sola decisione della madre di abbandonare il
figlio, e ciò anche dopo che la Corte di Strasburgo si era pronunciata sulla violazione del
diritto alla vita familiare (art. 8 CEDU) così compiuta dalle autorità tedesche a danno del
padre naturale (Corte eur. dir. uomo, dec. 26 febbraio 2004, Gorgülü c. Germania). Il giudice
costituzionale tedesco stigmatizza l’operato del giudice del merito, negando che, per le
pronunce adottate dal giudice a tutela del minore, vi sia spazio per il formarsi di un vero
“giudicato”, come tale intangibile dalla pronuncia di Strasburgo (1 BvR 1664/04, cit., §22),
affermando inoltre che nessuna delle “direttive” contenute nella decisione di Strasburgo si
pone in contrasto con il diritto costituzionale tedesco pertinente (§17).
(34) Cass. Sez. I civ., ordinanze 20 maggio 2006, n. 401; 29 maggio 2006, n. 402,
entrambe in G.U., 1^ Serie speciale, n. 42 del 18 ottobre 2006.
(35) In precedenza, come noto, tali vincoli valevano soltanto nei confronti del legislatore
regionale, sia in caso di Regioni ordinarie che ad autonomia speciale.
(36) Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17564, in Giur. cost. 2003, 459.
(37) Cass., sez. lav., sentt. 10 marzo 2004, n. 4932 e 27 marzo 2004, n. 6173, in Banca
Dati del Foro it., in cui, accertata la contrarietà tra la CEDU e la giurisprudenza di
Strasburgo con la disciplina legislativa italiana, nonché ammesso il valore sopralegislativo
della Convenzione, il rifiuto di sollevare la questione di legittimità alla Corte costituzionale
viene basato sulla intangibilità della stessa giurisprudenza costituzionale che già aveva
escluso l’incostituzionalità della disciplina in questione (C. cost., sent. 11 luglio 2000, n.
310, che pure non poteva tener conto della successiva decisione di Strasburgo del 19 ottobre
2000, Ambruosi c. Italia).
la Cassazione smentisce espressamente l’interpretazione “neutralizzatrice”
del nuovo articolo 117, 1° co., cost. (38), bensì supera anche l’ostacolo
che in passato era stato opposto alla proponibilità della questione: l’essersi
già data una pronuncia della Corte costituzionale dichiarativa della
non contrarietà a Costituzione di una legge poi risultata “inconvezionale”
per Strasburgo (39). Si tratta di un fenomeno analogo a quello dell’eventuale
contrasto tra norma interna e diritto comunitario, nel clamoroso caso
verificatosi di recente, in cui il Consiglio di Stato si è espressamente rifiutato
di sollevare la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sul presupposto
che la disciplina interna, essendo già stata “certificata” dalla
nostra Corte costituzionale, non avrebbe potuto comunque essere scalfita
da un eventuale giudizio di incompatibilità comunitaria pronunciato a
Lussemburgo (40).
La Cassazione, nelle ordinanze citate, non si sottrae al confronto con il
diritto giurisprudenziale CEDU – chiaramente contrario alla normativa italiana
sulle espropriazioni “indirette” (c.d. occupazione acquisitiva) (41) –
sul mero presupposto che la Corte costituzionale avrebbe già ritenuto quella
disciplina conforme a Costituzione, bensì si sforza di evidenziare un
“nuovo profilo” di incostituzionalità, non precedentemente affrontato dalla
Consulta, con il risultato, comunque, di chiamare quest’ultima a confrontarsi
direttamente con il contrario e sopravvenuto orientamento dei giudici di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25
(38) «La nuova formulazione della norma costituzionale appare diretta a colmare una
lacuna dell’ordinamento, difficilmente superabile… alla luce dell’art. 10 cost. Né può trarre
in inganno la sedes materiae, per ridimensionare l’effetto della disposizione al riparto di
competenze legislative Stato-regioni: in essa sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore
di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante
le competenze esclusive dello stato… Il ravvisato contrasto della vigente normativa
indennitaria con la Convenzione ne determina una sopravvenuta ragione di incostituzionalità
con l’art. 117, primo comma; le norme della Convenzione, in particolare gli artt. 6 e 1
prot. I add., divengono norme interposte, attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha
reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalità» (Cass. Sez. I civ., ordd. 20 maggio
2006, n. 401; 29 maggio 2006, n. 402, cit., §9). La stessa Corte costituzionale, del resto,
con la sent. n. 406/2005, sembra sposare la tesi della portata “innovativa” dell’art. 117, co.
1, cost., sul sistema statale delle fonti, quanto meno con riferimento al diritto comunitario:
cfr. R. CALVANO, La Corte costituzionale «fa i conti» per la prima volta con il nuovo art.
117 comma 1 Cost., in Giur. cost. 2005, 4417 ss.
(39) Cass., sez. lav., sentt. 10 marzo 2004, n. 4932 e 27 marzo 2004, n. 6173, cit.
(40) Cons. St., Sez. V, 8 agosto 2005, n. 4207, Federfarma, su cui cfr. A. RUGGERI,
Le pronunzie della Corte costituzionale come “controlimiti” alle cessioni di sovranità a
favore dell’ordinamento comunitario?, in www.forumcostituzionale.it/; A. CELOTTO, I
controlimiti presi sul serio, in www.giustamm.it/ n. 7-8/2005; nonché, con accenti assai
critici, A. BARONE, A proposito della sentenza Federfarma: fra tutela comunitaria e tutela
costituzionale dei diritti fondamentali il Consiglio di Stato smarrisce la retta via?, in
Dir. U.E. 2006/1, 201.
(41) Cfr. F. G. SCOCA – S. TARULLO, La Corte europea dei diritti dell’uomo e l’accessione
invertita: verso nuovi scenari, in Riv. ammin. 2000, 445 ss.
Strasburgo (42). Ora, come si vede, nell’ambito dei rapporti tra ordinamento
interno e CEDU non sembra darsi quello che invece normalmente avviene
(caso Federfarma a parte) nei rapporti col diritto comunitario: con il noto
meccanismo della “doppia pregiudizialità”, infatti, il giudice che lamenti
l’eventuale incostituzionalità di una norma interna per contrasto con il diritto
comunitario (valevole come parametro interposto d’incostituzionalità),
dovrà, prima che alla Corte costituzionale, rivolgersi alla Corte di Giustizia,
per essere certo che non si tratti di norma comunitaria ad effetti diretti, come
tale immediatamente applicabile nel giudizio principale. Conseguenza: l’irrilevanza
della questione di legittimità costituzionale (43). Come si vede, un
buon meccanismo per evitare – sia pure nei soli giudizi in via incidentale –
spiacevoli confronti diretti tra giudice comunitario e giudice costituzionale
italiano (44). Quest’ultimo, a parte l’improbabile caso di violazione dei
26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(42) La disciplina italiana (art. 5 bis, l. 359/92), volta a decurtare retroattivamente l’indennizzo
delle espropriazioni c.d. “indirette” (illegittime ma finalizzate a realizzare un’opera
di pubblica utilità), sebbene già “salvata” dalla Corte costituzionale (sentt. nn. 283/93; 442/93;
148/99; 396/99 e 24/00, nonché ordd. nn. 251/00 e 158/02), non sarebbe stata scrutinata alla
luce del diverso parametro dell’art. 111 Cost., «riscritto in epoca successiva alle pronunce
(costituzionali citate), che negli ideali del giusto processo incarna la lealtà che alla parte in giudizio
è dato attendersi dal sistema, senza che le vengano mutate le regole in corso». Tale parametro
costituzionale troverebbe «nella giurisprudenza della Corte dei diritti (sull’equo processo,
6 CEDU), il materiale utile alla ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali». Pertanto,
posto che nella materia de quo il senso (delle pronunce CEDU contro l’Italia) è che la parità
delle parti davanti al giudice implichi la necessità che il potere legislativo non si intrometta
nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa,
o di una circoscritta e determinata categoria di controversie», la disciplina italiana deve essere
impugnata per contrasto con l’art. 111, commi 1 e 2, cost., anche alla luce dell’art. 6 della
CEDU, «nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole di determinazione
del risarcimento del danno per occupazione illegittima in esso contenute, viola i
principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice,
che risultano lese dall’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia
allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie
». Oltre a questo, ulteriore profilo di novità della questione sarebbe proprio costituito
dal nuovo art. 117, co. 1, cost., in grado di determinare «una sopravvenuta ragione di incostituzionalità
» della normativa indennitaria citata, per la violazione dei «vincoli derivanti dagli
obblighi internazionali» costituiti dalle «norme della Convenzione…», le quali «divengono
norme interposte, attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo,
nel giudizio di costituzionalità» (Cass. Sez. I civ., ordd. 20 maggio 2006, n. 401; 29 maggio
2006, n. 402, cit.).
(43) Cfr. M. CARTABIA, Considerazioni sulla posizione del giudice comune di fronte a
casi di “doppia pregiudizialità”, comunitaria e costituzionale, in Foro it. 1997, 223; F.
GHERA, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle
sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Giur. cost., 2000, p. 1193.
(44) Per i giudizi in cui la Corte costituzionale è chiamata a giudicare in astratto la compatibilità
di un atto normativo interno (giudizi in via d’azione) ovvero a controllare l’ammissibilità
di un quesito referendario, non sussiste ovviamente simile rimedio (Cfr. R. BIN,
All’ombra della “La Pergola”. L’impugnazione in via principale delle leggi contrarie a
principi costituzionali supremi, non dovrebbe mai essere costretto a smentire
una pronuncia della Corte di Giustizia.
Diversa è la questione dei rapporti tra CEDU e legislazione nazionale contrastante,
sotto il profilo del conflitto tra giurisprudenza di Strasburgo e giurisprudenza
costituzionale italiana. Qui, infatti, non può darsi la possibilità che
il giudice comune ricorra pregiudizialmente a Strasburgo, per verificare se già
il diritto CEDU non gli offra la soluzione del caso. Evidentemente manca uno
strumento equivalente al rinvio pregiudiziale (art. 234 TCE), ma manca, più a
monte, lo “schema comunitario” della diretta applicabilità delle norme dotate
di “effetti diretti”, cui consegue la “non applicazione” del diritto interno eventualmente
contrastante. Mentre, però, il rinvio pregiudiziale manca “per tabulas”,
senza possibilità di rimediarvi in via giurisprudenziale, non può dirsi la
stessa cosa per gli effetti diretti delle norme CEDU. Si pensi, infatti, alle questioni
sollevate dalla Cassazione: la regola ricavabile dalla CEDU è sufficientemente
chiara e univoca proprio in virtù delle già numerose condanne che
l’Italia ha subito sul medesimo oggetto (45). Manca – apparentemente – il
potere di disapplicare la disciplina interna contrastante, ma non è un problema
della Convenzione né dei giudici di Strasburgo, bensì del nostro ordinamento
e della nostra Corte costituzionale, prima ancora che dei giudici comuni (46)
Ecco, dunque, un suggerimento affinché alla Consulta siano evitati, al
pari di quanto avviene col Lussemburgo, incresciosi contrasti con
Strasburgo: ai sensi della CEDU (art. 46), anche il giudice comune è tenuto
a dar seguito alle decisioni di condanna del giudice europeo (47), senza
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27
norme comunitarie, in Dir. U.E., 1996, 271 ss.). In tal caso, il confronto con una giurisprudenza
“europea” sfavorevole si atteggia allo stesso modo, tanto nel caso di sentenze del
Lussemburgo che di Strasburgo.
(45) Cfr. C. App. Firenze, 20 gennaio 2005, n. 111, in www.dirittiuomo.it, che, al fine
ottemperare alle decisioni di Strasburgo nei casi Belvedere e Carbonara, cit., opera l’estensione
del diritto al pieno risarcimento del danno anche alla fattispecie di “occupazione
acquisitiva” (fino alla condanna di Strasburgo limitato ai soli casi di occupazione “usurpativa”,
ossia priva del formale riconoscimento di utilità pubblica dell’opera illegittimamente
costruita dalla p.a. sul fondo privato), disapplicando la legge italiana che prevedeva un ristoro
economico di gran lunga inferiore.
(46) La Cassazione, nelle ordinanze del 2006 citate di rimessione della questione di
legittimità costituzionale, si pronuncia apertamente contro l’ipotesi della disapplicazione, in
virtù degli artt. 136 e 101 cost., nonché escludendo la possibilità di poter trattare il diritto
CEDU alla stregua del diritto comunitario, posto che quest’ultimo non avrebbe «comunitarizzato
» la Convenzione, neppure in virtù dell’art. 6.2 TUE sul rispetto dei diritti fondamentali.
Sui diversi orientamenti giurisprudenziali in relazione al potere di disapplicazione delle
norme legislative contrastanti con la CEDU – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di
Strasburgo – cfr. A. GUAZZAROTTI, La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali
recenti e nuove esigenze teoriche, cit., 500 ss.
(47) Intendendo tale vincolo anche come obbligo di considerare contraria alla
Convenzione la normativa interna dichiarata “inconvenzionale” da Strasburgo in tutti i casi
analoghi che si presenteranno al giudice italiano, e non solo nell’ipotesi di uno (spesso
improbabile) seguito giudiziario interno alle vicende già decise a Strasburgo.
necessità di sollevare l’ulteriore pregiudiziale di costituzionalità, ogniqualvolta
la regola ricavabile dalla/e pronunce CEDU sia sufficientemente precisa
e incondizionata da sostituirsi, senza margini di ambiguità, a quella interna
riconosciuta contraria alla Convenzione (48). Alla Corte costituzionale
potranno essere sollevate soltanto quelle questioni dove, pur in presenza di
una regola CEDU “autoapplicativa”, sia prospettabile un contrasto tra quest’ultima
e i c.d. “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale (49).
6. Gli interventi del legislatore italiano sul seguito delle condanne CEDU
Al termine di questa disamina appare opportuno segnalare alcuni importanti
elementi di novità, intervenuti nell’ultimo anno in sede normativa, indici
di un nuovo apprezzabile interesse del legislatore per l’adeguamento dell’ordinamento
italiano al diritto convenzionale europeo.
A parte l’approvazione della legge di ratifica del Protocollo n. 14 (50),
degna di interesse risulta la legge n. 12 del 2006, nota come legge
“Azzolini” e rubricata “Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce
della Corte europea dei diritti dell’uomo” (51). La disciplina si inserisce
tra le misure nazionali insistentemente auspicate dal Consiglio
28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(48) L’art. 41 in questione, del resto, è una norma che, in virtù dell’art. 117, 1° co.,
cost., riveste già oggi una forza superiore a qualsiasi disciplina primaria. Potrebbe dirsi che,
in tal modo, lo Stato compie – attraverso un atto pur sempre sub-costituzionale – un’indebita
cessione di sovranità alle autorità di Strasburgo. E, tuttavia, non può negarsi che lo stesso
ombrello dell’art. 11 Cost. (giustificazione di limitazioni di sovranità condizionate) possa
adattarsi all’ordinamento di Strasburgo altrettanto bene di quanto accaduto per l’ordinamento
comunitario. Cfr. B. CONFORTI, Valore ed efficacia della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo nel diritto interno, in ID., Scritti di diritto internazionale, Napoli 2003, 285.
(49) In parallelo con la nota “dottrina” della Corte costituzionale italiana dei c.d. “controlimiti”:
C. cost., sentt. nn. 183/73, 232/89, 168/91, su cui, tra i tanti, cfr. F. SALMONI, La
Corte costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità europee, in FALZEA, SPADARO,
VENTURA, La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, cit., 289 ss.; A. CERRI,
L’integrazione europea nella giurisprudenza delle Corti, in Riv. it. dir. pubb. com. 1999,
1493.
(50) L. n. 280 del 2005, cit.
(51) Su cui, cfr. P. TANZARELLA, Nuovi compiti al Presidente del Consiglio per l’esecuzione
delle sentenze di Strasburgo, cit., 370 ss.
(52) Cfr. la recente risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa n.
1516, del 2 ottobre 2006 (http://assembly.coe.int/Mainf.asp?link=/Documents/
AdoptedText/ta06/ERES1516.htm). Il documento è dedicato al problema del recepimento
della giurisprudenza CEDU negli Stati membri e consegue ad una lunga attività istruttoria,
curata dalla Commissione parlamentare affari legali e diritti umani. In riferimento alla situazione
italiana, l’Assemblea parlamentare denuncia “inaccettabili ritardi” nell’adempimento
degli obblighi derivanti dall’ordinamento internazionale, in particolare rilevando la persistenza
di tre deficienze strutturali che determinano la violazione costante della
Convenzione: 1) l’eccessiva lentezza dei processi, cui consegue, tra l’altro, l’insufficiente
protezione di numerosi diritti sostanziali (in particolare nell’ambito delle procedure fallimentari
e nella tutela dei diritti di credito); 2) la normativa che non consente la riapertura
d’Europa (52). Il provvedimento consta di un unico articolo che aggiunge
una disposizione ad hoc all’interno della legge n. 400 del 1988. Più precisamente,
viene inserita nell’art. 5, dedicato alle attribuzioni del Presidente
del Consiglio dei Ministri, la lettera a-bis del comma 3, in virtù della quale
il capo dell’esecutivo “promuove gli adempimenti di competenza governativa
conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo
emanate nei confronti dello Stato italiano” e “comunica tempestivamente
alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti
Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al
Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce”.
Quindi, oltre a venir affidata al Presidente del Consiglio la responsabilità
degli adempimenti – di competenza governativa – volti a dare esecuzione
alle sentenze CEDU, viene significativamente previsto, in via generale,
un meccanismo di raccordo tra le pronunce CEDU e il legislativo
nazionale, affinché questo sia posto nelle condizioni di eliminare deficit di
tutela dei diritti, rilevati dalla Corte europea anche episodicamente. A chiusura
del nuovo quadro, v’è il meccanismo della relazione annuale sullo
stato di esecuzione delle sentenze CEDU presentata al Parlamento, che
dovrebbe assicurare un monitoraggio costante della situazione, consentendo
al legislativo di controllare l’operato del Governo in materia e, se è il
caso, di intervenire tempestivamente per evitare lo stabilizzarsi di carenze
strutturali del sistema, ove questo si dimostri al di sotto dello standard
minimo di tutela richiesto.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29
dei processi penali riconosciuti iniqui dalla Corte europea di Strasburgo: sul punto,
l’Assemblea lamenta la mancata assunzione di misure idonee a restituire al richiedente il
processo equo cui ha diritto; 3) l’espropriazione indiretta, che costituisce nella prospettiva
della Corte europea una pratica illegale di confisca dei beni, lesiva del diritto di proprietà:
in merito a questa problematica, l’Assemblea parlamentare segnala l’assoluta mancanza
di progressi nella direzione della soluzione del problema. Emergono altresì, quali
incompatibilità strutturali dell’ordinamento italiano all’esame del Comitato dei Ministri,
la legislazione sospensiva delle procedure di sfratto, la legislazione retroattiva in sanatoria
di procedimenti amministrativi illegali, specialmente nel campo dell’espropriazione e
dei vincoli urbanistici, l’applicazione di regimi carcerari speciali in mancanza di esame
degli atti difensivi (con particolare riferimento al monitoraggio della corrispondenza, censurata
anche in regime ordinario), le restrizioni di diritti individuali (sproporzionate o
automatiche) previste nei confronti del fallito. I documenti di lavoro nel dossier della risoluzione,
peraltro, danno conto di alcuni recenti progressi collaborativi del legislatore italiano,
volti alla soluzione di problemi strutturali (come la stessa legge n. 12 del 2006, cd.
Azzolini, cit.) o specifici (si veda il caso della Regione Marche che ha emendato la propria
legislazione, denunciata alla Corte di Strasburgo come lesiva del diritto di associazione
nel caso Grande Oriente c. Italia), ma rilevano anche la presenza di un filone giurisprudenziale
che nega effettività alla giurisprudenza europea, destinato a stabilizzarsi di
fronte a riforme insufficienti (cfr. doc. 11020 del 18/9/06, relazione approvata dalla
Commissione affari legali, punti 31 ss., in http://assembly.coe.int/Main.asp?link=/Documents/
WorkingDocs/Doc06/EDOC11020.htm).
Non meno rilevanti appaiono alcune disposizioni contenute nella legge
finanziaria 2007 (53): ci si riferisce ai commi 1213 e ss. dell’unico articolo di
cui la legge si compone, che sostituiscono - senza significative modificazioni
- l’originario art. 181 del d.d.l. governativo rubricato “Misure per assicurare
l’adempimento degli obblighi comunitari ed internazionali”. Le disposizioni
trattano, in perfetto parallelismo, le violazioni di diritto comunitario e quelle
della Convenzione europea. Per quanto attiene al primo, la norma in commento
ribadisce l’obbligo per le autonomie locali ed anche per gli enti pubblici in
genere di prevenire l’instaurazione delle procedure d’infrazione di cui agli artt.
226 ss. TCE o di porre termine alle stesse, adottando ogni misura a ciò necessaria,
nonché di curare la tempestiva esecuzione dalle sentenze della Corte di
giustizia. In caso di mancato adempimento, lo Stato si riserva, sia nei confronti
degli enti locali, che nei confronti degli altri enti pubblici, l’esercizio dei
poteri sostitutivi, conformemente alle leggi n. 131 del 2003 e n. 11 del 2005
(54). Inoltre, per gli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna della
Corte di giustizia rese ex art. 228, c. 3, TCE, la finanziaria afferma, al comma
1216, il diritto dello Stato di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni
degli obblighi comunitari, secondo le modalità stabilite nei commi successivi.
Quest’ultima previsione, posta a tutela dell’integrità patrimoniale del bilancio
statale, è stata sollecitata, tra l’altro, da una comunicazione della Commissione
europea che modifica la politica di applicazione delle sanzioni pecuniarie per
i casi di infrazione comunitaria, aggravandola sensibilmente rispetto al regime
sinora vigente (55).
30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(53) Legge n. 256 del 27 dicembre 2006.
(54) Emendamento approvato dalla Commissione politiche dell’Unione europea della
Camera.
(55) Comunicazione SEC(2005)1658. Come noto, la procedura promossa dalla
Commissione contro gli Stati membri inadempienti agli obblighi comunitari, consta di due
distinte fasi giudiziarie: la prima volta alla constatazione dell’infrazione e la seconda finalizzata
alla condanna dello Stato membro al pagamento di una sanzione pecuniaria. Secondo la
comunicazione del 2005, cit., la Commissione modifica la prassi, sinora adottata, di limitarsi
a proporre alla Corte l’irrogazione di penalità per mancata esecuzione della sentenza accertativa
dell’inadempimento, cui generalmente conseguiva, prima della sentenza di condanna, una
regolarizzazione tardiva non sanzionata e quindi, ad avviso della Commissione, non sufficientemente
scoraggiata. Secondo la nuova determinazione, la Commissione richiederà nei suoi
ricorsi ex art. 228 TCE il cumulo di due tipi di sanzione pecuniaria: una penalità per ciascun
giorno di ritardo successivo alla pronuncia della sentenza resa a norma dell’art. 228 TCE e una
somma forfetaria che sanzioni la continuazione dell’infrazione tra la prima sentenza di constatazione
dell’inadempimento, resa ex art. 226 TCE, e la sentenza di condanna. La conseguenza
della modifica è che la regolarizzazione da parte dello Stato membro, successiva alla proposizione
del ricorso ex art. 228 TCE, non resta priva di ammenda, poiché la Corte potrebbe
comunque condannare lo Stato al versamento della somma forfetaria che sanzioni l’infrazione
fino al momento della regolarizzazione. Nell’intento realmente dissuasivo della violazione
della legalità comunitaria, la Commissione prevede anche l’aumento dell’importo minimo
della penalità di base (600 euro al giorno) e la determinazione di una somma forfetaria minima
(pari a 9.920 mila euro per l’Italia).
Pur in assenza di analoga pressione, ma alla luce del considerevole
numero di condanne inferte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
(56), la legge finanziaria prevede il medesimo diritto di rivalsa dello
Stato nei confronti di quegli Enti (Regioni, Province autonome, enti territoriali,
altri enti pubblici e soggetti equiparati) responsabili di violazioni della
Convenzione che abbiano comportato, in applicazione di sentenze di
Strasburgo, oneri finanziari a carico dello Stato (comma 1217).
L’equiparazione che deriva da queste statuizioni (responsabilità da violazioni
CEDU equiparate a quelle comunitarie) non può non sollecitare alcune
riflessioni sulle modalità in cui si atteggiano, secondo il legislatore, i rapporti
tra l’ordinamento interno e quello della CEDU. Anzitutto, la norma
sembra recepire, per la prima volta in sede legislativa, l’orientamento finora
sostenuto solo dalla più recente giurisprudenza di legittimità in ordine alla
efficacia diretta delle norme convenzionali (almeno quelle sufficientemente
chiare, precise ed univoche). Infatti il diritto di rivalsa presuppone indubitabilmente
una qualificazione di “illecito” per il comportamento dell’ente pubblico
che non ottemperi agli obblighi derivanti dalla Convenzione europea
(57). In assenza di puntuali specificazioni, dal tenore generico della disposizione
della finanziaria sembra anche derivare che tale comportamento possa
costituire un illecito persino qualora sussista una norma interna contrastante
col diritto CEDU; per cui, a rigor di logica, il diritto di rivalsa sembra presupporre
l’obbligo di disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il
diritto CEDU, secondo il modello già elaborato per i rapporti tra l’ordinamento
nazionale e quello comunitario.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31
(56) Si consideri che, a differenza di quanto accade a Strasburgo, le condanne a sanzioni
pecuniarie inferte agli Stati membri dalla Corte di giustizia dell’Unione europea sono
state poco frequenti: dall’introduzione del meccanismo sanzionatorio, avvenuta ad opera del
Trattato di Maastricht nel 1993, la Corte di Lussemburgo è arrivata alla condanna solo in tre
casi, riguardanti rispettivamente Grecia, Spagna e Francia (cause C-387/97, C-278/01 e C-
304/02, tutte in www.curia.eu.int).
(57) Conforme a questa stessa logica, si segnala il parere del Consiglio di Stato n. 1926
del 2002 (in www.giustizia-amministrativa.it), sollecitato dal Governo per verificare la possibilità
di ripetere dagli enti locali le somme pagate dallo Stato ai privati a titolo di “equa
riparazione” nei casi di accessione invertita. Pur rilevando profili di incertezza sulla diretta
applicabilità delle norme della Convezione europea nell’ordinamento interno, all’epoca
riconosciuta soltanto da una parte limitata della giurisprudenza, il parere conclude sostenendo,
almeno in tono dubitativo, una possibilità di rivalsa nei confronti dei Comuni che, nella
procedura di esproprio, avrebbero violato il principio di legalità, preteso dall’art. 1 del protocollo
n. 1, e avrebbero, quindi, commesso un comportamento qualificabile come “illecito”,
quand’anche conforme a norme primarie vincolanti (nella specie, all’art. 3, comma 65,
della legge n. 662 del 1996). Il fondamento giuridico della responsabilità, ad avviso del
Consiglio di Stato, può essere rintracciato nell’art. 2043 c.c. proprio perchè dall’illecito consegue
l’ingiustizia del danno. Il parere non manca peraltro di rilevare come il Comune sia
terzo rispetto alla lite risolta dalla Corte, per cui dovrebbe essere prevista la possibilità per
l’ente locale di intervenire nel giudizio, ai sensi dell’art. 36, comma 2, Cedu.
Una semplificazione tanto rapida suscita peraltro qualche perplessità:
non sembra infatti tenersi in sufficiente considerazione una serie di rilevanti
differenze tra ordinamento sovranazionale e internazionale. In riferimento al
diritto comunitario è ormai chiaro e ben definito il quadro dei rapporti tra
ordinamenti, sia per quanto attiene modalità e limiti con cui si esplica il primato
sul diritto interno, sia per quanto riguarda il fondamento teorico della
prevalenza, avallato da risalente e consolidata giurisprudenza costituzionale.
Non altrettanto può dirsi, invece, per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
in cui la diretta applicabilità si basa su una giurisprudenza di legittimità
ancora oscillante, la cui prevalenza sul diritto interno in chiave sistematica
è tutta da costruire e per la quale manca una definizione condivisa del
quadro teorico di riferimento.
32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Appalti in house: rassegna critica della
giurisprudenza
di Daniele Rosato
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le direttive comunitarie 2004/17 e 18 e gli appalti in
house. – 3. La “questione” degli appalti in house. – 4. Genesi del concetto “appalti in
house”. – 5. Circolare: “Affidamento a società miste della gestione dei servizi pubblici
locali”. – 6. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ed il contributo degli Avvocati generali.
– 6.1. Sentenza Arnhem. – 6.2. Sentenza RI.SAN. – 6.3. Sentenza Teckal. – 7. Gli ultimi
interventi della Corte di Giustizia. – 7.1. Sentenza 11 gennaio 2005 Stadt Halle. – 7.2.
Sentenza 13 ottobre 2005 Parking Brixen. – 7.3. Sentenza 10 novembre 2005 Commissione
contro Repubblica di Austria. – 7.4. Sentenza 6 aprile 2006 Associazione Nazionale
Autotrasporto Viaggiatori. – 7.5. Sentenza 11 maggio 2006 Carbotermo. – 8.
Giurisprudenza nazionale in materia di affidamento in house. – 8.1. T.A.R. Lombardia –
Milano, sentenza 17 luglio 2006, n. 1837. - 8.2. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 13 luglio
2006, n. 4440. - 9. I riflessi del decreto Bersani in materia di appalti.
1. Premessa.
Dopo una sommaria introduzione alle direttive 2004/17 e 18, in questo
articolo ho voluto dare prevalentemente risalto al “diritto vivente”, in quanto
il contributo dei giudici è stato e continua ad essere essenziale ai fini della
definizione della materia degli appalti in house (1).
La giurisprudenza, italiana e specialmente quella comunitaria, è frequentemente
richiamata. Attraverso i casi giurisprudenziali ho tentato di enucleare,
tra le intrinseche difficoltà di una materia in rapida e continua evoluzione,
il pensiero del giudice comunitario riguardo a tale complesso argomento.
La problematica dell’in house providing è particolarmente rilevante in
quanto concerne un settore, quello degli appalti pubblici, che riveste un ruolo
importante nella vita economica di un Paese e considerato dalla stessa
Commissione europea “uno strumento strategico per ottimizzare il funzionamento
del mercato unico europeo (2)”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33
(1) In realtà l’istituto dell’in house è un modello trasversale, rilevante sia per gli appalti
che per i servizi pubblici. In questo senso L. MANGIAVACCHI, “L’affidamento in house tra
capitale pubblico e partecipazione privata”, in www.giustamm.it.
(2) Libro bianco “Gli appalti pubblici nell’Unione Europea”, 1998. La centralità rivestita
dal settore degli appalti pubblici nella politica comunitaria non è sempre stata un dato
acquisito, ma può essere ricollegata al “rapporto Cecchini”, nel quale si ritenne essenziale,
ai fini dell’integrazione dei mercati nazionali, anche una piena liberalizzazione del settore
degli appalti pubblici. Secondo E. CHITI, “La nozione di amministrazione aggiudicatrice”,
in Giornale di diritto amministrativo, 2001, la riconsiderazione della materia riprese “dopo
un periodo di palese disinteresse per il settore degli appalti”, giustificato dal tentativo di
mantenere in questo settore l’autonomia regolatoria degli Stati membri.
2. Le direttive comunitarie 2004/17 e 18 e gli appalti in house.
Il 30 aprile 2004 sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale
dell’Unione Europea le due nuove direttive in materia di appalti: la
2004/17/CE, relativa agli appalti degli enti erogatori di acqua e di energia e
degli enti che forniscono servizi di trasporto e di tipo postale (i cd. settori
esclusi), e la 2004/18/CE, relativa agli appalti “classici” (lavori, servizi e forniture).
Esse costituiscono quello che un’autorevole dottrina ha definito “il
nuovo diritto europeo degli appalti” (3).
La direttiva nei settori “classici” non prevede la facoltà di affidamento
diretto, senza pubblica gara, ad imprese collegate o controllate.
Al contrario, la direttiva 2004/17/CE prevede una disciplina degli appalti in
house, in relazione agli appalti affidati ad imprese collegate e a join-venture.
In particolare, l’articolo 23 stabilisce che per impresa collegata deve intendersi
quella i cui conti annuali sono consolidati con quelli dell’amministrazione
aggiudicatrice, oppure quella su cui la medesima amministrazione è in grado
di esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante (4).
La citata disposizione, inoltre, prevede la necessità di verificare che
almeno l’80% del fatturato medio realizzato negli ultimi tre anni dall’impresa
collegata nel campo dei servizi, delle forniture, dei lavori provenga dalla
fornitura di tali servizi/lavori alle imprese cui è collegata. Solamente al verificarsi
di queste due condizioni (presenza di una impresa collegata, requisito
dell’80%) la direttiva non si applica agli appalti aggiudicati da un’amministrazione
ad un’impresa collegata.
Ed ancora la disciplina risultante dalla direttiva sui settori esclusi non trova
applicazione in relazione agli appalti aggiudicati da una join-venture, composta
esclusivamente da più enti aggiudicatori, per svolgere una delle attività di cui
agli articoli da 3 a 7 (5), ad uno di tali enti, e a quelli aggiudicati da un’amministrazione
aggiudicatrice ad una join-venture di cui fa parte, qualora essa sia
stata costituita per svolgere una delle attività di cui agli articoli da 3 a 7 almeno
negli ultimi tre anni, e qualora l’atto costitutivo della join-venture preveda che
gli enti aggiudicatori che la compongono ne faranno parte per almeno tre anni.
3. La questione degli appalti in house.
Con l’espressione “appalti in house” ci si riferisce a quella particolare
ipotesi in cui l’appalto pubblico è affidato a soggetti che sono parte della
stessa amministrazione aggiudicatrice.
La questione concerne essenzialmente nel risolvere il quesito circa l’applicabilità
delle procedure ad evidenza pubblica anche a tali particolari fatti-
34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(3) M. PROTTO, “Il nuovo diritto europeo degli appalti”, nella rivista Urbanistica e
appalti, luglio 2004.
(4) L’origine della definizione di impresa collegata è contenuta nell’art. 1, n. 3, della
direttiva 14 giugno 1993, 93/38/CEE.
(5) Gas, acqua, elettricità, servizi di trasporto e postali, estrazione petrolio.
specie, o se, al contrario, sussista la facoltà per l’amministrazione aggiudicatrice
di ricorrere all’affidamento diretto, derogando così alle disposizioni
comunitarie in materia di appalti.
In una nota del Ministero dell’economia e delle finanze, datata 30 ottobre
2003, è indicato che un rapporto di tipo in house può configurarsi in una
delle tre seguenti fattispecie. Le prime due si situano all’interno dell’amministrazione,
mentre la terza riguarda un rapporto tra un’amministrazione ed
un terzo, ma assimilabile ad una relazione interna.
- In house stricto sensu
Si tratta dell’ipotesi più semplice e chiara di rapporto in house, che si
verifica in quelle ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice decide di far
eseguire servizi o lavori tramite i propri mezzi o le proprie risorse. È, in particolare,
il caso in cui l’amministrazione ricorra ai suoi stessi uffici.
- Assenza di un terzo
È l’ipotesi di relazioni che costituiscono forme di organizzazione interne
all’amministrazione pubblica (ad esempio, un ministero per un altro ministero).
Queste relazioni sono caratterizzate dall’assenza di terzi: ne consegue
che questi tipi di rapporti sono del tutto assimilati a quelli che sussistono tra
un’amministrazione ed i suoi servizi interni.
- Terzo posseduto e controllato al 100% con un legame di esclusiva
Si tratta di un rapporto tra un’amministrazione aggiudicatrice ed un ente.
L’organismo creato o incaricato di eseguire i compiti per l’amministrazione
appaltante è interamente controllato e posseduto dalla medesima amministrazione
appaltante. Inoltre, è necessario che sussista un legame di esclusiva
in merito all’esercizio dell’attività: l’ente non può fornire i propri servizi
a soggetti terzi, ma esclusivamente all’amministrazione cui appartiene.
Se sembra pacifico che questi tre tipi di rapporti possano essere qualificati
come dei rapporti in house e siano, di conseguenza, esclusi dall’ambito
di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, i limiti di questa nozione
appaiono assai più difficili da tracciare in altri casi più complessi, come
ad esempio nell’ipotesi di un soggetto terzo all’amministrazione che non
soddisfi pienamente il criterio dell’esclusività delle attività fornite, oppure
quello del possesso e del controllo al 100%.
In tali casi per avere una soluzione su quale procedura debba essere eseguita
occorre analizzare la natura giuridica del legame che intercorre tra l’amministrazione
aggiudicatrice ed il soggetto aggiudicatario e, sulla scorta degli
indici forniti dalla giurisprudenza, verificare se si è in presenza di un rapporto
di delega interorganica tra tali soggetti (6): solamente qualora questo esame dia
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35
(6) Nel linguaggio comunitario la formula “delega interorganica” è utilizzata come
sinonimo di “in house providing” per indicare quella forma gestionale “che non esula dalla
sfera amministrativa dell’amministrazione aggiudicatrice”, in “Comunicazione interpretativa
della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario” (nota 9).
esito positivo sarà evidente la non esistenza di un rapporto di terzietà, con la
conseguente applicabilità della disciplina interna di affidamento diretto.
Si ricorda che, ai sensi dell’art. 9 della direttiva 2004/18/CE, si considerano
amministrazioni aggiudicatici: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli
organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali
enti od organismi.
Con l’espressione organismo di diritto pubblico, invece, ci si riferisce a
qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificatamente esigenze di
interesse generale, non aventi carattere industriale o commerciale, che sia
dotato di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario
da parte dello Stato o degli enti pubblici territoriali, o la cui gestione
sia soggetta al controllo di tali soggetti, o il cui organo di amministrazione,
di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà
è designata da parte dello Stato o dagli enti pubblici.
Le difficoltà concernenti il fenomeno dell’in house risultano dall’ampio
dibattito che si è avuto riguardo il recente iter normativo comunitario per l’elaborazione
della direttiva 2004/18/CE (7): infatti il testo proposto dalla
Commissione non prevedeva alcuna disposizione concernente gli affidamenti
in house, ed il tentativo del Parlamento europeo di inserirne una si è scontrato
con la ferma resistenza da parte del Consiglio. In particolare, il
Parlamento aveva proposto di inserire un articolo in cui si esplicitasse la
volontà di escludere dal campo di applicazione della direttiva gli appalti stipulati
dall’amministrazione con una entità da essa totalmente dipendente.
Tale proposta prendeva evidentemente spunto dalla sentenza Teckal (v.infra).
A livello nazionale, ritengo utile ricordare come, in fase di recepimento
della direttiva, il Governo abbia deciso di stralciare dal testo del Codice degli
Appalti l’art. 15 che stabiliva“il presente Codice non si applica all’affidamento
di servizi, lavori e forniture a società per azioni il cui capitale sociale sia interamente
posseduto da una o più amministrazioni aggiudicatrici, a condizione
che queste ultime esercitino un controllo analogo a quello esercitato sui propri
servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con
le amministrazioni aggiudicatrici”. In breve, la norma recava la disciplina degli
affidamenti in house richiamando il principio stabilito nella sentenza Teckal.
4. Genesi del concetto “appalti in house”.
Al termine di una prima azione di tipo ricognitivo circa lo stato del settore
degli appalti pubblici, realizzata attraverso il Libro verde del 1996 “Gli
appalti pubblici nell’Unione Europea: spunti di riflessione”(8), la
36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(7) La problematica è correttamente messa in evidenza da F. PORCELLANA, “Servizi
pubblici locali e deroghe alla conocrrenza. La Corte salva l’in house nazionale”, in
www.giustamm.it, n. 5/2006.
(8) Si segnala, tra gli altri, il punto 2:“ La politica dell’Unione in materia di appalti
pubblici è volta ad instaurare in questo settore una concorrenza leale ed aperta”.
Commissione europea si pronunciò sulle molteplici osservazioni al riguardo
rese dai soggetti della Comunità.
L’occasione è stata il Libro bianco del 1998, dove si ritrova il primo
accenno alla questione degli appalti in house. La definizione comparsa in
tale testo è la seguente: “sono appalti in house quegli appalti aggiudicati
all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra una amministrazione
centrale ed una locale, o tra una amministrazione ed una società da
questa interamente controllata”.
In tale documento, inoltre, la Commissione si impegnò a pronunciarsi
sulle complesse questioni sollevate nei contributi al Libro verde, per soddisfare
le richieste di chiarezza e di certezza giuridica avanzate dagli operatori,
in difficoltà dinanzi ad una “foresta normativa e giurisprudenziale in cui
risulta difficile districarsi”(9).
L’argomento in house è stato poi ripreso dalla Commissione nell’ambito
di una comunicazione interpretativa(10) nella quale viene indicato che “un
problema particolare si pone nel caso in cui tra concessionario e concedente
esiste una forma di delega interorganica che non esula dalla sfera amministrativa
dell’amministrazione aggiudicatrice. La questione sull’applicazione del
diritto comunitario a tale relazione è stata affrontata dalla Corte e le cause pendenti
davanti alla Corte potranno apportare elementi di novità a riguardo”.
In concreto, la Commissione europea nella comunicazione non fornisce
una risposta chiara al quesito circa l’applicabilità dei principi comunitari di
concorrenza, non discriminazione e pubblicità alle ipotesi in cui tra concedente
e concessionario esista un rapporto delega interorganica, o se, al contrario,
in queste ipotesi sia ammissibile l’operatività di una deroga che, di
fatto, avrebbe l’effetto di sottrarre la relativa fattispecie alla disciplina comunitaria
in materia di appalti pubblici. In realtà, la Commissione non ha fatto
altro che rinviare alle pronunce della Corte di Giustizia.
La Commissione, attraverso l’elaborazione dei suindicati documenti,
ha intrapreso una serie di iniziative in ossequio al suo ruolo di “custode del
Trattato” (11).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37
(9) Punto 2.1.3 del Libro bianco “Gli appalti pubblici nell’Unione Europea”, 1998.
(10) Commissione dell’Unione Europea “Comunicazione interpretativa sulle concessioni
nel diritto comunitario”, 2000. Per i primi commenti: GUCCIONE C., “La comunicazione
interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario”, in
Giornale di diritto amministrativo, 2000; LEGGIADRO F., “Comunicazione interpretativa
sulle concessioni nel diritto comunitario”, in Giornale di diritto amministrativo, 2000,
n.10.
(11) Si ricorda come, oltre a dare avvio alla politica comunitaria e ad esprimere l’interesse
dell’Unione, compito della Commissione sia quello di verificare la corretta applicazione
del Trattato e della legislazione dell’Unione da parte degli Stati membri, cosicché tutti i
partecipanti al mercato unico possano trarre equamente vantaggio dall’equilibrio instaurato.
Sul ruolo svolto dalla Commissione, per tutti, MENGOZZI P., 1999, “European
Community Law”, London.
Per indicare l’ipotesi in cui un’amministrazione affidi ad un ente dalla
stessa controllato la prestazione di servizi, forniture o lavori, si è in un
momento successivo utilizzata l’espressione “in house providing”, che evidenzia
un modello di organizzazione in cui la pubblica amministrazione
provvede ai propri bisogni mediante lo svolgimento di attività interna, e contrapposto
al modello dell’outsourcing (o contracting out) nel quale, invece,
l’ente pubblico si rivolge al privato “esternalizzando” l’esercizio tipico dell’ente
stesso o, più semplicemente, la produzione ed il reperimento delle
risorse necessarie al suo svolgimento.
In realtà, nell’ordinamento giuridico comunitario non sembra possibile
ravvisare alcun obbligo di outsourcing nei confronti delle pubbliche amministrazioni:
i principi della concorrenza non sembrano imporre di rivolgersi sempre
e comunque al mercato per l’approvvigionamento di beni, servizi e forniture
(12). Come sembrano esservi compiti e funzioni il cui esercizio non può
mai essere affidato all’esterno, così non sembrano imporsi alla pubblica amministrazione
obblighi di esternalizzazione, ma solamente vincoli di rispetto del
principio della gara qualora essa decida di ricorrere ai privati (13).
Gli unici limiti che incombono sulla pubblica amministrazione circa la
scelta tra mercato e delegazione interorganica sembrano essere limiti di diritto
interno, e cioè i principi che regolano le scelte discrezionali di ogni amministrazione
pubblica.
Al riguardo, un’autorevole dottrina ha sostenuto che la giurisprudenza della
Corte di Giustizia sull’in house rappresenta il tentativo di armonizzare i principi
a tutela della concorrenza con il potere di auto-organizzazione riconosciuto
alle amministrazioni pubbliche dalle legislazioni dei singoli Stati membri (14).
5. Circolare “Affidamento a società miste della gestione dei servizi pubblici
locali”.
La Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 13 novembre 2001
contiene la circolare emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri,
38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(12) In questo senso MARCO GALESI, “In house providing: verso una concreta definizione
del controllo analogo”, nella rivista Urbanistica e appalti, agosto 2004; ALBERTO LUCARELLI,
intervento nell’Assemblea “L’acqua un bene dei cittadini”, Caserta 22 febbraio 2005.
(13) Nel senso dell’inesistenza di un obbligo per l’autorità pubblica di fare ricorso a
entità esterne nell’adempimento degli interessi pubblici su di essa incombenti, v. Corte di
Giustizia, sentenza 11 gennaio 2005 causa 26/03 Stadt Halle – TREA Leuna (v. infra).
L’inesistenza di un obbligo di esternalizzare la gestione dei servizi pubblici locali è sottolineata
da M. CALCAGNILE, C. BONORA, “Le caratteristiche delle società in house providing
per la gestione dei servizi pubblici locali”, in www.giustamm.it n. 8/2005; E. VARANI,
“L’in house providing: la Corte di Giustizia torna a parlare di controllo analogo”, in
www.filodiritto.com, gennaio 2005. In senso contrario D. IARIA, il quale dubita che la pubblica
amministrazione possa avocare a sé la scelta su come affidare il servizio, giustificando
così la sottrazione di una fetta di attività del mercato, Atti del Convegno “Il punto sui servizi
pubblici locali”, Università degli Studi di Siena, 10 febbraio 2006.
(14) D. CASALINI, “L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house”, 2003.
dipartimento per le politiche comunitarie, il 19 ottobre 2001, n. 12727, avente
ad oggetto la materia dell’affidamento a società miste della gestione di servizi
pubblici locali.
Tale circolare avverte che la Commissione dell’Unione europea ha
avviato nei confronti dello Stato italiano una procedura di infrazione per la
violazione delle disposizioni comunitarie in materia di affidamento della
gestione dei servizi pubblici locali.
Il ministero, tenuto conto dell’intervento dell’organo comunitario, ha
così ritenuto opportuno fornire alcuni elementi interpretativi volti a chiarire
quale sia la normativa applicabile in tema di affidamento di servizi dagli enti
locali, anche alla luce della disciplina risultante dal D. Lgs. 267 del 18 agosto
2000, Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali (TUEL).
La circolare afferma che la normativa europea in tema di appalti pubblici, ed
in particolare di servizi, non trova applicazione, secondo l’orientamento espresso
dalla Corte di Giustizia, qualora manchi un vero e proprio rapporto contrattuale
tra due soggetti, come nel caso, secondo la terminologia della Corte, di
“delegazione interorganica” o di servizio affidato, in via eccezionale, in house.
In questa circolare il requisito del “controllo analogo”, richiesto dal giudice
comunitario affinché operi la deroga in house (v. infra), viene individuato
nel “rapporto equivalente”, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di
subordinazione gerarchica, che si verifica quando sussiste un controllo
gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario.
Questa impostazione incontra numerosi e autorevoli dissensi in dottrina (15).
La circolare, inoltre, ricorda che, qualora non ricorrano gli estremi previsti
dalla giurisprudenza Teckal, l’aggiudicazione della concessione del servizio
deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi di trasparenza e di
parità di trattamento: la necessità di seguire procedure ad evidenza pubblica
deriva dalle norme e dai principi del Trattato (16).
6. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ed il contributo degli Avvocati
Generali.
Di notevole importanza per lo studio della tematica degli appalti in
house è stato l’apporto prestato dagli Avvocati Generali, che, con le loro con-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39
(15) Tra gli autori che respingono questo significato talmente restrittivo del concetto di
controllo analogo si segnala M. URSO, “Il requisito del controllo analogo negli affidamenti
in house”, nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 12/2006 laddove l’Autore segnala come
nella sentenza Teckal non si richieda un rapporto di subordinazione gerarchica, e come il
giudice comunitario fondi il sistema esclusivamente sul controllo della società affidataria e
sulla possibilità di indirizzarne l’attività; A. LE DONNE e C. PIEROTTI, “ Gestione in house
dei servizi pubblici locali: contaminazioni, suggestioni, soluzioni”, in ASTRID- Rassegna,
n. 5/2006, dove si parla di controllo “analogo, ma non identico”.
(16) In questo senso, Commissione dell’Unione europea, “Comunicazione interpretativa
sulle concessioni nel diritto comunitario”, 2000.
clusioni, hanno individuato gli elementi che devono essere presi in considerazione
per stabilire la natura giuridica del rapporto intercorrente tra l’amministrazione
aggiudicatrice ed il soggetto, collegato all’amministrazione,
aggiudicatario dell’appalto.
Come già in precedenza visto, affrontando il “problema” degli appalti in
house il nodo centrale da sciogliere concerne l’applicabilità, anche a tali particolari
fattispecie, delle procedure ad evidenza pubblica, o se, al contrario,
sussista la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di ricorrere all’affidamento
diretto (17).
Per rispondere a tale quesito ritengo opportuno seguire le osservazioni
svolte dagli Avvocati Generali nelle cause in cui sono state affrontate tali
particolari ipotesi di affidamento di appalti.
È mia intenzione ora, quindi, sottolineare brevemente i momenti più significativi
della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia, vere e proprie
tappe per una completa definizione della disciplina degli appalti in house (18).
6.1. Sentenza 10 novembre 1998, causa 306/96 BHI Holding contro Arnhem
e Rheden.
Nella causa Arnhem la materia del contendere era rappresentata dall’affidamento
effettuato da due comuni olandesi, interessati a svolgere congiuntamente
l’attività di smaltimento dei rifiuti, ad una società da essi costituita
proprio per lo svolgimento di tale attività.
Una società di diritto privato, specializzata nella raccolta e nel trattamento
dei rifiuti, ha intrapreso la via giudiziaria sostenendo che l’affidamento
alla società comunale era da ritenersi illegittimo, in quanto non conforme
alla procedura di aggiudicazione stabilita dalla direttiva 92/50, relativa agli
appalti pubblici di servizi.
Il giudice nazionale, il Gerechtshof, una volta sospeso il giudizio, ha
effettuato, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, un rinvio pregiudiziale alla
Corte di Lussemburgo chiedendo se una società di capitali, costituita da due
enti pubblici locali, potesse essere ritenuta un’amministrazione aggiudicatrice
e, quindi, ricadere nell’eccezione prevista all’articolo 6 della direttiva
92/50, che esclude l’obbligo di seguire le procedure ad evidenza pubblica nel
40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(17) C. ALBERTI, “Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione”, in
Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2001.
(18) Sul fenomeno di “un governo dei giudici”, MENGOZZI, “La rule of law e il diritto
comunitario di formazione giurisprudenziale” in Rivista di diritto europeo, 1992. L’Autore
evidenzia come “La Corte di Giustizia ha assunto, per la precisazione del diritto comunitario
e la sua progressiva integrazione nel tempo, un ruolo che trascende quello tradizionalmente
proprio dei giudici degli Stati membri, specie di quelli dell’Europa continentale (…)
Esiste una parte sempre più importante del diritto comunitario che è di formazione giurisprudenziale”;
M.P. CHITI, “I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia e lo sviluppo
del diritto amministrativo europeo”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1991.
caso in cui il soggetto aggiudicatario dell’appalto sia a sua volta un’amministrazione
aggiudicatrice.
In particolare, l’art. 6 della direttiva 92/50 stabilisce che la disciplina
risultante dalla stessa “non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati
ad un ente che sia esso stesso un’amministrazione aggiudicatrice, in base
ad un diritto esclusivo di cui esso benefici in virtù delle disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni
siano compatibili con il Trattato”.
Dopo aver preliminarmente affermato che l’attività di raccolta dei rifiuti
è riconducibile ai bisogni di carattere generale, in quanto attività correlata
ad esigenze di salute pubblica e di tutela ambientale, che i privati non riuscirebbero
da soli a garantire, il giudice comunitario ha statuito che la forma
giuridica della società non ha alcuna valenza, dovendosi invece utilizzare ai
fini della qualificazione di un’amministrazione come aggiudicatrice un criterio
di tipo esclusivamente funzionale.
La Corte di Giustizia, quindi, non ha dato nessun peso alla forma giuridica
delle disposizioni che istituiscono l’organismo.
La sentenza Arnhem è di notevole rilevanza, in quanto può essere individuata
come il primo tassello di un indirizzo giurisprudenziale della Corte
di Giustizia che, ad oggi, appare ormai ben consolidato.
Un altro tassello di questo orientamento può essere individuato nella
sentenza Coillte Teoronta (19), nella quale si discuteva circa la configurabilità
o meno dell’Ufficio irlandese delle Foreste (“Coillte Teoronta”) come
organismo di diritto pubblico. Il giudice comunitario si è avvalso di questa
occasione per confermare l’assoluta irrilevanza della qualifica formale che
un soggetto possa assumere sulla scorta del diritto interno ai fini della sua
possibile qualificazione come organismo di diritto pubblico: si è, in questo
modo, ribadita la prevalenza dell’interpretazione funzionale su quella meramente
formale.
6.2. Sentenza 9 settembre 1999, causa 108/98 RI.SAN S.r.l. contro Comune
di Ischia.
Il Tribunale amministrativo della Regione Campania ha sottoposto alla
Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali nell’ambito di una controversia
pendente tra la società RI.SAN. S.r.l. ed il Comune di Ischia, a proposito
delle modalità di organizzazione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani
attuate dall’ente pubblico territoriale.
L’ente comunale aveva istituito, ai sensi della normativa nazionale,
legge 142/1990, una società per azioni a capitale misto, alla quale aveva poi
affidato il servizio di raccolta dei rifiuti nel territorio comunale; a tale servizio
aveva in precedenza provveduto la RI.SAN. S.r.l. Il capitale della socie-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41
(19) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 17 dicembre 1998.
tà istituita dall’ente locale era detenuto per il 51% dal comune stesso, e per
il 49% dalla GEPI (20).
La RI.SAN. davanti al giudice amministrativo ha lamentato che la scelta
del socio privato avrebbe dovuto essere oggetto di una procedura ad evidenza
pubblica, e che il servizio in questione doveva essere attribuito in esito
a tale procedura.
Il giudice a quo ha ritenuto pregiudiziale ai fini della decisione della
causa che la Corte CE si pronunciasse circa l’applicabilità alla fattispecie in
esame della deroga di cui all’art. 90.2 del Trattato (21).
È mia intenzione sottolineare come a partire dalle cause Arnhem e
RI.SAN. gli Avvocati Generali, rispettivamente, La Pergola e Alber, nelle
loro conclusioni abbiano optato per un approccio funzionale piuttosto che
per uno formale, andando nelle proprie valutazioni oltre la mera qualificazione
giuridica del soggetto come società per azioni.
Gli Avvocati Generali hanno affermato che la qualificazione giuridica di
società per azioni non è di per sé elemento idoneo ad escludere a priori l’appartenenza
di questa società all’amministrazione aggiudicatrice.
Al contrario, è necessario un ragionamento più complesso, e che coinvolge
tutta una serie di indici da tenere in considerazione per dimostrare la
“dipendenza” tra l’amministrazione aggiudicatrice e la società per azioni.
In particolare, La Pergola ed Alber hanno messo in evidenza due aspetti
sintomatici della dipendenza: da una parte l’intreccio finanziario, dall’altra
la dipendenza amministrativa, organizzativa e gestionale tra i due soggetti.
In entrambe le cause vi era la presenza di un intreccio finanziario, ma,
appunto, tale circostanza non era di per sé sufficiente per affermare di essere
in presenza di un servizio in house.
Gli Avvocati Generali hanno sostenuto la presenza dell’ulteriore necessario
elemento di collegamento, e cioè l’influenza esercitata dall’amministrazione
sul soggetto aggiudicatario del servizio. La Pergola, nelle sue conclusioni,
ha parlato di “mancanza di terzietà”, e della conseguente esistenza
di una delega interorganica tra l’amministrazione aggiudicatrice ed il soggetto
aggiudicatario del servizio.
Riassumendo, nelle cause RI.SAN e Arnhem la dipendenza finanziaria
sommata a quella gestionale ed organizzativa tra l’amministrazione aggiudicatrice
e la società pubblica escludevano le due fattispecie dall’ambito di
applicazione della direttiva comunitaria sui servizi.
42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(20) Società partecipante a società miste degli enti locali per la gestione dei servizi pubblici
locali.
(21)Articolo 90.2 Trattato: “Le imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse
economico generale sono sottoposte alle norme del Trattato sulla concorrenza, nei limiti
in cui l’applicazione di tali norme non ostacoli l’adempimento della missione affidata a tali
imprese”.
La Corte di Giustizia, seguendo il ragionamento degli Avvocati Generali,
ha stabilito la non obbligatorietà del ricorso alla gara di affidamento, così
potendo l’amministrazione aggiudicatrice decidere di svolgerlo direttamente,
oppure attraverso il ricorso ad un soggetto legato alla stessa da un rapporto
di delega interorganica, escludendo così l’applicazione della direttiva
92/50.
6.3. Sentenza 18 novembre 1999, causa 107/98 Teckal S.r.l. contro Comune
di Viano.
Il Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia Romagna, nell’ambito
della causa dinanzi ad esso pendente tra la Teckal S.r.l. ed il Comune di
Viano, ha posto, con una ordinanza del 10 marzo 1998, una questione pregiudiziale
alla Corte di Giustizia relativa all’interpretazione dell’art. 6 della
direttiva 92/50/CEE, che coordina le procedure d’aggiudicazione degli
appalti pubblici di servizi (22).
Oggetto della controversia pendente dinanzi al giudice nazionale era
l’aggiudicazione, operata dall’ente territoriale, della gestione del servizio di
riscaldamento di alcuni edifici comunali.
Procedendo ad un rapido studio della normativa nazionale, l’art. 22 della
sopra citata legge 142/90 stabiliva che i comuni devono provvedere alla
gestione dei servizi pubblici che hanno per oggetto la produzione di beni e
le attività volte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico
e civile delle comunità locali. Gli enti locali, secondo tale normativa,
potevano fornire tali servizi in concessione a terzi, in economia, o attraverso
l’istituzione di una società per azioni a prevalente capitale pubblico locale.
Con delibera n. 18 del 24 maggio 1997, il consiglio comunale di Viano
ha affidato all’AGAG (23) la gestione del servizio di riscaldamento di alcuni
edifici comunali. Tale delibera non è stata preceduta da alcuna procedura
di gara.
La Teckal è un’impresa privata che opera nel settore dei servizi di riscaldamento,
fornendo gasolio e procedendo alla manutenzione degli impianti di
riscaldamento a gasolio e di quelli a gas.
La società Teckal ha proposto un ricorso contro la delibera comunale
dinanzi al giudice amministrativo competente, sostenendo che il Comune di
Viano avrebbe dovuto ricorrere alle procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici previste dalla normativa comunitaria in materia.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43
(22) Per il contenuto della disposizione si consenta il rinvio a quanto indicato nel
par. 6.1.
(23) Consorzio costituito da diversi comuni, tra cui quello di Viano, per la gestione dei
servizi dell’energia e dell’ambiente. In base all’art. 1 del proprio statuto, esso è dotato di
personalità giuridica e di autonomia imprenditoriale. Inoltre lo statuto prevede che gli organi
direttivi di tale consorzio non rispondono della loro gestione dinanzi ai comuni.
Nella causa Teckal, dunque, la Corte di Giustizia è stata chiamata ad
affrontare un’ulteriore ipotesi in house.
Sulla scia delle conclusioni dell’Avvocato Generale G. Cosmas, il giudice
comunitario ha asserito il principio che nell’ipotesi in cui l’amministrazione
aggiudicatrice intenda stipulare un contratto di appalto con un soggetto
che è anch’esso amministrazione aggiudicatrice, si applicherà la normativa
comunitaria (e nel caso in questione si trattava della direttiva 93/36, che
coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture)
esclusivamente se tale ente è un ente distinto da essa sul piano formale, ma
è altresì autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale.
In tal modo, la Corte ha stabilito un principio che dalle sentenze Arnhem e
RI.SAN. poteva solamente desumersi. Ma il giudice comunitario per valutare la
terzietà del soggetto aggiudicatario ha utilizzato proprio i parametri elaborati
dalla giurisprudenza Arnhem e RI.SAN. (indipendenza finanziaria e amministrativa),
così instaurando un consolidato orientamento giurisprudenziale.
Al contrario, secondo il giudizio della Corte, qualora l’amministrazione
aggiudicatrice eserciti sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a
quello esercitato sui propri servizi, e tale ente realizzi la parte più importante
della propria attività con l’amministrazione che lo controlla, si prescinderebbe
dall’ambito di applicazione della direttiva, perché “un contratto non
può essere considerato come stipulato tra persone distinte se l’operatore realizza
la parte più importante della propria attività con l’ente territoriale che
lo controlla ” (24).
Uno dei punti centrali della sentenza qui citata è certamente il concetto di
“controllo analogo”. Secondo l’Avvocato generale Kokott, “con l’espressione
«controllo analogo a…», la sentenza Teckal vuole sottolineare che le possibilità
di influenza esercitate su imprese pubbliche non debbono necessariamente
coincidere con quelle esercitate sui propri servizi. Determinante è piuttosto
il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia concretamente
in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse
pubblico. Solo quando un’impresa concretamente si rende autonoma al punto
da mettere l’amministrazione aggiudicatrice nell’impossibilità di far valere
appieno i propri interessi all’interno dell’impresa, non si potrà più parlare di
«controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi»”.
Sembra, dunque, a giudizio di chi scrive, che la Corte richieda “solamente”
un controllo “analogo”, ma non esattamente coincidente, identico a quello
tipico del vertice amministrativo rispetto agli apparati dell’ente pubblico;
e comunque non deve trattarsi di un controllo debole né meramente formale,
in quanto l’ente locale deve avere la possibilità di far valere in maniera
completa i propri interessi nell’ambito dell’impresa (25).
44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(24) Punto 50 della sentenza Teckal.
(25) In questo senso A. COLAVECCHIO, “Gli affidamenti in house a “future”società
miste”, in www.giustamm.it, n. 3/2005.
Questa tesi trova autorevole sostegno nell’interpretazione che l’Avvocato
generale Kokott fornisce all’espressione «un controllo analogo a …», laddove
sostiene che “le possibilità di influenza esercitate su imprese pubbliche non
debbono necessariamente essere identiche a quelle esercitate sui propri servizi”.
L’Avvocato generale ha adottato nelle sue conclusioni un approccio
sostanzialistico, considerando “non tanto il fatto che la pubblica amministrazione,
sotto l’aspetto formale, abbia le stesse possibilità giuridiche di influenza
che essa ha nei confronti dei propri servizi, quanto il fatto che all’interno di
tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia in qualunque momento concretamente
in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse
pubblico” (26).
Affinché si applichi “l’eccezione Teckal” deve essere soddisfatto anche
il secondo requisito indicato dalla Corte: la società “realizzi la parte più
importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano”.
L’Avvocato generale Stix-Hackl nelle sue conclusioni presentate nella
causa Stadt Halle (v. infra) ha affermato che, a tal fine, “assumono rilievo le
attività effettive, e non anche le attività astrattamente consentite dalla legge
o dallo statuto sociale”.
Anche l’Avvocato generale Kokott ha privilegiato il ricorso ad un criterio
di valutazione basato su elementi di fatto piuttosto che di diritto: egli ha sostenuto
l’opportunità di prendere, come punto di riferimento, la concreta attività
di ciascuna impresa, in quanto “l’attività svolta concretamente da un’impresa
è il migliore criterio per accertare se tale impresa si muove all’interno del mercato
come le altre, o se, al contrario, sia così strettamente collegata alla pubblica
amministrazione che i contratti con l’amministrazione aggiudicatrice possano
essere equiparati a procedure interne, e dunque giustificare una deroga alla
disciplina in materia di aggiudicazione di pubblici appalti” (27).
Un dato è certo: qualunque sia il significato e la portata che si voglia
attribuire alla deroga, il principio affermato dalla Corte di Lussemburgo
nella sentenza Teckal sarà in più occasioni richiamato dallo stesso giudice
comunitario (28).
Una di queste è rappresentata dalla sentenza Arge (29), dove la Corte ha
anche esplicitato che se una forma di controllo analogo a quello che l’ammi-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45
(26) Conclusioni dell’Avvocato generale nell’ambito della causa Parking Brixen.
(27) Paragrafo 81 delle conclusioni nell’ambito della causa C- 458/03 Parking Brixen.
A. CRISAFULLI, ritiene che per valutare la prevalenza occorra guardare al fatturato della
società, in “Affidamento diretto dei servizi pubblici locali (in house providing) e compatibilità
col Trattato CE”, in www.lapraticaforense.it.
(28) A. LE DONNE e C. PIEROTTI individuano la sentenza Teckal come la “madre” dell’in
house, in “Gestione in house dei servizi pubblici locali: contaminazioni, suggestioni,
soluzioni”, in ASTRID- Rassegna, n. 5/2006.
(29) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 15 giugno 2000, causa 94/99
Arge contro Bundesministerium fur Land und Forstwirtschaft.
nistrazione esercita sui propri servizi può sussistere in caso di partecipazione
pubblica totalitaria, lo stesso non può dirsi con sicurezza quando la partecipazione
pubblica è “solamente” maggioritaria. E comunque è necessario
che la partecipazione azionaria si traduca in un vincolo di diretta subordinazione,
che non sicuramente sussiste quando, come nella sentenza Arge, la
partecipazione nel soggetto aspirante ad una gara bandita da un ente locale è
detenuta da parte dello Stato.
Le sentenze richiamate rappresentano i primi tentativi della Corte di
Giustizia di affrontare il peculiare e delicato “problema” degli appalti in house.
Riassumendo, secondo il giudice comunitario esclusivamente nell’ipotesi
in cui l’amministrazione aggiudicatrice concluda un contratto con un soggetto
che è qualificabile in termini di delega interorganica con la stessa si esulerà dall’ambito
di applicazione della normativa comunitaria. E per compiere tale valutazione
si deve ricercare la contemporanea presenza nel rapporto tra i due soggetti
della dipendenza formale, di quella economica e di quella amministrativa.
Unicamente nell’ipotesi in cui tutti i richiamati requisiti risultino contemporaneamente
soddisfatti, l’amministrazione aggiudicatrice risulterà
un’unica persona con il soggetto aggiudicatario, una sorta di longa manus,
cosicché le norme contenute nelle direttive comunitarie in materia di appalti
pubblici potranno non trovare applicazione.
7. Gli ultimi interventi della Corte di Giustizia.
Quella dell’in house è una tematica in continuo sviluppo, attorno alla
quale l’intervento della Corte di Giustizia, ma anche della Commissione, è
spesso reso necessario dalle condotte degli enti pubblici degli Stati membri
dell’Unione.
Sono di seguito indicate le più recenti pronunce della Corte di Giustizia
in materia di appalti in house. La presenza in questi ultimi anni di un ingente
numero di pronunce giurisprudenziali inerenti la questione “in house” se
da una parte rende evidente l’importanza dell’argomento, dall’altra sottolinea
che si è in presenza di un fenomeno in rapida e continua evoluzione, così
che risulta necessario, per una corretto approccio alla materia, conoscere le
statuizioni del giudice comunitario che si succedono nell’arco di brevi periodi
di tempo (30).
7.1. Sentenza 11 gennaio 2005, Stadt Halle contro TREA Leuna.
Con questa pronuncia la Corte di Giustizia ha chiarito che nell’ambito di
un rapporto intercorrente tra un’amministrazione aggiudicatrice ed una
46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(30) G. MARCHEGIANI, “Gli affidamenti in house e la sindrome del cavallo a dondolo.
Sentenze a confronto”, in www.giustamm.it n. 5/2005 ritiene che quella in house sia una
materia che richiede un approccio prudente e graduale, nella consapevolezza dei vari interessi
in gioco che hanno causato le difficoltà interpretative.
società da essa giuridicamente distinta, nella quale tale amministrazione
detenga una partecipazione insieme con una o più imprese private, non è ravvisabile
una situazione di controllo analogo a quello esercitato dall’ente sui
propri servizi.
Il giudice nazionale tedesco, l’Oberlaudesgericht Naumburg ha posto
due domande pregiudiziali alla Corte di Giustizia nell’ambito della controversia
che vedeva come parti contrapposte la Stadt Halle (Città di Halle) e la
società RPL Lochau alla società TREA Leuna.
La controversia concerneva la regolarità, rispetto alle norme comunitarie,
dell’affidamento senza pubblica gara di un appalto di servizi (trattamento
di rifiuti), effettuato dalla Stadt Halle a favore della RPL Lochau, una
società mista a prevalente capitale pubblico.
La TREA Leuna, società anch’essa interessata a fornire quegli stessi servizi,
ha presentato un ricorso dinanzi alla competente sezione camerale per
gli appalti pubblici del Commissariato di Governo di Halle, affinché l’amministrazione
comunale desse avvio ad una pubblica gara di appalto.
L’amministrazione comunale si è difesa sostenendo che la società RPL
Lochau sarebbe un’emanazione della Stadt Halle, poiché da essa controllata;
si tratterebbe, dunque, di un’operazione in house providing, alla quale,
come tale, non si applicherebbero le norme comunitarie in materia di appalti
pubblici.
Dopo che il Regierungsprasidium aveva accolto la domanda della
TREA Leuna, l’Oberlandesgericht Naumburg, il giudice d’appello adito
dalla Stadt Halle ha deciso di sospendere il procedimento, e ha chiesto se,
qualora un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere con una
società di diritto privato da essa giuridicamente distinta, nella quale detiene
una partecipazione maggioritaria e sulla quale esercita un certo controllo,
un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di
applicazione ratione materiae della direttiva servizi, tale amministrazione
sia tenuta ad applicare le procedure ad evidenza pubblica previste dalla
direttiva comunitaria.
A tale riguardo il giudice comunitario ha statuito che “l’attribuzione di
un appalto pubblico ad una società mista senza fare appello alla concorrenza
pregiudicherebbe quello che è l’obiettivo di una concorrenza libera e non
falsata, ed il principio della parità di trattamento dei soggetti interessati”.
Ne consegue che nelle ipotesi di affidamento a società mista le procedure
previste dalla direttiva comunitaria devono necessariamente essere
applicate.
Nella sentenza della Corte di Giustizia 11 gennaio 2005 viene, in sostanza,
affermato che l’affidamento a società mista non può mai essere definito
in house.
Il giudice comunitario, inoltre, con questa pronuncia ha chiarito che
un’autorità pubblica ha la possibilità di adempiere gli interessi pubblici su di
essa incombenti mediante i propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro
tipo, senza essere obbligata a fare ricorso ad entità esterne non appartenenti
ai propri servizi.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47
Nel caso di utilizzo di propri strumenti, non è possibile parlare di contratto
a titolo oneroso concluso con una entità giuridicamente distinta dall’amministrazione
aggiudicatrice e non sussistono, così, i presupposti per
l’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici.
Il giudice comunitario sembra, quindi, pronunciarsi nel senso dell’inesistenza
nell’ambito dell’ordinamento comunitario di alcun obbligo di esternalizzare
gli appalti, nel senso di imporne l’affidamento all’esterno attraverso
le procedure di gara. In tal modo ha espressamente legittimato il sistema dell’in
house providing, inteso come lo svolgimento del servizio attraverso le
strutture interne dell’amministrazione (31).
In linea con la sentenza Teckal, in questa pronuncia la Corte non ha
escluso che possano sussistere alcune circostanze al cui verificarsi il ricorso
alla concorrenza non è obbligatorio, nonostante la controparte sia un’entità
giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Ciò, in
particolare, si verifica nelle ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice
esercita sull’entità distinta un controllo analogo a quello che essa esercita
sui propri servizi, e tale entità realizzi la parte più importante della propria
attività con l’autorità pubblica che la controlla. Ma il giudice comunitario,
con questa sentenza, ha statuito che la partecipazione, seppur minoritaria,
di un’impresa privata al capitale di una società in cui partecipi altresì l’amministrazione
aggiudicatrice esclude sempre e comunque che tale amministrazione
possa esercitare sulla detta società un “controllo analogo” a quello
che essa esercita sui propri servizi.
Il giudice di Lussemburgo ha statuito che il concetto di “controllo analogo”
(32) implica che il soggetto su cui tale controllo viene esercitato abbia
come sua finalità esclusiva il perseguimento dell’interesse pubblico, e ciò
non sarebbe possibile nel caso di partecipazione al soggetto stesso da parte
di un imprenditore privato, che per sua natura tende a perseguire anche un
interesse proprio, diverso dall’interesse pubblico in senso stretto (33).
Concludendo, la partecipazione di un socio privato, anche se minoritaria,
secondo la Corte impedisce di considerare la società in questione come
48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(31) Si veda nota numero 12.
(32) In dottrina si auspica che la Corte fornisca ulteriori elementi utili a definire il concetto
di “controllo analogo”, precisando quale forma ed intensità deve avere il pubblico
potere esercitato sulla società perché questa possa considerarsi una organizzazione strumentale
dell’amministrazione, e non un soggetto del tutto autonomo. In particolare, F.
BUONANNO “Servizi pubblici locali: appalti in house e rispetto delle regole comunitarie
sulla concorrenza” in AvvocatiAmministrativisti.it.
Secondo M. Calcagnile, “la figura dell’in house providing non può essere riconosciuta
qualora, tra l’amministrazione pubblica e la figura di gestione, vi sia separatezza organizzativa
ed autonomia decisionale dimostrate, ad esempio, dal fatto che si addivenga alla stipula
di un contratto quale incontro di “distinte volontà”, opera citata.
(33) A. CLARIZIA, “Il privato inquina: gli affidamenti in house solo a soggetti a totale
partecipazione pubblica”, in www.giustamm.it.
un’articolazione organizzativa dell’ente committente, non consente di parlare
di società in house e di procedere all’affidamento senza gara.
In secondo luogo, l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società
mista senza fare appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una
concorrenza libera e non falsata, ed il principio della parità di trattamento dei
soggetti interessati: una siffatta procedura garantirebbe ad un’impresa privata
un vantaggio nei confronti dei suoi concorrenti.
Nell’ambito dell’ampio dibattito dottrinario sul punto, se alcuni autori
hanno ritenuto le argomentazioni sulle quali si fonda questo orientamento
del giudice comunitario “quantomeno opinabili” (34), altri, al contrario,
hanno accolto favorevolmente questa impostazione fortemente restrittiva,
riconoscendola come “lapalissiana” (35).
Qualche perplessità solleva la considerazione dell’interesse privato
come necessariamente e aprioristicamente incompatibile con l’interesse pubblico
che guida l’ente locale (36).
Inoltre, a tale orientamento della Corte si può obiettare che l’attribuzione
di un appalto pubblico ad una società mista non pregiudicherebbe l’obiettivo
di una concorrenza libera e non falsata qualora il privato debba essere
scelto con procedure di evidenza pubblica.
Autorevole dottrina ha sottolineato che la conseguenza di questo orientamento
giurisprudenziale sia la fine dell’utilizzo dello strumento societario
(con la connessa perdita delle capacità imprenditoriali dei soggetti privati) in
quanto, da una parte, l’amministrazione non potrà più aprirsi ai privati a
causa della conseguente perdita della possibilità di affidare direttamente il
servizio, e, dall’altra, il privato non avrà più interesse a partecipare ad una
società pubblica, dominata dalle logiche politiche (37).
Il descritto convincimento viene ribadito dalla Corte di Giustizia, pochi
mesi dopo, con la decisione nella causa Co.Na.Me. (38) a mezzo della quale
il giudice comunitario ha escluso la possibilità di affidamenti in house nelle
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49
(34) M. URSO, “Il requisito del controllo analogo negli appalti in house”, nella rivista
Urbanistica e Appalti, n. 12/2006; in senso critico si segnala anche M. Didonna, “…sorprende
l’aver ritenuto, con intenzione generalizzante, l’antagonismo genetico dell’interesse pubblico
con quello portato dai privati, atteso che odiernamente numerose funzioni pubblicistiche
i differenti ordinamenti legislativi nazionali le assegnano direttamente proprio alla cura
dei privati (ritenendola più efficace)”, in “Il caso, chiuso, degli appalti in house”, nella rivista
Urbanistica e Appalti, n. 4/2006.
(35) Cfr. la nota a sentenza di C. GUCCIONE, in Giornale di Diritto Amministrativo,
2005; in senso favorevole si indica anche R. URSI, “Una svolta nella gestione dei servizi
pubblici locali: non c’è casa per le società a capitale misto”, in Foro It., 2005, IV.
(36) Cfr. V. OTTAVIANO, “Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni”, in
Rivista delle società e Scritti giuridici, II.
(37) M.P. CHITI, “Verso la fine del modello di gestione dei servizi pubblici locali tramite
società miste”, in Foro Amm. TAR, 2006.
(38) Decisione 21 luglio 2005, C-231/03.
ipotesi in cui il soggetto aggiudicatore sia partecipato da privati. La presenza
del privato sarebbe idonea, ex se, a precludere la spendibilità di un “controllo
analogo” (39).
7.2. Sentenza 13 ottobre 2005 Parking Brixen GmbH contro Comune di
Bressanone.
La causa 458/03 riguarda l’affidamento di un contratto da parte del
Comune di Bressanone ad una società controllata al 100%. Non si tratta,
quindi, di una società mista pubblico-privata Si è, dunque, in una situazione
differente da quella affrontata a Lussemburgo nella causa Stadt Halle.
Il 23 luglio 2003 il Verwaltungsgericht Autonome Sektion fur die Bozen ha
effettuato una domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia concernente l’interpretazione
della direttiva 92/50, nell’ambito della controversia dinanzi ad
esso pendente tra, da una parte, la società Parking Brixen e, dall’altra, il Comune
di Bressanone e la società Stadtwerke Brixen AG in ordine all’aggiudicazione
a quest’ultima della gestione dei parcheggi situati nel territorio comunale.
Davanti al giudice nazionale la Parking Brixen ha contestato l’attribuzione
alla Stadtwerke Brixen della gestione dei parcheggi in quanto, secondo
la parte ricorrente, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto applicare
la normativa comunitaria in materia.
Le parti convenute hanno affermato l’inesistenza dell’obbligo di effettuare
una pubblica gara nel caso di specie, in quanto il Comune controlla per
intero la società per azioni: la Stadtwerke Brixen non sarebbe, dunque, un
ente indipendente dall’ente comunale.
Il giudice comunitario ha osservato che dall’ordinanza di rinvio il controllo
dell’amministrazione comunale sulla società partecipata è di tipo precario.
In particolare rilevano in tal senso due fattori: l’apertura obbligatoria,
a breve termine, della società ad altri capitali; i considerevoli poteri conferiti
al consiglio di amministrazione della società.
La Corte ha statuito che qualora un ente concessionario fruisca di un elevato
margine di autonomia, caratterizzato da elementi come quelli messi in
luce dall’ordinanza di rinvio, è escluso che l’autorità pubblica concedente
eserciti sull’ente concessionario un “controllo analogo” a quello esercitato
sui propri servizi.
Nel caso di specie, l’amministrazione pubblica deteneva sì il 100% delle
quote societarie al momento dell’affidamento della gestione dei servizi, ma
sulla stessa gravava l’obbligo di cedere la posizione di azionista unico in
cambio di una partecipazione di maggioranza entro due anni dalla trasformazione
dell’azienda speciale (40).
50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(39) Cfr. M. DIDONNA, op. cit.
(40) Si veda l’art. 88 del Testo Unico sull’ordinamento dei comuni della Regione
Trentino-Alto Adige.
Il semplice fatto che l’amministrazione aggiudicatrice sia obbligata ad
aprire il capitale della società per azioni alla partecipazione di terzi, ed il
fatto che gli organi di tale società godano di ampi poteri, esclude che l’ente
pubblico possa esercitare su tale società un “controllo analogo”.
Il principio affermato nella sentenza Parking Brixen, non condiviso da
una parte della dottrina (41), pone gravi incertezze in un contesto, quale
quello nazionale, caratterizzato dalla presenza di società a socio unico strutturate
analogamente alla società di Bressanone.
Inoltre, alcune perplessità può suscitare la sanzione di illegittimità dell’affidamento
diretto in presenza di una previsione statutaria di apertura ai
privati, in concreto non verificata, in quanto l’eventuale lesione dell’interesse
pubblico non appare attuale (42): in tal modo il giudice comunitario ha
stabilito che il conflitto tra interesse pubblico e interesse privato, che impone
il procedimento di gara, può essere anche meramente potenziale e futuro
(43).
La giurisprudenza amministrativa più recente ha affermato che la decisione
Parking Brixen fornisce un’interpretazione autentica della sentenza
Teckal, ed ha sostenuto l’insufficienza dei poteri spettanti all’ente pubblico
come socio ai fini dell’esistenza del “controllo analogo”, escludendo così
dall’eccezione in house le ipotesi in cui il consiglio di amministrazione della
società pubblica detiene poteri ampi e non bilanciati da efficaci poteri di controllo
(44).
Se con la sentenza Stadt Halle la Corte ha escluso la possibilità di affidamenti
diretti quando il soggetto aggiudicatore è partecipato da privati, con
la più recente sentenza Parking Brixen il giudice comunitario si è spinto
ancora oltre sancendo l’illegittimità dell’affidamento diretto nel caso in cui,
nonostante la titolarità totalmente pubblica del gestore, non sembra comunque
possibile che la pubblica amministrazione possa esercitare quel “controllo
analogo” (45).
7.3. Sentenza 10 novembre 2005 Commissione contro Repubblica di Austria.
La Commissione europea il 28 gennaio 2004 ha proposto un ricorso ai
sensi dell’art. 226 del Trattato con il quale ha chiesto alla Corte di accertare
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51
(41) A. GRAZIANO, “Servizi pubblici locali: modalità di gestione dopo le riforme di cui
alla legge 2003 n.326 e alla legge 2003 n.350 e compatibilità con il modello dell’in house
providing alla luce delle ultime pronunce della Corte di Giustizia”, in www.giustizia-amministrativa.
it
(42) In questo senso, M. URSO, op. cit.
(43) M. DIDONNA, op. cit.
(44) Si veda Consiglio di Stato, 13 luglio 2006, n. 4440.
(45) A. CLARIZIA, “La Corte suona il de profundis dell’in house providing”, in
www.giustamm.it n. 10/2005, in cui l’Autore ha indicato come in tal modo il giudice comunitario
ha voluto rinnegare l’esistenza degli affidamenti in house.
e di dichiarare che, poiché il contratto relativo allo smaltimento dei rifiuti
della città di Modling è stato stipulato senza l’osservanza delle norme di procedura
e di pubblicità risultanti dalla direttiva 92/50/CEE, la Repubblica di
Austria è venuta meno agli obblighi che su di essa incombono in base a tale
direttiva.
Ritengo opportuno richiamare questa pronuncia del giudice comunitario
in quanto confermativa dell’indirizzo intrapreso nella sentenza Stadt Halle.
Nel maggio 1999 il consiglio comunale ha creato un organismo indipendente
allo scopo di fornire prestazioni di servizi in materia di gestione ecologica
dei rifiuti, e di realizzare le relative operazioni commerciali. È stata
così istituita la società Stadtgemeinde Modling Abfallwirtschaftsgmbh (in
seguito: Abfall), il cui capitale sociale è interamente detenuto dalla città di
Modling.
Il 25 giugno 1999 il consiglio comunale ha incaricato, a titolo esclusivo,
della gestione dei rifiuti sul territorio comunale la società Abfall, ma, nel
mese di ottobre, ha ceduto il 49% delle quote della Abfall alla società
Saubermacher.
Dal 1 dicembre 1999 al 31 marzo 2000 la società Abfall ha svolto la sua
attività esclusivamente per conto della città di Modling. Successivamente
essa ha fornito prestazioni anche a soggetti terzi, in particolare ad altri comuni
dello stesso distretto.
Dopo aver invitato la Repubblica d’Austria a presentare le proprie osservazioni,
il 2 aprile 2003 la Commissione ha inviato un parere motivato, nel
quale ha constatato le violazioni delle disposizioni della direttiva
92/50/CEE, in quanto l’amministrazione comunale non aveva indetto una
gara d’appalto per l’attribuzione del contratto relativo allo smaltimento dei
rifiuti.
In risposta a tale parere motivato, la Repubblica d’Austria ha affermato
che la conclusione del contratto in questione non rientrava nell’ambito di
applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, in quanto riguardava un’operazione
interna tra il Comune e la società Abfall.
Non essendo rimasta soddisfatta di tale risposta, la Commissione ha
deciso di proporre ricorso all’organo giurisdizionale comunitario.
In particolare, la Commissione ha sostenuto che, dal momento che ricorrono
tutte le condizioni per l’applicazione della direttiva 92/50/CEE, le
norme di procedura definite dalla stessa e le sue regole di pubblicità erano
pienamente applicabili al caso di specie, e che non sussisteva alcun elemento
che potesse dimostrare l’esistenza di un rapporto interno tra il Comune di
Modling e la società Abfall. L’organo comunitario ha a tal fine richiamato la
sentenza Teckal.
In particolare, la Commissione ha sostenuto che, nel caso in cui un’impresa
privata detenga delle quote nella società aggiudicataria, occorre presumere
che l’amministrazione aggiudicatrice non possa esercitare su tale società
“un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”.
Quindi, una partecipazione minoritaria di un’impresa privata sarebbe sufficiente
ad escludere l’esistenza di un’operazione interna.
52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nella sentenza Stadt Halle la Corte ha già esaminato la questione, statuendo
che la partecipazione, anche di minoranza, di un’impresa privata
nel capitale di una società in cui partecipa altresì l’autorità aggiudicatrice
esclude in ogni caso che tale autorità possa esercitare un “controllo analogo”
a quello da essa esercitato sui propri servizi (46), e che l’aggiudicazione
di un appalto pubblico ad un’impresa ad economia mista senza fare
appello alla concorrenza comprometterebbe l’obiettivo di una concorrenza
libera e non falsata, in quanto tale procedura offrirebbe alla società privata
presente nel capitale di tale impresa un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti
(47).
7.4. Sentenza 6 aprile 2006, Associazione Nazionale Autotrasporto
Viaggiatori contro Comune di Bari.
La presente questione è sorta nell’ambito di una controversia tra
l’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (in prosieguo: “ANAV”)
da un lato, e il Comune di Bari e l’AMTAB Servizio S.p.A. dall’altro, e concernente
l’affidamento effettuato a quest’ultima del servizio di trasporto pubblico
sul territorio di detto Comune.
L’art.14 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 ha modificato l’art. 113 del
D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali.
La nuova versione, quinto comma, stabilisce che l’erogazione del servizio
deve avvenire secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa
comunitaria, con conferimento della titolarità del servizio: a società di
capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza
pubblica; a società a capitale misto nelle quali il socio privato viene
scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
a società a capitale interamente pubblico, a condizione che l’ente titolare del
capitale sociale eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato
sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria
attività con l’ente che la controlla.
Nella causa in questione l’AMTAB è una società per azioni il cui
capitale è interamente posseduto dal Comune di Bari, e la cui attività consiste
nel fornire un servizio di trasporto pubblico sul territorio dell’ente
locale.
Con provvedimento datato 17 luglio 2003, l’amministrazione comunale
ha avviato una procedura di gara ad evidenza pubblica al fine di affidare il
servizio di trasporto pubblico; tuttavia, essendo intervenuta la modifica dell’art.
113 del D.Lgs. 267/2000, il Comune ha abbandonato tale procedura e
ha affidato direttamente il servizio all’AMTAB.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53
(46) Sentenza Stadt Halle, punto 49.
(47) Sentenza Stadt Halle, punto 51.
L’ANAV ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia
di annullare il provvedimento di affidamento del servizio, lamentando la violazione
del diritto comunitario.
Di fronte a tale censura il giudice amministrativo ha sospeso il procedimento
e ha posto un quesito alla Corte: la compatibilità con il diritto comunitario,
ed in particolare con gli obblighi di trasparenza e di libera concorrenza,
dell’art. 113, comma quinto del D.Lgs. 267/2000, come modificato dal
legislatore del 2003, nella parte in cui non pone alcun limite alla libertà di
scelta dell’Amministrazione pubblica tra l’affidamento mediante procedura
di gara ad evidenza pubblica e l’affidamento diretto a società da essa interamente
controllata.
In altri termini, il giudice nazionale ha sottoposto la questione circa l’esistenza
del gioco concorrenziale in Italia, messo in pericolo dal sistema dell’in
house providing, che assegna un potere di scelta ampio, secondo alcuni
troppo (48), in relazione al possibile affidamento del servizio.
La parte ricorrente ha sostenuto che, attraverso il D.L. 269/2003, il legislatore
nazionale ha realizzato una controriforma nel settore dei servizi pubblici
locali, in netta controtendenza rispetto alle istanze di liberalizzazione
del sistema attuato, dopo le sollecitazioni della Commissione europea, dall’art.
35 della Legge 28 dicembre 2001, n. 448, che prevedeva come generale
il ricorso alla gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di appalti o concessioni
aventi ad oggetto la gestione di servizi pubblici locali.
Il dubbio che ha portato il giudice a quo a sollevare una questione pregiudiziale
alla Corte di Giustizia riguarda la portata del nuovo art. 113: nell’ordinanza
del T.A.R. è segnalato come anche le stesse istituzioni comunitarie,
pur riconoscendo l’ammissibilità della fattispecie di affidamento in
house, la considerino una ipotesi eccezionale, così dando per scontato che
l’ipotesi “normale” sia costituita dall’affidamento mediante procedura ad
evidenza pubblica. Il legislatore italiano del 2003, invece, inverte questo rapporto,
rendendo generale un sistema che il diritto comunitario vorrebbe
meramente eccezionale (49).
Lo stesso dubbio è stato posto alla Corte di Giustizia dal Consiglio di
Stato (50), che ha espresso la preoccupazione che l’affidamento diretto, divenuto
una pratica assai frequente, possa sottrarre aree assai ampie di attività
economica all’iniziativa imprenditoriale privata.
Il Consiglio di Stato, dunque, ha manifestato una tensione verso la correzione
del sistema e verso l’apertura definitiva del mondo dei servizi pubblici,
in modo da favorire sì la concorrenza, ma anche la crescita dei servizi
stessi sotto i profili dell’efficienza, dell’economicità e della trasparenza.
54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(48) PAOLO LOTTI, “Affidamento in house nei servizi pubblici locali e pregiudizio per
la concorrenza” nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 2/2005.
(49) In questo senso, P. LOTTI, op. cit.
(50) Consiglio di Stato, sentenza 22 aprile 2004, n. 2316.
I giudici di Lussemburgo hanno risposto a tale quesito affermando che
una normativa nazionale che riprende testualmente le condizioni indicate
dalla Corte (“controllo analogo”; svolgimento della parte più importante
della propria attività con l’autorità concedente), come fa l’art. 113, quinto
comma, del D.Lgs. 267/2000, come modificato, è in linea di principio conforme
al diritto comunitario.
La Corte, però, ha precisato che, trattandosi di un’eccezione alle regole
generali del diritto comunitario, le due condizioni devono essere interpretate
restrittivamente, e l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze
eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava sul soggetto
che intende avvalersene (51).
La Corte ha poi aggiunto che qualora durante la vigenza del contratto, il
capitale della società partecipata fosse aperto ad azionisti privati, la conseguenza
di ciò sarebbe l’affidamento di una concessione di servizi pubblici ad
una società mista senza procedura concorrenziale, e la partecipazione, ancorché
minoritaria, di un’impresa privata nel capitale di una società alla quale
partecipa anche l’autorità concedente esclude che la detta autorità possa
esercitare su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri
servizi (52): se la società concessionaria è una società aperta al capitale privato
tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione
“interna” di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene
(53).
7.5. Sentenza 11 maggio 2006 Carbotermo S.p.A. e Consorzio Alisei contro
Comune di Busto Arsizio e AGESP S.p.A.
Nella causa 340/2004 il giudice comunitario ha esaminato il caso in cui
un ente locale eserciti la sua influenza sulla società aggiudicataria non direttamente,
ma attraverso una società holding, considerando le implicazioni che
possono incidere sulla sussistenza del “controllo analogo”.
La AGESP Holding S.p.A. è una società per azioni il cui capitale sociale
appartiene per il 99,98% al Comune di Busto Arsizio.
La AGESP è una società per azioni costituita dalla AGESP Holding ed il
cui capitale sociale appartiene per il 100% a quest’ultima.
Con deliberazione del 18 dicembre 2003 l’ente comunale ha affidato un
appalto per la fornitura di combustibili, nonché per la manutenzione e riqualificazione
tecnologica degli impianti termici degli edifici comunali direttamente
alla AGESP.
L’amministrazione comunale ha motivato tale decisione adducendo che
tale impresa soddisfaceva i due requisiti stabiliti dalla giurisprudenza comu-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55
(51) V. sentenze Stadt Halle, punto 46, e Parking Brixen, cit., punto 63.
(52) V. in tal senso, sentenza Stadt Halle, punto 49.
(53) V. in tal senso, sentenza Coname, cit., punto 26.
nitaria per concludere appalti pubblici senza gara. In particolare, nella decisione
l’ente comunale sostiene che la detenzione del 99% del capitale dell’impresa
attesta un rapporto di subordinazione nei confronti di quest’ultima,
e che anche l’ulteriore requisito era soddisfatto nel caso di specie.
La Carbotermo ed il Consorzio Alisei hanno impugnato dinanzi al
Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia la deliberazione che ha
affidato l’appalto all’AGESP, in quanto non ricorrevano le condizioni che
rendono inapplicabile la direttiva.
Il giudice amministrativo ha sospeso il procedimento e ha sottoposto la
questione alla Corte CE.
Il giudice di Lussemburgo ha analizzato lo statuto della società partecipata,
rilevando che esso attribuisce al consiglio di amministrazione i più
ampi poteri per la gestione ordinaria e straordinaria della stessa, e non riserva
al Comune di Busto Arsizio nessun potere di controllo o diritto di voto
particolare per limitare la libertà d’azione riconosciuta a detto consiglio.
Il controllo esercitato dall’amministrazione comunale, in queste condizioni,
si risolve sostanzialmente nei poteri che il diritto societario riconosce
alla maggioranza dei soci, la qual cosa limita il suo potere di influire sulle
decisioni della società (54).
Esaminando la problematica in house ad ipotesi di “partecipazioni indirette”,
la Corte ha statuito l’incompatibilità di un affidamento diretto nei casi
in cui la gestione non è affidata al soggetto a cui l’ente locale partecipa direttamente,
bensì ad una società da questa controllata, in quanto in queste ipotesi
il controllo dell’ente pubblico sulle decisioni della società controllata
subisce un potenziale indebolimento (55).
La Corte ha affermato in questa pronuncia l’impossibilità di ricorrere ad
un affidamento diretto di un appalto pubblico ad una società per azioni il cui
consiglio di amministrazione possiede ampi poteri di gestione esercitabili in
maniera autonoma ed il cui capitale sociale è detenuto non dall’amministrazione
aggiudicatrice, bensì da un’altra società, di cui l’amministrazione
aggiudicatrice sia socio di maggioranza.
È probabilmente ravvisabile, nella sua più recente pronuncia, un atteggiamento
meno rigido del giudice comunitario in ordine ai presupposti del
controllo analogo, laddove, pur confermando che l’ente pubblico deve potere
influenzare le decisioni della società partecipata in maniera determinante
«sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti», ha riconosciuto
56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(54) Nel senso che i normali strumenti che il socio esercita in assemblea, secondo le
regole del diritto commerciale, non sono idonei a garantire la possibilità di intervenire in
maniera cogente sui poteri e sulle decisioni degli organi gestionali dell’impresa, neppure nel
caso di partecipazione totalitaria, si veda R. GOSO, “Modelli di gestione dei servizi pubblici
locali: affidamento mediante gara pubblica e in house providing”, nella rivista Urbanistica
e Appalti, n. 5/2006.
(55) In questo senso, MANGIAVACCHI L., op. cit.
una presunzione di controllo analogo in quelle ipotesi in cui la società sia
posseduta per intero dall’amministrazione aggiudicatrice, anche se tale situazione
non viene ritenuta decisiva.
Dall’analisi delle indicate sentenze si è potuto riscontrare il tentativo
della Corte di Giustizia di elaborare criteri precisi per la soluzione delle ipotesi
in house.
L’esistenza di un ente distinto è facile da concepire, in quanto è sufficiente
accertare che l’operatore economico sia costituito sotto una forma giuridica
diversa da quella dell’amministrazione aggiudicatrice.
Al contrario, non sempre è agevole rendersi conto del grado di effettiva
autonomia di cui l’ente dispone. In particolare, la natura del controllo esercitato
dal soggetto pubblico su un organismo giuridicamente distinto, o il
livello a partire dal quale si può ritenere che quest’ultimo svolga la parte
essenziale della sua attività con l’autorità pubblica dalla quale dipende, in
determinate circostanze possono suscitare (ancora) gravi incertezze (56).
Tuttavia, malgrado il persistere di queste incertezze, ad avviso di chi
scrive risulta evidente che i più recenti indirizzi della Corte di Lussemburgo
mostrino una decisa tensione del giudice comunitario verso la chiusura al
fenomeno dell’in house providing.
Non resta che attendere ulteriori precisazioni da parte del giudice comunitario.
8. Giurisprudenza nazionale in materia di affidamenti in house.
Anche i giudici nazionali in questi ultimi anni si sono trovati dinanzi al
sistema dell’in house providing. In particolare, sono di seguito richiamate
alcune sentenze del giudice amministrativo particolarmente significative.
8.1. T.A.R. Lombardia-Milano, sentenza 17 luglio 2006, n. 1837.
Con questa sentenza il T.A.R. di Milano ha accolto il ricorso presentato
dalla parte ricorrente, impresa privata, che intendeva farsi affidataria della
gestione del servizio di pulizia ed igiene presso il Comune di Cormano, contro
le determinazioni dell’amministrazione comunale che aveva proceduto
all’affidamento diretto del servizio ad un ente societario (A.M.S.A. S.p.A. e
la collegata AMSATRE S.r.l.) completamente partecipato da un altro ente
locale (il Comune di Milano).
Il modello dell’in house providing, ha statuito il giudice amministrativo
in questa sentenza, implica che la società affidataria sia nient’altro che
una sorta di diramazione organizzativa dell’ente locale, priva di una sua
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57
(56) In questo senso, IGOR SECCO, “La compatibilità con il diritto comunitario del
modello di affidamento diretto dei servizi pubblici locali” in Osservatorio di diritto comunitario
e nazionale sugli appalti pubblici.
autonomia imprenditoriale e di capacità decisionali distinte da quelle dell’ente
stesso (57).
Il tribunale amministrativo ha affermato che il requisito del “controllo
analogo”, richiesto dai giudici comunitari e ripreso dal legislatore italiano
(58), implica un “controllo strutturale” sul soggetto affidatario da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice quale condizione necessaria e imprescindibile
per la configurazione dell’in house providing.
Il controllo strutturale, tuttavia, secondo il T.A.R. non implica necessariamente
l’integrale partecipazione pubblica al capitale sociale, ma può consistere
tanto nel potere di nominare la maggioranza dei soggetti che compongono
gli ordini di amministrazione, direzione o vigilanza dell’ente in house,
quanto nell’adozione di qualsiasi altro mezzo idoneo ad assicurare un’effettiva
dipendenza formale, economica ed amministrativa di quest’ultimo
rispetto all’amministrazione controllante (59).
Secondo l’orientamento della giurisprudenza comunitaria e nazionale, il
controllo analogo sussiste ogniqualvolta si accerti l’esistenza di uno stringente
controllo gestionale e finanziario dell’ente pubblico sulla società partecipata,
in modo tale che i compiti affidati alla società saranno trattati come
se fossero stati ad essa delegati dall’amministrazione.
Nel caso di specie, il giudice amministrativo ha ritenuto che l’amministrazione
comunale non fosse nella condizione di esercitare quel controllo
gestionale e finanziario stringente, tale da assimilare il rapporto esistente tra
i due soggetti ad una relazione di vera e propria subordinazione gerarchica,
come ritenuto indispensabile dalla più recente giurisprudenza amministrativa
(60).
8.2. Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 13 luglio 2006 n. 4440.
La pronuncia in commento presenta aspetti di rilevante interesse nell’enunciazione
della sostanza del requisito del “controllo analogo”.
Con questa decisione il Consiglio di Stato ha accolto la regola, di derivazione
comunitaria, secondo la quale le società a capitale pubblico non possono
vedersi affidare direttamente appalti e concessioni da parte degli enti
58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(57) Punto 4.3 della sentenza.
(58) L’articolo 113, comma 5 del D. Lgs. n. 267/2000, nella formulazione dettata dal
legislatore del 2003, dispone alla lett. c) che i servizi di rilevanza economica possono essere
erogati anche a mezzo di “società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente
o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo
a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della
propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.
Nel senso che la scelta compiuta dal legislatore statale trovi la sua ratio nell’esigenza
di adeguare l’ordinamento interno alle regole europee, M. CALCAGNILE, C. BONORA, op. cit.
(59) Cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 22 aprile 2004, n. 2316.
(60) Cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, 25 gennaio 2005, n. 168.
pubblici di riferimento, stante l’insufficienza del controllo societario di diritto
commerciale per assicurare quel “controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi”, condizione per l’operatività dell’eccezione dell’in house providing
(61).
Secondo una parte della dottrina, in passato il giudice comunitario aveva
lasciato intendere che il possesso della totalità del capitale da parte dell’ente
pubblico aggiudicatore consentisse la possibilità di configurare un assetto in
cui l’ente proprietario della S.p.A. locale potesse detenere quel “controllo
analogo”. In particolare, quando il giudice comunitario nella sentenza Stadt
Halle (v. supra) ha affermato che l’affidamento a società mista non può mai
essere definito in house, si poteva ipotizzare, a contrario, che la sussistenza
del “controllo analogo” fosse ravvisabile in quelle ipotesi in cui l’amministrazione
aggiudicatrice fosse titolare dell’intero pacchetto azionario (62). In
tal senso si è pronunciato il Consiglio di Stato nella decisione n. 7345 del 22
dicembre 2005 (63).
Con la sentenza Parking Brixen (v. supra), però, la Corte di Giustizia ha
approfondito l’analisi delle caratteristiche del“controllo analogo”, rendendo
di fatto impossibile un’interpretazione in tal senso (64).
Ai principi affermati a Lussemburgo si è conformato il Consiglio di
Stato con questa decisione, con la quale ha annullato il provvedimento
comunale che affidava direttamente la gestione dei parcheggi pubblici ad una
società a capitale comunale.
In primo luogo, i giudici di Palazzo Spada hanno stabilito che il possesso
dell’intero capitale sociale da parte dell’ente pubblico, pur astrattamente
idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi
interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota
di esso, seppur minoritaria, possa essere alienata a terzi (65).
In secondo luogo, il giudice amministrativo ha preso in considerazione
l’ampiezza dei poteri del consiglio di amministrazione secondo la disciplina
risultante dallo statuto. A tale riguardo ha affermato che se il consiglio di
amministrazione dispone della facoltà di adottare tutti gli atti ritenuti neces-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59
(61) In senso analogo, Consiglio di Stato, sezione V, 30 agosto 2006, n. 5072.
(62) G. LECCISI, “Ancora dubbi sul concetto di controllo analogo in materia di in
house. Nota a sentenza del C.d.S. del 13 luglio 2006, n. 4440”, in www.giustamm.it.
(63) In ragione dell’indicata tendenza della giurisprudenza amministrativa nazionale ad
identificare il “controllo analogo” con il semplice controllo societario totalitario, M.
GIORELLO ha denunciato la distonia tra la giurisprudenza comunitaria e quella interna, in
“L’affidamento dei servizi pubblici locali tra diritto comunitario e diritto italiano”, in
Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2004, n. 3, 4.
(64) MANGIAVACCHI L., op. cit, ritiene che fino alla sentenza Parking Brixen la giurisprudenza
comunitaria aveva identificato il controllo analogo, sic et simpliciter, nel possesso
della totalità del capitale sociale da parte dell’ente pubblico controllante.
(65) Nel caso di specie, nello statuto era prescritto che il Comune dovesse conservare
solamente il 51% del capitale sociale.
sari per il conseguimento dell’oggetto sociale, i poteri attribuiti alla maggioranza
dei soci dal diritto societario non sono sufficienti a consentire all’ente
di esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
L’autonomia del C.d.A. incide sulla qualità del controllo.
Riassumendo, il Consiglio di Stato, nel confermare i principi della sentenza
Parking Brixen, ha statuito che i requisiti dell’affidamento in house
non sussistono nel caso in cui il capitale della società affidataria sia “aperto”
ai privati. Rilevante, a tal fine, è altresì l’ampiezza dei poteri del consiglio
di amministrazione, valutati secondo la disciplina risultante dallo
statuto.
Con questa sentenza, la giurisprudenza amministrativa italiana mira
esplicitamente ad allineare, in maniera rigorosa, la propria posizione a quella
della Corte di Lussemburgo (66).
9. I riflessi del decreto Bersani in materia di appalti.
Il tema dell’in house torna di grande attualità a seguito della previsione
contenuta nell’art. 13 della legge 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del
D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani) (67). Si tratta del decreto
meglio noto come pacchetto “cittadino-consumatore”, il cui obiettivo di
fondo consiste nell’introdurre un maggiore tasso di concorrenza e liberalizzazione
nel sistema economico nazionale.
La disciplina contenuta nel decreto Bersani riapre la strada alla possibilità
di configurare l’affidamento in house, nel tentativo di invertire quell’indirizzo
giurisprudenziale (sopra ampiamente analizzato) particolarmente
60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(66) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 13 ottobre 2005 Parking
Brixen; sentenza 11 maggio 2006 Carbotermo.
(67) Si riporta qui, per comodità di lettura, il testo dell’articolo citato:
“1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare
la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite
dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali
all’attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento
esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente
con gli enti costituenti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri
soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare
ad altre società o enti.
2. Le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione
delle regole di cui al comma 1.
3. Al fine di assicurare l’effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al
comma 1 cessano entro dodici mesi dalla entrata in vigore del presente decreto le attività
non consentite. A tale fine possono cedere le attività non consentite a terzi oppure scorporarle,
anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure
del decreto legge 31 maggio 1994, n.332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30
luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi.
4. I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli.” (corsivi
aggiunti).
restrittivo (68). Ed è in questo contesto, decisamente sfavorevole al fenomeno
dell’in house a favore di società, che si inserisce il decreto Bersani.
La ratio della disciplina ivi prevista è evitare effetti distorsivi della concorrenza.
Ma allo stesso tempo il legislatore si è mostrato sensibile alla
necessità di non precludere del tutto l’utilizzo da parte degli enti pubblici di
un modello caratterizzato da una particolare efficienza gestionale.
Il legislatore nazionale è intervenuto solamente sul tema degli appalti in
house, lasciando dunque fuori il settore dei servizi pubblici locali: ne consegue
che le società di gestione dei servizi pubblici locali sono sottratte alla disciplina
risultante dal decreto Bersani, in vista di una loro generale riforma (69).
Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della normativa,
la disciplina prevista dall’art. 13 è riferita esclusivamente alle società, a capitale
interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni
pubbliche regionali o locali. Manca, come si può vedere, ogni riferimento
ad amministrazioni o ad enti statali, cosicché le relative società sono
da ritenersi escluse dall’ambito di applicazione della disposizione (70).
L’art. 13 stabilisce un particolare regime giuridico per le società che
rientrano nell’ambito di applicazione di questa normativa (71).
Innanzitutto tali società non possono svolgere prestazioni a favore di
altri soggetti, pubblici o privati che siano. In altre parole, la normativa richiede
una corrispondenza soggettiva tra enti pubblici titolari del capitale sociale
ed enti beneficiari delle prestazioni effettuate da tale società.
La società deve svolgere tutta la sua attività, e non solo la parte principale
di essa, a favore dell’ente socio: deve operare solo per quest’ultimo.
Sotto questo profilo il decreto Bersani detta una disciplina più rigorosa
rispetto agli indirizzi della giurisprudenza comunitaria, che non esige l’esclusività
a favore dell’ente affidante e che, invece, ammette che la società
pubblica svolga anche un’attività a favore di altri soggetti (anche se essa
deve avere solo carattere marginale) (72).
In secondo luogo, è stabilito per queste società il divieto di partecipare
ad altre società o enti (comma 1). Lo scopo della disposizione è evidente-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61
(68) R. MANGANI, “Il decreto Bersani resuscita l’in house?”, in www.giustamm.it;in
termini analoghi V. ANTONIAZZI, “Novità nell’affidamento diretto in house”, in www.avvocatiinteam.
com.
(69) Il governo ha predisposto su proposta del Ministro degli Affari Regionali Linda
Lanzillotta il disegno di legge 20 luglio 2006, che verte in materia di servizi pubblici locali.
(70) In questo senso, S. ROSTAGNO, “Criticità delle soluzioni e prospettive del decreto
Bersani in tema di modello in house, affidamenti diretti e contratti a valle, in www.giustamm.
it, agosto 2006.
(71) R. GIANI, “Le novità del decreto Bersani in materia di giustizia, appalti e pubblica
amministrazione”, nella rivista Urbanistica e appalti, n.10/2006. L’operare delle società
pubbliche in violazione dei limiti previsti dall’art.13 è sanzionato con la previsione della
nullità (comma 4).
(72) Da ultimo, Corte CE 11 maggio 2006, punto 63.
mente evitare che, attraverso l’acquisizione di partecipazioni azionarie, si
eluda in via indiretta l’obbligo di svolgere attività esclusivamente per i propri
azionisti. Ma anche un altro obiettivo può avere ispirato questa disposizione:
la possibilità di agire tramite società controllate consentirebbe alla
società in house di sfruttare il vantaggio competitivo che deriva loro dall’essere
affidatarie dirette e privilegiate di alcuni servizi, affrontando così la concorrenza
da una posizione di vantaggio, anche derivante dagli utili conseguiti
attraverso le attività “protette” (73).
Infine, è prescritto che tali società abbiano come oggetto sociale esclusivo
la produzione di beni e servizi strumentali all’attività degli enti partecipanti,
o lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro
competenza. In tal modo, il legislatore ha voluto evitare che queste società
possano diversificare i loro ambiti di attività estendendole in settori diversi
ove deve pienamente operare il regime della concorrenza.
Il legislatore nazionale stabilendo questa disciplina sembra aver voluto
configurare un nuovo modello di affidamento in house a favore di società, in
modo da superare quella posizione giurisprudenziale che nega la possibilità
di configurare il requisito del “controllo analogo” nelle ipotesi in cui il soggetto
partecipato sia costituito in forma societaria.
Al sussistere delle indicate condizioni, ed in particolare, se la società
opera in via esclusiva per l’ente pubblico di riferimento, si elimina alla radice
il rischio che, attraverso la sua presenza in settori diversi, si producano
effetti distorsivi della concorrenza. A queste condizioni ritengo che l’affidamento
in house a favore di società dovrebbe legittimamente riprendere
campo, in quanto il dichiarato obiettivo di «evitare alterazioni o distorsioni
della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori» non
potrebbe essere pregiudicato (74) dalla presenza di società che rispondano
agli indicati requisiti.
Dubbi, invece, permangono ancora in relazione alle società miste, in cui
le censure mosse dal giudice comunitario, e concernenti la presenza del socio
privato, appaiono difficilmente superabili.
62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(73) L. MANASSERO, “Profili problematici dell’art.13 del D.L.4 luglio 2006, n. 233 in
tema di affidamento in house”, in www.altalex.com.
(74) R. MANGANI, op. cit., ritiene che la strada tracciata dal decreto Bersani si presenti
come un intelligente tentativo per consentire gli affidamenti in house almeno a favore delle
società a totale partecipazione pubblica.
L’abuso del diritto
(Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, sentenza 16-21 febbraio 2006
nella causa C-223/03)
«Ogni ordinamento che aspiri ad un minimo di completezza deve
contenere delle misure, per così dire, di autotutela, al fine di evitare
che i diritti da esso attribuiti siano esercitati in maniera abusiva,
eccessiva o distorta. Una tale esigenza non è affatto estranea all’ordinamento
comunitario» (1)
1. Può ritenersi applicabile la dottrina sull’“abuso” del diritto comunitario per
respingere domande di deduzione dell’IVA avanzate in circostanze in cui il diritto
consegua ad operazioni eseguite solo per assicurarsi un beneficio fiscale?
Con la sentenza 21 febbraio 2006, in causa C-223/03, la Corte di Giustizia
delle Comunità Europee si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale d’interpretazione
degli artt. 2, punto 1, 4, nn. 1 e 2, 5, n. 1 e 6, n. 1, della sesta direttiva del
Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, presentato, ai sensi dell’art. 234 CE,
dal VAT and Duties Tribunal, Manchester, nel procedimento tra l’ University of
Huddersfield Higher Education Corporation e i Commissioners of Customs &
Excise (Amministrazione Finanziaria Inglese) a proposito di una rettifica operata
da questi ultimi della deduzione (2) effettuata dall’Università dell’imposta
sul valore aggiunto pagata a monte per il restauro di un mulino utilizzato nell’ambito
della sua attività di insegnamento universitario.
Il giudice remittente rilevava come operazioni - costituzione di un trust,
affitto allo stesso del mulino e sua sublocazione da parte del trust
all’Università - effettivamente compiute dall’Istituto universitario, che come
soggetto esonerato dall’IVA (3) non poteva dedurla, avessero il solo fine di
(1) Avv. Gen. TIZZANO, Conclusioni per la causa Kefalas, sentenza 12 maggio 1998,
causa C-367/96.
(2) Il termine “deduzione” usato dalla Corte e utilizzato nella sesta direttiva, corrisponde
al termine “detrazione” di cui all’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
(3) «L’art. 13, lett. A, n. 1, sub i) della direttiva de qua prevede che gli Stati membri esonerano
dall’IVA, tra l’altro, l’insegnamento universitario» (punto 8 sentenza). Giova, a fini di
chiarezza ricordare come (...) «l’IVA» sia, «infatti, un’imposta generale indiretta sui consumi
che grava sui singoli utenti. Ne consegue che, in applicazione dello stesso principio, un contribuente
non deve poter dedurre o recuperare l’IVA assolta su prestazioni ricevute relativamente
a sue operazioni esenti. Siccome non grava IVA sui beni o sui servizi forniti da tali soggetti, la
Sesta direttiva intende senz’altro impedire che la si possa recuperare (...)» (punto 93, conclusioni
dell’Avv. Gen. POIARES MADURO, presentate in data 7 aprile 2005 per tre cause C-255/02, C-
419/02 e C-223/03 aventi oggetto analogo e che hanno dato luogo a tre distinte sentenze).
LE DECISIONI
creare quei presupposti sulla base dei quali recuperare un’IVA non recuperabile
(4) e quindi conseguire un vantaggio, nel caso di specie fiscale, che altrimenti
non le sarebbe spettato, investendo così la Corte della questione se
dette operazioni potessero essere ricomprese tra quelle «cessioni di beni» o
«prestazioni di servizio» e costituire «un’attività economica», assoggettate
ad IVAai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1 e dell’art.
6, n. 1 della sesta direttiva.
Il Supremo Consesso nel ribadire, come già constatato in occasione di un
altro procedimento (5), che tanto «l’analisi delle definizioni delle nozioni di
soggetto passivo e di attività economiche (...)» quanto «quella delle nozioni
di cessioni di beni e di prestazioni di servizi» dimostrino come «tali nozioni,
che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della stessa direttiva»,
venendo considerate di per sé, «hanno tutte un carattere obiettivo» e trovano
applicazione «indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni
di cui trattasi» (punti 47-48, sentenza), ha affermato «che quelle di cui
alla causa a qua costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e
un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art.
5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, dal momento che integrano
i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate» (punto 50)
«anche se effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale senza altro
obiettivo economico» (punto 53).
Infatti, «se è certamente vero che tali criteri non sono soddisfatti in
caso di frode fiscale, per esempio, mediante false dichiarazioni o con l’emissione
di fatture irregolari, resta ciò non di meno che la questione se l’operazione
di cui trattasi sia effettuata al solo scopo di ottenere un vantaggio
fiscale non è pertinente per determinare se siffatta operazione costituisca
una cessione di beni o una prestazione di servizi e un’attività economica
» (punto 51).
Infine la Corte nel precisare che la qualificazione di un’operazione
come economica non determina l’automatico riconoscimento del diritto a
64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(4) «L’art. 2, n. 1, della sesta direttiva, assoggetta a IVA le cessioni di beni come pure
le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo
che agisce in quanto tale. Ai sensi dell’art. 4, n. 1, di tale direttiva, è considerato soggetto
passivo chiunque esercita in modo indipendente una delle attività economiche menzionate
nel n. 2 di tale articolo. La nozione di «attività economiche» è definita nel detto n. 2
come tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi e, in particolare,
le operazioni che comportano lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per
ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità» (punti 3-4 sentenza).
«L’art. 17, n. 2, lett. a), sempre della detta direttiva dispone: «Nella misura in cui beni
e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è
autorizzato a [detrarre] dall’imposta di cui è debitore:
a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci che gli sono o gli saranno
fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo»
(punto 10).
(5) punto 26 della sentenza 12 settembre 2000, causa C-260/98, Commissione/Grecia.
detrazione, dovendosi ritenere invero escluso in presenza di un abuso del
diritto, non ha mancato di rilevare che: «...., come risulta dal punto 85
della sentenza di questo stesso giorno nella causa C-255/02, Halifax e a.
(Racc. pag. I-0000), la sesta direttiva osta al diritto del soggetto passivo
di dedurre l’IVA pagata a monte (6) qualora le operazioni sulle quali tale
diritto si basa integrino una pratica abusiva» (punto 52) (7): «la lotta contro
ogni possibile frode, evasione ed abuso è», infatti, «un obiettivo riconosciuto
e promosso dalla sesta direttiva» (punto 71, sentenza Halifax, 21
febbraio 2006, C-255/02).
1.1. La nozione di abuso nella giurisprudenza della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee in generale (8).
«Un’analisi della casistica della Corte rivela una cospicua serie di elementi
convergenti per quanto riguarda la nozione di abuso nel diritto comunitario
». Con riferimento, ad esempio, al «contesto delle libertà fondamentali
la Corte ha affermato» il principio secondo cui «il raggiro della normativa
di uno Stato membro mediante l’esercizio di tali libertà sia inammissibile
», tornando a ribadirlo «in altri settori quali quello della sicurezza sociale,
dove ha del pari affermato come non possano trarsi benefici da abusi o
frodi. In altre controversie, in materia di politica agricola comune», e
«seguendo la stessa logica», Essa ha escluso che «l’applicazione della legislazione
pertinente sulle restituzioni all’esportazione» possa «in alcun caso
estendersi fino a farvi rientrare pratiche abusive di operatori economici»,
statuendo altresì, «in un altro caso relativo allo stesso ambito, vertente sul
pagamento di importi compensativi all’importazione di formaggio in
Germania da un paese terzo, che, «se fosse provato che l’importazione e la
riesportazione di questi formaggi non sono state effettuate nell’ambito di
operazioni commerciali normali, ma soltanto per beneficiare illegittimamente
della concessione di ICM [importi compensativi monetari]», il pagamento
non sarebbe dovuto».
In materia di diritto societario, la Corte ha altresì negato, «in un diverso
ordine di casi», la possibilità per un azionista di invocare «il diritto comunitario
allo scopo di ottenere vantaggi illeciti e palesemente estranei all’obiettivo
della disposizione considerata», tornando, più di recente, a riaffermare nella
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65
(6) «Come la Corte ha già rilevato», infatti, «è solo in assenza di circostanze fraudolente
o abusive, e con riserva di eventuali rettifiche in conformità alle condizioni previste
all’art. 20 della sesta direttiva, che il diritto a detrazione, una volta sorto, rimane acquisito
[v., in particolare, sentenze 8 giugno 2000, causa C-400/98, Breitsohl, Racc. pag. I-4321,
punto 41, e causa C-396/98, Schloßstraße, Racc. pag. I-4279, punto 42]» (punto 84, sentenza
Halifax).
(7) «(...) Il diritto di un contribuente a dedurre dall’IVA dovuta l’IVA assolta per prestazioni
imponibili costituisce un corollario del principio della neutralità dell’imposizione
fiscale (...)» (punto 93, conclusioni).
(8) Nella ricostruzione dell’Avvocato Generale POIARES MADURO.
causa Centros (sentenza 9 marzo 1999, causa C-212/97) (9), “che verteva su
un asserito abuso del diritto di stabilimento, la sua posizione: «uno Stato membro
ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità
offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all’impero
delle leggi nazionali, e che gli interessati non possono avvalersi abusivamente
o fraudolentemente del diritto comunitario”» (10) (punto 62, conclusioni).
«Dalla casistica esaminata può senz’altro inferirsi un principio generale
di diritto comunitario», sintetizzato dalla Corte nell’affermazione secondo
cui «i singoli non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente
delle norme comunitarie», ma che tuttavia, non è in grado di «chiarire se un
diritto derivante da una specifica disposizione comunitaria sia stato esercitato
in maniera abusiva. Perché diventi operativo, occorrono una dottrina o
un criterio più puntuali. A tal proposito la Corte cerca un cauto bilanciamento
tra lasciare ai giudici nazionali la valutazione degli abusi in conformità
con il proprio diritto interno e garantire che tale valutazione non pregiudichi
la piena e uniforme applicazione della normativa comunitaria asseritamente
invocata in maniera abusiva. Essa ha perciò sviluppato un parametro
alla stregua del quale valutare gli abusi a livello nazionale. In primo
luogo, la valutazione dell’abuso deve fondarsi su elementi oggettivi. In
secondo luogo, e soprattutto, lo si deve valutare tenendo conto dello scopo
e degli obiettivi della disposizione comunitaria che è invocata in maniera
asseritamente abusiva. Al riguardo, dato che la determinazione dello scopo
è questione di interpretazione, la Corte ha esplicitamente escluso in numerosi
casi la sussistenza di un abuso. Nella causa Emsland Stärke (11),
comunque, ha fatto un passo in avanti nella formulazione di una più elaborata
dottrina comunitaria» al riguardo (....) introducendo, «per l’accertamento
di pratiche abusive, un parametro», di portata generale, «dato dalla»
coesistenza da un lato, di «un insieme di circostanze oggettive dalle quali
risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa
comunitaria, l’obiettivo perseguito dalla detta normativa non è stato
raggiunto» (12) e, dall’altro, di «un elemento soggettivo che consiste nella
66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(9) «Quest’ultima sentenza riflette i due principali contesti in cui la Corte ha analizzato
la nozione di abuso: quando s’invocano abusivamente le disposizioni del diritto comunitario
per evadere la normativa nazionale e quando si invocano abusivamente le disposizioni
del diritto comunitario per conseguire agevolazioni in una maniera che contrasta con gli
scopi e le finalità di quelle stesse disposizioni» (punto 63, conclusioni cit.).
(10) Al punto 69 della sentenza 21 febbraio 2002, causa C-255/02, si legge a conferma
di ciò che «L’applicazione della normativa comunitaria non può, infatti, estendersi fino a
comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate
non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare
abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario».
(11) Sentenza 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland Stärke.
(12) «(...) Al contrario, quando il diritto è esercitato nei limiti posti dagli obiettivi e dai
risultati perseguiti dalla disposizione comunitaria di cui trattasi, non c’è abuso ma solo
legittimo esercizio del diritto» (punto 68, conclusioni).
volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa comunitaria
mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento
» (punti da 64 a 67, conclusioni).
L’Avvocato Generale, in linea con quanto dalla Commissione sostenuto
nelle sue osservazioni scritte (13), è perciò del parere che questa nozione di
abuso valga da «principio interpretativo del diritto comunitario» (14) e che
«la Corte, allorché esprime il parere che esiste un abuso ogniqualvolta l’attività
controversa non potrebbe avere altro scopo o giustificazione che attivare
l’applicazione delle disposizioni di diritto comunitario in modo contrario
al loro scopo, è come se adottasse un criterio oggettivo (15) di valutazione
dell’abuso» (punto 70) (16). «Decisivo nell’affermare l’esistenza di un
abuso appare», così, «l’ambito teleologico della norma comunitaria invocata
» (punto 69).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67
(13) Dalle quali risulta, altresì, «che qualora un soggetto passivo o un gruppo di soggetti
passivi che hanno legami tra loro s’impegni in una o più operazioni le quali, complessivamente
prese, generano una situazione fittizia il cui unico scopo è di creare le condizioni
necessarie per recuperare l’IVA assolta a monte, tali operazioni non debbano essere
prese in considerazione» (punto 66, sentenza Halifax).
(14) «Nella misura in cui sia concepito come un principio interpretativo generale, non
occorre un’espressa previsione da parte del legislatore comunitario perché lo si applichi
alle disposizioni della Sesta direttiva. Dal mero fatto che un principio di interpretazione che
vieti gli abusi non sia lì posto espressamente – e lo stesso potrebbe valere, per esempio, per
i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, come ha osservato
all’udienza il governo irlandese –, non possiamo inferire, insomma, che il legislatore comunitario
intendesse escludere quel principio dalla Sesta direttiva. Al contrario, quand’anche
nella Sesta direttiva ci fosse una norma che espressamente afferma quel principio, la si
potrebbe considerare, come notava la Commissione, una mera dichiarazione o codificazione
di un principio generale già esistente». Alla luce di quanto premesso, l’Avvocato
Generale nega la possibilità di «convenire con l’opinione delle ricorrenti secondo cui nelle
fattispecie in esame l’applicazione di un principio generale che vieti gli abusi nel contesto
della Sesta direttiva dipenda necessariamente dall’adozione da parte dei singoli Stati membri
di adeguate disposizioni antifrode, conformi al procedimento descritto all’art. 27 della
Sesta direttiva. Se così fosse, il sistema comune dell’IVA diventerebbe un settore giuridico
speciale dove teoricamente ogni comportamento opportunistico dei soggetti passivi riconducibile
alla lettera di una sua disposizione e teso ad ottenere indebiti benefici fiscali ai
danni delle autorità tributarie sarebbe tollerato, salvo previa adozione da parte degli Stati
membri di misure legislative contrarie» (punti 75-76, conclusioni).
(15) «(...) gli intenti delle parti di conseguire un beneficio indebito dall’ordinamento
comunitario», infatti, «si possono semplicemente inferire dal carattere artificioso della
situazione da giudicarsi alla luce di una serie di circostanze oggettive (...)» (punto 71, conclusioni).
(16) «(...) Al riguardo è sufficiente fare il caso in cui A si limita, senza riflettere oltre,
a seguire il consiglio di B e compie un’attività per la quale non c’è altra spiegazione che
procurare un beneficio fiscale ad A. Il fatto che A non intendesse abusare del diritto comunitario
non rileverà ai fini della valutazione dell’abuso. Ciò che importa non è quanto A
abbia effettivamente in mente, ma il fatto che l’attività, parlando oggettivamente, non ha
altra spiegazione che assicurargli un beneficio fiscale» (punto 70, conclusioni).
1.2. Segue. e nel settore IVA in particolare.
«Questo principio di divieto di comportamenti abusivi», sebbene nessuna
disposizione della Sesta direttiva o del diritto nazionale lo preveda espressamente,
«si applica anche al settore IVA», non essendo nemmeno il sistema
comune dell’imposta sul valore aggiunto, a giudizio dell’Avvocato Generale,
«immune dal rischio, inerente a ogni sistema giuridico, che siano esercitate
azioni» che, sebbene «formalmente conformi a una disposizione di legge»,
costituiscano «un abuso delle possibilità dischiuse dalla stessa, in contrasto
con i suoi scopi ed i suoi obiettivi.» Infatti, anche le disposizioni delle direttive
IVA sono soggette alla regola (17), concepita come un principio interpretativo
(18), «(...) per la quale nessuna disposizione del diritto comunitario
può essere legittimamente invocata per assicurare benefici manifestamente
contrari ai suoi scopi e ai suoi obiettivi».
Nonostante «il diritto tributario» sia «spesso dominato da legittime preoccupazioni
connesse alla certezza del diritto, derivanti in particolare dalla
necessità di garantire la prevedibilità degli oneri finanziari a carico dei soggetti
passivi e dal principio della riserva di legge in materia tributaria», vero è che
la normativa IVAdeve essere interpretata in conformità con il principio generale
del divieto di abusi del diritto comunitario (punti 73-74-77, conclusioni).
«Le maggiori difficoltà e obiezioni all’applicazione di tale principio
interpretativo alla Sesta direttiva riguardano la definizione dei criteri in
base ai quali esso opererebbe in quello specifico settore (...). Il parametro di
valutazione dell’abuso enunciato nella sentenza Emsland Stärke» di cui
supra «è di grande utilità sotto questo profilo, ma la specificità dell’IVA
come imposta di carattere oggettivo ne sconsiglia una trasposizione automatica
». Del resto, «l’assenza di un unico criterio di applicazione, per ogni
ambito del diritto comunitario, del principio che vieta abusi dev’essere considerata
perfettamente naturale nell’ordinamento» in discorso, «come in
ogni altro sistema legale (...)».
Definire «la portata di questo principio del diritto comunitario, come
applicabile al sistema comune dell’IVA, è in fondo un problema di determinazione
dei limiti dell’interpretazione delle disposizioni delle direttive IVA che
conferiscono certi diritti ai contribuenti. Al riguardo l’analisi oggettiva del
divieto di abusi dev’essere bilanciata con i principi di certezza del diritto e di
tutela del legittimo affidamento che a propria volta “fanno parte dell’ordinamento
giuridico comunitario” e alla cui luce vanno interpretate le disposizioni
della Sesta direttiva. Da questi principi discende che i contribuenti hanno
diritto a conoscere in anticipo la loro posizione fiscale e, a tal fine, a poter fare
68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(17) Che «(...) costituisce un’indispensabile valvola di sicurezza per tutelare gli obiettivi
di tutte le disposizioni di diritto comunitario contro un’applicazione formalistica basata
unicamente sul loro tenore letterale (.. )» (punto 74, conclusioni).
(18) Si veda, al riguardo, supra, nota n. 13.
affidamento sul comune significato della terminologia della legislazione IVA.
In virtù di tali principi, la portata» di quello «interpretativo di diritto comunitario
che vieta abusi della legislazione IVA deve essere definita in modo da non
pregiudicare operazioni legittime (...)» (punti 82-83-84-86).
Non a caso, nella sentenza Halifax, richiamata da quella in commento, la
Corte ha statuito che «nel settore IVA, perché possa parlarsi di un comportamento
abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione
formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva
e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio
fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste
stesse disposizioni (19). Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi
oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente
l’ottenimento di un vantaggio fiscale. Come ha precisato l’avvocato generale
al paragrafo 89 delle conclusioni, il divieto di comportamenti abusivi non vale
più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il
mero conseguimento di vantaggi fiscali» (punti 74-75).
Ne consegue che il divieto di abusi «va interpretato nel senso che il diritto
invocato da un soggetto passivo è escluso solo quando l’attività economica
corrispondente non ha altra spiegazione che quella di precostituire quel
diritto (il cui riconoscimento colliderebbe con gli scopi e con i risultati delle
disposizioni in questione del sistema comune dell’IVA) contro le autorità tributarie.
Attività economiche siffatte, anche se non illecite, non meritano di
essere protette invocando i principi comunitari di certezza del diritto e di
tutela del legittimo affidamento, perché rispondenti all’unico scopo di sovvertire
la finalità dello stesso sistema legale».
Per l’Avvocato Generale, pertanto, «(...) è sullo scopo oggettivo della
norma comunitaria e sulle attività poste in essere, e non sull’intento soggettivo
degli interessati, che s’incentrerebbe la dottrina comunitaria dell’abuso
» (punti 86-71, conclusioni).
La nozione di abuso del diritto comunitario applicabile al sistema IVA
opererebbe, così, «sulla base di un criterio costituito da due elementi i quali
devono sussistere entrambi per poter affermare l’esistenza di un abuso del
diritto comunitario in materia. Il primo corrisponde» al cd. «elemento soggettivo
menzionato dalla Corte nella sentenza Emsland Stärke, ma è soggettivo
solo in quanto intende verificare il fine delle attività di cui trattasi. Tale
fine, che non va confuso con l’intento soggettivo di chi partecipa a quelle
attività, va determinato oggettivamente dalla mancanza di ogni altra giusti-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69
(19) «Permettere ad un soggetto passivo», infatti, «di detrarre la totalità dell’IVA
assolta a monte laddove, nell’ambito delle sue normali operazioni commerciali, nessuna
operazione conforme alle disposizioni del sistema delle detrazioni della sesta direttiva o
della legislazione nazionale che le traspone glielo avrebbe consentito, o glielo avrebbe consentito
solo in parte, sarebbe contrario al principio di neutralità fiscale e, pertanto, contrario
allo scopo del detto sistema» (punto 80, sentenza Halifax).
ficazione economica per l’attività se non quella di procurare un beneficio
fiscale. Di conseguenza, quest’elemento può essere considerato un elemento
di autonomia. Quando lo applicano, infatti, le autorità nazionali devono
determinare se l’attività controversa abbia una base autonoma che, lasciando
da parte le considerazioni di ordine fiscale, le fornisca una giustificazione
economica nelle circostanze di specie. Il secondo elemento del criterio
proposto corrisponde al cd. elemento oggettivo di cui sempre alla sentenza
Emsland Stärke. Si tratta in realtà di un elemento teleologico in forza del
quale lo scopo e gli obiettivi delle norme comunitarie asseritamente oggetto
di abuso sono comparati allo scopo e ai risultati conseguiti dall’attività controversa.
Questo secondo elemento è importante non solo perché offre il
paradigma per valutare lo scopo e i risultati dell’attività in questione, ma
anche perché fa salvi i casi in cui l’unico scopo dell’attività potrebbe essere
di diminuire, sì, il carico fiscale, ma in esito ad una scelta tra differenti regimi
che lo stesso diritto comunitario intendeva lasciare libera (20). Perciò,
ove non sussista contraddizione tra il riconoscimento di un diritto invocato
dal contribuente e gli obiettivi ed i risultati della disposizione fatta valere,
non può parlarsi di abuso» (punti 87-88, conclusioni).
Pertanto, come ha precisato la Corte, «spetta al giudice del rinvio verificare,
conformemente alle norme nazionali sull’onere della prova, ma
senza che venga compromessa l’efficacia del diritto comunitario, se gli
elementi costitutivi di un comportamento abusivo sussistano nel procedimento
principale» e «stabilire contenuto e significato reali delle operazioni
», potendo «(...) prendere in considerazione il carattere puramente fittizio
di queste ultime nonché i nessi giuridici, economici e/o personali tra
gli operatori coinvolti nel piano di riduzione del carico fiscale» (punti 76-
81, sentenza Halifax) e «così stabilire se il riconoscimento del diritto alla
deduzione o al recupero dell’IVA ai soggetti passivi che lo rivendicano sia
compatibile» o meno «con gli obiettivi e le finalità perseguiti dalle disposizioni
rilevanti della Sesta direttiva, quali illustrati supra. Se, a loro giudizio,
quegli scopi sono raggiunti solo in parte – dato che i soggetti passivi
esenti possono recuperare una certa percentuale dell’IVA assolta –,
allora le disposizioni della Sesta direttiva sulla deduzione dovranno essere
interpretate nel senso che attribuiscono il diritto al recupero dell’imposta
sul valore aggiunto, in quella percentuale, ai soggetti passivi interessati.
Questo sembra essere il caso della Hudddersfield, dove questa società
parzialmente esente poteva a quanto pare recuperare l’IVA, sebbene
solo limitatamente e pro rata» (21) (punto 95, conclusioni).
70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(20) «(...) A un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni la sesta direttiva
non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento IVA. Al contrario, (...),
il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette
di limitare la sua contribuzione fiscale» (punto 73, sentenza Halifax).
(21) Ad analoga conclusione si è giunti per la Halifax nella sentenza citata.
In altri termini e a voler schematizzare, il criterio d’interpretazione che i
giudici nazionali dovranno seguire, anche alla luce del parametro di valutazione
appena descritto, può ripartirsi in due momenti:
– verifica se l’attività posta in essere dal soggetto passivo (e da cui sorge
il diritto a detrazione), abbia finalità economiche diverse dal semplice risparmio
d’imposta;
– accertamento se, in assenza di valide ragioni economiche, il riconoscere
il diritto alla deduzione o al recupero dell’IVA non si ponga in contrasto
con gli scopi della direttiva.
2. La formula «abuso del diritto»: premesse generali e profili storico-comparatistici.
Le citate sentenze risvegliano il dibattito circa la sussistenza di un limite
all’esercizio dei diritti da parte di ciascuno, consistente nella necessaria
esistenza di un interesse proprio, apprezzabile e preponderante rispetto al
rischio di nuocere ad altri.
Fino a che punto si può far uso di un diritto proprio senza incappare in
un abuso del diritto stesso?
Per evitare di scalfirne la certezza, sarebbe utile tratteggiare intorno a
ciascun diritto l’area che è valicabile e quella che non lo è, ma l’operazione
risulta alquanto ardua, sì da rendere conveniente muovere da considerazioni
di ordine generale.
La formula «abuso del diritto», nell’esperienza continentale, ha circa
un secolo e mezzo di vita, ponendosi il problema, anzi l’idea stessa di
abuso, nell’ambito dell’ordinamento liberale di allora (22). «Fin dal suo
apparire, essa ha conosciuto le reazioni più disparate: l’esaltazione ha raggiunto
toni mistici, la critica è stata severa, densa di preoccupazioni e di
terrore. È sembrata talvolta, codesta formula, il mezzo sicuro ed originale
per ottenere un criterio di giudizio più appagante, per la nostra coscienza,
di quanto non sia il criterio della legittimità formale degli atti umani; altra
volta, invece, è apparsa come la minaccia più insidiosa al bene della certezza
del diritto» (23).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71
(22) «La storia dell’abuso del diritto comincia, nella seconda metà dell’ottocento, intorno
a talune manifestazioni tipiche dell’economia capitalistica, manifestazioni apparentemente
destinate a sfuggire alle sanzioni legali» e riguardanti soprattutto l’esercizio delle libertà,
individuali e collettive nei rapporti economici (basti pensare alla concorrenza tra imprenditori
commerciali, contraria alle regole della correttezza professionale; al rifiuto di contrattare da
parte del monopolista; etc….Significativo, in tal senso, è ancora che gli studi compiuti relativamente
a tale categoria giuridica, nel tentativo di rinvenire nella legge le basi per la costruzione
del divieto, si siano fermati a considerare l’usura, l’approfittamento dello stato di bisogno
del contraente più debole, la tutela apprestata, nella disciplina dei contratti per adesione,
a colui che debba accettare le condizioni generali o che sottoscriva i moduli e i formulari predisposti
dall’altro contraente), PIETRO RESCIGNO, L’abuso del diritto, RDC, 1965, I, 217 ss.
(23) PIETRO RESCIGNO, cit., 205.
Quello dell’abuso non è un problema dogmatico d’interpretazione del
diritto vigente, né la relativa nozione può dirsi avere valenza assoluta, in quanto,
per essere individuata, occorre sempre stabilire il parametro, cioè l’uso del
diritto, la situazione normale, fisiologica, rispetto alla quale può dirsi abuso.
«Analizzata nelle parole che la compongono – abuso, diritto - la formula
senza dubbio si presenta, alla prima impressione, intimamente contraddittoria.
Diritto (più esattamente diritto soggettivo) vuol dire libertà garantita
all’individuo, o a un gruppo privato, da una norma giuridica: vuol dire potere
di volontà e di azione che la norma concede al soggetto, o al gruppo, nei
confronti di uno, o di più, o di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. Quando
si parla di abuso, di possibilità di abuso del diritto, si viene a dire che l’esercizio
di questa libertà garantita dalla norma, del potere accordato dalla legge,
può dar luogo a responsabilità: onde un atto lecito – l’esercizio del diritto –
diviene fonte di responsabilità. Significa sottintendere alla libertà ed al potere
un limite, ed il limite, la misura sembrano vaghi e sfuggenti» (24).
La questione, pertanto, è di vedere cosa, dottrina e pratica, abbiano
ricondotto nell’alveo di tale nozione, intesa nel senso generico di difformità
dell’esercizio del diritto dalla ragione della tutela legislativa.
Secondo la concezione tradizionale ove al singolo è riconosciuto il potere
di agire (agere licere) per la realizzazione di un proprio interesse individuale,
ivi la legge ravvisa un diritto soggettivo (25).
Quest’ultimo, scelta dell’ordinamento giuridico tra interessi contrapposti,
«si manifesta come sintesi di una posizione di forza e di una posizione di libertà.
Il soggetto è infatti libero di decidere se avvalersi o meno del potere conferitogli
(ed in ciò è la libertà: ius est facultas agendi) ma, una volta esercitato, il
diritto è in grado di realizzare pienamente l’interesse (ed in ciò è la forza)» (26).
Come può evincersi dalla radice etimologica del termine (ab-uti), concettualmente
tale figura «concerne ipotesi di uso anormale del diritto, in cui
un comportamento, che sebbene formalmente integri gli estremi dell’esercizio
del diritto soggettivo, debba ritenersi però – sulla base di criteri non formali
di valutazione (27) – privo di tutela giuridica o illecito (28)».
72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(24) PIETRO RESCIGNO, cit., 206.
(25) FRANCESCO SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1977, 70.
(26) GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, 57.
(27) Nella discussa elaborazione dei criteri in base ai quali operare la valutazione di cui
in discorso, due sono le versioni che destano maggiore interesse, risolvendo le altre il problema
nella negazione di uno dei due termini: abuso e diritto soggettivo. «La prima, d’ispirazione
cattolica, giudica l’atto secondo un metro di ordine morale, che trascende i rapporti
sociali; la seconda, d’ispirazione laica e solidaristica, fonda il “giudizio” sulla congruità
dell’atto ai valori “sociali” fatti propri dal sistema», CESARE SALVI, Abuso del diritto, in
Enciclopedia giuridica Roma.
