RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO ANNO LVIII – N. 4 OTTOBRE-DICEMBRE 2006 COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – Condirettore: Giacomo Arena. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello – Vittorio Cesaroni – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Carlo Sica – Mario Antonio Scino. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE NUMERO: Valerio Balsamo - Eva Calvi - Giuseppe Camardi - Angela Cossiri - Chiara Di Seri - Pasquale Fava - Wally Ferrante - Andrea Guazzarotti - Domenico Maimone - Iole Moricca - Carmela Pluchino - Daniele Rosato - Francesco Spada - Lavinia Tirelli - Francesco Vignoli. SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi Telefono 066829431 – E-mail: rassegna@avvocaturastato.it La Rassegna è consultabile sul sito: www.avvocaturastato.it ABBONAMENTI ANNO 2006 ITALIA ESTERO ABBONAMENTO ANNUO .............................................................................. € 41,00 € 77,00 UN NUMERO SEPARATO .................................................................................€ 12,00 € 21,00 Prezzi doppi, tripli, quadrupli ecc. per tutti quei fascicoli che, stampati in unico volume, sostituiscono altrettanti numeri della prevista periodicità annuale. Per abbonamenti e acquisti rivolgersi a: AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO Segreteria di Redazione Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Via Roberto Malatesta n. 296 - 00176 Roma I destinatari della rivista sono pregati di comunicare alla Segreteria della redazione eventuali variazioni di indirizzo INDICE – SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Wally Ferrante, Le misure cautelari nel processo amministrativo (intervento al Convegno su Misure cautelari e sentenze in forma semplificata, in occasione del conferimento del premio Sandulli all’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara, 1 dicembre 2006) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Andrea Guazzarotti, Angela Cossiri, L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente . . . . » 15 Daniele Rosato, Appalti in house: rassegna critica della giurisprudenza . . . . . » 33 1.- Le decisioni Lavinia Tirelli, L’abuso del diritto (Corte Giust. Ce, Grande sez., sent. 16-21 febbraio 2006 nella causa C-223/03) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 63 Chiara Di Seri, L’obbligo di annullamento di atti amministrativi “anticomunitari” (Corte Giust. Ce, Grande sez., sent. 19 settembre 2006, in cause C 392/04 e C 422/04) . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . » 97 2.- I giudizi in corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 113 IL CONTENZIOSO NAZIONALE Eva Calvi, Governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali come prerogativa statale: i confini della Regione (Corte Cost., sent. 20 aprile - 5 maggio 2006 n. 182) . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 169 Francesco Spada, La tutela risarcitoria nei confronti della attività provvedimentale della pubblica amministrazione: sviluppi in tema di giurisdizione e di pregiudizialità (Cass., Sez. un., ordd. 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 177 Valerio Balsamo, Rilevabilità del giudicato esterno ed autonomia dei periodi di imposta nel giudicato tributario (Cass., Sez. un., sent. 16 giugno 2006, n. 13916) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 185 Francesco Vignoli, Tesi a confronto sulla ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato (Trib. Torino, ord. 26 giugno 2006; Trib. Milano, sez. 10°, 3 marzo 2005) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 202 Carmela Pluchino, Modalità di svolgimento di una procedura di gara a trattativa privata, a seguito della formulazione da parte di una delle imprese invitate di un’offerta qualificabile come “nuova” e non già “migliorativa” (C.d.S., sez. 4°, sent. 2 ottobre 2006 n. 5745) . . . . . . . . . . . . » 213 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 233 DOTTRINA Maria Vittoria Lumetti, La responsabilità del medico dipendente e l’uso giurisprudenziale della teoria del contatto sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 261 Giuseppe Camardi, Responsabilità medica e consenso informato. Prospettive di risoluzione stragiudiziale delle controversie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 301 Pasquale Fava, Le situazioni giuridiche soggettive dello straniero secondo gli orientamenti della giurisprudenza: la disciplina dell’ingresso, permanenza ed uscita dall’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 313 Domenico Maimone, La tutela ante causam nell’ambito della giurisdizione esclusiva del G. A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 334 Iole Moricca, La natura della DIA e la tutela giurisdizionale dei terzi . . . . . . . . » 358 INDICI SISTEMATICI ANNUALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 379 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Le misure cautelari nel processo amministrativo(*) di Wally Ferrante 1. Evoluzione della tutela cautelare Com’è noto, la misura cautelare, quale strumento per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, ha conosciuto, nel processo amministrativo, un lungo percorso giurisprudenziale, che ha segnato il passaggio da una tutela imperniata esclusivamente sullo strumento della sospensione dell’atto amministrativo impugnato lesivo di interessi oppositivi ad una tutela molto più estesa, progressivamente assimilabile a quella apprestata dal giudizio processualcivilistico, che consente al giudice amministrativo di concedere misure cautelari propulsive che sollecitino la riedizione dell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione, in relazione ad interessi anche pretensivi, nonché di adottare misure positive direttamente sostitutive, sia pure in via provvisoria, dell’azione amministrativa, come nel caso dell’ammissione con riserva a pubblici concorsi o a procedure di gara. La misura cautelare diviene quindi non più soltanto strumento di conservazione provvisoria di una situazione che rischia di essere irreparabilmente pregiudicata quanto un mezzo a contenuto anticipatorio della stessa decisione di merito. 2. Dal processo sull’atto al processo sul rapporto Tale itinerario giurisprudenziale, che è andato di pari passo con la progressiva trasformazione del processo amministrativo dal modello strettamen- T E M I I S T I T U Z I O N A L I (*) Intervento dell’Avvocato dello Stato Wally Ferrante al convegno su “Misure cautelari e sentenze in forma semplificata” in occasione del conferimento del premio Sandulli all’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara, 1 dicembre 2006. te impugnatorio, correlato all’accertamento della legittimità o meno dell’atto amministrativo, al modello del vero e proprio giudizio sul rapporto, volto ad accertare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, è culminato con l’intervento del legislatore del 2000. La legge 205/2000 ha infatti recepito gli orientamenti giurisprudenziali che avevano teso all’ampliamento sia della sfera di applicabilità della tutela cautelare, sia del tipo di misure concedibili, provvedendo inoltre ad introdurre una dettagliata disciplina che arricchisce il testo dell’art. 21 della legge T.A.R. di nuovi incisivi strumenti, destinati rendere ancor più efficace e satisfattoria la tutela giurisdizionale. È stata così sancita la definitiva transizione dalla cautela tipica della sospensione dell’atto a quella atipica, rivolta espressamente anche ai comportamenti di inerzia dell’amministrazione ed idonea ad adattarsi alle molteplici esigenze del giudizio amministrativo, che ha visto progressivamente ampliare i casi di giurisdizione esclusiva che si caratterizza spesso per l’assenza di un atto da impugnare. È evidente infatti che una tutela cautelare ritagliata esclusivamente sul “congelamento” del provvedimento amministrativo mal si conciliava con un giudizio chiamato a fronteggiare l’estensione del raggio di intervento della pubblica amministrazione nei rapporti economici e sociali, sempre più marcatamente inserito nella erogazione di servizi, a fronte del quale il privato vanta interessi pretensivi non adeguatamente tutelabili con il rimedio tradizionale della sospensiva. 3. Dagli interessi oppositivi agli interessi pretesivi Peraltro, accanto agli interessi schiettamente oppositivi rispetto ad un atto dell’amministrazione che depaupera il patrimonio del privato, come un decreto di esproprio o una requisizione, si affiancano interessi oppositivi rispetto ad atti formalmente negativi, come il diniego di esonero dal servizio militare, che si traduce però in un provvedimento sostanzialmente positivo, la chiamata alle armi. In proposito, la tutela cautelare apprestata dai giudici di primo grado ha finito il più delle volte per paralizzare sine die la chiamata alle armi nonostante l’annullamento da parte del Consiglio di Stato dell’ordinanza di sospensione in quanto, trattandosi formalmente di un atto di diniego di esonero dal servizio di leva, non suscettibile di reviviscenza per effetto dell’annullamento del Consiglio di Stato, l’amministrazione era costretta ad inviare una nuova “cartolina”, che veniva nuovamente impugnata e sospesa dal T.A.R. e così potenzialmente all’infinito. La tutela cautelare degli interessi pretensivi, invece, ai quali consegue un ampliamento della sfera giuridica soggettiva del privato, si pensi al conferimento di incarichi direttivi ai magistrati o ai visti di ingresso di cittadini extracomunitari, si estrinseca nella tecnica del remand ovvero nell’intimazione all’amministrazione di riesaminare la situazione, nell’ambito del potere discrezionale che le compete, alla luce delle censure contenute nel ricorso e ritenute ad un primo esame fondate dal giudice amministrativo. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Va detto che, in tali materie, sia il C.S.M. che il Ministero degli Affari Esteri, nella stragrande maggioranza dei casi, tendono a confermare, anche in sede di riesame, il provvedimento impugnato magari sorreggendolo da una più ampia motivazione. In proposito, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 175/1991, ha chiarito che “il giudice non può determinare, rendendolo giuridicamente necessario, un risultato che secondo l’ordinamento potrebbe scaturire solo da una scelta amministrativa discrezionale”. 4. Interventi della Corte costituzionale Una fondamentale apertura nel senso dell’atipicità della cautela invocabile in materia di diritti soggettivi risale alla nota sentenza della Corte costituzionale n. 190/1985 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 21 legge T.A.R. nella parte in cui non consentiva al giudice amministrativo di adottare, nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, i provvedimenti d’urgenza più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito. La Consulta è nuovamente intervenuta, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 249/1996, pronunciata in relazione all’art. 31 bis della legge Merloni (legge 109/1994), per affermare come il momento cautelare rappresenti uno snodo fondamentale, precisando che “la disponibilità delle misure cautelari è strumentale all’effettività della tutela giurisdizionale e costituisce espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, in attuazione dell’art. 24 Cost.”. 5. Rapporto tra durata del processo e misura cautelare L’incremento esponenziale del contenzioso amministrativo, con le ovvie conseguenze sui tempi occorrenti per la definizione dei giudizi, rende infatti la tutela cautelare un momento cruciale per assicurare una giustizia non solo giusta ma anche rapida e quindi effettiva. Basti pensare che, sugli oltre 12.000 ricorsi presentati nel 2005 innanzi al T.A.R. del Lazio, più di 8.000, ossia circa due su tre, contenevano un’istanza cautelare. Dalle numerosissime istanze di dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse presentate al momento della fissazione dell’udienza di merito, a seguito del rigetto dell’istanza cautelare – o in talune ipotesi anche in caso di accoglimento, si pensi all’ammissione con riserva alle prove concorsuali alle quali non sia poi conseguito il superamento delle prove medesime – può dedursi che spessissimo il processo amministrativo si risolve nella tutela cautelare che, per la sua celerità, e oggi anche per la sua atipicità, rivolta anche agli atti di diniego ed ai comportamenti silenziosi, e supportata da un più ampio onere motivazionale, si presta ad assicurare al privato una risposta pronta, sebbene provvisoria, che può rendere superflua una tardiva decisione definitiva. Nella prassi, l’istanza cautelare viene anche utilizzata per finalità perlustrative, per sondare la difesa dell’amministrazione e per “barattare” la rinuncia all’istanza di sospensione con una fissazione del merito a breve. Va ricordato peraltro che, proprio con la legge 205/2000, viene stabilito TEMI ISTITUZIONALI 3 il principio della priorità della fissazione della data di trattazione del ricorso nel merito in caso di accoglimento dell’istanza cautelare, per non perpetuarne gli effetti, per loro natura interinali, e viene introdotto un rito speciale accelerato, per le materie particolarmente delicate rientranti nell’art. 23 bis della legge T.A.R., che, oltre a prevedere il dimezzamento di tutti i termini processuali, ad esclusione di quello per proporre ricorso, impone la fissazione dell’udienza di merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data dell’ordinanza cautelare. Il comma 5 dell’art. 23 bis prevede inoltre, “in caso di estrema gravità ed urgenza” l’adozione di “opportune misure cautelari”, evidentemente diverse ed ulteriori rispetto a quelle genericamente previste dal comma 3 della stessa norma, che enuncino “i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso”. 6. I due presupposti della misura cautelare In proposito, il riferimento al presupposto del fumus boni iuris oltre a quello del periculum in mora, sebbene pacificamente richiesto dalla giurisprudenza, non era espressamente contemplato nel previgente art. 21 legge T.A.R., che richiedeva esclusivamente la sussistenza di “danni gravi e irreparabili derivanti dall’esecuzione dell’atto”. Nel testo novellato dalla legge 205/2000, l’art. 21 richiede esplicitamente una motivazione non solo in ordine alla valutazione del “pregiudizio grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione durante il tempo necessario a giungere da una decisione sul ricorso” ma altresì in ordine ad un sommario giudizio prognostico sull’esito del ricorso. 7. Motivazione del provvedimento cautelare Va infatti rilevato che a seguito dell’entrata in vigore della legge 205/2000, i provvedimenti cautelari che, precedentemente, si limitavano ad uno stereotipato richiamo alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21 legge T.A.R., ai limiti della conformità con l’art. 111 Cost., sono ora di norma diffusamente motivati in ordine ad entrambi i presupposti del periculum in mora e del fumus boni iuris , in particolare quelli di primo grado. La propensione del Consiglio di Stato a motivare a volte ancora succintamente i provvedimenti cautelari può peraltro giustificarsi con l’intento di non condizionare in modo troppo pregnante il giudice di primo grado nella decisione di merito. La motivazione delle ordinanze cautelari restituisce peraltro all’appello la natura sua propria di gravame, atteso che in precedenza l’impugnazione si traduceva sostanzialmente in una riproposizione dei motivi di ricorso, non essendo possibile censurare il provvedimento giurisdizionale se non per omessa motivazione. 8. Altri tipi di misure cautelari Il novellato art. 21 legge T.A.R., abbandonando il tradizionale rimedio della mera sospensione dell’atto, prevede “l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono secondo le circo- 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO stanze più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”. Dal canto suo, l’art. 8 della legge 205/2000 introduce, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la possibilità di ottenere un decreto ingiuntivo a norma degli artt. 633 e ss. c.p.c. nonché un’ordinanza provvisoriamente esecutiva che disponga in via provvisionale la condanna al pagamento di somme di danaro, ricorrendo i presupposti di cui agli artt. 186 bis e ter c.p.c., conferendo così al giudice amministrativo ulteriori efficaci mezzi, tratteggiati sulla falsariga di quelli riconosciuti al giudice ordinario, per assicurare l’effettività della tutela. 9. Decreto cautelare monocratico Uno strumento particolarmente innovativo, introdotto dalla legge 205/2000, è il decreto presidenziale, pronunciato anche inaudita altera parte, prima della trattazione della domanda cautelare “in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”. Il decreto monocratico, concesso con molta parsimonia dal giudice amministrativo sia di primo che di secondo grado, stante l’assenza di contraddittorio, ha efficacia temporanea nel breve tratto di tempo intercorrente tra la sua emissione e la pronuncia del collegio, cui l’istanza cautelare è sottoposta nella prima camera di consiglio utile. 10. Ammissione con riserva al concorso notarile Per comprendere il grado di improcastinabilità del rimedio, richiesto dalla giurisprudenza, si possono citare i numerosi decreti cautelari emessi dal Presidente di sezione del Consiglio di Stato e successivamente confermati dal Collegio (ex multis, sez. IV, ord. n. 4830/03 dell’11 novembre 2003) il giorno prima dell’inizio delle prove scritte del concorso notarile in relazione all’ammissione con riserva, disposta dal T.A.R., di tutti coloro che avevano commesso un solo errore alla preselezione informatica. Va ricordato che la quasi totalità dei ricorrenti esclusi per aver commesso un errore nella prova preselettiva avevano proposto ricorso, così vanificando totalmente l’intento del legislatore di limitare l’accesso alla procedura concorsuale al fine di assicurarne un più celere ed efficiente svolgimento. L’effetto delle massicce ammissioni con riserva, con sostanziale disapplicazione della legge, è stato reputato dal Consiglio di Stato tale da legittimare l’adozione di provvedimenti monocratici inaudita altera parte a tutela non solo dell’interesse dell’amministrazione ad un regolare svolgimento della procedura concorsuale ma anche di tutti coloro che avevano legittimamente superato la prova preselettiva e che avevano visto ampliarsi, oltre i limiti consentiti dalla normativa vigente, il numero dei concorrenti a fronte di un ristretto numero di posti banditi. 11. Parità di accesso ai mezzi di informazione Un’altra ipotesi di improrogabilità della tutela cautelare nemmeno sino alla prima camera di consiglio utile è stata ravvisata dal T.A.R. del Lazio TEMI ISTITUZIONALI 5 (decreto cautelare n. 817/06) nell’ambito di un ricorso avverso un provvedimento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni che aveva intimato l’inserimento, nella programmazione di una trasmissione televisiva di approfondimento informativo, della presenza qualificata di un rappresentante di un partito politico, da effettuarsi prima della data di convocazione dei comizi elettorali per le elezioni politiche del corrente anno. In proposito, il T.A.R. ha accolto con decreto monocratico l’istanza cautelare il giorno stesso in cui doveva andare in onda la trasmissione televisiva oggetto del provvedimento dell’AGCOM, alla luce dell’esiguità del tempo per reimpostare la trasmissione già programmata. In proposito, va rilevato che la legge n. 28/2000 sulla parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali prevede, all’art. 10, dei termini particolarmente stringenti sia per il perseguimento da parte dell’Autorità delle violazioni alla predetta legge, sia per l’impugnazione dei provvedimenti dell’Autorità che ordinano l’immediata sospensione delle trasmissioni programmate in violazione della legge o il ripristino dell’equilibrio degli spazi televisivi riservati ai vari soggetti politici. In particolare, detti provvedimenti possono essere impugnati nel termine di trenta giorni e, in caso di richiesta cautelare, le parti possono depositare memorie entro cinque giorni dalla notifica e la domanda cautelare viene esaminata nella prima camera di consiglio utile dopo la scadenza del predetto termine e comunque non oltre il settimo giorno da questo. In relazione al contenzioso in materia di par condicio, si è verificato che, stante la possibilità di notificare il ricorso per posta, senza ricorrere all’ufficiale giudiziario, il ricorso medesimo viene di norma depositato il giorno stesso della spedizione ma è ricevuto dall’amministrazione il giorno prima o a volte il giorno stesso della camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, con evidente intollerabile compressione del diritto di difesa. In proposito, con l’ordinanza n. 168/06, emessa il 6 aprile 2006, tre giorni prima della data delle elezioni politiche, il T.A.R. del Lazio, pur respingendo l’istanza cautelare di un partito politico che lamentava di essere stato pretermesso nei programmi di informazione, sollecitando in proposito il potere di intervento dell’AGCOM, ha esaminato lo stesso l’istanza cautelare, nonostante il ricorrente non avesse depositato la prova della ricezione a mezzo posta del ricorso, in effetti non ancora ricevuto dall’AGCOM alla data fissata per la camera di consiglio, “ritenuto che appare opportuno, a garanzia dell’effettività della tutela generale sulla leale competizione politica, prescindere … dall’eccepita inammissibilità della domanda cautelare per incompletezza del contraddittorio”. In tal caso quindi l’effettività ed improcastinabilità della tutela sono stati giudicati preminenti rispetto allo stesso diritto di difesa dell’altra parte. 12. Tutela cautelare ante causam Stante l’arricchimento del sistema cautelare delineatosi per effetto della legge n. 205/2000, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 179/2002, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 legge 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO T.A.R., come novellato dalla legge 205/2000, nella parte in cui non prevede la tutela cautelare ante causam, atteso che “il completo sistema di tutela, anche di urgenza e cautelare, che riguarda tutte le posizioni azionabili davanti al giudice amministrativo, senza distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, esclude l’applicabilità di altri istituti propri del processo civile”, quale l’art. 700 c.p.c., ed è idoneo ad assicurare la tempestività e l’effettività della tutela anche cautelare. L’esigenza di una tutela cautelare ante causam è nata sulla scorta della giurisprudenza comunitaria che, prima con la sentenza 19 settembre 1996, C- 236/95 emessa nei confronti della Grecia, poi con la sentenza 15 maggio 2003, C-214/2000 emessa nei confronti della Spagna e infine con la sentenza 29 aprile 2004, C-202/03 emessa nei confronti dell’Italia, ha ribadito l’obbligo del legislatore nazionale di attuare le disposizioni previste dalla c.d. direttiva ricorsi n. 89/665, conferendo agli organi competenti “la facoltà di adottare, indipendentemente dalla previa proposizione di un ricorso di merito, qualsiasi provvedimento provvisorio, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica dell’appalto”. 13. Tutela cautelare e risarcimento per equivalente Sempre in materia di appalti pubblici, va ricordato l’art. 14 del D.Lgs. n. 190/2002 attuativo della c.d. legge obiettivo (legge n. 443/2001) che, con l’intento di imprimere una spinta acceleratoria alla realizzazione delle grandi opere, ha indotto il legislatore delegato a disporre che “la valutazione del provvedimento cautelare eventualmente richiesto deve tener conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera”. Il medesimo art. 14 prevede inoltre che “la sospensione o l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatori; in tale caso, il risarcimento degli interessi legittimi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica”. La disposizione, che muove da una estrema valorizzazione dell’interesse pubblico, che è considerato a priori prevalente rispetto a quello del privato, è destinata a sostituire la tutela cautelare con quella risarcitoria per equivalente in tutti i casi in cui vi sia già stata la stipulazione del contratto ed in tal senso è stata interpretata dal Consiglio di Stato che ha respinto l’istanza cautelare a contratto già concluso (sez. IV, n. 2807 del 2 luglio 2002 e n. 3244 del 30 luglio 2002). 14. Pregiudiziale costituzionale La centralità, già in sede cautelare, dell’indagine sul fumus, assume rilevanza anche in relazione alle questioni preliminari o pregiudiziali. Quanto ai rapporti tra tutela cautelare e pregiudiziale costituzionale, va ricordato che la giurisprudenza, sul solco già tracciato dalla nota pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 2 del 20 dicembre 1999 in tema di ammissione con riserva alle prove scritte del concorso per uditore giudiziario dei candi- TEMI ISTITUZIONALI 7 dati risultati non idonei alla prova preselettiva, ha ritenuto di poter concedere la tutela cautelare sulla base del mero sospetto di incostituzionalità della legge, previa formale rimessione della questione alla Corte costituzionale. Il T.A.R. Lazio, infatti, con numerose ordinanze (ex multis sez. I, ord. 3306 del 16 giugno 2004) ha ammesso con riserva alle prove scritte del concorso per uditore giudiziario i candidati in possesso del titolo di avvocato, ritenendo irragionevole il loro mancato esonero dalla prova preselettiva in relazione all’esonero invece previsto dalla legge per i candidati in possesso del diploma di specializzazione per professioni legali. Con separata ordinanza (ex multis, sez. I, ord. n. 9289 del 16 settembre 2004), il T.A.R. del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme che appunto non prevedevano l’esonero degli avvocati dalla prova preselettiva. Tutte le ordinanze cautelari sono state confermate dal Consiglio di Stato con altrettanti provvedimenti cautelari (ex multis, sez. IV, ord. 3486 del 29 luglio 2004) “ritenuto che al giudice adito in sede cautelare, non può precludersi, se non a costo di rendere non effettiva e frustranea la tutela giurisdizionale, in presenza di censure di illegittimità derivanti da norme sulle quali ricade un sospetto di costituzionalità la cui questione sia già devoluta alla Corte costituzionale (e la non manifesta infondatezza finisce per coincidere, in sede cautelare, con il prescritto requisito del fumus boni iuris) il potere di disapplicare, medio tempore, gli atti normativi in questione e di provvedere all’ammissione con riserva fino all’esito del giudizio di costituzionalità”. A fronte della situazione creatasi, nella scelta tra il proseguimento delle operazioni concorsuali con la partecipazione alle prove scritte, senza previo esperimento della prova preselettiva, dei soli candidati in possesso del titolo di avvocato che avevano ottenuto una favorevole ordinanza cautelare, con l’evidente disparità di trattamento nei confronti di coloro che egualmente erano avvocati ma che non avevano proposto ricorso e l’alternativa di bloccare il concorso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, l’amministrazione ha imboccato una terza via, promuovendo l’emanazione, da parte del governo, del decreto legge 7 settembre 2004, n. 234, convertito con modificazioni dalla legge 5 novembre 2004 n. 262, che ha ampliato le categorie degli aventi diritto all’esonero dalla prova preselettiva includendovi non solo gli avvocati ma anche altre categorie di soggetti (giudici onorari, dottori di ricerca e titolari di diplomi di specializzazione diversi da quelli rilasciati dalle Scuole di specializzazione per professioni legali). Tale vicenda rende conto ampiamente delle enormi potenzialità riconducibili alla tutela cautelare per la sua tempestività, celerità ed efficacia, rilevandosi che nella fattispecie la decisione di merito diviene ovviamente del tutto superflua, avendo il privato già conseguito tutte le utilità cui tendeva con l’accoglimento della misura cautelare, la cui portata propulsiva si è rivolta non solo nei confronti dell’amministrazione ma anche dello stesso legislatore. 15. Misura cautelare e regolamento di competenza Altra questione pregiudiziale che assume rilievo nell’ambito del giudizio cautelare è quella attinente all’incompetenza del T.A.R. adito e alla pos- 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sibilità di adottare misure cautelari nonostante la proposizione del regolamento di competenza. Com’è noto, l’art. 30 della legge T.A.R. prevede, con riferimento al regolamento di giurisdizione, che “la proposizione di tale istanza non preclude l’esame della domanda di sospensione del provvedimento impugnato”. In assenza di un’analoga norma per il regolamento di competenza, la giurisprudenza ha ritenuto di poter estendere lo stesso principio per evitare vuoti di tutela in attesa della decisione del Consiglio di Stato. Tale orientamento è stato fatto proprio anche dall’Adunanza plenaria con la decisione n. 2 del 20 gennaio 1997. In realtà la scissione tra tutela cautelare e tutela di merito sembra porsi in contrasto con il principio di cui all’art. 25 Cost. del giudice naturale precostituito per legge. Sulla scorta delle modifiche apportate dalla legge 205/2000 che, all’art. 9, ha introdotto la previa delibazione del T.A.R. circa la non manifesta infondatezza del regolamento di competenza proposto, vanno segnalati alcuni interventi legislativi e giurisprudenziali che hanno segnato una netta inversione di tendenza. Innanzitutto, va sottolineata la portata decisamente innovativa del D.L. 19 agosto 2003 n. 220 convertito in legge n. 280/2003 che, sull’onda del clamore della vicenda del Catania calcio, ha sancito, all’art. 3, comma 2 che “la competenza di primo grado spetta in via esclusiva, anche per l’emanazione di misure cautelari, al T.A.R. del Lazio con sede in Roma. Le questioni di competenza di cui al presente comma sono rilevabili d’ufficio”. La rilevabilità d’ufficio è senz’altro un’eccezione rispetto al principio generale di cui all’art. 31 legge T.A.R.; v’è da chiedersi se anche l’esclusività della competenza ad emettere misure cautelari da parte del giudice investito del merito possa considerarsi ugualmente eccezionale. La soluzione negativa sembra senz’altro preferibile. In proposito, l’inscindibilità tra la competenza del giudice della cautela e quella del giudice di merito è stata successivamente affermata, salvo “in casi eccezionalissimi” di assoluta improrogabilità della tutela richiesta, dalla Corte Costituzionale, con ordinanza 2 marzo 2005 n. 82, riguardante la vicenda del ponte sullo stretto di Messina. Dal canto suo, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, con l’ordinanza n. 661 del 28 luglio 2004, ampiamente motivata, ha annullato, ritenendo inammissibile la domanda cautelare, l’ordinanza di sospensione emessa da un T.A.R. incompetente dopo l’avvenuta proposizione del regolamento di competenza che non era stato preventivamente delibato dallo stesso T.A.R.. Il C.G.A.R.S. ha ribadito l’esigenza che la delibazione sommaria del regolamento di competenza già proposto preceda quella dell’istanza cautelare, con la conseguente preclusione dell’adozione di una misura cautelare quando il regolamento di competenza si appalesi manifestamente fondato. Viene raggiunto così il giusto punto di equilibrio tra i due principi, entrambi costituzionalmente rilevanti, del giudice naturale precostituito per legge e dell’effettività della tutela giurisdizionale. TEMI ISTITUZIONALI 9 16. Effetti dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare Il fenomeno del c.d. forum shopping va inoltre arginato anche in relazione alla tendenza di alcuni T.A.R. ad affermare, talvolta addirittura con decreto cautelare inaudita altera parte ex art. 9 legge 205/2000, la cessazione della materia del contendere a seguito dell’esecuzione della misura cautelare con effetti provvisoriamente satisfattivi per il ricorrente. In proposito, non può essere invocata la tendenza del legislatore ad introdurre, con alcuni recenti interventi, una sorta di stabilizzazione degli effetti della misura cautelare. Si pensi agli artt. 23 e 24 del D.Lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003 di riforma del rito societario che stabiliscono che i provvedimenti cautelari ante causam non perdono efficacia se la causa di merito non viene iniziata o se si estingue il giudizio di merito. Si pensi inoltre all’art. 669 octies c.p.c., come modificato con il D.L. 30 dicembre 2005 n. 273 conv. in legge 23 febbraio 2006 n. 51 che, per le misure cautelari diverse dai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. e diverse dagli altri provvedimenti idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, sancisce che l’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia dei provvedimenti cautelari, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa. Innanzitutto la predetta norma non si applica espressamente ai provvedimenti idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito quali sono tipicamente le ordinanze cautelari propulsive del giudice amministrativo; in secondo luogo, la richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 2002 ha precisato che il legislatore non è tenuto a prevedere per il giudizio cautelare innanzi al giudice amministrativo regole uniformi rispetto al processo civile; in terzo luogo, dette norme non disciplinano gli effetti dell’esecuzione dei provvedimenti cautelari. 17. L’Adunanza Plenaria n. 3 del 2003 La giurisprudenza di alcuni T.A.R., sempre contrastata dal giudice di appello, secondo la quale l’esecuzione doverosa di un provvedimento cautelare immediatamente esecutivo può comportare, in caso di riesame favorevole, la cessazione della materia del contendere, prende le mosse dalla nota decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 27 febbraio 2003 che ha dichiarato l’improcedibilità dell’appello dell’amministrazione in materia di mancata ammissione alle prove orali dell’esame di avvocato, a seguito della positiva ricorrezione delle prove scritte. Va precisato però che, in quel caso, l’amministrazione anziché limitarsi ad eseguire pedissequamente il provvedimento cautelare, che imponeva solo una motivazione analitica del giudizio negativo espresso con voto numerico, aveva proceduto ad una rinnovazione della valutazione andando oltre il decisum e compiendo quindi un atto del tutto nuovo ed autonomo, svincolato dalla mera esecuzione del provvedimento cautelare. Al di là di tale caso isolato, di solito, i T.A.R., in relazione alle procedure concorsuali ed abilitative, emettono provvedimenti tipicamente propulsi- 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO vi, che impongono la rivalutazione degli elaborati, dettando all’amministrazione, tenuta a darvi esecuzione, specifiche disposizioni circa le modalità, le forme e i tempi del riesame. In tali casi il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’attività espletata dall’amministrazione non può ritenersi espressione di autonoma scelta discrezionale, in quanto imposta dall’imprescindibile esigenza di eseguire l’ordinanza cautelare, procedendo nelle forme da questa puntualmente dettate. Ha altresì precisato che la mera esecuzione puntuale di un’ordinanza cautelare di tipo propulsivo (peraltro impugnata in appello) non costituisce attività di autotutela e non può comportare il venir meno della res litigiosa in quanto le utilità cui il ricorrente aspira saranno invece ritraibili solo quando una sentenza di merito favorevole passata in giudicato avrà annullato il provvedimento impugnato di non ammissione alle prove orali (Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2003 n. 7634; id., 21 novembre 2003 n. 7630). La nuova valutazione, effettuata in esecuzione dell’ordinanza cautelare, non ha quindi alcuna attitudine a sostituirsi in toto e definitivamente al giudizio negativo in sede di valutazione delle prove scritte ma è destinata a regolare l’assetto dei rapporti tra le parti unicamente nelle more dell’esito del giudizio di merito. L’utilità della misura cautelare è infatti quella di ammettere con riserva la parte ricorrente a sostenere le prove orali in condizioni di par condicio con gli altri candidati, sempre a condizione che il giudizio di merito si concluda favorevolmente alla stessa. Peraltro, che lo stesso esito della nuova valutazione abbia carattere provvisorio, conformemente alla natura interinale propria del giudizio cautelare, non può essere posto in dubbio, tanto è vero che, qualsiasi giudizio emesso in esecuzione dell’ordinanza di sospensione, sia esso positivo o nuovamente negativo, non può in alcun modo impedire al giudice del merito di travolgerlo con una sentenza di segno opposto, laddove ritenga insussistenti (o sussistenti) – da un più approfondito esame - i vizi del provvedimento impugnato riscontrati nella delibazione sommaria della fase cautelare. Con la pronuncia di merito, infatti, cessa ogni efficacia dell’ordinanza cautelare, come di ogni eventuale atto adottato in esecuzione della stessa. L’istanza di sospensione, infatti, è strumentale rispetto alla statuizione del giudice di merito ed è destinata ad essere assorbita da quest’ultima, senza che i contenuti della sentenza che definisce il giudizio possano in alcun modo essere condizionati dai provvedimenti adottati medio tempore dall’amministrazione in esecuzione della misura cautelare. Difficilmente può quindi concordarsi con l’orientamento di alcuni T.A.R. che ritengono che la nuova valutazione delle prove scritte sia idonea a comportare la cessazione della materia del contendere, in quanto destinata a sovrapporsi e ad elidere quella originaria atteso che, in tal modo, la doverosa ottemperanza alla misura cautelare, volta ad assicurare l’utilità degli effetti dell’emananda sentenza di merito, diverrebbe paradossalmente ostativa alla pronuncia di quest’ultima mentre il consolidamento degli effetti della misura cautelare, per sua natura interinale e provvisoria, non può che deriva- TEMI ISTITUZIONALI 11 re dalla conferma e dall’assorbimento della stessa nella pronuncia con cui viene definito il giudizio. L’infondatezza di tale assunto è evidente atteso che, altrimenti, l’esecuzione di un’ordinanza immediatamente esecutiva - che, si ribadisce, costituisce un comportamento doveroso per l’amministrazione - la renderebbe per ciò solo inoppugnabile, in spregio al principio del doppio grado di giurisdizione. L’esercizio del potere di impugnazione rimarrebbe infatti totalmente frustrato laddove si ritenesse che l’eventuale riforma del provvedimento impugnato non consenta di eliminare anche tutti gli effetti sfavorevoli derivanti dallo stesso ed in primo luogo quelli connessi alla sua esecuzione. Tale principio è chiaramente affermato dall’art. 336, comma 2 c.p.c. che disciplina il c.d. effetto espansivo esterno della riforma o della cassazione della sentenza sui provvedimenti e gli atti dipendenti dalla stessa. Nell’ambito di operatività della predetta norma, la giurisprudenza ha ricompreso non solo la sentenza definitiva rispetto alla sentenza non definitiva riformata o cassata e i provvedimenti di natura istruttoria o decisoria adottati in altro procedimento ma anche gli atti di esecuzione forzata o spontanea compiuti in forza di sentenza esecutiva in seguito riformata (Cass. SS.UU. 1669/82; Cass. SS.UU. 2872, 2873, 2874 del 10 maggio 1982; Cass. SS.UU. 139 e 144 dell’8 gennaio 1983 e Cass. 4328/83). La Suprema Corte ha inoltre più volte ribadito come l’esecuzione spontanea, da parte del soccombente, della sentenza esecutiva, ancorché senza riserve, non implichi acquiescenza (Cass. 66368/86; Cass. 2823/92), trattandosi di comportamento necessitato, imposto dal comando contenuto nel provvedimento giurisdizionale e suscettibile di esecuzione coattiva. Del resto sarebbe contrario ad ogni logica ritenere che l’attività posta in essere in esecuzione di un provvedimento giurisdizionale esecutivo, in pendenza dell’appello, possa sopravvivere all’eventuale annullamento della pronuncia di cui costituisce mera attuazione, salvo a voler privare l’istituto dell’impugnazione della finalità che gli è propria e cioè quella di rimuovere il provvedimento sfavorevole ed ogni suo effetto. 18. Art 4 comma 2 bis legge 168/2005 Un cenno va fatto all’art. 4, comma 2 bis, D.L. 30 giugno 2005 n. 115 convertito nella legge 17 agosto 2005 n. 168, recante “elezioni degli organi degli ordini professionali e disposizioni in materia di abilitazioni professionali”, in base al quale “conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”. Alla luce di tale norma, l’amministrazione si è trovata costretta ad impugnare in tempi ristrettissimi tutte le ordinanze cautelari emesse in materia di esame per l’abilitazione alla professione forense con richiesta di misura cautelare inaudita altera parte onde evitare il prodursi di effetti potenzialmente 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO irreversibili che ponessero nel nulla l’appello, pur proposto nei termini, ma non in tempo utile perché potesse essere esaminato prima dell’esecuzione delle ordinanze impugnate. Il Consiglio di Stato ha emesso numerosi decreti cautelari provvisori ex art. 3 legge 205/2000 per tentare di arginare il fenomeno scatenato dalla predetta norma che, come prevedibile, ha fatto crescere a dismisura il contenzioso, atteso che la possibilità di poter beneficiare velocemente di una “seconda chance” di valutazione si è accompagnata alla speranza di “saltare” sia il processo di merito, sia, soprattutto, il giudizio di impugnazione che era precedentemente il principale ostacolo per il ricorrente, stante il consolidato orientamento del Consiglio di Stato contrario alle aperture di alcuni T.A.R. in tema di insufficienza del voto numerico, di sindacabilità del giudizio tecnico discrezionale della commissione esaminatrice, di infungibilità dei membri della commissione, di incongruità dei tempi di correzione ed in relazione ad altre censure ricorrenti e costantemente disattese dal Giudice di secondo grado. In proposito, va sottolineato che la disposizione più volte richiamata finisce per privilegiare chi è riuscito ad ottenere più velocemente l’esecuzione dei provvedimenti cautelari, per ragioni del tutto contingenti e fattuali, pur in presenza delle medesime censure. Ne deriva infatti la palese disparità di trattamento in situazioni del tutto identiche ed il totale svilimento del corretto ed equanime procedimento di accesso alla professione forense, con evidente danno, in definitiva, non solo all’interesse pubblico ma alla stessa categoria degli avvocati. La norma in questione si traduce inoltre in un’inammissibile compromissione del diritto di difesa dell’amministrazione (art. 24 Cost.) che si ritrova privata del giudizio di merito e del giudizio di impugnazione nonchè del principio di eguaglianza (art. 3), trovando applicazione, per una certa categoria di controversie e senza alcuna giustificazione, un rito diverso da quello applicabile nella generalità dei casi, che potrebbe esaurirsi – in alcune ipotesi ed in altre no, solo per ragioni temporali, come tali del tutto contingenti - nella fase cautelare e per giunta in unico grado. Che il fatto storico dell’avvenuto superamento delle prove scritte ed orali possa impedire la proposizione del gravame o vanificarne gli effetti se già proposto e non ancora deciso, viola chiaramente sia l’art. 103 Cost. che prevede la giuridizione del Consiglio di Stato, la cui funzione viene svuotata di ogni pratica utilità, sia l’art. 113 Cost., in base al quale la “tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”, sia l’art. 25 Cost. che prevede il giudice naturale precostituito per legge, atteso che il ricorso innanzi ad un T.A.R. incompetente e scelto per la sua giurisprudenza favorevole - sebbene contrastante con quella del giudice d’appello - rende inoperante ogni rimedio, ivi compreso il regolamento di competenza. Senza considerare la lesione che deriva ai principi di cui all’art. 97 Cost che regola, oltre all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione, anche l’accesso ai pubblici impieghi mediante pubblico concorso fondato sull’anonimato. TEMI ISTITUZIONALI 13 Con la sentenza n. 1791 del 6 aprile 2006, il Consiglio di Stato, nel ricordare i principi consolidati della strumentalità e provvisorietà della misura cautelare, la cui doverosa esecuzione non comporta acquiescenza, ha dovuto ammettere, dichiarando l’improcedibilità dell’appello dell’amministrazione, che gli stessi “sono completamente ribaltati per volontà e per effetto dell’art. 4 comma 3 della legge 168/2005” e che “l’art. 4 comma 2 bis legge 168/05 sovverte, per legge, inoltre, il su ricordato principio della continenza del rimedio cautelare, che non può, di regola, comportare effetti ulteriori (che eventualmente sono determinati solo dalla successiva fase di esecuzione) rispetto a quelli determinati dall’esito positivo del giudizio di merito …”. I dubbi di costituzionalità della norma sono stati confermati dall’ordinanza n. 479/06 del 28 luglio 2006 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2 bis della legge n. 168/05 per violazione degli artt. 3, 24, 25, 101, comma 2, 104 comma 1, 111 comma 2 e 113 Cost. Va ricordato inoltre che con le sentenze n. 4582, 4583, 4584 e 4585 del 18 luglio 2006, n. 5743, 5744 del 2 ottobre 2006 e n. 6170 del 16 ottobre 2006, il Consiglio di Stato ha poi cercato di arginare gli effetti della suddetta norma, escludendone l’applicazione ai concorsi ed alle procedure selettive a numero chiuso. Il Consiglio di Stato ha affermato che sia sul piano letterale, sia su quello sistematico “risulta evidente la necessità di applicare la normativa in rassegna in modo costituzionalmente orientato e quindi rifiutandone interpretazioni estensive che ne minerebbero irrimediabilmente la ragionevolezza. In questa ottica è infatti da rilevare che tra le procedure di stampo idoneativo e quelle concorsuali o selettive propriamente dette sussiste una radicale ed ontologica differenziazione”. Nelle citate decisioni, il Consiglio di Stato ha inoltre precisato che “l’applicazione del comma 2 bis anche ai concorsi (come quello notarile) per il conferimento di posti a numero limitato è impraticabile perché lede – oltre alle garanzie di difesa dell’Amministrazione – la posizione degli altri concorrenti, i quali hanno diritto ad ottenere dal giudice una pronuncia di merito che accerti definitivamente se l’ammissione (o la rinnovata valutazione delle prove) del loro antagonista fosse o meno legittima”. È stato inoltre confermato il definitivo abbandono dell’orientamento fondato sul c.d. principio dell’assorbimento, risalente all’isolata pronuncia dello stesso Consiglio di Stato n. 2191/2001, già superata dalla decisione della medesima sezione n. 2794/2004, chiarendo che “il superamento della preselezione costituisce un vero e proprio titolo di ammissione alle prove scritte, in un contesto in cui la procedura si articola dunque in tre scansioni che vanno tutte autonomamente superate”. In attesa di una presa di posizione della Consulta, appare quindi quanto mai opportuna un’interpretazione restrittiva della norma in questione. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente di Andrea Guazzarotti (*) e Angela Cossiri (**) 1. La condanna della Corte europea può travolgere il giudicato interno? La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), analizzata in passato prevalentemente sotto il profilo del suo rango nel sistema italiano delle fonti (1), è oggi sempre più al centro d’interesse per il diverso profilo della forza vincolante delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo negli ordinamenti nazionali (2). Alcuni recenti casi hanno interessato anche il nostro ordinamento e i nostri giudici, ormai giunti a prese di posizione particolarmente avanzate. La più importante e recente di queste vicende giurisprudenziali sembra quella culminata nella sentenza della Cassazione nel caso Somogyi (3), in tema di giudizio contumaciale, dove il giudice di legittimità ha formu- I L C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E (*) Professore Associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara, autore dei paragrafi 1,3, 5. (**) Avvocato del Foro di Terni e Dottore di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Ferrara, autrice dei paragrafi 2,4 e 6. (1) Cfr. la panoramica offerta da G. SORRENTI, Le Carte internazionali sui diritti umani: un’ipotesi di “copertura” costituzionale “a più facce”, in Pol. dir. 1997, 363 ss. (2) Cfr. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano 2004, passim; B. RANDAZZO, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, in FALZEA, SPADARO, VENTURA, La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Torino 2003, 217 ss.; G. GRECO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto amministrativo italiano, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2000, 37 ss. (3) Cass., Sez. I pen., sent. 12 luglio 2006, n. 32678 (dep. 3 ottobre 2006), reperibile al sito internet www.eius.it . lato il seguente principio di diritto: «nel pronunciare su una richiesta di restituzione nel termine per appellare proposta da un condannato dopo che il suo ricorso è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il giudice è tenuto a conformarsi alla decisione di detta Corte, con cui è stato riconosciuto che il processo celebrato “in absentia” è stato non equo: di talché il diritto al nuovo processo non può essere negato escludendo la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea, (…) né invocando l’autorità del pregresso giudicato formatosi in ordine alla ritualità del giudizio contumaciale in base alla normativa del codice di procedura penale». Si tratta, come si vede, di un principio che instaura un collegamento diretto tra il giudizio di Strasburgo e quello dinanzi al giudice italiano, quasi a configurare un vero e proprio quarto grado di giudizio (4). La decisione non giunge isolata, ed è frutto di un’evoluzione che negli ultimi anni ha portato sempre più spesso il giudice nazionale a confrontarsi con pronunce della Corte europea, non solo sull’interpretazione da dare a un certo diritto (equo processo, diritto di proprietà, ecc.), bensì anche sulla valutazione da dare agli stessi fatti (5). 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (4) Nonostante il fallimento delle proposte legislative finora avanzate in Italia per introdurre proprio la possibilità di riaprire il processo, a seguito di condanna della Corte europea che abbia, appunto, giudicato quel processo non equo, ex art. 6 CEDU. Cfr., da ultimo, il d.d.l. n. 3354, Atto Senato, che, contestualmente alla ratifica del 14° Protocollo aggiuntivo alla CEDU (proprio in tema di efficacia delle sentenze della Corte europea, non ancora in vigore), prevedeva l’introduzione di nuove ipotesi di revisione e revocazione a seguito di sentenza di Strasburgo, e tuttavia la legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo (l. 15 dicembre 2005, n. 280) non contiene alcuna norma di modifica dei codici di procedura, limitandosi al solo ordine di esecuzione (cfr. B. NASCIMBENE, Violazione «strutturale», violazione «grave» ed esigenze interpretative della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz. priv. proc. 2006/3, p. 655; P. TANZARELLA, Nuovi compiti al Presidente del Consiglio per l’esecuzione delle sentenze di Strasburgo, in Quad. cost., 2/2006, 372). (5) Cfr., senza pretese di completezza, Cass., Sez. I civ., ord. 23 marzo 2005, n. 6324/2005, Gizzi c. Comune di Ceprano (in www.dirittiuomo.it), in materia di espropriazione, che, preso atto della pendenza sullo stesso oggetto della causa di un processo dinanzi a Strasburgo, ha deciso il rinvio della trattazione al fine di «attendere la decisione della Grande Chambre onde evitare possibili contrasti di giudicato»; cfr. anche la sentenza con cui la Cassazione (sez. I pen., sent. 22 settembre-3 ottobre 2005, n. 35616, in Guida al dir. 2005, n. 43, 84) ha invitato il giudice dell’esecuzione penale a valutare se la CEDU «precluda l’esecuzione nell’ordinamento italiano di una sentenza di condanna emessa a conclusione di un processo giudicato “non equo” dalla Corte (europea…), ovvero se, in assenza di un apposito rimedio previsto dall’ordinamento interno, debba comunque prevalere il giudicato (italiano)»; cfr. anche l’ordinanza adottata il 18 settembre 2000 dal Tribunale per i minorenni di Firenze, in “ottemperanza” alla sent. Scozzari e Giunta c. Italia, del 13 luglio 2000 (cfr. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 112 ss.). Di particolare rilievo anche l’ordinanza della Corte d’Appello di Bologna, 22 marzo 2006, n. 337, in G.U., 1^ Serie speciale, n. 39, 27 settembre 2006, con cui viene sollevata la questione di legittimità costituzionale sull’art. 630, lett. a), c.p.p., nella parte in cui esclude, dai casi di revisione del processo, l’impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del procesNella Cassazione Somogyi, cit., si è affermato un principio – apparentemente “dirompente” – di piena vincolatività per il giudice italiano delle sentenze di condanna pronunciate a Strasburgo sugli stessi fatti oggetto di causa. È interessante notare come la Cassazione incentri il suo discorso sull’art. 46 CEDU (“Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”) (6), aderendo espressamente alla dottrina che lo intende diretto non solo allo Stato-persona, bensì anche ai suoi organi, giudici compresi (7). Per giungere a simile risultato, la Cassazione si appoggia, da un lato, sulle spalle del legislatore interno (8), da un altro, sulla precedente “dottrina” delle Sezioni Unite civili, circa la vincolatività della giurisprudenza di Strasburgo ai fini dell’applicazione della legge “Pinto” (9). Secondo quest’ultimo – ben consolidato – orientamento, l’applicazione della disciplina interna volta ad assicurare un “equo indennizzo” ai soggetti vittime dell’irragionevole durata di un processo non può che conformarsi alle nozioni di “irragionevole durata”, “vittima”, “equo indennizzo” fornite dalla giurisprudenza di Strasburgo (10). E ciò, non tanto in virtù della forza di giudicato di queste ultime, ai sensi dell’art. 46 CEDU, bensì in virtù della stessa ratio della legge Pinto (esigenze deflattive del contenzioso IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17 so, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, per contrasto con gli artt. 3, 10 e 27 Cost. Va sottolineato come, prima di sollevare la questio legitimiatis, il giudice ha sospeso, con separata ordinanza, l’esecuzione della pena ex art. 635 c.p.p. (potestà che la Corte d’appello può esercitare solo a seguito di apertura di un giudizio di revisione), proprio «in ossequio… alla forza vincolante delle sentenze della Corte europea», ex art. 46 CEDU, oltre che in considerazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. (6) «Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione». (7) Cfr. P. PIRRONE, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 127, e dottrina ivi citata. Per la letteratura europea, tra gli altri, C. GRABENWARTER, Europäische Menschenrechtskonvention, München 2005, 95; E. LAMBERT, La pratique rècente de rèparation des violations de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentale, in Rev. trim. dr. h., 2000, 207. (8) Deducendo dalla ratifica del Protocollo n. 14 addizionale alla CEDU, avvenuta con legge n. 280 del 2005, cit., la «precisa volontà del legislatore (italiano) di accettare incondizionatamente la forza vincolante delle sentenze della Corte di Strasburgo» (§ 10). Si tratta di un’argomentazione discutibile, poiché il Protocollo (modificante, tra l’altro, l’art. 46 CEDU, sulla forza vincolante delle condanne di Strasburgo), oltre a non essere ancora in vigore, si limita a prevedere (all’art. 16) un ricorso alla Corte europea sollevato dal Comitato dei ministri nel caso in cui lo Stato membro «rifiuti di conformarsi» a una condanna di questa, ammettendo dunque la possibilità di “non diretta applicabilità” interna delle sentenze di Strasburgo. (9) Legge 24 marzo 2001, n. 89, “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”. (10) Cass., S.U. civ., sentt. 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339, 1340, 1341, in Giust. civ., 2004, 907 ss., e in Giur. it., 944 ss, cui adde la sent. n. 28507 del 23 dicembre 2005, in www.dirittiuomo.it. Sulla vicenda, cfr. R. RAIA, L’equa riparazione per la durata irragionevole dei processi nel dialogo tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo, in www.forumcostituzionale. it . italiano a Strasburgo sull’irragionevole durata dei processi) (11), tale da rendere irrazionale un’autonoma (e più restrittiva) interpretazione del giudice nazionale sui requisiti per accedere al rimedio offerto dall’art. 6.1 CEDU. Si tratta, evidentemente, di un contesto ben diverso e circoscritto rispetto alle generalizzazioni della Cassazione Somogyi. E, tuttavia, un simile schema si sarebbe potuto, forse, applicare anche al caso del giudizio contumaciale, posto che la disciplina processualpenalistica introdotta con il nuovo art. 175 c.p.p. (12) si fonda espressamente sull’esigenza di rimediare alle condanne subite dall’Italia a Strasburgo per la contrarietà tra la previgente disciplina contumaciale con l’art. 6 CEDU (13). Di nient’altro si tratterebbe, dunque, che di interpretazione conforme della legge interna rispetto alla disposizione internazionale, secondo la migliore dottrina internazionalistica (14). 2. Travolgimento del giudicato o mera interpretazione conforme alla CEDU della disciplina processualpenalistica? Come già rilevato, la sentenza della Cassazione Somogyi stabilisce due principi: l’obbligo per il giudice di conformare la propria decisione all’accertamento fatto a Strasburgo rispetto alla compatibilità con l’art. 6 CEDU dello svolgimento del processo; l’impossibilità per il giudice di sottrarsi al vincolo della sentenza europea, invocando l’autorità del giudicato che consegue all’applicazione del rito processuale italiano. Per quanto riguarda questo secondo profilo, la novità potrebbe essere più apparente che reale, ove si tenga in considerazione l’entrata in vigore della modifica di cui all’art. 175 c.p.p., applicabile al caso di specie in virtù del principio tempus regit actum (15). Tra l’altro, l’assenza di una norma italiana che contrasti la restitutio in 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (11) Come noto, era stata la stessa Corte europea a “suggerire” all’Italia simile rimedio (Brusco c. Italia, 6 settembre 2001): cfr., tra gli altri, F. RIGANO, La Corte di Strasburgo s’arrende e il legislatore italiano trasforma in moneta il diritto alla ragionevole durata del processo, in FALZEA, SPADARO, VENTURA, La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Torino 2003, 499. (12) Legge 22 aprile 2005, n. 60 di conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17. (13) Come la stessa Cassazione Somogyi, cit., riconosce al punto 13: «Che il nuovo art. 175 c.p.p. costituisca, nel caso di specie, strumento idoneo per consentire quella restitutio in integrum invocata dalla Corte di Strasburgo non può essere seriamente revocato in dubbio, sol che ci si soffermi sul tenore della Relazione che accompagna il disegno di legge per la conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17. Nel documento, non a caso richiamato dal ricorrente, si afferma la necessità della modifica normativa al fine di adeguare il nostro ordinamento alla giurisprudenza della Corte europea, citando espressamente, tra l’altro, proprio il caso “Somogyi contro l’Italia” concluso con la sentenza 18 maggio 2004». (14) B. CONFORTI, Diritto internazionale, VI ed., Napoli 2002, 320 ss. (15) La sentenza Somogyi, cit., dà conto della tempestività della richiesta di restituzione nel termine, che ai sensi del comma 2-bis dell’art. 175 c.p.p. deve avvenire entro 30 giorni dall’effettiva conoscenza del provvedimento. Più precisamente, secondo la Cassazione, la difesa Somogyi ha rispettato il termine di decadenza poiché l’“istanza di revisione processuale”, presentata dal ricorrente pochi giorni prima dell’entrata in vigore del d.l. 21 febbraio 2005 n. 17, integrum può essere la ragione per cui la sentenza non affronta i temi generali del rango della Convenzione e delle sue applicazioni giurisprudenziali, nonché del meccanismo teorico che giustifica la loro prevalenza. In conseguenza della novella legislativa, nel caso di specie, l’imputato ha il diritto di ottenere la rimessione nei termini per l’impugnazione, posto che l’accertamento fatto a Strasburgo è vincolante per il giudice italiano. In effetti, la modifica legislativa prevista dalla legge n. 60 del 2005 ha prodotto un allargamento delle ipotesi in cui è ammessa l’impugnazione tardiva delle sentenze contumaciali, sostituendo alla prova della non conoscenza del procedimento una presunzione di non conoscenza (16); con il nuovo art. 175, comma 2, c.p.p., quindi, è lo stesso ordinamento italiano a prevedere una causa di arretramento del “giudicato” non correttamente formatosi, quando la sentenza di condanna sia contumaciale, salvo che l’imputato abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento; e la sentenza della Corte europea ha accertato, nel caso Somogyi, che questa effettiva conoscenza non vi è stata. Da questa interpretazione sembra derivare, come regola generale, che, in tutti i casi in cui non vi sia stata conoscenza dell’avvio del procedimento penale, il mezzo di impugnazione “restituito” ex art. 175, c. 2, c.p.p., dovrebbe essere ordinario e precisamente dovrebbe trattarsi dell’appello; in questo modo, la disposizione potrebbe coprire anche i casi di passaggio in giudicato della sentenza per esaurimento dei mezzi di impugnazione ordinari. In queste situazioni, infatti, è in primo grado che è mancata la conoscenza del procedimento e tutto il successivo iter processuale non si è correttamente formato. Così inteso, l’art. 175, comma 2, potrebbe coprire anche la carenza, nella disciplina processuale italiana, di un motivo di revisione ad hoc per il caso della sentenza contumaciale, quando vi sia un contrasto tra il giudicato nazionale e quello europeo (17). 3. I vincoli derivanti dalle pronunce di Strasburgo e la loro base normativa Nonostante simile possibilità di interpretazione conforme della nuova legge italiana, le peculiarità del caso assieme all’evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo in tema di effetti delle proprie condanne (artt. 41 e 46 CEDU) hanno spinto la Cassazione così in avanti, fino a ritenere il giudizio di Strasburgo come un vero e proprio ulteriore grado di giudizio rispetto a IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19 deve essere riqualificata come “istanza di rimessione in termini” alla luce dello ius superveniens; tale possibilità deriva dall’applicazione dei principi di successione delle leggi nel tempo, di conservazione degli atti processuali e del favor rei (cfr. punto 12 delle osservazioni). (16) Cass. pen., Sez. I, 10 maggio 2006, n. 16002. (17) Peraltro, una diversa interpretazione, che limitasse l’applicazione dell’art. 175, co. 2, c.p.p., ai soli casi in cui non sono stati esauriti i mezzi di impugnazione ordinari, potrebbe rappresentare un’ingiustificata discriminazione rispetto a situazioni in cui la sentenza si divenuta definitiva in primo o secondo grado. quelli interni, dotato della forza di vincolare il giudice nazionale successivamente investito della stessa questione (18). La vicenda in commento appare l’ultima di una serie di casi con cui vengono ribaltate due vulgate sul meccanismo di protezione offerto dalla CEDU. Da un lato, quella per cui la Corte europea non giudica la normativa nazionale, sotto il profilo della compatibilità o meno con la Convenzione, bensì giudica solo sul caso del ricorrente, con effetti inter partes (19). In realtà, per restare al solo caso della contumacia, la Corte di Strasburgo inequivocabilmente ha censurato la disciplina italiana sulla materia, tanto da farla modificare a più riprese (20). Da un altro lato, la vulgata per cui il giudice nazionale non ha alcun legame processuale diretto con i giudici della Convenzione (inesistenza del rinvio pregiudiziale, come previsto dall’art. 234 TCE per la Corte di Giustizia), potendo al massimo utilizzare quella giurisprudenza a fini interpretativi della Convenzione, quale disciplina astratta vigente nel proprio ordinamento (21). Lo stesso meccanismo internazionalistico dell’esaurimento dei 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (18) La Cassazione Somogyi, cit., appare intendere in modo ampio – non limitato al giudizio contumaciale – la vincolatività delle condanne di Strasburgo: ad esse il giudice italiano dovrebbe conformarsi «anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato » (§ 11). (19) Cfr., ad es., Cass., S.U., sent. 31 gennaio 1987, in Giust. pen. 1987, III, 200. (20) Sent. 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia, §§40 s., §55 (di poco successiva alla decisione Somogyi c. Italia, del 18 maggio 2004, cit.) secondo cui i rimedi adottati dal legislatore italiano (legge 23 gennaio 1989, n. 22) a seguito della condanna della stessa Corte europea nel caso Colozza del 12 febbraio 1985 in tema di giudizio contumaciale (nuovo art. 175 c.p.p.) non hanno permesso di raggiungere il risultato richiesto dall’art. 6 CEDU, rilevando, ai sensi dell’art. 46 CEDU, una situazione di natura strutturale che impone l’adozione di misure generali in attuazione della sentenza stessa. A ciò ha fatto seguito l’adozione del D.L. n. 17/2005, convertito in legge n. 60/2005. Su questa modifica, la Corte europea (Grande Camera) ha avuto modo di pronunciarsi (sent. 1 marzo 2006, Sejdovic c. Italia), ma in modo interlocutorio (posto che la nuova disciplina non era applicabile al caso in oggetto), affermando la necessità di verificare come le giurisdizioni interne daranno applicazione a tale novella (§123). Per la disciplina italiana sulla c.d. espropriazione indiretta, o occupazione acquisitiva, alle condanne dell’Italia nei casi Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura (entrambi del 30 maggio 2000), in cui la Corte europea abbastanza chiaramente evidenziava l’incompatibilità in astratto dell’istituto in questione con la Convenzione, seguivano una serie di pronunce della Cassazione tese a confinare gli effetti di quelle condanne entro le sole fattispecie decise da Strasburgo (tra le tante, Cass. S.U., sent. 14 aprile 2003, n. 5902, in Giur. it. 2003, 2244; Id., sent. 6 maggio 2003, n. 6853, in Foro it. 2003, I, 2368), pronunce contraddette da innumerevoli condanne dell’Italia, in cui la Corte europea ribadisce l’incompatibilità dell’istituto dell’espropriazione “sine titulo”, ammettendo anche domande non precedute dall’esaurimento dei ricorsi interni, sull’implicito presupposto che è la legge e non la sua applicazione a confliggere con la CEDU (cfr., tra i tanti, i casi Scozzari e altri, del 15 dicembre 2005; Serrilli, del 6 dicembre 2005; Binotti n. 2, del 13 ottobre 2005; Istituto diocesano per il sostentamento del clero, del 17 novembre 2005). (21) Cass., sez. I civ., sent. 10 aprile 2003, n. 5664, in Foro it. 2005, I, 191. ricorsi interni, quale condizione di proponibilità del ricorso a Strasburgo (22), sembra, del resto, presupporre il formarsi di un giudicato interno che i giudici europei in nessun modo possono travolgere. Ma, nuovamente, il caso in questione smentisce simile schema rassicurante: il giudice nazionale è vincolato anche alla valutazione in concreto svolta da Strasburgo (23). Stiamo assistendo a una forzatura della Convenzione, tanto da parte del giudice europeo che di quello italiano? Sembra che ciò possa escludersi, alla luce dei dati testuali della Convenzione stessa. Quanto al potere di valutare l’incompatibilità anche astratta tra normazione interna e le norme CEDU fatte valere, in virtù dell’art. 41 combinato con l’art. 46, e con il più generale principio di collaborazione tra Stati membri e organi del Consiglio d’Europa, non può ritenersi affatto arbitrario che la Corte evidenzi chiaramente, tra i motivi di condanna, il fondamento anche normativo delle violazioni interne della Convenzione, permettendo allo Stato membro e ai suoi organi di porvi rimedio in modo efficace, al fine di evitare il perpetuarsi di ricorsi e condanne “seriali” (lo Stato è messo nella condizione di sapere chiaramente come evitare future condanne; la Corte non sarà più intasata da ricorsi sullo stesso oggetto) (24). L’unica obiezione di tenore formale potrebbe appunto essere quella per cui la Corte, come qualsiasi giudice internazionale, è tenuta soltanto a pronunciarsi sul vincolo di risultato imposto dalla norma pattizia di volta in volta invocata, non sui mezzi precisi cui lo Stato membro deve far ricorso. Ma si tratta di un’impostazione che ormai non regge più con il sistema CEDU, per come esso si è evoluto e per le dimensioni che esso ha raggiunto (si pensi solo all’allargamento dei Membri della Convenzione e alla paralisi cui andrebbe incontro la Corte europea, in caso di ricorsi seriali). Un’impostazione, appunto, tipicamente internazionalistica, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21 (22) Art. 35 CEDU, su cui cfr. R. PISILLO MAZZESCHI, Art. 35, Condizioni di ricevibilità, in S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI (cur.), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova 2001, 586, 595. (23) In particolare, nel caso Somogyi, la valutazione sull’autenticità della firma del contumace, più in generale, sulla natura indimostrata della volontaria sottrazione al processo, quale presupposto per il giudizio in contumacia (Cass., Sez. I pen., 12 luglio-3 ottobre 2006, cit.). Cfr. l’ordinanza della Corte d’Appello di Bologna,15 marzo-21 marzo 2006, cit., in cui si lamenta l’irragionevole disparità di trattamento tra il caso in cui il giudizio di revisione, ex art. 630 lett. a), c.p.p., può essere aperto laddove vi sia contrasto tra fatti stabiliti nella sentenza di condanna e quelli stabiliti nella sentenza penale di altro giudice, e il caso in cui tale contrasto sussista rispetto un accertamento contenuto in una sentenza della Corte europea (ove questa sia entrata nel merito della legittimità delle prove già acquisite e, dunque, dei fatti accertati dalla sentenza di condanna irrevocabile, dimostrandone l’inconsistenza). (24) Cfr. la Risoluzione, Res.(2004)3, § I, nonché la Raccomandazione, Rec (2004)6, adottate entrambe dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 maggio 2004 (reperibili al sito ufficiale: http://www.coe.int/t/cm/home_fr.asp), cui ha fatto seguito la sentenza della Corte europea del 22 giugno 2004, Broniowski c. Polonia, § 193. Cfr., in dottrina, M. DE SALVIA, La Cour Européenne des Droits de l’Homme est-elle, par la nature de ses arrets, un veritable tribunal de pleine juridiction?, in Rev. trim. dr. h. (67) 2006, 495. che ha in mente una Corte internazionale occupata con pochi ricorsi interstatuali di portata intrinsecamente politica, piuttosto che una Corte chiamata a pronunciarsi su un numero aperto di ricorsi individuali, in modo pienamente “terzo” rispetto agli Stati membri (25). Per ciò che riguarda il vincolo delle sentenze di condanna CEDU in termini di puntuale accertamento di violazioni, destinato a ripercuotersi sul giudizio interno, occorre rilevare come simile meccanismo non sia affatto escluso dagli art. 41 e 46 della Convenzione. Partendo dal primo, laddove esso attribuisce il potere alla Corte europea di riconoscere un equo indennizzo alla vittima della violazione, occorre sottolineare come simile riconoscimento sia subordinato alla valutazione dell’impossibilità che gli effetti della violazione possano essere integralmente rimossi nell’ordinamento interno (26). La Corte dovrebbe, dunque, essere legittimata a verificare che l’ordinamento interno offre la possibilità di rimedi, indicando, per forza di cose, anche quale tipo di rimedio puntuale essa ha in mente (altrimenti la vittima si troverebbe nel rischio di essere “palleggiata” tra Strasburgo e il giudice interno, che potrebbe agevolmente farsi scudo della laconicità della sentenza europea sul punto). Il giudice interno, dal canto suo, sarà tenuto a far il massimo sforzo possibile per dar seguito alla pronuncia di Strasburgo, posto che esso è destinatario del vincolo di osservanza delle condanne di Strasburgo sancito all’art. 46 CEDU, al pari degli altri organi costituzionali statali. Certo, si tratta di un’interpretazione particolarmente delicata, per l’ampiezza degli esiti che ne possono derivare (27), ma, appunto, non si tratta di un’opzione disancorata dalla lettera della Convenzione stessa. 