(28) Vi è chi in dottrina, lo configura quale ipotesi di illecito atipico, accanto alle figure
della frode alla legge e dello sviamento di potere, tutte rispondenti ad una stessa logica,
quali concezioni di uno stesso concetto generale, quello appunto di illiceità atipica che, coNon
si rinviene, nel codice vigente - seppure il principio de qua fosse
previsto nel progetto del codice italo-francese delle obbligazioni e dei
contratti (art. 74: «È tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno
ad altri, eccedendo nell’esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla
buona fede e dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto») ed in
quello definitivo del codice civile italiano del 1942 (art. 7 disp. prel.:
«Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per
cui il diritto medesimo gli è stato riconosciuto») - una norma di carattere
generale sull’abuso, per taluni confermando così che il Legislatore ritenne
fondato il timore di compromissione della certezza del diritto, attesa la
grande latitudine di potere che una simile clausola generale avrebbe attribuito
al giudice.
Nel tentativo di dar conto, per sommi capi, del destino storico della
nozione di abuso, elaborata dai glossatori e dagli scrittori di diritto comune
come strumento di raccordo tra le due sfere del diritto e della morale
(29), è opportuno ricordare che la stessa apparve, per prima, nella giurisprudenza
francese dello scorso secolo e più precisamente in materia di
proprietà.
Allora la questione fu se fosse da ritenersi legittima ogni forma di esercizio
del diritto, per il solo fatto di costituire una delle sue molteplici estrinsecazioni,
ovvero se la tutela, accordata dall’ordinamento giuridico, dovesse
invece ritenersi negata ad atti del proprietario che, sebbene non esorbitando
da precisi limiti di esercizio, fossero avvertiti dalla coscienza sociale come
abusivi.
Con la formulazione del principio di abuso la giurisprudenza francese,
nonostante le discordanti posizioni espresse dalla dottrina (30), si mostrò
favorevole all’idea di un controllo «contenutistico» della situazione sogget-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73
me presupposto fondamentale e che vale a caratterizzarla e distinguerla dall’illiceità tipica,
ha la contrarietà ai principi, non già alle regole, del sistema giuridico, ATIENZA M., MANIERO
J.R., Illeciti atipici, 2004.
(29) Tale nozione venne poi abbandonata in sede di formazione del moderno diritto privato,
tanto sul piano teorico quanto su quello normativo.
(30) «Una parte sostenne l’assoluta insindacabilità dell’esercizio del diritto che non
avesse superato i limiti imposti dalla legge, conseguentemente negando l’ammissibilità
del principio o attribuendogli una portata meramente filosofica o morale; l’altra parte,
invece, affermò l’insufficienza di una legittimità formale, pur non riuscendo ad elaborare
un criterio unitario per determinare le forme “abusive” di esercizio del diritto,
seguendo strade diverse nella formulazione del principio. Così, muovendo dal comune
presupposto secondo cui determinate forme di esercizio del diritto potessero considerarsi
sindacabili anche se rientranti nei limiti dalla legge stabiliti, furono indicati, a seconda
dei diversi contesti culturali ed ideologici, vari parametri (morale, finalistico, intenzionale,
ecc.), in base ai quali indicare l’eventuale abusività dell’esercizio del diritto»,
SALVATORE PATTI, Abuso del diritto, in Digesto delle discipline privatistiche, Quarta
Edizione, 1987.
tiva, e quindi di definizione dell’ambito dei poteri spettanti al titolare,
ammettendo in talune ipotesi la responsabilità di costui, ancorché il danno
fosse stato cagionato nell’esercizio del diritto stesso (31).
«L’elaborazione della figura compiuta nell’esperienza francese appare
particolarmente significativa con riferimento all’epoca che ne vide la nascita
(32)», chiamata, come fu, a rispondere alle esigenze di un dato momento
storico e di uno specifico ambiente (33). Nato come regola giurisprudenziale
(34), l’abuso del diritto venne codificato nei codici tedesco (35), svizzero,
greco (36), portoghese e sovietico, ma non nel nostro dove, al pari di quello
74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(31) SALVATORE PATTI, cit.
(32) SALVATORE PATTI, cit.
(33) La formulazione del principio in esame appare, infatti, una conseguenza dell’assolutezza
dei principi enunciati dopo la rivoluzione francese. «Sul piano giuridico la distruzione
dei vincoli individuali con le comunità particolari aveva cercato di portare l’individuo
in relazione immediata con lo Stato e si era tradotta nella proclamazione dell’uguaglianza
di tutti davanti alla legge. Sul piano economico, gli stessi principi ponevano l’individuo
di fronte al gioco delle leggi dell’economia, onde si creava ed acuiva una sostanziale
disuguaglianza, in stridente contrasto con l’uguaglianza formale», favorendo, così, il
verificarsi di “abusi”, PIETRO RESCIGNO, cit., 217.
(34) Tra i tanti, ecco uno dei casi che la giurisprudenza francese venne sollecitata a considerare.
Nell’ordinamento francese (e senza rispetto di limiti di età) il padre poteva emancipare
il figlio. In questo caso sorgeva il dubbio se potesse ritenersi legittimo l’esercizio di
questo diritto – o non si trattasse invece di abuso – quando il padre si fosse determinato ad
emancipare il figlio, non già per la raggiunta idoneità del minore alla cura dei propri interessi,
ma solamente per porre nel nulla il diritto, spettante alla moglie separata, di visitare il
figlio minore. Con la sentenza dell’App. Paris, 15 febbraio 1957 (nella rassegna di giurisprudenza
su Personnes et droits de famille di DESBOIS, in Rev. Trim. dr. Civ., 1958, pp. 63
ss.), la Corte d’Appello ha dichiarato l’emancipazione non nulla, bensì inopponibile secondo
quanto richiesto dalla madre, così suscitando le più severe critiche della dottrina, PIETRO
RESCIGNO, cit., 210.
(35) L’art. 18 della Legge Fondamentale tedesca prevede una particolare ipotesi di
abuso: «Chi abusa della libertà di espressione del pensiero, in particolare della libertà di
stampa, della libertà di insegnamento, della libertà di riunione, della libertà di associazione,
del segreto epistolare, postale e delle telecomunicazioni, del diritto di proprietà o del
diritto di asilo, per combattere l’ordinamento fondamentale democratico e liberale, perde
questi diritti. La perdita e la misura della medesima sono pronunziate dal Tribunale
Costituzionale Federale». «Tale norma si indirizza a tutte le persone fisiche – tedesche o
straniere – e giuridiche in quanto titolari di diritti ai sensi dell’art. 19 della Legge
Fondamentale, attribuendo al Tribunale Costituzionale Federale la competenza a dichiarare
la perdita del diritto, sì da escludere che per la medesima fattispecie possano essere previste
sanzioni anche da parte del Legislatore di un Land. Legittimati al ricorso sono la Dieta
federale, il Governo federale e il Governo di un Land», R.BIFULCO - A. CELOTTO, Articolo
54, in L’Europa dei diritti: commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, Bologna, 2001, 368. Per la lettura del testo della disposizione in materia di abuso
nel diritto tedesco si rinvia infra alla nota n. 40.
(36) Art. 281, codice civile greco del 1981: «L’esercizio di un diritto è proibito se eccede
manifestamente i limiti imposti dalla buona fede o dai costumi o dal fine sociale o economico
del diritto stesso».
francese, «il Legislatore del ’42 preferì ad una norma di carattere generale
norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari
categorie di diritti» (37).
Tanto premesso, occorre chiarire la differente origine ed ambito d’applicazione
della nozione in questione nei diversi ordinamenti dell’Europa continentale,
ai fini, soprattutto, di una migliore comprensione del problema a
livello comunitario.
Nella Repubblica Elvetica, invero, la formula (38), nella quale si
riscontra un collegamento tra buona fede ed abuso del diritto, si presenta
inequivoca nella sua enunciazione, celando, tuttavia, incertezze per la
mancata determinazione di un criterio che consenta l’individuazione dei
comportamenti abusivi e per la fissazione del limite dell’ «abuso manifesto
», bisognoso di specificazione. La norma, così, opera un rinvio al libero
operare del giudice rappresentando in questo senso una concretizzazione
dell’art. 1 Cod. civ. svizzero che nell’attribuire ampi poteri al giudice,
gli accorda la possibilità, nei casi non previsti dalla legge ed in mancanza
di consuetudine, di decidere «secondo la regola che egli adotterebbe come
legislatore» (39).
L’esperienza della Germania, invece, non fu dissimile da quella francese,
avvertendosi il problema in origine con riferimento al solo diritto di
proprietà, per il suo attributo dell’assolutezza e la sua veste di modello
dei diritti soggettivi. Qui il Costituente ed il Legislatore accolsero espressamente
il principio in discorso, quale risposta al recente passato totalitario,
ma nel BGB (codice civile tedesco) il collegamento all’intenzione di
nuocere rese tale formulazione inapplicabile per le estreme difficoltà
riscontrate nella prova dell’elemento soggettivo (40) e ad essa si preferì,
tanto nell’uso giurisprudenziale quanto nelle costruzioni della dottrina, la
norma in tema di buona fede (41). Sulla base dei parametri oggettivi enucleati
da tale norma, utilizzata dalla giurisprudenza in tutti i settori del
diritto privato, «il principio dell’abuso del diritto costituisce nell’ordinamento
tedesco un efficace strumento di controllo dell’esercizio del dirit-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75
(37) LEVANTI SANDRA, Abuso del diritto, in http://www.diritto.it/materiali/civile/levanti.
html.
(38) Art. 2, codice civile svizzero: «Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede
così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi. Il manifesto
abuso del diritto non è protetto dalla legge».
(39) Ovviamente, come autorevole dottrina ricorda, basi legislative di tale tenore
avrebbero favorito un uso giurisprudenziale imprevedibile e casuale, pur essendo i relativi
principi ritenuti fondamentali nell’ordinamento giuridico svizzero, spiegando così l’estrema
prudenza che nella prassi a tutt’oggi si è riscontrata, SALVATORE PATTI, cit.
(40) Il § 226 BGB, infatti, testualmente recita: «L’esercizio del diritto è inammissibile
se può avere soltanto lo scopo di provocare danno ad altri».
(41) SALVATORE PATTI, cit.
to soggettivo (42) e, soprattutto, di bilanciamento dei contrapposti interessi
(43)».
2.1. L’operatività del principio dell’abuso del diritto nell’ambito dell’ordinamento
giuridico italiano.
«...Infine il contenuto del diritto soggettivo è determinato dall’interesse
concreto del titolare, nel senso che il potere è attribuito a questo per la tutela
non di un certo tipo d’interesse, ma fin dove con l’interesse astratto coincide
l’interesse concreto; nonché dal principio di solidarietà fra i due soggetti
del rapporto, come partecipi entrambi della stessa comunità, nel senso
che la subordinazione di un interesse all’altro interesse concreto è consentita
fin dove essa non urti con quella solidarietà, che non si realizza nella
comunità senza prima realizzarsi nel nucleo costituito dai soggetti del rapporto
giuridico.
Questi principi sui limiti interni del diritto soggettivo si ricavano da
alcune disposizioni del codice, la cui portata, a nostro avviso, è generale:
soprattutto dalla norma che per la proprietà fondiaria stabilisce il limite
detto dell’interesse pratico (art. 840, co. 2), dall’altra che vieta al proprietario
gli atti emulativi (art. 833), infine da quella che prescrive al debitore e
al creditore di comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175).
Della solidarietà costituiscono espressioni, col dovere di correttezza, il
dovere di buona fede e il rispetto dell’affidamento, che varie altre norme stabiliscono,
come vedremo innanzi; alla solidarietà sono da ricondurre vari istituti
particolari, la cui nota comune è appunto questa, che, grazie ad essi, la
legge stessa racchiude e restringe una determinata subordinazione d’interesse,
quando non paia conforme alla solidarietà. Per effetto di questo limite
generale ed interno del contenuto del diritto soggettivo può considerarsi eliminata
la figura dell’abuso del diritto, alla quale per il passato sono stati
ricondotti anche gli atti emulativi del proprietario: figura difficile a giustificare
in base alla precedente concezione del diritto soggettivo e infatti prevalentemente
ripudiata. Quella figura, oggi, non ha più ragion d’essere, perché, per
definizione, il diritto soggettivo arriva fin dove comincia la sfera d’azione
76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(42) Ecco un esempio tratto dalla pratica tedesca. La legge matrimoniale della
Repubblica Federale, accordava anche al coniuge colpevole la legittimazione a chiedere il
divorzio, ma attribuiva a quello incolpevole il diritto di opporsi alla domanda. Questo
Widerspruchsrecht – diritto di contrastare la domanda di divorzio – era escluso se da parte
del coniuge incolpevole non vi fosse stata, e non v’era, alcuna volontà di ristabilire la comunione
di vita interrotta, e il suo atteggiamento non avesse mai rilevato né disvelava attaccamento
alcuno (nessuna Bindung), nemmeno sentimentale, al vincolo che solo formalmente
perdurava. Ciò indusse la giurisprudenza tedesca ad allargare i casi di esclusione del
Widerspruchsrecht, sino a giungere (o, meglio, a tornare) ad un concetto generale di abuso
del diritto di opposizione. PIETRO RESCIGNO, cit., 208.
(43) SALVATORE PATTI, cit.
della solidarietà: quindi gli atti emulativi e gli altri non rispondenti alla buona
fede o alla correttezza, come contrari alla solidarietà, non rientrano nel contenuto
del diritto soggettivo, non costituiscono un abuso, ossia uno sviamento,
del diritto; al contrario ne sono fuori, costituiscono un eccesso dal diritto, e,
in quanto tali, s’intende agevolmente che possano essere illeciti, secondo le
norme generali. Perciò nel codice non è menzione dell’abuso del diritto, come
di una figura speciale di atto lecito» (44).
Così venendo all’ordinamento italiano, manca una teorizzazione del divieto
di abuso dei diritti e delle libertà costituzionali, mentre la tematica è assai
dibattuta soprattutto in ambito civilistico (45) seppur manchi, come anticipato
supra, l’espressa menzione nel codice civile (46) del principio in esame.
«La nostra legge abbonda di richiami all’abuso, riferito ai più disparati
elementi: funzioni, poteri, facoltà, diritti, autorità, relazioni domestiche,
relazioni di ospitalità, con persone incapaci, etc...» (47), che a fronte della
diversità dei criteri in essi fissati quale riflesso della varietà di struttura delle
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77
(44) FRANCESCO SANTORO-PASSARELLI, cit., 76-77.
(45) Tuttavia come ricorda R.BIFULCO - A. CELOTTO, cit., 371-372, anche al di fuori dell’ambito
prettamente privatistico si è cercata una composizione del problema: «In diritto pubblico
e costituzionale italiano,» infatti, «le elaborazioni dell’esercizio abusivo delle situazioni
giuridiche soggettive si sono indirizzate soprattutto a verificare la possibilità di ammettere e
configurare un eccesso di potere (sintagma in radice affine all’abuso del diritto) nell’esercizio
del potere pubblico, una forma di sanzione per le ipotesi in cui il potere pubblico sia stato
esercitato per scopi diversi da quelli in vista dei quali era stato conferito (...) Peraltro, la dottrina
più recente non ha mancato di avvertire l’esigenza di avviare la costruzione di una teoria
dell’abuso del diritto nell’ambito dei rapporti tra organi costituzionali, prospettando ipotesi
di abuso quali la reiterazione del decreto legge, la richiesta di una serie di referendum
abrogativi tutti inammissibili, ma così numerosi da essere puramente pretestuosi, un esasperato
ostruzionismo parlamentare, la fiducia data al Governo che non si vuole, la mancata elezione
dei membri di un organo costituzionale, l’esercizio di poteri presidenziali da parte del
supplente al di fuori dei limiti configurabili all’estensione delle sue funzioni. Tale figura,
riprendendo le elaborazioni francesi sul détournement de pouvoir (sviamento di potere), si è
stabilmente affermata quale vizio del provvedimento amministrativo – positivamente ammesso
a partire dall’art. 26 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (r.d. 26 giugno 1924,
n. 1054) – mentre è stata tendenzialmente negata rispetto all’esercizio del potere legislativo,
in ragione soprattutto dei timori di ingabbiare eccessivamente il potere discrezionale del legislatore
primario – tradizionalmente configurato quale attività politica, libera nel fine – in un
controllo funzionale-teleologico, sulle finalità e le scelte perseguite, (...)» quantunque «l’esigenza
di effettuare un sindacato sui vizi logici intrinseci ed estrinseci della legge è rifluita nel
complesso ed articolato controllo sulla ragionevolezza delle leggi, attraverso il quale si è arrivati
a sindacare “l’espressione di un uso distorto della discrezionalità che raggiunga una
soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di
eccesso di potere” e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna
alla funzione legislativa [v. Corte Cost. n. 313/1995 e 146/1996]».
(46) Per taluni giustificata trattandosi di un problema di teoria generale la cui soluzione
di principio si lascia difficilmente tradurre in termini precettivi.
(47) SALVATORE ROMANO, Abuso del diritto, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958.
posizioni giuridiche interessate e perciò delle ipotesi configurabili (48), rendono
indubbiamente difficoltosa la ricostruzione teorica di una figura generale
dell’abuso del diritto nel nostro ordinamento.
Prima di procedere all’analisi delle varie ipotesi legislative è opportuno sottolineare
come, ora come allora, perdurino quelle esigenze e situazioni della
realtà sociale che determinarono la nascita del principio e come le stesse rientrino
nell’ambito di efficacia di norme che impongono comportamenti, in termini
positivi o negativi: ad esempio il proprietario non può compiere atti i quali
non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri (art. 833
c.c.); il debitore ed il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza
(art. 1175 c.c.); le parti, tanto nello svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto, quanto nella sua esecuzione ed interpretazione, come
pure durante la pendenza della condizione, devono comportarsi secondo buona
fede (artt. 1337 (49), 1338, 1366, 1375 e 1358 c.c) (50). Scendendo ora nel dettaglio
occorre precisare come nel codice civile, a norme che espressamente prevedano
fattispecie abusive (art. 330, dove è prevista la possibilità che il giudice
pronunzi la decadenza dalla potestà per il genitore che violi o trascuri i doveri
ad essa inerenti o abusi dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio; art.
1015, contemplante l’ipotesi di cessazione del diritto d’usufrutto per l’abuso
che ne faccia il titolare, alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per
mancanza di ordinarie riparazioni; art. 2793, relativo all’abuso della cosa data
78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(48) Che, di riflesso, determina la possibilità di diverse reazioni da parte dell’ordinamento
all’atto di esercizio abusivo: può aversi «ad esempio quella dell’inefficacia (nei casi
di simulazione o dell’art. 1341), della rescindibilità (art. 1447, 1448); dell’annullabilità
(art. 1438), o della decadenza da un potere (come nel caso della patria potestà: art. 336);
un rifiuto dell’azione di annullamento (ad esempio, art. 1426 in caso di occultamento, con
raggiri, della minore età), l’efficacia dell’atto (art. 1319), la permanenza in vita del debito
(caso della prescrizione eccepita dal debitore che riesca ad impedire al creditore di chiedere
l’adempimento), o un’indennità (casi di lesione di buona fede), etc...», SALVATORE
ROMANO, cit.
(49) «Da tempo già la dottrina era concorde nel ravvisare nella responsabilità precontrattuale
ex art. 1337 c.c. la sanzione per il comportamento abusivo della parte che avesse
receduto ingiustificatamente dalle trattative: si trattava di una palese violazione del principio
che vieta di ‘venire contra factum proprium’», LEVANTI SANDRA, cit.
(50) «Molta materia di abuso è stata esaminata sotto questo profilo in dipendenza
della nota formula della inammissibilità del venire contra factum proprium. Gli stessi criteri
sembrano validi anche fuori dei rapporti obbligatori: così, attenuando le particolarità del
regime dei cosiddetti atti emulativi, ci sembra che un’alterazione della funzione, che pure è
necessaria in qualunque cura di interessi anche in regime di autonomia libera, sia alla base
del divieto di cui all’art. 833. L’altro criterio, relativo alle regole di buona fede nella condotta
dei rapporti, appare applicabile, ad esempio, al regime delle accessioni (v. artt. 936,
comma 3, 937, comma 3, 938), come pure dei rapporti tra proprietari e possessori o detentori
in ordine alle indennità per miglioramenti o addizioni (v. ad es. artt. 985, 986, 1150,
1592, ecc.). Il criterio della funzione appare poi esclusivo nella distinzione dell’esercizio dei
poteri familiari (artt. 336, 384)», SALVATORE ROMANO, cit..
in pegno da parte del creditore pignoratizio), si affianchino «disposizioni sanzionatrici
di alcuni atti, la cui ratio è ravvisabile nell’esigenza di repressione di
un abuso del diritto» (art. 1059, comma 2, che obbliga il comproprietario che
abbia concesso una servitù ed i suoi eredi o aventi causa a non porre impedimento
al diritto concesso; art. 1993, comma 2, che ammette il debitore possa
opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti con i precedenti
possessori solo qualora quest’ultimo, nell’acquistarlo, abbia intenzionalmente
agito a danno del debitore medesimo; artt. 21 l. camb. e 65 l. ass.) «e disposizioni
di maggiore ampiezza considerate valide per intere categorie di diritti
(art. 833, che pur relativo al diritto di proprietà, è stato considerato come
norma di repressione dell’abuso dei diritti in generale (51); artt. 1175 e 1375
che, attraverso la clausole di correttezza e buona fede in essi consacrate, hanno
consentito in tempi recenti alla giurisprudenza, sulle tracce della dottrina più
avvertita, di sanzionare, in termini di illecito contrattuale, l’abuso di diritti
relativi o di credito)» (52).
Quanto precede consente così di affermare che il concetto de qua assume
significato «in tutti quei casi in cui si verifichi un’alterazione delle funzioni
obiettive dell’atto (53) rispetto al potere d’autonomia che lo configura» (54) e
più nello specifico allorquando si riscontri una condotta nei rapporti giuridici
contraria alla bona fides o comunque lesiva della buona fede altrui (55).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79
(51) Così identificando la predetta nozione, prima della sua ipotizzabilità da parte della
giurisprudenza anche in materia di diritti di credito e relativi, con quei comportamenti eccedenti
o addirittura mortificanti la ratio della norma attributiva del diritto stesso, prevedendo
quale sanzione da comminare per il perpetrato abuso il riconoscimento della responsabilità
ex art. 2043 c.c.
(52) LEVANTI SANDRA, cit.
(53) Secondo SALVATORE ROMANO, cit., «per la formulazione tecnica del concetto di
abuso, più che quello dello scopo, sembra conducente il criterio della funzione, considerata
nel necessario rapporto di corrispondenza tra il potere di autonomia conferito al soggetto
e l’atto di esercizio di questo potere. Questo legame è obiettivo e più visibile nella autonomia
cosiddetta funzionale i cui poteri richiedono di essere positivamente esercitati in funzione
della cura di interessi determinati. La figura, normale nell’autonomia pubblica, sussiste
ed è diffusa anche in quella privata oltre il campo, correntemente ammesso, dei poteri
familiari: il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli imposti dalla natura
della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere. Ma una funzionalità deve
rinvenirsi anche nell’autonomia privata nei suoi normali aspetti di autonomia libera che è
comunque collegata alla cura di interessi. Solo che questa funzionalità deve, principalmente,
essere percepita nel collegamento dell’atto coi limiti dello stesso potere che con quell’atto
si esercita. Così, a nostro avviso, si esprime un giusto concetto quando, ad esempio, si
parla di abuso della funzione strumentale del negozio nella simulazione (BETTI: l’Autore
parla di questo abuso in relazione allo sviamento del negozio dalla sua destinazione)».
(54) SALVATORE ROMANO, cit.
(55) Ovvero allorquando l’alterazione del fattore causale si traduca in un’alterazione
della struttura dell’atto stesso. Tale ipotesi «avviene normalmente per un elemento interno,
un’intesa – come nella simulazione – o un motivo rilevante come nella rescissione. La formula
che talvolta si impiega è quella di sviamento di potere. Così l’intesa simulatoria scin«
Quale clausola generale, che permea di sé l’intera materia contrattuale
ed obbligazionaria, quest’ultima ha» infatti «indotto la giurisprudenza
più recente ad individuare ipotesi di abuso del diritto anche in tale settore.
In particolare, intesa la stessa come oggetto di un obbligo che entra
nel contratto integrandone il contenuto - specificandosi nel dovere (negativo)
di non abusare della propria posizione al fine di non aggravare ingiustificatamente
la condizione della controparte, nonché nel dovere (positivo)
di attivarsi per salvaguardare l’utilità della controparte nei limiti in
cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio delle proprie ragioni - si è
visto nella violazione della buona fede un indice sintomatico di abuso del
diritto, sanzionato nelle forme tipiche della responsabilità contrattuale
ovvero attraverso rimedi» (56) specifici senza con essi involgere la sorte
del contratto, allorquando si atteggi a criterio indicativo di una mera modalità
comportamentale estranea alla trama precettiva del regolamento contrattuale.
Ecco spiegate la sanzione dell’annullamento (art. 2377 c.c.) o della
nullità (art. 2379 c.c.) delle delibere assembleari adottate dalla maggioranza
ex art. 2351 c.c. per la realizzazione di un interesse extrasociale nonché
le pronunce con cui la Suprema Corte ha in tempi recenti affermato che «in
applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo al quale deve
essere improntata l’esecuzione del contratto di società, la cosiddetta regola
di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente
il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al
limite dell’altrui potenziale danno. L’abuso della regola di maggioranza
(altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento
delle deliberazioni assembleari (ivi incluse quelle di scioglimento
anticipato della società) allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione
nell’interesse della società - per essere il voto ispirato al perseguimento
da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico
a quello sociale - oppure sia il risultato di una intenzionale attività
fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti
di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di mino-
80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
de l’iter negoziale impedendo la realizzazione del negozio. Così lo stato di necessità previsto
negli artt. 1447, 1448 c.c. non è d’impedimento alla conclusione di negozi: sono però
rilevanti i motivi che conducono a concludere il negozio in condizioni che alterano l’equilibrio
causale; fuori di quelle particolari circostanze, quell’equilibrio causale è, normalmente,
indifferente, requisiti di forma e di sostanza a parte. Anche la promessa di matrimonio
(art. 81 c.c.), si regge su elementi della categoria dei motivi, seguendo un criterio funzionale
e non arbitrario. La minaccia di far valere un diritto, espressione di un potere liberamente
esercitabile, diventa motivo rilevante per la controparte; come tale comporta
annullabilità, nella conclusione di un negozio in cui ugualmente appaia alterato il rapporto
causale (conseguimento di vantaggio ingiusto)», SALVATORE ROMANO, cit.
(56) LEVANTI SANDRA, cit.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81
ranza “uti singuli”» (57), ed altresì escluso l’abuso «del diritto di impugnativa
» da parte del «socio (nella specie, di una cooperativa a r.l.) che
impugni la delibera assembleare di approvazione del bilancio dopo aver in
precedenza approvato il progetto di bilancio in qualità di componente del
consiglio di amministrazione. In mancanza di qualsiasi restrizione all’esercizio
del diritto di impugnazione delle delibere difformi dalla legge e/o
dall’atto costitutivo», infatti, «per ipotizzare un simile abuso occorre provare
la violazione dei principi di correttezza e buona fede intese come
regola di comportamento e, a tali fini, non è sufficiente, la semplice identità
soggettiva tra chi prima abbia approvato il progetto di bilancio e poi
impugnato la delibera di approvazione» dello stesso, «atteso che il medesimo
soggetto», avendo esercitato «nelle due occasioni funzioni e ruoli
distinti (quello di amministratore e quello di socio), è ben possibile abbia
espresso due diverse valutazioni, senza che per ciò solo sia configurabile
una violazione del divieto di “venire contra factum proprium”» (58).
Ancora, tra i casi che interessano la materia viene in rilievo «il rimedio
contro una richiesta di convocazione dell’assemblea, avanzata dalla minoranza
assembleare per puro spirito di chicane, rappresentato dalla reiezione
della stessa o dall’inefficacia della convocazione così - abusivamente -
effettuata; come la paralisi dell’effetto risolutivo del recesso» nel caso «dell’esercizio
arbitrario ed improvviso» da parte «della banca del diritto di
recedere ad nutum dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato
» (59); l’art. 1359 c.c. che, nel considerare avverata la condizione mancata
per causa imputabile a chi aveva interesse contrario al suo avveramento,
sancisce, in luogo dell’obbligo di risarcire il danno, l’efficacia del contratto;
anche il caso della revoca della proposta legittima (art. 1328 c.c.), ma
lesiva della buona fede di chi ha iniziato l’esecuzione, può comprendersi
nella serie.
Come anticipato, la sanzione specifica della perdita della posizione giuridica
soggettiva (nella specie la potestà genitoriale) della quale si è abusato
è, invece, sancita all’art. 330 c.c., mentre l’art. 1015 c.c., prevede la cessa-
(57) Così Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387 che ha del pari affermato, quanto ad onus
probandi, che «la relativa prova incombe sul socio di minoranza il quale dovrà a tal fine
indicare i “sintomi” di illiceità della delibera - deducibili non solo da elementi di fatto esistenti
al momento della sua approvazione, ma anche da circostanze successive - in modo da
consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso
vi sia stato». Comunque, «all’infuori dell’ipotesi di un esercizio “ingiustificato” ovvero
“fraudolento” del potere di voto ad opera dei soci maggioritari, resta preclusa ogni possibilità
di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione
della delibera di scioglimento anticipato della società, essendo insindacabili le esigenze
relative all’economia individuale del socio che possano averlo indotto a votare per
tale soluzione dissolutiva».
(58) Cass. 11 dicembre 2000, n. 15592.
(59) LEVANTI SANDRA, cit.
82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zione del diritto reale di usufrutto per il titolare che ne abbia fatto un uso
distorto. Si è poi più propriamente parlato di exceptio doli generalis (60) nell’ipotesi
di abusiva rivendicazione giudiziaria di un diritto – ossia nel solo
caso in cui l’esercizio sia finalizzato esclusivamente ad arrecare un pregiudizio
alla controparte senza alcuna utilità concreta per la parte che vi ricorre
– quale rimedio, utilizzato dalla giurisprudenza, per scongiurare quelle
distorsioni che ne sarebbero conseguite in assenza di una valutazione sulla
meritevolezza dell’interesse perseguito.
Nel diritto romano, infatti, il convenuto che opponeva all’azione fatti e/o
circostanze non previste dallo ius civile, ma rilevanti secondo la coscienza
sociale mediata dal pretore, doveva far inserire nel iudicium una exceptio
(61) in mancanza della quale il giudice non avrebbe potuto tener conto delle
relative difese ed avrebbe dovuto condannarlo in base all’esistenza del diritto
vantato dall’attore.
Quale rimedio di portata generale e «diretto a provocare la reiezione
dell’altrui pretesa o eccezione che si manifesti doloso esercizio di un diritto
», vanta moderne applicazioni rinvenibili, «in materia di titoli di credito,
negli artt. 1993, comma 2, c.c., 21 e 65 l. camb., 25 e 57 l. ass.. Tali norme,
infatti, pur escludendo l’opponibilità al terzo possessore del titolo delle
eccezioni personali ai precedenti possessori, la ammettono ove il possessore
medesimo abbia agito intenzionalmente (o scientemente) a danno del
debitore. È, allora, possibile la c.d. exceptio doli generalis, essendosi in
presenza di un abuso del diritto, posto che l’esercizio del diritto in questione
(diritto di credito, connotato dal requisito dell’autonomia rispetto al
rapporto fondamentale) travalica la finalità oggettiva della norma che ad
esso accorda tutela (salvaguardia della sicurezza dei traffici e dell’affidamento
dei terzi)» (62).
Da ultimo, «premesso che, come emerge dalla prassi giurisprudenziale,
all’abuso del diritto l’ordinamento consente di reagire anche al di fuori del
modello dell’art. 2043 c.c.» (63), occorre ora verificare quando quest’ultimo
(60) «Per vero il campo di applicazione dell’exceptio doli era più ampio: vi rientravano,
oltre al dolo negoziale, una fitta serie di casi in cui, in relazione alle circostanze, appariva
iniquo che l’attore conseguisse quanto iure civili gli era dovuto. L’exceptio doli era
difatti così formulata: si in ea re nihil dolo malo Auli Aderii factum est neque fiat [ se non
v’è stato e né v’è al riguardo dolo di Aulo Agerio]; faceva pertanto riferimento non solo al
dolo commesso dall’attore (Aulo Agerio) prima del giudizio (factum est), ma anche al dolo
che l’attore commetteva nel momento stesso in cui agiva e per il fatto stesso che agiva
(neque fiat). Il primo era pertanto dolo “preterito”, passato, l’altro era un dolo “presente”.
L’exceptio doli aveva pertanto una valenza: di exceptio doli praeteriti e di exceptio doli
praesentis, detta quest’ultima, per la molteplicità e varietà delle sue applicazioni, anche
exceptio doli generalis», MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Palermo, 2001, 157 ss.
(61) Ritenuto lo strumento più idoneo a corrigere ius civile.
(62) LEVANTI SANDRA, cit.
(63) LEVANTI SANDRA, cit.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83
possa ritenersi fonte di responsabilità civile (64). L’illecito civile, differentemente
da quello penale non è legalmente tipizzato, essendo civilmente illecito
qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto:
è compito del giudice stabilire se nel caso concreto un dato comportamento
violi il principio del neminem laedere (si parla, infatti, di clausola generale
di responsabilità civile).
L’opera dell’interprete, comunque, non è libera in senso assoluto potendosi
trarre dalla norma primaria (65) in discorso taluni indici normativi che
devono essere tenuti presenti al fine di una corretta qualificazione della singola
vicenda: l’elemento soggettivo della colpa o del dolo; quello oggettivo
del comportamento umano, sia esso omissivo o commissivo; l’ingiustizia del
danno ed il nesso di causalità tra fatto (comportamento) ed effetto (danno).
In ordine al discorso che stiamo compiendo sono due gli indici a meritare
attenzione per il loro particolare atteggiarsi nell’ipotesi di esercizio abusivo
di un diritto.
Il primo è l’elemento soggettivo, a proposito del quale occorre «tener
conto tanto dell’orientamento dottrinale dominante che, risentendo in certa
misura dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 833 c.c., ritiene necessaria,
ai fini dell’abusività (e quindi dell’illiceità) dell’atto di esercizio del
diritto, l’intenzione di nuocere - ammettendo, dunque, di essere di fronte ad
un’ipotesi in cui l’ambito di operatività dell’art. 2043 c.c. viene ristretto ai soli
casi in cui il comportamento antigiuridico sia supportato dal coefficiente psi-
(64) Uno dei casi in cui è stata portata all’attenzione della Corte di Cassazione una
simile questione, è quella di cui alla sentenza 27 settembre 2001 n. 12094 nella quale può
leggersi che «la configurabilità del controllo esterno di una società su di un’altra (quale
disciplinata dal primo comma, n. 3, dell’art. 2359 cod. civ. nella formulazione risultante a
seguito della modifica apportata dal D.Lgs. n. 127 del 1991 e consistente nella influenza
dominante che la controllante esercita sulla controllata in virtù di particolari vincoli contrattuali),
postula la esistenza di determinati rapporti contrattuali la cui costituzione ed il
cui perdurare rappresentino la condizione di esistenza e di sopravvivenza della capacità di
impresa della società controllata; l’accertamento della esistenza di tali rapporti, così come
l’accertamento dell’esistenza di comportamenti nei quali possa ravvisarsi un abuso della
posizione di controllo tale da convertire una situazione di per sé non illecita nel contesto
della vigente disciplina codicista in una condotta illecita causativa di danno risarcibile,
costituisce indagine di fatto, rimessa, come tale, all’apprezzamento del giudice del merito e
sindacabile in sede di legittimità solo per aspetti di contraddizione interna all’iter logico
formale della decisione, ovvero per omissione di esame di elementi determinanti per la decisone
stessa (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la
domanda di risarcimento dei danni proposta, nei confronti di una società facente capo ad
un noto stilista e dello stesso in proprio, da alcune società, asseritamente controllate dalla
prima, che, su licenza di questa, producevano capi di abbigliamento con la griffe di detto
stilista, al fine di far valere la responsabilità aquiliana della società pretesa controllante e
del suo amministratore per avere, con il recesso dai contratti stipulati con le attrici, asseritamente
concretante un abuso di posizione di controllo, provocato il dissesto delle stesse)».
(65) Cass., SS.UU. n. 500/99.
84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
chico del dolo -, quanto quello di chi, muovendo da una lettura in termini
oggettivi del fenomeno dell’abuso del diritto, giunge sostanzialmente a ravvisare
in capo all’autore dell’abuso una responsabilità di tipo oggettivo, con la
conseguenza che il soggetto che ha» subito un «pregiudizio dall’atto abusivo
potrà limitarsi a provare lo sviamento dal fine previsto dalla norma attributiva
del diritto, secondo un parametro oggettivo di riscontro, nonché il nesso di
causalità» (66) tra fatto ed effetto, «non essendo necessaria la dimostrazione
di un atteggiamento doloso o colposo dell’autore dell’abuso» (67).
Il secondo indice è invece l’ingiustizia del danno (68), in ordine alla
quale va ricordato che spetta al giudice, sulla base di un giudizio di comparazione,
individuare gli interessi giuridicamente rilevanti e verificare «se
il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione
nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della
condotta» (69).
Con riferimento alla materia dell’abuso è in tale indagine di natura comparativa,
condotta alla luce del principio costituzionale di solidarietà (artt. 2
e 41² Cost.) o di leggi ordinarie (70), «che si concreta l’accertamento del
requisito dell’abusività, rilevante sub specie di “ingiustizia” del danno ai
sensi dell’art. 2043 c.c.: allorché si persegua una finalità che travalichi lo
scopo per il quale il diritto stesso è riconosciuto dall’ordinamento, si tende
a realizzare un interesse che non appare meritevole di protezione e che pertanto
consente» che il danno sia trasferito dal danneggiato al danneggiante,
«ponendo a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcirlo» (71).
3. Considerazioni conclusive.
In definitiva, la storia dell’istituto mostra come ad una sua precisa caratterizzazione
iniziale abbia fatto seguito una sorprendente duttilità. Dall’ambito
dei diritti reali – campo d’elezione esclusivo, ab origine, delle discussioni dottrinali
e giurisprudenziali in materia di abuso del diritto – si è, infatti, pervenuti
ad ammetterne la configurabilità anche nell’area dei diritti di credito, indivi-
(66) LEVANTI SANDRA, cit.
(67)LEVANTI SANDRA, cit.
(68) Originariamente l’affermazione della ricorrenza di un simile requisito incontrava
difficoltà per la vigenza, nell’ordinamento italiano, del principio qui iure suo utitur neminem
laedit (chi usa del proprio diritto non può nuocere ad altri). Il danno eventualmente
arrecato, infatti, proprio perché conseguenza di un atto di esercizio del diritto, non era ingiusto
ex art. 2043 c.c., escludendo così il sorgere dell’obbligo di risarcimento. Attraverso la
rimeditazione del brocardo e ammettendo la necessità, in tale materia, di una valutazione
comparativa di tutte le caratteristiche della fattispecie, si è pervenuti a ritenere possibile
l’addebito in capo all’autore della condotta abusiva della responsabilità aquiliana.
(69) LEVANTI SANDRA, cit.
(70) Dalle quali ricavare, a contrario, che il danno è stato arrecato non iure, mancando
una causa di giustificazione.
(71) LEVANTI SANDRA, cit.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85
duando il criterio di accertamento (72) non più nell’art. 833 c.c., bensì nelle
clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.,
in punto di inesigibilità della prestazione, di esecuzione del contratto, di exceptio
doli, recesso ad nutum e allorquando siano coinvolti interessi più generali,
quali quello delle società, per l’impugnativa delle delibere.
Viste le considerazioni che precedono, sembra possibile affermare che il
nostro sistema legale sia in armonia con quanto dalla prassi giurisprudenziale
della Corte di Giustizia può evincersi sul punto. Trova infatti conferma l’opportunità
della scelta, operata dal nostro Legislatore, nel senso della non codificazione
del principio de qua, come l’assenza di un unitario criterio d’applicazione,
cui consegue una varietà strutturale inevitabile e dipendente dalle caratteristiche
specifiche di ciascuna fattispecie concreta rispetto alla quale risulti ipotizzabile.
Così anche nel diritto comunitario, come si professa l’immanenza all’ordinamento
giuridico dell’Unione Europea di un principio interpretativo di portata
generale, al pari di quello di certezza del diritto e del legittimo affidamento, qual
è quello che vieta abusi (73), così si predica anche quel diverso atteggiarsi della
nozione in ragione delle caratteristiche peculiari di ogni settore del diritto - che
come letto nelle conclusioni dell’Avvocato Generale deve ritenersi perfettamente
naturale in ogni sistema legale - e che ha indotto la Corte a specificare, con
riferimento alla materia fiscale, quel parametro di portata generale dalla stessa
delineato nella sentenza Emsland Stärke per rinvenire pratiche abusive. Si ricordi
che nel settore IVA, a giudizio della Corte, «perché possa parlarsi di un comportamento
abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione
formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta
direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio
fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste
stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi
oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento
di un vantaggio fiscale». Nonostante opinioni contrarie, anche in questo
caso, sembra di poter negare la sussistenza di scostamenti da parte della nostra
giurisprudenza di legittimità dalle posizioni assunte a livello comunitario, potendosi
leggere, in una recente sentenza della Corte di Cassazione, che «in tema di
IVA, nell’ordinamento comunitario, in base all’art. 17 della direttiva CEE 17
maggio 1977, n. 388, e, quindi, anche in quello interno (cfr. la pronuncia del 21
febbraio 2006, resa dalla Corte di Giustizia CE, in causa C-419/02 (74)), deve
considerarsi in ogni caso vigente (anche a prescindere dall’applicabilità “ratio-
(72) Tanto il divieto di atti emulativi, quanto i principi di correttezza e buona fede,
sarebbero, comunque, manifestazioni di quel principio di solidarietà ex art. 2 del dettato
costituzionale, come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva.
(73) Così respingendo le ricostruzioni di quanti neghino, in quanto non codificato, la
vigenza di un siffatto principio nel nostro ordinamento. Uno per tutti, SANTORO-PASSARELLI,
della cui posizione si è dato conto supra, in apertura del § 2.1.
(74) Presente anch’essa, come la Huddersfield e la Halifax, nelle conclusioni
dell’Avvocato Generale.
86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ne temporis” di norme interne antielusive, quale quella introdotta dall’art. 37
bis del d.P.R. n. 600 del 1973) il principio di indetraibilità dell’IVA assolta in
corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato
del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice
delle operazioni, che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente
corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva» (75).
Si auspica comunque dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate
a breve a pronunciarsi in materia di dividend washing e dividend stripping
(76), l’enunciazione di principi e criteri direttivi generali in ordine a tale
nozione – a tutt’oggi intesa nel senso generico di difformità dell’esercizio del
diritto dalla ragione della tutela legislativa-, sì da dirimere e dissipare quelle
controversie e quei dubbi che sono emersi nei tentativi di ricostruzione del
principio succedutesi nel tempo e chiarire, più specificatamente, se possa ritenersi
definitivo l’abbandono delle visioni soggettivistiche dell’abuso del diritto
in favore di quella lettura, in chiave oggettiva – cioè scevra da indagini in
ordine all’intenzione dell’autore dell’atto di esercizio -, che appare essere stata
fatta propria dalla dottrina e dalla giurisprudenza comunitarie (77).
Dott.ssa Lavinia Tirelli(*)
(75) Cass. 5 maggio 2006, n. 10352. Tra le massime precedenti conformi, Cass. 2 febbraio
2004, n. 1863; 14 novembre 2005, n. 22932; 24 febbraio 2006, n. 4230 e Cass. 4 febbraio
2005, n. 2300 in cui si legge che «in tema di IVA, la possibilità di portare in detrazione,
dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, l’imposta assolta o dovuta dal
contribuente e a lui addebitata a titolo di rivalsa, in relazione ai beni e ai servizi importati o
acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione, ai sensi dell’art. 19 d.P.R. n. 633 del
1972 e dell’art. 17 Dir. CEE 17 maggio 1977, n. 388, è consentita, per le operazioni passive,
soltanto “nella misura in cui i beni e servizi sono impiegati ai fini delle sue operazioni soggette
a imposta”. In particolare, la possibilità di detrarre l’imposta inerente a operazioni passive
richiede che i beni e i servizi acquisiti siano impiegati nell’ambito di una delle attività
economiche indicate nella direttiva e che l’inerenza a tale attività economica sia specificamente
provata ogni qual volta essa venga posta in dubbio dall’Amministrazione Finanziaria».
(76) Ricorsi n. 6527/2000, 6532/2000 e 8029/2001.
(77) Da ultimo si segnala che con l’ordinanza 4 ottobre 2006, n. 21371, la Corte di
Cassazione sez. V civile, ha sottoposto alla Corte europea di Giustizia i seguenti quesiti: 1) se
la nozione di abuso del diritto, definita dalla sentenza della Corte di Giustizia in causa C-
255/02 come “operazione essenzialmente compiuta al fine di conseguire un vantaggio fiscale”
sia coincidente, più ampia o più restrittiva di quella di “operazione non avente ragioni economiche
diverse da un vantaggio fiscale”; 2) se - ai fini dell’applicazione dell’IVA - possa essere
considerato abuso del diritto (o di forme giuridiche), con conseguente mancata percezione
di entrate comunitarie proprie derivanti dall’imposta sul valore aggiunto, una separata conclusione
di contratti di locazione finanziaria (“leasing”), di finanziamento, di assicurazione e di
intermediazione, avente come risultato la soggezione ad IVA del solo corrispettivo della concessione
in uso del bene, laddove la conclusione di un unico contratto di “leasing” secondo la
prassi e l’interpretazione della giurisprudenza nazionale avrebbe come oggetto anche il finanziamento
e, quindi, comporterebbe l’imponibilità Iva dell’intero corrispettivo.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello
Stato.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87
Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza 21 febbraio 2006 (*),
nel procedimento C-223/03 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal
VAT and Duties Tribunal, Manchester (Regno Unito), con decisione 16 maggio 2003, pervenuta
in cancelleria il 22 maggio 2003, nel procedimento University of Huddersfield
Higher Education Corporation c/ Commissioners of Customs & Excise – Pres. V. Skouris
– Rel. S. von Bahr – Avv. Gen. M. Poiares Maduro (Avv. dello Stato G. De Bellis).
Sesta direttiva IVA – Art. 2, punto 1, art. 4, nn. 1 e 2, art. 5, n. 1, e art. 6, n. 1 – Attività
economica – Cessioni di beni – Prestazioni di servizi – Operazioni aventi il solo scopo di
ottenere un vantaggio fiscale.
«(omissis) 1.- La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art.
2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva
del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni
degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune d’imposta
sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata con
direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L 102, pag. 18; in prosieguo: la «sesta
direttiva»).
2 .- Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra l’University of
Huddersfield Higher Education Corporation (in prosieguo: l’«Università») e i
Commissioners of Customs & Excise (in prosieguo: i «Commissioners») a proposito di una
rettifica operata da questi ultimi della deduzione effettuata dall’Università, nell’ambito di un
piano di riduzione dell’onere fiscale, dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo:
l’«IVA») pagata a monte per il restauro di un mulino.
CONTESTO NORMATIVO
La normativa comunitaria
3.- L’art. 2, punto 1, della sesta direttiva assoggetta a IVA le cessioni di beni come pure
le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo
che agisce in quanto tale.
4.- Ai sensi dell’art. 4, n. 1, di tale direttiva, è considerato soggetto passivo chiunque
esercita in modo indipendente una delle attività economiche menzionate nel n. 2 di tale articolo.
La nozione di «attività economiche» è definita nel detto n. 2 come tutte le attività di
produttore, di commerciante o di prestatore di servizi e, in particolare, le operazioni che
comportano lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi
un certo carattere di stabilità.
5.- L’art. 4, n. 4, secondo comma, della sesta direttiva precisa:
«Con riserva della consultazione di cui all’articolo 29, ogni Stato membro ha la facoltà
di considerare come unico soggetto passivo le persone residenti all’interno del paese che
siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente vincolate fra loro da rapporti finanziari,
economici ed organizzativi».
6.- A tenore dell’art. 5, n. 1, di questa stessa direttiva «si considera “cessione di un
bene” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario».
* Lingua processuale: l’inglese.
7.- Secondo l’art. 6, n. 1, della sesta direttiva «si considera “prestazioni di servizi” ogni
operazione che non costituisce cessione di un bene ai sensi dell’articolo 5».
8.- L’art. 13, parte A, n. 1, sub i), di questa stessa direttiva prevede che gli Stati membri
esonerano dall’IVA, tra l’altro, l’insegnamento universitario.
9.- L’art. 13, parte B, lett. b), della sesta direttiva dispone che gli Stati membri esonerano
l’affitto e la locazione di beni immobili. Tuttavia, l’art. 13, parte C, lett. a), di questa
stessa direttiva autorizza gli Stati membri ad accordare ai loro soggetti passivi il diritto di
optare per l’imposizione nel caso di affitto e locazione di beni immobili.
10.- L’art. 17, n. 2, lett. a), della detta direttiva prevede:
«Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad
imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore:
a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci che gli sono o gli saranno
fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo».
11.- Per quanto riguarda i beni e i servizi utilizzati da un soggetto passivo per effettuare
sia operazioni che danno diritto alla detrazione sia operazioni che non vi danno diritto,
l’art. 17, n. 5, primo capoverso, della sesta direttiva precisa che «la deduzione è ammessa
soltanto per il prorata dell’imposta sul valore aggiunto relativo alla prima categoria di operazioni
».
12.- A termini del secondo comma di tale disposizione, «detto prorata è determinato ai
sensi dell’articolo 19 per il complesso delle operazioni compiute dal soggetto passivo».
LA CAUSA A QUA E LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE
13.- Dalla decisione di rinvio risulta che l’Università fornisce essenzialmente prestazioni
di insegnamento, che sono prestazioni esenti da IVA. Tuttavia, poiché effettua
altresì talune cessioni di beni o prestazioni soggette ad imposta, l’Università può, in
forza del diritto nazionale, ricuperare l’IVA assolta a monte secondo l’aliquota del suo
assoggettamento parziale, la quale nel 1996 era del 14,56% e che successivamente è
scesa al 6,04%.
14.- Il giudice a quo rileva che, nel 1995, l’Università decideva di restaurare due mulini
in rovina, sui quali aveva acquistato un diritto reale di usufrutto («leasehold»). Tali due mulini
sono conosciuti coi nomi di «West Mill» e d’«East Mill» e si trovano a Canalside,
Huddersfield. Poiché l’IVA pagata a monte sulle spese di ristrutturazione era in ampia parte
irrecuperabile in condizioni normali, l’Università ha cercato un modo di ridurre il suo onere
fiscale o di ritardare il momento in cui la tassa avrebbe dovuto essere assolta.
15.- In primo luogo ha effettuato e pagato i lavori realizzati sull’West Mill. Con atto 27
novembre 1995 veniva costituito un trust discrezionale (in prosieguo: il «trust»). L’atto
autentico conteneva disposizioni che riservavano all’Università il potere di nomina e di
revoca dei «trustees». I «trustees» nominati erano tre ex dipendenti dell’Università e i beneficiari
erano l’Università, qualsiasi studente iscritto in un determinato momento e qualsiasi
associazione di beneficenza. Alla stessa data, l’Università concludeva con i «trustees» un
contratto di garanzia («Deed of Indemnity») in forza del quale garantiva questi ultimi da
ogni responsabilità presente e futura derivante da varie operazioni.
16.- Il giudice a quo rileva che l’unico fine della costituzione del trust era quello di rendere
possibile la realizzazione del piano di riduzione dell’onere fiscale proposto per l’East Mill il
cui oggetto era il recupero da parte dell’Università dell’IVA sulle spese di ristrutturazione.
17.- Per quanto riguarda l’East Mill, che è l’edificio direttamente interessato nella causa
a qua, dalla decisione di rinvio risulta che, conformemente al piano proposto dai suoi consulenti
fiscali, il 21 novembre 1996 l’Università optava per la tassazione dell’affitto dell’East
88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Mill e, il 22 novembre 1996, concedeva tale affitto imponibile al trust per 20 anni. Il contratto
di affitto conteneva una clausola che consentiva all’Università di porvi fine al sesto, decimo
e quindicesimo anno di affitto. Il canone annuo iniziale veniva fissato nella somma simbolica
di GBP 12,50. Alla stessa data, il trust, che aveva anche optato per la cessione con IVA,
concedeva a sua volta all’Università una sublocazione imponibile per la durata di venti anni
meno tre giorni ad un canone annuo iniziale del simbolico importo di GBP 13 .
18.- Dalla decisione del giudice a quo risulta ancora che, il 22 novembre 1996,
l’University of Huddersfield Properties Ltd (in prosieguo: «Properties»), una società interamente
controllata dall’Università non facente parte dello stesso gruppo IVA ai sensi dell’art.
4, n. 4, secondo comma, della sesta direttiva, fatturava a quest’ultima un importo di
GBP 3 500 000 più GBP 612 500 di IVA, per i futuri servizi di costruzione sull’East Mill.
Il 25 novembre 1996, la Properties concludeva con l’Università un contratto in vista della
ristrutturazione dell’East Mill. L’Università regolava la fattura della Properties a una data
indeterminata. Il giudice a quo fa presente che non è stata fornita alcuna prova di una qualsiasi
intenzione della Properties di conseguire un profitto fornendo servizi di costruzione
all’Università e da ciò conclude che quest’ultima non aveva intenzione che la Properties
conseguisse un siffatto profitto.
19.- La Properties incaricava imprenditori terzi ai prezzi di mercato per fornire
all’Università i servizi di costruzione necessari per la ristrutturazione dell’East Mill.
20.- Nella dichiarazione IVA per il periodo di gennaio 1997, l’Università, la quale
aveva un debito netto di oltre GBP 90 000, evidenziava un rimborso a suo favore di GBP
515 000, somma che i Commissioners, previa verifica, le avrebbero pagato senza riserve
consentendole di recuperare l’IVA fatturata dalla Properties.
21.- I lavori sull’East Mill venivano portati a termine da imprenditori terzi il 7 settembre
1998 e in questa stessa data l’Università incominciava ad occupare l’immobile.
Successivamente, i canoni dovuti in forza della locazione e della sublocazione venivano
aumentati fino a raggiungere GBP 400 000 e, rispettivamente, GBP 415 000 l’anno.
22.- Il giudice a quo rileva che l’utilizzo di un trust nel contesto dell’East Mill e l’affitto
da parte dell’Università al trust avevano il solo obiettivo di facilitare il piano di riduzione dell’onere
fiscale. Rileva inoltre che il solo fine della sublocazione dell’East Mill da parte del trust
all’Università era quello di agevolare tale piano. Rileva infine che l’Università aveva l’intenzione
di ottenere un risparmio fiscale assoluto ponendo termine alla montatura IVA posta in
essere per l’East Mill entro due o tre anni, o al sesto, decimo e quindicesimo anno di locazione
(ponendo in tal modo anche termine al pagamento dell’IVA sui canoni di affitto).
23.- Il giudice a quo rileva ancora che l’insieme di tali operazioni erano operazioni
effettive, nel senso che esse hanno dato luogo a cessioni di beni o a prestazioni di servizi
realmente effettuati. Non si trattava pertanto di parvenze.
24.- Con lettera 26 gennaio 2000, i Commissioners reclamavano dall’Università, per il
periodo di gennaio 1997, un importo di GBP 612 500 a titolo di IVA su servizi di costruzione
forniti dalla Properties per l’East Mill. La lettera faceva altresì presente che tale imposta
era stata attribuita in modo non corretto a cessioni di beni o prestazioni imponibili e che si
trattava di una sottovalutazione dell’importo dell’IVA dichiarata.
25.- Il giudice a quo precisa che, in questa stessa lettera, i Commissioners qualificavano
i contratti di affitto conclusi con il trust come «operazioni inserite» di cui si poteva fare
a meno per suffragare la validità delle domande di recupero di IVA pagata a monte presentate
dall’Università. Sulla linea di tale ragionamento, i Commissioners sono arrivati alla
conclusione che l’IVA pagata a monte e richiesta all’Università dalla Properties era stata
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89
trattata in modo non corretto dall’Università in quanto era stata attribuita a cessioni di beni
o prestazioni imponibili e interamente recuperata.
26.- L’Università presentava ricorso dinanzi al VAT and Duties Tribunal avverso la rettifica
IVA notificata dai Commissioners con lettera 26 gennaio 2000.
27.- Secondo la decisione di rinvio, i Commissoners sostengono che un’operazione
effettuata unicamente o prevalentemente allo scopo di eludere l’IVA non è una «cessione di
beni o prestazione di servizi». Parimenti, non si tratterebbe di un adempimento effettuato
nell’ambito o nel compimento di un’«attività economica».
28.- In subordine, i Commissioners sostengono che una siffatta operazione deve, conformemente
al principio generale del diritto in materia di prevenzione dell’«abuso di diritto
», essere messa da parte e i termini della sesta direttiva devono essere applicati all’effettiva
natura dell’operazione di cui trattasi.
29.- L’Università sostiene, in particolare, che le operazioni di cui trattasi non sono state,
contrariamente a quanto sostenuto dai Commissioners «effettuate al solo scopo o con lo
scopo prevalente di eludere l’imposta». Per quanto sia vero che i fatti, quali interpretati
dall’Università, hanno dato luogo ad un consistente rimborso di IVA pagata a monte, immediatamente
«disponibile», questi stessi fatti avrebbero anche dato luogo a consistenti pagamenti
di IVAper una certa durata. Inoltre, anche se un’operazione fosse stata effettuata «nell’unico
scopo, o con lo scopo prevalente di eludere l’imposta», la sola conseguenza sarebbe
che a tale operazione verrebbero applicate tutte le norme antievasione che lo Stato membro
avrebbe adottato in forza dell’una o dell’altra autorizzazione ai sensi dell’art. 27, n. 1, della
sesta direttiva. Nessuna norma di questo tipo sarebbe stata tuttavia adottata dal Regno Unito.
30.- L’Università ritiene che un adempimento può essere qualificato evasione fiscale
solo se: 1) la conseguenza obiettiva dell’operazione è contraria allo spirito e alle finalità
della sesta direttiva, e se 2) l’intento soggettivo dell’operatore era quello di raggiungere tale
risultato, il che nella causa a qua non ricorre.
31.- Il giudice a quo rileva tuttavia che alle operazioni effettuate dall’Università è stato
dato corso al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Esse non hanno avuto alcuna autonoma
finalità economica, e si sintetizzano in un piano di dilazione di pagamento con un
meccanismo intrinseco che consente, in una data successiva, un risparmio fiscale in termini
assoluti. Il giudice a quo da ciò conclude che tali operazioni si concludono nella elusione
dell’imposta. Inoltre, gli accertamenti di merito mostrano chiaramente che l’intento soggettivo
dell’Università e del trust era quello di raggiungere tale risultato.
32.- Ciò considerato il VAT and Duties Tribunal, Manchester, ha deciso di sospendere
il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se, nel caso in cui:
i) un’università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura
a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile a un Trust costituito e
controllato dall’università;
ii) il Trust rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura
a tale immobile e concede all’università la sublocazione dell’immobile;
iii) l’università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione al solo
fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di svolgere un’attività economica
indipendente;
iv) la locazione e il leaseback [retrolocazione] costituivano, nell’intenzione
dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento dell’IVA con la caratteristica
intrinseca di permettere un risparmio fiscale assoluto in un periodo successivo;
90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
a) la locazione e la sublocazione costituiscano forniture tassabili ai fini della sesta direttiva;
b) esse costituiscano attività economiche nel senso della seconda frase dell’art. 4, n. 2,
della sesta direttiva IVA».
SULLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE
33.- Con la questione pregiudiziale sollevata, il giudice a quo vuole in sostanza sapere
se operazioni come quelle di cui alla causa a qua costituiscano cessioni di beni o prestazioni
di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art.
5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, qualora esse siano effettuate al solo scopo
di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico.
Osservazioni sottoposte alla Corte
34.- L’Università sostiene che, nelle condizioni esposte nella decisione di rinvio, l’affitto
e la sublocazione sono operazioni imponibili e attività economiche ai sensi della sesta
direttiva.
35.- Il governo del Regno Unito ritiene che, qualora, in condizioni quali quelle accertate
dal giudice a quo, una persona giuridica come l’Università conceda in affitto un immobile
ad un terzo che è ad essa legato e da essa controllato, come il trust, e qualora quest’ultimo
subaffitti il bene all’Università al solo scopo di ottenere un rinvio o evitare, in termini
assoluti, il pagamento dell’IVA che sarebbe stata altrimenti in gran parte irrecuperabile in
ragione del fatto che l’immobile viene utilizzato nell’ambito della sua attività di insegnamento
universitario esente,
– detta Università non svolga attività economica ai sensi dell’art. 4, n. 2, della sesta
direttiva; più esattamente, una persona giuridica come l’Università non è impegnata nello
sfruttamento di un bene immobile al fine di trarne profitti aventi carattere duraturo qualora
il suo obiettivo nell’effettuare l’operazione sia quello di eludere l’IVA, e
– né il contratto di affitto né la sublocazione costituiscono prestazioni di servizi ai sensi
dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva.
36.- L’Irlanda sostiene che, in circostanze quali quelle di cui alla causa a qua, l’affitto
e la sublocazione non possono essere qualificate «attività economiche» ai sensi dell’art. 4,
n. 2, seconda frase, della sesta direttiva e non sono, in quanto tali, operazioni imponibili ai
sensi di tale direttiva.
37.- Il governo italiano considera che, per valutare in quale misura beni o servizi sui
quali si vuole dedurre l’IVA siano utilizzati sia per operazioni che danno diritto a deduzione
sia per operazioni che non vi danno diritto, non possono prendersi in considerazione strumenti
o operazioni intrapresi al solo scopo di evitare l’applicazione del meccanismo del prorata
(e approfittare così della deduzione integrale), in quanto siffatti strumenti o operazioni
non costituiscono, per i soggetti autorizzati a operare la deduzione, un’attività economica ai
sensi dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva.
38.- La Commissione sostiene che, nell’applicare le nozioni di «attività economica» e di
«cessione di beni e prestazioni di servizi» ai sensi degli artt. 4, 5 e 6 della sesta direttiva, si
deve tener conto delle caratteristiche obiettive delle transazioni e delle attività di cui trattasi.
Lo scopo della cessione dei beni e della prestazione di servizi non sarebbe conferente.
39.- Tuttavia, qualora un soggetto passivo o un gruppo di soggetti passivi aventi tra loro
legami si impegnino in una o più operazioni che non hanno giustificazione economica, ma
che producono una situazione artificiale il cui solo scopo è quello di creare le condizioni
necessarie per il recupero dell’IVA pagata a monte, tali operazioni non dovrebbero essere
prese in considerazione, perché integrerebbero una pratica abusiva.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91
Giudizio della Corte
40.- Si deve innanzi tutto ricordare che la sesta direttiva istituisce un sistema comune
d’IVA fondato, in particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili (v.,
segnatamente, sentenza 26 giugno 2003, causa C-305/01, MGK-Kraftfahrzeuge-Factoring,
Racc. pag. I-6729, punto 38).
41.- A questo proposito, la sesta direttiva attribuisce all’IVA un campo di applicazione
molto ampio prevedendo, all’art. 2, relativo alle operazioni imponibili, oltre alle importazioni
di beni, anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso
all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale.
42.- Per quanto riguarda, in primo luogo, la nozione di «cessione di beni», l’art. 5, n. 1,
della sesta direttiva precisa che è considerato siffatta cessione il trasferimento del potere di
disporre di un bene materiale come proprietario.
43.- Dalla giurisprudenza della Corte risulta che tale nozione comprende qualsiasi operazione
di trasferimento di un bene materiale effettuato da una parte che autorizza l’altra a
disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario (v., in particolare, sentenze 8
febbraio 1990, causa C-320/88, Shipping and Forwarding Enterprise Safe, Racc. pag. I-285,
punto 7, e 21 aprile 2005, causa C-25/03, HE, Racc. pag. I-3123, punto 64).
44.- Per quanto riguarda la nozione di «prestazioni di servizi», dall’art. 6, n. 1, della
sesta direttiva risulta che in essa rientra ogni operazione che non costituisca una cessione di
un bene ai sensi dell’art. 5 della medesima direttiva.
45.- Inoltre, secondo l’art. 4, n. 1, della sesta direttiva, si considera come soggetto passivo
chiunque eserciti in modo indipendente un’attività economica, indipendentemente
dallo scopo o dai risultati di tale attività.
46.- Infine, la nozione di «attività economiche» è definita dall’art. 4, n. 2, della sesta
direttiva come comprensiva di «tutte» le attività di produttore, di commerciante o di prestatore
di servizi e, secondo la giurisprudenza, comprende tutte le fasi produttive, distributive
e della prestazione di servizi (v., segnatamente, sentenze 4 dicembre 1990, causa
C-186/89, Van Tiem, Racc. pag. I-4363, punto 17, e MGK-Kraftfahrzeuge-Factoring, cit.,
punto 42).
47.- Come constatato dalla Corte al punto 26 della sentenza 12 settembre 2000, causa
C-260/98, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-6537), l’analisi delle definizioni delle nozioni
di soggetto passivo e di attività economiche mette in rilievo l’ampiezza della sfera di
applicazione della nozione di attività economiche e del suo carattere obiettivo, nel senso che
l’attività viene considerata di per sé, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati (v.,
altresì, sentenza 26 marzo 1987, causa 235/85, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1471,
punto 8, come pure, in questo senso, in particolare, sentenze 14 febbraio 1985, causa 268/83,
Rompelman, Racc. pag. 655, punto 19, e 27 novembre 2003, causa C-497/01, Zita Modes,
Racc. pag. I-1493, punto 38).
48.- Infatti, la detta analisi nonché quella delle nozioni di cessioni di beni e di prestazioni
di servizi dimostrano che tali nozioni, che definiscono le operazioni imponibili ai sensi
della stessa direttiva, hanno tutte un carattere obiettivo e che si applicano indipendentemente
dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi (v., in questo senso, sentenza 12
gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., Racc. pag. I-
0000, punto 44).
49.- Come constatato dalla Corte al punto 24 della sentenza 6 aprile 1995, causa
C-4/94, BLP Group (Racc. pag. I-983), un obbligo dell’amministrazione fiscale di procedere
a indagine per accertare la volontà del soggetto passivo sarebbe contrario agli scopi del
92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sistema dell’IVA di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti
all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto dando rilevanza, salvo casi eccezionali,
alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi.
50.- Da ciò consegue che operazioni come quelle di cui alla causa a qua costituiscono
cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1,
dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, dal momento che
integrano i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate.
51.- Se è certamente vero che tali criteri non sono soddisfatti in caso di frode fiscale,
per esempio, mediante false dichiarazioni o con l’emissione di fatture irregolari, resta ciò
non di meno che la questione se l’operazione di cui trattasi sia effettuata al solo scopo di
ottenere un vantaggio fiscale non è pertinente per determinare se siffatta operazione costituisca
una cessione di beni o una prestazione di servizi e un’attività economica.
52.- Ciò considerato, si deve tuttavia rilevare che, come risulta dal punto 85 della sentenza
di questo stesso giorno nella causa C-255/02, Halifax e a. (Racc. pag. I-0000), la sesta
direttiva osta al diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA pagata a monte qualora le operazioni
sulle quali tale diritto si basa integrino una pratica abusiva.
53.- Da quanto precede consegue che la questione pregiudiziale va risolta nel senso che
operazioni quali quelle oggetto della causa a qua costituiscono cessioni di beni o prestazioni
di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art.
5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, qualora integrino i criteri obiettivi sui
quali le dette nozioni sono fondate, anche se sono effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio
fiscale senza altro obiettivo economico.
SULLE SPESE
54.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Le spese sostenute da altri soggetti per sottoporre osservazioni alla Corte non possono costituire
oggetto di rimborso.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Operazioni quali quelle oggetto della causa a qua costituiscono cessioni di beni o
prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1
e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977,
77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative
alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base
imponibile uniforme, come modificata con direttiva del Consiglio 10 aprile 1995,
95/7/CE, qualora integrino i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate, anche
se sono effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico
».
Osservazioni del Governo della Repubblica italiana nella causa C-223/03 – The
Commissioners of Customs and Excise c/ University Huddersfield Education
Corporation, promossa dal Tribunale di Manchester con ordinanza 13 maggio 2003 (ct.
33968/03, Avv. dello Stato G. De Bellis).
«1. Con ordinanza pronunciata il 13 maggio 2003 il Tribunale di Manchester ha sollevato
davanti alla Corte una questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 CE nell’ambito di
una controversia che vede contrapposti The Commissioners of Customs and Excise (di
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93
seguito “I Commissioners”) e la University Huddersfield Education Corporation (di seguito
“L’Università”).
2. Dal contenuto della decisione emessa il 16 ottobre 2002 dallo stesso Tribunale di
Manchester ed allegata all’ordinanza di rimessione, risulta che i Commissioners hanno ritenuto
indebita la detrazione dell’IVA che l’Università aveva assolto in relazione ad operazioni
di ristrutturazione di due mulini (West Mill e East Mill).
3. Poiché l’attività prevalentemente svolta dall’Università (servizi di istruzione) era
esente da IVA, per effetto del meccanismo del pro-rata l’IVA assolta per la ristrutturazione
dei due mulini avrebbe potuto essere portata in detrazione solo in misura minima (14,56%
nel 1996, ridotta in seguito al 6,04%).
4. Secondo il giudice rimettente (punti da 29 a 33 e 49 della decisione 16 ottobre 2002),
l’Università avrebbe posto in essere una serie di operazioni (costituzione di un Trust a cui
veniva concesso in locazione l’immobile da ristrutturare e successiva sublocazione dello stesso
immobile all’Università), il cui unico scopo era quello di ottenere il rimborso integrale
dell’IVA assolta.
5. Il Tribunale precisa ancora (punto 53) “È pacifico che tutte le operazioni che rientravano
negli accordi relativi a ciascun piano erano reali: esse si sono tradotte in forniture
effettivamente realizzate, e cioè non fittizie”.
6. I quesiti che vengono sottoposti all’esame della Corte sono pertanto i seguenti:
Se nel caso in cui:
1. un’Università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi
fornitura a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile a un Trust costituito
e controllato dall’Università;
2. il Trust rinuncia al suo diritto all’’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura
a tale immobile e concede all’Università la sublocazione dell’immobile;
3. l’Università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione al solo
fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di svolgere un’attività economica
indipendente;
4. la locazione e il leasebak (retrolocazione) costituivano nell’intenzione
dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento dell’IVA con la caratteristica
intrinseca di permettere un risparmio fiscale assoluto in un periodo successivo:
a) la locazione e la sublocazione costituiscono forniture tassabili ai fini della sesta
direttiva
b) esse costituiscono attività economiche nel senso della seconda frase dell’art. 4, n. 2,
della sesta direttiva IVA.
7. Il Governo italiano ritiene che oggetto del contendere nel giudizio pendente davanti
al Tribunale di Manchester, sia il fatto che l’Università abbia potuto portare integralmente
in detrazione l’IVA assolta per la ristrutturazione di due immobili, nonostante gli stessi fossero
destinati all’esercizio di attività per la gran parte esenti da imposta.
8. Secondo i Commissioners (punto 55 della decisione del 16 ottobre 2002) “la locazione
e la sublocazione con il Trust sono giustamente classificate come atti artificialmente
interposti (….) e che tali atti non possono essere presi in considerazione per determinare la
validità delle pretese relative all’imposta pagata a monte avanzate dall’Università. … Se
non si prendono in considerazione la locazione e la sublocazione risulta che l’imposta
pagata a monte imputata da Properties all’Università è stata gestita non correttamente da
quest’ultima in quanto è stata imputata a prestazioni tassabili e integralmente recuperata”.
94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
9. Essendo in contestazione il diritto della detrazione dell’imposta assolta a monte, si
pone in realtà un problema di interpretazione dell’articolo 17 della direttiva n. 77/388/CEE,
il quale dispone al paragrafo 2:
“2 Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette
ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore:
a) l’imposta sul valore aggiunto dovuto o assolta per le merci che gli sono o gli saranno
fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo;
b) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci importate;
c) l’imposta sul valore aggiunto dovuta ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 7, lettera a),
e dell’articolo 6, paragrafo 3”.
10. Il successivo paragrafo 5 dispone
“5. Per quanto riguarda i beni ed i servizi utilizzati da un soggetto passivo sia per operazioni
che danno diritto a deduzione di cui ai paragrafi 2 e 3, sia per operazioni che non
conferiscono tale diritto, la deduzione è ammessa soltanto per il prorata dell’imposta sul
valore aggiunto relativo alla prima categoria di operazioni.
Detto prorata è determinato ai sensi dell’articolo 19 per il complesso delle operazioni
compiute dal soggetto passivo”.
11. Il quesito formulato dal giudice a quo riguarda allora sostanzialmente l’esatta portata
dell’articolo 17 paragrafo 5 della direttiva n. 77/388/CEE e cioè se tale disposizione
debba essere interpretata nel senso che per valutare in quale misura i beni ed i servizi la cui
IVA si intende portare in detrazione siano utilizzati sia per operazioni che danno diritto a
detrazione, sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, non devono considerarsi
quegli accorgimenti o quelle operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di evitare l’applicazione
del meccanismo del pro-rata usufruendo dell’intera detrazione. Ad un tale quesito
il Governo italiano ritiene debba essere data risposta positiva.
12. Le condizioni di ammissibilità del diritto alla detrazione previsto dall’articolo 17
della direttiva n. 77/388/CEE sono state chiaramente enunciate dalla Corte nella sentenza 13
dicembre 1989 emessa nella causa C-342/87 (Genius Holding BV).
13. In tale decisione la Corte ha stabilito il principio che il diritto a detrazione dell’imposta
assolta “è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti
ad un’operazione soggetta all’IVA o versate in quanto erano dovute”.
14. In particolare la Corte, dopo aver analizzato varie disposizioni nonché i lavori preparatori
della direttiva 77/388/CEE, ha precisato (al punto 17) che “Questa interpretazione dell’art.
17, n. 2, lett. a), è quella che meglio consente di prevenire le frodi fiscali che sarebbero agevolate
qualora ogni imposta fatturata potesse essere detratta”. Tale posizione è stata di recente
ribadita dalla stessa Corte nella sentenza 19 settembre 2000 in causa C-454/98 (punto 53).
15. Nel giudizio a quo, il Tribunale ha accertato che le operazioni di costituzione del
Trust, di locazione e successiva sublocazione, avevano come esclusiva finalità “l’ottimizzazione
dell’IVA” nel senso di consentire la detraibilità intera (anziché nella percentuale del
pro-rata) dell’IVA assolta per la ristrutturazione degli immobili.
16. Tali operazioni, afferma il Tribunale (punto 136) “sono state effettuate ed eseguite
con l’unica intenzione di ottenere un vantaggio fiscale: esse non avevano finalità economica
autonoma“.
17. Una simile connotazione (mancanza di una finalità economica diversa dal risparmio
fiscale), porta ad escludere che di tali operazioni si possa tenere conto al fine di verificare
la sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’articolo 17 paragrafo 5 della direttiva
n. 77/388/CEE.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95
18. La difesa dell’Università davanti al Tribunale (punti da 94 a 98) ha sostenuto che i
Commissioners avevano illegittimamente proceduto ad una riclassificazione delle operazioni;
a conferma di ciò ha citato la sentenza 9 ottobre 2001 (in causa C-108/99 – Cantor) nella
quale la Corte ha affermato (punto 33) “Il principio della neutralità fiscale non implica che
un soggetto passivo il quale ha la scelta tra due operazioni possa scegliere l’una e far valere
gli effetti dell’altra”.
19. Il richiamo a tale pronuncia non appare però pertinente, in quanto in quel giudizio
non era in discussione la circostanza che le operazioni poste in essere avevano reali finalità
economiche.
20. Una questione del genere è stata invece affrontata nella sentenza 17 luglio 1997 (in
causa C-28/95 A. Leur Bloem) in cui la Corte era chiamata ad interpretare l’articolo 11 n. 1
lett. a) della direttiva 90/434/CEE il quale dispone:
«1. Uno Stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte le disposizioni dei
titoli II, III e IV o revocarne il beneficio qualora risulti che l’operazione di fusione di scissione,
di conferimento d’attivo o di scambio di azioni:
a) ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione
fiscale; il fatto che una delle operazioni di cui all’art. 1, non sia effettuata per valide ragioni
economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti
all’operazione, può costituire la presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo
principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali».
21. Ai punti 46 e 47 della sentenza la Corte ha affermato:
“Con la seconda questione sub e), il giudice nazionale domanda se una compensazione
fiscale orizzontale delle perdite tra le società che partecipano all’operazione costituisca
una valida ragione economica ai sensi dell’art. 11 della direttiva.
Dalla formulazione e dagli obiettivi dell’art. 11, come da quelli della direttiva, risulta
che la nozione di valide ragioni economiche trascende la mera ricerca di un’agevolazione
puramente fiscale. Pertanto, un’operazione di fusione per scambio di azioni unicamente
volta a raggiungere tale scopo non può costituire una valida ragione economica ai sensi del
detto articolo” (la sottolineatura è nostra).
22. Analoghi principi si ritiene debbano valere in sede di interpretazione della direttiva n.
77/388/CEE, la quale nel prevedere all’articolo 4 il concetto di attività economica ai fini
dell’IVA, non può in alcun modo riferirsi ad attività che abbiano finalità di pura elusione fiscale.
23. Ma allora se un’operazione (quale la locazione e sublocazione effettuata
dall’Università) non può essere qualificata come economica nel senso voluto dalla direttiva
n. 77/388/CEE, alla stessa operazione non potrà essere attribuito alcun rilievo in sede di
determinazione della percentuale di IVA detraibile agli effetti dell’articolo 17 paragrafo 5
della medesima direttiva.
In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte rispondere al quesito sottoposto
al suo esame affermando che per valutare in quale misura i beni ed i servizi la cui IVA
si intende portare in detrazione siano utilizzati sia per operazioni che danno diritto a detrazione
sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, non devono essere presi in considerazione
quegli accorgimenti o quelle operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di
evitare l’applicazione del meccanismo del pro-rata (usufruendo dell’intera detrazione), in
quanto tali accorgimenti ed operazioni non costituiscono, nei confronti del soggetto autorizzato
ad operare la detrazione, attività economica ai sensi dell’articolo 4 paragrafo 2
della direttiva n. 77/388/CEE.
Roma, 2 ottobre 2003 Avvocato dello Stato Gianni De Bellis»
96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’obbligo di annullamento
di atti amministrativi “anticomunitari”
(Corte di giustizia delle Comunità Europee, sentenza 19 settembre 2006, nelle
cause C-392/04 e C-422/04)
La Corte di Giustizia è tornata ad affrontare il problema della sorte degli
atti amministrativi divenuti definitivi a seguito della sopravvenienza di
norme comunitarie con essi contrastanti.
Con la sentenza 19 settembre 2006, in cause riunite C-392/04 e C-
422/04, il giudice comunitario si è pronunciato su una domanda pregiudiziale
proposta nell’ambito di due controversie tra i - 21 Germany GmbH, da un
lato, Arcor AG & Co. KG, dall’altro, e la Repubblica federale di Germania
in merito ai diritti pagati per ottenere una licenza di telecomunicazioni.
In particolare, le due società avevano reclamato il rimborso delle somme
corrisposte sulla base di una disciplina regolamentare dichiarata illegittima
dal Bundesverwaltungsgericht.
A seguito del mancato accoglimento del reclamo, avevano presentato un
ricorso al Verwaltungsgericht. Questo tribunale si era però pronunciato nel
senso del rigetto in quanto gli avvisi di liquidazione erano divenuti definitivi
e non sussistevano ragioni per superare il rifiuto dell’Amministrazione di
ritirarli.
Ritenendo che il Verwaltungsgericht fosse incorso in un errore non solo
di diritto nazionale, ma anche di diritto comunitario, i-21 e Arcor avevano
presentato domanda di «Revision» al Bundesverwaltungsgericht.
La Corte, nutrendo alcuni dubbi sulla compatibilità della disciplina interna
in materia di telecomunicazioni con il diritto comunitario ed in particolare
con l’art. 11 della direttiva 97/13, ha proposto rinvio pregiudiziale al fine di
stabilire se tale disposizione debba essere interpretata nel senso che osta alla
riscossione di un diritto per licenze nel cui calcolo è stata operata una riscossione
anticipata dei costi per spese amministrative generali di un’autorità
nazionale di regolamentazione per un periodo di 30 anni, e, in caso di soluzione
affermativa, se l’art. 10 T.C.E. e l’art. 11 della direttiva debbano essere
interpretati nel senso che obbligano ad annullare un avviso di liquidazione, che
non è stato oggetto di impugnazione, pur permessa dalla normativa nazionale,
qualora il diritto nazionale consenta l’annullamento, ma non lo imponga.
Con riguardo alla prima questione la Corte afferma che l’art. 11 osta
all’applicazione, a titolo di licenze individuali, di un diritto calcolato in funzione
delle spese amministrative generali dell’autorità di regolamentazione
per la concessione delle licenze su un periodo di trent’anni.
Il giudice comunitario richiama sul punto i principi enunciati in materia
nella sentenza 18 settembre 2003, in cause riunite C-392/01 e 393/01,
Albacom e Infostrada c. Ministero del Tesoro, ricordando che «l’inaffidabilità
della previsione e i suoi effetti sul calcolo del canone si ripercuotono
sulla compatibilità di quest’ultimo con gli imperativi di proporzionalità, di
trasparenza e di non discriminazione» (punto 38).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97
Nel caso di specie, invece, il calcolo delle spese generali su un periodo
di trent’anni implica un’estrapolazione delle spese possibili in avvenire le
quali, per definizione, sono altro dalle spese realmente sostenute, con la conseguenza
che, in mancanza di un meccanismo di revisione del suo importo,
il diritto applicato non può essere strettamente proporzionato al lavoro
richiesto, come invece prescrive l’art. 11 della direttiva. Peraltro le imprese
che operassero nel mercato solo per alcuni anni risulterebbero certamente
discriminate.
Nell’affrontare la seconda questione la Corte fornisce alcune precisazioni
con riguardo al riferimento operato da una delle società e dalla
Commissione ai principi della sentenza Kühne & Heitz (1).
In quell’occasione un giudice olandese d’appello, nell’ambito di una
controversia in merito ad una richiesta di pagamento di restituzioni all’esportazione,
di cui l’autorità doganale, pronunciandosi in sede di reclamo, aveva
confermato il rigetto nonostante fosse intervenuta una sentenza della Corte
di Giustizia in materia che avrebbe fatto propendere per l’accoglimento,
aveva chiesto se il diritto comunitario, in particolare il principio di cooperazione
derivante dall’art. 10 T.C.E., comportasse, in determinate circostanze,
che un organo amministrativo sia tenuto a rivedere la decisione, divenuta
definitiva, al fine di assicurare la completa efficacia del diritto comunitario
così come interpretato a seguito di una successiva domanda di pronuncia
pregiudiziale.
In particolare il giudice aveva rilevato che una regola secondo cui decisioni
divenute definitive debbano essere modificate per conformarsi ad una
giurisprudenza successiva, nel caso specifico comunitaria, avrebbe creato
una situazione di confusione amministrativa, compromettendo gravemente
la certezza del diritto. Tuttavia l’opposto principio, secondo cui una giurisprudenza
successiva ad una decisione amministrativa definitiva non può di
per sé incidere sul carattere definitivo di quest’ultima, aveva trovato una
deroga per quanto riguarda le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo
sui procedimenti penali, e probabilmente doveva essere derogata anche
98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 13 gennaio 2004, in causa C-453/00. Per
una ricostruzione delle problematiche sottese a tale decisione si vedano GALETTA, Autotutela
decisoria e diritto comunitario, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2005, 35 e segg.; DE PETRIS,
«Illegittimità comunitaria» dell’atto amministrativo definitivo, certezza del diritto e potere di
riesame, in Giorn. Dir. Amm., 2004, 723 e segg.; GATTINARA, Il ruolo delle amministrazioni
nazionali alla luce della sentenza Kühne & Heitz, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali,
2004, 489 e segg. ; MARI, La forza del giudicato delle decisioni dei giudici nazionali
di ultima istanza nella giurisprudenza comunitaria, ivi, 2004, 1007 e segg.; ANTONUCCI,
Il primato del diritto comunitario, in Cons. Stato, 2004, II, 225 e segg.; GENTILI, Il principio
comunitario di cooperazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia C.E., ibidem, 233
e segg.; COUTRON, Cour de justice, 13 janvier 2004, in Revue des affaires européennes, 2003-
2004, 417 e segg.; PEERBUX-BEAUGENDRE, Commentaire de l’arrêt de la CJCE du 13 janvier
2004, in Revue du droit de l’Uion Européenne, 2004, 559 e segg.
in quell’ipotesi, stante la contrarietà all’ordinamento comunitario e l’esaurimento
dei mezzi di tutela a disposizione del ricorrente.
La Corte, ricordando che «la certezza del diritto è inclusa tra i principi
generali riconosciuti nel diritto comunitario» e che «il carattere definitivo di
una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli
di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale,
contribuisce a tale certezza» (punto 24), ha escluso che il diritto comunitario
esiga che un organo amministrativo sia obbligato a riesaminare una decisione
amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo, se non in presenza
di una serie di condizioni: 1) che l’amministrazione disponga, secondo
il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; 2) che la decisione
sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di una giudice nazionale
che statuisce in ultima istanza; che tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza
della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione
errata del diritto comunitario; 3) che l’interessato si sia rivolto
all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato di
tale giurisprudenza. L’organo amministrativo dovrà inoltre tener conto degli
interessi di terzi.
Il caso in esame viene però ritenuto diverso sotto il profilo che mentre
«l’impresa Kühne & Heitz NV aveva esaurito tutti i mezzi di tutela giurisdizionale
a sua disposizione, (…) i-21 e Arcor non si sono avvalse del diritto di
introdurre un ricorso contro gli avvisi d’imposta loro indirizzati» (punto 53).
A sostegno della decisione la Corte richiama invece la propria giurisprudenza
in materia di disciplina processuale, secondo cui la piena competenza
degli Stati trova il limite del rispetto del principio di equivalenza e di effettività
(2): in particolare, le regole procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi
a garantire la tutela dei diritti conferiti ai privati da norme comunitarie
dotate di efficacia diretta non devono essere meno favorevoli di quelle relative
ad analoghi ricorsi di natura interna e non devono essere tali da rendere
praticamente impossibile l’esercizio di tali diritti (3).
La Corte prende infine in considerazione la circostanza che, secondo la
giurisprudenza tedesca, la legge sul procedimento attribuisce piena discrezionalità
nel disporre il ritiro di un atto amministrativo illegittimo (4), discre-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99
(2) Su tali due esigenze GIRERD, Les principes d’équivalence et d’effectivité : encadrement
ou désencadrement de l’autonomie procédurale des Etats membres?, in Rivista trimestrale
diritto europeo, 2002, 75 e segg.
(3) In tal senso sentenza 16 maggio 2000, in causa C-78/98, Preston e a. e sentenza 7
gennaio 2004, in causa C-201/02 Wells.
(4) § 48 della legge tedesca sul procedimento amministrativo – Ritiro di un atto amministrativo
illegittimo: 1) Un atto amministrativo illegittimo può essere ritirato, totalmente o
parzialmente, con efficacia ex nunc o ex tunc, anche dopo che sia divenuto inoppugnabile.
Un atto amministrativo che abbia costituito o confermato un diritto o un vantaggio giuridicamente
rilevante può essere ritirato solo entro i limiti stabiliti dai commi 2 e 4. 2) Un atto
zionalità che viene meno nell’ipotesi in cui l’atto in questione appaia «semplicemente
insopportabile» per ragioni di ordine pubblico, di buona fede, di
equità, di parità di trattamento o d’illegittimità manifesta.
Sottolinea quindi che «se le norme di ricorso obbligano a ritirare l’atto
amministrativo illegittimo per contrarietà al diritto interno, pur se ormai atto
definitivo, allorché il suo mantenimento è «semplicemente insopportabile”,
identico obbligo deve sussistere a parità di condizioni in presenza di un atto
amministrativo non conforme al diritto comunitario» (punto 63).
In relazione a ciò è affermato il principio secondo cui quando «in applicazione
di norme di diritto nazionale, l’amministrazione è tenuta a ritirare
una propria decisione divenuta definitiva che risulti manifestamente incompatibile
con il diritto interno, identico obbligo deve sussistere ove la manifesta
incompatibilità sia con il diritto comunitario» (punto 69).
Si tratta di una pronuncia di notevole importanza in ordine al delicato
profilo dell’obbligatorietà o meno dell’esercizio del potere di autotutela nei
confronti di atti amministrativi “anticomunitari”.
La Corte è giunta ad operare una distinzione in tema di riesame di atti
amministrativi in contrasto con il diritto comunitario tra: a) quelli divenuti
definitivi a seguito di una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima
istanza; b) e quelli inoppugnabili per decorso dei termini decadenziali.
Nel primo caso l’esercizio dell’autotutela è subordinato alla sussistenza
delle condizioni enunciate nella citata sentenza Kühne & Heitz: la sua obbligatorietà
non deriva solo e direttamente da una previsione da parte dell’ordinamento
nazionale, nel quale è sufficiente sia contemplata la possibilità del
riesame, ma si impone in ragione del principio di piena efficacia delle fonti
comunitarie così come interpretate dalla Corte di Giustizia.
Nel secondo caso invece è l’obbligatorietà del riesame per effetto prevista
espressamente da una disposizione di diritto interno, ovvero come nel
100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
amministrativo illegittimo, che accordi una prestazione pecuniaria una tantum o continuativa
o una prestazione in natura divisibile o che ne costituisca il presupposto, non può essere
ritirato ove il beneficiario abbia fatto affidamento sull’esistenza dell’atto amministrativo e
il suo affidamento, previa ponderazione dell’interesse pubblico al ritiro, risulti degno di tutela.
L’affidamento, di regola, è degno di tutela ove il beneficiario abbia consumato le prestazioni
accordate o abbia adottato una disposizione riguardante il suo patrimonio, che non può
più annullare o solo a prezzo di svantaggi inaccettabili. Il beneficiario non si può appellare
all’affidamento qualora egli: 1. abbia ottenuto l’atto amministrativo mediante dolo, minaccia
o corruzione; 2. abbia ottenuto l’atto amministrativo mediante dichiarazioni sostanzialmente
erronee od incomplete; 3. fosse a conoscenza dell’illegittimità dell’atto o non ne fosse
a conoscenza per colpa grave. Omissis. 4) Ove l’autorità venga a conoscenza di fatti, che
giustificano il ritiro di un atto amministrativo illegittimo, il ritiro è consentito solo entro un
anno dal momento in cui ne ha avuto conoscenza. Questo non vale nell’ipotesi di cui al
comma 2 , alinea 3, n. 1. Omissis. Per il testo integrale della legge cfr. La legge tedesca sul
procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz), Trad. con testo a fronte e
commento introduttivo a cura di GALETTA, Milano, 2002.
caso tedesco da un’interpretazione giurisprudenziale, a determinare, secondo
il principio di equivalenza, identico obbligo nell’ipotesi di contrasto con
il diritto comunitario.
I riflessi di questa impostazione sulla natura del potere di autotutela nell’ambito
dell’ordinamento italiano sono rilevanti.
Come è noto il riesame degli atti amministrativi in sede di revoca o di
annullamento d’ufficio risulta oggi legislativamente disciplinato dagli artt.
21-quinquies e 21-nonies della legge sul procedimento. In entrambe le ipotesi
si tratta di una facoltà riconosciuta all’Amministrazione, stante il principio
della non esauribilità dei relativi poteri.
Viceversa, il diritto comunitario impone di riconoscere la doverosità nell’esercizio
del potere di autotutela ossia la necessaria, e sostanzialmente vincolata,
attivazione di tale procedimento “condizionata” alla sussistenza degli
elementi individuati nella sentenza Kühne, primo fra tutti la presenza di una
disposizione nazionale che imponga in talune ipotesi l’esercizio del potere di
riesame.
In proposito, recentemente, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare
che «anche con la recente sentenza Kühne & Heitz il giudice comunitario,
pur affermando che il giudicato formatosi su una interpretazione ritenuta
poi non conforme al diritto comunitario dalla stessa Corte di Giustizia
non costituisce un limite all’esercizio dei poteri di autotutela ha ribadito che
il diritto comunitario non esige, in linea di principio, che un organo amministrativo
sia obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha
acquistato carattere definitivo, in quanto, la certezza del diritto è inclusa tra
i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario e il carattere definitivo
di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza dei termini
ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale,
contribuisce a tale certezza (Corte di Giustizia, 14 gennaio 2004,
C-453/00).
Dalla giurisprudenza comunitaria si ricava, quindi, che l’esercizio dei
poteri di autotutela non può essere configurato in termini di doverosità con
la conseguenza che il vizio della violazione del diritto comunitario non comporta
il necessario, e sostanzialmente vincolato, esercizio dei poteri di autotutela
da parte dell’amministrazione (tesi prospettata da Cons. Stato, IV, 5
giugno 1998, n. 918, che comporterebbe però la totale svalutazione degli
elementi dell’affidamento del privato e del decorso del tempo valorizzati
proprio dalla Corte di Giustizia) (…) Deve quindi ritenersi che la non doverosità
dell’attivazione del procedimento di autotutela, che preclude la giustiziabilità
del silenzio dell’amministrazione sulle istanze dirette a stimolare
tale potere, costituisca principio che non viene derogato quando il vizio
dedotto è costituito dalla violazione del diritto comunitario (vizio che comporta
l’annullabilità e non la nullità del provvedimento amministrativo).
Tale vizio deve essere adeguatamente ponderato dall’amministrazione procedente
anche alla luce del principio di leale collaborazione previsto dall’art.
10 del Trattato UE; la valutazione se attivare o meno i poteri di autotutela
resta di carattere discrezionale e non è giustiziabile perché altrimenti
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101
si determinerebbe l’effetto di consentire la riapertura del contenzioso, precluso
a seguito dell’inoppugnabilità del provvedimento e in violazione di
quel principio di certezza del diritto valorizzato anche dal giudice comunitario
»(5).
La doverosità dell’esercizio del potere di autotutela è altresì esclusa nell’ipotesi
di atto amministrativo divenuto definitivo per mancata impugnazione.
In questa circostanza infatti è consolidato l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui, a fronte di provvedimenti autoritativi divenuti inoppugnabili
per scadenza dei termini, non sussiste nessun obbligo per l’autorità emanante
di pronunciare sull’istanza di riesame avanzata dall’interessato (6). Con la
conseguenza che non sembra potersi invocare il principio di equivalenza.
A ben vedere però l’affermazione secondo cui, nel nostro sistema amministrativo,
il potere di revoca e annullamento d’ufficio è pienamente discrezionale
non tiene conto di alcune disposizioni in materia di autotutela da
parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria.
In proposito la Circolare del Ministero delle Finanze 5 agosto 1998, n.
198 relativa all’applicazione delle disposizioni del D.M. 11 febbraio 1997, n.
37, si esprime nel senso che «se è vero, a stretto rigore, che l’ufficio ha il
potere ma non il dovere giuridico di ritirare l’atto viziato (mentre è certo che
il contribuente, a sua volta, non ha un diritto soggettivo a che l’ufficio eserciti
tale potere), è tuttavia indubbio che l’ufficio stesso non possiede una
potestà discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o no i propri
errori. Infatti da un lato il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti
di un atto patentemente illegittimo, nel caso sia ancora aperto o comunque
esperibile il giudizio, può portare alla condanna alle spese dell’amministrazione
con conseguente danno erariale (la cui responsabilità potrebbe
essere fatta ricadere sul dirigente responsabile del mancato annullamento
dell’atto); dall’altro, essendo previsto che in caso di “grave inerzia” dell’ufficio
che ha emanato l’atto può intervenire in via sostitutiva l’organo
sovraordinato, è evidente che l’esercizio corretto e tempestivo dell’autotutela
viene considerato dall’amministrazione non certo come una specie di
“optional” che si può attuare o non attuare a propria discrezione ma come
una componente del corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e,
quindi, come un elemento di valutazione della loro attività dal punto di vista
disciplinare e professionale».
Si potrebbe dunque pervenire alla conclusione che in materia tributaria, a
fronte di una disposizione interna che prevede l’obbligatorietà dell’autotutela
nelle ipotesi di cui all’art. 2 del D.M. n. 37/97 (errore di persona, evidente
errore logico o di calcolo, errore sul presupposto dell’imposta, doppia impo-
102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(5) Cons. Stato, Sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023.
(6) Cons. Stato, Sez. VI, 23 settembre 1998, n. 1276; Cons. Stato, Sez. V, 15 settembre
1997, n. 980; Cons. Stato, Sez. VI, 10 giugno 1991, n. 356; contra Cons. Stato, Sez. VI, 16
ottobre 1995, n. 1127.
sizione, mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti,
mancanza di documentazione successivamente sanata non oltre i termini
di decadenza, sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o
regimi agevolativi precedentemente negati, errore materiale del contribuente
facilmente riconoscibile), secondo il principio di equivalenza, sussista identico
obbligo di esercitare tale potere nei confronti di atti “anticomunitari”.
In particolare, per restare in ambito tributario si potrebbe sostenere l’obbligatorietà
dell’autotutela nei confronti di atti emessi in violazione della
normativa IVA, la cui fonte è quasi esclusivamente comunitaria (Dir.
77/388/CEE).
L’applicazione del principio di equivalenza rispetto ad una prassi interna,
e non rispetto ad un’interpretazione giurisprudenziale consolidata di una
disposizione, come nel caso cui si riferisce la sentenza in oggetto, risulterebbe
di particolare interesse se si osserva che la giurisprudenza nazionale non
attribuisce in genere alcuna rilevanza al mancato rispetto di circolari (salvo
che per i limitati effetti di cui all’art. 10, 2° comma, dello Statuto del contribuente
(7).
Diversamente la Corte di Giustizia è incline a riconoscere valenza anche
alle prassi interne per valutare la sussistenza di una violazione del diritto
comunitario (8).
Dott.ssa Chiara Di Seri(*)
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, sentenza 19 settembre
2006(**) , nei procedimenti riuniti C-392/04 e C-422/04, aventi ad oggetto le domande
di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal
Bundesverwaltungsgericht (Germania), con decisioni 7 luglio 2004, pervenute in cancelleria,
rispettivamente, il 16 settembre e il 4 ottobre 2004, nelle cause i-21 Germany
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103
(7) L’art. 10 della legge 212/00 (Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del
contribuente), al 2° comma dispone infatti che “non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi
moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti
dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione
medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente
conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa”.
(8) Si veda in proposito Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza 9 dicembre
2003, in causa C-129/00 Commissione Italia, in cui è stato ritenuto che la Repubblica
italiana fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE, non
avendo modificato l’art. 29, secondo comma, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, che
veniva interpretato e applicato in sede amministrativa e da una parte significativa degli organi
giurisdizionali – compresa la Corte suprema di cassazione – in modo tale da rendere l’esercizio
del diritto al rimborso di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario eccessivamente
difficile per il contribuente.
(*) Dottoranda di ricerca presso la Scuola dottorale Interuniversitaria Internazionale in
Diritto europeo, Storia e Sistemi giuridici dell’Europa, Università degli Studi di Roma Tre.
(**) Lingua processuale: il tedesco.
GmbH (C-392/04), Arcor AG & Co. KG (C-422/04), già ISIS Multimedia Net GmbH
& Co. KG, contro Bundesrepublik Deutschland – Pres. V. Skouris – Rel. S. Von Bahr
– Avv. Gen. D. Ruiz-Jarabo Colomer.
Servizi di telecomunicazioni – Direttiva 97/13/CE – Art. 11, n. 1 – Diritti e oneri sulle
licenze individuali – Art. 10 CE – Primato del diritto comunitario – Certezza del diritto –
Decisione amministrativa definitiva.
«1.- Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art. 11, n.
1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 10 aprile 1997, 97/13/CE, relativa
ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di licenze individuali nel
settore dei servizi di telecomunicazione (GUL 117, pag. 15), nonché dell’art. 10 CE.
2.- Tali domande sono state sollevate nell’ambito di due controversie tra i-21 Germany
GmbH (in prosieguo: «i-21»), da un lato, e Arcor AG & Co. KG, già ISIS Multimedia Net
GmbH & Co. KG (in prosieguo: «Arcor»), dall’altro, e la Repubblica federale di Germania
(Bundesrepublik Deutschland) in merito ai diritti pagati dalle dette società per ottenere una
licenza di telecomunicazioni.
CONTESTO NORMATIVO
La normativa comunitaria
3.- L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 prevede quanto segue:
«Gli Stati membri fanno sì che i diritti richiesti alle imprese per le procedure di autorizzazione
siano esclusivamente intesi a coprire i costi amministrativi sostenuti per il rilascio,
la gestione, il controllo e l’esecuzione delle relative licenze individuali. I diritti per le
licenze individuali sono proporzionati al lavoro che esse comportano e sono pubblicati in
maniera appropriata e sufficientemente dettagliata perché possano essere facilmente accessibili
».
4.- La direttiva 97/13 è stata abrogata dalla direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio 7 marzo 2002, 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti
ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva «quadro») (GU L 108, pag. 33).
La normativa nazionale
5.- L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 è stato trasposto nell’ordinamento tedesco dalla
legge sulle telecomunicazioni (Telekommunikationsgesetz) 25 luglio 1996 (BGBl. 1996 I,
pag. 1120; in prosieguo: il «TKG»), che costituisce una legge d’abilitazione, e dal regolamento
relativo alla tassazione delle licenze di telecomunicazione (Telekommunikations-
Lizenzgebührenve-rordnung) 28 luglio 1997, (BGBl. 1997 I, pag. 1936; in prosieguo: la
«TKLGebV»), adottato dal Ministro federale delle poste e delle telecomunicazioni sul fondamento
del TKG.
6.- L’art. 48, n. 1, della legge sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz)
25 maggio 1976 (BGBl. 1976 I, pag. 1253), nella versione pubblicata il 21 settembre
1998 (BGBl. 1998 I, pag. 3050), così dispone:
«Ritiro di un atto amministrativo illegittimo
Un atto amministrativo illegittimo può, anche dopo esser divenuto inoppugnabile, essere
ritirato in tutto o in parte con effetto per il futuro o per il passato. Un atto amministrativo
costitutivo o confermativo di un diritto o di un vantaggio giuridicamente rilevante (atto
amministrativo che crea effetti favorevoli) può essere ritirato solo entro i limiti previsti ai
nn. 2-4. (…)».
104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
7.- Ove si tratti di un avviso di liquidazione d’imposta per una licenza di telecomunicazioni,
il Bundesverwaltungsgericht fa presente che, in caso di ritiro del medesimo, le
imprese interessate avrebbero diritto al rimborso degli importi indebitamente pagati ai sensi
dell’art. 21 della legge sulle spese amministrative (Verwaltungskostengesetz) 23 giugno
1970 (BGBl. 1970 I, pag. 821).
8.- Dalle decisioni di rinvio risulta che, secondo la giurisprudenza tedesca,
l’Amministrazione ha, in virtù dell’art. 48 della legge sul procedimento amministrativo,
discrezionalità in linea di principio piena di ritirare un atto amministrativo illegittimo divenuto
definitivo. Se, però, mantenere l’atto in questione appare «semplicemente insopportabile
» per ragioni di ordine pubblico, di buona fede, di equità, di parità di trattamento o d’illegittimità
manifesta, tale potere può essere annullato.
FATTI E QUESTIONI PREGIUDIZIALI
9.- i-21 e Arcor sono due imprese di telecomunicazioni. Con avvisi 14 giugno 2000 e
18 maggio 2001 venivano richiesti loro diritti per quasi EUR 5 420 000, alla prima, e quasi
EUR 67 000, alla seconda, a titolo di licenze individuali di telecomunicazioni. Esse pagavano
gli importi senza contestarli e senza presentare ricorso nel termine di un mese dalla notifica
degli avvisi.
10.- A norma della TKLGebV, l’importo del diritto è fondato sul prelievo anticipato delle
spese amministrative generali dell’autorità di regolamentazione su un periodo di trent’anni.
11.- Nell’ambito di un ricorso diretto all’annullamento di un avviso di imposta contestato
nei termini, il Bundesverwaltungsgericht dichiarava, con sentenza 19 settembre 2001,
che la TKLGebV era incompatibile con norme di rango superiore, vale a dire quelle del
TKG e della legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, e confermava l’annullamento
dell’avviso in questione disposto da una corte d’appello.
12.- A seguito di tale sentenza i-21 e Arcor reclamavano il rimborso dei diritti pagati,
ma i loro reclami non venivano accolti. Esse ricorrevano, pertanto, al Verwaltungsgericht
che respingeva i ricorsi con l’argomento che gli avvisi di liquidazione erano divenuti definitivi
e che non sarebbe sussistita ragione di ritornare, nella fattispecie, sul rifiuto
dell’Amministrazione di ritirarli.
13.- Ritenendo che il Verwaltungsgericht fosse incorso in un errore non solo di diritto
nazionale, ma anche di diritto comunitario, i-21 e Arcor ricorrevano per «Revision» al
Bundesverwaltungsgericht. i-21 sosteneva di aver dovuto assolvere un diritto più di mille
volte superiore a quello applicato alle imprese di telecomunicazione posteriormente alla
sentenza del 19 settembre 2001 succitata.
14.- Nelle decisioni di rinvio il Bundesverwaltungsgericht fa presente che, con riferimento
al mero diritto nazionale, le domande di «Revision» non possono essere accolte.
Secondo tale collegio, non si verserebbe nel caso in cui il mantenimento degli avvisi d’imposta
risulta «semplicemente insopportabile» ed il potere discrezionale dell’Amministrazione
ridotto al punto da non lasciare a quest’ultima scelta diversa dal ritirarli. Il
Bundesverwaltungsgericht considera, infatti, che il mantenimento degli avvisi di liquidazione
non è contrario né alle nozioni di buona fede e di parità di trattamento, né a quelle di ordine
pubblico e di equità e che gli avvisi in causa non sono neppure fondati su una regolamentazione
manifestamente illegittima.
15.- Il collegio remittente s’interroga, invece, sulla portata del diritto comunitario.
L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 sembrerebbe ostare a una regolamentazione come quel-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105
la in oggetto. Se tale interpretazione dovesse rivelarsi corretta, il Bundesverwaltungsgericht
si pone l’ulteriore domanda se questa stessa disposizione, letta in combinato disposto con
l’art. 10 CE relativo all’obbligo di leale cooperazione, non limiti il potere discrezionale dell’autorità
di regolamentazione, alla luce segnatamente della sentenza 13 gennaio 2004,
causa C-453/00, Kühne & Heitz (Racc. pag. I-837).
16.- Il Bundesverwaltungsgericht si domanda, in particolare, se l’art. 11, n. 1, della
direttiva 97/13 debba essere interpretato nel senso che impone agli Stati membri, in sede
di calcolo del diritto, l’obbligo di rispettare gli obiettivi della direttiva e di garantirne il
rispetto. Tra tali obiettivi ci sarebbe quello di facilitare in maniera significativa l’ingresso
sul mercato di nuovi concorrenti. Ebbene, il mantenimento degli avvisi di liquidazione
di cui trattasi costituirebbe una restrizione della concorrenza per le imprese interessate, le
quali verrebbero in particolare svantaggiate rispetto alle imprese che hanno contestato
entro i termini impartiti gli avvisi di cui erano destinatarie ottenendone l’annullamento.
Secondo il Bundesverwaltungsgericht, se il detto articolo dovesse essere interpretato nel
senso che vieta restrizioni siffatte alla concorrenza, il principio di cooperazione di cui
all’art. 10 CE potrebbe implicare l’obbligo di ritornare sugli avvisi di liquidazione in
causa conformemente al diritto nazionale, senza lasciare margini di discrezionalità
all’Amministrazione.
17.- Alla luce di quanto sopra, il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’art. 11, n. 1, della direttiva [97/13/CE] debba essere interpretato nel senso che
osta alla riscossione di un diritto per licenze nel cui calcolo è stata operata una riscossione
anticipata dei costi per spese amministrative generali di un’autorità nazionale di regolamentazione
per un periodo di 30 anni.
In caso di soluzione affermativa della questione sub 1):
2) Se l’art. 10 CE e l’art. 11 della direttiva [97/13] debbano essere interpretati nel senso
che obbligano ad annullare un avviso di liquidazione di un diritto come descritto sub 1) e
che non è stato oggetto di impugnazione, pur permessa dalla normativa nazionale, qualora
il diritto nazionale consenta l’annullamento, ma non lo imponga».
18.- Con ordinanza 6 dicembre 2004 i procedimenti C-392/04 e C-422/04 sono stati
riuniti ai fini della fase orale e della sentenza.
SULLA PRIMA QUESTIONE
Osservazioni delle parti
19.- i-21, Arcor e la Commissione delle Comunità europee sostengono che l’art. 11,
n. 1, della direttiva 97/13 osta a un diritto come quello previsto dalla normativa tedesca
oggetto della causa principale.
20.- Il governo tedesco fa valere, al contrario, che tale articolo non si applica alle presenti
controversie, giacché la direttiva 97/13 è stata abrogata dalla direttiva 2002/21, la quale
non contiene alcuna disposizione transitoria relativa all’applicazione del detto articolo.
21.- Il governo tedesco fa valere anche che, a ogni modo, l’art. 11, n. 1, della direttiva
97/13 non osta all’imposizione di un diritto come quello previsto dall’ordinamento tedesco.
Da un lato, i costi amministrativi menzionati al detto articolo comprenderebbero le spese
amministrative generali. Dall’altro, lo stesso articolo non preciserebbe che solo le spese
amministrative effettivamente sostenute possono essere conteggiate nel canone di licenza,
con esclusione di quelle future. La presa in considerazione di queste ultime costituirebbe
106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
una garanzia di sicurezza per le imprese, che saprebbero di non andare incontro, in avvenire,
ad altre tasse per la licenza.
Risposta della Corte
22.- Occorre esaminare per primo l’argomento del governo tedesco secondo cui
l’art. 11 della direttiva 97/13 sarebbe inapplicabile alle presenti controversie a motivo dell’abrogazione
di tale direttiva da parte di una direttiva posteriore.
23.- È vero che la direttiva 97/13 è stata abrogata dall’art. 26 della direttiva 2002/21
con effetto 25 luglio 2003 conformemente alle disposizioni dell’art. 28, n. 1, secondo
comma, di quest’ultima.
24.- Risulta, tuttavia, dalla lettura di questi due articoli, il 26 e il 28, n. 1, secondo
comma, che il legislatore non ha inteso mettere in discussione i diritti e gli obblighi sorti
durante la vigenza della direttiva 97/13 e che la direttiva 2002/21 si applica unicamente alle
situazioni di diritto che si sono venute a creare a partire dal 25 luglio 2003.
25.- Deve ritenersi, di conseguenza, che, nonostante l’abrogazione della direttiva 97/13
da parte della direttiva 2002/21, la legittimità di diritti come quello richiesto a i-21 e ad
Arcor con avvisi di liquidazione datati, rispettivamente, 14 giugno 2000 e 18 maggio 2001,
in un arco di tempo in cui la direttiva 2002/21 non era ancora applicabile, debba essere verificata
alla luce dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13.
26.- Occorre accertare, poi, se la nozione di «costi amministrativi» di cui al detto articolo
comprende le spese amministrative generali dei regimi di licenze individuali, calcolate
su base trentennale.
27.- La Corte ha già avuto occasione di esaminare la portata dell’art. 11, n. 1, della
direttiva 97/13.
28.- Nella sentenza 18 settembre 2003, cause riunite Albacom e Infostrada
(Racc. pag. I-9449, punto 25), la Corte ha ricordato che l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13
prevede che i diritti richiesti dagli Stati membri alle imprese titolari di licenze individuali
siano destinati esclusivamente a coprire le spese amministrative sostenute per la concessione
di tali licenze.
29.- Dai termini della disposizione come interpretata dalla Corte al punto 25 della sentenza
Albacom e Infostrada, cit., risulta che questo lavoro di conferimento consta solo di
quattro attività, vale a dire rilascio gestione controllo ed esecuzione delle licenze individuali.
Il diritto deve essere, inoltre, proporzionato alla mole di lavoro comportata e pubblicato
in maniera appropriata e sufficientemente dettagliata perché le informazioni siano facilmente
accessibili.
30.- Tali requisiti costituiscono una risposta agli obiettivi di proporzionalità, di trasparenza
e di non discriminazione dei regimi di licenze individuali enunciati al secondo ‘considerando’
della direttiva 97/13.
31.- Occorre, perciò, verificare se le modalità di calcolo del diritto oggetto della causa
principale, consistenti nel prendere in considerazione le spese generali di concessione, per
un periodo di 30 anni, delle licenze individuali, siano conformi alle disposizioni dell’art. 11,
n. 1, della direttiva 97/13 lette alla luce dei detti obiettivi.
32.- Per prima cosa si deve osservare che la nozione di costi amministrativi è sufficientemente
ampia da coprire le spese amministrative «generali».
33.- Le spese amministrative generali non possono riferirsi, però, ad altre attività che
alle quattro espressamente menzionate all’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 e ricordate
supra, al punto 29.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 107
34.- Ora, stando alle informazioni fornite alla Corte, l’importo del diritto in questione
comprenderebbe altre voci di spesa, come le spese per la generale attività di sorveglianza
dell’autorità di regolamentazione e, soprattutto, per il controllo di eventuali abusi di posizione
dominante.
35.- Siccome questo tipo di controllo eccede il lavoro strettamente necessario al conferimento
delle licenze individuali, tener conto delle spese che ne derivano è contrario alle
disposizioni dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13.
36.- Si deve, poi, esser sicuri che le spese amministrative generali relative alle quattro
attività indicate al detto art. 11, n. 1, possano essere calcolate su base trentennale e computate
nel canone.
37.- Dalle osservazioni presentate alla Corte da i-21, da Arcor e dalla Commissione
risulta che una previsione di così lunga durata pone problemi di affidabilità, tenuto conto
delle caratteristiche del settore delle telecomunicazioni. Trattandosi di un settore in piena
evoluzione, prevedere la situazione del mercato e il numero di imprese di telecomunicazioni
a parecchi anni di distanza sembra difficile, tanto più che gli anni all’orizzonte sono trenta.
Incerti sono anche il numero di licenze individuali da gestire in avvenire e, pertanto,
l’ammontare delle spese generali di gestione. Non solo. La regolamentazione della materia
conosce mutamenti significativi, come attestano le nuove direttive del 2002, fra cui la
2002/21, che abroga la direttiva 97/13, e queste modifiche normative sono a propria volta
suscettibili di incidere sull’ampiezza delle spese amministrative generate dai regimi di licenze
individuali.
38.- L’inaffidabilità della previsione e i suoi effetti sul calcolo del canone si ripercuotono
sulla compatibilità di quest’ultimo con gli imperativi di proporzionalità, di trasparenza
e di non discriminazione.
39.- Innanzi tutto, il calcolo delle spese generali su un periodo di trent’anni implica
un’estrapolazione delle spese possibili in avvenire le quali, per definizione, sono altro dalle
spese realmente sostenute. In mancanza di un meccanismo di revisione del suo importo, il
diritto applicato non può essere strettamente proporzionato al lavoro richiesto, come invece
espressamente prescrive l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13.
40.- Secondariamente, un sistema di calcolo siffatto, cioè non fondato sulle spese realmente
sostenute, rischia di infrangere l’obbligo di pubblicazione dettagliata delle informazioni
relative al diritto, quale enunciato all’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, e, per ciò stesso,
l’obiettivo di trasparenza.
41.- Infine, l’obbligo di tutte le imprese di telecomunicazioni di pagare una certa
somma a titolo di spese generali per un periodo di trent’anni non tiene conto del fatto che
talune di loro potrebbero operare sul mercato solo per pochi anni, e può perciò condurre a
una discriminazione.
42.- Risulta da quanto precede che l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 osta all’applicazione,
a titolo di licenze individuali, di un diritto calcolato in funzione delle spese amministrative
generali dell’autorità di regolamentazione per la concessione delle licenze su un
periodo di trent’anni.
SULLA SECONDA QUESTIONE
Osservazioni delle parti
43.- i-21, Arcor e la Commissione sostengono ciascuna, ma per ragioni differenti, che
l’art. 10 CE, in combinato disposto con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, osta al manteni-
108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mento di atti amministrativi illegittimi come gli avvisi di liquidazione d’imposta di cui trattasi
nella causa principale, e chiedono allo Stato membro il rimborso degli importi indebitamente
riscossi.
44.- Secondo i-21, il mantenimento di un atto amministrativo siffatto è contrario al
principio del primato del diritto comunitario e alla necessità di preservare il suo effetto utile.
Per quanto la Corte possa riconoscerne l’importanza, il principio della certezza del diritto
non può prevalere in ogni caso su quello di legalità. i-21 sottolinea che nella sentenza Kühne
& Heitz, cit., la Corte ha considerato che un atto amministrativo che aveva acquisito forza
di giudicato a seguito di una sentenza non impugnabile poteva essere annullato, in date circostanze,
se contrario al diritto comunitario. Tale possibilità s’imporrebbe a fortiori ove l’atto
amministrativo non è stato oggetto di decisione giurisdizionale ed ha semplicemente
acquisito carattere definitivo alla scadenza dei termini impartiti per introdurre un ricorso.
45.- Da parte sua, Arcor ritiene la giurisprudenza Kühne & Heitz, cit., non pertinente,
perché relativa a un conflitto indiretto tra una norma processuale nazionale e una norma
sostanziale comunitaria, dove la prima escludeva l’applicazione della seconda. Secondo
Arcor, oggetto della causa principale è un conflitto diretto tra due norme sostanziali.
L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, in combinato disposto con l’art. 10 CE, richiederebbe il
rimborso dei diritti riscossi in sua violazione; la normativa nazionale, invece, lo vieterebbe.
Arcor è del parere che, in casi siffatti, il diritto comunitario dovrebbe prevalere su quello
nazionale contrario.
46.- La Commissione sostiene, al contrario, che la sentenza Kühne & Heitz, cit., costituisce
un punto di partenza appropriato e ricorda che, in linea di principio, non sussiste un
obbligo di ritirare un atto amministrativo che non è stato contestato entro i termini impartiti.
Indica, poi, che nella fattispecie occorre verificare se il mantenimento degli avvisi di
liquidazione illegittimi debba nondimeno essere considerato «semplicemente insopportabile
» alla luce dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 sotto il profilo dei principi di equivalenza
e di effettività.
47.- Quanto al principio di equivalenza, la Commissione fa valere che, in base al diritto
tedesco, un atto amministrativo manifestamente illegittimo per contrarietà al diritto nazionale
non può essere mantenuto. Se si effettuasse una verifica del genere guardando anche al
diritto comunitario, risulterebbe, ebbene, secondo la Commissione, che gli avvisi d’imposta
oggetto della causa principale e la relativa regolamentazione dovrebbero essere considerati
manifestamente illegittimi alla luce dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13.
48.- Ad identica conclusione perviene la Commissione quanto al principio di effettività.
Essa considera che il mantenimento degli avvisi di imposta rende praticamente impossibile
l’esercizio dei diritti derivanti dal detto art. 11, n. 1, giacché permette un’eccessiva compensazione
che porta a restringere la concorrenza nel corso di un periodo di trent’anni.
Risposta della Corte
49.- Occorre precisare il contesto della questione sollevata. Contrariamente a quanto
sostiene Arcor, la seconda questione non verte su un conflitto tra due norme di diritto sostanziale
in materia di rimborso di diritti percepiti illegittimamente. Né la disposizione dell’art.
11, n. 1, della direttiva 97/13, né quelle del TKG e della TKLGebV, per come questa
legge e questo regolamento sono stati illustrati nel fascicolo presentato alla Corte, trattano,
infatti, di un tale rimborso.
50.- La questione verte, al contrario, sulla relazione tra l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13
e l’art. 48 della legge sul procedimento amministrativo, come interpretato dal Bundesverwal-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 109
tungsgericht. Ai sensi di quest’ultimo articolo, alla scadenza di un dato termine gli avvisi d’imposta
acquistano carattere definitivo e i loro destinatari perdono la facoltà di proporre ricorsi
per far valere un diritto che traggono dal detto art. 11, n. 1; resta, però, l’obbligo dell’amministrazione
competente di ritirare gli atti amministrativi illegittimi il cui mantenimento risulti
«semplicemente insopportabile».
51.- Conformemente al principio di certezza del diritto, il diritto comunitario non esige
che un organo amministrativo sia, in linea di massima, obbligato a riesaminare una decisione
amministrativa che ha acquisito carattere definitivo alla scadenza di termini ragionevoli
di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale (v. sentenza Kühne
& Heitz, cit., punto 24). Il rispetto di tale principio permette di evitare che atti comunitari
produttivi di effetti giuridici vengano rimessi in discussione all’infinito (v., per analogia,
sentenza 14 settembre 1999, causa C-310/97 P, Commissione/AssiDomän Kraft
Products e a., Racc. pag. I-5363, punto 61).
52.- La Corte ha tuttavia riconosciuto la possibilità di limitare in taluni casi il detto
principio. Al punto 28 della sentenza Kühne & Heitz, cit., ha affermato, infatti, che l’organo
amministrativo interessato è tenuto, in applicazione del principio di cooperazione derivante
dall’art. 10 CE, a riesaminare tale decisione, ed eventualmente a ritornare su di essa,
ove siano soddisfatte le seguenti quattro condizioni: 1) che disponga, secondo il diritto
nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; 2) che la decisione in questione sia divenuta
definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima
istanza; 3) che tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla
medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza
che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3, CE, e
4) che l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere
stato informato della detta giurisprudenza.
53.- La controversia definita dalla sentenza Kühne & Heitz, cit., è però ben diversa da
quella su cui verte la causa principale. L’impresa Kühne & Heitz NV aveva esaurito tutti i
mezzi di tutela giurisdizionale a sua disposizione, mentre nelle fattispecie presente i-21 e
Arcor non si sono avvalse del diritto di introdurre un ricorso contro gli avvisi d’imposta loro
indirizzati.
54.- Ne consegue che, a dispetto del punto di vista difeso da i-21, nessuna rilevanza
ha la sentenza Kühne & Heitz, cit., per stabilire se, in una situazione come quella oggetto
della causa principale, un organo amministrativo sia tenuto a riesaminare decisioni divenute
definitive.
55.- I ricorsi pendenti dinanzi al giudice del rinvio sono diretti al rimborso di diritti
pagati sulla base di avvisi di liquidazione divenuti definitivi con l’argomento che, in conformità
dell’art. 48 della legge sul procedimento amministrativo, come interpretato dal
Bundesverwaltungsgericht, l’autorità amministrativa competente è obbligata a ritirare i detti
avvisi.
56.- Si tratta perciò di stabilire se, al fine di tutelare i diritti che ai singoli riconosce l’ordinamento
comunitario, sia possibile chiedere al giudice nazionale investito dei ricorsi di
riconoscere l’esistenza di un obbligo siffatto in capo all’autorità amministrativa.
57.- Occorre ricordare, in proposito, che, secondo una giurisprudenza consolidata, in
mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno
di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali
dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza
delle norme di diritto comunitario aventi effetti diretti, a condizione, tuttavia, che le dette
110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna
(principio di equivalenza) e che non siano strutturate in modo tale da rendere in pratica
impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio
di effettività) (v., in particolare, sentenze 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston e a.,
Racc. pag. I-3201, punto 31, e 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Wells, Racc. pag. I-723,
punto 67).
58.- Per quanto riguarda, innanzi tutto, il principio di effettività, esso richiede che le
norme sul trattamento di avvisi di liquidazione fondati su una regolamentazione incompatibile
con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 non rendano impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti conferiti da tale direttiva.
59.- È perciò importante che le imprese interessate possano proporre un ricorso contro
tali avvisi entro un termine ragionevole dalla loro notifica e far valere i diritti che traggono
dall’ordinamento comunitario, in particolare dall’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13.
60.- Nelle controversie in esame nessuno ha avanzato che la disciplina dei ricorsi, in
particolare la previsione del termine di un mese per agire, erano irragionevoli.
61.- Si deve ricordare, peraltro, che, ai sensi dell’art. 48, n. 1, della legge sul procedimento
amministrativo, un atto amministrativo illegittimo può essere ritirato anche se
definitivo.
62.- Per quanto riguarda, poi, il principio di equivalenza, esso richiede che la complessiva
disciplina dei ricorsi, termini compresi, si applichi indistintamente ai ricorsi fondati
sulla violazione del diritto comunitario e a quelli per infrazione del diritto interno.
63.- Ne discende che, se le norme nazionali di ricorso obbligano a ritirare l’atto
amministrativo illegittimo per contrarietà al diritto interno, pur se ormai atto definitivo,
allorché il suo mantenimento è «semplicemente insopportabile», identico obbligo deve
sussistere a parità di condizioni in presenza di un atto amministrativo non conforme al
diritto comunitario.
64.- Dalle indicazioni del giudice del rinvio discende che, per verificare il carattere
«semplicemente insopportabile» degli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale,
il giudice nazionale ha esaminato se il loro mantenimento viola i principi giuridici nazionali
di parità di trattamento, di equità, di ordine pubblico o di buona fede, ovvero se è manifesta
la loro incompatibilità con norme di rango superiore.
65.- Quanto al principio di parità di trattamento, esso non ha subito violazioni, a giudizio
del Bundesverwaltungsgericht, perché sono state i-21 e Arcor, per le quali l’avviso di
liquidazione è stato mantenuto, a non approfittare della facoltà di contestare l’avviso.
Imprese come queste non versano, quindi, in una situazione analoga a quella delle imprese
che, avendo invece esercitato la detta facoltà, hanno ottenuto il ritiro degli avvisi d’imposta
di cui erano destinatarie.
66.- Applicando così il principio della parità di trattamento previsto dalla normativa in
esame, non fa differenza se la controversia verte sul diritto nazionale o su quello comunitario
e non si lede, quindi, il principio di equivalenza.
67.- Non è stato allegato, poi, che i principi di ordine pubblico, di buona fede o di equità
sarebbero stati applicati in maniera differenziata secondo la natura della controversia.
68.- Al contrario, è stata sollevata la questione se sia stata applicata con equivalenza la
nozione di illegittimità manifesta. Secondo la Commissione, il giudice nazionale avrebbe
indagato se gli avvisi d’imposta erano fondati su una normativa manifestamente illegittima
per contrarietà a norme di rango superiore, vale a dire il TKG e la legge fondamentale della
Repubblica federale di Germania, ma non avrebbe condotto o non avrebbe condotto corret-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 111
tamente uguale indagine rispetto al diritto comunitario. La Commissione sostiene che la
regolamentazione è manifestamente illegittima rispetto alle disposizioni dell’art. 11, n. 1,
della direttiva 97/13 e che il principio d’equivalenza non è stato, quindi, rispettato.
69.- Nel momento in cui, in applicazione di norme di diritto nazionale, l’amministrazione
è tenuta a ritirare una propria decisione divenuta definitiva che risulti manifestamente
incompatibile con il diritto interno, identico obbligo deve sussistere ove la manifesta
incompatibilità sia con il diritto comunitario.
70.- Per valutare il grado di chiarezza dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 e accertare
il carattere manifesto o meno dell’incompatibilità del diritto nazionale col detto articolo,
occorre prendere in considerazione gli obiettivi della direttiva, la quale è fra le misure di
liberalizzazione totale dei servizi e delle infrastrutture di telecomunicazioni e mira a favorire
l’ingresso di nuovi operatori sul mercato (v., in tal senso, sentenza Albacom e Infostrada,
cit., punto 35). Sotto questo profilo, l’imposizione di un diritto molto elevato che copre una
previsione di spese generali su un periodo di trent’anni può ostacolare seriamente la concorrenza,
come il giudice del rinvio sottolinea nelle questioni pregiudiziali, e costituisce un rilevante
fattore d’accertamento.
71.- Spetta al giudice nazionale, alla luce di quanto precede, valutare se una regolamentazione
chiaramente incompatibile con il diritto comunitario, come quella su cui sono fondati
gli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale, sia manifestamente illegittima
ai sensi del proprio diritto.
72.- Ne consegue che la seconda questione dev’essere risolta nel senso che l’art. 10 CE,
in combinato disposto con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, fa obbligo al giudice nazionale
di valutare se una regolamentazione chiaramente incompatibile con il diritto comunitario,
come quella su cui sono fondati gli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale, sia
manifestamente illegittima ai sensi del proprio diritto. Se tale si rivelerà il caso, il detto giudice
ne dovrà trarre tutte le conseguenze di diritto nazionale circa il ritiro degli avvisi.
SULLE SPESE
73.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar
luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’art. 11, n. 1, della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 10 aprile
1997, 97/13/CE, relativa ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali
e di licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazione, osta all’applicazione, a
titolo di licenze individuali, di un diritto calcolato in funzione delle spese amministrative
generali dell’autorità di regolamentazione per la concessione delle licenze su un periodo di
trent’anni.
2) L’art. 10 CE, in combinato disposto con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, fa obbligo
al giudice nazionale di valutare se una regolamentazione chiaramente incompatibile con
il diritto comunitario, come quella su cui sono fondati gli avvisi di liquidazione oggetto
della causa principale, sia manifestamente illegittima ai sensi del proprio diritto. Se tale si
rivelerà il caso, il detto giudice ne dovrà trarre tutte le conseguenze di diritto nazionale
circa il ritiro degli avvisi».
112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Causa C-272/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Trasferimento
automatico di una parte del premio di macellazione – Regolamenti
(CE) del Consiglio 17 maggio 1999, n. 1254 e 28 ottobre 1999, n. 2342
– Ordinanza del 18 aprile 2006 depositata il 26 giugno 2006, della Cour
d’Appel d’Anger, sezione I/A (Francia) (cs. 31853/06, Avv. dello Stato
W. Ferrante).
IL FATTO
Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia sorta tra una
società soccidante e una società soccidaria per il mancato trasferimento, da
parte di quest’ultima, di parte del premio di macellazione, come convenuto
nella clausola aggiuntiva al contratto di soccida del 17 settembre 1999,
stipulata a seguito della sottoscrizione, in data 17 maggio 2000, di un protocollo
d’intesa tra le organizzazioni professionali nazionali rappresentative
delle imprese soccidanti e degli allevatori del settore della carne di
vitello.
IL QUESITO
Se il trasferimento immediato, da parte dell’allevatore, del 67,63% al
71,35% del premio di macellazione introdotto dal regolamento (CE) del
Consiglio 17 maggio 1999, n. 1254, in esecuzione di un contratto di soccida
concluso con una società francese, controllata di un gruppo internazionale che
produce e fornisce alimenti per vitelli, entro i limiti fissati da un accordo interprofessionale
interno tra le organizzazioni professionali nazionali che rappresentano
le imprese soccidanti e gli allevatori della filiera vitello, sia compatibile
con gli obiettivi della regolarizzazione del mercato e della garanzia di un
equo tenore di vita alla popolazione agricola, enunciati da tale regolamento,
nonché con le misure relative al mercato interno da esso istituite a tali scopi e
precisate dal regolamento (CE) della Commissione 28 ottobre 1999, n. 2342”.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«Il Governo italiano ritiene che al quesito vada data risposta positiva,
non potendosi ritenere che il trasferimento di una quota del premio di macellazione,
nella misura sopra indicata, possa compromettere l’obiettivo perseguito
dal regolamento CE 1254/1999 di stabilizzare i mercati e di assicurare
un equo tenore di vita alla popolazione agricola.
Occorre premettere, per quanto concerne l’ordinamento italiano, che,
dopo l’emanazione del Regolamento (CE) del Consiglio n. 1782/2003 del 29
settembre 2003, che stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno
diretto nell’ambito della politica agricola comune (e che si riferisce pertanto
I GIUDIZI IN CORSO
ALLA CORTE DI GIUSTIZIA CE
anche ai regolamenti la cui interpretazione è stata rimessa dalla Corte di
Angers alla Corte di Giustizia), era stato emanato dal Ministero delle politiche
agricole e forestali il decreto 3 agosto 2005, recante disposizioni per l’attribuzione
e l’utilizzo dei titoli all’aiuto per il regime di pagamento unico, di
cui l’art. 4 (Suddivisione dei titoli) prevedeva che: “Una suddivisione dei
titoli fra il soccidante ed il soccidario è equiparata alla scissione d’azienda
ai sensi dell’art. 15 deI Reg. (CE) n. 795/2004. In tal caso, il soccidante ed
il soccidario comunicano congiuntamente all’AGEA la percentuale concordata
di ripartizione dei titoli. I titoli verranno ripartiti tra le parti secondo
le percentuali comunicate e, per l’utilizzo dei titoli attribuiti al soccidante,
non occorrerà più ottenere alcun assenso da parte del soccidario”.
La materia è stata successivamente definita dal decreto-legge 10 gennaio
2006, n. 2, recante interventi urgenti per i settori dell’agricoltura, dell’agroindustria,
della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa, e convertito,
con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81.
Più specificamente, l’articolo I bis, comma 6, dispone che “...Ove non
diversamente disposto, i diritti all’aiuto di cui al regolamento (CE) n.
1782/2002 del Consiglio, del 29 settembre 2003, derivanti da contratti associativi
di soccida, sono assegnati dall’AGEA per il 50 per cento al soccidario
e per il 50 per cento al soccidante.
In altri termini, secondo la norma citata, non solo è possibile la suddivisione
del premio tra soccidante e soccidario, ma altresì, in caso di mancata
esplicita previsione tra i contraenti, il premio viene comunque erogato automaticamente
in due quote di pari importo.
Ciò premesso, si osserva che il regolamento n. 1254/1999, pur precisando
che l’attuale livello di sostegno al mercato andrebbe ridotto gradualmente
(terzo e ventesimo considerando), si fa carico di disciplinare,
all’art. 11, il premio per l’abbattimento di capi di bestiame, di cui può
beneficiare il produttore che detiene nella sua azienda, per un periodo da
determinare, animali della specie bovina, entro limiti di massimali nazionali
da determinare.
All’art. 8, il predetto regolamento prevede che il produttore possa trasferire
in tutto o in parte i suoi diritti ad altri produttori senza trasferire l’azienda.
In caso di trasferimento del diritto al premio senza trasferimento dell’azienda,
una parte dei diritti trasferiti, non superiore al 15%, è riservata senza
pagamento compensativo nella riserva nazionale dello Stato membro in cui
è situata la sua azienda, per essere ridistribuita gratuitamente.
Nel quadro di tali principi, il regolamento n. 2342/1999 ha dettato le
norme attuative sia con riferimento al periodo minimo di detenzione dell’animale,
da parte del produttore che intenda beneficiare del premio, fissato
dall’art. 5 in due mesi dal giorno successivo a quello di presentazione
della domanda ovvero nel periodo minimo di due mesi, concluso meno di
un mese prima della macellazione, della spedizione o dell’esportazione
(art. 9, comma 1), sia in relazione alla percentuale di diritti che possono
formare oggetto di trasferimento, stabilita dall’art. 23, comma 4 nella
misura del 70%.
114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In merito al primo aspetto, il giudice del rinvio ritiene che il periodo di
detenzione minimo di due mesi precluderebbe sempre al soccidante di poter
beneficiare del premio in quanto, ancorché proprietario degli animali, non li
detiene materialmente.
Anche in base agli articoli 2170, 2171 e 2174 del codice civile italiano
il soccidante, che conferisce il bestiame, e il soccidario, che deve prestare il
lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, si
associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame
al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili
che ne derivano.
In proposito, gli “utili” possono anche consistere nel percepimento di
premi per la macellazione o l’esportazione che il soccidario, destinatario
secondo la normativa comunitaria di “pagamenti diretti”, può decidere, sulla
base di un preventivo accordo, di trasferire in parte al soccidante, coerentemente
alla natura associativa del contratto di soccida.
Alla luce di quanto sopra, appare irrilevante il fatto che il soccidante, di
regola, non detenga (da almeno due mesi) il capo di bestiame, posto che tale
requisito deve sussistere in capo al soccidario che ha facoltà, in base alla normativa
comunitaria, di trasferire una quota del premio di macellazione ad
altro produttore.
Quanto alla percentuale del premio trasferibile, va sottolineato che, in
base al decimo considerando del regolamento n. 2342/1999, viene espressamente
enunciato che è opportuno incoraggiare la mobilità dei diritti al premio
e la loro disponibilità per i produttori che li fanno valere. A tal fine
occorre fissare una percentuale minima di utilizzazione. Tale percentuale
deve essere sufficiente ad evitare una sottoutilizzazione dei diritti disponibili
in taluni Stati membri, situazione che può creare problemi per i produttori
prioritari che fanno domanda di diritti tramite la riserva nazionale.
Occorre pertanto autorizzare gli Stati membri ad aumentare la percentuale
minima di utilizzazione dei diritti, che non potrà essere comunque superiore
al 90%.
Quest’ultimo è quindi l’unico limite che non può essere superato, dovendosi
pertanto ritenere che la clausola aggiuntiva della causa principale non
sia in contrasto con la normativa comunitaria richiamata.
Il Governo Italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel
senso che il trasferimento immediato, da parte dell’allevatore, del 67,63% al
71,35% del premio di macellazione introdotto dal regolamento (CE) del
Consiglio 17 maggio 1999, n. 1254, in esecuzione di un contratto di soccida
è compatibile con gli obiettivi enunciati da tale regolamento, nonché con le
misure attuative del regolamento (CE) della Commissione 28 ottobre 1999,
n. 2342.
Roma, 12 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-275/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Ordinanza 13
giugno 2006, depositata il 27 giugno 2006 da Juzgado de lo Mercantil n.
5 di Madrid (Spagna) (cs. 31869/06, Avv. dello Stato S. Fiorentino).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 115
IL FATTO
La causa vede contrapposti l’ente Productores de Musica de Espana (in
prosieguo: Promusicae), associazione senza scopo di lucro che riunisce produttori
ed editori di registrazioni musicali ed audiovisive, di tipo musicale e la
società commerciale Telefonica de Espana S.A.U. (in prosieguo: Telefonica).
La controversia verteva sulla richiesta di Promusicae di un’ingiunzione
giudiziale nei confronti di Telefonica per obbligarla a fornire i nomi, l’identità
e l’indirizzo di alcune persone cui fornisce il servizio di accesso ad
Internet, delle quali era noto l’IP e la data e l’ora di connessione, che, utilizzando
il programma di scambio di archivi (peer to peer – P2P –) denominato
KaZaA, offrono nelle loro cartelle condivise fonogrammi i cui diritti patrimoniali
di sfruttamento spettano agli associati dell’ente richiedente, riproducendo
in un primo momento nei loro computer i fonogrammi ed offrendoli
poi a chiunque sia connesso ad una rete P2P.
La richiesta [di Promusicae] era fondata sull’art. 256.1.7 della Ley de
Enjuiciamiento Civile (codice di procedura civile spagnolo), in combinato
disposto con l’art. 24.1 della Ley de Competencia Desleal (LCD – legge
sulla concorrenza sleale) e, in subordine, sull’art. 12 della legge 11 luglio
2002, n. 34, Ley de Servicios de la Sociedad de la Informacion y de
Commercio Electronico (LSSI – legge sui servizi dell’informazione e sul
commercio elettronico), nella parte in cui sancisce il dovere di collaborazione
o di informazione in merito ai dati di connessione e traffico e implicitamente
autorizzerebbe, secondo la richiedente, i titolari di diritti di proprietà
intellettuale a richiedere indagini preliminari (1).
116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) La Ley de Servicios de la Sociedad de la Informacion y de Comercio Electronico,
n. 34 dell’11 luglio 2002, con la quale sono trasposte nell’ordinamento giuridico spagnolo
la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE e, parzialmente,
la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 19 maggio 1998, 98/27/CE, stabilisce,
all’art. 12, quanto segue:
“Art. 12. Dovere di conservare i dati del traffico relativi alle comunicazioni elettroniche.
1. Gli operatori di rete ed i servizi di comunicazione elettronica, i fornitori di accesso a
reti di telecomunicazione e i prestatori di servizi di conservazione dei dati devono conservare
i dati di connessione e di traffico generati dalle comunicazioni effettuate durante la prestazione
di un servizio della società dell’informazione per un periodo massimo di 12 mesi,
nei termini stabiliti dal presente articolo e dalla sua normativa di attuazione. ..(Omissis)..
Gli operatori di rete, i servizi di comunicazione elettronica ed i prestatori di servizi cui si riferisce
questo articolo non possono utilizzare i dati conservati per fini diversi da quelli indicati
nel seguente comma o diversi dagli altri fini previsti dalla legge e adottano i provvedimenti
idonei ad evitare la perdita, l’alterazione o l’accesso non autorizzato a tali dati.
3. I dati sono utilizzati al fine del loro utilizzo nell’ambito di una indagine penale o per
la tutela della pubblica sicurezza e delle difesa nazionale. Sono posti a disposizione dei giudici
o dei tribunali o del pubblico ministero che li richiedano. La trasmissione di tali dati
alle forze ed agli enti competenti per la sicurezza avviene nell’osservanza di quanto disposto
dalla normativa sulle tutela dei dati personali”.
In data 21 dicembre 2005, la giurisdizione di rinvio ha accolto l’istanza,
ritenendola fondata alla luce della Ley de Competencia Desleal e ritenendo
assorbite le argomentazioni proposte in via subordinata del ricorrente.
Nella decisione si mette in evidenza
– che i comportamenti denunciati dal richiedente costituiscono atti di
concorrenza sleale, perché integrano la condotta tipica prevista dall’art. 11.2
della LCD (per imitazione servile, mediante riproduzione, ed appropriazione
dei prodotti o dell’attività di un concorrente) o, quanto meno, perché rientrano
nella clausola generale prevista dall’art. 5 della medesima legge;
– che le informazioni richieste, relative all’identità e al domicilio dei presunti
trasgressori, sono oggettivamente indispensabili per promuovere un giudizio;
– che, pertanto, devono evitarsi interpretazioni rigide che rischierebbero di
essere in contrasto con la tutela del diritto di difesa garantito dall’art. 24.1 della
Costituzione del Regno di Spagna (2), impedendo ai privati la repressione di
illeciti civili che, per mancanza di altri elementi, come ad esempio lo scopo di
lucro, non potrebbero essere sanzionati neanche dal giudice penale (3).
La Telefonica ha proposto opposizione alla decisione facendo leva sul
già citato art. 12 della LSSI, ritenendo che, secondo tale norma, l’operatore
di comunicazioni elettroniche o il prestatore di servizi possa essere obbligato
a comunicare i dati che è tenuto a conservare solo nel contesto di un procedimento
penale, o quando ciò sia necessario per la tutela della pubblica
sicurezza o sia in gioco la sicurezza nazionale, risultando così escluso che i
detti dati debbano trasmessi nel contesto di un giudizio civile o di un procedimento,
come quello incardinato con l’istanza di Promusicae, di istruzione
preventiva strumentale ad un futuro giudizio civile.
IL QUESITO
Se il diritto comunitario, nello specifico gli artt. 15, n. 2, e 18 della direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE,
relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione,
in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno; gli artt. 8, nn. 1
e 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001,
2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei
diritti connessi nella società dell’informazione; l’art. 8 della direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/48/CE, sul rispetto
dei diritti di proprietà intellettuale, e gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 117
(2) Art. 24.1.: “Tutte le persone hanno il diritto di ottenere tutela effettiva dai giudici e
dai tribunali nell’esercizio dei loro diritti e interessi legittimi senza che, in nessun caso,
possa verificarsi la mancanza di difesa”.
(3) In proposito, l’ordinanza di rinvio rileva che la circolare della procura generale
dello Stato 5 maggio 2006, n.1, esclude, in linea di principio, dall’ambito penale comportamenti
come “mettere in rete o scaricare da Internet” opere protette, o scambiare archivi
mediante il sistema P2P, in mancanza di scopo di lucro.
diritti fondamentali dell’Unione europea, consentano agli Stati membri di
circoscrivere all’ambito delle indagini penali o della tutela della pubblica
sicurezza e della difesa nazionale – ad esclusione, quindi, dei processi civili
– il dovere di conservare e mettere a disposizione i dati sulle connessioni ed
il traffico generati dalle comunicazioni effettuate durante la prestazione di un
servizio della società dell’informazione, che incombe agli operatori di rete e
di servizi di comunicazione elettronica, ai fornitori di accesso alle reti di telecomunicazione
ed ai fornitori di servizi di conservazione dei dati.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
« (...) II) POSIZIONE DEL GIUDICE REMITTENTE
La giurisdizione di rinvio ha rilevato che l’art. 12 della L.S.S.I. può prestarsi
ad una interpretazione secondo la quale il dovere di conservare e di mettere
a disposizione i dati di connessione e di traffico relativi alle comunicazioni elettroniche,
da parte degli operatori di rete e di servizi di telecomunicazioni, dei
fornitori di accesso alla rete e dei prestatori di servizi alla conservazione di dati,
debba essere circoscritto all’ambito delle indagini penali o per la tutela della
pubblica sicurezza e della difesa nazionale, il che escluderebbe che un ordine
giudiziale di comunicazione dei dati possa essere emesso nel contesto di un procedimento
civile o preparatorio dello stesso, come nel caso in esame.
Il Giudice spagnolo ha quindi rilevato che il diritto nazionale, così interpretato,
potrebbe porsi in contrasto con il diritto comunitario e, in particolare,
violare le seguenti disposizioni:
a) gli artt. 15, n. 2 e 18 della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti
giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio
elettronico, nel mercato interno (4);
b) l’art. 8, nn. 1 e 2 della direttiva 2001/29/CE, sull’armonizzazione di
taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione
(5);
118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(4) Art. 15, n. 2: “Gli Stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della
società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente
di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare
alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione
dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati”.
Art. 18: “Gli Stati membri provvedono affinché i ricorsi giurisdizionali previsti dal
diritto nazionale per quanto concerne le attività dei servizi della società dell’informazione
consentano di prendere rapidamente provvedimenti, anche provvisori, atti a porre fine alle
violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in causa”.
(5) Art. 8: “1. Gli Stati membri prevedono adeguate sanzioni e mezzi di ricorso contro
le violazioni dei diritti e degli obblighi contemplati nella presente direttiva e adottano tutte
le misure necessarie a garantire l’applicazione delle sanzioni e l’utilizzazione dei mezzi di
ricorso. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive.
2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie a garantire che i titolari dei
diritti i cui interessi siano stati danneggiati da una violazione effettuata sul suo territorio
c) l’art. 8 della direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà
intellettuale (6);
d) Gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (7);
(…)
III) NORMATIVA COMUNITARIA
Ai fini della risoluzione della questione pregiudiziale vengono in rilievo,
oltre alle norme individuate dal Giudice del rinvio, gli articoli 1, nn. 1 e 2, 2,
5, nn. 1 e 2, 6 e 15, n. 1 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
n. 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela
della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.
L’art. 1 della direttiva, rubricato “Finalità e campo di applicazione”, ai
numeri 1 e 2 stabilisce:
«1. La presente direttiva armonizza le disposizioni degli Stati membri
necessarie per assicurare un livello equivalente di tutela dei diritti e delle
libertà fondamentali, in particolare del diritto alla vita privata, con
riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle comunicazioni
elettroniche e per assicurare la libera circolazione di tali dati e delle apparecchiature
e dei servizi di comunicazione elettronica all’interno della
Comunità.
2. Ai fini di cui al paragrafo 1, le disposizioni della presente direttiva
precisano e integrano la direttiva 95/46/CE. Esse prevedono inoltre la tutela
dei legittimi interessi degli abbonati che sono persone giuridiche».
L’art. 2 della direttiva (“Definizioni”) stabilisce:
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 119
possano intentare un’azione per danni e/o chiedere un provvedimento inibitorio e, se del
caso, il sequestro del materiale all’origine della violazione, nonché delle attrezzature, prodotti
o componenti di cui all’articolo 6, paragrafo 2”.
(6) Art. 8, n. 1: “Gli Stati membri assicurano che, nel contesto dei procedimenti riguardanti
la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in risposta a una richiesta giustificata
e proporzionata del richiedente, l’autorità giudiziaria competente possa ordinare
che le informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione di merci o di prestazione di servizi
che violano un diritto di proprietà intellettuale siano fornite dall’autore della violazione
e/o da ogni altra persona che:
a) sia stata trovata in possesso di merci oggetto di violazione di un diritto, su scala
commerciale;
b) sia stata sorpresa a utilizzare servizi oggetto di violazione di un diritto, su scala
commerciale;
c) sia stata sorpresa a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di violazione
di un diritto;
oppure
d) sia stata indicata dai soggetti di cui alle lettere a), b) o c) come persona implicata nella
produzione, fabbricazione o distribuzione di tali prodotti o nella fornitura di tali servizi.
(7) Art. 17, n. 2: “La proprietà intellettuale è protetta”;
Art. 47: “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà, garantiti dal diritto dell’Unione,
siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice, nel rispetto delle
condizioni previste nel presente articolo (...)”
«Salvo diversa disposizione, ai fini della presente direttiva si applicano
le definizioni di cui alla direttiva 95/46/CE e alla direttiva 2002/21/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, che istituisce un
quadro normativo comune per le reti e i servizi di comunicazione elettronica
(direttiva quadro).
Si applicano inoltre le seguenti definizioni:
a) ... Omissis…;
b) “dati relativi al traffico”: qualsiasi dato sottoposto a trattamento ai
fini della trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione
elettronica o della relativa fatturazione;
c ... h) ...Omissis...»
L’art. 5 della direttiva, intitolato “riservatezza delle comunicazioni”, ai
numeri 1 e 2 stabilisce:
«1. Gli Stati membri assicurano, mediante disposizioni di legge nazionali,
la riservatezza delle comunicazioni effettuate tramite la rete pubblica di
comunicazione e i servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico,
nonché dei relativi dati sul traffico. In particolare essi vietano l’ascolto,
la captazione, la memorizzazione e altre forme di intercettazione o di sorveglianza
delle comunicazioni, e dei relativi dati sul traffico, ad opera di persone
diverse dagli utenti, senza consenso di questi ultimi, eccetto quando sia
autorizzato legalmente a norma dell’articolo 15, paragrafo 1. Questo paragrafo
non impedisce la memorizzazione tecnica necessaria alla trasmissione
della comunicazione fatto salvo il principio della riservatezza.
2. Il paragrafo 1 non pregiudica la registrazione legalmente autorizzata
di comunicazioni e dei relativi dati sul traffico se effettuata nel quadro di
legittime prassi commerciali allo scopo di fornire la prova di una transazione
o di una qualsiasi altra comunicazione commerciale».
L’art. 6 della direttiva, intitolato “Dati sul traffico”, stabilisce:
«1. I dati sul traffico relativi agli abbonati ed agli utenti, trattati e
memorizzati dal fornitore di una rete pubblica o di un servizio pubblico di
comunicazione elettronica devono essere cancellati o resi anonimi quando
non sono più necessari ai fini della trasmissione di una comunicazione, fatti
salvi i paragrafi 2, 3 e 5 del presente articolo e l’articolo 15, paragrafo 1.
2. I dati relativi al traffico che risultano necessari ai fini della fatturazione
per l’abbonato e dei pagamenti di interconnessione possono essere
sottoposti a trattamento. Tale trattamento è consentito solo sino alla fine del
periodo durante il quale può essere legalmente contestata la fattura o preteso
il pagamento.
3. Ai fini della commercializzazione dei servizi di comunicazione elettronica
o per la fornitura di servizi a valore aggiunto, il fornitore di un servizio
di comunicazione elettronica accessibile al pubblico ha facoltà di sottoporre
a trattamento i dati di cui al paragrafo 1 nella misura e per la durata
necessaria per siffatti servizi, o per la commercializzazione, sempre che
l’abbonato o l’utente a cui i dati si riferiscono abbia dato il proprio consenso.
Gli abbonati o utenti hanno la possibilità di ritirare il loro consenso al
trattamento dei dati relativi al traffico in qualsiasi momento.
120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
4. Il fornitore dei servizi deve informare l’abbonato o l’utente sulla natura
dei dati relativi al traffico che sono sottoposti a trattamento e sulla durata
del trattamento ai fini enunciati al paragrafo 2 e, prima di ottenere il consenso,
ai fini enunciati al paragrafo 3.
5. Il trattamento dei dati relativi al traffico ai sensi dei paragrafi da 1 a
4 deve essere limitato alle persone che agiscono sotto l’autorità dei fornitori
della rete pubblica di comunicazione elettronica e dei servizi di comunicazione
elettronica accessibili al pubblico che si occupano della fatturazione
o della gestione del traffico, delle indagini per conto dei clienti, dell’accertamento
delle frodi, della commercializzazione dei servizi di comunicazione
elettronica o della prestazione di servizi a valore aggiunto. Il trattamento
deve essere limitato a quanto è strettamente necessario per lo svolgimento
di tali attività.
6. I paragrafi 1, 2, 3 e 5 non pregiudicano la facoltà degli organismi
competenti di ottenere i dati relativi al traffico in base alla normativa applicabile
al fine della risoluzione delle controversie, in particolare di quelle
attinenti all’interconnessione e alla fatturazione».
L’art. 15 della direttiva, rubricato “Applicazione di alcune disposizioni
della direttiva 95/46/CE”, stabilisce che:
«1. Gli Stati membri possono adottare disposizioni legislative volte a
limitare i diritti e gli obblighi di cui agli articoli 5 e 6, all’articolo 8, paragrafi
da 1 a 4, e all’articolo 9 della presente direttiva, qualora tale restrizione
costituisca, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva
95/46/CE (8) una misura necessaria, opportuna e proporzionata all’interno
di una società democratica per la salvaguardia della sicurezza nazionale
(cioè della sicurezza dello Stato), della difesa, della sicurezza pubblica; e la
prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, ovvero dell’uso
non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica. A tal fine gli
Stati membri possono tra l’altro adottare misure legislative le quali prevedano
che i dati siano conservati per un periodo di tempo limitato per i motivi
enunciati nel presente paragrafo. Tutte le misure di cui al presente paragra-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 121
(8) L’art. 13, n. 1, dispone: “Gli Stati membri possono adottare disposizioni legislative
intese a limitare la portata degli obblighi e dei diritti previsti dalle disposizioni dell’articolo
6, paragrafo 1, dell’articolo 10, dell’articolo 11, paragrafo 1 e degli articoli 12 e 21, qualora
tale restrizione costituisca una misura necessaria alla salvaguardia:
a) della sicurezza dello Stato;
b) della difesa;
c) della pubblica sicurezza;
d) della prevenzione, della ricerca, dell’accertamento e del perseguimento di infrazioni
penali o di violazioni della deontologia delle professioni regolamentate;
e) di un rilevante interesse economico o finanziario di uno Stato membro o dell’Unione
europea, anche in materia monetaria, di bilancio e tributaria;
f) di un compito di controllo, ispezione o disciplina connesso, anche occasionalmente,
con l’esercizio dei pubblici poteri nei casi di cui alle lettere c), d) ed e);
g) della protezione della persona interessata o dei diritti e delle libertà altrui”.
fo sono conformi ai principi generali del diritto comunitario, compresi quelli
di cui all’articolo 6, paragrafi 1 e 2, del trattato sull’Unione europea».
Vengono, inoltre, in rilievo gli articoli 1, 3 n. 1 e 11 della direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio n. 2006/24/CE, riguardante la conservazione
di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione
elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione
e che modifica la direttiva 2002/58/CE.
L’art. 1 della direttiva, rubricato “Oggetto e campo di applicazione”,
dispone che:
«1. La presente direttiva ha l’obiettivo di armonizzare le disposizioni
degli Stati membri relative agli obblighi, per i fornitori di servizi di comunicazione
elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione,
relativi alla conservazione di determinati dati da essi generati o
trattati, allo scopo di garantirne la disponibilità a fini di indagine, accertamento
e perseguimento di reati gravi, quali definiti da ciascuno Stato membro
nella propria legislazione nazionale.
2. La presente direttiva si applica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi
all’ubicazione delle persone sia fisiche che giuridiche, e ai dati connessi
necessari per identificare l’abbonato o l’utente registrato. Non si applica
al contenuto delle comunicazioni elettroniche, ivi incluse le informazioni
consultate utilizzando una rete di comunicazioni elettroniche».
L’art. 3, n. 1, della direttiva, intitolato “Obbligo di conservazione dei
dati”, stabilisce:
«1. In deroga agli articoli 5, 6 e 9 della direttiva 2002/58/CE, gli Stati
membri adottano misure per garantire che i dati di cui all’articolo 5 della
presente direttiva, qualora siano generati o trattati nel quadro della fornitura
dei servizi di comunicazione interessati, da fornitori di servizi di comunicazione
elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione
nell’ambito della loro giurisdizione, siano conservati conformemente
alle disposizioni della presente direttiva»
L’art. 11 della direttiva (“Modifica della direttiva 2002/58/CE”) stabilisce:
«All’articolo 15 della direttiva 2002/58/CE è inserito il seguente paragrafo:
«1 bis. Il paragrafo 1 non si applica ai dati la cui conservazione è specificamente
prevista dalla direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la conservazione di dati generati
o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica
accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione (12), ai fini
di cui all’articolo 1, paragrafo 1, di tale direttiva».
IV) OSSERVAZIONI DEL GOVERNO ITALIANO
Il Governo italiano osserva, in via preliminare, che la questione è stata
proposta in forma inammissibilmente ipotetica dal Giudice nazionale, tenuto
conto che al punto 11 dell’ordinanza di rinvio la Corte spagnola afferma
di formulare il quesito “senza pregiudizio della decisione finale che adotterà”
e sul presupposto che l’interpretazione delle norme interne “potrebbe”
122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
circoscrivere il dovere di conservare e mettere a disposizione i dati di connessione
e di traffico all’ambito delle indagini penali o per la tutela della
pubblica sicurezza e della difesa nazionale, il che “escluderebbe” i giudici
e i tribunali civili nel contesto di un processo civile o preparatorio dello
stesso.
Nel presente atto di intervento, pertanto, si dovrà assumere che il quesito
prenda le mosse da un’interpretazione del diritto interno spagnolo secondo
il quale non è consentito al giudice civile di ordinare agli operatori di rete
e di servizi di telecomunicazioni, ai fornitori di accesso alla rete e ai prestatori
dei servizi di conservazione dei dati di mettere a disposizione di terzi i
dati di connessione e di traffico relativi alle comunicazioni elettroniche.
Una simile disciplina si dimostra, ad avviso del Governo italiano, conforme
al diritto comunitario, perché una soluzione diversa finirebbe per
interferire con il diritto fondamentale alla riservatezza delle comunicazioni,
garantito all’individuo dall’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che, secondo
giurisprudenza costante, fa parte integrante dei principi generali del diritto di
cui la Corte deve garantire l’osservanza.
La tutela della riservatezza delle comunicazioni, inoltre, è, nella materia
qui implicata, strumentale alla libera circolazione dei servizi della società
dell’informazione, che costituisce manifestazione di un principio più generale,
di rilevanza comunitaria, quale la libertà di espressione salvaguardata
dall’art. 10 della CEDU.
Il diritto fondamentale alla riservatezza può subire le sole restrizioni che
appaiano necessarie, opportune e proporzionate a specifiche finalità di tutela,
potendo essere compresso solo in vista della salvaguardia di beni giuridici
di superiore valore o della reazione nei confronti di offese particolarmente
gravi a beni giuridici di pari valore (come tali, quindi, considerate dalla
legislazione penale degli Stati membri).
Si tratta di finalità che non vengono in rilievo nel caso in esame, ove si
fa questione della lesione, secondo modalità tali da non integrare reato, degli
aspetti patrimoniali del diritto d’autore.
Il punto di equilibrio tra le indicate opposte esigenze di tutela risulta
chiaramente individuato nel quadro giuridico esistente in materia di protezione
di dati (direttiva 95/46/Ce e 2002/58/CE).
L’articolo 5, par. 1, della direttiva 2002/58/CE impone agli Stati membri
di vietare l’ascolto, la captazione, la memorizzazione e altre forme di intercettazione
o di sorveglianza delle comunicazioni, e dei relativi dati sul traffico,
ad opera di persone diverse dagli utenti, senza consenso di questi ultimi,
eccetto quando sia autorizzato legalmente a norma dell’articolo 15, par.
1. Il successivo articolo 6, par. 1, della direttiva 2002/58/CE stabilisce un
generale divieto di conservazione dei dati sul traffico relativi agli abbonati
ed agli utenti, quando non sono più necessari ai fini della trasmissione delle
comunicazioni.
Questo divieto conosce delle eccezioni, nel novero delle quali non rientra
la fattispecie che ha dato luogo alla controversia principale.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 123
Un primo gruppo di eccezioni si rinvengono nei paragrafi 2 e 3 del citato
articolo 6 della direttiva 2002/58/CE: si tratta della conservazione dei dati
che risultano necessari ai fini della fatturazione per l’abbonato e dei pagamenti
di interconnessione (par. 2), nonché dei dati rispetto ai quali l’abbonato
o l’utente abbia consentito il trattamento ai fini della commercializzazione
di servizi di comunicazione elettronica o per la fornitura di servizi a valore
aggiunto (par. 3). Il trattamento di questi dati deve essere limitato a quanto
è strettamente necessario per lo svolgimento di tali attività (par. 5).
Altre eccezioni si rinvengono nell’art. 15, par. 1, della direttiva, che consente
agli Stati membri di adottare disposizioni legislative volte a limitare il
divieto di conservazione dei dati sul traffico, quando ciò risulti necessario per
la salvaguardia della sicurezza nazionale, della difesa o della sicurezza pubblica
o, ancora, per la prevenzione, ricerca, accertamento o perseguimento dei
reati o dell’uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica.
La recente direttiva 2006/24/CE ha, poi, vincolato gli Stati membri a
prevedere l’obbligo di conservazione dei dati, per un periodo determinato,
allo scopo di garantirne la disponibilità a fini di indagine, di accertamento o
perseguimento di reati gravi (art. 1).
Affermare che la conservazione dei dati da parte dei fornitori di una rete
pubblica o di un servizio pubblico di comunicazione elettronica sia eccezionalmente
ammessa per circoscritte finalità, quali quelle sin qui elencate,
equivale a negare che i dati così conservati possano essere utilizzati per scopi
diversi e che, conseguentemente, l’autorità giudiziaria possa ordinare l’esibizione
dei dati o, comunque, la comunicazioni delle informazioni che ne
risultano in vista della repressione di un illecito civile.
Le fattispecie sopra descritte, infatti, si pongono quali eccezioni rispetto
ad una regola generale e devono ricevere una stretta interpretazione.
La conservazione dei dati per finalità diverse potrebbe, pertanto, essere
ammessa solo ove si rinvenissero nell’ordinamento giuridico comunitario, in
forza di disposizioni particolari o di principi generali, ulteriori puntuali eccezioni.
Simili ulteriori eccezioni non si ritrovano, ad avviso del Governo italiano,
nelle norme invocate dal Giudice del rinvio che, di seguito, si passeranno
brevemente in rassegna.
IV.1) Gli artt. 15, n. 2 e 18 della direttiva 200/31/CE.
Merita premettere che la direttiva 2000/31/CE non interferisce con la
protezione dei singoli relativamente al trattamento dei dati personali che “é
disciplinata unicamente dalla direttiva 85/46/CE e dalla direttiva
97/66/CE”, come dispone il quattordicesimo considerando della direttiva,
che poi conseguentemente enuncia “L’applicazione della presente direttiva
deve essere pienamente conforme ai principi relativi alla protezione dei dati
personali” e, ancora, “la presente direttiva non può impedire l’utilizzazione
anonima di reti aperte quali Internet”.
Ciò premesso, sembra evidente che le due norme indicate in rubrica non
giovino alla tesi che qui si rifiuta.
124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’art. 15 n. 2 consente agli Stati membri di derogare alla regola posta nel
numero 1 del medesimo articolo, secondo la quale “Nella prestazione dei
servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14 [si tratta dei servizi di “mere conduit”,
“caching” e “hosting”], gli Stati membri non impongono ai prestatori un
obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o
memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze
che indichino la presenza di attività illecite”.
È pertanto questione che appartiene all’interpretazione del diritto nazionale
se nella fattispecie operasse una simile deroga, che peraltro sarebbe stata limitata
alla identificazione dei destinatari dei servizi dell’informazione che abbiano
“accordi di memorizzazione dei dati” con i prestatori di servizi medesimi.
L’art. 18 obbliga gli Stati membri a predisporre misure giurisdizionali
atte “a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in
causa”. Questa esigenza non presuppone necessariamente l’identificazione
dell’autore delle violazione e risulta adeguatamente garantita dall’art. 8, nn.
2, 3, 4 e 5 della direttiva 2002/58/CE (9).
IV.2) L’art. 8, nn. 1 e 2, della direttiva 200/31/CE.
I paragrafi 1 e 2 della direttiva 200/31/CE, il cui testo si è riportato alla
nota 5, impongono agli Stati membri di assicurare al titolare di un diritto
d’autore, che si assume violato, adeguati rimedi giurisdizionali per la repressione
della violazione.
Il paragrafo 3 del medesimo articolo 8 dispone “Gli Stati membri si assicurano
che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio
nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare
un diritto d’autore o diritti connessi”.
L’interpretazione sistematica dell’art. 8 deve, allora, portare a ritenere
che, allorquando i rimedi giurisdizionali si indirizzino nei confronti di un
terzo, diverso dal presunto autore della violazione, essi debbano potersi tradurre
in un provvedimento “inibitorio”, vale a dire in un provvedimento che
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 125
(9) Art. 8: “2. Qualora sia disponibile la presentazione dell’identificazione della linea
chiamante, il fornitore di servizi deve offrire all’abbonato chiamato la possibilità, mediante
una funzione semplice e gratuitamente, per ogni ragionevole utilizzo di tale funzione, di
impedire la presentazione dell’identificazione delle chiamate entranti.
3. Qualora sia disponibile la presentazione dell’identificazione della linea chiamante
e tale indicazione avvenga prima che la comunicazione sia stabilita, il fornitore di servizi
deve offrire all’abbonato chiamato la possibilità, mediante una funzione semplice, di respingere
le chiamate entranti se la presentazione dell’identificazione della linea chiamante è
stata eliminata dall’utente o abbonato chiamante.
4. Qualora sia disponibile la presentazione dell’identificazione della linea collegata, il
fornitore di servizi deve offrire all’abbonato chiamato la possibilità di impedire, mediante
una funzione semplice e gratuitamente, la presentazione dell’identificazione della linea collegata
all’utente chiamante.
5. ... Omissis ... . I paragrafi 2, 3 e 4 si applicano anche alle chiamate in entrata provenienti
da paesi terzi.
consiste in un ordine di non fare, il che esclude che si possa invocare la
disposizione qui in esame al fine ritenere possibile l’emissione del provvedimento
giurisdizionale richiesto dalla ricorrente.
Provvedimenti più stringenti devono restare, pertanto, prerogativa dell’autorità
giudiziaria alla quale, peraltro, la legislazione penale di molti Stati
membri dà comunemente accesso nell’ipotesi di frodi informatiche, anche
non caratterizzate dallo scopo di lucro.
IV.3) L’art. 8 della direttiva 2004/48/CE (c.d. Direttiva “enforcement”)
Secondo il paragrafo 1 dell’articolo 8 della direttiva 2004/48 gli Stati
membri, nel contesto dei procedimenti riguardanti la violazione di un diritto
di proprietà intellettuale, assicurano che l’autorità giudiziaria competente
possa ordinare che le informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione di
merci e di prestazioni di servizi che violano un diritto di proprietà intellettuale
siano fornite dall’autore della violazione, nonché, tra gli altri, da chi sia
stato sorpreso a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di
violazione di un diritto.
Tuttavia, il paragrafo 3 del medesimo articolo stabilisce che “I paragrafi
1 e 2 si applicano fatte salve le altre disposizioni regolamentari che: ... e)
disciplinano la protezione o la riservatezza delle fonti informative o il trattamento
di dati personali”.
L’apparente conflitto tra diritto alla prova e riservatezza delle fonti informative
è, pertanto, espressamente risolto dal legislatore comunitario, che stabilisce
la prevalenza di quest’ultimo, secondo le modalità che lo disciplinano,
tra le quali vi è il divieto di conservazione dei dati o, se si preferisce,
l’obbligo di conservazione dei dati in vista di tassative e limitate finalità pubblicistiche,
ciò che implica la costituzione di un vero e proprio segreto d’ufficio
rispetto alle informazioni così detenute.
IV.4) Gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea.
Il Giudice del rinvio richiama, da ultimo, le norme evidenziate in rubrica,
attinenti alla protezione della proprietà intellettuale e al diritto di azione
e di difesa a tutela dei diritti riconosciuti dall’Unione.
Spetta, tuttavia, all’ordinamento giuridico stabilire le condizioni alle
quali il diritto alla prova debba essere garantito.
Tra i limiti tradizionalmente ammessi dalla giurisprudenza vi è certamente
quello dell’apposizione del segreto su determinate informazioni, in
vista di un superiore interesse pubblico.
Si è visto che, nel nostro caso, l’esistenza di un dovere di segretezza
deve essere desunta dal quadro giuridico comunitario esistente in materia di
protezione dei dati personali.
V) CONCLUSIONI
In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte rispondere al
quesito sottoposto al suo esame affermando che:
126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il diritto comunitario, nello specifico gli artt. 15, n. 2, e 18 della direttiva
del Parlamento europeo e dei Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa
a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in
particolare il commercio elettronico, nel mercato interno; gli artt. 8, nn. I e
2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001,
2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei
diritti connessi nella società dell’informazione; l’art. 8 della direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/48/CE, sul rispetto
dei diritti di proprietà intellettuale, e gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, impone agli Stati membri di circoscrivere
all’ambito delle indagini penali o della tutela della pubblica sicurezza
e della difesa nazionale – ad esclusione, quindi, dei processi civili – il
dovere di conservare e mettere a disposizione i dati sulle connessioni ed il
traffico generati dalle comunicazioni effettuate durante la prestazione di un
servizio della società dell’informazione, che incombe agli operatori di rete e
di servizi di comunicazione elettronica, ai fornitori di accesso alle reti di
telecomunicazione ed ai fornitori di servizi di conservazione dei dati.
Roma, 13 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Sergio Fiorentino».
Causa C-276/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Reddito minimo
garantito – Legislazione belga – Regolamento del Consiglio 14
giugno 1971, n. 1408 – Regolamento (CE) 29 aprile 2004 n. 883 –
Accordo di cooperazione Cee-Marocco (27 aprile 1976) e Accordo Ce-
Marocco (26 febbraio 2006) – Ordinanza del 13 giugno 2006, depositata
il 26 giugno 2006 del Tribunal du travail de Verviers (Belgio) (cs.
31875/06, Avv. dello Stato W. Ferrante).
IL FATTO
Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia sorta in seguito al
rifiuto, da parte dell’Ente nazionale belga per le pensioni, di concedere ad
una cittadina marocchina regolarmente soggiornante in Belgio, la prestazione
denominata “reddito minimo garantito alle persone anziane” (la GRAPA
- Garantie légale d’un Revenu Aux Personnes Agées), che rientra tra le “prestazioni
speciali in denaro di carattere non contributivo” ai sensi dell’art. 70,
n. 2 lett. b) del regolamento CE n. 883/2004, relativamente alle quali il finanziamento
deriva esclusivamente dalla tassazione obbligatoria intesa a coprire
la spesa pubblica generale e la cui concessione non dipende dall’avvenuto
versamento di contributi da parte del beneficiario.
I QUESITI
Se il rifiuto di concedere il reddito minimo garantito per legge alle persone
anziane, per la ragione che la ricorrente
- non rientra nell’ambito di applicazione del regolamento del Consiglio
delle Comunità europee 14 giugno 1971 n. 1408,
- non è stata riconosciuta apolide o rifugiata,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 127
- non è cittadina di un paese con cui, in materia di reddito minimo garantito,
il Belgio ha concluso una convenzione di reciprocità di fatto,
- non ha diritto ad alcuna pensione di vecchiaia o di reversibilità sulla
base di un regime belga,
non derivi da
- un’interpretazione troppo restrittiva del regolamento CE 29 aprile 2004
n. 883 (che ha sostituito il regolamento CEE 14 giugno 1971 n. 1408), in particolare
alla luce dell’art. 14 della CEDU, dell’art. 1 del suo Protocollo n. 1
e alla luce del regolamento CE 14 maggio 2003 n. 859,
- oppure da un’interpretazione di tale regolamento CE n. 883/2004 che
sarebbe incompatibile con l’Accordo di cooperazione che la Comunità economica
europea ed il Regno del Marocco hanno firmato il 27 aprile 1976 in
Rabat e che fu approvato, a nome della Comunità, con il regolamento CEE
del Consiglio 26 settembre 1978 n. 2211 (G.U. L 264, pag. 1) e completato
dall’Accordo CE-Marocco 26 febbraio 1996 (G.U. L 70 del 18 marzo 2000).
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO ITALIANO
«Il Governo italiano ritiene che al quesito vada data risposta negativa, in
quanto, a seguito dell’entrata in vigore del regolamento CE n. 859 del 14 maggio
2003, a decorrere dal 1 giugno 2003, i regolamenti CEE n. 1408/71 e
574/72 sono applicabili ai cittadini dello Stato terzo, ai quali gli stessi regolamenti
CEE non siano già applicabili unicamente a causa della sua nazionalità,
a condizione che gli stessi risiedano legalmente in uno Stato membro e sempre
che si trovino in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all’interno
di un solo Stato membro (art. 1 del regolamento n. 859/2003).
Nel caso in questione, la ricorrente, cittadina marocchina, ha soddisfatto
la condizione del soggiorno legale in uno Stato dell’Unione europea ma, di
fatto, non ha esercitato il diritto di libera circolazione nell’ambito
dell’Unione europea, che è alla base dell’applicazione della regolamentazione
comunitaria di sicurezza sociale ad un cittadino di uno Stato terzo.
Pertanto le disposizioni dei regolamenti CEE n. 1408/71 e 574/72 – estese,
a determinate condizioni, ai lavoratori extracomunitari in base a quanto
previsto dal regolamento CE 859/2003 – non sono applicabili nei confronti
della sig.ra(…), in quanto cittadina di un Paese terzo alla quale i regolamenti
CEE n. 1408/71 e 574/72 non sono applicabili non soltanto a causa della
sua nazionalità, ma anche perché la sua situazione non presenta legami con
due o più Stati membri, avendo la stessa avuto legami con il Paese terzo ed
un solo Stato membro dell’Unione Europea (Belgio).
In proposito, la partenza della ricorrente dal Marocco ed il suo arrivo
direttamente in Belgio non può certamente essere considerato un trasferimento
intracomunitario ai sensi dell’art. 2 del regolamento CE n. 883/2004.
Si consideri, altresì, che le disposizioni del regolamento CE n. 883/2004
hanno confermato la normativa previgente concernente i cittadini degli Stati
terzi (vedi articolo 90) e non hanno apportato alcuna modifica all’ambito di
applicazione soggettivo, per consentire la completa estensione della regolamentazione
comunitaria ai cittadini degli Stati terzi (vedi articolo 1).
128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Pertanto, nell’evidenziare che la prestazione belga è assimilabile, per
taluni aspetti, all’assegno sociale previsto dalla legislazione italiana, si ritiene
che il rifiuto dell’ente belga di concedere alla ricorrente la prestazione
denominata “reddito minimo garantito alle persone anziane”, non possa derivare
da un’interpretazione restrittiva del regolamento C.E. n. 883/2004, proprio
alla luce dell’art. 1 del regolamento CE n. 859/2003.
Né può ritenersi invocabile, nella fattispecie, l’art. 14 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo che pone il divieto di discriminazione, anche in
base alla cittadinanza, ai fini del godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti
dalla Convenzione stessa, tra i quali non rientrano i diritti previdenziali.
Né appare pertinente il richiamo all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
CEDU, non potendosi considerare il diritto di credito di natura patrimoniale
invocato dalla ricorrente alla stessa stregua della proprietà privata dei beni,
cui è diretta la protezione di cui al citato art. 1.
Quanto alla seconda parte del quesito, non si ritiene che il rifiuto
dell’Ente previdenziale belga possa ritenersi incompatibile con l’Accordo di
cooperazione CEE-Marocco siglato il 27 aprile 1976.
Detto Accordo è stato approvato con regolamento CEE del Consiglio 26
settembre 1978 n. 2211, il cui art. 1 prevede esattamente le medesime condizioni
di applicabilità disposte dall’art. 1 del regolamento n. 859/2003 e
cioè che il cittadino dello Stato terzo risieda legalmente in uno Stato membro
e che si trovi in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino
all’interno di un solo Stato membro.
Non sussistendo in capo alla ricorrente la seconda condizione, la stessa
non può far valere i diritti attribuiti dai regolamenti CEE n. 1408/71 e n.
574/72, come affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza 11 ottobre
2001, cause riunite C-95/99 a C-98/99 e C-180/99, Addou.
Peraltro, in base all’art. 41 del citato Accordo del 27 aprile 1976 “Fatto
salvo il disposto dei paragrafi seguenti, i lavoratori di cittadinanza marocchina
ed i loro familiari conviventi godono, in materia di previdenza sociale,
di un regime caratterizzato dall’assenza di qualsiasi discriminazione basata
sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono
occupati”.
Orbene, come esposto nell’ordinanza di rinvio, la ricorrente invoca la
spettanza della GRAPA, beneficio di natura non contributiva, solo sulla base
della sua età e non per il fatto di aver prestato attività lavorativa in Belgio.
Inoltre, pur avendo la ricorrente ottenuto la residenza in Belgio a seguito
di ricongiungimento familiare con il figlio, non risulta che la stessa sia
convivente con quest’ultimo, né che questi sia cittadino belga o comunque
cittadino di un altro Stato membro o che lo stesso abbia prestato attività
lavorativa in Belgio.
La tutela di non discriminazione accordata dal citato art. 41 dell’Accordo
CEE-Marocco, apprestata per i lavoratori ed i loro familiari conviventi,
non è quindi invocabile dalla ricorrente.
Successivamente, con Accordo del 26 febbraio 1996, entrato in vigore il
1 marzo 2000, è stata istituita un’Associazione tra le Comunità europee e il
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 129
Regno del Marocco il cui art. 65, che riproduce l’art. 41 dell’Accordo del 27
aprile 1976, ha precisato che “l’espressione ‘previdenza sociale’ copre gli
aspetti della previdenza sociale attinenti alle prestazioni in caso di malattia e
di maternità, di invalidità, di vecchiaia, di reversibilità, le prestazioni per
infortuni sul lavoro e per malattie professionali, le indennità in caso di decesso,
i sussidi di disoccupazione e le prestazioni familiari. La presente disposizione,
tuttavia, non può avere l’effetto di rendere applicabili le altre norme
sul coordinamento previste dalla normativa comunitaria basata sull’art. 51
del trattato CE …”.
Il divieto di discriminazione basato sulla cittadinanza non si riferisce
quindi a prestazioni di natura non contributiva, come la GRAPA, non correlate
alla posizione di lavoratore o di familiare convivente di lavoratore.
Inoltre, la giurisprudenza della Corte citata nell’ordinanza di rinvio, che
si opporrebbe alle discriminazioni fondate sulla cittadinanza, riguarda sempre
ipotesi di lavoratori o di familiari conviventi di lavoratori o di lavoratori
migranti che abbiano successivamente acquistato la cittadinanza di uno Stato
membro.
In particolare, la sentenza del 11 novembre 1999, causa C-179/98,
Mesbah, emessa proprio in un giudizio di rinvio tra una cittadina marocchina
e lo Stato belga, ha affermato che un familiare di un lavoratore migrante avente
cittadinanza marocchina, allorché quest’ultimo ha acquistato la cittadinanza
dello Stato membro ospitante prima della data in cui tale familiare ha cominciato
a risiedere presso di lui nel detto Stato membro ed ha richiesto l’attribuzione
di una prestazione previdenziale in forza della normativa di questo Stato,
non può richiamarsi all’art. 41, n. 1 dell’Accordo di cooperazione tra la
Comunità economica europea e il Regno del Marocco, firmato a Rabat il 27
aprile 1976 e approvato, a nome della Comunità, con regolamento CEE del
Consiglio 26 settembre 1978 n. 2211 e far leva sulla cittadinanza marocchina
del detto lavoratore al fine di giovarsi del principio della parità di trattamento
in materia di previdenza sociale enunciato da questa disposizione.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel
senso che il rifiuto dell’ente previdenziale belga di concedere alla ricorrente
il reddito minimo garantito per legge alle persone anziane non deriva da
un’interpretazione troppo restrittiva del regolamento n. 883/2004, né è
incompatibile con l’Accordo di cooperazione CEE-Marocco firmato il 27
aprile 1976.
Roma, 13 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-294/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Permesso di
soggiorno in qualità di studente e/o au pair – Richiesta modifica
autorizzazione in permesso di lavoro – Accordo di Associazione tra la
Comunità economica europea e la Turchia del 12 settembre 1963 –
Decisione del Consiglio di Associazione n. 1/80 – Ordinanza del 15 giugno
2006, depositata il 30 giugno 2006, notificata il 18 agosto 2006,
della Court of Appeal (Administrative Court) – Regno Unito (cs.
37483/06, Avv. dello Stato W. Ferrante).
130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL FATTO
La questione è stata sollevata nell’ambito di un ricorso in appello proposto
dal Secretary of State of Home Department avverso la decisione
dell’Administrative Court della High Court of England and Wales che aveva
accolto l’istanza di tre cittadini turchi, entrati nel Regno Unito, rispettivamente,
una con un permesso di soggiorno “au pair” e gli altri due per studio,
per ottenere un’autorizzazione aggiuntiva a soggiornare in quello Stato ai
sensi dell’articolo 6 della decisione 1/80.
I QUESITI
1.- Se una cittadina turca autorizzata ad entrare nel Regno Unito per due
anni al fine di accedere ad un impiego quale “au pair” e che sia stata continuativamente
occupata in tale qualità per oltre un anno al pari di una vera e
propria attività economica, possa definirsi una lavoratrice ai sensi dell’art. 6
della decisione 1/80 del Consiglio di associazione istituito dall’Accordo di
Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia regolarmente
registrata come forza lavoro del Regno Unito.
2.- Se un cittadino turco autorizzato ad entrare nel Regno Unito al fine
di seguire un corso di studio in detto stato e che sia stato occupato presso un
medesimo datore di lavoro per il tempo previsto dal permesso stesso possa,
parimenti, essere considerato un lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione
1/80 del Consiglio di associazione istituito dall’Accordo di Associazione
tra la Comunità economica europea e la Turchia regolarmente registrato
come forza lavoro del Regno Unito.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«Il Governo italiano ritiene che, al primo quesito vada data risposta
negativa, non potendosi ritenere che lo svolgimento di attività “au pair”
possa far acquisire lo status di lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione
n. 1/80.
Innanzi tutto, occorre premettere che ai sensi dell’art. 2, n. 1
dell’Accordo di associazione concluso il 12 settembre 1963 tra la CEE e la
Turchia, l’Accordo medesimo ha lo scopo di promuove un rafforzamento
continuo ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche tra le
parti contraenti, tenendo conto della necessità di assicurare un più rapido sviluppo
dell’economia turca ed il miglioramento del livello dell’occupazione e
del tenore di vita del popolo turco.
Tale obiettivo viene perseguito mediante la realizzazione graduale della
libera circolazione dei lavoratori (art. 12), nonché mediante l’eliminazione
delle restrizioni alla libertà di stabilimento (art. 13) e alla libera prestazione
dei servizi (art. 14) al fine di facilitare successivamente l’adesione della
Turchia alla Comunità (art. 28).
Il 23 novembre 1970 è stato inoltre sottoscritto un Protocollo addizionale,
che costituisce parte integrante dell’Accordo di associazione, che stabilisce
all’art. 41 n. 1 che “Le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra
loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 131
dei servizi” e all’art. 59 il principio secondo il quale “nei settori coperti dal
presente protocollo, la Turchia non può beneficiare di un trattamento più
favorevole di quello che gli Stati membri si accordano reciprocamente in
virtù del trattato che istituisce la Comunità”.
Alla luce di tale principio, il cittadino turco non può fruire, in base
all’Accordo tra la CEE e la Turchia, di maggiori garanzie rispetto a quelle
che assistono i cittadini comunitari nei loro reciproci rapporti in ordine al
diritto di soggiorno in un altro Stato membro, che deriva dal diritto di accedere
al mercato del lavoro.
Non viene invece affermato il contrario e cioè che gli Stati membri della
Comunità non possano accordare ai cittadini comunitari un trattamento più
favorevole rispetto a quello riservato ai cittadini turchi.
Il 19 settembre 1980, il Consiglio di associazione, istituito dall’Accordo
di associazione CEE-Turchia, emanava la decisione n. 1/80. Le disposizioni
sociali della decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione, istituito per
l’applicazione ed il progressivo sviluppo del regime previsto dall’accordo,
costituiscono un’ulteriore tappa verso la graduale realizzazione della libera
circolazione dei lavoratori turchi nella Comunità europea.
In particolare, l’art. 6, n. 1, di quest’ultima decisione riconosce ai lavoratori
migranti turchi che ne soddisfano le condizioni precisi diritti in materia
di esercizio di un’attività lavorativa.
Come risulta da una giurisprudenza costante, quest’ultima norma, a cui
è stata riconosciuta un’efficacia diretta, conferisce agli interessati un diritto
individuale in materia di lavoro e un correlativo diritto di soggiorno (v. sentenza
2 giugno 2006, causa C-136/03, Dorr e Unal).
Più in particolare, ai sensi dell’art. 6 n. 1 citato, dopo un anno di regolare
impiego, il lavoratore turco ha il diritto di continuare ad esercitare un’attività
lavorativa subordinata presso lo stesso datore di lavoro (primo trattino).
Dopo tre anni di regolare impiego, fatta salva la precedenza da accordare
ai lavoratori degli Stati membri, egli ha il diritto di candidarsi ad un altro
posto di lavoro offerto da un datore di lavoro di suo gradimento, nella stessa
professione (secondo trattino). Dopo quattro anni di regolare impiego, egli
ha il diritto incondizionato di cercare qualsiasi attività salariata liberamente
scelta e di accedervi (terzo trattino) (v. citate sentenze Eroglu, punto 12;
Tetik punto 26, e Nazli, punto 27).
Le tre situazioni oggetto del procedimento nel corso del quale è stata sollevata
la questione pregiudiziale si riferirebbero tutte alla prima ipotesi.
Con la decisione 26 novembre 1998, causa C-1/97, Birden, la Corte di
Giustizia ha affermato il principio secondo il quale, nella determinazione della
portata della nozione di lavoratore ai sensi dell’art. 6, n. 1 della decisione n.
1/80, occorre rifarsi all’interpretazione di tale nozione nel diritto comunitario.
Per essere considerata lavoratore, nell’accezione comunitaria del termine,
una persona deve prestare attività reali ed effettive, ad esclusione di attività
talmente ridotte da porsi come puramente marginali ed accessorie.
La caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che
una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e
132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali
riceva una retribuzione (v., per quanto riguarda l’art. 48 del Trattato, in particolare,
sentenze 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum. Racc. pag. 2121,
punti 16 e 17; 21 giugno 1988, causa 197/86, Brown, Racc. pag. 3205, punto
21, e 26 febbraio 1992, causa C-357/89, Raulin Racc. pag. I-1027, punto 10,
nonché, per quanto riguarda l’art. 6, n. 1, della decisione n. 1/80, citate sentenze
Gunaydin, punto 31, ed Ertanir, punto 43).
Orbene, nel caso della ragazza “au pair” non sembra che vi siano gli
estremi per soddisfare i requisiti di cui alla nozione comunitaria di lavoratore,
come prima meglio specificati. Infatti, la cittadina turca lavora per un
numero di ore settimanali che vanno da 15 a 25 e percepisce una somma di
70 sterline a settimana, oltre a godere di alloggio e vitto.
Si tratta quindi di un rapporto che risponde pienamente alla fattispecie
astratta di cui al Trattato Europeo per l’impiego alla pari, sottoscritto a
Strasburgo il 24 novembre 1969, ratificato anche dall’Italia con la Legge n.
304 del 18 maggio 1973.
Lavorare alla pari, in base alla citata normativa, significa essere ospiti in
una famiglia straniera e, in cambio di vitto, alloggio e una piccola retribuzione
(‘pocket-money’ o ‘argent-de-poche’), aiutare ad accudire ai bambini e
sbrigare leggere faccende domestiche.
L’‘au pair’ costituisce una categoria specifica che non è né quella di studente,
né quella di lavoratore. I programmi alla pari, infatti, sono progetti di
scambi culturali per l’apprendimento e/o il perfezionamento di una lingua
straniera.
Lavorando alla pari si ricevono, in cambio del servizio prestato presso la
famiglia ospitante, vitto e alloggio e, se possibile, l’uso di una camera individuale,
nonché un piccolo compenso variabile da nazione a nazione.
L’au pair deve disporre di tempo sufficiente per seguire corsi di lingua
e perfezionarsi sul piano culturale e professionale ed avere la possibilità di
partecipare alle funzioni della propria religione.
Essendo questo il tipo di rapporto intrattenuto dalla cittadina turca, non
sembra che la stessa si possa far rientrare in quel concetto di lavoratore prima
enunciato, rispetto al quale, oltre alla diversa struttura e configurazione dell’attività
lavorativa, puramente marginale ed accessoria, manca un elemento
fondamentale che è dato dal vincolo della subordinazione, totalmente assente
nel caso che occupa il Giudice inglese.
Deve quindi concludersi che una ragazza “au pair” non possa considerarsi
un lavoratore regolarmente inserito nel mercato del lavoro, come richiesto
per l’applicazione dell’art. 6, n. 1 primo trattino della decisione n. 1/80.
L’altro quesito posto alla Corte di Giustizia riguarda l’ipotesi di due studenti,
entrambi entrati nel Regno Unito con un permesso per motivi di studio
ed un’autorizzazione a svolgere un impiego retribuito purché non eccedente
le venti ore settimanali.
Anche a tale quesito va data risposta negativa non potendosi ritenere che
i due cittadini turchi, entrati nel Regno Unito per motivi di studio, abbiano
acquisito lo status di lavoratore dipendente ai sensi dell’art. 6 della decisio-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 133
ne n. 1/80, avendo sempre lavorato a tempo parziale e con un impegno non
superiore alle venti ore settimanali.
In base alla legislazione italiana (Testo Unico sull’immigrazione), il permesso
di soggiorno dello straniero per motivi di studio non può essere di
durata superiore ad un anno, in relazione alla frequenza di un corso per studio
o formazione debitamente certificata.
Il permesso è tuttavia rinnovabile nel caso di corsi pluriennali. Il rinnovo
dipende dal superamento di un certo numero di esami di profitto all’interno
del corso di studio della persona.
Salvo che sia diversamente stabilito dagli accordi internazionali o dalle
condizioni per le quali lo straniero è ammesso a frequentare corsi di studio in
Italia, il permesso di soggiorno per motivi di studio può essere convertito,
prima della sua scadenza, in permesso per motivi di lavoro nel limite delle
quote stabilite annualmente con il Decreto-flussi del Governo e previa stipula
del contratto di soggiorno per lavoro, o in caso di lavoro autonomo, previo
rilascio della certificazione attestante la sussistenza dei requisiti necessari.
Questo implica che la persona che si trova in Italia per motivi di studio
e vuole convertire il suo permesso di soggiorno in permesso per motivi di
lavoro, potrà farlo solo se ci sarà disponibilità di posti all’interno delle quote
previste annualmente. Diversamente, dovrà fare rientro nel proprio Paese e
attendere il decreto flussi successivo.
Il permesso di soggiorno per studio permette di svolgere un’attività lavorativa
di tipo subordinato per un tempo non superiore a 20 ore settimanali,
anche cumulabili per cinquantadue settimane, fermo restando il limite
annuale di 1040 ore.
Ciò premesso, nei due casi prospettati nella seconda questione pregiudiziale,
che comunque presuppongono la regolare registrazione del lavoratore
come forza lavoro del Paese ospitante, non si può parlare di inserimento nel
regolare mercato del lavoro, avendo gli studenti comunque svolto un’attività
di lavoro a tempo parziale, non superiore alle venti ore settimanali e comunque
secondaria e marginale rispetto al prioritario impegno dello studio.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
nel senso che lo svolgimento di attività “au pair” non possa far acquisire
lo status di lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione n. 1/80.
Il Governo italiano inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito nel
senso che i due cittadini turchi, entrati nel Regno Unito per motivi di studio,
non abbiano acquisito lo status di lavoratore dipendente ai sensi dell’art. 6
della decisione n. 1/80, avendo sempre lavorato a tempo parziale e con un
impegno non superiore alle venti ore settimanali.
Roma, 26 ottobre 2006 Avv. dello Stato Wally Ferrante».
C-303/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) –Discriminazione nei
confronti di una persona in rapporti con un disabile – Direttiva del
Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE – Ordinanza del 6 luglio
2006, depositata in data 10 luglio 2006, notificata il 6 settembre 2006,
de The London South Employment Tribunal (Regno Unito) (cs.
39603/06, Avv. dello Stato W. Ferrante).
134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL FATTO
La ricorrente ha la qualifica di segretaria di studio legale. Il primo convenuto
è uno studio legale, che opera in Inghilterra; il secondo convenuto è
un associato del primo convenuto; nessuno dei due convenuti è un organismo
di diritto pubblico. La ricorrente, che non è essa stessa disabile, sostiene
di essere stata discriminata dai convenuti a causa dell’handicap di suo
figlio, del quale essa si prende principalmente cura, ed asserisce di avere
abbandonato l’impiego presso il primo convenuto a causa di tale trattamento.
I convenuti eccepiscono (tra l’altro) che le disposizioni di diritto nazionale
che la ricorrente richiama a suo sostegno prevedono soltanto la protezione
di una persona disabile discriminata in base al proprio handicap, e negano
che il diritto nazionale vieti la discriminazione nei confronti di una persona
in rapporti con un disabile, trattata meno favorevolmente in ragione di
tale rapporto.
I QUESITI
1.- Se nell’ambito del divieto di discriminazione a causa di handicap, la
direttiva protegga contro la discriminazione diretta e contro le molestie soltanto
persone esse stesse disabili.
2.- In caso di risposta negativa alla suddetta questione 1), se la direttiva
tuteli lavoratori che, pur non essendo essi stessi disabili, vengono trattati in
modo meno favorevole o subiscono molestie a causa del loro rapporto con
una persona disabile.
3.- Se, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore in modo meno favorevole
rispetto a come tratti o tratterebbe altri lavoratori, ed è accertato che il
motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio
disabile di cui ha cura, tale trattamento integri una discriminazione diretta in
violazione del principio della parità di trattamento stabilito dalla direttiva.
4.- Se, qualora un datore di lavoro molesti un lavoratore, ed è accertato
che il motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un
figlio disabile di cui ha cura, tali molestie integrino una violazione del principio
di parità di trattamento stabilito dalla direttiva.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«Il Governo italiano ritiene che al primo quesito vada data risposta positiva
e, conseguentemente, che agli altri tre quesiti vada data risposta negativa
in quanto la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000,
che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro, senza alcuna discriminazione basata
su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, non
prevede espressamente un divieto di discriminazione nei confronti di lavoratori
che abbiano un familiare portatore di handicap del quale abbiano la cura
ma esclusivamente un divieto di discriminazione diretto ed indiretto del
lavoratore che sia esso stesso disabile.
In particolare, la discriminazione fondata sull’handicap è diretta quando
una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sarebbe stata trattata
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 135
un’altra in situazione analoga (art. 2, comma 2 lett. a) della direttiva
2000/78/CE) mentre detta discriminazione è indiretta quando una disposizione,
un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una
posizione di particolare svantaggio le persone portatrici di handicap, a meno
che il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare
misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’art. 5, per ovviare agli
svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi (art. 2,
comma 2 lett. b) della citata direttiva).
Le “molestie” sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento
indesiderato, adottato in ragione dell’handicap, avente lo scopo
o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio,
ostile, degradante, umiliante od offensivo (art. 2, comma 3 della citata
direttiva).
L’art. 3 della direttiva 2000/78/CE, nel delimitare il proprio campo di
applicazione, precisa che i principi nella stessa affermati si applicano: alle
condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro nonché alla promozione;
alla formazione professionale e ai tirocini; alle condizioni di lavoro, comprese
le condizioni di licenziamento; all’attività delle organizzazioni di lavoratori
o di datori di lavoro.
Dal canto suo, l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, dedicato espressamente
alla condizione dei disabili, stabilisce che, per garantire il rispetto del
principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni
ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti
appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire
ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione
o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti
richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario
sproporzionato.
Quanto all’azione positiva e alle misure specifiche, l’art. 7 della citata
direttiva prevede, quanto ai disabili, che il principio di parità di trattamento
non pregiudica il diritto degli Stati di adottare misure intese a salvaguardare
o promuovere il loro inserimento nel mondo del lavoro.
Da tutte le disposizioni richiamate, si evince chiaramente che il divieto
di discriminazione fondato sull’handicap è volto a tutelare il lavoratore disabile
e non già il lavoratore in ragione del suo rapporto con una persona disabile
(c.d. discriminazione per relationem).
Inoltre, nel ventisettesimo considerando della direttiva 2000/78/CE si
ricorda che, nella sua raccomandazione 86/379/CEE del 24 luglio 1986 concernente
l’occupazione dei disabili nella Comunità, il Consiglio ha definito
un quadro orientativo in cui si elencano alcuni esempi di azioni positive
intese a promuovere l’occupazione e la formazione dei portatori di handicap,
e nella sua risoluzione del 17 giugno 1999 relativa alle pari opportunità
di lavoro per i disabili, ha affermato l’importanza di prestare un’attenzione
particolare segnatamente all’assunzione e alla permanenza sul posto di
lavoro del personale e alla formazione e all’apprendimento permanente dei
disabili.
136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ancora, nel sedicesimo considerando della citata direttiva, si afferma
che la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul
luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione
basata sull’handicap e, nel ventesimo considerando della stessa direttiva,
si sottolinea l’opportunità di prevedere misure appropriate destinate a
sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando
i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione
dei compiti.
Il destinatario della particolare tutela apprestata dal diritto comunitario è
quindi il disabile in quanto tale nel mondo del lavoro e non il lavoratore non
disabile in quanto familiare di un portatore di handicap.
Del resto la Corte di giustizia ha già avuto modo di propendere per
un’interpretazione restrittiva della nozione di handicap e della sua rilevanza
nel rapporto di lavoro con la sentenza del 11 luglio 2006, causa C-13/05,
Chacon Navas, nella quale è stato affermato che il caso di una persona che è
stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente per causa di malattia
non rientra nel quadro generale per la lotta contro la discriminazione fondata
sull’handicap istituito dalla direttiva 2000/78/CE e che la malattia in
quanto tale non può essere considerata un motivo che si aggiunge a quelli in
base ai quali la direttiva 2000/78/CE vieta qualsiasi discriminazione, dovendo
escludersi un’assimilazione pura e semplice tra la nozione di malattia e
quella di handicap.
Pertanto, il caso della ricorrente, segretaria di uno studio legale, che
lamenta di essere stata discriminata dal suo datore di lavoro a causa dell’handicap
di suo figlio, del quale essa si prende principalmente cura, non sembra
rientrare nell’ambito di protezione della direttiva 2000/78/CE.
La legislazione inglese, che prevede esclusivamente un divieto di discriminazione
nei confronti del lavoratore esso stesso disabile e non anche nei
confronti del lavoratore in quanto familiare di un soggetto portatore di handicap,
non viola quindi i principi della direttiva 2000/78/CE.
È evidente, tuttavia, che ogni Stato ha la facoltà di apprestare una maggiore
tutela rispetto a quella prevista dalla citata direttiva che, al suo ventottesimo
considerando, precisa espressamente di fissare dei requisiti minimi,
lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più
favorevoli per garantire e rendere più efficace il divieto di discriminazione
fondato sull’handicap.
Infatti il bambino handicappato di una madre lavoratrice sarà tanto più
tutelato quanto quest’ultima non subirà discriminazioni che non le permettano
di accudire nel migliore dei modi al proprio figlio.
Nell’ordinamento italiano, ad esempio, la legge 5 febbraio 1992 n. 104,
sull’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate
prevede non solo una tutela diretta dell’handicappato ma anche una serie di
agevolazioni a favore del lavoratore familiare del disabile, che consentono a
quest’ultimo di poter fruire delle maggiori cure di cui abbisogna.
In particolare, l’art. 33 della predetta legge, come modificato dall’art.
33 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (Testo Unico delle dispo-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 137
sizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della
paternità) prevede che la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore
padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata hanno
diritto al prolungamento fino a tre anni del congedo parentale a condizione
che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati.
Ai sensi della predetta norma, i genitori di bambini handicappati possono
chiedere ai rispettivi datori di lavoro di usufruire, in alternativa, di permessi
giornalieri retribuiti fino al compimento del terzo anno di vita del
figlio.
La stessa disposizione prevede inoltre che il genitore o il familiare, con
rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente
o un affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto a scegliere, ove possibile,
la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito
senza il suo consenso ad altra sede.
Alla luce di quanto sopra, deve ritenersi che, sebbene la legislazione
inglese in materia non si ponga in contrasto con la direttiva 2000/78/CE,
gli Stati membri debbano assicurare che la loro normativa consenta di rendere
effettiva e concreta la tutela dell’handicap, anche introducendo misure
ulteriori e più favorevoli rispetto a quelle minime richieste dalla predetta
direttiva.
Infatti, dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto
comunitario quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di
una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso
richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione
del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto nell’intera
Comunità di un’interpretazione autonoma ed uniforme da effettuarsi
tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita
dalla normativa di cui trattasi (sentenza 18 gennaio1984, causa C-327/82,
Ekro, punto 11 e 9 marzo 2006, causa C-323/03, Commissione/Spagna,
punto 32).
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere i quesiti nel
senso di ritenere che la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre
2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia
di occupazione e di condizioni di lavoro, senza alcuna discriminazione
basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali,
non prevede espressamente un divieto di discriminazione nei confronti di
lavoratori che abbiano un familiare portatore di handicap del quale abbiano
la cura ma esclusivamente un divieto di discriminazione diretto ed indiretto
del lavoratore che sia esso stesso disabile. Peraltro, deve ritenersi che,
sebbene la legislazione inglese in materia non si ponga in contrasto con la
direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri debbano assicurare che la loro normativa
consenta di rendere effettiva e concreta la tutela dell’handicap, anche
introducendo misure ulteriori e più favorevoli rispetto a quelle minime
richieste dalla predetta direttiva.
Roma, 13 novembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Causa C-331/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Residenza
all’esterno della Comunità al compimento dell’età per l’ottenimento
della pensione di vecchiaia – Applicazione dell’art. 48 del regolamento
n. 1408/71 – Ordinanza del 27 luglio 2006, depositata il 31 luglio
2006, notificata il 4 ottobre 2006, del Rechtbank Amsterdam (Paesi
Bassi) (cs. 47180/06, Avv. dello Stato W. Ferrante).
IL FATTO
Il ricorrente cittadino britannico, ha risieduto e lavorato nei Paesi Bassi
dal 1 settembre 1972 al 1 aprile 1975 e dal 1 gennaio 1976 al 31 dicembre
1977. Nei nove mesi intercorsi tra questi due periodi il ricorrente ha lavorato
in Danimarca, ivi versando i contributi previdenziali. Dal 1 gennaio 1978
egli risiede negli Stati Uniti.
Al raggiungimento dell’età pensionabile, il ricorrente ha inoltrato la
relativa domanda ma l’ente previdenziale olandese gli ha comunicato che
egli ha diritto ad un trattamento pensionistico pari al 10% della misura
integrale.
Ai sensi dell’art. 48 n. 1 del regolamento CEE n. 1408/71, l’istituzione
di uno Stato membro non è tenuta a corrispondere prestazioni previdenziali
per periodi contributivi inferiori all’anno, se, tenuto conto di questi soli
periodi, nessun diritto alle prestazioni è acquisito in virtù della legislazione
dello Stato membro mentre, a norma dell’art. 48 n. 2, l’istituzione competente
di ciascuno degli Stati membri prende in considerazione i periodi di cui al
n. 1 ai fini dell’applicazione dell’art. 46 n. 2, escluse le disposizioni della lettera
b).
Ai sensi del citato art. 46 n. 2 lett. a) l’istituzione competente calcola
l’importo teorico della prestazione cui l’interessato avrebbe diritto se tutti i
periodi di assicurazione e/o di residenza, compiuti sotto le legislazioni degli
Stati membri alle quali il lavoratore subordinato o autonomo è stato soggetto,
fossero stati compiuti nello Stato membro in questione e sotto la legislazione
che essa applica alla data della liquidazione. Se, in virtù di questa
legislazione, l’importo della prestazione è indipendente dalla durata dei
periodi compiuti, tale importo è considerato come l’importo teorico da considerare.
In proposito, la sentenza della Corte di Giustizia del 18 febbraio 1982,
causa 55/81, Vermaut, ha affermato che l’ente competente deve tener conto
dei periodi assicurativi inferiori ad un anno maturati dal lavoratore in applicazioni
delle leggi di altri Stati membri, anche se il diritto alla pensione spetta
in forza delle sole leggi nazionali.
IL QUESITO
Nel caso in cui un lavoratore risieda all’esterno della Comunità nel
momento in cui egli compie l’età che dà diritto ad un trattamento pensionistico,
se l’art. 48 del regolamento n. 1408/71 debba essere applicato così
come lo sarebbe nell’ipotesi in cui il lavoratore interessato risiedesse nel territorio
della Comunità.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 139
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«Il Governo italiano ritiene che, al quesito vada data risposta positiva,
atteso che la finalità di favorire la libera circolazione delle persone all’interno
della Comunità non potrebbe essere perseguita pienamente se si limitasse
l’applicazione della regolamentazione comunitaria in materia di sicurezza
sociale unicamente a coloro che, avendo periodi di residenza e di lavoro
negli Stati membri, non si siano trasferiti in uno Stato terzo, condizionando
così l’applicazione di tale regolamentazione comunitaria all’obbligo della
residenza in uno Stato membro al momento di presentazione della domanda
di prestazione.
In proposito, l’art. 42 del Trattato prevede, in materia di sicurezza sociale,
l’adozione delle misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione
dei lavoratori, attuando un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori
migranti il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie
legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle
prestazioni sia per il calcolo di queste.
D’altro canto, il principio stabilito con l’art. 48 del regolamento n.
1408/71 è volto a favorire in particolare la libera circolazione tra gli Stati
comunitari, offrendo al lavoratore la garanzia che anche brevissimi periodi
di assicurazione, risultanti in un qualsiasi Stato membro, non restino in nessun
caso privi di rilievo ai fini pensionistici, bensì vengano presi in considerazione
– ai fini dell’applicazione dell’articolo 46 n. 2 lett. a) – per l’accertamento
del diritto e per la determinazione dell’importo della pensione spettante
a carico di un altro Stato membro, sia nel caso in cui in quest’ultimo
Stato si perfezioni il diritto alla pensione nazionale, sia nel caso in cui si perfezioni
il diritto alla pensione in base ai regolamenti della Comunità europea
(si veda in proposito la citata sentenza della Corte di Giustizia relativa al
caso Vermaut).
Si ritiene quindi che la regolamentazione comunitaria debba essere
applicabile sia nei confronti dei lavoratori che si spostano all’interno della
Comunità, sia nei confronti di coloro che si sono spostati all’esterno della
stessa.
Occorre tenere presente, infatti, che l’articolo 3 n. 1 del regolamento
1408/71, così come modificato dall’articolo 1, lettera a) del regolamento
647/05, prevede che, fatte salve le particolari disposizioni previste dallo stesso
regolamento 1408/71, le persone alle quali esso è applicabile sono soggette
agli obblighi e sono ammesse al beneficio della legislazione di ciascuno
Stato membro alle stesse condizioni dei cittadini di tale stato, indipendentemente
dal requisito della residenza nel territorio in uno degli Stati membri,
requisito che, appunto, è stato soppresso dal citato art. 1 del regolamento n.
647/2005.
Pertanto non possono sussistere limitazioni derivanti dalla residenza
all’esterno della Comunità se non nei casi specificamente previsti.
Si rileva inoltre che l’art. 2 n. 1 del regolamento n. 883/04, destinato a
sostituire il regolamento n. 1408/71, benché non ancora in vigore, prevede
il proprio ambito di applicazione ai cittadini di uno Stato membro, agli apo-
140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
lidi ed ai rifugiati residenti in uno Stato membro che sono o sono stati soggetti
alla legislazione di uno o più Stati membri nonché ai loro familiari e
superstiti.
Il requisito della cittadinanza (posseduto dal ricorrente) è quindi alternativo
a quello della residenza, a condizione che, in entrambi casi, l’interessato
sia o sia stato soggetto alla legislazione di uno o più Stati membri, ipotesi
verificatasi nel caso di specie.
D’altra parte né il contenuto, né le finalità delle disposizioni dell’art. 10
n. 1 del regolamento 1408/71 – il quale stabilisce che le prestazioni pensionistiche
erogate dagli stati membri non possono subire riduzioni per il fatto
che il beneficiato risiede nel territorio di uno Stato membro diverso da quello
nel quale si trova l’istituzione debitrice – possono indurre a ritenere che
l’art. 48 del medesimo regolamento si applichi esclusivamente nel caso in
cui colui che richiede la prestazione risieda sul territorio comunitario.
La disposizione dell’articolo 10 n. 1, infatti, intesa a garantire il mantenimento
del diritto alle prestazioni nei casi di trasferimento da uno Stato
membro ad un altro, non implica, di per sé, che il diritto alle prestazioni
debba essere conservato unicamente nel caso di trasferimento da uno Stato
membro ad un altro, né tanto meno esclude l’acquisizione del diritto alle prestazioni
se il richiedente non risiede più in uno Stato membro al momento
della maturazione del diritto alla pensione.
Al riguardo, infine è utile tenere presente che la Corte di Giustizia, con
la sentenza del 23 ottobre 1986, causa C-300/84, Van Roosmalen, ha dichiarato,
tra l’altro, che, ai fini dell’applicabilità del regolamento 1408/71, è
determinante il collegamento tra l’assicurato ed il regime previdenziale di
uno Stato membro, elemento che sussiste nel caso rimesso in via pregiudiziale
alla Corte di Giustizia dal Tribunale olandese.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel
senso che le disposizioni dell’art. 48 del regolamento n. 1408/71 debbano
trovare applicazione nei confronti del lavoratore che è residente all’esterno
della Comunità al compimento dell’età pensionabile, così come troverebbero
applicazione nell’ipotesi in cui lo stesso lavoratore, al momento del pensionamento,
fosse residente nel territorio della Comunità.
Roma, 13 dicembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-349/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Diritto di soggiorno
e tutela contro l’espulsione di un cittadino turco in possesso
di un permesso di soggiorno illimitato in Germania – Art. 59 protocollo
addizionale all’Accordo 12 settembre 1963 (associazione CEE –
Turchia) – Artt. 7 e 14 decisione n. 1/80 del consiglio di associazione
CEE – Turchia – Direttiva Parlamento e Consiglio 29 aprile 2004,
2004/38/CE – Regolamento CEE del Consiglio del 15 ottobre 1968 –
Ordinanza del 16 agosto 2006, depositata il 21 agosto 2006, notificata il
18 ottobre 2006, del Verwaltungsgericht Darmstadt (Germania) (cs.
43709/06, Avv. dello Stato W. Ferrante).
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 141
IL FATTO
Il ricorrente, cittadino turco, è entrato nella Repubblica federale di
Germania poco dopo la sua nascita, per ricongiungimento familiare con i
suoi genitori, ivi residenti; il padre è stato impiegato come lavoratore dipendente
dal 1971 al 1991 e gode dal 1991 di una pensione di anzianità e la
madre ha svolto dal 1999 al 2005 un’attività quale donna delle pulizie, lavorando
di regola fra le 30 e le 70 ore mensili. Nel 1988, il ricorrente, al compimento
del sedicesimo anno di età, ha ricevuto un permesso di soggiorno
illimitato. Dopo aver conseguito il diploma di scuola media, ha ottenuto un
posto di apprendista, dal quale è stato tuttavia allontanato per inaffidabilità.
Egli ha interrotto anche una successiva formazione.
Ancora minorenne, il ricorrente commetteva una serie di reati (violazione
della normativa sugli stupefacenti e furto). Dopo il compimento del ventunesimo
anno di età, a partire dal 1994, egli è stato condannato 18 volte in sede penale,
prevalentemente per reati legati agli stupefacenti e contro la proprietà, prima
al pagamento di diverse pene pecuniarie quindi anche alla reclusione. Dal 1 febbraio
1996 al 28 novembre 1997, il ricorrente si è recato in Turchia per assolvere
il servizio militare. Dopo il suo ritorno, egli ha vissuto nell’abitazione dei
propri genitori a partire dal 4 agosto 2000. Durante tale periodo, egli ha ricevuto
mensilmente fra € 400 e € 1.400, quale remunerazione per svariate attività di
breve durata o quale sussidio di disoccupazione ed ha sostenuto i propri genitori
con € 200 mensili. Il soggiorno presso i genitori è stato interrotto soltanto da
quello presso centri ospedalieri di recupero per tossicodipendenti nonché per
l’esecuzione della sua pena detentiva dal 23 giugno 2004 all’8 febbraio 2006.
Con provvedimento del 14 ottobre 2004, il ricorrente veniva espulso
dalla Repubblica federale di Germania, ricorrendo i presupposti per l’espulsione
obbligatoria di cui all’art. 47, primo comma n. 1 dell’Auslaendergesetz
(legge tedesca sugli stranieri).
I QUESITI
1.- Se sia compatibile con l’art. 59 del Protocollo addizionale
dell’Accordo 12 settembre 1963 che crea un’Associazione tra la Comunità
economica europea e la Turchia relativo alla fase transitoria dell’Associazione,
il fatto che un cittadino turco, giunto da bambino nella Repubblica
federale di Germania nell’ambito di un ricongiungimento familiare con i
genitori, impiegati in tale Stato, non perda il suo diritto di soggiorno derivante
dal diritto, ai sensi dell’art. 7, primo comma, secondo trattino, della decisione
n. 1/80 del Consiglio di Associazione CEE-Turchia n. 1/80, di rispondere
a qualsiasi offerta di impiego – tranne nei casi di cui all’art. 14 della
decisione n. 1/80 e di abbandono, per un periodo di tempo non trascurabile
e senza giustificato motivo, dello Stato ospitante – neppure nel caso in cui,
al compimento del ventunesimo anno di età, egli non viva più con i genitori
e non riceva da essi più alcun sostentamento.
In caso di risposta negativa alla prima questione:
2.- se un cittadino turco, il cui diritto ai sensi dell’art. 7, primo comma,
secondo trattino, della decisione n. 1/80 sia venuto meno per la ragione indi-
142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
cata nella prima questione, ottenga nuovamente tale diritto qualora, dopo il
compimento del ventunesimo anno di età, egli ritorni per un periodo di oltre
tre anni nella casa dei genitori, possa abitarvi a titolo gratuito e vi riceva
sostentamento, mentre la madre, in tale periodo, svolge un’occupazione
minore (donna delle pulizie per normalmente 3-70 ore mensili, talvolta 20
ore mensili).
Il giudice del rinvio pone inoltre altri sette quesiti in caso di risposta
affermativa alla prima o alla seconda questione. Dalla risposta negativa alle
prime due questioni, come si vedrà, deriva la non necessità di affrontare
anche gli altri quesiti che devono ritenersi assorbiti.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«Ai sensi dell’art. 47, primo comma (espulsione obbligatoria):
“Uno straniero viene espulso:
1. qualora sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per
aver commesso uno o più reati dolosi, ad una pena detentiva o ad una pena
detentiva minorile di almeno tre anni, o in un periodo di cinque anni sia stato
condannato per reati dolosi, con sentenza passata in giudicato, a più pene
detentive o pene detentive minorili pari, nel complesso, ad almeno tre anni o
qualora, in occasione dell’ultima sentenza passata in giudicato, sia stata
disposta nei suoi confronti la custodia cautelare, oppure
2. qualora sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato e senza
beneficio della sospensione condizionale, ad una pena detentiva minorile di
almeno due anni o ad una pena detentiva, per aver commesso un reato doloso
ai sensi della legge sugli stupefacenti, per turbamento dell’ordine pubblico,
alle condizioni di cui all’art. 125°, seconda frase, del codice penale, o per turbamento
dell’ordine pubblico in occasione di una pubblica riunione o di un
corteo vietati, conformemente all’art. 125 del codice penale.”
Ai sensi dell’art. 47, secondo comma (espulsione discrezionale):
“Lo straniero viene di regola espulso:
1- qualora sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato e
senza beneficio della sospensione condizionale, ad una pena detentiva minorile
di almeno due anni o ad una pena detentiva per aver commesso uno o
più reati dolosi;
2- qualora, contravvenendo alle disposizioni della legge sugli stupefacenti,
in mancanza di autorizzazione coltivi, produca, importi, trasporti o
esporti, alieni, ceda a terzi, immetta in circolazione in qualsiasi altro modo
o commerci sostanze stupefacenti, oppure qualora istighi o cooperi ad un’azione
del genere”.
Il ricorrente impugnava il decreto di espulsione sostenendo di poter
beneficiare della speciale tutela contro l’espulsione, assicurata dall’art. 48,
primo comma dell’Auslaendergesetz, in base al quale:
“Uno straniero che
1. sia titolare di un diritto di soggiorno,
2. sia titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e sia
nato nel territorio nazionale o ivi abbia fatto ingresso da minorenne,
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 143
3. sia titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e conviva
con uno straniero di cui ai precedenti punti 1 e 2 in regime di convivenza
matrimoniale o more uxorio, …può essere espulso solo per gravi motivi
di sicurezza e di ordine pubblico. Tali motivi sussistono generalmente nei
casi previsti dall’art. 47, primo comma”.
Il ricorrente ritiene inoltre di rientrare nella categoria di persone di cui
all’art. 7, primo comma, secondo trattino della decisione n. 1/80, alle quali sono
garantiti diritti che possono cessare solo se sussistono le circostanze di cui
all’art. 14 della decisione n. 1/80, in base al quale “Le disposizioni della presente
sezione vengono applicate fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di
ordine pubblico, di sicurezza e di sanità pubbliche” ovvero se vi è stato allontanamento
dallo Stato membro ospitante per un significativo lasso di tempo.
L’amministrazione resistente ha fondato il provvedimento di espulsione
sull’art. 47, primo comma n. 1, AuslG, in base al quale uno straniero viene
espulso, tra l’altro, qualora, nell’arco di cinque anni, sia stato condannato per
reati dolosi a più pene detentive per almeno tre anni complessivi.
L’amministrazione ritiene che sussista un prevalente interesse pubblico
all’espulsione del ricorrente che, a partire dal 1994 è stato continuamente
chiamato a rispondere di reati. Inoltre, in considerazione dei suoi precedenti
e del suo persistente stato di tossicodipendenza, non eliminato da svariati
tentativi terapeutici, si dovrebbe ritenere esistente un rischio di recidiva. Alla
luce del gran numero di fatti illeciti commessi e della persistente probabilità
di ripetizione degli stessi, sussisterebbe un rischio sufficientemente grave per
l’ordine pubblico, in grado di mettere in pericolo un interesse fondamentale
della collettività.
Il Governo italiano ritiene che, al primo quesito vada data risposta negativa,
non apparendo la soluzione opposta conforme all’art. 59 del Protocollo
addizionale del 23 novembre 1970, che costituisce parte integrante
dell’Accordo di associazione concluso il 12 settembre 1963 tra la CEE e la
Turchia.
Va ricordato che l’art. 59 citato stabilisce che “nei settori coperti dal presente
protocollo, la Turchia non può beneficiare di un trattamento più favorevole
di quello che gli Stati membri si accordano reciprocamente in virtù
del trattato che istituisce la Comunità”.
Alla luce di tale principio, va affermato che il cittadino turco, lavoratore
o familiare di lavoratore, non può fruire, in base all’Accordo tra la CEE e la
Turchia, di maggiori garanzie rispetto a quelle che assistono i cittadini comunitari
nei loro reciproci rapporti in ordine al diritto di soggiorno in un altro
Stato membro, che deriva dal diritto di accedere al mercato del lavoro, nonché
in relazione alla tutela contro l’espulsione.
L’art. 7 della decisione n. 1/80 prevede che:
I familiari che sono stati autorizzati a raggiungere un lavoratore turco
inserito nel regolare mercato del lavoro di uno Stato membro:
– hanno il diritto di rispondere, fatta salva la precedenza ai lavoratori
degli stati membri della Comunità, a qualsiasi offerta di impiego, se vi risiedono
regolarmente da almeno tre anni;
144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– beneficiano del libero accesso a qualsiasi attività dipendente di loro
scelta se vi risiedono regolarmente da almeno cinque anni.”
I figli dei lavoratori turchi che hanno conseguito una formazione professionale
nel paese ospitante potranno, indipendentemente dal periodo di residenza
in tale Stato membro e purché uno dei genitori abbia legalmente esercitato
un’attività nello Stato membro interessato da almeno tre anni, rispondere
a qualsiasi offerta d’impiego in tale Stato membro”.
La posizione del ricorrente rientra nel comma 1, secondo trattino, risiedendo
egli in Germania dal 1972. Lo stesso ha quindi certamente acquisito
lo status di familiare di lavoratore che gli ha consentito di ottenere il premesso
di soggiorno a tempo indeterminato.
Tutto sta a vedere se sia possibile perdere tale status oltre ai due casi
enunciati dalle sentenze della Corte di giustizia 7 luglio 2005, causa C-
373/03, Aydinli; 11 novembre 2004, causa C-467/02, Cetinkaya e 16 marzo
2000, causa C-329/97, Ergat dell’abbandono dello Stato ospitante per un
periodo significativo o della ricorrenza di motivi di ordine pubblico, di sicurezza
e di sanità pubbliche.
In ordine al primo quesito, l’ordinanza di rinvio ricalca l’ordinanza dello
stesso Giudice tedesco nella causa C-325/05, Derin, la cui fase orale si è
svolta innanzi alla Corte di Giustizia il 16 novembre 2006 e in cui le conclusioni
dell’Avvocato Generale verranno depositate il 11 gennaio 2007.
Adifferenza del Sig. Derin, però, il ricorrente è stato espulso ai sensi dell’art.
47, comma 1 dell’AuslG, che prevede l’espulsione obbligatoria, e non
già ai sensi dell’art. 47, comma 2, che disciplina l’espulsione discrezionale,
e pertanto la presenza dello stesso deve ritenersi integrare una minaccia seria
all’ordine pubblico e alla sicurezza dello Stato ospitante ai sensi dell’art. 14
della decisione n. 1/80.
A norma dell’art. 48 dell’Auslaendergesetz vi è infatti una presunzione
generale di sussistenza dei gravi motivi di sicurezza ed ordine pubblico in relazione
al primo comma dell’art. 47, che si riferisce alla condanna alla pena
detentiva di almeno tre anni ovvero di almeno due anni se trattasi di reati previsti
dalla legge sugli stupefacenti, con conseguente espulsione obbligatoria.
Ciò precisato, occorre ricordare che, nei rapporti tra cittadini comunitari,
per lo status di familiare, secondo la nozione fornita dalla sentenza della
Corte di giustizia 30 settembre 2004, causa C-275/02 Ayaz, occorre far riferimento
al disposto di cui all’art. 10 n. 1 del regolamento (CEE) del
Consiglio 15 ottobre 1968 n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori
all’interno della Comunità.
Il citato art. 10 stabilisce che “ hanno diritto di stabilirsi con il lavoratore
cittadino di un o Stato membro occupato sul territorio di un altro Stato
membro, qualunque sia la loro cittadinanza:
a) il coniuge ed i loro discendenti minori di anni 21 o a carico;
b) gli ascendenti di tale lavoratore e del suo coniuge che siano a suo
carico.”
La giurisprudenza comunitaria ha pertanto affermato che il diritto di soggiornare
in uno Stato membro, in qualità di familiare di lavoratore, cessa
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 145
quando il figlio compie 21 anni, se ha costituito un proprio autonomo nucleo
familiare (sentenze Lebon, causa C-316/85, Diatta, causa 267/83 e
Baumbast, causa C-413/99).
Per fruire del predetto diritto pertanto occorrono le due condizioni alternative
della minore età o della vivenza a carico dei genitori. Ovviamente, il
diritto di soggiorno può successivamente sorgere in relazione ad altro status
quale, direttamente, quello di lavoratore di colui che prima derivava il predetto
diritto dalla qualità di figlio di lavoratore.
Se nei rapporti tra cittadini comunitari, il diritto di soggiorno cessa
venendo meno una delle due suddette condizioni, appare incompatibile con
l’art. 59 del Protocollo addizionale un’interpretazione delle norme che regolano
l’analogo diritto dei cittadini turchi nei confronti dei cittadini comunitari
nel senso che le stesse garantiscano loro una tutela maggiore.
Appare quindi condivisibile l’orientamento dell’Avvocato Generale
Geelhoed, nelle conclusioni presentate il 25 maggio 2004 (in causa C-
275/02, Ayaz), che individua, accanto alle due ipotesi del figlio maggiorenne
a carico del lavoratore (che rientra nel campo di applicazione dell’art. 7,
primo comma) e del figlio inserito nel mercato del lavoro (che deriva diritti
autonomi dall’art. 6), quella del figlio che ancora non lavora e non è più a
carico del lavoratore, fattispecie che non rientra in nessuna categoria, con
conseguente perdita del diritto di soggiorno.
Peraltro, ai sensi della direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004 sul diritto
dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare liberamente nel territorio
degli Stati membri – che richiama espressamente l’art. 10 del regolamento
n. 1612/68 – tale diritto è limitato ad un periodo di tre mesi (art. 6). Il successivo
art. 7 prevede il diritto del cittadino dell’Unione di soggiornare per un
periodo maggiore solo in quanto lavoratore o familiare di un lavoratore.
Pertanto, la comparazione tra il trattamento garantito ai familiari di un
lavoratore turco dalla decisione n. 1/80, che prevede la perdita del diritto di
soggiorno acquisito a norma dell’art. 7 solo in due limitati casi (abbandono
del territorio del Stato ospitante e ragioni di ordine pubblico) è certamente
più favorevole rispetto a quello assicurato ai familiari dei lavoratori comunitari
che vedono cessare automaticamente il loro diritto di soggiorno al compimento
del 21 anno di età qualora non siano più a carico dei genitori.
Detto trattamento appare quindi incompatibile con l’art. 59 del
Protocollo addizionale.
Dalla risposta negativa al primo quesito, deriva la necessità di affrontare
anche il secondo, con il quale il tribunale tedesco chiede alla Corte di
sapere se, a seguito della perdita del diritto di cui all’art. 7, primo comma,
secondo trattino della decisone n. 1/80, lo stesso diritto possa essere nuovamente
ottenuto, dopo il compimento del ventunesimo anno di età, qualora lo
straniero ritorni ad abitare presso la casa dei genitori, con vivenza a carico
degli stessi.
Secondo il Governo italiano, anche a tale quesito va fornita risposta
negativa in quanto lo status acquisito dopo la maggiore età e dopo la cessazione
della convivenza con i genitori non è più dipendente dalla originaria
146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
situazione di minore entrato nel territorio dello Stato membro ospitante a
seguito di ricongiungimento familiare.
È pacifico che il ricorrente non abbia acquisito un autonomo status di
lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione n. 1/80 e che, contemporaneamente,
abbia perso quello derivato di familiare di lavoratore, minore o a carico,
con la conseguenza che lo stesso non può non essere soggetto a tutte le
disposizioni normative proprie del nuovo status, ivi compresa la possibilità
di espulsione.
Va rilevato peraltro che il ricorrente, pur essendo tornato ad abitare con
i suoi genitori, non risulta a carico degli stessi, avendo egli anzi provveduto
a sostenerli con € 200 mensili, parte dei suoi guadagni per svariate attività di
breve durata o del suo sussidio di disoccupazione.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
nel senso che il cittadino turco, entrato in Germania per ricongiungimento
con i propri genitori lavoratori dipendenti, perda il diritto di soggiorno
dopo il compimento del ventunesimo anno di età ove non abiti più con i
suoi genitori e non sia più a loro carico, non apparendo la soluzione opposta
conforme all’art. 59 del Protocollo addizionale del 23 novembre 1970.
Quanto al secondo quesito, il Governo italiano propone alla Corte di
risolverlo nel senso che, a seguito della perdita del diritto di cui all’art. 7,
primo comma, secondo trattino della decisione n. 1/80, lo stesso diritto non
possa essere nuovamente ottenuto, dopo il compimento del ventunesimo
anno di età, qualora lo straniero ritorni ad abitare presso la casa dei genitori,
con vivenza a carico degli stessi in quanto lo status acquisito dopo la
maggiore età e dopo la cessazione della convivenza con i genitori non è più
dipendente dalla originaria situazione di minore entrato nel territorio dello
Stato membro ospitante a seguito di ricongiungimento familiare.
Dalla risposta negativa ai primi due quesiti deriva la non necessità di
rispondere agli altri sette quesiti che debbono ritenersi assorbiti.
Roma, 21 dicembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
Causa C-350/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Diritto alla
concessione delle ferie o all’indennità sostitutiva in caso di prolungata
incapacità al lavoro – Art. 7, n. 1 e 2 Direttiva 2003/88/CE –
Ordinanza del 26 agosto 2006, depositata il 21 agosto 2006, notificata il
18 ottobre 2006, del Landesarbeitsgericht Düsseldorf (Germania) (cs.
43710/06, Avv. dello Stato W. Ferrante).
IL FATTO
Il ricorrente, dipendente della Bundesversicherungsanstalt für
Angestellte (BfA) dal 1971, a causa di una grave patologia, non è stato più
in condizione di lavorare a decorrere dal settembre 2004, sino al 30 settembre
2005.
Il ricorrente, nel maggio 2005, ha chiesto di poter fruire delle ferie relative
all’anno 2004 a decorrere dal 1 giugno 2005 ma il suo datore di lavoro
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 147
ha respinto la richiesta, essendo preliminare a tale riconoscimento l’accertamento
dell’idoneità al lavoro del ricorrente.
Nel settembre 2005, è stata concessa al ricorrente una pensione a tempo
indeterminato per invalidità totale, con effetto retroattivo dal 1 marzo 2005;
il rapporto di lavoro si è quindi concluso a partire dal 30 settembre 2005.
Il ricorrente ha successivamente intentato un’azione per ottenere l’indennità
sostitutiva delle ferie per gli anni 2004 e 2005; la domanda è stata
respinta dall’Arbeitsgericht ed è stata riproposta in appello innanzi al
Landesarbeitsgericht Düsseldorf, che ha rimesso alla Corte di giustizia le
questioni pregiudiziali.
I QUESITI
1.- Se l’art. 7 n. 1 della direttiva 2003/88/CE (= art. 7 della direttiva
93/104/CE) debba essere inteso nel senso che il lavoratore deve in ogni caso
godere di un periodo di ferie pagate minimo di quattro settimane e in particolare
che le ferie non godute nel corso dell’anno di riferimento dal lavoratore
a causa di malattia devono essere concesse successivamente, o se disposizioni
e/o prassi nazionali possano prevedere che il diritto alle ferie pagate
annuali di un lavoratore venga meno qualora lo stesso, nell’anno di riferimento,
sia divenuto incapace di lavorare per causa di malattia prima di godere
delle ferie e non abbia recuperato la propria capacità lavorativa prima
della conclusione dell’anno di riferimento o del periodo di riporto determinato
dalla legge, dal contratto collettivo o da quello individuale.
2.- Se l’art. 7 n. 2 della direttiva 2003/88/CE debba essere interpretato
nel senso che, al termine del rapporto di lavoro, il lavoratore ha in ogni caso
diritto ad un’indennità finanziaria in sostituzione delle ferie scadute e non
godute (indennità sostitutiva) o se disposizioni e/o prassi nazionali possano
prevedere che i lavoratori non abbiano diritto ad indennità sostitutiva qualora
siano incapaci di lavorare per malattia fino alla conclusione dell’anno di
riferimento o del periodo di riporto e/o qualora, dopo la conclusione del rapporto
di lavoro, divengano titolari di una pensione a causa della ridotta capacità
lavorativa o di invalidità.
3.- In caso di risposta affermativa alla prima e alla seconda questione:
Se l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che
il diritto alle ferie annuali o alla compensazione monetaria presuppone che il
lavoratore sia stato effettivamente attivo nell’anno di riferimento o se il diritto
sussista anche in caso di assenza giustificata (per malattia) o di assenza
ingiustificata per l’intero anno di riferimento.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«La normativa comunitaria in tema di tutela della sicurezza e della salute
dei lavoratori trova il proprio fondamento giuridico innanzi tutto nell’art.
118A del Trattato CE (ora art. 137, atteso che gli artt. 117-120 del Trattato
CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE -143 CE), in base al quale gli Stati
membri si adoperano per promuovere il miglioramento dell’ambiente di
lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori e si fissano come
148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
obiettivo l’armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni
esistenti in questo settore.
Alla luce di tale disposizione, sono state adottate la direttiva del
Consiglio del 12 giugno 1989, 89/391CEE, che stabilisce i principi generali
in materia di sicurezza e salute dei lavoratori e la direttiva del Consiglio del
23 novembre 1993, 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell’organizzazione
dell’orario di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio del 22 giugno 2000, 2000/34/CE.
La direttiva 93/104/CE, abrogata e sostituita, a decorrere dal 2 agosto
2004, dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre
2003, 2003/88/CE, prevede le prescrizioni minime di sicurezza e sanitarie in
materia di organizzazione del lavoro, in relazione ai periodi di riposo quotidiano,
di pausa, di riposo settimanale e di ferie annuali, ferma restando la
possibilità di ciascuno Stato membro di mantenere e di stabilire una maggiore
protezione delle condizioni di lavoro.
L’art. 7 della direttiva, in tema di ferie annuali, rimasto immutato, dispone:
“1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore
benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le
condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o
prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può
essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto
di lavoro”.
L’art. 15 della direttiva fa salva la facoltà degli Stati membri di applicare
o introdurre disposizioni più favorevoli alla protezione della sicurezza e
della salute dei lavoratori mentre l’art. 17 prevede una serie di deroghe a
diverse norme di base della direttiva stessa, tra le quali non rientra quella sul
diritto alle ferie annuali retribuite, previsto dal citato art. 7.
La normativa tedesca sulle ferie minime per i lavoratori dipendenti prevede
che le ferie debbano essere concesse e godute nell’anno solare in corso
e che un riporto delle ferie nel successivo anno solare sia ammissibile, qualora
sussistano rilevanti ragioni legate alla gestione dell’impresa o alla persona
del lavoratore, nei primi tre mesi del successivo anno solare. Qualora
le ferie non possano essere più concesse, in tutto o in parte, per la conclusione
del rapporto di lavoro, va corrisposto un indennizzo.
A sua volta il contratto collettivo quadro per i dipendenti del BfA prevede
che le ferie debbano essere godute entro l’anno di riferimento e che le
ferie non godute debbano essere utilizzate entro il 30 aprile dell’anno successivo,
o, qualora non possano essere godute entro tale data per incapacità
al lavoro, entro il 30 giugno. Le ferie non godute nei termini indicati non
sono più utilizzabili. Il contratto collettivo prevede inoltre che, qualora al
momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche per effetto della
ridotta capacità lavorativa, il diritto alle ferie non sia stato ancora utilizzato
deve essere corrisposta un’indennità sostitutiva.
Ciò premesso, il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che
l’art. 7 n. 1 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il
lavoratore deve in ogni caso godere di un periodo di ferie pagate di almeno
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 149
quattro settimane e in particolare che le ferie non godute nel corso dell’anno
di riferimento a causa di malattia del lavoratore devono essere concesse successivamente,
non apparendo compatibile con i principi comunitari l’estinzione
del diritto alle ferie per effetto dell’assenza dal servizio giustificata da
motivi di salute, protrattasi oltre l’anno di riferimento o oltre il periodo massimo
di riporto delle ferie nell’anno successivo.
Ai sensi del sesto considerando della direttiva 2003/88/CE, occorre tener
conto dei principi dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) in
materia di organizzazione dell’orario di lavoro.
Sin dalla Convenzione dell’ILO n. 52 del 1936, era previsto, all’art. 2,
comma 3, che non dovessero essere computate, nel congedo annuale retribuito,
le interruzioni del servizio dovute a malattia, al fine di tutelare distintamente
la salute dei lavoratori e il diritto al recupero delle energie psico-fisiche
cui sono finalizzate le ferie.
Con la successiva Convenzione dell’ILO n. 132 del 1970, ratificata, tra
gli altri, da quattordici Stati membri della Comunità, non solo viene ribadito
il principio che i periodi di inabilità al lavoro derivanti da malattie o incidenti
non possono essere calcolati nel congedo pagato minimo annuale (art. 6)
ma viene altresì precisato che potrà essere autorizzato il frazionamento del
congedo annuale pagato, fermo restando che una delle frazioni di congedo
dovrà corrispondere almeno a due settimane ininterrotte (art. 8) e che tale
parte ininterrotta di congedo annuale pagata debba essere accordata e usufruita
entro il termine di un anno al massimo mentre il resto del congedo
annuale pagato dovrà essere goduto entro il termine di diciotto mesi al massimo,
a partire dalla fine dell’anno che dà diritto al congedo.
Inoltre, come correttamente evidenziato dalla Corte di giustizia con la sentenza
del 6 aprile 2006, causa C-124/05, Federatie Nederlandse Vakbeweging,
punto 24, un congedo garantito dal diritto comunitario non può pregiudicare il
diritto di godere di un altro congedo garantito da tale diritto (v. sentenza 14
aprile 2005, causa C-519/03, Commissione/Lussemburgo, Racc. pag. I-3067,
punto 33). Così, se alla fine di un anno si cumulino i periodi di più congedi
garantiti dal diritto comunitario, può essere inevitabile riportare le ferie
annuali o una parte delle stesse all’anno successivo.
In proposito, la Corte ha affermato che, se è vero che l’effetto positivo
delle ferie sulla sicurezza e sulla salute del lavoratore si manifesta pienamente
se le ferie vengono prese nell’anno in corso, tale periodo di riposo rimane tuttavia
interessante e utile, al fine di reintegrare le energie fisiche consumate
durante il periodo lavorativo, anche se sia goduto in un momento successivo.
Come osservato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott nella
predetta causa C-124/05, posto che il periodo minimo di ferie annuali non
può essere compensato con un’indennità finanziaria, ai sensi dell’art. 7 n. 2
della direttiva, in quanto tale possibilità potrebbe esporre il lavoratore al
rischio di subire pressioni, da parte del datore di lavoro, affinché non utilizzi
il periodo minimo di ferie, qualora dette ferie non possano essere godute
integralmente nel corso dell’anno di pertinenza, il loro riporto all’anno successivo
può ancora contribuire al necessario riposo del lavoratore
150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Peraltro, la Corte, con la sentenza del 18 marzo 2004, causa C-342/01,
Merino Gomez, ha già avuto modo di affermare, in tema di tutela delle lavoratrici
gestanti o puerpere, che una lavoratrice deve poter usufruire delle sue
ferie annuali in un periodo diverso da quello corrispondente al suo congedo
di maternità, se le date di godimento delle ferie annuali previamente fissate
mediante accordo collettivo coincidono con quelle del suo congedo per
maternità.
Infatti, ammettere la coincidenza dei due periodi di congedo comporterebbe
l’annullamento di uno di essi mentre la finalità del diritto alle ferie
annuali è diversa da quella del diritto al congedo di maternità.
In caso di malattia o di gravidanza o di altre cause di assenza giustificata
dal lavoro è quindi possibile che anche il periodo minimo di ferie retribuite,
pari a quattro settimane, venga riportato all’anno successivo.
Peraltro, la non monetizzabilità delle ferie non godute, in costanza di
rapporto, giusta il divieto di cui all’art. 7 n. 2 della direttiva, è diretta a far sì
che il lavoratore possa di norma beneficiare di un riposo effettivo ed assicura
in tal modo una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute (Corte
di giustizia, sentenza del 16 marzo 2006, cause riunite C- 131/04 e C-257/04,
punto 60).
Nell’ottica dell’effettività della fruizione delle ferie, anche l’ordinamento
italiano prevede, all’art. 36 della Costituzione, il principio dell’irrinunciabilità
del diritto al riposo settimanale e del diritto alle ferie annuali.
La Corte costituzionale è più volte intervenuta per garantire l’effettività del
diritto alle ferie, al fine di consentire al lavoratore un riposo che si proporzioni
alla quantità di lavoro prestato sicché egli possa ritemprare le energie psicofisiche
usurate dal lavoro e possa altresì soddisfare le sue esigenze ricreativoculturali
e più incisivamente partecipare alla vita familiare e sociale.
Con la sentenza n. 66 del 10 maggio 1963, la Corte costituzionale ha
infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2109 del codice civile
italiano, nella parte in cui prevedeva che il diritto ad un periodo di ferie
annuale retribuito sorgesse solo “dopo un anno di ininterrotto servizio”, pregiudicando
così quei lavoratori che non riuscissero mai a completare dodici
mesi di servizio presso uno stesso datore di lavoro.
Con la sentenza n. 616 del 30 dicembre 1987, la Corte costituzionale ha
successivamente dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 2109
del codice civile italiano, nella parte in cui non prevedeva che la malattia
insorta durante il periodo feriale ne sospendesse il decorso; ciò non solo a
tutela del diritto al riposo e del diritto alla salute del lavoratore, cui sono
distintamente finalizzati il congedo ordinario e il congedo per malattia, ma
anche a vantaggio dello stesso datore di lavoro, che è interessato a che effettivamente
avvenga la ripresa ed il rafforzamento delle energie del lavoratore
affinché il suo successivo apporto lavorativo sia più proficuo nei risultati.
Peraltro, la stessa definizione di “riposo adeguato” di cui all’art. 2 n. 9)
della direttiva 2003/88/CE tiene conto di interessi più ampi, che esulano
dalla sola tutela del lavoratore, facendo riferimento a periodi di riposo regolari
e sufficientemente lunghi e continui per evitare che i lavoratori, “a causa
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 151
della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione
del lavoro, causino lesioni a se stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino
la loro salute a breve o a lungo termine”.
Inoltre, il principio affermato in tempi non recenti dalla Corte costituzionale
italiana con la citata sentenza n. 66 del 1963 è stato ampiamente confermato
dalla nota sentenza della Corte di giustizia del 26 giugno 2001, causa
C-173/99, BECTU, con la quale è stato affermato che l’art. 7 n. 1 della direttiva
non consente di adottare una normativa nazionale in base alla quale i
lavoratori iniziano a maturare il diritto alle ferie annuali retribuite solo a condizione
di avere compiuto un periodo minimo di tredici settimane di lavoro
ininterrotto alle dipendenze dello stesso datore di lavoro.
Il sindacato dei lavoratori esercenti attività nei settori radiotelevisivo,
cinematografico, teatrale e dello spettacolo (BECTU), ha infatti evidenziato
che, in tale campo, i lavoratori vengono spesso assunti con contratti di breve
durata e che il presupposto di un periodo di lavoro ininterrotto presso lo stesso
datore di lavoro li priverebbe nella sostanza del diritto alle ferie.
Nella predetta sentenza BECTU, la Corte ha affermato che il diritto di
ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite va considerato come un principio
particolarmente importante del diritto sociale comunitario, al quale non si
può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti
può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla stessa direttiva
93/104 (punto 43).
Alla luce dei principi richiamati, non può non concludersi che il diritto
all’effettiva fruizione delle ferie da parte del ricorrente della causa principale
– che è divenuto incapace di lavorare per causa di malattia dopo otto mesi
di effettivo servizio (da gennaio all’inizio di settembre 2004) prima di godere
delle ferie e non abbia recuperato la propria capacità lavorativa prima
della conclusione dell’anno di riferimento o del periodo di riporto determinato
dalla legge (30 giugno dell’anno successivo) – non viene meno, pena la
compromissione delle distinte finalità cui sono dirette le ferie e il congedo
per malattia.
Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art.
7 n. 2 della direttiva 2003/88/CE debba essere interpretato nel senso che, al
termine del rapporto di lavoro, il lavoratore ha in ogni caso diritto ad un’indennità
finanziaria in sostituzione delle ferie scadute e non godute, non apparendo
conforme ai principi comunitari una disposizione nazionale che preveda
che i lavoratori non abbiano diritto ad indennità sostitutiva qualora siano
incapaci di lavorare a causa di una malattia protrattasi fino alla conclusione
dell’anno di riferimento o del relativo periodo di riporto o qualora, dopo la
conclusione del rapporto di lavoro, divengano titolari di una pensione a
causa della ridotta capacità lavorativa.
I due presupposti previsti dall’art. 7 n. 2 della direttiva per l’erogazione
dell’indennità finanziaria sostitutiva sono che il rapporto di lavoro si sia concluso
e che il periodo minimo di ferie non sia stato utilizzato.
Pertanto, come affermato dalla citata sentenza della Corte di giustizia
emessa nella causa C- 124/05, detta disposizione implica che i giorni di ferie
152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
di cui il lavoratore non ha beneficiato, nel corso di un anno qualsiasi rispetto
a diritto minimo acquisito per legge durante tale anno, non possono formare
oggetto di riscatto in costanza del contratto di lavoro (punto 20).
Infatti, sarebbe sufficientemente verosimile che la possibilità di riscatto
successivo di giorni del periodo minimo di ferie annuali possa indurre i lavoratori
a non prendere affatto o non per intero il minimo annuale di ferie
(punto 21).
In ogni caso, la possibilità di sostituire con un’indennità finanziaria il
periodo minimo di ferie annuali riportate costituirebbe un incentivo, incompatibile
con gli obiettivi della direttiva, a rinunciare alle ferie come periodo
di riposo ovvero a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi (punto 32).
Tali preclusioni cadono nel caso di cessazione del rapporto di lavoro,
come accaduto nella causa principale.
Nessun dubbio pare possa esservi in ordine alla spettanza dell’indennità
sostitutiva per le ferie non godute nell’anno 2004, per effetto della sopraggiunta
malattia protrattasi da settembre sino alla fine dell’anno e oltre, avendo
il ricorrente prestato effettivamente la propria attività lavorativa per i
primi otto mesi dell’anno 2004.
Né può ritenersi che, non avendo il ricorrente recuperato la propria capacità
lavorativa prima del termine del periodo di riporto dell’anno successivo, egli
avrebbe perso il diritto a fruire delle ferie e conseguentemente anche il diritto a
percepire l’indennità sostitutiva in caso di cessazione del rapporto di lavoro.
Come si è visto nell’esaminare il primo quesito, infatti, non appare conforme
ai principi comunitari l’estinzione del diritto alle ferie per il sopraggiungere
di una malattia che si protragga per tutto l’anno di riferimento e per
il periodo di riporto determinato dalla legge.
Quanto all’indennità sostitutiva per le ferie non godute nell’anno 2005,
va innanzitutto precisato che il periodo lavorativo che può essere preso in
considerazione, per calcolare un proporzionato diritto alle ferie, è solo quello
relativo ai primi due mesi dell’anno, atteso che, a decorrere dal 1 marzo
2005, il ricorrente percepisce con effetto retroattivo una pensione di invalidità
a tempo indeterminato.
Nonostante la risoluzione del rapporto di lavoro sia stata formalmente
effettuata il 30 settembre 2005, la retroattività della pensione di invalidità
impedisce di calcolare il medesimo periodo (dal 1 marzo al 30 settembre
2005) sia per ottenere detta pensione, che presuppone la permanente inabilità
al lavoro, sia come base di calcolo delle ferie come se il ricorrente fosse
abile al lavoro.
L’indennità sostitutiva per le ferie non godute nell’anno 2005 andrà
quindi calcolata, considerando solo i primi due mesi dell’anno 2005, a nulla
rilevando che in detto periodo il lavoratore fosse in congedo per malattia.
Ai sensi dell’art. 5, comma 4 della citata Convenzione dell’organizzazione
internazionale del lavoro n. 132 del 1970, infatti, “le assenze dal lavoro
per motivi indipendenti dalla volontà della persona impiegata interessata,
come anche le assenze per malattia, incidente o congedo per maternità,
saranno calcolate nel periodo di servizio”.
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 153
A norma del precedente art. 4, comma 1 della Convenzione ILO, chiunque
abbia compiuto, nel corso di un determinato anno, un periodo di servizio
di durata inferiore al periodo richiesto per aver diritto alla totalità del
congedo annuale, avrà diritto, per l’anno in questione, a un congedo pagato
di durata proporzionalmente ridotta.
Proporzionalmente ridotta sarà quindi anche l’indennità sostitutiva delle
ferie non godute per l’anno 2005.
Circa il terzo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 7 della direttiva
2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il diritto alle ferie annuali
o alla compensazione monetaria sussiste anche in caso di assenza giustificata
per malattia per l’intero anno di riferimento; non anche in caso di assenza
ingiustificata.
Come si è visto, l’art. 5, comma 4 della citata Convenzione ILO n. 132
del 1970 equipara il periodo di malattia al periodo di servizio, trattandosi di
assenza dovuta a motivi indipendenti dalla volontà del lavoratore e quindi
giustificata.
Nel medesimo periodo quindi maturano tutti i diritti del lavoratore, ivi
compreso quello alle ferie annuali retribuite, che verranno utilizzate una
volta recuperata la capacità lavorativa o, in caso di cessazione del rapporto
di lavoro, anche per sopravvenuta invalidità totale, saranno compensate con
la corresponsione dell’indennità sostitutiva.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
affermando che l’art. 7 n. 1 della direttiva 2003/88/CE debba essere
inteso nel senso che il lavoratore deve in ogni caso godere di un periodo di
ferie pagate di almeno quattro settimane e in particolare che le ferie non
godute nel corso dell’anno di riferimento a causa di malattia del lavoratore
devono essere concesse successivamente, non apparendo compatibile con i
principi comunitari l’estinzione del diritto alle ferie per effetto dell’assenza
dal servizio giustificata da motivi di salute, protrattasi oltre l’anno di riferimento
o oltre il periodo massimo di riporto delle ferie nell’anno successivo.
Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito
affermando che l’art. 7 n. 2 della direttiva 2003/88/CE debba essere interpretato
nel senso che, al termine del rapporto di lavoro, il lavoratore ha in
ogni caso diritto ad un’indennità finanziaria in sostituzione delle ferie scadute
e non godute, non apparendo conforme ai principi comunitari una disposizione
nazionale che preveda che i lavoratori non abbiano diritto ad indennità
sostitutiva qualora siano incapaci di lavorare a causa di una malattia protrattasi
fino alla conclusione dell’anno di riferimento o del relativo periodo di
riporto o qualora, dopo la conclusione del rapporto di lavoro, divengano titolari
di una pensione a causa della ridotta capacità lavorativa.
Il Governo italiano propone infine alla Corte di risolvere il terzo quesito
affermando che l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel
senso che il diritto alle ferie annuali o alla compensazione monetaria sussiste
anche in caso di assenza giustificata per malattia per l’intero anno di
riferimento; non anche in caso di assenza ingiustificata.
Roma, 27 dicembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Causa C-445/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Regole sanitarie
e divieti di importazione di carne di maiale – Diritto a riparazione
nel caso di errata trasposizione nel diritto interno di norme
comunitarie – Art. 30 trattato CEE (28 CE) – Direttiva del Consiglio 29
luglio 1991 91/497/CEE – Problematiche sanitarie in materia di scambi
di carni fresche – Ordinanza del 12 ottobre 2006, depositata il 6 novembre
2006, del Bundesgerichtshof – Germania (cs. 8375/07, Avv. dello
Stato W. Ferrante).
IL FATTO
La ricorrente, un’associazione di imprese danesi di macellazione e di
allevatori di suini, chiede alla convenuta Repubblica federale di Germania il
risarcimento del danno per violazione del diritto comunitario, avendo quest’ultima
imposto un divieto di fatto all’importazione dalla Danimarca, dal
1993 al 1999, per le carni dei suini maschi non castrati.
I QUESITI
1.- Se le disposizioni dell’art. 5, n. 1, lett. o) e dell’art. 6, n. 1, lett. b),
punto iii), della direttiva del Consiglio 26 giugno 1964, 64/433/CEE, relativa
a problemi sanitari in materia di scambi intracomunitari di carni fresche,
come modificata dalla direttiva del Consiglio 29 luglio 1991, 91/497/CEE
(G.U. L 268, pag. 69) in combinato disposto con l’art. 5, n. 1 e con gli artt. 7
e 8 della direttiva del Consiglio 11 dicembre 1989, 89/662/CEE, relativa ai
controlli veterinari applicabili negli scambi intracomunitari, nella prospettiva
della realizzazione del mercato interno (G.U. L. 395, pag. 13) conferiscano
ai produttori e ai commercianti di carni suine una posizione giuridica che,
in caso di errori di attuazione o di applicazione, possa far sorgere una pretesa,
fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato.
2.- Se i produttori e commercianti di carni suine possano, a prescindere
dalla risposta alla prima questione, lamentare la violazione dell’art. 30 del
Trattato CE (attuale art. 28 CE) per motivare una pretesa, fondata sul diritto
comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato in caso di attuazione e
applicazione della suddetta direttiva contrarie al diritto comunitario.
3.- Se il diritto comunitario imponga che la prescrizione della pretesa,
fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato venga
interrotta in seguito a un procedimento per inadempimento ai sensi dell’art.
226 CE o se comunque venga sospesa fino alla conclusione di tale procedimento,
quando manchi un rimedio giuridico interno efficace per costringere
lo Stato membro ad attuare una direttiva.
4.- Se il termine di prescrizione per una pretesa, fondata sul diritto comunitario,
di un risarcimento da parte dello Stato che si basa sull’insufficiente
attuazione di una direttiva e su un conseguente divieto (di fatto) di importazione,
cominci a decorrere, a prescindere dal diritto nazionale applicabile,
solo a partire dalla completa attuazione della direttiva oppure se il termine di
prescrizione possa cominciare a decorrere conformemente al diritto naziona-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 155
le già dal momento in cui si sono prodotti i primi effetti lesivi e ne sono prevedibili
altri. Qualora la completa attuazione di una direttiva dovesse avere
effetti sull’inizio del termine di prescrizione, se ciò valga in generale o soltanto
nei limiti in cui la direttiva conferisca un diritto ai singoli.
5.- Se, considerato che gli Stati membri non devono stabilire condizioni
per il risarcimento dei danni più sfavorevoli rispetto ad altre azioni che coinvolgono
solo il diritto interno, e che l’ottenimento di un risarcimento non deve
essere reso di fatto impossibile o oltremodo difficile, sussistano perplessità nei
confronti di una normativa nazionale, ai sensi della quale l’obbligo di risarcimento
non sorge quando la persona lesa ha dolosamente o colposamente omesso
di far valere il danno utilizzando le vie giudiziarie. Se suscitano perplessità
nei confronti di questo “primato della tutela di diritto primario” anche qualora
esso sia sottoposto alla condizione di poterselo ragionevolmente aspettare
dalla persona interessata. Se sia irragionevole aspettarselo già ai sensi del diritto
comunitario qualora il giudice adito non possa presumibilmente rispondere
alle questioni controverse di diritto comunitario senza un rinvio pregiudiziale
alla Corte di giustizia delle Comunità europee o qualora sia già pendente un
procedimento per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE.
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
« (...) Le condizioni sanitarie per la produzione e per la commercializzazione
nel mercato comunitario di carni fresche sono disciplinate dalla direttiva
64/433/CEE, successivamente modificata dalla direttiva 91/497/CEE al
fine di tener conto della soppressione dei controlli veterinari alle frontiere
interne della Comunità e per rafforzare le garanzie sanitarie nello Stato membro
di origine, come disposto con la direttiva 89/662/CEE relativa ai controlli
veterinari applicabili negli scambi intracomunitari, nella prospettiva della
realizzazione del mercato interno.
Ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett o) della direttiva 64/433/CEE non sono idonee
al consumo umano le carni che presentino un intenso odore sessuale. A
norma del successivo art. 6, n. 1, lett. b), punto iii), eccettuato il predetto
caso, le carni di suini maschi non castrati di peso, espresso in carcassa, superiore
a 80 kg, sono munite di un bollo speciale e sono sottoposte a un trattamento
termico. Ai sensi della lettera g) del citato articolo, i trattamenti e i
controlli sanitari sono effettuati nello stabilimento di origine.
Conformemente all’art. 5 della direttiva 89/662/CEE, le competenti
autorità degli Stati membri possono, nei luoghi di destinazione della merce,
verificare, tramite controlli veterinari per sondaggio non discriminatori e
prelievi a campione, il rispetto dei requisiti previsti dall’art. 3 (marcatura,
etichettatura, certificato sanitario ecc.) verificati in via generale dagli stabilimenti
d’origine.
Ai sensi del successivo art. 7, se in occasione di un controllo effettuato
nel luogo di destinazione, la competente autorità constata che la merce non
soddisfa le condizioni previste dalle direttive comunitarie può lasciare allo
speditore la scelta tra la distruzione della merce, la sua utilizzazione ad altri
fini o la sua rispedizione allo stabilimento di origine.
156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’art. 8 della predetta direttiva prevede poi una procedura diretta a risolvere
le difficoltà derivanti dalle eventuali differenze che possono sussistere
tra i metodi utilizzati dagli Stati membri nei controlli sanitari. In base a tale
procedura, la Commissione verifica il metodo che fa sorgere dei dubbi,
mediante un’ispezione o incaricando un veterinario ufficiale, e il risultato di
detta verifica è vincolante per gli Stati membri interessati.
La Germania, con note del 18 e 26 gennaio 1993, ha comunicato che
avrebbe trasposto le predette direttive nel diritto nazionale – il regolamento
sull’igiene delle carni del 7 novembre 1991, come modificato il 27 aprile
1993 (Fleischhygieneverordnung – FlHV) – in modo da fissare un valore
massimo dell’ormone androsterone indipendentemente dal peso della carcassa
e stabilendo che, in caso di superamento di detto valore, la carne sarebbe
stata considerata inidonea al consumo umano per il suo intenso odore sessuale
e non avrebbe potuto essere esportata verso la Germania come carne fresca.
Nelle predette note, la Germania precisava inoltre che i lotti di carne
suina, indipendentemente dal bollo che ne attesta la salubrità, sarebbero stati
esaminati nel luogo di destinazione per verificare il rispetto del valore limite
dell’ormone e, in caso di superamento, sarebbero stati contestati e rispediti
indietro.
Con la sentenza del 12 novembre 1998, causa C-102/96, Commissione/
Germania, la Corte di giustizia ha accertato la violazione, da parte
della Germania, degli obblighi imposti dalle due predette direttive, avendo
previsto un valore limite indipendentemente dal peso della carcassa, avendo
stabilito una verifica sistematica nel luogo di destinazione in violazione del
principio secondo il quale la regola delle verifiche all’origine implica una
maggiore fiducia nei controlli veterinari eseguiti dallo Stato speditore (sesto
considerando della direttiva 89/662/CEE) e avendo pretermesso la procedura
di cui all’art. 8 della citata direttiva, prevedendo un procedimento unilaterale
di contestazione che non contempla alcun tentativo di accordo bonario
con l’autorità dello Stato speditore, né l’intervento dirimente della
Commissione.
A seguito di tale sentenza, l’associazione ricorrente ha proposto una
domanda di risarcimento del danno subito dal 1993, epoca di adozione delle
predette note poi recepite nella modifica del FlHV, sino al 1999, data in cui
il FlHV è stato ulteriormente modificato in modo conforme alle predette
direttive, per effetto dell’interruzione dell’esportazione di suini maschi non
castrati e dei conseguenti maggiori costi di produzione sostenuti per l’allevamento
e la macellazione di suini castrati.
Ciò premesso, il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che
dalle predette direttive non derivino diritti per i produttori e i commercianti
di carni suine che consentano loro di azionare il risarcimento del danno nei
confronti dello Stato membro che abbia violato le medesime direttive.
Com’è noto, sin dalla sentenza Francovich del 19 novembre 1991, cause
riunite C-6/90 e C-9/90, è stato affermato che il principio della responsabilità
dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunita-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 157
rio ad esso imputabili è da considerare inerente al sistema del Trattato in
quanto, pur non essendo espressamente previsto, trova il suo fondamento
nell’art. 5 del Trattato (attuale art. 10), in forza del quale gli Stati membri
sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte
ad assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario,
tra i quali, quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione
del diritto comunitario.
Classico esempio di violazione da parte degli Stati del diritto comunitario
è la mancata o tardiva trasposizione di una direttiva, obbligo imposto dall’art.
249 del Trattato, in base al quale la direttiva vincola lo Stato membro
cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la
competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
Mancando peraltro nel Trattato disposizioni che disciplinino in modo
diretto e puntuale le conseguenze delle violazioni del diritto comunitario da
parte degli Stati membri, la Corte di giustizia, nella sentenza del 5 marzo
1996, Brasserie du Pêcheur e Factortame, cause riunite C-46/93 e 48/93, ha
affermato che spetta proprio alla Corte – nell’espletamento del compito conferitole
dall’art. 164 del Trattato (ora art. 220) di garantire l’osservanza del
diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato – statuire su tale
questione avvalendosi dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico
comunitario e, se necessario, dei principi generali comuni agli ordinamenti
giuridici degli Stati membri.
Del resto, è proprio a tali ultimi principi che l’art. 215 del Trattato (ora
art. 288) fa rinvio in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità
per danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle
loro funzioni. In proposito, osserva la Corte, che in un gran numero di ordinamenti
giuridici nazionali, il regime giuridico della responsabilità dello
Stato è stato elaborato, in maniera determinante, in via giurisprudenziale.
Ciò detto, la Corte, nella sentenza del 10 luglio 1997, Palmisani, causa
C-261/95, ha confermato, nel solco già tracciato dalle citate sentenze
Francovich e Brasserie du Pêcheur e Factortame, che le condizioni alle
quali uno Stato membro è tenuto a risarcire i danni provocati sono tre: che la
norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di una
violazione sufficientemente caratterizzata, grave e manifesta e che esista un
nesso di causalità diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato
e il danno subito dai soggetti lesi.
Orbene, nella fattispecie, a differenza di quanto accaduto per le sentenze
Francovich e Palmisani, aventi entrambe ad oggetto la tardiva trasposizione
della direttiva 80/987/CEE relativa alla tutela dei lavoratori salariati in caso di
insolvenza del datore di lavoro, non può ritenersi che le direttive 64/433/CEE
e 89/662/CEE conferiscano diritti ai singoli cittadini della Comunità, limitandosi
ad imporre dei vincoli agli Stati membri per armonizzare le norme dirette
a risolvere i problemi sanitari che si pongono in materia di produzione e di
immissione sul mercato di carni fresche destinate al consumo umano, introducendo
un sistema fondato sulla fiducia reciproca tra gli Stati per quel che concerne
i controlli veterinari effettuati sui rispettivi territori.
158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In sostanza tali controlli, che prima venivano praticati alle frontiere
interne degli Stati membri, sono spostati nel paese di origine delle carni fresche,
riservando agli Stati destinatari della merce solo una verifica eventuale
e a campione, sul presupposto dell’equivalenza delle garanzie sanitarie
poste in tutti gli Stati membri, tali da assicurare, allo stesso tempo, la tutela
della salute e la parità di trattamento dei prodotti.
Nel secondo, terzo e quarto considerando della direttiva 64/433/CEE,
viene infatti enunciato l’intento di eliminare le disparità esistenti negli Stati
membri in materia di prescrizioni sanitarie nel settore delle carni, al fine di
favorire gli scambi intracomunitari.
Da quanto sopra, si evince chiaramente che entrambe le direttive in questione
non sono volte a costituire diritti per i singoli bensì a promuovere un
funzionamento armonioso dei controlli sanitari sui prodotti animali nella
prospettiva della realizzazione del mercato interno.
Quanto al carattere manifesto della violazione, la giurisprudenza della
Corte di giustizia ha precisato che, perché tale condizione sia soddisfatta,
occorre tener conto del grado di chiarezza e di precisione della norma violata,
il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità
dell’errore di diritto, la persistenza della violazione anche dopo che questa
sia stata accertata a seguito di un procedimento di infrazione (sentenza del
30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler).
In proposito, non può ritenersi che la violazione delle direttive in questione
da parte della Germania possa assumere un carattere grave e manifesto,
tenuto conto della giustificazione addotta nell’invocare la norma del
Trattato (art. 30) che consente di introdurre restrizioni alle importazioni per
tutelare la salute e la vita delle persone e degli animali.
Inoltre, subito dopo la sentenza della Corte di giustizia (del 1998) che ha
accertato l’esistenza della violazione, la Germania ha modificato la propria
normativa (nel 1999) al fine di renderla conforme ai principi contenuti nelle
citate direttive.
Infine, sebbene la giurisprudenza della Corte abbia precisato che il
danno può consistere anche nel lucro cessante (citata sentenza Brasserie du
Pêcheur e Factortame) non può ritenersi che sussista un nesso di causalità
diretto tra la violazione del diritto comunitario e il danno asseritamente
riportato dalla ricorrente posto che la Germania non ha posto un espresso
divieto di importazione di suini maschi non castrati ma è stata la ricorrente
che ha gradualmente modificato le proprie esportazioni verso la Germania
iniziando a macellare suini castrati.
Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che i produttori
e commercianti di carni non possano lamentare la violazione dell’art.
30 del Trattato (attuale art. 28) che vieta le restrizioni quantitative all’importazione
nonché qualsiasi misura di effetto equivalente, al fine di ottenere il
risarcimento del danno da parte dello Stato che abbia attuato in maniera non
fedele le richiamate direttive comunitarie.
Invero, la citata sentenza 12 novembre 1998, causa C-102/96,
Commissione /Germania ha precisato che, se è vero che l’art. 36 del Trattato
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 159
(attuale art. 30) consente di mantenere delle restrizioni alla libera circolazione
delle merci giustificate da motivi di tutela della salute e della vita delle
persone e degli animali, le quali costituiscono esigenze fondamentali riconosciute
dal diritto comunitario – invocate dalla Germania a sostegno della propria
scelta normativa – l’applicazione di tale disposizione deve essere esclusa
laddove direttive comunitarie prevedano l’armonizzazione delle misure
necessarie alla realizzazione dello specifico obiettivo perseguito mediante il
ricorso all’art. 36.
Ciò detto, va ricordato che la citata sentenza Brasserie du Pêcheur e
Factortame aveva ad oggetto, per la prima delle due cause riunite, proprio
una restrizione all’esportazione di birra in Germania, da parte della società
francese la Brasserie du Pêcheur, in quanto non conforme ai requisiti di
genuinità prescritti dalla normativa nazionale tedesca.
In proposito, va ricordato che, mentre la citata sentenza della Corte del
12 novembre 1998 che ha accertato la violazione delle direttive comunitarie
64/433/CEE e 89/662/CEE da parte della Repubblica federale di Germania
non si è pronunciata in ordine alla configurazione del comportamento del
predetto Stato membro quale violazione dell’art. 30 (ora 28) del Trattato,
come evidenziato dal giudice del rinvio, nella sentenza del 12 marzo 1987,
causa C-178/84, Commissione/Germania, la Corte ha accertato che la restrizione
all’esportazione di birra verso la Germania, da parte della società la
Brasserie du Pêcheur, integrasse proprio una violazione dell’art. 30 (ora 28)
del Trattato, in assenza di una normativa comunitaria di armonizzazione.
È evidente allora come, nella successiva sentenza del 5 marzo 1996,
Brasserie du Pêcheur e Factortame, la Corte abbia accertato il diritto al
risarcimento del danno per violazione dell’art. 30 (ora 28) del Trattato, ritenendo
che al divieto posto agli Stati da tale norma primaria, corrispondesse
un diritto per i singoli da tutelare.
Nel caso di specie, invece, esisteva una ben precisa normativa di armonizzazione,
le delibere 64/433/CEE e 89/662/CEE – dalle quali, come si è
detto, non derivano però diritti per i singoli – e pertanto solo in relazione a
tale normativa va valutata la domanda risarcitoria.
In proposito, va ricordato che la Corte ha chiaramente affermato che,
qualora direttive comunitarie prevedano l’armonizzazione delle misure
necessarie per garantire la tutela degli interessi tutelati dagli artt. 30-36 del
Trattato, ogni misura nazionale relativa a tale materia deve essere valutata
con riguardo alle disposizioni della direttiva pertinente e non alla luce del
diritto primario (sentenza 11 luglio 1996, C-436/93, Bristol-Myers Squibb,
punto 25; sentenza 12 ottobre 1993, C-37/92, Vanacker e Llesage, punto 9).
Vista la risposta negativa ai primi due quesiti, sarebbe superflua la risposta
agli altri ma si ritiene comunque di rispondere ai quesiti concernenti la
prescrizione del diritto al risarcimento del danno per violazione della normativa
comunitaria data la rilevanza di massima della questione.
Circa il terzo quesito, il Governo italiano ritiene che la prescrizione della
pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello
Stato non sia interrotta, né sospesa per effetto di un procedimento per ina-
160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dempimento e sino alla conclusione dello stesso, tranne il caso di un’azione
tempestivamente iniziata, la cui decisione venga sospesa dal giudice adito in
attesa dell’esito del procedimento di infrazione.
Preliminarmente, va osservato che non essendo disciplinato, come si è
detto, dal diritto comunitario il risarcimento dei danni degli Stati membri per
violazione del diritto comunitario, non vi è nemmeno alcuna previsione positiva
che preveda un termine di prescrizione per esercitare tale diritto.
In via di principio, un termine di prescrizione, onde adempiere alla sua
funzione di garantire la certezza del diritto, dovrebbe essere fissato previamente
dal legislatore comunitario.
In mancanza, la giurisprudenza del Tribunale di primo grado ha ritenuto
non estensibile analogicamente il termine di prescrizione previsto da altre
norme comunitarie, come ad esempio l’art. 43 (ora 46) dello Statuto della
Corte di giustizia che stabilisce il termine di prescrizione di cinque anni per
l’azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti della Comunità
(sentenza 15 settembre 1998, cause riunite T-126/96 e T-127/96, BFM e
EFIM/ Commissione).
Come si è detto, l’art. 215 del Trattato (ora art. 288) fa rinvio, in tema di
responsabilità extracontrattuale della Comunità per danni cagionati dalle sue
istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni, ai principi fondamentali
dell’ordinamento giuridico comunitario e, se necessario, dei principi
generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri.
Correttamente, quindi, il giudice del rinvio ha ritenuto di applicare la
normativa tedesca in materia di prescrizione ed in particolare quella in materia
di responsabilità amministrativa – che prevede un termine triennale – che
più può accostarsi, in assenza di un’espressa disciplina, alla responsabilità
dello Stato membro per violazione del diritto comunitario.
Quanto alla decorrenza del termine di prescrizione non si ritiene che la
stessa possa iniziare solo a partire dal momento della corretta trasposizione
della direttiva nel diritto comunitario. Tale principio, affermato nel caso specifico
della sentenza Emmott (del 25 luglio 1001, causa C-208/90) è stato più
volte disatteso, successivamente dalla stessa Corte (sentenze 27 ottobre
1993, causa C-338/91, Steenhorst-Neerings; 6 dicembre 1994, causa C-
410/92, Johnson; 17 luglio 1997, cause riunite C-114/95 e C-115/95 Texaco
e Olieselskabet Danimarca) in quanto, nel precedente citato, la soluzione era
giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza
dai termini avrebbe comportato la totale privazione per la ricorrente di far
valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù della direttiva non trasposta.
Né può ritenersi che la decorrenza della prescrizione possa essere interrotta
dalla instaurazione del procedimento di inadempimento da parte della
commissione, dovendo comunque l’atto interruttivo provenire dalla parte
che ha interesse a far valere il diritto risarcitorio.
Al più, il termine di prescrizione potrà rimanere sospeso, ove l’azione
risarcitoria sia stata tempestivamente intentata dal danneggiato, sino all’esito
del procedimento di infrazione, ove il giudice adito ritenga di attendere
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 161
tale decisione per valutare l’esistenza e la portata della violazione del diritto
comunitario.
Circa il quarto quesito, il Governo italiano ritiene che la prescrizione
della pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte
dello Stato che si basa sull’insufficiente attuazione di una direttiva cominci
a decorrere dal momento in cui si sono prodotti i primi effetti lesivi e ne sono
prevedibili altri e non dalla completa attuazione della direttiva.
In proposito, il giudice del rinvio ritiene che, data l’incertezza, sino alla
sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame del 5 marzo 1996, circa la risarcibilità
del danno per violazione del diritto comunitario qualora la violazione
sia riconducibile all’organo legislativo dello Stato membro, la decorrenza
della prescrizione, nel caso di specie, non potrebbe decorrere che a seguito di
un ragionevole spatium deliberandi di tre mesi successivi a detta sentenza.
Seguendo tale tesi, il diritto della ricorrente, azionato a fine 1999,
sarebbe comunque prescritto. Tuttavia, si ritiene che, in linea generale, tale
tesi non possa essere condivisa, dovendosi ritenere ormai acquisito, sin
dalla sentenza Francovich del 1991, il principio della risarcibilità del
danno per violazione del diritto comunitario, a prescindere dalla natura del
potere, esecutivo, legislativo o giudiziario al quale tale violazione sia
riconducibile, attesa l’unicità dello Stato (tale principio è stato successivamente
confermato dalla citata sentenza Köbler del 2003 con riferimento al
potere giudiziario).
Si ritiene quindi che la prescrizione inizi a decorre dal momento in cui
la violazione del diritto comunitario da parte dello Stato membro abbia iniziato
a produrre gli effetti lesivi nella sfera del danneggiato.
In proposito, va segnalato che la giurisprudenza italiana, in relazione
al folto contenzioso instaurato a seguito della mancata tempestiva attuazione
della direttiva 82/1976/CEE, che ha stabilito i requisiti minimi del corso
che il medico specializzando deve frequentare, con conseguente adeguata
remunerazione, prescrivendo agli Stati membri di adottare le misure necessarie
per conformarsi entro il 31 dicembre 1982, ha sempre ritenuto di
applicare il termine di prescrizione quinquennale decorrente dall’annualità
del corso frequentata, a prescindere dalla data in cui la Corte di Giustizia,
con sentenza 7 luglio 1987, causa 49/1986, ha accertato l’inadempimento
dello Stato italiano.
Successivamente, lo Stato italiano ha adottato il Decreto legislativo 8
agosto 1991 n. 257 con il quale ha istituito una borsa di studio a favore dei
medici specializzandi a decorrere dall’anno accademico 1991/92, con
esclusione dei medici che avevano cominciato il corso dal 1 gennaio 1983
(termine contenuto dalla direttiva per la sua trasposizione negli ordinamenti
nazionali).
Per questi ultimi, il decorso della prescrizione è stato stabilito dalla giurisprudenza
italiana nella data del provvedimento legislativo che ha sostanzialmente
negato la loro pretesa (1991), a prescindere dalla successiva sentenza
della Corte di giustizia del 25 febbraio 1999, causa C-131/97,
Carbonari che ha affermato la non corretta trasposizione della direttiva.
162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In ogni caso, deve osservarsi che, secondo la giurisprudenza comunitaria,
non è precluso ad uno Stato membro di opporre alle pretese dei singoli
fondate sul diritto comunitario, termini nazionali di decadenza o di
prescrizione, il cui decorso prescinda dalla considerazione del fatto che,
alla data in cui la pretesa poteva essere fatta valere, la direttiva che fondava
tale pretesa non era stata ancora correttamente attuata nell’ordinamento
nazionale.
Detto principio è stato enunciato dalla Corte di giustizia nella causa C-
231/1996 nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la richiesta di
rimborso di una tassa di concessione di governativa per l’iscrizione delle
società nel registro delle imprese.
La Corte ha infatti affermato che il diritto comunitario non vieta ad uno
Stato membro di opporre, alle azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione
di una direttiva, un termine nazionale di decadenza che decorra dalla
data del pagamento dei tributi di cui si tratta, anche se, a tale data, la direttiva
non era stata ancora correttamente attuata nell’ordinamento nazionale.
Vista la risposta negativa al terzo e quarto quesito, non si ritiene necessario
rispondere al quinto quesito.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
affermando che, dalle direttive 64/433/CEE e 89/662/CEE, non derivano
diritti per i produttori e i commercianti di carni suine che consentano loro
di azionare il risarcimento del danno nei confronti dello Stato membro che
abbia violato le medesime direttive.
Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo
quesito affermando che i produttori e commercianti di carni non possano
lamentare la violazione dell’art. 30 del Trattato (attuale art. 28) che vieta
le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura d’effetto
equivalente, al fine di ottenere il risarcimento del danno da parte
dello Stato che abbia attuato in maniera non fedele le richiamate direttive
comunitarie.
Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il terzo quesito
affermando che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario,
di un risarcimento da parte dello Stato non sia interrotta, né sospesa
per effetto di un procedimento per inadempimento e sino alla conclusione
dello stesso, tranne il caso di un’azione tempestivamente iniziata, la cui
decisione venga sospesa dal giudice adito in attesa dell’esito del procedimento
di infrazione.
Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il quarto quesito
affermando che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario,
di un risarcimento da parte dello Stato che si basa sull’insufficiente
attuazione di una direttiva cominci a decorrere dal momento in cui si sono
prodotti i primi effetti lesivi e ne sono prevedibili altri e non dalla completa
attuazione della direttiva.
Vista la risposta negativa ai precedenti quesiti, non si ritiene necessario
rispondere al quinto quesito.
Roma, 2 marzo 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 163
Causa C-460/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Art. 10 della
direttiva 92/85/CEE – Notifica, dopo il periodo di tutela, di licenziamento
(non estraneo a maternità e a nascita di un figlio) – Direttiva
del Consiglio 76/207/CEE sulla parità di trattamento tra uomini e donne
-Ordinanza del 6 novembre 2006, depositata il 17 novembre 2006 del
Tribunal du Travail Bruxelles – Belgio (cs. 9237/07, avv. dello Stato W.
Ferrante).
IL FATTO
La ricorrente, dipendente di uno studio di architettura dal 1987, è stata
in congedo di maternità da settembre 1995 alla fine di dicembre 1995. Il congedo
di maternità scadeva il 31 dicembre 1995 e il periodo di tutela contro il
licenziamento scadeva il 31 gennaio 1996. La dipendente è stata licenziata
con lettera del 21 febbraio 1996 con preavviso di 6 mesi a far data dal 1°
marzo 1996.
La decisione di licenziare la dipendente è stata però presa ed attuata
prima della scadenza del periodo di tutela contro il licenziamento; infatti la
società convenuta, già durante la gravidanza e durante il congedo per maternità,
aveva fatto pubblicare due annunci sul giornale per sostituire definitivamente
la dipendente, precisando, nel rispondere ad una candidata, che il
posto sarebbe stato vacante da metà settembre 1995 a gennaio 1996 e successivamente
da agosto 1996, corrispondente alla scadenza del preavviso di
6 mesi notificato alla ricorrente al termine del periodo di tutela.
I motivi del licenziamento forniti dalla società, generici ed indimostrati,
inducono il giudice del rinvio ad ipotizzare che il licenziamento non sia
estraneo alla gravidanza ed alla nascita del figlio della ricorrente.
I QUESITI
1.- Se l’art. 10 della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE,
concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento
della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o
in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo
16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE), debba essere interpretato nel
senso che esso vieta unicamente di notificare una decisione di licenziamento
durante il periodo definito al suo n. 1, o nel senso che esso vieta anche di
prendere una tale decisione e di predisporre la sostituzione definitiva della
lavoratrice prima che il periodo di tutela sia terminato.
2.- Se il licenziamento notificato dopo il periodo di tutela di cui all’art. 10
della direttiva 92/85, ma non estraneo alla maternità e/o alla nascita di un figlio,
sia contrario all’art. 2, n. 1 (ovvero all’art. 5 n. 1) della direttiva del Consiglio
9 febbraio 1976/, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità
di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro,
alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro e,
in tal caso, se la sanzione debba essere almeno equivalente a quella che il diritto
nazionale prevede in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85.
164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA
«Ai sensi dell’art. 40 della legge belga sul lavoro 16 marzo 1971, il datore
di lavoro di una lavoratrice incinta non può compiere “atti che pongano
unilateralmente fine al rapporto” da quando è stato informato della gravidanza
fino ad un mese dopo la scadenza del congedo di maternità, se non per
motivi estranei alla condizione di gestante.
Tale atto deve essere interpretato, secondo i lavori preparatori, come
“atto giuridico” e quindi richiede una notifica alla lavoratrice e non una mera
decisione di licenziarla, evincibile da un concreto intento di sostituirla a
tempo indeterminato.
Dal canto suo, l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE vieta il licenziamento
delle lavoratici gestanti, puerpere e che allattano nel periodo compreso tra
l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, che, a norma
dell’art. 8 della medesima direttiva, deve essere di almeno quattordici settimane,
di cui almeno due settimane di congedo obbligatorio.
Ciò premesso, il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che
l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE debba essere interpretato nel senso che
esso vieta non solo di notificare una decisione di licenziamento durante il
periodo di gravidanza, puerperio o allattamento ma anche di prendere una
tale decisione e di predisporre la sostituzione definitiva della lavoratrice
prima che il periodo di tutela sia terminato.
Va ricordato che l’art. 137, comma 1, lettera i) del Trattato prevede il
sostegno della Comunità all’azione degli Stati membri nel settore della parità
tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del
lavoro ed il trattamento sul lavoro. Più in dettaglio, l’art. 141 del Trattato
dispone l’adozione di misure che assicurino l’applicazione del principio
delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in
materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle
retribuzioni.
La Commissione, nel suo programma di azione per l’applicazione della
Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata il 9
dicembre 1989 dal Consiglio europeo di Strasburgo, ha fissato tra gli obiettivi
quello dell’adozione da parte del Consiglio di una direttiva riguardante
la protezione sul lavoro della donna gestante.
È stata quindi adottata la direttiva 92/85/CEE che, al suo ottavo considerando,
prevede che le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento
debbano essere considerate sotto molti punti di vista come un “gruppo
esposto a rischi specifici” ai sensi della direttiva 89/391/CEE concernente
il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il
lavoro, con conseguente necessità di adottare nei loro confronti misure volte
alla protezione della loro sicurezza e salute.
In particolare, al quindicesimo considerando, la predetta direttiva
92/85/CEE osserva che il rischio di essere licenziate per motivi connessi al
loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici
gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, con conseguente opportunità
di contemplare un divieto di licenziamento nel periodo compreso tra
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 165
l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, come appunto
disposto dall’art.10 della medesima direttiva, tranne in casi eccezionali
non connessi al loro stato, con obbligo del datore di lavoro di fornire per
iscritto giustificati motivi per il licenziamento.
L’incidenza dell’eventuale licenziamento sullo stato fisico e psichico
delle lavoratrici gestanti può giungere fino al rischio particolarmente grave
di indurre queste ultime ad interrompere volontariamente la loro gravidanza
ed al fine di scongiurare una tale eventualità il legislatore comunitario ha
previsto, per mezzo del predetto art. 10, una tutela particolare a favore di tali
lavoratrici, sancendo un divieto temporaneo di licenziamento nel richiamato
periodo di tempo (Corte di giustizia, sentenza del 4 ottobre 2001, causa C-
109/00, Tele Danmark, punto 26).
Conformemente alla giurisprudenza della Corte, inoltre, il danno economico
subito dal datore di lavoro o le esigenze di buon funzionamento dell’impresa
non possono giustificare il licenziamento di una lavoratrice gestante,
dovendo il datore di lavoro assumersi il rischio delle ripercussioni economiche
e organizzative derivanti dallo stato interessante delle proprie dipendenti
(Corte di Giustizia, sentenza Tele Danmark cit., punto 23).
Da quanto sopra, si evince chiaramente che l’intento perseguito dal
legislatore comunitario è quello di apprestare una tutela concreta e reale alla
maternità, evitando che le misure poste a garanzia della salute psico-fisica
della donna possano essere aggirate con comportamenti che integrino
comunque una discriminazione diretta o indiretta a causa della gravidanza.
La parità fra uomini e donne costituisce peraltro un principio fondamentale
del diritto comunitario, sancito dagli articoli 2 e 3, comma 2 del Trattato,
che si propone appunto di eliminare le ineguaglianze.
Gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
vietano anch’essi qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e sanciscono
il diritto alla parità di trattamento fra uomini e donne in tutti i campi, ed
anche in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che
qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla
gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata
sul sesso (sentenza 8 novembre 1990, causa C-179/88, Hertz, punto 13).
Pertanto, il divieto di notificare il licenziamento durante il periodo di
tutela non può che ricomprendere anche il divieto di porre in essere atti inequivoci
volti a predisporre tutte le condizioni per una sostituzione definitiva
della lavoratrice gestante al termine del periodo di tutela.
Nella fattispecie in esame, la notifica del licenziamento dopo il predetto
termine costituisce un evidente escamotage per rispettare il divieto nella
forma contravvenendo però allo stesso nella sostanza.
Il datore di lavoro, attivandosi concretamente per cercare un sostituto
della lavoratrice sin dal momento in cui ha avuto notizia della sua gravidanza,
facendo pubblicare annunci sul giornale in relazione al posto dalla stessa
occupato e chiarendo in seguito che tale posto si sarebbe definitivamente
reso vacante in coincidenza con la scadenza del periodo di tutela contro il
166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
licenziamento, persegue esattamente lo scopo vietato dalla direttiva che è
quello di licenziare la lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza o
della nascita del figlio.
Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che il
licenziamento notificato dopo il periodo di tutela di cui all’art. 10 della direttiva
92/85, ma non estraneo alla maternità o alla nascita di un figlio, è contrario
sia all’art. 2, n. 1, sia all’art. 5 n. 1 della direttiva 76/207/CEE, relativa
all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le
donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione
professionali e le condizioni di lavoro e, in tal caso, la sanzione deve
essere almeno equivalente a quella che il diritto nazionale prevede in esecuzione
dell’art. 10 della direttiva 92/85.
In base al terzo considerando della predetta direttiva 76/207/CEE, la
parità di trattamento tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile
costituisce uno degli obiettivi della Comunità in quanto si tratta in
particolare di promuovere la parificazione nel progresso delle condizioni di
vita e di lavoro della manodopera.
In particolare, l’art. 2, comma 1 della predetta direttiva dispone che il
principio di parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione
fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante
riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia.
L’art. 5, comma 1, dal canto suo, specifica che il principio di parità di
trattamento comprende le condizioni inerenti al licenziamento, che debbono
essere disciplinate senza alcuna discriminazione fondata sul sesso.
Va ricordato che la predetta direttiva è stata abrogata, con decorrenza 15
agosto 2009, dalla direttiva 5 luglio 2006 n. 2006/54/CEE (art.34), riguardante
l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento
fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, che, al suo
ventiquattresimo considerando, ricorda che la Corte di giustizia ha costantemente
riconosciuto la legittimità, per quanto riguarda il principio di parità di
trattamento, della protezione della condizione biologica della donna durante
la gravidanza e la maternità nonché dell’introduzione di misure di protezione
della maternità come strumento per garantire una sostanziale parità.
L’esigenza di una tutela sostanziale implica che la decisione preordinata
del licenziamento durante il periodo di tutela, sebbene la formale notifica sia
avvenuta dopo, come nel caso di specie, non solo viola la norma specifica di
cui all’art. 10 della direttiva 92/85/CEE ma altresì i citati articoli 2 n. 1 e 5
n. 1 della direttiva 76/207/CEE, trattandosi di un licenziamento palesemente
avvenuto a causa della gravidanza o della nascita del figlio.
Va inoltre sottolineato che, ai sensi del comma 7 del predetto art. 2, alla
fine del periodo di congedo per maternità, la donna ha diritto di riprendere il
proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non
le siano meno favorevoli e a beneficiare di eventuali miglioramenti delle
condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza.
Quindi, se la donna non può essere pregiudicata nella qualità delle proprie
mansioni per effetto della gravidanza, avendo diritto a riprendere lo stes-
IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 167
so lavoro o un posto equivalente, a maggior ragione la gravidanza non può
costituire valido motivo per la perdita del lavoro.
Quanto alla sanzione per il licenziamento illegittimo, si osserva che l’art.
6 della direttiva 76/207/CEE, come modificato dall’art. 1 della direttiva
2002/73/CE, dispone espressamente che gli Stati membri introducono nei
rispettivi ordinamenti le misure necessarie per garantire un indennizzo o una
riparazione reale ed effettiva che essi stessi stabiliscono per il danno subito
da una persona lesa a causa di una discriminazione contraria all’art. 3 – che
contempla anche le discriminazioni relative alle condizioni di lavoro, comprese
le condizioni di licenziamento - in modo da risultare dissuasiva e proporzionata
al danno subito.
Orbene, mentre l’art. 40 della legge belga 16 marzo 1971, attuativa della
direttiva 92/85/CEE, prevede espressamente che, in caso di licenziamento
illegittimo, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere alla lavoratrice un’indennità
forfetaria pari alla remunerazione lorda per sei mesi, la legge belga
4 agosto 1978, attuativa della direttiva 76/207/CEE non prevede alcuna specifica
sanzione per il trattamento discriminatorio tra uomo e donna.
Ciononostante, se tale sanzione, ai sensi del citato art. 6 della direttiva
76/207/CEE deve essere “reale ed effettiva” e non meramente simbolica, la
stessa deve essere almeno equivalente a quella prevista dal diritto nazionale
in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85/CEE.
Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito
affermando che l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE debba essere interpretato
nel senso che esso vieta non solo di notificare una decisione di licenziamento
durante il periodo di gravidanza, puerperio o allattamento ma
anche di prendere una tale decisione e di predisporre la sostituzione definitiva
della lavoratrice prima che il periodo di tutela sia terminato.
Il Governo Italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo
quesito affermando che il licenziamento notificato dopo il periodo di tutela
di cui all’art. 10 della direttiva 92/85, ma non estraneo alla maternità o alla
nascita di un figlio, è contrario sia all’art. 2, n. 1, sia all’art. 5 n. 1 della
direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di
trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro,
alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro
e, in tal caso, la sanzione deve essere almeno equivalente a quella che il
diritto nazionale prevede in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85.
Roma, 19 marzo 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante».
168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Governo del territorio e valorizzazione dei beni
culturali come prerogativa statale:
i confini della Regione
(Corte Costituzionale, sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006 n. 182)
La Corte Costituzionale si è di recente pronunciata, con la sentenza n.
182 del 20 aprile 2006, sulla controversia relativa alla legittimità dell’intervento
legislativo della Regione Toscana nell’ambito della disciplina concernente
la tutela del paesaggio ed il governo del territorio, argomentando in
relazione alle competenze di Stato e Regione sul piano legislativo ed amministrativo,
nonché in riferimento alle reciproche interferenze.
In particolare, la norma sancita dall’art. 32, comma 3, della legge della
Regione Toscana 3 gennaio 2005 n. 1 è stata prospettata come violativa dell’art.
117, lettera s, della Costituzione, oltre che dei principi fondamentali sul
“governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali” recati dal
Codice dei beni culturali e del paesaggio, contenuto nel decreto legislativo
del 22 gennaio 2004, n. 42; anche in relazione all’art. 34, comma 3, appartenente
al contestato apparato normativo di elaborazione regionale è stato prospettato
il contrasto con i principi dinanzi enunciati; da ultimo, il disposto
dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana 1/2005, è stato
ritenuto integrante la violazione dell’art. 117, lettere l e m, della
Costituzione.
In sostanza, la pronuncia del Giudice di legittimità costituzionale è articolata
nel senso di delineare la potestà esclusiva dello Stato relativamente
alle materie di tutela dell’ambiente e dei beni culturali, prospettando la competenza
legislativa regionale concorrente in riferimento all’ambito di valorizzazione
dei beni culturali stessi: spetta allo Stato il potere di fissare principi
di tutela uniformi sul territorio nazionale, laddove le leggi regionali,
emanate nell’esercizio di potestà concorrenti, possono attenere al settore
della tutela ambientale, purché nel rispetto delle regole uniformi fissate dallo
Stato.
I L C O N T E N Z I O S O
N A Z I O N A L E
170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La questione di legittimità costituzionale veniva sollevata con ricorso
del Presidente del Consiglio dei Ministri, notificato in data 10 marzo 2005 e
depositato il 15 marzo 2005, su conforme deliberazione del Consiglio dei
Ministri in data 4 marzo 2005.
Per ciò che concerne la prima delle questioni indicate, relativa alla
riscontrata illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 3, della legge
regionale impugnata, il ricorrente rilevava come la disposizione normativa
de quo richiamasse, nella sua prima parte, la disciplina del Codice dei beni
culturali e del paesaggio riguardo all’individuazione dei beni paesaggistici,
precisando che gli immobili e le aree dichiarate di notevole interesse pubblico
sono comprese negli statuti dei piani regionali, provinciali e comunali, a
seconda del rispettivo rilievo. Il comma 3, tuttavia, prevedeva esclusivamente
l’espletamento delle forme di pubblicità previste dall’art. 140, commi 2, 3
e 4, dello stesso Codice dei beni culturali, qualora l’entrata in vigore dei citati
strumenti urbanistici comportasse la modifica di vari atti e provvedimenti
previsti dal Codice stesso: in ordine a tale aspetto, la legge regionale risultava
elusiva dell’accordo Stato-Regione previsto dal Codice per gli adeguamenti
al piano paesaggistico elaborato d’intesa, ponendosi in contrasto con
la norma dell’art. 143 dello stesso decreto legislativo 42/2004. Siffatta disposizione
palesava, altresì, un’indebita interferenza dell’ente locale nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente,
dell’ecosistema e dei beni culturali, ai sensi dell’art. 117, lettera s, della
Costituzione, oltre a risultare in netto contrasto anche con i principi fondamentali
sanciti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio in tema di
“governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali”, con espresso
riferimento ai beni paesaggistici.
I principi fondamentali da ultimo menzionati, evincibili dalle disposizioni
del Codice dei beni culturali, risultavano, ad avviso del ricorrente,
altresì violati dall’art. 34, comma 3, della contestata legge di elaborazione
regionale. Il dettato legislativo della norma citata riservava allo statuto del
piano strutturale dei comuni l’indicazione delle aree nelle quali la realizzazione
di opere ed interventi consentiti richiedesse il preventivo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica di cui all’art. 87, l’indicazione delle aree
nelle quali non fosse richiesta l’autorizzazione per gli interventi, la cui
compatibilità venisse verificata contestualmente al rilascio del titolo edilizio
e l’indicazione delle aree compromesse o degradate nelle quali gli
interventi di recupero e riqualificazione non fossero affatto soggetti ad
autorizzazione.
In tale sede, secondo quanto argomentato dal ricorrente, la disciplina
regionale si poneva in contrasto con l’ordine gerarchico dei piani, secondo
cui la pianificazione territoriale deve sottostare a quella paesaggistica (art.
145 del Codice), con l’attribuzione al piano paesaggistico delle aree in cui
gli interventi debbano o meno essere assistiti da autorizzazione (art. 143,
comma 5, del Codice), e con l’esclusione di applicabilità dell’art. 143,
comma 5, qualora il piano paesaggistico non sia stato elaborato congiuntamente
da Stato e Regione.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 171
In ultimo, la rilevata illegittimità costituzionale dell’art. 105 della legge
1/2005 della Regione Toscana veniva riscontrata con riferimento ai prescritti
adempimenti procedurali finalizzati agli interventi in zona sismica, per i quali
veniva stabilita la trasmissione alla struttura regionale competente di un preavviso
scritto, con allegati progetto d’opera e relazioni tecniche, senza che per
iniziare i lavori fosse necessaria l’autorizzazione della struttura regionale.
I parametri legislativi statali con i quali è ravvisabile il contrasto della
norma enunciata, sono individuati nell’art. 18 della legge 3 febbraio 1974, n.
64, recante “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni
per le zone sismiche” e nel successivo d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo
Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prescriventi
la preventiva autorizzazione per gli interventi in zone sismiche, a
tutela dell’incolumità pubblica.
La disposizione dell’art. 105, comma 3, è reputata, sotto tale aspetto,
confliggente con la potestà legislativa statale in materia di ordinamento civile,
nonché di diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio
nazionale, ai sensi degli artt. 117, comma 2, lettere l e m, e 3 della
Costituzione.
La Regione Toscana si costituiva in giudizio, adducendo, in sostanza,
argomentazioni secondo le quali le norme contestate costituirebbero espressione
della potestà legislativa che l’art. 117 della Costituzione attribuisce alle
Regioni in materia di governo del territorio e valorizzazione dei beni ambientali,
ribadendo la conformità dell’apparato normativo regionale alla
legislazione statale vigente, in aderenza ad una corretta interpretazione dello
stesso. La problematica, nell’ottica del resistente, si appunterebbe quindi
sulla valutazione del rispetto dei principi e degli standard posti dalla legge
dello Stato, da parte della Regione, in materia di governo del territorio, valorizzazione
e tutela dei beni paesaggistici.
In particolare, la Regione Toscana argomentava la conformità delle
norme impugnate rispetto all’ordinamento giuridico statale rilevandone il
carattere eminentemente riproduttivo di statuizioni fondamentali: l’art. 32,
comma 2, si configura come disposizione aderente all’art. 144, comma 2, del
Codice dei beni culturali e del paesaggio, laddove l’elaborazione congiunta
di un piano paesaggistico, adottato d’intesa tra Stato e Regione (art. 143,
commi da 10 a 12) si configurerebbe come una mera facoltà, atta a produrre
effetti obbligatori soltanto se esercitata.
La difesa a fronte della dedotta incostituzionalità dell’art. 34, comma 3,
della legge Regione Toscana n. 1/2005, veniva, poi, articolata in forza dell’espressa
affermazione regionale del primato paesaggistico (art. 30 della
legge) e dell’asserita applicazione del principio di sussidiarietà che lega le
funzioni esercitate dal Comune alle attribuzioni di competenza regionale: la
Regione manterrebbe, in ogni caso, la scelta definitiva, giacché attraverso il
piano d’indirizzo territoriale dà le direttive ai Comuni per l’individuazione
delle aree da sottoporre a tutela ed esprime sulle scelte comunali parere vincolante
ai fini dell’efficacia. Sarebbe, in tale prospettiva, escluso il contrasto
con l’art. 143, comma 5, del Codice dei beni culturali.
172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La legittimità dell’art. 105 della legge 1/2005 veniva, da ultimo, ribadita
dalla Regione Toscana dinanzi alla Corte Costituzionale, alla luce della
legge 10 dicembre 1981, n. 741, il cui art. 20 concerne la semplificazione dei
procedimenti previsti dalla legge antisismica, consentendo alle Regioni di
prevedere con legge la non necessità dell’autorizzazione preventiva, organizzando
la vigilanza con modalità di controllo successivo a campione.
Orbene, la Corte ha accolto la questione di legittimità avanzata dal
Presidente del Consiglio dei Ministri, dichiarando l’incostituzionalità degli
articoli 32, comma 3, 34, comma 3 e 105, comma 3, della legge della Regione
Toscana 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio).
La Corte ha esplicato con estrema chiarezza e linearità il fulcro della
problematica sottoposta alla sua valutazione.
La disciplina relativa alla pianificazione paesaggistica, improntata all’unitarietà,
assurge a valore imprescindibile e, pertanto, non derogabile dal
legislatore regionale. Essa è espressione di una metodologia uniforme, posta
nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici inerenti
a tutto il territorio nazionale: l’ambiente è un valore suscettibile di essere
qualificato e rispettato in quanto primario, attraverso un intervento unitario
che prescinda dalla pluralità di interventi delle amministrazioni locali.
Lo Stato, in questi termini, fa valere la propria potestà legislativa eminente
in materia di ambiente e beni culturali, sancita dall’art. 117, comma 2, lettera
s, della Costituzione, oltre alla propria potestà di stabilire principi fondamentali
in materia di governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali (art.
117, comma 3, Cost.), ai quali le Regioni devono conformarsi nell’esercizio
delle proprie competenze, cooperando per una migliore tutela del paesaggio,
ma pur sempre nel rispetto dei parametri imposti dalla legislazione statale.
La pronuncia della Corte appare, in una molteplicità di passaggi, ricostruttiva
della logica sottesa alla regolamentazione conferita dal nostro ordinamento
giuridico alla materia dell’ambiente e dei beni culturali e permette, altresì,
di accedere ad una corretta interpretazione dei rapporti tra Stato ed amministrazioni
locali nell’ambito di tale settore, alla luce dell’art. 117 della Costituzione.
Dott.ssa Eva Calvi(*)
Corte Costituzionale, sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006 n. 182 – Pres. A. Marini – Rel.
A. Finocchiaro – Presidente del Consiglio dei Ministri (Avv. dello Stato M. Fiorilli) c/
Regione Toscana (Avv. F. Lorenzoni).
«(Omissis) Considerato in diritto (omissis)
2. – Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate nei confronti dell’art. 32,
comma 3, dell’art. 34, comma 3, e dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana
n. 1 del 2005, sono fondate.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 173
Nelle prime due questioni indicate – concernenti la pianificazione paesaggistica da
parte della Regione – lo Stato fa valere la propria potestà legislativa primaria in materia di
ambiente e beni culturali (art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione) e la propria
potestà di stabilire principi fondamentali in materia di governo del territorio e valorizzazione
dei beni culturali (art. 117, terzo comma, della Costituzione), ai quali le Regioni
devono sottostare nell’esercizio delle proprie competenze, cooperando eventualmente ad
una maggior tutela del paesaggio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali fissati
dallo Stato.
Le questioni sollevate dal ricorso attengono ai temi della tutela del paesaggio e del
governo del territorio, alle relative competenze, legislative e amministrative, e alle reciproche
interferenze. La tutela tanto dell’ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato
(art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza
legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.): da un lato, spetta allo Stato
il potere di fissare principi di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, e, dall’altro, le
leggi regionali, emanate nell’esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri
scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate
dallo Stato.
Appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l’intervento normativo (statale o regionale)
di maggior protezione dell’interesse ambientale (sentenze n. 62, n. 232 e n. 336 del
2005).
In relazione alla pianificazione paesaggistica, lo Stato, nella parte III del Codice dei
beni culturali e del paesaggio, pone una disciplina dettagliata, cui le Regioni devono conformarsi,
provvedendo o attraverso tipici piani paesaggistici, o attraverso piani urbanistico-territoriali
con specifica considerazione dei valori paesaggistici (art. 135, comma 1). L’opzione
per questo secondo strumento, adottato anche dalla legge regionale della Toscana oggetto di
censura, comporta che, nella disciplina delle trasformazioni – com’è negli scopi del piano
urbanistico –, la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi
altro interesse interferente (art. 135, comma 2). L’art. 143 descrive il contenuto del piano,
che è ricognitivo, prescrittivo e propositivo. La parte prescrittiva – che ha sollecitato le censure
del Presidente del Consiglio dei ministri, riguardo al recepimento operato nella legge
della Regione Toscana – è contenuta nei commi da 5 a 8, che, con riferimento agli interventi
apprestabili sui beni tutelati, prevede una modulazione del regime autorizzatorio, a tre
livelli: regime autorizzatorio rafforzato (comma 5, lettera a), riguardante le aree di pregio,
per le quali qualsiasi trasformazione deve essere autorizzata; regime autorizzatorio attenuato
(lettera b), riguardante le aree di minor pregio, in cui la compatibilità paesistica può esser
valutata nell’ambito del procedimento autorizzatorio edilizio; regime autorizzatorio escluso
(lettera c), in cui la pregressa compromissione del valore paesaggistico fa soprassedere alla
necessità di autorizzazione, per le operazioni di recupero e riqualificazione. La diversa
modulazione del regime autorizzatorio, in rapporto agli ambiti territoriali e agli obiettivi di
qualità paesaggistica, è operativa nella misura in cui il piano paesaggistico, o il piano urbanistico-
territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, sia stato oggetto di
elaborazione congiunta tra il Ministero e la Regione.
La ratio della disciplina statale è nel senso che, affermata la competenza regionale nella
pianificazione paesaggistica, in quello che è effetto saliente di essa, ovvero la modifica di
regime dei beni che essa recepisce e il cui uso deve regolare, lo Stato deve poter interloquire
attraverso forme di concertazione, senza le quali la Regione può ben elaborare autonomamente
il piano, senza però che quell’effetto si produca.
2.1. – La legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, che regola il piano di indirizzo territoriale,
il cui statuto ha valore di piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione
dei valori paesaggistici (art. 33), riproduce, quasi testualmente, il contenuto dell’art. 143
e ciò, secondo la difesa regionale, dimostrerebbe la conformità della norma regionale ai
principi statali.
La tesi non può essere seguita dal momento che, al di là della programmatica enunciazione
dell’art. 30, comma 1, della legge regionale n. 1 del 2005 – secondo cui “gli strumenti
della pianificazione territoriale e gli atti di governo del territorio si conformano alle disposizioni
di cui al presente capo, aventi la finalità di tutelare e valorizzare la bellezza dei paesaggi
ed il pregio dei beni culturali e del patrimonio storico e naturale presenti nel territorio
della Regione” – né nell’art. 33, né in alcuna altra parte della stessa legge, è riportata la clausola
di cui all’art. 143, comma 12, del Codice, secondo cui quanto previsto dai commi da 5
a 8 dell’art. 143 non trova applicazione se il piano paesaggistico non è stato elaborato d’intesa
con lo Stato. La legge regionale non effettua tale richiamo, facendo dipendere la modifica
del regime giuridico dei beni paesaggistici, in sostanza, dal solo espletamento delle
forme di pubblicità del piano (art. 32, comma 3). Non è da condividere la difesa regionale,
secondo cui sarebbe ammissibile una lettura secundum constitutionem, attraverso l’inserzione
automatica della disposizione di cui all’art. 143, comma 12, del Codice. Il rilievo critico
di fondo della disciplina regionale attiene alla tecnica di redazione del testo normativo, e
così di recepimento della fonte sopraordinata. L’estrema minuziosità della disciplina regionale,
anche attraverso la pedissequa riproduzione delle altrettanto dettagliate disposizioni
del Codice sui contenuti del piano paesaggistico, non può non far ritenere la necessità che
la fondamentale condizione di applicabilità della parte precettiva del piano – la modifica del
regime dei beni paesaggistici recepiti dal piano è la ragione stessa della pianificazione paesaggistica
– sia positivamente inserita nel tessuto normativo alla stregua di una regolamentazione
completa, omogenea e contestuale. La Regione ha previsto (o meglio, ha implicitamente
previsto) che la modifica al regime giuridico dei beni paesaggistici si compia senza
che lo Stato abbia partecipato all’elaborazione del piano, in tal modo violando il principio
secondo cui solo se il piano paesaggistico è stato elaborato d’intesa, il vincolo paesaggistico
che grava sui beni può essere tramutato in una disciplina d’uso del bene stesso.
La prima questione è quindi fondata e deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale
dell’art. 32, comma 3, della legge regionale della Toscana n. 1 del 2005, nella parte
in cui non prevede che, ove non venga stipulato l’accordo per l’elaborazione d’intesa del
piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici tra le
Regioni, il Ministero per i beni e le attività culturali ed il Ministero dell’ambiente e della
tutela del territorio, ovvero ad esso non segua l’elaborazione congiunta del piano, non trova
applicazione quanto previsto nell’art. 143, commi 5, 6, 7, 8, del Codice dei beni culturali e
del paesaggio.
2.2. – Relativamente alla seconda questione, con la quale si contesta la legittimità costituzionale
dell’art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, è da rilevare
che la Regione fa disciplinare i beni paesaggistici dal piano strutturale dei Comuni – sia
pure sulla base delle indicazioni del piano di indirizzo territoriale e del piano territoriale – in
tal modo sottraendo la disciplina paesaggistica dal contenuto del piano, sia esso tipicamente
paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici,
che deve essere unitario, globale, e quindi regionale, e al quale deve sottostare la pianificazione
urbanistica ai livelli inferiori. L’art. 135 del Codice è tassativo, relativamente al
piano paesaggistico, nell’affidarne la competenza alla Regione. L’art. 143 elenca dettagliata-
174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
mente i suoi contenuti e l’art. 145 definisce i rapporti con “gli strumenti urbanistici dei comuni,
delle città metropolitane e delle province” secondo un modello rigidamente gerarchico
(immediata prevalenza del primo, obbligo di adeguamento dei secondi con la sola possibilità
di introdurre ulteriori previsioni conformative che “risultino utili ad assicurare l’ottimale
salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani”).La scelta della Regione Toscana
di elaborare un piano d’indirizzo territoriale, il cui statuto abbia valenza di piano urbanisticoterritoriale
con specifica considerazione dei valori paesaggistici, ha comportato che, muovendosi
nell’ambito della normativa generale sul governo del territorio, non sia stata abbandonata,
anche riguardo al paesaggio, la logica tradizionale della pianificazione urbanistica, di
demandare agli strumenti inferiori la disciplina sempre più specifica.
Si è così fatto “scorrere” dal piano urbanistico-territoriale al piano strutturale dei
Comuni l’individuazione delle aree “già paesaggistiche” per le quali non si ritenga necessaria
l’autorizzazione (poiché soppressa tout court o assorbita nel titolo edilizio) e la decisione
di sottoporre a monitoraggio le trasformazioni territoriali quale condizione per l’entrata
in vigore delle norme che consentono la realizzazione di opere con il solo rilascio del titolo
edilizio (art. 34, commi 3 e 5), sia pure sulla base delle indicazioni generali del piano regionale
d’indirizzo territoriale (art. 33, comma 1) e gli obiettivi di qualità e criteri di riparto territoriale
del piano provinciale di coordinamento (art. 34, comma 1); con la conseguenza che,
in ultima analisi, è il piano strutturale, ossia l’ordine inferiore della pianificazione, che detta
la disciplina concreta dei beni paesaggistici.
La legge toscana sul governo del territorio tende al superamento della separatezza tra
pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall’altro, facendo
rientrare la tutela del paesaggio nell’ambito del sistema della pianificazione del territorio
e rendendo pertanto partecipi anche i livelli territoriali inferiori di governo (province e
comuni) nella disciplina di tutela del paesaggio. Il principio di fondo di questo sistema – che
è condivisibile nella misura in cui gli enti locali sono chiamati a contribuire alla pianificazione
regionale (art. 144, comma 1, del Codice); ed in cui gli strumenti di pianificazione territoriale
dei livelli sub-regionali di governo perseguano, attraverso la propria disciplina,
obiettivi di tutela e valorizzazione del paesaggio (art. 145, comma 4) – presenta però il suo
elemento critico, laddove, trasferendo le decisioni operative concernenti il paesaggio alla
dimensione pianificatoria comunale, si pone in contraddizione con il sistema di organizzazione
delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce
un livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione, nell’ambito di una materia a
legislazione esclusiva statale ex art. 117 Cost., ma anche della legislazione di principio nelle
materie concorrenti del governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali.
La giurisprudenza costituzionale ha ammesso che le funzioni amministrative, inizialmente
conferite alla Regione, possano essere attribuite agli enti locali (sentenze n. 259 del
2004 e n. 214 del 2005, in materia ambientale), ma è l’impronta unitaria della pianificazione
paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale
in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel
rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio
nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario
che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali. In relazione a tutte
le norme statali interposte, che sono state indicate nel ricorso, sussiste il contrasto: con l’art.
143, comma 5, del Codice, che attribuisce al piano paesaggistico regionale l’individuazione
delle aree tutelabili; con l’art. 145 del Codice, che ordina gerarchicamente gli strumenti di
pianificazione dei diversi livelli territoriali; e con l’art. 143, comma 12, dello stesso Codice,
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 175
ove si esclude l’applicabilità del comma 5 del medesimo articolo, qualora sia mancata l’intesa
per l’elaborazione del piano.
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, della legge
della Regione Toscana n. 1 del 2005, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della
Costituzione, in considerazione del mancato rispetto delle norme interposte ora richiamate,
nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale comunale, anziché il piano regionale
paesaggistico, a indicare le aree in cui la realizzazione degli interventi non è soggetta all’autorizzazione
di cui all’art. 87 della legge regionale.
3. – Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti dell’art.
105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, è fondata. Dispone questa
norma che, per gli interventi in zona sismica, deve semplicemente darsi preavviso scritto
alla struttura regionale competente, allegando il progetto dell’opera, una relazione tecnica e
una relazione sulla fondazione (commi 1 e 2), senza che, per iniziare i lavori, sia necessaria
l’autorizzazione della struttura regionale, salva la possibilità di controlli a campione da parte
delle individuate strutture regionali (art. 110). È bensì vero che già a partire dalla legge della
Regione Toscana 6 dicembre 1982, n. 88 (Ulteriori norme per l’accelerazione delle procedure
per l’esecuzione di opere pubbliche), operava nella Regione l’istituto della denuncia di
inizio dell’attività (art. 2), in attuazione dell’art. 20 della legge 10 dicembre 1981, n. 741
(Ulteriori norme per l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione delle opere pubbliche),
che in materia di interventi in zona a rischio sismico abilitava le regioni a sostituire il
sistema di monitoraggio connesso al regime autorizzatorio, di cui all’art. 18 della legge 2
febbraio 1974, n. 64 (Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le
zone sismiche), con “modalità di controllo successivo”. Questo principio è però venuto
meno a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 94 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il quale prevede
l’autorizzazione regionale esplicita. L’intento unificatore della legislazione statale è palesemente
orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico,
attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio,
per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia
della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi
fondamentali. Né costituisce argomento probante, per avallare la tesi della Regione, la circostanza
che la legge n. 741 del 1981 non compaia fra quelle abrogate dall’art. 136 del
richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, dal momento che non se ne fa espressa menzione neppure
nell’elenco delle disposizioni di legge mantenute in vigore (art. 137). L’opzione per una
disciplina derogatoria a sistemi di controllo semplificato, ove siano coinvolti interessi primari
della collettività, ha ricevuto, infine, conferma dall’art. 3 del decreto-legge 14 marzo
2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico,
sociale e territoriale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 14
maggio 2005, n. 80, che generalizzando – a modifica dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990,
n. 241 – il regime della denuncia di inizio attività, esclude tuttavia dalla procedura semplificata
“gli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela della salute e della pubblica
incolumità…”. Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 105, comma
3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, per violazione dell’art. 117, terzo
comma, della Costituzione, in considerazione del mancato rispetto della norma statale di
principio sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non dispone che
non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della Regione (omissis)».
176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177
La tutela risarcitoria nei confronti dell’attività
provvedimentale della pubblica amministrazione:
sviluppi in tema di giurisdizione
e di pregiudizialità.
(Corte di Cassazione, SS. UU., ordinanze 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660)
Con le due ordinanze nn. 13659 e 13660 del giugno 2006, pronunciate
in sede di regolamento di giurisdizione e dal contenuto sostanzialmente identico,
le Sezioni Unite della Suprema Corte ritornano sulla materia della giurisdizione
in tema di responsabilità civile della pubblica amministrazione
connessa ad attività provvedimentale.
Le questioni a cui le Sezioni Unite sono state chiamate a dare risposta
possono così essere sintetizzate :
– come è ripartita tra giudice ordinario e giudice amministrativo la tutela
giurisdizionale diretta a far valere la responsabilità della p.a. da attività
provvedimentale illegittima dopo la legge n. 205/2000?
– Può la parte limitarsi a chiedere il risarcimento del danno, senza dover
chiedere anche l’annullamento, e, in caso di risposta affermativa, quale è il
regime di tale diversa forma di tutela giurisdizionale?
Prima di dare risposta ai quesiti appena formulati, appare opportuno
ripercorrere, sia pure brevemente, le tappe dell’iter legislativo e giurisprudenziale
su questo tema.
Per oltre un secolo la giurisprudenza della Suprema Corte è stata ferma
nel ritenere che il danno ingiusto, che costituisce il presupposto del risarcimento
del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., dovesse essere inteso come
danno lesivo di un diritto soggettivo perfetto.
Il sistema ha così escluso la risarcibilità dell’interesse legittimo per un
periodo di tempo assai lungo (che va dal 1865 al 1992), con l’eccezione di
alcune isolate decisioni.
L’art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 ha poi introdotto una fattispecie
di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del diritto
comunitario.
In attuazione della direttiva del Consiglio CE n. 665/89 del 21 dicembre
1989, si è riconosciuta la possibilità, in tema di aggiudicazione di appalti
pubblici, di ottenere il risarcimento del danno dal giudice ordinario, dopo
l’annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice amministrativo.
Il sistema così introdotto, che imponeva al privato di adire prima il giudice
amministrativo per l’annullamento del provvedimento illegittimo e poi
il giudice ordinario per il risarcimento del danno è apparso, però, particolarmente
gravoso e poco rispettoso del principio di effettività di tutela giurisdizionale
di cui all’art. 24 della Costituzione.
Con gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80/1998 si sono
attribuiti alcuni settori particolari – vale a dire gli appalti ed i servizi pubblici,
l’edilizia e l’urbanistica – ad una “nuova” giurisdizione esclusiva del giu178
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
dice amministrativo, estesa anche ai diritti patrimoniali consequenziali e al
risarcimento del danno.
Il legislatore, inoltre, ha esteso la “nuova” giurisdizione a qualsiasi fattispecie
di giurisdizione esclusiva, vecchia o nuova.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la nota sentenza 22
luglio 1999 n. 500 (1), hanno affermato la risarcibilità di tutti gli interessi
giuridicamente rilevanti e hanno individuato quale giudice competente il
giudice ordinario.
La Cassazione ha interpretato l’art. 2043 c.c. come contenente una clausola
generale, che consente la condanna al risarcimento del danno di coloro che,
attraverso comportamenti commissivi od omissivi, atti od operazioni, assunti
injure, abbiano leso un interesse giuridicamente rilevante di un soggetto terzo.
Si è così superata la tradizionale impostazione che vedeva questo interesse
esclusivamente coincidente con un diritto soggettivo e, perciò, escludeva
la risarcibilità degli interessi legittimi.
Le azioni risarcitorie dovevano essere rivolte sempre innanzi al giudice
ordinario, ferma restando la competenza del giudice amministrativo in ordine
all’annullamento degli atti e alle materie di giurisdizione esclusiva (per le
quali ultime il giudice amministrativo era competente non soltanto per l’annullamento
degli atti, ma anche per le azioni risarcitorie).
L’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205 ha modificato, tra l’altro, l’art. 35
del decreto legislativo n. 80/1998 nel senso di prevedere che il giudice amministrativo,
nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni
relative al risarcimento del danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
La novità rispetto al sistema delineato dal decreto legislativo n. 80/1998
è consistita nell’affermazione per cui il giudice amministrativo conosce delle
questioni risarcitorie non soltanto nelle materie attribuite alla sua giurisdizione
esclusiva, ma, in generale, anche in quelle attribuite alla sua giurisdizione
di legittimità.
Il legislatore del 2000, dunque, ha affermato che il giudice amministrativo
è il giudice competente in tema di risarcimento su interessi legittimi e
diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva e su interessi legittimi nella
giurisdizione di legittimità.
L’Adunanza Plenaria n. 4/2003 del Consiglio di Stato (2), preso atto
della concentrazione, innanzi al giudice amministrativo, della tutela impugnatoria
dell’atto illegittimo e di quella risarcitoria conseguente, ha affermato
che l’annullamento dell’atto amministrativo è pregiudiziale rispetto alla
richiesta di risarcimento del danno.
In altri termini, per i giudici di Palazzo Spada l’azione di risarcimento,
che può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento che in via
autonoma, è ammissibile a condizione che sia impugnato tempestivamente il
(1) Foro italiano, 1999, I, 2487 e Giornale di diritto amministrativo, 1999, IX, 832.
(2) Foro italiano, 2003, III, 433 e Giornale di diritto amministrativo, 2003, V, 567.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179
provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio
di annullamento.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204 (3), ha chiarito
che la tutela risarcitoria non può essere considerata come una materia devoluta
in blocco alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma deve
valutarsi alla stregua di uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico
demolitorio; ha, inoltre, aggiunto che il sistema che riconosce esclusivamente
al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica,
cioè al giudice amministrativo, poteri idonei ad assicurare piena tutela, e
quindi anche il potere di risarcire il danno sofferto per l’illegittimo esercizio
della funzione, costituisce attuazione del precetto dell’art. 24 della Costituzione.
In conclusione, con la citata sentenza, il Giudice delle Leggi, pure avendo
limitato l’area di estensione della giurisdizione del giudice amministrativo,
ha tuttavia stabilito che, nei casi in cui ci sia esercizio di potere amministrativo
e, quindi, giurisdizione amministrativa, quest’ultima sia piena e sia
estesa anche alla tutela risarcitoria.
Di recente, ossia con la sentenza 11 maggio 2006, n. 191 (4), la Corte
Costituzionale ha ribadito la validità di una siffatta ricostruzione del sistema
di tutela giurisdizionale amministrativa.
Con sentenza 23 gennaio 2006, n. 1207 (5), le Sezioni Unite della Corte
di Cassazione, mettendo in discussione quanto affermato dalla Corte Costituzionale
nella sentenza n. 204/2004, hanno cercato di riappropriarsi di una parte
della tutela risarcitoria e hanno stabilito che l’azione risarcitoria rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario tutte le volte in cui non venga in contestazione
il legittimo esercizio dell’attività amministrativa.
Più specificamente, si è affermata sussistere la giurisdizione ordinaria
sull’azione risarcitoria nelle ipotesi in cui, essendo l’atto amministrativo
stato annullato o revocato dalla pubblica amministrazione nell’esercizio del
suo potere di autotutela, oppure rimosso a seguito di pronuncia definitiva del
giudice amministrativo, oppure avendo esaurito i suoi effetti per il decorso
del termine di efficacia ad esso assegnato dalla legge, non opera la connessione
legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria.
Così facendo, la Cassazione ha fatto dipendere la giurisdizione da una
scelta del privato, consentendo a quest’ultimo di scegliere il giudice a cui
rivolgersi, e cioè se proporre la domanda risarcitoria innanzi al giudice
amministrativo, e quindi unitamente alla domanda di annullamento, oppure
innanzi al giudice ordinario, e dunque autonomamente, dopo l’annullamento
dell’atto da parte del giudice amministrativo.
Ciò, peraltro, in aperto contrasto con quanto affermato altrove dalla stessa
Corte di Cassazione, in ordine alla necessità che le scelte processuali della
parte siano estranee alla giurisdizione.
(3) Foro italiano, 2004, I, 2594 e Giornale di diritto amministrativo, 2004, IX, 969.
(4) Corriere giuridico, 2006, VII, 922 e Foro italiano, 2006, VI, 1625.
(5) Giornale di diritto amministrativo, 2006, VII, 749.
180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
L’Adunanza Plenaria n. 2/2006 del Consiglio di Stato (6), nel solco tracciato
dalla precedente pronuncia della stessa Adunanza Plenaria n. 4/2003,
ha stabilito che la regola della concentrazione, innanzi al giudice dell’impugnazione,
anche della pretesa risarcitoria si applica anche quando la controversia
sul risarcimento sia prospettata con autonomo, e successivo, ricorso,
ossia dopo che il giudizio sul provvedimento si sia concluso e la relativa
decisione sia passata in giudicato.
Con le ordinanze 13 giugno 2006 nn. 13659 e 13660, le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione hanno abbandonato l’orientamento inaugurato con
la sentenza n. 1207/2006.
Le affermazioni contenute nelle citate ordinanze, con cui si è data risposta
agli interrogativi indicati all’inizio di questo lavoro, sono essenzialmente
le seguenti:
– la Cassazione ha richiamato le affermazioni contenute nella sentenza
della Corte Costituzionale n. 204/2004, per cui la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia di risarcimento dei danni per lesione di interessi
legittimi sussiste in presenza di un concreto esercizio del potere da parte della
pubblica amministrazione, riconoscibile per tale in base al procedimento
svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano;
– spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela
(ripristinatorie o risarcitorie) che l’ordinamento appresta per le situazioni
soggettive sacrificate dall’esercizio illegittimo del potere e tra queste forme
di tutela rientra il risarcimento del danno;
– se il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione su una
domanda autonoma di risarcimento del danno in quanto nel termine stabilito
non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei
suoi effetti, allora la decisione del giudice amministrativo si presta a cassazione
da parte delle Sezioni Unite, a norma dell’art. 362, primo comma, c.p.c.
In definitiva, la Cassazione avverte la necessità, dopo le affermazioni
contenute nella sentenza n. 1207/2006, di ribadire che c’è giurisdizione del
giudice amministrativo ogni volta che si contesta l’esercizio di un potere
amministrativo o si sostiene che c’è stato un cattivo uso del medesimo, salvo
che si tratti di diritti incomprimibili : dove c’è un potere amministrativo, c’è
l’interesse legittimo e la tutela dell’interesse legittimo non può che spettare
al giudice amministrativo, a prescindere dalle tecniche e dagli strumenti di
tutela utilizzati.
Inoltre, esaminate e scartate le due tesi, quella “tutta civilistica” (ossia
quella della proposizione di un’autonoma domanda risarcitoria innanzi al giudice
ordinario, sostenuta dalla sentenza n. 1207/2006) e quella “tutta amministrativa”
(ossia quella della pregiudiziale amministrativa), la Cassazione afferma
la giurisdizione del giudice amministrativo sia quando la domanda risarcitoria
è proposta autonomamente, sia quando è proposta unitamente alla
(6) Rassegna Avvocatura dello Stato, 2006, I, 226.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181
domanda di annullamento, e, quindi, la fine del principio della pregiudiziale
amministrativa, essendo compatibili tutela demolitoria e tutela risarcitoria.
Infine, nelle citate ordinanze c’è un obiter dictum: se il giudice amministrativo
si rifiuta di esaminare un’autonoma domanda risarcitoria sul presupposto
che non è stato preventivamente richiesto l’annullamento del provvedimento
amministrativo, allora tale pronuncia è assoggettabile a cassazione
con rinvio da parte della Suprema Corte.
Tale ultimo passaggio potrebbe generare contrasti tra le due Supreme
Magistrature e non resta che attendere la reazione del Consiglio di Stato al
nuovo orientamento della Corte di Cassazione, considerato che, per i giudici
di Palazzo Spada, c’è il rischio concreto che la loro pronuncia possa essere
assoggettata ad un controllo di merito operato dalla Corte di Cassazione.
Dott. Francesco Spada(*)
Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanze 13 giugno 2006 nn. 13659 e
13660 – Pres. aggiunto V. Carbone – P. G. P. Ciccolo – C.A. c/ Università degli Studi
di Pisa e c/ F. E.; Pres. aggiunto R. Corona – P. G. V. Gambardella – Comune di Anagni
c/ M. G., P. G. e P. D.
«(Omissis) Considerato in diritto.
«(Omissis) 10.- Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa
è valso a rendere intelligibile quale si debba oggi considerare il punto d’arrivo nella ricerca
della soluzione del primo degli aspetti segnalati all’inizio, ovvero in base a quali criteri si
trovi oggi ad essere stabilito il riparto tra le giurisdizioni. Rilevano a questo fine due
momenti, ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino considerata nel suo aspetto
statico e gli effetti che l’ordinamento ricollega all’azione amministrativa una volta che questa
sia esercitata. La tutela giurisdizionale contro l’agire illegittimo della pubblica amministrazione
spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non sopporti compressione
per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte 1’
azione della pubblica amministrazione non trovi rispondenza in un precedente esercizio del
potere, che sia riconoscibile come tale, perchè a sua volta deliberato nei modi ed in presenza
dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto.
A questo fine, si ritiene che vada richiamato il principio di diritto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 204 del 2000, secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo
resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l’esercizio in concreto del potere
amministrativo secondo le forme tipiche previste dall’ordinamento: ciò sia nella giurisdizione
esclusiva che nella giurisdizione di annullamento. Il che non si verifica quando l’amministrazione
agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l’operare del soggetto
pubblico sia ascrivibile a mera attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo
ambito ogni volta che 1’esercizio del potere non sia riconoscibile neppure come indiretto
ascendente della vicenda.
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato.
Esemplificando, l’amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario
in tutte le ipotesi in cui l’azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili,
come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29 luglio
1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l’integrità personale.
Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del
patrimonio del privato sia l’effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri,
ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719): qui si
è nell’ambito delle controversie meramente risarcitone già contemplate nell’art. 33, comma
2, del D.Lgs. n. 80 del 1998, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la sentenza
n. 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è ravvisabile,
più in generale, la reazione a meri comportamenti lesivi dell’amministrazione.
Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione
ordinaria le forme di occupazione usurpativa, caratterizzate dal tratto che la trasformazione
irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica
utilità manca affatto. E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il
decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a un bene, la cui destinazione
ad opera di pubblica utilità si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta
meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta scadenza del suo termine d’efficacia.
Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta
come interesse legittimo, la tutela risarcitoria va chiesta al giudice amministrativo.
Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui
dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si rinviene nella circostanza che oggetto
della domanda non è l’annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno.
Riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione
di una situazione soggettiva dell’interessato è postulata come conseguenza di un comportamento
inerte, si tratti di ritardo nell’emissione di un provvedimento risultato favorevole o di
silenzio. Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si
risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all’esercizio del
potere, e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo (Ad. pl. 15
settembre 2005 n. 7), non di un diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione
quella valutata dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti
l’accesso al giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si
considera che ad attrarre la fattispecie nell’orbita della sua giurisdizione possa valere la presenza
di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel potere, in particolare, che
si è manifestato nella dichiarazione di pubblica utilità.
11.- Resta da affrontare quello che all’inizio si è indicato come il secondo aspetto problematico
della tutela del cittadino di fronte all’attività provvedimentale illegittima della
pubblica amministrazione, ovvero la possibilità di domandare la sola tutela risarcitoria. Da
quando nell’ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse legittimo,
è emersa la questione se il privato si possa limitare a rivendicare per il diritto o l’interesse
leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di tale
domanda.
12.- Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul
punto due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro.
(Omissis) 17.- In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi suesposte (tutta civilistica
e tutta amministrativistica) conducono ad una possibile diminuzione dell’effettività
della tutela del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall’art. 24 Cost. Quella civili-
182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
stica, perchè finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela giurisdizionale,
per giunta secondo una direttrice che si allontana dalla regola del riparto. Quella amministrativistica,
perchè rischia di assicurare all’interesse legittimo una protezione che comprime
l’ambito della tutela risarcitoria riducendone, per modalità o contenuti, la portata. Essa
altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con 1’ estendere 1’ area della giurisdizione
amministrativa al di là della connessione con l’esercizio in concreto del potere
pubblico. In una situazione del genere, l’osservazione secondo la quale il legislatore del
2000 ha opportunamente concentrato le forme di tutela dell’interesse legittimo in una sola
sede giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza
degli artt. 2 e 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, che configurano comunque a tutela
del cittadino la giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui si faccia
questione di un diritto civile o politico. II nostro sistema si basa appunto sull’art. 2907 c.c.,
cui fa riscontro l’art. 99 c.p.c, ed e un sistema di civil law, in cui il riconoscimento della
posizione soggettiva da tutelare, cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e
113 Cost.), precede la tutela giurisdizionale. In un sistema del genere, l’art. 2 della legge del
1865 – secondo una lettura coerente con le disposizioni di cui al Titolo IV della Costituzione
– costituisce, in definitiva, una norma di chiusura, che attribuisce al giudice ordinario il
potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela, quando altri valori di pari rilievo costituzionale
non rendono legittimo il ricorso a diversi modelli di tutela.
18.- Quante volte si sia in presenza di atti riferibili, oltre che ad una pubblica amministrazione,
a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del
provvedimento e l’atto sia capace di esplicare i propri effetti perchè il potere non incontra
ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere
chiesta al giudice amministrativo. Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme
o successivamente, la tutela risarcitoria completiva. Ma la parte potrà chiedere al giudice
amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare allora il termine di
decadenza pertinente all’azione di annullamento.
19.- A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle
considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa interpretazione delle norme attributive
della giurisdizione e dall’altro renderne esplicite le conseguenze.
Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcitoria, è venuta meno sul piano del diritto
sostanziale la differenza tra le situazioni che nell’ordinamento trovano protezione.
L’evoluzione dell’ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai
diritti quanto al bagaglio delle tutele: come era stato per le situazioni di diritto soggettivo,
di norma dotate, oltre che di tutela risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata
dal diritto al risarcimento del danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria
autonoma è stata affiancata alla tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni
di interesse legittimo erano prima dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre
conformata in modo da comprendervi il risarcimento del danno, che con l’annullamento
non si può elidere. Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della
funzione di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della pubblica
amministrazione, un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno
attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione sui risarcimento del danno consente
di riconoscere loro la portata di avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche
solo in rapporto alla tutela risarcitoria autonoma. Ma ciò perchè, nel bilanciamento tra
valori rilevanti sul piano costituzionale, è da riconoscere legittimità ad una norma che,
mentre concentra la tutela giurisdizionale presso il giudice amministrativo, non reca pre-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183
giudizio alla tutela sostanziale delle situazioni soggettive sacrificate dall’agire illegittimo
della pubblica amministrazione.
D’altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per
le situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della giurisdizione piena e quello di
una tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta
in rapporto alla tutela risarcitoria.
Dalla premessa discende in modo necessario la conseguenza che il giudice amministrativo
non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione che le norme
gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie
della giurisdizione di annullamento.
Si può obiettare che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle
situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza 1’ esercizio dell’azione.
Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine
di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo
non potrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguale a
quello cui è soggetta la domanda di annullamento, perchè ciò varrebbe a porre il diverso
problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma
per le situazioni soggettive sacrificate dall’esercizio illegittimo del potere della pubblica
amministrazione.
Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all’avere affermato
che l’art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione
sulla domanda autonoma di risarcimento del danno. Tutela risarcitoria autonoma
delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che
la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la
domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l’illegittimità di tale
agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del
provvedimento, né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece
concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla
base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua
illegittimità.
Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati,
si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.
II giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli
appartiene.
P.Q.M. - La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, pronunciando sul ricorso, dichiara la
giurisdizione del giudice amministrativo. (…)».
184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185
Rilevabilità del giudicato esterno ed autonomia
dei periodi di imposta nel giudicato tributario
(Corte di Cassazione, SS.UU. sentenza 16 giugno 2006, n. 13916)
Con la sentenza n. 13916/06, le Sezioni Unite della Cassazione hanno
affrontato il delicato – e più generale – tema della rilevabilità nel giudizio di
legittimità del giudicato esterno intervenuto successivamente alla chiusura
del giudizio di merito e la tematica – più specifica – relativa al giudicato nel
processo tributario, con particolare riferimento al principio dell’autonomia
dei periodi di imposta.
Entrambe le statuizioni, ampiamente motivate, risultano quindi di particolare
importanza (1).
Il fatto – Con delibera (n. 95 del 25 luglio 1996) del Consiglio comunale
di Verona veniva costituita l’AMIA (Azienda Municipale di Igiene Ambientale).
Quest’ultima iniziava la sua attività di raccolta rifiuti per il suddetto
Comune (e per altri Comuni limitrofi) dal 1 gennaio 1997. Nel periodo iniziale
di attività l’Azienda assoggettava ad IVA anche le operazioni di raccolta
rifiuti espletate per il Comune di Verona.
Nondimeno, su indicazione del citato ente locale l’AMIA presentava
apposita istanza di rimborso all’amministrazione finanziaria – ritenendo
doversi applicare alla fattispecie de qua l’esenzione triennale di cui all’art.
66, comma 14 D.L. n. 331/93 (convertito in legge n. 427/93) – riguardo le
fatture all’uopo emesse per l’anno 1997.
Formatosi il silenzio rifiuto, l’Azienda adiva il giudice tributario che,
tanto in primo che secondo grado, accoglieva la domanda attorea.
Avverso la pronuncia della CTR l’amministrazione finanziaria proponeva
ricorso per Cassazione, al quale resisteva con controricorso l’AMIA.
A seguito di apposita istanza presentata da quest’ultima – originata dal
passaggio in giudicato di pronunce giudiziali riguardanti la medesima
causa petendi, relativa, tuttavia, a diversi periodi di imposta (anni 1998-
1999) – la Sezione Tributaria, cui era stata assegnata la trattazione della
causa, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione
alle Sezioni Unite, ravvisando (correttamente): in primo luogo un contrasto
giurisprudenziale tra le diverse sezioni civili circa la rilevabilità del
giudicato esterno formatosi in pendenza del giudizio di legittimità; in
secondo luogo rilevando un contrasto (in realtà meramente apparente),
(1) C. GLENDI, Giuste aperture al ne bis in idem in Cassazione ma discutibili estensioni
del giudicato tributario extra moenia, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2006, 7,
557, secondo cui: “La recentissima sentenza n. 13196/06 è meritoriamente destinata a passare
alla storia del diritto processuale in generale e rientra, con qualche minor merito, nella
cronaca del diritto processuale in specie”.
186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
questa volta tutto interno alla stessa, circa la rilevanza del giudicato esterno
– in materia tributaria – intercorso tra le stesse parti ma relativo ad
annualità diverse dello stesso tributo o tributi diversi, pur in presenza dei
medesimi presupposti fattuali.
Rilevabilità del giudicato esterno (questione generale) – Con riferimento
alla tematica, di portata generale nell’economia processualcivilistica, dell’anzidetta
rilevabilità del giudicato esterno in sede di legittimità, le Sezioni
Unite, ponendosi nel solco ermeneutico già tracciato con la (propria) precedente
pronuncia n. 226/01, circa la sostanziale equiparazione del giudicato
esterno al giudicato interno e contestuale rilevabilità d’ufficio di entrambi
(2), ribadiscono la piena ed assoluta rilevanza dello stesso a prescindere da
qualsivoglia fattore temporale.
In tal guisa, quindi, le Sezioni Unite vengono a comporre il contrasto che
si era sul punto creato, anche a seguito del precedente arresto più sopra citato
(3), fornendo una lettura per così dire “elastica” della norma di cui all’art.
372 c.p.c.
In primo luogo, infatti, hanno evidenziato che il divieto in esso contenuto
non può che riferirsi a quei documenti che potevano essere prodotti nella
fase di merito e non già, pena un’ingiustificata compressione del diritto di
difesa – peraltro come noto costituzionalmente tutelato (art. 24 Cost.) –, a
qualsivoglia documento successivamente venutosi a formare. In secondo
luogo, inoltre, hanno chiarito come la documentazione comprovante la formazione
del giudicato esterno rientra a pieno titolo nell’alveo dei documenti
riguardanti l’ammissibilità del ricorso e del controricorso, la cui produzione
è espressamente ammessa dall’art. 372 citato (4).
Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite per giustificare
tale ultimo assunto risulta pienamente condivisibile.
Il giudicato, sia esso interno od esterno, non deve essere incluso nel fatto
bensì, essendo destinato a fissare la “regola” del caso concreto, è da assimilarsi
– pur non identificandosene tout court – agli elementi normativi. Si
chiarisce, altresì, che il giudicato, nel quale si risolve la funzione primaria
del processo – dello ius dicere –, non è patrimonio esclusivo dei diritti delle
(2) Si parla a riguardo di “notevole forza maieutica della sentenza n. 226/01”. Per
un’accurata ricostruzione della pronuncia in questione si veda O. FITTIPALDI, Preclusioni
processuali e giudicato esterno: verso un disimpegno della Cassazione dalla teorica dell’eccezione?,
in Corriere Giuridico, 2001, 11, 1462 ; M. IOZZO, Eccezione di giudicato
esterno e poteri del giudice (anche di legittimità), in Foro It., 2001, 10, 2810.
(3) Nel senso di riconoscere rilevanza al giudicato esterno formatosi dopo la conclusione
del giudizio di merito – e quindi “allegato” per la prima volta in sede di legittimità –
Cass., Sez. lav., n. 16376/03; Sez. III, n. 19772/03; Sez. Trib., n. 360/06. In senso contrario,
invece, Sez. I, n. 11731/03; Sez. Trib., n. 13854/04.
(4) Si legge testualmente: “la documentazione comprovante la formazione del giudicato
esterno in tempi successivi alla conclusione del giudizio di merito (fa venire) a mancare
un presupposto essenziale per la trattazione nel merito del ricorso”.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187
parti; rispondendo, invece, ad un preciso ed assorbente interesse pubblico,
consistente nella definizione delle liti, e per essa alla certezza del diritto.
L’inesausta ricerca della verità, con il potenziale corollario di innumerevoli
giudicati contrastanti, ben lungi dall’assicurare una maggiore tutela dei
diritti dei cittadini, si risolverebbe in un pericoloso attentato alla sicurezza
dei traffici ed alla certezza del diritto (5).
Una siffatta interpretazione della norma di cui all’art. 372 c.p.c. (e dei
principi generali in materia processuale) risulta oramai percorso obbligato –
prosegue la Corte – giusta la cristallizzazione, ad opera della legge costituzionale
23 novembre 1999 n. 2, del principio del “giusto processo”, e con
esso del canone della ragionevole durata, i quali impongono un controllo
sulla ragionevolezza della vicenda processuale.
Disconoscere l’efficacia vincolante di un giudicato esterno solo per il
fatto che lo stesso sia stato prodotto – si badi incolpevolmente – per la prima
volta in sede di legittimità significherebbe indugiare su letture formalistiche
del disposto di cui all’art. 372 citato, senza, peraltro, valutarne correttamente
la ratio essendi, volta a sanzionare (eventualmente) comportamenti negligenti
delle parti durante lo svolgimento della vicenda processuale.
Giudicato esterno ed autonomia dei periodi di imposta – Riconosciuta
nei termini anzidetti la rilevabilità del giudicato esterno in sede di legittimità,
si doveva stabilire se, con specifico riferimento al processo tributario,
potesse riconoscersi efficacia vincolante ad un accertamento contenuto in
una decisione – ovviamente con autorità di cosa giudicata – resa tra le stesse
parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo ovvero, come nel
caso sub judice, relativa alla verifica dei presupposti di fatto per usufruire di
un’esenzione su un periodo di tre anni (1997/1999).
Anche con riferimento a tale interrogativo la sezione tributaria aveva
chiesto l’intervento dirimente delle sezioni unite, avendo registrato un contrasto
interno alla stessa sezione specializzata.
Nonostante siano state sollevate puntuali riserve sull’opportunità di
una tale rimessione – essendo il contrasto prettamente interno ad una
sezione specializzata all’uopo costituita – (6), si evidenzia come in realtà
tale contrasto risultasse, ad un esame più approfondito, meramente apparente.
Le pronunce che tendevano a negare la c.d. “ultrattività” dell’accer-
(5) Con una recentissima pronuncia (n. 1052/07) le Sezioni Unite, sempre in materia
tributaria, hanno avuto modo di ribadire – sebbene la quaestio controversa fosse diversa –
la necessità di evitare il moltiplicarsi di controversie e, quel che più conta, di giudicati
(potenzialmente) contrastanti. Nello specifico, componendo il contrasto sorto intorno l’interpretazione
della norma di cui all’art. 14 D.Lgs. n. 546/92, in tema di litisconsorzio necessario
nel processo tributario (si veda M. PISELLI, Il rischio di pronunce divergenti non garantisce
il contribuente, in Guida al Diritto, 2007, 7, 57 ss.).
(6) In toni fortemente critici C. GLENDI, Giuste aperture cit., secondo cui: “che senso
ha l’esistenza stessa di una sezione tributaria se coloro che ne fanno parte non sono in
grado di risolversi i loro conflitti interni. La loro impotenza a risolversi i conflitti interni
equivale a la negazione della specialità che è stata alla base di questa istituzione”.
188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tamento riguardavano in realtà – come puntualmente rilevato da un’autorevole
dottrina (7) – casi nei quali i fatti posti a base a fondamento dell’imposizione
non erano in realtà unici con efficacia pluriennale ma fatti continuativi,
da accertare anno per anno. Nonostante, quindi, le motivazioni
di tali arresti contenessero affermazioni volte ad escludere l’efficacia del
giudicato tributario al di fuori del periodo di imposta cui esso accede, le
questioni di fatto dedotte in tali controversie non erano ontologicamente
assimilabili.
Appare quindi – sempre con tale autorevole dottrina – che le Sezioni
Unite, più che risolvere un contrasto ermeneutico, si siano limitate a confermare
la linea interpretativa (più o meno) costantemente adottata dalla giurisprudenza
di legittimità e che, con opportune precisazioni, può ritenersi condivisibile.
Sebbene le conclusioni – sebbene poco precise (come a breve si dirà)
nella delimitazione dei confini di rilevanza del giudicato esterno – possano
appunto considerarsi condivisibili, sono le premesse da cui esse sono tratte a
dare adito a qualche dubbio.
Se è innegabile, infatti, che al processo tributario vada riconosciuta una
pari dignità e rilevanza rispetto al processo civile – con gli inevitabili corollari
in termini di garanzie e principi processuali –, appare superflua e (quantomeno)
opinabile l’asserzione, peraltro oggetto di ampi dibattiti in dottrina,
(8) secondo cui il processo tributario, ben lungi dal risolversi in una mera
impugnazione-annullamento, consisterebbe in una vera e propria impugnazione-
merito.
Opinabile (9) perché, come autorevolmente sostenuto (10), l’assunto
secondo cui il processo tributario è volto all’accertamento della situazione
sottesa all’adozione del provvedimento impugnato – con una valutazione
che, quindi, accede al “merito” della controversia – non risulta affatto incompatibile
con una struttura processuale di tipo impugnatorio.
Anche nel giudizio di annullamento, infatti, il giudice conosce del rapporto
di imposta, giustappunto mediante l’impugnazione del provvedimento
adottato.
La circostanza che si continui a considerare il processo tributario modellato
su di una struttura impugnatoria non osterebbe, quindi, alla considerazione
che l’accertamento operato dal giudice possa estendersi alla sottesa
situazione di fatto, con le eventuali conseguenze in ordine alla vincolatività
del giudicato su di esse.
(7) TESAURO, Giudicato tributario cit., ove si registra una dettagliata rassegna delle
sentenze allineate a tale interpretazione (Cass. n. 10280/00; 6883/01; 8658/01; 8709/03).
(8) Per una ricostruzione completa si veda E. MANZON, I limiti oggettivi del giudicato
tributario nell’ottica del giusto processo: lo swing-over della Cassazione, in Corriere
Giuridico, 2006, 12, 1702.
(9) In termini fortemente critici, invece, GLENDI, Giuste aperture cit., p. 558.
(10) F. TESAURO, Giudicato tributario cit., p. 1174.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189
Superflua perché, come correttamente evidenziato (11), se si accede alla
teoria – sposata nella sentenza in questione – della vincolatività del giudicato
anche per le questioni pregiudiziali vagliate dal giudice, non vi è motivo
per escludere che ciò valga anche nei processi di annullamento (12).
Come in precedenza sostenuto, tuttavia, entrando nel merito della decisione
annotata, possono rinvenirsi delle osservazioni che, previa opportuna
precisazione, possono essere oggetto di generale condivisione.
Tale precisazione concerne l’ambito di operatività dell’efficacia vincolante
del giudicato esterno nell’economia di un altro processo relativo ad un
diverso periodo di imposta.
Sebbene sostanzialmente corretta, la disamina relativa alla problematica
del principio di autonomia dei periodi di imposta – come potenziale ostacolo
all’estensione di efficacia del giudicato esterno nel processo tributario – risulta
essere, in realtà, un falso problema. Come autorevolmente osservato (13), infatti,
il principio per cui ogni periodo di imposta è autonomo non significa che, nel
determinare la base imponibile, si debba tener conto solo dei fatti di quel periodo.
Vi sono, infatti, elementi fattuali che dispongono di una propria efficacia
pluriennale e, come assolutamente incontrovertibile, una cosa è l’autonomia dei
periodi di imposta, un’altra è la determinazione della base imponibile (14).
Le problematiche potenzialmente ostanti alla rilevanza nel processo tributario
del giudicato esterno non scaturiscono quindi dal citato principio di
autonomia dei periodi di imposta.
In presenza di un fatto realizzatosi in un determinato periodo di imposta
– come ad esempio l’acquisto di un determinato bene – che, tuttavia, continua
a produrre determinati effetti con riferimento ad una data imposta periodica,
sarebbe assolutamente illogico non riconoscere efficacia vincolante al
giudicato involgente l’accertamento dello stesso, solo perché riferito ad un
diverso periodo di imposta.
Queste, in estrema sintesi, sono le conclusioni cui (correttamente) pervengono
le Sezioni Unite della Cassazione.
È tuttavia necessaria una precisazione.
L’assunto della Corte pare poter essere foriero di un eccessivo ampliamento
dell’efficacia vincolante del giudicato esterno nella parte in cui riconosce
tale possibilità anche a giudicati che abbiano accertato fatti “a carattere
tendenzialmente permanente”.
(11) Id.
(12) Id., p. 1175: “Ciò che la teoria dell’annullamento esclude non attiene alla cognizione,
ma all’esito del processo, che può consistere nell’annullamento totale o parziale dell’atto
impugnato, e non nella (inaccettabile) formazione di un nuovo atto impositivo, di
matrice giudiziale”.
(13) F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. 2, VII ed., Torino, Giappichelli,
2005, p. 23.
(14) Si possono citare gli esempi dell’acquisto di un bene ammortizzabile, le rimanenze
finali di un periodo sono le giacenze iniziali del successivo.
In realtà, come acutamente osservato (15), l’avverbio tendenzialmente
mal si concilia con il principio di diritto espresso. Un fatto “tendenzialmente”
permanente deve essere – per sua natura – successivamente accertato,
giacché non “necessariamente” permanente. Si fa l’esempio, a riguardo,
della residenza fiscale, della qualifica commerciale – peraltro portata (erroneamente)
ad esempio nella sentenza de qua – e di altre situazioni che, benché
potenzialmente permanenti, possono tuttavia mutare nel tempo e per le
quali, dunque, non può certo valere il principio dell’efficacia ultrannuale del
giudicato.
In conclusione, quindi, deve precisarsi che la (riconosciuta) efficacia del
giudicato esterno nel processo tributario deve essere circoscritta – pena
un’ingiustificata ed illogica estensione del principio sotteso – all’accertamento
involgente quei singoli fatti che, sebbene avvenuti in pendenza di un
determinato periodo di imposta, producono effetti irreversibili o, comunque,
ultrannuali, essendo a ciò improprio ogni generico riferimento a qualificazioni
giuridiche o elementi preliminari della fattispecie.
Dott. Valerio Balsamo
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 16 giugno 2006, n. 13916 – Pres. V.
Carbone – Rel. R. Botta – Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle
Entrate (Avv. dello Stato G. Albenzio) c/ A.M.I.A. Verona S.p.A. – Azienda municipale
di igiene ambientale (Avv.ti C. Consolo, L. Manzi).
«Svolgimento del processo – Dopo essere stata costituita, con delibera del Consiglio
Comunale di Verona n. 95 del 25 luglio 1996, in azienda speciale ai sensi degli artt. 22 e
23, L. 142/1990, l’A. M. I. A. iniziò ad operare dal 1 gennaio 1997, svolgendo l’attività
di raccolta rifiuti, e relativo trasporto alle discariche autorizzate, per il Comune di Verona
e per i comuni limitrofi, nonché l’attività di spazzatura delle strade per il solo Comune di
Verona.
Nelle prime operazioni, l’A. M. I. A. assoggettò ad IVA anche i servizi svolti per il
Comune di Verona, finché essa – su indicazione del medesimo comune che riteneva le prestazioni
eseguite dall’A. M. I. A. esenti da IVA fino al terzo anno dell’esercizio successivo
a quello di acquisizione della personalità giuridica, in applicazione dell’art. 66, comma XIV,
D.L. 331/1993 (conv. con L. 427/1993) – chiedeva il rimborso dell’IVA. relativamente alle
fatture emesse nei confronti dell’ente locale per l’anno 1997.
Formatosi il silenzio rifiuto, l’A.M.I.A. ricorreva al giudice tributario che accoglieva
l’impugnazione sia in primo che in secondo grado.
Avverso la sentenza d’appello, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia
delle Entrate propongono ricorso per cassazione con unico motivo. Resiste l’A. M. I. A. con
controricorso, proponendo con il medesimo atto ricorso incidentale con unico motivo, relativamente
alla disposta integrale compensazione delle spese di lite.
190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(15) F. TESAURO, Giudicato tributario cit., p. 1176.
Chiamata la causa innanzi alla Sezione Tributaria di questa Corte per l’udienza del 28
giugno 2005, il Collegio, con ordinanza n. 20035/05 depositata il 17 ottobre 2005 – vista l’istanza
presentata dall’Azienda controricorrente con la quale veniva chiesta l’assegnazione
della causa alle Sezioni Unite della Corte ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., allegando
la sopravvenuta formazione di un giudicato sulla medesima questione oggetto del presente
giudizio, ma relativamente al rimborso chiesto al medesimo titolo per gli anni 1998 e 1999
– rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite con
riferimento al contrasto rilevato in seno alle diverse sezioni civili della Corte in ordine a)
“alla rilevabilità e/o deducibilità del giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di
legittimità”; e in seno alla sezione tributaria della medesima Corte in ordine b) “all’efficacia
di giudicato esterno, in materia tributaria, dell’accertamento definitivo contenuto in decisione
resa tra le stesse parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo o tributi
diversi, pur in presenza dei medesimi presupposti fattuali”. La causa veniva, quindi, assegnata
alle Sezioni Unite per essere chiamata all’odierna udienza.
Motivazione – Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso principale e del
ricorso incidentale in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
1. Come già indicato in narrativa la presente causa è chiamata innanzi alle Sezioni
Unite per la soluzione di un duplice contrasto verificatosi nella giurisprudenza della Corte
in ordine alla rilevabilità (e deducibilità) del giudicato esterno nel giudizio di legittimità e
all’efficacia (e, in caso positivo, ai limiti di efficacia) del giudicato esterno in materia tributaria.
La soluzione delle situazioni di contrasto descritte dell’ordinanza di rimessione prevale
ed è, quindi, necessariamente preliminare all’esame dei motivi del ricorso principale e del
ricorso incidentale: tali situazioni devono essere esaminate e risolte nello stesso ordine con
il quale esse sono esposte nella richiamata ordinanza, avendo la prima – relativa alla rilevabilità
del giudicato esterno nel giudizio di legittimità – carattere assorbente rispetto alla
seconda – relativa all’efficacia del giudicato esterno in materia tributaria -, la quale, in caso
di soluzione in senso negativo della prima, nemmeno dovrebbe essere affrontata.
2. Orbene, il contrasto giurisprudenziale in ordine alla rilevabilità (e deducibilità) del
giudicato esterno nel giudizio di legittimità trova il suo fondamentale precedente e punto di
avvio nella sentenza delle Sezioni Unite n. 226/2001 che ha affermato il seguente principio:
“Poiché nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di Ufficio delle eccezioni,
derivando invece la necessità dell’istanza di parte solo dall’esistenza di una eventuale
specifica previsione normativa, l’esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del
giudicato interno, rilevabile d’Ufficio, ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa qualora
essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito. Del resto, il giudicato
interno e quello esterno, non solo hanno la medesima autorità che è quella prevista
dall’art. 2909 c.c., ma corrispondono entrambi all’unica finalità rappresentata dall’eliminazione
dell’incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, le quali non
interessano soltanto le parti in causa, risultando l’autorità del giudicato, riconosciuta non
nell’interesse del singolo soggetto che lo ha provocato, ma nell’interesse pubblico, essendo
essa destinata a esprimersi – nei limiti in cui ciò sia concretamente possibile – per l’intera
comunità. Più in particolare, il rilievo dell’esistenza di un giudicato esterno non è subordinato
ad una tempestiva allegazione dei fatti costitutivi dello stesso, i quali non subiscono i
limiti di utilizzabilità rappresentati dalle eventualmente intervenute rappresentanti dalle
eventualmente intervenute decadenze istruttorie, e la stessa loro allegazione può essere
effettuata in ogni stato e fase del giudizio di merito. Da ciò consegue che, in mancanza di
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191
pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia affermato la tardività dell’allegazione
– e la relativa pronuncia sia stata impugnata – e la legittimità accerta l’esistenza e la
portata del giudicato con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo
ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini
ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal
giudice del merito”.
Partendo da questa assolutamente ragionevole “apertura” in ordine alla natura del giudicato
esterno e alle connesse conseguenze sulla relativa deducibilità e rilevabilità ex officio
nel giudizio di legittimità, la giurisprudenza della Corte, pur mantenendo fermo il principio
affermato, si è poi divisa in ordine alla deducibilità e rilevabilità del giudicato esterno formatosi
successivamente alla conclusione del giudizio di merito (e al valore preclusivo da
riconoscere alla disposizione di cui all’art. 372 c.p.c.) tra due orientamenti, uno favorevole
ad ulteriori passi in avanti ed uno maggiormente prudente e preoccupato, invece, di rimanere
entro più rigidi confini.
2.1. Nel primo senso si è posta la sentenza n. 16376/2003 della Sezione Lavoro di questa
Corte, che ha ritenuto rilevabile nel giudizio di legittimità il giudicato esterno anche qualora
esso “risulti da atti che siano stati prodotti per la prima volta in cassazione, purché il
documento nuovo costituito dalla sentenza passata in giudicato si sia formato dopo l’esaurimento
dei gradi di merito e venga prodotto con la notifica del ricorso per cassazione, non
operando in tal caso la preclusione di cui all’art. 372 c.p.c., che vieta nel giudizio di legittimità
il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi, atteso che altrimenti
l’eventuale contrasto tra le due pronunzie potrebbe sostanziare i presupposti di un vizio
revocatorio, causando un inconveniente incompatibile con il principio di rango costituzionale
di economicità dei giudizi”.
Nella stessa prospettiva si è collocata la sentenza n. 19772/2003 della Terza Sezione
della Corte la quale, pur affermando che la disposizione di cui all’art. 372 c.p.c. preclude la
produzione per la prima volta in sede di legittimità di atti da cui risulti la formazione del giudicato
esterno nel corso del giudizio di merito, riconosce, poi, che siffatta preclusione non
possa valere “qualora il giudicato non si sia formato nel corso del giudizio di merito e il
documento serva per dimostrare che è venuto meno l’interesse alla proposizione del ricorso
per tassazione”.
Più di recente, la Sezione Tributaria di questa Corte con la sentenza n. 360/2006 , ritenuto
che sia “denunciabile con ricorso per cassazione il contrasto rispetto ad un giudicato
esterno intervenuto successivamente all’emanazione della sentenza impugnata al pari di
quanto avviene per lo ius superveniens, ha proposto una “lettura elastica” dell’art. 372 c.p.c.,
in quanto ritenere preclusa l’acquisizione del documento comprovante la formazione del
giudicato esterno successivamente alla conclusione del giudizio di merito “comporterebbe
il grave inconveniente di consentire una pronuncia definitiva da parte (della) Corte, che
potrebbe porsi in insanabile contrasto con il precedente, esponendo così la sentenza di cassazione
al rischio di un vizio revocatorio”.
2.2. In senso contrario si è posta la sentenza n. 11731/2003 della Prima Sezione della
Corte, la quale ha ritenuto irrilevante la circostanza che il giudicato si sia formato successivamente
al giudizio di merito giacché la limitazione stabilita dall’art. 372 c.p.c. “è intrinseca
alla struttura del giudizio di legittimità e, dunque, non è superabile”. Nella stessa prospettiva
si è collocata la sentenza n. 13854/2004 della Sezione Tributaria della Corte, la quale
ha ritenuto operante la preclusione derivante dall’art. 372 c.p.c. anche “nel caso di sopravvenienza
del giudicato esterno dopo la proposizione del ricorso o del controricorso, tenuto
192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
conto della peculiare struttura del giudizio di cassazione, incompatibile con l’attività di
istruzione probatoria” (in senso adesivo, cfr. Cass. n. 4307/2005 in motivazione, nonché
Cass. n. 3925/2002).
2.3. Le Sezioni Unite, pur riconoscendo che quest’ultimo orientamento sia mosso da
legittime (ed apprezzabili) preoccupazioni, ritengono, tuttavia, che ad esso vada preferito il
primo e debba essere, quindi, affermata la deducibilità e la rilevabilità nel giudizio di legittimità
del giudicato esterno che si sia formato successivamente alla conclusione del giudizio
di merito. Militano a favore di questa conclusione molteplici ragioni.
Innanzitutto non può disconoscersi la notevole forza maieutica della sentenza n.
226/2001, con la quale queste Sezioni Unite hanno affermato tre importanti principi:
a) il giudicato interno e il giudicato esterno hanno la medesima autorità e corrispondono
entrambi all’unica finalità rappresentata dall’eliminazione dell’incertezza delle situazioni
giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, finalità cui è sotteso un interesse pubblico;
b) l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile
d’Ufficio;
c) Il giudicato non deve essere incluso nel fatto e, pur non identificandosi nemmeno
con gli elementi normativi astratti, è da assimilarsi, per la sua intrinseca natura e per gli
effetti che produce, a tali elementi normativi. La conseguenza è che l’interpretazione del
giudicato deve essere trattata piuttosto alla stregua dell’interpretazione delle norme che non
alla stregua dell’interpretazione dei negozi e degli atti giuridici.
Una volta assimilato il giudicato (interno o esterno, che esso sia) agli “elementi normativi”
- assimilazione più volte confermata da queste Sezioni Unite le quali hanno ribadito
che “il giudicato, essendo destinato a fissare la “regola” del caso concreto, partecipa della
natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in
un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti
che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche” (Cass. S.U. nn. 23242 del 2005 e
5105 del 2003) – e rilevato che esso corrisponde non (solo) ad un interesse delle parti, ma
(anche) ad un interesse pubblico, e, in verità, riduttivo limitare la deducibilità e rilevabilità
del giudicato esterno solo all’ipotesi in cui il giudicato stesso si sia formato nel corso del
giudizio di merito.
Siffatta conclusione appare di maggior evidenza qualora si tenga conto – come si deve
tener conto – della costituzionalizzazione dei principi sul “giusto processo” operata dalla
nuova formulazione dell’art. 111 Cost. – soprattutto quello sulla “ragionevole durata del
processo” -, i quali impongano un controllo sull’intrinseca ragionevolezza della procedura
vincolandola a criteri di efficacia e di efficienza del “dire diritto”.
Ciò esclude che siano legittimamente perseguibili linee interpretative che diano rilievo
a formalismi superflui – non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive – che possano
ostacolare soluzioni maggiormente, congrue all’obiettivo della “ragionevole durata”.
Privilegiando questa chiave di lettura è agevole vedere come il giudicato sia uno dei presidi
essenziali della “ragionevole durata”. in quanto, preclude, mediante la sanzione dell’irrevocabilità
della decisione, una inesausta ricerca della verità in un “processo senza fine”. Di
più, nel giudicato si risolve la funzione primaria del processo, che è quella di stabilire la
“regola del caso concreto”, eliminando – mediante la stabilita della decisione – l’incertezza
riguardo all’applicazione di una norma di diritto ad una specifica fattispecie: sicché, proprio
perché assolve a questa fondamentale esigenza dell’ordinamento, il giudicato non è patrimonio
esclusivo dei diritti delle parti, ma risponde ad un preciso interesse pubblico.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 193
Il canone di “certezza”, assicurato dal giudicato, trova compiuta espressione nel superiore
principio del ne bis in idem, cui è orientato un sistema specifico di mezzi processuali
– quali sono ad es. quelli predisposti dagli artt. 39 e 395 n. 3 c.p.c. – inteso ad evitare il formarsi
(anche come semplice fattispecie di pericolo) di giudicati contrastanti. In questa prospettiva
sarebbe non solo assurdo sotto il profilo del comune buon senso, ma anche contrario
ai criteri di logicità ed economia cui deve essere costantemente orientata la vicenda processuale,
imporre ad un giudice di pronunciare una sentenza che egli, nel momento della
decisione, già sa essere in contrasto con il principio del ne bis in idem e potenzialmente
destinata ad essere inutiliter data.
Questa, e non altra, sarebbe la condizione nella quale si troverebbe la Corte di legittimità,
qualora dovesse omettere – consapevolmente e (eventualmente) per effetto di una
opzione esegetica (eccessivamente) formalista – di dare rilievo al giudicato esterno che si
sia formato successivamente alla conclusione del giudizio di merito (o, persino, alla notifica
del ricorso per cassazione, com’è nel caso di specie). Nel quadro di un orientamento giurisprudenziale
che ha correttamente sancito – e proprio in funzione del rispetto del canone
fondamentale del ne bis in idem e dei principi del giusto processo – la rilevabilità ex officio
del giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di merito (tra tutte la già ricordata sentenza
di queste Sezioni Unite n. 226/2001) ed ha ammesso – in ragione del rispetto dei
medesimi principi – la produzione in sede di legittimità della documentazione comprovante
la nullità della sentenza impugnata che derivi da giudicato interno per inammissibilità del
ricorso in appello, in quanto tale sentenza, avendo deciso nonostante il giudicato formatosi,
non è idonea a disciplinare il rapporto controverso e non è conforme alla fattispecie (cfr.
Cass. Sez. Lav. n. 18129/2005), sarebbe privo di ragionevoli giustificazioni stabilire l’irrilevanza
del giudicato esterno solo perché esso si sia formato dopo la conclusione del giudizio
di merito. L’esigenza da salvaguardare – garantire il ne bis in idem ed evitare la possibile
formazione di giudicati contrastanti – rimane, con tutta evidenza, la stessa e l’unico
motivo dell’operare diversamente sarebbe (irragionevolmente) costituita dal “fattore
tempo”: il mero fatto, cioè, che il giudicato esterno sia sopravvenuto nella pendenza del giudizio
in cassazione o comunque successivamente alla conclusione della fase di merito, circostanza
che certamente non può addebitarsi ad alcuna delle parti in conflitto. Peraltro, la
rilevabilità del giudicato esterno formatosi in pendenza del giudizio di cassazione si palesa
essere il mezzo più efficace per la garanzia del ne bis in idem e atto a favorire una soluzione
compatibile con una “ragionevole durata del processo”, rispondendo così ad un’interpretazione
costituzionalmente conforme delle regole processuali.
2.4. All’affermanda rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno formatosi
successivamente alla conclusione del giudizio di merito non è di ostacolo un supposto divieto
di produzione della documentazione attestante la formazione del predetto giudicato (non
potendo supplirvi la, peraltro assai spesso impossibile, scienza privata del giudice) che deriverebbe
dall’art. 372 c.p.c..
La richiamata norma di rito non costituisce preclusione alla producibilità nel giudizio
di cassazione della predetta documentazione in quanto:
a) il divieto imposto dall’art. 372 c.p.c. è assoluto esclusivamente con riferimento ai
documenti che potevano essere prodotti nella fase di merito e non lo sono stati (la documentazione
comprovante la formazione del giudicato esterno in tempi successivi alla conclusione
del giudizio di merito, per questo solo fatto non può rientrare nella suddetta categoria di
documenti);
194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
b) i documenti di cui la medesima norma di rito consente la produzione sono quelli attinenti
alla nullità della sentenza impugnata e all’ammissibilità del ricorso o del controricorso:
la documentazione comprovante la formazione del giudicato esterno in tempi successivi
alla conclusione del giudizio di merito presenta caratteristiche che militano a favore della
sua collocabilità in questa seconda categoria di documenti.
In primo luogo, l’aver riconosciuto che il giudicato – in quanto espressione della regola
iuris del caso concreto – è assimilabile agli “atti normativi” (cfr. la più volte citata Cass.
n. 226/2001), già esclude che la produzione dei documenti che comprovino la formazione
del giudicato successivamente alla conclusione del giudizio di merito possa trovare ostacolo
nella disposizione di cui all’art. 372 c.p.c., dato che la produzione per la prima volta in
sede di legittimità di atti a contenuto normativo è stata tradizionalmente riconosciuta possibile
dalla giurisprudenza della Corte (cfr. Cass. n. 4823/2000 , 1102/1981 e 442/1979 circa
la copia di un regolamento edilizio).
In secondo luogo, questa Corte ha costantemente riconosciuto che “quando nel corso
del giudizio di legittimità intervenga una transazione o altro fatto che determini la cessazione
della materia del contendere, in tale fattispecie è ravvisabile una causa di inammissibilità
del ricorso sia pure sopravvenuta – in ogni caso, idonea a consentire, ai sensi dell’art. 372
c.p.c., la produzione del documento che ne comprovi la sussistenza – per essere venuto
meno l’interesse della parte ricorrente ad una pronuncia sul merito dell’impugnazione” (Cfr
Cass. n. 13565/2005; 11176/2004 ; 1205/2003 ; S.U. 368/2000). Orbene nel sopravvenire
del giudicato esterno si viene a determinare nel giudizio di legittimità una situazione non
dissimile, venendo a mancare un presupposto essenziale per la trattazione nel merito del
ricorso: infatti, è stata già affermata, rispetto alla fattispecie sottoposta all’esame della
Corte, la regola iuris la cui stabilità, in ragione del superiore interesse dell’ordinamento, e
destinata a prevalere sulla pretesa di una delle parti ad ottenere l’affermazione per lo stesso
caso di un diversa regola. In altri termini la regola iuris (del caso concreto) superveniens
impone al giudice un dovere di conformarvisi, determinando nel giudizio pendente una
situazione non dissimile da quella che comunemente si definisce con l’espressione “cessata
materia del contendere”.
La documentazione comprovante l’avvenuta formazione del giudicato esterno successivamente
alla conclusione del giudizio di merito, proprio per le caratteristiche del giudicato
di porsi come regola iuris del caso concreto, può essere prodotta in sede di legittimità
nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., unitamente al deposito del ricorso, se si tratta di giudicato
formatosi nella pendenza del termine di impugnazione, o in caso di formazione successiva
alla notifica del ricorso, fino all’udienza di discussione prima dell’inizio della relazione,
cioè nello stesso termine che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto ammissibile
come l’ultimo utile per il deposito di documenti attestanti la legittimazione processuale
(Cass., Sez. I, n. 15350/2000 e n. 5066/1997) o relativi all’ammissibilità del ricorso (Cass.,
Sez. Lav., n. 23321/2004 e n. 3736/2000).
Tuttavia, dovrà, in ogni caso, essere assicurata la garanzia del contraddittorio e, pertanto,
se la produzione del documento, attestante la formazione del giudicato esterno successivamente
alla conclusione del giudizio di merito, dovesse aver luogo oltre il termine stabilito
per il deposto delle memorie ex art. 378 c.p.c., la Corte – tanto più avvalendosi dei poteri
riconosciutile dal comma 3 dell’art. 384 c.p.c., nella formulazione risultante dalla novella
di cui al D.Lgs. n. 40/2006 (per i ricorsi cui tale novella sia applicabile), per il caso che
debba essere posta a base della decisione una questione rilevabile d’Ufficio (e l’efficacia del
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 195
giudicato esterno è tra queste) – dovrà assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito
in cancelleria di eventuali osservazioni.
2.5. Da ultimo, si deve osservare, in ordine alla deducibilità in sede di legittimità del
giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito, che
non può valere, nel caso, quanto affermato nella già richiamata sentenza n. 226/2001 di queste
Sezioni Unite, circa il fatto che l’eccezione di giudicato non possa essere dedotta per la
prima volta in cassazione, attesa la non deducibilità di questioni nuove in sede di giudizio
di legittimità. Questa affermazione, mentre conserva tutta la sua validità con riferimento alla
fattispecie posta ad oggetto della predetta sentenza n. 226/2001 – ossia ad un giudicato
esterno che si sia formato nel corso del giudizio di merito -, non è efficacemente replicabile
nel caso che qui interessa – nel quale il giudicato esterno si assume essersi formato successivamente
alla conclusione del giudizio di merito -, in quanto è “nuova” la questione che
avrebbe potuto essere sollevata nel giudizio di merito e non lo è stata: orbene è più che ovvio
che non poteva proporsi nel giudizio di merito l’eccezione relativa ad un giudicato che si sia
formato solo dopo la conclusione di quel giudizio.
3. Affermata, quindi, per le ragioni esposte la deducibilità e rilevabilità in sede di legittimità
del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di
merito, con la possibilità di produrre nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., la relativa attestazione,
a seconda dei casi, con il deposito del ricorso o fino all’udienza di discussione, diviene
rilevante stabilire nel caso di specie se, in materia tributaria, possa attribuirsi efficacia di
giudicato esterno all’accertamento definitivo contenuto in una decisione resa tra le stesse
parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo o a tributi diversi pur in presenza
dei medesimi presupposti di fatto.
Anche su questo punto, l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite ha registrato un
contrasto, stavolta tutto interno alla Sezione Tributaria della Corte, tra due orientamenti: un
primo, che si fonda su alcune pronunce emesse da altre Sezioni della Corte in materie diverse
da quella tributaria, favorevole a dare rilievo al giudicato esterno, un secondo, di segno
negativo, giustificato dalla ritenuta autonomia dei rapporti d’imposta.
3.1. Nel primo senso, si sono pronunciate le sentenze della Sezione tributaria nn.
10280/2000 (sulla rilevanza del giudicato esterno formatosi relativamente ad altra annualità
della medesima imposta), 6883/2001 (sulla rilevanza del giudicato esterno formatosi relativamente
ad altra imposta) e 7506/2001 (che afferma il principio, pur escludendone l’applicazione
nel caso concreto – accertamento di maggior reddito a carico della società e accertamento
di maggior reddito a carico dei soci – per difetto di identità delle parti in entrambe
le cause), che hanno riprodotto un principio affermato da altre Sezioni della Corte con riferimento
al giudizio civile (la Sezione Lavoro, con la sentenza n. 15497/2003, la Sezione
Terza, con le sentenze nn. 3795 e 9401 del 1999 e 5748/1988; la Sezione Prima, con la sentenza
n. 7891/1995; la Sezione Seconda con le sentenze nn. 1564/1988 e 4807/1978): “In
tema di giudicato, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo
rapporto giuridico, ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento
così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni
di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause,
formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della
sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto
accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che
hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo”. Questo stesso principio è riaffermato
da altra sentenza della Sezione Tributaria – la n. 8658/2001 (sulla rilevanza del giudicato
196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
esterno formatosi relativamente ad altra annualità della medesima imposta) – secondo cui la
regola espressa dal predetto principio non trova deroga in caso di situazioni giuridiche di
durata, giacché anche in tal caso l’oggetto del giudicato è un unico rapporto e non gli effetti
verificatisi nel corso del suo svolgimento e conseguentemente neppure il riferimento al
principio dell’autonomia dei periodi d’imposta può consentire un’ulteriore disamina tra le
medesime parti della qualificazione giuridica del rapporto stesso contenuta in una decisione
della Commissione Tributaria passata in giudicato”.
3.2. In senso contrario, si è pronunciata la sentenza n. 8709/2003 della medesima
Sezione Tributaria, secondo la quale “nel sistema tributario, ogni anno fiscale mantiene la
propria autonomia rispetto agli altri e comporta la costituzione, tra contribuente e fisco, di
un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi agli anni precedenti e successivi. Ne
consegue che, qualora le controversie relative a diverse annualità d’imposta del medesimo
tributo, ancorché concernenti questioni in tutto o in parte analoghe, siano separatamente
decise con più sentenze (anziché con una sola, previa riunione dei relativi giudizi), ciascun
giudizio mantiene la sua autonomia e la decisione ad esso relativa non è suscettibile di costituire
cosa giudicata rispetto ai giudizi relativi alle altre annualità”. Un concetto analogo si
trova espresso nella sentenza n. 14714/2001 della stessa Sezione, laddove si afferma che
“nel contenzioso tributario, ai fini dell’applicazione dell’art. 395, n. 5, c.p.c. (richiamato dall’art.
64 D.Lgs. n. 546/1992), perché una sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente
avente autorità di cosa giudicata, occorre che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti
e di oggetto, tale che l’oggetto del secondo giudizio sia costituito dal medesimo apporto
tributario definito irrevocabilmente nel primo, ovvero che in quest’ultimo sia stato definitivamente
compiuto un accertamento radicalmente incompatibile con quello operante nel
giudizio successivo; ne consegue che – posto che, ex art. 7 TUIR, l’imposta sui redditi è
dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma
– non è configurabile il detto motivo di revocazione allorché il precedente giudicato si
riferisca ad un’annualità di imposta sui redditi diversa dal periodo d’imposta considerato
nell’impugnata sentenza”. In fattispecie non tributaria, a conclusioni (apparentemente) non
dissimili sembra pervenire la sentenza n. 14593/2004 della Seconda Sezione secondo la
quale “ricorre l’effetto preclusivo del giudicato esterno allorché tra il giudizio in corso e
quello definito con sentenza inoppugnabile sussista una piena identità di causa pretendi e di
petitum, il che non può verificarsi qualora siano azionati in giudizio due crediti diversi, sebbene
relativi ad uno stesso rapporto che si protrae nel tempo, per la cui concreta realizzazione
sono necessari due distinti titoli esecutivi”.
3.3. Queste Sezioni Unite ritengono sia da affermare la maggior correttezza del primo
tra gli orientamenti descritti, sia pur con qualche ulteriore precisazione dovuta, in special
modo, alla peculiarità della materia tributaria che poco si presta a generalizzazioni.
3.4. I problemi in realtà non sorgono in ragione di una supposta radicale diversità del
processo tributario rispetto al processo civile, che anzi, come evidenzia la dottrina più consapevole,
la legge di delega dalla qual è nata la disciplina del nuovo (ed ancor attuale) processo
tributario aveva assunto, tra i criteri e i principi direttivi della riforma, proprio l’adeguamento
del processo tributario al processo civile (e in questa direzione appare con chiarezza
orientata ogni successiva evoluzione delle regole processuali).
In particolare si è formato un consenso ormai quasi unanime sul fatto che il processo
tributario non sia un “giudizio sull’atto” (da annullare), ma abbia, invece, ad oggetto la tutela
di un diritto soggettivo del contribuente: un giudizio che inevitabilmente si estende al
merito e, quindi, anche all’accertamento del rapporto. La giurisprudenza di questa Corte, in
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 197
linea con siffatto orientamento, ha affermato che “l’impugnazione davanti al giudice tributario
attribuisce a quest’ultimo la cognizione non solo dell’atto, come nelle ipotesi di “impugnazione
annullamento”, orientate unicamente all’eliminazione dell’atto, ma anche del rapporto
tributario, trattandosi di una cd. “impugnazione-merito”, perché diretta alla pronuncia
di una decisione di merito sostitutiva (nella specie) dell’accertamento dell’Amministrazione
Finanziaria, implicante per esso giudice di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti
posti dalle domande di parte; ne consegue che il giudice che ritenga invalido l’avviso di
accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad
annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando
una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i
limiti posti dalle domande di parte” (così Cass. n. 3309/2004 ; in senso conforme cfr. Cass.
nn. 614/2006; 4280/2001 ; v. altresì, Cass. nn. 28770/2005; 16171/2300). Sicché, una volta
stabilito che il processo tributario non è (solo) un “giudizio sull’atto”, si deve escludere che
il giudicato (salvo che il giudizio non si sia risolto nell’annullamento dell’atto per vizi formali
o per vizio di motivazione) esaurisca i propri effetti nel limitato perimetro del giudizio
in esito al quale si è formato e se ne deve ammettere una potenziale capacità espansiva in
un altro giudizio tra le stesse parti, secondo regole non dissimili – nei limiti della “specificità
tributaria” – da quelle che disciplinano l’efficacia del “giudicato esterno” nel processo
civile.
D’altro canto, la tipicità del modello processuale tributario non può essere letta senza
tener conto del fatto che la nuova formulazione dell’art. 111 Cost. fissa una direttiva generale
cui deve rispondere l’interpretazione di ogni modello processuale secondo la regola del
“giusto processo”, che impone tra l’altro la realizzazione della “effettività della tutela”
(scopo cui precipuamente risponde l’efficacia del giudicato).
3.5. La maggiore difficoltà che, in materia tributaria, trova il riconoscimento di una
“ultrattività del giudicato” – cioè della possibilità che l’accertamento relativo ad un periodo
d’imposta “faccia stato” anche per i periodi successivi -, è dovuta alla “autonomia dei periodi
d’imposta”, che troverebbe un sostegno normativo nella disposizione di cui all’art. 7,
TUIR, secondo la quale l’imposta è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde
un’obbligazione tributaria autonoma”. In una prospettiva analoga, ma con riferimento alla
diversa fattispecie delle obbligazioni contributive nel settore delle assicurazioni sociali
obbligatorie, è stata negata la “configurabilità di un unico rapporto giuridico fondamentale
che colleghi i debiti relativi dei diversi periodi”, con la conseguenza che “la diversità dei
periodi, pur nell’identità dei termini di riferimento e di connotazione del rapporto, basta a
far configurare quali diversi i rapporti contributivi ad essi afferenti, dal che segue, a sua
volta, che il giudice del primo giudizio non può stabilire, con efficacia di giudicato, che le
norme sottoposte al suo esame debbano essere interpretate nel senso che anche per il futuro
l’obbligo contributivo si atteggia in un determinato modo, giacché per questa parte egli giudicherebbe
di un rapporto del quale non si sono ancora realizzati tutti i presupposti, e pertanto
in assenza di un interesse delle parti alla relativa pronunzia, configurandosi quindi una
tale decisione, per questo aspetto, quale meramente interpretativa della astratta volontà di
legge e non, come è invece coessenziale al giudicato, come affermazione della volontà di
legge nel caso concreto” (Cass. S.U. n. 10933/1997).
In realtà la disposizione di cui all’art. 7 TUIR – la quale riguarda, peraltro, le sole
imposte sui redditi (e non ogni fattispecie di “imposta periodica”) e trova significative deroghe
sul piano normativo (ad es. per quanto concerne il “riporto delle perdite”, il “riporto dei
crediti d’imposta”, la “rettifica delle rimanenze”) – non ha alcuna decisività (come non l’ha,
198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
per la specificità del tema affrontato, la precitata sentenza delle Sezioni Unite n.
10933/1997) rispetto alla soluzione del problema della “ultrattività del giudicato”, in quanto,
come ha rilevato la dottrina più consapevole, l’autonomia delle obbligazioni d’imposta
relative a periodi diversi vale solo a negare la possibile esistenza di un’unica obbligazione
corrispondente a più periodi d’imposta o di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra le
più obbligazioni sorte in periodi d’imposta diversi: ma non vale ad escludere, e ciò proprio
per la “periodicità” di alcuni tributi, che possano esistere elementi rilevanti ai fini della
determinazione del dovuto che siano comuni a più periodi d’imposta o che l’accertamento
giudiziale del modo d’essere dell’obbligazione relativa ad un singolo periodo d’imposta
possa implicare anche l’accertamento di una questione capace di “fare stato” (con forza di
giudicato) nel giudizio relativo all’obbligazione sorta in un periodo d’imposta diverso. In
altri termini, se è vero che l’autonomia dei periodi d’imposta comporta l’indifferenza della
fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti
che si siano verificati al di fuori del periodo considerato, è altrettanto vero che una siffatta
indifferenza trova ragionevole giustificazione solo in relazione a quei fatti che non abbiano
caratteristica di durata e che comunque siano variabili da periodo a periodo (ad es. la capacità
contributiva, le spese deducibili): ma ben vi possono essere – ed effettivamente vi sono
– elementi costitutivi della fattispecie a carattere (tendenzialmente) permanente, in quanto
entrano a comporre la fattispecie medesima per medesima pluralità di periodi di imposta.
Così lo sono, ad es., le qualificazioni giuridiche (che individuano vere e proprie situazioni
di fatto) – “ente commerciale”, “ente non commerciale”, “soggetto residente”, “soggetto
non residente”, “bene di interesse storico-artistico”, ecc. – assunte dal legislatore quali elementi
“preliminari” per l’applicazione di una specifica disciplina tributaria e per la determinazione
in concreto dell’obbligazione per una pluralità di periodi d’imposta (a valere, cioè,
fino a quando quella qualificazione non sia venuta meno fattualmente – ad es. trasformazione
dell’ente non commerciale in ente commerciale – o normativamente). A questa tipologia
di “elementi preliminari”, possono essere ascritti anche la “categoria e la rendita catastale”
e la “spettanza di un’esenzione o agevolazione pluriennale”.
3.6. È innegabile che tali elementi – per la loro caratteristica di eccedere il limitato arco
temporale del “periodo d’imposta” assunto dalla norma tributaria per la determinazione del
dovuto, rimanendo costanti per più periodi, e per la loro pregiudizialità nella costituzione
della medesima fattispecie tributaria oggetto del giudizio relativo ad ogni singolo periodo
d’imposta – possono essere oggetto di accertamento e l’eventuale giudicato formatosi in un
giudizio relativo ad un periodo di imposta può (e deve) avere efficacia preclusiva nel giudizio
relativo al medesimo tributo per altro periodo d’imposta. Altrimenti si verrebbe a porre
in discussione lo stesso principio di effettività della tutela, alla cui asseverazione risponde
la c.d. “efficacia regolamentare del giudicato” (e del giudicato tributario, in particolare), in
base alla quale il primo giudicato – stante il suo contenuto precettivo che eccede la definizione
del “segmento di rapporto” oggetto specifico del singolo giudizio e assume il valore
di regola dell’agire futuro delle parti, così realizzando l’interesse protetto dalla situazione
giuridica accertata in giudizio – è idoneo a condizionare ogni successivo giudizio, immutata
restando la situazione fattuale e normativa.
Ciò vale tanto più con riferimento ai summenzionati “elementi preliminari” nella costituzione
della fattispecie tributaria – ad es., come si è già detto, le “qualificazioni giuridiche”
-, i quali, per la loro strutturale propedeuticità (o strumentalità) al riconoscimento di un
determinato diritto, sono naturalmente correlati ad un interesse protetto che ha il carattere
della durevolezza e, quindi, all’efficacia regolamentare del giudicato che su di essi si sia for-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 199
mato. Ciò esclude, peraltro, che il giudicato relativo ad un singolo periodo d’imposta sia
idoneo a “fare stato” per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica: non ad ogni
statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì, come conviene un’autorevole
dottrina, solo a quelle che siano relative a “qualificazioni giuridiche” o ad altri eventuali
“elementi preliminari” rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente
il carattere della durevolezza nel tempo.
In buona sostanza, si tratta di evitare un’eccessiva enfatizzazione della autonomia dei
periodi di imposta, privilegiando la possibile considerazione unitaria del tributo (periodico)
dettata dalla sua stessa ciclicità, nel rispetto, sul piano sostanziale, del principio di ragionevolezza
e, sul piano processuale, del principio della effettività della tutela. Si tratta ancora
una volta di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario il quale, al di là
delle soluzioni specifiche relative al caso concreto dibattuto in giudizio, è destinato ad essere,
per gli elementi della fattispecie che a questo fine rilevino, norma agendi, cui dovranno
conformarsi tanto l’amministrazione quanto il contribuente – stretti da un vincolo procedimentale
di collaborazione nella determinazione del tributo che corre tra i poli della dichiarazione
(e possibile autoliquidazione) e del controllo (ed eventuale accertamento-rettifica) –
per la individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi di imposta.
Gli elementi rispetto ai quali opera l’efficacia regolamentare del giudicato tributario
sono quelli, e solo quelli, che abbiano un “valore condizionante” per la valutazione e la
disciplina di una pluralità di altri elementi della fattispecie e per la produzione degli effetti
previsti dalla norma (o, secondo il linguaggio utilizzato da altra dottrina, quegli elementi che
costituiscano “i referenti per l’applicazione di specifiche discipline”).
4. Tornando ora al caso oggetto del presente giudizio, si può osservare che esso concerne
una fattispecie di pretesa esenzione pluriennale che sarebbe stabilita dall’art. 66,
comma 14, D.L. 331/1993, convertito con legge 427/1993, a norma della quale “nei confronti
delle società per azioni e delle aziende speciali istituite ai sensi degli artt. 22 e 23 della
legge 8 giugno 1990, n. 142, nonché nei confronti dei nuovi consorzi costituiti a norma degli
artt. 25 e 60 della medesima legge si applicano, fino al termine del terzo anno dell’esercizio
successivo a quello rispettivamente di acquisizione della personalità giuridica o della trasformazione
in aziende speciali consortili, le disposizioni tributarie applicabili all’ente territoriale
di appartenenza”.
Nella fattispecie si tratterebbe dell’esclusione dalla soggezione ad IVA, come per i
comuni, della prestazione di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani svolta da un’azienda
speciale (nel caso, la controricorrente e ricorrente incidentale) per il primo triennio di attività.
4.1. Non rileva discutere in questa sede del fatto se una siffatta “esenzione” spettasse o
meno all’A. M. I. A. per il Comune di Verona, in quanto è stato accertato, con sentenza passata
in giudicato, che la esenzione effettivamente spettava all’A. M. I. A. per gli anni 1998
e 1999, laddove la sentenza qui impugnata l’ha negata per l’anno 1997 (primo anno del
triennio della supposta esenzione). Orbene, tenuto conto di quanto dapprima si è detto in
ordine all’efficacia del giudicato tributario nell’ambito dei tributi periodici (con le cui caratteristiche
le “esenzioni o agevolazioni pluriennali” hanno una evidente correlazione), va
considerato che in questo tipo di esenzioni o agevolazioni il tempo costituisce un elemento
referente della fattispecie. Invero la “pluriennalità” assume carattere costitutivo dell’esenzione
o agevolazione in quanto il relativo arco temporale di estensione è stabilito in ragione
di una considerazione unitaria di un insieme di periodi di imposta, trattati sostanzialmente
come una sorta di “maxiperiodo”: sicché la disciplina dell’esenzione o agevolazione ha
200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
riguardo non a singole obbligazioni considerate isolatamente, ma ad un complesso unitario
di periodi di imposta, con la ineludibile conseguenza che, una volta accertato con sentenza
passata in giudicato che spetti al contribuente il diritto all’esenzione per un segmento dell’arco
temporale di estensione dell’esenzione medesima, tale sentenza avrà necessariamente
efficacia di giudicato esterno in un diverso giudizio nel quale eventualmente si dibatta
della spettanza del diritto per un’altro segmento del medesimo arco temporale.
L’agevolazione, infatti, o spetta per l’intero spazio pluriennale per il quale è data (nel
caso, il primo triennio di attività dell’azienda speciale) e che nella fattispecie agevolativa è
assunto come elemento unitario, o non spetta affatto.
Pertanto, alla luce delle surriportate considerazioni, va affermato che, nel caso di specie,
è rilevabile – ex officio e sulla base della documentazione acquisita agli atti nel pieno
rispetto del contraddittorio tra le parti – il giudicato esterno formatosi successivamente alla
notifica del ricorso per cassazione relativamente al riconoscimento – per gli anni 1998 e
1999 – della spettanza all’A. M. I. A. dell’esenzione pluriennale dall’IVA per il primo triennio
di attività di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani per il Comune di Verona; va affermato,
altresì, che tale giudicato, per la caratteristica unitaria dell’arco temporale di estensione
dell’agevolazione considerata, ha effetto anche per l’anno oggetto del presente giudizio
(il 1997), che rappresenta il primo del triennio iniziale di esercizio da parte dell’A. M. I. A.
dell’attività agevolata e per il quale spetta, quindi, l’esenzione de qua (come per il 1998 e il
1999).
5. Il ricorso principale proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e
dall’Agenzia delle Entrate poiché finalizzato a porre in discussione la questione relativa alla
spettanza dell’esenzione che risulta coperta dal giudicato esterno dedotto da parte controricorrente,
deve essere, pertanto, rigettato.
Rigettato deve essere anche il ricorso incidentale proposto dall’A. M. I. A. per il
Comune di Verona, relativo al solo capo della compensazione delle spese, in quanto nella
specie, da un lato, non risulta violato il principio secondo il quale le spese non possono essere
poste a carico della parte totalmente vittoriosa e, dall’altro, non risultano addotte dal giudice
di merito ragioni palesemente o macroscopicamente illogiche e tali da inficiare, per la
loro inconsistenza o evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale.
La “novità della questione”, che il giudice di merito assume come motivazione della
disposta compensazione delle spese, non presenta le suddette caratteristiche e si sottrae, pertanto,
al sindacato della Corte.
La rilevanza e la difficoltà delle questioni risolte con il presente giudizio giustifica la
compensazione delle spese anche per quanto concerne la fase di cassazione.
P.Q.M. – La Corte Suprema di Cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.
Compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 maggio 2006».
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 201
202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Tesi a confronto sull’ammissibilità della
costituzione di parte civile nei confronti
dell’ente imputato
(Tribunale di Torino, sezione dei giudici per le indagini preliminari, ordinanza 26 giugno
2006; Tribunale di Milano, sezione decima, 3 marzo 2005).
Francesco Carrara, nelle prime pagine del suo Programma del corso di
diritto criminale, sosteneva che “al delitto è essenziale la genesi del fatto da
una volontà intelligente, la quale non è che nell’uomo”, pertanto “il soggetto
attivo primario del delitto non può essere che l’uomo; solo, in tutto il creato
che come fornito di volontà razionale sia ente dirigibile”.
L’assunto potrebbe risultare irrealistico in un mondo, come il nostro, in
cui le società, o comunque gli enti collettivi indubbiamente agiscono e nel
quale la criminalità delle associazioni illecite e gli illeciti delle associazioni
(1) destano maggiore allarme sociale.
Il pensiero di Carrara, tuttavia, esprime le più profonde radici della nostra
tradizione penalistica, informata al principio societas delinquere non potest,
rappresentando altresì un certo disagio, non alieno a settori disciplinari estranei
al diritto punitivo, nei quali non risulta sempre agevole distinguere l’universitas
degli universi, ossia l’ente collettivo dai singoli membri che lo compongono.
È significativo che la Corte di Cassazione, in base all’assunto che per gli
enti personificati non sia ontologicamente configurabile un coinvolgimento
psicologico in termini di patema d’animo, abbia in un primo tempo negato,
con specifico riferimento all’equa riparazione prevista dalla legge n. 89/01,
la reintegrazione del cosiddetto danno morale soggettivo (cfr. ex plurimis
Cass. civ. 2 agosto 2002, n. 11952).
La constatazione di un difforme orientamento della CEDU, che poneva
sullo stesso piano persone fisiche e giuridiche con riguardo alla possibilità di
ottenere la riparazione del danno non patrimoniale derivante dalla irragionevole
durata del processo, ha indotto i giudici di legittimità ad un ripensamento
e ad accordare espressamente il ristoro dei danni non patrimoniali correlati
all’insorgere di turbamenti di natura psichica.
È stato rilevato, a sostegno del mutato indirizzo, che le persone giuridiche
“hanno una soggettività transitoria e strumentale, in quanto le situazioni
giuridiche loro imputate sono destinate a tradursi… in situazioni giuridiche
riferite ad individui persone fisiche, e che, quindi, nella personalità giuridica
non deve essere ravvisato lo statuto di un’entità diversa dalle persone fisiche,
ma una particolare normativa avente pur sempre ad oggetto relazioni tra
(1) PALAZZO, Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1976, 418 s.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 203
uomini (in tal senso Cass. 26 ottobre 1995 n. 11151 e 12 dicembre 1995, n.
12733). Per detta ragione non si dubita che alle persone giuridiche possono
essere imputati stati soggettivi legati al possesso di qualità psichiche tipicamente
umane, come quelli di buona o mala fede, ovvero le situazioni connesse
alla volontà degli atti o degli effetti di questi, come il dolo o la colpa”
(così Cass. 21 luglio 2004, n. 13504).
L’opzione interpretativa adottata sembra risentire della teoria finzionistica
della persona giuridica elaborata dal Savigny, ma non è questa la sede per
riaccendere la polemica, forse irresolubile e probabilmente di esclusivo interesse
teorico, fra realtà o finzione dell’ente collettivo.
Ai fini del presente scritto ci si limita a rilevare che il D.Lgs. n. 231/01
sancisce de facto il superamento del principio societas puniri non potest.
Accanto alle responsabilità dell’individuo la novella profila una responsabilità
autonoma dell’ente collettivo, distinta dal reato-presupposto commesso
dall’agente-persona fisica.
Sebbene prima facie il ricorso alla sanzione amministrativa come strumento
punitivo contro gli enti collettivi induca a ritenere che il legislatore del
2001 non abbia superato le tradizionali posizioni, la letteratura penalistica
maggioritaria ha inteso la responsabilità “amministrativa” introdotta dalla
novella quale una sorta di formula nominativa, di etichetta adottata dal legislatore
al mero scopo di evitare alla radice ogni possibile contrasto interpretativo
con l’art. 27 Cost.(2).
A sostegno dell’opzione criminalistica depongono la competenza giurisdizionale,
che è stata devoluta al giudice penale, contrariamente alla scelta
operata, con riferimento alle sanzioni amministrative punitive, dalla legge n.
689/81, e l’introduzione di un sistema di norme, di inequivocabile matrice
penalistica, che si completa, ex art. 34 D.Lgs. cit., nel richiamo alla disciplina
del codice di procedura penale del 1988.
Come detto, però, sotto il profilo nominalistico, l’infrazione dell’ente collettivo
costituisce un illecito amministrativo. È, dunque, apparentemente agevole
sostenere che, siccome il D.Lgs. n. 231 del 2001 non introduce un illecito
penale, l’ente non potrà essere chiamato a rispondere delle conseguenze
civilistiche di un reato che non può commettere. Pertanto potrà essere citato
esclusivamente in qualità di responsabile civile ai sensi degli artt. 83 s. c.p.p.
La questione merita una più attenta analisi. Giova riportarsi al dato normativo
che, per la verità, non consente univoche soluzioni e si presta, anzi,
a suffragare opposte soluzioni.
Il Tribunale di Milano, nella pronuncia sotto pubblicata (3), dopo avere
evidenziato, per escludere la costituzione di parte civile, l’assenza nel
(2) Per tutti PALIERO, Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere
(et puniri) potest, in Corr. gir., 2001, 845.
(3) In senso conforme Trib. Milano, ord. 9 marzo 2004, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004,
1333, con nota critica di GROSSO, Sulla costituzione di parte civile nei confronti degli enti col204
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
provvedimento di riforma di una norma corrispondente all’art. 1 85 c.p.,
rileva che:
– l’art. 54 del D.Lgs. cit., nel disciplinare il sequestro conservativo di
beni facenti capo all’ente, individua il P.M. come unico titolare della richiesta
in deroga a quanto disposto dall’art. 316, II c., c.p.c.;
– l’art. 69 D.Lgs. cit. prevede solo l’applicazione all’ente delle sanzioni
amministrative e la condanna al pagamento delle spese processuali, con
esclusione di ogni riferimento alla decisione sulle questioni civili;
– l’art. 58 della novella non prevede, a differenza dell’art. 408, II c.,
c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere
alla archiviazione del procedimento.
Peraltro una diversa interpretazione, sostenuta da autorevole dottrina (4)
e confortata dall’ordinanza del Tribunale di Torino 26 giugno 2006, ammette
la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente collettivo.
Viene dedotto a fondamento della tesi proposta che:
– la costituzione di parte civile non costituisce altro che l’esperimento
della pretesa aquiliana nascente da un illecito per il quale è competente il
giudice penale. A ciò non si oppone l’art. 185 c.p., specificazione dell’art.
2043 c.c., per il quale certamente non è invocabile il divieto di analogia giacché
non viene a costituire norma penale, pur essendo prevista dal Codice
Rocco, ma civile in quanto disciplina la responsabilità risarcitoria;
– le norme di chiusura del provvedimento di riforma del 2001 prevedono,
nel procedimento relativo a illeciti amministrativi dipendenti da reato, l’osservanza
delle disposizioni del codice di procedura penale (art. 34) nonché l’applicazione
delle disposizioni relative all’imputato in quanto compatibili (art. 35);
– gli artt. 12 e 17 del decreto prevedono la riduzione della sanzione pecuniaria
e l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive nel caso che l’ente abbia
risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose
del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso.
Esaminate le opposte argomentazioni, vi è motivo di dubitare che una
scelta fondata sul dato normativo sia del tutto appagante.
L’annosa problematica in esame è forse risolvibile rifacendosi alla natura
giuridica della responsabilità dell’ente.
Ne consegue che il rispetto del nomen juris esclude la costituzione di
parte civile nei confronti dell’ente, diversamente l’adesione all’opzione
penalistica ammette l’azione civile.
Pare decisiva, ai fini della scelta, la considerazione che, nella fattispecie,
l’interesse tutelato dall’intervento del legislatore del 2001 è costituito dal
lettivi chiamati a rispondere ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 davanti al giudice penale;
Trib. Torino, ord. 13 novembre 2004; Trib. Milano, ord. 25 gennaio 2005, tutte pubblicate sulla
rassegna giurisprudenziale del sito in rete della Rivista della responsabilità amministrativa
delle società e degli enti, www.rivista231.it.
(4) GROSSO, op. ult. cit, 1335 s.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 205
bene giuridico del reato-presupposto della responsabilità dell’ente.
Coincidendo i beni giuridici tutelati, pare contraddittorio che il legislatore
individui nella condotta umana un reato e, di contro, un’infrazione amministrativa
per l’ente collettivo (5).
Sul punto, in attesa che si consolidi un orientamento giurisprudenziale univoco,
rilevato che, in un recente intervento della Cassazione (6), i giudici di
legittimità hanno chiaramente enunciato che il D.Lgs. n. 231 del 2001 viene a
“sancire la morte del dogma societas delinquere non potest” in quanto “ad onta
del nomen juris, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula
la sua natura sostanzialmente penale, forse sottaciuta per non aprire delicati
conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale, di rango
costituzionale (art. 27 Cost.)”, sembra opportuno interrogarsi su come affrontare,
dalla parte del soggetto offeso, un procedimento ex D.Lgs. n. 231/01.
È stato notato che citazione del responsabile civile e costituzione di parte
civile presuppongono responsabilità differenti (7). L’una indiretta, per fatto
altrui, ai sensi dell’art. 2049 c.c., in ragione del rapporto che lega l’imputato
all’ente; la seconda diretta con riguardo all’autonoma responsabilità del soggetto
collettivo a titolo di illecito amministrativo dipendente da reato.
Effettivamente si tratta di illeciti distinti da cui può derivare un differente
pregiudizio.
È da ritenere, tuttavia, che, quanto meno nella maggior parte dei casi,
dalla condotta lesiva origini un unico danno la cui riparazione non può essere
richiesta due volte, pena una eccessiva richiesta risarcitoria rispetto al
detrimento effettivamente subito.
Conviene, in ogni caso, intraprendere le iniziative giudiziarie più idonee
ad assicurare l’effettivo ristoro della persona offesa e forse occorre non abdicare
alle prerogative processuali riconducibili alle profilate differenti responsabilità,
e dunque costituirsi parte civile nei confronti dell’agente-persona
fisica, contestualmente citando come responsabile civile l’impresa, nonché
costituirsi parte civile nei confronti del soggetto collettivo.
L’utilità di citare in qualità di responsabile civile l’ente trae fondamento
dall’eventualità che, all’esito del giudizio, l’imputato persona fisica possa
essere condannato e, di contro, assolto l’ente collettivo per l’illecito “amministrativo
dipendente da reato”.
Peraltro, la valutazione di opportunità sulla costituzione di parte civile
nei confronti dell’ente è giustificata ove si consideri la fattispecie in cui il
(5) Sia consentito fare rinvio per ulteriori e più specifiche considerazioni a VIGNOLI, La
controversa ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato,
in Resp. amm. soc. enti, 2006, n. 3, 19 s.
(6) Cass., Sez. II pen, 20 dicembre 2005-30 gennaio 2006, n. 3615, in Guida dir., 2006,
n. 15, 59 s., con commento di GALDIERI, L’assenza di un vantaggio economico non esclude
l’applicazione delle sanzioni.
(7) GROSSO, op. ult. cit, 1335 s.
206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
reo-persona fisica non venga identificato (art. 8 D.Lgs. cit.), pur essendo,
oltre ogni ragionevole dubbio, comprovato che l’evento lesivo sia riconducibile
all’attività d’impresa e si possa muovere all’ente un rimprovero con contestuale
condanna del soggetto organizzato.
Dott. Francesco Vignoli (*)
Tribunale di Torino, sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari, ordinanza 26 giugno
2006 – Giud. A. Salvatori.
«(…) Quanto all’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti di un ente
chiamato a rispondere quale responsabile amministrativo ai sensi del D.Lgs. 231/01, sembra
opportuno prendere le mosse dal profilo strettamente civilistico della questione, posto
che la costituzione di parte civile nel processo penale altro non è se non l’esperimento od il
trasferimento davanti al giudice penale del giudizio relativo alla responsabilità ordinariamente
azionabile davanti al giudice civile. Secondo l’impostazione tradizionale, la responsabilità
civile di un ente poteva essere ancorata al disposto dell’art. 2049 c.c.. Tale norma,
che come è noto prevede la responsabilità in capo al padrone o al committente per un fatto
illecito del dipendente o del commesso, consentiva già prima dell’entrata in vigore del
D.Lgs. 231/01, l’esercizio nel processo penale delle pretese civili nei confronti dell’ente per
danni cagionati dal reato realizzato dalla persona fisica, attraverso lo strumento della citazione
del responsabile civile ex artt. 83 e ss. c.p.p.. Il D.Lgs. 231/01 non ha lasciato la situazione
immutata. Invero, a prescindere dalla natura (amministrativa, penale, tertium genus)
degli illeciti qualificati dalla legge come “amministrativi dipendenti da reato”, non può essere
superato il dato incontrovertibile dell’introduzione mediante il D.Lgs. 231/01 di una
nuova ipotesi di illecito. Posto che l’art. 2043 c.c. prevede che “qualunque fatto illecito” che
cagiona ad altri un danno obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno, ne consegue
che, a seguito del D.Lgs. 231/01, il danneggiato deve ritenersi legittimato ad adire il
giudice civile anche per ottenere dall’ente il risarcimento dei danni che sono scaturiti dalla
realizzazione degli illeciti amministrativi ad esso riconducibili.
Alla responsabilità indiretta dell’ente, che trae la propria fonte nell’art. 2049 c.c., si è
aggiunta, pertanto, una responsabilità diretta dell’ente stesso ex art. 2043 c.c.. Va ancora
segnalato che, in base alla nuova disciplina più volte richiamata, la competenza a giudicare
su questa nuova ipotesi di illecito spetta al giudice penale. Appare coerente con il sistema
ritenere che, in assenza di una esplicita esclusione, anche per tale pretesa civile – originata
dal combinato disposto della disciplina del D.Lgs. 231/01 e dall’art. 2043 c.c. – debba valere
il principio generale, sancito dagli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., secondo cui l’azione civile
può essere iniziata o trasferita nel processo penale. Tali norme, che stabiliscono rispettivamente
che “ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga
al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili debbono rispondere
per il fatto da quello commesso” e che “l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento
del danno di cui all’art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale dal sogget-
(*) Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale di Milano.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 207
to al quale il reato ha arrecato danno nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”,
non appaiono infatti ostative alla possibilità per il danneggiato di far valere la propria pretesa
risarcitoria nel procedimento, che si svolge davanti al giudice penale, relativo all’accertamento
della responsabilità dell’ente.
Al contrario, non può non rilevarsi come il D.Lgs. 231/01, pur qualificando espressamente
come amministrativa la responsabilità degli enti, nel dettare la specifica disciplina
applicabile alla materia riferisca ripetutamente tale responsabilità al “reato”; la circostanza
che, a prescindere dalla natura della stessa, si tratti di una forma di responsabilità “da reato”,
fornisce un aggancio letterale non irrilevante al contenuto dell’art. 185 c.p. Inoltre, la corretta
e sistematica interpretazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. – i quali, si ribadisce, sanciscono,
in modo chiaro con riferimento alla competenza del giudice penale esistente al
momento della loro promulgazione, un principio di portata generale – non può prescindere
dalla novità rappresentata dalla sopravvenuta attribuzione al giudice penale anche della
competenza a giudicare degli illeciti previsti dal D.Lgs. 231/01. Per mera completezza, si
rileva che, ove non si ritenesse di addivenire a tale interpretazione estensiva, nel caso di specie
dovrebbe farsi ricorso all’analogia – pacificamente ammissibile posto che l’art. 185 c.p.
rappresenta una norma che, sebbene prevista nel codice penale, non è una norma penale, ma
una norma civile (costituente una specificazione dell’art. 2043 c.c.), mentre l’art. 74 c.p.p.
è una norma processuale – al fine di evitare una ingiustificata disparità di trattamento di
situazioni simili. Su tali basi, le disposizioni del codice di procedura penale e le disposizioni
processuali relative all’imputato che consentono la costituzione di parte civile – richiamate
dagli artt. 34 e 35 del D.Lgs. 231/01 – appaiono pienamente compatibili e dunque
applicabili anche al procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
A fronte delle argomentazioni sopra accennate, non appaiono decisivi i rilievi che sono
stati posti a fondamento di decisioni di merito di segno opposto (cfr. Trib. Milano ordinanza
9 marzo 2004 gip Forleo; Trib. Milano ordinanza 25 gennaio 2005 gip Tacconi; Trib.
Torino 13 novembre 2004 gip Perelli). Si ribadisce l’irrilevanza della natura della responsabilità
dell’ente, in quanto la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. può fondarsi anche su
un mero illecito amministrativo.
Si evidenzia, poi, che il legislatore del D.Lgs. 231/01 ha espressamente formulato un
generale richiamo alle norme del codice di procedura penale e alla disciplina applicabile
all’imputato mediante l’art. 34 e l’art. 35 all’evidente fine di evitare una gravosa riproposizione
dell’intera disciplina codicistica. Tale scelta, che appare ampiamente giustificata dalla
esigenza di non appesantire inutilmente la disciplina di legislazione speciale, consente di
agevolmente superare gli argomenti che fanno leva sulla mancata previsione nella Sezione
II del Capo III “soggetti, giurisdizione e competenza” della parte civile (differentemente da
quanto avviene nel libro I del c.p.p. in cui vi è compiutamente disciplinata la detta parte),
sull’assenza di previsione o mancato espresso richiamo dell’istituto della costituzione di
parte civile e delle disposizioni concernenti la condanna ai danni e alle spese relative all’azione
civile. Per quanto concerne l’art. 54 relativo al sequestro conservativo, laddove non
solo non prevede alcun potere in capo alla parte civile ma, nel richiamare espressamente la
disciplina del sequestro conservativo del c.p.p., con riferimento all’art. 316 c.p.p. limita il
richiamo al relativo quarto comma, omettendo il comma secondo (ossia quello che consente
la richiesta anche alla parte civile sui beni dell’imputato o del responsabile civile) ed il
comma terzo (che stabilisce che il sequestro richiesto dal P.M. giova anche alla parte civile),
la specificità e puntualità dei riferimenti potrebbe far ritenere effettivamente non colmabile
tale lacuna ai sensi dell’art. 34. Tuttavia, ciò dimostrerebbe esclusivamente la volontà
208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
legislativa di introdurre una specifica deroga – che appare giustificata dalla particolare attenzione
mostrata dal legislatore (e resa palese dal disposto dell’art. 15 in materia di commissario
giudiziale) alle esigenze pubbliche e alle ripercussioni sull’occupazione – alla disciplina
generale in materia di sequestro, ma non implica necessariamente che si sia voluta introdurre
una analoga deroga ai principi generali in materia di parte civile. Peraltro tale argomento
– che dalla esclusione della possibilità per la parte civile di richiedere il sequestro
conservativo deduce la impossibilità della costituzione stessa nel procedimento relativo
all’accertamento degli illeciti di cui al D.Lgs. 231/01 – sembra provare troppo in quanto
coerentemente se ne dovrebbe dedurre non soltanto l’impossibilità di costituirsi pare civile
nei confronti dell’ente, ma addirittura la impossibilità di citarlo quale responsabile civile.
Altrettanto non risolutive le ragioni che si fondano sulla completa assenza di riferimenti
alla persona offesa o alla parte civile nell’art. 58 (che non prevede, come invece l’art. 408
comma 2 c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere
alla archiviazione del procedimento), posto che si tratta di una procedura decisamente più
snella, drasticamente difforme da quella codicistica, tanto da non prevedere neppure l’intervento
del giudice. Del tutto irrilevante il ragionamento che si fonda sul disposto dell’art. 61
comma 2 e sulla mancata previsione della indicazione della persona offesa dal reato nel
decreto che dispone il giudizio nei confronti dell’ente, tenuto conto che tale norma – in perfetta
aderenza con la tecnica legislativa sopra menzionata – non prevede neppure, contrariamente
all’art. 429 c.p.p., che venga indicata la denominazione dell’ente, il giudice competente,
l’indicazione del giorno, del luogo e dell’ora della comparizione.
P.q.m. (…) rigetta tutte le altre eccezioni di esclusione delle parti civili ed ammette le
restanti costituzioni di parte civile».
Tribunale Ordinario di Milano, sezione decima, 3 marzo 2005.
«II Tribunale, premesso che:
– con decreto 30 aprile 2004 il G.U.P. del Tribunale di Milano ha disposto il rinvio a
giudizio di vari soggetti-persone fisiche per reati di corruzione e di concussione, nonché il
rinvio a giudizio della M. C. s.r.l. per l’illecito amministrativo previsto dagli artt 5 e ss.
D.Lgs. 231/01 in relazione al reato di corruzione propria contestato ad A. E. e V. P., nei cui
confronti si era separatamente proceduto;
– nella prima udienza dibattimentale (7 ottobre 2004) il Tribunale ha disposto la separazione
degli atti relativi alla M. C. s.r.l. e il relativo procedimento è stato assegnato a questo
Collegio;
– nella successiva udienza del 2 dicembre 2004 l’Istituto Nazionale per l’assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), a mezzo del procuratore speciale e difensore Avv.
Nicola D’Angelo, ha depositato atto di costituzione di parte civile nei confronti della M. C.
s.r.l., chiedendone la condanna, in relazione agli illeciti alla stessa ascritti (o “ai diversi illeciti...
ritenuti dall’Autorità Giudiziaria”), al risarcimento dei danni patrimoniali ed extrapatrimoniali
derivati all’INAIL “in conseguenza dei fatti in relazione ai quali è stato chiesto e
disposto il giudizio”; analoga costituzione di parte civile, l’INAIL, aveva operato nell’udienza
preliminare, ma il G.U.P., con provvedimento 9 aprile 2004, l’aveva ritenuta e dichiarata
inammissibile;
– il difensore della M. C. s.r.l. ha chiesto che anche in questa sede sia dichiarata l’inammissibilità
della costituzione di parte civile;
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 209
– il P.M. ha chiesto che sia affermata l’ammissibilità della costituzione, essendo ravvisatole
la legittimazione passiva della società a risarcire in via autonoma il danno;
sentite le parti e visti gli atti, a scioglimento della riserva formulata nell’udienza 2
dicembre 2004, osserva quanto segue.
Il presente procedimento concerne esclusivamente l’illecito contestato alla società M.
C. s.r.l. ex artt. 5 e seguenti del D.Lgs. n. 231/01.
Il citato decreto, emanato in forza della delega contenuta nell’art. 1 della legge 29 settembre
2000 n. 300, disciplina la responsabilità “delle persone giuridiche, delle società e
delle associazioni anche prive di personalità giuridica” in dipendenza da reati commessi, a
loro vantaggio o nel loro interesse, da persone che rivestono posizioni “apicali” o da loro
“sottoposti”. Si tratta di una responsabilità espressamente definita – sia nello stesso decreto,
sia, ancor prima, nella legge delega -”amministrativa” (non penale), come “amministrativi”
(non penali) sono definiti gli illeciti cui essa consegue (art. 1 D.Lgs. n. 231/01) e
“amministrative” le sanzioni per questi comminabili (art. 9 D.Lgs. cit.).
Il decreto legislativo non contempla una norma corrispondente all’art. 185 c.p.; in nessun
punto è positivamente affermato che gli illeciti in questione sono fonte di un obbligo di
risarcimento e, laddove si parla della “responsabilità patrimoniale dell’ente” (art. 27), si fa
cenno solo all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria”. Vero è che nel
secondo comma del medesimo articolo si afferma che “i crediti dello Stato derivanti dagli
illeciti amministrativi hanno privilegio” “sui crediti dipendenti da reato” (ed è solo “a tal
fine” che la sanzione amministrativa pecuniaria viene equiparata alla “pena” pecuniaria), ma
detta previsione non pare in contrasto con quanto sopra osservato, atteso che essa stessa evidenzia
la diversità della fonte dei crediti considerati (da illecito amministrativo da reato).
Il dettato dell’art. 185 c.p. neppure risulta riproposto in relazione all’obbligo di “restituzione”
ed elementi di segno contrario non sono ravvisabili nella disposizione di cui all’art.
19 del decreto – il quale prevede la confisca nei confronti dell’ente “del prezzo o del profitto
del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato” – in quanto appare
evidente che la norma si riferisce al “danneggiato” dal reato (non dall’illecito amministrativo)
e che la previsione – la quale, peraltro, diversamente da quanto stabilito per la confisca,
non ammette la restituzione per equivalente – si limita a disciplinare la diversa destinazione
da dare al bene materiale, prezzo o profitto del reato, che, altrimenti, sarebbe comunque
oggetto di confìsca.
All’assenza di una norma di diritto ‘sostanziale’ fa riscontro l’assenza di disposizioni
che, in materia ‘processuale’, analogamente a quanto previsto dall’art. 74 c.p.p., prevedano
e disciplinino la legittimazione e l’esercizio dell’azione civile nel procedimento relativo agli
illeciti amministrativi dipendenti da reato.
Detto procedimento è oggetto del Capo III del D.Lgs. n. 231/01, la cui Sezione seconda,
relativa ai soggetti, pone norme in ordine all’individuazione dell’Autorità competente a
conoscere degli illeciti amministrativi, alla partecipazione dell’ente al procedimento (ivi
comprese le ipotesi di contumacia) e alla figura del difensore dell’ente, ma, diversamente
dal Libro I del codice di procedura penale (pure relativo ai soggetti), non contiene alcun
cenno all’istituto della costituzione di pare civile. Quest’ultima non è mai menzionata in
tutto il decreto, neppure in tema di misure cautelari (artt. 45 e segg.) di disciplina delle indagini
preliminari e dell’udienza preliminare (artt. 55 e segg.), di procedimenti speciali (artt.
62-64); non nella disciplina del giudizio (artt. 65 e segg.), laddove, in tema di condanna (art.
69), prevede solo l’applicazione all’ente delle sanzioni amministrative e la condanna al
pagamento delle spese processuali, con esclusione di ogni riferimento alla decisione sulle
210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
questioni civili, ampiamente trattate, invece, dal codice di procedura penale; non in tema di
impugnazioni (artt. 71-73).
Orbene, benché l’art. 34 D.Lgs. n. 231/01 stabilisca che nel procedimento relativo agli
illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano le norme dello stesso Capo III del
decreto, nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del
D.Lgs. n. 271/89 (disposizioni dì attuazione del c.p.p.), non pare che, in tema di costituzione
di parte civile, il silenzio del legislatore delegato sia riconducibile ad implicito richiamo
alle norme processual-penalistiche, né pare che tali norme siano compatibili con l’impianto
e le espresse previsioni del decreto in esame.
In tal senso militano numerose disposizioni che, nel disciplinare istituti o “momenti
procedurali” presenti anche nel codice di procedura penale, significativamente non contemplano
la persona offesa (né la persona offesa dal reato, né una ipotetica persona offesa dall’illecito
amministrativo), ovverosia il soggetto che, più di ogni altro, potrebbe presentar
veste di danneggiato, con conseguente interesse per le sorti del procedimento.
Così, esemplificativamente, l’art. 55 del decreto, in tema di annotazione dell’illecito
amministrativo, stabilisce che l’annotazione sul registro di cui all’art. 335 c.p.p. è comunicata
all’ente o al suo difensore che ne faccia richiesta negli stessi limiti in cui è consentita
la comunicazione delle iscrizioni della notizia di reato alla persona alla quale il reato è
attribuito; non è, dunque, prevista la comunicazione a persona offesa, espressamente
richiamata, invece, nell’art. 335, co. 3, c.p.p. L’art. 58 del decreto, in tema di archiviazione,
non prevede alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere
all’archiviazione degli atti, diversamente da quanto stabilito nell’art. 408, comma 2,
c.p.p.; vero è che l’istituto presenta connotazioni differenti da quello disciplinato dal codice
di procedura penale, ma la diversità dell’Autorità Giudiziaria competente a disporre l’archiviazione
(qui il P.M. anziché il G.I.P., significativamente, quanto alla natura dell’azione,
a fronte del disposto dell’art. 112 Cost.) non pare rilevante in questa sede alla luce delle
finalità della prevista comunicazione del decreto di archiviazione al procuratore generale
presso la corte d’appello, suscettibile di dar luogo a nuovi accertamenti e ad una diversa
decisione. L’art. 61 del decreto, in tema di contenuto del decreto disponente il giudizio,
diversamente dall’art. 429 c.p.p., non prevede l’indicazione né della persona offesa, né
delle altre parti private (e dunque anche la parte civile) diverse dal soggetto che viene rinviato
a giudizio. Di particolare rilievo è, poi, l’art. 54 del decreto, in tema di sequestro conservativo.
Analogamente a quanto previsto dall’art. 316 c.p.p., la norma in questione stabilisce
che il sequestro possa essere richiesto dal P.M. se vi è fondata ragione di ritenere che
manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della sanzione (nel 316 c.p.p., pena)
pecuniaria, delle spese del dissequestro conservativo possa essere anche formulata dalla
parte civile a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato, mentre l’art. 54 D.Lgs.
n. 231/01 non solo non ripropone espressamente tale statuizione, non solo non prevede il
sequestro su richiesta della parte civile a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dall’illecito
amministrativo, ma, nel richiamare l’art. 316 c.p.p. fa esclusivo riferimento al quarto
comma (e “in quanto applicabile”), omettendo sia il secondo comma ( richiesta della
parte civile), sia il terzo comma (“Il sequestro disposto a richiesta del pubblico ministero
giova anche alla parte civile”).
Tutto ciò evidenzia che si è in presenza di una precisa scelta del legislatore di non
prevedere, nel procedimento per l’illecito amministrativo dipendente da reato, la possibilità
di costituzione di parte civile in quanto, da un lato, il tenore letterale dell’art. 54 citato
esclude che le ulteriori previsioni dell’art. 316 c.p.p. possano trovare ingresso in virtù
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 211
del richiamo alle norme del codice di procedura penale ex art. 34 dello stesso decreto e,
dall’altro, risulterebbe del tutto illogico che, una volta ritenuta ammissibile la costituzione
di parte civile, la stessa venisse privata di uno degli strumenti di maggior rilievo finalizzato
ad assicurare le garanzie del soddisfacimento delle sue pretese. Le considerazioni
sin qui esposte portano a ritenere inammissibile la costituzione di parte civile nei confronti
dell’ente cui sia contestato un illecito amministrativo ex D.Lgs. n. 231/01. A diversa
conclusione non pare si possa pervenire in ragione di quanto osservato dalla difesa
dell’INAIL e dal P.M.
Inconferente risulta, in primo luogo, il richiamo all’art. 8 del decreto, laddove stabilisce
che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato
identificato o non è imputabile. Tale norma, invero, non incide sulla natura e sul contenuto
della responsabilità dell’ente ed anzi conferma la diversità di quest’ultima dalla
responsabilità dell’autore del reato, con i conseguenti riflessi in ordine all’applicabilità
del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. che all’autore del reato fanno riferimento.
Inconferente risulta, ancora, il richiamo agli artt. 13 (sanzioni interdittive applicabili
nel caso in cui l’ente abbia tratto dal reato un profìtto di rilevante entità e il reato sia stato
commesso da soggetti in posizione “apicale”) e 5 (inversione dell’onere della prova nel caso
di reato commesso da soggetti in posizione “apicale”) del decreto. È indubbio, invero, che
il D.Lgs. n. 231/01 abbia introdotto una responsabilità diversa da quella, per fatto altrui, prevista
dall’art. 2049 (che da luogo alla possibilità di essere citato quale responsabile civile nel
procedimento penale a carico dell’imputato) e pure diversa da quella disciplinata dall’art. 6
legge n. 689/81, ed è altresì vero che, nel sistema delineato dal D.Lgs. n. 231/01, l’ente
risponde per un fatto proprio, ma tale fatto, appunto, non è un reato, la sua responsabilità
non è penale e dunque il richiamo alle citate norme non modifica quanto in precedenza
osservato.
Quanto agli artt. 12 e 17 del decreto – i quali prevedono la riduzione della sanzione
pecuniaria e l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive nel caso, tra l’altro, che l’ente abbia
risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato,
ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso – va pienamente condiviso
quanto già osservato dal G.I.P. Si tratta, certamente, di norme volte ad incentivare condotte
riparatorie, ma non tali da confortare l’assunto di una diretta legittimazione passiva dell’ente
rispetto all’azione civile del danneggiato dal reato in un procedimento che ha per oggetto
un fatto diverso, un illecito amministrativo. E che tali articoli facciano riferimento al
danno cagionato dal reato (non dall’illecito amministrativo) risulta chiaro dal tenore testuale
degli stessi e, quanto all’art. 17, dalla sua rubrica (“Riparazione delle conseguenze del
reato”) e dalla collocazione della previsione nel suo più ampio contenuto, concernente tutti
gli aspetti rilevanti per la sussistenza dell’illecito amministrativo (commissione di un reato
ad opera di uno dei soggetti considerati/risarcimento; carenze organizzativo-gestionali/eliminazione
delle carenze; reato commesso nel suo interesse o vantaggio/messa a disposizione
del profitto).
Considerazioni analoghe valgono per l’art. 65 (termine per provvedere alla riparazione
delle conseguenze del reato) che prevede la possibilità di una sospensione del processo se
l’ente chiede di provvedere alle attività di cui all’art. 7 e dimostra di essere stato nell’impossibilità
di effettuarle prima.
In conclusione e riassuntivamente, non solo il D.Lgs. n. 231/01 non prevede in alcun
punto la costituzione dì parte civile o la parte civile tout court, non solo pone norme che
appaiono escludere tale istituto nell’ambito del procedimento per gli illeciti amministrativi
dipendenti da reato, ma, altresì, qualifica espressamente come illecito amministrativo il fatto
fonte di responsabilità, anch’essa amministrativa, il che esclude l’applicabilità degli artt.
185 c.p. e 74 c.p.p., che al reato ed all’autore dello stesso fanno riferimento.
P. Q. M. Dichiara inammissibile la costituzione di parte civile dell’Istituto Nazionale
per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) nei confronti della M. C. s.r.l. e,
per l’effetto, ne dispone l’esclusione.
Milano, 3 marzo 2005».
212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 213
Modalità di svolgimento di una procedura di
gara a trattativa privata, a seguito della formulazione
da parte di una delle imprese invitate
di un’offerta qualificabile come “nuova” e non
già “migliorativa”.
(Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 2 ottobre 2006 n. 5745)
La trattativa privata rappresenta una procedura prevista e disciplinata
originariamente dall’art. 6 R.D. n. 2440 del 1923 e caratterizzata da ampia
discrezionalità non solo nella scelta del contraente, ma anche nella negoziazione
del contenuto del rapporto contrattuale, sebbene subordinatamente alla
ricorrenza di “speciali ed eccezionali circostanze”, la cui mancanza comporta
l’illegittimità dell’intera procedura “qualora la preferenza accordata a
tale sistema di scelta del contraente si traduca in un provvedimento non
rispondente ad una interpretazione oggettiva dei requisiti di necessità ed
urgenza richiesti dalla normativa vigente”(Consiglio di Stato, sez. IV, 5
luglio 2002, n. 3697 in Foro Amm. C.D.S., 2002, 1639).
Al riguardo il Consiglio di Stato (sez. V, decisione n. 546 del 10 maggio
1999), con riferimento all’art. 267 del T.U. di cui al R.D. 14 settembre 1931,
n. 1175, ha specificato che tale norma “consente di dare in concessione pubblici
servizi (nella specie trattasi di erogazione gas metano) a trattativa privata,
ma solo in presenza di “circostanze speciali” che, però, non possono
coinvolgere esclusivi aspetti di carattere tecnico-economico in quanto ciò
sottrarrebbe le Amministrazioni al confronto concorrenziale in tutti i casi in
cui le stesse fossero in grado di individuare soggetti disposti ad offrire il servizio
a condizioni verosimilmente più favorevoli rispetto ad altri operatori.