4. Le affinità con l’approccio del Tribunale costituzionale tedesco alla forza vincolante delle sentenze CEDU Dinanzi a queste evoluzioni interpretative della CEDU, che da tempo sembrano accolte dalla prassi degli organi di Strasburgo (28), e dinanzi alla 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (25) Sulla natura pienamente giurisdizionale assunta dal sistema riformato (con il Prot. add. XI, vigente dal 1998) di controllo della CEDU, cfr. M. DE SALVIA, La nuova Corte europea dei diritti dell’uomo tra continuità e riforma, in Riv. int. dir. uomo, 1999, 704 ss. (26) «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.» Significativamente la Cassazione, Somogyi, cit., contesta al giudice del merito l’aver ritenuto che l’equa soddisfazione concessa a Strasburgo presuppone proprio l’impossibilità di un rimedio, sottolineando invece come dalla corretta lettura della sent. Somogyi c. Italia, cit., emerga proprio la mancata liquidazione dell’equa soddisfazione, sul presupposto che il rimedio più opportuno sia appunto quello della nuova celebrazione del processo. (27) Cfr. M. DE SALVIA, La Cour Européenne des Droits de l’Homme est-elle…, cit., 499. (28) Cfr. sempre M. DE SALVIA, La Cour Européenne des Droits de l’Homme estelle…, cit., 492 ss., nonché A. GUAZZAROTTI, La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali recenti e nuove esigenze teoriche, in Quad. cost. 2006/3, 491 ss. scarsa trasparenza della Corte costituzionale italiana sul valore della CEDU (29), non appare perciò sorprendente che la Cassazione Somogyi, cit., abbia preferito aggirare del tutto la questione del rango rivestito dalla Convenzione nel nostro sistema delle fonti, per concentrarsi semplicemente e direttamente sulla questione della forza vincolante delle sentenze CEDU di condanna dirette specificamente al nostro Stato. Si tratta, del resto, di un approccio non isolato, nel panorama europeo. Lo stesso Tribunale costituzionale tedesco ha recentemente concentrato la sua attenzione proprio sulla forza delle sentenze di condanna di Strasburgo, per giungere a conclusioni non molto dissimili da quelle della Cassazione. Se, per quanto riguarda il suo valore formale, la Convenzione, pur rivestendo rango primario, può comunque costituire un mezzo d’interpretazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione tedesca (30), per quanto riguarda le sentenze pronunciate nei confronti dello Stato tedesco, il punto di partenza è costituito dal fatto che, ai sensi dell’art. 41 CEDU, tutti gli organi investiti di potestà sovrane [«hoheitlicher Gewalt»] sono in principio vincolati dalle decisioni della Corte europea, inclusi quindi i giudici comuni (31). Ne consegue che per tutti i giudici che dovessero essere chiamati a pronunciarsi sulla stessa questione decisa a Strasburgo, v’è un obbligo di tener conto della decisione CEDU [«berücksichtigen »], e cioè confrontarsi espressamente con questa ed eventualmente giustificare in modo comprensibile perché non possono seguire l’interpretazione conforme all’obbligo internazionale costituito dalla Convenzione (32). In applicazione di simili – pur flessibili – criteri, lo stesso giudice costituzionale tedesco ha ripetutamente annullato – su ricorso in via diretta (Verfassungsbeschwerde) – le decisioni del giudice ordinario che si ostinava- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 (29) Cfr. la recente, quanto meno laconica, ordinanza n. 464 del 2005, in cui si afferma che «l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non assume il valore di norma parametro». Cfr. la ricostruzione dei diversi – non sempre coerenti – orientamenti della Corte costituzionale, in V. PUGLIESE, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte costituzionale, in Riv. pen. 12/2004, 1161 ss. (30) Cfr. la decisione del Bundesverfassungsgericht del 14 ottobre 2004, 2 BvR 1481/04, §§ 32 ss., al sito ufficiale http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/ 2004/10/14, commentata, tra gli altri, da J. GERKRATH, L’effet contraignant des arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme vu à travers le prisme de la Cour constitutionnelle allemande, in Rev. trim. dr. h. (67) 2006, 713 ss. ; M. HARTWIG, Much Ado About Human Rights: The Federal Constitutional Court Confronts the European Court of Human Rights, 6 German Law Journal No. 5 (1 May 2005), in www.germanlawjournal.com . Per analoghe prese di posizione della nostra Corte costituzionale, cfr. C. cost., sent. 388/1999 (cui adde le, formalmente diverse ma sostanzialmente analoghe, sentt. 376/2000 e 445/2002). In dottrina, tra gli altri, M. RUOTOLO, La “funzione ermeneutica” delle convenzioni internazionali sui diritti umani nei confronti delle disposizioni costituzionali, in Diritto e Società 2000, 291 ss. (31) BverGe, 2 BvR 1481/04 cit., §46. (32) «(E)rkennbar auseinandersetzen und gegebenenfalls nachvollziehbar begründen, warum sie der völkerrechtlichen Rechtsauffassung gleichwohl nicht folgen»: ibidem, § 50. no – dietro lo scudo del giudicato – a negare efficacia sui processi interni alle condanne di Strasburgo, in una vicenda che presenta interessanti analogie con quello della Cassazione italiana, Somogyi, cit.(33). 5. I vincoli CEDU nella nuova formulazione dell’art. 117, co. 1, cost. e il problema del rapporto tra Consulta e Corte europea dei diritti Tornando alla giurisprudenza italiana, va rilevato come il versante “formale” del rango gerarchico della CEDU non sia affatto scomparso dall’orizzonte. La Corte costituzionale, infatti, sarà presto chiamata a pronunciarsi su almeno due questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Cassazione (34), in cui finalmente si invoca, con riguardo alla CEDU, il parametro del nuovo art. 117, 1° co., cost., sul rispetto degli obblighi internazionali anche per il legislatore statale (35). Il dato è rilevante, nella misura in cui precedentemente la stessa Cassazione aveva, da un lato, espressamente negato che la nuova formulazione dell’art. 117 cost. potesse alterare la gerarchia delle fonti (36), da un altro, aggirato l’incidente di costituzionalità per contrarietà con la CEDU di una norma di legge italiana (37). Con le due ordinanze menzionate, infatti, non solo 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (33) Cfr. le decisioni BVerfG, 1 BvR 2790/04, 10 giugno 2005; BVerfG, 1 BvR 1664/04, 5 aprile 2005, epilogo della questione decisa inizialmente con la sent. 2 BvR 1481/04, sopra citata. Il caso verteva su una questione di diritto di famiglia, in cui il giudice minorile tedesco si era a più riprese rifiutato di concedere al padre naturale alcun diritto (anche sotto la forma del diritto di visita) nei confronti del figlio, di cui le autorità tedesche avevano stabilito l’adozione sulla base della sola decisione della madre di abbandonare il figlio, e ciò anche dopo che la Corte di Strasburgo si era pronunciata sulla violazione del diritto alla vita familiare (art. 8 CEDU) così compiuta dalle autorità tedesche a danno del padre naturale (Corte eur. dir. uomo, dec. 26 febbraio 2004, Gorgülü c. Germania). Il giudice costituzionale tedesco stigmatizza l’operato del giudice del merito, negando che, per le pronunce adottate dal giudice a tutela del minore, vi sia spazio per il formarsi di un vero “giudicato”, come tale intangibile dalla pronuncia di Strasburgo (1 BvR 1664/04, cit., §22), affermando inoltre che nessuna delle “direttive” contenute nella decisione di Strasburgo si pone in contrasto con il diritto costituzionale tedesco pertinente (§17). (34) Cass. Sez. I civ., ordinanze 20 maggio 2006, n. 401; 29 maggio 2006, n. 402, entrambe in G.U., 1^ Serie speciale, n. 42 del 18 ottobre 2006. (35) In precedenza, come noto, tali vincoli valevano soltanto nei confronti del legislatore regionale, sia in caso di Regioni ordinarie che ad autonomia speciale. (36) Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17564, in Giur. cost. 2003, 459. (37) Cass., sez. lav., sentt. 10 marzo 2004, n. 4932 e 27 marzo 2004, n. 6173, in Banca Dati del Foro it., in cui, accertata la contrarietà tra la CEDU e la giurisprudenza di Strasburgo con la disciplina legislativa italiana, nonché ammesso il valore sopralegislativo della Convenzione, il rifiuto di sollevare la questione di legittimità alla Corte costituzionale viene basato sulla intangibilità della stessa giurisprudenza costituzionale che già aveva escluso l’incostituzionalità della disciplina in questione (C. cost., sent. 11 luglio 2000, n. 310, che pure non poteva tener conto della successiva decisione di Strasburgo del 19 ottobre 2000, Ambruosi c. Italia). la Cassazione smentisce espressamente l’interpretazione “neutralizzatrice” del nuovo articolo 117, 1° co., cost. (38), bensì supera anche l’ostacolo che in passato era stato opposto alla proponibilità della questione: l’essersi già data una pronuncia della Corte costituzionale dichiarativa della non contrarietà a Costituzione di una legge poi risultata “inconvezionale” per Strasburgo (39). Si tratta di un fenomeno analogo a quello dell’eventuale contrasto tra norma interna e diritto comunitario, nel clamoroso caso verificatosi di recente, in cui il Consiglio di Stato si è espressamente rifiutato di sollevare la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sul presupposto che la disciplina interna, essendo già stata “certificata” dalla nostra Corte costituzionale, non avrebbe potuto comunque essere scalfita da un eventuale giudizio di incompatibilità comunitaria pronunciato a Lussemburgo (40). La Cassazione, nelle ordinanze citate, non si sottrae al confronto con il diritto giurisprudenziale CEDU – chiaramente contrario alla normativa italiana sulle espropriazioni “indirette” (c.d. occupazione acquisitiva) (41) – sul mero presupposto che la Corte costituzionale avrebbe già ritenuto quella disciplina conforme a Costituzione, bensì si sforza di evidenziare un “nuovo profilo” di incostituzionalità, non precedentemente affrontato dalla Consulta, con il risultato, comunque, di chiamare quest’ultima a confrontarsi direttamente con il contrario e sopravvenuto orientamento dei giudici di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 (38) «La nuova formulazione della norma costituzionale appare diretta a colmare una lacuna dell’ordinamento, difficilmente superabile… alla luce dell’art. 10 cost. Né può trarre in inganno la sedes materiae, per ridimensionare l’effetto della disposizione al riparto di competenze legislative Stato-regioni: in essa sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze esclusive dello stato… Il ravvisato contrasto della vigente normativa indennitaria con la Convenzione ne determina una sopravvenuta ragione di incostituzionalità con l’art. 117, primo comma; le norme della Convenzione, in particolare gli artt. 6 e 1 prot. I add., divengono norme interposte, attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalità» (Cass. Sez. I civ., ordd. 20 maggio 2006, n. 401; 29 maggio 2006, n. 402, cit., §9). La stessa Corte costituzionale, del resto, con la sent. n. 406/2005, sembra sposare la tesi della portata “innovativa” dell’art. 117, co. 1, cost., sul sistema statale delle fonti, quanto meno con riferimento al diritto comunitario: cfr. R. CALVANO, La Corte costituzionale «fa i conti» per la prima volta con il nuovo art. 117 comma 1 Cost., in Giur. cost. 2005, 4417 ss. (39) Cass., sez. lav., sentt. 10 marzo 2004, n. 4932 e 27 marzo 2004, n. 6173, cit. (40) Cons. St., Sez. V, 8 agosto 2005, n. 4207, Federfarma, su cui cfr. A. RUGGERI, Le pronunzie della Corte costituzionale come “controlimiti” alle cessioni di sovranità a favore dell’ordinamento comunitario?, in www.forumcostituzionale.it/; A. CELOTTO, I controlimiti presi sul serio, in www.giustamm.it/ n. 7-8/2005; nonché, con accenti assai critici, A. BARONE, A proposito della sentenza Federfarma: fra tutela comunitaria e tutela costituzionale dei diritti fondamentali il Consiglio di Stato smarrisce la retta via?, in Dir. U.E. 2006/1, 201. (41) Cfr. F. G. SCOCA – S. TARULLO, La Corte europea dei diritti dell’uomo e l’accessione invertita: verso nuovi scenari, in Riv. ammin. 2000, 445 ss. Strasburgo (42). Ora, come si vede, nell’ambito dei rapporti tra ordinamento interno e CEDU non sembra darsi quello che invece normalmente avviene (caso Federfarma a parte) nei rapporti col diritto comunitario: con il noto meccanismo della “doppia pregiudizialità”, infatti, il giudice che lamenti l’eventuale incostituzionalità di una norma interna per contrasto con il diritto comunitario (valevole come parametro interposto d’incostituzionalità), dovrà, prima che alla Corte costituzionale, rivolgersi alla Corte di Giustizia, per essere certo che non si tratti di norma comunitaria ad effetti diretti, come tale immediatamente applicabile nel giudizio principale. Conseguenza: l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale (43). Come si vede, un buon meccanismo per evitare – sia pure nei soli giudizi in via incidentale – spiacevoli confronti diretti tra giudice comunitario e giudice costituzionale italiano (44). Quest’ultimo, a parte l’improbabile caso di violazione dei 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (42) La disciplina italiana (art. 5 bis, l. 359/92), volta a decurtare retroattivamente l’indennizzo delle espropriazioni c.d. “indirette” (illegittime ma finalizzate a realizzare un’opera di pubblica utilità), sebbene già “salvata” dalla Corte costituzionale (sentt. nn. 283/93; 442/93; 148/99; 396/99 e 24/00, nonché ordd. nn. 251/00 e 158/02), non sarebbe stata scrutinata alla luce del diverso parametro dell’art. 111 Cost., «riscritto in epoca successiva alle pronunce (costituzionali citate), che negli ideali del giusto processo incarna la lealtà che alla parte in giudizio è dato attendersi dal sistema, senza che le vengano mutate le regole in corso». Tale parametro costituzionale troverebbe «nella giurisprudenza della Corte dei diritti (sull’equo processo, 6 CEDU), il materiale utile alla ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali». Pertanto, posto che nella materia de quo il senso (delle pronunce CEDU contro l’Italia) è che la parità delle parti davanti al giudice implichi la necessità che il potere legislativo non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa, o di una circoscritta e determinata categoria di controversie», la disciplina italiana deve essere impugnata per contrasto con l’art. 111, commi 1 e 2, cost., anche alla luce dell’art. 6 della CEDU, «nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole di determinazione del risarcimento del danno per occupazione illegittima in esso contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese dall’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie ». Oltre a questo, ulteriore profilo di novità della questione sarebbe proprio costituito dal nuovo art. 117, co. 1, cost., in grado di determinare «una sopravvenuta ragione di incostituzionalità » della normativa indennitaria citata, per la violazione dei «vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» costituiti dalle «norme della Convenzione…», le quali «divengono norme interposte, attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalità» (Cass. Sez. I civ., ordd. 20 maggio 2006, n. 401; 29 maggio 2006, n. 402, cit.). (43) Cfr. M. CARTABIA, Considerazioni sulla posizione del giudice comune di fronte a casi di “doppia pregiudizialità”, comunitaria e costituzionale, in Foro it. 1997, 223; F. GHERA, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Giur. cost., 2000, p. 1193. (44) Per i giudizi in cui la Corte costituzionale è chiamata a giudicare in astratto la compatibilità di un atto normativo interno (giudizi in via d’azione) ovvero a controllare l’ammissibilità di un quesito referendario, non sussiste ovviamente simile rimedio (Cfr. R. BIN, All’ombra della “La Pergola”. L’impugnazione in via principale delle leggi contrarie a principi costituzionali supremi, non dovrebbe mai essere costretto a smentire una pronuncia della Corte di Giustizia. Diversa è la questione dei rapporti tra CEDU e legislazione nazionale contrastante, sotto il profilo del conflitto tra giurisprudenza di Strasburgo e giurisprudenza costituzionale italiana. Qui, infatti, non può darsi la possibilità che il giudice comune ricorra pregiudizialmente a Strasburgo, per verificare se già il diritto CEDU non gli offra la soluzione del caso. Evidentemente manca uno strumento equivalente al rinvio pregiudiziale (art. 234 TCE), ma manca, più a monte, lo “schema comunitario” della diretta applicabilità delle norme dotate di “effetti diretti”, cui consegue la “non applicazione” del diritto interno eventualmente contrastante. Mentre, però, il rinvio pregiudiziale manca “per tabulas”, senza possibilità di rimediarvi in via giurisprudenziale, non può dirsi la stessa cosa per gli effetti diretti delle norme CEDU. Si pensi, infatti, alle questioni sollevate dalla Cassazione: la regola ricavabile dalla CEDU è sufficientemente chiara e univoca proprio in virtù delle già numerose condanne che l’Italia ha subito sul medesimo oggetto (45). Manca – apparentemente – il potere di disapplicare la disciplina interna contrastante, ma non è un problema della Convenzione né dei giudici di Strasburgo, bensì del nostro ordinamento e della nostra Corte costituzionale, prima ancora che dei giudici comuni (46) Ecco, dunque, un suggerimento affinché alla Consulta siano evitati, al pari di quanto avviene col Lussemburgo, incresciosi contrasti con Strasburgo: ai sensi della CEDU (art. 46), anche il giudice comune è tenuto a dar seguito alle decisioni di condanna del giudice europeo (47), senza IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 norme comunitarie, in Dir. U.E., 1996, 271 ss.). In tal caso, il confronto con una giurisprudenza “europea” sfavorevole si atteggia allo stesso modo, tanto nel caso di sentenze del Lussemburgo che di Strasburgo. (45) Cfr. C. App. Firenze, 20 gennaio 2005, n. 111, in www.dirittiuomo.it, che, al fine ottemperare alle decisioni di Strasburgo nei casi Belvedere e Carbonara, cit., opera l’estensione del diritto al pieno risarcimento del danno anche alla fattispecie di “occupazione acquisitiva” (fino alla condanna di Strasburgo limitato ai soli casi di occupazione “usurpativa”, ossia priva del formale riconoscimento di utilità pubblica dell’opera illegittimamente costruita dalla p.a. sul fondo privato), disapplicando la legge italiana che prevedeva un ristoro economico di gran lunga inferiore. (46) La Cassazione, nelle ordinanze del 2006 citate di rimessione della questione di legittimità costituzionale, si pronuncia apertamente contro l’ipotesi della disapplicazione, in virtù degli artt. 136 e 101 cost., nonché escludendo la possibilità di poter trattare il diritto CEDU alla stregua del diritto comunitario, posto che quest’ultimo non avrebbe «comunitarizzato » la Convenzione, neppure in virtù dell’art. 6.2 TUE sul rispetto dei diritti fondamentali. Sui diversi orientamenti giurisprudenziali in relazione al potere di disapplicazione delle norme legislative contrastanti con la CEDU – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo – cfr. A. GUAZZAROTTI, La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali recenti e nuove esigenze teoriche, cit., 500 ss. (47) Intendendo tale vincolo anche come obbligo di considerare contraria alla Convenzione la normativa interna dichiarata “inconvenzionale” da Strasburgo in tutti i casi analoghi che si presenteranno al giudice italiano, e non solo nell’ipotesi di uno (spesso improbabile) seguito giudiziario interno alle vicende già decise a Strasburgo. necessità di sollevare l’ulteriore pregiudiziale di costituzionalità, ogniqualvolta la regola ricavabile dalla/e pronunce CEDU sia sufficientemente precisa e incondizionata da sostituirsi, senza margini di ambiguità, a quella interna riconosciuta contraria alla Convenzione (48). Alla Corte costituzionale potranno essere sollevate soltanto quelle questioni dove, pur in presenza di una regola CEDU “autoapplicativa”, sia prospettabile un contrasto tra quest’ultima e i c.d. “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale (49). 6. Gli interventi del legislatore italiano sul seguito delle condanne CEDU Al termine di questa disamina appare opportuno segnalare alcuni importanti elementi di novità, intervenuti nell’ultimo anno in sede normativa, indici di un nuovo apprezzabile interesse del legislatore per l’adeguamento dell’ordinamento italiano al diritto convenzionale europeo. A parte l’approvazione della legge di ratifica del Protocollo n. 14 (50), degna di interesse risulta la legge n. 12 del 2006, nota come legge “Azzolini” e rubricata “Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo” (51). La disciplina si inserisce tra le misure nazionali insistentemente auspicate dal Consiglio 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (48) L’art. 41 in questione, del resto, è una norma che, in virtù dell’art. 117, 1° co., cost., riveste già oggi una forza superiore a qualsiasi disciplina primaria. Potrebbe dirsi che, in tal modo, lo Stato compie – attraverso un atto pur sempre sub-costituzionale – un’indebita cessione di sovranità alle autorità di Strasburgo. E, tuttavia, non può negarsi che lo stesso ombrello dell’art. 11 Cost. (giustificazione di limitazioni di sovranità condizionate) possa adattarsi all’ordinamento di Strasburgo altrettanto bene di quanto accaduto per l’ordinamento comunitario. Cfr. B. CONFORTI, Valore ed efficacia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel diritto interno, in ID., Scritti di diritto internazionale, Napoli 2003, 285. (49) In parallelo con la nota “dottrina” della Corte costituzionale italiana dei c.d. “controlimiti”: C. cost., sentt. nn. 183/73, 232/89, 168/91, su cui, tra i tanti, cfr. F. SALMONI, La Corte costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità europee, in FALZEA, SPADARO, VENTURA, La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, cit., 289 ss.; A. CERRI, L’integrazione europea nella giurisprudenza delle Corti, in Riv. it. dir. pubb. com. 1999, 1493. (50) L. n. 280 del 2005, cit. (51) Su cui, cfr. P. TANZARELLA, Nuovi compiti al Presidente del Consiglio per l’esecuzione delle sentenze di Strasburgo, cit., 370 ss. (52) Cfr. la recente risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1516, del 2 ottobre 2006 (http://assembly.coe.int/Mainf.asp?link=/Documents/ AdoptedText/ta06/ERES1516.htm). Il documento è dedicato al problema del recepimento della giurisprudenza CEDU negli Stati membri e consegue ad una lunga attività istruttoria, curata dalla Commissione parlamentare affari legali e diritti umani. In riferimento alla situazione italiana, l’Assemblea parlamentare denuncia “inaccettabili ritardi” nell’adempimento degli obblighi derivanti dall’ordinamento internazionale, in particolare rilevando la persistenza di tre deficienze strutturali che determinano la violazione costante della Convenzione: 1) l’eccessiva lentezza dei processi, cui consegue, tra l’altro, l’insufficiente protezione di numerosi diritti sostanziali (in particolare nell’ambito delle procedure fallimentari e nella tutela dei diritti di credito); 2) la normativa che non consente la riapertura d’Europa (52). Il provvedimento consta di un unico articolo che aggiunge una disposizione ad hoc all’interno della legge n. 400 del 1988. Più precisamente, viene inserita nell’art. 5, dedicato alle attribuzioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, la lettera a-bis del comma 3, in virtù della quale il capo dell’esecutivo “promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano” e “comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce”. Quindi, oltre a venir affidata al Presidente del Consiglio la responsabilità degli adempimenti – di competenza governativa – volti a dare esecuzione alle sentenze CEDU, viene significativamente previsto, in via generale, un meccanismo di raccordo tra le pronunce CEDU e il legislativo nazionale, affinché questo sia posto nelle condizioni di eliminare deficit di tutela dei diritti, rilevati dalla Corte europea anche episodicamente. A chiusura del nuovo quadro, v’è il meccanismo della relazione annuale sullo stato di esecuzione delle sentenze CEDU presentata al Parlamento, che dovrebbe assicurare un monitoraggio costante della situazione, consentendo al legislativo di controllare l’operato del Governo in materia e, se è il caso, di intervenire tempestivamente per evitare lo stabilizzarsi di carenze strutturali del sistema, ove questo si dimostri al di sotto dello standard minimo di tutela richiesto. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 dei processi penali riconosciuti iniqui dalla Corte europea di Strasburgo: sul punto, l’Assemblea lamenta la mancata assunzione di misure idonee a restituire al richiedente il processo equo cui ha diritto; 3) l’espropriazione indiretta, che costituisce nella prospettiva della Corte europea una pratica illegale di confisca dei beni, lesiva del diritto di proprietà: in merito a questa problematica, l’Assemblea parlamentare segnala l’assoluta mancanza di progressi nella direzione della soluzione del problema. Emergono altresì, quali incompatibilità strutturali dell’ordinamento italiano all’esame del Comitato dei Ministri, la legislazione sospensiva delle procedure di sfratto, la legislazione retroattiva in sanatoria di procedimenti amministrativi illegali, specialmente nel campo dell’espropriazione e dei vincoli urbanistici, l’applicazione di regimi carcerari speciali in mancanza di esame degli atti difensivi (con particolare riferimento al monitoraggio della corrispondenza, censurata anche in regime ordinario), le restrizioni di diritti individuali (sproporzionate o automatiche) previste nei confronti del fallito. I documenti di lavoro nel dossier della risoluzione, peraltro, danno conto di alcuni recenti progressi collaborativi del legislatore italiano, volti alla soluzione di problemi strutturali (come la stessa legge n. 12 del 2006, cd. Azzolini, cit.) o specifici (si veda il caso della Regione Marche che ha emendato la propria legislazione, denunciata alla Corte di Strasburgo come lesiva del diritto di associazione nel caso Grande Oriente c. Italia), ma rilevano anche la presenza di un filone giurisprudenziale che nega effettività alla giurisprudenza europea, destinato a stabilizzarsi di fronte a riforme insufficienti (cfr. doc. 11020 del 18/9/06, relazione approvata dalla Commissione affari legali, punti 31 ss., in http://assembly.coe.int/Main.asp?link=/Documents/ WorkingDocs/Doc06/EDOC11020.htm). Non meno rilevanti appaiono alcune disposizioni contenute nella legge finanziaria 2007 (53): ci si riferisce ai commi 1213 e ss. dell’unico articolo di cui la legge si compone, che sostituiscono - senza significative modificazioni - l’originario art. 181 del d.d.l. governativo rubricato “Misure per assicurare l’adempimento degli obblighi comunitari ed internazionali”. Le disposizioni trattano, in perfetto parallelismo, le violazioni di diritto comunitario e quelle della Convenzione europea. Per quanto attiene al primo, la norma in commento ribadisce l’obbligo per le autonomie locali ed anche per gli enti pubblici in genere di prevenire l’instaurazione delle procedure d’infrazione di cui agli artt. 226 ss. TCE o di porre termine alle stesse, adottando ogni misura a ciò necessaria, nonché di curare la tempestiva esecuzione dalle sentenze della Corte di giustizia. In caso di mancato adempimento, lo Stato si riserva, sia nei confronti degli enti locali, che nei confronti degli altri enti pubblici, l’esercizio dei poteri sostitutivi, conformemente alle leggi n. 131 del 2003 e n. 11 del 2005 (54). Inoltre, per gli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna della Corte di giustizia rese ex art. 228, c. 3, TCE, la finanziaria afferma, al comma 1216, il diritto dello Stato di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni degli obblighi comunitari, secondo le modalità stabilite nei commi successivi. Quest’ultima previsione, posta a tutela dell’integrità patrimoniale del bilancio statale, è stata sollecitata, tra l’altro, da una comunicazione della Commissione europea che modifica la politica di applicazione delle sanzioni pecuniarie per i casi di infrazione comunitaria, aggravandola sensibilmente rispetto al regime sinora vigente (55). 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (53) Legge n. 256 del 27 dicembre 2006. (54) Emendamento approvato dalla Commissione politiche dell’Unione europea della Camera. (55) Comunicazione SEC(2005)1658. Come noto, la procedura promossa dalla Commissione contro gli Stati membri inadempienti agli obblighi comunitari, consta di due distinte fasi giudiziarie: la prima volta alla constatazione dell’infrazione e la seconda finalizzata alla condanna dello Stato membro al pagamento di una sanzione pecuniaria. Secondo la comunicazione del 2005, cit., la Commissione modifica la prassi, sinora adottata, di limitarsi a proporre alla Corte l’irrogazione di penalità per mancata esecuzione della sentenza accertativa dell’inadempimento, cui generalmente conseguiva, prima della sentenza di condanna, una regolarizzazione tardiva non sanzionata e quindi, ad avviso della Commissione, non sufficientemente scoraggiata. Secondo la nuova determinazione, la Commissione richiederà nei suoi ricorsi ex art. 228 TCE il cumulo di due tipi di sanzione pecuniaria: una penalità per ciascun giorno di ritardo successivo alla pronuncia della sentenza resa a norma dell’art. 228 TCE e una somma forfetaria che sanzioni la continuazione dell’infrazione tra la prima sentenza di constatazione dell’inadempimento, resa ex art. 226 TCE, e la sentenza di condanna. La conseguenza della modifica è che la regolarizzazione da parte dello Stato membro, successiva alla proposizione del ricorso ex art. 228 TCE, non resta priva di ammenda, poiché la Corte potrebbe comunque condannare lo Stato al versamento della somma forfetaria che sanzioni l’infrazione fino al momento della regolarizzazione. Nell’intento realmente dissuasivo della violazione della legalità comunitaria, la Commissione prevede anche l’aumento dell’importo minimo della penalità di base (600 euro al giorno) e la determinazione di una somma forfetaria minima (pari a 9.920 mila euro per l’Italia). Pur in assenza di analoga pressione, ma alla luce del considerevole numero di condanne inferte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (56), la legge finanziaria prevede il medesimo diritto di rivalsa dello Stato nei confronti di quegli Enti (Regioni, Province autonome, enti territoriali, altri enti pubblici e soggetti equiparati) responsabili di violazioni della Convenzione che abbiano comportato, in applicazione di sentenze di Strasburgo, oneri finanziari a carico dello Stato (comma 1217). L’equiparazione che deriva da queste statuizioni (responsabilità da violazioni CEDU equiparate a quelle comunitarie) non può non sollecitare alcune riflessioni sulle modalità in cui si atteggiano, secondo il legislatore, i rapporti tra l’ordinamento interno e quello della CEDU. Anzitutto, la norma sembra recepire, per la prima volta in sede legislativa, l’orientamento finora sostenuto solo dalla più recente giurisprudenza di legittimità in ordine alla efficacia diretta delle norme convenzionali (almeno quelle sufficientemente chiare, precise ed univoche). Infatti il diritto di rivalsa presuppone indubitabilmente una qualificazione di “illecito” per il comportamento dell’ente pubblico che non ottemperi agli obblighi derivanti dalla Convenzione europea (57). In assenza di puntuali specificazioni, dal tenore generico della disposizione della finanziaria sembra anche derivare che tale comportamento possa costituire un illecito persino qualora sussista una norma interna contrastante col diritto CEDU; per cui, a rigor di logica, il diritto di rivalsa sembra presupporre l’obbligo di disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto CEDU, secondo il modello già elaborato per i rapporti tra l’ordinamento nazionale e quello comunitario. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 (56) Si consideri che, a differenza di quanto accade a Strasburgo, le condanne a sanzioni pecuniarie inferte agli Stati membri dalla Corte di giustizia dell’Unione europea sono state poco frequenti: dall’introduzione del meccanismo sanzionatorio, avvenuta ad opera del Trattato di Maastricht nel 1993, la Corte di Lussemburgo è arrivata alla condanna solo in tre casi, riguardanti rispettivamente Grecia, Spagna e Francia (cause C-387/97, C-278/01 e C- 304/02, tutte in www.curia.eu.int). (57) Conforme a questa stessa logica, si segnala il parere del Consiglio di Stato n. 1926 del 2002 (in www.giustizia-amministrativa.it), sollecitato dal Governo per verificare la possibilità di ripetere dagli enti locali le somme pagate dallo Stato ai privati a titolo di “equa riparazione” nei casi di accessione invertita. Pur rilevando profili di incertezza sulla diretta applicabilità delle norme della Convezione europea nell’ordinamento interno, all’epoca riconosciuta soltanto da una parte limitata della giurisprudenza, il parere conclude sostenendo, almeno in tono dubitativo, una possibilità di rivalsa nei confronti dei Comuni che, nella procedura di esproprio, avrebbero violato il principio di legalità, preteso dall’art. 1 del protocollo n. 1, e avrebbero, quindi, commesso un comportamento qualificabile come “illecito”, quand’anche conforme a norme primarie vincolanti (nella specie, all’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996). Il fondamento giuridico della responsabilità, ad avviso del Consiglio di Stato, può essere rintracciato nell’art. 2043 c.c. proprio perchè dall’illecito consegue l’ingiustizia del danno. Il parere non manca peraltro di rilevare come il Comune sia terzo rispetto alla lite risolta dalla Corte, per cui dovrebbe essere prevista la possibilità per l’ente locale di intervenire nel giudizio, ai sensi dell’art. 36, comma 2, Cedu. Una semplificazione tanto rapida suscita peraltro qualche perplessità: non sembra infatti tenersi in sufficiente considerazione una serie di rilevanti differenze tra ordinamento sovranazionale e internazionale. In riferimento al diritto comunitario è ormai chiaro e ben definito il quadro dei rapporti tra ordinamenti, sia per quanto attiene modalità e limiti con cui si esplica il primato sul diritto interno, sia per quanto riguarda il fondamento teorico della prevalenza, avallato da risalente e consolidata giurisprudenza costituzionale. Non altrettanto può dirsi, invece, per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in cui la diretta applicabilità si basa su una giurisprudenza di legittimità ancora oscillante, la cui prevalenza sul diritto interno in chiave sistematica è tutta da costruire e per la quale manca una definizione condivisa del quadro teorico di riferimento. 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Appalti in house: rassegna critica della giurisprudenza di Daniele Rosato SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le direttive comunitarie 2004/17 e 18 e gli appalti in house. – 3. La “questione” degli appalti in house. – 4. Genesi del concetto “appalti in house”. – 5. Circolare: “Affidamento a società miste della gestione dei servizi pubblici locali”. – 6. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ed il contributo degli Avvocati generali. – 6.1. Sentenza Arnhem. – 6.2. Sentenza RI.SAN. – 6.3. Sentenza Teckal. – 7. Gli ultimi interventi della Corte di Giustizia. – 7.1. Sentenza 11 gennaio 2005 Stadt Halle. – 7.2. Sentenza 13 ottobre 2005 Parking Brixen. – 7.3. Sentenza 10 novembre 2005 Commissione contro Repubblica di Austria. – 7.4. Sentenza 6 aprile 2006 Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori. – 7.5. Sentenza 11 maggio 2006 Carbotermo. – 8. Giurisprudenza nazionale in materia di affidamento in house. – 8.1. T.A.R. Lombardia – Milano, sentenza 17 luglio 2006, n. 1837. - 8.2. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 13 luglio 2006, n. 4440. - 9. I riflessi del decreto Bersani in materia di appalti. 1. Premessa. Dopo una sommaria introduzione alle direttive 2004/17 e 18, in questo articolo ho voluto dare prevalentemente risalto al “diritto vivente”, in quanto il contributo dei giudici è stato e continua ad essere essenziale ai fini della definizione della materia degli appalti in house (1). La giurisprudenza, italiana e specialmente quella comunitaria, è frequentemente richiamata. Attraverso i casi giurisprudenziali ho tentato di enucleare, tra le intrinseche difficoltà di una materia in rapida e continua evoluzione, il pensiero del giudice comunitario riguardo a tale complesso argomento. La problematica dell’in house providing è particolarmente rilevante in quanto concerne un settore, quello degli appalti pubblici, che riveste un ruolo importante nella vita economica di un Paese e considerato dalla stessa Commissione europea “uno strumento strategico per ottimizzare il funzionamento del mercato unico europeo (2)”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 (1) In realtà l’istituto dell’in house è un modello trasversale, rilevante sia per gli appalti che per i servizi pubblici. In questo senso L. MANGIAVACCHI, “L’affidamento in house tra capitale pubblico e partecipazione privata”, in www.giustamm.it. (2) Libro bianco “Gli appalti pubblici nell’Unione Europea”, 1998. La centralità rivestita dal settore degli appalti pubblici nella politica comunitaria non è sempre stata un dato acquisito, ma può essere ricollegata al “rapporto Cecchini”, nel quale si ritenne essenziale, ai fini dell’integrazione dei mercati nazionali, anche una piena liberalizzazione del settore degli appalti pubblici. Secondo E. CHITI, “La nozione di amministrazione aggiudicatrice”, in Giornale di diritto amministrativo, 2001, la riconsiderazione della materia riprese “dopo un periodo di palese disinteresse per il settore degli appalti”, giustificato dal tentativo di mantenere in questo settore l’autonomia regolatoria degli Stati membri. 