Pertanto la norma citata deve essere interpretata in senso restrittivo e conforme
all’attuale orientamento del legislatore, inteso a privilegiare il confronto
concorrenziale tutte le volte in cui vi ostino fatti oggettivamente impeditivi;
con la conseguenza che, non diversamente dalle ipotesi di appalti di
lavori o servizi, anche nel caso delle concessioni di pubblici servizi il ricorso
alla trattativa privata deve ritenersi circoscritto in limiti ristretti e coincidenti
con l’impossibilità, per la Pubblica Amministrazione, di far ricorso
a pubbliche gare in ragione dell’estrema urgenza nel provvedere, ovvero in
relazione alla sussistenza di presupposti d’ordine tecnico tali da impedire, se
non al prezzo di costi sproporzionati, la ricerca di altre soluzioni basate sul
previo confronto concorrenziale”.
Si è giunti anche ad affermare (Consiglio di Stato, sez. V, decisione n.
500 del 28 aprile 1999) che “Il Comune non può affidare il servizio di acquedotto
con il sistema della trattativa privata quando non sussistano giustificazioni
in ordine alle circostanze speciali che lo consentono, non essendo a
tal fine ex se sufficiente il fatto che il Comune stesso partecipi al capitale
societario con una quota del tutto esigua”.
214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Nel rispetto dei previsti limiti applicativi, la discrezionalità riservata alla
Pubblica Amministrazione con la concessione di ampi spazi di intervento ai
fini della negoziazione di uno o più termini del contratto ha trovato il proprio
contrappeso nell’effettiva partecipazione anche del privato alla determinazione
del contenuto contrattuale (cfr. Corte di Cassazione, S.U., 5 dicembre
1995, n. 12523, in Foro Amministrativo, 1996, 1802), elemento questo che
caratterizza e distingue più di ogni altro tale operazione rispetto alle procedure
concorsuali in cui la disciplina del rapporto viene predisposta unilateralmente
dall’Amministrazione appaltante (cfr. Repertorio degli Appalti
Pubblici, a cura di Luca R. Perfetti, 2005, vol. II).
In proposito il Consiglio di Stato (sez. V, decisione n. 90 del 29 gennaio
1999) ha statuito che “L’Amministrazione che stabilisce di affidare a trattativa
privata, previa gara officiosa, un servizio, nella specie quello di tesoreria,
è svincolata dalla puntuale osservanza delle norme che disciplinano, in
modo rigido, le ordinarie procedure concorsuali di scelta del contraente
(asta pubblica, licitazione privata, appalto concorso), essendo titolare di un
potere di apprezzamento assai ampio, subordinato soltanto al rispetto dei
vincoli procedimentali e sostanziali prestabiliti, di volta in volta, dalla stessa
Amministrazione ed ai generalissimi principi di imparzialità e di correttezza
che governano ogni manifestazione dell’attività dei soggetti pubblici”.
In virtù delle circostanze di eccezionalità ed urgenza, e dunque del loro
carattere derogatorio rispetto agli altri metodi selettivi concorsuali, in più
occasioni la giurisprudenza ha posto a carico dell’Amministrazione un pregnante
onere motivazionale, congruo e dettagliato, in ordine alla sussistenza
di dette circostanze, che giustifichi in concreto il ricorso alla trattativa privata
(cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. V, 24 ottobre 2002, n. 5860; sez.
V, 10 giugno 2002, n. 3208).
Anche per quanto attiene agli appalti di servizi, l’applicazione della trattativa
privata è stata influenzata dalle medesime esigenze, inducendo il legislatore
nazionale a recepire pressoché integralmente la normativa contenuta
nella direttiva 92/50 CEE.
Aciò aggiungasi che la trattativa privata coinvolge, oltre la sfera di autonomia
dei due contraenti (privato e pubblico), un più vasto ambito di interessi
e valori di rilievo costituzionale, quali la trasparenza e il buon andamento
ex art. 97 Cost., la salvaguardia della libertà di concorrenza e degli assetti di
mercato, la libertà di iniziativa economica, con conseguente “attitudine lesiva
della sfera giuridica di coloro rimasti estranei alla contrattazione e interessati
all’osservanza delle forme dell’evidenza pubblica”(Consiglio di
Stato, sez. V, 10 aprile 2000, n. 2079, in Foro amm., 2000, 1289).
E’ stato in tal senso specificato che “L’attività preordinata all’affidamento
di contratti pubblici, secondo il modulo della trattativa privata, non è
riconducibile all’esercizio dell’autonomia negoziale propria dei soggetti
privati, ma presenta connotazioni di rilievo pubblicistico, manifestate nell’adozione
di atti amministrativi, sindacabili dal giudice amministrativo, in
quanto lesivi di interessi legittimi” (Consiglio di Stato, sez. V, 24 dicembre
2001, n. 6377, in Foro Amministrativo 2001, 3184; T.A.R. Lazio, sez. I, 21
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 215
giugno 2001, n. 5542, in Foro Amministrativo 2001; Consiglio di Stato, sez.
V, 3 febbraio 1999, n. 112, in Foro Amministrativo 1999, 340).
La sindacabilità della scelta operata dall’Amministrazione di avvalersi
della procedura in questione trova un limite nella circostanza che il privato
partecipi alla trattativa senza esprimere formali riserve sul metodo adottato,
il quale, pertanto non potrà in un secondo momento “dolersi della scelta
dell’Amministrazione di avvalersi di quella specifica procedura, costituendo
tale comportamento acquiescenza al provvedimento di indizione di tale tipo
di gara” (T.A.R. Toscana, sez. I, 15 aprile 2003, n. 1456, in Foro Toscano,
2003, 391).
A ciò aggiungasi che la giurisprudenza amministrativa ha individuato
posizioni di interesse legittimo oltre che in capo a quei soggetti che siano
stati invitati a presentare un’offerta, anche in capo a quelli che abbiano in
precedenza intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione, ovvero
che risultino già titolari di un rapporto contrattuale, nei confronti dei quali
corrisponde un adeguato onere motivazionale in merito al loro eventuale
mancato interpello (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 maggio 1995, n. 498, in
Consiglio di Stato 1995, I, 843; sez. IV, 17 febbraio 1997, n. 125, in
Urbanistica e Appalti, 1997, 906).
Passando ad esaminare lo svolgimento dei procedimenti di aggiudicazione
degli appalti pubblici, occorre premettere che alcuni dei sistemi di affidamento
dei contratti in questione sono qualificati dalla previsione di un «subprocedimento
di preselezione o di prequalifica», volto appunto alla selezione,
tra le imprese che hanno avanzato apposita domanda di partecipazione
alla gara e sulla base dei soli requisiti (morali, finanziari, tecnici ed organizzativi)
di ammissione dagli stessi attestati, di quelle che l’amministrazione
aggiudicatrice intende invitare alla fase selettiva vera e propria, i.e. quella
finalizzata alla valutazione comparativa delle offerte (cfr. M. PROTTO, Il
nuovo diritto europeo degli appalti, in Urbanistica e Appalti, 7/2004, 755; G.
RIGA, Bandi di gara e lettere di invito, in App. Urb. Edil., 1/2004, 35; M.
GATTI, Gli appalti pubblici di servizi e forniture, 2004; A. NOBILE, Gli appalti
pubblici nei settori speciali. La disciplina comunitaria concernente le pubbliche
forniture nonché gli appalti pubblici di servizi e di lavori nei settori
dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni, trasposta
nell’ordinamento giuridico italiano, 2001).
Tanto premesso, la “lettera-invito” è l’atto amministrativo endoprocedimentale
che conclude il subprocedimento preselettivo, caratteristico delle
procedure ristrette di scelta del contraente (licitazione privata e appalto-concorso),
ma anche delle procedure negoziate assimilabili a quelle ristrette
(trattativa privata previa gara informale, previa pubblicazione di bando e previa
istituzione di un sistema di qualificazione).
La lettera-invito assolve, congiuntamente al bando, la funzione di lex
specialis di gara, le cui regole non possono essere disattese neppure nel caso
in cui risultino formulate incongruamente, salva la possibilità, in tale ipotesi,
di fare ricorso ai poteri di autotutela e al rinnovo del procedimento; non
senza considerare che l’esercizio di tali ultimi poteri è tanto più opportuno
216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
quanto meno consistente è lo stato di avanzamento della selezione e, quindi,
l’affidamento generato sulla regolare conclusione della stessa (in tal senso,
Consiglio di Stato, sez. VI, 1° ottobre 2003, n. 5712, in Foro Amministrativo-
C.d.S., 10/2003, 3041).
I destinatari delle lettere sono selezionati attraverso le domande di partecipazione
alla gara (licitazione privata e appalto-concorso) o tra gli iscritti
in appositi elenchi (licitazione privata semplificata nonché procedure ristrette
e trattativa privata previa istituzione di un sistema di qualificazione) o,
ancora, in base a informazioni ricavate dal mercato (trattativa privata previa
gara informale) (cfr. E. MAURO, Lettera-invito).
Alla lettera-invito si ritengono applicabili le norme sull’interpretazione
dei contratti (artt. 1362 ss. c.c.), nei limiti della loro compatibilità con la
natura amministrativa dell’invito (T.A.R. Puglia, sez. I, 12 dicembre 1994, n.
1259, in Foro Amm., 6/1995, 1372).
Al riguardo giova evidenziare che la giurisprudenza privilegia il “criterio
letterale”.
Illuminante è il Consiglio di Stato (sez. V, 15 aprile 2004, n. 2162, in
www.lexitalia.it, 4/2004), secondo cui, in caso di oscurità o equivocità delle
disposizioni che regolano i presupposti, l’espletamento o la conclusione
della gara, contenute nella lex specialis della stessa o nei suoi allegati, un
corretto rapporto tra amministrazione aggiudicatrice e aspirante aggiudicatario,
rispettoso dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione
amministrativa, nonché di quello enunciato dall’art. 1337 c.c., in forza del
quale, nello svolgimento delle trattative, le parti devono comportarsi secondo
correttezza, impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a
tutelare l’affidamento degli interessati, attraverso l’interpretazione di ciò che
vi è detto espressamente e restando il concorrente dispensato dal ricostruire,
sulla base di indagini ermeneutiche integrative, significati ulteriori e inespressi
(ibidem T.A.R. Lazio, sez. III, 28 ottobre 2003 n. 9098; T.A.R.
Campania, sez. I, 25 luglio 2003, n. 10090).
Le prescrizioni dell’invito che non brillano per trasparenza, invece, sono
da leggere, innanzitutto, alla luce del “principio di massima apertura delle
gare”, cioè ammettendo alle stesse anche i candidati che non hanno interpretato
correttamente la lex specialis della selezione (Consiglio di Stato, sez. V,
19 febbraio 2004, n. 684, in www.lexitalia.it, 2/2004; sez. VI, 2 aprile 2003,
n. 1709, in Urbanistica e Appalti, 10/2003, 1201, con nota di D. Ponte).
D’altro canto, sebbene strumentale all’effettività della concorrenza e,
dunque, alla soddisfazione dell’interesse pubblico all’identificazione del
miglior contraente sul mercato, il principio della più ampia partecipazione
alle gare non può prevalere su quello di “serietà dell’offerta”, che postula la
rigorosa ottemperanza di quanto preteso dalla lettera a pena di esclusione
(Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2003, n. 958, in www.giustiziaamministrativa.
it).
Inoltre, la scarsa intellegibilità delle regole poste dall’invito consente il
ricorso tanto al “metodo teleologico”, volto alla ricostruzione dell’intenzione
dell’autore dell’atto (Consiglio di Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n. 4326,
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 217
in Foro Amministrativo – C.d.S., 7-8/2003, 2253), quanto al “criterio sistematico”,
che vuole che le disposizioni dubbie siano interpretate per mezzo di
quelle indubbie, anche di quelle degli altri atti e documenti che compongono
la lex specialis della selezione (Consiglio di Stato, sez. V, 17 ottobre 2002,
n. 5676, in Riv. giur. edil. 2/2003, I, 595).
D’altronde, non può ragionevolmente imputarsi agli aspiranti aggiudicatari,
a titolo di trascuratezza o di imperizia, ed è quindi ragione giustificatrice
delle conseguenti imperfezioni delle offerte, un’interpretazione piuttosto
che un’altra di precetti ambigui della lettera (Consiglio di Stato, sez.V, 23
marzo 2004, n. 1530, in www.giustizia-amministrativa.it, relativa ad una fattispecie
di antinomia tra invito e capitolato speciale).
In applicazione dei suddetti canoni interpretativi, nel caso di specie, il
Supremo Consesso amministrativo ha affermato che “Anche a voler
ammettere che si era in presenza di un quadro di riferimento molto generico,
con regole molto elastiche, al limite quasi della legittimità, amplissima
essendo in tal modo la discrezionalità rimessa all’amministrazione
aggiudicatrice nella individuazione dell’offerta in assoluto migliore, non
può d’altra parte negarsi che tali regole esistevano, non erano state contestate
tempestivamente e ritualmente e costituivano la lex specialis della
gara e, in quanto tali, vincolavano non solo i partecipanti, ma la stessa
amministrazione che le aveva poste attraverso la lettera di invito alle
imprese partecipanti alla gara stessa. Orbene, posto che l’impresa, oltre
a presentare un’offerta conforme agli elementi fondamentali della proposta
contrattuale, così come indicati nella lettera di invito, aveva anche
presentato un’offerta migliorativa, il primo adempimento in capo all’amministrazione
aggiudicatrice era quello di stabilire se tale offerta migliorativa
fosse effettivamente tale in ragione delle regole da essa stessa fissate
nella lettera d’invito, perché solo nel caso di questa prima valutazione
positiva, l’offerta migliorativa avrebbe potuto essere oggetto di delibazione
ai fini dell’aggiudicazione della fornitura di gas”. Aggiungendo che
“In ogni caso, anche a voler prescindere dalle considerazioni svolte circa
le corrette e legittime modalità che dovevano essere osservate per il puntuale
rispetto dei principi generali in materia di procedimenti ad evidenza
pubblica (a nulla rilevando la circostanza che nel caso di specie si era
sostanzialmente in presenza di una trattativa privata), l’amministrazione
aggiudicatrice non avrebbe mai potuto limitarsi, così come ha fatto, a
chiedere una “integrazione” (che come si è visto tale non poteva essere
neppure considerata) della originaria offerta sulla scorta dei nuovi elementi
indicati”.
Emerge in maniera evidente il carattere vincolante delle previsioni della
lettera di invito; vincolo sussistente in entrambe le direzioni: sia per i partecipanti
alla procedura di gara, sia per l’Amministrazione Committente.
Per quanto poi concerne, nello specifico, l’eventuale carattere “migliorativo”
dell’offerta, l’Amministrazione deputata al relativo vaglio, non può
esimersi dal verificare se l’offerta sia in concreto “migliorativa” o “nuova”;
dovendo in tale ultimo caso dichiararne l’invalidità, non superabile mediante
la richiesta di integrazione dell’originaria offerta ad altra impresa concorrente,
sulla scorta dei nuovi elementi emersi.
Come correttamente evidenziato nella decisione che si commenta, è vero
che è consentito prevedere espressamente nella lettera di invito la facoltà per
l’impresa offerente di formulare la proposta inserendo alcuni ulteriori elementi
“volti a migliorarla ulteriormente ovvero a specificarne i contenuti”,
ma è altrettanto vero che, proprio in quanto elementi migliorativi ed integrativi
dell’offerta, questi non possono riguardare gli aspetti e i dati fondamentali
stabiliti dalla stessa Amministrazione aggiudicatrice.
Diversamente opinando si giungerebbe all’illogica conseguenza di consentire
all’impresa di “colorare” a suo piacimento – adattandolo alle proprie
esigenze e condizioni – il quadro della disciplina di gara, in spregio alle fondamentali
regole di par condicio, pubblicità, imparzialità, trasparenza che
devono presiedere allo svolgimento delle gare pubbliche.
In questo ordine di idee, sebbene da altro versante, giova considerare
che non è concesso nemmeno alla Commissione di una gara di appalto il
potere di introdurre “elementi di specificazione e di integrazione” dei criteri
e delle modalità di valutazione delle offerte indicati nella lex specialis
della selezione, se non nei limiti in cui si tratti di elementi “modesti”
(Consiglio di Stato, sez. V, 3 marzo 2004, n. 1040, in www.lexitalia.it,
3/2004), e il potere medesimo sia esercitato prima dell’apertura delle offerte,
poiché la conoscenza, anche solo potenziale, delle stesse costituisce un
fattore distorsivo dell’esito del procedimento, ponendo la Commissione in
condizione di plasmare i parametri specificativo-integrativi, adattandoli
alle peculiarità di una singola offerta e di sortire, in tal modo, un effetto
premiale nei confronti della stessa (Consiglio di Stato, sez. V, 3 marzo
2003, n. 1181, in Rass. giur. sanità, 231-2/2003, 202; sez. V, 19 febbraio
2003, n. 908, in Foro amministrativo – C.d.S., 2/2003, 602, secondo cui,
qualora taluni sottocriteri compaiano per la prima volta in calce ai tabulati
con i punteggi assegnati, devono ritenersi lesi i principi di buona e trasparente
amministrazione e di par condicio).
Orbene, nel caso di specie, l’Amministrazione, accertato il carattere di
“novità” dell’offerta, avrebbe dovuto: o ritenerla non valida o non utile in
relazione alle regole che essa stessa aveva posto per lo svolgimento della
gara; ovvero, rilevato che dalla ulteriore offerta avanzata erano emersi
nuovi elementi per una più conveniente fornitura del gas, avrebbe dovuto
avviare una nuova procedura di gara (preferibilmente informando le imprese
partecipanti dell’intenzione di non procedere alla conclusione della
gara).
Coerentemente ai suindicati passaggi argomentativi, il Consiglio di
Stato ha confermato la sentenza gravata anche nella parte in cui ha annullato
esclusivamente il “provvedimento di aggiudicazione” del servizio di
fornitura del gas oggetto della contestata procedura concorsuale, proprio in
quanto frutto di una erronea interpretazione ed applicazione della stessa
possibilità prevista nella lettera di invito di integrare e migliorare le offerte
originarie.
218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ed invero la fattispecie che ci occupa comporta non già l’annullamento dell’intera
procedura concorsuale, bensì solo di quella parte successiva alla presentazione
delle originarie offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara.
Infine, appare condivisibile anche la statuizione di rigetto della domanda
risarcitoria ex adverso avanzata, dovendosi ritenere la posizione giuridica
della ricorrente integralmente reintegrata dall’annullamento del provvedimento
aggiudicatario, a cui consegue il potere della Stazione appaltante di
provvedere nuovamente, o mediante aggiudicazione della gara sulla scorta
delle originarie offerte, o mediante annullamento della gara già avviata e
instaurazione di una nuova procedura, sulla base dei nuovi elementi emersi
con l’offerta aggiuntiva.
Soltanto all’esito del nuovo esercizio di tale potere potrà valutarsi la
ricorrenza dei presupposti per l’accoglimento della pretesa risarcitoria.
Altro aspetto degno di nota affrontato dal Consiglio di Stato è quello
concernente l’onere di tempestiva impugnazione, essendo stato affermato sul
punto che soltanto con il provvedimento aggiudicatario del servizio di fornitura
in questione la lesione della posizione giuridica dell’altra impresa (P.
s.r.l.) si è concretizzata ed è dunque sorto l’onere, ritualmente assolto, della
relativa impugnazione; non potendo neppure ipotizzarsi in epoca precedente
al provvedimento di aggiudicazione l’esistenza di un onere di impugnare
disposizioni di gara, in particolare quelle che consentivano la formulazione
di integrazioni e miglioramenti dell’originaria offerta, non essendo le stesse
neppure potenzialmente lesive.
In proposito si è già detto che la lettera-invito è l’atto amministrativo
endoprocedimentale che definisce il subprocedimento di prequalifica. In
quanto atto endoprocedimentale, la lettera non è di norma autonomamente
lesiva e, dunque, impugnabile.
Tale atto è però in grado di produrre l’arresto procedimentale, determinabile
così dal mancato invito come dall’invito recante determinate clausole:
ipotesi comportanti la lesione immediata e, conseguentemente, l’onere di
immediata impugnazione dell’esclusione, pena l’inammissibilità del ricorso
sia contro la sola aggiudicazione, sia contro aggiudicazione e invito ad un
tempo, senza che, peraltro, rispetto all’esclusione sia individuabile controinteressato
alcuno (T.A.R. Lazio, sez. III, 25 settembre 2002, n. 8142, in Foro
amministrativo – T.A.R., 9/2002, 2919).
Sono altresì impugnabili l’invito altrui (Consiglio di Stato, sez. V, 17
maggio 2000, n. 2884, in Foro amministrativo, 5/2000, 1747) e, persino, il
mancato invito altrui (Consiglio di Stato, sez. VI, 12 dicembre 2002, n.
6779, in Riv. giur. edil., 4/2003, I, 1007, che afferma la sussistenza dell’interesse
dell’aspirante aggiudicatario a impugnare l’esclusione di terzi, senza
che ciò comporti una sostituzione processuale, laddove tale esclusione leda
un interesse del ricorrente; tuttavia è onere dello stesso dimostrare che, se i
terzi fossero stati ammessi, l’esito del procedimento di aggiudicazione gli
sarebbe stato favorevole, perché, in carenza di simile prova, difetta l’interesse
ad impugnare l’esclusione altrui), ma sempre congiuntamente all’aggiudicazione.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 219
L’Adunanza Plenaria, con la nota sentenza del 29 gennaio 2003, n. 1 (in
Riv. giur. edil., 4/2003, I, 1029, con nota di G. Mari) ha definitivamente chiarito,
tra l’altro, che la domanda di partecipazione non costituisce acquiescenza
alla disciplina della selezione e, dunque, non rende inammissibile il ricorso
avverso l’esclusione.
Dott.ssa Carmela Pluchino(*)
Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 2 ottobre 2006 n. 5745 – Pres. Salvatore –
Est. Saltelli – D.I. e S. S.r.l. (Avv. Pozzi) c/ P. S.r.l., poi P. S.p.A. (Avv.ti Presutti e
Calugi) e A.T.E.R. della Provincia di Pistoia (Avv. Stanghellini) e nei confronti di
Regione Toscana (n.c.) e Soc. T.G.C. S.p.A., già P. S.p.A. (Avv.ti Calugi, Gesmundo e
Presutti) – (conferma T.A.R. Toscana, sez. seconda, 17 giugno 2004 n. 2086).
1.- Anche a voler ammettere che si era in presenza di un quadro di riferimento molto
generico, con regole molto elastiche, al limite quasi della legittimità, amplissima essendo
in tal modo la discrezionalità rimessa all’amministrazione aggiudicatrice nella individuazione
dell’ offerta in assoluto migliore, non può d’altra parte negarsi che tali regole
esistevano, non erano state contestate tempestivamente e ritualmente e costituivano la
lex specialis della gara e, in quanto tali, vincolavano non solo i partecipanti, ma la stessa
amministrazione che le aveva poste attraverso la lettera di invito alle imprese partecipanti
alla gara stessa. Orbene, posto che l’impresa, oltre a presentare un’offerta conforme
agli elementi fondamentali della proposta contrattuale, così come indicati nella
lettera di invito, aveva anche presentato un’offerta migliorativa, il primo adempimento
in capo all’amministrazione aggiudicatrice era quello di stabilire se tale offerta migliorativa
fosse effettivamente tale in ragione delle regole da essa stessa fissate nella lettera
d’invito, perché solo nel caso di questa prima valutazione positiva, l’offerta migliorativa
avrebbe potuto essere oggetto di delibazione ai fini dell’aggiudicazione della fornitura
di gas.
2.- In ogni caso, anche a voler prescindere dalle considerazioni svolte circa le corrette
e legittime modalità che dovevano essere osservate per il puntuale rispetto dei principi
generali in materia di procedimenti ad evidenza pubblica (a nulla rilevando la circostanza
che nel caso di specie si era sostanzialmente in presenza di una trattativa privata), l’amministrazione
aggiudicatrice non avrebbe mai potuto limitarsi, così come ha fatto, a chiedere
una “integrazione” (che come si è visto tale non poteva essere neppure considerata)
della originaria offerta sulla scorta dei nuovi elementi indicati.
3.- L’effetto della pronuncia di annullamento (che non riguarda evidentemente la validità
dei contratti già stipulati, trattandosi di questione che fuoriesce dalla cognizione del
giudice amministrativo) comporta quindi non già l’annullamento della intera procedura,
bensì solo di quella parte della procedura concorsuale successiva alla presentazione delle
originarie offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara, dovendo l’amministrazione
220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(*) Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura distrettuale di Milano.
aggiudicatrice anche nel sub – procedimento finalizzato alla integrazione ed al miglioramento
delle offerte già presentate, attenersi al rispetto dei principi generali che presiedono
allo svolgimento delle procedure per la scelta del contraente.
4.- La posizione giuridica della originaria ricorrente e dei soggetti ad essa succeduti
deve considerarsi integralmente reintegrata dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione,
a cui consegue il potere dell’amministrazione di provvedere nuovamente verificando
se procedere ulteriormente all’aggiudicazione della gara sulla scorta delle originarie
offerte ovvero all’annullamento della gara avviata … e all’avvio di una nuova procedura
concorsuale sulla base dei nuovi elementi emersi con la offerta aggiuntiva.
«Fatto – Con lettera in data 30 ottobre 2003, prot. 9123, l’A.T.E.R. della Provincia di
Pistoia invitava alcune ditte, dotate dell’autorizzazione ministeriale prevista dall’articolo 17
del d.P.R. 23 maggio 2000, n. 164, a presentare una proposta per l’affidamento del predetto
servizio di energia per due edifici di sua proprietà, ubicati in Pistoia, il primo alla via La Pira
(costituito da 36 unità immobiliari per una superficie utile di circa 3170 metri quadrati; altezza
utile interna di 2,70 metri; consumo medio di gas metano negli ultimi cinque anni di 28140
metri cubi annui; potenzialità della caldaia 179 Kw; centrale termica munita di certificazione
prevenzione incendi) ed il secondo in via Del Villone, n. 6 (costituito di 14 unità immobiliari
per una superficie utile di circa 1144 metri quadrati; altezza utile interna di 3,00 metri; consumo
medio di gas metano negli ultimi cinque anni di 18000 metri cubi annui; potenzialità della
caldaia 258 Kw; centrale termica munita di certificazione prevenzione incendi).
Secondo le previsioni della lettera di invito, la proposta di affidamento del servizio
doveva tener conto almeno delle seguenti condizioni: “– la durata contrattuale dovrà essere
non superiore a 5 anni; – nel prezzo offerto dovrà essere inclusa: la manutenzione ordinaria
e straordinaria; la fornitura combustibile; gli oneri per la messa a norma della centrale termica
compreso per tutte le certificazioni richieste per legge, oneri per incarico terzo responsabile;
– modalità di esercizio: come da zona climatica indicata dal d.P.R. 412/93 e succ. con
inizio il 1° novembre e termine il 15 aprile, salvo deroghe da parte della autorità competente;
orario di accensione come stabilito per legge e possibilità di modulazione giornaliera da
concordarsi di volta in volta con il committente con mantenimento temperatura interna di
20°; – eventuale revisione dei prezzi solo sul costo del combustibile”.
Nella predetta lettera di invito era altresì precisato che la proposta, oltre a tener conto
dei dati sopra riportati, avrebbe potuto contenere anche “ulteriori elementi volti a migliorarla
ulteriormente ovvero a specificarne i contenuti”.
Tutte le ditte invitate presentavano la propria offerta, eccezion fatta per la B. e la M. S.r.l..
Per quanto qui interessa, le migliori offerte risultavano essere quella della D. S.r.l. (che
per un periodo di cinque anni aveva previsto una spesa annuale di €. 14.061,95 per l’edificio
di via del Villone e di €. 17.473,75 per l’edificio di via La Pira, per un totale complessivo
di €. 31.535,70) e quella della P. S.r.l. (che per un l’identico periodo di cinque anni aveva
previsto una spesa annua di €. 18.927,15 per l’edificio di via del Villone e di €. 22.186,56
per l’edificio di via La Pira, per un totale di €. 41.113,71).
Utilizzando la facoltà prevista dalla stessa lettera di invito (di formulare ulteriori elementi
volti a migliorare l’originaria proposta), la P. S.p.A. formulava un preventivo di
spesa di gas metano per un periodo di 9 anni, in relazione al quale la spesa annua si riduceva
complessivamente a €. 37.052,62 (e precisamente a €. 15.584,25 per l’edificio di via
Del Villone e a €. 21.468,37 per l’edificio di via La Pira), comprendendo anche la sostituzione
delle caldaie.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 221
L’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, con fax 10342 dell’11 dicembre 2003 invitava la
D. S.r.l. a presentare una propria offerta aggiuntiva, contenente: proposta di investimento su
nove anni; condizione migliorativa sul costo di assistenza; inserimento della sostituzione
della caldaia; spesa annua fissa indipendentemente dal consumo per il periodo di legge 1°
novembre/15 aprile con la sola variazione del prezzo del combustibile; per il fabbricato di
via La Pira l’impegno di accollarsi l’onere di manutenzione e di terzo responsabile, attualmente
in corso con la ditta B. e M.
Con la nota prot. 10958 del 19 dicembre 2003 la predetta D. S.r.l. riscontrando la predetta
richiesta, proponeva una offerta “migliorativa” per la durata di nove anni di fornire
energia, ivi compresa la sostituzione della caldaia per entrambi gli immobili, per un importo
annuo complessivo di €. 30.480,95 (di cui €. 13.177,70 per l’edificio di via Del Villone
ed €. 17.303,25 per l’immobile di via La Pira), precisando che “la spesa annua è confermata
fissa indipendentemente dal consumo per il periodo 01/11 – 15/04, con quindi la sola
variazione del costo della manodopera e del combustibile, sono esclusi eventuali anticipi e
proroghe delle accensioni rispetto al 01/11 – 15/04 e le eventuali ore giornaliere eccedenti
le 12 ore previste per la zona climatica “D”; impegno ad accollarsi l’onere di manutenzione
e terzo responsabile attualmente in corso con la ditta B. e M. fino al 2005”, con l’ulteriore
impegno a tenere “bloccato il costo della manodopera, revisionandolo solo dal momento in
cui si rilevi un aumento superiore al 10%”.
Con la delibera n. 177 del 22 dicembre 2003 l’amministratore straordinario dell’A.
T.E.R. della Provincia di Pistoia affidava effettivamente il servizio di fornitura di gas
per gli immobili di via La Pira e di via Del Villone, per un periodo di nove anni, compresa
la sostituzione della caldaia e alle altre condizioni indicate negli schemi di contratto,
alla D. S.r.l. per un importo annuo complessivo di €. 30.480,95, IVA compresa (di cui €.
17.303,25 per l’edificio di via La Pira, n. 2, ed €. 13.177,70 per l’edificio di via Del
Villone, n. 6).
In data 5 febbraio 2004, con atti rep. 10383 e 10384, venivano stipulati i relativi contratti.
La P. S.p.A., cui con nota n. 375 del 19 gennaio 2004 era stata comunicata l’aggiudicazione
della ricordata fornitura alla D. S.r.l., con ricorso giurisdizionale notificato il 20
marzo 2004 chiedeva al Tribunale amministrativo regionale per la Toscana l’annullamento
di tutti gli atti relativi alla trattativa svolta dall’A.T.E.R. per la Provincia di Pistoia per l’affidamento
del servizio in questione e, in particolare, la lettera 30 ottobre prot. 9123, il provvedimento
in data 22 dicembre 2003, n. 177, nonché dei due contratti in data 5 febbraio
2003 stipulata dalla citata A.T.E.R. della Provincia di Pistoia con la D. S.r.l.
A sostegno dell’impugnativa venivano, in sintesi, dedotti: a) “violazione del D.Lgs.
24 luglio 1992, n. 358, art. 1 e 3, del D.Lgs. 17 marzo 1995 n. 157 art. 3 e della legge 11
febbraio 1994 n. 109, art. 2, omesso svolgimento della gara con la procedura ad evidenza
pubblica, violazione della legge reg. 8 marzo 2001 n. 12, artt. 1 – 2 e 20 e violazione
della lettera d’invito 30 ottobre 2003”, in quanto la fornitura di energia oggetto dell’affidamento
ricadeva nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 358/1992, sussistendone i
prescritti presupposti (tra cui anche il valore complessivo del contratto ammontante per
anni 9 ad €. 249.389,00 e, dunque, superiore al valore soglia fissato in €. 200.000,00),
così che del tutto illegittimamente non erano state applicate le relative prescrizioni in
materia di predeterminazione dei criteri di aggiudicazione, di trasparenza della valutazione
delle offerte e di disciplina delle offerte anomale; peraltro, sempre secondo la
società ricorrente, la stessa legge regionale n. 12 del 2001, all’articolo 20, non consenti-
222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
va lo svolgimento della gara con il metodo della trattativa privata plurima, difettandone
i presupposti; b) “violazione dei principi di imparzialità, trasparenza, logicità e segretezza
in procedimento di affidamento degli appalti pubblici, violazione della legge n.
241/1990, art. 3 e della legge reg. 8 marzo 2001 n. 12, art. 20, difetto di motivazione e
violazione degli artt. 24 e 113 Cost.”, in quanto nel corso della gara l’A.T.E.R. della
Provincia di Pistoia aveva sostanzialmente stravolto i principi fissati dalla lettera di invito,
tanto che l’offerta finale “integrativa” aveva un contenuto del tutto differente da quello
originariamente indicato nella lettera d’invito; ciò senza contare che la integrazione
della offerta era stata richiesta alla sola controinteressata D. S.r.l., nonostante le nuove
caratteristiche del servizio fossero state individuate dall’amministrazione solo nel fax
dell’11 dicembre 2003.
La società ricorrente formulava anche istanza di risarcimento dei danni derivati
dalla perdita della possibilità di aggiudicarsi la gara e dalle spese sostenute per partecipare
alla medesima, riservandosi di specificarli e quantificarli in corso di causa; chiedeva
comunque anche il risarcimento in forma specifica attraverso la rinnovazione della
procedura di gara.
L’adito Tribunale, con la sentenza segnata in epigrafe, nella resistenza della D. S.r.l. e
dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo sollevata dalle parti resistenti, accoglieva in parte il ricorso, annullando
gli atti impugnati, ma respingendo l’istanza risarcitoria per mancanza di prova del
danno e dell’elemento soggettivo della colpa o del dolo.
In particolare, ritenuto infondato il primo motivo di censura in quanto la società ricorrente
aveva partecipato alla procedura, poi contestata, senza alcuna riserva, il Tribunale considerava
meritevole di accoglimento il secondo motivo di censura, atteso che effettivamente
l’aggiudicazione del servizio di fornitura di gas alla società D. S.r.l. era avvenuta sulla
base di condizioni diverse da quelle che la stessa amministrazione aveva stabilito nella originaria
lettera d’invito.
Avverso tale pronuncia ha proposto appello la società D. S.r.l., deducendo: a) il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto l’A.T.E.R. della Provincia di
Pistoia non aveva agito come pubblica amministrazione ovvero come titolare di un pubblico
servizio, ma come un mero privato amministratore dei condomini degli edifici di via
La Pira, n. 2, e di via Del Vilone, n. 6, cui sostanzialmente inerivano tutte le spese di
gestione, manutenzione e funzionamento degli impianti di riscaldamento; ciò, ad avviso
dell’appellante, trovava conferma nel fatto che, piuttosto che quale atto di avvio di una
procedura di gara a trattativa privata, la lettera di invito del 30 ottobre 2003 costituiva
espressione di una mera indagine di mercato e che la fornitura del gas poteva essere oggetto
di contratto individuale dei singoli condomini; b) l’inammissibilità del ricorso di primo
grado, in quanto la P. S.r.l. aveva contestato la procedura solo dopo avervi partecipato,
sostanzialmente prestando acquiescenza alla scelta dell’A.T.E.R. della Provincia di
Pistoia di procedere ad una trattativa privata; in realtà, aveva errato l’adito Tribunale ad
accogliere tale eccezione solo con riferimento al primo motivo di ricorso, laddove esso si
attagliava sicuramente anche al secondo motivo, non potendo dubitarsi della legittimità
dell’azione amministrativa che, applicando le previsione della lettera di invito, aveva permesso
l’integrazione e il miglioramento di una delle offerte presentate, cosa che aveva,
per un verso, determinato la comparazione delle offerte originariamente migliori e, per
altro verso, la possibilità effettivamente di scegliere l’offerta in assoluto più conveniente;
c) l’infondatezza del secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, erroneamente
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 223
accolto, in quanto non poteva neppure porsi un problema di modifica delle condizioni
della procedura concorsuale: infatti, l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva agito
come un privato amministratore condominiale, senza autovincolarsi allo svolgimento di
una procedura concorsuale; in ogni caso si era trattato di una gara informale, cosa che
consentiva di apportare varianti migliorative alle proposte contrattuali e, in ogni caso,
l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva effettivamente comparato le offerte pervenute,
scegliendo quella più conveniente; d) per altro, anche a voler ammettere la correttezza
della tesi sostenuta dai primi giudici, gli stessi non avevano tuttavia tenuto conto del fatto
che l’offerta della D. S.r.l. era comunque indiscutibilmente la migliore anche solo per il
periodo di cinque anni e pertanto gli atti impugnati potevano essere annullati solo per la
parte eccedente tale periodo.
Si è costituita in giudizio la società P. S.p.A. (già P. S.r.l.) che, oltre a dedurre l’inammissibilità
e l’infondatezza dell’appello principale, controdeducendo su tutti i singoli
motivi di censura sollevati, ha altresì spiegato appello incidentale, chiedendo anch’essa
la riforma della sentenza di primo grado, lamentando: 1) “violazione e falsa applicazione
delle norme e dei principi in materia di interesse al ricorso giurisdizionale”, in
quanto era stato, a suo avviso, erroneamente respinto il primo motivo del ricorso introduttivo
dichiarandolo erroneamente inammissibile per intervenuta acquiescenza per la
stessa partecipazione alla procedura concorsuale, laddove tale acquiescenza non era
minimamente rinvenibile, tanto più che solo la effettiva partecipazione alla procedura
concorsuale e la successiva sua conclusione ne legittimava la contestazione giurisdizionale;
è stata, pertanto, espressamente riproposta la censura formulata con il primo motivo
del ricorso di primo grado; 2) “violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi
in materia di risarcimento del danno per attività illecita”, in quanto era errata anche
la decisione di respingere la istanza risarcitoria, non potendosi condividere né l’assunto
secondo cui mancava l’elemento psicologico della responsabilità dell’amministrazione
aggiudicatrice, né quello secondo cui la forma di risarcimento in forma specifica era stata
in sostanza assicurata con l’annullamento della aggiudicazione cui conseguiva la rinnovazione
della gara.
Anche l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia si è costituita in giudizio deducendo l’inammissibilità
e l’infondatezza dell’appello principale e spiegando, altresì, appello incidentale
con cui ha chiesto la riforma della impugnata sentenza, sostenendo sia la infondatezza
del secondo motivo del ricorso di primo grado, inopinatamente accolto dai primi giudici, sia
la erronea declaratoria di annullamento di tutta la procedura concorsuale, laddove l’annullamento
non poteva che riguardare soltanto quella parte del procedimento successiva alla
richiesta di miglioramento dell’offerta avanzata alla Società D. S.r.l., sia il capo relativo alla
condanna alle spese di giudizio che, stante la evidente parziale soccombenza della stessa
ricorrente in prime cure, andavano compensate.
Si è costituita in giudizio la S.G.C. S.p.A. derivata dalla fusione per incorporazione di
P. S.p.A. nella A. V. S.p.A..
Con ordinanza n. 4589 del 7 ottobre 2004 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha
respinto l’istanza cautelare di sospensione della efficacia della sentenza impugnata.
Le parti hanno ampiamente illustrato nell’imminenza della udienza di discussione del
merito dell’affare le proprie rispettive tesi difensive; in particolare sia l’A.T.E.R. della
Provincia di Pistoia, sia la D. S.r.l. hanno insistito nell’eccezione della sopravvenuta
carenza di interesse al ricorso della P. per effetto della sopravvenuta legge 23 agosto 2004,
n. 239.
224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Diritto. I.- In linea preliminare deve essere esaminata l’eccezione di sopravvenuta
improcedibilità del ricorso proposto in prime cure dalla Società P. S.r.l., poi P. S.p.A., successivamente
incorporata dalla T.G.C. S.p.A., in relazione alla entrata in vigore della legge
23 agosto 2004, n. 239, così come sollevata negli atti difensivi dalla D. S.r.l. e dall’A.T.E.R.
della Provincia di Pistoia.
Ad avviso delle parti deducenti, poiché l’articolo 1, comma 34, della legge 23 agosto
2004, n. 239 (recante norme in materia di “Riordino del settore energetico, nonché
delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”) ha
disposto testualmente che “le aziende operanti nei settori dell’energia elettrica e del gas
naturale che hanno in concessione o in affidamento la gestione di servizi pubblici locali
ovvero la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni infrastrutturali, nel territorio
in cui la concessione o l’affidamento si riferiscono e per la loro durata, non possono
esercitare, in proprio o con società collegate o partecipate, alcuna attività in regime
di concorrenza, ad eccezione della vendita di energia elettrica e di gas e di illuminazione
pubblica, nel settore dei servizi postcontatore, nei confronti degli stessi utenti del
servizio pubblico e degli impianti”, la T.G.C. S.p.A., già P. S.p.A., essendo interamente
controllata dalla T.G. S.p.A., società che gestisce il servizio di distribuzione del gas per il
Comune di Pistoia, non potrebbe neppure partecipare alla eventuale nuova gara per l’affidamento
del servizio oggetto della presente controversia, quest’ultimo servizio essendo
evidentemente inerente anche ad attività c.d. postcontatore (quale la manutenzione ordinaria
e straordinaria, la messa a norma della centrale termica con le relative certificazioni
di legge, l’incarico di terzo responsabile); d’altra parte, quand’anche la contestata procedura
di gara si fosse conclusa in modo favorevole per la P. S.r.l., la ricordata disposizione
normativa (e le successive vicende societarie) avrebbero imposto e giustificato la revoca
dell’aggiudicazione dell’appalto e la rescissione del relativo contratto: di qui l’inconfutabile
esistenza di un’oggettiva situazione di sopravvenuta improcedibilità per carenza
di interesse del ricorso di prime cure.
L’assunto, ad avviso della Sezione, non è meritevole di accoglimento.
I.1.- Sotto un primo profilo deve innanzitutto osservarsi che, ai fini dell’applicazione
della ricordata disposizione normativa, sulla scorta delle puntuali deduzioni svolte sul punto
dalla T.G.C. S.p.A. (sulla cui legittimazione processuale nella presente causa, quale soggetto
che è succeduto alla P. S.p.A., a sua volta succeduta alla P. S.r.l., non sussiste peraltro
alcun dubbio), deduzioni suffragate dalla documentazione prodotta, non emerge alcuna
forma di collegamento di essa con la società T.G. S.p.A., asserita affidataria del servizio pubblico
di distribuzione del gas nel Comune di Pistoia.
Invero, dagli atti depositati risulta che la T.G.C. S.p.A. è sorta, giusta atto notarile del
9 novembre 2004, rep. n. 49419, fascicolo n. 23147, dalla fusione per incorporazione della
P. S.p.A. nella società A.V. S.p.A.: unico socio di T.G.C. S.p.A. è T.G.V. S.p.A. che, quali
soci, annovera, oltre a varie amministrazioni comunali della zona, anche la Banca (...)
S.p.A., la Banca (...) S.p.A., la P. I. S.p.A. e la P. S.p.A..
T.G. S.p.A., da cui pure risulta essersi scissa T.V. S.p.A. (con atto del 1° dicembre
2005), risulta costituita da un unico socio, T.E. S.p.A., che non figura quale socio delle
ricordate T.G.C. S.p.A. e T.G.V. S.p.A.: non risulta provata, dunque, l’esistenza di situazioni
che danno luogo alle ipotesi di controllo e di collegamento societario che, d’altra parte,
quale limite al diritto di impresa non possono essere oggetto di interpretazione estensiva,
in mancanza di elementi certi, precisi e concordanti che non possono neppure essere ricavati
dalla mera circostanza che alcuni soggetti titolari di cariche o qualifiche di una socie-
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 225
tà siano titolari di cariche e qualifiche di altre società (ciò dando evidente luogo ad eventuali
ipotesi di conflitto di interesse o di responsabilità contrattuali nei confronti delle
rispettive società di appartenenza).
I.2.- Peraltro, ad avviso della Sezione, l’infondatezza della eccezione in esame può
egualmente apprezzarsi anche sotto altro assorbente e decisivo profilo, e cioè anche indipendentemente
dalla questione sopra rilevata.
Invero, com’è noto, lo scrutinio di legittimità di un provvedimento amministrativo (che
rappresenta in realtà la res litigiosa di cui deve occuparsi la Sezione) deve essere condotto
in stretta osservanza del principio fondamentale del tempus regit actum, dovendo valutarsi
il rispetto dei principi generali in materia di azione amministrativa, predicati dall’articolo 97
della Costituzione, con esclusivo riferimento al momento in cui il provvedimento stesso è
stato emanato: ne discende che lo jus superveniens (che peraltro non ha, salvo sua espressa
disposizione, alcun effetto retroattivo), non può neppure avere, in linea generale, un effetto
sanante di eventuali illegittimità perpetrate, tanto più quando, come nel caso di specie, le
denunciate illegittimità siano avvenute in danno del privato.
Ammettere la fondatezza della tesi ex adverso propugnata significherebbe violare palesemente
i principi fissati dagli articoli 24 e 113 della Costituzione, per un verso, espropriando
il cittadino (o in questo caso l’impresa) del diritto costituzionale di azione e di difesa e,
per altro verso, sottraendo inopinatamente l’attività della pubblica amministrazione al controllo
giurisdizionale.
Né, a fondare l’eccezione in esame, può sostenersi la tesi secondo cui la normativa
contenuta nel citato articolo 1, comma 34, della legge 23 agosto 2004, n. 239, avrebbe
legittimato la revoca dell’aggiudicazione eventualmente intervenuta in favore della P.
S.p.A.: anche a voler prescindere dal già ricordato principio generale secondo cui la legge
non dispone per l’avvenire e anche senza voler tener conto che non vi è alcuna disposizione
nella ricordata normativa che prevede una simile ipotesi di rescissione del contratto
stipulato, occorre osservare, per contro, che la stessa disposizione prevede una sorta di
disposizione transitoria precisando che “Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore
della presente legge, il Ministero delle attività produttive, l’Autorità per l’energia elettrica
e il gas e le altre amministrazioni interessate provvederanno ad integrare le norme ed
i provvedimenti rilevanti ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al presente
comma”.
Ciò esclude, ad avviso della Sezione, che l’entrata in vigore della predetta normativa
avrebbe potuto determinare automaticamente la legittimità di un eventuale provvedimento
di revoca dell’aggiudicazione della fornitura del gas avvenuta in favore della P.
S.p.A..
A ciò consegue che non può, quindi, in alcun modo dubitarsi della sussistenza dell’interesse
della T. G.C. S.p.A., succeduta alla P. S.p.A. e alla P. S.r.l., ad ottenere la pronuncia
in ordine alla legittimità o meno del provvedimento di aggiudicazione dell’appalto di fornitura
del gas indetto dall’A.T.E.R. per la Provincia di Pistoia, anche al solo fine di ottenere
una soddisfazione soltanto risarcitoria, non essendo del resto indifferente – anche dal punto
di vista della procedura di fusione per incorporazione della predetta P. S.p.A. nella G.T.C.
S.p.A.– che nel patrimonio della prima sussistesse il contratto di fornitura del gas della cui
legittima aggiudicazione si discute.
Resta quindi del tutto irrilevante, ai fini dell’interesse a ricorrere, la questione della
concreta possibilità della società T.G.C. S.p.A. a rendersi aggiudicataria dell’eventuale
nuova aggiudicazione del servizio di fornitura in relazione ai servizi c.d. di postcontato-
226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
re, trattandosi di questione che, per un verso, non atteneva alla legittimità del provvedimento
impugnato e che, per altro verso, concerne i requisiti di partecipazione alla nuova
gara (e all’annessa prova della inesistenza della situazione di incompatibilità prevista
dalla norma).
II.- Così sgombrato il campo dalla esaminata questione preliminare, può procedersi
all’esame dell’appello principale proposto dalla D. S.r.l.
Esso è infondato e deve essere respinto.
II.1.- Priva di fondamento è innanzitutto l’eccezione di difetto di giurisdizione, che è
stata prospettata sostenendo che l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia avrebbe agito nel caso
di specie come un mero amministratore di un condominio privato e quindi negando la qualità
di soggetto pubblico della predetta Azienda ovvero negando che si sarebbe in presenza
di un’attività oggettivamente pubblica.
Osserva al riguardo la Sezione che, per un verso, non è assolutamente contestabile che
l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia sia un ente pubblico regionale, dotato di autonomia
amministrativa e contabile, assoggettata al rispetto della normativa pubblicistica in tema di
contratti pubblici (in particolare alla legge regionale 8 marzo 2001, n. 12), non rinvenendosi
alcuna disposizione contraria sul punto, mentre, per altro verso, come si ricava dalla lettura
della stessa lettera di invito alla procedura concorsuale in questione (nota n. 9123 del 30 ottobre
2003 dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia), gli immobili siti nel comune di Pistoia,
rispettivamente alla via La Pira, n. 2, e alla via Del Villone, n. 6 (cui si riferiva la fornitura di
gas oggetto dell’affidamento) sono di proprietà della predetta Azienda e dunque hanno natura
pubblica: rispetto ad essi, almeno al momento in cui è stata avviata la procedura concorsuale,
non può in nessun caso ipotizzarsi una vicenda esclusivamente privatistica tale da
escludere il ricorso alla procedura ad evidenza pubblica.
Né risulta decisiva la considerazione che la fornitura del gas sarebbe stata oggetto di
rimborso da parte dei singoli assegnatari degli alloggi attraverso pagamento rateale sul canone
mensile di locazione, atteso che, indipendentemente da ogni considerazione sul fatto che
il rimborso potesse riguardare o meno la sola fornitura del gas ovvero anche gli importi
accessori relativi alla manutenzione, alla sostituzione della caldaia, etc., stante la proprietà
pubblica degli immobili, non vi è dubbio che le somme anticipate avevano indiscutibilmente
natura pubblica, essendo messe a disposizione dall’ente pubblico regionale e pertanto non
potevano che essere amministrate nel rispetto dei principi di cui all’articolo 97 della
Costituzione, ivi compreso quello della scelta del contraente dell’appalto attraverso il procedimento
ad evidenza pubblica, con conseguenza controllo giurisdizionale da parte del giudice
amministrativo.
II.2.- Possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro stretta connessione, il
secondo ed il terzo motivo di gravame, con i quali è stato lamentato che i primi giudici avevano
erroneamente accolto il secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio che, al contrario,
per un verso era inammissibile, per acquiescenza alla procedura di gara determinata dalla
stessa partecipazione, e, per altro verso, infondato, stante l’assoluta correttezza del comportamento
tenuto dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia che aveva effettivamente comparato le
offerte presentate dalla D. S.r.l. e dalla P. S.r.l., aggiudicando senza dubbio la fornitura di gas
alla impresa che aveva presentato l’offerta effettivamente più vantaggiosa.
Anche tali censure sono destituite di fondamento.
II.2.1.- Si deve innanzitutto osservare che la censura svolta dalla P. S.r.l. con il secondo
motivo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, rubricato “Violazione dei
principi di imparzialità, trasparenza, logicità e segretezza in procedimento di affidamento
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 227
degli appalti pubblici, violazione della legge n. 241/1990, art. 3 e della legge reg. 8 marzo
2001, 12, art. 20, difetto di motivazione e violazione degli artt. 24 e 113 Cost.”, non riguardava
la presunta illegittimità delle regole fissate dall’amministrazione aggiudicatrice per il
concreto svolgimento della gara, ma concerneva esclusivamente le modalità concrete con
cui il procedimento di gara si era dipanato: si lamentava, in realtà, che la determinazione
dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia di chiedere un’integrazione dell’offerta già presentata
alla sola società D. S.r.l. aveva violato i principi fondamentali di imparzialità, trasparenza,
logicità e segretezza peculiari del procedimento di scelta del contraente per l’affidamento
di un pubblico appalto.
La lesione della posizione giuridica della società P. S.r.l. derivata dall’aggiudicazione
del servizio di fornitura del gas alla società D. S.r.l. non dipendeva, in altri termini, dalle
regole di gara fissate nella lettera di invito, né dal fatto che l’amministrazione aggiudicatrice
avesse richiesto, in concreto, un’integrazione dell’offerta originaria, ma solo dalle modalità
con cui la predetta amministrazione aggiudicatrice aveva utilizzato la facoltà di chiedere
un’integrazione e un miglioramento delle offerte già presentate, avanzando detta richiesta
ingiustificatamente ed in violazione delle regole fondamentali delle procedure ad evidenza
pubblica alla sola D. S.r.l..
A ciò consegue che solo con il provvedimento di aggiudicazione del servizio di fornitura
in questione alla più volte citata D. S.r.l. la predetta lesione si è concretizzata ed è dunque sorto
l’onere, tempestivamente e ritualmente assolto dalla P. S.r.l., della relativa impugnazione del
provvedimento di aggiudicazione, non potendo neppure ipotizzarsi in epoca precedente a quest’ultimo
l’esistenza di un onere di impugnare disposizioni di gara, quale quelle che consentivano
la formulazione di integrazioni e miglioramenti della originaria offerta di gara, non solo
non attuali, ma neppure potenzialmente lesive.
Deve pertanto escludersi che il secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio
di primo grado potesse essere considerato inammissibile, non essendo rinvenibile in
alcun modo nella mera partecipazione alla procedura di gara da parte della P. S.r.l. alcuna
acquiescenza a successivi comportamenti o provvedimenti della amministrazione
aggiudicatrice non conformi alle disposizioni di gara ovvero ai principi generali che le
disciplinano.
II.2.2.- Nel merito, poi, come correttamente rilevato dai primi giudici, il secondo motivo
di censura proposto in primo grado dalla P.S.r.l. era anche fondato.
Occorre preliminarmente chiarire, al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci
anche in ordine all’effettiva ricostruzione della fattispecie concreta indispensabile
per la delibazione della questione giuridica controversa, che, diversamente da quanto
sostenuto o quanto meno insinuato dall’appellante, i primi giudici hanno stigmatizzato
l’operato dell’amministrazione aggiudicatrice, annullando il relativo provvedimento di
scelta del contraente, non già per la mancata comparazione delle offerte presentate ovvero
per illegittimità della procedura (trattativa privata) prescelta, quanto piuttosto per la
decisiva considerazione che, dopo aver previamente fissato nella lettera d’invito le regole,
sia pur sommarie e approssimative della procedura concorsuale, le stesse regole erano
state inopinatamente violate, in dispregio delle fondamentali regole della imparzialità, trasparenza,
logicità e segretezza.
Orbene, in punto di fatto, non è contestato che nella lettera di invito in data 30 ottobre
2003 l’amministrazione aggiudicatrice aveva chiesto alle ditte interessate di formulare una
proposta di affidamento del servizio di fornitura del gas che tenesse conto di alcuni elementi
fondamentali quali: la durata contrattuale non superiore a 5 anni; il prezzo complessivo in
228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
cui dovevano ritenersi inclusi la manutenzione ordinaria e straordinaria, la fornitura di combustibile,
gli oneri per la messa a norma della centrale termica compreso per tutte le certificazioni
richieste per legge, oneri per incarico terzo responsabile; le specifiche modalità di
esercizio, secondo quanto previsto per la zona climatica indicata dal d.P.R. 412/93, con inizio
dal 1° novembre e termine il 15 aprile, salvo deroghe da parte della autorità competente;
l’orario di accensione come stabilito per legge e possibilità di modulazione giornaliera
da concordarsi di volta in volta con il committente con mantenimento temperatura interna
di 20°; l’eventuale revisione dei prezzi del solo costo del combustibile.
Sebbene la predetta lettera di invito prevedesse espressamente la facoltà per la ditta
offerente di formulare la proposta inserendo anche ulteriori elementi “volti a migliorarla
ulteriormente ovvero a specificarne i contenuti”, non può revocarsi che proprio in
quanto elementi migliorativi ed integrativi dell’offerta, questi non potevano riguardare
gli elementi fondamentali stabiliti dalla stessa amministrazione aggiudicatrice: in altri
termini, è del tutto ragionevole ritenere che l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva
inteso rimettere alle ditte offerenti la facoltà di “qualificare”, attraverso elementi integrativi,
le loro rispettive offerte, precostituendo, sotto altro profilo, un abile (e decisivo)
strumento di valutazione delle offerte stesse, fermo restando il loro contenuto base
(costituito dagli elementi fondamentali di cui tener conto espressamente indicati nella
lettera di invito).
Anche a voler ammettere che si era in presenza di un quadro di riferimento molto
generico, con regole molto elastiche, al limite quasi della legittimità, amplissima essendo
in tal modo la discrezionalità rimessa all’amministrazione aggiudicatrice nella individuazione
della offerta in assoluto migliore, non può d’altra parte negarsi che tali regole esistevano,
non erano state contestate tempestivamente e ritualmente e costituivano la lex
specialis della gara e, in quanto tali, vincolavano non solo i partecipanti, ma la stessa
amministrazione che le aveva poste attraverso la lettera di invito alle imprese partecipanti
alla gara stessa.
Orbene, posto che la P. S.r.l., oltre a presentare un’offerta conforme agli elementi fondamentali
della proposta contrattuale, così come indicati nella lettera di invito, aveva anche
presentato un’offerta migliorativa, il primo adempimento in capo all’amministrazione
aggiudicatrice era quello di stabilire se tale offerta migliorativa fosse effettivamente tale in
ragione delle regole da essa stessa fissata nella lettera d’invito, perché solo nel caso di questa
prima valutazione positiva, l’offerta migliorativa avrebbe potuto essere oggetto di delibazione
ai fini dell’aggiudicazione della fornitura di gas.
Sennonché l’offerta asseritamente migliorativa della P. S.r.l. non poteva essere presa in
considerazione alla stregua delle regole fissate dalla lettera d’invito perché, come risulta
dagli atti di causa e come del resto è pacifico tra le parti in causa, essa considerava un periodo
temporale diverso (9 anni invece che 5) e contemplava anche la sostituzione delle caldaie
relative agli immobili di via La Pira n. 2 e via Del Villone n. 6: essa, dunque, non poteva
essere considerata semplicemente un’offerta migliorativa della prima, ma costituiva una
nuova offerta; l’amministrazione aggiudicatrice, conseguentemente, avrebbe dovuto: o ritenere
non valida o non utile detta offerta in relazione alle regole che essa stessa aveva posto
per lo svolgimento della gara, valutando solo quelle offerte coerenti con le previsioni della
lettera d’invito ovvero, rilevato che dalla ulteriore offerta avanzata dalla P. S.r.l. emergevano
nuovi elementi per una più conveniente fornitura del gas ai predetti immobili avrebbe
dovuto avviare una nuova procedura di gara (eventualmente informando le ditte partecipanti
dell’intenzione di non procedere alla conclusione della gara).
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 229
In ogni caso, anche a voler prescindere dalle considerazioni svolte circa le corrette e
legittime modalità che dovevano essere osservate per il puntuale rispetto dei principi generali
in materia di procedimenti ad evidenza pubblica (a nulla rilevando la circostanza che nel
caso di specie si era sostanzialmente in presenza di una trattativa privata), l’amministrazione
aggiudicatrice non avrebbe mai potuto limitarsi, così come ha fatto, a chiedere una “integrazione”
(che come si è visto tale non poteva essere neppure considerata) della originaria
offerta alla sola D. S.r.l. sulla scorta dei nuovi elementi indicati dalla P. S.r.l..
Anche a voler ammettere (anche in assenza di qualsiasi elemento, sia pur indiziario, da
cui ricavare una simile evenienza) che effettivamente le offerte originarie della D. S.r.l. e
della P. S.r.l. fossero le più vantaggiose e convenienti in relazione alle condizioni stabilite
nella originaria lettera di invito e che, dunque, l’amministrazione aggiudicatrice abbia voluto
valutare dette offerte non solo tra di loro ma anche in relazione all’ulteriore offerta
aggiuntiva della P. S.r.l., avviando cioè un’atipica forma concorsuale, era necessario consentire
a quest’ultima di “dialogare” con l’amministrazione, ponendo dunque le due imprese
concorrenti sullo stesso piano: ciò in concreto non è stato fatto, proprio in violazione dei
principi fondamentali di par condicio, di pubblicità, di trasparenza, di logicità e di imparzialità
che devono presiedere allo svolgimento della gare pubbliche.
Né vi è stata alcuna motivazione al contestato comportamento dell’Amministrazione
aggiudicatrice, non potendosi a tal fine invocare né la discrezionalità dell’Amministrazione
(che notoriamente non coincide con l’arbitrarietà), né la convenienza e l’interesse pubblico
che, com’è noto, trovano al contrario tutela nella procedimentalizzazione dell’esercizio del
potere e nel rispetto delle regole che, in modo evidente, nel caso di specie, è assolutamente
mancato.
La decisione dei primi giudici è assolutamente corretta e condivisibile, non potendosi
negare che sono state palesemente violate nel caso di specie le fondamentali regole di imparzialità,
buon andamento, logicità e segretezza che devono presiedere, per il rispetto dei principi
fissati dall’articolo 97 della Costituzione, all’azione amministrativa ed alla scelta del
contraente nelle procedure ad evidenza pubblica.
II.3.- È ugualmente infondato anche il quarto motivo di gravame sollevato dalla società
appellante, secondo cui i primi giudici non avrebbero potuto annullare gli atti di gara, così
come richiesto dalla impresa ricorrente in primo grado, l’intervento caducatorio dovendo
essere limitato alla sola parte del procedimento concorsuale ritenuto invalido.
Osserva al riguardo la Sezione che, in realtà, dall’attento esame del contenuto della
sentenza impugnata risulta annullato esclusivamente il provvedimento di aggiudicazione del
servizio di fornitura del gas oggetto della contestata procedura concorsuale, proprio in quanto
frutto di un’erronea interpretazione ed applicazione della stessa possibilità prevista nella
lettera di invito di integrare e migliorare le originarie offerte presentate.
L’effetto della pronuncia di annullamento (che non riguarda evidentemente la validità
dei contratti già stipulati, trattandosi di questione che fuoriesce dalla cognizione del giudice
amministrativo) comporta quindi non già l’annullamento della intera procedura, bensì solo
di quella parte della procedura concorsuale successiva alla presentazione delle originarie
offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara, dovendo l’amministrazione aggiudicatrice
anche nel sub – procedimento finalizzato alla integrazione ed al miglioramento delle
offerte già presentate, attenersi al rispetto dei principi generali che presiedono allo svolgimento
delle procedure per la scelta del contraente.
III.- Le osservazioni svolte sub. II sono idonee a respingere anche l’appello incidentale
proposto dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, nella parte in cui le relative censure,
230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
come sopra rilevato, concernono l’asserita erroneità della sentenza per aver accolto il secondo
motivo del ricorso proposto in prime cure dalla P. S.r.l..
Quanto al motivo di censura relativo all’asserita erroneità del capo della sentenza che
ha disposto la condanna alle spese del giudizio di primo grado, si tratta di una doglianza
assolutamente infondata.
Infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di
discostarsi, la statuizione del giudice di primo grado sulle spese di giudizio costituisce
espressione di un ampio potere discrezionale, ispirato peraltro anche a ragioni di equità e di
convenienza, che la rende come tale insindacabile, fatta eccezione per il caso di condanna
della parte totalmente vittoriosa oppure di condanna al pagamento di somme palesemente
esorbitanti o irrazionali (C.d.S., sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2832; 4 febbraio 2003, n. 537;
18 ottobre 2002, n. 5731; 18 dicembre 2001, n. 6292).
Nel caso di specie non è revocabile in dubbio che la statuizione sulle spese ha riguardato
effettivamente solo la parte soccombente, non potendo neppure assimilarsi ad un’ipotesi
di soccombenza parziale la circostanza che sia stato ritenuto fondato uno solo dei
(due) motivi di censura sollevati avverso il provvedimento di aggiudicazione e la procedura
concorsuale in esame, atteso che entrambi sono stati annullati interamente (e non pro
parte); né d’altra parte la contestata statuizione sulle spese può ritenersi arbitraria o illogica
per il solo fatto che è stata respinta la domanda risarcitoria proposta con il ricorso
introduttivo del giudizio.
IV.- Passando all’esame dell’appello incidentale proposto da P. S.p.A. (già P. S.r.l.), cui
è succeduta la T.G.C. S.p.A. (sulla cui legittimazione non vi è stata alcuna contestazione), la
Sezione rileva che esso è in parte improcedibile ed in parte infondato.
IV.1.- Invero, la circostanza che l’appello principale della società D.I.C. s.r.l. e quello
incidentale dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia siano stati rigettati con conseguente
conferma della impugnata sentenza nella parte in cui ha dichiarato illegittimi i provvedimenti
impugnati (ed in particolare il provvedimento di aggiudicazione del servizio di
fornitura del gas in favore della D.I. S.r.l. e la relativa procedura ad evidenza pubblica,
eccezion fatta per i contratti già stipulati, per le ragioni sopra esposte) rende improcedibile
l’appello incidentale della P. S.p.A (già P. S.r.l.) nella parte in cui ha sostenuto la fondatezza
del primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio di prime cure, asseritamente
erroneamente rigettato dai primi giudici, difettando al riguardo ogni interesse ad ottenere
una pronuncia sul punto.
IV.2.- Quanto al capo della sentenza che ha respinto la domanda risarcitoria, la Sezione
non può non rilevare che, come correttamente rilevato dai primi giudici, la posizione giuridica
della originaria ricorrente e dei soggetti ad essa succeduti deve considerarsi integralmente
reintegrata dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, a cui consegue il potere
dell’amministrazione di provvedere nuovamente verificando se procedere ulteriormente
all’aggiudicazione della gara sulla scorta delle originarie offerte ovvero all’annullamento della
gara avviata con la lettera di invito del 30 ottobre 2003 e all’avvio di una nuova procedura concorsuale
sulla base dei nuovi elementi emersi con la offerta aggiuntiva della P. S.r.l.
Solo all’esito del nuovo esercizio di tale potere potrà essere eventualmente valutata ai
fini risarcitori la posizione della P. S.r.l. e dei soggetti ad essa succeduti.
V. In conclusione, alla stregua delle osservazioni svolte, devono essere respinti tanto
l’appello principale proposto dalla Società D. S.r.l. quanto l’appello incidentale della
A.T.E.R. della Provincia di Pistoia; deve essere dichiarato in parte improcedibile ed in
parte deve essere respinto l’appello incidentale proposto dalla P. S.r.l. ora T.G.C. S.p.A.
IL CONTENZIOSO NAZIONALE 231
La reciproca soccombenza fra le parti giustifica l’integrale compensazione delle spese
del presente grado di giudizio.
P.Q.M - Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente
pronunciando sul ricorso principale proposto dalla D. S.r.l. e sugli appelli incidentali proposti
dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia e dalla P. S.p.A. (già P. S.r.l.), cui è succeduta la
società T.G.C. S.p.A., avverso la sentenza n. 2086 del 17 giugno 2004 del Tribunale amministrativo
regionale per la Toscana, sez. II, così provvede:
– respinge l’appello principale e respinge altresì l’appello incidentale dell’A.T.E.R.
della Provincia di Pistoia;
– dichiara in parte improcedibile ed in parte respinge l’appello incidentale di P. S.r.l.,
ora T.G.C. S.p.A.;
– dichiara compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
– Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa».
232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S.– Parere del 25 settembre 2006, n. 107024.
Ambito di applicazione della Convenzione internazionale di New York e,
in particolare, sua operatività solo per le azioni esecutive di recupero dei
crediti alimentari, o anche per i giudizi di accertamento del quantum debeatur
(consultivo 45837/05, avvocato L. D’Ascia).
«1. Si fa seguito alla nota prot. 156823 del 23 novembre 2005, relativa
al contrasto interpretativo sorto in ordine all’ambito di applicazione della
Convenzione di New York del 20 giugno 1956, e in particolare all’interpretazione
del suo art. 6.
Da un lato, vi è la tesi “restrittiva” (proposta dall’Avvocatura Distrettuale
di Bologna, e abbracciata da altre Avvocature Distrettuali) secondo cui
l’attivazione della procedura della Convenzione di New York richiederebbe
sempre una preventiva pronuncia giudiziaria dello Stato del creditore, che
accerti e quantifichi il credito alimentare, e sarebbe dunque finalizzata solo
alla fase dell’esecuzione forzata.
Dall’altro lato, vi è la tesi, sostenuta da codesto Ministero con nota prot.
16578 del 6 settembre 2005, secondo cui l’art. 6 della Convenzione abilita
l’Istituzione Intermediaria a promuovere anche giudizi volti ad ottenere una
condanna del debitore al pagamento dell’assegno alimentare, operando quindi
non solo per le azioni esecutive ma anche per quelle di cognizione e condanna.
Date le possibili ripercussioni sul piano delle relazioni internazionali,
questo Generale Ufficio, prima di rendere un parere di massima su questo
problema interpretativo, chiedeva a codesta Amministrazione un supplemento
di istruttoria volto ad accertare quale fosse la prassi seguita dagli altri
Paesi aderenti alla Convenzione.
Con nota prot. 1180/4.0.1.559 dell’1 marzo 2006, codesto Ufficio comunicava:
a) che come Autorità Speditrice il Ministero dell’Interno formula
agli altri Paesi richieste di assistenza solo per l’esecuzione di provvedimenti
giurisdizionali che già accertano e quantificano il credito alimentare, quindi
solo per la fase esecutiva; b) che allo stesso modo si comporta la quasi
totalità dei Paesi aderenti alla Convenzione, ad eccezione di alcuni Paesi
come Svezia e Norvegia; c) che “sinora i tentativi di determinazione in via
I P A R E R I
D E L C O M I T A T O
C O N S U LT I V O
giurisdizionale in Italia del quantum dell’obbligo alimentare hanno raramente
prodotto risultati concreti”.
Infine, codesto Ufficio rilevava che “l’interpretazione adottata dall’Avvocatura
Distrettuale di Bologna, ossia di chiedere ai due Paesi interessati
di inviare richieste già definite nel quantum, offrirebbe un contributo allo
snellimento di una procedura già di per se assai complessa”.
2. Ciò considerato, e prendendo atto di un sensibile avvicinamento della
posizione di codesto Ministero a quella dell’Avvocatura Distrettuale di Bologna,
la Scrivente ritiene di poter rendere il seguente parere di massima.
Si prende atto innanzi tutto delle oggettive difficoltà pratiche connesse
all’evasione delle richieste di assistenza per la quantificazione del credito
alimentare: tali difficoltà investono sia l’operato di codesta Amministrazione,
sia quello delle Avvocature Distrettuali dello Stato, chiamate a svolgere
un’attività difensiva che, per i suoi contenuti, richiederebbe uno stretto
collegamento con il diretto interessato.
Occorre poi ricostruire gli obiettivi perseguiti dalla Convenzione di
New York.
Nelle premesse della Convenzione tali obiettivi sono sintetizzati nella
necessità di risolvere il “problema umanitario che si presenta per le persone
bisognose di assistenza legale all’estero” e di superare le “difficoltà legali
e pratiche” legate alla “promozione di azioni alimentari o alla esecuzione
di decisioni”.
L’art. 1 compendia poi l’oggetto della Convenzione nell’attività di aiuto
e assistenza fornita ai creditori alimentari per ottenere il pagamento degli alimenti
dovuti da un soggetto che si trovi sottoposto alla giurisdizione di
un’altra Parte contraente (c.d. Stato del debitore).
A parere della Scrivente, la soluzione del problema sollevato dipende
principalmente dalla interpretazione dell’art. 1 della Convenzione, e in particolare
dal significato da attribuire al requisito della sottoposizione del debitore
alla giurisdizione di un altro Paese contraente.
Occorre infatti stabilire se ai fini della Convenzione di New York la
competenza giurisdizionale dello Stato del debitore debba essere esclusiva,
o se possa anche sussistere una competenza giurisdizionale concorrente dello
Stato del creditore.
Questa Avvocatura ritiene che debba preferirsi la prima interpretazione, e
che quindi per l’attivazione della Convenzione di New York debba sussistere
il requisito della esclusività della giurisdizione dello Stato del debitore.
Occorre cioè che il creditore non abbia altra alternativa che rivolgersi a
un giudice di uno Stato estero per il soddisfacimento della propria pretesa
alimentare.
Tale interpretazione trova il suo sostegno innanzi tutto nella prassi internazionale
ormai consolidata, di cui codesto Ministero ha dato comunicazione,
che vede solo la Svezia e la Norvegia su una posizione di applicazione
estensiva della Convenzione.
D’altro canto, una diversa interpretazione, che ammettesse in via generalizzata
la possibilità di ricorrere alla Convenzione di New York, in alterna-
234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
tiva alle azioni esperibili dal creditore nel proprio Paese, porterebbe a uno
stravolgimento delle finalità della Convenzione medesima.
Questa si trasformerebbe infatti, da strumento per superare le difficoltà
di organizzare un’azione giudiziale all’estero, in una forma di gratuito patrocinio
generalizzato fornito a cittadini di Paesi stranieri, operante anche quando
questi abbiano la possibilità di beneficiare nel proprio Stato della tutela
giurisdizionale, e, ove previsto, del gratuito patrocinio.
In realtà, se un creditore alimentare può agire nel proprio Paese per far
valere le sue pretese alimentari, non vi è motivo di mettere in moto la complessa
e onerosa procedura della Convenzione di New York, e soprattutto di
porre il patrocinio a carico di uno Stato estero.
Tale ricostruzione della portata applicativa della Convenzione potrebbe
trarre conforto, oltre che dalla prassi internazionale e dall’indagine delle finalità
perseguite dalla Convenzione, anche da una interpretazione dell’art. 6, par.
1, Convenzione di New York, dove testualmente si stabilisce che l’Istituzione
Intermediaria “transige et, lorsque cela est nécessaire, elle intente et poursuit
une action alimentaire et fait exécuter tout jugement, ordonnance ou autre acte
judiciaire” (transige, e, quando è necessario, intenta e promuove un’azione alimentare
e fa eseguire sentenze, ordinanze o altri atti giudiziari).
Fatta salva l’attività stragiudiziale di transazione, le iniziative giudiziarie
dell’Istituzione Intermediaria (sia quelle che si traducono in azioni di
cognizione, sia le azioni esecutive) sono quindi subordinate alla condizione
della “necessarietà”.
È dunque vero che l’Istituzione Intermediaria ha la legittimazione ad
agire anche per l’accertamento e la quantificazione del credito alimentare,
ma sempre a condizione che l’azione davanti a un giudice di un Paese estero
rispetto a quello del creditore sia necessaria.
Il che conferma la tesi appena prospettata: la Convenzione di New York
– come mezzo assistenziale eccezionale – può essere attivata solo quando ciò
è necessario, ossia solo quando lo Stato di appartenenza del creditore non
abbia la competenza giurisdizionale – neanche concorrente – rispetto all’azione
che si intende esercitare.
La finalità della Convenzione è quindi quella di consentire al creditore
alimentare di non dover subire le conseguenze negative dell’essere costretto
ad adire un giudice straniero.
3. Per esaminare le conseguenze pratiche che derivano da questa interpretazione,
e confortarne ulteriormente l’esattezza, rispondendo anche al
quesito sollevato da codesta Avvocatura, è opportuno distinguere tra azioni
esecutive e azioni di cognizione, verificando se per esse lo Stato del creditore
abbia o meno la competenza giurisdizionale.
Preliminarmente si osserva che ovviamente ciascun Paese aderente
alla Convenzione di New York ha una propria disciplina interna di diritto
internazionale privato processuale, che potrà attribuire la competenza giurisdizionale
in capo al giudice dello Stato del creditore, o viceversa contenere
criteri di collegamento che proiettano la competenza verso uno Stato
estero.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 235
Posto dunque che la verifica deve essere effettuata caso per caso (rectius,
Paese per Paese), possono qui svolgersi alcune considerazioni di carattere
generale, quanto meno per quanto riguarda i Paesi aderenti alla Convenzione
di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale
e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (ratificata in
Italia con legge 21 giugno 1971, n. 804), di recente trasfusa nel Regolamento
CE 44/2001 del 22 dicembre 2000 del Consiglio dell’Unione Europea.
Con riferimento alle azioni meramente esecutive, volte a riscuotere un
credito già accertato e riconosciuto con provvedimento giurisdizionale, la
normativa della maggior parte dei Paesi (e lo stesso Regolamento CE
44/2001 [v. art. 22, n. 5]) attribuisce la competenza giurisdizionale esclusiva
allo Stato in cui ha luogo l’esecuzione, ossia lo Stato dove sono situati i beni
del debitore che si intendono aggredire.
In questi casi, sussiste dunque pienamente il requisito della necessità per
il creditore alimentare di agire davanti a un giudice di uno Stato estero, e
deve pertanto essere sempre azionabile la Convenzione di New York.
Di segno opposto sembra essere l’assetto normativo in tema di competenza
giurisdizionale per le azioni di accertamento del credito alimentare e
condanna del debitore al pagamento.
Per i Paesi Europei, l’art. 5, n. 2 del Regolamento CE 44/2001 in tema
di obbligazioni alimentari prevede, in aggiunta al foro generale del domicilio
del convenuto, anche la competenza giurisdizionale dello Stato in cui il
creditore alimentare ha il domicilio o la residenza abituale.
Pertanto, operando qui la giurisdizione concorrente dello Stato del creditore,
l’azione giudiziale all’estero non costituisce una necessità per quest’ultimo,
e dovrebbe quindi essere esclusa l’applicazione della Convenzione di New
York: il creditore alimentare deve pertanto procurarsi nel proprio Paese un titolo
giudiziale che accerti e quantifichi il suo credito alimentare, e solo successivamente
ricorrere alla Convenzione di New York per dare esecuzione al provvedimento
giurisdizionale nel Paese in cui il debitore ha il proprio patrimonio.
4. Va peraltro rilevato che, nonostante l’affermarsi di una consolidata
prassi internazionale in tal senso, la questione interpretativa in esame non è
regolata da una esplicita e chiara disposizione della Convenzione, e dunque
la soluzione offerta con il presente parere potrebbe non essere condivisa, e
determinare una reazione diplomatica da parte di quei (sia pur pochi) Paesi
– come la Svezia e la Norvegia – che accedono invece alla tesi dell’estensione
illimitata dell’ambito di operatività della Convenzione.
Potrebbe allora essere adottata una soluzione, per così dire, “intermedia”,
che prenda le mosse proprio dalla clausola di necessità contenuta nell’art.
6, par. 1, cit., e ne fornisca una lettura più elastica rispetto a quella che
la lega al rigido parametro della esistenza o meno della giurisdizione esclusiva
dello Stato del debitore.
Si potrebbe affermare cioè che, in presenza della giurisdizione concorrente
dello Stato del creditore, il ricorso alla Convenzione di New York non
sia di norma necessario, e dunque ai sensi dell’art. 6 la richiesta di assistenza
all’Istituzione Intermediaria dello Stato del debitore non sia ammissibile.
236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ma si potrebbero far salve le ipotesi in cui vi siano particolari motivi che
inducano a ritenere preferibile la proposizione dell’azione alimentare nello
Stato del debitore, pur avendo il creditore la possibilità di rivolgersi al giudice
del proprio Paese.
Tra questi motivi vi potrebbe essere ad esempio quello del rischio che la
sentenza emessa dal giudice dello Stato del creditore non sia suscettibile di
riconoscimento nello Stato del debitore: è il caso in cui l’ordinamento processuale
dello Stato del creditore non assicuri adeguatamente i diritti di difesa
(del convenuto), oppure che in quel Paese debba applicarsi una disciplina
sostanziale contraria all’ordine pubblico del Paese dove la sentenza dovrebbe
essere eseguita.
Ancora, sarebbe possibile accogliere la richiesta di assistenza ai sensi
della Convenzione quando l’acquisizione della prova dell’esistenza del
credito alimentare sia particolarmente difficile e onerosa nello Stato del
creditore, e al contrario sia notevolmente più agevole nello Stato del debitore.
È chiaro però che il ricorso alla Convenzione, in presenza della giurisdizione
concorrente dello Stato del creditore, deve costituire in ogni caso
l’eccezione, e non la regola, e che sull’Autorità Speditrice del Paese del
creditore grava l’onere di fornire all’Istituzione Intermediaria gli elementi
concreti da cui possa evincersi la necessità, ai sensi dell’art. 6, par. 1, cit.,
di proporre l’azione di cognizione davanti al giudice dello Stato del debitore.
In definitiva, nei casi di giurisdizione concorrente dello Stato del debitore
e dello Stato del creditore, la scelta di ricorrere o meno alla Convenzione
non è rimessa al mero arbitrio del creditore, ma deve essere supportata da
elementi concreti da cui emerga la particolare difficoltà per quest’ultimo di
ottenere una sentenza di accertamento del credito alimentare da parte del
giudice del proprio Paese, e quindi la necessità di adire il giudice dello Stato
del debitore
5. Alla luce di queste considerazioni la Scrivente ritiene quindi preferibile
in linea di massima la tesi restrittiva secondo cui l’Istituzione
Intermediaria ha la legittimazione straordinaria ad agire nei soli casi in cui lo
Stato del creditore non abbia la competenza giurisdizionale.
Ciò anche tenendo conto di quanto rappresentato da ultimo da codesto
Ministero nella nota prot. 1180/40.1.559, da cui è emerso che tale orientamento
si conformerebbe a una prassi seguita dalla quasi totalità dei Paesi
aderenti alla Convenzione, e che esso determinerebbe una sensibile semplificazione
della procedura di assistenza.
Dovranno dunque essere respinte, di norma, le richieste di assistenza per
azioni che possano essere proposte anche davanti ai giudici dello Stato del
creditore.
Ma potrà essere fatta salva la possibilità di valutare, e accogliere, le
richieste accompagnate da motivi specifici che possano indurre a ritenere
che, in quel caso concreto, sia necessario e preferibile adire l’autorità giudiziaria
dello Stato del debitore».
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 237
A.G.S. – Parere del 4 ottobre 2006, n. 111689.
Se nel caso di autorizzazione ad effettuare nuove assunzioni utilizzando
la graduatoria di un concorso già espletato sia necessario rispettare la
riserva di posti a favore di candidati interni già prevista dal bando (consultivo
13634/06, avvocato R. Tortora).
«Con la nota in riferimento codesto Istituto ha chiesto alla Scrivente se,
nell’ipotesi di autorizzazione ad effettuare nuove assunzioni al fine di procedere
allo scorrimento di una graduatoria relativa ad un concorso già espletato,
sia necessario rispettare la riserva di posti a favore dei candidati interni
prevista dall’originario bando di concorso.
Deve premettersi, innanzitutto, che l’ordinamento conosce diverse ipotesi
di scorrimento della graduatoria di un concorso pubblico:
1- l’art. 8 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 consente di conferire secondo l’ordine
della graduatoria, oltre ai posti originariamente posti a concorso, anche
quelli che risultino disponibili alla data di approvazione della graduatoria
medesima, nei limiti proporzionali stabiliti dal comma 2;
2- il medesimo art. 8 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, al terzo comma (così
come sostituito dall’articolo unico della legge 8 luglio 1975 n. 305), consente
poi, nel caso che alcuni dei posti messi a concorso restino scoperti per
rinuncia, decadenza o dimissioni dei vincitori, di procedere ad altrettante
nomine secondo l’ordine della graduatoria, nel termine di due anni;
3- il comma 22 dell’art. 3 della legge 24 dicembre 1993 n. 537 prevede,
in via generale, che le graduatorie dei concorsi pubblici restino efficaci per
diciotto mesi dalla loro pubblicazione per eventuali coperture di posti resisi
disponibili successivamente e fino alla scadenza del termine anzidetto.
Tuttavia il comma 100 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004 n. 311 ha
prorogato di un triennio i termini di validità delle graduatorie per le assunzioni
di personale presso le amministrazioni pubbliche che per gli anni 2005,
2006 e 2007 sono soggette a limitazioni delle assunzioni, mentre il precedente
comma 96, in deroga al divieto di cui al comma 95, ha consentito alle
amministrazioni di procedere ad assunzioni “per fronteggiare indifferibili
esigenze di servizio di particolare rilevanza ed urgenza”, nell’ambito di
determinati stanziamenti e secondo particolari procedure di autorizzazione.
L’ipotesi in esame è proprio quest’ultima, risultante dal combinato
disposto dei commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n. 311/2004.
Tale fattispecie appare significativamente diversa da quelle di cui ai nn.
1) e 2). Le due ipotesi previste dall’art. 8 del d.P.R. n. 3/1957 concernono,
infatti, la copertura di posti coperti nello stesso ambito di svolgimento della
procedura concorsuale, ovvero la copertura, a procedura conclusa, dello stesso
numero di posti già messi a concorso in specifica surrogazione dei vincitori
(rinunzianti, decaduti, dimissionari), ed hanno quindi sempre riferimento,
oggettivo o soggettivo, alla particolare vicenda concorsuale che ha dato
luogo alla graduatoria. L’ipotesi sub 3) riguarda invece operazioni non soltanto
successive all’approvazione della graduatoria del concorso e dunque
successive alla chiusura delle operazioni concorsuali, ma altresì svincolate
238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
del tutto sia da ogni riferimento proporzionale al numero dei posti per la cui
copertura il concorso era stato bandito, sia da ogni collegamento soggettivo
alle posizioni dei vincitori del concorso.
Come ha rilevato Cons. Stato, Sez. V, 16 ottobre 2002 n. 5611, “la procedura
di ‘scorrimento delle graduatorie concorsuali’, rectius dell’utilizzazione
delle graduatorie anche oltre i termini e le modalità prefissate nella
singola procedura concorsuale, risponde a finalità ed esigenze che (…) sono
proprie dell’Amministrazione, finalità per cui è principale interesse di questa
ovviare alla vacanza sopravvenuta di posti in organico avvalendosi della
graduatoria di un precedente concorso, piuttosto che procedere all’avvio di
un nuovo (costoso e lungo) procedimento concorsuale”.
Non si tratta, in altri termini, di un ampliamento o di una “coda” della procedura
concorsuale già definita, ma di un autonomo istituto di carattere “eccezionale”
(così lo qualifica la medesima sentenza Cons. Stato, Sez. V, 16 ottobre
2002 n. 5611), implicante l’utilizzo degli esiti di una precedente e distinta procedura,
che costituisce “sempre e comunque una mera facoltà dell’Amministrazione”
e che richiede, con la disponibilità dei relativi posti, la verifica in concreto
dell’interesse dell’Amministrazione a procedere alla loro copertura.
La procedura in questione, ancorché concettualmente rispettosa di un
metodo selettivo (in quanto con essa si attinge pur sempre ad una graduatoria
stilata a conclusione di un concorso pubblico), rimane comunque estranea
alla procedura concorsuale di cui si utilizza la graduatoria.
Di ciò si trae conferma dalle disposizioni che autorizzano la copertura
dei posti disponibili con utilizzazione degli idonei delle graduatorie di pubblici
concorsi approvate da altre amministrazioni (art. 9 legge 3/2003; art. 3,
comma 61, legge 350/2003).
Ne consegue che nel caso di utilizzo di una graduatoria di un precedente
concorso non torna applicabile la “lex specialis” di questo contenuta nel
relativo bando per la copertura dei posti ivi previsti.
L’utilizzo della graduatoria di un precedente concorso trova invero la
propria fonte disciplinatrice altrove; in particolare, per quanto qui interessa,
nel combinato disposto dei commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n.
311/2004, che nulla dispongono a salvaguardia di ipotetiche riserve di posti
a favore del personale interno che fossero già previste dal bando dello stesso
concorso di cui si utilizza la graduatoria.
L’utilizzo effettuato sulla base di tali norme dovrà pertanto rispettare i
principi generali e seguire la graduatoria di merito, senza considerazione
alcuna di riserve di posti.
Per effetto di quanto sopra evidenziato non sembra neppure applicabile
la riserva di posti contenuta nell’art. 56 del C.C.N.L. 1998/2001, il quale,
appunto, limita la riserva ai posti conferiti mediante concorso pubblico: nel
caso in esame, come si è detto, le assunzioni trovano la propria fonte non in
un bando di concorso, bensì nel combinato disposto dei commi 96 e 100 dell’art.
1 della legge n. 311/2004.
Le disposizioni dei bandi di concorso che prevedono una riserva di posti
a favore di determinate categorie di candidati presentano del resto carattere
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 239
eccezionale e sono, come tali, di stretta interpretazione. Con la copertura dei
posti riservati previsti dal bando si esaurisce il loro ambito applicativo specificamente
previsto e non è quindi ipotizzabile una loro “ultrattività”.
Coerente a tale ordine di considerazioni appare Cons. Stato, Sez. V, 28
febbraio 1995 n. 293, nella quale ha affermato che “nei concorsi pubblici,
una volta formata una graduatoria unica degli idonei ed esaurite le quote di
riserva, non è possibile altro criterio di scelta per la nomina che lo scorrimento
secondo l’ordine numerico dei graduati, ivi compresi gli appartenenti
a categorie privilegiate”.
Pertanto, pur nella consapevolezza dell’obiettiva incertezza della questione
che potrebbe dar luogo a controversie, la Scrivente, conclusivamente,
non può che ribadire che lo “scorrimento” della graduatoria del concorso
indetto con la deliberazione n. 321/04/PER dell’8 aprile 2004, ai fini dell’assunzione
in deroga di ulteriore personale ai sensi del combinato disposto dei
commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n. 311/2004, dovrà essere effettuato
secondo l’ordine di merito della graduatoria, senza tener conto di alcuna
riserva di posti a favore dei candidati interni già prevista dal bando».
A.G.S. – Parere del 6 ottobre 2006, n. 112597.
Elezioni amministrative del 28-29 maggio 2006 – Ricorsi elettorali pendenti
dinanzi al T.A.R. della Sardegna – Onere di impugnare la proclamazione
degli eletti e conseguenze sulla procedibilità dei ricorsi pendenti –
Indicazioni all’Avvocatura distrettuale di Cagliari sulla condotta da tenere
in giudizio (consultivo 26013/06, avvocato F. Fedeli).
«Con la nota a margine, codesta Avvocatura Distrettuale ha rappresentato
alla Scrivente lo stato dei ricorsi pendenti dinanzi al T.A.R. Sardegna, ad
iniziativa di alcune liste dapprima escluse, con provvedimenti della
Commissione Elettorale Circondariale di Cagliari, dal partecipare alle consultazioni
elettorali amministrative del 28-29 maggio 2006 (differite, nei
Comuni di Cagliari e di Carbonia, all’11-12 giugno 2006) e poi riammesse,
con ordinanze cautelari, dal Giudice Amministrativo (ad eccezione della lista
“Democrazia Cristiana”, ricorsi T.A.R. n. 388-389/2006), con riferimento
alle possibili eccezioni di improcedibilità, che codesta Avvocatura
Distrettuale potrebbe sollevare in vista dell’udienza di merito, connesse
all’onere gravante sui ricorrenti in materia elettorale, più volte affermato
dalla giurisprudenza, di impugnare l’atto di proclamazione degli eletti.
Nel concordare con la linea difensiva finora sostenuta da codesta
Avvocatura Distrettuale e già nota alla Scrivente per aver assunto il patrocinio
della Commissione Elettorale Circondariale di Cagliari e della
Sottocommissione Elettorale di Carbonia nella fase cautelare di appello
dinanzi al Consiglio di Stato, si osserva che l’onere di impugnare, con motivi
aggiunti, la proclamazione degli eletti, a pena di improcedibilità del ricorso,
sussiste unicamente per le liste che non abbiano ottenuto dal Giudice
Amministrativo, in sede cautelare, l’ammissione a partecipare alle elezioni e,
240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
quindi, unicamente per i ricorsi n. 388 -389/2006 ad istanza dei sig.ri (…),
rappresentanti della lista “Democrazia Cristiana”, poiché negli altri casi le
liste che sono state riammesse alla competizione elettorale hanno visto
rimosso dal Giudice Amministrativo il vizio che inficiava la regolarità della
consultazione elettorale, sicché i ricorrenti non hanno interesse ad impugnare
la proclamazione degli eletti, essendosi interrotto – grazie al provvedimento
cautelare del Giudice Amministrativo – il nesso che consentiva la
comunicazione del vizio dall’atto endo-procedimentale al provvedimento
finale (salva la facoltà e l’eventuale interesse ad impugnare la proclamazione
degli eletti per vizi diversi dalla mancata ammissione della lista).
L’eventuale impugnativa della proclamazione degli eletti da parte di una
lista ricusata dalla Commissione Elettorale e poi ammessa a partecipare alle
elezioni dal Giudice Amministrativo sarebbe inammissibile per carenza di
interesse, a meno che la lista non sollevi censure diverse da quella afferente
al provvedimento di esclusione. Infatti, il provvedimento cautelare del
Giudice Amministrativo soddisfa l’interesse della lista a partecipare alla consultazione
elettorale sicché quest’ultima, in sede di merito, non può chiedere
l’invalidazione delle elezioni (come avverrebbe qualora fosse impugnata
la proclamazione degli eletti) ma solo insistere per ottenere l’annullamento
del provvedimento di ricusazione (che il T.A.R. Sardegna, discostandosi
dall’Ad. Plenaria n. 10/2005, ha ritenuto immediatamente lesivo ed impugnabile),
già sospeso in fase cautelare.
Ai fini della verifica della persistenza dell’interesse ad impugnare e,
quindi, della procedibilità del ricorso, occorre tuttavia tenere conto, in materia
elettorale, anche dei risultati della consultazione popolare, poiché le liste
che sono state ammesse in sede cautelare dal Giudice Amministrativo e che,
pur avendo partecipato alle elezioni, non hanno conseguito alcun seggio
all’esito dello scrutinio, non possono più vantare alcun interesse a perseguire
una pronuncia di merito, in quanto quest’ultima non potrebbe arrecare o
consolidare alcun vantaggio obiettivo in favore delle liste ricorrenti.
Si riportano, sul punto, le considerazioni svolte dal T.A.R. Lazio, sezione
II bis, nella sentenza n. 5566/2005 (ric. n. 2515/2005 S.A. ed altri c/
Ufficio Elettorale Regionale presso la Corte di Appello di Roma e altri) che,
condividendo le considerazioni della Scrivente, ha dichiarato l’improcedibilità
del ricorso con il quale la lista “Alternativa Sociale con Alessandra
Mussolini” aveva impugnato l’esclusione dalle elezioni del Presidente e del
Consiglio della Regione Lazio del 3-4 aprile 2005, alle quali aveva poi partecipato
in virtù di un’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, senza tuttavia
conseguire alcun seggio, in quanto “tale riscontro obiettivo è ex se sufficiente
a determinare l’improcedibilità del ricorso, anche a prescindere
dalla richiesta in tal senso avanzata dai ricorrenti.
La circostanza che la lista “Alternativa sociale con Alessandra Mussolini”
ha partecipato alle elezioni regionali senza conseguire alcun seggio, infatti,
comporta un’oggettiva sopravvenuta carenza di interesse al ricorso dei ricorrenti,
in quanto, l’eventuale accoglimento del gravame, come evidenziato
dalla difesa erariale, non potrebbe che consolidare un risultato negativo.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 241
A tale stregua essendo venuto meno l’interesse processuale al ricorso, che
altro non è che la proiezione processuale dell’interesse sostanziale dei ricorrenti
rappresentato dalla pretesa giuridica oggetto del ricorso in trattazione,
non può che concludersi con l’improcedibilità del ricorso stesso, atteso che è
principio consolidato che la sussistenza dell’interesse processuale al ricorso –
costituito dall’utilità o dal vantaggio che può derivare al ricorrente dall’accoglimento
del gravame – deve sussistere fino al momento della decisione.
Né può ritenersi, come sostenuto dall’interventore ad opponendum
all’odierna pubblica udienza, che sussisterebbe comunque un interesse
morale e civico (oltre che civilistico) della parte che ha partecipato al giudizio
a conoscere se la tornata elettorale cui ha parimenti partecipato si sia
svolta correttamente.
Tale prospettato interesse, infatti, è inconferente con l’oggetto del giudizio
in trattazione, che è unicamente quello di verificare la legittimità degli
impugnati provvedimenti di esclusione delle liste ricorrenti e non già di verificare
la legittimità delle successive operazioni elettorali e del conclusivo
provvedimento di proclamazione degli eletti, in relazione alla intervenuta
partecipazione delle liste ricorrenti al procedimento elettorale, per effetto
del provvedimento cautelare di appello.
Né appaiono conferenti i precedenti giurisprudenziali richiamati dal predetto
interventore (T.A.R. Campania, Napoli, II, 30 aprile 1998 n. 1333; Cons.
St., V, 28 gennaio 2005 n. 187), entrambi relativi all’ipotesi di improcedibilità
del ricorso per omessa impugnazione del provvedimento finale dell’atto di
proclamazione degli eletti, secondo i quali nel primo si è proceduto comunque
ad una decisione di merito del ricorso e nel secondo, pur dichiarando sotto il
richiamato profilo, il ricorso improcedibile è stato comunque affrontato “in
via delibativa” l’esame dei profili di censura dedotti.
Ciò nella considerazione che nella specie l’improcedibilità del ricorso
non viene dichiarata per l’omessa impugnazione dell’atto di proclamazione
degli eletti, ma sul duplice presupposto della espressa richiesta dei ricorrenti
– alla quale si sono associate sia le Autorità emananti i provvedimenti
impugnati che la Regione quale Amministrazione alla quale vengono imputati
i risultati delle elezioni regionali – e della obiettiva esistenza del fatto
che la lista ricorrente ha partecipato alle elezioni regionali senza conseguire
alcun seggio”.
Con la declaratoria di improcedibilità del ricorso, per sopravvenuta
carenza di interesse, rimangono comunque fermi gli effetti delle ordinanze
cautelari che avevano disposto l’ammissione delle liste ricorrenti alla competizione
elettorale, così da escludere che possano derivare conseguenze
invalidanti sull’esito della consultazione popolare.
In altri termini, la declaratoria di improcedibilità del ricorso attesta il
venir meno dell’interesse (attuale) ad una pronuncia di merito da parte della
lista ricorrente alla luce dei risultati della consultazione popolare come in
concreto determinatisi e destinati, quindi, a rimanere confermati.
Pertanto, ad avviso della Scrivente, la situazione dei ricorsi pendenti
dinanzi al T.A.R. Sardegna può essere così delineata:
242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
– il ricorso n. 386/2006 è procedibile senza necessità che venga impugnata
la proclamazione degli eletti, in quanto la lista ammessa (“l’Ulivo”) ha
conseguito al consiglio comunale di Cagliari 10 seggi con il 20,2% dei
votanti (i dati elettorali sono desunti dal sito internet del Ministero
dell’Interno);
– il ricorso n. 387/2006, ad istanza del P.R.I., è improcedibile non avendo
la lista riportato alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Cagliari,
alle quali è stata ammessa dal Giudice Amministrativo, alcun seggio;
– i ricorsi n. 388-389/2006 per conto della lista “Democrazia Cristiana”,
esclusa dalla consultazione elettorale relativa al comune di Monserrato con
provvedimento della Commissione Elettorale la cui efficacia non è stata
sospesa dal Consiglio di Stato in sede cautelare, sono improcedibili qualora
i ricorrenti non impugnino la proclamazione degli eletti, con motivi aggiunti
o autonomo ricorso;
– il ricorso 390/2006 è improcedibile non avendo la lista “Colori della
Terra-Ambientalisti Umanitari – Codacons – Lista Consumatori – Doveri
Civici – Democrazia Cristiana” conseguito alcun seggio all’esito delle elezioni
del consiglio comunale di Cagliari alle quali è stata ammessa a partecipare
dal Giudice Amministrativo;
– il ricorso n. 401/2006 è improcedibile non avendo la lista ammessa dal
Giudice Amministrativo, alle elezioni per il rinnovo della municipalità di
Pirri, conseguito alcun seggio.
– il ricorso n. 395/2006 è procedibile senza necessità che venga impugnata
la proclamazione degli eletti, in quanto la lista ammessa ha conseguito
un seggio nel consiglio comunale di Carbonia con il 2,7% dei votanti.
Codesta Avvocatura si atterrà alle suesposte indicazioni, comunicando le
decisioni che verranno emesse dal T.A.R. Sardegna per valutare eventuali
iniziative da assumere in fase di gravame (omissis)».
A.G.S. – Parere del 17 ottobre 2006, n. 116847.
Terminali del lotto automatizzato: contributo una tantum dovuto dai raccoglitori
per l’installazione dei terminali: eccedenze di versamento: debenza
di interessi in sede di rimborso (consultivo 58647/05, avvocati M. Mari –
A. Grumetto).
«Con riferimento alla disciplina del contributo una tantum dovuto dai
raccoglitori delle giocate al lotto, per l’installazione dei terminali del sistema
automatizzato del giuoco, si richiede l’avviso della Scrivente in ordine
alla debenza degli interessi sulle somme versate in eccedenza dagli stessi
raccoglitori e da rimborsare da parte dell’Amministrazione.
Va ricordato, infatti, che l’art. 5, comma 1, legge 85/90 (che sostituisce
l’art. 12 della legge 528/82) in vista della progressiva automatizzazione del
gioco, stabiliva che ogni raccoglitore, per l’installazione delle apposite apparecchiature,
fosse tenuto a versare all’Amministrazione un contributo una
tantum, da determinarsi con decreto ministeriale.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 243
Il D.M. dell’8 agosto 1996 fissava l’ammontare di tale contributo in lit.
4.000.000 per ciascun terminale installato, da corrispondersi entro 60 giorni
dalla data di ricevimento della richiesta dell’ispettorato compartimentale dei
monopoli di Stato territorialmente competente, salva rateizzazione, a richiesta,
in quattro annualità con addebito degli interessi al tasso legale e prestazione
di apposita garanzia.
Il successivo D.M. n. 474/99, abrogativo del D.M. dell’8 agosto 1996,
fatti salvi i rapporti esauriti, stabiliva che il contributo di lire 4.000.000
venisse corrisposto in quattro rate annuali con prestazione di fideiussione,
precisando che la prima rata dovesse versarsi all’atto dell’installazione di
ciascun terminale, mentre per i terminali già installati il versamento della
prima rata dovesse avvenire alla data di entrata in vigore dello stesso D.M..
L’art. 41, comma 2, legge n. 388/00 (legge finanziaria per il 2001), infine,
con disposizione sostitutiva del comma 5 dell’art. 12, legge n. 528/82
(già novellato, come detto, dalla legge 85/90) stabiliva in L. 2.500.000
(attuali €. 1.291,15), l’importo del contributo una tantum, fissando il termine
del 30 giugno 2001 per il pagamento relativo ai terminali già funzionanti
alla data di entrata in vigore della stessa nuova disposizione ed il termine di
60 giorni dalla data di ricevimento della richiesta dell’Amministrazione per
i terminali successivamente installati.
Orbene, è fuor di dubbio che in tutti i casi in cui risulti che il contributo
sia stato versato due volte si debba procedere alla restituzione del secondo
contributo versato. È da dubitare peraltro che debba procedersi a restituzione
in altri casi, in particolare allorché i rapporti concernenti terminali funzionanti
al momento di entrata in vigore della legge 388/2000 risultino, a tale
momento, già esauriti.
Le relative questioni, che peraltro non formano oggetto del parere richiesto,
potrebbero essere sollevate a difesa dell’Amministratore in un’eventuale
sede contenziosa.
In ogni caso, avuto riguardo allo specifico quesito proposto, deve osservarsi
che nei casi in cui sussista obbligo di restituzione, la fattispecie è da ritenere
disciplinata dall’art. 2033 c.c., con la conseguenza che, non potendosi
dubitare della buona fede dell’Amministrazione che ha introitato il contributo
nella misura stabilita dalla normativa vigente al momento dell’installazione dei
terminali, gli interessi sono dovuti solo a decorrere dalla domanda giudiziale.
Ciò secondo la costante interpretazione data della giurisprudenza alla disposizione
anzidetta, in coordinata relazione alla prescrizione dell’art. 1148 c.c.».
A.G.S. – Parere del 17 ottobre 2006, n. 117287.
Ministero dell’Economia e delle Finanze – Assegnazione a mansioni
superiori – Artt. 56 e 57 del D.Lgs. n. 29/93 – Art. 3, co. 208, L. 549/1995 –
Decorrenza del diritto alle differenze retributive – Disciplina generale o speciale
(consultivo 33814/05, avvocato A. Grumetto).
«Codesta Amministrazione ha richiesto l’avviso della Scrivente in relazione
al problema della decorrenza del diritto alla retribuibilità delle mansioni
superiori.
244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Riferisce che per i dipendenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze
esiste una disciplina speciale, contenuta nella legge n. 549 del 1995, il cui art.
3, comma 208, prevede che, in deroga all’art. 57 del D.Lgs. n. 29/93 all’epoca
vigente, la disciplina delle mansioni superiori in esso prevista trova applicazione
ai dipendenti del Ministero decorsi 60 giorni dall’approvazione della prima
graduatoria dei corsi di riqualificazione previsti dal precedente comma 207.
Riferisce altresì che, come noto, la Corte costituzionale (sentenza n. 194
del 2002) ha dichiarato illegittimi i commi 205, 206 e 207 del predetto art.
3, ma non il comma 208, che conteneva il differimento dell’entrata in vigore
della disciplina di cui all’art. 57 D.Lgs. n. 29/93.
Letti gli atti trasmessi, la Scrivente osserva quanto segue.
1) È noto che la disciplina delle mansioni superiori oggi vigente (art. 52
T.U. n. 165 del 2001, che ha recepito l’art. 56 del D.Lgs. n. 29/98, come
sostituito dall’art. 25 del D.Lgs. n. 80/98 e modificato dall’art. 15 del D.Lgs.
n. 387/98) riguarda sia l’ipotesi del conferimento legittimo di mansioni superiori
(in via provvisoria e nei casi di vacanza del posto in organico o per la
sostituzione di un dipendente con diritto alla conservazione del posto di
lavoro), sia l’ipotesi del conferimento illegittimo (vale a dire fuori dei casi
previsti dalla legge).
2) Con il presente parere la Scrivente intende prendere in esame entrambe
le ipotesi.
3) Con riguardo alla seconda (conferimento illegittimo), l’art. 57 del
D.Lgs. n. 29/93, nel testo vigente all’epoca della legge n. 549 del 1995, non
prevedeva l’ipotesi di conferimento illegittimo di mansioni superiori, ma
solo l’ipotesi di conferimento legittimo. La disciplina per i casi di conferimento
contra legem venne inserita nell’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93 mercé la
sua sostituzione ad opera dell’art. 25 del D.Lgs. n. 80/98.
4) Pertanto, ad un primo approccio, non sembra possibile ritenere che l’art.
3, comma 208 della legge n. 549 del 1995, nella parte in cui richiama l’art. 57
D.Lgs. n. 29/93 (si ripete: nel testo all’epoca vigente), consenta di ritenere che
anche la disciplina del conferimento illegittimo di mansioni superiori sia stata
differita all’esito dell’espletamento dei corsi previsti dalla legge.
5) Con riguardo ad entrambe le ipotesi di conferimento di mansioni
superiori, invece, anche a voler ritenere che il rinvio di cui al predetto
comma 208 sia dinamico – (e cioè si riferisca alla materia delle mansioni
superiori nel suo complesso ) e che pertanto, abrogato l’art. 57 (ad opera dell’art.
43 del D.Lgs. n. 80/98) il rinvio debba intendersi all’art. 56 del D.Lgs.
n. 29/93 -, come ricordato da codesto Ministero, la disciplina dei corsi di
riqualificazione di cui ai precedenti commi dell’art. 3 della legge n. 549 del
1995 è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (n. 194 del
2002); sicché è venuto meno il presupposto di fatto cui ancorare il rinvio dell’entrata
in vigore della disciplina delle mansioni superiori per il personale
del Ministero. Né risulta che il Legislatore abbia modificato la disciplina in
parola dopo la ricordata sentenza della Corte costituzionale.
6) Non autorizza ad ammettere un rinvio della disciplina delle mansioni
superiori neppure la legge n. 265 del 2002, con la quale, in considerazione
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 245
della citata pronuncia della Corte costituzionale, si è stabilita “a titolo individuale
ed in via provvisoria” la conservazione del trattamento retributivo e
delle funzioni del personale che aveva superato i corsi di riqualificazione
dichiarati illegittimi dal Giudice delle leggi. Tale intervento ha evidenti
caratteristiche di misura “tampone” per gli interessati e non fa salve (né
avrebbe potuto farlo) le graduatorie dei corsi espletati.
7) In conclusione, per quanto sopra esposto, ritiene la Scrivente che il problema
della decorrenza della retribuibilità delle mansioni superiori legittime ed
illegittime sia da ricondurre, anche per il Ministero dell’Economia e delle
Finanze, nell’ambito della disciplina generale (art. 56 D.Lgs. n. 80/98, poi confluito
nell’art. 52 del T.U. n. 165/01), con la conseguenza che, in presenza di
tutti i presupposti previsti dalla disciplina, il diritto alle differenze retributive
spetti a far data dal 22 novembre 1998, e cioè dall’entrata in vigore dell’art. 15
del D.Lgs. n. 387 del 1998, modificativo del comma 6 dell’art. 56 del D.Lgs.
n. 29/93 (come di recente ritenuto dall’Ad. pl. Consiglio di Stato n. 3/06).
8) Tale conclusione consente di ricondurre ad unità la disciplina dell’istituto
per tutto il comparto delle Amministrazioni statali e si presenta conforme
ai principi costituzionali contenuti nell’art. 36 Cost., per come più volte esplicitati
dalla Corte costituzionale (in particolare si v. l’ord. n. 337/93).
9) Si coglie l’occasione per rammentare in questa sede il diverso orientamento
della Corte di cassazione, in virtù di una serie di decisioni (n. 91/04
e n. 14944/04) con le quali si è ritenuto che il diritto alla retribuibilità delle
mansioni superiori spetti a partire dalla data di entrata in vigore del D.Lgs.
n. 80/98 (che ha sostituito l’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93) e che la modifica
operata con l’art. 15 del D.Lgs. n. 387/98 abbia carattere interpretativo e non
innovativo; con la precisazione, peraltro, tenuto conto del momento iniziale
della giurisdizione dell’A.G.O., che avanti a questa non possono essere avanzate
pretese per il periodo anteriore al 1 luglio 1998.
10) Anche in attesa di una definitiva pronuncia della Corte di cassazione,
la Scrivente ritiene, allo stato, di seguire l’indirizzo dell’Ad. Pl. del
Consiglio di Stato n. 3/06, con la conseguenza di riconoscere il diritto al trattamento
a partire dal 22 novembre 1998».
A.G.S. – Parere del 26 ottobre 2006, n. 121593.
Rimborso spese legali ex art. 18 d.l. n. 67/97 – Se sussista il diritto al
rimborso in caso di assoluzione con formula ai sensi dell’art. 530 II c.p.p.
che lascia aperta l’eventualità di affermazione di responsabilità civili o
amministrative (consultivo 27471/06, avvocato M. Russo).
«Codesta Amministrazione ha richiesto alla Scrivente il parere di congruità
previsto dall’art. 18 legge 135/97 in relazione alla parcella presentata
dal legale di un dipendente.
Ciò premesso, si osserva quanto segue.
Sussiste, nella specie, il presupposto della connessione dei fatti contestati
con l’espletamento del servizio, vertendo l’accusa penale su un’imputazione
di peculato militare evidentemente occasionata dal servizio. Per quanto
246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
concerne l’esclusione della responsabilità, deve rilevarsi che la sentenza di
primo grado, riformata in appello ma successivamente confermata in
Cassazione, assolve l’imputato dai fatti ascrittigli “perché il fatto non sussiste”
espressamente richiamando la norma di cui all’art. 530, 2° comma c.p.p..
Tale formula assolutoria viene adottata “quando manca, è insufficiente o è
contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che
il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.
Ciò premesso, si osserva che, con recente parere n. 358/06 della C.G.A. Sez.
consultiva, è stato affermato che la formula assolutoria di cui sopra non corrisponderebbe
ad un effettivo e totale esonero da responsabilità, in quanto essa
lascerebbe aperta la possibilità di future azioni volte a fare valere per gli stessi
fatti la responsabilità civile o amministrativa del dipendente, con la conseguenza
che verrebbe a mancare uno dei presupposti (appunto l’esclusione di responsabilità)
per la concessione del rimborso delle spese sostenute per la difesa.
In effetti, nella parte motiva della sentenza pronunciata dal Tribunale
militare, viene espressamente affermata la teorica possibilità di ammettere
“…una responsabilità amministrativa disciplinare” nei confronti dell’imputato,
per gli stessi fatti oggetto del giudizio penale (peraltro poi esclusa nel
caso di specie, almeno rebus sic stantibus, dal provvedimento di archiviazione
adottato per gli stessi fatti dalla Corte dei Conti – cfr. sentenza Corte App.
pen. del 12 luglio 2005, pag. 6).
Tutto ciò premesso, si osserva che la Scrivente, sulla questione di principio
enunciata dalla C.G.A., ha avuto modo di esprimersi in senso difforme con
parere in data 9 giugno 1998 prot. 70620 approvato dal Comitato Consultivo,
affermando: “Per quanto riguarda il problema di decisioni che hanno escluso
determinate responsabilità (per esempio penali) ma dai cui fatti di causa
emergono altre forme di responsabilità non perseguite nelle sedi competenti,
si osserva come non sia possibile negare la richiesta di rimborso.
Questa, infatti, è direttamente connessa all’attività difensiva che ha portato
nel corso di quel dato giudizio alla negazione di quella data responsabilità.
La decisione, del resto, si ricollega al profilo valutativo che l’ordinamento
effettua di un determinato fatto; per cui ben può aversi una situazione
da cui scaturiscono diversi giudizi (es. penali, civili, contabili ecc. ) che
operano su piani diversi, per cui per uno di essi quel dato atto o fatto non
ha alcuna rilevanza, di tal che non sembra possano sussistere ostacoli per la
responsabilità delle spese sostenute per la difesa, difesa che appunto ha portato
all’esclusione di responsabilità per quel tipo di procedimento”.
Tanto considerato, la Scrivente non ritiene di doversi discostare dall’orientamento
assunto sulla questione, nonostante il diverso avviso recentemente
espresso dalla C.G.A.
Ed invero, la potenziale rilevanza della condotta in termini di responsabilità
civile, disciplinare od amministrativa – sia che venga poi accertata in
concreto nelle sedi opportune, sia a maggior ragione se rimanga a livello solo
ipotetico – non vale a superare la considerazione che il titolo in base al quale
il dipendente è chiamato a rispondere (nonché i relativi presupposti) sono
autonomi e distinti, come pure lo sono i relativi procedimenti accertativi e le
spese sostenute per questi ultimi.
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 247
Non pare, pertanto, che – anche in presenza di altra (potenziale o certa)
responsabilità – possa negarsi il rimborso delle spese del procedimento penale
che abbia accertato l’insussistenza di quel tipo di responsabilità.
Tutto quanto sopra premesso, la Scrivente, prima di rendere parere sulla
congruità degli importi richiesti, chiede a codesta Amministrazione di voler
precisare se gli altri dipendenti, imputati nel medesimo procedimento penale,
abbiano a loro volta presentato istanza di rimborso e, in caso affermativo,
se la stessa sia stata inoltrata alla Scrivente per il parere di competenza.
Quanto sopra ai fini del necessario coordinamento nella trattazione delle singole
posizioni, strettamente connesse fra loro».
A.G.S. – Parere del 27 ottobre 2006, n. 122483.
Istanza di rimborso spese legali – Parcella predisposta dal legale del
dipendente – Congruità – Voce “Esame e Studio” – Modalità di computo
(consultivo 44255/04, avvocato M. Salvatorelli).
«(…) la Scrivente osserva quanto segue.
Le sessioni telefoniche e gli incontri con l’assistito, benché non documentati,
appaiono ragionevoli e congrui con riferimento alla natura del procedimento.
Per la voce esame e studio degli atti, si osserva poi che essa è stata correttamente
reiterata per ogni grado, ma moltiplicata per ciascun atto o documento
esaminato, mentre spetta – salva la possibilità di aumento di cui al
comma 3 dell’art. 1 della Tariffa – “ogni volta che...viene compiuta l’attività”
(art. 1, comma 4) intesa nel suo complesso, atteso che la tariffa indica
specificamente quanto la liquidazione spetta per ogni atto.
Conseguentemente, per ciascuna fase di giudizio, laddove nel prospetto
di parcella viene indicata la voce “esame e studio atti di indagine”, va liquidato
per ciascuna fase una sola volta l’importo di €. 60,00, anziché:
– 15 volte, come per la fase A) (indagini preliminari);
– 14 volte, come per la fase B) (udienza preliminare);
– 62 volte, come per la fase C) (dibattimento);
– 3 volte, come per la fase E) (rinvio).
Il totale imponibile, anziché €. 31.146,00, va determinato, salvo errori,
in €. 25.746,00, oltre rimborso spese, CAP e IVA da calcolarsi come per
legge (…)».
A.G.S. – Parere del 27 ottobre 2006, n. 122486.
Rimborso spese legali – Parcella predisposta dal legale del dipendente
– Congruità – Voce “Esame e Studio” – Modalità di computo (consultivo
41952/04, avvocato M. Salvatorelli).
«Con riferimento alla richiesta di rimborso di cui all’oggetto, rilevato
che i fatti per i quali il dipendente è stato sottoposto al procedimento sono
connessi con l’espletamento del servizio e che il procedimento si è concluso
248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
con ordinanza di archiviazione, con esclusione di responsabilità a carico del
dipendente, si esprime parere favorevole in ordine alla spettanza del rimborso.
Si osserva, tuttavia che le somme indicate nei progetti di parcella dell’avvocato
non appaiono congrue.
Il parere espresso sul punto dal Consiglio dell’Ordine, infatti, anche laddove
si pronunci in deroga alle tabelle professionali ai sensi dell’art. 1, co. 3,
ultima parte, della tariffa penale, rileva unicamente nei rapporti tra professionista
e patrocinato, ma non può essere ritenuto vincolante nei confronti
dell’Amministrazione in sede di rimborso e dell’Avvocatura, cui nella fattispecie
la legge attribuisce una specifica competenza in ordine alla determinazione
della congruità.
Orbene, in difetto di documentazione, gli importi indicati a titolo di
esame e studio (voci 2 e 4 del progetto di parcella) non possono essere congruiti
a fronte di un importo massimo previsto dalla tabella allegata alla tariffa
all’epoca applicabile pari a £. 100.000, poiché per detta voce, salva la possibilità
di aumento di cui al richiamato comma 1 dell’art. 3 Tar. pen., spetta
non per ciascun atto o documento esaminato, ma “ogni volta che...viene
compiuta l’attività”.
Il progetto di parcella va pertanto ridotto a un totale di £. 10.900.000, per
il qual è ragionevole, in considerazione della notoria rilevanza dell’impegno
del processo, nonché della mole della documentazione esaminata, applicare
l’aumento del quadruplo ex art. 1 co. 2 Tar. pen., per un importo totale di £.
43.600.000, pari a €. 22.518,00, sul quale dovranno essere calcolati il rimborso
forfettario (spese generali): (10%), C.P.A. (2%) e IVA(20%), come per
legge.
Come prassi, al rimborso si procederà dietro esibizione di fatture quietanzate
(…)».
A.G.S. – Parere del 6 novembre 2006, n. 125554.
Impugnabilità del decreto presidenziale ex art. 83 ter disp. Att. c.p.c. –
Ricorribilità per cassazione della sentenza adottata da una sezione distaccata
della Corte d’Appello sulla base di un decreto presidenziale ex art. 83
ter disp. Att. c.p.c. che abbia assegnato il giudizio a Sezione distaccata della
Corte d’Appello sita in città diversa da quella in cui ha sede l’Avvocatura
dello Stato: se le regole del foro erariale prevalgano sulle norme regolanti
la ripartizione tra sedi principali e Sezioni distaccate (consultivo 36481/06,
avvocato M. Russo).
«Codesta Avvocatura ha prospettato alla Scrivente l’opportunità di
impugnare con ricorso per cassazione il decreto adottato, a mente dell’art.
83 ter Disp. Att. C.p.c., dal presidente della Corte d’Appello di
Cagliari.
Con tale provvedimento, è stato assegnato alla Sezione distaccata di
Sassari della Corte d’Appello di Cagliari il reclamo di cui all’oggetto. Ciò in
quanto il presidente di tale autorità giudiziaria ha ritenuto che la regola del
foro erariale di cui all’art. 7 R.D. 1611/33 non osti a che la cognizione su un
giudizio di appello (o, come nella specie, di reclamo, assimilabile all’appel-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 249
lo) possa appartenere ad una sezione distaccata della Corte d’Appello nel cui
distretto abbia sede l’Avvocatura dello Stato.
A detta del presidente della Corte d’Appello di Cagliari, infatti, la norma
del foro erariale serve unicamente ad individuare la Corte d’Appello competente
per distretto sicché – una volta che tale individuazione sia correttamente
avvenuta – non v’è ragione per cui una controversia in cui sia parte
l’Amministrazione dello Stato non debba essere assegnata ad una Sezione
staccata, pur sempre facente parte della Corte d’Ap-pello principale.
Secondo la prospettazione suggerita da codesta Avvocatura, il provvedimento
presidenziale non dovrebbe essere censurato sotto il profilo della violazione
delle norme in materia di competenza, bensì sotto il profilo della violazione
di legge e, segnatamente, della norma di cui all’art. 7 r.d. 1611/33 che
– per effetto della determinazione presidenziale – viene a subire una deroga
ad opera della legge istitutiva della Sezione Distaccata di Sassari.
Tanto premesso, la Scrivente rende il seguente parere.
Si concorda, innanzi tutto, con quanto osservato da codesta Avvocatura
circa l’impossibilità di configurare il problema della spettanza di una controversia
alla cognizione della sede principale o della Sezione Distaccata di
un’Autorità giudiziaria in termini di questione di competenza.
È infatti principio consolidato della giurisprudenza di legittimità che
l’attribuzione dei giudizi ad una Sezione distaccata di un’autorità giudiziaria
o, piuttosto, alla sede principale, rilevino solo in termini di organizzazione
interna all’Ufficio (tra le altre, Cass. SS.UU. 1374/94 in materia di Sezioni
staccate delle preture e, più di recente, Cass. I sez. n. 8025/01 nonché, proprio
sul riparto di funzioni tra la Corte d’Appello di Cagliari e la Sez. distaccata
di Sassari, Cass. I sez. 1814/05).
E, d’altronde, il tenore letterale della normativa di riferimento non pare
dare luogo ad equivoci: l’art. 59 R.D. 12/1941, prevedendo che: “Le sezioni
distaccate delle Corti d’Appello hanno sede nei comuni indicati…. Esse,
nella circoscrizione territoriale nella quale esercitano la giurisdizione,
costituiscono sezioni delle corti d’appello dalle quali dipendono”, lascia
chiaramente intendere che dette Sezioni distaccate sono pur sempre articolazioni
della stessa Corte d’Appello.
Per quanto riguarda, invece, la possibilità di rivolgere il ricorso per cassazione
avverso il decreto presidenziale di cui si è fin qui detto, la Scrivente
è di avviso diverso rispetto a quanto propone codesta Avvocatura.
Infatti, l’art. 83 ter disp. att. c.p.c., prevede: L’inosservanza delle disposizioni
di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale
e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, delle cause nelle
quali il tribunale giudica in composizione monocratica è rilevata non oltre
l’udienza di prima comparizione. Il giudice, se ravvisa l’inosservanza o
ritiene comunque non manifestamente infondata la relativa questione, dispone
la trasmissione del fascicolo d’ufficio al presidente del tribunale, che
provvede con decreto non impugnabile”.
Ed in effetti, Cass. SS. UU. cit. ha definito il provvedimento che decide
della distribuzione delle cause fra sezioni delle preture come di natura ordi-
250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
natoria non impugnabile mentre, proprio con particolare riferimento al provvedimento
ex art. 83 ter Disp. Att. c.p.c., Cass. 15752/02 parla di provvedimento
“amministrativo ordinamentale non procedimentale”.
Allo stato, quindi, non sembra sostenibile la tesi della natura decisoria del
decreto presidenziale, né di conseguenza – nell’immediato – sembra possibile
azionare innanzi al giudice della legittimità la ritenuta violazione dell’art.
7 r.d. 1611/33 impugnando il decreto, peraltro espressamente definito dall’art.
83 ter cit. “non impugnabile”. Un ricorso del genere, infatti, rischierebbe
verosimilmente di andare incontro ad una declaratoria di inammissibilità.
Tuttavia, sembra alla Scrivente che – nonostante la non impugnabilità
del decreto presidenziale ex art. 83 ter cit. – l’Amministrazione non debba
rimanere, in linea di principio, sfornita di ogni tutela rispetto al vizio di costituzione
del giudice derivante dalla violazione dell’art. 7 R.D. 1611/33. Ciò
tanto più che – sia pure con un certo margine di alea, e con la precisazione
che, come già detto, non si tratta di questione di competenza bensì di violazione
di legge – la posizione sostenuta da codesta Avvocatura presenta un
significativo interesse, stanti i problemi di spesa ed organizzativi conseguenti
alla deroga al principio del foro erariale.
Ciò posto, pare alla Scrivente che lo strumento processuale attraverso il
quale potrà sottoporsi all’attenzione della Corte di cassazione la questione di
massima di cui sopra sia rappresentato dal ricorso per cassazione avverso il
provvedimento che definisce il giudizio nel merito, provvedimento sul quale
la violazione normativa che inficia il decreto presidenziale ordinatorio ex art.
83 ter cit. finisce inevitabilmente con il riverberarsi.
Tanto premesso in linea di principio, il concreto interesse ad utilizzare il
caso di specie per la sottoposizione alla Suprema Corte della questione di
principio sarà, comunque, compiutamente valutato all’esito del reclamo,
sembrando preferibile – in linea di massima, e salvo diversa valutazione alla
luce del decreto che definirà il giudizio di merito – coltivare la questione in
sede di legittimità in relazione a contenzioso su altra materia (…)».
A.G.S. – Parere del 13 novembre 2006, n. 129398.
Ordinanze emesse a titolo di riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione
– Esecutività (consultivi 25080/06 e 27960/06, avvocato M. Greco).
«... riesaminata la questione alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale
della materia, deve osservarsi quanto segue.
La giurisprudenza (cfr. Cass. Pen. 41523/05 Ministero Economia e
Finanze c/ A.) ha costantemente affermato che l’ordinanza della Corte
d’Appello diventa esecutiva solo dopo il passaggio in giudicato (ex combinato
disposto degli artt. 127 e 585 c.p.p.), ossia in mancanza di impugnazione
nel termine di 15 giorni dall’avvenuta notifica alle parti (cioè dalla comunicazione
a queste da parte della competente Cancelleria; ex combinato
disposto degli artt. 544,2° co., e 548 c.p.p.).
Orbene la Scrivente, in possesso della sola copia autentica dell’ordinanza
come sopra comunicatale, non ha cognizione dell’impugnazione even-
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 251
tualmente proposta dall’interessato o dal P.M. con il deposito dell’atto in
cancelleria se non dopo la notifica effettuatale ai sensi dell’art. 584 c.p.p.;
notifica che, di fatto, avviene con notevole ritardo.
L’invio della copia dell’ordinanza a codesta Amministrazione operato
dalla Scrivente senza specifiche indicazioni non può avere quindi che una
mera funzione notizia rimanendo eventualmente a carico dell’interessato l’invio
della copia esecutiva (a giudizio definito) per la conseguente esecuzione.
Ciò posto possono darsi i seguenti casi:
a) l’ordinanza della Corte d’Appello respinge il ricorso: non si pone allora
alcun problema;
b) l’ordinanza della Corte d’Appello accoglie il ricorso e liquida un
indennizzo:
- se essa viene impugnata (solo o anche) dall’Avvocatura (sull’an e/o sul
quantum) non deve procedersi ad alcun pagamento;
- se essa viene inpugnata (solo o anche) dal P.M. (sull’an e/o sul quantum)
analogamente non deve procedersi ad alcun pagamento;
- se essa viene impugnata dal solo interessato per il quantum (senza che
l’Avvocatura o il P.M. abbiano proposto ricorso incidentale), si potrebbe procedere
al pagamento di quanto già liquidato (sulla base di copia autentica non rilasciata
in forma esecutiva), salvo eventuale integrazione all’esito del giudizio.
Conclusivamente la Scrivente, nel trasmettere le ordinanze della Corte
d’Appello relative ai precedenti di cui all’oggetto in copia conforme all’originale,
si limiterà ad esprimere le proprie valutazioni di impugnabilità ferma
rimanendo la possibilità di darvi esecuzione prima delle definitività delle statuizioni
solo nei casi e limiti sopra specificati nonché, come è ovvio, nel caso
che sia stata stabilita una provvisionale.
Com’è ovvio, le ordinanze della Corte di Cassazione che, senza disporre
un rinvio avanti alla Corte di Appello, definiscono direttamente il merito
della questione sono immediatamente eseguibili.
Ogni diverso precedente parere deve ritenersi superato».
A.G.S. – Parere del 27 novembre 2006, n. 135578.
Dismissione Beni del Ministero della Difesa già appartenenti al
Demanio militare – Legge 23 dicembre 1996 n. 662, art. 3, comma 112 –
Applicabilità della prelazione a favore di conduttore del fondo avente destinazione
agricola (art. 3, co.99 bis L. n. 662/96) – (consultivo 13925/06,
avvocato M. Salvatorelli).
«1.- Con nota del 23 marzo 2006, prot. n. M_D/GGEN/02/417602/
2000/G.43.96, il Ministero della Difesa, Direzione Generale dei Lavori e del
Demanio, ha chiesto alla Scrivente di fornire indicazioni in merito alla sussistenza
del diritto di prelazione in capo al concessionario di un fondo agricolo
appartenente al demanio militare ed oggetto di dismissione ai sensi dell’art.
3, comma 112, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
Codesta Amministrazione fa presente che sulla predetta questione si è
già pronunciata l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce che, con nota
252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
del 22 novembre 2005, cons. n. 5656/05 SL, ha ritenuto sussistente il diritto
di prelazione del concessionario del fondo agricolo, richiamando la disposizione
del comma 99 bis del medesimo art. 3 della legge 662/96, e precisando
che, in difetto di una specifica disciplina circa le modalità di esercizio
della prelazione, la stessa debba essere esercitata secondo quanto previsto in
via generale dall’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590.
La vicenda da cui ha origine la questione sottoposta alla Scrivente ha ad
oggetto il fondo (…), appartenente al patrimonio del Ministero della Difesa
ed inserito nei programmi di dismissione del demanio militare predisposti ai
sensi del citato comma 112, art. 3, della legge n. 662/96. Il predetto fondo è
stato successivamente concesso in uso agricolo alla Sig.ra M., a decorrere
dal novembre del 1999 e per la durata di sei anni; in seguito, nel corso del
2002, il Ministero della Difesa ha bandito una gara, posta in essere dalla
CONSAP s.p.a., per l’aggiudicazione dell’immobile in argomento, all’esito
della quale è stato stipulato, senza preventiva notifica della proposta di alienazione
alla concessionaria del fondo, un contratto preliminare di compravendita
tra il Ministero stesso e l’Associazione (…).
2.- La soluzione della questione rappresentata dal Ministero della Difesa
richiede, preliminarmente, un’attenta analisi della disposizione recata dal
comma 112 dell’art. 3 della legge n. 662/96, al fine di delimitarne la portata
applicativa rispetto alle previsioni dei co. 99 e 99 bis del medesimo articolo.
2.1.- L’art. 3 della legge n. 662/96, nell’ambito delle misure di razionalizzazione
della finanza pubblica concernenti le entrate, prevede una serie di
ipotesi di dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato, individuando
per ciascuna di esse, ed in relazione ai differenti interessi pubblici perseguiti,
le modalità e i tempi di alienazione degli immobili, ovvero demandandone
l’individuazione alle Amministrazioni di volta in volta competenti.
2.2.- In tale contesto, il comma 99 dell’art. 3 della legge 662/96 ha previsto
un’ipotesi generale di dismissione dei beni immobili e dei diritti immobiliari
appartenenti al patrimonio dello Stato e non conferiti nei fondi di cui
al precedente comma 86 del medesimo articolo, riconoscendo al Ministero
dell’Economia e delle Finanze la possibilità di individuare i beni immobili
da assoggettare ad alienazione secondo tempi e modalità indicati con
Decreto Ministeriale. Tale disposizione prevede inoltre esplicitamente che i
concessionari o conduttori dei predetti beni hanno diritto di esercitare la prelazione
sugli stessi, secondo le modalità individuate nell’anzidetto Decreto.
2.3.- Il successivo comma 99 bis dell’articolo 3 citato, introdotto con
legge 23 dicembre 1999, n. 488, e modificato con legge 23 dicembre 2000,
n. 388, estende espressamente la disciplina recata dal comma 99 anche alle
alienazioni dei beni immobili dello Stato “soggetti ad utilizzazione agricola”
e riconosce ai conduttori del fondo un diritto di prelazione da esercitarsi
in base ad indicazioni che avrebbero dovuto essere contenute in un apposito
Decreto Ministeriale, peraltro mai intervenuto.
2.4.- Una specifica ipotesi di dismissione del patrimonio dello Stato relativa
ai beni in uso al Ministero della Difesa è poi recata dal comma 112 dell’art.
3 della legge n. 662/96 in base al quale ‘per le esigenze organizzative
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 253
e finanziarie connesse alla ristrutturazione delle Forze armate, con decreto
del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministero della
difesa, sentiti i Ministri del tesoro e delle finanze, sono individuati gli immobili
da inserire in apposito programma di dismissioni”.
La disposizione in argomento prevede, alle lettere a), b), c) ed e), le procedure
secondo le quali l’anzidetta dismissione deve aver luogo.
In particolare, il Ministero della Difesa conferisce a società a prevalente
capitale pubblico il compito di effettuare le alienazioni, le permute, le valorizzazioni
e gestioni dei beni inseriti nel programma di dismissione, nonché
il compito di stimare il valore dei beni da alienare. Viene altresì previsto che
la valutazione operata dalla società affidataria sia successivamente sottoposta
all’approvazione del Ministero della Difesa, sentito il parere di apposita
Commissione di congruità.
Una volta determinato il valore del bene, è previsto l’espletamento di
una gara per l’individuazione dell’acquirente ed il contratto di alienazione
viene successivamente stipulato dalla società affidataria in rappresentanza
del Ministero della Difesa, che ha il potere di approvare o meno il contenuto
negoziale determinatosi all’esito della sopra descritta procedura.
La lettera d) del comma 112 in argomento stabilisce, infatti, che l’approvazione
del contratto di alienazione di ciascun bene può essere negata dal
Ministero della Difesa ove “il contenuto convenzionale, anche con riferimento
ai termini ed alle modalità di pagamento del prezzo e di consegna del
bene, risulti inadeguato rispetto alle esigenze della Difesa anche se sopraggiunte
successivamente all’adozione del programma”.
Il successivo comma 113 sancisce infine espressamente un diritto di prelazione
in favore degli enti locali con riferimento alle ipotesi regolate dai
commi 99 e 112, senza far menzione della prelazione per i concessionari di
fondi aventi vocazione agricola di cui al comma 99 bis, successivamente
introdotto. Con la legge 23 dicembre 2000, n.388 il comma 113 non è stato
infatti modificato.
3.- Dalla ricostruzione normativa sopra operata discende che l’ipotesi di
dismissione di beni dello Stato prevista dal comma 112 dell’art. 3 della legge
n. 662/96, applicabile in via esclusiva alle sole alienazioni effettuate nell’interesse
del Ministero della Difesa, è del tutto autonoma e distinta rispetto alla
fattispecie generale.
Attesa la generale ratio di tutela della posizione del coltivatore diretto,
in assenza di una espressa esclusione e di una incompatibilità logica, deve
tuttavia ritenersi astrattamente applicabile anche alla dismissione dei beni
della Difesa il comma 99 bis, che regolamenta la prelazione con riferimento
agli immobili destinati, per loro natura, ad utilizzazione agricola.
Tali conclusioni non sembrano infatti contrastare con la specifica volontà
perseguita dal Legislatore istituendo una peculiare procedura di dismissione
dei beni di pertinenza del Ministero della Difesa, atteso che il meccanismo
della prelazione, con le modalità di determinazione del prezzo di alienazione
che gli sono proprie, non appare in linea di principio contrastare con
l’esigenza di reperimento delle risorse finanziarie necessarie a ristrutturare le
254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Forze armate. Ciò è in concreto confermato anche dalla procedura seguita
nel caso di specie, come riferito dall’Amministrazione.
4.- Tanto premesso in linea generale, osserva però la Scrivente che la speciale
prelazione prevista dall’art.99 bis non deve ritenersi a tutt’oggi operante.
Osta, infatti, alla concreta applicabilità della stessa la perdurante mancata
emanazione del Decreto del Ministro del Tesoro (oggi: dell’Economia e
Finanze) di concerto con il Ministro delle Politiche Agricole e Forestali
espressamente previsto dallo stesso comma 99 bis per la concreta individuazione
delle sue modalità di esercizio.
In ossequio alla inequivoca volontà manifestata dal Legislatore si ritiene
comunque che, fino all’approvazione della detta norma regolamentare, in tutte
le ipotesi di dismissione contemplate dalla legge n.662/96 - e, quindi, anche in
quella speciale regolamentata dal comma 112 che qui interessa - si potrà applicare
la prelazione prevista dalle LL. 26 maggio 1965, n. 590 (“Disposizioni
per lo sviluppo della proprietà coltivatrice “) e 14 agosto 1971 (“Disposizioni
per il finanziamento delle provvidenze per lo sviluppo della proprietà coltivatrice”),
ovviamente nelle sole ipotesi in cui ricorrano i presupposti di applicabilità
della stessa, e con le modalità ivi regolamentate.
Per quanto riguarda il caso concreto che ha dato luogo alla richiesta del
presente parere vorrà pertanto valutare codesta spett.le Amministrazione, di
concerto con l’Avvocatura Distrettuale competente, il ricorrere dei presupposti
per applicare la prelazione a favore della Signora M.».
A.G.S. – Parere del 15 dicembre 2006, n. 144292(*).
Spettanza del compenso sostitutivo del congedo ordinario maturato e
non fruito dal personale collocato a riposo in seguito a riforma per infermità
(consultivo 40871/06, avvocato P. Marchini).
“Il quesito in oggetto non sembra riguardare la questione, ben più controversa,
se durante la sospensione del rapporto di lavoro per malattia maturi il
diritto al congedo ordinario, questione in merito alla quale codesto ministero
manifesta l’opinione secondo cui “il dipendente collocato in aspettativa per
infermità conserva integralmente il diritto alla maturazione del congedo ordinario
durante tale periodo, tuttavia la sua fruizione può perfezionarsi unicamente
con la ripresa dell’attività lavorativa al termine dell’assenza”.
Per incidens va detto che sia la giurisprudenza della Corte Suprema di
Cassazione, sia quella del Consiglio di Stato sono ferme nell’escludere che
durante l’assenza per malattia maturi il diritto alle ferie.
La Cassazione Civile, sez. Lavoro, 13 febbraio 1992, n. 1786 (Pres.
Sandulli R. – Rel. Farinaro D. - P.M. Simeone F. (Conf) - E.N.E.L. c/ S.) si
è, infatti, espressa nei seguenti termini:
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 255
(*) Parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato in via ordinaria.
“In mancanza di specifiche disposizioni contrattuali o legislative (come
l’art. 6 della legge 30 dicembre 1971 n. 1204 sulla tutela delle lavoratrici
madri), la legale sospensione del lavoro per malattia (che può durare anche un
intero anno) non comporta la maturazione del diritto alle ferie annuali le quali,
come periodo di riposo finalizzato alla reintegrazione delle energie fisiche e
psichiche del lavoratore, debbono seguire ad un periodo d’ininterrotto lavoro,
avendo in questo la loro causa giuridica e la loro giustificazione nei confronti
del datore di lavoro; in contrario è irrilevante sia la previsione d’irrinunciabilità
ex art. 36, terzo comma, Cost., che implica la nullità delle rinunce alla
maturabilità delle ferie (in relazione allo svolgimento di attività lavorativa o a
periodi a questa equiparati) o alle ferie già maturate, sia la previsione dell’art.
5 della Convenzione O.I.L. 24 giugno 1970 n. 132, resa esecutiva in Italia con
legge 10 aprile 1981 n. 157, che (fra l’altro) subordina la computabilità delle
assenze per malattia ad un ulteriore intervento (non risultante attuato per
l’Italia) dei singoli Stati, non influendo sulla questione neppure la sentenza
della Corte Costituzionale n. 616 del 1987 (dichiarativa dell’illegittimità dell’art.
2109 cod. civ. in quanto non prevedente che la malattia insorta durante il
periodo delle ferie ne sospenda il decorso). (V. Sent. n. 189/80, C. Cost.)”.
Anche il Consiglio di Stato, oltre che con il richiamato parere n. 2217/2003
reso in sede di ricorso straordinario, si è espresso in tal senso affermando:
“Quanto alla particolare posizione in cui viene a trovarsi il dipendente
durante il periodo di aspettativa è sufficiente ricordare che essa rappresenta
una modificazione del rapporto di lavoro consistente in una sospensione dell’attività
lavorativa. Non suscettibile di esecuzione, con la conseguenza che
detto periodo non è computabile ai fini del congedo ordinario (C.d.S., sez. IV,
26 maggio 1999, n. 670). Pertanto, come il diritto al congedo ordinario non
matura quando il dipendente è collocato in aspettativa per infermità (parere n.
2217/03, Sezione I, adunanza del 9 luglio 2003), così neppure alcun compenso
sostitutivo di esso è ipotizzabile (C.d.S., IV, 27 aprile 2005, n. 1956).
Pertanto, salvo il caso di espressa disposizione di legge o di contratto
collettivo, non è da ritenere condivisibile la posizione di codesto ministero
circa la maturazione del congedo ordinario in costanza di malattia.
Venendo al punto del quesito e chiarito che la fattispecie riguarda ferie
maturate prima dell’aspettativa per malattia e non potute fruire dopo per
avvenuta cessazione del rapporto di lavoro, questa avvocatura concorda con
l’indirizzo del ministero richiedente nel ritenere che si possa corrispondere il
compenso sostitutivo per i giorni di congedo ordinario maturato fino al
momento del collocamento in aspettativa per malattia.
Ciò in quanto va applicato il principio sotteso all’art. 18 del d.P.R. 16
marzo 1999, n. 254 secondo il quale il diritto al compenso sostitutivo delle
ferie non fruite discende direttamente dal mancato godimento: pur che risulti
certo che questo non sia stato determinato dalla volontà dell’interessato
(T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 5 maggio 2003, n. 3844 - Pres. Tosti - Rel. De
Bernardi - Ministero dell’Interno c/ G.).
Conforme anche Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2005: si deve riconoscere
il diritto alla indennità sostitutiva delle ferie nel caso in cui la mancata
256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
fruizione delle ferie stesse da parte del dipendente della P.A. non sia in alcun
modo imputabile al medesimo, ma sia attribuibile ad una situazione oggettiva
di impedimento, quale quella determinata dalla malattia contratta a
causa di servizio che, nel caso in questione, ha portato alla cessazione del
rapporto per inidoneità permanente al servizio di istituto».
A.G.S. – Parere del 18 dicembre 2006, n. 145248.
Istanza di rimborso delle spese di patrocinio legale presentata da ex
ministro dei Lavori pubblici (consultivo 5392/06, avvocato M. Corsini).
«1. In relazione alla istanza indicata in oggetto, con la nota 1 febbraio
2006 a riferimento sono stati posti a questa Avvocatura generale i seguenti
quesiti:
I) se il rimborso ai sensi dell’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997 n. 67 conv.
nella legge 23 maggio 1997 n. 153 possa essere riconosciuto ad un ex Ministro,
persona non annoverabile tra i “dipendenti di amministrazioni statali”;
II) se, nel caso in esame, siano ravvisabili i presupposti oggettivi indicati
dal citato art. 18 (“giudizi.. .promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi
con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali
e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità”);
III)se sia necessario attendere l’esito del giudizio di responsabilità
amministrativa pendente a carico dell’ex Ministro dinanzi alla Sezione giurisdizionale
regionale per il Lazio della Corte dei Conti, e
IV)se le richieste di rimborso (non quantificate nella istanza anzidetta) e
le singole componenti di esse possono, qualora fosse riconosciuto diritto al
rimborso, essere considerate congrue.
Sul primo dei testé elencati quesiti si riferisce che la giurisprudenza è da
tempo orientata nel senso della estensione alle persone investite di mandato
amministrativo (ad esempio, negli enti locali) o di incarico nel Governo
nazionale l’applicabilità delle disposizioni di legge (statale o regionale) e di
contratto collettivo le quali riconoscono ai sottoordinati “dipendenti” il ristoro
delle spese per il patrocinio legale, ovviamente purché ricorrano tutti i
presupposti oggettivi richiesti da dette disposizioni (cfr. tra altre, Corte conti,
sez. reg. controllo Lazio, delibera n. 14/c del 2004, Corte conti, sez. riunite,
5 aprile 1991 n. 707, Cass., I, 13 dicembre 2000 n. 15724). Il fondamento di
tale estensione è, per quanto concerne gli “agenti” per lo Stato, ravvisabile
unicamente in una congiunta lettura del citato art. 18 e dell’art. 44 del T.U.
RD 30 ottobre 1933 n. 1611 (sull’Avvocatura dello Stato); ed invero v’è analogia
di finalità e di criteri applicativi tra le due disposizioni testé citate. Per
contro, ad avviso di questa Avvocatura generale, detto fondamento non è rinvenibile
in un generico principio secondo cui chi agisce per un interesse non
proprio, in quanto legittimamente investito del compito di realizzare interessi
estranei alla sua sfera individuale (di un altro soggetto, di un gruppo organizzato,
o di altro centro di imputazione giuridica) non dovrebbe sopportare
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 257
nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di tale attività (in argomento,
anche T.A.R. Sicilia 3 febbraio 2005 n. 128).
2. – Più complessa la risposta al secondo quesito. Tale risposta può essere
scissa in due parti, iniziando dal parametro espresso con le parole “giudizi..,
conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità”.
Nel caso in esame, accantonando episodi minori e remoti (e perciò ininfluenti),
si sono avuti due giudizi distinti, in sequenza cronologica. Il primo, iniziato
con il decreto 16 dicembre 1996 “che dispone il giudizio” emesso dal
Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma in accoglimento di
richieste (la prima datata 10 ottobre 1996) della Procura della Repubblica presso
detto Tribunale, si è concluso con la sentenza Appello Roma, II pen., 16 giugno
2003 n. 4759. Tale sentenza ha dichiarato la nullità assoluta del citato
decreto 16 dicembre 1996, e conseguentemente ha demolito in ogni sua parte la
sentenza Trib. Roma 21 giugno 2001 n. 12807; ciò sulla base della sentenza
(interpretativa di rigetto) Corte cost. 24 aprile 2002 n. 184, la quale, a sua volta,
ha tenuto conto della sopravvenuta legge cost. 23 novembre 1999 n. 2.
La menzionata sentenza 16 giugno 2003, dal contenuto esclusivamente
processuale, non ha escluso la responsabilità dell’ex Ministro imputato e
degli altri imputati.
Constatazione di per sé sufficiente ad escludere l’accoglibilità di qualsiasi
richiesta di rimborso delle spese di patrocinio legale sopportate per pervenire
alla menzionata declaratoria di nullità assoluta, declaratoria specificamente
domandata ed auspicata dall’appellante (il quale ha preferito evitare
una pronuncia “sul merito”).
Il secondo giudizio è iniziato con decreto 4 febbraio 2005 emesso dal
Giudice per le indagini preliminari e dell’udienza preliminare del Tribunale di
Roma in accoglimento di richiesta 22 aprile 2004 formulata dalla Procura della
Repubblica presso detto Tribunale nel procedimento n. 39685/03. Questa
richiesta non può essere considerata una duplicazione di quelle del 1996 (minori
sono il numero degli imputati ed il numero dei capi di imputazione). Il secondo
giudizio si è concluso con sentenza 9 giugno 2005 n. 2257, la quale reca il
dispositivo “dichiara non luogo a procedere... perché il fatto non sussiste”.
La motivazione di questa sentenza ha cura di precisare che la sostituzione
dell’art. 64 c.p.p. ad opera della legge 1 marzo 2001 n. 63 ha reso inutilizzabile
le dichiarazioni rese e raccolte secondo le regole poste dal previgente
art. 64 c.p.p., che la rinnovazione ammessa dall’art. 26 comma 2 della
citata legge n. 63 del 2001 non è stata possibile avendo tutti i soggetti
“comunicato la propria indisponibilità a rendere dichiarazioni anticipando di
avvalersi della facoltà di non rispondere”, e che – una volta sottratte le
dichiarazioni divenute inutilizzabili – “l’impianto accusatorio attuale è
sprovvisto delle fonti di prova necessarie per sostenere l’accusa”, in quanto
le residue prove “costituiscono unicamente elementi indizianti a contenuto
non in equivoco”, “il collegamento tra le dazioni di denaro ed i lavori non
può ritenersi provato in assenza di riscontri” e “la documentazione bancaria
da cui emerge il transito del danaro... rimane un indizio forte . . ma disancorato
da una condotta illecita accertata con pienezza”.
258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Dunque, la motivazione della citata sentenza 9 giugno 2005 non ravvisa
prove sufficienti della commissione dei fatti addebitati, e, però non reca indicazioni
di esplicita esclusione della responsabilità [dell’ex Ministro]. In tale
situazione, appare lecito dubitare che il contenuto di detta sentenza sia di per
sé sufficiente ad escludere, anche per il secondo giudizio, il rimborso delle
spese di patrocinio. Appare pertanto necessario passare ad esaminare pure se
sussiste o meno l’altro presupposto, e cioè la connessione “con l’espletamento
del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali” (peraltro, non
pare che, nella specie in esame, possa parlarsi di “espletamento del servizio”).
In proposito, la giurisprudenza (Cons. Stato, III, 25 novembre 2003,
parere n. 332, T.A.R. Liguria 22 agosto 2002 n. 882) ha affermato che la connessione
anzidetta “può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile
imputare gli effetti dell’agire del dipendente direttamente all’amministrazione
di appartenenza”.
Occorre, quindi, che il fatto o l’atto oggetto del giudizio sia stato compiuto
nell’esercizio delle attribuzioni affidate all’autore di esso e che vi sia
un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto,
nel senso che l’autore non avrebbe assolto ai suoi compiti se non
ponendo in essere quella determinata condotta. Per contro, non è ravvisabile
connessione ogniqualvolta la persona fisica abbia agito per il soddisfacimento
di interessi egoistici (quindi in “conflitto di interessi” con l’amministrazione),
e più in generale per fini estranei ai compiti affidatigli e/o alla
funzione pubblica esercitata ed a tali fini abbia alterato il normale ed imparziale
andamento di procedimenti amministrativi; ciò a prescindere dall’effettivo
conseguimento di “proventi” illeciti (ad esempio, la mancata prova del
ricevimento di “dazioni” non ripristina 1’ anzidetta connessione).
Così, per il caso la persona fisica sia stata prosciolta in sede penale per fatti
che, cionondimeno, costituiscono illecito non penale (disciplinare o amministrativo-
contabile od anche solo civile) talune pronunce della giurisprudenza
appaiono orientate ad escludere il rimborso delle spese di patrocinio. Con
riguardo a tale orientamento è necessario affrontare anche il tema della possibilità
o meno di far valere, in ambiti diversi dal processo penale, la inutilizzabilità
prevista dal comma 1 bis del novellato art. 64 c.p.p.. Questa Avvocatura
generale reputa che detta inutilizzabilità operi soltanto nel processo penale; e
ciò non soltanto per la “sedes” in cui il citato art. 64 è collocato e per l’assenza
di disposizioni derogatorie alla disciplina della prova civile, ma anche perché
il processo penale ha, in seguito alla riforma approvata con d.P.R. 22 settembre
1988 n. 447 ed al venir meno del principio detto di unità della giurisdizione,
abbandonato l’ambizione di ricostruire la “verità oggettiva”. Può quindi
accadere che dichiarazioni inutilizzabili nel processo penale siano valutabili
ex art. 116 c.p.c. in giudizi o procedimenti diversi dal processo anzidetto.
Persino superfluo aggiungere che l’ex Ministro, come ogni persona investita
di mandato amministrativo o di incarico di Governo, non è - a differenza
dei “dipendenti” - sottoposto a potestà disciplinare.
Quanto poc’anzi osservato, oltre a fornire una seconda ed essa pure
autosufficiente motivazione per l’esclusione del rimborso delle spese di
I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 259
patrocinio relative al giudizio penale conclusosi con la citata sentenza 16
giugno 2003, potrebbe – in esito ad una autonoma valutazione di tutto il
materiale probatorio utilizzabile nei giudizi diversi dal processo penale –
condurre ad escludere il rimborso “de quo” anche per il giudizio concluso
dalla sentenza penale 9 maggio 2005 n. 2257. Tuttavia, il non rilevante
importo (come si dirà tra breve) delle richieste avanzate per quest’ultimo
giudizio, può giustificare, sempreché non sopravvenga controversia sul
diniego di rimborso per il giudizio conclusosi nel 2003 (e quindi di fatto a
titolo transattivo), la non – apertura di una rinnovata disamina dei comportamenti
dell’ex Ministro ai soli fini della determinazione sul rimborso per il
giudizio svoltosi tra il 2004 e il 2005.
3.– In ordine al terzo quesito, sembra alla Scrivente che il presente procedimento
amministrativo ed il giudizio dinanzi alla Corte dei Conti siano
reciprocamente autonomi. Comunque, questa nota è inviata per conoscenza
alla Procura regionale per opportuno coordinamento, ed anche per aggiornate
informazioni circa lo stato attuale di quel giudizio (forse già deciso, almeno
in primo grado).
Per quanto scritto in ordine al secondo quesito, la risposta al quarto quesito
può essere breve. Del resto, il richiedente ha presentato al Ministero in
indirizzo (che li ha inoltrati) gruppi di fatture e notule ordinate solo per professionista;
tali gruppi includono attività svolte in relazione a molte vicende
diverse dalle due qui considerate e delle quali neppure si conosce l’oggetto
e l’esito, nonché imprecisate attività solo stragiudiziali e per ciò stesso non
pertinenti rispetto alla istanza di rimborso indicata in oggetto. Sicché, nel
complesso, la documentazione presentata sarebbe stata non idonea, perché
incompleta e confusa, a sorreggere detta istanza neppure nell’ipotesi all’accoglimento
di essa non ostassero le obiezioni, logicamente preliminari, esposte
nella risposta al secondo quesito. Comunque, questa Avvocatura generale
ha compiuto una dettagliata analisi delle singole fatture e notule, analisi
che potrebbe essere utilizzata qualora insorgesse controversia.
In coerenza con quanto nel par. 2 di questa nota, si esprime — allo stato
degli atti — parere di congruità soltanto per la voce di euro 9.240 (più spese
generali CAP e IVA) indicata dall’avv. Dario Buzzelli per la discussione
all’udienza del 9 giugno 2005 nel preavviso di fattura 4 ottobre 2005, e per
lo 80% dell’importo di euro 25.000 (più CAP e IVA) di cui alla fattura n. 53
del 15 giugno 2005, pagato all’avv. Paola Severino “a saldo” e quindi con
inclusione delle attività svolte dalla nominata avvocato nel 2004 e nel primo
semestre del 2005 (poi diversamente descritte nel preavviso di fattura 21 settembre
2005).
In conclusione, codesta amministrazione potrebbe, per il momento, con
un primo atto escludere “in toto” il rimborso delle spese di patrocinio relative
al giudizio conclusosi nel 2003, indicando a sostegno del diniego i due
motivi dianzi prospettati, e preannunciare successivo atto da dedicarsi alla
istanza di rimborso delle spese relative al giudizio conclusosi nel 2005».
260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La responsabilità del medico dipendente e l’uso
giurisprudenziale della teoria del contatto
sociale
di Maria Vittoria Lumetti(*)
SOMMARIO: 1.- L’attuale concezione della responsabilità del professionista medico. Il
rapporto tra medicina e diritto. 2.- La natura giuridica della professione medica tra contratto
e tort. 3.- Le fonti dell’obbligo di cura del sanitario. 4.- La revisione del concetto di
contratto e delle tecniche procedimentali che conducono alla sua formazione. 5.- La crisi
della summa divisio tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Il progressivo
abbandono della prospettiva extracontrattuale e i moduli nuovi di tutela giuridica. 6.-
L’interpretazione estensiva dell’art. 1173: la dissociazione tra la fonte e l’obbligazione che
ne scaturisce. 7.- La natura del rapporto trilatere che lega il paziente, la struttura ospedaliera
e il medico dipendente della struttura ospedaliera. 8.- Rapporto paziente-struttura
ospedaliera: il contratto di spedalità. 9.- Rapporto medico-struttura ospedaliera. 10.-
Rapporto paziente-medico e la responsabilità del medico dipendente. 11.- La tesi della
responsabilità aquiliana. 12.- Le tesi contrattuali. 13.- La problematica giuridica degli
effetti del contratto. La figura della promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo. Il contratto
a favore di terzi. 14.- La sentenza della Cassazione n. 589 del 1999 e la riscoperta
della responsabilità da contatto sociale. 15.- La genesi della responsabilità da contatto: il
contratto di fatto e la svalutazione del dogma della volontà. 16.- Le ipotesi simili e le guidelines
giurisprudenziali, l’amministratore di fatto, la responsabilità precontrattuale, il
danno da procreazione, la responsabilità da contatto amministrativo. 17.- Gli effetti dell’accoglimento
della tesi contrattuale. La responsabilità medica e il grado della colpa.
L’applicazione in via diretta e non più analogica dell’art. 2236 c.c. Tendenza alla trasformazione
da obbligazione di mezzi a obbligazioni di risultato. 18.- Il riparto dell’onere della
prova e la res ipsa loquitur. 19.- Il medico considerato come non un semplice quisque de
populo. 20.- Gli effetti dello shopping del diritto e l’esigenza che la forma giuridica sia il
più possibile aderente alla realtà materiale. 21.- Conclusioni.
D O T T R I N A
(*) Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale di Bologna.
1. L’attuale concezione della responsabilità del professionista medico. Il
rapporto tra medicina e diritto
La responsabilità medica è strutturata come un sistema composito che
non prende in considerazione il solo rapporto medico - paziente. Interessa i
rapporti che si creano quando un soggetto è destinatario di prestazioni mediche
di ogni tipo, diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche,
estetiche, poste in essere non solo dai medici, ma anche da personale
con tipi diversi di professionalità
Il settore coinvolge tematiche di diritto costituzionale, amministrativo, statuale,
regionale, civile, penale, di deontologia professionale. Proprio per questo
la responsabilità medica presenta caratteristiche sui generis e provoca il confronto
dinamico tra giuristi e medici, sollevando molti quesiti nel rapporto
medicina -diritto ed esperto-legislatore- giudice. È inevitabile che la medicina
influenzi il diritto e lo modifichi. L’indagine si traduce nell’analisi del rapporto
intercorrente tra alcuni aspetti di fondamentale rilievo per l’epistemologia
giudiziaria (1) e le corrispondenti problematiche, dibattute nell’ambito della più
generale riflessione scientifica contemporanea. L’epistemologia scientifica si
confronta con quella giudiziaria e si riverbera sul metodo del contraddittorio
nella formazione della prova, sul grado di certezza da raggiungere nel giudizio
sul fatto, sull’accertamento del nesso di causalità, che si avvale delle valutazioni
giuridiche e della evoluzione delle conoscenze scientifiche e, da ultimo, sul
risultato conoscitivo del processo (2). È necessario, dunque, procedere ad un
adeguato approfondimento dei presupposti culturali e delle opzioni metodologiche
occorrenti per il controllo, da parte del legislatore e del giudice, sul sape-
262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(1) Su questi punti fondamentali cfr. C. PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione
del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in La conoscenza del fatto nel processo penale,
a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, 195; C. PIZZI, Fatti, coerenza, informazione, in Diritto
pen. e processo, 1996, 245; M. TARUFFO, Elementi per un’analisi del giudizio di fatto, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1995, 785; A. GIULIANI, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico:
“nuova retorica” e teoria del processo, in Soc. dir., 1986, 2, 81; N. BOBBIO, Sul ragionamento
dei giuristi, in L’analisi del ragionamento giuridico, a cura di Comanducci-Guastini,
Torino; A. ARNIO, La Teoria dell’argomentazione e oltre, in L’analisi del
ragionamento…cit., 211; N. MAC CORMICK, La congruenza nella giustificazione giuridica,
in L’analisi del ragionamento…cit… 243; G.F. RICCI, Nuovi rilievi sul problema della specificità
della prova giuridica, in Riv. trim.dir. proc.civ., 2000, 1129; J. WROBLEWSKI, Il
ragionamento giuridico nell’interpretazione del diritto, in L’analisi…cit., 267; F.M.
CATALANO, Prova indiziaria, probabilistic evidence e modelli matematici di valutazione, in
Riv. Dir. proc., 1996, 514; V. DENTI, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice,
in Riv. dir. proc., 1972, 414; L.G. LOMBARDO, Appunti sulle origini e sulle prospettive del
libero convincimento, in Dir. e giurisprudenza, 1992, 17.
(2) De MATTEIS, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale,
in Danno e resp., 1999, 7, 781; P. PAURI, Contributo al corso residenziale
indetto dal consorzio per la altra formazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in diritto
amministrativo sul tema: La riforma del sistema sanitario regionale (la l.r. Marche 20 giugno
2003 n. 13) - Osimo 14-15 maggio 2004, in Diritto&Diritti, n. 9/2004; cfr. in generale
C.M. MAZZONI, Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998.
re specialistico riversato nel processo, anche attraverso la consulenza tecnica.
Da qui emerge il problema di come il diritto possa disciplinare una situazione
che può talora presentare margini di incertezza sulla riscontrabilità degli effetti.
La medicina oggi a buon diritto può essere ritenuta una scienza anche se, per
molti aspetti, ancora empirica, ma comunque sufficientemente esatta, soprattutto
per quelle specialità ove la ricerca è stata incrementata anche attraverso l’applicazione
di sofisticati strumenti tecnologici. Si è infatti persa quella “immaginifica
concezione della medicina come un’attività dai margini e dalle certezze
approssimative e dalle speranze sovente miracolistiche…” (3). Il contenzioso in
materia di responsabilità civile per l’esercizio di attività sanitarie costituisce una
tradizionale zona di contatto (e sovrapposizione) dei due volti dell’illecito civile:
quello contrattuale ed extracontrattuale. Da almeno due decenni vive un’irrefrenabile
escalation: la tendenza a non riversare sul paziente il rischio di
danni, comunque riconducibili a trattamenti sanitari e/o all’assunzione di farmaci,
all’uso di attrezzature diagnostiche o terapeutiche, oppure le disfunzioni
organizzative del servizio, può cogliersi analizzando il modo in cui la giurisprudenza
ha progressivamente elaborato le regole estrapolate dall’interpretazione
estensiva delle norme che costituiscono il fondamento del diritto civile.
2. La natura giuridica della professione medica tra contratto e tort.
È ormai acquisito nella coscienza giuridica il superamento della tradizionale
identificazione del requisito dell’ingiustizia del danno con la violazione
di un diritto soggettivo assoluto.
Si ritengono infatti meritevoli di tutela aquilana anche interessi connessi
all’attività contrattuale.
Basti pensare alla responsabilità extracontrattuale da contratto che si ravvisa
in tutte le ipotesi in cui un soggetto cagiona ad altri un pregiudizio economico
attraverso la stipulazione di un contratto incompatibile con un preesistente
accordo negoziale (4). Si delinea dunque un fenomeno osmotico tra vincolo
DOTTRINA 263
(3) “Si pensi per esempio all’ecografia che ha consentito addirittura di conoscere il sesso,
le fattezze e quindi la situazione del feto mentre prima tale indagine era affidata solo alle analisi
di laboratorio, o in ortopedia alle conquiste della biomeccanica e alle protesi sempre più perfette”,
R. BERTI, La responsabilità medica secondo il diritto vivente in http://web.tiscalinet.it/
ceredoc/html/*, o alla fecondazione artificiale, L. NAVARRA, Fecondazione artificiale: un caso
recente e un’opinione dissenziente (ma solo sul metodo), in Foro It., 1999, I, 1653. Cfr. anche
F. NERESINI, Bioetica e medicina tra scienza, diritto e società, in Sociologia del diritto, 1995, 95.
(4) S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004, 4 ss.; M.
FRANZONI, La tutela aquiliana del contratto, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno,
I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, II, Torino, 1999, 1599-1631; F. GALGANO, Le
mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, 651 ss.; D. POLETTI, Dalla
lesione del credito alla responsabilità extracontrattuale da contratto, in Contratto e impresa,
1987, 124 ss.; D. POLETTI, La responsabilità extracontrattuale da contatto, in Danno
resp., 1999, 899 ss; G. FERRANDO, La lesione del diritto di credito da parte di terzi, in Nuova
giur. Civ .comm., 1985, II, 340. G. PONZANELLI, Il tort of interference nei rapporti contrattuali:
le esperienze nordamericane e italiana a confronto, in Quadrimestre, 1989, 99 ss.
obbligatorio e la regola del neminem laedere, tipica dell’ordinamento di common
law, sistema basato sul principio di tipicità dell’illecito civile. Numerosi
sono i casi di torts remedies for breach of contracts che confermano nell’ordinamento
nordamericano la labilità della tradizionale distinzione tra contract e
tort (5). Anzi, parte della dottrina anglosassone ritiene che si possa giungere
all’unificazione dei regimi di responsabilità (6). Tuttavia, contrariamente a
quanto avviene negli ordinamenti dell’area di common law, ove persiste la tendenza
a radicare la detta responsabilità nell’ambito della responsabilità aquiliana
(torts), nei paesi di area romanistica tale responsabilità si inquadra, ora, in
quella contrattuale (Cass. civ. III, 22 gennaio 1999, 589). È da evidenziare che
la caratteristica strutturale della American Tort Law prevede, oltre al risarcimento
di tutti i danni per lucro cessante, anche quello per danni (punitive o exemplerary
damages) concessi non tanto per finalità riparatorie, quanto per porre in
essere un’azione di deterrenza di punizione volta a prevenire o evitare la commissione
nel futuro di nuovi atti illeciti. Altro elemento di diversità consiste nel
carattere science-based della regolazione della scienza negli Stati Uniti, ossia
maggiormente informato a fatti e conoscenze scientifiche oggettive. Negli Stati
Uniti i giudici hanno temperato il rigore scientifico assunto come base di partenza,
rivendicando il proprio spazio di autonomia, a fronte della pretesa di
oggettività della scienza. In Europa prevale un modo policy-related di interpretare
il sapere scientifico: la scienza deve dare rilievo agli spazi di incertezza,
riconoscendo i propri limiti – e non occultarli o trascurarli. Tali spazi sono colmati
dalle diverse valutazioni adottate dal diritto. Dal punto di vista filosofico –
sociologico la problematica è costituita dall’oggetto della giustizia distributiva
e riguarda “la distribuzione delle risorse, delle opportunità, i profitti e i vantaggi,
i ruoli e gli incarichi, le responsabilità e in generale il capitale comune e gli
accessori delle attività della comunità… . L’oggetto della giustizia commutativa
considera invece “ tutti gli altri problemi, che riguardano quello che è necessario
per il benessere individuale nella comunità, che sorgono in relazioni e
scambi fra gli individui e/o gruppi, dove il capitale comune e quanto è richiesto
per le attività comuni non sono direttamente chiamati in causa” (7). Ma non
264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(5) S.CHUTORIAN, Torts remedies for breach of contract: the expansion of tortious
breach of implied convenent og good faith and fair dealing into the commercial realm, in
Col. L.Rev., 1986, 377 ss.
(6) G. GILMORE, Theth of contract, Columbus (OHIO), 1974; S. CHUTORIAN, Tort remedies...
op. cit., 377 ss.; W. PROSSER, The border land of tort and contract, Ann Arbor, 1953.
(7) U. IZZO, Per una semantica della precauzione, in www.ambientediritto.it; U. PAGANO,
Economia e diritto, in www.econ-pol.unisi.it. J. Finnis osserva come molte delle regole della
common law of torts venissero viste prima del 1950 come degli strumenti atti a realizzare la
giustizia commutativa e, in particolare, la giustizia correttiva nel senso di Aristotele. Una delle
due parti era tenuta a compensare l’altra per il danno subito e a correggere così la violazione
della giustizia commutativa. La domanda fondamentale che sembrava porsi questo tipo di
approccio era: “Come qualcuno danneggiato dal torto di un altro potrebbe essere riportato alla
condizione in cui si trovava precedentemente?”. Questa domanda, che è quella fondamentale
della giustizia commutativa è stata spesso sostituita dalla seguente domanda: “Come vanno
suddivisi i rischi della vita in comune?” che è una domanda tipica della giustizia distributiva.
sempre la distinzione fra giustizia commutativa e distributiva è chiara (8). È
importante osservare che nei paesi di common law il diritto è di formazione giudiziaria
(judge made law), spontanea, consensualistica, casistica (per il singolo
caso concreto), equitativa e consuetudinaria. Tutto ruota in gran parte sui simili
precedenti, nell’analogia da fatto a fatto, sulla ratio decidendi equamente
adattata: il diritto viene realizzato con regole ricavabili dal criterio adottato per
risolvere il singolo caso concreto secondo equità. L’elemento legislativo è solo
uno degli elementi che compongono il combinato empirico, non vincolante e
neppure il più importante. Sono i giudici e le professioni liberali (avvocati) che
in common law creano il diritto (9). Il diritto nei paesi di civil law è invece realizzato
dal legislatore con norme generali e astratte. Nel nostro ordinamento si
va sempre più configurando, nei confronti del medico, dipendente ospedaliero,
un tipo di responsabilità contrattuale nascente da un’obbligazione senza prestazione
ai confini tra contratto e torto (10).
La Cassazione ha più volte affermato che l’attore deve dimostrare solo
l’esistenza di quel timore e che esso ha causato oggettivamente la perdita di
valore del bene, ma non la ragionevolezza del comportamento del pubblico
(11). Sul medico, infatti, gravano gli obblighi di cura impostigli dall’arte che
professa e il vincolo con il paziente sussiste, nonostante non dia adito ad un
obbligo di prestazione: la violazione si configura come culpa in non faciendo,
e dà origine a responsabilità contrattuale. Si tratta di rapporti sorti per
obbligo sociale di prestazione, anche perché il medico può svolgere la propria
attività in diversi contesti. La teoria tradizionale sostiene che l’obbligazione
inerente alla sua prestazione professionale, costituisce un’obbligazione
di mezzi o di diligenza, e non di risultato o di scopo.
Fino agli inizi degli anni settanta, l’orientamento della giurisprudenza e di
larga parte della dottrina era univoco: affinché questa colpa potesse essere rilevante
ai fini civile e penale, doveva possedere i requisiti della gravità, in quanto
costituiva una palese violazione della diligenza comune ed elementare. La
distinzione tra colpa per imperizia e colpa per imprudenza e negligenza era
pertanto netta (12). Come vedremo, la tendenza attuale è quella di inquadrare
la responsabilità contrattuale del medico nell’ambito di una obbligazione senza
prestazione ai confini tra contratto e torto: è dunque possibile dissociare la
DOTTRINA 265
(8) J. FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Clarendon Press, Oxford, 1980, 166 ss.
(9) Com’è noto il sistema di common law è il frutto di una lenta, radicale profondissima
e remotissima evoluzione che fa tesoro di tutte le precedenti esperienze storiche, conservando
quanto di positivo esse hanno apportato fino all’attualità F. GALGANO, Tipicità ed atipicità
dell’illecito in common law, in Atlante di diritto comparato, Bologna, 1992, 145 ss.;
M. TARUFFO, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, 826.
(10) Cfr. Cass. civ. III, 22 gennaio 1999, n. 589.
(11) C. CASTRONUOVO, L’obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e
torto, in La nuova responsabilità civile, Milano, 1997, 198; S. JASANOFF, La scienza davanti
ai giudici. La regolazione giuridica della scienza in America, Milano, 2001,76.
(12) In merito ad un excursus circa l’evoluzione giurisprudenziale cfr. P. PAURI,
Contributo al corso…cit.
fonte dell’obbligazione che ne scaturisce, in modo che quest’ultima possa
essere sottoposta alle regole proprie dell’obbligazione contrattuale, pur se il
fatto generatore non è il contratto. Si tratta di una applicazione del criterio della
proximity, o della prossimità del terzo, criterio già utilizzato dalla giurisprudenza
anglosassone al fine di estendere l’ambito di operatività della responsabilità
contrattuale anche alla posizione di soggetti estranei alla pattuizione contrattuale
in tutti i casi in cui alla luce delle circostanze concrete, tale posizione
sia caratterizzata da un particolare grado di “prossimità” o vicinanza rispetto
agli interessi presi in considerazione nel contratto (13). L’ultima tesi elaborata
da dottrina e giurisprudenza è quella di ipotizzare la responsabilità contrattuale
del medico dipendente ospedaliero come nascente da un’obbligazione senza
prestazione ai confini tra contratto e torto, in quanto sul medico gravano gli
obblighi di cura impostigli dall’arte che professa e il vincolo con il paziente
esiste, nonostante non dia adito ad una obbligazione di prestazione. La violazione
di tale obbligo si configura come culpa in non faciendo, e dà origine a
responsabilità contrattuale (14). In realtà, come vedremo, è l’esperienza tedesca
che risulta essere più vicina a noi non solo per il dato in comune dello stesso
sistema di civil law (da non sottovalutare) ma perché, pur contemplando un
diverso regime di responsabilità civile, ha fornito lo spunto per introdurre
anche in Italia la teoria del contatto sociale.
3. Le fonti dell’obbligo di cura del sanitario
Le fonti dell’obbligo di cura possono derivare da un contratto, da una fonte
legale o provvedimentale, da un atto unilaterale ai sensi dell’art. 1173 c.c.
L’obbligazione di una determinata prestazione da parte del medico può avere
origine non contrattuale, come nel caso di una situazione di urgenza ove la prestazione
dell’attività prescinde da una preesistente obbligazione nei confronti
del beneficiario (15). Talora l’incarico è conferito dalla Pubblica amministrazione
e non dal soggetto interessato, in vista del perseguimento del pubblico
interesse. Altre volte il rapporto obbligatorio è in favore di un terzo beneficiario,
come nel caso dei familiari che affidino la cura del proprio congiunto, incapace
di intendere e volere, ad un medico di loro fiducia. La responsabilità contrattuale
di chi esercita l’attività medico-chirurgica trova la sua fonte nel rapporto
contrattuale di opera professionale di cui all’art. 2229 e segg. Cod. civ.
In altri casi può derivare da una gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., da un
arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.(16), o anche da ordinanze contin-
266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(13) F. CARINGELLA, Studi di Diritto Civile, Milano, 2003, 974.
(14) F.CARINGELLA, Studi…op. cit., 971.
(15) Cfr. in generale sulla problematica NARDI, C. CIPOLLA, D’ABRUZZO, La responsabilità
del medico in medicina d’urgenza e Pronto Soccorso, Torino, 1996.
(16) L’azione di indebito arricchimento è esperibile dal medico nei confronti della P.A.
solo qualora sia intervenuto il riconoscimento dell’utilità pubblica dell’opera. La mancanza
del riconoscimento è desumibile anche dall’esistenza di un divieto, da parte dell’ente, di
effettuare l’opera o la prestazione.
gibili e urgenti (17). Il contratto può essere d’opera professionale ai sensi dell’art.
2229 c.c., o di lavoro subordinato, alle dipendenze di una struttura sanitaria
pubblica o privata (in cui il rapporto di lavoro è di natura privatistica,
anche se il datore di lavoro è un ente pubblico). In quest’ultimo caso il
paziente stipula un contratto con una casa di cura e viene affidato ad un
medico dipendente dalla stessa struttura sanitaria: si crea quella che è stata
definita una “dicotomia tra la parte formale del contratto di cura e il soggetto
che effettivamente esegue la prestazione pattuita, ciò che ha dato luogo a
numerosi dibattiti intorno alla natura della responsabilità dei soggetti coinvolti
e, segnatamente, del medico dipendente” (18). La genesi di un contratto
può dipendere dalla volontà, dal comportamento negoziale e, in determinati
casi, da un fatto. In ogni caso il contenuto dell’obbligazione contrattuale
o non, che insorge in capo al medico al momento in cui si accinge ad intervenire
professionalmente nell’interesse del paziente, è costituito, oltre che da
un’attività “diligente”rivolta verso un risultato utile per la sua integrità psicofisica
sulla base delle regole dell’arte sanitaria, anche da una serie di doveri
complementari all’obbligazione principale, rivolti alla correttezza, alla
segretezza ed al rispetto della persona umana sotto ogni profilo, avuto riguardo
alle particolari condizioni personali in cui si trova il destinatario dell’attività
professionale, ben evidenziate dal codice deontologico. La violazione
delle suddette obbligazioni accessorie dà luogo a responsabilità extracontrattuale
(19).
4. La revisione del concetto di contratto e delle tecniche procedimentali che
conducono alla sua formazione
Se il danneggiato agisce in giudizio nei confronti del datore lavoro del
medico il giudizio di responsabilità è di tipo contrattuale. Se agisce invece
direttamente nei confronti del medico l’azione era, sino a tempi recenti, di
tipo extracontrattuale, in quanto il medico è terzo rispetto al rapporto paziente-
istituzione.
Al fine di evitare diversificazioni ritenute ingiustificate rispetto alle ipotesi
in cui il rapporto professionale sia direttamente instaurato tra paziente e
medico con il contratto d’opera professionale, a fronte di prestazioni sostanzialmente
identiche, la giurisprudenza ha sussunto nell’ambito della responsabilità
contrattuale anche quella precedentemente ascritta alla responsabilità
di tipo extracontrattuale, in base all’elaborazione della categoria del contatto
sociale. Il medico dipendente avrebbe, secondo tali ultime tesi giurisprudenziali,
la medesima responsabilità professionale incombente sulla
struttura sanitaria, stante la comune radice delle obbligazioni che i due soggetti
assumono verso i terzi (obbligazioni ex contractu).
DOTTRINA 267
(17) F.CARINGELLA, Studi…op. cit.,1027.
(18) F. CARINGELLA, Studi…op. cit…, 1027.
(19) M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile…, cit., 823 e 987.
La Cassazione, con la sentenza 22 gennaio 1999, n. 589 (20), lascia emergere
il concetto di contatto sociale al fine di giustificare il sorgere di una obbligazione
contrattuale a carico del medico, che può essere sottoposta alle regole
proprie del contratto, pur se il fatto generatore non è il contratto. Il tentativo di
ricostruzione unitaria prende le mosse dalla negazione del valore della dichiarazione
di volontà avanzata dai primi autori tedeschi, con esaltazione del comportamento
delle parti valutato nella sua tipica concludenza, quale esplicazione
dell’autonomia privata approvata e protetta dall’ordine giuridico ed integrante
un comportamento negoziale. La pôle de reference è l’abbandono del
concetto di contratto sostenuto da un accordo necessariamente dichiarato, ben
potendo derivare il vincolo da un consapevole contatto tra le sfere di interessi
di due consociati, unito alla statuizione di un regolamento di interessi (21).
Non conta l’intenzione o la consapevolezza, ma il comportamento considerato
come negoziale in forza di una valutazione socialmente tipica (22).
5. La crisi della summa divisio tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Il progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale e i
moduli nuovi di tutela giuridica
Parte della dottrina tende ad inquadrare la materia della responsabilità
medica in termini di vero e proprio sottosistema della responsabilità civile pretoria,
dove i due diversi profili, contrattuale ed aquiliano, sfumano. Vengono
creati moduli nuovi di tutela giuridica che offrono nuovi criteri valutativi.
Il contenzioso in materia di responsabilità civile per l’esercizio di attività
sanitarie sta diventando sempre più zona di contatto e sovrapposizione dei
due volti dell’illecito civile: quello contrattuale ed extracontrattuale, soprattutto
negli ultimi due decenni. Si registra sempre più la tendenza a non riversare
sul paziente il rischio di danni riconducibili a trattamenti sanitari e
all’assunzione di farmaci, all’uso di attrezzature diagnostiche o terapeutiche,
o a disfunzioni organizzative del servizio. La suddetta tendenza si coglie nei
principi che via via la giurisprudenza è andata elaborando. La teoria del contatto
sociale da ultimo elaborata risente dei labili confini tra responsabilità
contrattuale e aquiliana. La crisi della summa divisio aveva già dato origine
alla elaborazione della categoria del contratto di fatto. Istituti al confine tra
contratto e fatto illecito sono la responsabilità precontrattuale, la responsabilità
per false informazioni, la responsabilità da contatto amministrativo, oltre
che quella del medico dipendente di una casa di cura.
268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(20) Cass. 22 gennaio 1999, n. 589 in Corr. Giur., 1999, 441. In senso analogo si veda
Cass. 2 dicembre 1998, n. 12233, in Giust. Civ. Mass. 1998, 2521, e Cass. 27 luglio 1998 n.
7336 in Resp. Civ. e prev., 1999, 996; Cass. 12 febbraio 2044 n. 10297 in Diritto e Giust.
del 17 luglio 2004, 38.
(21) Cfr. E. BETTI, Sui cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Jus, 1957, 353; F.
CARINGELLA, Studi…, op. cit., 1588.
(22) G. STELLA RICHTER, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato,
in Riv. Dir. proc., 1977, 197; F. CARINGELLA, Studi…, op. cit., 1590.
6. L’interpretazione estensiva dell’art. 1173: la dissociazione tra la fonte e
l’obbligazione che ne scaturisce
Come vedremo la responsabilità dei medici dipendenti dalla struttura
ospedaliera inizialmente era inserita nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.
La svolta è avvenuta con la sentenza della Cassazione n. 589 del
1999 che ha giustificato la responsabilità del medico dipendente sulla base
della teoria del contatto sociale. L’applicazione della disciplina in tema di
responsabilità contrattuale anche ai rapporti che sono sorti attraverso il solo
obbligo sociale di prestazione scaturisce dall’estensione dell’ambito delle
fonti di obbligazione (artt. 1173) (23). L’art. 1173 c.c., che stabilisce che le
obbligazioni derivano da contratto, fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo
a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico, consente di inserire tra
le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale, come il diritto alla salute,
che trascendono singole proposizioni legislative (24). L’art. 1173 c.c.
viene interpretato estensivamente e da esso si enuclea un tertium genus di
fonte dell’obbligazione. Il medico è tenuto ad adempiere obblighi di cura che
derivano dalla sua appartenenza ad una professione protetta su cui il paziente
ha fatto affidamento entrando in contatto con il medico, pur in assenza del
formale negozio giuridico.
7. La natura del rapporto trilatere che lega il paziente, la struttura ospedaliera
e il medico dipendente della struttura ospedaliera
Tra paziente, struttura ospedaliera e medico dipendente si crea un rapporto
trilatere che vede il paziente legato alla struttura ospedaliera da un contratto
atipico di spedalità, il medico da un contratto di lavoro subordinato con
la struttura ospedaliera e il paziente legato da un rapporto con il medico
dipendente la cui natura è controversa. La novità dei recenti interventi giurisprudenziali
consiste proprio nel fatto che si spezza il legame tra colpa del
sanitario e responsabilità dell’ente. Il rapporto trilatere risulta così ampliato,
in quanto in capo all’ente si configurano sempre di più aspetti di marketing
e gestionali della struttura sanitaria. Il deficit organizzativo diventa fonte
autonoma di responsabilità delle strutture e si delineano sempre più i doveri
di organizzazione. Imprescindibile è, dunque, approfondire la natura del rapporto
che lega struttura ospedaliera, medico dipendente e paziente. Se il
danno è cagionato ad un paziente da un’errata diagnosi, con conseguente non
corretto trattamento terapeutico da parte di un medico dipendente di un ente
ospedaliero pubblico, ci si chiede a che titolo risponde il sanitario dipendente
di una struttura ospedaliera. Il paziente, infatti, è sottoposto alle sue cure.
DOTTRINA 269
(23) Cfr. G. CIAN, La figura generale dell’obbligazione nell’evoluzione giuridica contemporanea
fra unitarietà e pluralità degli statuti, in Riv. dir. Civ., 2003, 8. Cfr. anche M.
GIORGIANNI, Appunti sulle fonti delle obbligazioni, in Riv. dir. civ., 1965, I, 72 ss.
(24) Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589; Cass. 22 novembre 1993, n. 11503,
in Rep. Foro it. 1993, voce Contratto in genere (contratto, atto e negozio, in genere), n. 207.
La particolarità risiede nella dicotomia tra la parte formale del contratto di
cura e il soggetto che effettivamente esegue la prestazione pattuita. Ciò ha
dato luogo a numerosi dibattiti sulla natura della responsabilità del medico
dipendente. Le problematiche sorgono in riferimento al rapporto tra paziente
e medico ed è in riferimento a questa ultima ipotesi che è stata elaborata
la teoria del “contatto sociale”.
8. Rapporto paziente-struttura ospedaliera: il contratto di spedalità
È ormai consolidata l’opinione che riconosce la natura contrattuale del
rapporto intercorrente tra il paziente e la struttura dipendente dall’ente sanitario
nazionale. Tale riconoscimento si basa sulla considerazione che il servizio
è reso dalla struttura nell’interesse ed a vantaggio dei privati che, fattane
richiesta, ne usufruiscono. Il contratto tra ente e paziente è un contratto atipico
ed è definito di “spedalità”. Alle prestazioni sanitarie si accompagnano
quelle di altra natura, piuttosto assimilabili a quella derivanti dal contratto di
albergo (vitto alloggio riscaldamento) ed altre ancora, come quelle organizzative,
di sicurezza delle attrezzature e quelle specificamente assistenziali dei
pazienti. Il contratto si perfeziona già prima dell’inizio del trattamento o degli
accertamenti con l’accordo tra le parti o con l’inizio della attività propriamente
diagnostico con l’accettazione nella struttura sanitaria (25). L’ente non si
trova rispetto ai privati in una posizione di potere ma di parità, in quanto a
seguito della richiesta di ricovero o, più in generale, della prestazione medica,
si costituisce un rapporto giuridico, strutturato su di un diritto soggettivo del
privato e sul dovere della prestazione dell’ente.
Va peraltro detto che negli ultimi anni parte della giurisprudenza ha mutato
le sue posizioni originali per quanto concerne l’individuazione dello specifico
rapporto contrattuale che sorge fra ospedale e paziente. L’orientamento
tradizionale ritiene che l’attività svolta dall’ente che eroga il servizio sanitario
sia simile all’attività svolta dal medico nell’esecuzione dell’obbligazione privatistica
della prestazione. Al rapporto fra ente e paziente si applicherebbero
quindi in via analogica le norme che disciplinano il contratto di prestazione
d’opera intellettuale di cui agli artt. 2229 e segg. cod. civ. In questo ambito, il
presupposto essenziale per l’affermazione della responsabilità contrattuale dell’ente
diviene l’accertamento di un comportamento non diligente del sanitario
il cui operato è riferibile all’ente o attraverso il richiamo all’art. 28 della
Costituzione – che enuncia il principio della c.d. immedesimazione organica -
o attraverso il richiamo all’art. 1228 cod. civ. che disciplina la responsabilità
del debitore per il fatto dei propri ausiliari. Ulteriore corollario di tale ricostruzione
sistematica è l’applicabilità dell’art. 2236 cod. civ. in tema di prestazione
particolarmente complessa. L’orientamento che potremmo definire emergente
muove invece dalla constatazione che i servizi erogati dalla struttura
ospedaliera sono molto più ampi e complessi rispetto a quelli resi dal singolo
270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(25) M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, 2006, 1071.
medico, tenuto anche conto della forma “organizzata” attraverso cui sono
gestiti. Per questo motivo è stata prospettata una diversa qualificazione del rapporto
struttura-paziente che troverebbe la sua fonte in un contratto “innominato”,
vale a dire un contratto non espressamente previsto dalla legge, che è stato
definito come “contratto di spedalità” (26). Alla base di questo nuovo indirizzo
giurisprudenziale vi è la considerazione che ciò che caratterizza il servizio
reso dall’ospedale rispetto a quello reso dal medico tradizionale è la natura
“organizzata, multi settoriale e complessa” per cui è lecito attendersi che la
gestione delle risorse umane e delle attrezzature di cui dispone la struttura sia
ispirata a parametri di efficienza organizzativa che riducano al minimo, o
almeno a livello accettabile, il rischio cui è sottoposto il paziente durante il
ricovero. Con la conseguenza che ove tale efficienza organizzativa manchi, la
struttura dovrebbe essere ritenuta responsabile indipendentemente da una
colpa del singolo medico. La novità della ricostruzione consiste proprio nello
spezzare il legame tra colpa del sanitario e responsabilità dell’ente per riconoscere
una responsabilità autonoma della struttura per violazione di doveri suoi
propri, tra i quali spicca il dovere di organizzazione. La configurazione della
deficienza organizzativa come fonte autonoma di responsabilità della struttura,
chiamata a rispondere dei danni occorsi al paziente a causa dell’inadempimento
del contratto di cura o di spedalità intercorso con lo stesso, costituisce
un ulteriore sviluppo della dinamica giurisprudenziale volta ad aumentare le
possibilità di ristoro del danneggiato in caso di medical malpractice. Il nuovo
approccio della giurisprudenza produce riflessi importanti anche sulla posizione
del medico. Difatti, il difetto organizzativo fa gravare sul sanitario nuovi e
diversi compiti, rappresentati dall’obbligo di informare il paziente anche in
merito alle eventuali carenze strutturali e dalla necessità di una maggiore diligenza
richiesta dalla difficile situazione ambientale in cui si svolge la prestazione
medica. Secondo la giurisprudenza precedente il paziente che si presentava
in una struttura sanitaria per sottoporsi ad una visita o ad un ricovero, concludeva
con la stessa struttura un contratto per prestazione d’opera (27). La
natura contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera si ritiene ora
essere riconducibile ad un contratto atipico di spedalità, in quanto ben più articolato
rispetto allo schema del contratto per prestazione d’opera (28).
L’esigenza di superare la tradizionale qualificazione in termini di contratto di
prestazione d’opera intellettuale nasce dalla convinzione che fra la responsabi-
DOTTRINA 271
(26) S. MEANI, La responsabilità civile del medico…op. cit.
(27) Cass., 13 marzo 1998, n. 2750, in Arch. civ., 1998, 6, 659; Trib. Napoli, 15 febbraio
1995, in Gius, 1996, 87; Cass., 22 novembre 1993, n. 11503, in Rass. dir. civ., 1995,
908, con nota di VENNERI; cfr. in dottrina G. P. MONATERI, La responsabilità civile, in
Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, IV, Torino, 1998, 769.
(28) Pret. Tomezzo 21 aprile 1997, in Riv. it. medicina legale, 1999, 1730; Cass. civ.
sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503, in Riv. It. Medicina Legale, 1995, 1275; Cass. 1 marzo
1988, n. 6144, in Foro it., 1988, I, 2296, con nota di A. M. PRINCIGALLI; Nuova giur. civ.,
1991, I, 357, nota di R. Pucella.
lità del medico e quella del paziente non vi sia una perfetta coincidenza, dato
che la prestazione strictu senso medica è solo una parte della più complessa
obbligazione assunta dall’ente. Tale obbligazione comprende, accanto alla prestazione
principale di cura, anche una serie illimitata di cure, e di prestazioni
che la struttura fornisce al malato: l’alloggio, la ristorazione, la sicurezza degli
impianti e dei locali in cui si svolgono le operazioni sanitarie, l’organizzazione
dei turni del personale medico, paramedico ed infermieristico, la messa a
punto di programmi per il buon funzionamento delle attrezzature paramedicali,
ecc. Alla base di questo nuovo indirizzo giurisprudenziale vi è la considerazione
che ciò che caratterizza il servizio reso dall’ospedale rispetto a quello
reso dal medico tradizionale è la natura organizzata, multisettoriale e complessa.
È lecito, dunque, attendersi che la gestione delle risorse umane e delle
attrezzature di cui dispone la struttura sia improntata a parametri di efficienza
organizzativa che riducono al minimo o a livello accettabile, il rischio cui è
sottoposto il paziente durante il ricovero. Ne consegue che qualora tale efficienza
manchi, la struttura dovrebbe essere ritenuta responsabile indipendentemente
da una colpa del singolo medico. La novità della ricostruzione consiste
proprio nello spezzare il legame tra colpa del sanitario e responsabilità dell’ente
per riconoscere una responsabilità autonoma della struttura per violazione
dei doveri suoi propri, tra i quali spicca il dovere di organizzazione (29).
9. Rapporto medico - struttura ospedaliera
Tra il medico che esercita la sua professione all’interno dell’ospedale e
l’ente ospedaliero intercorre un rapporto di lavoro subordinato, così come è
un rapporto di lavoro subordinato il rapporto tra la struttura sanitaria e il
paziente, mentre tra paziente e medico vi è un contratto d’opera professionale.
L’esecuzione dell’obbligazione che l’ospedale contrae con il malato è in
concreto demandata ad un lavoratore dipendente, anche se non vi è identità
tra la prestazione complessiva che in virtù del contratto concluso il paziente
ha il diritto di pretendere dall’ospedale, e la frazione di quella prestazione
che il medico fornisce al paziente stesso (30). La responsabilità dell’ente
pubblico è diretta in forza del rapporto di immedesimazione organica, che
272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(29) S. MEANI, La responsabilità civile del medico…op. cit. “La crescente importanza
rivestita dagli aspetti organizzativi e gestionali, dell’adeguatezza strutturale del luogo di cura
e del controllo della qualità del servizio erogato è confermata anche a livello legislativo. Si
veda, fra gli altri, il d.P.R. 14 gennaio 1997 che in un apposito atto allegato stabilisce i requisiti
minimi di tipo strutturale, organizzativo e tecnologico necessari per l’esercizio delle attività
sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private. Lo stesso procedimento di accreditamento
istituzionale introdotto con il D.Lgs. n. 229 del 1999 presuppone l’identificazione da
parte delle Regioni di requisiti minimi (ulteriori rispetti a quali previsti a livello nazionale per
ottenere l’autorizzazione all’esercizio di attività sanitaria) e dei rispettivi indicatori”.
(30) F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale
da “contatto sociale”, in Giur. it., 2000, 740, il quale ipotizza la figura allegorica
del triangolo dove in tutti i tre i lati ricorre una ipotesi di legame contrattuale.
attribuisce all’ente l’operato del medico e la responsabilità di quest’ultimo.
La radice si rinviene nell’esecuzione colposa della prestazione professionale,
ossia nello stesso fatto. Quale corollario ulteriore ne deriva che è la stessa
normativa che, disciplinando la prestazione professionale medica regola
anche la responsabilità dell’ente pubblico.
10. Rapporto paziente- medico e la responsabilità del medico dipendente
Il rapporto medico - paziente ha subito notevoli evoluzioni nel tempo. I
rapporti economici e sociali sono in rapida evoluzione, anche con riguardo
al trattamento che si vuole garantire al soggetto destinatario delle attività
sanitarie, nel quadro dell’effettiva realizzazione del precetto costituzionale
contenuto nell’art. 32 cost. È cambiata la libera professione medica, sono
cambiate le esigenze del paziente che ha sempre più consapevolezza dei propri
diritti, l’intervento pubblicistico ha presentato talora delle disfunzioni
(31). Se lo schema formale rimane fermo nel tempo, la valutazione dei comportamenti
ha assunto nuove prospettive. Le problematiche che il settore
coinvolge riguardano principalmente la natura della responsabilità del medico,
l’oggetto della prestazione, la ripartizione dell’onere della prova (onus
probandi), la colpa e la diligenza, il nesso causale tra condotta ed evento.
Fino a qualche anno fa l’individuazione della natura della responsabilità per
i danni arrecati in seguito a negligente svolgimento dell’attività diagnostica
e terapeutica, veniva risolta in base alla circostanza che il contatto fra il
medico fosse o meno mediato da una struttura pubblica (illecito aquiliano) o
privata (illecito ex contractu). L’aspetto di novità negli ultimi anni è costituito
proprio dalla nuova ricostruzione della natura della responsabilità del
medico dipendente da ente pubblico (32). L’ultimo orientamento della giurisprudenza,
a partire dalla sentenza della Cass. n. 589 del 1999, ha affermato
che, pur non potendosi ravvisare un contratto la responsabilità del medico
dipendente da una struttura pubblica nei confronti del paziente, in realtà si
configura un “contatto sociale”, che si instaura in seguito all’affidamento del
paziente alle cure del medico. Da detto affidamento consegue che i regimi di
ripartizione dell’onere della prova, del grado di colpa e della prescrizione
sono quelli previsti dal contratto di opera intellettuale professionale. Circa il
rapporto tra paziente e medico sono state elaborate tre tesi principali: la
prima, quella più risalente nel tempo, ritiene che il sanitario dipendente
risponda a titolo di responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c. (33),
la tesi intermedia attribuisce una valenza contrattuale al rapporto con riferimento
ai c.d. contratti protettivi o a favore di terzi, mentre l’ultima aderisce
DOTTRINA 273
(31) P . PAURI, La responsabilità civile…op. cit.
(32) S. MAZZAMUTO, note in tema di responsabilità civile del medico, in Europa dir.
priv., 2000, 504.
(33) Cass., 20 novembre 1998, n. 11743, in Resp. Foro it., 1998, voce “Professioni
intellettuali”, n. 165, Cass., 24 marzo 1979, n. 1716, in Giur. it., 1981, I, 1, 297.
alla tesi del contratto di fatto o responsabilità da contatto. La giurisprudenza
è partita, dunque, da una qualificazione che si inseriva nell’ambito della
responsabilità extracontrattuale, per arrivare a ritenere applicabili i principi
dettati in tema di responsabilità contrattuale. La svolta è avvenuta con la nota
sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 1998 che ha giustificato la
responsabilità contrattuale del medico dipendente sulla base della teoria del
c.d “contatto sociale”. Analizzeremo le suddette tesi e le conseguenze che
derivano dall’adozione delle une o delle altre.
11. La tesi della responsabilità aquiliana
L’orientamento dottrinale risalente nel tempo ipotizzava la responsabilità
aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c. in capo al sanitario dipendente (34). Il
fondamento giuridico del regime della responsabilità extracontrattuale è
stato individuato nella assenza di un vincolo contrattuale con il paziente, in
quanto il medico è legato solo all’ente ospedaliero da un rapporto di lavoro
subordinato. La Cassazione è pervenuta a costruire una particolare ipotesi di
cumulo definito improprio (35): il cumulo ricorre quando da un medesimo
comportamento derivano sia un inadempimento contrattuale, sia un danno
ingiusto in quanto lesivo di un diritto oggetto di tutela, indipendentemente
dal rapporto negoziale (36). Sotto il profilo processuale questa figura si risolve
in una situazione di concorso di azioni esercitabili, tanto in via elettiva
quanto cumulativa, qualora sia possibile assommare nello stesso processo i
vantaggi dell’azione contrattuale e quelli dell’azione aquiliana (37).
L’accettazione del paziente nell’ospedale, ai fini del ricovero oppure di una
visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d’opera professionale
tra il paziente e l’ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico,
nei confronti del malato, l’obbligazione di compiere l’attività diagnostica e
la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica
del paziente preso in cura (38). Conseguentemente, la responsabilità
274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(34) Cass., 20 novembre 1998, n. 11743, in Resp. Foro it., 1998, voce “Professioni
intellettuali”, n. 165, Cass., 24 marzo 1979, n. 1716, in Giur. it., 1981, I, 1, 297.
(35) Cass. 13 marzo 1998, n. 2750; Cass. 26 marzo 1990, n. 2428, in Giur. it., 1990, I,
600 con nota di Carusi; Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, in Resp. civ. e prev., 1984, 78, con
nota di C. Somarè.
(36) G. PONZANELLI, Il concorso di responsabilità: le esperienze italiana e francese a
confronto, in Resp. civ. prev., 1984, 36; cfr. anche sull’argomento in generale G. P.
MONATERI, Cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (Analisi comparata
di un problema). Padova, 1989, 41.
(37) Cfr. anche la sentenza della Cassazione n. 500 del 27 luglio 1999, in Guida al dir.,
1999, 31, 36; G.P. MONATERI, voce cumulo di azioni, in Digesto civ., V, Torino, 1989, 41; R.
SACCO, Concorso delle azioni contrattuale ed extracontrattuale, in Risarcimento del danno
contrattuale ed extracontrattuale, Milano, 1983.
(38) In tal senso: Cass. 13 luglio 1945, n. 539, in Giur. it. 1946, I, 1, 332; Cass. 27
gennaio 1948, n. 111, in Giur. compl. Cass. civ. 1948, I, 112; Cass. 15 giugno 1954, n.
2016, in Rass. dir. san. 1955, 3, con nota di BORELLI, in Giur. it. 1955, I, 1, 276, con nota
del predetto sanitario verso il paziente per danno cagionato da un suo errore
diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale. Costantemente, si è
affermato che la extracontrattualità dell’illecito del medico dipendente non
osta all’applicazione analogica dell’art. 2236, in quanto la ratio di questa
norma consiste nella necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista
nella risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente
dalla qualificazione dell’illecito. Le Sezioni Unite della
DOTTRINA 275
contraria di Peretti - Griva e in Giur. compl. Cass. civ. 1955, II, 56, con nota contraria di
Di Salvo, App. Napoli 27 luglio 1956, in Rass. dir. san. 1956, 134; App. Roma 11 febbraio
1959, in Arch. ric. giur. 1960, 488, con nota di Capocaccia; Cass. 27 febbraio 1962,
n. 363, in Giust. civ. 1962, I, 1061; Cass. 25 luglio 1964, n. 2057, in Mass. giur. it. 1964,
678; App. Milano 16 ottobre 1964, in Foro it. 1965, I, 1083; Cass. 24 luglio 1965, n.
1744, in Giur. it. 1965, I, 1, 1304; Cass., Sez. Un., 25 luglio 1966, n. 2039, in Mass. giur.
it. 1966, 903; App. Firenze 20 settembre 1966, in Rep. Foro it. 1967, voce Professioni
intellettuali, n. 78; Cass. 6 marzo 1967, in Rep. Foro it. 1967, voce Reato colposo, nn.
111-112; Cass. 25 luglio 1967, n. 1950, in Giust. civ. 1967, I, 1772; Cass., Sez. Un., 20
dicembre 1967, 2980, in Foro amm. 1968, I, 1, 233; Corte Cost. 14 marzo 1968, n. 2, in
Giur. it. 1968, I, 1, 912, con nota di Duni, La Corte costituzionale di fronte all’art. 28 ed
al problema della responsabilità civile degli enti pubblici; Cass. 21 febbraio 1969, n.
584, in Rep. Foro it. 1969, voce Responsabilità civile, n. 313; Cass. 6 marzo 1969, n. 733,
in Mass. giur. it. 1969, 299 (solo massima); Cass. 12 maggio 1969, n. 1619, in Foro it.
1969, I, 3184; Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, id., 1970, I, 2135, con nota di richiami; Cass.
5 marzo 1970, n. 533, in Rep. Foro it. 1970, voce Responsabilità civile, n. 55; Cass. 20
luglio 1970, n. 1187, in Foro it. 1970, I, 2080, con nota di richiami; Cass. 6 maggio 1971,
n. 1282, in Giust. civ. 1971, I, 1417; in Foro it. 1971, I, 1476; in Giur. it. 1971, I, 1, 1396;
Cass. 13 ottobre 1972, n. 3044 e 15 dicembre 1972, n. 3616, in Foro it. 1973, I, 1170 e
1474, con note di richiami; Cass. 16 giugno 1975, n. 2439, in Foro it. 1976, I, 745, in
Giur. it. 1976, I, 1, 953; Cass. 29 marzo 1976, n. 1132, in Rep. Foro it. 1977, voce
Professioni intellettuali, n. 62; Cass. 5 ottobre 1976, n. 3273, in Foro it. 1977, I, 450, con
nota di richiami; Cass. 18 aprile 1978, n. 1845, in Rep. Foro it. 1978, voce cit., n. 359;
Trib. Verona 25 settembre 1978, id., 1979, voce Responsabilità civile, n. 106 e in Giur.
merito 1979, 390, con nota di U. Ferrante; Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it.
1978, I, 4; Cass. 24 marzo 1979, n. 1716, in Giust. civ. 1979, I, 1440; Cass. 26 marzo
1990, n. 2428 in Rep. Foro it. 1990, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista),
n.113; Cass. 18 novembre 1997, n. 11440, id., 1997, voce Danni civili (liquidazione
e valutazione), n. 269, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista),
n. 118; Cass. 13 marzo 1998, n. 2750, in Foro it., 1998, I, 1521, in Arch. civ.
1998, 659. In dottrina: ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione,
Milano, 1955, 274 e segg.; A.M. SANDULLI, Manuale di dir. amministrativo, Napoli,
1969, 671 e 672; TOINI, Fatto illecito civile come presupposto della responsabilità civile
della p.a. e del pubblico funzionario o dipendente in relazione all’art. 28 cost., in Amm.
it. 1969, 411; C. CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano,1958, 12 e
segg.; ALTAVILLA, La colpa, Torino, 1957, II, 19; G. A. NORELLI, Sul divenire della
responsabilità in ambito sanitario, note medico-legali, in Riv. it. medicina legale 1985,
789; P. D’ OVIDIO, Prospettabilità di una responsabilità dell’amministrazione pubblica
per un mero disservizio: applicazione in campo sanitario, in Arch. civ. 1985, 1203; R.
IANNOTTA, Problemi dell’organizzazione giuridica del servizio di pronto soccorso e della
responsabilità patrimoniale per danni conseguenti all’erogazione di tale servizio, in
Rass. amm. sanità, 1984, 215.
Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 6 maggio 1971 n. 1282
(39), hanno ritenuto che la responsabilità dell’Ente Ospedaliero e del medico
dipendente per i danni subiti da una paziente “può essere affermata solo
se risulti che l’autore del fatto lesivo abbia agito con dolo o colpa grave”
(40). Il problema, più di prassi che di merito, si accentrava sul diverso decorso
delle prescrizioni e sul diverso regime dell’onere probatorio, e soprattutto
sulla possibilità del concorso dei due diversi tipi di responsabilità. La sentenza
sopra richiamata afferma che “un più attento esame convince che l’art.
2236 Cod. Civ., può e deve trovare applicazione oltre che nel campo contrattuale
anche in quello extracontrattuale, in quanto che esso prevede un limite
di responsabilità per la prestazione dell’attività dei professionisti in generale,
cioè sia che essa si svolga nell’ambito di un contratto e costituisca perciò
adempimento di un’obbligazione contrattuale, sia che venga riguardata al di
fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio e perciò solo come possibile
fonte di responsabilità extracontrattuale”.
12. Le tesi contrattuali
Numerose decisioni di merito o di legittimità si sono succedute nell’arco
degli ultimi venti anni, tra conferme e revirement (41): la problematica è,
tuttavia, sostanzialmente rimasta invariata.
Il principale ostacolo delle tesi contrattuali è costituito dall’effetto preminente
del contratto che, quale atto di autonomia privata, consiste nell’aver
esso “forza di legge tra le parti” (art 1372 comma 1 c.c.). L’autonomia contrattuale
implica la possibilità, per i contraenti, di regolare i propri rapporti:
né sacrifici né vantaggi possono essere imposti a terzi. Ai sensi dell’art 1372
comma 2 c.c. il contratto vincola infatti esclusivamente le parti stipulanti,
276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(39) Cass. Sez. un. 6 maggio 1971 n. 1282 in Foro It. 1972, I° 1476.
(40) R. BERTI, La responsabilità medica secondo il diritto vivente, in *http://web.tiscalinet.
it/ceredoc/html/*: “Al di là del caso di specie, che riguardava tra l’altro anche un problema
di giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quello amministrativo in relazione al
T.U. 10 gennaio 1957 n. 3 sul Pubblico Impiego, quello che le Sezioni Unite hanno disaminato
e risolto era in pratica il problema del concorso tra le diverse ipotesi di responsabilità
da fatto illecito, per la colpa commessa dal medico-agente, e contrattuale per l’ente dal quale
il medico dipendeva, problema che in pratica si è dibattuto e si dibatte ancora oggi perché,
prescindendo dagli aspetti pratici che non sempre risultano modificati per l’un tipo o l’altro
di responsabilità, era ed è difficile chiamare contrattuale il rapporto che si instaura tra il
medico ospedaliero, non espressamente eletto dal paziente, e il paziente stesso, risultando
più naturale ed evidente che costui debba rispondere solo a titolo aquiliano mentre naturale
è, superati i problemi di ordine pubblicistico che il servizio nazionale di sanità ha indotto,
definire contrattuale il rapporto tra paziente e struttura ospedaliera e quindi inquadrabile la
discendente responsabilità nell’ambito dell’art. 2236 Cod. Civ.”.
(41) Cass. Civ. sez. Lav. 7 agosto 1982, n. 4437; Cass. Civ. Sez. Lav. 23 giugno 1994
n. 6064; Cass. Civ. Sez. III 11 aprile 1995, n. 4152; Cass. Civ. Sez. III 12 agosto 1995 n.
8845; Cass. Civ. Sez. III 18 novembre 1997, n. 11440; Cass. Civ. Sez. III 1 marzo 1998, n.
2144; Cass. Civ. Sez. III 8 marzo 1999, n. 1441.
non producendo alcun effetto rispetto ai terzi estranei al sinallagma contrattuale.
Tale assunto viene definito principio di relatività del contratto, laddove
per relatività del contratto si intende la limitazione degli effetti contrattuali
rispetto alle sole parti. Detto postulato, che si esprime nel brocardo res
inter alios acta tertio neque nocet neque prodest, non è da intendersi in senso
rigoristico come preclusivo, al di là dei casi espressamente tipizzati dal legislatore,
di qualsivoglia effetto giuridico nei confronti dei soggetti estranei al
rapporto negoziale, e necessita di essere approfondito nel suo significato. Il
principio di relatività degli effetti del contratto costituisce, dunque, l’aspetto
negativo dell’autonomia contrattuale: essendo il contratto lo strumento attraverso
il quale i soggetti autoregolamentano la propria sfera di interessi, con
il principio di relatività si esprime la regola dell’intangibilità della sfera giuridica
individuale, che non può essere modificata da atti negoziali altrui.
13. La problematica giuridica degli effetti del contratto. La figura della promessa
dell’obbligazione o del fatto del terzo. Il contratto a favore di terzi
Alcune tesi dottrinarie e giurisprudenziali hanno ricondotto il rapporto
tra medico, paziente e casa di cura nello schema del contratto a favore di
terzi. Tale ricostruzione è possibile valorizzando il rapporto che intercorre tra
casa di cura e medico dipendente (42). È vero che il principio secondo il
quale il contratto non produce effetto rispetto ai terzi risponde all’idea del
contratto come espressione di autonomia privata, ma sono presenti, già nel
codice civile, delle importanti eccezioni. Al legislatore è apparso eccessivo
escludere qualsiasi effetto diretto del contratto nei confronti dei terzi in
ragione della libertà individuale. La soluzione normativa introdotta dall’art.
1372 comma 2 c.c. va quindi interpretata nel senso che un terzo non può
vedersi imporre alcun effetto sfavorevole, ma può invece essere destinatario
degli effetti favorevoli dell’altrui atto negoziale, salvo rifiuto. Parte della
dottrina ha sostenuto che il principio di relatività del contratto vada ricompreso
in un più ampio assunto fondato non solo sull’art. 1372 c.c., ma anche
sul 1411 c.c. (contratto a favore di terzo) e sull’ammissibilità delle promesse
gratuite, secondo cui i terzi possono essere destinatari degli effetti favorevoli
dell’altrui atto negoziale, salva la facoltà del rifiuto. Il principio di relatività
così temperato tutela l’autonomia privata del terzo in quanto può divenire
destinatario solamente di effetti giuridici favorevoli. Per quanto attiene
agli effetti del contratto vanno distinti gli effetti diretti dagli effetti riflessi. La
DOTTRINA 277
(42) F.CARINGELLA, op. cit…, 1032. Cfr. in generale sul contratto a favore di terzi F.
MESSINEO, Contratto nei rapporti col terzo, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 196 ss; M.GIRINO,
Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, Milano, 1965; U. MAJELLO, Contratto a favore
di terzi, in Digesto, sez. civ., IV, Torino, 1989, 240; M. FRANZONI, Il contratto e i terzi, in
I contratti in generale, II,a cura di E. GABRIELLI, Torino, 1999, 1073 ss.; M. SESTA, Interesse,
causa e motivi nella stipulazione a favore di terzo, in Studi in memoria di G. Gorla, III,
Milano, 1994.
regola della relatività del contratto riguarda l’efficacia diretta del contratto
quale atto giuridico, tale regola non riguarda l’efficacia riflessa. Si parla di
efficacia riflessa del contratto riguardo a quegli effetti che il contratto produce
per i terzi quale semplice fatto giuridico (43). Ulteriori eccezioni sono
previste dalle disposizioni in tema di simulazione dall’art. 1415 c.c. La
norma dispone che la simulazione non può essere opposta ai terzi che in
buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti
della trascrizione della domanda di simulazione. La ratio della norma è quella
di tutelare l’affidamento del terzo su una situazione apparente. Un’altra
eccezione è data dall’art. 1153 c.c. che dispone che colui al quale sono alienati
beni mobili da parte di chi non è proprietario, ne acquista la proprietà
mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e
sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà. In tal modo il terzo
viene privato di un suo diritto dal nuovo acquirente. In realtà, a seconda dell’ampiezza
che si vuole attribuire al principio di relatività, il contratto a favore
di terzi può o meno costituire un’eccezione alla regola della relatività.
Infatti, secondo una prima impostazione dottrinale, il contratto di cui all’art.
1411 c.c. è una eccezione normativamente prevista al principio di relatività
degli effetti contrattuali (44). L’accoglimento di tale ricostruzione porta alla
conclusione che il contratto a favore di terzi non costituisce una deroga al
principio di relatività bensì è espressione di un altro principio, ricavabile dal
1333 c.c., compatibile con la regola della relatività. Una lettura in positivo
del principio di relatività comporta che il contratto non può imporre obblighi
278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(43) Dal contratto possono poi derivare effetti riflessi sia a vantaggio che a svantaggio
di terzi: per es., da un contratto di locazione derivano effetti vantaggiosi non solo per il conduttore
ma anche per i suoi conviventi. Un esempio di effetti di fatto derivanti al terzo da un
contratto è rappresentato dal contratto con prestazioni da eseguirsi al terzo. In questo caso,
non solo il terzo beneficia degli effetti che il contratto produce ma è l’interesse del creditore
ad esigere che il terzo benefici di tali effetti, nel senso che l’interesse creditorio in tanto è soddisfatto
in quanto il terzo effettivamente venga a beneficiare della posizione contrattuale. La
relatività degli effetti non impedisce poi che il terzo venga leso in vere e proprie posizioni
giuridiche: ad es., la vendita che si conclude tra Tizio e Caio toglie al creditore Sempronio
parte della garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio del debitore alienante. Dal
contratto non può derivare, quale effetto, la sottrazione di un diritto altrui (terzo rispetto al
contratto). In questo senso appare chiaro l’art. 1478 c.c. sulla vendita di cosa altrui, che non
produce effetto traslativo. Il contratto non può impedire al terzo di acquistare un diritto; considerato
che, ai sensi dell’art 1379 c.c. il divieto di alienazione stabilito per contratto ha effetto
solo tra gli stipulanti.
(44) Secondo un’altra parte della dottrina, la ratio del contratto a favore di terzi si ricaverebbe
dall’art. 1333 c.c. che disciplina la figura del contratto con prestazioni a carico del
solo proponente. La norma introduce una deroga al normale procedimento di formazione del
contratto poiché il negozio si può concludere senza una vera e propria accettazione da parte
dell’oblato: è sufficiente che quest’ultimo non rifiuti entro un determinato termine. Ciò
significa che è possibile, in generale, attribuire dei diritti al soggetto anche senza l’accettazione
espressa dello stesso beneficiario. Questa regola sarebbe alla base anche dell’art. 1421
c.c., che permette di attribuire ai terzi dei diritti senza il loro consenso.
in capo ai terzi (45). In realtà il contratto a favore di terzo difficilmente può
ricondursi al rapporto trilatere tra paziente medico e struttura, in quanto il
paziente non è solo un terzo titolato a richiedere l’esecuzione della prestazione,
ma è egli stesso parte del contratto concluso con la casa di cura. Ne consegue
che il soggetto danneggiato non fa valere il contratto esistente tra l’ente e
il sanitario, ma il diverso contratto da lui concluso con l’ente ospedaliero avente
ad oggetto la prestazione sanitaria, oppure propone un’azione di responsabilità
extracontrattuale per lesione al diritto alla salute. Inoltre al momento
della stipula del contratto tra casa di cura e medico il paziente non è ancora
determinato e quindi non può acquistare nell’immediato alcunché (46).
14. La sentenza della Cassazione n. 589 del 1999 e la riscoperta della
responsabilità da contatto sociale
La giurisprudenza, da ultimo, ha qualificato come contrattuale la responsabilità
del medico che opera all’interno di una struttura ospedaliera, ribaltando
i precedenti orientamenti giurisprudenziali che ravvedevano in capo al
DOTTRINA 279
(45) Un’applicazione di questo assunto è data dall’istituto della promessa dell’obbligazione
o del fatto del terzo disciplinato dall’art. 1381 c.c.: se Tizio promette a Caio la prestazione
del terzo, quest’ultimo non è obbligato. Di conseguenza se un contraente ha promesso
l’obbligazione o il fatto di un terzo, l’altro contraente non può avanzare alcuna pretesa
nei confronti del terzo, il quale rimane completamente libero di rifiutare di obbligarsi o di
non compiere il fatto previsto. Qualora il terzo rifiuti di eseguire la prestazione, il promittente
è obbligato ad indennizzare. Ciò significa, che, a seguito della promessa, non si produce
in capo al terzo alcuna obbligazione; si può promettere ad altri l’obbligazione o il fatto
del terzo ma non si può costringere il terzo ad eseguire la prestazione promessa. La parte
che per contratto promette la prestazione di un terzo infatti assume, nei confronti dell’altro
contraente, un’obbligazione contrattuale avente ad oggetto una prestazione propria.
Conseguenza di tale è assunto è che, nel caso in cui il promittente non si attivi per l’adempimento
del terzo, lo stesso promittente sarà tenuto al risarcimento del danno nei confronti
del promissorio. Va infine osservato che la giurisprudenza ha ritenuto che la promessa del
fatto del terzo comporta per il promittente l’assunzione di una duplice obbligazione: una primaria
di facere, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso,
ed una successiva di dare, cioè di corrispondere un indennizzo nel caso in cui, nonostante
si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi. In conclusione, si può affermare che l’istituto
della promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo è un’applicazione del principio
generale della relatività degli effetti del contratto, secondo cui il contratto non può avere
effetti sfavorevoli per i terzi, non può incidere direttamente nella loro sfera giuridica creando
a loro carico obblighi.
(46) F. CARINGELLA…op. cit., 1033. Per la tesi che ritiene che la responsabilità dell’ente
gestore del servizio sia diretta, in quanto l’attività del medico dipendente è ad esso direttamente
riferibile in virtù del principio dell’immedesimazione organica ai sensi dell’art. 28
Cost cfr. Cass. 1 marzo 1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296; Cass. 11 aprile 1995, n.
4152, in Riv. It. medicina legale, 1997, 1073. Per la critica cfr. F. CARINGELLA…op. cit.,
1033, il quale afferma che l’art. 28 Cost. si limita a statuire che è diretta la responsabilità dei
funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione di
diritti, ma sul piano della natura, contrattuale o extracontrattuale, di tale responsabilità, non
sono fornite indicazioni. Il principio della immedesimazione organica in realtà obbedisce a
principi contrari alla responsabilità oggettiva o di riflesso.
medico solo una responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri
inerenti alla professione, ex art. 2236 c.c., concorrente con quella contrattuale
dell’ente (47). Il leading case è costituito dalla sentenza della Cassazione
n. 589 del 1999. In tale pronuncia la Cassazione aderisce alla tesi contrattualistica
riscoprendo la tesi della responsabilità da contatto sociale: la responsabilità
del medico ospedaliero è inquadrata nell’ambito della responsabilità
da contatto (e quindi contrattuale). La Corte richiama il tradizionale insegnamento
per cui sarebbe possibile parlare di responsabilità extracontrattuale
solo quando tra autore dell’illecito e soggetto danneggiato, non sussiste
alcun rapporto obbligatorio sorto prima del fatto lesivo. Ciò non accadrebbe
nel caso del medico, in quanto obbligato nei confronti del paziente a svolgere
diligentemente la sua prestazione. La ricostruzione della Cassazione riscopre
uno schema nel quale vengono convogliati gli obblighi generati dalla
realtà materiale, non riconducibili ad alcuna categoria contrattuale e tantomeno
all’obbligo generico del neminem laedere, posto a difesa della sfera
giuridica altrui. La nozione tedesca (cfr. oltre) di obbligazione senza obbligo
primario di prestazione viene recepita dalla giurisprudenza per essere utilizzata
nell’ambito dei rapporti contrattuali di fatto, sia pure con l’avvertenza
di intendere tali non semplicemente le situazioni diverse dal contratto, bensì
le fattispecie che concretamente realizzino le vicende di un determinato rapporto
contrattuale. Ora, al di là del contratto formale che sempre si instaura
tra professionista e cliente con il conferimento dell’incarico o con la elezione
del rapporto fiduciario, quello che rileva per la Suprema Corte è l’attività
che di fatto, e quindi sostanzialmente, viene prestata in favore del malato
che, con particolare riguardo alla professione medica, costituisce “la fonte
prima” del vincolo contrattuale. In tal modo si sono unificate le due diverse
responsabilità che prima venivano addebitate ai due diversi soggetti, pubblico
e privato, colmando anche quelle diversità di trattamento processuale che
comportavano una diversa concezione del problema giuridico di individuazione
della responsabilità. In passato si era propensi ad agire contro l’Ente
Ospedaliero e contro il medico a titolo di responsabilità extracontrattuale in
virtù del rapporto di rappresentanza che lega il medico all’ospedale e quindi
in forza di quei principi di responsabilità che poi il Codice Civile del 1942
ha enunciato negli artt. 2049 e 1228 (48). Ci troviamo dunque davanti a due
280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(47) Cass. 22 gennaio 1999, n. 589. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente
come responsabilità contrattuale da “contatto sociale” (nota a Cass. civ., sez. III, 22
gennaio 1999, n. 598), in Giur. it., 2000, 740; M. FORZIATI, La responsabilità contrattuale
del medico dipendente: il contatto sociale conquista la Cassazione, in Resp. civ. e prev.,
1999, 661; F. DE MATTEIS, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione
giurisprudenziale, in Danno e resp., 1999, 7, 781; per le critiche a questa impostazione
cfr. A. DI MAJO, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corr. giur.,
1999, 4, 477. Cfr. anche L. BIGLIAZZI GERI, Moltiplicazione cancro, Venezia, 1996.
(48) F. INTRONA, La Responsabilità Professionale nell’esercizio delle arti sanitarie,
Padova, 1955, 340.
soggetti debitori, medico e ospedale, che hanno quale fonte comune il vincolo
di subordinazione dell’uno rispetto all’altro (49). Se si analizza la genesi
del rapporto tra paziente e medico dipendente, esiste un momento in cui le
parti stabiliscono se entrare in relazione e, da quel momento, assumono un
impegno reciproco e pongono una regola di comportamento: obbligazione e
prestazione entrano a pieno titolo in un rapporto fondato sulla volontà delle
parti. La matrice negoziale del rapporto, peraltro, è indebolita solo con
riguardo alla possibilità di scelta delle parti contrattuali: da una parte, il
medico, in quanto dipendente della struttura, è tenuto a prestare la sua attività
nei confronti del soggetto che abbia concluso un accordo con l’ente; dall’altra
parte il paziente, che non è libero di scegliere il professionista a cui
rivolgersi essendo in ciò vincolato dall’indicazione fornita dalla struttura. È
a questo punto che, secondo il più recente orientamento della Corte di cassazione,
il contratto sociale surroga la consensualità tipica dell’accordo negoziale,
giustificando la nascita di vincoli contrattuali in tutto equivalenti a
quelli generati da un contratto di prestazione d’opera.
Quella in esame, alla luce dei nuovi orientamenti giurisprudenziali, può
essere definita come una fattispecie contrattuale a struttura complessa, dominata
dalla presenza di un collegamento negoziale tra tre rapporti ex contractu:
quello tra ente e medico, quello tra ente e paziente e quello tra paziente e
medico. Ne consegue che, mentre le prestazioni pecuniarie - prezzo, compenso,
spese - sono regolate dai primi due rapporti e la predisposizione di
un’adeguata struttura organizzativa compete principalmente all’ente, la prestazione
professionale è oggetto, a diverso titolo, di entrambi i rapporti
facenti capo al paziente: quello instaurato con l’ente, in quanto l’ente assicura
la disponibilità di personale qualificato a cui rivolgersi, riservandosi di
condizionare la scelta del medico da parte del paziente; quello instaurato col
medico, nel momento in cui il paziente decide di avvalersi di quella disponibilità,
in quanto è in questo preciso ambito, in cui il rapporto di cura si sviluppa,
che la prestazione viene definita ed eseguita concretamente.
L’esistenza di un rapporto contrattuale tra medico e paziente, il cui contenuto
obbligatorio si individua nel contratto di prestazione d’opera professionale,
configura in capo al primo una responsabilità da inadempimento nei confronti
del secondo che, dunque, concorre con quella dell’ente, emergente ad
altro titolo. La distinzione dei due rapporti spiega la diversità dei criteri
d’imputazione della responsabilità dell’ente e di quella del medico: il regime
della responsabilità oggettiva dell’ente, quello della responsabilità per colpa,
con i criteri di cui all’art. 2236 c.c., per il secondo. Per i medici che hanno
eseguito l’intervento, pertanto, valgono i normali termini prescrizionali
decennali, poiché essi rispondono, in via solidale con l’ente ospedaliero a cui
appartengono, a titolo contrattuale, del proprio operato. La responsabilità di
tipo extracontrattuale, per quanto in astratto sia configurabile come concor-
DOTTRINA 281
(49) Cass. Sez. Un. 12 maggio 1938; Cass. Civ. 20 gennaio 1933.
rente con quella contrattuale, invece, non può entrare nel campo quando la
relativa azione, non esercitata nel termine di cinque anni, sia prescritta. In
questo caso la violazione dei doveri inerenti alla bona ars medica, quand’anche
abbia provocato lesioni illecite al paziente, non potrà comportare obblighi
risarcitori che vadano oltre il danno patrimoniale direttamente ed immediatamente
imputabile alla condotta negligente accertata. La responsabilità
medica, dunque, non potrà estendersi a coprire il c.d. danno morale, che trae
origine dall’accertamento di un fatto illecito di rilevanza penale, di natura
extra contrattuale (50). La teoria della responsabilità da contatto (51) è stata
invocata dai giudici di legittimità per estendere l’ambito delle fonti di obbligazione
(art. 1173 cod. civ.) (cfr. pr.15) ed applicare la disciplina in tema di
responsabilità contrattuale anche ai rapporti che sorgono attraverso il solo
obbligo sociale di prestazione. Si afferma, infatti, che il medico è tenuto ad
adempiere obblighi di cura che derivano dalla sua appartenenza ad una professione
c.d. protetta e su cui il paziente ha fatto “affidamento” entrando in
“contatto” con il medico, pur in assenza del “formale” negozio giuridico. In
altri termini, il medico è chiamato a rispondere a titolo contrattuale dei danni
cagionati nell’esercizio della propria attività professionale per il solo fatto di
essere venuto in contatto con il paziente, anche in assenza di un obbligo di
prestazione a favore del paziente posto a suo carico.
Richiamando i principi della responsabilità contrattuale si è potuta applicare
in via diretta e non più analogica la disciplina dettata dall’art. 2236 cod.
civ., relativa alla limitazione di responsabilità per il medico ai soli casi di dolo
o colpa grave, allorquando la prestazione si presentava particolarmente complessa
(52). L’utilizzo delle regole dettate in tema di responsabilità contrattuale
ha inoltre alleggerito l’onere della prova a carico del paziente attore, dato
che ora egli è tenuto a dimostrare solo l’inadempimento e/o inesattezza dell’adempimento
del medico, mentre spetterà a quest’ultimo provare che l’inadempimento
è stato incolpevole o derivante da impossibilità sopravvenuta a lui non
imputabile (art. 1218 cod. civ.). Del resto, anche nel caso in cui il professionista
invochi il più stretto grado di colpa di cui all’art. 2236 cod. civ., sarà sempre
suo onere dimostrare che la prestazione implicava la soluzione di problemi
tecnici di particolare difficoltà e che, nella fattispecie, non vi era stato dolo
o colpa grave. Per quanto concerne la distribuzione dell’onere della prova, può
essere anzitutto opportuno richiamare il più recente orientamento della
282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(50) Cass. civ. sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589 ; Trib. Milano, 19 febbraio 2001.
(51) In senso critico si vedano: DI CIOMMO, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali
in tema di responsabilità del medico ospedaliero, in Foro it, 1999, I, 3335.
(52) Così VITI, Responsabilità medica: tra perdita di chances di sopravvivenza e nesso
di causalità, in Corr. Giur., 2004, 102. Vedi anche A. LANOTTE, L’obbligazione del medico
dipendente è un’obbligazione senza prestazione o una prestazione senza obbligazione?, in
Foro it., 1999, I, 3338. Sui rapporti contrattuali di fatto, si vedano, fra gli altri: V.
FRANCESCHELLI, Rapporti contrattuali di fatto, in Contratti, 1994, 646; C. ANGELICI,
Rapporti contrattuali di fatto, voce dell’ Enc. Giuridica Treccani, Roma, 1991, XXV.
Cassazione secondo cui, a fronte dell’inesatto adempimento di una prestazione
medica, resa nell’ambito di una struttura sanitaria, compete alla struttura e/o
al medico, in ragione e applicazione del principio di riferibilità o vicinanza
della prova, provare l’incolpevolezza dell’inadempimento (ossia della impossibilità
della prestazione per causa non imputabile al debitore) e la diligenza
nell’adempimento (53). Più in generale, va detto che è rimasta in vigore la
distinzione tra interventi di facile esecuzione o di routine - in cui il medico è
responsabile anche in caso di colpa lieve - ed interventi di difficile esecuzione
- in cui il sanitario è responsabile solo in caso di dolo o colpa grave.
Rispetto all’intervento del primo tipo, il paziente deve provare solo che
questo rientrava in pieno nell’ambito delle conoscenze tecniche acquisite
dalla comunità scientifica. Al professionista spetterà invece dimostrare che
l’insuccesso non è dipeso da propria negligenza, poiché in questo ambito
scatta il principio c.d. res ipsa loquitur, secondo cui vi è una presunzione di
colpa in capo al medico (54).
È stato precisato che l’accertamento in merito alla speciale difficoltà
dell’operazione deve riguardare il singolo caso concreto in tutte le sue particolarità
operative e non può limitarsi all’intervento considerato in via
astratta e generale (55). Non si deve, comunque, dimenticare che la limitazione
di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave attiene esclusivamente
al profilo della perizia e non copre i danni provocati da negligenza
o imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (56). I principi dettati
in tema di responsabilità contrattuale hanno permesso di affermare che
anche i medici sono tenuti a rispettare i c.d. obblighi di protezione (57),
ossia quegli obblighi accessori (58) alla prestazione principale (nella spe-
DOTTRINA 283
(53) Per un approfondimento della questione concernente la ripartizione dell’onere
della prova tra medico e paziente si rinvia a M. GRONDONA, commento a Cass. 19 maggio
1999, n. 4852, in Danno e Resp., 2000, 157 e ss. Cfr. A. DI MAJO, Mezzi e risultato nelle
prestazioni mediche: una storia infinita, in Corr. Giur. 2005, 38. Così F. DE MATTEIS, cit.,
35, la quale richiama le pronunce di: Cass. 21 giugno 2004, n. 11488, cit.; Cass. 28 maggio
2004, n. 10297, in Dir. e Giust., 2004, f. 28, 37; Cass., SS. UU., 30 ottobre 2001, n. 13533,
in Corr. Giur., 2001, 1565, con nota di MARICONDA dal titolo “Inadempimento e onere della
prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro”.
(54) Per un approfondito esame di questo principio si rimanda a U. IZZO, Il tramonto
di un “sottosistema” della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione
giurisprudenziale, in Danno e resp., 2, 2005, 144 e segg. Cfr. oltre.
(55) Cass. 30 maggio 1996, n. 5005, in Giust. civ. Mass., 1996, 797.
(56) Sul punto: Cass. 10 maggio 2000, n. 5945, in Riv. it. Medicina legale, 2001, 1137,
ed in Dir. e Giust., 2000, fasc. 19, 51; Trib. Milano, 23 maggio 2003, in Giur. mil., 2003,
435; Cass. 18 novembre 1997, n. 11440, in Riv. it. medicina legale, 1999, 982.
(57) Cass. 2 ottobre 2001, n. 12198, in Giust. Civ., 2002, I, 3167, afferma testualmente
che “Il contratto di prestazione professionale avente ad oggetto la prestazione medica…
impone al sanitario dipendente della struttura ospedaliera gli obblighi di diagnosi, cura ed
assistenza e gli altri obblighi di protezione propri della prestazione medica”.
(58) G. GIACALONE, cit., 1004, parla di doveri accessori che integrano il contratto che
trovano la loro fonte nell’ordinamento e, in particolare, nelle clausole generali di correttezcie,
diagnosi o cura) che, seppur non espressamente stabiliti, sono posti a
carico del debitore al fine di rafforzare la tutela del creditore. Grazie a questi
concetti si è potuto ampliare il raggio di azione della responsabilità
contrattuale, ricomprendendovi anche la violazione degli obblighi esterni
alla prestazione principale, altrimenti destinati a ricevere tutela in base ai
principi della responsabilità extracontrattuale. Fra questi obblighi accessori
posti a carico del medico rientra anche l’obbligo di informazione e l’obbligo
di sorveglianza sulla salute del soggetto, anche nella fase post – operatoria
(59). Si deve subito precisare che l’obbligo di informazione nell’ambito
della professione medica può assumere svariate dimensioni e
contenuti. La giurisprudenza e la dottrina hanno per lo più focalizzato la
loro attenzione sull’obbligo di informare il paziente circa la natura ed i
rischi connessi al trattamento terapeutico, al fine di ottenere il suo consenso
informato all’esecuzione dell’operazione (60). La Corte ha specificato
che la natura di una responsabilità (nella specie contrattuale o extracontrattuale)
va determinata non sulla base della condotta in concreto tenuta
dal soggetto agente, ma sulla base della natura del precetto che quella condotta
viola. Ciò comporta che una stessa condotta può violare due (o più)
precetti, uno di natura contrattuale ed uno di natura extracontrattuale, fondando
quindi due diverse responsabilità. Infatti, nel nostro ordinamento
(contrariamente all’ordinamento francese dove vige incontrastato il principio
del non - cumulo), vige il principio dell’ammissibilità del concorso
della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, allorché un unico
comportamento risalente al medesimo autore appaia di per sé lesivo non
solo di diritti specifici derivanti al contraente da clausole contrattuali, ma
anche dei diritti soggettivi, tutelati anche indipendentemente dalla fatti-
284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
za, diligenza e professionalità. C. CASTRONUOVO, Obblighi di protezione, in Enc. Giur.
Treccani, XXI, Roma, 1990; A. DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, in Commentario
Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, 315 ss. BENFATTI, Doveri di protezione, voce del
Digesto Civ., Torino 1991, VII, 221; F. DI CIOMMO, commento a Tribunale di Spoleto 18
marzo 1999, in Danno e Resp., 1999, 1252, il quale ricorda che la dottrina distingue fra
attività medica propriamente terapeutica (in cui l’ampiezza del dovere di informazione è
ridotta), attività medico-estetica od odontostomatologica (in cui il dovere di informazione
assume particolare valenza, considerati anche i risvolti psichici della vicenda) ed attività
diagnostica (in cui il dovere di informazione rappresenta esso stesso la prestazione
medica).
(59) Così, A. LANOTTE, nota a Cass. 21 luglio 2003, n. 11316, in Foro it., 2003, I, 2970.
Vedi anche: Cass. 11 marzo 2002, n. 3492, in Riv. it. medicina legale, 2003, 449.
(60) Sul punto, si vedano: Cass. 16 maggio 2000, n. 6318, in Danno e Resp., 2001, 154,
con nota di CASSANO; Cass. 6 ottobre 1997, n. 9705, in Resp. civ. e prev., 1998, 667, con
nota di G. CITARELLA; Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771, con nota di
L. PALMIERI; Trib. Venezia, 4 ottobre 2004, in Corriere del Merito, 2005, 21; App. Milano,
2 ottobre 2002, in Giur. mil., 2003, 31; DONATI, Consenso informato e responsabilità da prestazione
medica, in Rass. Dir. Civ., 2000, 1 ss.; M. GORGONI, La “stagione” del consenso e
dell’informazione: strumenti di realizzazione del diritto alla salute e di quello di autodeterminazione,
in Resp. civ. e prev., 1999, 488.
DOTTRINA 285
specie contrattuale (61). Il fatto che sia la responsabilità del medico che
quella dell’ente gestore del servizio sanitario abbiano entrambe radici nell’esecuzione
non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico
dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, pur costituendo un
importante elemento fattuale, non comporta necessariamente che le
responsabilità di entrambi i soggetti siano di natura contrattuale di tipo
professionale (62). Dottrina e giurisprudenza tendono, quindi, a ritenere che
(61) In tal senso: Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, in Rep. Foro it. 1982, voce Professioni
intellettuali, n. 41; voce Responsabilità civile, n. 44; Cass. 23 giugno 1994, n. 6064.
(62) Contra Cass. 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it. 1971, I, 1476; in Foro amm.
1974, 29, con nota di C. MARZUOLI, L’applicabilità dell’art. 2236 all’illecito dell’amministrazione
sanitaria; App. Milano 21 settembre 1976, in Rep. Foro it. 1977, voce Professioni
intellettuali, n. 47 e Arch. civ. 1977, 330; Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it. 1979,
I, 4; Cass. 4 giugno 1979, n. 3158, in Rep. Foro it. 1979, voce Prescrizione e decadenza, n.
123; Cass. 21 marzo 1981, n. 1656, in Foro it. 1981, I, 1585 e in Giur. it. 1985, I, 1, 248,
con nota di C. CERONI, Grado della colpa e onere della prova; Cass. 7 agosto 1982, n. 4437,
id., 1984, voce Professioni intellettuali, n. 60 e in Resp. civ. 1984, 78, con nota di C.
SOMARÈ, Alcune considerazioni in tema di diligenza; Cass. 9 novembre 1982, n. 5885, id.,
voce cit., n. 42; App. Milano 11 gennaio 1983, in Rep. Foro it. 1984, voce Professioni intellettuali,
n. 45; App. Roma 6 settembre 1983, in Foro it. 1983, I, 2838, con nota di
PRINCIGALLI; Cass. 27 febbraio 1984, n. 1393, in Foro it. 1984, I, 1280 e 1985, I, 1497, con
nota di M. ANNUNZIATA, La ricerca del dolo o della colpa nei confronti della p.a.; Cass. 22
ottobre 1984, n. 5333, in Foro it. 1985, I, 1403, Cass. 28 gennaio 1985, n. 485, in Rep. Foro
it. 1986, voce Responsabilità civile, n. 73; T.A.R. Piemonte, sez. II, 20 maggio 1985, n. 239,
in Rep. Foro it. 1985, voce Impiegato dello Stato, n. 333 e in Trib. amm. reg. 1985, I, 2205;
Trib. Padova 9 agosto 1985, in Foro it. 1986, I, 1995, con nota di V. ZENO - ZENCOVICH,
Responsabilità e risarcimento per mancata interruzione della gravidanza; Cass. 5 maggio
1987, in Foro it. 1988, I, 107; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144, in Foro it.,1988, I, 2296,
PRINCIGALLI; in Nuova giur. civ. 1988, I, 604, con nota di Pucella; Cass. 1 febbraio 1991, n.
977, in Giur. it. 1991, I, 1600, con nota di Carusi; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939, in Rep.
Foro it. 1993, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 114; Cass
11 aprile 1995, n. 4152, id., 1995, voce cit., 167-168. In dottrina: POGLIANI, Responsabilità
e risarcimento da illecito civile, Milano,1969,332333; GENTILE, Regime della prescrizione
in materia di responsabilità civile, in Resp.civ e prev.,1958, 294; RUPERTO, Prescrizione e
decadenza, in Giur. civ. e comm. diretta da W. Bigiavi, Torino, 1968, 251; P. G. PONTICELLI,
Responsabilità medica e servizio sanitario nazionale, in Giur. it. 1987, IV, 136; id.,
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Responsabilità del medico dipendente e dell’amministrazione sanitaria, in La responsabilità
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M. SANTILLI, La responsabilità dell’ente ospedaliero pubblico, in La responsabilità medica,
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286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
detto concetto sia quello previsto dall’art. 1176 c.c., che impone di valutare la
colpa con riguardo alla natura dell’attività esercitata e, pertanto, la responsabilità
del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri
inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua
volta valutato con riguardo alla natura dell’attività e che in rapporto alla professione
di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione
professionale. Da ciò discende che la responsabilità del medico per i
danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento,
tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con
riguardo alla natura dell’attività e che in rapporto alla professione di medico
chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale
(63). Come è stato rilevato anche dalla dottrina, dunque, la diligenza assume
nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato
adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione.
Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia da intendersi come
conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte
o professione. Il settimo principio affermato, è quello per cui riportata la
responsabilità del medico, dipendente della struttura sanitaria, nei confronti del
paziente nell’ambito della responsabilità contrattuale, trova applicazione diretta
l’art. 2236 cod. civ., a norma del quale, qualora la prestazione implichi la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde
dei danni solo in caso di dolo o colpa grave, senza la necessità di effettuarne
un’applicazione analogica, come pure era avvenuto da parte dell’orientamento
che sosteneva la responsabilità extracontrattuale del medico dipendente
mentre è dubbio che nella fattispecie ricorrano i presupposti per l’applicazione
dell’analogia, di cui all’art. 12 disp. prel. cod. civ. (64). Le conseguenze
impiego, in Nuova rass. 1984, 2353; A. G. IANNARELLI, Riferimenti giurisprudenziali sul nesso
psicologico in tema di responsabilità civile della p.a., in Foro amm. 1985, 689; F. MERUSI, La
responsabilità dei pubblici dipendenti secondo la Costituzione: l’art. 28 rivisitato, in Riv. trim.
dir. pubbl. 1986, 58; M. SANTILLI, Il diritto civile dello Stato, Milano, 1985, 145; G. SANVITI,
La responsabilità civile della p.a.: gli aspetti speciali e gli aspetti di carattere generale, in La
responsabilità civile, Torino, 1987, III, 459; A. PRINCIGALLI, La responsabilità del medico,
Napoli, 1983, 285; M. SANTILLI, La responsabilità del funzionario, in Riv. critica dir. privato
1987, 133; M. FORTINO, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1983, 113, A.
VIGOTTI, La responsabilità del professionista, in La responsabilità civile, IV, 237; M. ZANA,
La responsabilità del medico, in Riv. critica dir. privato 1987, 159. Cass, sez. I, 1 ottobre 1994,
n. 7989, in Rep. Foro it. 1994, voce Responsabilità civile (in genere), n. 59.
(63) Cass. 12 agosto 1995, n. 8845, in Rep. Foro it. 1995, voce Prescrizione e decadenza
(prescrizione in genere), n. 29; voce Danni civili (danno alla persona e alla salute),
n. 156; voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 170.
(64) Contra: Cass. 5 aprile 1984, n. 2222, in Rep. Foro it. 1984, voce Professioni intellettuali,
n. 59; Cass. 7 maggio 1988, n. 3389, id.,1988,voce cit (prestazioni d’opera), n. 74;
voce cit. (responsabilità del professionista), n. 96; Cass. 11 agosto 1990, n. 8218, id., 1990,
voce cit., n. 114. Corte Cost. 28 novembre 1973, n. 166, in Foro it. 1974, I, 19; in Cons.
Stato 1973, II, 1123; in Giust. civ., 1974, III, 12; in Giust. pen. 1974, I, 35; in Giur. Costit.
1973, 1795; in Resp. civ. 1973, 242; in Arch. resp. civ. 1974, 23; Cass. 18 novembre 1997,
cit. In tal senso: Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, cit.; Cass. 12 agosto 1995, n. 8845, cit.
DOTTRINA 287
che discendono dall’accettazione della tesi contrattuale non possono fermarsi
alle sole conseguenze dannose ma anche alla inadempienza all’obbligo di
curare, perché vi è anche e necessariamente da esaminare la parte prodromica
al perfezionamento del contratto dalla quale possono determinarsi ulteriori
conseguenze che soprattutto alla luce delle recenti conquiste giurisprudenziali
in tema di consenso informato, acquistano un valore determinante. Afferma la
Cassazione, concludendo il suo costrutto logico-giuridico, che “omologate le
responsabilità della struttura sanitaria e del medico come responsabilità
entrambe di natura contrattuale, sia ai fini della rilevanza del grado della colpa
che della ripartizione dell’onere probatorio, non esiste una differenza di posizione
tra i due soggetti, né per effetto di una diversa posizione del paziente a
seconda che agisca nei confronti dell’Ente Ospedaliero o del medico dipendente”.
Si potrà condividere o meno il dettato della Suprema Corte, richiamato
immediatamente dopo da una quasi identica sentenza (65), ma ciò che conta è
che essendo omologa la responsabilità dell’ente e del medico, omologhe sono
le azioni ai fini dell’onere probatorio e della prescrizione che il danneggiato
potrà proporre nei confronti dell’uno, dell’altro o di tutti e due i soggetti. Si eliminavano
così quelle incertezze sulla scelta delle azioni da proporsi.
15. La genesi della responsabilità da contatto: il contratto di fatto e la svalutazione
del dogma della volontà
La nozione di contratto di fatto nasce in Germania negli anni quaranta,
anche se proprio in Italia, la dottrina del primo quindicennio del secolo, aveva
già individuato la categoria (66). La tesi tedesca trae origine dalla concezione
della culpa in contrahendo, espressione con la quale si indica la responsabilità
precontrattuale, come responsabilità di tipo contrattuale, in quanto le parti del
futuro contratto sono legate da un rapporto speciale che dà origine ad una serie
di obblighi reciproci di buona fede giustificati con la necessità di proteggere
l’affidamento della parte incolpevole (67). Secondo una parte della dottrina la
responsabilità precontrattuale assumerebbe le caratteristiche funzionali di quella
contrattuale, mentre i presupposti strutturali sono tipicamente aquiliani (68).
È in questo ordinamento che è nata la teoria degli obblighi di protezione, secon-
(65) Cass. 19 maggio 1999 n. 4852, Guida al Diritto n. 30 del 31 luglio 1999, 63.
(66) S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004, 5 ss. G. CIAN,
Significato e lineamenti della riforma dello Schuldrecht tedesco, in Riv. dir. Civ., 2003, 8;
E. FERRANTE, Il progetto di riforma del libro II del codice civile tedesco su obbligazioni e
contratti: verso un nuovo Schuldrecht, in Contratto e impresa/Europa, 2001, 272 ss.; E.
FERRANTE, Il nuovo Schuldrecht: ultimi sviluppi della riforma tedesca del diritto delle obbligazioni
e dei contratti, in Contratto e impresa/Europa, 2001, 771.
(67) R. VON JHERING, Culpa in contraendo oder Schadensersatz bei nichtigen oder
nicht zur Perfection gelangten Verträgen, in Jering’s Jahrb., 1861, rist. Acura di E. Schmidt,
bad Homburg – Berlin –Zürich, 1969.
(68) “Si ascrive all’area del contratto in senso ampio una responsabilità che altrimenti
avrebbe continuato ad esprimere la disciplina dei comportamenti tra persone distanti, e non dei
rapporti tra privati”, S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, …5, sub nota 10.
288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
do cui il rapporto obbligatorio è considerato articolato in un obbligo di prestazione
e di comportamento collaterale alla prestazione (69). Il contratto di fatto
consiste nell’attuazione o esecuzione di una prestazione non preceduta da alcuna
proposta. Vengono attribuiti ad alcuni fatti i medesimi effetti giuridici che si
sarebbero prodotti in conseguenza di una dichiarazione di volontà. I rapporti
contrattuali di fatto sono, dunque, quelli che, pur non trovando il loro fondamento
in una volontà diretta a costituirli o in un comportamento negoziale, si
manifestano egualmente come rapporti della vita di relazione e, in virtù della
loro tipicità sociale, acquistano rilevanza per il diritto (70). La tendenza allora
dominante era quella di svalutare il dogma della volontà, con la conseguenza
di giungere alla esasperata valorizzazione degli interessi della comunità rispetto
a quelli dell’individuo. Si giustificava così il sorgere di vincoli anche a carico
di chi, pur non avendo manifestato alcuna intenzione al riguardo, avesse
attuato un comportamento di favorevole impatto sociale. Nella dogmatica civilistica
il tema rientra da tempo nella teoria delle fonti dell’obbligazione. In particolare
si prende spunto dall’art. 2126 c.c. e dal principio a-contrattualistico
che dominerebbe l’ordinamento giuridico del lavoro. Generalmente, si individuano
due tesi: la tesi del rapporto obbligatorio di fatto, che configura come
conseguenza la responsabilità extracontrattuale, e la tesi contrattualistica, per la
quale la responsabilità è di tipo contrattuale. Tale fattispecie viene inquadrata
dalla dottrina tedesca (71) nelle obbligazioni senza (obbligo primario di) prestazione,
nell’ambito del principio del dogma della volontà, ossia del dominio
della volontà nell’ambito negoziale (72). Per la prima tesi la fonte dell’obbligazione
è un fatto o un atto venuto ad esistenza nella realtà, in quanto è legittimo
che da una attività giuridica che si è svolta mediante il rapporto di fatto,
nasca una corrispondente obbligazione. La fonte si rinviene nell’art. 1173 ultimo
comma c.c. (atto o fatto idoneo a produrre l’obbligazione), da cui deriva
una responsabilità di tipo extracontrattuale. La tipologia riguarda: il trasporto
di cortesia, il comodato precario ed, in generale, i rapporti di cortesia, il traspor-
(69) La Leistungspflichten (prestazione) e la Verhaltenspflichten (comportamento) che
si ricollegano al dovere di protezione, categoria dogmatica elaborata da Kress, in Lehrbuch
des Algemeinen Sculdrechts, München, 1929, 5 ss. Per altre citazioni tedesche cfr. S.
FAILLACE, op. cit., 6.
(70) Cfr. al riguardo FINZI, Il possesso dei diritti, 1915, ristampato a Milano nel 1968;
E. BETTI, Dei cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Nuova riv. dir. comm., 1956, I, 238
e in Jus, 1957, 353 e ss; HAUPT, Uber faktisce Verhaltnisse, in Festschrift fur H. Siber,
Lipsia, 1943, e la ulteriore bibliografia riportata da R. SACCO, Il contratto di fatto, in
Trattato op. cit., 42; C. M. BIANCA, Diritto civile, Il contratto, vol. 3, Milano, 1987, 40). F.
G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da
“contatto sociale”, in Giur. it., 2000, 740, il quale ipotizza la figura allegorica del triangolo
dove in tutti i tre i lati ricorre una ipotesi di legame contrattuale.
(71) LARENZ, SCHULDRECHT, Munchen, 1982, I, 13, 101.
(72) Cfr. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico, op. cit., 4; C. CASTRONUOVO,
L’obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e torto, in La nuova responsabilità
civile, 2 ed., Milano, 1997, 198.
to gratuito, il trasporto di persona che non abbia pagato il biglietto del viaggio,
il comodato a termine, il godimento di fornitura di energia elettrica o di acqua
dopo la scadenza del relativo contratto (73). In questi casi le parti non si sono
assoggettate volontariamente ad una determinata disciplina corrispondente a
quella legale. La caratteristica riguarda l’aspetto volontaristico. La tesi a-contrattualistica
ritiene che questi comportamenti materiali con i quali le parti si
scambiano attribuzioni patrimoniali non abbiano una valenza negoziale, non
accennino ad una volontà di autovincolarsi. La tesi contrattualistica ritiene,
invece, che alla base di questi rapporti vi sia un sostrato volontaristico che permette
di connotarli in chiave negoziale. È proprio nell’ottica della tematica del
comportamento concludente, del negozio di attuazione, dei comportamenti con
valore legale tipico, che si inserisce la tematica del contratto di fatto.
Per la tesi contrattualistica il legislatore svaluta il momento volontaristico,
supera il dogma della volontà e ritiene irrilevante la ricerca di una volontà
comportamentale ai fini dell’assunzione dell’autovincolo, dando rilievo al
valore sociale che di solito determinati comportamenti assumono (c.d. comportamenti
impegnativi). Tipico esempio è costituito dal comportamento
concludente o comportamento attuativo di cui agli artt. 1333 c.c.(contratto
con obbligazione del solo proponente), art. 684 c.c.(distruzione del testamento
olografo: il testamento si intende revocato), 685 c.c. (ritiro del testamento
segreto si intende revocato se non può valere come testamento olografo).
In tutti questi casi la manifestazione della volontà è indiretta. Anche in
riferimento all’1327 comma 1 c.c. la suddetta tesi individua un contratto di
fatto: per la dottrina la figura dell’esecuzione prima della risposta dell’accettante
configura o un modello di accettazione tacita o un negozio di attuazione,
in cui l’attuazione è solo uno dei modi in cui può manifestarsi la volontà
dell’oblato, in quanto realizza immediatamente la volontà del soggetto,
pur senza porre l’agente in relazione con altri soggetti (manifestazione della
volontà diretta). Altri esempi vengono individuati negli artt. 476 c.c. (accettazione
tacita dell’eredità), e 1444 comma 2 (convalida tacita). È comunque
indubitabile che in tutti questi casi il contratto regolare non si formi, ma l’ordinamento
intende salvare determinate situazioni costituitesi per effetto del
rapporto svoltosi di fatto e stabilisce che, sulla base della specifica attività
svolta nell’ambito di un rapporto di fatto, nasca una corrispondente obbligazione,
che scaturisce da un fatto idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento
giuridico (art. 1173 c.c.). In tal caso non è più lecito parlare tecnicamente
di contratto di fatto, quanto piuttosto di rapporto contrattuale di fatto.
Si viene a costituire, dunque, un’obbligazione con contenuto analogo a quello
dell’obbligazione ex contractu (74). Al di fuori dell’ambito contrattuale si
segnalano, come esempi di rapporti praeter legem, che non presentano i
requisiti previsti dalla legge: l’amministratore di fatto, l’ufficiale di stato
DOTTRINA 289
(73) N. LIPARI, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia. Spunti per
una teoria del rapporto giuridico, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1968, I, 415.
(74) C. M. BIANCA, Diritto civile, Il contratto op. cit. 40, nota 112.
civile di fatto (art. 113, c.c.), la separazione di fatto fra coniugi (arg. ex art.
158 c.c.) o il rapporto coniugale di fatto (in quest’ultimo caso la giurisprudenza
ha utilizzato lo schema dell’obbligazione naturale). La dottrina individua
come esempi di contratti di fatto la mediazione (il contatto sociale è qui
in grado di porre in relazione i patrimoni di due o più consociati), i rapporti
associativi di fatto (la società nulla o irregolare o di fatto, le associazioni non
riconosciute, le imprese familiari, il contratto di massa (predisposto dall’imprenditore
in modo uniforme mediante moduli o formulari (75). Secondo la
teoria tradizionale (76) i rapporti contrattuali di fatto sarebbero classificabili
in tre categorie: rapporti ricollegati al fatto della offerta al pubblico di una
prestazione o servizio di pubblico interesse e alla conseguente sua richiesta
o messa a profitto da parte degli utenti (es. utilizzazione del mezzo di trasporto
tranviario o della somministrazione di beni di generale consumo);
rapporti che derivano da contatto sociale istaurato tra più sfere di interessi,
quando, in mancanza di qualsiasi fattispecie contrattuale, assume decisivo
rilievo la conseguente possibilità di reciproca influenza (es. trasporto di cortesia);
rapporti derivanti dalla inserzione in una organizzazione comunitaria,
rispetto alla quale il caratteristico elemento fiduciario legittimerebbe una
parte a «fare assegnamento sulla cooperazione promessa dall’altra» (es. del
rapporto non preceduto da un valido o regolare atto costitutivo; società di
fatto o esecuzione di fatto di un rapporto di lavoro). Una terza tesi tenta una
ricostruzione unitaria del fenomeno, e prende le mosse dalla critica della totale
negazione del valore della dichiarazione di volontà avanzata dai primi autori
tedeschi. Si giunge, per questa via, alla configurazione del comportamento
delle parti, «valutato nella sua tipica concludenza», quale esplicazione (attuazione)
di autonomia privata, «approvata e protetta dall’ordine giuridico» ed
integrante comunque un comportamento negoziale (77). Il punto di svolta
della dottrina dei rapporti contrattuali di fatto è rappresentato dall’abbandono
dell’idea per cui il contratto deve essere sostenuto da un accordo necessariamente
dichiarato, ben potendo derivare da un consapevole contatto tra le sfere
di interessi di due consociati, unito alla statuizione di un regolamento di interessi
che viene posto in essere da entrambi i portatori degli interessi in questione
o da uno soltanto di essi (negozio unilaterale). Dal punto di vista della
comunità viene valutato come congrua, soddisfacente soluzione del problema
pratico relativo alla distribuzione o produzione di beni nell’ambito della vita di
relazione. La volontà non risulterebbe dunque del tutto pretermessa rispetto
alla costituzione del rapporto contrattuale, ma verrebbe apprezzata esclusivamente
con riguardo al contenuto del contratto, piuttosto che al contratto come
290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(75) Cfr. Contratto di massa, voce Enc. dir. aggiornamento, 1997, 403 ss.; il lavoro
subordinato di fatto, la gestione di fatto, cfr. anche R. SACCO, Il contratto di fatto, in Trattato
di dir. priv., Obbligazioni e contratti, II, diretto da P. Rescigno, 52 ss.
(76) E. BETTI, Dei cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Nuova riv. dir. comm.,
1956, I, 238 e in Jus, 1957, 353 e ss.
(77) E. BETTI, Dei cosiddetti rapporti contrattuali…op. cit., 367.
tale. Non si nega l’esistenza di un accordo alla base del rapporto contrattuale,
ma si ammette che le modalità tradizionali di esplicazione del consenso non
sempre possono essere attuate: ciò non significa che il rapporto sorga privo di
un suo elemento essenziale. Gli artt. 1327 e 1333 sono ipotesi in cui già il
legislatore prevede la conclusione del contratto fuori dal tradizionale incontro
della proposta con l’accettazione. In ogni caso nei rapporti contrattuali di fatto
non si può rinvenire una dichiarazione di volontà. Ne consegue che la capacità
di agire non ha alcuna rilevanza e che sarebbe erroneo equiparare i rapporti
di fatto ai meri atti giuridici leciti. La tipologia del comportamento privo dell’espressione
del consenso, ma considerato negoziale in forza di una valutazione
socialmente tipica, può essere, dunque, riconducibile allo schema attuativo
di un contratto tipico (comportamento imitativo di un contratto: amministratore
di fatto, società di fatto); oppure non riconducibile in alcuno schema contrattuale
da ritenersi imitato (78).
16. Le ipotesi simili e le guidelines giurisprudenziali, l’amministratore di
fatto, la responsabilità precontrattuale, il danno da procreazione, la responsabilità
da contatto amministrativo
L’inserimento della negotiorum gestio nella categoria dei rapporti contrattuali
di fatto da parte della Cassazione è stata determinata dalla riscoperta della
teoria del contatto sociale. La pronuncia della Cassazione del 6 marzo 1999, n.
1925 ha incluso la assunzione non autorizzata della gestione di affari altrui nell’ambito
dei rapporti contrattuali di fatto (amministratore di fatto) (79). È stata
abbandonata la teoria della preposizione tacita ed implicita al fine di valorizzare
il momento genetico rispetto a quello funzionale del rapporto (80). Nella
società di fatto è ricompresa la società nulla, in cui manchi un atto scritto del
contratto o in senso più ampio la c.d. società irregolare, il cui contratto non sia
stato pubblicato. Nella categoria rientra anche la prestazione resa in esecuzione
del contratto di lavoro di fatto, quale rapporto che trae origine da un contratto
nullo e per il fatto del semplice inserimento in un’organizzazione comunitaria.
La dottrina recente e maggioritaria aderisce ad una visione contrattualistica
del rapporto di lavoro, a differenza di quella tedesca che invece aderisce
alla tesi a-contrattualistica. La costruzione del danno alla persona in funzione
della lesione dell’integrità psicofisica come valore in sé tutelabile, ha determinato
la occasione per ampliare il novero delle situazioni soggettive meritevoli
di tutela, allargando l’indagine, precedentemente circoscritta alle sole lesioni
DOTTRINA 291
(78) N. LIPARI, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia. Spunti per una
teoria del rapporto giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1968, I, 415; V. FRANCESCHELLI,
Rapporti contrattuali di fatto: un cinquantenario, in Contratti, 1993, 705 ss.
(79) Cass. 14 settembre 1999, n. 9795, in Giur. comm., 2000, I, 79 ss., con nota di A.
SCHERMI, Annotazioni sull’amministratore di fatto, e E. VALERIO, Una svolta giurisprudenziale
in tema di amministratori di fatto?, 1049 ss.
(80) S. FAILLACE, La responsabilità…op. cit., 39.
dell’integrità psicofisica o alla morte, anche ai settori della nascita e del concepimento.
La questione del danno da procreazione raggiunge un punto di
incontro tra i due modelli della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale,
l’uno caratterizzato dall’inadempimento ad un pregresso rapporto giuridico
di tipo obbligatorio, l’altro dalla causazione di un danno ingiusto provocato da
un comportamento o da un fatto illecito in assenza di un preesistente rapporto
obbligatorio tra le parti. La convergenza dei due modelli, sulla base di una
regola non scritta ma largamente diffusa anche in Germania (81), configura il
cumulo delle due azioni. In particolare, la responsabilità precontrattuale per
violazione dell’art. 1337 c.c., per una parte della dottrina costituisce una forma
di responsabilità extracontrattuale e si collega alla violazione della regola di
condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell’iter formativo del contratto.
Presuppone che tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione
di un contratto giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l’affidamento
nella conclusione del contratto. Oppure presuppone che una delle
parti abbia interrotto le trattative così eludendo le ragionevoli aspettative dell’altra,
la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia
stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli, ed
infine che il comportamento della parte inadempiente sia stato determinato, se
non da malafede, almeno da colpa, e non sia quindi assistito da un giusto motivo.
Secondo l’opposta tesi, invece, la responsabilità precontrattuale è attratta
nell’ambito della responsabilità contrattuale in quanto i soggetti delle trattative
non sono tra loro estranei, ma sono legati da un contatto sociale che può
dirsi qualificato, in quanto oggetto di una diretta considerazione da parte dell’ordinamento
giuridico che impone a ciascuno obblighi di comportamento
anche attivi. La tesi tedesca, in particolare, è a favore della tesi contrattuale in
quanto gli obblighi di condotta precontrattuali non possono riconoscersi in
quelli che derivano dal contratto, in quanto la previsione della regola di comportamento
esprime una potenzialità precettiva che non si esaurisce nel solo
aspetto risarcitorio. Un altro esempio di labile confine tra contratto e responsabilità
aquiliana è costituito dal c.d. danno da procreazione o da vita indesiderata.
La questione del danno da procreazione, ad esempio, raggiunge un
292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(81) G.STELLA RICHTER, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato,
in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1977, I, 151; D. CARUSI, Contraccezione, aborto e “danno da
procreazione”: di una importante sentenza del tribunale costituzionale tedesco e di alcune
questioni in materia di responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 1999, 1173; D.
CARUSI, Fallito intervento d’interruzione di gravidanza e responsabilità medica per omessa
informazione: il “danno da procreazione” nella giurisprudenza della Cassazione italiana
e nelle esperienze straniere (nota a sent. Cass., sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, Usl n. 21
Padova c. Petix e altro), in Rass. dir. civ., 1996, 343; G. BALDINI, Il danno da procreazione:
evoluzione dei profili di responsabilità alla luce delle nuove tecniche di riproduzione artificiale,
in Rass. Dir. civ., 1995, 481; G. CRISCUOLI, Il problema del risarcimento del danno da
procreazione non programmata: le risposte della giurisprudenza common law, in Rass. dir.
civ., 1987, 442; A. R. VENERI, Diritto del nascituro a nascere sano, obbligo di prestazione
del medico e sua responsabilità contrattuale, in Rass. dir. civ., 1995, 908 ss.
punto di incontro tra i due modelli della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale,
l’uno caratterizzato dall’inadempimento ad un pregresso rapporto
giuridico di tipo obbligatorio, l’altro dalla causazione di un danno ingiusto
provocato da un comportamento o da un fatto illecito in assenza di un preesistente
rapporto obbligatorio tra le parti. Il diritto del nascituro costituisce una
ipotesi in bilico tra l’affermazione dei nuovi diritti della persona ancorati agli
art. 2 e 32 Cost. e l’introduzione di un nuovo tipo di danno: il danno esistenziale.
I danni astrattamente derivabili dall’imperizia o dalla negligenza dimostrata
dal ginecologo durante la gestazione o al momento del parto si distinguono
in tre tipologie: danni alla salute della madre, danni alla salute del bambino,
danni da nascita indesiderata. L’evoluzione del fenomeno procreativo
come scelta responsabile e consapevole dei soggetti, l’avanzamento tecnologico
e sociale con conseguente spostamento in avanti dei canoni o dei presupposti
della diligenza medica richiesta dai genitori nell’interesse del nascituro,
nonché il crescente intervento del medico, soprattutto nell’ipotesi della fecondazione
artificiale, introducono novità rilevantissime tali da indurre, “in via
straordinaria, qualora ricorrano determinate circostanze, ad estendere i principi
generali della responsabilità civile anche ad un campo, come quello della
procreazione, che ne era fino ad oggi escluso” (82). Parte della dottrina ritiene
che anche la responsabilità della Pubblica Amministrazione per l’attività provvedimentale
illegittima non possa considerarsi responsabilità aquiliana, ma
vada piuttosto ricondotta nell’alveo della responsabilità contrattuale (83).
L’Amministrazione sarebbe infatti tenuta, nello svolgimento della propria attività
di cura degli interessi pubblici, a rispettare non solo un dovere generico di
DOTTRINA 293
(82) M. BONA, Perdita del nascituro: un nuovo precedente per il danno esistenziale, in
Danno e resp., 2000, 89; M. ROSSETTI, Danno esistenziale: adesione iconoclasta od epoche?,
in Danno e Resp., 2000, 209; Cass, 7 giugno 2000, n. 7713, in Danno e resp., 835, con note
di G. P. MONATERI, Alle soglie: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, e di G.
PONZANELLI, Attenzione: non è danno esistenziale ma vera e propria pena privata e in Corr.
giur., 2000, 874, con nota di DE MAURZO, La Cassazione e il danno esistenziale. G. BALDINI,
Il danno da procreazione, in Rass. di dir. civ., 3, 1995, 517. D. CARUSI, Contraccezione, aborto
e “danno da procreazione”: di una importante sentenza del tribunale costituzionale tedesco
e di alcune questioni in materia di responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 1999,
1173; D. CARUSI, Fallito intervento d’interruzione di gravidanza e responsabilità medica per
omessa informazione: il “danno da procreazione” nella giurisprudenza della Cassazione italiana
e nelle esperienze straniere (nota a sent. Cass., sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, Usl n. 21
Padova c. Petix e altro), in Rass. dir. civ., 1996, 343; G. BALDINI, Il danno da procreazione:
evoluzione dei profili di responsabilità alla luce delle nuove tecniche di riproduzione artificiale,
in Rass. dir. civ., 1995, 481; G. CRISCUOLI, Il problema del risarcimento del danno da procreazione
non programmata: le risposte della giurisprudenza common law, in Rass. dir. civ.,
1987, 442. PONZANELLI, La responsabilità medica ad un bivio: assicurazione obbligatoria,
sistema residuale no-fault o risk-managment?, in Danno e Resp., 2003, 428 e segg. A. R.
VENERI, Diritto del nascituro a nascere sano, obbligo di prestazione del medico e sua responsabilità
contrattuale, in Rass. dir. civ., 1995, 908 ss.
(83) F. CARINGELLA, op. cit. 974. C. VACCÀ, L’intervento di chirurgia estetica è di risultato?,
in Resp. civ. prev., 1986, 44 ss.
non ledere l’altrui sfera giuridica, ma una serie di obblighi comportamentali
specifici, anche attivi, posti direttamente dalla legge. Il soggetto che subisce
una conseguenza dannosa dall’attività amministrativa non può essere considerato
un quisque de populo rispetto all’amministrazione: con l’instaurazione del
procedimento amministrativo sorgerebbe tra l’amministrazione e il privato una
relazione specifica qualificata, volta alla protezione di beni giuridici determinati
facenti capo a quest’ultimo.
17. Gli effetti dell’accoglimento della tesi contrattuale. La responsabilità
medica e il grado della colpa. L’applicazione in via diretta e non più analogica
dell’art. 2236 c.c. Tendenza alla trasformazione da obbligazione di
mezzi a obbligazioni di risultato.
La riconduzione della responsabilità medica nell’ambito della fattispecie
contrattuale implica che essa possa essere equiparata a tutti gli effetti alla
responsabilità professionale. Si applicano, pertanto, le disposizioni di cui
agli artt. 1176 primo e secondo comma c.c. e 2236 c.c.
L’art. 1176 al comma 1 c.c., infatti, prevede la diligenza del buon padre di
famiglia nell’esecuzione delle obbligazioni e, al secondo comma, la diligenza
qualificata con riguardo alla natura dell’attività esercitata per le attività professionali.
L’art. 2236 c.c., invece, riguarda la limitazione della responsabilità
professionale al dolo e alla colpa grave nei casi di particolare difficoltà tecnica
e va coordinato con l’art. 1176 c.c. La Cassazione ha ritenuto che tale limitazione
operi solo in riferimento alla perizia e non anche alla negligenza o
all’imprudenza: in questi ultimi casi il medico risponderebbe anche per colpa
lieve, in quanto solo la perizia prescinderebbe dalla preparazione professionale
media, o perché il caso è di particolare complessità o perché le tecniche non
sono studiate o sperimentate sufficientemente (84). La conseguenza dell’accoglimento
della tesi contrattuale è che la responsabilità medica attiene alla
responsabilità professionale. L’ordinamento prevede norme particolari e criteri
speciali particolari di imputazione della responsabilità. In particolare l’art.
2236, co. 2 stabilisce che il grado di diligenza cui è tenuto il debitore deve
essere commisurato alla natura dell’attività dovuta (85). La giurisprudenza da
tempo ha elaborato regole generali relative alla misura della diligenza, all’onere
della prova, alla presunzione della colpa e del nesso causale, all’attenuazione
della responsabilità in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà,
applicabili indistintamente, prescindendo dalla struttura del rapporto (86). La
294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(84) Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 598, in Giur. it., 2000, 740.
(85) F. CARINGELLA, op. cit... 1013
(86) Per le critiche all’operazione giuridica posta in essere dalla Cassazione, soprattutto
con la differenza tra obbligazione di mezzi e di risultato, nel caso di specie sfumato, v. F.
G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente, cit., 743 e E. SCODITTI, Chirurgia
estetica e responsabilità contrattuale (commento a Cass. 25 novembre 1994, n. 10014), in
Foro it.,1995, I, c. 2913; F. CAGGIA, In tema di responsabilità del medico, in Giur. It., 1998,
I, 45. A.M. PRINCIGALLI, La responsabilità civile. Profili generali, in Diritto privato eurogiurisprudenza
ravvisa nella prestazione del professionista quella di un
debitore qualificato: l’adempimento dell’obbligazione va valutato in base
all’art. 1176, secondo comma c.c., con la conseguenza che il professionista
è tenuto a conoscere le regole del mestiere e ad operare con perizia e
prudenza. Ciò implica il rispetto di tutte le regole della conoscenza della
professione medica, intesa come conoscenza ed attuazione delle regole
proprie della professione. Il grado di diligenza deve essere apprezzato in
relazione alle circostanze concrete; la limitazione della responsabilità ex
art. 2236 c.c., applicabile ai soli casi di dolo e colpa grave, si applica alla
perizia per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (87). Il
medico instaura con il paziente un contratto d’opera intellettuale, che si
specifica come “contratto di prestazione medica” che viene definito come
“l’accordo in virtù del quale il medico, effettuata la diagnosi ed indicata
la terapia, si obbliga nei confronti del paziente, dietro corrispettivo, a realizzarla
secondo le migliori prescrizioni dell’arte medica, assumendo, perciò
una obbligazione di mezzi”. Il medico si impegna a prestare la propria
opera intellettuale per raggiungere il risultato sperato. Si osserva infatti
che, da un lato, un risultato, inteso come momento finale e conclusivo
della prestazione, è comunque dovuto in tutte le obbligazioni, e che, dall’altro,
ogni qual volta viene raggiunto un risultato ciò implica necessariamente
che sono stati impiegati i mezzi occorrenti. Ne deriva che le cure
del medico sono un mezzo per la guarigione del malato, ma sono un risultato
se lo scopo preso in considerazione è quello di essere curato. Dunque,
nei casi di prestazione medica non implicante la soluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà, si individua in realtà un’obbligazione di
risultato (88). La nozione di contatto sociale viene poi utilizzata per estendere
l’ambito delle fonti di obbligazioni (art. 1173 c.c.) applicando la
disciplina dei contratti anche ai rapporti che sorgono attraverso l’obbligo
sociale di prestazione. Nel caso di specie sorgerebbe in capo all’ente ospedaliero
un obbligo di prestazione cui corrisponderebbe un dovere di protezione
del medico dipendente e, di conseguenza, la relativa responsabilità
(89).
DOTTRINA 295
peo, a cura di Lipari, Padova, 1997, 989 ss; G.P. MONATERI, La responsabilità civile, in
Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, 1998, 751 ss.
(87) Cfr. Cass. 19 maggio 2004, n. 9471, in Dir. e Giust., 2004, f. 25, 32 che in motivazione
parla di “sostanziale trasformazione dell’obbligazione del professionista da obbligazione
di mezzi in obbligazione di (quasi) risultato”. Cfr. in generale L. MENGONI,
Obbligazioni di “risultato” e obbligazioni di “mezzi”. Studio critico, in Riv. dir. Comm.,
1954, 185 ss. e V. DE LORENZI, voce Obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato,
in Dig. Disc. priv., Torino, 1995, 397.
(88) P. PAURI, La responsabilità civile e penale derivante dall’errore medico, in Diritto
e Diritto (sett. 2004).
(89) R. BERTI, La responsabilità medica secondo il diritto vivente, in http://web.tiscalinet.
it/ceredoc/html/*
18. Il riparto dell’onere della prova e la res ipsa loquitur
La tesi dell’obbligazione per risultato si basa sul principio della res ipsa
loquitur.
L’accoglimento della tesi contrattuale crea, infatti, ripercussioni proprio
in merito all’onere probatorio.
La Cassazione afferma che l’onere della prova incombe in capo al professionista:
egli deve fornire la prova che la prestazione presentava problemi
tecnici di particolare difficoltà (90). Il paziente deve invece provare che
l’intervento era di carattere rutinario (91). Ulteriore rilevante differenza è il
diverso termine di prescrizione dell’azione di responsabilità.
È importante individuare le caratteristiche dell’errore professionale che
deriva dalla trasgressione di quelle norme, che sono universalmente riconosciute
valide dalla scienza. In particolare, l’errore compiuto dal medico
riguarda la diagnosi, la prognosi o la terapia, e consiste nel falso apprezzamento
di fatti oggettivi per i quali la scienza medica fornisce una interpretazione
ufficiale o stabilisce regole precise, dettate dalle conoscenze scientifiche
più avanzate e provate dall’esperienza. L’errore è inescusabile, e quindi
c’è colpa, quando sia conseguenza diretta della mancata conoscenza di principi
fondamentali (92). L’utilizzo della responsabilità contrattuale alleggerisce
l’onere della prova a carico del paziente attore in quanto si applica l’art.
1218 c.c.: egli è tenuto a dimostrare solo l’inadempimento del medico, mentre
spetterà al medico provare che l’inadempimento è stato incolpevole o
derivante da impossibilità sopravvenuta a lui non imputabile (93). È rimasta
in vigore la distinzione tra interventi di facile esecuzione o di routine: la
limitazione di responsabilità del medico si applica ai soli casi di dolo o colpa
grave nei casi di prestazione particolarmente complessa. Risulta evidente che
oramai l’obbligazione del medico dipendente si sostanzia in una obbligazione
senza prestazione o, il che è lo stesso, in una prestazione senza obbligazione
(94). La giurisprudenza considera unitariamente, a tali fini, l’attività
sanitaria come prestazione di mezzi, senza più farsi carico della natura della
296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(90) Cfr. anche Cass., 4 febbraio 1998, n. 1127, in Giur. it., 1998, 1800.
(91) Cass., 8 gennaio 1999, n. 103, in Arch. civ., 1999, 4, 437.
(92) P. PAURI, La responsabilità civile e penale derivante dall’errore medico, in Diritto
e Diritto (sett. 2004).
(93) M. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario al Codice civile a cura di Scialoja-
Branca-Galgano, Bologna – Roma, 1993, 129 ss; V. FINESCHI, Res ipsa loquitur: un principio
in divenire nella definizione della responsabilità medica, in Riv. It. medicina legale,
1989, 419; F. CAGGIA, In tema di responsabilità del medico, in Giur. It., 1998, I, 40; G.
BALDINI, Il danno da procreazione: evoluzione dei profili di responsabilità alla luce delle
nuove tecniche di riproduzione artificiale, in Rass. di dir. civ., 3, 1995, 493; Cfr. altresì, ivi
citato, L.KAPLOW, The Value of Accuracy in Adjuducatio: an Economic Analysis, in 23 J.
Leg. Stud. 307, 308 (1994).
(94) A. LANOTTE, nota a Cass. 21 luglio 2003, n. 11316 in Foro It., 2003, I, 2970. Cass.
11 marzo 2002, n. 3492, in Riv. it. Med. Leg. 2003, 449.
responsabilità del medico. Ritiene che incombe in capo al professionista, che
invoca il più ristretto grado di colpa di cui all’art. 2236 cod. civ., provare che
la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà,
mentre spetta al paziente danneggiato provare quali siano state le modalità
di esecuzione ritenute inidonee (95). È il paziente a dover provare che
l’intervento era di facile o rutinaria esecuzione ed in tal caso il professionista
ha l’onere di provare, per non incorrere in responsabilità, che l’insuccesso
dell’operazione non è dipeso da un difetto di diligenza propria (96). Al
fine di scongiurare il rischio di ipotizzare in capo al medico una ipotesi di
obbligazione di risultato e non di mezzi, la Cassazione ricorre al modello
della res ipsa loquitur, ossia al criterio dell’evidenza circostanziale, tipico
degli ordinamenti di common law (laddove, tuttavia la responsabilità medica
è di carattere aquiliano, cfr. pr. 6). La res ipsa loquitur opera come una
presunzione di colpa, ma è un principio tipico della responsabilità extracontrattuale.
Nel caso della responsabilità medica verrebbe “prestato” alla
responsabilità contrattuale. Relativamente all’applicabilità dell’art. 2236 c.c.
la Cassazione, per giustificarla anche al di fuori delle fattispecie del contratto
d’opera intellettuale, sostiene che la regola di cui al predetto articolo si
configura come un limite di responsabilità per la prestazione dell’attività
professionale in genere, sia che essa si svolga nell’ambito di un contratto, sia
che venga riferita al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio.
“L’applicazione della res ipsa loquitur all’attività medica rappresenta uno
dei tanti modi di supplire alle circostanze incerte con cui le regole della
responsabilità civile fanno i conti quando sono calate nel processo, e non v’è
ragione di dubitare che anche in questo caso l’applicazione della regola
rifletta, in modo più o meno consapevole, la scelta di risparmiare sul prezzo
dell’accuratezza della decisione” (97).
19. Il medico considerato come non un semplice quisque de populo
Il modello del cumulo è stato superato in quanto il medico dipendente
non può essere considerato come un semplice quisque de populo soggetto
soltanto a quel dovere del neminem laedere che grava su ciascun consociato
(98). La struttura della responsabilità medica risulta atipica laddove si
DOTTRINA 297
(95) In tal senso: Cass. 3 dicembre 1974, n. 3957, in Rep. Foro it. 1974, voce
Professioni intellettuali, n. 23; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1127.
(96) Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, cit.; Cass. 30 maggio 1996, n. 5005, in Rep. Foro
it. 1996, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 167; Cass. 18
novembre 1997, n. 11440.
(97) U. IZZO, Il danno da contagio post-trasfusionale come danno evidenziale? Regole
e concetti in tema di presunzioni e responsabilità, in Danno e resp., 2001, 250.
(98) V.CARBONE, Responsabilità del medico come responsabilità da contatto, in Danno
e resp., 1999, 3, 303. G. CHINÉ, Contratto di massa, voce Enc. dir. aggiornamento, 1997,
403 ss.; R. SACCO, Il contratto di fatto, in Trattato di dir. priv., Obbligazioni e contratti, II,
diretto da P. Rescigno, 52 ss.
riscontra che, anche quando è stata collocata all’interno della responsabilità
aquiliana, ad essa sono comunque applicati istituti propri della responsabilità
contrattuale, quali la distinzione in obbligazioni di mezzo e di risultato, il
criterio della diligenza professionale, il richiamo a regole di causalità materiale,
nonché la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. (99). La
Cassazione ha infatti ravvisato nell’art. 1173 c.c., sfruttandone al massimo il
dettato “aperto”, la fonte dell’obbligazione di tipo contrattuale tra paziente e
medico ospedaliero, partendo dal presupposto che la professione medica sia
una professione protetta, anche dal punto di vista penale, considerato che il
suo abusivo esercizio configura una fattispecie di reato ai sensi dell’art. 348
c.p. e che l’esercizio dell’ars medica è considerato un servizio di pubblica
necessità del quale il cittadino è per legge obbligato ad avvalersi (art. 359, n.
1, c.p.). L’attività medica, inoltre, incide sul bene della salute che è di rilevanza
costituzionale (art. 32 Cost.) e proprio per questo la deontologia ricade
nell’ambito della normativa civile ai sensi dell’art. 1337 c.c., che impone
il generale dovere di correttezza alle parti, nonostante manchi un vincolo
contrattuale. Tutti questi elementi contribuiscono a far sorgere l’obbligazione
nel momento che il paziente entra in “contatto” con il medico. La scelta
del modello di responsabilità contrattuale da parte della Cassazione si spiega
in quanto, a differenza della responsabilità aquiliana, permette di sanzionare
anche la culpa in non faciendo e non solo la culpa in faciendo: il paziente
chiede al medico di essere curato e, dunque, il medico non è tenuto solo a
non peggiorare la salute del paziente bensì a migliorarla. L’art. 2043 c.c.,
invece, può essere invocato per sanzionare una lesione del diritto alla salute,
qualora il soggetto già versi in uno stato patologico e lo peggiori. È il comportamento
richiesto al medico che legittima e giustifica il ricorso al modello
contrattuale, atteso che egli ha l’obbligo di garantire la tutela di interessi
esposti a pericolo nel momento in cui avviene il contatto sociale, essendo il
suo obbligo più intenso del generico neminem laedere che incombe sulla
generalità dei consociati, configurandosi come obbligo di protezione (100).
298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(99) F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente, cit., 50, nota 24.
Relativamente all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. l’autore evidenzia che la Cassazione, per
giustificarla anche al di fuori delle fattispecie del contratto d’opera intellettuale, ha sostenuto
che la regola di cui al predetto articolo si configura come un limite di responsabilità per
la prestazione dell’attività professionale in genere, sia che essa si svolga nell’ambito di un
contratto, sia che venga riferita al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio, Cass.,
sez. un., 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, I, 1476. Cfr. anche Cass. 19 maggio
1999, n. 4852, in NGCC, 2000, 226, con nota di C. PARODI, Il percorso evolutivo del danno
riflesso.
(100) Tale fattispecie viene inquadrata dalla dottrina tedesca (LARENZ, SCHULDRECHT,
Munchen, 1982, I, 13, 101) nelle obbligazioni senza (obbligo primario di) prestazione, nell’ambito
del principio del dogma della volontà, ossia del dominio della volontà nell’ambito
negoziale, cfr. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico op. cit., 4; C. CASTRONUOVO,
L’obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e torto, in La nuova responsabilità
civile, 2 ed., Milano, 1997, 198.