2. Le direttive comunitarie 2004/17 e 18 e gli appalti in house. Il 30 aprile 2004 sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea le due nuove direttive in materia di appalti: la 2004/17/CE, relativa agli appalti degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto e di tipo postale (i cd. settori esclusi), e la 2004/18/CE, relativa agli appalti “classici” (lavori, servizi e forniture). Esse costituiscono quello che un’autorevole dottrina ha definito “il nuovo diritto europeo degli appalti” (3). La direttiva nei settori “classici” non prevede la facoltà di affidamento diretto, senza pubblica gara, ad imprese collegate o controllate. Al contrario, la direttiva 2004/17/CE prevede una disciplina degli appalti in house, in relazione agli appalti affidati ad imprese collegate e a join-venture. In particolare, l’articolo 23 stabilisce che per impresa collegata deve intendersi quella i cui conti annuali sono consolidati con quelli dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella su cui la medesima amministrazione è in grado di esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante (4). La citata disposizione, inoltre, prevede la necessità di verificare che almeno l’80% del fatturato medio realizzato negli ultimi tre anni dall’impresa collegata nel campo dei servizi, delle forniture, dei lavori provenga dalla fornitura di tali servizi/lavori alle imprese cui è collegata. Solamente al verificarsi di queste due condizioni (presenza di una impresa collegata, requisito dell’80%) la direttiva non si applica agli appalti aggiudicati da un’amministrazione ad un’impresa collegata. Ed ancora la disciplina risultante dalla direttiva sui settori esclusi non trova applicazione in relazione agli appalti aggiudicati da una join-venture, composta esclusivamente da più enti aggiudicatori, per svolgere una delle attività di cui agli articoli da 3 a 7 (5), ad uno di tali enti, e a quelli aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice ad una join-venture di cui fa parte, qualora essa sia stata costituita per svolgere una delle attività di cui agli articoli da 3 a 7 almeno negli ultimi tre anni, e qualora l’atto costitutivo della join-venture preveda che gli enti aggiudicatori che la compongono ne faranno parte per almeno tre anni. 3. La questione degli appalti in house. Con l’espressione “appalti in house” ci si riferisce a quella particolare ipotesi in cui l’appalto pubblico è affidato a soggetti che sono parte della stessa amministrazione aggiudicatrice. La questione concerne essenzialmente nel risolvere il quesito circa l’applicabilità delle procedure ad evidenza pubblica anche a tali particolari fatti- 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (3) M. PROTTO, “Il nuovo diritto europeo degli appalti”, nella rivista Urbanistica e appalti, luglio 2004. (4) L’origine della definizione di impresa collegata è contenuta nell’art. 1, n. 3, della direttiva 14 giugno 1993, 93/38/CEE. (5) Gas, acqua, elettricità, servizi di trasporto e postali, estrazione petrolio. specie, o se, al contrario, sussista la facoltà per l’amministrazione aggiudicatrice di ricorrere all’affidamento diretto, derogando così alle disposizioni comunitarie in materia di appalti. In una nota del Ministero dell’economia e delle finanze, datata 30 ottobre 2003, è indicato che un rapporto di tipo in house può configurarsi in una delle tre seguenti fattispecie. Le prime due si situano all’interno dell’amministrazione, mentre la terza riguarda un rapporto tra un’amministrazione ed un terzo, ma assimilabile ad una relazione interna. - In house stricto sensu Si tratta dell’ipotesi più semplice e chiara di rapporto in house, che si verifica in quelle ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice decide di far eseguire servizi o lavori tramite i propri mezzi o le proprie risorse. È, in particolare, il caso in cui l’amministrazione ricorra ai suoi stessi uffici. - Assenza di un terzo È l’ipotesi di relazioni che costituiscono forme di organizzazione interne all’amministrazione pubblica (ad esempio, un ministero per un altro ministero). Queste relazioni sono caratterizzate dall’assenza di terzi: ne consegue che questi tipi di rapporti sono del tutto assimilati a quelli che sussistono tra un’amministrazione ed i suoi servizi interni. - Terzo posseduto e controllato al 100% con un legame di esclusiva Si tratta di un rapporto tra un’amministrazione aggiudicatrice ed un ente. L’organismo creato o incaricato di eseguire i compiti per l’amministrazione appaltante è interamente controllato e posseduto dalla medesima amministrazione appaltante. Inoltre, è necessario che sussista un legame di esclusiva in merito all’esercizio dell’attività: l’ente non può fornire i propri servizi a soggetti terzi, ma esclusivamente all’amministrazione cui appartiene. Se sembra pacifico che questi tre tipi di rapporti possano essere qualificati come dei rapporti in house e siano, di conseguenza, esclusi dall’ambito di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, i limiti di questa nozione appaiono assai più difficili da tracciare in altri casi più complessi, come ad esempio nell’ipotesi di un soggetto terzo all’amministrazione che non soddisfi pienamente il criterio dell’esclusività delle attività fornite, oppure quello del possesso e del controllo al 100%. In tali casi per avere una soluzione su quale procedura debba essere eseguita occorre analizzare la natura giuridica del legame che intercorre tra l’amministrazione aggiudicatrice ed il soggetto aggiudicatario e, sulla scorta degli indici forniti dalla giurisprudenza, verificare se si è in presenza di un rapporto di delega interorganica tra tali soggetti (6): solamente qualora questo esame dia IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 (6) Nel linguaggio comunitario la formula “delega interorganica” è utilizzata come sinonimo di “in house providing” per indicare quella forma gestionale “che non esula dalla sfera amministrativa dell’amministrazione aggiudicatrice”, in “Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario” (nota 9). esito positivo sarà evidente la non esistenza di un rapporto di terzietà, con la conseguente applicabilità della disciplina interna di affidamento diretto. Si ricorda che, ai sensi dell’art. 9 della direttiva 2004/18/CE, si considerano amministrazioni aggiudicatici: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti od organismi. Con l’espressione organismo di diritto pubblico, invece, ci si riferisce a qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, non aventi carattere industriale o commerciale, che sia dotato di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario da parte dello Stato o degli enti pubblici territoriali, o la cui gestione sia soggetta al controllo di tali soggetti, o il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata da parte dello Stato o dagli enti pubblici. Le difficoltà concernenti il fenomeno dell’in house risultano dall’ampio dibattito che si è avuto riguardo il recente iter normativo comunitario per l’elaborazione della direttiva 2004/18/CE (7): infatti il testo proposto dalla Commissione non prevedeva alcuna disposizione concernente gli affidamenti in house, ed il tentativo del Parlamento europeo di inserirne una si è scontrato con la ferma resistenza da parte del Consiglio. In particolare, il Parlamento aveva proposto di inserire un articolo in cui si esplicitasse la volontà di escludere dal campo di applicazione della direttiva gli appalti stipulati dall’amministrazione con una entità da essa totalmente dipendente. Tale proposta prendeva evidentemente spunto dalla sentenza Teckal (v.infra). A livello nazionale, ritengo utile ricordare come, in fase di recepimento della direttiva, il Governo abbia deciso di stralciare dal testo del Codice degli Appalti l’art. 15 che stabiliva“il presente Codice non si applica all’affidamento di servizi, lavori e forniture a società per azioni il cui capitale sociale sia interamente posseduto da una o più amministrazioni aggiudicatrici, a condizione che queste ultime esercitino un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con le amministrazioni aggiudicatrici”. In breve, la norma recava la disciplina degli affidamenti in house richiamando il principio stabilito nella sentenza Teckal. 4. Genesi del concetto “appalti in house”. Al termine di una prima azione di tipo ricognitivo circa lo stato del settore degli appalti pubblici, realizzata attraverso il Libro verde del 1996 “Gli appalti pubblici nell’Unione Europea: spunti di riflessione”(8), la 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (7) La problematica è correttamente messa in evidenza da F. PORCELLANA, “Servizi pubblici locali e deroghe alla conocrrenza. La Corte salva l’in house nazionale”, in www.giustamm.it, n. 5/2006. (8) Si segnala, tra gli altri, il punto 2:“ La politica dell’Unione in materia di appalti pubblici è volta ad instaurare in questo settore una concorrenza leale ed aperta”. Commissione europea si pronunciò sulle molteplici osservazioni al riguardo rese dai soggetti della Comunità. L’occasione è stata il Libro bianco del 1998, dove si ritrova il primo accenno alla questione degli appalti in house. La definizione comparsa in tale testo è la seguente: “sono appalti in house quegli appalti aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra una amministrazione centrale ed una locale, o tra una amministrazione ed una società da questa interamente controllata”. In tale documento, inoltre, la Commissione si impegnò a pronunciarsi sulle complesse questioni sollevate nei contributi al Libro verde, per soddisfare le richieste di chiarezza e di certezza giuridica avanzate dagli operatori, in difficoltà dinanzi ad una “foresta normativa e giurisprudenziale in cui risulta difficile districarsi”(9). L’argomento in house è stato poi ripreso dalla Commissione nell’ambito di una comunicazione interpretativa(10) nella quale viene indicato che “un problema particolare si pone nel caso in cui tra concessionario e concedente esiste una forma di delega interorganica che non esula dalla sfera amministrativa dell’amministrazione aggiudicatrice. La questione sull’applicazione del diritto comunitario a tale relazione è stata affrontata dalla Corte e le cause pendenti davanti alla Corte potranno apportare elementi di novità a riguardo”. In concreto, la Commissione europea nella comunicazione non fornisce una risposta chiara al quesito circa l’applicabilità dei principi comunitari di concorrenza, non discriminazione e pubblicità alle ipotesi in cui tra concedente e concessionario esista un rapporto delega interorganica, o se, al contrario, in queste ipotesi sia ammissibile l’operatività di una deroga che, di fatto, avrebbe l’effetto di sottrarre la relativa fattispecie alla disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici. In realtà, la Commissione non ha fatto altro che rinviare alle pronunce della Corte di Giustizia. La Commissione, attraverso l’elaborazione dei suindicati documenti, ha intrapreso una serie di iniziative in ossequio al suo ruolo di “custode del Trattato” (11). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 (9) Punto 2.1.3 del Libro bianco “Gli appalti pubblici nell’Unione Europea”, 1998. (10) Commissione dell’Unione Europea “Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario”, 2000. Per i primi commenti: GUCCIONE C., “La comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario”, in Giornale di diritto amministrativo, 2000; LEGGIADRO F., “Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario”, in Giornale di diritto amministrativo, 2000, n.10. (11) Si ricorda come, oltre a dare avvio alla politica comunitaria e ad esprimere l’interesse dell’Unione, compito della Commissione sia quello di verificare la corretta applicazione del Trattato e della legislazione dell’Unione da parte degli Stati membri, cosicché tutti i partecipanti al mercato unico possano trarre equamente vantaggio dall’equilibrio instaurato. Sul ruolo svolto dalla Commissione, per tutti, MENGOZZI P., 1999, “European Community Law”, London. Per indicare l’ipotesi in cui un’amministrazione affidi ad un ente dalla stessa controllato la prestazione di servizi, forniture o lavori, si è in un momento successivo utilizzata l’espressione “in house providing”, che evidenzia un modello di organizzazione in cui la pubblica amministrazione provvede ai propri bisogni mediante lo svolgimento di attività interna, e contrapposto al modello dell’outsourcing (o contracting out) nel quale, invece, l’ente pubblico si rivolge al privato “esternalizzando” l’esercizio tipico dell’ente stesso o, più semplicemente, la produzione ed il reperimento delle risorse necessarie al suo svolgimento. In realtà, nell’ordinamento giuridico comunitario non sembra possibile ravvisare alcun obbligo di outsourcing nei confronti delle pubbliche amministrazioni: i principi della concorrenza non sembrano imporre di rivolgersi sempre e comunque al mercato per l’approvvigionamento di beni, servizi e forniture (12). Come sembrano esservi compiti e funzioni il cui esercizio non può mai essere affidato all’esterno, così non sembrano imporsi alla pubblica amministrazione obblighi di esternalizzazione, ma solamente vincoli di rispetto del principio della gara qualora essa decida di ricorrere ai privati (13). Gli unici limiti che incombono sulla pubblica amministrazione circa la scelta tra mercato e delegazione interorganica sembrano essere limiti di diritto interno, e cioè i principi che regolano le scelte discrezionali di ogni amministrazione pubblica. Al riguardo, un’autorevole dottrina ha sostenuto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia sull’in house rappresenta il tentativo di armonizzare i principi a tutela della concorrenza con il potere di auto-organizzazione riconosciuto alle amministrazioni pubbliche dalle legislazioni dei singoli Stati membri (14). 5. Circolare “Affidamento a società miste della gestione dei servizi pubblici locali”. La Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 13 novembre 2001 contiene la circolare emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (12) In questo senso MARCO GALESI, “In house providing: verso una concreta definizione del controllo analogo”, nella rivista Urbanistica e appalti, agosto 2004; ALBERTO LUCARELLI, intervento nell’Assemblea “L’acqua un bene dei cittadini”, Caserta 22 febbraio 2005. (13) Nel senso dell’inesistenza di un obbligo per l’autorità pubblica di fare ricorso a entità esterne nell’adempimento degli interessi pubblici su di essa incombenti, v. Corte di Giustizia, sentenza 11 gennaio 2005 causa 26/03 Stadt Halle – TREA Leuna (v. infra). L’inesistenza di un obbligo di esternalizzare la gestione dei servizi pubblici locali è sottolineata da M. CALCAGNILE, C. BONORA, “Le caratteristiche delle società in house providing per la gestione dei servizi pubblici locali”, in www.giustamm.it n. 8/2005; E. VARANI, “L’in house providing: la Corte di Giustizia torna a parlare di controllo analogo”, in www.filodiritto.com, gennaio 2005. In senso contrario D. IARIA, il quale dubita che la pubblica amministrazione possa avocare a sé la scelta su come affidare il servizio, giustificando così la sottrazione di una fetta di attività del mercato, Atti del Convegno “Il punto sui servizi pubblici locali”, Università degli Studi di Siena, 10 febbraio 2006. (14) D. CASALINI, “L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house”, 2003. dipartimento per le politiche comunitarie, il 19 ottobre 2001, n. 12727, avente ad oggetto la materia dell’affidamento a società miste della gestione di servizi pubblici locali. Tale circolare avverte che la Commissione dell’Unione europea ha avviato nei confronti dello Stato italiano una procedura di infrazione per la violazione delle disposizioni comunitarie in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali. Il ministero, tenuto conto dell’intervento dell’organo comunitario, ha così ritenuto opportuno fornire alcuni elementi interpretativi volti a chiarire quale sia la normativa applicabile in tema di affidamento di servizi dagli enti locali, anche alla luce della disciplina risultante dal D. Lgs. 267 del 18 agosto 2000, Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali (TUEL). La circolare afferma che la normativa europea in tema di appalti pubblici, ed in particolare di servizi, non trova applicazione, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia, qualora manchi un vero e proprio rapporto contrattuale tra due soggetti, come nel caso, secondo la terminologia della Corte, di “delegazione interorganica” o di servizio affidato, in via eccezionale, in house. In questa circolare il requisito del “controllo analogo”, richiesto dal giudice comunitario affinché operi la deroga in house (v. infra), viene individuato nel “rapporto equivalente”, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica, che si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario. Questa impostazione incontra numerosi e autorevoli dissensi in dottrina (15). La circolare, inoltre, ricorda che, qualora non ricorrano gli estremi previsti dalla giurisprudenza Teckal, l’aggiudicazione della concessione del servizio deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi di trasparenza e di parità di trattamento: la necessità di seguire procedure ad evidenza pubblica deriva dalle norme e dai principi del Trattato (16). 6. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ed il contributo degli Avvocati Generali. Di notevole importanza per lo studio della tematica degli appalti in house è stato l’apporto prestato dagli Avvocati Generali, che, con le loro con- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 (15) Tra gli autori che respingono questo significato talmente restrittivo del concetto di controllo analogo si segnala M. URSO, “Il requisito del controllo analogo negli affidamenti in house”, nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 12/2006 laddove l’Autore segnala come nella sentenza Teckal non si richieda un rapporto di subordinazione gerarchica, e come il giudice comunitario fondi il sistema esclusivamente sul controllo della società affidataria e sulla possibilità di indirizzarne l’attività; A. LE DONNE e C. PIEROTTI, “ Gestione in house dei servizi pubblici locali: contaminazioni, suggestioni, soluzioni”, in ASTRID- Rassegna, n. 5/2006, dove si parla di controllo “analogo, ma non identico”. (16) In questo senso, Commissione dell’Unione europea, “Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario”, 2000. clusioni, hanno individuato gli elementi che devono essere presi in considerazione per stabilire la natura giuridica del rapporto intercorrente tra l’amministrazione aggiudicatrice ed il soggetto, collegato all’amministrazione, aggiudicatario dell’appalto. Come già in precedenza visto, affrontando il “problema” degli appalti in house il nodo centrale da sciogliere concerne l’applicabilità, anche a tali particolari fattispecie, delle procedure ad evidenza pubblica, o se, al contrario, sussista la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di ricorrere all’affidamento diretto (17). Per rispondere a tale quesito ritengo opportuno seguire le osservazioni svolte dagli Avvocati Generali nelle cause in cui sono state affrontate tali particolari ipotesi di affidamento di appalti. È mia intenzione ora, quindi, sottolineare brevemente i momenti più significativi della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia, vere e proprie tappe per una completa definizione della disciplina degli appalti in house (18). 6.1. Sentenza 10 novembre 1998, causa 306/96 BHI Holding contro Arnhem e Rheden. Nella causa Arnhem la materia del contendere era rappresentata dall’affidamento effettuato da due comuni olandesi, interessati a svolgere congiuntamente l’attività di smaltimento dei rifiuti, ad una società da essi costituita proprio per lo svolgimento di tale attività. Una società di diritto privato, specializzata nella raccolta e nel trattamento dei rifiuti, ha intrapreso la via giudiziaria sostenendo che l’affidamento alla società comunale era da ritenersi illegittimo, in quanto non conforme alla procedura di aggiudicazione stabilita dalla direttiva 92/50, relativa agli appalti pubblici di servizi. Il giudice nazionale, il Gerechtshof, una volta sospeso il giudizio, ha effettuato, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo chiedendo se una società di capitali, costituita da due enti pubblici locali, potesse essere ritenuta un’amministrazione aggiudicatrice e, quindi, ricadere nell’eccezione prevista all’articolo 6 della direttiva 92/50, che esclude l’obbligo di seguire le procedure ad evidenza pubblica nel 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (17) C. ALBERTI, “Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione”, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2001. (18) Sul fenomeno di “un governo dei giudici”, MENGOZZI, “La rule of law e il diritto comunitario di formazione giurisprudenziale” in Rivista di diritto europeo, 1992. L’Autore evidenzia come “La Corte di Giustizia ha assunto, per la precisazione del diritto comunitario e la sua progressiva integrazione nel tempo, un ruolo che trascende quello tradizionalmente proprio dei giudici degli Stati membri, specie di quelli dell’Europa continentale (…) Esiste una parte sempre più importante del diritto comunitario che è di formazione giurisprudenziale”; M.P. CHITI, “I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia e lo sviluppo del diritto amministrativo europeo”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1991. caso in cui il soggetto aggiudicatario dell’appalto sia a sua volta un’amministrazione aggiudicatrice. In particolare, l’art. 6 della direttiva 92/50 stabilisce che la disciplina risultante dalla stessa “non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso un’amministrazione aggiudicatrice, in base ad un diritto esclusivo di cui esso benefici in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il Trattato”. Dopo aver preliminarmente affermato che l’attività di raccolta dei rifiuti è riconducibile ai bisogni di carattere generale, in quanto attività correlata ad esigenze di salute pubblica e di tutela ambientale, che i privati non riuscirebbero da soli a garantire, il giudice comunitario ha statuito che la forma giuridica della società non ha alcuna valenza, dovendosi invece utilizzare ai fini della qualificazione di un’amministrazione come aggiudicatrice un criterio di tipo esclusivamente funzionale. La Corte di Giustizia, quindi, non ha dato nessun peso alla forma giuridica delle disposizioni che istituiscono l’organismo. La sentenza Arnhem è di notevole rilevanza, in quanto può essere individuata come il primo tassello di un indirizzo giurisprudenziale della Corte di Giustizia che, ad oggi, appare ormai ben consolidato. Un altro tassello di questo orientamento può essere individuato nella sentenza Coillte Teoronta (19), nella quale si discuteva circa la configurabilità o meno dell’Ufficio irlandese delle Foreste (“Coillte Teoronta”) come organismo di diritto pubblico. Il giudice comunitario si è avvalso di questa occasione per confermare l’assoluta irrilevanza della qualifica formale che un soggetto possa assumere sulla scorta del diritto interno ai fini della sua possibile qualificazione come organismo di diritto pubblico: si è, in questo modo, ribadita la prevalenza dell’interpretazione funzionale su quella meramente formale. 6.2. Sentenza 9 settembre 1999, causa 108/98 RI.SAN S.r.l. contro Comune di Ischia. Il Tribunale amministrativo della Regione Campania ha sottoposto alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali nell’ambito di una controversia pendente tra la società RI.SAN. S.r.l. ed il Comune di Ischia, a proposito delle modalità di organizzazione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani attuate dall’ente pubblico territoriale. L’ente comunale aveva istituito, ai sensi della normativa nazionale, legge 142/1990, una società per azioni a capitale misto, alla quale aveva poi affidato il servizio di raccolta dei rifiuti nel territorio comunale; a tale servizio aveva in precedenza provveduto la RI.SAN. S.r.l. Il capitale della socie- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 (19) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 17 dicembre 1998. tà istituita dall’ente locale era detenuto per il 51% dal comune stesso, e per il 49% dalla GEPI (20). La RI.SAN. davanti al giudice amministrativo ha lamentato che la scelta del socio privato avrebbe dovuto essere oggetto di una procedura ad evidenza pubblica, e che il servizio in questione doveva essere attribuito in esito a tale procedura. Il giudice a quo ha ritenuto pregiudiziale ai fini della decisione della causa che la Corte CE si pronunciasse circa l’applicabilità alla fattispecie in esame della deroga di cui all’art. 90.2 del Trattato (21). È mia intenzione sottolineare come a partire dalle cause Arnhem e RI.SAN. gli Avvocati Generali, rispettivamente, La Pergola e Alber, nelle loro conclusioni abbiano optato per un approccio funzionale piuttosto che per uno formale, andando nelle proprie valutazioni oltre la mera qualificazione giuridica del soggetto come società per azioni. Gli Avvocati Generali hanno affermato che la qualificazione giuridica di società per azioni non è di per sé elemento idoneo ad escludere a priori l’appartenenza di questa società all’amministrazione aggiudicatrice. Al contrario, è necessario un ragionamento più complesso, e che coinvolge tutta una serie di indici da tenere in considerazione per dimostrare la “dipendenza” tra l’amministrazione aggiudicatrice e la società per azioni. In particolare, La Pergola ed Alber hanno messo in evidenza due aspetti sintomatici della dipendenza: da una parte l’intreccio finanziario, dall’altra la dipendenza amministrativa, organizzativa e gestionale tra i due soggetti. In entrambe le cause vi era la presenza di un intreccio finanziario, ma, appunto, tale circostanza non era di per sé sufficiente per affermare di essere in presenza di un servizio in house. Gli Avvocati Generali hanno sostenuto la presenza dell’ulteriore necessario elemento di collegamento, e cioè l’influenza esercitata dall’amministrazione sul soggetto aggiudicatario del servizio. La Pergola, nelle sue conclusioni, ha parlato di “mancanza di terzietà”, e della conseguente esistenza di una delega interorganica tra l’amministrazione aggiudicatrice ed il soggetto aggiudicatario del servizio. Riassumendo, nelle cause RI.SAN e Arnhem la dipendenza finanziaria sommata a quella gestionale ed organizzativa tra l’amministrazione aggiudicatrice e la società pubblica escludevano le due fattispecie dall’ambito di applicazione della direttiva comunitaria sui servizi. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (20) Società partecipante a società miste degli enti locali per la gestione dei servizi pubblici locali. (21)Articolo 90.2 Trattato: “Le imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme del Trattato sulla concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non ostacoli l’adempimento della missione affidata a tali imprese”. La Corte di Giustizia, seguendo il ragionamento degli Avvocati Generali, ha stabilito la non obbligatorietà del ricorso alla gara di affidamento, così potendo l’amministrazione aggiudicatrice decidere di svolgerlo direttamente, oppure attraverso il ricorso ad un soggetto legato alla stessa da un rapporto di delega interorganica, escludendo così l’applicazione della direttiva 92/50. 6.3. Sentenza 18 novembre 1999, causa 107/98 Teckal S.r.l. contro Comune di Viano. Il Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia Romagna, nell’ambito della causa dinanzi ad esso pendente tra la Teckal S.r.l. ed il Comune di Viano, ha posto, con una ordinanza del 10 marzo 1998, una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia relativa all’interpretazione dell’art. 6 della direttiva 92/50/CEE, che coordina le procedure d’aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (22). Oggetto della controversia pendente dinanzi al giudice nazionale era l’aggiudicazione, operata dall’ente territoriale, della gestione del servizio di riscaldamento di alcuni edifici comunali. Procedendo ad un rapido studio della normativa nazionale, l’art. 22 della sopra citata legge 142/90 stabiliva che i comuni devono provvedere alla gestione dei servizi pubblici che hanno per oggetto la produzione di beni e le attività volte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. Gli enti locali, secondo tale normativa, potevano fornire tali servizi in concessione a terzi, in economia, o attraverso l’istituzione di una società per azioni a prevalente capitale pubblico locale. Con delibera n. 18 del 24 maggio 1997, il consiglio comunale di Viano ha affidato all’AGAG (23) la gestione del servizio di riscaldamento di alcuni edifici comunali. Tale delibera non è stata preceduta da alcuna procedura di gara. La Teckal è un’impresa privata che opera nel settore dei servizi di riscaldamento, fornendo gasolio e procedendo alla manutenzione degli impianti di riscaldamento a gasolio e di quelli a gas. La società Teckal ha proposto un ricorso contro la delibera comunale dinanzi al giudice amministrativo competente, sostenendo che il Comune di Viano avrebbe dovuto ricorrere alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalla normativa comunitaria in materia. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 (22) Per il contenuto della disposizione si consenta il rinvio a quanto indicato nel par. 6.1. (23) Consorzio costituito da diversi comuni, tra cui quello di Viano, per la gestione dei servizi dell’energia e dell’ambiente. In base all’art. 1 del proprio statuto, esso è dotato di personalità giuridica e di autonomia imprenditoriale. Inoltre lo statuto prevede che gli organi direttivi di tale consorzio non rispondono della loro gestione dinanzi ai comuni. Nella causa Teckal, dunque, la Corte di Giustizia è stata chiamata ad affrontare un’ulteriore ipotesi in house. Sulla scia delle conclusioni dell’Avvocato Generale G. Cosmas, il giudice comunitario ha asserito il principio che nell’ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice intenda stipulare un contratto di appalto con un soggetto che è anch’esso amministrazione aggiudicatrice, si applicherà la normativa comunitaria (e nel caso in questione si trattava della direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture) esclusivamente se tale ente è un ente distinto da essa sul piano formale, ma è altresì autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale. In tal modo, la Corte ha stabilito un principio che dalle sentenze Arnhem e RI.SAN. poteva solamente desumersi. Ma il giudice comunitario per valutare la terzietà del soggetto aggiudicatario ha utilizzato proprio i parametri elaborati dalla giurisprudenza Arnhem e RI.SAN. (indipendenza finanziaria e amministrativa), così instaurando un consolidato orientamento giurisprudenziale. Al contrario, secondo il giudizio della Corte, qualora l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, e tale ente realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione che lo controlla, si prescinderebbe dall’ambito di applicazione della direttiva, perché “un contratto non può essere considerato come stipulato tra persone distinte se l’operatore realizza la parte più importante della propria attività con l’ente territoriale che lo controlla ” (24). Uno dei punti centrali della sentenza qui citata è certamente il concetto di “controllo analogo”. Secondo l’Avvocato generale Kokott, “con l’espressione «controllo analogo a…», la sentenza Teckal vuole sottolineare che le possibilità di influenza esercitate su imprese pubbliche non debbono necessariamente coincidere con quelle esercitate sui propri servizi. Determinante è piuttosto il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia concretamente in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse pubblico. Solo quando un’impresa concretamente si rende autonoma al punto da mettere l’amministrazione aggiudicatrice nell’impossibilità di far valere appieno i propri interessi all’interno dell’impresa, non si potrà più parlare di «controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi»”. Sembra, dunque, a giudizio di chi scrive, che la Corte richieda “solamente” un controllo “analogo”, ma non esattamente coincidente, identico a quello tipico del vertice amministrativo rispetto agli apparati dell’ente pubblico; e comunque non deve trattarsi di un controllo debole né meramente formale, in quanto l’ente locale deve avere la possibilità di far valere in maniera completa i propri interessi nell’ambito dell’impresa (25). 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (24) Punto 50 della sentenza Teckal. (25) In questo senso A. COLAVECCHIO, “Gli affidamenti in house a “future”società miste”, in www.giustamm.it, n. 3/2005. Questa tesi trova autorevole sostegno nell’interpretazione che l’Avvocato generale Kokott fornisce all’espressione «un controllo analogo a …», laddove sostiene che “le possibilità di influenza esercitate su imprese pubbliche non debbono necessariamente essere identiche a quelle esercitate sui propri servizi”. L’Avvocato generale ha adottato nelle sue conclusioni un approccio sostanzialistico, considerando “non tanto il fatto che la pubblica amministrazione, sotto l’aspetto formale, abbia le stesse possibilità giuridiche di influenza che essa ha nei confronti dei propri servizi, quanto il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia in qualunque momento concretamente in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse pubblico” (26). Affinché si applichi “l’eccezione Teckal” deve essere soddisfatto anche il secondo requisito indicato dalla Corte: la società “realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano”. L’Avvocato generale Stix-Hackl nelle sue conclusioni presentate nella causa Stadt Halle (v. infra) ha affermato che, a tal fine, “assumono rilievo le attività effettive, e non anche le attività astrattamente consentite dalla legge o dallo statuto sociale”. Anche l’Avvocato generale Kokott ha privilegiato il ricorso ad un criterio di valutazione basato su elementi di fatto piuttosto che di diritto: egli ha sostenuto l’opportunità di prendere, come punto di riferimento, la concreta attività di ciascuna impresa, in quanto “l’attività svolta concretamente da un’impresa è il migliore criterio per accertare se tale impresa si muove all’interno del mercato come le altre, o se, al contrario, sia così strettamente collegata alla pubblica amministrazione che i contratti con l’amministrazione aggiudicatrice possano essere equiparati a procedure interne, e dunque giustificare una deroga alla disciplina in materia di aggiudicazione di pubblici appalti” (27). Un dato è certo: qualunque sia il significato e la portata che si voglia attribuire alla deroga, il principio affermato dalla Corte di Lussemburgo nella sentenza Teckal sarà in più occasioni richiamato dallo stesso giudice comunitario (28). Una di queste è rappresentata dalla sentenza Arge (29), dove la Corte ha anche esplicitato che se una forma di controllo analogo a quello che l’ammi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 (26) Conclusioni dell’Avvocato generale nell’ambito della causa Parking Brixen. (27) Paragrafo 81 delle conclusioni nell’ambito della causa C- 458/03 Parking Brixen. A. CRISAFULLI, ritiene che per valutare la prevalenza occorra guardare al fatturato della società, in “Affidamento diretto dei servizi pubblici locali (in house providing) e compatibilità col Trattato CE”, in www.lapraticaforense.it. (28) A. LE DONNE e C. PIEROTTI individuano la sentenza Teckal come la “madre” dell’in house, in “Gestione in house dei servizi pubblici locali: contaminazioni, suggestioni, soluzioni”, in ASTRID- Rassegna, n. 5/2006. (29) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 15 giugno 2000, causa 94/99 Arge contro Bundesministerium fur Land und Forstwirtschaft. nistrazione esercita sui propri servizi può sussistere in caso di partecipazione pubblica totalitaria, lo stesso non può dirsi con sicurezza quando la partecipazione pubblica è “solamente” maggioritaria. E comunque è necessario che la partecipazione azionaria si traduca in un vincolo di diretta subordinazione, che non sicuramente sussiste quando, come nella sentenza Arge, la partecipazione nel soggetto aspirante ad una gara bandita da un ente locale è detenuta da parte dello Stato. Le sentenze richiamate rappresentano i primi tentativi della Corte di Giustizia di affrontare il peculiare e delicato “problema” degli appalti in house. Riassumendo, secondo il giudice comunitario esclusivamente nell’ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice concluda un contratto con un soggetto che è qualificabile in termini di delega interorganica con la stessa si esulerà dall’ambito di applicazione della normativa comunitaria. E per compiere tale valutazione si deve ricercare la contemporanea presenza nel rapporto tra i due soggetti della dipendenza formale, di quella economica e di quella amministrativa. Unicamente nell’ipotesi in cui tutti i richiamati requisiti risultino contemporaneamente soddisfatti, l’amministrazione aggiudicatrice risulterà un’unica persona con il soggetto aggiudicatario, una sorta di longa manus, cosicché le norme contenute nelle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici potranno non trovare applicazione. 