Il medico sarà dunque imputabile di culpa in non faciendo qualora non abbia
fornito al paziente cure adeguate rispetto all’affidamento e alle richieste formulate
(101). Dalla configurazione della responsabilità contrattuale del
medico dipendente discendono vantaggi inequivocabili in capo al paziente,
sotto il profilo del regime probatorio, della colpa, del termine prescrizionale,
dell’imputabilità del fatto dannoso.
20. Gli effetti dello shopping del diritto e l’esigenza che la forma giuridica
sia il più possibile aderente alla realtà materiale
Elementi della responsabilità extracontrattuale, come la res ipsa loquitur
sono prestati a quella contrattuale ed elementi di quella contrattuale, come
l’onere della prova, sono prestati a quella extracontrattuale. Gli effetti dello
shopping del diritto hanno condotto la giurisprudenza ad alleggerire l’onere
probatorio del paziente danneggiato in occasione di prestazioni mediche di
routine di interventi ad alta vincolatività. Hanno inoltre ridotto l’ambito di
discrezionalità tradizionalmente accordato all’agire del professionista, elevando
i requisiti quantitativi e qualitativi delle informazioni che il medico
deve comunicare al paziente per consentirgli di valutare appieno l’opportunità
di intraprendere l’atto terapeutico o diagnostico prospettatogli. Si sminuisce
così il rilievo pratico dell’attenuazione del regime di imputazione
della responsabilità previsto dall’art. 2236 c.c. in caso di prestazioni implicanti
la soluzione di problemi tecnici di speciali difficoltà: vengono differenziati
i criteri di valutazione della condotta medica impiegati in particolari settori
della medicina (medicina estetica, odontoiatrica, medicina psichiatrica,
trasfusionale ecc.). Si connota in senso sempre più marcatamente oggettivo
l’imputazione dei danni iatrogeni subiti dal paziente a causa di una mancanza
tecnico gestionale attribuibile alla struttura sanitaria, con l’estensione dell’area
del danno risarcibile grazie all’impiego del criterio di collegamento tra
condotta ed evento che concede una rilevanza crescente all’idea della perdita
di chances (è il caso della responsabilità medica per la nascita di un figlio
indesiderato). Fra questi obblighi accessori posti a carico del medico rientra
anche l’obbligo di informazione e di sorveglianza sulla salute del soggetto,
anche nella fase postoperatoria (102). In questo quadro la più penetrante
tutela risarcitoria accordata al paziente dall’evoluzione giurisprudenziale
pone notevoli problemi assicurativi e minaccia di alimentare la pratica della
c.d. medicina difensiva, come già da decenni accade negli Stati Uniti. I principi
dettati in tema di responsabilità contrattuale hanno permesso di affermare
che anche i medici sono tenuti a rispettare i c.d. obblighi di protezione,
ossia quegli obblighi accessori alla prestazione principale (diagnosi o cura)
DOTTRINA 299
(101) Per le critiche a questa impostazione v. A. DI MAJO, L’obbligazione senza prestazione
approda in Cassazione, in Corr. giur. 1999, 4, 450.
(102) A. LANOTTE, nota a Cass. 21 luglio 2003, n. 11316 in Foro It., 2003, I, 2970.
Cass. 11 marzo 2002, n. 3492, in Riv. it. med. leg. 2003, 449.
che, se pur non espressamente stabiliti, sono posti a carico del debitore al
fine di rafforzare la tutela del creditore. Grazie a questi concetti si è potuto
ampliare il raggio di azione della responsabilità contrattuale, ricomprendendovi
anche la violazione degli obblighi esterni alla prestazione principale,
altrimenti destinati a ricevere tutela in base ai principi della responsabilità. Il
fenomeno giuridico è strettamente collegato al mutare della sensibilità sociale
nei confronti degli esiti infausti della cura, che a sua volta riflette maggiori
aspettative di certezza ed infallibilità che il progresso scientifico e tecnologico
proietta sull’immagine sociale della medicina. L’esistenza di quell’obbligo-
dovere che condiziona l’opera sanitaria fa sì che quest’ultima
assurga a una sorta di contratto di fatto del diritto alla salute.
21. Conclusioni
Quei vuoti, che il nostro ordinamento purtroppo contiene essendo vecchio
rispetto all’esigenza attuale di giustizia, consentono sempre di più il
ricorso a locuzioni contrabbandate da diritti stranieri, come il contratto di
fatto, il contratto con effetti protettivi o il sofisma del diritto vivente, elaborazione
dottrinaria e giurisprudenziale. Ma per avere una risposta alle più
pressanti ed attuali esigenze anche la ricostruzione operata dalla Corte di
Cassazione, per quanto logica e giuridicamente esatta, non può costituire un
punto definitivo. Si lasciano aperti altri spazi di indagine che riguardano, al
di là della teoria, la quotidiana pratica dei diritti dei pazienti. A seguito delle
mutate conoscenze scientifiche e del sorgere di nuovi valori, sono state elaborate
nuove situazioni soggettive, collegate ai diritti umani, non ancora
consapevolmente protette. La giurisprudenza è pervenuta ad una opzione
metodologica che vuole apprestare una esaustiva organizzazione sistematica
e ordinatoria all’esperienza medica degli ultimi decenni. Il problema è che si
sta creando una giurisprudenza che interpreta estensivamente le norme del
codice. Si vuole dare maggiore visibilità a un ribaltamento di significati con
un certo, bisogna dirlo, esautoramento di talune norme di quello che a tutt’oggi
resta in ogni caso il principale strumento normativo di regolazione
della disciplina privatistica. Il nuovo non va disperso ma riorganizzato e
riqualificato con un’opera di puntuale e rigorosa verifica dell’intero impianto
di concetti e categorie ordinatrici. Il rischio è una confusione concettuale
o la creazione di rigide barriere probatorie e processuali in grado di condizionare
negativamente il delicato esercizio dell’attività medica.
300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Responsabilità medica e consenso informato.
Prospettive di risoluzione stragiudiziale delle
controversie.
di Giuseppe Camardi(*)
SOMMARIO: 1.– Premessa. Evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità professionale
medica. 2.– Consenso informato e responsabilità del medico. 3.– Prospettive di
conciliazione stragiudiziale in ambito medico.
1. Premessa. evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità professionale
medica.
La relazione fra medico e paziente, così come tutte le relazioni umane, è
contraddistinta da un esile reticolo di elementi emotivi e cognitivi, a volte
difficile e conflittuale.
Solamente il medico è, per il paziente, in grado di ristabilire l’equilibrio
interrotto dalla malattia ed è per tale motivo che egli accetta di affidargli la
cura del proprio corpo pur di ritrovare il proprio benessere. Il medico sperimenta
quotidianamente la pesante responsabilità di colui al quale è affidata
la salute ed in generale la vita stessa di altri individui, difatti, quando il rapporto
medico-paziente (1) viene turbato da un errore professionale, le conseguenze
possono essere particolarmente gravi (2).
L’esercizio della professione medica invero “si caratterizza per l’ispirazione
ideale e per l’elevato valore etico nonché sociale, ma anche per l’idoneità
ad integrare fattispecie illecite, essendo destinato a realizzarsi sulla
persona (3)”.
Il regime della responsabilità medica può tuttavia considerarsi “un sistema
composito” (4) in quanto, accanto all’elementare rapporto medico-paziente,
deve necessariamente collocarsi l’insieme delle relazioni che si istituiscono
DOTTRINA 301
(*) Dottorando di ricerca in Diritto processuale civile nell’Università degli Studi di
Bologna, già praticante avvocato nell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Firenze.
(1) Così PALMIERI A. , Relazione medico-paziente tra consenso “globale” e responsabilità
del professionista, in Nuova Giur. civ. comm. 13, 573, 1997, nota a Cass. civ. 15 gennaio
1997, n. 364, in Foro it. 121, I, 771.
(2) In questi termini GADDI D., MAROZZI F., QUATROCOLO A., Voci di danno inascoltate:
mediazione dei conflitti e responsabilità professionale medica, in Riv. it. medicina legale
2003, 5, 839.
(3) Così FRATI P., MONTANARI VERGALLO G., DI LUCA N. M., Gli effetti del consenso
informato nella prospettiva civilistica, in Riv. it. medicina legale 2002, 4-5, 1035.
(4) ALPA G., La responsabilità medica, in Resp. Civ. e prev. 1999, 315; GUERINONI E.,
“Vecchio”e “nuovo” nella responsabilità del medico: un campionario di questioni e soluzioni,
Resp. Civ. e prev. 2001, 3, 598.
allorché un soggetto diviene destinatario di prestazioni mediche di qualsiasi
natura, preventive, diagnostiche, terapeutiche, ospedaliere, chirurgiche, estetiche,
assistenziali, ecc.
La responsabilità medica concerne pertanto la struttura ospedaliera, il
personale sanitario, medico e paramedico (5).
La giurisprudenza, da tempo, ha elaborato regole universali concernenti
la misura della diligenza, l’onere della prova, la presunzione della colpa e del
nesso causale (6), nonché l’attenuazione della responsabilità in presenza di
quesiti specialistici di particolare difficoltà (7). La riconduzione della
responsabilità medica nell’ambito della fattispecie contrattuale comporta che
essa possa essere equiparata alla responsabilità professionale con la conseguente
applicazione delle disposizioni normative di cui agli articoli 1176,
commi 1 e 2, c.c. e 2236 c.c. (8).
In tema di qualificazione del dovere di diligenza del medico (9), si conferma
in giurisprudenza la tendenza che individua in tale soggetto un debitore
qualificato (10). Infatti, il “medico chirurgo nell’adempimento delle
obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza
che non è solo quella del buon padre di famiglia..., ma è quella speci-
302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(5) Fra i tanti, BARNI M., Diritti doveri responsabilità del medico. Dalla bioetica al biodiritto,
Milano, 1999; BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, III edizione,
Padova, 1998.
(6)A riguardo si veda LUMETTI M. V. e altri, Il risarcimento del danno nel processo civile
amministrativo, amministrativo contabile, penale, tributario, Maggioli, 2003, 215 ss.
(7) MONATERI G.P. , La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da
Sacco, 1998, 751 ss.
(8) CASTRONOVO C., Profili della responsabilità medica, in Vita not., 1997, 1223 ss.;
PRINCIGALLI A. M., La responsabilità del medico, Napoli, 1983. Come ha sottolineato
GUERINONI E., in “Vecchio”e “nuovo” nella responsabilità del medico: un campionario di
questioni e soluzioni, cit, fondamentale a riguardo è il delicato tema concernente l’oggetto
della prestazione medica in relazione alla classica ripartizione fra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato. La giurisprudenza ha utilizzato la suddetta distinzione al fine di
individuare l’oggetto dell’obbligazione nell’esercizio di attività concernenti prestazione
d’opera intellettuale ex art. 2230 ss. c.c. . A riguardo si è fatto riferimento ad un concetto di
diligenza la cui violazione rientra nella c.d. “ colpa professionale” costituendo dunque inadempimento
di un obbligazione di mezzi.
In tal modo si è rafforzato l’orientamento secondo cui la responsabilità del professionista
intellettuale non scaturisce affatto dal mancato raggiungimento del risultato sperato dal
paziente bensì dal mancato utilizzo da parte del sanitario della necessaria diligenza richiesta
dalla particolare attività svolta.
(9) MENGONI L., Obbligazioni di “risultato” e obbligazioni di “mezzi”, in Riv. dir.
comm., 1954, I; DI MAJO A. , Delle obbligazioni in generale, in Comm. Cod. civ. Scialoja-
Branca, Bologna-Roma, 1988, sub art. 1176. Sempre sul tema della distinzione tra obbligazioni
di mezzo e obbligazioni di risultato in ambito medico, alcuni autori, tra cui VACCÀ C.,
L’intervento di chirurgia estetica è di risultato?, in Resp. Civ. e prev. 1986, sostengono che
l’obbligazione del chirurgo plastico sia da considerarsi un’obbligazione di risultato.
(10) GUERINONI E., “Vecchio”e “nuovo” nella responsabilità del medico: un campionario
di questioni e soluzioni, cit., 598.
fica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176, comma 2, c.c., la
quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro
insieme costituiscono la conoscenza della professione medica”.
La diligenza ex art. 1176, comma 2 deve essere intesa come comprensione
e concretizzazione delle regole procedurali proprie di una determinata
professione. Sebbene il grado di diligenza deve essere valutato con riferimento
al caso concreto (11), la limitazione della responsabilità professionale
di cui all’art. 2236 c.c. relativa ai soli casi di dolo e colpa grave “attiene
esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare
difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza” che non
rientrano affatto nella suddetta restrizione (12). La Cassazione (13), con riferimento
all’onere probatorio, ritiene che incombe in capo al professionista
fornire la prova che la prestazione presentava problemi tecnici di particolare
difficoltà.
L’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni pertanto, stimola ad una
scrupolosa riflessione sul decisivo input impresso dal diritto vivente ai principi
che regolamentano il sistema della responsabilità civile medica (14).
La giurisprudenza infatti, in ambito sanitario, ha cercato di assicurare la
concreta attuazione dei diritti inviolabili dell’uomo al fine di pervenire ad
una più ampia ed accessibile riparazione dei danni lamentati dal paziente,
sforzandosi di valorizzare le potenzialità della responsabilità civile in senso
preventivo (15).
I mezzi per poter realizzare un sistema visibilmente preventivo in ambito
di “malpractice medica” devono inevitabilmente basarsi sul c.d. studio
epidemiologico della prevenzione dei conflitti nel settore della responsabilità
professionale analizzando la frequenza con la quale si effettuano errori
DOTTRINA 303
(11) STANZIONE P, ZAMBRANO V., Attività sanitaria e responsabilità civile, Milano,
1998; GAGGIA F., In tema di responsabilità del medico, in Giur. it. 1998, I, 40.
(12) Cfr. Cass. civ. , 19 maggio 1999, n. 4852, Foro it. , 1999, I, 2874.
(13) Cass. civ. 4 febbraio 1998, n. 1127, in Giur. it., 1998, 1800; Cass. civ., sez. III, 22
gennaio 1999, 598, in Giur. it., 2000, 740, LUMETTI M. V.e altri, Il risarcimento del danno nel
processo civile, amministrativo, amministrativo contabile, penale, tributario, cit., 222 ss.
(14) FINESCHI V., ZANA M., La responsabilità professionale medica: l’evoluzione giurisprudenziale
in ambito civile tra errore sanitario e tutela del paziente, in Riv. it. medicina
legale 2002, 1, 49.
(15) BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, IV edizione, Cedam,
Padova, 2001; il paziente, che si appresta a essere curato, è dunque sostenuto da una “tutela
forte” tanto che negli ultimi anni si è giunti a dichiarare la responsabilità contrattuale delle
strutture sanitarie per insufficienze relative all’organizzazione che siano però riconosciute
causa unica ed accertata con “ragionevole probabilità” di danni subiti dagli utenti della suddetta
struttura. Si fa riferimento ad esempio, ai danni subiti dai pazienti per carenze relative
ai tempi eccessivi di attesa per visite specialistiche, dall’assenza di un servizio di anestesia
e rianimazione in un ospedale pediatrico ove si pratichino interventi chirurgici complessi,
dall’inefficienza della strumentazione nella sezione di rianimazione neonatale (Cass., 19
maggio 1999, n. 4852), dalla mancanza di un cardiotografo funzionante (Cass., 16 maggio
2000, n. 6318), ecc.
medici in una determinata struttura sanitaria, i fattori che hanno contribuito
a generarli e i sacrifici in termini monetari patiti dai pazienti.
L’istituto della responsabilità civile in senso preventivo influenza tutti i
settori del giudizio di responsabilità medica adottando il regime giuridico
proprio della responsabilità contrattuale (16) a prescindere dalla fonte dell’obbligo
di cura e considerando il consenso informato tra le prerogative
riconosciute al paziente nell’esercizio del diritto alla salute (17).
2. Consenso informato e responsabilità del medico
Nell’ambito dei diversi settori della responsabilità medica la discussione
si è concentrata su varie questioni.
Grande rilevanza riveste il delicato tema del c.d. “consenso informato”
strettamente legato agli obblighi di informazione sulla natura, il decorso ed i
postumi di un determinato intervento chirurgico o di una certa terapia. La
formazione del consenso ad uno specifico trattamento sanitario presuppone
un precisa informazione (18) da parte del medico cui è richiesta la prestazione
sanitaria. Il difetto di informazione non consentendo di ottenere un consenso
informato da parte del paziente dà luogo ad un illecito.
Il suddetto dovere di informazione consiste nell’obbligo di informare il
paziente sulla natura dell’intervento, sulle possibili difficoltà, sugli eventuali
rischi e sulle probabili conseguenze del trattamento sanitario nonché l’indicazione
delle diverse alternative a quell’intervento. L’obbligo in questione
“si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del
304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(16) Ariguardo occorre chiarire che il superamento dello stabile indirizzo giurisprudenziale
che qualificava come contrattuale la responsabilità delle strutture sanitarie nei confronti
del paziente, ed extracontrattuale la responsabilità degli operatori in esse operanti, sembra
essersi compiuto con l’asserzione della Cassazione secondo cui “l’obbligazione del medico
dipendente del servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente,
ancorché non fondata su contratto, ma sul ‹‹contatto sociale›› connotato dall’affidamento
che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta, ha natura
contrattuale”.”... stante la natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente,
come di quella dell’ente gestore del servizio sanitario, i regimi di ripartizione dell’onere
della prova, del grado della colpa e della prestazione sono quelli tipici delle obbligazioni
da contratto d’opera intellettuale professionale” ; Cass. 22 gennaio 1999, 598, cit. ; Alla
stessa conclusione giunge Cass. civ., 8 gennaio 1999, n. 103, con riferimento alle strutture
private per l’attività dei medici in esse operanti, anche in assenza di un rapporto fiduciario
di prestazione d’opera professionale e altresì qualora i suddetti medici non rientrino nell’organizzazione
aziendale delle strutture stesse.
(17) GALGANO F. , Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv.
Trim. Dir. Proc. Civ., 1984; FINESCHI V., ZANA M., La responsabilità professionale medica:
l’evoluzione giurisprudenziale in ambito civile tra errore sanitario e tutela del paziente, cit.;
Comitato nazionale di Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, Roma, 1992, 64.
(18) FERRANDO G., Chirurgia estetica, “consenso informato”del paziente e responsabilità
del medico, in Nuova giur. civ. comm. , 1995, I; MATTEIS R., Consenso informato e
responsabili, in Danno e Responsabilità del medico 1, 215, 1996.
fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non
potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza
di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una
qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale
intervento (19)”.
La funzione principale del consenso è quella di consentire al paziente
una scelta libera e cosciente sulla eventualità di sottoporsi o meno ad un
determinato trattamento ed il suo fondamento lo si individua nella sfera
dei diritti costituzionali della persona di cui agli articoli 13, 32 e 2 Cost.
che sono espressione del c.d. principio personalistico (20). Il consenso
del paziente alla prestazione medico chirurgica deve essere personale,
espresso o tacito, specifico e consapevole. Esso infatti, frutto di una scelta
ragionata e di una conoscenza precisa e dettagliata della situazione,
deve essere diretto ad un preciso fine (21). Tuttavia i requisiti del consenso
devono essere articolati in funzione delle molteplici necessità terapeutiche.
Sul tema degli effetti, si è constatato che la volontà del paziente è soggetta
al vincolo di cui all’art. 5 c.c. che, vietando “gli atti di disposizione del
proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica”,
esprimerebbe la parziale disponibilità del proprio organismo (22) limitando
visibilmente l’efficacia scusante del consenso solamente ad una parte
degli interventi chirurgici, abbandonando nell’illecito quei trattamenti che,
essendo idonei ad influire ineluttabilmente sull’integrità fisica, si mostrano
DOTTRINA 305
(19) Cass. , 15 gennaio 1997, n. 364, in Resp. Civ., 1997, 1310. Così anche Cass., sez.
civ., 24 settembre 1999, n. 9374, in Riv. it. med. leg., 1999 secondo cui “la necessità del consenso
del paziente all’attività medica discende dal principio costituzionale della inviolabilità
della persona umana ed impone che negli interventi chirurgici con varie fasi, che assumano
una propria autonomia gestionale e diano luogo a scelte operative diversificate,
ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo di informazione del sanitario si estenda
alle singole fasi ed ai rispettivi rischi”.
(20) A riguardo, Cass. civ. , 23 maggio 2001, n. 7027; Cass. civ. , 25 novembre 1994,
n. 10014 ; Cass. civ., 15 gennaio 1997, n. 364, ecc., secondo cui “la necessità del consenso
si evince, in generale dall’art. 13 della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della
libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi inclusa la libertà di salvaguardare la propria
salute e la propria integrità fisica”. Estremamente critica verso l’orientamento giurisprudenziale
è una parte minoritaria della dottrina tra cui DONATI A., Consenso informato e
responsabilità da prestazione medica, in Rass. Dir. Civ. 21, 1 e 7, 2000, secondo cui le
disposizioni costituzionali sopracitate sono connotate da una valenza prettamente pubblicistica,
e non sono pertanto idonee a regolare relazioni di diritto privato.
(21) La più completa ricerca volta sul punto risulta essere l’indagine elaborata da
BARBUTO G., Alcune considerazioni in tema di consenso dell’avente diritto e trattamento
medico chirurgico, in Cass. pen. 2003, 1, 327.
(22) D’ADDINO-SERRAVALLE P., Atti di disposizione del proprio corpo e tutela della persona
umana, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1983; RODRIGUEZ D., Ancora in tema di consenso
all’atto medico chirurgico, in Riv. it. med. leg. 13, 1117, 1991.
(23) FRATI P., MONTANARI VERGALLO G., DI LUCA N. M., Gli effetti del consenso informato
nella prospettiva civilistica, cit.
più pericolosi sotto il profilo della responsabilità professionale (23). In senso
opposto, comunque, si è affermato (24) che il riconoscimento costituzionale
del diritto alla salute renderebbe praticamente inapplicabile il divieto ex art.
5 c.c. agli atti di disposizione del proprio corpo a scopo terapeutico, diversamente
si metterebbe a repentaglio il diritto di curarsi al fine di preservare
l’integrità fisica. È opportuno dunque considerare il concetto di integrità non
circoscrivendolo alla semplice integrità anatomica, ma prendendo in considerazione
anche il profilo funzionale.
L’ottenimento del consenso da parte del sanitario non limita affatto la
sua responsabilità per inosservanza delle c.d. “leges artis” poiché il
paziente, attraverso l’espressa dichiarazione di volontà, accetta il rischio
presente in ogni trattamento chirurgico, ma non effettua sicuramente una
dichiarazione di esonero da responsabilità colposa. Si evince dunque chiaramente
la diversità funzionale tra responsabilità colposa nell’esercizio
della prestazione medica e responsabilità per carente o omessa informazione
(25).
Occorre soffermarsi ora sul delicato tema dell’inadempimento dell’obbligo
di informazione e della conseguente responsabilità civile. L’orientamento
della giurisprudenza è oscillante e si limita all’accertamento della mancanza di
informazioni ai fini della risarcibilità (26).
La Cassazione (27), considerando l’obbligo di informazione insito
nella complessa prestazione medica, perviene ad inquadrare l’eventuale
inadempimento o inesatto adempimento come responsabilità contrattuale.
A riguardo tuttavia, una parte della dottrina (28) sostiene che ai fini dell’accertamento
della responsabilità del medico occorre considerare attentamente
la decisione che il paziente avrebbe preso se fosse stato regolarmente
informato.
L’inadempimento dell’obbligo d’informazione quindi, darebbe luogo ad
illecito civile non appena il paziente venisse sottoposto ad una terapia alla
quale non avrebbe acconsentito se fosse stato correttamente informato sugli
eventuali rischi con la conseguenza che il risarcimento, a carico del medico,
sarà commisurato alle lesioni connesse al trattamento sanitario. In questo
306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(24) MANTOVANI F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero,
Cedam, Padova, 1974; GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, Giuffrè, 1964.
(25) SANTOSUOSSO A. Sentenze e rapporto tra medici e pazienti: il punto, Professione,
5, 1997.
(26) Corte App. Genova, 5 aprile 1995, con nota di DE MATTEIS R., Consenso informato
e responsabilità del medico, in Danno e Resp. 1, 215, 1996.
(27) Cass. civ., 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro It. 125, I, I 2504, 2001; Cass. civ., 29
marzo 1976, n. 1132, Rep. Foro It. 1977, voce Professioni intellettuali, n. 59.
(28) QUADRI E., La responsabilità medica tra obbligazione di mezzi e di risultato, in
AA. VV., Il rischio in medicina oggi e la responsabilità professionale; BIANCA C. M.,
Diritto civile, vol. III, Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000; ROPPO V., Il contratto, in Tratt.
Dir. Priv., di G. Iudica e P. Zatti, Giuffrè, Milano, 2001; FRATI P., MONTANARI VERGALLO G.,
DI LUCA N. M., Gli effetti del consenso informato nella prospettiva civilistica, cit.
modo però, la verifica della responsabilità è legata a calcoli probabilistici
perchè soltanto in casi eccezionali si potrebbe accertare cosa avrebbe fatto il
paziente se avesse avuto le opportune informazioni (29).
L’obbligo di informazione assume un speciale rilievo altresì in tutte le
ipotesi di nascita indesiderata (30).
In particolare un’importante ipotesi di danno da nascita indesiderata si
verifica in caso di omessa informazione circa la malformazione del feto, qualora
ai genitori sia stato ‹‹impedito di avvalersi del rimedio abortivo›› (31),
e ciò anche qualora il neonato nasca sano (32). La mancata informazione da
parte del sanitario circa la presenza di malformazioni nel feto è considerata
fonte di danno risarcibile poiché viola il diritto della madre ad effettuare l’in-
DOTTRINA 307
(29) A riguardo comunque così come sottolineano FRATI P., MONTANARI VERGALLO G.,
DI LUCA N. M., cit., 1039 :“sulla ricorrenza pratica di questo problema influisce la distinzione
tra trattamenti sanitari ‹‹necessari›› e ‹‹d’elezione››. I primi sono quelli che permettono
di impedire che una situazione di pericolo attuale evolva in un danno grave alla persona.
In questi casi non si pone il problema di valutare che cosa avrebbe fatto il malato se
fosse stato esaustivamente informato né quello della misura dell’informazione perchè l’intervento
sanitario è giustificato dall’art. 54 c.p. Tuttavia anche nei trattamenti necessari
l’indagine sulla volontà del paziente torna ad essere rilevante se si inferisce dai principi
costituzionali il diritto di rifiutare le cure, qualora ovviamente il soggetto sia cosciente. Nei
trattamenti sanitari d’elezione, invece, la situazione, pur essendo seria, lascia al paziente
un margine di scelta in relazione al momento in cui eseguire la prestazione medica o anche
all’an della stessa. Di conseguenza l’analisi dell’ipotetica decisione che il malato avrebbe
preso se fosse stato diligentemente informato e la scelta di quali informazioni fornire e quali
tacere assumono un ruolo peculiare, destinato a connotarsi variamente a seconda del trattamento
di volta in volta indicato”.
(30) GIACALONE G., Sull’obbligo di informazione del medico circa le malformazioni del
feto e sulla domanda risarcitoria proposta dal padre, in Giust. Civ., 1989; BUCKMAN R., La
comunicazione della diagnosi in caso di malattie gravi, Raffaello Cortina Editore, Milano;
DE FAZIO F., Quale informazione per quale consenso, in RIGO G. P., SILINGARDI E.,
MASTRONARDI M. ( a cura di), Il consenso informato in endoscopia digestiva, Società
Italiana di Endoscopia Digestiva, Sezione Emilia Romagna, Atti del Convegno annuale,
Modena 13 aprile 1991.
(31) BONA M., Mancata diagnosi di malformazioni fetali: responsabilità del medico
ecografista e risarcimento del danno esistenziale da”wrongful birth”, nota a Trib. Locri,
sez. Siderno, 6 ottobre 2000. Nel caso di specie il Tribunale ha provveduto a condannare l’ecografista
che non si era accorto, malgrado l’esecuzione di tre ecografie, di evidenti malformazioni
del feto. FRANZONI M., Fatti illeciti, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-
Roma, 2004, sub art. 2043, 2056-2059, Supplemento, 104; sul punto la giurisprudenza ha
stabilito che “qualora sussistano tutti gli elementi previsti dalla legge perchè la gestante
possa esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza e risulti provato che la stessa, se
fosse stata esattamente informata dal medico sulle malformazioni del feto, avrebbe effettivamente
esercitato tale diritto, il medico non abbia adempiuto al dovere di informazione
incorre in responsabilità contrattuale e deve risarcire non solo il danno alla salute in senso
stretto, ma anche il danno biologico in tutte le sue forme...”. Cfr. Cass., 10 maggio 2002, n.
6735; Cass., 1 dicembre 1998, n. 12195.
(32) BARATTO A., Il risarcimento del danno per mancato esercizio del diritto all’interruzione
della gravidanza: un problema aperto, in Giur. it., 1999, 44.
terruzione della gravidanza. Si deve comunque precisare che il comportamento
del medico costituisce fonte di danno unicamente qualora si dimostri
che, se la madre fosse stata rapidamente informata, avrebbe effettuato lecitamente
l’aborto.
Sebbene il consenso sia rimesso, per legge, a colui il quale esercita la
potestà genitoriale, negli ultimi anni, si è assistito ad un progressivo accrescimento
dell’area in cui il minore è in grado manifestare la propria libertà
decisionale. L’ordinamento giuridico italiano infatti, riconosce al minore la
possibilità di esprimere il consenso/dissenso in diversi settori del diritto, sia
in ambito penalistico sia ambito civilistico.
Nell’ambito della sperimentazione farmacologica, occorre evidenziare
le “Disposizioni Generali per la sperimentazione clinica in pediatria” le
quali prevedono una serie di disposizioni normative di estrema importanza
ai fini del nostro studio (33). In primo luogo infatti, si prevede che “... nessuna
sperimentazione può essere effettuata sul minore prima di aver ottenuto
l’assenso dello stesso e comunque il consenso informato dei genitori o di
chi esercita la potestà genitoriale...” “...qualora in relazione all’età il consenso
o l’assenso del minore non possano essere acquisiti, lo sperimentatore
dovrà comunque essere in grado di fornire al partecipante alla ricerca
informazioni adeguate e comprensibili e garantire che non si pervenga ad
una partecipazione forzata e involontaria (34). Si desume poi chiaramente,
proseguendo l’esame della normativa suddetta, che “il minore ha il diritto di
rifiutare la propria partecipazione ad una sperimentazione clinica. Lo sperimentatore
tiene conto di tale rifiuto purché tale rifiuto non metta in pericolo
la vita del soggetto” ed in casi particolari e “a giudizio dello sperimentatore
o del Comitato Etico il bambino ha diritto ad un’ulteriore protezione
e ad essere assistito da un mediatore esterno alla famiglia” ai fini della formazione
della sua volontà (35).
308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(33) BARBIERI C., RONCAROLI P., LOCATELLI F., Il consenso del minore all’atto medico.
Importanza dell’informazione e valenze terapeutiche anche alla luce di un caso clinico, in
Riv. it. medicina legale 2003, 5, 875.
(34) Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle province autonome, documento
del 18 e 19 giugno 2003: Linee guida per la Sperimentazione clinica dei Farmaci in età
pediatrica, http://www.regioni.it/fascicoli_conferen/Presidenti/2003/giugno/18_19_06_03/
18e19062003_linee_guipediatr.htmodg-mar;
(35) Comunque sia sulla base di quanto delineato dal Comitato nazionale per la
Bioetica in Informazione e consenso all’atto medico, Presidenza del Consiglio dei
Ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 22 gennaio 1994, le decisioni
del bambino fino a sei anni apparirebbero guidate da un pensiero incantato e magico
tanto da affermare “l’impossibilità di un autonomo consenso prima dei 6-7 anni” consenso
concepibile “tra 7 e 10-12 anni, ma ... da considerare insieme con quello dei genitori”,
per divenire poi indipendente nell’età adolescenziale. “Dopo i 14 anni è prioritario il
consenso dell’adolescente”.
3. Strumenti alternativi di risoluzione delle controversie in ambito medico
Il progresso medico scientifico e l’accentuata tutela della salute hanno
aumentato le aspettative da parte dei cittadini nei confronti delle prestazioni
sanitarie tanto da favorire un incremento delle pretese risarcitorie determinate
da possibili errori medici o eventuali insufficienze connesse a trattamenti
diagnostici, curativi o semplicemente assistenziali.
Conseguenza diretta di tale situazione è senza dubbio una crescita anomala
del contenzioso giudiziario civile e penale in tema di responsabilità
medica (36). Tuttavia va sottolineato che, sebbene la giurisprudenza, negli
ultimi anni, si sia mostrata particolarmente inclemente nei confronti della
classe medica prestando crescente attenzione agli interessi e alle aspettative
del paziente, quest’ultimo incontra comunque rilevanti difficoltà nel far valere
in giudizio i propri diritti. Si pensi ad esempio alla fatica legata all’accertamento
della colpa professionale e alla dimostrazione del nesso causale, alla
durata dei processi e alle conseguenti spese legali.
Accanto al contenzioso giudiziario però, al fine di deflazionare il pesante
carico dei giudici ordinari, hanno assunto sempre maggiore rilevanza altri
sistemi di gestione dei conflitti (37) qualificati da una maggiore flessibilità,
rapidità, efficienza e vicinanza ai bisogni dei cittadini. Si parla a riguardo di
arbitrato, conciliazione e mediazione (38), ovvero di mezzi alternativi di
risoluzione delle controversie spesso definiti, utilizzando la denominazione
anglosassone, Alternative Dispute Resolution (A.D.R.).
Le c.d. A.D.R. si caratterizzano per la loro alternatività e stragiudizialità
(39) e costituiscono motivo di studio e di notevole interesse per la dottri-
DOTTRINA 309
(36) GIALLONGO N., Responsabilità professionale medica (sanitaria) e strumenti alternativi
di risoluzione delle controversie: contributo ad una riflessione, http: //www.judicium.
it
(37) In particolare si segnala: CHIARLONI S., La conciliazione stragiudiziale come
mezzo alternativo di risoluzione delle dispute, in Riv. dir. proc., 1980, 1; PUNZI C.,
Conciliazione ed arbitrato, in Riv. dir. proc., 1992, 4. Sul punto ancora CHIARLONI S. , Stato
attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2000, 2,
447, afferma “... la moderna società complessa non si accontenta più dei modi tramandati
di amministrare la giustizia, applicando il diritto dato, ovvero ‹‹creandolo›› nei precedenti,
ad opera di giudici ‹‹tradizionali›› in un contesto processuale altamente formalizzato, che
richiede la mediazione di specialisti costosi… cosicché si vuole anche la giustizia almeno
in parte sottratta al monopolio dello Stato…”.
(38) A riguardo, GADDI D., MAROZZI F., QUATROCOLO A., Voci di danno inascoltate:
mediazione dei conflitti e responsabilità professionale medica, cit., 839, definiscono la
mediazione “... un processo, il più delle volte formale, attraverso il quale una terza persona
neutrale cerca, attraverso l’organizzazione di scambi tra le parti, di permettere ad esse di
confrontare i propri punti di vista e di cercare con l’aiuto del mediatore una soluzione al conflitto
che le oppone”; vedi anche BONAFÈ-SCHMITT J. P., Una, tante mediazioni dei conflitti,
in Pisapia G. V.
(39) Sul punto si veda DENTI V., I procedimenti non giudiziali di conciliazione come istituzioni
alternative, in Riv. dir. proc., 1992, 4; CAPPONI B. , La camera di conciliazione un interessante
‹‹nuovo modello›› di risoluzione alternativa delle liti civili, in Corr. Giur., 1996.
na processualcivilistica. L’approccio dell’ordinamento giuridico italiano al
fenomeno delle A.D.R. però, si presenta come alquanto frammentario e settoriale
e tutto ciò si riflette nella carenza di proposte specifiche finalizzate a
incentivare la creazione di forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie
in materia di responsabilità medica. Tuttavia non è mancato chi nel
settore sanitario (40), ha sostenuto vigorosamente la realizzazione di procedure
stragiudiziali dirette da commissioni di esperti (41).
Recentemente poi, presso l’ordine dei Medici chirurghi ed odontoiatri di
Roma è funzionante uno Sportello di conciliazione in ambito medico, al
quale può rivolgersi, attraverso apposita domanda di risarcimento, il paziente
che ritenga di essere stato danneggiato da un qualsivoglia trattamento
sanitario (42). Dopo una serie di adempimenti preliminari e dopo aver valutato
la disponibilità del medico a partecipare all’eventuale conciliazione, l’istanza
di risarcimento presentata dal paziente viene esaminata da una
Commissione Tecnica composta da due avvocati, due medici ed un esperto
assicurativo che formula entro trenta giorni un parere sulla possibilità di conciliare.
Qualora il parere emesso dalla suddetta Commissione Tecnica sia
positivo, le parti possono far ricorso alla Camera di Conciliazione costituita
dall’ordine degli avvocati di Roma e dalla Corte d’Appello di Roma.
È opportuno rilevare come, a differenza dell’ordinamento giuridico italiano,
alcuni ordinamenti europei, fra i quali Germania, Austria, Francia e
l’Inghilterra, sulla scia dell’esperienza statunitense, hanno predisposto
modelli di risoluzione stragiudiziale delle controversie in ambito medico. È
conveniente, ai nostri fini, soffermare la nostra attenzione sul modello tedesco
(43) che ha mostrato di avere maggiori possibilità, con adeguate sistemazioni,
di essere recepito nel sistema giuridico italiano.
In Germania verso la metà degli anni settanta, per far fronte alle innumerevoli
richieste di risarcimento danni in ambito sanitario, sono state create
310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(40) Recentemente su questo fenomeno, WINKLER S., Risoluzione extragiudiziale delle
controversie mediche, in Danno e Responsabilità n. 11, 2003, 1041 ss. secondo cui “I successi
della medicina...hanno aumentato le aspettative di cura dell’opinione pubblica, instillando
nel paziente la sensazione che l’esito infausto sia sempre e comunque attribuibile ai
medici, senza più considerare l’ipotesi che l’evoluzione sfavorevole della cura sia legata
all’intrinseca gravità della malattia, o all’incertezza e imprevedibilità che caratterizza la
risposta dell’organismo umano alla cura”.
(41) Si pensi a riguardo al progetto di legge n. 3244 presentato alla Camera dei deputati
dall’On. Scalise in data 11 ottobre 1995; al disegno di legge Tomassini ed altri ‹‹Nuove
norme in tema di responsabilità professionale del personale sanitario›› presentato il 6 giugno
2001 e tuttora in discussione in Parlamento, nel quale si prevede, tra le altre cose, la
devoluzione delle controversie in materia di responsabilità medica, previo consenso manifestato
dalle parti, alla cognizione di un collegio arbitrale.
(42) Ariguardo si veda ROMUALDI G. , La conciliazione amministrata: esperienze e tendenze
in Italia, in corso di pubblicazione.
(43) Su questo argomento si veda ampiamente, WINKLER S., Risoluzione extragiudiziale
delle controversie mediche, in Danno e Responsabilità , cit.
presso gli ordini professionali dei medici dei relativi Bundesländer le
Gutachterkommissionen (commissione di periti) e le Schlichtungsstellen
(luogo di conciliazione).
Questi organismi camerali, nati verso la metà degli anni settanta, hanno
sensibilmente contribuito alla rapida risoluzione in via stragiudiziale delle
controversie in materia di responsabilità medica. In particolare, qualora sia
sorta una lite tra medico e paziente a seguito di un trattamento sanitario di
qualsiasi natura conclusosi negativamente, vi è la possibilità di ottenere prontamente
dalle suddette strutture camerali delle delucidazioni valide e neutrali
in merito allo stato di salute del paziente e ai possibili errori colpevoli attribuibili
al medico in relazione al caso specifico. In proposito, occorre chiarire
che le Gutachterkommissionen si limitano a fornire al paziente una perizia
medica, utilizzabile anche in un eventuale giudizio ordinario, sulla base della
quale quest’ultimo valuterà se ricorrere o meno alle Schlichtungsstellen le
quali provvedono, qualora lo ritengano opportuno, alla formulazione di una
proposta conciliativa inoltrata subito all’impresa assicuratrice.
Il procedimento si conclude, nella maggioranza dei casi, con una negoziazione
tra i legali del paziente e la compagnia di assicuratrice. Nel tracciare
le caratteristiche basilari del procedimento in esame, è opportuno in primo
luogo evidenziare l’importanza, ai fini della corretta instaurazione della procedura
stragiudiziale, del consenso di tutte le parti interessate.
Ottenuto il consenso di tutte le parti, il paziente (o, raramente, il medico),
attraverso una domanda presentata in forma scritta, dà inizio alla disputa
rivolgendosi alle sopra citate commissioni, le quali risultano composte da
medici specializzati in diversi settori e da un giudice, nominati entrambi
dall’Ordine dei medici ove è insediata la commissione stessa.
Il procedimento de quo è gratuito (44) e non è assolutamente vincolante
per le parti. Il ricorso al procedimento dinanzi alle Gutachterkommissionen
e alle Schlichtungsstellen infatti, non pregiudica il diritto delle parti (45) di
utilizzare in qualunque momento il giudizio ordinario di cognizione al fine
di assicurarsi una decisione vincolante suscettibile di esecuzione coattiva.
Dall’esame del sistema tedesco seguono alcune riflessioni conclusive.
A mio avviso, è opportuno sottolineare che, ai fini deflattivi del contenzioso
civile e penale in tema di responsabilità medica (46), è assolutamente
indispensabile e urgente la devoluzione delle relative controversie ad un collegio
arbitrale.
DOTTRINA 311
(44) Le spese per la formulazione della perizia medica sono, di regola, a carico delle
compagnie assicuratrici e le spese relative all’organizzazione e al funzionamento delle commissioni
sono a carico delle Ärztekammern.
(45) Così WINKLER S., Risoluzione extragiudiziale delle controversie mediche, in
Danno e Responsabilità , cit. 1054.
(46) Sul punto, si veda diffusamente, GIALLONGO N., Responsabilità professionale
medica (sanitaria) e strumenti alternativi di risoluzione delle controversie: contributo ad
una riflessione, cit.
Sembra si possa sostenere infine, sulla base dei diversi progetti di legge
presentati, che nel nostro Paese vi sono i presupposti per la realizzazione di
un sistema di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di
responsabilità professionale medica.
Tuttavia è importante tener sempre presente il modello tedesco, che nel
corso degli anni ha riscosso enorme successo, cercando però di risolvere
alcuni aspetti controversi connessi a tale sistema tra cui, su tutti, il problema
concernente il valore da attribuire alla decisione con cui si conclude il procedimento
stragiudiziale e il dilemma legato al decorso della prescrizione in
pendenza del procedimento conciliativo.
312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Le situazioni giuridiche soggettive dello
straniero secondo gli orientamenti della giurisprudenza:
la disciplina dell’ingresso, permanenza
ed uscita dall’Italia
di Pasquale Fava(*)
SOMMARIO: A. Il quadro di riferimento comunitario. – B.1.) La regolazione italiana: l’immigrazione
è materia di competenza esclusiva dello Stato. – B.2.) L’eguaglianza astratta tra
cittadini e stranieri è principio legittimamente derogabile nelle scelte legislative concrete. –
B.3.a.) L’ingresso dello straniero in Italia: l’interesse legittimo pretensivo all’accesso (eccezioni).
– B.3.b.) (Segue)– L’interesse pretensivo all’ingresso: il visto d’ingresso. – B.4.a.)
L’interesse pretensivo alla permanenza sul territorio: il permesso di soggiorno (e la carta di
soggiorno). – B.4.b.) (Segue) – La regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari al vaglio
della Plenaria del Consiglio di Stato e della Consulta. – B.5.a.) L’uscita dello straniero: l’interesse
oppositivo a ricorrere avverso il decreto di espulsione. – B.5.b.) (Segue) La questione
della giurisdizione unica in materia di stranieri (C.Cost. 414/01) e i confini del potere disapplicativo
dell’A.G.O. sull’atto amministrativo presupposto (S.U. 22217/06 e S.U. 2221/06).
A. Il quadro di riferimento comunitario.
La versione originaria del Trattato di Roma non attribuiva alla Comunità
alcuna competenza formale in materia di immigrazione. Il potere di disciplinare
la materia dell’ingresso, del soggiorno, dell’uscita e della condizione
giuridica dello straniero era lasciato ai singoli Stati membri, con conseguenti
sensibili differenziazioni della situazione giuridica del lavoratore non
comunitario da Paese a Paese.
La Comunità, tuttavia, cominciò prima ad adottare atti di natura non vincolante
(1) in materia di immigrazione facendo leva sulle disposizioni degli articoli
117 e 118 del Trattato di Roma sulla politica sociale e poi via via atti vincolanti.
Il primo atto di natura vincolante (Decisione n. 85/382, istitutiva di una
procedura di concertazione concernente le politiche migratorie (2)) fu, però,
DOTTRINA 313
(*) Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura Generale.
(1) Le Risoluzioni del Consiglio relative a programmi di azione sociale (G.U.C.E. C 13
del 12 febbraio 1974) e di azioni a favore dei lavoratori migranti e dei loro familiari
(G.U.C.E. C34/2 del 14 febbraio 1976); Risoluzione del Parlamento europeo del 9 giugno
1983 (G.U.C.E. C 184 dell’11 luglio 1983); Comunicazione della Commissione sugli orientamenti
per una politica comunitaria delle migrazioni (COM(1985)48 del 7 marzo 1985);
Risoluzione del Consiglio relativa agli orientamenti per una politica comunitaria delle
migrazioni del 16 luglio 1985 (G.U.C.E. C 186 del 26 luglio 1985).(2) La decisione, tra l’altro,
sanciva l’obbligo di informare la Commissione e gli altri Stati membri circa i progetti
di legge sull’ingresso, soggiorno lavoro dei cittadini di Paesi terzi.
subito impugnato da Germania, Francia, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Danimarca.
La Corte di giustizia, in particolare, pur accogliendo l’istanza di annullamento
con sentenza 9 luglio 1987, riconobbe sostanzialmente il potere della
Commissione di emanare atti giuridici vincolanti in materia di immigrazione,
sancendo la competenza non esclusiva degli Stati membri. Sfruttando tale apertura
la Commissione adottò una nuova decisione istitutiva di una procedura di
comunicazione preliminare e di concertazione sulle politiche migratorie.
Gli accordi di Schengen (3) del 1985 e l’adozione del Trattato di
Maastricht (4) del 1992, pur portando ad un progressivo avvicinamento delle
politiche nazionali in materia di immigrazione, hanno, tuttavia, istituzionalizzato
l’utilizzo di strumenti di cooperazione intergovernativa attesa la difficoltà
di raccordare a livello comunitario un settore che interferisce pesantemente
con gli interessi nazionali e che pertanto i singoli Stati tendono a
conservare gelosamente (anche se la crescente rilevanza quantitativa delle
migrazioni di lavoratori da Paesi non comunitari faceva emergere prepotente
la necessità di una armonizzazione delle legislazioni nazionali in tema di
immigrazione).
Con il Trattato di Amsterdam (5) del 1997 si è assistito alla comunitarizzazione
della materia dell’immigrazione che è passata dal III al I pilastro. Dalla
cooperazione intergovernativa la disciplina dell’ingresso, soggiorno e espulsione
dei cittadini di Paesi terzi è, quindi, transitata al metodo comunitario (6).
Quindi per effetto del Trattato di Amsterdam la materia afferente i controlli
alle frontiere interne ed esterne, il rilascio dei visti e la libertà di circolazione
degli immigrati all’interno del territorio comunitario, il diritto d’asilo,
l’immigrazione e il soggiorno degli irregolari, il rimpatrio e le misure da
assumere in situazioni di pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza interna
degli Stati, la disciplina delle situazioni di emergenza determinate da
afflussi imprevisti di cittadini da Paesi terzi e da ulteriori misure di politica
immigratoria è passata dal III al I pilastro con sottrazione alla cooperazione
intergovernativa e affidamento diretto all’Unione. Agli Stati membri, dunque,
resta soltanto una competenza residuale da esercitarsi compatibilmente
con le norme del Trattato e con quelle risultanti da accordi internazionali (7).
314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(3) Accordi ratificati ed eseguiti in Italia con legge 30 settembre 1993, n. 388.
(4) Il Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione europea (ratificato e reso esecutivo
con legge 3 novembre 1992, n. 454), ha affermato le finalità di conservazione e sviluppo
dell’Unione “quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione
delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle
frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro
quest’ultima” (art. 2, comma 1, quarto periodo).
(5) Il Trattato di Amsterdam è stato ratificato ed eseguito con legge 16 giugno 1998, n. 209.
(6) Solo dopo il 2004, alla scadenza del periodo transitorio in cui era comunque imposta
l’unanimità, è cominciata l’operatività della procedura di codecisione.
(7) Sulla base delle nuove previsioni del Trattato e beneficiando degli impulsi ricevuti
dai numerosi Consigli europei tenutisi dal 1999 in poi (in seno ai quali sono stati concordati,
tra l’altro, i due fondamentali programmi d’azione di Tempere del 1999 e dell’Aia del
Il Trattato di Amsterdam ha ridefinito anche il concetto di “cittadinanza
dell’Unione”, quale complemento della cittadinanza di uno Stato membro,
con conseguenti effetti anche sulla nozione di “straniero” (8), da intendersi
come colui che non possa vantare lo status di cittadino europeo.
Proprio le riconosciute competenze comunitarie in materia di immigrazione
hanno determinato la Corte costituzionale (9) a dichiarare inammissibile
il quesito referendario avente ad oggetto l’abrogazione dell’intero
D.Lgs. 286/98 (testo unico sull’immigrazione), tra l’altro, perché l’eventuale
abrogazione del decreto avrebbe reso l’Italia inadempiente agli obblighi
derivanti dal Trattato di Amsterdam.
Il Trattato che approva una Costituzione per l’Europa (10), inoltre, oltre
a dettare specifiche disposizioni sugli stranieri, inserisce l’immigrazione tra
le materie a competenza concorrente.
B.1.) La regolazione italiana: l’immigrazione è materia di competenza
esclusiva dello Stato.
Le lettere a) e b) del primo comma dell’art. 117 Cost. attribuiscono alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato le materie del “diritto di asilo e
condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea”
(lett. a) e dell’“immigrazione” (lett. b). Accanto agli strumenti di legislazione
primaria è, quindi, anche ammesso l’esercizio della competenza normativa
attraverso lo strumento regolamentare (11).
DOTTRINA 315
2004), le Istituzioni comunitarie hanno approvato rilevanti direttive in materia: Direttiva
2000/43/CE sulla parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica; Direttiva 2001/40/CE relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni
di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi; Direttiva 2003/86/CE relativa al ricongiungimento
familiare; Direttiva 2003/109/CE sullo status dei cittadini di Paesi terzi che siano
soggiornanti di lungo periodo; Direttiva 2004/(3/CE recante norme minime sull’attribuzione
a cittadini di Paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa
di protezione internazionale; Direttiva 2004/114 sulle condizioni di ingresso e soggiorno
dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, formazione e attività di volontariato.
(8) Tale nozione rileva ai fini dell’applicazione del testo unico italiano sull’immigrazione.
(9) C. cost., 31/00.
(10) Trattato firmato a Roma il 28 ottobre 2004 e ratificato e reso esecutivo con legge
7 aprile 2005, n. 57.
(11) Circa l’ampiezza del contenuto dei poteri regolamentari dello Stato è stato precisato
dalla Sezione consultiva per gli Atti normativi del Consiglio di Stato (adunanza 17 maggio
2004 in relazione al parere sullo schema di d.P.R. concernente il “Regolamento recante
modifiche ed integrazioni al d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione”, poi
adottato come d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334) che, avendo lo Stato competenza esclusiva in
materia di immigrazione, “nel regolamento possono trovare ingresso forme di coordinamento
o di accordo con le Regioni e gli enti locali”, che, “anche in mancanza di una previsione
legislativa, non sono illegittime”, risultando anzi “opportune” ogni volta che rilevi una
misura “capace di incrociare in modo significativo le scelte regionali” in quanto “in tali casi
potrà, peraltro, farsi ricorso alle forme di coordinamento già previste in via generale dalla
disciplina statale”.
Il D.Lgs 286/98 (12) (testo unico sull’immigrazione), attuato con il d.P.R.
31 agosto 1999, n. 394 (poi modificato con il d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334),
pur se adottato sotto la vigenza del vecchio Titolo V della Costituzione, appare
comunque pienamente rispettoso del nuovo sistema di riparto (13).
Tra le pronunce più recenti (14) con cui la Consulta ha fissato i confini
della materia “immigrazione” si segnalano le sentenze 50/05 (15), 201/05
(16), 300/05 (17), 30/06 (18) e 156/06 (19).
316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(12) Storicamente è tra gli anni ‘70 e ’80 che ha inizio quello che è stato definito “il
tempo della politica per le migrazioni internazionali” (così CALVANESE F., Emigrazione e
politica migratoria negli anni settanta, Salerno, 1983), ossia un’epoca in cui, tra le priorità
nel governo dei paesi d’immigrazione, un posto di rilievo viene occupato dalle politiche
migratorie (al riguardo si rinvia a SCEVI P., Diritto Immigrazione e lavoro, La Tribuna, 2006,
86). In questo periodo l’ingresso e l’espulsione degli stranieri erano considerate principalmente
questioni di polizia e di sicurezza pubblica e la normativa al riguardo era inserita nel
testo unico di pubblica sicurezza (Titolo V, art. 142-152).
Il primo importante provvedimento sull’immigrazione è stato la legge 30 dicembre
1986, n. 943 che insieme a norme concernenti i “lavoratori dipendenti immigrati” contemplava
anche una sanatoria per coloro che dimostrassero di essere presenti in Italia al 31
dicembre 1986 e di avere un lavoro o di cercarlo attivamente.
Successivamente con la legge 28 febbraio 1990, n. 39 (c.d. legge Martelli), si tentava
di esulare da una prospettiva settoriale ponendo le basi per una disciplina più ampia del
fenomeno migratorio. Si delineava una struttura di base delle procedure amministrative per
l’ammissione ed il soggiorno degli stranieri nel nostro Paese e si istituiva per la prima volta
lo strumento della programmazione dei flussi.
Una disciplina organica sull’immigrazione, tuttavia, interveniva solo con la legge 6
marzo 1998, n. 40 (c.d. legge Turco-Napolitano) con cui nell’intento degli estensori ci si
riprometteva “un atteggiamento positivo, realistico, aperto verso l’immigrazione, alieno da
velleità di chiusure e da complessi di timori e di rifiuto” (Relazione di accompagnamento al
disegno di legge governativo). L’obiettivo era quello di raggiungere un’immigrazione sostenibile,
con un impatto morbido e scevro da problematiche di rigetto, mediante una disciplina
programmata dei flussi di ingresso, contraddistinta dalla massima fermezza, impedendo
forme alternative di inserimento. L’obiettivo avrebbe dovuto essere centrato con la programmazione
dei flussi migratori di ingresso, con il contrasto all’immigrazione clandestina e con
l’integrazione degli stranieri regolari.
La legge Turco-Napolitano è stata recepita dal Testo unico sull’immigrazione (D.Lgs.
25 luglio 1998, n. 286), poi modificato dalla legge Bossi-Fini n. 189/02.
(13) Tra i principali contributi dottrinali che si sono interessati della questione dei confini
della materia “immigrazione” dopo la riforma del Titolo V si segnalano: SONETTI P., Ordine
pubblico, sicurezza, polizia locale e immigrazione nel nuovo art. 117 della Costituzione, in Le
Regioni, 2002, 483; Id., L’allocazione delle funzioni amministrative e le forme di coordinamento
per le materie dell’ordine pubblico, della sicurezza e dell’immigrazione nel nuovo art.
118 della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 1121; D’AURIA G., L’immigrazione e l’emigrazione,
in CASSESE S. (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale,
Milano, 2003, 1063; VINCENTI E., Immigrazione, in CORSO G.– LOPILATO V., Il diritto amministrativo
dopo le riforme costituzionali (Parte speciale), Giuffrè, 2006, 625; STRAZZARI D.,
L’immigrazione tra Stato e Regioni, in Le Regioni, 4-5-/2006.
Rilievo ancora centrale mantiene il saggio di PATRONI GRIFFI A., I diritti dello straniero
tra Costituzione e politiche regionali, in Riv. Amm. Rep. It., 1999, I, 493.
(14) I precedenti che saranno richiamati hanno formato oggetto di un approfondito
esame da parte del Presidente Massimo Vari, già Vice Presidente della Corte Costituzionale,
DOTTRINA 317
Membro italiano della Corte dei Conti europea e del Consigliere Marco Pieroni, giudice
della Corte dei conti addetto all’Ufficio Studi della Corte costituzionale, nei loro interventi
del 16 aprile 2007 nell’ambito del Master in Scienze delle Migrazioni organizzato
dall’Università Europea.
(15) In riferimento alla disposizione della legge 14 febbraio 2003, n. 30, recante delega
in materia di occupazione e mercato del lavoro (c.d. legge Biagi), che prevedeva, tra l’altro,
il mantenimento in capo allo Stato in virtù delle funzioni amministrative relative “alla
gestione dei flussi di entrata dei lavoratori non appartenenti all’Unione europea”, la sentenza
50/05 ha affermato con estrema chiarezza l’appartenenza allo Stato delle menzionate
funzioni in virtù della rispettiva potestà legislativa e regolamentare in materia di immigrazione,
senza che possa residuare alcunché alle Regioni che assumevano la propria competenza
sostenendo la riconducibilità della gestione dei flussi alla domanda di lavoro sul territorio
regionale.
(16) Con la pronuncia 201/05 la Corte ha precisato che la disciplina sulla regolarizzazione
degli stranieri “va ricondotta alla materia dell’immigrazione, riservata alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera b), della
Costituzione e non contemplata tra le attribuzioni statutarie della Provincia ricorrente” che
aveva allegato una sottrazione delle proprie competenze in materia di collocamento e instaurazione
dei rapporti di lavoro con gli extracomunitari.
(17) Con la sentenza 300/05 la Consulta dichiara non invasiva delle competenze esclusive
statali in materia di immigrazione l’attività di osservazione e monitoraggio del funzionamento
dei centri di permanenza temporanea disciplinata dalla legge della Regione Emilia-
Romagna 24 marzo 2004, n. 5, in quanto tali attività regionali, lungi dall’ingerirsi nella
regolamentazione dei centri medesimi, spettante soltanto allo Stato, si limita, a meri interventi
assistenziali, segnatamente di carattere sanitario, quali esplicazione di competenze
regionali, da effettuarsi con modalità collaborative con gli organi statali.
(18) Con la sentenza 30/06 il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità delle
disposizioni regionali istitutive della Consulta regionale dell’immigrazione perchè invasive
della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera g) Cost., giacché prevedevano in capo a rappresentanti di un ente pubblico nazionale
(l’INPS) e di una articolazione della pubblicazione amministrazione (rappresentante della
Prefettura) “nuove e specifiche attribuzioni pubbliche; quelle, appunto, relative all’espletamento
delle funzioni connesse alla attività in concreto devoluta all’organo collegiale, in
seno al quale gli stessi sono chiamati ad operare”.
Nella medesima pronuncia la Corte ha precisato che “le finalità perseguite dalla legge
regionale in questione si iscrivono in una materia nella quale la competenza legislativa
regionale non è contestata”, soggiungendo, che “proprio in considerazione della complessità
e delicatezza delle problematiche che il fenomeno della immigrazione è indubbiamente
in grado di suscitare”, potrebbe rendere possibile ipotizzare “forme di collaborazione e di
coordinamento che coinvolgono compiti ed attribuzioni dello Stato”.
(19) Nella pronuncia 156/06 la Corte costituzionale per salvare le previsioni delle leggi
regionali impugnate dal Presidente del Consiglio dei Ministri è stata costretta a reinterpretare
in senso limitante le menzionate disposizioni (“la norma impugnata, quindi, va interpretata
nel senso che essa si limita a prevedere l’esercizio di attività di assistenza rientranti
nelle competenze regionali, senza incidere in alcun modo sulla competenza esclusiva dello
Stato in materia di immigrazione” e che comunque ogni attività di sostegno è comunque
“subordinata al rilascio nei suoi confronti del permesso di soggiorno, cosa che potrà avvenire
solo ricorrendo le condizioni a tal fine previste dal D.Lgs. 286/1998”; in relazione
all’altra disposizione impugnata la Corte precisa che essa “lungi dal regolare aspetti propriamente
incidenti sulla materia dell’immigrazione, si limita a prevedere in favore degli
stranieri presenti sul territorio regionale una forma di assistenza che si sostanzia nel mero
affidamento agli enti locali di quegli adempimenti che, nell’ambito dei procedimenti di
richiesta e rinnovo di permesso di soggiorno e di carta di soggiorno, ovvero di richiesta di
B.2.) L’eguaglianza astratta tra cittadini e stranieri è principio legittimamente
derogabile nelle scelte legislative concrete.
Sin dalle pronunce 120/67 e 104/69 (20) il Giudice delle leggi ha affermato
che lo straniero è titolare dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art.
2 Cost. e che l’art. 10 (2° co.) Cost. prevede una riserva di legge rinforzata
circa la disciplina della condizione giuridica dello straniero.
Con particolare riferimento al principio di eguaglianza di cui all’art. 3
Cost. la Corte, interessata da q.l.c. relative ad allegate disparità di trattamento
tra cittadini e stranieri, ha chiarito che, pur se lo stesso si riferisce letteralmente
ai soli cittadini, esso deve essere esteso anche agli stranieri proprio
perché si tratta di un diritto inviolabile.
La Corte sul punto ha peraltro precisato sin dalla richiamata sentenza
104/1969 che, pur se la parificazione tra cittadini e stranieri deve fermarsi
alla titolarità dei diritti di libertà (al cui interno compaiono come sottoinsieme
anche i diritti inviolabili della persona), tuttavia, nelle situazioni concrete,
possono presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il
Legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, che non trova
altro limite se non nella ragionevolezza del suo apprezzamento. Pertanto,
non potrebbe escludersi che, tra cittadino e straniero, benché uguali nella
titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare
un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti. Ciò
perché il cittadino ha nel proprio territorio un suo domicilio stabile, noto e
dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il cittadino ha diritto di
risiedere ovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente, senza limiti
di tempo, mentre lo straniero può recarsi a vivere nel territorio del nostro,
come di altri Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un determinato
318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
nulla-osta al ricongiungimento familiare, diversamente sarebbero svolti direttamente dagli
stessi richiedenti”). Tuttavia la Corte ha osservato che lo stesso Testo unico, oltre a prevedere
casi di esercizio di funzioni statali in stretto collegamento con quelle regionali, affida
talune competenze direttamente alle Regioni (“Da tali disposizioni, nonché da altre contenute
nel D.Lgs. n. 286 del 1998 – come l’art. 38 e l’art. 40 – risulta che in materia di immigrazione
e di condizione giuridica degli stranieri è la stessa legge statale che disciplina una
serie di attività pertinenti al fenomeno migratorio e agli effetti sociali di quest’ultimo, e che
queste vengono esercitate dallo Stato in stretto collegamento con le Regioni alle quali sono
affidate direttamente alcune competenze. Ciò tenuto conto del fatto che l’intervento pubblico
non può limitarsi al controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio
nazionale, ma deve anche necessariamente considerare altri ambiti – dall’assistenza sociale
all’istruzione, dalla salute all’abitazione – che coinvolgono competenze normative, alcune
attribuite allo Stato ed altre attribuite alle Regioni”).
(20) Pienamente in linea con queste due pronunce è la successiva sentenza 144/70 ove
la Corte precisa nuovamente che la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel
campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete,
non possano presentarsi fra i soggetti differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e
regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del
suo apprezzamento.
periodo che è generalmente limitato nel tempo, salvo che egli non ottenga il
così detto diritto di stabilimento o di “incolato” che gli assicuri un soggiorno
di durata prolungata o indeterminata; infine, prosegue la Corte, il cittadino
non può essere allontanato per nessun motivo dal territorio dello Stato,
mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie
per commessi reati. Da ultimo, osserva, che questa differenza di situazioni di
fatto e di connesse valutazioni giuridiche è rilevabile in ogni ordinamento e
si fonda sulla basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente
nella circostanza che, mentre, il primo ha con lo Stato un rapporto di
solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e
generalmente temporaneo (C.Cost. 104/69).
Con la successiva sentenza 62/94, la Corte Costituzionale chiarisce che
non c’è alcuna disparità di trattamento tra cittadini e stranieri in relazione
all’istituto dell’espulsione che è misura riferibile unicamente allo straniero
ed in nessun caso estensibile al cittadino. La posizione dello straniero in questo
caso si rivela del tutto peculiare e non comparabile con quella del cittadino,
cui la Costituzione ha riservato, in relazione alle possibilità di uscire
dal territorio della repubblica e di rientrarvi, una posizione assolutamente
opposta, connotata da un generale status libertatis. La diversa posizione
dello straniero, caratterizzata dall’assoggettamento, in via di principio, a
discipline legislative e amministrative, che possono comportare, in casi predeterminati,
anche l’espulsione dallo Stato, ha una ragione nel rilievo secondo
il quale la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero
nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici,
quali ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i
vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione.
Tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario il
quale gode in materia di un’ampia discrezionalità limitata sotto il profilo
della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non
risultino manifestamente irragionevoli.
Sulla questione della diseguaglianza tra cittadini e stranieri extracomunitari
in relazione all’accesso al lavoro presso la Pubblica amministrazione è
intervenuta la Suprema Corte (21) che ha precisato che il requisito del possesso
della cittadinanza italiana, richiesto dall’art. 2 d.P.R. n. 487/1994, è
stato positivizzato dall’art. 70 D.Lgs. 286/1998, togliendo qualsiasi fondamento
alla tesi secondo cui la disposizione regolamentare sarebbe stata abrogata
per incompatibilità dall’art. 2 D.Lgs. 286/98. La Cassazione ha, altresì,
chiarito che l’eguaglianza tra straniero e cittadini è solo tendenziale e che,
con particolare riferimento all’accesso al lavoro alle dipendenze
dell’Amministrazione, la disparità di trattamento è ragionevolmente giustificata
anche per il soddisfacimento di interessi di rilievo costituzionale:“...né
l’esclusione dello straniero non comunitario dall’accesso al lavoro pubblico
DOTTRINA 319
(21) Cass., 13 novembre 2006, n. 24170, in Corr. Giur. 2007, 257, con commento di
FOGLIA F., Sull’accesso degli extracomunitari agli impieghi pubblici.
(al di fuori delle eccezioni espressamente previste dalla legge) è sospettabile
di illegittimità costituzionale, atteso che si esula dall’area dei diritti fondamentali
e che la scelta del legislatore è giustificata dalle stesse norme
costituzionali” (22).
B.3.a.) L’ingresso dello straniero in Italia: l’interesse legittimo pretensivo
all’accesso (eccezioni).
La situazione giuridica soggettiva dello straniero desideroso di accedere
al territorio italiano è, salvo taluni casi tassativi, un interesse legittimo pretensivo,
come tale tutelabile innanzi al giudice amministrativo in sede generale
di legittimità.
Fanno eccezione a questa regola le situazioni in cui si chiede il rilascio
del visto e del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare (il
diritto all’unità familiare, secondo la giurisprudenza costituzionale (23), è un
diritto fondamentale tutelabile innanzi all’A.G.O. (24)) in relazione a stranieri
regolarmente soggiornanti in Italia (25).
Fanno, altresì, eccezione alla regola dell’interesse legittimo pretensivo le
pretese al riconoscimento dell’asilo politico e alla qualità di rifugiato.
La qualità di rifugiato è attribuita, secondo le previsioni dell’art. 1
della Convenzione di Ginevra del 1951 ratificata con legge 24 luglio 1954,
n. 722 (come emendata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967),
a chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per
le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non
può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di
questo Paese; oppure che, non avevano una cittadinanza e trovandosi fuori
del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non
può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Le procedura amministrative
volte al riconoscimento dello status di rifugiato sono di competenza
di sette commissioni territoriali ove sono istituiti anche i centri di
identificazione (26).
320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(22) Cass., 13 novembre 2006, n. 24170, cit.
(23) C. Cost., 28/95 e 203/97.
(24) Affermano la giurisdizione dell’A.G.O. sul diniego di nulla osta al ricongiungimento
familiare e sul diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari Cass. 20 agosto
2003, n. 12223 e Cass. S.U. 12 gennaio 2005, n., 383 (quest’ultima sentenza li qualifica
anche atti dovuti).
(25) È necessario che lo straniero nei cui confronti si fa valere la pretesa al ricongiungimento
familiare sia regolarmente soggiornante in Italia (Cass. 24 novembre 2004, n.
22206; 20 agosto 2003, n. 12226; 14 novembre 2003, n. 17194).
Di recente il D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 5 è intervenuto ad allargare le fattispecie in cui
si può beneficiare del ricongiungimento familiare.
(26) La procedura può essere ordinaria (alla frontiera) oppure semplificata (in caso di
ingresso irregolare sul territorio italiano).
Il diritto d’asilo di cui all’art. 10 (3°co.) Cost. (27), per converso, è di
natura più ampia in quanto è sufficiente dimostrare che nello Stato d’origine
sussista l’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche riconosciute
e garantite dalla Costituzione. La procedura per il riconoscimento del diritto
all’asilo territoriale (28) è di competenza di un’unica commissione nazionale
istituita presso il Ministero dell’Interno (29).
Atteso il diverso campo di applicazione dei due istituti di protezione (il
diritto d’asilo è più ampio dello status di rifugiato), è stato precisato in dottrina
(30) che “l’inammissibilità dell’istanza di riconoscimento dello status
di rifugiato non preclude il ricorso al Tribunale ai fini dell’accertamento del
diritto di asilo costituzionale ex art. 10 terzo comma della Costituzione”.
È stato chiarito che viene legittimamente negato l’asilo politico se il
richiedente abbia a lungo soggiornato in un altro Stato aderente alla
Convenzione di Ginevra del 1951, che assicuri l’esercizio delle libertà democratiche
riconosciute dalla nostra Costituzione (31) e che la presentazione di
domanda diretta al riconoscimento dell’asilo politico (o dello status di rifugiato)
dia diritto al richiedente di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo
in attesa dell’esito degli accertamenti (32).
Il riconoscimento del diritto d’asilo o dello status di rifugiato con il conseguente
diritto soggettivo ad entrare e permanere nel territorio d’Italia
implica un apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto rimesso
in prima battuta all’Amministrazione e in seconda battuta al giudice. L’onere
della prova grava sul richiedente l’asilo o il rifugio (Cass. 4 maggio 2004, n.
8423) e sulle contestazioni sussiste la giurisdizione dell’A.G.O. vertendosi in
materia di diritti soggettivi (Cass. S.U. 26 maggio 1997, n. 4674 – diritto d’asilo
– e Cass. S.U. 907/99 – rifugiato): le azioni di tutela sono meramente
dichiarative e di mero accertamento.
Colui che abbia ottenuto l’asilo o il riconoscimento dello status di rifugiato
si trova in una posizione particolarmente favorevole anche perché l’art.
19 del D.Lgs. 286/98 prevede un divieto assoluto di espulsione verso uno
DOTTRINA 321
(27) È oramai prevalente in giurisprudenza la tesi della natura precettiva e immediatamente
vincolante dell’art. 10 (3°) Cost. “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha
diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La previsione costituzionale riconosce un diritto soggettivo a richiedere ed ottenere l’asilo
(Cass. S.U. 26 maggio 1997, n. 4674 e App. MI 27 novembre 1964).
(28) L’asilo diplomatico, presso l’Ambasciata all’estero, opera, per converso, sulla
base di una prassi internazionale.
(29) Il Consiglio di Stato ha chiarito che trattasi di competenza esclusiva (Cons. Stato,
17 settembre 2002, n. 4664, e 18 ottobre 2002, n. 5735) mentre la Suprema Corte ha chiarito
che la competenza territoriale spetta esclusivamente al Tribunale di Roma (Cass. 18 giugno
2004, n. 11441).
(30) CALAFIORE G.– VALTIMORA A., Immigrati, Napoli 2005.
(31) Cons. Stato, 2 luglio 2002, n. 3605 e 18 ottobre 2002, n. 5708.
(32) Cons. Stato, 18 ottobre 2002, n. 5749.
Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di
razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali o sociali ovvero possa rischiare di essere rinviato
verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione (c.d. principio
del non refoulment) (33).
B.3.b.) (Segue)– L’interesse pretensivo all’ingresso: il visto d’ingresso.
La Suprema Corte si è espressa chiaramente circa l’inesistenza di un
diritto soggettivo dello straniero all’ingresso e soggiorno sul territorio nazionale
(34).
Lo straniero, oltre a possedere un passaporto (o documento equivalente),
dovrà munirsi di un visto di ingresso rilasciato dalle rappresentanze diplomatiche-
consolari del Ministero degli affari esteri dello Stato d’origine del
richiedente (35).
Il visto, che consta di apposita “vignetta” (o “sticker”) applicata sul passaporto
o su altro documento di viaggio del richiedente, è un’autorizzazione
concessa allo straniero ad entrare nel territorio della Repubblica italiana.
Peraltro, il visto non garantisce in assoluto l’ingresso, poiché l’Autorità
di frontiera può sempre respingere lo straniero che sia privo dei requisiti previsti
dall’art. 4, comma 3, del testo unico (documentazione atta a confermare
lo scopo e le condizioni del soggiorno, la disponibilità di mezzi di sussistenza
sufficienti per la durata del soggiorno; straniero che costituisce minaccia
per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato o che risulti condannato
per uno dei reati indicati dalla norma de qua). Il respingimento dello straniero
è disciplinato dall’art. 10 T.U. e costituisce un provvedimento discrezionale
impugnabile innanzi al TAR (36).
I visti si dividono in tre grandi categorie (1) visti Schengen uniformi
(VSU), 2) visti a validità territoriale limitata (VTL) e 3) visti per soggiorni
di lunga durata o nazionali (VN)) e sono stati classificati in ventuno tipolo-
322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(33) In precedenza la giurisprudenza amministrativa aveva affermato che l’espulsione
poteva essere consentita solo per “grave pericolo sociale” (Cons. Stato 1205/1976) oppure
per “ragioni preminenti di sicurezza nazionale” (TAR Friuli Venezia-Giulia, 13 marzo 1989,
n. 53).
(34)Cass. 13 dicembre 2002, n. 17857.
(35) In relazione all’ingresso irregolare nonostante il dibattito politico antecedente
l’approvazione della legge Bossi-Fini non è stato introdotto il reato che punisce tout court
le condotte migratorie clandestine in quanto tali, mentre è stata mantenuta la fattispecie di
favoreggiamento dell’immigrazione che la Cassazione penale ha tratteggiato in modo estremamente
ampio (cfr., inter plures, Cass. 11 marzo 2003, n. 20257).
(36) La giurisdizione del giudice amministrativo non è espressamente sancita dal testo
unico ma è conforme ai principi generali in materia di criteri di riparto.
Sulla giurisdizione del G.A. cfr. T.A.R. Friuli Venezia-Giulia 23 agosto, n. 610 e 20
marzo 2003, n. 89.
Afferma, per converso, la giurisdizione dell’A.G.O. una sentenza della Pretura di
Bologna del 2 aprile 1999.
gie da un decreto interministeriale del 12 luglio 2000 che ha anche precisato
i requisiti e le condizioni per l’ottenimento.
Le Sezioni Unite della Cassazione (37) di recente hanno chiarito che le
controversie in materia di diniego del visto d’ingresso sono da ricondursi alla
giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo in quanto
l’amministrazione esercita un potere discrezionale in ordine all’apprezzamento
delle condizioni e dei requisiti per l’ingresso di cui all’art. 4 T.U.
Il Consiglio di Stato (38) ha precisato che tra il visto d’ingresso e il permesso
di soggiorno sussiste un collegamento necessario indissolubile tanto
che lo status patologico del primo è destinato a condizionare ineluttabilmente
anche quello del secondo (39). È, pertanto, legittima una revoca del permesso
di soggiorno ove il visto di ingresso sia stato rilasciato sulla base di
false dichiarazioni (40). Si è, altresì, chiarito che senza un valido passaporto
non può essere rilasciato il permesso di soggiorno (41).
In relazione all’obbligo di identificazione stabilito dagli art. 349 c.p.p.,
4 e 144 T.U.L.P. e 11 L. 191/78, le Sezioni Unite penali della Cassazione (42)
ne hanno discutibilmente escluso l’applicabilità allo straniero irregolare in
considerazione del fatto che “la clandestinità per forza di cose prevede il
mancato possesso del documento di identificazione”.
B.4.a.) L’interesse pretensivo alla permanenza sul territorio: il permesso di
soggiorno (e la carte di soggiorno).
L’art. 5, 2° co., T.U., stabilisce che lo straniero deve fare richiesta del
permesso di soggiorno entro 8 giorni dall’ingresso sul territorio italiano.
La giurisprudenza consolidata ha chiarito che il termine ha natura perentoria
(43) a pena di espulsione (automatica).
Lo straniero è ammesso, tuttavia, a provare di non aver potuto presentare
la richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per forza maggiore (art.
13, 2°co., lett. b), prima parte, T.U. e Cass. 17 marzo 2004, n. 5394).
L’istanza volta all’ottenimento del permesso di soggiorno va presentata alla
Questura (salvi i casi di permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare
e per motivi di lavoro subordinato in relazione ai quali è fissata la competenza
dello Sportello unico per l’immigrazione presso la Prefettura-UTG).
DOTTRINA 323
(37) Cass. S.U. 25 marzo 2005, n. 6426.
(38) Cons. Stato, 17 gennaio 2002, n. 238.
(39) Potrebbe perciò ritenersi sussistere il c.d. effetto caducante automatico anche se
per altra ricostruzione si tratterebbe di mero effetto invalidante che obbliga alla successiva
impugnativa.
(40) Cons. Stato, 17 gennaio 2002, n. 238.
(41) Cons. Stato, 21 maggio 2004, n. 3300.
(42) Cass. S.U. 29 ottobre 2003, n. 45801. Conformi Cass. 5 maggio 2004, n. 25261 e
6 giugno 2003, n. 31990. In senso opposto Trib. Genova 3 febbraio 2004.
(43) Cass. 19 giugno 2003, n. 9809; 4 novembre 2003, n. 16514; 10 dicembre 2004, n.
23134; 27 maggio 2005, n. 11323.
Il comma 9 dell’art. 5 del T.U. stabilisce che il permesso di soggiorno è
rilasciato entro venti giorni dalla data in cui è presentata la domanda (il termine
non è comunque perentorio).
Il permesso di soggiorno è rilasciato a scadenza fissa e può essere, secondo
la tipologia, di breve (per motivi di culto, per gara sportiva, per invito, per
missione, per turismo, per tirocinio) o lunga durata (per adozione, per dimora,
per attività sportiva, per culto, per missione, per tirocinio, per motivi di lavoro
(44), per motivi familiari, per motivi di studio, per motivi sanitari).
Esso costituisce, unitamente alla carta di soggiorno (45), il titolo amministrativo
legittimante la permanenza regolare dello straniero sul territorio
italiano.
Il comma 4 dell’art. 5 T.U. prevede che lo straniero debba presentare la
richiesta di rinnovo entro termini predeterminati antecedenti la deadline,
mentre l’art. 13, 2° co., lett. b), ultimo periodo stabilisce l’espulsione amministrativa
dello straniero il cui permesso di soggiorno sia scaduto da più di
sessanta giorni senza che ne sia stato richiesto il rinnovo.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte (46) hanno chiarito che il termine
di sessanta giorni di cui alla menzionata lettera b) non ha natura perentoria e
che la sua scadenza non comporta automaticamente l’espulsione, che potrà,
viceversa, essere disposta solo se la domanda sia stata respinta per mancanza
originaria o sopravvenuta dei requisiti richiesti dalla legge per il soggior-
324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(44) Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato è quello più comune.
La legge Bossi-Fini n. 189/02 ha eliminato l’istituto dello sponsor che consentiva allo
straniero l’ingresso e il soggiorno in Italia per un anno al fine di trovare un lavoro.
Si è previsto che l’ingresso dello straniero può avvenire, sempre che vi siano quote
libere nei flussi determinati dal D.P.C.d.M., attraverso una richiesta di nulla osta al visto presentata
dal futuro datore di lavoro allo sportello unico per l’immigrazione presso la
Prefettura territorialmente competente.
Negli otto giorni successivi all’ingresso dello straniero questi unitamente al datore di
lavoro devono recarsi alla Prefettura per la stipula del contratto di soggiorno e lavoro che
costituisce il presupposto indefettibile per il rilascio del permesso di soggiorno che ne condivide
la durata. Nel contratto di soggiorno il datore di lavoro deve obbligarsi a fornire un
alloggio al lavoratore nonché impegnarsi a pagare le spese per il rimpatrio dello straniero.
Affinché non siano sottratte occasioni di lavoro ai cittadini italiani e comunitari è previsto
un meccanismo di preventiva pubblicazione dell’offerta di lavoro e solo all’esito
infruttuoso dello stesso sarà possibile al datore di lavoro iniziare la procedura di ingresso in
Italia dello straniero attraverso la richiesta di nulla osta al visto.
(45) La carta di soggiorno è un titolo a metà strada tra il permesso di soggiorno e la cittadinanza
e consente allo straniero di beneficiare di una posizione più stabile in virtù dell’esistenza
di un più forte vincolo con il territorio italiano. In base all’art. 9 T.U. essa può essere
rilasciata agli stranieri regolarmente soggiornanti da almeno sei anni che siano titolari di
un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi
e dimostrino di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari. Il
titolo si estende al richiedente al coniuge e ai figli minori conviventi.
(46) Cass. S.U. 20 maggio 2003, n. 7892.
Conformi Cass. 3 settembre 2003, n. 12819; 21 novembre 2003, n. 17694; 17 marzo
2004, n. 5406; 5 maggio 2004, n. 8549.
no sul territorio nazionale mentre la sua tardiva presentazione potrà costituire
solo un indice rivelatore nel quadro di una valutazione complessiva della
situazione in cui versa l’interessato.
Dovrà, comunque, essere ammessa la prova della forza maggiore e dell’impedimento
involontario e oggettivo a presentare la domanda di rinnovo
nei termini (47). L’orientamento maggioritario esclude che possa essere sussunto
nella menzionata nozione di impedimento lo stato di detenzione in carcere
in quanto lo straniero può sempre presentare l’istanza di rinnovo del
permesso di soggiorno attraverso il direttore del carcere a cui la legislazione
penitenziaria riconosce il ruolo di interfaccia istituzionale dei detenuti con il
mondo esterno(48).
Il comma 10 dell’art. 6 del T.U. stabilisce la giurisdizione del giudice
amministrativo sui provvedimenti di rifiuto, revoca e annullamento del permesso
o della carta di soggiorno nonché sui provvedimenti di rifiuto, revoca
e annullamento del rinnovo del permesso o della carta di soggiorno.
Si tratta di provvedimenti di natura discrezionale che secondo una dottrina
minoritaria (49) sarebbero da ricondurre alla categoria delle autorizzazioni
vincolate mentre per la tesi maggioritaria in dottrina e prevalente in
giurisprudenza avrebbero natura di autorizzazioni discrezionali (50). Alla
luce delle modifiche introdotte dalla legge Bossi-Fini n. 189/2002 ne è stata
anche sostenuta in dottrina la natura concessoria (51).
B.4.b.) (Segue) – La regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari al
vaglio della Plenaria del Consiglio di Stato e della Consulta.
In relazione al permesso di soggiorno per motivi di lavoro, la legge Bossi-
Fini n. 189/02 (art. 33) e la successiva legge 222/02 (art. 1 e 2) hanno introdotto
una sanatoria rispettivamente per i lavoratori irregolari domestici e non.
Si è consentito a “chiunque, nei tre mesi antecedenti la data di entrata
in vigore” della legge Bossi-Fini (per i lavoro domestico) e del decreto legge
240/02 (per il lavoro non domestico) “abbia impiegato alle proprie dipendenze
lavoratori extracomunitari in posizione irregolare” la presentazione di
una dichiarazione di emersione in sanatoria.
Pur nella chiara dizione della legge “tre mesi antecedenti l’entrata in
vigore”, era stato revocato in dubbio da una certa interpretazione della giurisprudenza
amministrativa (52) che le situazioni di lavoro irregolare per le
DOTTRINA 325
(47) Cass. 22 aprile 2005, n. 8532; TAR Abruzzo 10 aprile 2002, n. 182.
(48) Cass. 3 giugno 2004, n. 10568 e 28 ottobre 2004, n. 20936. La tesi minoritaria che
riconosce allo stato di detenzione l’efficacia della forza maggiore è seguita da Cass. 1 aprile
2003, n. 4922.
(49) CRISAFULLI e JEMOLO.
(50) C.Cost. 244/1974 e Cons. Stato, 27 febbraio 1952 e 2 maggio 1958.
(51) ZANROSSO E., Diritto dell’Immigrazione, Napoli, 2006, 148.
(52) TAR Veneto 3797/04 e l’ordinanza di rimessione della Sezione VI del 15 novembre
2005, n. 6518, che ha espresso l’avviso che, in base al tenore letterale della norma ed
quali si sarebbe potuto presentare l’istanza di regolarizzazione fossero esclusivamente
quelle caratterizzate da una durata trimestrale e continuativa del
rapporto di lavoro.
L’Adunanza Plenaria con le decisioni 31 marzo 2006, n. 4 e 5 conferma
la tesi della durata necessariamente continuativa (intero trimestre) del rapporto
di lavoro irregolare (53).
L’orientamento si giustifica in considerazione della natura eccezionale
delle disposizioni sulla regolarizzazione delle situazioni di lavoro irregolare
in quanto volte a consentire una deroga alla normativa ordinaria concernente
il regime di contingentamento degli ingressi dei lavoratori extracomunitari,
agevolando anche il rilascio del permesso di soggiorno. Attesa la loro
natura eccezionale, le disposizioni sulla regolarizzazione non possono trovare
applicazione oltre i casi e i tempi espressamente e chiaramente previsti: la
durata minima di un trimestre fissata ex lege risulta idonea ad offrire un sufficiente
affidamento per la esistenza di un serio impegno lavorativo e la
effettiva prosecuzione e la possibile successiva stabilizzazione del rapporto,
apparendo chiaramente estranea alle finalità delle norme sulla sanatoria
quella di assecondare iniziative concernenti situazioni che, per la scarsa
durata e per la conseguente precarietà che le caratterizza (tipico il caso del
rapporto di lavoro meramente iniziato nel trimestre antecedente con il lavoratore
extracomunitario, ma non proseguito per almeno 3 mesi consecutivi),
possono rappresentare la dissimulazione di un rapporto fittizio o sorto unicamente
per la sola finalità della regolarizzazione.
Sempre in tema di regolarizzazione è intervenuto il Giudice delle leggi
(54) che ha dichiarato incostituzionale il comma 7, lettera c) dell’art. 33 della
legge Bossi-Fini (e dell’omologa disposizione della legge 222/02) nella parte
in cui tali norme facevano derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di
regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla presentazione di una
denuncia per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 c.p.p. prevedono
l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza. La Corte ha chiarito che nel
nostro ordinamento la denuncia, comunque formulata e ancorché contenga
l’espresso riferimento a una o più fattispecie criminose, è atto che nulla
prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato
come autore degli atti che il denunciante riferisce. Essa obbliga soltanto gli
organi competenti a verificare se e quali dei fatti esposti in denuncia corrispondono
alla realtà e se essi rientrino in ipotesi penalmente sanzionate,
326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
alle finalità specifiche della stessa, il periodo di tre mesi indicato dalla legge, per consentire
la regolarizzazione, debba essere considerato come mero riferimento al lasso temporale
nell’ambito del quale il lavoro, di qualsiasi durata, sia stato effettivamente svolto, ancorché
avviato dopo l’inizio del trimestre.
(53) La tesi recepita dalla Plenaria era stata in precedenza sostenuta dalla Sezione IV
con sentenza 14 luglio 2004, n. 5085 e 5088 nonché sentenza 13 aprile 2005, n. 1712. In
senso conforme TAR Abruzzo (Pescara), 873/04.
(54) C.Cost. 18 febbraio 2005, n. 78.
ossia ad accertare se sussistono la condizioni per l’inizio di un procedimento
penale.
A seguito di tale sentenza il Consiglio di Stato (55) ha chiarito che
l’Amministrazione prima di adottare una decisione di rigetto dell’istanza di
regolarizzazione è onerata di effettuare verifiche circa la colpevolezza e la
pericolosità del denunciato in quanto dalla mera presentazione di una denuncia
non può discendere alcun automatismo.
Altra precisazione giurisprudenziale è intervenuta in relazione alla chiusura
della procedura di regolarizzazione. L’art. 2 della legge 222/02 stabilisce
che “fino alla conclusione della procedura di cui all’art. 1, non possono essere
adottati provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale nei confronti
dei lavoratori compresi nella dichiarazione di cui allo stesso articolo, salvo che
risultino pericolosi per la sicurezza dello Stato”. Da questa previsione la
Suprema Corte ha fatto discendere la necessità di un provvedimento espresso e
motivato (56) di chiusura del procedimento in sanatoria su istanza di parte.
B.5.a.) L’uscita dello straniero: l’interesse oppositivo a ricorrere avverso il
decreto di espulsione.
Accanto all’espulsione giudiziale (57), l’art. 13 T.U. prevede l’espulsione
amministrativa che può essere effettuata dal Ministro dell’Interno
(comma 1) oppure dal Prefetto (comma 2).
L’espulsione ministeriale è atto ampiamente discrezionale (58) in cui il
Ministro motiva liberamente circa i propri apprezzamenti sulle motivazioni di
ordine pubblico e di sicurezza dello Stato che lo inducono ad espellere lo straniero.
La giurisdizione è del G.A. con competenza del TAR Lazio (comma 13).
L’espulsione prefettizia è disposta nei casi di ingresso e soggiorno irregolare
oppure nell’ipotesi di straniero pericoloso.
Il decreto di espulsione prefettizia di cui alle lettere a) (ingresso irregolare
(59)) e b) (soggiorno irregolare (60)), secondo la giurisprudenza costan-
DOTTRINA 327
(55) Cons. Stato, Sez. VI, 23 dicembre 2005, n. 7375.
(56) Cass. 23 luglio 2004, n. 13811. Conforme Cass. 20 aprile 2004, n. 7472, per la
quale il rifiuto di procedere alla regolarizzazione ha sostanziale natura di diniego del permesso
di soggiorno ossia di atto sottoposto al sindacato del giudice amministrativo ex art. 6,
comma 10 del T.U. e come tale necessariamente fornito di sintetica motivazione in fatto e
in diritto.
(57) Che può configurarsi come misura di sicurezza, sanzione sostitutiva oppure sanzione
alternativa alla detenzione.
(58) Secondo CALAFIORE G.-VALTIMORA A., Immigrati, Napoli, 2005, 76, sarebbe un
atto di alta amministrazione.
(59) Straniero che è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera
e non è stato respinto.
(60) Straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso
di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore,
ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da
più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo.
te della Cassazione (61) sono atti dovuti vincolati nel contenuto. L’unica
eccezione, come già visto in precedenza, è costituita dalla richiesta di rinnovo
tardiva per la quale la giurisprudenza ha precisato che la mera tardività
non può costituire causa di automatica espulsione (62).
Nelle ipotesi di cui alla lettera c) il decreto di espulsione prefettizia ha
natura discrezionale e colpisce lo “straniero pericoloso”. La giurisprudenza
richiede comunque che il prefetto compia un approfondito vaglio di pericolosità
sulla base di indizi tali da portare, in ipotesi, l’autorità giudiziaria ad
applicare le misure di prevenzione: “il controllo giurisdizionale deve essere
condotto alla stregua degli stessi criteri che il giudice applica le volte in cui
venga in rilievo una proposta di applicazione di una misura di prevenzione
(il carattere oggettivo degli elementi fondanti i sospetti e le presunzioni; il
requisito della attualità della pericolosità; la necessità di un esame globale
della personalità del soggetto). E la verifica deve essere effettuata ab estrinseco
e cioè scrutinando la completezza, logicità e non contraddizione delle
valutazioni fatte dall’amministrazione” (63).
In ogni caso il decreto di espulsione (ministeriale o prefettizio) è immediatamente
esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte
dell’interessato, e comporta il divieto di accesso al territorio italiano per un
periodo di dieci anni, a meno che non intervenga una speciale autorizzazione
del Ministro dell’Interno.
Esso viene eseguito dal Questore con l’accompagnamento alla frontiera a
mezzo della forza pubblica. Il provvedimento con cui è disposto l’accompagnamento
alla frontiera viene comunicato immediatamente e, comunque, entro
quarantotto ore dalla sua adozione al giudice di pace territorialmente competente
per la convalida (che deve intervenire nelle successive quarantotto ore).
Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante
accompagnamento alla frontiera il Questore dispone che lo straniero sia
trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza
temporanea e assistenza più vicino. Il Questore deve trasmettere il decreto
di trattenimento entro le quarantotto ore al giudice di pace territorialmente
competente per il giudizio di convalida che deve svolgersi nel pieno rispetto
del principio del contraddittorio (64). Se non è stato possibile trattenere lo
328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(61) Cass. S.U., 12 gennaio 2005, n. 384.
Conformi Cass. 21 novembre 2004, n. 17694; 16 dicembre 2004, n. 23383; 5 gennaio
2005, n. 210.
(62) Le Sezioni Unite della Suprema Corte (20 maggio 2003, n. 7892) hanno chiarito
che il termine di sessanta giorni di cui alla menzionata lettera b) non ha natura perentoria e
che la sua scadenza non comporta automaticamente l’espulsione, che potrà, viceversa, essere
disposta solo se la domanda sia stata respinta per mancanza originaria o sopravvenuta dei
requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno sul territorio nazionale mentre la sua tardiva
presentazione potrà costituire solo un indice rivelatore nel quadro di una valutazione complessiva
della situazione in cui versa l’interessato.
(63) Cass. 10 aprile 2003, n. 5661. Conforme Cass. 18 settembre 2003, n. 13740.
(64) La normativa ha recepito le indicazioni delle sentenze 105/01 e 222/04 della Corte
costituzionale.
straniero presso un centro di permanenza temporanea, ovvero sono trascorsi
i termini di permanenza senza aver eseguito l’espulsione, il Questore ordina
allo straniero per iscritto di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di
cinque giorni indicando le conseguenze penali della sua trasgressione.
Avverso il decreto di espulsione può essere presentato unicamente il ricorso
in opposizione al Tribunale del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione
entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento di espulsione
(65). Il Tribunale accoglie o rigetta il ricorso, decidendo con unico provvedimento
adottato, in ogni caso, entro venti giorni dalla data di deposito del ricorso.
L’art. 13 ha fissato la giurisdizione dell’A.G.O. che secondo le Sezioni
Unite della Suprema Corte si estende anche ai casi di diniego della revoca
del decreto di espulsione (66).
B.5.b.) (Segue) La questione della giurisdizione unica in materia di stranieri
(C.Cost. 414/01) e i confini del potere disapplicativo dell’A.G.O. sull’atto
amministrativo presupposto (S.U. 22217/06 e S.U. 2221/06).
Le controversie relative agli stranieri non sono attribuite alla giurisdizione
esclusiva né del giudice amministrativo, né del giudice ordinario.
Per i ricorsi avverso alcune tipologie di provvedimenti è prevista espressamente
la giurisdizione amministrativa (provvedimenti relativi a permessi e
carte di soggiorno e decreti ministeriali di espulsione) oppure la giurisdizione
ordinaria (decreti prefettizi di espulsione). Per il resto è destinato ad operare
il normale criterio di riparto fondato sulla causa petendi.
La farraginosità dell’attuale sistema di doppia tutela giurisdizionale che
solitamente impone allo straniero di procedere contestualmente con due
azioni diverse (l’una innanzi al G.A. e l’altra innanzi al G.O.) è stata da ultimo
denunciata dal Presidente del Consiglio di Stato, S.E. Mario Egidio
Schinaia, nel suo discorso di insediamento (67).
Nel caso di espulsione dovuta al mancato rinnovo del permesso di soggiorno
o alla revoca o all’annullamento dello stesso, lo straniero deve prima
DOTTRINA 329
(65) Sulla decorrenza del dies a quo dalla conoscenza del provvedimento espulsivo è
intervenuta la Corte costituzionale con sentenza 22 giugno 2000, n. 227. In senso conforme a
quello riportato nel testo anche NASCIMBENE B., Diritto degli stranieri, CEDAM 2004, 542.
(66) Cass. S.U. 2513/02.
(67) “È il caso, ad esempio, dei giudizi riguardanti l’ingresso e il soggiorno in Italia
di cittadini extracomunitari. Qui il giudice amministrativo è chiamato ad applicare una
disciplina soggetta a frequenti cambiamenti, anche ad opera della Corte Costituzionale, a
fattispecie che attengono a diritti fondamentali della persona. Alle connaturali difficoltà nel
giudicare questioni, in cui a volte l’aspetto giuridico si fonde con quello umano, si aggiunge
il problema di vicende unitarie “spezzate” sotto il profilo del riparto di giurisdizione.
Diniego del permesso di soggiorno ed espulsione del cittadino extracomunitario sono provvedimenti
che attengono ad una unica vicenda, ma che vedono due diversi giudici chiamati
ad intervenire. Esigenze di concentrazione e di razionalità del sistema consiglierebbero,
invece, di individuare un unico giudice. Valuti il legislatore quale, ma che sia solo uno”,
SCHINAIA M.E., Relazione sullo stato della giustizia amministrativa, 2007.
impugnare innanzi al TAR l’atto amministrativo presupposto e poi, sempre
tempestivamente, ricorrere al Tribunale avverso il decreto di espulsione.
In una fattispecie analoga (diniego del rilascio del permesso di soggiorno)
il TAR Sicilia (Catania) adito anche con ricorso per motivi aggiunti
(avverso il successivo decreto di espulsione), anziché declinare la propria
giurisdizione in relazione al provvedimento di espulsione aveva rimesso alla
Consulta la questione di legittimità costituzionale prospettando l’irragionevolezza
(a suo dire) della scelta del legislatore di attribuire le controversie in
materia di stranieri a due ordini giurisdizionali diversi.
La Corte costituzionale, riportandosi a propri precedenti conformi, ha
rigettato la questione (in quanto infondata) con ordinanza 414/2001 chiarendo
che i provvedimenti di espulsione e quelli relativi al permesso di soggiorno
costituiscono tipologie diverse che il Legislatore è libero di attribuire ad
ordini giurisdizionali diversi (68).
Il Giudice delle leggi, peraltro, chiudeva l’ordinanza con un obiter di
carattere generale relativo all’esercizio del potere disapplicativo del giudice
ordinario (69) che è stato di recente oggetto di ulteriore “rimeditazione”
da parte delle Sezioni Unite della Suprema Corte (70).
330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(68) “….che resta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario – suscettibile
di modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze di giustizia e ad un diverso
assetto dei rapporti sostanziali – il conferimento al giudice ordinario o al giudice amministrativo
del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione
o di incidere sui rapporti sottostanti secondo le tipologie degli interventi giurisdizionali
(sentenza n. 275 del 2001); che, allo stesso modo, rientra nella discrezionalità del legislatore,
ripartire, a seconda della tipologia e del contenuto dell’atto, la giurisdizione tra il giudice
amministrativo ed il giudice ordinario, conferendo anche un eventuale potere di annullamento
con gli effetti previsti dalla legge (v. ordinanza n. 165 del 2001); che il provvedimento prefettizio
di espulsione di un cittadino extracomunitario dal territorio nazionale è ben diverso
dagli altri provvedimenti in ordine al permesso di soggiorno (art. 5 del D.Lgs. n. 286 del
1998), attribuiti alla giurisdizione del giudice amministrativo (art. 6, comma 10, del D.Lgs. n.
286 del 1998), dal punto di vista dei poteri e della discrezionalità esercitata, dei presupposti
oggettivi e soggettivi, della sfera dei diritti soggettivi coinvolti e delle esigenze di garanzie
(art. 18, comma 2); che, pertanto, deve escludersi una palese irragionevolezza nella scelta
discrezionale del legislatore di attribuire la tutela nei riguardi dei provvedimenti di espulsione
alla giurisdizione del giudice ordinario, per le implicazioni, nella quasi totalità dei casi
necessarie, sulla libertà personale e non solo sulla libertà di circolazione dello straniero (v.
sentenza n. 105 del 2001; ordinanza n. 297 del 2001), che si trovi nel territorio nazionale al
di fuori dei limiti di vigilanza della frontiera, per la esigenza di misure coercitive per il trattenimento
e l’accompagnamento alla frontiera…”, C. Cost. 414/01.
(69) “che d’altro canto, dovendosi escludere l’esistenza di pregiudizialità amministrativa
nella materia considerata, il soggetto privato avrebbe potuto trovare piena tutela contro
il provvedimento di espulsione davanti al giudice ordinario, che avrebbe potuto esercitare
un sindacato incidentale sul presupposto atto di rifiuto o di rinnovo di permesso di soggiorno
(e disapplicarlo), con effetti di illegittimità derivata sull’atto oggetto della sua giurisdizione
piena, ovviamente se ritualmente adita”, C. Cost. 414/01.
(70) Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22217, e Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22221,
entrambe in D&G 2006, 41.
Queste ultime, pur non spiegando chiaramente le motivazioni (71),
hanno affermato che l’ordinanza della Corte costituzionale non costituisce
precedente ostativo all’orientamento seguito dalle stesse .
In realtà la giustificazione del pensiero delle Sezioni Unite può rinvenirsi
proprio nelle argomentazioni che fondano il nuovo convincimento della
Suprema Corte.
Riportandosi ai propri precedenti (72), la Cassazione, infatti, ha precisato
che il sindacato disapplicativo del G.O. può intervenire solo quando l’atto
amministrativo presupposto non costituisce il fondamento stesso della posizione
giuridica dedotta in giudizio ma viene in rilievo solo come suo antecedente
logico, dando luogo ad una questione pregiudiziale in senso tecnico,
oggetto di mero accertamento incidentale: “la disapplicazione dell’atto
amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario è infatti possibile –
come si è già rilevato – solo quando l’atto amministrativo non incida direttamente
sul rapporto giuridico sottoposto all’esame del giudice ordinario,
ma ne costituisca soltanto un presupposto senza entrare a far parte del
thema decidendum sicché della sua legittimità il giudice ordinario conosca
solo in via indiretta e incidentale e non in via immediata come si verificherebbe
nei confronti del provvedimento di annullamento o di revoca del permesso
di soggiorno che costituisca non già un antecedente logico, bensì un
mero antecedente storico che è la causa immediata del provvedimento di
espulsione che ne costituisce mera attuazione per esser venuto meno il titolo
che giustifica la permanenza dello straniero sul territorio nazionale” (73).
Ciò perché “il provvedimento di diniego, di revoca o di annullamento del
permesso di soggiorno non costituisce antecedente logico del provvedimento
di espulsione, ma solo un antecedente di fatto in quanto, per il principio
dell’esecutorietà degli atti amministrativi, il decreto di espulsione non è condizionato
al previo accertamento della legittimità del provvedimento di revoca
o di annullamento sicché il venir meno del titolo che giustifica la permanenza
dello straniero sul territorio nazionale ne comporta automaticamente
l’espulsione” (74).
DOTTRINA 331
Le pronunce, accomunate dalla questione del potere incidentale di disapplicazione
dell’A.G.O. degli atti amministrativi presupposti rispetto al provvedimento di espulsione
impugnato, hanno identica motivazione anche se si riferiscono a fattispecie diverse.
Nella prima l’A.G.O. investito del controllo dell’espulsione era stato chiamato a sindacare
i provvedimenti presupposti di rigetto dell’istanza di regolarizzazione e di revoca del
permesso di soggiorno, già impugnati innanzi al G.A.
Nella seconda il giudice dell’espulsione era stato investito anche del rigetto della
domanda di rinnovo del permesso di soggiorno scaduto.
(71) L’unica “motivazione” risultante dal testo è “ma tale affermazione non ha portata
decisiva nella risoluzione del contrasto di giurisprudenza sottoposto all’esame delle
Sezioni Unite”.
(72) Cass. 2588/02; S.U. 18263/04 e 1373/06.
(73) Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22217, e Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22221.
(74) Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22217, e Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22221.
Sulla base di queste considerazioni le Sezioni Unite hanno escluso il sindacato
disapplicativo dell’A.G.O. avente ad oggetto i provvedimenti amministrativi
presupposti nei giudizi di opposizione ai decreti prefettizi di espulsione
in quanto diversamente opinando l’A.G.O. usurperebbe la giurisdizione
del G.A: “quando il provvedimento che sia suscettibile di sindacato in via
incidentale trovi un indispensabile antecedente in un altro atto che ne consenta,
o, addirittura, ne imponga l’adozione, il quale abbia portata autoritativa
e abbia come destinatario la stessa persona a carico della quale sia
stato adottato il successivo atto vincolato (impugnabile o impugnato innanzi
al giudice amministrativo) le regole innanzi riportate, se consentono il
riscontro della sussistenza e della persistenza del provvedimento anteriore –
poiché, in caso contrario, verrebbe a mancare una delle condizioni necessaria
per l’emissione del provvedimento successivo – non autorizzano tuttavia
alcun sindacato di correttezza sull’esercizio del potere autoritativo in base
al quale l’atto presupposto è stato emanato, poiché in tal caso il controllo
sulla legittimità dell’atto anteriore, ancorché mantenuto formalmente nei
limiti dell’accertamento incidentale e della disapplicazione, si tradurrebbe
sostanzialmente in un annullamento, rendendo inoperante l’azione amministrativa
nel suo intero contenuto e nei confronti dell’unico destinatario e si
tradurrebbe, perciò, in una usurpazione di attribuzioni da parte del giudice
ordinario nei confronti del giudice amministrativo” (75).
La posizione delle Sezioni Unite è da condividere.
Il self-restraint del giudice di legittimità è più che mai opportuno, non
solo perché in questo modo non si invade l’esercizio del potere giurisdizionale
assegnato ad un altro ordine (e che nel concreto, specie in caso di giudizi
paralleli, può anche avere piena esplicazione), ma anche alla luce della
natura giuridica della situazione soggettiva attivata dallo straniero con l’impugnazione
del decreto di espulsione (interesse legittimo oppositivo).
Lo straniero, si è detto, non vanta una situazione di diritto soggettivo
perfetto alla permanenza sul territorio italiano (76). Egli è titolare solo di un
interesse legittimo oppositivo.
Prova ne sia il termine perentorio per l’impugnativa (60 giorni) modellato
sulla falsariga del giudizio amministrativo e l’immediata esecutorietà
del decreto di espulsione.
Le ragioni per l’attribuzione del giudizio all’A.G.O. secondo la Corte
costituzionale (77) risiederebbero nelle “implicazioni, nella quasi totalità dei
casi necessarie, sulla libertà personale e non solo sulla libertà di circolazio-
332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(75) Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22217, e Cass. S.U. 16 ottobre 2006, n. 22221.
(76) Ritiene che lo straniero vanti un diritto soggettivo alla permanenza sul territorio
italiano cui consegue l’attribuzione delle controversie sui provvedimenti di espulsione
all’A.G.O. LIPARI M., Il giudice ordinario e le nuove forme di tutela nei confronti della pubblica
amministrazione. Aspetti problematici della devoluzione al giudice ordinario delle
controversie in materia di atti autoritativi, in www.giustizia_amministrativa.it.
(77) C.Cost. ord. 414/01.
ne dello straniero, che si trovi nel territorio nazionale al di fuori dei limiti di
vigilanza della frontiera, per la esigenza di misure coercitive per il trattenimento
e l’accompagnamento alla frontiera”. Quindi, la ratio dell’attribuzione
delle controversie sull’espulsione dello straniero all’A.G.O. si fonderebbe
sulla interferenza dell’espulsione con questioni afferenti la libertà personale
che si manifestano specie nella fase esecutiva del decreto di espulsione.
Ma questo, tuttavia, è un dato comune anche ai provvedimenti di espulsione
ministeriale che, però, vanno impugnati dinanzi al TAR Lazio.
In realtà si potrebbero, altresì, trarre argomenti da cui desumere una giustificazione
alla giurisdizione del G.O. dalla natura vincolata dei provvedimenti
prefettizi di espulsione (78), sempre che sia costituzionalmente ammissibile
attribuire la tutela degli interessi legittimi oppositivi al giudice ordinario per
l’insussistenza di una riserva di giurisdizione in materia a favore del G.A (79).
DOTTRINA 333
(78) Ma ciò non potrebbe sostenersi in relazione ai provvedimenti di espulsione per
pericolosità che hanno natura discrezionale.
(79) Si è espressa per l’esistenza di una riserva costituzionale di giurisdizione a favore
del G.A. in materia di interessi legittimi l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza
1/2000 (“L’art. 103 della Costituzione, coordinato con l’art. 113, 1° co., riserva all’esclusiva
giurisdizione amministrativa le controversie riguardanti gli interessi legittimi ...
nelle quali va definita la legittimità degli atti costituenti espressione di un potere pubblico
e vanno verificate quali siano le conseguenze del suo illeggittimo esercizio”).
334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La tutela cautelare ante causam nell’ambito
della giurisdizione esclusiva del G.A.(*)
di Domenico Maimone
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Evoluzione del quadro normativo e giurisprudenziale di
riferimento. – 3. L’attuale contesto normativo. – 4. Il decreto presidenziale, la tutela cautelare
provvisoria (intra litem). – 5. Prospettive di tutela cautelare ante causam. – 6. La tutela
cautelare ante causam nel D.Lgs. n. 163/2006. – 6.1. L’istruzione probatoria.
1. Premessa
La vastità del tema della tutela cautelare ante causam, considerato nei
suoi molteplici aspetti, e il carattere necessariamente breve delle seguenti
note impongono a chi scrive di effettuare una scelta preliminare e di svolgere
conseguentemente una premessa.
L’opzione preliminare è di tralasciare volutamente la vasta tematica
degli strumenti di tutela interinale a disposizione del G.O. in tema di comportamenti
meri della P.A. (quelli, cioè, non implicanti, neppure mediatamente,
l’esercizio di una pubblica funzione secondo le coordinate individuate
dapprima, più genericamente, da Corte Cost. 204/04 e poi, con maggiore
dovizia di approfondimenti, da Corte Cost. n. 191/06 (1) e di concentrare
l’attenzione sulla giurisdizione cautelare del Giudice amministrativo a fronte
dei comportamenti cd. amministrativi.
La necessaria premessa concerne, invece, la genesi ed il successivo sviluppo
dell’ipotesi di una tutela cautelare ante causam innanzi al G.A.
2. Evoluzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Con la legge 205/2000, il legislatore è intervenuto sull’istituto della tutela
cautelare nel processo amministrativo, dopo un silenzio di quasi trent’an-
(*) Intervento dell’Avvocato dello Stato Domenico Maimone al Convegno di studi sul
tema I comportamenti della pubblica amministrazione, tenutosi a Catania il 17-18 novembre
2006 (Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, Centro
Nazionale Studi di Diritto del lavoro “Domenico Napoletano”, sezione di Catania, Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Catania).
(1) La Corte opportunamente chiarisce che va espunto dall’articolo 53 del Testo Unico sulle
espropriazioni (che ha riprodotto nella sostanza l’art. 34 del D.Lgs. n. 80/1998) non la parola
“comportamenti” ma l’accezione riferita a comportamenti che non siano riconducibili – neanche
mediatamente – all’esercizio del potere pubblico. Ciò vuol dire che il Giudice Amministrativo
permane come Giudice naturale dei comportamenti che siano espressione del potere pubblico. È
chiaro, a questo punto, che il Giudice Amministrativo non è il giudice dell’atto, titolare di una
signoria di mero annullamento soltanto sui provvedimenti amministrativi, ma è destinato a sindacare
tutta la pletora delle condotte che siano espressione e consacrazione del potere pubblico
e, quindi, anche i comportamenti, purché ovviamente non si tratti di comportamenti sine titulo,
come tali non legati, neppure mediatamente, all’esercizio del potere pubblico.
DOTTRINA 335
ni (L. 1034/71) e in ritardo di dieci rispetto alla riforma del rito civile introdotta
dalla legge n. 353/90, che aveva interessato anche il procedimento cautelare
definendone per la prima volta un modello uniforme.
La nuova disciplina ha codificato principi ed elaborazioni giurisprudenziali
già da tempo stratificatisi a fronte di un dato normativo – l’art. 21 legge T.A.R.
– assai limitato ed incentrato esclusivamente sulla tutela di tipo inibitorio della
esecutività del provvedimento impugnato, funzionale e coerente rispetto ad un
modello processuale di tipo tradizionalmente impugnatorio-demolitorio.
A dare impulso all’esigenza di ampliare l’area del giudizio cautelare, in
un’ottica di valorizzazione dell’art. 24 Cost., hanno concorso, oltre
all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – che ha progressivamente ritenuto
adottabili anche misure interinali atipiche, dirette a cautelare tutte le situazioni
soggettive conoscibili in sede di merito, al fine di ovviare agli eventi dannosi
derivanti dal periculum in mora (2) – le aperture della Corte
Costituzionale, concretizzatesi nella fondamentale sentenza n. 190 del 25 giugno
1985 (introduttiva dei provvedimenti di urgenza nelle controversie patrimoniali
in materia di pubblico impiego, oggetto di giurisdizione esclusiva) (3).
Ancorché le successive letture riduzionistiche, fondate sulla specificità
della materia interessata dalla pronuncia della Corte, hanno impedito l’esportabilità
della soluzione adottata dal Giudice delle leggi ad altri campi della giurisdizione
esclusiva, creando una stridente sperequazione tra i diversi diritti
soggettivi affidati alle cure del G.A., è apparso via via sempre più chiaro che
l’incompatibilità tra il rimedio classico inibitorio e la tutela di posizioni di
diritto soggettivo – la cui lesione non richiede necessariamente un provvedimento
ma è concepibile, forse a maggior ragione, da parte di un comportamento,
e il cui ristoro interinale necessita di misure positive non preventivabili e
quindi atipiche – investisse tutte le materie di giurisdizione esclusiva.
La progressiva dilatazione delle materie affidate alla giurisdizione esclusiva,
secondo il censurato metodo dei cd. blocchi di materie (4), ha reso sempre
più evidente detta incompatibilità. A titolo di esempio, può essere preso in
esame il profilo della tutela urgente del diritto alla salute in tema di servizi pubblici:
aspetto devoluto (prima degli interventi ortopedici della C.Cost. 204/04)
alla giurisdizione esclusiva del G.A. in base all’art. 33 D.Lgs. 80/98; si pensi
ancora alla tutela urgente dei crediti pecuniari, esigenza alla quale, da parte del
(2) V. decisione 27 aprile 1982 n. 6 in Foro It., 1982, III, 229; ord. 8 ottobre 1982 n. 17
in Foro It., 1983, III, 41; ord. 1 giugno 1983 n. 14 in Foro It., 1984, III, 72.
(3) In Foro It. 1985, I, 1881, con nota di A. PROTO PISANI.
Come è noto, alla Corte era stata rimessa la questione di contrasto dell’art. 21, u.c., legge
T.A.R. con gli artt. 3 e 113 Cost. nella parte in cui prevedeva la sola sospensione dell’atto gravato,
non consentendo al pubblico dipendente di ottenere la medesima tutela assicurata in via
cautelare al lavoratore privato dall’art. 423 c.p.c. che consente invece al giudice del lavoro di
emettere ordinanze di pagamento di somme non contestate in corso di giudizio.
(4) V. C.Cost. n. 204/04 e n. 281/04.
336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
legislatore, si è solo di recente apprestato lo strumento sommario non cautelare
(monitorio) e delle ordinanze ex art. 186 bis, ter e quater c.p.c. (5).
Nel richiamato quadro evolutivo, non può essere ovviamente pretermessa
l’influenza della giurisprudenza comunitaria nella definizione di un sistema di
tutela cautelare non più limitato alla mera sospensione dell’efficacia dell’atto ma
esteso all’adozione di provvedimenti propulsivi. Tralasciando i profili concernenti
la tutela cautelare dinanzi alla Corte di Giustizia avverso atti delle
Istituzioni europee che si assumano illegittimi (espressamente prevista dagli artt.
242 e 243 del Trattato CE), in questa sede è opportuno porre in evidenza come
la necessità di tutelare adeguatamente le posizioni soggettive di derivazione
comunitaria anche innanzi ai giudici nazionali abbia indotto la Corte ad una
serie di interventi estremamente interessanti sotto il profilo che qui interessa (6).
Sul versante giurisprudenziale interno di primo grado, decisivo sostegno
a questa opera di tendenziale ampliamento delle cautele giurisdizionali
apprestate al ricorrente privato nei confronti dell’agire (e del non agire)
amministrativo è derivato dalla prassi applicativa dei T.A.R. (7). Degno di
particolare menzione, in tal senso, è il ruolo della sezione di Catania del
Tribunale Amministrativo Regionale per la Regione Siciliana (8).
(5) V. art. 3 legge 205/2000.
(6) V. Sentenza 19 giugno 1990 (C-213/89 Factortame), in Foro Amm., 1991, 1885, con
nota di CARANTA, sulla possibilità di una ordinanza direttamente attuativa della posizione
soggettiva tutelata dall’ordinamento comunitario, in base al principio di primazia del diritto
comunitario rispetto alla legislazione nazionale: se da un lato l’ordinamento comunitario
riconosce la sovranità degli Stati membri nella disciplina delle forme processuali di tutela
delle posizioni soggettive riconosciute dal diritto comunitario, dall’altro detta autonomia
incontra il duplice limite della non discriminazione della posizione soggettiva di derivazione
comunitaria rispetto a quella nazionale e della necessità che la tutela apprestata dal singolo
ordinamento non risulti impossibile o eccessivamente difficile, sì da impedire il cd.
effetto utile della normativa comunitaria.
V. ancora, sentenza 21 febbraio 1991 (C-143/88 e C-92/89 Zuckerfabrik), in Riv. it. dir.
pubbl. comunit., 1992, 125, con nota di G. TESAURO; Sentenza 9 novembre 1995 (C-465/93
Atlanta). La Corte ammette che il giudice nazionale possa non solo sospendere il provvedimento
contrastante con il diritto comunitario, ma anche emettere misure di contenuto positivo
o ingiuntivo. Sullo sfondo del ragionamento che conduce ad una tale innovativa soluzione
vi è l’indifferenza del diritto comunitario per la dicotomia (tutta) italiana diritto soggettivo
– interesse legittimo.
Per un’agile ed intelligente rassegna delle decisioni in esame, cfr. G. D’ALLURA, La
tutela cautelare amministrativa ed ordinaria, p. 5 e ss., in atti del Convegno di Taormina 1
marzo 2003 La tutela cautelare amministrativa ed ordinaria – Il pubblico impiego, ed.
Centro Nazionale Studi di Diritto del lavoro “Domenico Napolitano”, Sezioni di Catania e
dell’Area dello Stretto, 2003.
(7) Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, III, decr. Pres. 14 novembre 1997, n. 758, in Foro
Amm., 1998, 1158; T.A.R. Lombardia, Milano, III, decr. Pres. 28 gennaio 1998, n. 1, in Urb.
e app., 1998, 1334.
(8) A titolo esemplificativo, per l’applicazione dell’art. 700 c.p.c. nelle nuove materie
rientranti nella giurisdizione esclusiva del G.A. si ricordi T.A.R. Sicilia, sez. Catania, sez.
III, decr. Pres. 23 giugno 1998.
DOTTRINA 337
La predetta evoluzione, ordinata ad attuare il principio di effettività della
tutela giurisdizionale della quale è complemento essenziale la tutela cautelare
(9), ha inciso in modo rilevante sulla portata dell’istituto che, da strumento
tipico di sospensione dell’attività amministrativa, ha assunto un ruolo sempre
più determinante nella tutela, oltre che degli interessi oppositivi, anche
degli interessi pretensivi, divenendo il baricentro del processo amministrativo.
Basti pensare alle pronunce favorevoli (propulsive o addirittura sostitutive)
nel vasto settore dei provvedimenti negativi, compresi gli atti di diniego
o di rifiuto, e alle diverse tipologie di misure inibitorie che hanno contrassegnato
la produzione giurisprudenziale degli ultimi decenni, per evidenziare il
contributo rilevante del giudice cautelare nella ricerca delle soluzioni urgenti,
ritenute più idonee a contemperare gli opposti interessi coinvolti.
Il pensiero va, ancora, alle misure cautelari adottate a fronte di provvedimenti
di esclusione da gare d’appalto o da concorsi, o di diniego di rinnovo di concessioni
(10). Si tratta di misure cautelari che comportano la produzione, seppure
in via interinale, esattamente di quei risultati che il provvedimento impugnato
intende impedire; e quindi consentono di anticipare gli effetti della sentenza
di accoglimento (o, più precisamente, del riesercizio del potere amministrativo
conformato dalla sentenza e, in caso di inerzia, del giudizio di ottemperanza).
La misura cautelare diviene non più soltanto strumento di conservazione
provvisoria di una situazione a rischio di pregiudizio irreparabile, quanto
piuttosto un mezzo che consente la momentanea modifica della situazione di
fatto e di diritto dedotta in giudizio, fermi restando gli effetti destinati a scaturire
dalla definizione del merito della controversia (11).
Per quanto concerne, invece, il comportamento inerte tenuto
dall’Amministrazione, si può agevolmente rinviare alle elaborazioni giurisprudenziali
sulla possibilità di sospendere il silenzio, anche se tale eventualità
va oggi raccordata con la possibilità di ricorrere autonomamente
avverso il silenzio utilizzando all’uopo il rito speciale di cui all’art. 21 bis
legge n. 1034/71 (12) e alla conseguente possibilità di ottenere una deci-
(9) V. C.Cost. sent. n. 249 del 16 luglio 1996, in Giust. Civ., 1997, I, 33 “…la disponibilità
delle misure cautelari è strumentale alla effettività della tutela giurisdizionale e costituisce
espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore
che ha ragione…”. V. anche C.Cost. n. 427 del 10 novembre 1999.
(10) Cfr. Ad. Plen. 8 ottobre 1982, n. 17, in Foro It., 1983, III, 41 sulle cd. ammissioni con
riserva: “l’ordinanza di sospensione opera sull’effetto preclusivo del provvedimento di non
ammissione e per conseguenza consente l’ammissione del candidato all’esame in via provvisoria”;
V. anche Ad. Plen. 20 dicembre 1999 n. 2 sull’ammissione con riserva al concorso di uditore
giudiziario di coloro che, in sede di prova preselettiva, avevano commesso un solo errore.
(11) F. CARINGELLA, Corso di diritto processuale amministrativo, Giuffrè, 2003, p. 995.
(12) Per una pregevole disamina dell’istituto processuale, v., da ultimo, A. SCIRÈ, Il rito
contra silentium a tutela dei diritti soggettivi?, nota a sentenza C.G.A.R.S. n. 726 del 4
novembre 2005 e a sentenza T.A.R. Catania n. 1983 del 3 novembre 2005, in Foro Amm.
C.D.S., 2006, fasc. 3, p. 1018 e ss.
Prescindendo dagli argomenti tradizionali utilizzati per escludere l’utilizzo dello speciale
rito del silenzio a tutela di diritti soggettivi attratti alla giurisdizione esclusiva del G.A.,
338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
sione (entro certi limiti, anche sulla fondatezza della pretesa) (13) in tempi
assai circoscritti.
il lavoro si segnala per l’individuazione di due interessanti ragioni, tese ad escludere l’estensione
propugnata dalla sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana e a confermare l’indirizzo giurisprudenziale largamente maggioritario:
“Se il processo amministrativo su diritti soggettivi ha natura di processo di accertamento
o di condanna, deve pure ammettersi che in esso debbano trovare applicazione le regole proprie
del processo civile, ivi comprese quelle relative al riparto dell’onere probatorio tra le parti.
Infatti, mentre l’interesse legittimo viene tutelato attraverso il sindacato giurisdizionale
sull’esercizio del potere, il diritto soggettivo è tutelato attraverso l’accertamento del fatto
costitutivo della pretesa azionata, o dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi eventualmente
opposti in via d’eccezione dal convenuto; ne consegue che chi vanta una posizione di
diritto dovrà fornire la prova in ordine ai fatti costitutivi della propria pretesa, in applicazione
della regola processualcivilistica desumibile dagli art. 2697, c.c., e 115, c.p.c., secondo
la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare specificamente i fatti posti a fondamento
delle proprie pretese, restando a carico dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 2697
comma 2, c.c., la prova dei fatti eventualmente impeditivi o estintivi del diritto.
Il ricorrente che vanti una posizione di diritto in giurisdizione esclusiva ha inoltre, di
regola, piena disponibilità dei fatti costitutivi della propria pretesa; di conseguenza, non può
trovare applicazione in suo favore quella particolare attenuazione dell’onere probatorio che
è tipico del giudizio sugli interessi (che si esprime nel c.d. principio di prova). Egli sarà così
gravato da un pieno onere della prova in ordine ai fatti dedotti.
Ove si ammettesse la procedura del silenzio a tutela di diritti soggettivi, viceversa, l’onere
della prova in ordine ai fatti costitutivi della pretesa azionata verrebbe spostato dalla
parte che ne è gravata (il ricorrente) all’amministrazione resistente. Quest’ultima sarebbe
così tenuta a provare non soltanto l’inesistenza dell’obbligo di provvedere, ma anche l’infondatezza
della pretesa del ricorrente, ammesso che ci fosse quell’obbligo.
In secondo luogo, può rilevarsi come il particolare rito del silenzio, previsto dall’art. 21
bis, lg. T.A.R., è stato concepito quale rimedio atto a sopperire all’inerzia dell’amministrazione
in vista di un suo intervento esterno al processo; in tal senso, anche per il tradizionale
orientamento giurisprudenziale che limitava l’oggetto del processo all’illegittimità del
silenzio, il giudizio non poteva connotarsi in ogni caso come giudizio di puro accertamento,
non limitandosi il ricorrente a chiedere che fosse dichiarata l’esistenza di un suo diritto,
ma, piuttosto, che venisse accertato l’obbligo dell’amministrazione di provvedere.
Viceversa, il ricorrente che agisca per la tutela di un diritto soggettivo pretende dal
Giudice una tutela che è interna al processo, essendo data dal processo medesimo, rispetto
al quale l’attività amministrativa successiva (o la successiva attività del commissario ad
acta) si connota quale attività di mero adempimento.
In altri termini, l’indagine sul preteso inadempimento dell’amministrazione, nel particolare
meccanismo descritto dall’art. 21 bis, lg. T.A.R., appare funzionale all’emanazione dell’ordine
del giudice «di provvedere», laddove nel giudizio di accertamento del diritto il ricorrente
«non vanta alcun diritto subbiettivo verso l’avversario se non lo stesso diritto di azione, coordinato
a un interesse d’accertamento». Dunque, non una prestazione che si pretende dal convenuto,
ma l’accertamento della spettanza del bene cui inerisce la pretesa rimasta in evasa”.
(13) Cfr. art. 2, comma 5, legge 241/1990, già modificato dagli artt. 2 e 21, legge 11 febbraio
2005, n. 15, e così successivamente sostituito dall’art. 3, comma 6-bis, D.L. 14 marzo 2005,
n. 35, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, L. 14 maggio 2005, n. 80).
Secondo l’orientamento maggioritario che va affermandosi sul punto, si tratterebbe
delle sole ipotesi di attività vincolata. Cfr. T.A.R. Campania, sez. IV, 17 marzo 2006 n. 3099;
T.A.R. Sicilia, Catania, 17 ottobre 2005 n. 1723; T.A.R. Veneto, sez. I, 2 agosto 2005 n.
3062; T.A.R. Calabria, 21 luglio 2005 n. 1356.
DOTTRINA 339
Con riguardo a quest’ultimo punto, invero, l’estrema celerità cui è ispirato
il rito sul silenzio induce a ritenere sostanzialmente inutile l’utilizzo
della misura cautelare e, segnatamente, delle cd. ordinanze propulsive che,
obbligando l’Amministrazione a provvedere espressamente, costituiscono
una duplicazione rispetto alla sentenza “succintamente motivata” prevista
all’esito del processo accelerato. Pertanto, in tale ipotesi, rimarrebbe forse
spazio solo per le misure cautelari provvisorie adottate con decreto presidenziale,
al fine di scongiurare il pregiudizio che potrebbe verificarsi “durante il
tempo necessario per giungere ad una decisione sul ricorso”, ogni qual volta
possa paventarsi un pregiudizio nel ristretto lasso di tempo occorrente per
pervenire alla sentenza resa ex art. 21 bis (14).
A conclusione della premessa, va infine considerato che, attraverso l’introduzione
delle misure atipiche, non più circoscritte alla mera sospensione
degli effetti dell’atto, si è estesa l’area delle situazioni soggettive tutelabili,
mediante la verifica della legittimità non solo degli atti ma anche dei comportamenti
variamente riconducibili all’esercizio del pubblico potere e, quindi,
rientranti nella giurisdizione esclusiva del G.A.
3. L’attuale contesto normativo.
Il nuovo art. 21 comma 8 consente al giudice amministrativo, in sede
cautelare, di adottare le misure che risultino, relativamente alla singola fattispecie,
più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti sulla decisione del
ricorso, ivi compresa l’ingiunzione a pagare una somma di denaro.
Nell’ottica del legislatore del 2000, il contenuto della misura cautelare si
modella in rapporto al risultato da raggiungere, la tutela cautelare diventa
additiva o positiva e si concreta in un provvedimento più incisivo di quanto
non fosse la semplice sospensiva. In coerenza, la norma espressamente consente
l’adozione di una misura cautelare, ricorrendone i presupposti, con
riferimento sia ad un atto impugnato, sia ad un comportamento della P.A.
L’interprete si trova di fronte ad una formula normativa che riecheggia
fortemente quella dell’art. 700 c.p.c., pur mancando nella misura adottabile
dal G.A. quel carattere di residualità che invece connota la misura cautelare
atipica del giudice civile, il quale deve prima valutare se non sia possibile
adottare altra misura prevista espressamente dal codice (15). Nel processo
amministrativo, infatti, la misura cautelare, ancorché atipica, si caratterizza
(14) Con specifico riferimento all’emissione di un decreto presidenziale, che ha accordato
una misura cautelare monocratica nell’ambito di un giudizio avverso il silenzio serbato
dall’Amministrazione su un’istanza di rinnovo di un’autorizzazione, v. T.A.R.
Lombardia, III, 28 dicembre 2000, n. 472, in www.lexitalia.it, con nota di D. CORTESI.
(15) E. FOLLIERI, Il nuovo giudizio cautelare: art. 3 legge 21 luglio 2000 n. 205, in
Cons. St., 2001, 479. Cfr. G. LO PRESTI, Strumentalità e tutela cautelare anticipatoria. Quali
prospettive nell’ordinamento della giustizia amministrativa, p. 14, in atti del Convegno di
Taormina 1 marzo 2003, La tutela cautelare amministrativa ed ordinaria – Il pubblico
impiego, cit.
340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
quale misura unica, interamente assorbente la vasta gamma delle istanze cautelari
astrattamente configurabili.
L’unico limite presente nella nuova disciplina sembra ancora collegato
alla necessità che le misure adottabili siano comunque preordinate ad assicurare
provvisoriamente gli effetti della decisione finale. Sarebbe pertanto ribadito,
anche nella nuova formulazione il fondamentale carattere della strumentalità
della misura cautelare (16) attraverso la esplicita ed innovativa
valorizzazione, sul piano dei requisiti, del momento dell’emergente fondatezza
della domanda: L’ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione
del pregiudizio allegato, ed indica i profili che ad un sommario esame,
inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso (17).
Ma l’assunto merita forse di essere rivisitato, già in sede di prima
approssimazione, considerando quanto avvenuto con le recenti modifiche
recate al rito cautelare civile dal D.L. 35/2005 (conv. in legge 80/2005), laddove
la omessa instaurazione del giudizio di merito entro il termine fissato
dal giudice o, in subordine, previsto dalla legge non comporta più la sopravvenuta
inefficacia della misura cautelare concessa (18). Rilievo non indiffe-
(16) Pone la questione in via dubitativa G. LO PRESTI, op. cit. p. 15 e ss. Secondo l’A.,
occorre stabilire se il nuovo sistema rimanga ancora permeato dal principio di strumentalità
tra fase cautelare e giudizio di merito, ovvero se l’affermazione della tendenziale atipicità
delle misure cautelari abbia segnato un sostanziale superamento del rigido collegamento
di strumentalità tra fase parentetica e giudizio di merito, come avviene in buona misura nel
processo civile e conformemente alle indicazioni desumibili dal diritto comunitario. “In altri
termini, si tratta di verificare se l’atipicità delle misure cautelari, introdotta a chiare lettere
dalla nuova normativa, possa essere intesa in senso assoluto e massimizzante, ovvero se
debba essere concretamente dimensionata tenendo conto della specificità del processo
amministrativo in cui la tutela cautelare si colloca, cercando di evitare il rischio che, sulla
via di una garanzia quanto più efficace possibile per il cittadino, si finisca con lo sfociare
in una sostanziale confusione fra giurisdizione ed amministrazione”.
(17) Rileva MORVIDUCCI, Fumus boni juris e misure cautelari nel processo comunitario,
in Riv. dir. pubbl. comunit., 1999, 705, 729, come l’originaria giurisprudenza del Consiglio di
Stato considerasse trascurabile, in sede di delibazione cautelare, l’elemento della presumibile
fondatezza del ricorso, limitandosi ad escludere solo i casi di palese irricevibilità.
L’elaborazione giurisprudenziale successiva, in linea con quanto tradizionalmente previsto nel
processo civile e pur nel silenzio della legge (art. 21 legge T.A.R. vecchia formulazione), ha
tuttavia autonomamente individuato l’ulteriore presupposto del fumus boni juris la cui assenza,
nella prassi, è stata pacificamente ritenuta sufficiente a far respingere l’istanza cautelare.
(18) Cfr. art. 669 octies, commi 5, 6 e 7, c.p.c. La riforma del 2005 supera il vincolo
della strumentalità, invero, una volta ottenuta ante causam la misura cautelare, l’attore non
ha più l’onere di instaurare (nel termine perentorio fissato dal giudice o, in mancanza, in
quello di 30 giorni previsto dal c.p.c.) il giudizio di merito (che sarà quindi onere della controparte
attivarsi a proporre), a pena d’inefficacia della misura stessa. La misura cautelare,
anzi, sopravvive pure all’eventuale estinzione del giudizio di merito, fatta salva la possibilità
che il soggetto soccombente nella fase cautelare chieda la revoca o la modifica della
misura, in presenza di sopravvenuti mutamenti nelle circostanze. Si verifica, quindi, un
rovesciamento della disciplina finora tracciata dalle norme processuali, che, per quanto non
auspicabile, il legislatore potrebbe decidere di adottare anche nel giudizio amministrativo.
DOTTRINA 341
rente dovrebbe poi assumere, sebbene nel contesto della materia delle procedure
di affidamento di rilevanza comunitaria, la direttiva ricorsi
(89/665/CEE) (19), laddove, facendo riferimento alla tutela cautelare, non
pone alcun limite di strumentalità fra pronunzia interinale e sentenza che
definisce il merito (20).
4. Il decreto presidenziale, la tutela cautelare provvisoria (intra litem).
Tanti sono i profili di innovazione processuali (21) e sostanziali (22) del
nuovo art. 21 legge T.A.R., ma – ai fini che più interessano – la novità di
maggiore impatto introdotta dall’art. 3 legge n. 205/00 nel sistema cautelare
del processo amministrativo concerne la possibilità per il ricorrente di chiedere
al Presidente del T.A.R., o della Sezione cui il ricorso è assegnato, di
disporre misure provvisorie volte a tutelare la posizione del ricorrente fino
alla trattazione collegiale della istanza cautelare.
Precisamente, l’art. 21, comma 9, Legge T.A.R. prevede che “prima
della trattazione della domanda cautelare, in caso di estrema gravità ed
urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della
camera di consiglio, il ricorrente può, contestualmente alla domanda cautelare
o con separata istanza notificata alle controparti, chiedere al presidente
del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è
assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie. Il presidente provvede
con decreto motivato, anche in assenza di contraddittorio. Il decreto è efficace
sino alla pronuncia del collegio, cui l’istanza cautelare è sottoposta nella
prima camera di consiglio utile”.
Nonostante la indubbia innovazione rispetto al precedente assetto normativo,
la disciplina sul decreto monocratico non sembra avere soddisfatto
appieno le sollecitazioni al potenziamento delle tecniche di intervento cautelare
del G.A. provenienti da taluni Tribunali amministrativi regionali (23),
(19) Direttiva del Consiglio C.E. in G.U.C.E. 30 dicembre 1989, L 395/33.
(20) V. C. Giust. sentenza 19 novembre 1996 (C-236/95), in Giust. Civ. 1996, con nota
di M. PROTTO; sentenza 15 maggio 2003 (C-214/00), in Urb. App. 8/2003, 885, con nota di
R. CARANTA; Sentenza 29 aprile 2004 (C-202/03).
(21) Ci si riferisce, in particolare, alla codificazione della appellabilità della misura,
con esplicita determinazione del dies a quo (notifica o comunicazione del deposito) e dell’innovativo
termine cd. “lungo” di impugnazione (120 gg.); alla previsione di un procedimento
di esecuzione coattiva modellato sui poteri del G.A. nel giudizio di ottemperanza; alla
previsione del potere di revoca e modifica della misura per fronteggiare evenienze sopravvenute;
al regime delle spese in caso di rigetto; alla priorità nella fissazione dell’udienza di
discussione in caso di accoglimento; al possibile raccordo immediato tra fase cautelare e
decisione di merito in forma semplificata; alla possibilità di condizionare il provvedimento
alla prestazione di una cauzione.
(22) V. quanto affermato in ordine alla atipicità e alla strumentalità della misura, alla
valorizzazione del requisito del fumus boni iuris. Si pensi ancora alla introduzione esplicita
dell’obbligo di motivazione.
(23) Cfr. T.A.R. Lombardia sez. III, decr. Pres. 14 novembre 1997 e 3 aprile 1998 in
Urb. e app., 1998, 1334 e ss., con nota di G.M. SIGISMONDI.
342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
propensi a riconoscere (nel silenzio della legge) l’esercizio di un potere cautelare
non solo monocratico ed anticipato rispetto all’instaurazione piena del
contraddittorio – come quello appena esaminato – ma strictu sensu ante causam
sulla falsa riga di quello previsto dall’art. 669 ter c.p.c. (24).
È infatti evidente che il decreto monocratico di cui all’art. 21, comma 9,
Legge T.A.R., potendo essere emanato solo quando il ricorso sia stato (quanto
meno) depositato (25), non possa essere considerato un provvedimento
cautelare anteriore all’instaurazione del giudizio ma solo una forma di tutela
accelerata nell’ambito di un processo già pendente, ancorché a contraddittorio
semipieno o imperfetto o temporaneamente assente. Il legislatore fa
invero riferimento alla richiesta di misura cautelare proveniente dal “ricorrente”,
ossia da un soggetto che tale particolare qualifica abbia acquisito con
la proposizione del ricorso. La legge prevede poi che l’istanza debba essere
presentata al presidente del Tribunale o della sezione “cui il ricorso è stato
assegnato”, presupponendo che il giudizio sia già incardinato ed assegnato
ad una delle eventuali sezioni interne.
Il riferimento all’eventuale “assenza del contraddittorio” va pertanto
inteso quale possibilità di provvedere inaudita altera parte, il che ovviamente
non esclude che il Presidente, prima di provvedere, decida di ascoltare
ugualmente le argomentazioni difensive delle altre parti. Sarà l’organo
monocratico a stabilire, caso per caso, se sia necessario convocare le parti
davanti a sé in tempi ristrettissimi, per consentire difese orali o scritte, ovvero
richiedere l’acquisizione di atti e documenti nei termini e nei modi ritenuti
opportuni (e-mail, fax ecc.) (26).
Esiste, tuttavia, un originale ed innovativo orientamento del T.A.R.
Catania (sez. II, decr. Pres. 6 dicembre 2001, n. 32) in base al quale la
domanda preliminare di sospensione del provvedimento impugnato può
essere esaminata ed accolta con decreto presidenziale ancor prima della notifica
del ricorso introduttivo alla Amministrazione resistente ed agli eventuali
controinteressati. Infatti, ancorché il primo comma dell’art. 3 della legge
205/00 nella prima parte sancisca che l’istanza di concessione di misure cautelari
provvisorie deve essere notificata alle controparti, nella seconda parte
dispone altresì che il Presidente provvede con decreto motivato anche in
assenza di contraddittorio, non richiedendo quindi la notifica del ricorso
(24) È stato limpidamente sottolineato, F. CARINGELLA, Corso di diritto processuale
amministrativo, cit., p. 1030, che attraverso l’introduzione del decreto cautelare, si sposa
con chiarezza un’opzione mediana che, da un lato ammette il ricorso allo strumento monocratico
così depotenziando il dogma della collegialità delle decisioni nel rito amministrativo;
dall’altro non ammette una tutela ante causam, in quanto, in ciò marcando una differenza
rispetto al rito civile, richiede che la misura presidenziale sia richiesta dal ricorrente,
ossia da un soggetto che tale veste venga ad acquisire per effetto della notifica e del successivo
deposito dell’atto introduttivo del giudizio.
(25) V. T.A.R. Sicilia, sez. stacc. Catania, sez. II, decr. Pres. 6 dicembre 2001, n. 32, su
cui subito nel testo.
(26) Cfr. F. CARINGELLA, Corso… cit., 1073.
DOTTRINA 343
stesso. Alla luce di una non implausibile interpretazione del principio di cui
all’art. 101 c.p.c., il decreto presidenziale potrebbe dunque essere adottato
anche inaudita altera parte, al fine di sottoporre l’istanza cautelare all’esame
immediato e preventivo del Presidente (27) (28).
5. Prospettive di tutela cautelare ante causam.
Orbene, la mancanza nel giudizio amministrativo, nonostante la riforma
del 2000, di uno strumento di tutela ante causam è stata al centro di un acceso
dibattito in giurisprudenza.
È stato notato che dovrebbero sussistere degli strumenti idonei a consentire
al G.A. di intervenire in via immediata per la salvaguardia delle posizioni
giuridiche soggettive in ipotesi di urgenza tali da non risultare compatibili
con i tempi della instaurazione del giudizio.