7. Gli ultimi interventi della Corte di Giustizia. Quella dell’in house è una tematica in continuo sviluppo, attorno alla quale l’intervento della Corte di Giustizia, ma anche della Commissione, è spesso reso necessario dalle condotte degli enti pubblici degli Stati membri dell’Unione. Sono di seguito indicate le più recenti pronunce della Corte di Giustizia in materia di appalti in house. La presenza in questi ultimi anni di un ingente numero di pronunce giurisprudenziali inerenti la questione “in house” se da una parte rende evidente l’importanza dell’argomento, dall’altra sottolinea che si è in presenza di un fenomeno in rapida e continua evoluzione, così che risulta necessario, per una corretto approccio alla materia, conoscere le statuizioni del giudice comunitario che si succedono nell’arco di brevi periodi di tempo (30). 7.1. Sentenza 11 gennaio 2005, Stadt Halle contro TREA Leuna. Con questa pronuncia la Corte di Giustizia ha chiarito che nell’ambito di un rapporto intercorrente tra un’amministrazione aggiudicatrice ed una 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (30) G. MARCHEGIANI, “Gli affidamenti in house e la sindrome del cavallo a dondolo. Sentenze a confronto”, in www.giustamm.it n. 5/2005 ritiene che quella in house sia una materia che richiede un approccio prudente e graduale, nella consapevolezza dei vari interessi in gioco che hanno causato le difficoltà interpretative. società da essa giuridicamente distinta, nella quale tale amministrazione detenga una partecipazione insieme con una o più imprese private, non è ravvisabile una situazione di controllo analogo a quello esercitato dall’ente sui propri servizi. Il giudice nazionale tedesco, l’Oberlaudesgericht Naumburg ha posto due domande pregiudiziali alla Corte di Giustizia nell’ambito della controversia che vedeva come parti contrapposte la Stadt Halle (Città di Halle) e la società RPL Lochau alla società TREA Leuna. La controversia concerneva la regolarità, rispetto alle norme comunitarie, dell’affidamento senza pubblica gara di un appalto di servizi (trattamento di rifiuti), effettuato dalla Stadt Halle a favore della RPL Lochau, una società mista a prevalente capitale pubblico. La TREA Leuna, società anch’essa interessata a fornire quegli stessi servizi, ha presentato un ricorso dinanzi alla competente sezione camerale per gli appalti pubblici del Commissariato di Governo di Halle, affinché l’amministrazione comunale desse avvio ad una pubblica gara di appalto. L’amministrazione comunale si è difesa sostenendo che la società RPL Lochau sarebbe un’emanazione della Stadt Halle, poiché da essa controllata; si tratterebbe, dunque, di un’operazione in house providing, alla quale, come tale, non si applicherebbero le norme comunitarie in materia di appalti pubblici. Dopo che il Regierungsprasidium aveva accolto la domanda della TREA Leuna, l’Oberlandesgericht Naumburg, il giudice d’appello adito dalla Stadt Halle ha deciso di sospendere il procedimento, e ha chiesto se, qualora un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere con una società di diritto privato da essa giuridicamente distinta, nella quale detiene una partecipazione maggioritaria e sulla quale esercita un certo controllo, un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva servizi, tale amministrazione sia tenuta ad applicare le procedure ad evidenza pubblica previste dalla direttiva comunitaria. A tale riguardo il giudice comunitario ha statuito che “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista senza fare appello alla concorrenza pregiudicherebbe quello che è l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata, ed il principio della parità di trattamento dei soggetti interessati”. Ne consegue che nelle ipotesi di affidamento a società mista le procedure previste dalla direttiva comunitaria devono necessariamente essere applicate. Nella sentenza della Corte di Giustizia 11 gennaio 2005 viene, in sostanza, affermato che l’affidamento a società mista non può mai essere definito in house. Il giudice comunitario, inoltre, con questa pronuncia ha chiarito che un’autorità pubblica ha la possibilità di adempiere gli interessi pubblici su di essa incombenti mediante i propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a fare ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 Nel caso di utilizzo di propri strumenti, non è possibile parlare di contratto a titolo oneroso concluso con una entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice e non sussistono, così, i presupposti per l’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici. Il giudice comunitario sembra, quindi, pronunciarsi nel senso dell’inesistenza nell’ambito dell’ordinamento comunitario di alcun obbligo di esternalizzare gli appalti, nel senso di imporne l’affidamento all’esterno attraverso le procedure di gara. In tal modo ha espressamente legittimato il sistema dell’in house providing, inteso come lo svolgimento del servizio attraverso le strutture interne dell’amministrazione (31). In linea con la sentenza Teckal, in questa pronuncia la Corte non ha escluso che possano sussistere alcune circostanze al cui verificarsi il ricorso alla concorrenza non è obbligatorio, nonostante la controparte sia un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Ciò, in particolare, si verifica nelle ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice esercita sull’entità distinta un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità pubblica che la controlla. Ma il giudice comunitario, con questa sentenza, ha statuito che la partecipazione, seppur minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società in cui partecipi altresì l’amministrazione aggiudicatrice esclude sempre e comunque che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un “controllo analogo” a quello che essa esercita sui propri servizi. Il giudice di Lussemburgo ha statuito che il concetto di “controllo analogo” (32) implica che il soggetto su cui tale controllo viene esercitato abbia come sua finalità esclusiva il perseguimento dell’interesse pubblico, e ciò non sarebbe possibile nel caso di partecipazione al soggetto stesso da parte di un imprenditore privato, che per sua natura tende a perseguire anche un interesse proprio, diverso dall’interesse pubblico in senso stretto (33). Concludendo, la partecipazione di un socio privato, anche se minoritaria, secondo la Corte impedisce di considerare la società in questione come 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (31) Si veda nota numero 12. (32) In dottrina si auspica che la Corte fornisca ulteriori elementi utili a definire il concetto di “controllo analogo”, precisando quale forma ed intensità deve avere il pubblico potere esercitato sulla società perché questa possa considerarsi una organizzazione strumentale dell’amministrazione, e non un soggetto del tutto autonomo. In particolare, F. BUONANNO “Servizi pubblici locali: appalti in house e rispetto delle regole comunitarie sulla concorrenza” in AvvocatiAmministrativisti.it. Secondo M. Calcagnile, “la figura dell’in house providing non può essere riconosciuta qualora, tra l’amministrazione pubblica e la figura di gestione, vi sia separatezza organizzativa ed autonomia decisionale dimostrate, ad esempio, dal fatto che si addivenga alla stipula di un contratto quale incontro di “distinte volontà”, opera citata. (33) A. CLARIZIA, “Il privato inquina: gli affidamenti in house solo a soggetti a totale partecipazione pubblica”, in www.giustamm.it. un’articolazione organizzativa dell’ente committente, non consente di parlare di società in house e di procedere all’affidamento senza gara. In secondo luogo, l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista senza fare appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata, ed il principio della parità di trattamento dei soggetti interessati: una siffatta procedura garantirebbe ad un’impresa privata un vantaggio nei confronti dei suoi concorrenti. Nell’ambito dell’ampio dibattito dottrinario sul punto, se alcuni autori hanno ritenuto le argomentazioni sulle quali si fonda questo orientamento del giudice comunitario “quantomeno opinabili” (34), altri, al contrario, hanno accolto favorevolmente questa impostazione fortemente restrittiva, riconoscendola come “lapalissiana” (35). Qualche perplessità solleva la considerazione dell’interesse privato come necessariamente e aprioristicamente incompatibile con l’interesse pubblico che guida l’ente locale (36). Inoltre, a tale orientamento della Corte si può obiettare che l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista non pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata qualora il privato debba essere scelto con procedure di evidenza pubblica. Autorevole dottrina ha sottolineato che la conseguenza di questo orientamento giurisprudenziale sia la fine dell’utilizzo dello strumento societario (con la connessa perdita delle capacità imprenditoriali dei soggetti privati) in quanto, da una parte, l’amministrazione non potrà più aprirsi ai privati a causa della conseguente perdita della possibilità di affidare direttamente il servizio, e, dall’altra, il privato non avrà più interesse a partecipare ad una società pubblica, dominata dalle logiche politiche (37). Il descritto convincimento viene ribadito dalla Corte di Giustizia, pochi mesi dopo, con la decisione nella causa Co.Na.Me. (38) a mezzo della quale il giudice comunitario ha escluso la possibilità di affidamenti in house nelle IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 (34) M. URSO, “Il requisito del controllo analogo negli appalti in house”, nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 12/2006; in senso critico si segnala anche M. Didonna, “…sorprende l’aver ritenuto, con intenzione generalizzante, l’antagonismo genetico dell’interesse pubblico con quello portato dai privati, atteso che odiernamente numerose funzioni pubblicistiche i differenti ordinamenti legislativi nazionali le assegnano direttamente proprio alla cura dei privati (ritenendola più efficace)”, in “Il caso, chiuso, degli appalti in house”, nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 4/2006. (35) Cfr. la nota a sentenza di C. GUCCIONE, in Giornale di Diritto Amministrativo, 2005; in senso favorevole si indica anche R. URSI, “Una svolta nella gestione dei servizi pubblici locali: non c’è casa per le società a capitale misto”, in Foro It., 2005, IV. (36) Cfr. V. OTTAVIANO, “Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni”, in Rivista delle società e Scritti giuridici, II. (37) M.P. CHITI, “Verso la fine del modello di gestione dei servizi pubblici locali tramite società miste”, in Foro Amm. TAR, 2006. (38) Decisione 21 luglio 2005, C-231/03. ipotesi in cui il soggetto aggiudicatore sia partecipato da privati. La presenza del privato sarebbe idonea, ex se, a precludere la spendibilità di un “controllo analogo” (39). 7.2. Sentenza 13 ottobre 2005 Parking Brixen GmbH contro Comune di Bressanone. La causa 458/03 riguarda l’affidamento di un contratto da parte del Comune di Bressanone ad una società controllata al 100%. Non si tratta, quindi, di una società mista pubblico-privata Si è, dunque, in una situazione differente da quella affrontata a Lussemburgo nella causa Stadt Halle. Il 23 luglio 2003 il Verwaltungsgericht Autonome Sektion fur die Bozen ha effettuato una domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia concernente l’interpretazione della direttiva 92/50, nell’ambito della controversia dinanzi ad esso pendente tra, da una parte, la società Parking Brixen e, dall’altra, il Comune di Bressanone e la società Stadtwerke Brixen AG in ordine all’aggiudicazione a quest’ultima della gestione dei parcheggi situati nel territorio comunale. Davanti al giudice nazionale la Parking Brixen ha contestato l’attribuzione alla Stadtwerke Brixen della gestione dei parcheggi in quanto, secondo la parte ricorrente, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto applicare la normativa comunitaria in materia. Le parti convenute hanno affermato l’inesistenza dell’obbligo di effettuare una pubblica gara nel caso di specie, in quanto il Comune controlla per intero la società per azioni: la Stadtwerke Brixen non sarebbe, dunque, un ente indipendente dall’ente comunale. Il giudice comunitario ha osservato che dall’ordinanza di rinvio il controllo dell’amministrazione comunale sulla società partecipata è di tipo precario. In particolare rilevano in tal senso due fattori: l’apertura obbligatoria, a breve termine, della società ad altri capitali; i considerevoli poteri conferiti al consiglio di amministrazione della società. La Corte ha statuito che qualora un ente concessionario fruisca di un elevato margine di autonomia, caratterizzato da elementi come quelli messi in luce dall’ordinanza di rinvio, è escluso che l’autorità pubblica concedente eserciti sull’ente concessionario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi. Nel caso di specie, l’amministrazione pubblica deteneva sì il 100% delle quote societarie al momento dell’affidamento della gestione dei servizi, ma sulla stessa gravava l’obbligo di cedere la posizione di azionista unico in cambio di una partecipazione di maggioranza entro due anni dalla trasformazione dell’azienda speciale (40). 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (39) Cfr. M. DIDONNA, op. cit. (40) Si veda l’art. 88 del Testo Unico sull’ordinamento dei comuni della Regione Trentino-Alto Adige. Il semplice fatto che l’amministrazione aggiudicatrice sia obbligata ad aprire il capitale della società per azioni alla partecipazione di terzi, ed il fatto che gli organi di tale società godano di ampi poteri, esclude che l’ente pubblico possa esercitare su tale società un “controllo analogo”. Il principio affermato nella sentenza Parking Brixen, non condiviso da una parte della dottrina (41), pone gravi incertezze in un contesto, quale quello nazionale, caratterizzato dalla presenza di società a socio unico strutturate analogamente alla società di Bressanone. Inoltre, alcune perplessità può suscitare la sanzione di illegittimità dell’affidamento diretto in presenza di una previsione statutaria di apertura ai privati, in concreto non verificata, in quanto l’eventuale lesione dell’interesse pubblico non appare attuale (42): in tal modo il giudice comunitario ha stabilito che il conflitto tra interesse pubblico e interesse privato, che impone il procedimento di gara, può essere anche meramente potenziale e futuro (43). La giurisprudenza amministrativa più recente ha affermato che la decisione Parking Brixen fornisce un’interpretazione autentica della sentenza Teckal, ed ha sostenuto l’insufficienza dei poteri spettanti all’ente pubblico come socio ai fini dell’esistenza del “controllo analogo”, escludendo così dall’eccezione in house le ipotesi in cui il consiglio di amministrazione della società pubblica detiene poteri ampi e non bilanciati da efficaci poteri di controllo (44). Se con la sentenza Stadt Halle la Corte ha escluso la possibilità di affidamenti diretti quando il soggetto aggiudicatore è partecipato da privati, con la più recente sentenza Parking Brixen il giudice comunitario si è spinto ancora oltre sancendo l’illegittimità dell’affidamento diretto nel caso in cui, nonostante la titolarità totalmente pubblica del gestore, non sembra comunque possibile che la pubblica amministrazione possa esercitare quel “controllo analogo” (45). 7.3. Sentenza 10 novembre 2005 Commissione contro Repubblica di Austria. La Commissione europea il 28 gennaio 2004 ha proposto un ricorso ai sensi dell’art. 226 del Trattato con il quale ha chiesto alla Corte di accertare IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 (41) A. GRAZIANO, “Servizi pubblici locali: modalità di gestione dopo le riforme di cui alla legge 2003 n.326 e alla legge 2003 n.350 e compatibilità con il modello dell’in house providing alla luce delle ultime pronunce della Corte di Giustizia”, in www.giustizia-amministrativa. it (42) In questo senso, M. URSO, op. cit. (43) M. DIDONNA, op. cit. (44) Si veda Consiglio di Stato, 13 luglio 2006, n. 4440. (45) A. CLARIZIA, “La Corte suona il de profundis dell’in house providing”, in www.giustamm.it n. 10/2005, in cui l’Autore ha indicato come in tal modo il giudice comunitario ha voluto rinnegare l’esistenza degli affidamenti in house. e di dichiarare che, poiché il contratto relativo allo smaltimento dei rifiuti della città di Modling è stato stipulato senza l’osservanza delle norme di procedura e di pubblicità risultanti dalla direttiva 92/50/CEE, la Repubblica di Austria è venuta meno agli obblighi che su di essa incombono in base a tale direttiva. Ritengo opportuno richiamare questa pronuncia del giudice comunitario in quanto confermativa dell’indirizzo intrapreso nella sentenza Stadt Halle. Nel maggio 1999 il consiglio comunale ha creato un organismo indipendente allo scopo di fornire prestazioni di servizi in materia di gestione ecologica dei rifiuti, e di realizzare le relative operazioni commerciali. È stata così istituita la società Stadtgemeinde Modling Abfallwirtschaftsgmbh (in seguito: Abfall), il cui capitale sociale è interamente detenuto dalla città di Modling. Il 25 giugno 1999 il consiglio comunale ha incaricato, a titolo esclusivo, della gestione dei rifiuti sul territorio comunale la società Abfall, ma, nel mese di ottobre, ha ceduto il 49% delle quote della Abfall alla società Saubermacher. Dal 1 dicembre 1999 al 31 marzo 2000 la società Abfall ha svolto la sua attività esclusivamente per conto della città di Modling. Successivamente essa ha fornito prestazioni anche a soggetti terzi, in particolare ad altri comuni dello stesso distretto. Dopo aver invitato la Repubblica d’Austria a presentare le proprie osservazioni, il 2 aprile 2003 la Commissione ha inviato un parere motivato, nel quale ha constatato le violazioni delle disposizioni della direttiva 92/50/CEE, in quanto l’amministrazione comunale non aveva indetto una gara d’appalto per l’attribuzione del contratto relativo allo smaltimento dei rifiuti. In risposta a tale parere motivato, la Repubblica d’Austria ha affermato che la conclusione del contratto in questione non rientrava nell’ambito di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, in quanto riguardava un’operazione interna tra il Comune e la società Abfall. Non essendo rimasta soddisfatta di tale risposta, la Commissione ha deciso di proporre ricorso all’organo giurisdizionale comunitario. In particolare, la Commissione ha sostenuto che, dal momento che ricorrono tutte le condizioni per l’applicazione della direttiva 92/50/CEE, le norme di procedura definite dalla stessa e le sue regole di pubblicità erano pienamente applicabili al caso di specie, e che non sussisteva alcun elemento che potesse dimostrare l’esistenza di un rapporto interno tra il Comune di Modling e la società Abfall. L’organo comunitario ha a tal fine richiamato la sentenza Teckal. In particolare, la Commissione ha sostenuto che, nel caso in cui un’impresa privata detenga delle quote nella società aggiudicataria, occorre presumere che l’amministrazione aggiudicatrice non possa esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”. Quindi, una partecipazione minoritaria di un’impresa privata sarebbe sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna. 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nella sentenza Stadt Halle la Corte ha già esaminato la questione, statuendo che la partecipazione, anche di minoranza, di un’impresa privata nel capitale di una società in cui partecipa altresì l’autorità aggiudicatrice esclude in ogni caso che tale autorità possa esercitare un “controllo analogo” a quello da essa esercitato sui propri servizi (46), e che l’aggiudicazione di un appalto pubblico ad un’impresa ad economia mista senza fare appello alla concorrenza comprometterebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata, in quanto tale procedura offrirebbe alla società privata presente nel capitale di tale impresa un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti (47). 7.4. Sentenza 6 aprile 2006, Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori contro Comune di Bari. La presente questione è sorta nell’ambito di una controversia tra l’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (in prosieguo: “ANAV”) da un lato, e il Comune di Bari e l’AMTAB Servizio S.p.A. dall’altro, e concernente l’affidamento effettuato a quest’ultima del servizio di trasporto pubblico sul territorio di detto Comune. L’art.14 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 ha modificato l’art. 113 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. La nuova versione, quinto comma, stabilisce che l’erogazione del servizio deve avvenire secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa comunitaria, con conferimento della titolarità del servizio: a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica; a società a capitale misto nelle quali il socio privato viene scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica; a società a capitale interamente pubblico, a condizione che l’ente titolare del capitale sociale eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente che la controlla. Nella causa in questione l’AMTAB è una società per azioni il cui capitale è interamente posseduto dal Comune di Bari, e la cui attività consiste nel fornire un servizio di trasporto pubblico sul territorio dell’ente locale. Con provvedimento datato 17 luglio 2003, l’amministrazione comunale ha avviato una procedura di gara ad evidenza pubblica al fine di affidare il servizio di trasporto pubblico; tuttavia, essendo intervenuta la modifica dell’art. 113 del D.Lgs. 267/2000, il Comune ha abbandonato tale procedura e ha affidato direttamente il servizio all’AMTAB. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 (46) Sentenza Stadt Halle, punto 49. (47) Sentenza Stadt Halle, punto 51. L’ANAV ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia di annullare il provvedimento di affidamento del servizio, lamentando la violazione del diritto comunitario. Di fronte a tale censura il giudice amministrativo ha sospeso il procedimento e ha posto un quesito alla Corte: la compatibilità con il diritto comunitario, ed in particolare con gli obblighi di trasparenza e di libera concorrenza, dell’art. 113, comma quinto del D.Lgs. 267/2000, come modificato dal legislatore del 2003, nella parte in cui non pone alcun limite alla libertà di scelta dell’Amministrazione pubblica tra l’affidamento mediante procedura di gara ad evidenza pubblica e l’affidamento diretto a società da essa interamente controllata. In altri termini, il giudice nazionale ha sottoposto la questione circa l’esistenza del gioco concorrenziale in Italia, messo in pericolo dal sistema dell’in house providing, che assegna un potere di scelta ampio, secondo alcuni troppo (48), in relazione al possibile affidamento del servizio. La parte ricorrente ha sostenuto che, attraverso il D.L. 269/2003, il legislatore nazionale ha realizzato una controriforma nel settore dei servizi pubblici locali, in netta controtendenza rispetto alle istanze di liberalizzazione del sistema attuato, dopo le sollecitazioni della Commissione europea, dall’art. 35 della Legge 28 dicembre 2001, n. 448, che prevedeva come generale il ricorso alla gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di appalti o concessioni aventi ad oggetto la gestione di servizi pubblici locali. Il dubbio che ha portato il giudice a quo a sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia riguarda la portata del nuovo art. 113: nell’ordinanza del T.A.R. è segnalato come anche le stesse istituzioni comunitarie, pur riconoscendo l’ammissibilità della fattispecie di affidamento in house, la considerino una ipotesi eccezionale, così dando per scontato che l’ipotesi “normale” sia costituita dall’affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica. Il legislatore italiano del 2003, invece, inverte questo rapporto, rendendo generale un sistema che il diritto comunitario vorrebbe meramente eccezionale (49). Lo stesso dubbio è stato posto alla Corte di Giustizia dal Consiglio di Stato (50), che ha espresso la preoccupazione che l’affidamento diretto, divenuto una pratica assai frequente, possa sottrarre aree assai ampie di attività economica all’iniziativa imprenditoriale privata. Il Consiglio di Stato, dunque, ha manifestato una tensione verso la correzione del sistema e verso l’apertura definitiva del mondo dei servizi pubblici, in modo da favorire sì la concorrenza, ma anche la crescita dei servizi stessi sotto i profili dell’efficienza, dell’economicità e della trasparenza. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (48) PAOLO LOTTI, “Affidamento in house nei servizi pubblici locali e pregiudizio per la concorrenza” nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 2/2005. (49) In questo senso, P. LOTTI, op. cit. (50) Consiglio di Stato, sentenza 22 aprile 2004, n. 2316. I giudici di Lussemburgo hanno risposto a tale quesito affermando che una normativa nazionale che riprende testualmente le condizioni indicate dalla Corte (“controllo analogo”; svolgimento della parte più importante della propria attività con l’autorità concedente), come fa l’art. 113, quinto comma, del D.Lgs. 267/2000, come modificato, è in linea di principio conforme al diritto comunitario. La Corte, però, ha precisato che, trattandosi di un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le due condizioni devono essere interpretate restrittivamente, e l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava sul soggetto che intende avvalersene (51). La Corte ha poi aggiunto che qualora durante la vigenza del contratto, il capitale della società partecipata fosse aperto ad azionisti privati, la conseguenza di ciò sarebbe l’affidamento di una concessione di servizi pubblici ad una società mista senza procedura concorrenziale, e la partecipazione, ancorché minoritaria, di un’impresa privata nel capitale di una società alla quale partecipa anche l’autorità concedente esclude che la detta autorità possa esercitare su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (52): se la società concessionaria è una società aperta al capitale privato tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione “interna” di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (53). 7.5. Sentenza 11 maggio 2006 Carbotermo S.p.A. e Consorzio Alisei contro Comune di Busto Arsizio e AGESP S.p.A. Nella causa 340/2004 il giudice comunitario ha esaminato il caso in cui un ente locale eserciti la sua influenza sulla società aggiudicataria non direttamente, ma attraverso una società holding, considerando le implicazioni che possono incidere sulla sussistenza del “controllo analogo”. La AGESP Holding S.p.A. è una società per azioni il cui capitale sociale appartiene per il 99,98% al Comune di Busto Arsizio. La AGESP è una società per azioni costituita dalla AGESP Holding ed il cui capitale sociale appartiene per il 100% a quest’ultima. Con deliberazione del 18 dicembre 2003 l’ente comunale ha affidato un appalto per la fornitura di combustibili, nonché per la manutenzione e riqualificazione tecnologica degli impianti termici degli edifici comunali direttamente alla AGESP. L’amministrazione comunale ha motivato tale decisione adducendo che tale impresa soddisfaceva i due requisiti stabiliti dalla giurisprudenza comu- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 (51) V. sentenze Stadt Halle, punto 46, e Parking Brixen, cit., punto 63. (52) V. in tal senso, sentenza Stadt Halle, punto 49. (53) V. in tal senso, sentenza Coname, cit., punto 26. nitaria per concludere appalti pubblici senza gara. In particolare, nella decisione l’ente comunale sostiene che la detenzione del 99% del capitale dell’impresa attesta un rapporto di subordinazione nei confronti di quest’ultima, e che anche l’ulteriore requisito era soddisfatto nel caso di specie. La Carbotermo ed il Consorzio Alisei hanno impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia la deliberazione che ha affidato l’appalto all’AGESP, in quanto non ricorrevano le condizioni che rendono inapplicabile la direttiva. Il giudice amministrativo ha sospeso il procedimento e ha sottoposto la questione alla Corte CE. Il giudice di Lussemburgo ha analizzato lo statuto della società partecipata, rilevando che esso attribuisce al consiglio di amministrazione i più ampi poteri per la gestione ordinaria e straordinaria della stessa, e non riserva al Comune di Busto Arsizio nessun potere di controllo o diritto di voto particolare per limitare la libertà d’azione riconosciuta a detto consiglio. Il controllo esercitato dall’amministrazione comunale, in queste condizioni, si risolve sostanzialmente nei poteri che il diritto societario riconosce alla maggioranza dei soci, la qual cosa limita il suo potere di influire sulle decisioni della società (54). Esaminando la problematica in house ad ipotesi di “partecipazioni indirette”, la Corte ha statuito l’incompatibilità di un affidamento diretto nei casi in cui la gestione non è affidata al soggetto a cui l’ente locale partecipa direttamente, bensì ad una società da questa controllata, in quanto in queste ipotesi il controllo dell’ente pubblico sulle decisioni della società controllata subisce un potenziale indebolimento (55). La Corte ha affermato in questa pronuncia l’impossibilità di ricorrere ad un affidamento diretto di un appalto pubblico ad una società per azioni il cui consiglio di amministrazione possiede ampi poteri di gestione esercitabili in maniera autonoma ed il cui capitale sociale è detenuto non dall’amministrazione aggiudicatrice, bensì da un’altra società, di cui l’amministrazione aggiudicatrice sia socio di maggioranza. È probabilmente ravvisabile, nella sua più recente pronuncia, un atteggiamento meno rigido del giudice comunitario in ordine ai presupposti del controllo analogo, laddove, pur confermando che l’ente pubblico deve potere influenzare le decisioni della società partecipata in maniera determinante «sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti», ha riconosciuto 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (54) Nel senso che i normali strumenti che il socio esercita in assemblea, secondo le regole del diritto commerciale, non sono idonei a garantire la possibilità di intervenire in maniera cogente sui poteri e sulle decisioni degli organi gestionali dell’impresa, neppure nel caso di partecipazione totalitaria, si veda R. GOSO, “Modelli di gestione dei servizi pubblici locali: affidamento mediante gara pubblica e in house providing”, nella rivista Urbanistica e Appalti, n. 5/2006. (55) In questo senso, MANGIAVACCHI L., op. cit. una presunzione di controllo analogo in quelle ipotesi in cui la società sia posseduta per intero dall’amministrazione aggiudicatrice, anche se tale situazione non viene ritenuta decisiva. Dall’analisi delle indicate sentenze si è potuto riscontrare il tentativo della Corte di Giustizia di elaborare criteri precisi per la soluzione delle ipotesi in house. L’esistenza di un ente distinto è facile da concepire, in quanto è sufficiente accertare che l’operatore economico sia costituito sotto una forma giuridica diversa da quella dell’amministrazione aggiudicatrice. Al contrario, non sempre è agevole rendersi conto del grado di effettiva autonomia di cui l’ente dispone. In particolare, la natura del controllo esercitato dal soggetto pubblico su un organismo giuridicamente distinto, o il livello a partire dal quale si può ritenere che quest’ultimo svolga la parte essenziale della sua attività con l’autorità pubblica dalla quale dipende, in determinate circostanze possono suscitare (ancora) gravi incertezze (56). Tuttavia, malgrado il persistere di queste incertezze, ad avviso di chi scrive risulta evidente che i più recenti indirizzi della Corte di Lussemburgo mostrino una decisa tensione del giudice comunitario verso la chiusura al fenomeno dell’in house providing. Non resta che attendere ulteriori precisazioni da parte del giudice comunitario. 8. Giurisprudenza nazionale in materia di affidamenti in house. Anche i giudici nazionali in questi ultimi anni si sono trovati dinanzi al sistema dell’in house providing. In particolare, sono di seguito richiamate alcune sentenze del giudice amministrativo particolarmente significative. 8.1. T.A.R. Lombardia-Milano, sentenza 17 luglio 2006, n. 1837. Con questa sentenza il T.A.R. di Milano ha accolto il ricorso presentato dalla parte ricorrente, impresa privata, che intendeva farsi affidataria della gestione del servizio di pulizia ed igiene presso il Comune di Cormano, contro le determinazioni dell’amministrazione comunale che aveva proceduto all’affidamento diretto del servizio ad un ente societario (A.M.S.A. S.p.A. e la collegata AMSATRE S.r.l.) completamente partecipato da un altro ente locale (il Comune di Milano). Il modello dell’in house providing, ha statuito il giudice amministrativo in questa sentenza, implica che la società affidataria sia nient’altro che una sorta di diramazione organizzativa dell’ente locale, priva di una sua IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 (56) In questo senso, IGOR SECCO, “La compatibilità con il diritto comunitario del modello di affidamento diretto dei servizi pubblici locali” in Osservatorio di diritto comunitario e nazionale sugli appalti pubblici. autonomia imprenditoriale e di capacità decisionali distinte da quelle dell’ente stesso (57). Il tribunale amministrativo ha affermato che il requisito del “controllo analogo”, richiesto dai giudici comunitari e ripreso dal legislatore italiano (58), implica un “controllo strutturale” sul soggetto affidatario da parte dell’amministrazione aggiudicatrice quale condizione necessaria e imprescindibile per la configurazione dell’in house providing. Il controllo strutturale, tuttavia, secondo il T.A.R. non implica necessariamente l’integrale partecipazione pubblica al capitale sociale, ma può consistere tanto nel potere di nominare la maggioranza dei soggetti che compongono gli ordini di amministrazione, direzione o vigilanza dell’ente in house, quanto nell’adozione di qualsiasi altro mezzo idoneo ad assicurare un’effettiva dipendenza formale, economica ed amministrativa di quest’ultimo rispetto all’amministrazione controllante (59). Secondo l’orientamento della giurisprudenza comunitaria e nazionale, il controllo analogo sussiste ogniqualvolta si accerti l’esistenza di uno stringente controllo gestionale e finanziario dell’ente pubblico sulla società partecipata, in modo tale che i compiti affidati alla società saranno trattati come se fossero stati ad essa delegati dall’amministrazione. Nel caso di specie, il giudice amministrativo ha ritenuto che l’amministrazione comunale non fosse nella condizione di esercitare quel controllo gestionale e finanziario stringente, tale da assimilare il rapporto esistente tra i due soggetti ad una relazione di vera e propria subordinazione gerarchica, come ritenuto indispensabile dalla più recente giurisprudenza amministrativa (60). 8.2. Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 13 luglio 2006 n. 4440. La pronuncia in commento presenta aspetti di rilevante interesse nell’enunciazione della sostanza del requisito del “controllo analogo”. Con questa decisione il Consiglio di Stato ha accolto la regola, di derivazione comunitaria, secondo la quale le società a capitale pubblico non possono vedersi affidare direttamente appalti e concessioni da parte degli enti 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (57) Punto 4.3 della sentenza. (58) L’articolo 113, comma 5 del D. Lgs. n. 267/2000, nella formulazione dettata dal legislatore del 2003, dispone alla lett. c) che i servizi di rilevanza economica possono essere erogati anche a mezzo di “società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”. Nel senso che la scelta compiuta dal legislatore statale trovi la sua ratio nell’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alle regole europee, M. CALCAGNILE, C. BONORA, op. cit. (59) Cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 22 aprile 2004, n. 2316. (60) Cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, 25 gennaio 2005, n. 168. pubblici di riferimento, stante l’insufficienza del controllo societario di diritto commerciale per assicurare quel “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”, condizione per l’operatività dell’eccezione dell’in house providing (61). Secondo una parte della dottrina, in passato il giudice comunitario aveva lasciato intendere che il possesso della totalità del capitale da parte dell’ente pubblico aggiudicatore consentisse la possibilità di configurare un assetto in cui l’ente proprietario della S.p.A. locale potesse detenere quel “controllo analogo”. In particolare, quando il giudice comunitario nella sentenza Stadt Halle (v. supra) ha affermato che l’affidamento a società mista non può mai essere definito in house, si poteva ipotizzare, a contrario, che la sussistenza del “controllo analogo” fosse ravvisabile in quelle ipotesi in cui l’amministrazione aggiudicatrice fosse titolare dell’intero pacchetto azionario (62). In tal senso si è pronunciato il Consiglio di Stato nella decisione n. 7345 del 22 dicembre 2005 (63). Con la sentenza Parking Brixen (v. supra), però, la Corte di Giustizia ha approfondito l’analisi delle caratteristiche del“controllo analogo”, rendendo di fatto impossibile un’interpretazione in tal senso (64). Ai principi affermati a Lussemburgo si è conformato il Consiglio di Stato con questa decisione, con la quale ha annullato il provvedimento comunale che affidava direttamente la gestione dei parcheggi pubblici ad una società a capitale comunale. In primo luogo, i giudici di Palazzo Spada hanno stabilito che il possesso dell’intero capitale sociale da parte dell’ente pubblico, pur astrattamente idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota di esso, seppur minoritaria, possa essere alienata a terzi (65). In secondo luogo, il giudice amministrativo ha preso in considerazione l’ampiezza dei poteri del consiglio di amministrazione secondo la disciplina risultante dallo statuto. A tale riguardo ha affermato che se il consiglio di amministrazione dispone della facoltà di adottare tutti gli atti ritenuti neces- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 (61) In senso analogo, Consiglio di Stato, sezione V, 30 agosto 2006, n. 5072. (62) G. LECCISI, “Ancora dubbi sul concetto di controllo analogo in materia di in house. Nota a sentenza del C.d.S. del 13 luglio 2006, n. 4440”, in www.giustamm.it. (63) In ragione dell’indicata tendenza della giurisprudenza amministrativa nazionale ad identificare il “controllo analogo” con il semplice controllo societario totalitario, M. GIORELLO ha denunciato la distonia tra la giurisprudenza comunitaria e quella interna, in “L’affidamento dei servizi pubblici locali tra diritto comunitario e diritto italiano”, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2004, n. 3, 4. (64) MANGIAVACCHI L., op. cit, ritiene che fino alla sentenza Parking Brixen la giurisprudenza comunitaria aveva identificato il controllo analogo, sic et simpliciter, nel possesso della totalità del capitale sociale da parte dell’ente pubblico controllante. (65) Nel caso di specie, nello statuto era prescritto che il Comune dovesse conservare solamente il 51% del capitale sociale. sari per il conseguimento dell’oggetto sociale, i poteri attribuiti alla maggioranza dei soci dal diritto societario non sono sufficienti a consentire all’ente di esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. L’autonomia del C.d.A. incide sulla qualità del controllo. Riassumendo, il Consiglio di Stato, nel confermare i principi della sentenza Parking Brixen, ha statuito che i requisiti dell’affidamento in house non sussistono nel caso in cui il capitale della società affidataria sia “aperto” ai privati. Rilevante, a tal fine, è altresì l’ampiezza dei poteri del consiglio di amministrazione, valutati secondo la disciplina risultante dallo statuto. Con questa sentenza, la giurisprudenza amministrativa italiana mira esplicitamente ad allineare, in maniera rigorosa, la propria posizione a quella della Corte di Lussemburgo (66). 9. I riflessi del decreto Bersani in materia di appalti. Il tema dell’in house torna di grande attualità a seguito della previsione contenuta nell’art. 13 della legge 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani) (67). Si tratta del decreto meglio noto come pacchetto “cittadino-consumatore”, il cui obiettivo di fondo consiste nell’introdurre un maggiore tasso di concorrenza e liberalizzazione nel sistema economico nazionale. La disciplina contenuta nel decreto Bersani riapre la strada alla possibilità di configurare l’affidamento in house, nel tentativo di invertire quell’indirizzo giurisprudenziale (sopra ampiamente analizzato) particolarmente 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (66) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 13 ottobre 2005 Parking Brixen; sentenza 11 maggio 2006 Carbotermo. (67) Si riporta qui, per comodità di lettura, il testo dell’articolo citato: “1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. 2. Le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1. 3. Al fine di assicurare l’effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla entrata in vigore del presente decreto le attività non consentite. A tale fine possono cedere le attività non consentite a terzi oppure scorporarle, anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto legge 31 maggio 1994, n.332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi. 4. I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli.” (corsivi aggiunti). restrittivo (68). Ed è in questo contesto, decisamente sfavorevole al fenomeno dell’in house a favore di società, che si inserisce il decreto Bersani. La ratio della disciplina ivi prevista è evitare effetti distorsivi della concorrenza. Ma allo stesso tempo il legislatore si è mostrato sensibile alla necessità di non precludere del tutto l’utilizzo da parte degli enti pubblici di un modello caratterizzato da una particolare efficienza gestionale. Il legislatore nazionale è intervenuto solamente sul tema degli appalti in house, lasciando dunque fuori il settore dei servizi pubblici locali: ne consegue che le società di gestione dei servizi pubblici locali sono sottratte alla disciplina risultante dal decreto Bersani, in vista di una loro generale riforma (69). Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della normativa, la disciplina prevista dall’art. 13 è riferita esclusivamente alle società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali. Manca, come si può vedere, ogni riferimento ad amministrazioni o ad enti statali, cosicché le relative società sono da ritenersi escluse dall’ambito di applicazione della disposizione (70). L’art. 13 stabilisce un particolare regime giuridico per le società che rientrano nell’ambito di applicazione di questa normativa (71). Innanzitutto tali società non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti, pubblici o privati che siano. In altre parole, la normativa richiede una corrispondenza soggettiva tra enti pubblici titolari del capitale sociale ed enti beneficiari delle prestazioni effettuate da tale società. La società deve svolgere tutta la sua attività, e non solo la parte principale di essa, a favore dell’ente socio: deve operare solo per quest’ultimo. Sotto questo profilo il decreto Bersani detta una disciplina più rigorosa rispetto agli indirizzi della giurisprudenza comunitaria, che non esige l’esclusività a favore dell’ente affidante e che, invece, ammette che la società pubblica svolga anche un’attività a favore di altri soggetti (anche se essa deve avere solo carattere marginale) (72). In secondo luogo, è stabilito per queste società il divieto di partecipare ad altre società o enti (comma 1). Lo scopo della disposizione è evidente- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 (68) R. MANGANI, “Il decreto Bersani resuscita l’in house?”, in www.giustamm.it;in termini analoghi V. ANTONIAZZI, “Novità nell’affidamento diretto in house”, in www.avvocatiinteam. com. (69) Il governo ha predisposto su proposta del Ministro degli Affari Regionali Linda Lanzillotta il disegno di legge 20 luglio 2006, che verte in materia di servizi pubblici locali. (70) In questo senso, S. ROSTAGNO, “Criticità delle soluzioni e prospettive del decreto Bersani in tema di modello in house, affidamenti diretti e contratti a valle, in www.giustamm. it, agosto 2006. (71) R. GIANI, “Le novità del decreto Bersani in materia di giustizia, appalti e pubblica amministrazione”, nella rivista Urbanistica e appalti, n.10/2006. L’operare delle società pubbliche in violazione dei limiti previsti dall’art.13 è sanzionato con la previsione della nullità (comma 4). (72) Da ultimo, Corte CE 11 maggio 2006, punto 63. mente evitare che, attraverso l’acquisizione di partecipazioni azionarie, si eluda in via indiretta l’obbligo di svolgere attività esclusivamente per i propri azionisti. Ma anche un altro obiettivo può avere ispirato questa disposizione: la possibilità di agire tramite società controllate consentirebbe alla società in house di sfruttare il vantaggio competitivo che deriva loro dall’essere affidatarie dirette e privilegiate di alcuni servizi, affrontando così la concorrenza da una posizione di vantaggio, anche derivante dagli utili conseguiti attraverso le attività “protette” (73). Infine, è prescritto che tali società abbiano come oggetto sociale esclusivo la produzione di beni e servizi strumentali all’attività degli enti partecipanti, o lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza. In tal modo, il legislatore ha voluto evitare che queste società possano diversificare i loro ambiti di attività estendendole in settori diversi ove deve pienamente operare il regime della concorrenza. Il legislatore nazionale stabilendo questa disciplina sembra aver voluto configurare un nuovo modello di affidamento in house a favore di società, in modo da superare quella posizione giurisprudenziale che nega la possibilità di configurare il requisito del “controllo analogo” nelle ipotesi in cui il soggetto partecipato sia costituito in forma societaria. Al sussistere delle indicate condizioni, ed in particolare, se la società opera in via esclusiva per l’ente pubblico di riferimento, si elimina alla radice il rischio che, attraverso la sua presenza in settori diversi, si producano effetti distorsivi della concorrenza. A queste condizioni ritengo che l’affidamento in house a favore di società dovrebbe legittimamente riprendere campo, in quanto il dichiarato obiettivo di «evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori» non potrebbe essere pregiudicato (74) dalla presenza di società che rispondano agli indicati requisiti. Dubbi, invece, permangono ancora in relazione alle società miste, in cui le censure mosse dal giudice comunitario, e concernenti la presenza del socio privato, appaiono difficilmente superabili. 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (73) L. MANASSERO, “Profili problematici dell’art.13 del D.L.4 luglio 2006, n. 233 in tema di affidamento in house”, in www.altalex.com. (74) R. MANGANI, op. cit., ritiene che la strada tracciata dal decreto Bersani si presenti come un intelligente tentativo per consentire gli affidamenti in house almeno a favore delle società a totale partecipazione pubblica. L’abuso del diritto (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, sentenza 16-21 febbraio 2006 nella causa C-223/03) «Ogni ordinamento che aspiri ad un minimo di completezza deve contenere delle misure, per così dire, di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso attribuiti siano esercitati in maniera abusiva, eccessiva o distorta. Una tale esigenza non è affatto estranea all’ordinamento comunitario» (1) 1. Può ritenersi applicabile la dottrina sull’“abuso” del diritto comunitario per respingere domande di deduzione dell’IVA avanzate in circostanze in cui il diritto consegua ad operazioni eseguite solo per assicurarsi un beneficio fiscale? Con la sentenza 21 febbraio 2006, in causa C-223/03, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale d’interpretazione degli artt. 2, punto 1, 4, nn. 1 e 2, 5, n. 1 e 6, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, presentato, ai sensi dell’art. 234 CE, dal VAT and Duties Tribunal, Manchester, nel procedimento tra l’ University of Huddersfield Higher Education Corporation e i Commissioners of Customs & Excise (Amministrazione Finanziaria Inglese) a proposito di una rettifica operata da questi ultimi della deduzione (2) effettuata dall’Università dell’imposta sul valore aggiunto pagata a monte per il restauro di un mulino utilizzato nell’ambito della sua attività di insegnamento universitario. Il giudice remittente rilevava come operazioni - costituzione di un trust, affitto allo stesso del mulino e sua sublocazione da parte del trust all’Università - effettivamente compiute dall’Istituto universitario, che come soggetto esonerato dall’IVA (3) non poteva dedurla, avessero il solo fine di (1) Avv. Gen. TIZZANO, Conclusioni per la causa Kefalas, sentenza 12 maggio 1998, causa C-367/96. (2) Il termine “deduzione” usato dalla Corte e utilizzato nella sesta direttiva, corrisponde al termine “detrazione” di cui all’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633. (3) «L’art. 13, lett. A, n. 1, sub i) della direttiva de qua prevede che gli Stati membri esonerano dall’IVA, tra l’altro, l’insegnamento universitario» (punto 8 sentenza). Giova, a fini di chiarezza ricordare come (...) «l’IVA» sia, «infatti, un’imposta generale indiretta sui consumi che grava sui singoli utenti. Ne consegue che, in applicazione dello stesso principio, un contribuente non deve poter dedurre o recuperare l’IVA assolta su prestazioni ricevute relativamente a sue operazioni esenti. Siccome non grava IVA sui beni o sui servizi forniti da tali soggetti, la Sesta direttiva intende senz’altro impedire che la si possa recuperare (...)» (punto 93, conclusioni dell’Avv. Gen. POIARES MADURO, presentate in data 7 aprile 2005 per tre cause C-255/02, C- 419/02 e C-223/03 aventi oggetto analogo e che hanno dato luogo a tre distinte sentenze). LE DECISIONI creare quei presupposti sulla base dei quali recuperare un’IVA non recuperabile (4) e quindi conseguire un vantaggio, nel caso di specie fiscale, che altrimenti non le sarebbe spettato, investendo così la Corte della questione se dette operazioni potessero essere ricomprese tra quelle «cessioni di beni» o «prestazioni di servizio» e costituire «un’attività economica», assoggettate ad IVAai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1 e dell’art. 6, n. 1 della sesta direttiva. Il Supremo Consesso nel ribadire, come già constatato in occasione di un altro procedimento (5), che tanto «l’analisi delle definizioni delle nozioni di soggetto passivo e di attività economiche (...)» quanto «quella delle nozioni di cessioni di beni e di prestazioni di servizi» dimostrino come «tali nozioni, che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della stessa direttiva», venendo considerate di per sé, «hanno tutte un carattere obiettivo» e trovano applicazione «indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi» (punti 47-48, sentenza), ha affermato «che quelle di cui alla causa a qua costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, dal momento che integrano i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate» (punto 50) «anche se effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale senza altro obiettivo economico» (punto 53). Infatti, «se è certamente vero che tali criteri non sono soddisfatti in caso di frode fiscale, per esempio, mediante false dichiarazioni o con l’emissione di fatture irregolari, resta ciò non di meno che la questione se l’operazione di cui trattasi sia effettuata al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale non è pertinente per determinare se siffatta operazione costituisca una cessione di beni o una prestazione di servizi e un’attività economica » (punto 51). Infine la Corte nel precisare che la qualificazione di un’operazione come economica non determina l’automatico riconoscimento del diritto a 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (4) «L’art. 2, n. 1, della sesta direttiva, assoggetta a IVA le cessioni di beni come pure le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. Ai sensi dell’art. 4, n. 1, di tale direttiva, è considerato soggetto passivo chiunque esercita in modo indipendente una delle attività economiche menzionate nel n. 2 di tale articolo. La nozione di «attività economiche» è definita nel detto n. 2 come tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi e, in particolare, le operazioni che comportano lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità» (punti 3-4 sentenza). «L’art. 17, n. 2, lett. a), sempre della detta direttiva dispone: «Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a [detrarre] dall’imposta di cui è debitore: a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo» (punto 10). (5) punto 26 della sentenza 12 settembre 2000, causa C-260/98, Commissione/Grecia. detrazione, dovendosi ritenere invero escluso in presenza di un abuso del diritto, non ha mancato di rilevare che: «...., come risulta dal punto 85 della sentenza di questo stesso giorno nella causa C-255/02, Halifax e a. (Racc. pag. I-0000), la sesta direttiva osta al diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA pagata a monte (6) qualora le operazioni sulle quali tale diritto si basa integrino una pratica abusiva» (punto 52) (7): «la lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è», infatti, «un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva» (punto 71, sentenza Halifax, 21 febbraio 2006, C-255/02). 1.1. La nozione di abuso nella giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in generale (8). «Un’analisi della casistica della Corte rivela una cospicua serie di elementi convergenti per quanto riguarda la nozione di abuso nel diritto comunitario ». Con riferimento, ad esempio, al «contesto delle libertà fondamentali la Corte ha affermato» il principio secondo cui «il raggiro della normativa di uno Stato membro mediante l’esercizio di tali libertà sia inammissibile », tornando a ribadirlo «in altri settori quali quello della sicurezza sociale, dove ha del pari affermato come non possano trarsi benefici da abusi o frodi. In altre controversie, in materia di politica agricola comune», e «seguendo la stessa logica», Essa ha escluso che «l’applicazione della legislazione pertinente sulle restituzioni all’esportazione» possa «in alcun caso estendersi fino a farvi rientrare pratiche abusive di operatori economici», statuendo altresì, «in un altro caso relativo allo stesso ambito, vertente sul pagamento di importi compensativi all’importazione di formaggio in Germania da un paese terzo, che, «se fosse provato che l’importazione e la riesportazione di questi formaggi non sono state effettuate nell’ambito di operazioni commerciali normali, ma soltanto per beneficiare illegittimamente della concessione di ICM [importi compensativi monetari]», il pagamento non sarebbe dovuto». In materia di diritto societario, la Corte ha altresì negato, «in un diverso ordine di casi», la possibilità per un azionista di invocare «il diritto comunitario allo scopo di ottenere vantaggi illeciti e palesemente estranei all’obiettivo della disposizione considerata», tornando, più di recente, a riaffermare nella IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 (6) «Come la Corte ha già rilevato», infatti, «è solo in assenza di circostanze fraudolente o abusive, e con riserva di eventuali rettifiche in conformità alle condizioni previste all’art. 20 della sesta direttiva, che il diritto a detrazione, una volta sorto, rimane acquisito [v., in particolare, sentenze 8 giugno 2000, causa C-400/98, Breitsohl, Racc. pag. I-4321, punto 41, e causa C-396/98, Schloßstraße, Racc. pag. I-4279, punto 42]» (punto 84, sentenza Halifax). (7) «(...) Il diritto di un contribuente a dedurre dall’IVA dovuta l’IVA assolta per prestazioni imponibili costituisce un corollario del principio della neutralità dell’imposizione fiscale (...)» (punto 93, conclusioni). (8) Nella ricostruzione dell’Avvocato Generale POIARES MADURO. causa Centros (sentenza 9 marzo 1999, causa C-212/97) (9), “che verteva su un asserito abuso del diritto di stabilimento, la sua posizione: «uno Stato membro ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all’impero delle leggi nazionali, e che gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario”» (10) (punto 62, conclusioni). «Dalla casistica esaminata può senz’altro inferirsi un principio generale di diritto comunitario», sintetizzato dalla Corte nell’affermazione secondo cui «i singoli non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente delle norme comunitarie», ma che tuttavia, non è in grado di «chiarire se un diritto derivante da una specifica disposizione comunitaria sia stato esercitato in maniera abusiva. Perché diventi operativo, occorrono una dottrina o un criterio più puntuali. A tal proposito la Corte cerca un cauto bilanciamento tra lasciare ai giudici nazionali la valutazione degli abusi in conformità con il proprio diritto interno e garantire che tale valutazione non pregiudichi la piena e uniforme applicazione della normativa comunitaria asseritamente invocata in maniera abusiva. Essa ha perciò sviluppato un parametro alla stregua del quale valutare gli abusi a livello nazionale. In primo luogo, la valutazione dell’abuso deve fondarsi su elementi oggettivi. In secondo luogo, e soprattutto, lo si deve valutare tenendo conto dello scopo e degli obiettivi della disposizione comunitaria che è invocata in maniera asseritamente abusiva. Al riguardo, dato che la determinazione dello scopo è questione di interpretazione, la Corte ha esplicitamente escluso in numerosi casi la sussistenza di un abuso. Nella causa Emsland Stärke (11), comunque, ha fatto un passo in avanti nella formulazione di una più elaborata dottrina comunitaria» al riguardo (....) introducendo, «per l’accertamento di pratiche abusive, un parametro», di portata generale, «dato dalla» coesistenza da un lato, di «un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa comunitaria, l’obiettivo perseguito dalla detta normativa non è stato raggiunto» (12) e, dall’altro, di «un elemento soggettivo che consiste nella 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (9) «Quest’ultima sentenza riflette i due principali contesti in cui la Corte ha analizzato la nozione di abuso: quando s’invocano abusivamente le disposizioni del diritto comunitario per evadere la normativa nazionale e quando si invocano abusivamente le disposizioni del diritto comunitario per conseguire agevolazioni in una maniera che contrasta con gli scopi e le finalità di quelle stesse disposizioni» (punto 63, conclusioni cit.). (10) Al punto 69 della sentenza 21 febbraio 2002, causa C-255/02, si legge a conferma di ciò che «L’applicazione della normativa comunitaria non può, infatti, estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario». (11) Sentenza 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland Stärke. (12) «(...) Al contrario, quando il diritto è esercitato nei limiti posti dagli obiettivi e dai risultati perseguiti dalla disposizione comunitaria di cui trattasi, non c’è abuso ma solo legittimo esercizio del diritto» (punto 68, conclusioni). volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa comunitaria mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento » (punti da 64 a 67, conclusioni). L’Avvocato Generale, in linea con quanto dalla Commissione sostenuto nelle sue osservazioni scritte (13), è perciò del parere che questa nozione di abuso valga da «principio interpretativo del diritto comunitario» (14) e che «la Corte, allorché esprime il parere che esiste un abuso ogniqualvolta l’attività controversa non potrebbe avere altro scopo o giustificazione che attivare l’applicazione delle disposizioni di diritto comunitario in modo contrario al loro scopo, è come se adottasse un criterio oggettivo (15) di valutazione dell’abuso» (punto 70) (16). «Decisivo nell’affermare l’esistenza di un abuso appare», così, «l’ambito teleologico della norma comunitaria invocata » (punto 69). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 (13) Dalle quali risulta, altresì, «che qualora un soggetto passivo o un gruppo di soggetti passivi che hanno legami tra loro s’impegni in una o più operazioni le quali, complessivamente prese, generano una situazione fittizia il cui unico scopo è di creare le condizioni necessarie per recuperare l’IVA assolta a monte, tali operazioni non debbano essere prese in considerazione» (punto 66, sentenza Halifax). (14) «Nella misura in cui sia concepito come un principio interpretativo generale, non occorre un’espressa previsione da parte del legislatore comunitario perché lo si applichi alle disposizioni della Sesta direttiva. Dal mero fatto che un principio di interpretazione che vieti gli abusi non sia lì posto espressamente – e lo stesso potrebbe valere, per esempio, per i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, come ha osservato all’udienza il governo irlandese –, non possiamo inferire, insomma, che il legislatore comunitario intendesse escludere quel principio dalla Sesta direttiva. Al contrario, quand’anche nella Sesta direttiva ci fosse una norma che espressamente afferma quel principio, la si potrebbe considerare, come notava la Commissione, una mera dichiarazione o codificazione di un principio generale già esistente». Alla luce di quanto premesso, l’Avvocato Generale nega la possibilità di «convenire con l’opinione delle ricorrenti secondo cui nelle fattispecie in esame l’applicazione di un principio generale che vieti gli abusi nel contesto della Sesta direttiva dipenda necessariamente dall’adozione da parte dei singoli Stati membri di adeguate disposizioni antifrode, conformi al procedimento descritto all’art. 27 della Sesta direttiva. Se così fosse, il sistema comune dell’IVA diventerebbe un settore giuridico speciale dove teoricamente ogni comportamento opportunistico dei soggetti passivi riconducibile alla lettera di una sua disposizione e teso ad ottenere indebiti benefici fiscali ai danni delle autorità tributarie sarebbe tollerato, salvo previa adozione da parte degli Stati membri di misure legislative contrarie» (punti 75-76, conclusioni). (15) «(...) gli intenti delle parti di conseguire un beneficio indebito dall’ordinamento comunitario», infatti, «si possono semplicemente inferire dal carattere artificioso della situazione da giudicarsi alla luce di una serie di circostanze oggettive (...)» (punto 71, conclusioni). (16) «(...) Al riguardo è sufficiente fare il caso in cui A si limita, senza riflettere oltre, a seguire il consiglio di B e compie un’attività per la quale non c’è altra spiegazione che procurare un beneficio fiscale ad A. Il fatto che A non intendesse abusare del diritto comunitario non rileverà ai fini della valutazione dell’abuso. Ciò che importa non è quanto A abbia effettivamente in mente, ma il fatto che l’attività, parlando oggettivamente, non ha altra spiegazione che assicurargli un beneficio fiscale» (punto 70, conclusioni). 1.2. Segue. e nel settore IVA in particolare. «Questo principio di divieto di comportamenti abusivi», sebbene nessuna disposizione della Sesta direttiva o del diritto nazionale lo preveda espressamente, «si applica anche al settore IVA», non essendo nemmeno il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto, a giudizio dell’Avvocato Generale, «immune dal rischio, inerente a ogni sistema giuridico, che siano esercitate azioni» che, sebbene «formalmente conformi a una disposizione di legge», costituiscano «un abuso delle possibilità dischiuse dalla stessa, in contrasto con i suoi scopi ed i suoi obiettivi.» Infatti, anche le disposizioni delle direttive IVA sono soggette alla regola (17), concepita come un principio interpretativo (18), «(...) per la quale nessuna disposizione del diritto comunitario può essere legittimamente invocata per assicurare benefici manifestamente contrari ai suoi scopi e ai suoi obiettivi». Nonostante «il diritto tributario» sia «spesso dominato da legittime preoccupazioni connesse alla certezza del diritto, derivanti in particolare dalla necessità di garantire la prevedibilità degli oneri finanziari a carico dei soggetti passivi e dal principio della riserva di legge in materia tributaria», vero è che la normativa IVAdeve essere interpretata in conformità con il principio generale del divieto di abusi del diritto comunitario (punti 73-74-77, conclusioni). «Le maggiori difficoltà e obiezioni all’applicazione di tale principio interpretativo alla Sesta direttiva riguardano la definizione dei criteri in base ai quali esso opererebbe in quello specifico settore (...). Il parametro di valutazione dell’abuso enunciato nella sentenza Emsland Stärke» di cui supra «è di grande utilità sotto questo profilo, ma la specificità dell’IVA come imposta di carattere oggettivo ne sconsiglia una trasposizione automatica ». Del resto, «l’assenza di un unico criterio di applicazione, per ogni ambito del diritto comunitario, del principio che vieta abusi dev’essere considerata perfettamente naturale nell’ordinamento» in discorso, «come in ogni altro sistema legale (...)». Definire «la portata di questo principio del diritto comunitario, come applicabile al sistema comune dell’IVA, è in fondo un problema di determinazione dei limiti dell’interpretazione delle disposizioni delle direttive IVA che conferiscono certi diritti ai contribuenti. Al riguardo l’analisi oggettiva del divieto di abusi dev’essere bilanciata con i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento che a propria volta “fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario” e alla cui luce vanno interpretate le disposizioni della Sesta direttiva. Da questi principi discende che i contribuenti hanno diritto a conoscere in anticipo la loro posizione fiscale e, a tal fine, a poter fare 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (17) Che «(...) costituisce un’indispensabile valvola di sicurezza per tutelare gli obiettivi di tutte le disposizioni di diritto comunitario contro un’applicazione formalistica basata unicamente sul loro tenore letterale (.. )» (punto 74, conclusioni). (18) Si veda, al riguardo, supra, nota n. 13. affidamento sul comune significato della terminologia della legislazione IVA. In virtù di tali principi, la portata» di quello «interpretativo di diritto comunitario che vieta abusi della legislazione IVA deve essere definita in modo da non pregiudicare operazioni legittime (...)» (punti 82-83-84-86). Non a caso, nella sentenza Halifax, richiamata da quella in commento, la Corte ha statuito che «nel settore IVA, perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni (19). Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. Come ha precisato l’avvocato generale al paragrafo 89 delle conclusioni, il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali» (punti 74-75). Ne consegue che il divieto di abusi «va interpretato nel senso che il diritto invocato da un soggetto passivo è escluso solo quando l’attività economica corrispondente non ha altra spiegazione che quella di precostituire quel diritto (il cui riconoscimento colliderebbe con gli scopi e con i risultati delle disposizioni in questione del sistema comune dell’IVA) contro le autorità tributarie. Attività economiche siffatte, anche se non illecite, non meritano di essere protette invocando i principi comunitari di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, perché rispondenti all’unico scopo di sovvertire la finalità dello stesso sistema legale». Per l’Avvocato Generale, pertanto, «(...) è sullo scopo oggettivo della norma comunitaria e sulle attività poste in essere, e non sull’intento soggettivo degli interessati, che s’incentrerebbe la dottrina comunitaria dell’abuso » (punti 86-71, conclusioni). La nozione di abuso del diritto comunitario applicabile al sistema IVA opererebbe, così, «sulla base di un criterio costituito da due elementi i quali devono sussistere entrambi per poter affermare l’esistenza di un abuso del diritto comunitario in materia. Il primo corrisponde» al cd. «elemento soggettivo menzionato dalla Corte nella sentenza Emsland Stärke, ma è soggettivo solo in quanto intende verificare il fine delle attività di cui trattasi. Tale fine, che non va confuso con l’intento soggettivo di chi partecipa a quelle attività, va determinato oggettivamente dalla mancanza di ogni altra giusti- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 (19) «Permettere ad un soggetto passivo», infatti, «di detrarre la totalità dell’IVA assolta a monte laddove, nell’ambito delle sue normali operazioni commerciali, nessuna operazione conforme alle disposizioni del sistema delle detrazioni della sesta direttiva o della legislazione nazionale che le traspone glielo avrebbe consentito, o glielo avrebbe consentito solo in parte, sarebbe contrario al principio di neutralità fiscale e, pertanto, contrario allo scopo del detto sistema» (punto 80, sentenza Halifax). ficazione economica per l’attività se non quella di procurare un beneficio fiscale. Di conseguenza, quest’elemento può essere considerato un elemento di autonomia. Quando lo applicano, infatti, le autorità nazionali devono determinare se l’attività controversa abbia una base autonoma che, lasciando da parte le considerazioni di ordine fiscale, le fornisca una giustificazione economica nelle circostanze di specie. Il secondo elemento del criterio proposto corrisponde al cd. elemento oggettivo di cui sempre alla sentenza Emsland Stärke. Si tratta in realtà di un elemento teleologico in forza del quale lo scopo e gli obiettivi delle norme comunitarie asseritamente oggetto di abuso sono comparati allo scopo e ai risultati conseguiti dall’attività controversa. Questo secondo elemento è importante non solo perché offre il paradigma per valutare lo scopo e i risultati dell’attività in questione, ma anche perché fa salvi i casi in cui l’unico scopo dell’attività potrebbe essere di diminuire, sì, il carico fiscale, ma in esito ad una scelta tra differenti regimi che lo stesso diritto comunitario intendeva lasciare libera (20). Perciò, ove non sussista contraddizione tra il riconoscimento di un diritto invocato dal contribuente e gli obiettivi ed i risultati della disposizione fatta valere, non può parlarsi di abuso» (punti 87-88, conclusioni). Pertanto, come ha precisato la Corte, «spetta al giudice del rinvio verificare, conformemente alle norme nazionali sull’onere della prova, ma senza che venga compromessa l’efficacia del diritto comunitario, se gli elementi costitutivi di un comportamento abusivo sussistano nel procedimento principale» e «stabilire contenuto e significato reali delle operazioni », potendo «(...) prendere in considerazione il carattere puramente fittizio di queste ultime nonché i nessi giuridici, economici e/o personali tra gli operatori coinvolti nel piano di riduzione del carico fiscale» (punti 76- 81, sentenza Halifax) e «così stabilire se il riconoscimento del diritto alla deduzione o al recupero dell’IVA ai soggetti passivi che lo rivendicano sia compatibile» o meno «con gli obiettivi e le finalità perseguiti dalle disposizioni rilevanti della Sesta direttiva, quali illustrati supra. Se, a loro giudizio, quegli scopi sono raggiunti solo in parte – dato che i soggetti passivi esenti possono recuperare una certa percentuale dell’IVA assolta –, allora le disposizioni della Sesta direttiva sulla deduzione dovranno essere interpretate nel senso che attribuiscono il diritto al recupero dell’imposta sul valore aggiunto, in quella percentuale, ai soggetti passivi interessati. Questo sembra essere il caso della Hudddersfield, dove questa società parzialmente esente poteva a quanto pare recuperare l’IVA, sebbene solo limitatamente e pro rata» (21) (punto 95, conclusioni). 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (20) «(...) A un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento IVA. Al contrario, (...), il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale» (punto 73, sentenza Halifax). (21) Ad analoga conclusione si è giunti per la Halifax nella sentenza citata. In altri termini e a voler schematizzare, il criterio d’interpretazione che i giudici nazionali dovranno seguire, anche alla luce del parametro di valutazione appena descritto, può ripartirsi in due momenti: – verifica se l’attività posta in essere dal soggetto passivo (e da cui sorge il diritto a detrazione), abbia finalità economiche diverse dal semplice risparmio d’imposta; – accertamento se, in assenza di valide ragioni economiche, il riconoscere il diritto alla deduzione o al recupero dell’IVA non si ponga in contrasto con gli scopi della direttiva. 2. La formula «abuso del diritto»: premesse generali e profili storico-comparatistici. Le citate sentenze risvegliano il dibattito circa la sussistenza di un limite all’esercizio dei diritti da parte di ciascuno, consistente nella necessaria esistenza di un interesse proprio, apprezzabile e preponderante rispetto al rischio di nuocere ad altri. Fino a che punto si può far uso di un diritto proprio senza incappare in un abuso del diritto stesso? Per evitare di scalfirne la certezza, sarebbe utile tratteggiare intorno a ciascun diritto l’area che è valicabile e quella che non lo è, ma l’operazione risulta alquanto ardua, sì da rendere conveniente muovere da considerazioni di ordine generale. La formula «abuso del diritto», nell’esperienza continentale, ha circa un secolo e mezzo di vita, ponendosi il problema, anzi l’idea stessa di abuso, nell’ambito dell’ordinamento liberale di allora (22). «Fin dal suo apparire, essa ha conosciuto le reazioni più disparate: l’esaltazione ha raggiunto toni mistici, la critica è stata severa, densa di preoccupazioni e di terrore. È sembrata talvolta, codesta formula, il mezzo sicuro ed originale per ottenere un criterio di giudizio più appagante, per la nostra coscienza, di quanto non sia il criterio della legittimità formale degli atti umani; altra volta, invece, è apparsa come la minaccia più insidiosa al bene della certezza del diritto» (23). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 (22) «La storia dell’abuso del diritto comincia, nella seconda metà dell’ottocento, intorno a talune manifestazioni tipiche dell’economia capitalistica, manifestazioni apparentemente destinate a sfuggire alle sanzioni legali» e riguardanti soprattutto l’esercizio delle libertà, individuali e collettive nei rapporti economici (basti pensare alla concorrenza tra imprenditori commerciali, contraria alle regole della correttezza professionale; al rifiuto di contrattare da parte del monopolista; etc….Significativo, in tal senso, è ancora che gli studi compiuti relativamente a tale categoria giuridica, nel tentativo di rinvenire nella legge le basi per la costruzione del divieto, si siano fermati a considerare l’usura, l’approfittamento dello stato di bisogno del contraente più debole, la tutela apprestata, nella disciplina dei contratti per adesione, a colui che debba accettare le condizioni generali o che sottoscriva i moduli e i formulari predisposti dall’altro contraente), PIETRO RESCIGNO, L’abuso del diritto, RDC, 1965, I, 217 ss. (23) PIETRO RESCIGNO, cit., 205. Quello dell’abuso non è un problema dogmatico d’interpretazione del diritto vigente, né la relativa nozione può dirsi avere valenza assoluta, in quanto, per essere individuata, occorre sempre stabilire il parametro, cioè l’uso del diritto, la situazione normale, fisiologica, rispetto alla quale può dirsi abuso. «Analizzata nelle parole che la compongono – abuso, diritto - la formula senza dubbio si presenta, alla prima impressione, intimamente contraddittoria. Diritto (più esattamente diritto soggettivo) vuol dire libertà garantita all’individuo, o a un gruppo privato, da una norma giuridica: vuol dire potere di volontà e di azione che la norma concede al soggetto, o al gruppo, nei confronti di uno, o di più, o di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. Quando si parla di abuso, di possibilità di abuso del diritto, si viene a dire che l’esercizio di questa libertà garantita dalla norma, del potere accordato dalla legge, può dar luogo a responsabilità: onde un atto lecito – l’esercizio del diritto – diviene fonte di responsabilità. Significa sottintendere alla libertà ed al potere un limite, ed il limite, la misura sembrano vaghi e sfuggenti» (24). La questione, pertanto, è di vedere cosa, dottrina e pratica, abbiano ricondotto nell’alveo di tale nozione, intesa nel senso generico di difformità dell’esercizio del diritto dalla ragione della tutela legislativa. Secondo la concezione tradizionale ove al singolo è riconosciuto il potere di agire (agere licere) per la realizzazione di un proprio interesse individuale, ivi la legge ravvisa un diritto soggettivo (25). Quest’ultimo, scelta dell’ordinamento giuridico tra interessi contrapposti, «si manifesta come sintesi di una posizione di forza e di una posizione di libertà. Il soggetto è infatti libero di decidere se avvalersi o meno del potere conferitogli (ed in ciò è la libertà: ius est facultas agendi) ma, una volta esercitato, il diritto è in grado di realizzare pienamente l’interesse (ed in ciò è la forza)» (26). Come può evincersi dalla radice etimologica del termine (ab-uti), concettualmente tale figura «concerne ipotesi di uso anormale del diritto, in cui un comportamento, che sebbene formalmente integri gli estremi dell’esercizio del diritto soggettivo, debba ritenersi però – sulla base di criteri non formali di valutazione (27) – privo di tutela giuridica o illecito (28)». 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (24) PIETRO RESCIGNO, cit., 206. (25) FRANCESCO SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1977, 70. (26) GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, 57. (27) Nella discussa elaborazione dei criteri in base ai quali operare la valutazione di cui in discorso, due sono le versioni che destano maggiore interesse, risolvendo le altre il problema nella negazione di uno dei due termini: abuso e diritto soggettivo. «La prima, d’ispirazione cattolica, giudica l’atto secondo un metro di ordine morale, che trascende i rapporti sociali; la seconda, d’ispirazione laica e solidaristica, fonda il “giudizio” sulla congruità dell’atto ai valori “sociali” fatti propri dal sistema», CESARE SALVI, Abuso del diritto, in Enciclopedia giuridica Roma. (28) Vi è chi in dottrina, lo configura quale ipotesi di illecito atipico, accanto alle figure della frode alla legge e dello sviamento di potere, tutte rispondenti ad una stessa logica, quali concezioni di uno stesso concetto generale, quello appunto di illiceità atipica che, coNon si rinviene, nel codice vigente - seppure il principio de qua fosse previsto nel progetto del codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti (art. 74: «È tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri, eccedendo nell’esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto») ed in quello definitivo del codice civile italiano del 1942 (art. 7 disp. prel.: «Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è stato riconosciuto») - una norma di carattere generale sull’abuso, per taluni confermando così che il Legislatore ritenne fondato il timore di compromissione della certezza del diritto, attesa la grande latitudine di potere che una simile clausola generale avrebbe attribuito al giudice. Nel tentativo di dar conto, per sommi capi, del destino storico della nozione di abuso, elaborata dai glossatori e dagli scrittori di diritto comune come strumento di raccordo tra le due sfere del diritto e della morale (29), è opportuno ricordare che la stessa apparve, per prima, nella giurisprudenza francese dello scorso secolo e più precisamente in materia di proprietà. Allora la questione fu se fosse da ritenersi legittima ogni forma di esercizio del diritto, per il solo fatto di costituire una delle sue molteplici estrinsecazioni, ovvero se la tutela, accordata dall’ordinamento giuridico, dovesse invece ritenersi negata ad atti del proprietario che, sebbene non esorbitando da precisi limiti di esercizio, fossero avvertiti dalla coscienza sociale come abusivi. Con la formulazione del principio di abuso la giurisprudenza francese, nonostante le discordanti posizioni espresse dalla dottrina (30), si mostrò favorevole all’idea di un controllo «contenutistico» della situazione sogget- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 me presupposto fondamentale e che vale a caratterizzarla e distinguerla dall’illiceità tipica, ha la contrarietà ai principi, non già alle regole, del sistema giuridico, ATIENZA M., MANIERO J.R., Illeciti atipici, 2004. (29) Tale nozione venne poi abbandonata in sede di formazione del moderno diritto privato, tanto sul piano teorico quanto su quello normativo. (30) «Una parte sostenne l’assoluta insindacabilità dell’esercizio del diritto che non avesse superato i limiti imposti dalla legge, conseguentemente negando l’ammissibilità del principio o attribuendogli una portata meramente filosofica o morale; l’altra parte, invece, affermò l’insufficienza di una legittimità formale, pur non riuscendo ad elaborare un criterio unitario per determinare le forme “abusive” di esercizio del diritto, seguendo strade diverse nella formulazione del principio. Così, muovendo dal comune presupposto secondo cui determinate forme di esercizio del diritto potessero considerarsi sindacabili anche se rientranti nei limiti dalla legge stabiliti, furono indicati, a seconda dei diversi contesti culturali ed ideologici, vari parametri (morale, finalistico, intenzionale, ecc.), in base ai quali indicare l’eventuale abusività dell’esercizio del diritto», SALVATORE PATTI, Abuso del diritto, in Digesto delle discipline privatistiche, Quarta Edizione, 1987. tiva, e quindi di definizione dell’ambito dei poteri spettanti al titolare, ammettendo in talune ipotesi la responsabilità di costui, ancorché il danno fosse stato cagionato nell’esercizio del diritto stesso (31). «L’elaborazione della figura compiuta nell’esperienza francese appare particolarmente significativa con riferimento all’epoca che ne vide la nascita (32)», chiamata, come fu, a rispondere alle esigenze di un dato momento storico e di uno specifico ambiente (33). Nato come regola giurisprudenziale (34), l’abuso del diritto venne codificato nei codici tedesco (35), svizzero, greco (36), portoghese e sovietico, ma non nel nostro dove, al pari di quello 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (31) SALVATORE PATTI, cit. (32) SALVATORE PATTI, cit. (33) La formulazione del principio in esame appare, infatti, una conseguenza dell’assolutezza dei principi enunciati dopo la rivoluzione francese. «Sul piano giuridico la distruzione dei vincoli individuali con le comunità particolari aveva cercato di portare l’individuo in relazione immediata con lo Stato e si era tradotta nella proclamazione dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Sul piano economico, gli stessi principi ponevano l’individuo di fronte al gioco delle leggi dell’economia, onde si creava ed acuiva una sostanziale disuguaglianza, in stridente contrasto con l’uguaglianza formale», favorendo, così, il verificarsi di “abusi”, PIETRO RESCIGNO, cit., 217. (34) Tra i tanti, ecco uno dei casi che la giurisprudenza francese venne sollecitata a considerare. Nell’ordinamento francese (e senza rispetto di limiti di età) il padre poteva emancipare il figlio. In questo caso sorgeva il dubbio se potesse ritenersi legittimo l’esercizio di questo diritto – o non si trattasse invece di abuso – quando il padre si fosse determinato ad emancipare il figlio, non già per la raggiunta idoneità del minore alla cura dei propri interessi, ma solamente per porre nel nulla il diritto, spettante alla moglie separata, di visitare il figlio minore. Con la sentenza dell’App. Paris, 15 febbraio 1957 (nella rassegna di giurisprudenza su Personnes et droits de famille di DESBOIS, in Rev. Trim. dr. Civ., 1958, pp. 63 ss.), la Corte d’Appello ha dichiarato l’emancipazione non nulla, bensì inopponibile secondo quanto richiesto dalla madre, così suscitando le più severe critiche della dottrina, PIETRO RESCIGNO, cit., 210. (35) L’art. 18 della Legge Fondamentale tedesca prevede una particolare ipotesi di abuso: «Chi abusa della libertà di espressione del pensiero, in particolare della libertà di stampa, della libertà di insegnamento, della libertà di riunione, della libertà di associazione, del segreto epistolare, postale e delle telecomunicazioni, del diritto di proprietà o del diritto di asilo, per combattere l’ordinamento fondamentale democratico e liberale, perde questi diritti. La perdita e la misura della medesima sono pronunziate dal Tribunale Costituzionale Federale». «Tale norma si indirizza a tutte le persone fisiche – tedesche o straniere – e giuridiche in quanto titolari di diritti ai sensi dell’art. 19 della Legge Fondamentale, attribuendo al Tribunale Costituzionale Federale la competenza a dichiarare la perdita del diritto, sì da escludere che per la medesima fattispecie possano essere previste sanzioni anche da parte del Legislatore di un Land. Legittimati al ricorso sono la Dieta federale, il Governo federale e il Governo di un Land», R.BIFULCO - A. CELOTTO, Articolo 54, in L’Europa dei diritti: commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, 2001, 368. Per la lettura del testo della disposizione in materia di abuso nel diritto tedesco si rinvia infra alla nota n. 40. (36) Art. 281, codice civile greco del 1981: «L’esercizio di un diritto è proibito se eccede manifestamente i limiti imposti dalla buona fede o dai costumi o dal fine sociale o economico del diritto stesso». francese, «il Legislatore del ’42 preferì ad una norma di carattere generale norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti» (37). Tanto premesso, occorre chiarire la differente origine ed ambito d’applicazione della nozione in questione nei diversi ordinamenti dell’Europa continentale, ai fini, soprattutto, di una migliore comprensione del problema a livello comunitario. Nella Repubblica Elvetica, invero, la formula (38), nella quale si riscontra un collegamento tra buona fede ed abuso del diritto, si presenta inequivoca nella sua enunciazione, celando, tuttavia, incertezze per la mancata determinazione di un criterio che consenta l’individuazione dei comportamenti abusivi e per la fissazione del limite dell’ «abuso manifesto », bisognoso di specificazione. La norma, così, opera un rinvio al libero operare del giudice rappresentando in questo senso una concretizzazione dell’art. 1 Cod. civ. svizzero che nell’attribuire ampi poteri al giudice, gli accorda la possibilità, nei casi non previsti dalla legge ed in mancanza di consuetudine, di decidere «secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore» (39). L’esperienza della Germania, invece, non fu dissimile da quella francese, avvertendosi il problema in origine con riferimento al solo diritto di proprietà, per il suo attributo dell’assolutezza e la sua veste di modello dei diritti soggettivi. Qui il Costituente ed il Legislatore accolsero espressamente il principio in discorso, quale risposta al recente passato totalitario, ma nel BGB (codice civile tedesco) il collegamento all’intenzione di nuocere rese tale formulazione inapplicabile per le estreme difficoltà riscontrate nella prova dell’elemento soggettivo (40) e ad essa si preferì, tanto nell’uso giurisprudenziale quanto nelle costruzioni della dottrina, la norma in tema di buona fede (41). Sulla base dei parametri oggettivi enucleati da tale norma, utilizzata dalla giurisprudenza in tutti i settori del diritto privato, «il principio dell’abuso del diritto costituisce nell’ordinamento tedesco un efficace strumento di controllo dell’esercizio del dirit- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 (37) LEVANTI SANDRA, Abuso del diritto, in http://www.diritto.it/materiali/civile/levanti. html. (38) Art. 2, codice civile svizzero: «Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi. Il manifesto abuso del diritto non è protetto dalla legge». (39) Ovviamente, come autorevole dottrina ricorda, basi legislative di tale tenore avrebbero favorito un uso giurisprudenziale imprevedibile e casuale, pur essendo i relativi principi ritenuti fondamentali nell’ordinamento giuridico svizzero, spiegando così l’estrema prudenza che nella prassi a tutt’oggi si è riscontrata, SALVATORE PATTI, cit. (40) Il § 226 BGB, infatti, testualmente recita: «L’esercizio del diritto è inammissibile se può avere soltanto lo scopo di provocare danno ad altri». (41) SALVATORE PATTI, cit. to soggettivo (42) e, soprattutto, di bilanciamento dei contrapposti interessi (43)». 2.1. L’operatività del principio dell’abuso del diritto nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano. «...Infine il contenuto del diritto soggettivo è determinato dall’interesse concreto del titolare, nel senso che il potere è attribuito a questo per la tutela non di un certo tipo d’interesse, ma fin dove con l’interesse astratto coincide l’interesse concreto; nonché dal principio di solidarietà fra i due soggetti del rapporto, come partecipi entrambi della stessa comunità, nel senso che la subordinazione di un interesse all’altro interesse concreto è consentita fin dove essa non urti con quella solidarietà, che non si realizza nella comunità senza prima realizzarsi nel nucleo costituito dai soggetti del rapporto giuridico. Questi principi sui limiti interni del diritto soggettivo si ricavano da alcune disposizioni del codice, la cui portata, a nostro avviso, è generale: soprattutto dalla norma che per la proprietà fondiaria stabilisce il limite detto dell’interesse pratico (art. 840, co. 2), dall’altra che vieta al proprietario gli atti emulativi (art. 833), infine da quella che prescrive al debitore e al creditore di comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175). Della solidarietà costituiscono espressioni, col dovere di correttezza, il dovere di buona fede e il rispetto dell’affidamento, che varie altre norme stabiliscono, come vedremo innanzi; alla solidarietà sono da ricondurre vari istituti particolari, la cui nota comune è appunto questa, che, grazie ad essi, la legge stessa racchiude e restringe una determinata subordinazione d’interesse, quando non paia conforme alla solidarietà. Per effetto di questo limite generale ed interno del contenuto del diritto soggettivo può considerarsi eliminata la figura dell’abuso del diritto, alla quale per il passato sono stati ricondotti anche gli atti emulativi del proprietario: figura difficile a giustificare in base alla precedente concezione del diritto soggettivo e infatti prevalentemente ripudiata. Quella figura, oggi, non ha più ragion d’essere, perché, per definizione, il diritto soggettivo arriva fin dove comincia la sfera d’azione 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (42) Ecco un esempio tratto dalla pratica tedesca. La legge matrimoniale della Repubblica Federale, accordava anche al coniuge colpevole la legittimazione a chiedere il divorzio, ma attribuiva a quello incolpevole il diritto di opporsi alla domanda. Questo Widerspruchsrecht – diritto di contrastare la domanda di divorzio – era escluso se da parte del coniuge incolpevole non vi fosse stata, e non v’era, alcuna volontà di ristabilire la comunione di vita interrotta, e il suo atteggiamento non avesse mai rilevato né disvelava attaccamento alcuno (nessuna Bindung), nemmeno sentimentale, al vincolo che solo formalmente perdurava. Ciò indusse la giurisprudenza tedesca ad allargare i casi di esclusione del Widerspruchsrecht, sino a giungere (o, meglio, a tornare) ad un concetto generale di abuso del diritto di opposizione. PIETRO RESCIGNO, cit., 208. (43) SALVATORE PATTI, cit. della solidarietà: quindi gli atti emulativi e gli altri non rispondenti alla buona fede o alla correttezza, come contrari alla solidarietà, non rientrano nel contenuto del diritto soggettivo, non costituiscono un abuso, ossia uno sviamento, del diritto; al contrario ne sono fuori, costituiscono un eccesso dal diritto, e, in quanto tali, s’intende agevolmente che possano essere illeciti, secondo le norme generali. Perciò nel codice non è menzione dell’abuso del diritto, come di una figura speciale di atto lecito» (44). Così venendo all’ordinamento italiano, manca una teorizzazione del divieto di abuso dei diritti e delle libertà costituzionali, mentre la tematica è assai dibattuta soprattutto in ambito civilistico (45) seppur manchi, come anticipato supra, l’espressa menzione nel codice civile (46) del principio in esame. «La nostra legge abbonda di richiami all’abuso, riferito ai più disparati elementi: funzioni, poteri, facoltà, diritti, autorità, relazioni domestiche, relazioni di ospitalità, con persone incapaci, etc...» (47), che a fronte della diversità dei criteri in essi fissati quale riflesso della varietà di struttura delle IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 (44) FRANCESCO SANTORO-PASSARELLI, cit., 76-77. (45) Tuttavia come ricorda R.BIFULCO - A. CELOTTO, cit., 371-372, anche al di fuori dell’ambito prettamente privatistico si è cercata una composizione del problema: «In diritto pubblico e costituzionale italiano,» infatti, «le elaborazioni dell’esercizio abusivo delle situazioni giuridiche soggettive si sono indirizzate soprattutto a verificare la possibilità di ammettere e configurare un eccesso di potere (sintagma in radice affine all’abuso del diritto) nell’esercizio del potere pubblico, una forma di sanzione per le ipotesi in cui il potere pubblico sia stato esercitato per scopi diversi da quelli in vista dei quali era stato conferito (...) Peraltro, la dottrina più recente non ha mancato di avvertire l’esigenza di avviare la costruzione di una teoria dell’abuso del diritto nell’ambito dei rapporti tra organi costituzionali, prospettando ipotesi di abuso quali la reiterazione del decreto legge, la richiesta di una serie di referendum abrogativi tutti inammissibili, ma così numerosi da essere puramente pretestuosi, un esasperato ostruzionismo parlamentare, la fiducia data al Governo che non si vuole, la mancata elezione dei membri di un organo costituzionale, l’esercizio di poteri presidenziali da parte del supplente al di fuori dei limiti configurabili all’estensione delle sue funzioni. Tale figura, riprendendo le elaborazioni francesi sul détournement de pouvoir (sviamento di potere), si è stabilmente affermata quale vizio del provvedimento amministrativo – positivamente ammesso a partire dall’art. 26 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054) – mentre è stata tendenzialmente negata rispetto all’esercizio del potere legislativo, in ragione soprattutto dei timori di ingabbiare eccessivamente il potere discrezionale del legislatore primario – tradizionalmente configurato quale attività politica, libera nel fine – in un controllo funzionale-teleologico, sulle finalità e le scelte perseguite, (...)» quantunque «l’esigenza di effettuare un sindacato sui vizi logici intrinseci ed estrinseci della legge è rifluita nel complesso ed articolato controllo sulla ragionevolezza delle leggi, attraverso il quale si è arrivati a sindacare “l’espressione di un uso distorto della discrezionalità che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di eccesso di potere” e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa [v. Corte Cost. n. 313/1995 e 146/1996]». (46) Per taluni giustificata trattandosi di un problema di teoria generale la cui soluzione di principio si lascia difficilmente tradurre in termini precettivi. (47) SALVATORE ROMANO, Abuso del diritto, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958. posizioni giuridiche interessate e perciò delle ipotesi configurabili (48), rendono indubbiamente difficoltosa la ricostruzione teorica di una figura generale dell’abuso del diritto nel nostro ordinamento. Prima di procedere all’analisi delle varie ipotesi legislative è opportuno sottolineare come, ora come allora, perdurino quelle esigenze e situazioni della realtà sociale che determinarono la nascita del principio e come le stesse rientrino nell’ambito di efficacia di norme che impongono comportamenti, in termini positivi o negativi: ad esempio il proprietario non può compiere atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri (art. 833 c.c.); il debitore ed il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.); le parti, tanto nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, quanto nella sua esecuzione ed interpretazione, come pure durante la pendenza della condizione, devono comportarsi secondo buona fede (artt. 1337 (49), 1338, 1366, 1375 e 1358 c.c) (50). Scendendo ora nel dettaglio occorre precisare come nel codice civile, a norme che espressamente prevedano fattispecie abusive (art. 330, dove è prevista la possibilità che il giudice pronunzi la decadenza dalla potestà per il genitore che violi o trascuri i doveri ad essa inerenti o abusi dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio; art. 1015, contemplante l’ipotesi di cessazione del diritto d’usufrutto per l’abuso che ne faccia il titolare, alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie riparazioni; art. 2793, relativo all’abuso della cosa data 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (48) Che, di riflesso, determina la possibilità di diverse reazioni da parte dell’ordinamento all’atto di esercizio abusivo: può aversi «ad esempio quella dell’inefficacia (nei casi di simulazione o dell’art. 1341), della rescindibilità (art. 1447, 1448); dell’annullabilità (art. 1438), o della decadenza da un potere (come nel caso della patria potestà: art. 336); un rifiuto dell’azione di annullamento (ad esempio, art. 1426 in caso di occultamento, con raggiri, della minore età), l’efficacia dell’atto (art. 1319), la permanenza in vita del debito (caso della prescrizione eccepita dal debitore che riesca ad impedire al creditore di chiedere l’adempimento), o un’indennità (casi di lesione di buona fede), etc...», SALVATORE ROMANO, cit. (49) «Da tempo già la dottrina era concorde nel ravvisare nella responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. la sanzione per il comportamento abusivo della parte che avesse receduto ingiustificatamente dalle trattative: si trattava di una palese violazione del principio che vieta di ‘venire contra factum proprium’», LEVANTI SANDRA, cit. (50) «Molta materia di abuso è stata esaminata sotto questo profilo in dipendenza della nota formula della inammissibilità del venire contra factum proprium. Gli stessi criteri sembrano validi anche fuori dei rapporti obbligatori: così, attenuando le particolarità del regime dei cosiddetti atti emulativi, ci sembra che un’alterazione della funzione, che pure è necessaria in qualunque cura di interessi anche in regime di autonomia libera, sia alla base del divieto di cui all’art. 833. L’altro criterio, relativo alle regole di buona fede nella condotta dei rapporti, appare applicabile, ad esempio, al regime delle accessioni (v. artt. 936, comma 3, 937, comma 3, 938), come pure dei rapporti tra proprietari e possessori o detentori in ordine alle indennità per miglioramenti o addizioni (v. ad es. artt. 985, 986, 1150, 1592, ecc.). Il criterio della funzione appare poi esclusivo nella distinzione dell’esercizio dei poteri familiari (artt. 336, 384)», SALVATORE ROMANO, cit.. in pegno da parte del creditore pignoratizio), si affianchino «disposizioni sanzionatrici di alcuni atti, la cui ratio è ravvisabile nell’esigenza di repressione di un abuso del diritto» (art. 1059, comma 2, che obbliga il comproprietario che abbia concesso una servitù ed i suoi eredi o aventi causa a non porre impedimento al diritto concesso; art. 1993, comma 2, che ammette il debitore possa opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti con i precedenti possessori solo qualora quest’ultimo, nell’acquistarlo, abbia intenzionalmente agito a danno del debitore medesimo; artt. 21 l. camb. e 65 l. ass.) «e disposizioni di maggiore ampiezza considerate valide per intere categorie di diritti (art. 833, che pur relativo al diritto di proprietà, è stato considerato come norma di repressione dell’abuso dei diritti in generale (51); artt. 1175 e 1375 che, attraverso la clausole di correttezza e buona fede in essi consacrate, hanno consentito in tempi recenti alla giurisprudenza, sulle tracce della dottrina più avvertita, di sanzionare, in termini di illecito contrattuale, l’abuso di diritti relativi o di credito)» (52). Quanto precede consente così di affermare che il concetto de qua assume significato «in tutti quei casi in cui si verifichi un’alterazione delle funzioni obiettive dell’atto (53) rispetto al potere d’autonomia che lo configura» (54) e più nello specifico allorquando si riscontri una condotta nei rapporti giuridici contraria alla bona fides o comunque lesiva della buona fede altrui (55). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 (51) Così identificando la predetta nozione, prima della sua ipotizzabilità da parte della giurisprudenza anche in materia di diritti di credito e relativi, con quei comportamenti eccedenti o addirittura mortificanti la ratio della norma attributiva del diritto stesso, prevedendo quale sanzione da comminare per il perpetrato abuso il riconoscimento della responsabilità ex art. 2043 c.c. (52) LEVANTI SANDRA, cit. (53) Secondo SALVATORE ROMANO, cit., «per la formulazione tecnica del concetto di abuso, più che quello dello scopo, sembra conducente il criterio della funzione, considerata nel necessario rapporto di corrispondenza tra il potere di autonomia conferito al soggetto e l’atto di esercizio di questo potere. Questo legame è obiettivo e più visibile nella autonomia cosiddetta funzionale i cui poteri richiedono di essere positivamente esercitati in funzione della cura di interessi determinati. La figura, normale nell’autonomia pubblica, sussiste ed è diffusa anche in quella privata oltre il campo, correntemente ammesso, dei poteri familiari: il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli imposti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere. Ma una funzionalità deve rinvenirsi anche nell’autonomia privata nei suoi normali aspetti di autonomia libera che è comunque collegata alla cura di interessi. Solo che questa funzionalità deve, principalmente, essere percepita nel collegamento dell’atto coi limiti dello stesso potere che con quell’atto si esercita. Così, a nostro avviso, si esprime un giusto concetto quando, ad esempio, si parla di abuso della funzione strumentale del negozio nella simulazione (BETTI: l’Autore parla di questo abuso in relazione allo sviamento del negozio dalla sua destinazione)». (54) SALVATORE ROMANO, cit. (55) Ovvero allorquando l’alterazione del fattore causale si traduca in un’alterazione della struttura dell’atto stesso. Tale ipotesi «avviene normalmente per un elemento interno, un’intesa – come nella simulazione – o un motivo rilevante come nella rescissione. La formula che talvolta si impiega è quella di sviamento di potere. Così l’intesa simulatoria scin« Quale clausola generale, che permea di sé l’intera materia contrattuale ed obbligazionaria, quest’ultima ha» infatti «indotto la giurisprudenza più recente ad individuare ipotesi di abuso del diritto anche in tale settore. In particolare, intesa la stessa come oggetto di un obbligo che entra nel contratto integrandone il contenuto - specificandosi nel dovere (negativo) di non abusare della propria posizione al fine di non aggravare ingiustificatamente la condizione della controparte, nonché nel dovere (positivo) di attivarsi per salvaguardare l’utilità della controparte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio delle proprie ragioni - si è visto nella violazione della buona fede un indice sintomatico di abuso del diritto, sanzionato nelle forme tipiche della responsabilità contrattuale ovvero attraverso rimedi» (56) specifici senza con essi involgere la sorte del contratto, allorquando si atteggi a criterio indicativo di una mera modalità comportamentale estranea alla trama precettiva del regolamento contrattuale. Ecco spiegate la sanzione dell’annullamento (art. 2377 c.c.) o della nullità (art. 2379 c.c.) delle delibere assembleari adottate dalla maggioranza ex art. 2351 c.c. per la realizzazione di un interesse extrasociale nonché le pronunce con cui la Suprema Corte ha in tempi recenti affermato che «in applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo al quale deve essere improntata l’esecuzione del contratto di società, la cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno. L’abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari (ivi incluse quelle di scioglimento anticipato della società) allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società - per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale - oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di mino- 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO de l’iter negoziale impedendo la realizzazione del negozio. Così lo stato di necessità previsto negli artt. 1447, 1448 c.c. non è d’impedimento alla conclusione di negozi: sono però rilevanti i motivi che conducono a concludere il negozio in condizioni che alterano l’equilibrio causale; fuori di quelle particolari circostanze, quell’equilibrio causale è, normalmente, indifferente, requisiti di forma e di sostanza a parte. Anche la promessa di matrimonio (art. 81 c.c.), si regge su elementi della categoria dei motivi, seguendo un criterio funzionale e non arbitrario. La minaccia di far valere un diritto, espressione di un potere liberamente esercitabile, diventa motivo rilevante per la controparte; come tale comporta annullabilità, nella conclusione di un negozio in cui ugualmente appaia alterato il rapporto causale (conseguimento di vantaggio ingiusto)», SALVATORE ROMANO, cit. (56) LEVANTI SANDRA, cit. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 ranza “uti singuli”» (57), ed altresì escluso l’abuso «del diritto di impugnativa » da parte del «socio (nella specie, di una cooperativa a r.l.) che impugni la delibera assembleare di approvazione del bilancio dopo aver in precedenza approvato il progetto di bilancio in qualità di componente del consiglio di amministrazione. In mancanza di qualsiasi restrizione all’esercizio del diritto di impugnazione delle delibere difformi dalla legge e/o dall’atto costitutivo», infatti, «per ipotizzare un simile abuso occorre provare la violazione dei principi di correttezza e buona fede intese come regola di comportamento e, a tali fini, non è sufficiente, la semplice identità soggettiva tra chi prima abbia approvato il progetto di bilancio e poi impugnato la delibera di approvazione» dello stesso, «atteso che il medesimo soggetto», avendo esercitato «nelle due occasioni funzioni e ruoli distinti (quello di amministratore e quello di socio), è ben possibile abbia espresso due diverse valutazioni, senza che per ciò solo sia configurabile una violazione del divieto di “venire contra factum proprium”» (58). Ancora, tra i casi che interessano la materia viene in rilievo «il rimedio contro una richiesta di convocazione dell’assemblea, avanzata dalla minoranza assembleare per puro spirito di chicane, rappresentato dalla reiezione della stessa o dall’inefficacia della convocazione così - abusivamente - effettuata; come la paralisi dell’effetto risolutivo del recesso» nel caso «dell’esercizio arbitrario ed improvviso» da parte «della banca del diritto di recedere ad nutum dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato » (59); l’art. 1359 c.c. che, nel considerare avverata la condizione mancata per causa imputabile a chi aveva interesse contrario al suo avveramento, sancisce, in luogo dell’obbligo di risarcire il danno, l’efficacia del contratto; anche il caso della revoca della proposta legittima (art. 1328 c.c.), ma lesiva della buona fede di chi ha iniziato l’esecuzione, può comprendersi nella serie. Come anticipato, la sanzione specifica della perdita della posizione giuridica soggettiva (nella specie la potestà genitoriale) della quale si è abusato è, invece, sancita all’art. 330 c.c., mentre l’art. 1015 c.c., prevede la cessa- (57) Così Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387 che ha del pari affermato, quanto ad onus probandi, che «la relativa prova incombe sul socio di minoranza il quale dovrà a tal fine indicare i “sintomi” di illiceità della delibera - deducibili non solo da elementi di fatto esistenti al momento della sua approvazione, ma anche da circostanze successive - in modo da consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso vi sia stato». Comunque, «all’infuori dell’ipotesi di un esercizio “ingiustificato” ovvero “fraudolento” del potere di voto ad opera dei soci maggioritari, resta preclusa ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione della delibera di scioglimento anticipato della società, essendo insindacabili le esigenze relative all’economia individuale del socio che possano averlo indotto a votare per tale soluzione dissolutiva». (58) Cass. 11 dicembre 2000, n. 15592. (59) LEVANTI SANDRA, cit. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione del diritto reale di usufrutto per il titolare che ne abbia fatto un uso distorto. Si è poi più propriamente parlato di exceptio doli generalis (60) nell’ipotesi di abusiva rivendicazione giudiziaria di un diritto – ossia nel solo caso in cui l’esercizio sia finalizzato esclusivamente ad arrecare un pregiudizio alla controparte senza alcuna utilità concreta per la parte che vi ricorre – quale rimedio, utilizzato dalla giurisprudenza, per scongiurare quelle distorsioni che ne sarebbero conseguite in assenza di una valutazione sulla meritevolezza dell’interesse perseguito. Nel diritto romano, infatti, il convenuto che opponeva all’azione fatti e/o circostanze non previste dallo ius civile, ma rilevanti secondo la coscienza sociale mediata dal pretore, doveva far inserire nel iudicium una exceptio (61) in mancanza della quale il giudice non avrebbe potuto tener conto delle relative difese ed avrebbe dovuto condannarlo in base all’esistenza del diritto vantato dall’attore. Quale rimedio di portata generale e «diretto a provocare la reiezione dell’altrui pretesa o eccezione che si manifesti doloso esercizio di un diritto », vanta moderne applicazioni rinvenibili, «in materia di titoli di credito, negli artt. 1993, comma 2, c.c., 21 e 65 l. camb., 25 e 57 l. ass.. Tali norme, infatti, pur escludendo l’opponibilità al terzo possessore del titolo delle eccezioni personali ai precedenti possessori, la ammettono ove il possessore medesimo abbia agito intenzionalmente (o scientemente) a danno del debitore. È, allora, possibile la c.d. exceptio doli generalis, essendosi in presenza di un abuso del diritto, posto che l’esercizio del diritto in questione (diritto di credito, connotato dal requisito dell’autonomia rispetto al rapporto fondamentale) travalica la finalità oggettiva della norma che ad esso accorda tutela (salvaguardia della sicurezza dei traffici e dell’affidamento dei terzi)» (62). Da ultimo, «premesso che, come emerge dalla prassi giurisprudenziale, all’abuso del diritto l’ordinamento consente di reagire anche al di fuori del modello dell’art. 2043 c.c.» (63), occorre ora verificare quando quest’ultimo (60) «Per vero il campo di applicazione dell’exceptio doli era più ampio: vi rientravano, oltre al dolo negoziale, una fitta serie di casi in cui, in relazione alle circostanze, appariva iniquo che l’attore conseguisse quanto iure civili gli era dovuto. L’exceptio doli era difatti così formulata: si in ea re nihil dolo malo Auli Aderii factum est neque fiat [ se non v’è stato e né v’è al riguardo dolo di Aulo Agerio]; faceva pertanto riferimento non solo al dolo commesso dall’attore (Aulo Agerio) prima del giudizio (factum est), ma anche al dolo che l’attore commetteva nel momento stesso in cui agiva e per il fatto stesso che agiva (neque fiat). Il primo era pertanto dolo “preterito”, passato, l’altro era un dolo “presente”. L’exceptio doli aveva pertanto una valenza: di exceptio doli praeteriti e di exceptio doli praesentis, detta quest’ultima, per la molteplicità e varietà delle sue applicazioni, anche exceptio doli generalis», MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Palermo, 2001, 157 ss. (61) Ritenuto lo strumento più idoneo a corrigere ius civile. (62) LEVANTI SANDRA, cit. (63) LEVANTI SANDRA, cit. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 possa ritenersi fonte di responsabilità civile (64). L’illecito civile, differentemente da quello penale non è legalmente tipizzato, essendo civilmente illecito qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto: è compito del giudice stabilire se nel caso concreto un dato comportamento violi il principio del neminem laedere (si parla, infatti, di clausola generale di responsabilità civile). L’opera dell’interprete, comunque, non è libera in senso assoluto potendosi trarre dalla norma primaria (65) in discorso taluni indici normativi che devono essere tenuti presenti al fine di una corretta qualificazione della singola vicenda: l’elemento soggettivo della colpa o del dolo; quello oggettivo del comportamento umano, sia esso omissivo o commissivo; l’ingiustizia del danno ed il nesso di causalità tra fatto (comportamento) ed effetto (danno). In ordine al discorso che stiamo compiendo sono due gli indici a meritare attenzione per il loro particolare atteggiarsi nell’ipotesi di esercizio abusivo di un diritto. Il primo è l’elemento soggettivo, a proposito del quale occorre «tener conto tanto dell’orientamento dottrinale dominante che, risentendo in certa misura dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 833 c.c., ritiene necessaria, ai fini dell’abusività (e quindi dell’illiceità) dell’atto di esercizio del diritto, l’intenzione di nuocere - ammettendo, dunque, di essere di fronte ad un’ipotesi in cui l’ambito di operatività dell’art. 2043 c.c. viene ristretto ai soli casi in cui il comportamento antigiuridico sia supportato dal coefficiente psi- (64) Uno dei casi in cui è stata portata all’attenzione della Corte di Cassazione una simile questione, è quella di cui alla sentenza 27 settembre 2001 n. 12094 nella quale può leggersi che «la configurabilità del controllo esterno di una società su di un’altra (quale disciplinata dal primo comma, n. 3, dell’art. 2359 cod. civ. nella formulazione risultante a seguito della modifica apportata dal D.Lgs. n. 127 del 1991 e consistente nella influenza dominante che la controllante esercita sulla controllata in virtù di particolari vincoli contrattuali), postula la esistenza di determinati rapporti contrattuali la cui costituzione ed il cui perdurare rappresentino la condizione di esistenza e di sopravvivenza della capacità di impresa della società controllata; l’accertamento della esistenza di tali rapporti, così come l’accertamento dell’esistenza di comportamenti nei quali possa ravvisarsi un abuso della posizione di controllo tale da convertire una situazione di per sé non illecita nel contesto della vigente disciplina codicista in una condotta illecita causativa di danno risarcibile, costituisce indagine di fatto, rimessa, come tale, all’apprezzamento del giudice del merito e sindacabile in sede di legittimità solo per aspetti di contraddizione interna all’iter logico formale della decisione, ovvero per omissione di esame di elementi determinanti per la decisone stessa (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni proposta, nei confronti di una società facente capo ad un noto stilista e dello stesso in proprio, da alcune società, asseritamente controllate dalla prima, che, su licenza di questa, producevano capi di abbigliamento con la griffe di detto stilista, al fine di far valere la responsabilità aquiliana della società pretesa controllante e del suo amministratore per avere, con il recesso dai contratti stipulati con le attrici, asseritamente concretante un abuso di posizione di controllo, provocato il dissesto delle stesse)». (65) Cass., SS.UU. n. 500/99. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO chico del dolo -, quanto quello di chi, muovendo da una lettura in termini oggettivi del fenomeno dell’abuso del diritto, giunge sostanzialmente a ravvisare in capo all’autore dell’abuso una responsabilità di tipo oggettivo, con la conseguenza che il soggetto che ha» subito un «pregiudizio dall’atto abusivo potrà limitarsi a provare lo sviamento dal fine previsto dalla norma attributiva del diritto, secondo un parametro oggettivo di riscontro, nonché il nesso di causalità» (66) tra fatto ed effetto, «non essendo necessaria la dimostrazione di un atteggiamento doloso o colposo dell’autore dell’abuso» (67). Il secondo indice è invece l’ingiustizia del danno (68), in ordine alla quale va ricordato che spetta al giudice, sulla base di un giudizio di comparazione, individuare gli interessi giuridicamente rilevanti e verificare «se il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta» (69). Con riferimento alla materia dell’abuso è in tale indagine di natura comparativa, condotta alla luce del principio costituzionale di solidarietà (artt. 2 e 41² Cost.) o di leggi ordinarie (70), «che si concreta l’accertamento del requisito dell’abusività, rilevante sub specie di “ingiustizia” del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.: allorché si persegua una finalità che travalichi lo scopo per il quale il diritto stesso è riconosciuto dall’ordinamento, si tende a realizzare un interesse che non appare meritevole di protezione e che pertanto consente» che il danno sia trasferito dal danneggiato al danneggiante, «ponendo a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcirlo» (71). 3. Considerazioni conclusive. In definitiva, la storia dell’istituto mostra come ad una sua precisa caratterizzazione iniziale abbia fatto seguito una sorprendente duttilità. Dall’ambito dei diritti reali – campo d’elezione esclusivo, ab origine, delle discussioni dottrinali e giurisprudenziali in materia di abuso del diritto – si è, infatti, pervenuti ad ammetterne la configurabilità anche nell’area dei diritti di credito, indivi- (66) LEVANTI SANDRA, cit. (67)LEVANTI SANDRA, cit. (68) Originariamente l’affermazione della ricorrenza di un simile requisito incontrava difficoltà per la vigenza, nell’ordinamento italiano, del principio qui iure suo utitur neminem laedit (chi usa del proprio diritto non può nuocere ad altri). Il danno eventualmente arrecato, infatti, proprio perché conseguenza di un atto di esercizio del diritto, non era ingiusto ex art. 2043 c.c., escludendo così il sorgere dell’obbligo di risarcimento. Attraverso la rimeditazione del brocardo e ammettendo la necessità, in tale materia, di una valutazione comparativa di tutte le caratteristiche della fattispecie, si è pervenuti a ritenere possibile l’addebito in capo all’autore della condotta abusiva della responsabilità aquiliana. (69) LEVANTI SANDRA, cit. (70) Dalle quali ricavare, a contrario, che il danno è stato arrecato non iure, mancando una causa di giustificazione. (71) LEVANTI SANDRA, cit. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 duando il criterio di accertamento (72) non più nell’art. 833 c.c., bensì nelle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., in punto di inesigibilità della prestazione, di esecuzione del contratto, di exceptio doli, recesso ad nutum e allorquando siano coinvolti interessi più generali, quali quello delle società, per l’impugnativa delle delibere. Viste le considerazioni che precedono, sembra possibile affermare che il nostro sistema legale sia in armonia con quanto dalla prassi giurisprudenziale della Corte di Giustizia può evincersi sul punto. Trova infatti conferma l’opportunità della scelta, operata dal nostro Legislatore, nel senso della non codificazione del principio de qua, come l’assenza di un unitario criterio d’applicazione, cui consegue una varietà strutturale inevitabile e dipendente dalle caratteristiche specifiche di ciascuna fattispecie concreta rispetto alla quale risulti ipotizzabile. Così anche nel diritto comunitario, come si professa l’immanenza all’ordinamento giuridico dell’Unione Europea di un principio interpretativo di portata generale, al pari di quello di certezza del diritto e del legittimo affidamento, qual è quello che vieta abusi (73), così si predica anche quel diverso atteggiarsi della nozione in ragione delle caratteristiche peculiari di ogni settore del diritto - che come letto nelle conclusioni dell’Avvocato Generale deve ritenersi perfettamente naturale in ogni sistema legale - e che ha indotto la Corte a specificare, con riferimento alla materia fiscale, quel parametro di portata generale dalla stessa delineato nella sentenza Emsland Stärke per rinvenire pratiche abusive. Si ricordi che nel settore IVA, a giudizio della Corte, «perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale». Nonostante opinioni contrarie, anche in questo caso, sembra di poter negare la sussistenza di scostamenti da parte della nostra giurisprudenza di legittimità dalle posizioni assunte a livello comunitario, potendosi leggere, in una recente sentenza della Corte di Cassazione, che «in tema di IVA, nell’ordinamento comunitario, in base all’art. 17 della direttiva CEE 17 maggio 1977, n. 388, e, quindi, anche in quello interno (cfr. la pronuncia del 21 febbraio 2006, resa dalla Corte di Giustizia CE, in causa C-419/02 (74)), deve considerarsi in ogni caso vigente (anche a prescindere dall’applicabilità “ratio- (72) Tanto il divieto di atti emulativi, quanto i principi di correttezza e buona fede, sarebbero, comunque, manifestazioni di quel principio di solidarietà ex art. 2 del dettato costituzionale, come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva. (73) Così respingendo le ricostruzioni di quanti neghino, in quanto non codificato, la vigenza di un siffatto principio nel nostro ordinamento. Uno per tutti, SANTORO-PASSARELLI, della cui posizione si è dato conto supra, in apertura del § 2.1. (74) Presente anch’essa, come la Huddersfield e la Halifax, nelle conclusioni dell’Avvocato Generale. 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ne temporis” di norme interne antielusive, quale quella introdotta dall’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973) il principio di indetraibilità dell’IVA assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni, che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva» (75). Si auspica comunque dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a breve a pronunciarsi in materia di dividend washing e dividend stripping (76), l’enunciazione di principi e criteri direttivi generali in ordine a tale nozione – a tutt’oggi intesa nel senso generico di difformità dell’esercizio del diritto dalla ragione della tutela legislativa-, sì da dirimere e dissipare quelle controversie e quei dubbi che sono emersi nei tentativi di ricostruzione del principio succedutesi nel tempo e chiarire, più specificatamente, se possa ritenersi definitivo l’abbandono delle visioni soggettivistiche dell’abuso del diritto in favore di quella lettura, in chiave oggettiva – cioè scevra da indagini in ordine all’intenzione dell’autore dell’atto di esercizio -, che appare essere stata fatta propria dalla dottrina e dalla giurisprudenza comunitarie (77). Dott.ssa Lavinia Tirelli(*) (75) Cass. 5 maggio 2006, n. 10352. Tra le massime precedenti conformi, Cass. 2 febbraio 2004, n. 1863; 14 novembre 2005, n. 22932; 24 febbraio 2006, n. 4230 e Cass. 4 febbraio 2005, n. 2300 in cui si legge che «in tema di IVA, la possibilità di portare in detrazione, dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, l’imposta assolta o dovuta dal contribuente e a lui addebitata a titolo di rivalsa, in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione, ai sensi dell’art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 17 Dir. CEE 17 maggio 1977, n. 388, è consentita, per le operazioni passive, soltanto “nella misura in cui i beni e servizi sono impiegati ai fini delle sue operazioni soggette a imposta”. In particolare, la possibilità di detrarre l’imposta inerente a operazioni passive richiede che i beni e i servizi acquisiti siano impiegati nell’ambito di una delle attività economiche indicate nella direttiva e che l’inerenza a tale attività economica sia specificamente provata ogni qual volta essa venga posta in dubbio dall’Amministrazione Finanziaria». (76) Ricorsi n. 6527/2000, 6532/2000 e 8029/2001. (77) Da ultimo si segnala che con l’ordinanza 4 ottobre 2006, n. 21371, la Corte di Cassazione sez. V civile, ha sottoposto alla Corte europea di Giustizia i seguenti quesiti: 1) se la nozione di abuso del diritto, definita dalla sentenza della Corte di Giustizia in causa C- 255/02 come “operazione essenzialmente compiuta al fine di conseguire un vantaggio fiscale” sia coincidente, più ampia o più restrittiva di quella di “operazione non avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale”; 2) se - ai fini dell’applicazione dell’IVA - possa essere considerato abuso del diritto (o di forme giuridiche), con conseguente mancata percezione di entrate comunitarie proprie derivanti dall’imposta sul valore aggiunto, una separata conclusione di contratti di locazione finanziaria (“leasing”), di finanziamento, di assicurazione e di intermediazione, avente come risultato la soggezione ad IVA del solo corrispettivo della concessione in uso del bene, laddove la conclusione di un unico contratto di “leasing” secondo la prassi e l’interpretazione della giurisprudenza nazionale avrebbe come oggetto anche il finanziamento e, quindi, comporterebbe l’imponibilità Iva dell’intero corrispettivo. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza 21 febbraio 2006 (*), nel procedimento C-223/03 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal VAT and Duties Tribunal, Manchester (Regno Unito), con decisione 16 maggio 2003, pervenuta in cancelleria il 22 maggio 2003, nel procedimento University of Huddersfield Higher Education Corporation c/ Commissioners of Customs & Excise – Pres. V. Skouris – Rel. S. von Bahr – Avv. Gen. M. Poiares Maduro (Avv. dello Stato G. De Bellis). Sesta direttiva IVA – Art. 2, punto 1, art. 4, nn. 1 e 2, art. 5, n. 1, e art. 6, n. 1 – Attività economica – Cessioni di beni – Prestazioni di servizi – Operazioni aventi il solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. «(omissis) 1.- La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata con direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L 102, pag. 18; in prosieguo: la «sesta direttiva»). 2 .- Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra l’University of Huddersfield Higher Education Corporation (in prosieguo: l’«Università») e i Commissioners of Customs & Excise (in prosieguo: i «Commissioners») a proposito di una rettifica operata da questi ultimi della deduzione effettuata dall’Università, nell’ambito di un piano di riduzione dell’onere fiscale, dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») pagata a monte per il restauro di un mulino. CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 3.- L’art. 2, punto 1, della sesta direttiva assoggetta a IVA le cessioni di beni come pure le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. 4.- Ai sensi dell’art. 4, n. 1, di tale direttiva, è considerato soggetto passivo chiunque esercita in modo indipendente una delle attività economiche menzionate nel n. 2 di tale articolo. La nozione di «attività economiche» è definita nel detto n. 2 come tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi e, in particolare, le operazioni che comportano lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità. 5.- L’art. 4, n. 4, secondo comma, della sesta direttiva precisa: «Con riserva della consultazione di cui all’articolo 29, ogni Stato membro ha la facoltà di considerare come unico soggetto passivo le persone residenti all’interno del paese che siano giuridicamente indipendenti, ma strettamente vincolate fra loro da rapporti finanziari, economici ed organizzativi». 6.- A tenore dell’art. 5, n. 1, di questa stessa direttiva «si considera “cessione di un bene” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario». * Lingua processuale: l’inglese. 7.- Secondo l’art. 6, n. 1, della sesta direttiva «si considera “prestazioni di servizi” ogni operazione che non costituisce cessione di un bene ai sensi dell’articolo 5». 8.- L’art. 13, parte A, n. 1, sub i), di questa stessa direttiva prevede che gli Stati membri esonerano dall’IVA, tra l’altro, l’insegnamento universitario. 9.- L’art. 13, parte B, lett. b), della sesta direttiva dispone che gli Stati membri esonerano l’affitto e la locazione di beni immobili. Tuttavia, l’art. 13, parte C, lett. a), di questa stessa direttiva autorizza gli Stati membri ad accordare ai loro soggetti passivi il diritto di optare per l’imposizione nel caso di affitto e locazione di beni immobili. 10.- L’art. 17, n. 2, lett. a), della detta direttiva prevede: «Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo». 11.- Per quanto riguarda i beni e i servizi utilizzati da un soggetto passivo per effettuare sia operazioni che danno diritto alla detrazione sia operazioni che non vi danno diritto, l’art. 17, n. 5, primo capoverso, della sesta direttiva precisa che «la deduzione è ammessa soltanto per il prorata dell’imposta sul valore aggiunto relativo alla prima categoria di operazioni ». 12.- A termini del secondo comma di tale disposizione, «detto prorata è determinato ai sensi dell’articolo 19 per il complesso delle operazioni compiute dal soggetto passivo». LA CAUSA A QUA E LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE 13.- Dalla decisione di rinvio risulta che l’Università fornisce essenzialmente prestazioni di insegnamento, che sono prestazioni esenti da IVA. Tuttavia, poiché effettua altresì talune cessioni di beni o prestazioni soggette ad imposta, l’Università può, in forza del diritto nazionale, ricuperare l’IVA assolta a monte secondo l’aliquota del suo assoggettamento parziale, la quale nel 1996 era del 14,56% e che successivamente è scesa al 6,04%. 14.- Il giudice a quo rileva che, nel 1995, l’Università decideva di restaurare due mulini in rovina, sui quali aveva acquistato un diritto reale di usufrutto («leasehold»). Tali due mulini sono conosciuti coi nomi di «West Mill» e d’«East Mill» e si trovano a Canalside, Huddersfield. Poiché l’IVA pagata a monte sulle spese di ristrutturazione era in ampia parte irrecuperabile in condizioni normali, l’Università ha cercato un modo di ridurre il suo onere fiscale o di ritardare il momento in cui la tassa avrebbe dovuto essere assolta. 15.- In primo luogo ha effettuato e pagato i lavori realizzati sull’West Mill. Con atto 27 novembre 1995 veniva costituito un trust discrezionale (in prosieguo: il «trust»). L’atto autentico conteneva disposizioni che riservavano all’Università il potere di nomina e di revoca dei «trustees». I «trustees» nominati erano tre ex dipendenti dell’Università e i beneficiari erano l’Università, qualsiasi studente iscritto in un determinato momento e qualsiasi associazione di beneficenza. Alla stessa data, l’Università concludeva con i «trustees» un contratto di garanzia («Deed of Indemnity») in forza del quale garantiva questi ultimi da ogni responsabilità presente e futura derivante da varie operazioni. 16.- Il giudice a quo rileva che l’unico fine della costituzione del trust era quello di rendere possibile la realizzazione del piano di riduzione dell’onere fiscale proposto per l’East Mill il cui oggetto era il recupero da parte dell’Università dell’IVA sulle spese di ristrutturazione. 17.- Per quanto riguarda l’East Mill, che è l’edificio direttamente interessato nella causa a qua, dalla decisione di rinvio risulta che, conformemente al piano proposto dai suoi consulenti fiscali, il 21 novembre 1996 l’Università optava per la tassazione dell’affitto dell’East 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Mill e, il 22 novembre 1996, concedeva tale affitto imponibile al trust per 20 anni. Il contratto di affitto conteneva una clausola che consentiva all’Università di porvi fine al sesto, decimo e quindicesimo anno di affitto. Il canone annuo iniziale veniva fissato nella somma simbolica di GBP 12,50. Alla stessa data, il trust, che aveva anche optato per la cessione con IVA, concedeva a sua volta all’Università una sublocazione imponibile per la durata di venti anni meno tre giorni ad un canone annuo iniziale del simbolico importo di GBP 13 . 18.- Dalla decisione del giudice a quo risulta ancora che, il 22 novembre 1996, l’University of Huddersfield Properties Ltd (in prosieguo: «Properties»), una società interamente controllata dall’Università non facente parte dello stesso gruppo IVA ai sensi dell’art. 4, n. 4, secondo comma, della sesta direttiva, fatturava a quest’ultima un importo di GBP 3 500 000 più GBP 612 500 di IVA, per i futuri servizi di costruzione sull’East Mill. Il 25 novembre 1996, la Properties concludeva con l’Università un contratto in vista della ristrutturazione dell’East Mill. L’Università regolava la fattura della Properties a una data indeterminata. Il giudice a quo fa presente che non è stata fornita alcuna prova di una qualsiasi intenzione della Properties di conseguire un profitto fornendo servizi di costruzione all’Università e da ciò conclude che quest’ultima non aveva intenzione che la Properties conseguisse un siffatto profitto. 19.- La Properties incaricava imprenditori terzi ai prezzi di mercato per fornire all’Università i servizi di costruzione necessari per la ristrutturazione dell’East Mill. 20.- Nella dichiarazione IVA per il periodo di gennaio 1997, l’Università, la quale aveva un debito netto di oltre GBP 90 000, evidenziava un rimborso a suo favore di GBP 515 000, somma che i Commissioners, previa verifica, le avrebbero pagato senza riserve consentendole di recuperare l’IVA fatturata dalla Properties. 21.- I lavori sull’East Mill venivano portati a termine da imprenditori terzi il 7 settembre 1998 e in questa stessa data l’Università incominciava ad occupare l’immobile. Successivamente, i canoni dovuti in forza della locazione e della sublocazione venivano aumentati fino a raggiungere GBP 400 000 e, rispettivamente, GBP 415 000 l’anno. 22.- Il giudice a quo rileva che l’utilizzo di un trust nel contesto dell’East Mill e l’affitto da parte dell’Università al trust avevano il solo obiettivo di facilitare il piano di riduzione dell’onere fiscale. Rileva inoltre che il solo fine della sublocazione dell’East Mill da parte del trust all’Università era quello di agevolare tale piano. Rileva infine che l’Università aveva l’intenzione di ottenere un risparmio fiscale assoluto ponendo termine alla montatura IVA posta in essere per l’East Mill entro due o tre anni, o al sesto, decimo e quindicesimo anno di locazione (ponendo in tal modo anche termine al pagamento dell’IVA sui canoni di affitto). 23.- Il giudice a quo rileva ancora che l’insieme di tali operazioni erano operazioni effettive, nel senso che esse hanno dato luogo a cessioni di beni o a prestazioni di servizi realmente effettuati. Non si trattava pertanto di parvenze. 24.- Con lettera 26 gennaio 2000, i Commissioners reclamavano dall’Università, per il periodo di gennaio 1997, un importo di GBP 612 500 a titolo di IVA su servizi di costruzione forniti dalla Properties per l’East Mill. La lettera faceva altresì presente che tale imposta era stata attribuita in modo non corretto a cessioni di beni o prestazioni imponibili e che si trattava di una sottovalutazione dell’importo dell’IVA dichiarata. 25.- Il giudice a quo precisa che, in questa stessa lettera, i Commissioners qualificavano i contratti di affitto conclusi con il trust come «operazioni inserite» di cui si poteva fare a meno per suffragare la validità delle domande di recupero di IVA pagata a monte presentate dall’Università. Sulla linea di tale ragionamento, i Commissioners sono arrivati alla conclusione che l’IVA pagata a monte e richiesta all’Università dalla Properties era stata IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 trattata in modo non corretto dall’Università in quanto era stata attribuita a cessioni di beni o prestazioni imponibili e interamente recuperata. 26.- L’Università presentava ricorso dinanzi al VAT and Duties Tribunal avverso la rettifica IVA notificata dai Commissioners con lettera 26 gennaio 2000. 27.- Secondo la decisione di rinvio, i Commissoners sostengono che un’operazione effettuata unicamente o prevalentemente allo scopo di eludere l’IVA non è una «cessione di beni o prestazione di servizi». Parimenti, non si tratterebbe di un adempimento effettuato nell’ambito o nel compimento di un’«attività economica». 28.- In subordine, i Commissioners sostengono che una siffatta operazione deve, conformemente al principio generale del diritto in materia di prevenzione dell’«abuso di diritto », essere messa da parte e i termini della sesta direttiva devono essere applicati all’effettiva natura dell’operazione di cui trattasi. 29.- L’Università sostiene, in particolare, che le operazioni di cui trattasi non sono state, contrariamente a quanto sostenuto dai Commissioners «effettuate al solo scopo o con lo scopo prevalente di eludere l’imposta». Per quanto sia vero che i fatti, quali interpretati dall’Università, hanno dato luogo ad un consistente rimborso di IVA pagata a monte, immediatamente «disponibile», questi stessi fatti avrebbero anche dato luogo a consistenti pagamenti di IVAper una certa durata. Inoltre, anche se un’operazione fosse stata effettuata «nell’unico scopo, o con lo scopo prevalente di eludere l’imposta», la sola conseguenza sarebbe che a tale operazione verrebbero applicate tutte le norme antievasione che lo Stato membro avrebbe adottato in forza dell’una o dell’altra autorizzazione ai sensi dell’art. 27, n. 1, della sesta direttiva. Nessuna norma di questo tipo sarebbe stata tuttavia adottata dal Regno Unito. 30.- L’Università ritiene che un adempimento può essere qualificato evasione fiscale solo se: 1) la conseguenza obiettiva dell’operazione è contraria allo spirito e alle finalità della sesta direttiva, e se 2) l’intento soggettivo dell’operatore era quello di raggiungere tale risultato, il che nella causa a qua non ricorre. 31.- Il giudice a quo rileva tuttavia che alle operazioni effettuate dall’Università è stato dato corso al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Esse non hanno avuto alcuna autonoma finalità economica, e si sintetizzano in un piano di dilazione di pagamento con un meccanismo intrinseco che consente, in una data successiva, un risparmio fiscale in termini assoluti. Il giudice a quo da ciò conclude che tali operazioni si concludono nella elusione dell’imposta. Inoltre, gli accertamenti di merito mostrano chiaramente che l’intento soggettivo dell’Università e del trust era quello di raggiungere tale risultato. 32.- Ciò considerato il VAT and Duties Tribunal, Manchester, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se, nel caso in cui: i) un’università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile a un Trust costituito e controllato dall’università; ii) il Trust rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a tale immobile e concede all’università la sublocazione dell’immobile; iii) l’università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di svolgere un’attività economica indipendente; iv) la locazione e il leaseback [retrolocazione] costituivano, nell’intenzione dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento dell’IVA con la caratteristica intrinseca di permettere un risparmio fiscale assoluto in un periodo successivo; 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO a) la locazione e la sublocazione costituiscano forniture tassabili ai fini della sesta direttiva; b) esse costituiscano attività economiche nel senso della seconda frase dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva IVA». SULLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE 33.- Con la questione pregiudiziale sollevata, il giudice a quo vuole in sostanza sapere se operazioni come quelle di cui alla causa a qua costituiscano cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, qualora esse siano effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico. Osservazioni sottoposte alla Corte 34.- L’Università sostiene che, nelle condizioni esposte nella decisione di rinvio, l’affitto e la sublocazione sono operazioni imponibili e attività economiche ai sensi della sesta direttiva. 35.- Il governo del Regno Unito ritiene che, qualora, in condizioni quali quelle accertate dal giudice a quo, una persona giuridica come l’Università conceda in affitto un immobile ad un terzo che è ad essa legato e da essa controllato, come il trust, e qualora quest’ultimo subaffitti il bene all’Università al solo scopo di ottenere un rinvio o evitare, in termini assoluti, il pagamento dell’IVA che sarebbe stata altrimenti in gran parte irrecuperabile in ragione del fatto che l’immobile viene utilizzato nell’ambito della sua attività di insegnamento universitario esente, – detta Università non svolga attività economica ai sensi dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva; più esattamente, una persona giuridica come l’Università non è impegnata nello sfruttamento di un bene immobile al fine di trarne profitti aventi carattere duraturo qualora il suo obiettivo nell’effettuare l’operazione sia quello di eludere l’IVA, e – né il contratto di affitto né la sublocazione costituiscono prestazioni di servizi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva. 36.- L’Irlanda sostiene che, in circostanze quali quelle di cui alla causa a qua, l’affitto e la sublocazione non possono essere qualificate «attività economiche» ai sensi dell’art. 4, n. 2, seconda frase, della sesta direttiva e non sono, in quanto tali, operazioni imponibili ai sensi di tale direttiva. 37.- Il governo italiano considera che, per valutare in quale misura beni o servizi sui quali si vuole dedurre l’IVA siano utilizzati sia per operazioni che danno diritto a deduzione sia per operazioni che non vi danno diritto, non possono prendersi in considerazione strumenti o operazioni intrapresi al solo scopo di evitare l’applicazione del meccanismo del prorata (e approfittare così della deduzione integrale), in quanto siffatti strumenti o operazioni non costituiscono, per i soggetti autorizzati a operare la deduzione, un’attività economica ai sensi dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva. 38.- La Commissione sostiene che, nell’applicare le nozioni di «attività economica» e di «cessione di beni e prestazioni di servizi» ai sensi degli artt. 4, 5 e 6 della sesta direttiva, si deve tener conto delle caratteristiche obiettive delle transazioni e delle attività di cui trattasi. Lo scopo della cessione dei beni e della prestazione di servizi non sarebbe conferente. 39.- Tuttavia, qualora un soggetto passivo o un gruppo di soggetti passivi aventi tra loro legami si impegnino in una o più operazioni che non hanno giustificazione economica, ma che producono una situazione artificiale il cui solo scopo è quello di creare le condizioni necessarie per il recupero dell’IVA pagata a monte, tali operazioni non dovrebbero essere prese in considerazione, perché integrerebbero una pratica abusiva. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 Giudizio della Corte 40.- Si deve innanzi tutto ricordare che la sesta direttiva istituisce un sistema comune d’IVA fondato, in particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili (v., segnatamente, sentenza 26 giugno 2003, causa C-305/01, MGK-Kraftfahrzeuge-Factoring, Racc. pag. I-6729, punto 38). 41.- A questo proposito, la sesta direttiva attribuisce all’IVA un campo di applicazione molto ampio prevedendo, all’art. 2, relativo alle operazioni imponibili, oltre alle importazioni di beni, anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. 42.- Per quanto riguarda, in primo luogo, la nozione di «cessione di beni», l’art. 5, n. 1, della sesta direttiva precisa che è considerato siffatta cessione il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario. 43.- Dalla giurisprudenza della Corte risulta che tale nozione comprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuato da una parte che autorizza l’altra a disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario (v., in particolare, sentenze 8 febbraio 1990, causa C-320/88, Shipping and Forwarding Enterprise Safe, Racc. pag. I-285, punto 7, e 21 aprile 2005, causa C-25/03, HE, Racc. pag. I-3123, punto 64). 44.- Per quanto riguarda la nozione di «prestazioni di servizi», dall’art. 6, n. 1, della sesta direttiva risulta che in essa rientra ogni operazione che non costituisca una cessione di un bene ai sensi dell’art. 5 della medesima direttiva. 45.- Inoltre, secondo l’art. 4, n. 1, della sesta direttiva, si considera come soggetto passivo chiunque eserciti in modo indipendente un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di tale attività. 46.- Infine, la nozione di «attività economiche» è definita dall’art. 4, n. 2, della sesta direttiva come comprensiva di «tutte» le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi e, secondo la giurisprudenza, comprende tutte le fasi produttive, distributive e della prestazione di servizi (v., segnatamente, sentenze 4 dicembre 1990, causa C-186/89, Van Tiem, Racc. pag. I-4363, punto 17, e MGK-Kraftfahrzeuge-Factoring, cit., punto 42). 47.- Come constatato dalla Corte al punto 26 della sentenza 12 settembre 2000, causa C-260/98, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-6537), l’analisi delle definizioni delle nozioni di soggetto passivo e di attività economiche mette in rilievo l’ampiezza della sfera di applicazione della