In particolare, si è ritenuto che la mancanza nel giudizio amministrativo
di uno strumento processuale tale da garantire una tutela ante causam costituisca
una evidente violazione agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione (che
riconoscono implicitamente il rilievo primario della res integra) (29), non-
(27) “[…] Il cennato principio generale del contraddittorio non impedisce tuttavia, com’é
fatto palese dalla proposizione (contenuta, come si è visto, nello stesso articolo 101 c.p.c.), che
il fondamentale postulato dell’eguaglianza delle parti e della possibilità di difendersi possa
restare sostanzialmente integro anche nelle ipotesi in cui il legislatore abbia previsto, che ciò
possa realizzarsi anche dopo la pronunzia del provvedimento giurisdizionale. Il che, com’è
noto, si verifica essenzialmente nelle ipotesi (costituenti in realtà eccezioni più apparenti che
reali alla regola del contraddittorio immediato o anticipato, quale contemplato in via di paradigma
o modello generale del ripetuto art. 101 c.p.c.) dei procedimenti di ingiunzione ex artt.
633 e ss. c.p.c., dei procedimenti cautelari immediati ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., nonché
(come nel caso in esame) dei procedimenti per la concessione di misure cautelari provvisorie
ex art. 21, comma 9, legge T.A.R., introdotto dall’art. 3, comma 1, legge n. 205/2000”.
V. anche T.A.R. Sicilia, sez. stacc. Catania, decr. Pres. 4 maggio 2002, n. 997.
Di segno opposto T.A.R. Toscana, decr. Pres. 1053/03 del 28 ottobre 2003. Al riguardo,
si è ritenuto che, in difetto di valida notifica all’Avvocatura dello Stato, l’istanza di misura
cautelare anticipata non possa essere esaminata, ancorché la stessa sia stata notificata
direttamente all’Amministrazione. Occorre, tuttavia, rappresentare che anche la sezione
staccata del Tribunale siciliano ha successivamente rivisitato il suo divergente orientamento,
imponendo che il richiedente depositi il ricorso, contenente l’istanza cautelare provvisoria,
munito dell’attestazione della avvenuta consegna all’Ufficiale giudiziario.
(28) È appena il caso di evidenziare che, sempre secondo T.A.R. Catania (II, decr. Pres.
n. 94 del 17 gennaio 2004), il Presidente che ha concesso il decreto cautelare deve provvedere,
in caso di inottemperanza, anche alla sua esecuzione nelle stesse forme, adottando le
“disposizioni attuative” previste dall’art. 21, comma 14, della legge 1034/71.
(29) Si noti, peraltro, che un esplicito riconoscimento del rilievo costituzionale della
tutela cautelare è contenuto nel disegno di legge costituzionale n. S 2010, d’iniziativa dei
senatori Dentamaro, Folloni, Callegaro, Camo, Cimmino, Costa, Firrarello, Gubert,
Ronconi e Zanoletti: Modifica degli articoli 97, 99, 100, 103, 111 e 113 della Costituzione
in materia di pubblica amministrazione, organi ausiliari, giustizia amministrativa, presentato
al Senato il 23 gennaio 1997: […] art. 113 Cost. […]“Contro gli atti e i comportamenti
della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale anche cautelare
delle situazioni giuridiche soggettive.
344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ché degli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei
Diritti dell’Uomo (i quali prevedono la necessità che gli stati firmatari adottino
strumenti di intervento a tutela delle situazioni giuridiche soggettive di
maggior rilievo nelle ipotesi di urgenza). Il riferimento normativo principale
è poi stato individuato nell’art. 2 della direttiva ricorsi (n. 89/665 CEE)
che impone, in tema di procedure di affidamento di lavori, forniture e servizi,
efficaci forme di tutela provvisoria, tra cui la tempestiva sospensione dell’aggiudicazione
(30).
Sul fronte del diritto interno, è stato anche tentato l’approccio al modello
processual-civilistico (art. 669 bis e ss. c.p.c.), ritenuto dal T.A.R. Catania, in
base alla previsione di cui all’art. 669 quaterdecies c.p.c., disciplina generale
applicabile agli “altri provvedimenti cautelari previsti da leggi speciali” (31).
In questo clima favorevole, il T.A.R. Lombardia, Sez. III, ord. Pres. 15
febbraio 2001, n. 1, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art.
21 Legge T.A.R. (nella nuova stesura derivante dalla legge di riforma
n. 205/00) nella parte in cui, in contrasto con i principi costituzionali in tema
di diritto alla difesa, non prevede la possibilità di adottare misure di tutela
cautelare ante causam analoghe a quelle di cui agli artt. 669 ter c.p.c. (32).
La Corte Costituzionale, con ordinanza 10 maggio 2002, n. 179, ha tuttavia
dichiarato infondata la questione, osservando che rientra nella discrezionalità
del legislatore differenziare, in relazione alla specificità della materia,
la tutela cautelare davanti al G.A. rispetto a quella davanti al G.O. (33).
La legge organica può disciplinare i giudizi contro la pubblica amministrazione in
modo da rendere compatibile l’effettiva tutela delle situazioni giuridiche soggettive con la
stabilità di determinate categorie di decisioni, prevedendo il ricorso a strumenti di reintegrazione
alternativi all’annullamento degli atti.
La legge disciplina il sindacato giurisdizionale sugli atti delle Autorità amministrative
indipendenti, anche mediante l’istituzione di sezioni specializzate ai sensi del terzo comma
dell’art. 102”.
(30) Cfr. C. Giust. CE Sent. 19 settembre 1996 (C-236/95) cit.
(31) Sez. III, decr. Pres. 23 giugno 1998. Di segno opposto la posizione assunta sul
tema dal Consiglio di Stato: cfr. sez. V. ord. 28 aprile 1998, n. 781, in Urb e app., 1998, 1334
ss.; v. anche e Cons. Stato, sez. V. ord. 28 aprile 1998, n. 784, in Foro Amm., 1999, 425: i
provvedimenti cautelari presidenziali ante causam furono in quella sede definiti “abnormi”,
in quanto adottati da soggetti sforniti di potere giurisdizionale data la riserva di collegialità
che caratterizza(va) la fase cautelare.
(32) In Urb. e app., 2001, 770, con nota di F.F. TUCCARI.
(33) In Urb. e app., 2002, 791 e ss., con nota di DE CAROLIS.
Giova evidenziare che la Corte Costituzionale ha evitato di prendere posizione sullo
specifico profilo, evidenziato dal remittente, relativo, per un verso, alla compatibilità della
mancata previsione di forme di tutela ante causam con la normativa comunitaria in materia
di appalti pubblici (la cd. direttiva ricorsi) e, per altro verso, alla conseguente possibilità di
avvio di un procedimento di infrazione da parte della Commissione europea. Il Giudice delle
leggi ha infatti considerato il richiamo alla direttiva in materia di ricorsi non pertinente
all’ambito della controversia in cui era sorte la q.l.c. (sospensione di una casa di cura dall’esercizio
di attività sanitaria).
DOTTRINA 345
Nella specie, parafrasando il ragionamento del Giudice delle leggi, la
discrezionalità non risulta spesa in modo irragionevole o in contrasto con gli
invocati parametri costituzionali, avendo il legislatore ideato e costruito un
sistema cautelare unitario, a prescindere dal tipo di posizione soggettiva interessata
(e anche a fronte di un’azione non provvedimentale della P.A.), che
consente di ottenere celere tutela attraverso l’utilizzo di sistemi più rapidi di
notifica del ricorso rispetto a quelli tradizionali (strumenti elettronici, telefax
ecc.), nonché attraverso il deposito del ricorso contenente l’istanza cautelare
pur in mancanza di prova della rituale notifica a tutte le parti.
La questione sembrava dunque definitivamente risolta in senso negativo,
allorché sono intervenute talune rilevanti pronunce della Corte di Giustizia.
In particolare, con specifico riferimento alle procedure d’appalto, il T.A.R.
Lombardia, Sez. Brescia, con ordinanza presidenziale del 26 aprile 2003, n. 76,
ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione relativa alla mancanza di strumenti
di tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo (34).
Ripercorrere i tratti salienti della motivazione dell’ordinanza di rimessione
consente di chiarire gli esatti termini in cui la questione fu posta: la
irreparabilità del danno derivante dall’eventuale sottoscrizione del contratto
tra Amministrazione ed impresa aggiudicataria discendeva, nel caso di specie,
dalla conseguente impossibilità per la ricorrente di ottenere la reintegrazione
in forma specifica a conclusione del giudizio impugnatorio sul provvedimento
di aggiudicazione.
Nella specie, era accaduto, infatti, che l’aggiudicazione provvisoria non
era stata impugnata per mancata conoscenza degli atti endoprocedimentali
da parte della seconda classificata e, nelle more del termine di valutazione
dell’istanza di accesso da questa presentata, sarebbe potuta intervenire l’aggiudicazione
definitiva e l’immediata stipulazione del contratto con la
impresa prima classificata, con conseguente impossibilità di ottenere – all’esito
del ricorso – la reintegrazione in forma specifica e la stipula del contratto
con la ricorrente vittoriosa. La impresa seconda classificata, pertanto,
aveva chiesto al giudice amministrativo di inibire provvisoriamente – con
una misura cautelare ante causam – la sottoscrizione del contratto tra amministrazione
committente e aggiudicataria.
Il T.A.R. Brescia, disapplicato l’art. 21 legge T.A.R. e accolta con decreto
presidenziale l’istanza cautelare ante causam, rimetteva la questione alla
Corte di Giustizia, evidenziando al giudice europeo la dubbia compatibilità
dell’art. 21 Legge T.A.R con la Direttiva Ricorsi 21 dicembre 1989,
89/665/CEE.
In particolare, il giudice amministrativo lombardo chiedeva alla Corte di
Giustizia se l’art. 21 Legge T.A.R., nella parte in cui non prevede una forma
di tutela cautelare ante causam, fosse in contrasto con gli artt. 1, n. 3, e 2, n.
1 lett. a), della Direttiva Ricorsi, che prevedono, rispettivamente, l’obbligo
(34) In Urb. e app., 10/2003, 1219 e ss., con nota di DE CAROLIS.
346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
in capo agli stati membri di introdurre nei propri ordinamenti nazionali ricorsi
pienamente accessibili a quanti intendano richiedere la riparazione di un
danno subito, nonché l’obbligo di adottare, con la massima sollecitudine e
con procedura d’urgenza, provvedimenti provvisori intesi a riparare la violazione
o ad impedire che altri danni siano causati ad interessi comunitari.
Infine, il T.A.R. Brescia chiedeva alla Corte di Giustizia se il citato art. 21
Legge T.A.R. fosse contrastante con l’art. 6, paragrafo 2, del Trattato U.E., che
obbliga l’Unione Europea al rispetto dei diritti fondamentali descritti nella
Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Più nel dettaglio,
il T.A.R. Brescia sollevava il dubbio circa il contrasto della normativa
italiana con il Trattato per violazione mediata degli artt. 6 e 13 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (così riproponendo nella sostanza
le osservazioni del citato decreto presidenziale n. 1/01 con il quale il T.A.R.
Milano, senza fortuna, aveva rimesso l’art. 21, co. 8, Legge T.A.R. al vaglio
della Corte Costituzionale).
La Corte di Giustizia ha risposto alle suddette richieste con la ordinanza
19 aprile 2004 (C-202/03) (35).
Nella succitata decisione, il Giudice europeo afferma che l’art. 2, par. 1,
lett. a) della c.d. Direttiva Ricorsi deve essere interpretato nel senso che gli
Stati membri sono tenuti a conferire ai loro organi giurisdizionali competenti
a conoscere dei ricorsi la facoltà di adottare, indipendentemente dalla previa
proposizione di un ricorso di merito, qualsiasi provvedimento provvisorio,
compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura
di aggiudicazione pubblica dell’appalto.
Nel sostenere la necessità che gli Stati membri adottino strumenti processuali
atti a garantire una tutela cautelare ante causam, il superiore assunto
sembra contrastare con il principio della discrezionalità del Legislatore
nella costruzione del sistema processuale ritenuto più idoneo, affermato precedentemente
dalla Corte Costituzionale nella citata ordinanza n. 179/02.
Non si è mancato di far notare, tuttavia, che l’opzione interpretativa della
Corte di Giustizia si basa su una disposizione specifica del diritto comunitario
(l’art. 2, n. 1, lett. a, della Direttiva Ricorsi) e non anche su disposizioni
più generali dell’ordinamento giuridico comunitario (ad es. l’art. 6, n. 2 del
T.U.E., cui si riferiva il T.A.R. Brescia).
Da ciò, sembra possibile dedurre che il potenziamento dei poteri cautelari
del G.A. compiuto ad opera della Corte di Giustizia debba considerarsi
(35) Va soggiunto che dopo poco meno di un mese dall’ordinanza di remissione del
T.A.R. Brescia, la Corte di Giustizia, con sentenza 15 maggio 2003 (C-214/00) cit., resa
all’esito di una procedura di infrazione ex art. 226 del Trattato CE, è intervenuta con riferimento
all’ordinamento nazionale spagnolo. La sentenza anticipa largamente gli esiti del giudizio
di compatibilità comunitaria sollecitato dal T.A.R. Brescia rispetto all’ordinamento
italiano. In particolare la Corte di Giustizia ha ritenuto che un sistema che imponga, come
regola generale, la previa proposizione di un ricorso di merito quale condizione per adottare
un provvedimento provvisorio contro una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice
non può essere considerato come un sistema di tutela giurisdizionale provvisoria adeguato.
DOTTRINA 347
limitato alle controversie in cui trova applicazione l’art. 2, n. 1, lett. a) della
Direttiva Ricorsi, che coordina le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi.
Questa lettura riduttiva, adombrata da autorevole dottrina (36) all’indomani
della pronuncia della Corte di Lussemburgo, ha ben presto ottenuto l’avallo
del T.A.R. Lazio, sez. III-ter, sent. 30 luglio 2004, n. 7550, che, aderendo
all’orientamento restrittivo, ha escluso l’estendibilità della innovazione in
riferimento al ricorso proposto dalla Società Napoli Sportiva s.p.a. avverso
il provvedimento di non ammissione al campionato di calcio di serie B.
Per tali ragioni, la pronuncia 19 aprile 2004 della Corte di Giustizia ha
avuto, finora, un impatto modesto nell’ambito dell’ordinamento nazionale,
non essendo dalla giurisprudenza ritenuta applicabile, in assenza di uno specifico
intervento legislativo, al di fuori della materia degli appalti, alle altre
ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.A. .
Detta situazione potrebbe però risultare non facilmente coniugabile
con il principio di uguaglianza e di difesa di cui rispettivamente agli artt. 3
e 24 Cost. (37). Anzi una riflessione è richiesta, ove si dovesse consolidare
l’orientamento restrittivo fatto proprio dal T.A.R. Lazio, secondo cui
l’indefettibilità della tutela cautelare ante causa è stata affermata dalla giurisprudenza
comunitaria, e quindi si impone, soltanto contro gli atti delle
amministrazioni aggiudicatrici e, per di più, nell’ambito degli appalti di
rilevo comunitario: l’interprete si trova di fronte ad un’anomalia tutta italiana
di una tutela cautelare ante causam introdotta solo per (alcuni de)gli
appalti, con la conseguente duplicazione dell’unico modello processuale in
un processo degli appalti, nel quale è prevista anche una tutela cautelare
preventiva e in un processo non degli appalti in cui detto rimedio manca
(38). Una lacuna evidentemente necessitante di un intervento legislativo in
chiave di omogeneizzazione e di generalizzazione di un rimedio imposto
nei principi (se non anche nella giurisprudenza) comunitari per tutto il processo
amministrativo.
A favore di tale soluzione militano alcune considerazioni, tutte in definitiva
ancorate ai suddetti parametri costituzionali e agli stessi principi di
derivazione comunitaria di “primazia” e di “divieto di discriminazione”.
La limitazione della tutela cautelare anteriore al giudizio di merito legittima,
infatti, un inammissibile trattamento differenziato, se non altro, tra
posizioni soggettive diverse ma tutte di matrice comunitaria; in ogni caso, tra
(36) V. M.A. SANDULLI, Introduzione al tema in Le nuove frontiere della giustizia
amministrativa tra tutela cautelare ante causam e confini della giurisdizione esclusiva
(Incontro di studio organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma
Tre il 20 ottobre 2004), pubbl. in Foro Amm.-T.A.R., 2004, suppl. fasc. 12, p. 7.
(37) In tal senso, v. Cfr. R. CARANTA, La tutela cautelare ante causam contro gli atti
adottati dalle amministrazioni aggiudicatrici, 885-891, Sosp., 2003.
(38) In base a queste coordinate sembra essersi orientato il legislatore con il D.Lgs.
163/2006, su cui oltre.
348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
posizioni soggettive analoghe, alcune delle quali di rilievo nazionale ed altre
di rilevo comunitario (39).
Vi è poi la considerazione che talune volte l’esistenza di una regola processuale
o sostanziale creata nell’ordinamento europeo ovvero elaborata
dalla Corte di Giustizia trascende l’esigenza di tutela per la quale si è imposta
per estendersi a situazioni corrispondenti di diritto interno (40). Si verifica
in tal modo l’applicazione del principio di divieto di discriminazione, ma
in senso inverso.
In via surrettizia, sarebbe auspicabile quanto meno che i giudici amministrativi
sottoponessero in tempi brevi la questione alla Consulta che, a differenza
di quanto avvenuto nel 2002 (quando, con ordinanza 179 del 10 maggio
dichiarò infondata la q.l.c. del sistema che non prevedeva per gli interessi
legittimi garanzie di tutela cautelare analoghe a quelle operanti per i diritti
soggettivi), si troverebbe, questa volta, di fronte ad una tutela difforme di
situazioni soggettive identiche (diritti soggettivi rimessi alla giurisdizione
esclusiva del G.A.) e dunque, analogamente a quanto deciso con la sentenza
28 giugno 1985 n. 190, ne dichiarerebbe presumibilmente la fondatezza.
Ancora più impervia è la strada di un intervento pretorio dai Tribunali,
attraverso la sistematica disapplicazione della normativa interna (art. 21
legge T.A.R.) in quanto contrastante con i principi desumibili dalle pronunzie
della Corte di Lussemburgo. Ma la soluzione sarebbe comunque inappagante
poiché troverebbe sostegno solo per le posizioni soggettive di derivazione
comunitaria, con ovvie implicazioni di ordine costituzionale correlate
alla violazione del principio di uguaglianza rispetto al trattamento (a quel
punto) deteriore delle posizioni soggettive riconosciute dal diritto interno.
6. La tutela cautelare ante causam nel D.Lgs. n. 163/2006.
La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo è stata di
recente codificata in materia di pubblici appalti nell’art. 245 del D.Lgs. n.
163 del 12 aprile 2006 (41).
(39) Come rilevato da CASSESE, Verso la piena giurisdizione del giudice amministrativo, in
Gior. dir. amm., 1999, 1225, benché il canone della “tutela effettiva”, ricomprendente la tutela
cautelare e risarcitoria, sia stato sancito dalla Corte di Giustizia con riguardo al solo diritto comunitario,
esso finisce per espandersi in settori del diritto nazionale non regolati dal diritto comunitario
in virtù di un principio ovvio di omogeneità e per evitare discriminazioni in senso inverso.
(40) È, in particolare, quanto avvenuto in materia di riconoscimento di forme di tutela
cautelare atipiche e propulsive ad opera della A.P. C.d.S. n. 1/2000, anticipatrice della riforma
recata dalla legge n. 205/00 (in Urb. e app., 2000, 617).
(41) Secondo F. CARINGELLA, Codice degli appalti e giustizia amministrativa, 2006,
Relazione al Convegno Ventennale T.R.G.A. di Arco, l’entrata in vigore di questo codice è
opportuna per cercare di interrogarsi su quali conseguenze ed effetti si produrranno nel mondo
della giustizia amministrava e quindi per tracciare la mappa delle relazioni pericolose tra
Giudice Amministrativo e contratti nella Pubblica Amministrazione alla luce del codice.
“Relazione pericolose perché sembra esserci, in parte, una sorta di antinomia, di contraddizione
in termini quando si parla di Giudice Amministrativo, quindi Giudice dell’inteDOTTRINA
349
Il particolare momento di introduzione della nuova disciplina risulta
assai significativo se si pone in correlazione con la quasi contestuale pubblicazione
della sentenza della Corte Costituzionale 191 del 2006, la quale ha
chiarito, portando a conclusione il procedimento avviato con la precedente
sentenza 204/2004, che la giurisdizione amministrativa può esercitarsi anche
sui comportamenti della Pubblica Amministrazione purché non si tratti di
comportamenti meramente materiali. La precisazione della Corte è importante
poiché l’incrocio tra giurisdizione amministrativa e contratti della
Pubblica Amministrazione è indubbiamente un incrocio particolarmente fertile
proprio alla stregua della precisazione che la stessa Corte pone sul
Giudice Amministrativo come Giudice non dei soli provvedimenti ma anche
dei non provvedimenti che siano esplicativi di potere e di funzione amministrativa.
Ciò vuol dire che il giudice amministrativo permane come Giudice
naturale dei comportamenti che siano espressione di potere pubblico.
La disciplina cautelare ante causam per gli appalti, imposta all’Italia
solo per gli appalti sopra soglia dalla ricordata pronunzia della Corte di
Giustizia CE, trova pertanto, in forza del T.U., applicazione anche alle controversie
relative agli appalti sotto soglia; l’opzione legislativa, sicuramente
da condividere sotto il profilo dell’uniformità di disciplina processuale assicurata
alla materia dei pubblici appalti a prescindere dal loro importo, pur
sollevando, come in precedenza accennato, seri dubbi di legittimità costituzionale
sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza e del
diritto di difesa (artt. 3 e 24 Cost.), può costituire un valido modello di riferimento
al fine di un futuro (auspicabile) riconoscimento generalizzato della
tutela preventiva nel processo amministrativo, al pari di quanto avviene nel
processo civile.
A tal fine, è preliminare individuare alcune linee generali relative al procedimento.
Il principale parametro normativo di riferimento è rappresentato dalla
disciplina desumibile dagli artt. 669 bis e ss. e 700 c.p.c. (42), che sul piano
sostanziale richiedono in ogni caso di rappresentare il fumus boni juris del
ricorso, fornendo fin da quella sede precisa indicazione della causa di merito
che si intende svolgere.
Quanto al contenuto-forma del ricorso, potrà ritenersi che esso potrà
essere meno completo del ricorso di merito e dunque più agile.
resse pubblico, e di contratti, ossia di atti di autonomia privata. Antinomia che è, evidentemente,
soltanto apparente, se consideriamo che alla luce di una giurisprudenza ormai granitica
i contratti della Pubblica Amministrazione non appartengono al mondo della mera autonomia
privata ma sono anch’essi atti funzionali ed esplicativi nella funzione pubblica, come
tali destinati funzionalmente al perseguimento dell’interesse pubblico.”
(42) La stessa relazione che accompagna il nuovo codice dei pubblici appalti, elencando
le disposizioni mutuate dal processo civile, parla espressamente di profili disciplinatori
tratti dal processo civile (artt. da 669 bis a 669 quaterdecies) da adattare al processo amministrativo.
350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ma la nuova disciplina – contenuta nei commi da 3 a 8 dell’art. 245 –,
se per taluni aspetti appare modellata sulle corrispondenti norme dettate dal
codice di procedura civile, per altri se ne differenzia notevolmente in ragione
delle peculiarità del processo amministrativo.
È il caso, ad esempio, del procedimento ante causam inaudita altera
parte, che il comma 4 dell’art. 245 implicitamente esclude allorché descrive
una tutela necessariamente legata alla previa notifica del ricorso. La disposizione,
infatti, richiede espressamente che l’istanza debba essere “previamente
notificata ai sensi dell’articolo 21, comma 1, della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034” (ossia, tanto all’organo che ha emesso l’atto impugnato quanto ai
controinteressati ai quali l’atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno
tra essi) (43).
Va comunque rilevato che il concetto di inaudita altera parte, nella tutela
cautelare preventiva innanzi al G.A. (al pari, tuttavia, di quanto già accade
per le misure provvisorie di cui al comma 9 dell’art. 21 della legge n.
1034 del 1971), non viene inteso, come nel processo civile, quale effettiva
assenza della controparte alla quale non viene neppure notificato il ricorso
(art. 669 sexies, comma 2, c.p.c.) bensì quale possibilità del giudice della
cautela di provvedere anche senza sentire il contraddittore, a cui, comunque,
l’istanza è stata previamente notificata (e quindi è al corrente che è stato
incardinato un procedimento cautelare che lo riguarda).
La scelta di diversificazione dei riti impone di vagliarne le ragioni sottese.
Un utile spunto lo si trae dalla relazione di accompagnamento al nuovo
codice dalla quale emerge che non si è ritenuto necessario omettere la fase
della notifica perché l’adempimento non richiede tempi incompatibili con la
tutela ante causam.
Vi è poi, probabilmente, l’inconscio obiettivo di differenziare e valorizzare
la posizione dell’Amministrazione, resistente istituzionale nel processo
amministrativo, rispetto a quella di ogni altro contraddittore privato nel processo
civile, laddove la tutela ante causa senza contraddittorio immediato è
prevista (44).
È probabile, infine, che nell’intenzione del legislatore delegato la scelta
di escludere la tutela cautelare ante causam inaudita altera parte sia stata
indotta dalla volontà di neutralizzare il rischio di un’ipertrofia di tutela, piuttosto
che per un’astratta incompatibilità con il sistema di giustizia amministrativa
nel suo complesso. Ma la soluzione negativa, ad avviso di chi scrive,
si impone anche se si considera che una tale prospettiva concorrerebbe in
(43) E la precisazione è di non poco momento, ove si consideri che, mentre l’art. 245
effettua un esplicito richiamo al comma 1 dell’art. 21 legge T.A.R. quanto al contenuto dell’onere
di previa notifica, il comma 9 dell’art. 21, per l’ipotesi di misura presidenziale anticipata
intra litem, si accontenta della formula normativa, assai più generica, di un’istanza
notificata alle controparti.
(44) In termini analoghi, cfr. M.A. SANDULLI, op. loc. cit.
DOTTRINA 351
modo non sempre chiaro con l’analoga misura del decreto presidenziale di
cui all’art. 21, comma 9, legge T.A.R. (45).
Analogamente, non appare rinunciabile la condizione, peraltro non più
propria del processo civile come si è avuto modo di accennare, della necessaria
instaurazione del giudizio di merito entro un termine ragionevolmente
breve a pena di sopravvenuta inefficacia della misura.
La diversa soluzione rispetto al rito civile e alle innovazioni ivi recate
dal Decreto legge n. 35/05 (conv. in legge n. 80/2005), si giustifica in base
alla considerazione che – anche nelle materie di giurisdizione esclusiva
devolute al G.A. – permane, pur nella compresenza di situazioni di interesse
legittimo e di diritto soggettivo, l’aspetto ineliminabile del possibile consolidamento
degli effetti del provvedimento amministrativo non impugnato (o
impugnato in un giudizio del quale non si è poi curato il naturale sviluppo),
consolidamento ontologicamente incompatibile con un’ipotizzata ultrattività
degli effetti della misura cautelare.
La stessa relazione mette in guardia, peraltro, sulla necessità che siffatto
strumento sia adeguato alla peculiarità del processo amministrativo e all’organizzazione
della giustizia amministrativa, evidenziando come la disciplina
proposta, oltre che costituire un agile strumento a tutela dei concorrenti pre-
(45) Tale spiegazione, tuttavia, non convince pienamente V. DE GIOIA, La Tutela cautelare
ante causam nel nuovo codice dei pubblici appalti: il procedimento inaudita altera
parte e l’istruzione probatoria, in www.neldiritto.it: “l’obbligo della previa notifica dell’istanza
riduce il valore della tutela ante causam, come detto, connotata da esigenze di “eccezionale
gravità ed urgenza” che suggerivano l’opzione, anche nel processo amministrativo,
per il mero deposito dell’istanza così da consentire al Presidente di provvedere, laddove ne
avesse ravvisato la necessità, anche a contraddittorio non instaurato, al pari di quanto previsto
nel procedimento cautelare ante causam civile.
Questa soluzione, tra l’altro, avrebbe dato un senso all’obbligo, presente anche nel procedimento
civile inaudita altera parte, posto in capo al richiedente, di notificare, alle altre
parti e in termini stringenti, l’eventuale provvedimento di accoglimento (che nel processo
civile opera solo per il decreto ed ha la funzione di integrare quel contraddittorio eliso in
prima battuta per conferire reale celerità ed efficienza al procedimento)”. Prosegue l’A. “È
necessario, tuttavia, rimarcare come nel processo civile, quando il provvedimento cautelare
viene emesso con decreto, il contraddittorio non è eliso, ma semplicemente differito all’udienza
contestualmente fissata dal giudice, nella quale il resistente potrà adeguatamente
difendersi, facendo valere le sue eccezioni di rito e/o di merito e, all’esito, eventualmente
ottenere, qualora ne ricorrano i necessari presupposti, la modifica o la revoca del provvedimento
cautelare adottato dal giudice adito antecedentemente alla sua audizione.
Sempre nel processo civile, inoltre, il presupposto per l’emissione del decreto, costituisce
espressione non già della generica preoccupazione di non ostacolare l’attuazione del
provvedimento, bensì della volontà di imporre al giudice della cautela la verifica di concreti
elementi da cui si desuma un pericolo specifico che vanno individuati, di volta in volta, in
tutte quelle situazioni o circostanze di fatto, che il ricorrente deve necessariamente prospettare,
che siano in grado di frustrare l’effettivo conseguimento della tutela cautelare; all’onere
della parte di specificare nel ricorso le ragioni su cui si fonda la richiesta di decreto, corrisponde
l’obbligo del giudice di motivare adeguatamente il decreto, evidenziando, in parte
motiva, i concreti elementi di pericolo che ne giustificano l’emissione.”.
352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
(46) È utile ricordare che prima dell’entrata in vigore della riforma introdotta dal D.L.
n. 35/05, l’art. 669 terdecies non prevedeva la reclamabilità del provvedimento negativo,
limitandosi a prevedere quella del provvedimento positivo. La ingiustificata disparità di trattamento
fu comunque rimessa alla Corte Costituzionale che, con sentenza additiva 23 giugno
1994 n. 253, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’articolo “nella parte in cui non
ammette il reclamo ivi previsto, anche avverso l’ordinanza con cui sia stata rigettata la
domanda di provvedimento cautelare”.
termessi dalla gara, assume anche una funzione latamente deflattiva del contenzioso,
istituendo una sorta di primo filtro, utile a scoraggiare ricorsi alla
giustizia con finalità meramente dilatoria.
A tale stregua, il modello delineato si discosta da quello organizzato nel
codice di procedura anche per il divieto di presentare nuovamente la istanza
cautelare che sia stata respinta ancorché – come invece previsto nell’art. 669
septies c.p.c. – “si verifichino mutamenti delle circostanze” o “vengano
dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto”, oppure, volendo mutuare la formula
utilizzata dall’art. 21, comma 13, legge T.A.R., la nuova istanza sia
motivata “con riferimento a fatti sopravvenuti”. In base al comma 5, l’istanza
rigettata potrà essere riproposta solo dopo l’inizio del giudizio di merito,
sia nella forma classica e che nella forma della richiesta di tutela presidenziale
anticipata.
Non pone, invece, problemi di compatibilità l’art. 669 septies, in tema di
statuizione sulle spese in caso di rigetto dell’istanza, previsione peraltro già
introdotta dalla legge 205/00 per la tutela cautelare intra litem (art. 21,
comma 11, legge T.A.R.) cui si richiama il comma 7 dell’art. 245.
La nuova figura si discosta, poi, quanto alla esplicita non reclamabilità
del provvedimento negativo, così come disposto dal comma 5 dell’art.
245 (46).
Ma la reclamabilità (rectius, l’appellabilità, come si esprime il legislatore)
è esclusa anche per il provvedimento di accoglimento, in base a quanto
previsto dal comma 6 ultima parte, laddove si precisa altresì che il provvedimento
di accoglimento, fino a quando conserva efficacia, è sempre revocabile
o modificabile senza formalità del presidente, d’ufficio o su istanza o
reclamo di ogni interessato, nonché dal collegio dopo l’inizio del giudizio di
merito. L’utilizzo del termine “reclamo” infatti – a fronte di un provvedimento
chiaramente definito “non appellabile” – lungi dal consentire un secondo
grado di giudizio, è probabilmente un ‘infelice’ sinonimo del termine “istanza”;
al più, un modo di differenziare la richiesta dell’originario ricorrente
(istanza) da quella di ogni altro interessato, Amministrazione resistente ed
eventuali controinteressati (reclamo). Secondo un’altra opzione interpretativa,
con il termine reclamo si è invece voluto ideare un rimedio impugnatorio
improprio – strutturalmente diverso dall’appello – da proporre dinanzi
allo stesso organo che ha emesso il provvedimento, a differenza di quanto
accade nel procedimento cautelare civile che, con il termine reclamo indica
un procedimento di secondo grado articolato dinanzi ad un organo collegiaDOTTRINA
353
le di cui non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare
oggetto di gravame (47).
Il provvedimento non è mai collegiale ma sempre monocratico, anche
quando non sia il presidente ad adottarlo, essendo fatta salva la facoltà di
delegarne l’adozione ad un altro magistrato (deve ritenersi della medesima
sezione, allorché siano istituite più sezioni all’interno del Tribunale).
A differenza poi che nella misura presidenziale anticipatoria di cui
all’art. 21, comma 9, legge T.A.R., per il procedimento cautelare ante causam
l’art. 245 non stabilisce che il provvedimento sia adottato necessariamente
nella forma del decreto presidenziale. A meno di non voler ritenere
che il legislatore del 2006 sia incorso in una dimenticanza ovvero abbia voluto
fare implicito riferimento al precedente modello processuale (ove la forma
del provvedimento è sempre quella del decreto pur nell’eventualità di una
rapida istruttoria previamente avviata sulla misura da concedere), sembra
doversi desumere che la scelta di quale tipologia di provvedimento adottare,
decreto o ordinanza, discenda dall’opzione presidenziale di esercitare o
meno il potere di sentire le parti. È noto infatti, che, secondo i principi generali,
l’ordinanza presuppone il previo ‘contraddittorio’ tra le parti mentre il
decreto generalmente ne prescinde (48). In ogni caso, si tratterà di un provvedimento
motivato non solo in ordine al fumus boni iuris e al periculum in
mora, ma anche alle ragioni che hanno indotto a provvedere, in ipotesi, in
assenza di istruttoria.
L’obbligo di motivazione, tra l’altro, è funzionale all’attivazione dei
rimedi, latu sensu impugnatori (revoca e modifica) messi a disposizione,
sempre nella fase ante causam, per demolire o modificare, qualitativamente
o quantitativamente, il provvedimento presidenziale.
In ogni caso la motivazione dovrà dar sufficientemente conto della eccezionale
gravità e urgenza, requisito indefettibile in base al quale (secondo
l’inciso iniziale del terzo comma dell’art. 245) è possibile accordare la tutela
cautelare ante causam.
Ebbene, questa terminologia si differenzia rispetto a quella dell’articolo
21, comma 9, della Legge T.A.R. in tema di tutela monocratica intra litem,
laddove si fa riferimento al caso di estrema gravità ed urgenza.
Non può – già a livello sistematico – trattarsi di concetti sovrapponibili.
Peraltro, dalla relazione preparatoria si è ricava che il legislatore delegato
considera la tutela cautelare ante causam figura assolutamente residuale, con
la conseguenza che essa è sottoposta ad un regime derogatorio ancora più
eccezionale del già eccezionale carattere derogatorio della tutela monocratica
intra litem. L’eventualità va dunque considerata una vera e propria extre-
(47) Ma questa soluzione sembra in contrasto con i lavori preparatori, così come indicato
implicitamente da F. CARINGELLA, Codice degli appalti… cit.
(48) Cfr. C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Vol. I, XI ed. Giappichelli
TO, 1997, p. 406-407.
354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
ma ratio e la accentuata residualità della figura si ricava dall’incipit del
comma 3 dell’art. 245, ove si descrive un concetto di eccezionalità “tale da
non consentire neppure la previa notifica del ricorso [di merito n.d.r.] e la
richiesta di misure cautelari provvisorie di cui all’art. 21, comma 9, della
legge 6 dicembre 1971, n. 1034”.
A conferma di quanto appena sostenuto, va altresì rilevato che la tutela
cautelare in esame si connota per essere interinale e provvisoria non solo
rispetto al ricorso di merito ma, addirittura, rispetto alla domanda cautelare
tradizionale di cui ai commi 8 e 9 dell’art. 21 legge T.A.R.. In tal senso va
letto il periodo finale del terzo comma dell’art. 245.
D’altronde la finalità della tutela ante causam è quella di evitare che l’attesa
per l’avvio del giudizio principale determini quel ritardo nell’adozione
del provvedimento cautelare che rischierebbe, attese le qualificate ragioni di
urgenza, di rendere inutile il provvedimento richiesto.
La straordinarietà della nuova misura si coglie anche sotto un altro connesso
aspetto, inserito nel periodo conclusivo del quarto comma: quello della
rilevabilità ex officio della incompetenza territoriale del Tribunale adito dal
ricorrente: il Giudice non è abilitato a somministrare la tutela anticipata, se
non previa autonoma verifica della propria competenza. La innovazione si
colloca nel solco di quella tendenza sempre più incline a riconoscere nuove
ipotesi normative di competenza territoriale funzionale ed inderogabile (es.
giustizia sportiva) (49).
Prosegue il sesto comma – con disposizione non nuova – che l’efficacia
del provvedimento di accoglimento può essere subordinata alla prestazione
di una adeguata cauzione per i danni alle parti ed ai terzi (50).
In ogni caso il richiedente ha l’onere di notificare il provvedimento di
accoglimento alle altre parti entro un termine perentorio fissato dal giudice,
comunque, non superiore a cinque giorni.
In assenza di esplicita indicazione, non è chiaro quale sia l’eventuale
sanzione per l’inadempimento di tale imposizione. Potrebbe forse ragionarsi
sull’esistenza di un’ipotesi tacita di sopravvenuta inefficacia della misura
concessa, attesa la natura espressamente perentoria del termine, ma, pur prescindendo
dalla considerazione che una siffatta sanzione processuale avreb-
(49) V. ad es. art. 3, comma 2, D.L. 19 agosto 2003, n. 220 (come modificato in sede
di conversione dalla relativa legge 17 ottobre 2003, n. 280 “La competenza di primo grado
spetta in via esclusiva, anche per l’emanazione di misure cautelari, al tribunale amministrativo
regionale del Lazio con sede in Roma. Le questioni di competenza di cui al presente
comma sono rilevabili d’ufficio”.
(50) Si osservi che l’analoga disposizione contenuta nell’art. 21, comma 8, legge
T.A.R. consente di condizionare a cauzione non solo il provvedimento di accoglimento ma
anche il provvedimento di diniego emesso sull’istanza cautelare intra litem. Il precedente di
entrambe le disposizioni si rinviene chiaramente nell’art. 669 undecies c.p.c.. Per un interessante
raffronto, v. l’art. 47 D.Lgs. n. 546/1992, sulla sospensione dell’efficacia del provvedimento
impositivo impugnato innanzi alle Commissioni Tributarie.
DOTTRINA 355
be meritato un’esplicita previsione, rimane da valutare che non chiara è la
funzione di tale onere notificatorio, atteso che esso investe quali destinatari
le stesse parti già edotte del ricorso cautelare in base alla precedente notifica
dell’istanza (comma 4).
Peraltro, l’analoga previsione contenuta nell’art. 669 sexies, comma 2,
c.p.c. (51) si giustifica in base alla evidente difformità di struttura del processo
cautelare civile, laddove l’onere della notifica del decreto cautelare, contenente
pure la data di comparizione delle parti, si spiega agevolmente nell’ottica
del perfezionamento di un contraddittorio che non è ancora costituito.
L’efficacia del provvedimento cautelare monocratico è comunque delimitata
in sessanta giorni dalla sua prima emissione, con ciò volendosi intendere che
eventuali manovre elusive, consistenti nella reiterata presentazione di nuove
istanze ante causam, non potrebbero in ogni caso sortire l’effetto di estendere
l’efficacia della prima misura eventualmente concessa oltre il termine di legge.
Il termine legale di efficacia del provvedimento cautelare, oltre il quale
quest’ultimo perde effetto salva conferma da parte del giudice chiamato a
pronunziarsi sul ricorso principale (52), è significativamente correlato a
quello di decadenza per l’impugnazione dell’atto. Non può omettersi di evidenziare
al riguardo che, de iure condendo ed analogamente al rito civile,
dovrebbe essere consentito al giudice della cautela ante causam di fissare un
termine più breve, allorché, tenuto conto delle concrete circostanze, il lasso
temporale tra l’adozione della misura cautelare e la relativa scadenza massima
legilsativamente prevista (60 gg.) risulti eccessivamente ampio. Tale
riduzione potrebbe peraltro avere un effetto utilmente dissuasivo nei confronti
di domande cautelari prive di reale necessità (53).
(51) Ove il termine, peraltro, è “non superiore ad otto giorni”.
(52) Il comma 6 dell’art. 245, con riferimento al mantenimento dell’efficacia delle
misure cautelari, utilizza l’endiade “confermate o concesse ai sensi dell’art. 21, commi 8 e
9, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034”. Volendo riconoscere un significato al dettato normativo,
altrimenti oscuro, dovrà ritenersi che il mantenimento dell’efficacia riguardi esclusivamente
l’ipotesi di misure cautelari concesse ante causam e confermate nel giudizio di
merito, mentre l’ipotesi delle misure concesse ai sensi dell’art. 21, commi 8 e 9, costituisca
una previsione sostanzialmente inutile, riferendosi la norma a misure che sono state concesse
per la prima volta nel corso del giudizio di merito.
(53) Osserva F. CARINGELLA, Codice degli appalti… cit. che quella in esame “è una
soluzione discutibile perché attribuisce ad un organo monocratico, in deroga alla normale
collegialità del processo amministravo, il potere di dettare una misura che duri 60 giorni,
senza alcun riesame. Un potere forse eccessivo, perché vista l’obsolescenza di alcune situazioni
soggettive e considerata la durata non superiore a 60 giorni che conoscono molte questioni
cautelari, questo potere può risolversi in una decisione definitiva adottata attraverso
un incidente cautelare, quante volte le ragioni della cautela si concludano nell’arco di pochi
giorni o di poche settimane. Si pensi al caso del T.A.R. di Milano di qualche anno fa nel
quale un provvedimento cautelare ante causam fu somministrato per la chiusura dell’esercizio
nel periodo natalizio, ove è chiaro che rinviare a 60 giorni significa rendere definitiva,
con mortificazione del contraddittorio e della collegialità, una misura che la stessa legge
considera addirittura eccezionale…”.
356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Per l’attuazione della misura cautelare adottata ante causam risulta inapplicabile
la disciplina codicistica di cui all’art. 669 duodecies c.p.c.. Il
comma 7 dell’art. 245 (già menzionato con riguardo alla disciplina delle
spese) fa infatti riferimento alla speciale e prevalente regolamentazione dell’art.
21 legge T.A.R., comma 14, così come modificato dalla legge n. 205/00
per la tutela intra litem; disposizione che effettua un richiamo ai poteri del
giudice dell’ottemperanza.
Infine, l’ultimo comma dell’art. 245, prevenendo possibili problemi
interpretativi scaturenti dal raffronto con il comma 15 dell’art. 21 legge
T.A.R., esclude che le norme sul procedimento cautelare ante causam trovino
applicazione per i giudizi in grado d’appello, per i quali le istanze
cautelari restano disciplinate dagli artt. 21 e 23 bis della legge 6 dicembre
1971, n. 1034.
6.1. L’istruzione probatoria.
Il comma 4 dell’art. 245 prevede che “Il Presidente, o il giudice da lui
delegato, provvede sull’istanza, sentite, ove possibile, le parti, e omessa ogni
altra formalità”.
La norma appare modellata sulla falsariga dell’art. 669 sexies cod. proc.
civ., a mente del quale “Il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non
essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno
agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del
provvedimento richiesto…”; vanno sottolineate solo alcune differenze, peraltro
marginali e frutto dell’intenzione di rendere compatibile il nuovo rito con
il processo amministrativo, in ordine alla audizione delle parti (disposta solo
ove possibile) e all’assenza di un espresso riferimento al compimento di atti
di istruzione.
Ciononostante, si reputa che un margine di istruzione probatoria caratterizzi
anche il procedimento amministrativo ante causam: la stessa relazione
di accompagnamento al codice, infatti, prevede che sull’istanza ante causam
provvede il giudice monocratico, con un procedimento informale in cui
viene compiuta l’istruttoria indispensabile ad acclarare la sussistenza e la
fondatezza del diritto da cautelare (fumus boni iuris) ovvero per riscontrare
il periculum in mora (atti, documenti, informazioni) e, solo se possibile,
sono sentite le parti.
La libertà di forme nella trattazione del giudizio, rimessa sostanzialmente
al potere discrezionale del giudice, connota il procedimento cautelare nella
logica della cognizione sommaria.
Il ricorrente, dal canto suo, deve fornire un idoneo principio di prova per
consentire al Presidente di esercitare i propri poteri istruttori officiosi. Infatti,
in virtù della peculiarità del giudizio amministrativo che si caratterizza per il
sistema dispositivo con metodo acquisitivo, il Presidente non può sostituirsi
completamente alla parte nella ricerca degli elementi istruttori (e dei temi di
prova) da introdurre in giudizio.
L’attività che conduce alla pronuncia del provvedimento cautelare presenta
i caratteri della cognizione sommaria che si manifesta in primo luogo
nel fatto che per la prova dei presupposti appena indicati il giudice può fondarsi
anche soltanto sui documenti esibiti dalla parte istante, o sugli elementi
desumibili da sommarie e rapide informazioni senza alcuna particolare formalità,
con esclusione delle mere asserzioni della parte istante.
In adesione ai principi generali deve infine ritenersi che il presidente
possa, dalle dichiarazioni rese dalle parti (spontaneamente o su domanda),
dedurre elementi sussidiari di convincimento, quali presunzioni semplici o
argomenti di prova per corroborare o disattendere gli elementi di prova già
acquisiti al processo.
DOTTRINA 357
358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
La natura della D.I.A. e la tutela
giurisdizionale dei terzi
di Iole Moricca (*)
Natura della D.I.A. e tutela dei terzi sono elementi in relazione; dalla
qualifica che si attribuisce all’istituto discendono delle conseguenze che
hanno una immediata ricaduta sulle tutele di cui il terzo può disporre, qualora
si ritenga leso dall’attività intrapresa da un soggetto a seguito della denuncia.
Difficile, però, definire e mettere un punto fermo sulla questione. La
natura della D.I.A. è una tematica che solo apparentemente sembra chiara e
coerente, ma appena si tenta una analisi più approfondita, le cose si complicano,
a causa di molteplici fattori tutti tra di loro connessi.
In primo luogo, perché la necessità di qualificare la D.I.A. non nasce da
una mera esigenza teorico-classificatoria, bensì dalla esigenza di assicurare
una tutela effettiva sia al denunciante che ai possibili terzi, che possono subire
un pregiudizio dall’attività iniziata a seguito della presentazione della
denuncia (oggi dichiarazione) di inizio attività (1). Non è un caso, infatti, che
sia la giurisprudenza ad interrogarsi con una certa insistenza sulla questione.
In secondo luogo, perché la tematica, nella pratica dei Tribunali amministrativi
e del Consiglio di Stato è affrontata non tanto in relazione alla
D.I.A. come disciplinata dall’art. 19 della legge 241 del 1990, bensì con riferimento
alla D.I.A. edilizia (2), con ciò rendendo meno agevole il compito di
(*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato.
(1) La novella introdotta dal decreto legge n. 35 del 2005, convertito in legge n. 80 del 2005, ha
modificato anche il nome dell’istituto rubricato non più denuncia di attività ma dichiarazione di inizio
attività.
(2) La D.I.A., in materia edilizia nasce con una particolare configurazione giuridica che si è andata
a modificare nel corso del tempo, fino a confluire nell’assetto determinato dagli artt. 22 e 23 del T.U.
dell’edilizia n. 380 del 2001, che configurano l’istituto in chiave residuale, comprendendovi tutti gli
interventi non soggetti a permesso di costruire o liberi. Inoltre, la disciplina del T.U., deve essere coordinata
con il d.lg. n. 301/2002 che in attuazione della legge obiettivo n. 443/2001 ha ulteriormente modificato
l’assetto normativo della D.I.A.. Dal coordinamento delle due discipline emergono due ipotesi di
D.I.A.: la D.I.A. semplice prevista dal T.U. e la super-D.I.A. come configurata nella legge obiettivo. La
D.I.A. semplice è prevista per gli interventi edilizi minori, che non implicano una trasformazione del territorio,
ma un mero esercizio del ius utendi in relazione ad un miglior utilizzo dell’immobile. In tal caso,
la D.I.A. è sempre alternativa al permesso di costruire, ma il regime giuridico rimane quello della D.I.A.,
per cui anche il permesso di costruire (facoltativo) sarà gratuito e dalla violazione di costruire non derivano
sanzioni penali. La super-D.I.A., per contro, ha ad oggetto interventi edilizi maggiori, per il quale
il titolo originario e il regime di base è quello del permesso di costruire (perciò sarà facoltativa, onerosa
e la sua violazione comporta sanzioni penali). La ratio della super D.I.A. è che pur trattandosi di interventi
che implicano una trasformazione urbanistica edilizia del suolo e perciò teoricamente rientranti nell’ambito
di applicazione del permesso di costruire, sono stati oggetto di una pianificazione attuativa così
dettagliata che non lasciano al privato alcuna possibilità di scelta, in ordine alla quale la P.A., debba pronunciarsi.
Per una trattazione approfondita di questi temi v. P. FALCONE, La denuncia di inizio attività
dopo il d.lg. n. 301/2002: prime note, in www.giustizia-amministrativa.it.
DOTTRINA 359
chi cerca di ricostruire il quadro d’insieme. Difficile, infatti, è stabilire se le
conclusioni cui i giudici sono giunti in materia di D.I.A. edilizia, siano valevoli
anche per la D.I.A. ex art. 19.
In terzo luogo, perché la stessa giurisprudenza non offre soluzioni certe
ed univoche sul punto. Tutto ciò a discapito della certezza, oggi ancor più di
ieri, giacché le soluzioni che parevano più convincenti fino a poco tempo fa,
mal si conciliano con le novità della riforma di seguito indicate.
È chiaro che, a questo punto, occorre esaminare tutti questi fattori, iniziando
proprio dal considerare le conclusioni cui è giunta dottrina e giurisprudenza
in ordine alla natura della D.I.A.
Sotto il vigore della precedente formulazione, la giurisprudenza non è
stata affatto unanime nel definire la natura della D.I.A. e ciò, preme fin da
subito chiarire, sembra derivare più da un’affannosa ricerca di dare coerenza
ad un meccanismo complesso, piuttosto che dalla divergenza su mere
classificazioni teoriche.
Punto di approdo della giurisprudenza (3) e dottrina dominante (4) è che
la denuncia di inizio attività non ha natura di provvedimento amministrativo.
Si dice, la D.I.A., secondo il meccanismo previsto dalla norma, consente al
privato l’esercizio di una certa attività comunque rilevante per l’ordinamento,
a prescindere dall’emanazione di un provvedimento amministrativo. Il
soggetto comunica che ad una certa data inizierà una certa attività e se entro
il termine stabilito, decorrente da tale comunicazione, l’amministrazione non
ne inibisce la prosecuzione, l’attività sarà lecitamente meritata, salvo, naturalmente,
l’intervento della interdizione dell’attività, che può avvenire in
tutti i casi di accertamento della mancanza, originaria o sopravvenuta, dei
requisiti, al cui possesso l’ordinamento di settore subordini l’espletamento
dell’attività medesima.
Rispetto a questa tipologia di procedimento a carattere dichiarativo
ovvero ricognitivo, l’autorizzazione, un tempo necessaria a produrre l’effetto,
cede il passo ad un atto soggettivamente e oggettivamente privato (5), con
la conseguenza che al diritto amministrativo si sostituisce tendenzialmente il
diritto privato. Tuttavia, occorre precisare che la liberalizzazione disposta
dall’art. 19 in esame, non va affatto intesa quale scomparsa di ogni previsione
normativa concernente quelle date attività. L’attività autoritativa della
amministrazione arretra, ma solo in ordine ad alcune condizioni di ordine
amministrativo, vale a dire, quelle inerenti alla sussistenza di un titolo provvedimentale
di legittimazione, per contro, le attività considerate dall’art. 19
(3) In dottrina tale interpretazione è maggioritaria. Cfr .tra gli altri, A. TRAVI, Silenzio assenso,
denuncia di inizio attività e tutela dei terzi controinteressati, in Dir. proc. amm., 2002, pg. 21ss.; F.
LIQUORI, Note sul diritto privato, atti non autoritativi e denuncia di inizio attività.; L. OLIVIERI, La
natura giuridica della denuncia di inizio attività nella legge 241/1990 novellata, in www.lexitalia.it
(4) Tra cui: Cons. Stato, sez. IV, n. 3916/05; Cons. Stato, sez. IV, n. 3498/05 Cons. Stato, sez. IV,
n. 4453/02; TAR Sicilia, sez. III, n. 738/05; T.A.R. Piemonte, n. 1359 e n. 1367 del 2005; TAR Liguria,
sez. I, n. 113/03.
(5) Così, LIQUORI, op. cit.
360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
rimangono sottoposte alla disciplina generale dettata dalle norme che identificano
i requisiti ed i presupposti che devono ricorrere per il loro esercizio.
Tale impostazione, mette subito in evidenza l’incoerenza della tesi,
sostenuta all’indomani dell’entrata in vigore della norma, circa quale fosse
la fonte legittimante l’esercizio dell’attività, in mancanza del titolo abilitativo.
Si è in effetti sostenuto, traendo spunto dall’originaria formulazione dell’art.
19, laddove parlava di atti di assenso “sostituiti” (6), che lo svolgimento
dell’attività oggetto della denuncia trovasse la sua legittimazione ex actu,
nel senso che la denuncia, quale atto di parte, legittimerebbe ex se l’attività
intrapresa. Non vi è dubbio, che tale ricostruzione mal si concilia con le
argomentazioni sopra compiute. Il potere autoritativo della P.A. arretra ma
non scompare (7), e ciò si desume immediatamente dal ruolo attribuito dalla
norma alla amministrazione. La medesima è chiamata ad esercitare un accertamento
dei presupposti e dei requisiti legittimanti, ed in caso di verifica con
esito negativo può non solo inibire la prosecuzione dell’attività, ma anche
rimuoverne gli effetti in forza del fatto che tale attività venga ritenuta svolta
illegittimamente. È chiaro, allora, che da un lato, la legittimazione a svolgere
l’esercizio dell’attività debba essere ricercata aliunde; dall’altro che la
legittimazione non può provenire di certo dall’amministrazione, perché così
facendo si negherebbe la natura di atto di diritto privato della D.I.A.
L’apparente ostacolo è stato brillantemente superato da quella giurisprudenza
che configura la denuncia di inizio attività come atto di diritto privato con
legittimazione ex lege. Questa conclusione sembra essere, ancora oggi, uno
dei pochi risultati chiari e certi nella disamina della natura giuridica della
D.I.A – laddove ovviamente si accolga la qualifica di atto di parte – e ciò si
deve soprattutto al puntuale lavoro chiarificatorio che la giurisprudenza (8)
ha compiuto, distinguendo tra “dimensione strutturale”, concernente il contenuto
dei poteri rispettivamente in capo al privato e alla P.A. e “dimensione
funzionale”, attinente alla dinamica propria della relazione che si instaura tra
questi.
In relazione al primo profilo, si registra l’assenza di un qualsiasi potere
dell’amministrazione, nell’identificare il regime puntuale e concreto della
posizione soggettiva del privato e ciò scaturisce immediatamente dalla circostanza,
che tale posizione soggettiva è interamente definita dalla legge. Il
fondamento giuridico dell’attività privata, infatti, si radica direttamente nella
sfera normativa e non nella denuncia ex se né, tanto meno, nell’intervento
dell’amministrazione. In altri termini, diversamente dal modello autorizzatorio,
nell’art. 19 in esame, il precetto legislativo produce effetti direttamente
sul piano della qualificazione delle posizioni soggettive, attribuendo al pri-
(6) Oggi, a seguito della novella n. 80 del 2005, la formulazione, sotto questo angolo di visuale
non ha subito cambiamenti rilevanti, giacché il nuovo testo dell’art. 19 dispone che “ogni atto di autorizzazione
(…) è sostituito da una dichiarazione dell’interessato”.
(7) F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, tomo II, III edizione, Giuffré, pag. 1336 ss.
(8) In particolare, v. T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.
DOTTRINA 361
vato una posizione caratterizzata da originalità (proprio in quanto essa trova
la propria fonte direttamente nella legge), a fronte della quale difetta un potere
amministrativo in grado di incidere in senso costitutivo-accrescitivo. Ed
allora, è ben chiaro, non solo che la legittimazione dell’esercizio dell’attività
provenga direttamente dalla legge e non dalla denuncia, ma anche che, in
ragione dei caratteri di originalità ed autonomia della posizione soggettiva
del privato, alla medesima debba essere riconosciuta consistenza di diritto
soggettivo.
Si comprende, allora, chiaramente la posizione assunta dalla giurisprudenza
citata. Nel modello dell’art. 19, pertanto, la legge, da una parte, conferisce
al privato la titolarità di un diritto soggettivo che lo legittima ad intraprendere
autonomamente l’attività, senza l’intermediazione di ulteriori titoli,
ma sulla base della presentazione di un atto soggettivamente e oggettivamente
privato. Dall’altra, attribuisce all’amministrazione un potere di verifica,
circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti normativi (da
esercitare a seguito della presentazione della denuncia), che la legittima ad
intervenire in chiave repressiva o, a seconda dei casi, inibitoria. L’attribuzione
da parte della legge di un potere di tal fatta, in capo alla P.A. (vincolato
ma quantunque autoritativo), rileva la dimensione relazionale della
fattispecie, giacché il diritto del privato non si risolve unicamente in facoltà
attive, ma viceversa, “viene conformato dalla legge in modo “relazionale”,
nel senso che il suo esercizio è subordinato ad un “contatto necessario con la
pubblica amministrazione, da attivare attraverso la presentazione della
denuncia di inizio attività” (9). È pertanto da ritenere che, nella fattispecie in
esame, coesistono un diritto soggettivo del privato all’intrapresa attività ed
un potere amministrativo di controllo di natura vincolata, ma non di meno
riservato ed autoritativo, di fronte al cui esercizio, la posizione del denunciate
si atteggia come interesse legittimo.
Tale fisionomia mette in evidenza la disparità di posizioni tra denunciante
e terzo pregiudicato dall’attività intrapresa a seguito di D.I.A.. Se l’interessato
potrà contestare il potere inibitorio della P.A., sia sul piano formale,
che sul piano sostanziale per mancanza dei requisiti, viceversa, a tale potere
resta estraneo colui che si oppone all’intervento, perchè la norma non prende
ancora in considerazione la sua posizione, per qualificarla in senso legittimante,
ed egli, in definitiva, non può opporsi, in sede di giurisdizione
amministrativa, all’attività del privato, giacché manca un provvedimento
amministrativo da impugnare.
A questo punto, è agevole trarre le conseguenze che discendono da siffatta
ricostruzione. In effetti, stabilire che “la denuncia di inizio attività non
ha valore di provvedimento amministrativo” (10) produce un effetto immediato
e rilevante sulle tutele, e dunque sui rimedi che l’amministrazione può
accordare al terzo leso.
(9) Così T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.
(10) Così, Cons.Stato, sez. IV, n. 4453/02.
362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Ben si comprende, allora, perché in alcuni arresti giurisprudenziali (11),
concernenti la materia edilizia, la giurisprudenza ha cercato di qualificare la
D.I.A. non come atto privato, ma come titolo abilitativo che si forma tacitamente,
in presenza di tutti i presupposti formali e sostanziali. Il risultato
ricercato, a questo punto, è chiaro: rendere ammissibile la possibilità che il
terzo possa impugnare immediatamente la D.I.A, o meglio, il provvedimento
per silentium che si formerebbe allorché l’amministrazione non provveda
ad inibire l’inizio dei lavori nel termine di legge. Così facendo e accogliendo
siffatta ricostruzione, non vi è dubbio che più agevole sarebbe la tutela del
terzo ma, al contempo, si frustrerebbe la natura e le finalità stesse dell’istituto
in esame.
A differenza di quanto accade accogliendo l’indirizzo minoritario citato,
seguendo la tesi maggioritaria, più complessa e delicata, certamente, si prospetta
la posizione del terzo.
In effetti, l’esame dei rimedi giurisdizionali di cui egli dispone per
opporsi al compimento dell’attività intrapresa, in base alla semplice denuncia
del suo inizio da parte dell’interessato, “fa risaltare la singolarità del
nuovo istituto che mal si colloca all’interno del generale sistema di giustizia
amministrativa, essenzialmente incentrato sul giudizio impugnatorio, tanto
da porre serie questioni legate alla costituzionalità dello stesso” (12). È intuitivo,
in effetti, che il passaggio dal regime di autorizzazione preventiva a
quello della mera denuncia ha ingenerato un deficit di tutela per il terzo.
Infatti, mentre in vigenza del sistema autorizzatorio, il terzo poteva impugnare
il titolo abilitativo che assumeva essere lesivo della propria sfera giuridica,
in ragione della liberalizzazione dell’attività privata tale tutela è venuta
meno.
Tanto premesso, l’esame dei rimedi giurisdizionali di cui dispone il terzo
per opporsi all’esecuzione dei lavori intrapresi, in base alla semplice denuncia
di inizio attività, va effettuato in modo distinto, in relazione alla natura
dell’interesse che si assume essere leso.
Non vi è dubbio che la tutela del terzo possa svolgersi come tutela del
suo diritto, nella logica delle ordinarie vertenze tra privati, davanti al giudice
ordinario. Il terzo potrà senz’altro adire l’autorità giudiziaria competente,
esercitando in tale sede tutta la gamma di azioni ammesse, sia di natura cautelare
che di accertamento che di condanna, indipendentemente dalla presenza
o meno di uno specifico provvedimento dell’amministrazione. Tuttavia, è
altrettanto chiaro, che restringere i rimedi di cui egli può disporre nell’ambito
della giurisdizione ordinaria non darebbe un risultato particolarmente
appagante. Si è, in effetti, evidenziato che per quanto si possa dilatare la tutela
del diritto, la legittimazione, in tal caso, non avrebbe la stessa ampiezza
che verrebbe, per contro, riconosciuta nel caso di interesse legittimo.
(11) Così Cons. Stato, sez. VI, 10 luglio 2003, n. 3265; Cons. Stato, VI, 20 ottobre 2004, n. 6910;
T.A.R. Veneto, sez. II, 10 settembre 2003, n. 4722.
(12) Così, T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.
DOTTRINA 363
Lampante è l’esempio rinvenibile nell’ambito delle attività edilizie: i soggetti
che possono pretendere la tutela del proprio diritto ai sensi dell’art. 872 c.c.
sono soltanto i proprietari vicini, ossia una categoria molto più limitata di
quanti, in astratto potrebbero impugnare una concessione edilizia (13).
È allora chiaro, che uno sforzo ulteriore deve essere compiuto, per
meglio individuare quale siano i rimedi che il terzo può esperire al fine di
salvaguardare le proprie ragioni e per far ciò occorre, in primo luogo, esaminare
i poteri che la P.A. ha a disposizione per contrastare un eventuale illegittimo
esercizio dell’attività da parte del privato. In effetti, non vi è dubbio
che una qualche forma di controllo e perciò di tutela del terzo, debba provenire
dalla stessa amministrazione, giacché è pur vero che trattasi di un atto
avente natura privata ma, è altrettanto acclarato, che la P.A. sia tenuta a verificare
ex post che siano stati rispettati i presupposti e i limiti imposti dalla
legge.
È allora opportuno soffermarsi ad esaminare il funzionamento del meccanismo
di controllo della amministrazione (14), al fine di verificare in che
modo l’amministrazione possa tutelare le ragioni del terzo.
Sotto un profilo squisitamente procedurale, l’istituto di cui all’art. 19
della legge n. 241/90 configura una fattispecie a formazione complessa, in
quanto il legittimo esercizio di una determinata attività da parte del privato
dipende dal susseguirsi di una serie di atti e fatti.
Il privato inizia a svolgere una certa attività a seguito della presentazione
della denuncia di essa all’amministrazione competente e della conseguente
propria assunzione di autoresponsabilità. A seguito di siffatta dichiarazione
autocertificativa, l’amministrazione è tenuta a dar vita ad un apposito procedimento
di verifica dell’accertamento in capo all’interessato dei presupposti e
dei requisiti richiesti dalla legge. L’amministrazione, perciò, è tenuta non ad un
controllo preventivo, come avveniva sotto l’egida del modello autorizzatorio,
ma è chiamata ad avviare un procedimento di sindacato successivo (15).
Sul piano strutturale, occorre poi rilevare che questa fase si realizza in
un controllo-riscontro di cui è indiscusso il carattere “non costitutivo, doveroso,
puntuale, ad effetto provvedimentale solo eventuale” (16).
(13) Sul tema da ultimo R. GIOVAGNOLI, Il rapporto di causalità, in F. CARINGELLA, M. PROTTO
(opera diretta da), La responsabilità civile della P.A. Bologna, 2005, pg. 259 ss..
(14) A seguito della novella n. 80 del 2005, l’attività non può più essere iniziata immediatamente
dopo la presentazione della dichiarazione, ma devono decorrere trenta giorni. Una volta decorso il
citato termine, l’attività potrà essere iniziata dal privato, il quale ha però l’obbligo, di darne contestuale
comunicazione alla P.A. Da tale comunicazione inizia a decorrete un ulteriore termine di trenta giorni
entro il quale l’amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, fatti,
legittimanti, può inibire lo svolgimento dell’attività e ordinare la rimozione dei suoi effetti, salvo, ove
sia possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti
entro un termine fissato dalla P.A., in ogni caso non inferiore a trenta giorni.
(15) Così DE MICO, Note sugli art. 19 e 20 della legge n. 241/1990, in Dir. Amministrativo 1993,
pg. 282.
(16) Così T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.
364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Non costitutivo in quanto, come sin qui chiarito, tale controllo non interviene
nel processo di produzione della posizione giuridica soggettiva, la
quale trova la propria fonte direttamente nella legge e, quindi, non è preordinato
a sfociare in alcun atto di assenso esplicito od implicito, ma a fungere
semmai, in caso di accertamento negativo, da presupposto giuridico per
l’adozione della prescritta misura inibitoria o repressiva.
Doveroso, in quanto espressione di una specifica funzione volta ad assicurare
la necessaria presenza dell’amministrazione in veste di “garante esterno
della legalità”, a fronte di determinate attività il cui libero esercizio riveste
un carattere di non indifferenza rispetto alla sfera dei pubblici interessi.
Puntuale, in quanto ogni denuncia deve essere assoggettata a specifica
verifica, restando escluso in base ai principi ordinamentali che una funzione
doverosa possa essere esercitata a tratti, secondo parametri discrezionali
scelti dall’amministratore che ne è titolare.
Ad effetto provvedimentale solo eventuale, in quanto unicamente nell’ipotesi
di riscontro negativo il relativo atto assumerà valore provvedimentale
esterno, venendo a costituire l’antecedente giuridico necessario per l’adozione
della prescritta misura inibitoria: il divieto della prosecuzione dell’attività
e la rimozione dei risultati prodotti, a meno che, ove possibile l’interessato
non provveda a conformare l’attività e gli effetti della stessa alla normativa
vigente (17). Come precisato infatti, dall’Adunanza generale del
Consiglio di Stato, “la fase dell’accertamento dei requisiti non deve necessariamente
essere formalizzata in un provvedimento amministrativo esplicito
che ne attesti il compimento e l’esito positivo. Siffatta formalizzazione
avverrà, invece, nell’ipotesi di adozione dei provvedimenti repressivi: è
chiaro, infatti, che provvedimenti di tal genere suppongono un accertamento
negativo circa la sussistenza dei requisiti che deve, nel medesimo provvedimento,
trovare formale espressione” (18).
A differenza delle caratteristiche ora citate su cui non sono emersi rilevanti
problemi interpretativi, discussa è stata in effetti, la natura del termine
in cui la P.A. è tenuta ad effettuare il proprio potere di controllo (19).
(17) Così F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, tomo II, terza edizione, Giuffrè, pg.
1338 ss., secondo cui l’amministrazione procedente è obbligata a tentare la via della sanatoria, con
l’incentivazione del ripristino della legalità da parte dell’interessato e, solo ove tale sanatoria non risulti
praticabile, a motivo del comportamento riottoso del privato o di una situazione di impossibilità, è
legittimata ad esercitare i propri poteri di interdizione.
(18) Parere dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato, n. 27/1992.
(19) A differenza della giurisprudenza, dottrina autorevole ha sostenuto con forza la tesi della
perentorietà del termine di verifica sulla base di molteplici elementi desumibili immediatamente dal
testo della norma. In primo luogo l’espressione “entro e non oltre sessanta giorni” sembrerebbe riferirsi
ad un termine di decadenza; in secondo luogo, entro il termine citato, il divieto di prosecuzione
dell’attività dovrebbe essere non solo assunto dalla P.A. ma anche notificato all’interessato; in terzo
luogo, in applicazione del generale principio di tutela dell’affidamento del privato denunciante, il
quale deve poter contare sul fatto che successivamente alla scadenza del termine de quo ogni intervento
dell’amministrazione non sarebbe sorretto dal crisma della legalità. Così CORTISEI, La perentorietà
del termine per la verifica della DIA, in Urb. e app., 2002, pg. 1471.
DOTTRINA 365
Ad avviso dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato (20), il termine
non avrebbe natura perentoria, in quanto l’interesse pubblico a reprimere
condotte con esso confliggenti prevarrebbe sull’interesse del privato alla certezza
della situazione. Il decorso del termine comporterebbe semplicemente
una “franchigia dal titolo abilitativo, ma non una rinuncia dell’amministrazione
all’esercizio dei propri poteri inibitori”. Questo indirizzo è stato confermato
da quella giurisprudenza che ha ravvisato nel sistema della denuncia
di inizio attività, non la produzione di un effetto legale tipico di assenso,
ma un mero effetto lato sensu abilitativo, avulso cioè, lo si ripete, da ogni
connessione con la produzione di effetti provvedimentali e soprattutto da
ogni forma di presunzione di formazione tacita di una volontà positiva dell’amministrazione
(21).
È chiaro, a questo punto, che una prima forma di tutela delle ragioni del
terzo provenga direttamente dal corretto esercizio da parte della P.A. del suddetto
potere di controllo.
In primo luogo, il terzo, giacché la verifica che l’amministrazione è chiamata
a compiere si atteggia a procedimento stricto sensu – come tale soggetto
alle regole di partecipazione di cui alla legge n. 241 del 1990 (22) – sarà
preminentemente garantito attraverso la partecipazione, in qualità di controinteressato,
al procedimento di acclaramento sopra delineato, con conseguente
deduzione, in detta sede, ex artt. 7 e seguenti della legge 241, delle
ragioni e degli interessi di propria pertinenza.
In secondo luogo, laddove l’amministrazione, nel termine prescritto
adotti un provvedimento inibitorio o repressivo, la posizione del terzo antagonista
verrà ad essere salvaguardata in via indiretta dal relativo provvedimento
e potrà essere tutelata in sede giurisdizionale amministrativa, nella
ipotesi in cui il provvedimento venga impugnato, con i normali mezzi forniti
dall’ordinamento. Il terzo, pertanto, potrà partecipare, in qualità di contro
interessato, nel giudizio proposto dinnanzi al giudice amministrativo per
l’annullamento del provvedimento repressivo considerato illegittimo oppure,
intervenendo nel processo ad opponendum, qualora non sia titolare di un
interesse qualificato alla reiezione del ricorso.
Il problema si pone, invece, ove l’amministrazione non adotti alcuna
determinazione provvedimentale espressa. In tale ipotesi infatti, come sopra
precisato (23), il modulo legislativo non configura il formarsi di uno specifico
provvedimento dell’amministrazione che assenta formalmente l’esecuzione
dei lavori oggetto della denuncia e, pertanto, il terzo viene privato del
(20) Parere dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato, n. 27/1992.
(21) Così, ad esempio, Cons. Stato, VI, 4 settembre 2002, n. 4453. Indirizzo recepito anche dalla
giurisprudenza delle Corti di primo grado (v. ad esempio, T.A.R. Puglia, II sez. 13 novembre 2002 n.
4950).
(22) F. CARINGELLA, op. cit. pg. 1338.
(23) Si rinvia a quanto precedentemente detto in ordine all’indirizzo minoritario secondo cui la
D.I.A. sarebbe qualificabile come titolo abilitativo tacito.
366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
suo principale tipico mezzo di tutela. È questo uno dei punti cruciali della
tematica in questione perché evidenzia, chiaramente, la mancanza di tutela
che il meccanismo, per come configurato, offre al soggetto leso dalla attività
intrapresa dall’interessato tramite D.I.A., allorché l’amministrazione non
provveda a reprimere l’attività illegittimamente compiuta nel termine previsto
(24).
Come sopra ricordato, la natura del termine per il compimento dell’attività
di verifica è stata variamente interpretata, tuttavia, la tesi che ancora si
ritiene preferibile è quella della sua non perentorietà. L’amministrazione,
proprio perchè chiamata a salvaguardare interessi pubblici, a prescindere dal
decorso del termine, manterrebbe pur sempre salvo l’esercizio del proprio
potere repressivo (25).
Una conclusione di tal fatta non risolve il problema ma, anzi, ne propone
di nuovi.
In effetti, è chiaro che riconoscere che in capo alla P.A. residui un potere
repressivo e sanzionatorio, esercitabile a prescindere dal rispetto del termine
previsto dall’art. 19, pone un interrogativo in ordine alla natura di
questi poteri. Anche in relazione a questo profilo manca un indirizzo unanime,
ed anche in questo caso, la disomogeneità di vedute non dipende da
divergenze teoriche, ma dall’esigenza di dare coerenza all’istituto di cui
all’art. 19.
Prevalentemente sono le due le tesi che si contendono il campo: quella
per cui tale attività è espressione del principio di autotutela e quella per cui
si tratterebbe di una attività di controllo della pubblica amministrazione.
La soluzione dell’autotutela, è stata prospettata sia dal Consiglio di Stato
in sede consultiva (26), che da autorevole dottrina. In particolare, il
Consiglio di Stato basa il suo assunto sulla considerazione che l’esercizio del
potere di verifica interviene successivamente all’inizio di una attività già
intrapresa, di talché non può non configurarsi alla stregua e nei limiti del
potere di autotutela spettante all’amministrazione: l’inquadramento dell’atti-
(24) Si comprende, allora, perché si è tentata una diversa configurazione del modello di cui
all’art. 19 al fine di identificare un provvedimento amministrativo che il terzo potesse impugnare. In
questa ottica, si è in alcuni casi sostenuto che decorso il termine imposto all’amministrazione per la
verifica dei presupposti e requisiti di legge, la denuncia da atto di parte trasmuterebbe in titolo abilitativo
tacito. Si tratta di una ipotesi accolta sporadicamente dalla giurisprudenza. In questo senso v.
Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2003, n. 3265; Cons. Stato, 20 ottobre 2004, n. 6910; T.A.R. Veneto,
sez. II, n. 3405del 2003; T.A.R. Veneto, sez. II, n. 2354 del 2005.
(25) L’autotutela decisoria (potere di annullamento d’ufficio e di revoca) è stato introdotta normativamente
dalla legge n. 15 del 2005. Tuttavia, ancor prima della novella, non si dubitava del fatto
che l’amministrazione fosse dotata di siffatti poteri, anche se molteplici erano i fondamenti giuridici
che si invocavano al fine di giustificarli. Tesi maggioritaria, era che tali poteri si ritenevano essere una
proiezione del potere funzionale attribuito dall’art. 97 Cost. alla P.A. medesima, nel senso che in virtù
della norma citata l’amministrazione aveva il compito di controllare nel tempo che i provvedimenti
fossero conformi agli interessi pubblici.
(26) Parere n. 27/1992.
DOTTRINA 367
vità in questione nell’ambito dell’autotutela si evincerebbe dal collegamento
con l’eventuale intervento repressivo che ne può conseguire.
Contro questa impostazione sembra cozzare un dato apparentemente non
superabile. L’esercizio dei poteri di autotutela in capo all’amministrazione
implica un’attività amministrativa di secondo grado e presuppone, perciò, la
sussistenza di un provvedimento amministrativo su cui il predetto potere di
autotutela dovrebbe ricadere. È allora chiaro che la tesi dell’adozione di
misure di autotutela da parte dell’amministrazione, mal si concilia con la
qualifica di atto di diritto privato attribuita alla denuncia di inizio attività;
viceversa, la predetta tesi, potrebbe accogliersi, laddove, si riconoscesse
natura di provvedimento amministrativo tacito alla denuncia, come parte
minoritaria della giurisprudenza ha fatto (27).
L’altra soluzione, invece, è quella per cui, l’esercizio del potere di verifica
conseguente alla denuncia di inizio attività sarebbe da inquadrare nell’ambito
dell’attività di controllo successivo dell’amministrazione, dalla
quale può scaturire un provvedimento repressivo (28).
Anche in questo caso la giurisprudenza sembra non aver assunto un indirizzo
unanime. Il potere repressivo che residua in capo alla P.A. è stato fatto
rientrare in alcuni casi “nel più generale potere di ordinare la cessazione dell’attività
in tutti i casi di mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti”
(29); in altri, seguendo le indicazioni dettate dall’Adunanza generale del
Consiglio di Stato, nel generale potere di autotutela della P.A..
Nell’accogliere l’ultima soluzione prospettata, i giudici hanno comunque
cercato di ricostruire siffatto potere repressivo, avendo bene in mente la
natura di atto privato della D.I.A.. In effetti, avviso dei giudici di Palazzo
Spada, “l’attività dell’amministrazione, successiva alla denuncia di inizio
attività è un attività discrezionale e per tale ragione essa è stata ricondotta
al più generale potere di intervento successivo dell’amministrazione ed al
quadro dell’autotutela; essa però non implica una attività di secondo grado
su di un precedente provvedimento, proprio perché nello schema teorico dell’art.
19 della legge n. 241 del 1990, l’intervento dell’amministrazione non
è successivo ad un provvedimento amministrativo, ma ad una dichiarazione
di un privato cittadino” (30).
Una volta riconosciuto da parte della giurisprudenza che a seguito del
decorso del termine per l’accertamento delle condizioni della D.I.A. residuano
in capo all’amministrazione poteri, che a prescindere dalla loro classificazione
hanno carattere repressivo, sorge un’ulteriore e consequenziale
questione.
(27) Così Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2003, n. 3265; Cons. Stato, sez. VI, 20 ottobre 2004,
n. 6910; T.A.R. Veneto, sez. II, n. 3405/03; T.A.R. Veneto, n. 2354/05.
(28) Sul tema, F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II tomo, terza edizione, Giuffré,
pg-1339 ss.
(29) Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2004, n. 5323.
(30) Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453.
368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
In effetti, alla luce del citato indirizzo giurisprudenziale, ci si è interrogati
se il terzo leso dall’attività intrapresa a seguito di D.I.A., decorso il termine
che la P.A. ha a disposizione per controllare la sussistenza delle condizioni
legittimanti l’attività, possa sollecitare l’esercizio del potere di autotutela
e, in caso di inerzia, ricorrere contro il silenzio-rifiuto ex art. 21 bis legge
T.A.R. È noto, infatti, come detto rito sia dalla norma espressamente preordinato
a sindacare l’inerzia della pubblica amministrazione, esulando dal suo
ambito di applicazione i casi di silenzio significativo, ossia quelli in cui la
legge attribuisce al comportamento silente protratto per un certo termine il
valore tipico di assenso o di rigetto.
Anche in questo caso, la giurisprudenza non ha assunto una posizione
unanime. In effetti le tesi si divaricano a seconda della ricostruzione dell’art.
19 accolta.
In questa prospettiva, sembra scontata la posizione di coloro secondo cui
l’inerzia dell’amministrazione, a fronte della denuncia di inizio attività presentata
dal controinteressato (denunciante), darebbe luogo ad un titolo formatosi
in via silenziosa. Secondo siffatta ricostruzione “l’inerzia e/o il silenzio
dell’amministrazione si sarebbero trasfusi nel provvedimento che ha
autorizzato la controinteressata all’esecuzione degli interventi, per cui allo
stato, non sussisterebbe un’inerzia illegittima da perseguire nelle forme di
cui al modello processuale di cui all’art. 21 bis, bensì un titolo edilizio consolidatosi
con il decorso del termine assegnato all’amministrazione per inibire
l’intervento” (31).
Più complessa si presenta, per contro la posizione della giurisprudenza
dominante, secondo cui la D.I.A. prescinderebbe sempre e comunque dall’emanazione
di un provvedimento amministrativo. A fronte di questo dato
assodato, occorre però compiere un ulteriore distinguo. In effetti all’interno
della giurisprudenza dominante le posizioni si divaricano a seconda che si
accolga o meno la configurazione dei poteri repressivi che residuano in capo
alla P.A. nell’ambito della c.d. autotutela.
In questo senso, vale a dire, a favore dell’esperibilità della procedura del
silenzio-rifiuto per sollecitare l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione
in materia di D.I.A. si è recentemente pronunciato il Consiglio di
Stato (32). Nell’accogliere tale soluzione, ha avuto cura di precisare come
rispetto alla D.I.A. non possa invocarsi il tradizionale indirizzo giurisprudenziale
che esclude la possibilità di far ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto
allo scopo di provocare, da parte dell’amministrazione, l’esercizio dei
poteri di autotutela. Tale indirizzo, ad avviso dei giudici di Palazzo Spada,
trova, invero, il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento
della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel ter-
(31) T.A.R. Veneto, sez. II, n. 2354 del 2005.
(32) Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453; in questo senso anche Cons. Stato, sez. IV,
n. 3916/05.
DOTTRINA 369
mine di decadenza. Appare evidente, infatti, che ove dovesse ritenersi possibile
il ricorso al silenzio-rifiuto, ai fini dell’esercizio del potere di annullamento
in sede di autotutela da parte dell’amministrazione, nei confronti di un
provvedimento non tempestivamente impugnato dal privato interessato,
potrebbe essere facilmente elusa la regola che richiede l’impugnazione del
provvedimento da parte di chi sia da esso leso nei termini di decadenza.
Una situazione del genere – rileva la sentenza in esame – non appare
configurabile con riferimento alla denuncia di inizio attività privata ed alla
successiva attività dell’amministrazione. Da una parte, infatti, la denuncia di
inizio attività non è un provvedimento amministrativo né lo diventa con il
decorso del termine previsto per l’attività di riscontro della pubblica amministrazione;
dall’altra, questa ultima non è una attività di secondo grado, che
interviene su una precedetene attività provvedimentale. Non potendosi, pertanto,
verificare, con riferimento all’attività dell’amministrazione successiva
alla denuncia di inizio attività, quel fenomeno, ora descritto, di elusione del
termine decadenziale, non vi sono ragioni per non ritenere applicabile il rito
speciale di cui all’art. 21 bis della legge T.A.R. (33).
Contraria a questa impostazione, si è mostrata quella parte della giurisprudenza,
soprattutto dei Tribunali amministrativi regionali (34), che non
fanno ricadere il potere repressivo della P.A. nell’ambito dell’autotutela.
Secondo siffatta impostazione “ammettere l’esercizio dell’autotutela significherebbe,
in realtà, riconoscere la possibilità per l’amministrazione di
annullare una dichiarazione resa da un privato cittadino indipendentemente
dal valore giuridico che la stessa possa assumere” (35).
In questa prospettiva, a fronte del silenzio tenuto dall’amministrazione
che non ha provveduto a compiere l’accertamento delle condizioni legittimanti
la D.I.A. nel termine di legge, il terzo che si ritenga leso in un suo interesse
legittimo può, senza necessità di ottenere la formazione di un silenziorifiuto,
tutelare i propri interessi “attivando un giudizio di cognizione tendente
all’accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti fissati
dalla legge per la libera intrapresa dell’attività e quindi della illegittimità del
silenzio medesimo, con ogni conseguenza giuridica per ciò che riguarda le
opere compiute” (36).
(33) È chiaro che l’azione ex art. 21 bis della legge T.A.R., a pena di inammissibilità doveva essere
preceduta da una formale diffida da parte del terzo nei confronti dell’amministrazione (Cons. Stato,
sez. IV, n. 3916/05); necessità venuta meno solo recentemente a seguito della novella n. 15 del 2005.
(34) T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.; T.A.R. Piemonte, sez. I, 4 maggio 2005, n.
1359.
(35) Così T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.
(36) T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113. Occorre comunque precisare che questa ricostruzione
è stata compiuta non in ordine al modello generale di cui all’art. 19, bensì con riferimento
alla D.I.A. edilizia. Ad avviso del citato Tribunale amministrativo, non è possibile far ricorso al rimedio
processuale di cui all’art. 21 bis della legge T.A.R:, giacché, in primo luogo, detto rimedio non
può essere utilizzato al fine di una pronuncia sulla fondatezza della pretesa sostanziale (principio statuito
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 2002, ma oggi superato dalla novella n.
370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
Il silenzio dell’amministrazione non si atteggerebbe come inadempimento
in senso tecnico, ma come comportamento illegittimo, in quanto
espressivo di una attività di controllo conclusasi positivamente, pur in carenza
dei requisiti e dei presupposti stabiliti dalla legge. Ne consegue, che l’unica
azione ammissibile a tutela degli interessi legittimi del terzo sarebbe
quella di accertamento, non potendo, del resto, trovare applicazione né quella
di inadempimento (mancando l’inerzia in senso tecnico dell’amministrazione),
né, tanto meno, quella di annullamento (mancando un provvedimento
da annullare).
Va da sé, poi, che in via accessoria, il terzo potrà altresì chiedere il risarcimento
dei danni eventualmente subiti dall’illegittimo comportamento tenuto
dall’amministrazione, ove ne ricorrano i presupposti. Ad avviso della giurisprudenza
citata, inoltre, al giudice amministrativo non può essere negata
la possibilità di tutelare appieno, anche nella fase cautelare, tutti gli interessi
protetti dall’ordinamento per i quali il legislatore ha attribuito agli organi
di giustizia il potere di sindacare l’esistenza di un esercizio legittimo della
funzione amministrativa. Pertanto, deve ragionevolmente ritenersi, che l’interesse
legittimo del terzo possa altresì essere tutelato in via cautelare, nell’ambito
del delineato giudizio di accertamento, mediante l’adozione delle
misure che appaiono secondo le circostanze, più idonee ad assicurare in via
interinale gli effetti sostanziali di tale decisione. Tale azione, si precisa infine,
potrà però essere esercitata entro il termine decadenziale di sessanta giorni
dalla conoscenza della illegittimità del comportamento dell’amministrazione,
conoscenza che verosimilmente interverrà, salvo prova contraria, con
l’inizio dell’attività.
Occorre esaminare un ultimo profilo, non di poco conto, che inerisce alla
giurisdizione. Quanto sino ad ora detto, sembra in un certo qual modo presupporre
che la tutela del terzo ricada tout court nella giurisdizione del giudice
amministrativo, salvo ovviamente trattarsi di controversie tra privati, in
cui sono in gioco diritti soggettivi, per cui, tendenzialmente dovrebbe concludersi
che in tal caso la giurisdizione sia del giudice ordinario.
Le cose non sono così semplici e le difficoltà emergono a cominciare
proprio dalle controversie che apparentemente dovrebbero esaurirsi in un
ambito tutto privatistico. Per avere un quadro d’insieme, occorre tenere in
considerazione due dati di rilievo.
Il primo è che sino alla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del
2004, la materia “edilizia” e dunque la tematica della D.I.A. edilizia rientrava,
ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. n. 80 del 1998, nell’ambito della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
15 del 2005 almeno con riferimento all’attività vincolata della P.A. come è nel caso de quo); in secondo
luogo e ciò inerisce alle peculiarità della D.I.A. edilizia, poiché il potere inibitorio-preventivo della
P.A. è sottoposto ad un termine di legge perentorio (diversamente dal potere repressivo-successivo), una
volta decorso il quale, i poteri inibitori della P.A. si estinguono e perciò, non è più ipotizzabile una pronuncia
che imponga all’amministrazione l’esercizio di una specifica potestà di cui non è più titolare.
DOTTRINA 371
Il secondo, che a seguito della sentenza citata, l’art. 34, comma 1, del
medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art.
7, lettera b, della legge 21 luglio 2000, n. 205, è stato dichiarato incostituzionale,
nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, le controversie aventi per oggetto «gli atti, i
provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle
pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia
urbanistica ed edilizia.
Orbene, alla luce di questi dati, è chiaro che si sono posti tutta una serie
di problemi. Innanzitutto, occorre verificare la perdurante solidità di alcune
affermazioni compiute dalla giurisprudenza come ad esempio che “anche
nell’ipotesi in cui l’interesse che il terzo assuma essere leso dall’attività
intrapresa si sostanzi in un diritto soggettivo, la relativa controversia rientrerà
nell’ambito della competenza esclusiva del giudice amministrativo ai
sensi dell’art. 34 del D.Lgs. n. 80/98, in quanto la dedotta lesione si sarà
prodotta in ogni caso con la necessaria presenza ed intermediazione del
potere amministrativo” (37).
In effetti, una affermazione del genere, se da un lato non ha più rilievo,
in quanto anche nella materia edilizia, la giurisdizione del giudice amministrativo
sussiste solo quando è in gioco la lesione di interessi legittimi, dall’altro,
è difficile affermare che la lesione non sia stata causata dal mancato
esercizio di un potere di controllo vincolato, ma comunque autoritativo della
P.A. Accogliendo questa ultima considerazione, dovrebbe pervenirsi alla
conclusione che, in caso di lesione di un diritto soggettivo, poiché il medesimo
è destinato a scontrarsi comunque con la presenza necessaria dell’amministrazione,
il terzo sarà legittimato ad agire soltanto affinché la medesima
eserciti correttamente il proprio potere, e dunque, la questione dovrà
essere portata di fronte, ancora una volta, al giudice amministrativo.
Ad una stessa conclusione dovrebbe pervenirsi, in ordine al giudizio di
cognizione dell’accertamento del comportamento illegittimo della P.A, così
come ricostruito dalla recente giurisprudenza prima citata. Anche in tal caso,
se è vero che i comportamenti in materia edilizia sono stati sottratti alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, altrettanto vero è che in tal
caso, il comportamento si sostanzia in un esercizio illegittimo del potere di
controllo della P.A., per cui, ancora una volta, la questione dovrebbe essere
portata davanti al giudice naturale degli interessi legittimi.
In questo senso si è pronunciato recentemente il T.A.R. Piemonte (38) il
quale ha osservato che l’espunzione dei “comportamenti” dal testo dell’art.
34 del D.Lgs. n. 80/98 deve essere interpretata sistematicamente sulla base
della motivazione della sentenza n. 204 del 2004, dovendosi ritenere, pertanto,
sottratti alla giurisdizione del giudice amministrativo, solamente i com-
(37) T.A.R. Liguria, sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113.
(38) T.A.R. Piemonte, sez. I, 4 maggio 2005, n. 1369.
372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
portamenti non riconducibili, neppure in via mediata, all’esercizio della funzione
amministrativa.
Tuttavia, anche questa impostazione non sembra pacifica in giurisprudenza;
in senso contrario si deve segnalare la pronuncia di un altro
Tribunale amministrativo (39), secondo cui l’inerzia/silenzio o meglio, il
mancato esercizio dell’attività di vigilanza da parte della P.A., integrerebbe
un mero comportamento, che a seguito della sentenza della Corte
Costituzionale citata esulerebbe dalla giurisdizione del giudice amministrativo.
È chiaro che le due posizioni citate riflettono gli orientamenti sorti all’indomani
della sentenza n. 204 del 2004. La nozione di comportamenti della
P.A. sottratti alla giurisdizione del giudice naturale degli interessi è stata
variamente interpretata.
Secondo una parte della dottrina e giurisprudenza, si dovrebbe ritenere
che, la Corte Costituzionale abbia voluto espungere ogni comportamento
della P.A., così come si evince, dal dispositivo della sentenza. Altra parte, ed
è questa la tesi che si condivide, ha sottolineato la necessità di correlare la
scarna indicazione del dispositivo con il frammento di motivazione ad esso
riferito: la giurisdizione esclusiva sui comportamenti è illegittima, in quanto
estesa a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita –
nemmeno mediamente – alcun pubblico potere (40). Questa sembra essere
anche la via intrapresa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (41),
chiamata ad esprimersi in ordine alla tematica de qua, anche se con riferimento
ai comportamenti della P.A. in un diverso settore, vale a dire, quello
delle procedure espropriative. “In materia di procedimenti espropriativi, i
“comportamenti” cui fa riferimento l’art. 34 del decreto legislativo 80.98
nella relativa versione originaria, anteriore all’intervento operato dalla
Corte costituzionale con la nota pronuncia n.204/04, devono assumersi riferiti
non già ad attività materiali della P.A. sorrette dall’esplicazione del
potere – sia pure manifestatosi attraverso l’adozione di atti illegittimi, dipoi
caducati – quanto piuttosto a contegni posti in essere dalla parte pubblica
(sia pure funzionali al perseguimento dell’interesse pubblico, ma) collocantisi
al di fuori dell’esplicazione del potere, come nelle ipotesi della pura attività
materiale (non sorretta da provvedimento), delle voi de fait, delle manifestazioni
abnormi di potestà”.
Sin qui si è cercato di dare un quadro generale della tematica della natura
della D.I.A. e delle possibili tutele che possono essere apprestate al terzo.
Lampante è ciò che si era preannunciato, vale a dire la nebulosità dei rimedi
(39) T.A.R. Lombardia, 6 luglio 2005, n. 3230.
(40) CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE (ufficio del massimario e del ruolo), I comportamenti in
materia urbanistica ed edilizia.
(41) Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 16 novembre 2005, n. 9. La questione circa
l’individuazione della nozione di “comportamento” era stata rimessa dalla IV Sezione del Consiglio
di Stato con ord. del 17 marzo 2005, n. 1009.
DOTTRINA 373
esperibili dal soggetto leso dall’attività intrapresa tramite D.I.A., in quanto
nulla sembra chiaro e definito: incerta è la natura della D.I.A., incerta è la
natura del termine entro cui la P.A. può accertare i requisiti e i presupposti di
legge, incerta è la natura dei poteri di controllo della P.A. susseguenti al
decorso del termine citato; incerta è la possibilità di stimolare l’amministrazione
ad assumere provvedimenti repressivi tramite la procedura di cui
all’art. 21 bis della legge T.A.R. ed infine, in alcuni casi, incerto è il giudice
chiamato a conoscere di queste controversie.
A fronte di un panorama così poco confortante, occorre prendere in considerazione
le modifiche recentemente apportate al modello generale della
D.I.A. dal decreto legge n. 35 del 2005, convertito in legge n. 80 del 2005,
al fine di verificare se il legislatore ha finalmente portato un po’ di chiarezza
nella tematica de qua.
Rispetto alla precedente norma (42), il nuovo testo dell’art. 19 presenta
molteplici aspetti di sicura novità (43), tuttavia, in questa sede si approfondiranno
solo quelle connesse con il tema trattato che sono: da un lato, previsione
espressa della possibilità da parte della P.A. di esercitare i suoi poteri
di autotutela, ai sensi degli art. 21 quinques e 21 nonies della legge n. 241/90,
anche dopo la scadenza del termine di trenta giorni; in secondo luogo, l’istituzione
della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo su tutte le
controversie in materia di D.I.A.
Cominciando da questo ultimo profilo, la nuova previsione, elimina tutte
quelle incertezze sopra citate, sorte a seguito dell’intervento della Corte
Costituzionale. Anzi, a ben guardare, la scelta compiuta dal legislatore, sotto
questo profilo, appare in linea con i limiti tracciati alla giurisdizione esclusiva
dalla pronuncia n. 204 del 2004 della Consulta.
Ed invero, la fattispecie de qua rappresenta effettivamente una di quelle
ipotesi in cui sussiste un intreccio inestricabile di diritti soggettivi ed interes-
(42) La DIA è stata introdotta dalla legge n. 241 del 1990, ma l’art. 19 è stato successivamente
riscritto dalla legge n. 537 del 1993, che ha fatto diventare tale istituto la regola generale in tutte quelle
materie preventivamente soggette a titoli abilitativi vincolati. La denuncia si sostituiva soltanto a quegli
atti amministrativi il cui rilascio fosse dipeso esclusivamente dall’accertamento, di per sé privo di margini
di discrezionalità, dei presupposti e requisiti di legge ovvero dal mero accertamento di requisiti di
carattere tecnico. Erano, viceversa sottratte al regime di liberalizzazione di cui all’art. 19, le ipotesi in cui
il rilascio dell’autorizzazione fosse frutto di discrezionalità amministrativa vera e propria, nonché fattispecie
in cui il rilascio del titolo abilitativi fosse subordinato a valutazioni tecnico-discrezionali.
(43) Le altre novità in questa sede non esaminate. In primo luogo, la norma amplia il campo di
applicazione della D.I.A. Vi rientrano non solo le concessioni non costitutive e le iscrizioni in albi e
ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale e artigianale, ma anche, gli atti
abilitativi caratterizzati da discrezionalità tecnica. In ordine a questo ultimo profilo, in senso favorevole,
v. F. CARINGELLA, Corso di Diritto Amministrativo, II tomo, pg. 1398 ss, Giuffré (quarta edizione);
contro, v. P. MARZANO GAMBA, La nuova disciplina della dichiarazione di inizio attività, in
www.lexitalia.it. In secondo luogo, quasi a compensare l’ampliamento dell’area applicativa dell’istituto,
si prevede, a differenza di quanto accadeva sotto il vigore della precedente versione, che, presentata
la dichiarazione, l’attività possa avere inizio non subito, ma soltanto decorso uno spazio temporale
minimo fissato dal legislatore in trenta giorni.
374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
si legittimi, in cui trova perciò una effettiva giustificazione la previsione
della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e dunque uno spostamento
della tutela dei diritti dalla sua sede naturale. In ordine al profilo
della giurisdizione, la nuova previsione fa venir meno la necessità di stabilire
se la D.I.A. sia fonte di interessi legittimi o diritti soggettivi, eliminando,
così ogni incertezza in ordine ai criteri di riparto.
In relazione, all’altro profilo, si deve constatare che pur non trattandosi
di una previsione di carattere innovativo, in quanto come sopra esaminato,
parte della giurisprudenza riconosceva la sussistenza del suddetto potere in
capo all’amministrazione già sotto il vigore della precedente versione, affatto
di poco conto, sembrano i risvolti provenienti da siffatto riconoscimento
espresso, compiuto dal legislatore.
In effetti, la previsione da parte del nuovo testo dell’art. 19 del potere dell’amministrazione
di intervenire sulla D.I.A. con i poteri di revoca e di annullamento
d’ufficio, ai sensi degli att. 21 quinques e 21 nonies sembra offrire un
importante avallo a quell’indirizzo interpretativo, volto a configurare l’istituto
come un atto amministrativo che si forma in modo tacito. Non si tratta di
una considerazione di scarso rilievo, se si tengono a mente tutti gli sforzi
compiuti dalla giurisprudenza per dare coerenza ad un meccanismo che si
riteneva doveva fondarsi su un atto privato. Il richiamo a questi istituti sembra,
infatti, collidere con la ricostruzione del modello della D.I.A. compiuto,
anche, da quella parte della giurisprudenza che riconosce poteri di autotutela
in capo alla P.A., secondo cui si prescinderebbe comunque dall’emanazione
di un provvedimento amministrativo. Per non stravolgere del tutto l’istituto e
le acquisizioni cui anche la giurisprudenza è faticosamente pervenuta, autorevole
dottrina (44) ha sostenuto che si dovrebbe circoscrivere il ricorso all’annullamento
e alla revoca alle sole ipotesi in cui il potere sia già stato esercitato
entro il termine previsto, mediante l’adozione dei provvedimenti tipici di
divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti.
Questa lettura parrebbe più coerente sia con la logica sottesa alla liberalizzazione
che con la più moderna concezione dei provvedimenti di riesame
come ipotesi di riesercizio dell’originario potere. Tale conclusione, ad avviso
della dottrina citata, sembrerebbe peraltro autorizzata anche dalla formulazione
concreta della norma ove il richiamo risulta collocato subito dopo la
previsione in ordine all’esercizio del potere di controllo.
Più complessa da sostenere, anche se si ritiene essere l’opzione da accogliere
– ad avviso ancora della dottrina citata – sarebbe la lettura nel senso
della permanenza del potere di autotutela su una vicenda nondimeno attratta
nell’area del diritto comune. Si tratterebbe in questa prospettiva di configurare
(assai problematicamente) una sorta di necessaria contaminazione fra
modelli privatistici e modelli pubblicistici quando comunque l’atto del privato
risulti inserito nel circuito della funzione pubblica.
(44) F. LIQUORI, op. cit.
DOTTRINA 375
Tale complessità è stata avvertita immediatamente da quella giurisprudenza,
che ha avuto modo di affrontare la tematica alla luce della nuova previsione.
Così, ad avviso del Tribunale Amministrativo dell’Abruzzo (45), in
effetti, la tesi secondo cui la D.I.A. sarebbe un atto soggettivamente ed
oggettivamente privato, troverebbe, oggi un ostacolo proprio nella nuovo
testo dell’art. 19, allorché consente all’amministrazione rimasta inerte dopo
la presentazione della D.I.A., di assumere determinazioni in via di autotutela
ai sensi degli art. 21 quinques e 21 nonies. Da tale previsione normativa,
ad avviso del T.A.R. citato, sarebbe possibile desumere che il legislatore
abbia voluto assumere una specifica posizione in ordine alla natura giuridica
della D.I.A., “ipotizzando, invero, l’adozione di provvedimenti di secondo
grado, il legislatore avrebbe inteso la D.I.A. come un atto abilitativo tacito
formatosi a seguito della denuncia (oggi dichiarazione) del privato e del
conseguente comportamento inerte dell’amministrazione” (46).
Attendendo che nuove decisioni vengano adottate sul punto, non si può
condividere la posizione assunta dal Tribunale citato. Il legislatore, consapevole
delle incertezze in giurisprudenza, ha cercato di mettere fine ad una
querelle in corso da anni. La D.I.A è una fattispecie complessa, che attribuisce
una posizione soggettiva da alcuni (47) definita “di diritto soggettivo a
regime amministrativo”. Si tratta di una espressione efficace che mette in
luce la peculiarità dell’istituto. In effetti, come più volte chiarito, gran parte
della giurisprudenza, riteneva, ancor prima dell’intervento legislativo in questione
che, a fronte dell’esistenza di un diritto soggettivo del privato, sussistesse
un potere di controllo dell’amministrazione, potere di controllo che
anche decorso il termine di legge permane; incerta era, in passato, solo la
veste formale da attribuire a questo potere.
In questa prospettiva, coerente appare l’intervento del legislatore, il
quale si è limitato a formalizzare in norma quello che era il principale indirizzo
giurisprudenziale, senza quindi volere in alcun modo mettere in discussione
i risultati compiuti sino ad oggi dalla giurisprudenza medesima, secondo
cui la D.I.A. è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica amministrazione,
che ne è invece destinataria e non costituisce, pertanto, esplicazione
di una potestà pubblicistica.
Inoltre, configurando la D.I.A. come un provvedimento amministrativo
che si forma in maniera tacita, autorevole dottrina ha posto l’accento sul fatto
che siffatta ricostruzione verrebbe ad assimilare la D.I.A. all’istituto del
(45) T.A.R. Abruzzo, n. 498/05.
(46) Secondo il T.A.R. Abruzzo una conferma di quanto detto sarebbe rinvenibile dall’esame
degli atti parlamentari, in cui era stata evidenziata l’inopportunità del rinvio ai predetti articoli 21 quinques
e 21 nonies, proprio perché tale previsione non sarebbe stata coerente con il fatto che la denuncia
di inizio attività non dà luogo ad un atto amministrativo. Per cui, essendo stato disatteso tale rilievo,
sembra al Collegio che nella nuova previsione la d.i.a. sia stata intesa dal legislatore quale titolo
abilitativo tacito, sul quale poi esercitare i previsti poteri di autotutela.
(47) F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II tomo, quarta edizione, Giuffré, pg, 1403.
Citazione tratta da E. BOSCOLO, I diritti soggettivi a regime amministrativo, Padova, 2001.
376 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
silenzio assenso, che per contro il legislatore disciplina in un articolo differente
(art. 20 della legge n. 241 del 1990), mostrando perciò di volere tenere
distinti e separati i due istituti (48).
A questo punto, è chiaro che l’effetto che si deve attribuire alla nuova
previsione non è, certamente, di aver inciso sulla natura giuridica della
D.I.A., ma di aver reso indirettamente più certa ed effettiva la tutela del
terzo. A seguito della novella non vi è dubbio infatti che il terzo che si ritenga
leso dall’attività da altri svolta sulla base della D.I.A., possa sollecitare
l’esercizio dei poteri di autotutela della P.A. In particolare, l’amministrazione,
anche se il termine è infruttuosamente decorso, può pur sempre intervenire
tramite il potere di annullamento d’ufficio, per rilevare l’insussistenza
originaria o sopravvenuta delle condizioni per svolgere l’attività, senza che
occorra rivolgersi all’autorità giudiziaria.
In questa prospettiva, l’esercizio del citato potere da parte dell’amministrazione,
non può neppure ritenersi violativo dei principi interni e comunitari
dell’affidamento e della certezza giuridica. Di fronte ad un atto illegittimo,
è chiaro che il privato non può vantare alcun affidamento e, ciò diventa
ancor più lampante nel caso di specie, ove l’atto non proviene dall’amministrazione,
ma dal privato, che presumibilmente conosce la correttezza o
meno della propria dichiarazione. La carenza dei presupposti e requisiti di
legge, è di per sé inidonea a fondare un’attesa di conservazione dei suoi
effetti.
Non vi è dubbio però, che tale affidamento sia destinato a formarsi,
quando la P.A. continui a consentire l’attuazione di quell’atto (specie, se si
tratta di un atto favorevole per il privato e l’amministrazione non sia intervenuta
in sede di controllo), ed ecco perciò che deve essere individuato un limite
temporale all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, limite oggi
normativamente previsto dall’art. 21 nonies. L’esercizio di questo potere,
infatti, deve avvenire in un tempo ragionevole, perché altrimenti si pregiudicherebbe
il principio della certezza giuridica e dell’affidamento.
Per ciò che concerne l’altro potere oggi riconosciuto in capo alla P.A.,
il potere di revoca, anche in questo caso, non vi è dubbio che il suo esercizio
sarà subordinato alla sussistenza delle condizioni previste dall’art. 21
quinques, vale a dire, sopravvenuti motivi di interesse pubblico, mutamento
della situazione di fatto, nuova valutazione dell’interesse pubblico originario,
e dunque sostanzialmente ogni qualvolta emergano profili nuovi
idonei a proiettare l’attività al di fuori dei confini della denuncia. Ma vi è
di più: il legislatore, consapevole del fatto che il potere di revoca va fortemente
ad incidere sul principio dell’affidamento, ha cercato di controbilanciarlo,
prevedendo la possibilità di un ristoro economico sotto forma di
indennizzo nel caso in cui la revoca comporti un pregiudizio in danno ai
soggetti direttamente interessati.
(48) F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II tomo, quarta edizione, Giuffré, pg.1413 ss.
DOTTRINA 377
Orbene, è chiaro a questo punto che l’attribuzione esplicita all’amministrazione
di poteri di autotutela in materia di D.I.A. offra non solo di una posizione
giuridica più solida al terzo, ma anche allo stesso denunciante, il quale
non avrà più incertezze in ordine alla titolarità di siffatti poteri in capo alla P.A.
e, al contempo sarà consapevole dei limiti cui tali poteri sono subordinati e la
cui violazione consentirà, certamente una sua appropriata reazione (49).
Un’ultima considerazione deve essere compiuta. In precedenza, si è fatto
riferimento alla circostanza che il riconoscimento di poteri di autotutela in
capo all’amministrazione, legittimerebbe il terzo leso dall’attività intrapresa
a seguito della D.I.A., a stimolare l’esercizio di questi poteri. Fin qui nulla
quaestio, occorre a questo punto, però, verificare se la novella ha chiarito
una volta per tutte se il terzo è legittimato, in caso di inerzia, a ricorrere ex
art. 21 bis della legge T.A.R.
Invero, anche a seguito della riforma non sembrano caduti tutti quei dubbi
in ordine alla esperibilità della procedura citata. La recente pronuncia già citata
(50), ha ritenuto non esperibile il ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto, alla
luce dell’ampia discrezionalità che connoterebbe l’esercizio del potere di autotutela.
In effetti, vero è che i provvedimenti di autotutela sono manifestazione
dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione, che
non ha alcun obbligo di attivarlo e qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza
o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione
della quale essa sola è titolare e che “non può ritenersi dovuta nel caso di una
situazione già definita con provvedimento inoppugnabile” (51). Tuttavia, è proprio
in ordine a questo ultimo profilo che già in passato il Consiglio di Stato (52)
ha correttamente sottolineato come nella tematica in esame manchi ab origine
un provvedimento, per cui non si verificherebbe quel fenomeno di elusione dei
termini decadenziali, ritenuto quale maggiore ostacolo al riconoscimento dell’esperibilità
del ricorso ex art. 21 bis legge T.A.R..
Alla luce di quanto detto, l’unica certezza offerta dalla novella in ordine
alla tematica in esame inerisce alla esperibilità dei poteri di autotutela da
parte dell’amministrazione, una volta decorso il termine di trenta giorni entro
cui la P.A. è chiamata a svolgere l’attività di controllo. Pur trattandosi, certamente,
di una novità non di poco conto, perché l’attivazione della P.A. in
questo senso garantisce, senza ombra di dubbio, la salvaguardia degli interessi
del terzo, non può ritenersi che la previsione in tal senso abbia eliminato
tutte le incertezze in ordine alla tutela dei medesimi. Come sopra chiarito,
(49) Non vi è dubbio, ad esempio che in caso di revoca, se l’amministrazione non eroga l’indennizzo,
o lo eroga in un quantum inferiore il dovuto, il soggetto direttamente coinvolto dalla revoca
potrà adire il giudice amministrativo, trattandosi di controversie rimesse alla giurisdizione esclusiva di
questo ultimo. Ancora, nel caso di revoca illegittima, il soggetto direttamente coinvolto non avrà diritto
ad un mero indennizzo, ma ad un risarcimento.
(50) T. A.R. Abruzzo, n. 498/05.
(51) Cons. Stato, sez. IV, 10 novembre 2003, n. 7136.
(52) Cons. Stato, sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453.
378 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
non solo nuovi dubbi sono sorti in ordine alla natura della D.I.A., ma permane
irrisolto uno dei nodi cruciali della tematica de qua: la nuova previsione
sembra, in effetti non aver per nulla agevolato la risoluzione della questione
in ordine alla esperibilità del rito speciale del silenzio-rifiuto, in caso di inerzia
dell’amministrazione. La giurisprudenza più recente dei Tribunali amministrativi
regionali sembra orientata a negare la possibilità di ricondurre il
modello della denuncia, oggi dichiarazione di inizio attività, al genus del
silenzio rifiuto, anche alla luce della nuova qualificazione dei poteri repressivi
della P.A., ipotizzando che la tutela delle ragioni del terzo possa passare
– non a torto – per un’azione volta ad accertare il comportamento illegittimo
della amministrazione medesima.
A questo punto occorre attendere che il Consiglio di Stato si pronunci
nuovamente sul punto per sperare di avere un quadro definitivamente più
chiaro e certo in ordine alla tutela del terzo pregiudicato dalla D.I.A.
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1 – ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI
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amministrativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I, 295
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periodi di imposta nel giudicato tributario . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 185
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economica e popolare. Il caso dell’I.A.C.P. di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 334
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228 TCE: quali sanzioni per l’inadempimento? . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 314
EVA CALVI, Governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali come
prerogativa statale: i confini della Regione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 169
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Prospettive di risoluzione stragiudiziale delle controversie . . . . . . . . . . . . . » IV, 301
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tra poteri dello Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 109
IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA, WALLY FERRANTE, Cenni storici, funzioni
ed organizzazione dell’Avvocatura dello Stato: relazione all’incontro
tenutosi il 1° marzo 2006 a Rabat (Marocco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 10
PIERPAOLO CARBONE, Caso SFIR: la parola al Consiglio di Stato . . . . . . . . . . . » I, 192
FABIO COLAVECCHI, Servizi pubblici locali: l’illegittimità costituzionale
degli affidamenti diretti prorogati oltre i termini previsti dalla legislazione
statale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 142
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fra tradizione e riforme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III, 151
GIANNI DE BELLIS, dossier, La Corte di Giustizia pone termine alla vicenda
IRAP – IVA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 7
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A N N O 2 0 0 6
CHIARA DI SERI, Ancora sul divieto di circolazione nel Land Tirolo . . . . . . . . . pag. II, 109
CHIARA DI SERI, L’obbligo di annullamento di atti amministrativi “anticomunitari”
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PASQUALE FAVA, Le situazioni giuridiche soggettive dello straniero secondo
gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, amministrativa
e civile: la disciplina dell’ingresso, permanenza ed uscita dall’Italia . . . . . . » IV, 313
PASQUALE FAVA, MARCO FRATINI, Sanzioni CONSOB e giurisdizione dopo
la legge “sul risparmio” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 350
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c.p.p. ai giudizi di cassazione sull’ irragionevole durata del processo . . . . . » II, 223
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al Convegno su Misure cautelari e sentenze in forma semplificata,
in occasione del conferimento del premio Sandulli all’Avvocato
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uscente della Corte Costituzionale Prof. Annibale Marini . . . . . . . . . . . . . . » II, 1
OSCAR FIUMARA, Saluto al nuovo Presidente della Corte Costituzionale
Franco Bile ed al nuovo Giudice Franco Maria Napoletano . . . . . . . . . . . . » II, 3
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nella realizzazione dei principi di effettività ed efficacia della giustizia
(testo tratto dall’intervento dell’Avvocato Generale Oscar Fiumara al
Convegno su “Nuove frontiere per la costruzione dell’Unione europea:
l’effettività e l’efficacia del sistema di giustizia”, organizzato dall’Unione
degli Avvocati Europei, Venezia 23, 24 e 25 novembre 2006) . . . . . . . . . . . . . » III, 1
380 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
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della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più
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In Art we trust. Modelli di governance per i beni culturali (Roma, 22 giugno
2006, Avvocatura Generale dello Stato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III, 49
Atti del Convegno – Tavola rotonda con interventi di: OSCAR
FIUMARA, LOUIS GODART, PATRIZIA ASPRONI, FRANCESCO RUTELLI,
SALVATORE SETTIS, STEFANO BAIA CURIONI, PIO BALDI, MICHELE
PORCARI, PIETRO PETRAROIA, SERGIO RISTUCCIA, ANDREA ZOPPINI,
FRANCESCA QUADRI, GIUSEPPE PROIETTI, ANTONELLA ANSELMO
LEMME, KAREN SANIG, PAOLO LEON, FABIO MERUSI, GIUSEPPE
SEVERINI, ETTORE PIETRABISSA, DANIELE RAVENNA, FRANCESCO
SCOPPOLA, RAFFAELE TAMIOZZO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III, 63
La non ostensibilità degli atti dell’Avvocatura dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 5
MARIAVITTORIA LUMETTI, I mezzi per accelerare il processo amministrativo . . . . » II, 368
MARIA VITTORIA LUMETTI, Il rapporto tra antico e moderno nel nuovo
codice dei beni culturali. La verifica e l’accertamento dell’interesse
culturale. La problematica del restauro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 334
MARIA VITTORIA LUMETTI, La responsabilità del medico dipendente e
l’uso giurisprudenziale della teoria del contatto sociale . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 261
DOMENICO MAIMONE, La tutela ante causam nell’ambito della giurisdizione
esclusiva del G. A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 334
PAOLO MARCHINI, Quale nomofilachia per il giudice contabile?. . . . . . . . . . . . . » I, 171
CRISTINA MIRTI, Appalti pubblici di forniture: la tutela della sicurezza
nazionale come causa legittima di deroga alla normativa comunitaria,
in La questione degli elicotteri Agusta, dossier . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 75
CRISTINA MIRTI, dossier, I contributi della giurisprudenza comunitaria in
tema di in house providing. L’interpretazione rigorosa dei “requisiti
Teckal” fornita dalla Corte di Giustizia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 19
IOLE MORICCA, La natura della DIA e la tutela giurisdizionale dei terzi . . . . . . .» IV, 358
LISA NORI, Una ricostruzione possibile alla luce della riforma del Titolo V. . . . . » I, 130
GIANCARLO PAMPANELLI, Sulla rilevabilità giudiziale della decadenza dell’appaltatore
di opera pubblica per mancata iscrizione di “riserva”. . . . . . . » III, 179
MARIKA PISCITELLI, Comunicazione di avvio del procedimento e deroghe
alla sua obbligatorietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 241
MARIKA PISCITELLI, Foro erariale e giudice naturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 137
CARMELA PLUCHINO, Modalità di svolgimento di una procedura di gara a
trattativa privata, a seguito della formulazione da parte di una delle
INDICI SISTEMATICI 381
imprese invitate di un’offerta qualificabile come “nuova” e non già
“migliorativa” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV, 213
JACOPO POLINARI, Le fasi della formazione del contratto pubblico: brevi
note a prima lettura sugli artt. 11 e 12 del codice dei contratti pubblici . . . . . » III, 185
DANIELE ROSATO, Appalti in house: rassegna critica di giurisprudenza . . . . . . » IV, 33
VITTORIO RUSSO, L’impegno dell’Avvocatura dello Stato in un nuovo
corso della giustizia (relazione per il Convegno su “Nuove frontiere per
la costruzione dell’Unione europea: l’effettività e l’efficacia del sistema
di giustizia”, organizzato dall’Unione degli Avvocati Europei,
Venezia 23, 24 e 25 novembre 2006) . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . » III, 17
GRAZIA SANNA, Espropriazione per pubblica utilità e brevetti industriali . . . . . . » III, 193
XAVIER SANTIAPICHI, Le cartolarizzazioni immobiliari: profili giuridici . . . . . . » III, 214
VALERIA SANTOCCHI, recensione a: FRANCESCO MARCELLI, VALERIA
GIAMMUSSO, La giurisprudenza costituzionale sulla novella del Titolo
V. 5 anni e 500 pronunce, Senato della Repubblica, Servizio Studi,
Quaderni di documentazione n. 44, ottobre 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III, 149
ANNA SCIRÈ, Azione civile risarcitoria nel processo penale a tutela di interessi
legittimi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» II, 253
FRANCESCO SPADA, La responsabilità della pubblica amministrazione per
sinistro su strada statale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» II, 229
FRANCESCO SPADA, La tutela risarcitoria nei confronti della attività provvedimentale
della pubblica amministrazione: recenti sviluppi in tema
di giurisdizione e di pregiudizialità (Cass., Sez.un., ordd. 13 giugno
2006, nn.13659 e 13660) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 117
LUCA SPAZIANI, dossier, Competenza territoriale del giudice amministrativo
in materia di risarcimento del danno e recenti sviluppi in tema di
giurisdizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 226
LUCA SPAZIANI, Il danno non patrimoniale nei giudizi in materia di equa
riparazione: quando la lunga durata del giudizio non fa soffrire . . . . . . . . . » I, 162
GIUSEPPE STIPO, Attività vincolata ed attività discrezionale della Pubblica
Amministrazione anche con riferimento alla norma dell’art. 21 octies
L. n. 241/1990 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 307
LAVINIA TIRELLI, L’abuso del diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 63
FABRIZIO URBANI NERI, Il partenariato ed il nuovo Codice degli appalti
pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 392
STEFANO VARONE, Il contenzioso in materia di procedure di abilitazione
professionale dopo l’entrata in vigore dell’art.4, comma 2 bis, legge 17
agosto 2005, n. 168 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 402
FRANCESCO VIGNOLI, Il superamento del principio societas delinquere non
potest nella disciplina introdotta dal d.lgs. n.231 del 2001 . . . . . . . . . . . . . » I, 376
382 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
FRANCESCO VIGNOLI, Tesi a confronto sulla ammissibilità della costituzione
di parte civile nei confronti dell’ente imputato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV, 202
GIOVANNI ZAMPETTI, La Corte e i “vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario”: obbligo di procedure ad evidenza pubblica . . . . . . . . . . . . . . » I, 152
PAOLAMARIA ZERMAN, Lo Stato sussidiario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III, 254
2 – INDICE DELLE SENTENZE
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE
Ord. 30 luglio 2003 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. II, 115
Ord. 2 ottobre 2003 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 118
Ord. 27 aprile 2004 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 130
Sez. 2°, 27 ottobre 2005 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 78
Grande Sezione, 16-21 febbraio 2006 nella causa C-223/03. . . . . . . . . . . . . . . » IV, 87
Sez. 1°, sent. 6 aprile 2006 nella causa C-410/04 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 33
Sez. 1°, sent. 11 maggio 2006 nella causa C-340/04. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 38
Grande Sezione, 19 settembre 2006 nelle cause C 392/04 e C 422/04. . . . . . . . » IV, 103
Grande Sezione, 3 ottobre 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 7
CORTE COSTITUZIONALE
Ord. 28 settembre 2005, n. 354 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 121
Ord. 20-24 febbraio 2006, n. 71 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 138
Sent. 3 marzo 2006, n. 80 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 146
Sent. 28 marzo 2006, n. 129 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 160
Sent. 20 aprile-5 maggio 2006, n.182 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» IV, 172
Sent. 18 maggio 2006, n. 200 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 109
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. 1°civ., sent. 28 maggio 2004 n. 10283 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 169
Sez. 1°, ord. 22 luglio 2005 n. 15482 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 226
Sez. un., sent. 23 gennaio 2006, n. 1207 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 236
Sez. 3°, sent. 20 febbraio 2006, n. 3651 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 232
Sez. 1°, sent. 4 aprile 2006 n.7863 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 239
Sez. un., ordd. 13 giugno 2006, nn.13659 e 13660 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 181
Sez. un., sent.16 giugno 2006, n.13916 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 190
CORTE D’APPELLO DI ROMA
Decreto 30 ottobre 2001, n.4227 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 164
TRIBUNALE CIVILE DI MILANO
Sez. 10°, 3 marzo 2005 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 208
TRIBUNALE CIVILE DI TORINO
Ord. 26 giugno 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 206
INDICI SISTEMATICI 383
TRIBUNALE PENALE DI CATANIA
Sez. 3°, 6-19 luglio 2005 n. 1869 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. II, 272
CORTE DEI CONTI
Sez. riunite, sent. 22 febbraio 2006, n. 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 171
CONSIGLIO DI STATO
Sez. sesta, sent. 21 marzo 2005 n.1113 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 207
Sez. 4°, sent. 28 ottobre -20 dicembre 2005, n.7197 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 234
Sez. 4°, sent. 22 dicembre 2005, n.7199 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 286
Ad.plen., sent. 9 febbraio 2006, n.2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 237
Sez. 6°, dec. 22 giugno 2006 n. 3825 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 244
Sez. 6°, dec. 13 luglio 2006 n. 4496 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 251
Sez. 4°, sent. 2 ottobre 2006 n. 5745 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 220
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO
Sez. 2°, 26 giugno 2006 n. 5152 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 5
3 – INDICE DEGLI ARGOMENTI
COMUNITÀ EUROPEE – Affidamento diretto (in house providing) –
Affidamento quasi in house . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. I, 33
COMUNITA’ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Norme nazionali che
hanno cessato di produrre effetti giuridici prima della scadenza del termine
fissato nel parere motivato – Irricevibilità del ricorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 78
COMUNITA’ EUROPEE – Procedimento sommario – Domanda di provvedimenti
provvisori – Trasporti – Divieto settoriale di transito . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 118
COMUNITÀ EUROPEE – Servizi di telecomunicazioni – Direttiva 97/13/CE –
Art.11, n.1 – Diritti ed oneri sulle licenze individuali – Art. 10 Ce –
Primato del diritto comunitario – Certezza del diritto – Decisione amministrativa
definitiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 103
COMUNITÀ EUROPEE – Sesta direttiva IVA – Art. 2, punto1, art.4, nn.1 e 2,
art.5, n.1, e art. 6, n.1 – Attività economica – Cessioni di beni –
Prestazioni di servizi – Operazioni aventi il solo scopo di ottenere un vantaggio
fiscale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 87
COMUNITA’ EUROPEE – Sesta direttiva IVA – Art. 33, n.1 – Divieto di
riscuotere altre imposte interne che abbiano natura di imposte sulla cifra
di affari – Nozione di “imposte sulla cifra di affari” – Imposta regionale
italiana sulle attività produttive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 7
COMUNITA’ EUROPEE – Traffico – Divieto settoriale di transito . . . . . . . . . . . . . . » II, 115
384 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
CONCORRENZA – Concentrazione – Ricorso giurisdizionale –
Legittimazione ad impugnare- Interesse del terzo concorrente operante nel
medesimo settore – Autorizzazione condizionata ai sensi dell’art.6, co.2, l.
n. 287/1990 – Rilevanza della giurisprudenza comunitaria – Misure correttive
– Potere dell’Autorità di riprovvedere – Ammissibilità della domanda . . . . pag. I, 207
CORTE COSTITUZIONALE – Affidamento diretto (in house providing)- Enti
locali – Procedure di affidamento di servizi di trasporto pubblico locale . . . . . . . » .I, 146
CORTE COSTITUZIONALE – Conflitto di attribuzione – Potere di concedere
la grazia – Spetta in via esclusiva al Capo dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 109
CORTE COSTITUZIONALE – Conflitto di attribuzione – Potere di concedere
la grazia – Competenza ministeriale del guardasigilli (art. 110 Cost.) . . . . . . . . . » I, 109
CORTE COSTITUZIONALE – Conflitto di attribuzione – Legittimazione
dell’Avvocatura dello Stato a rappresentare e difendere il Presidente della
Repubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 109
CORTE COSTITUZIONALE – Foro erariale e giudice naturale – Art. 25 Cost.
– Art. 6, 2 co., R.D. 1611/33: manifesta inammissibilità della questione di
legittimità cost.le . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 138
CORTE COSTITUZIONALE – Incostituzionalità di disposizioni di legge regionale
– Art. 117, 1 co., Cost. – Vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
– Obbligo di procedure ad evidenza pubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 160
CORTE COSTITUZIONALE – Tutela dell’ambiente e dei beni culturali –
Competenze di Stato e Regioni sul piano amministrativo e legislativo –
Regione Toscana – Art.117 Cost.; d.lgs. 42/04 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 172
COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE – Ammissibilità – Ente imputato . . . . . . . . . . . . . » IV, 206
EQUA RIPARAZIONE – Danno non patrimoniale – Non sussiste, in caso di
mancanza di consequenzialità tra violazione del “termine ragionevole” e
danno non patrimoniale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» I, 164
GARA A TRATTATIVA PRIVATA - Annullamento del provvedimento di aggiudicazione
– Potere dell’Amministrazione di provvedere nuovamente sulla
scorta delle originarie offerte o di annullare la gara procedendo all’avvio
di nuova procedura concorsuale – Possibilità – Esclusione del diritto al
risarcimento del danno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 220
GARA A TRATTATIVA PRIVATA - Erronea interpretazione ed applicazione della
possibilità, prevista nella lettera di invito, di integrare e migliorare le originarie
offerte – Annullamento dell’intera procedura – Esclusione . . . . . . . . . . » IV, 220
INDICI SISTEMATICI 385
GARA A TRATTATIVA PRIVATA - Offerta nuova – Richiesta di integrazione
dell’originaria offerta ad altra impresa concorrente sulla scorta dei nuovi
elementi emersi – Esclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 220
GARA A TRATTATIVA PRIVATA – Previsioni della lettera di invito - Offerta
migliorativa – Conseguenti modalità di svolgimento della procedura di
gara – Verifica da parte dell’Amministrazione Aggiudicatrice dell’effettivo
carattere “migliorativo” dell’offerta- Invalidità o inutilità dell’offerta
“nuova” – Sussistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 220
GIUDICATO ESTERNO – Rilevabilità in sede di legittimità – Giudicato formatosi
successivamente alla notifica del ricorso per cassazione – Efficacia
del giudicato tributario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» IV, 190
GIURISDIZIONE – Giudice ordinario e giudice amministrativo – Tutela risarcitoria
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 181
NOTIFICA – Ricorso per cassazione – Cambio di domicilio – Inesistenza
della notifica – Inammissibilità del ricorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 239
PAESAGGIO – Tutela – Rapporto Stato–regioni – Autorizzazioni paesistiche . . . . » II, 251
PENSIONI – Trattamenti pensionistici plurimi – Indennità integrativa speciale
– Divieto di cumulo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 171
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Comunicazione di avvio – Deroghe
all’obbligatorietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 244
PROCESSO – Irragionevole durata (legge Pinto) – Competenza territoriale –
Inapplicabilità dell’art. 11 c.p.p. (richiamato dall’art. 3, l. 89/01) ai giudizi
innanzi alla Corte di Cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 226
PROCESSO PENALE – Azione civile risarcitoria a tutela di interessi legittimi
– Ammissibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 272
PUBBLICAAMMINISTRAZIONE – Responsabilità – Risarcimento del danno da
atto illegittimo – Pregiudizialità amministrativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 181
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Sinistro su strada statale – Responsabilità
ex art. 2051 c.c. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 232
RISARCIMENTO DEL DANNO – Competenza territoriale del G.A . . . . . . . . . . . . . . . » I, 234
4 – PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI
A.G.S.- Parere del 19 gennaio 2006, n. 7032.
Ricongiungimento familiare a favore di minori affidati, ai sensi del
l’art.29, co. 2, d.l. 286/98 (cs. 47833/05, avv. G. Aiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 247
386 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S.- Parere del 19 gennaio 2006, n. 7036.
Istituto di patronato – Cessione di crediti (cs. 29267/05, avv. M. Mari) . . . . . pag. I, 250
A.G.S.- Parere del 19 gennaio 2006, n. 7268.
Competenza del giudice ordinario nelle controversie insorte con la P.A.
(cs. 17889/05, avv. G. D’Avanzo). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 253
A.G.S.- Parere del 21 gennaio 2006, n. 7933.
Autotutela – Compensazione spese di lite – Art.46 d.lgs.546/92 (cs.
61234/05, avv. G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» I, 256
A.G.S.- Parere del 21 gennaio 2006, n. 7934.
Agenzia delle Dogane - Proposta di transazione (cs. 38054/05, avv. G.
Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 257
A.G.S.- Parere del 27 gennaio 2006, n. 10847.
Concorso a posti di professore universitario di ruolo di prima fascia: ricusazione
dei componenti della Commissione giudicatrice (ct. 4967/95,
avv. A. De Stefano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 258
A.G.S.- Parere del 17 febbraio 2006, n. 20209.
Interpretazione ed applicazione del d.l. n. 203/05, conv. con L. 248/05 in
materia di invalidità civile (cs. 56149/05, avv. M. Russo) . . . . . . . . . . . . . . . » I, 261
A.G.S.- Parere del 20 febbraio 2006, n. 20930.
Validità delle graduatorie dei concorsi per l’accesso alla dirigenza –
Possibilità di considerare ancora utilizzabili le graduatorie di concorsi
per titoli e colloquio e in ordine all’interpretazione del co. 13 art.39 L.
449/97 (a.l. 39576/05, avv. P. Palmieri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 263
A.G.S.- Parere del 20 febbraio 2006, n. 20934.
Rimborso spese di difesa in relazione a procedimenti penali per i dipendenti
e associati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (cs.
50685/05, avv. C. Sica) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» I, 268
A.G.S.- Parere del 20 febbraio 2006, n. 20947.
I.C.E. – Costituzione di una società a prevalente capitale pubblico cui affidare
in via diretta l’appalto per il servizio di progettazione e realizzazione
di stands fieristici (cs.17895/05, avv. C. Sica) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 269
A.G.S.- Parere del 2 marzo 2006, n. 25994.
Croce Rossa Italiana – Nomine dirigenziali – Rappresentanza processuale
– Poteri del Direttore Generale e del Commissario liquidatore (cs.
36705/05, avv. M. Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 270
A.G.S.- Parere del 13 marzo 2006, n. 30096.
Se in materia di rimborso delle spese legali richiesto da dipendente andato
esente da condanna in giudizi inerenti a fatti ed atti connessi con il
servizio debba farsi riferimento alla normativa che sarebbe stata applicabile
al momento dei fatti ovvero a quella applicabile al momento
della sentenza definitiva (cs. 48814/05, avv. F. Greco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 274
INDICI SISTEMATICI 387
A.G.S.- Parere del 15 marzo 2006, n. 30864.
Se il regime di impignorabilità disposto all’art.1, co.294, L.266/05 per i
fondi destinati, mediante aperture di credito, a favore di funzionari
delegati degli uffici centrali e periferici del Ministero della Salute, a
servizi e finalità di sanità pubblica, nonché al pagamento di emolumenti
di qualsiasi tipo comunque dovuti al personale amministrativo o di
spese per servizi e forniture prestati agli uffici medesimi, sia applicabile
alle procedure esecutive intraprese prima dell’entrata in vigore della
norma – Condotta processuale da tenere nei casi in cui un atto di pignoramento
presso terzi abbia vincolato somme ricadenti nella previsione
di cui all’art.1, co.294, L.266/05 – Indicazioni circa le modalità secondo
cui la Sezione di Tesoreria provinciale dello Stato debba, per tale
ipotesi, rendere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. (cs. 4718/06,
avv. M. Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I, 276
A.G.S.- Parere del 16 marzo 2006, n. 31293.
Regime IVAapplicabile alle operazioni di cessione di incarichi contestuali alla
cessione di azienda o marchi di azienda (cs. 6121/06, avv. G. de Bellis) . . . . . . » I, 277
A.G.S. – Comunicazione di servizio del 20 aprile 2006, n. 68 -
Circolare n. 24/2006 – Prot. 45294/5.
Regolamento di competenza, - Sentenza del Consiglio di Stato n. 7199 del
20 dicembre 2005 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 286
A.G.S.- Parere del 24 aprile 2006, n. 45911.
Incidenza sulle disposizioni degli artt. 17 quinques, 86 e 115 TULPS della
legislazione in materia di trasferimento delle competenze amministrative
dallo Stato alle Regioni ed agli Enti locali (L. 59/97; decr. lgs.vo
112/98; L. cost. 3/2001 e L. 131/03). Se la competenza per l’irrogazione
delle sanzioni amministrative previste per la violazione degli artt. 86
e 115 TULPS e 186 del relativo regolamento di esecuzione sia rimasta
allo Stato, ovvero sia stata trasferita agli Enti locali (ct.29331/05, avv.
Quattrone) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 279
A.G.S.- Parere del 24 aprile 2006, n. 45924.
Se i dipendenti dell’Ente Parco Val Grande e, in generale, i dipendenti
degli Enti Parco nazionali siano soggetti a contribuzione obbligatoria
nei confronti dell’INPS o dell’INPDAP (cs. 63276/05, avv. E.
Scaramucci) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 283
A.G.S. – Comunicazione di servizio del 24 aprile 2006, n. 69 -
Circolare n. 26/2006 – Prot. 46276/83.
Contenzioso in materia di beni culturali e paesaggistici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 288
A.G.S. - Parere del 29 maggio 2006, n. 63523.
Se sia possibile mutare (parzialmente) in sede di esecuzione l’oggetto di
una fornitura, divenuta non utile per mutate esigenze dell’amministrazione
appaltante. La ditta fornitrice sarebbe disponibile, senza oneri
aggiuntivi per l’Amministrazione, a patto di conservare la commessa
acquisita a seguito di gara (cs.15096/06, avv. G. Fiengo) . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 277
388 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
A.G.S. - Parere del 29 maggio 2006, n. 63919.
Eventuale azione per l’avvenuta registrazione del nome a dominio cassazione.
net (cs. 57389/05, avv. C. Sica) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. II, 279
A.G.S. - Parere del 6 giugno 2006, n. 67676.
Se, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 151 del d.lgs. 9 gennaio 2006
n. 5, l’Agenzia delle Entrate possa portare a conclusione la transazione
già richiesta dal contribuente, quale prevista dall’art. 3, co. 3, del d.l. 8
luglio 2002 n. 138 conv. con legge n. 178/02, abrogato dal predetto art.
151 (cs. 7577/06, avv. G. Mandò) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 282
A.G.S. - Parere del 6 giugno 2006, n. 67727.
Imputazione dei pagamenti. Applicabilità dall’art. 1194 c.c. ai pagamenti
fatti dall’Amministrazione pubblica. Artt. 35 e 36 d.P.R. 1053/1962 (cs.
33980/05, avv. F. Fedeli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 284
A.G.S. - Parere del 19 giugno 2006, n. 73678.
Circolari nn. 12 e 13/06 dell’Avvocato Generale dello Stato relative alle
modifiche introdotte dall’art. 23, L. n. 689/81 dal d.lgs. n. 40/06 (cs.
10624/06, avv. W. Ferrante) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 287
A.G.S. – Circolare del 28 giugno 2006, prot. 77656, n. 36 –
Comunicazione di servizio n. 106/06.
Protocollo d’intesa tra l’Avvocatura dello Stato e l’Agenzia del Demanio . . . . . » II, 301
A.G.S. - Parere del 13 luglio 2006, n. 83876.
Art. 19 co. 6 d.lgs. 165/01 e art. 1 co.9 D.P.C.M. 20 dicembre 1999 (cs.
54672/05, avv. N. Bruni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 288
A.G.S. - Parere del 20 luglio 2006, n. 86062.
Trascrivibilità e volturabilità di una compravendita immobiliare avente
forma di scrittura privata con sottoscrizioni accertate con verbale di
conciliazione giudiziale, relativa ad un immobile usucapito, senza che
l’usucapione sia stata accertata con sentenza (cs. 13732/06, avv. R.
Giovagnoli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 289
A.G.S. - Parere del 26 luglio 2006, n. 87784.
Applicabilità legge 444/94 (cs. 22623/06, avv. G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . » II, 300
A.G.S. - Parere del 25 settembre 2006, n. 107024.
Ambito di applicazione della Convenzione internazionale di New York e,
in particolare, sua operatività solo per le azioni esecutive di recupero
dei crediti alimentari, o anche per i giudizi di accertamento del quantum
debeatur (cs.45837/05, avv. L. D’Ascia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 233
A.G.S. - Parere del 4 ottobre 2006, n. 111689.
Se nel caso di autorizzazione ad effettuare nuove assunzioni utilizzando la
graduatoria di un concorso già espletato sia necessario rispettare la
riserva di posti a favore di candidati interni già prevista dal bando (cs.
13634/06, avv. R. Tortora) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 238
INDICI SISTEMATICI 389
A.G.S. - Parere del 6 ottobre 2006, n. 112597.
Elezioni amministrative del 28-29 maggio 2006 – Ricorsi elettorali pendenti
dinanzi al TAR della Sardegna – Onere di impugnare la proclamazione
degli eletti e conseguenze sulla procedibilità dei ricorsi pendenti
– Indicazioni all’Avvocatura distrettuale di Cagliari sulla condotta da
tenere in giudizio (cs. 26013/06, avv. F. Fedeli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV, 240
A.G.S. - Parere del 17 ottobre 2006, n. 116847.
Terminali del lotto automatizzato: contributo una tantum dovuto dai raccoglitori
per l’installazione dei terminali: eccedenze di versamento
debenza di interessi in sede di rimborso (cs. 58647/05, avv.ti M. Mari,
A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 243
A.G.S. - Parere del 17 ottobre 2006, n. 117287.
Ministero dell’Economia e delle Finanze – Assegnazione a mansioni superiori
– Artt. 56 e 57 del d.lgs. 29/93 – Art. 3, co. 208, L. 549/1995 –
Decorrenza del diritto alle differenze retributive – Disciplina generale
o speciale (cs. 33814/05, avv. A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 244
A.G.S. - Parere del 26 ottobre 2006, n. 121593.
Rimborso spese legali ex art. 18, d.l. 67/97 – Se sussista il diritto al rimborso
in caso di assoluzione con formula ai sensi dell’art. 530 II c.p.p.
che lascia aperta l’eventualità di affermazione di responsabilità civili o
amministrative (cs.27471/06, avv. M. Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 246
A.G.S. - Parere del 27 ottobre 2006, n. 122483.
Istanza di rimborso spese legali – Parcella predisposta dal legale del
dipendente – Congruità – Voce “Esame e Studio” – Modalità di computo
(cs. 44255/04, avv. M. Salvatorelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 248
A.G.S. - Parere del 27 ottobre 2006, n. 122486.
Istanza di rimborso spese legali – Parcella predisposta dal legale del
dipendente – Congruità – Voce “Esame e Studio” – Modalità di computo
(cs. 41952/04, avv. M. Salvatorelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 248
A.G.S. - Parere del 6 novembre 2006, n. 125554.
Impugnabilità del decreto presidenziale ex art. 83 ter disp. att. c.p.c. –
Ricorribilità per cassazione della sentenza adottata da una sezione
distaccata della Corte d’appello sulla base di un decreto presidenziale
ex art. 83 ter disp. att. c.p.c. che abbia assegnato il giudizio a sezione
distaccata della Corte d’appello sita in città diversa da quella in cui ha
sede l’Avvocatura dello Stato: se le regole del foro erariale prevalgano
sulle norme regolanti la ripartizione tra sedi principali e sezioni distaccate
(cs. 36481/06, avv. M. Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 249
A.G.S. - Parere del 13 novembre 2006, n. 129398.
Ordinanze emesse a titolo di riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione –
Eseguibilità (cs. 25080/06 e 27960/06, avv. M. Greco). . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 251
A.G.S. - Parere del 27 novembre 2006, n. 135578.
Dismissioni di beni del Ministero della Difesa già appartenenti al
Demanio militare (art.3, co. 112, L. 662/96) – Applicabilità della prela-
390 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO
zione a favore del conduttore del fondo avente destinazione agricola
(art. 3, co. 99 bis L. 662/06) (cs. 13925/06, avv. M. Salvatorelli) . . . . . . . . . pag. IV, 252
A.G.S. - Parere del 15 dicembre 2006, n. 144292. (*)
Spettanza del compenso sostitutivo del congedo ordinario maturato e non
fruito dal personale collocato a riposo in seguito a riforma per infermità
(cs. 40871/06, avv. P. Marchini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 255
A.G.S. - Parere del 18 dicembre 2006, n. 145246.
Istanza di rimborso delle spese di patrocinio legale presentata da ex
Ministro dei Lavori pubblici (cs. 5392/06, avv. M. Corsini . . . . . . . . . . . . . . » IV, 257
INDICI SISTEMATICI 391
(*) Parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato in via ordinaria.




Finito di stampare nel mese di maggio 2007
Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A.
Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma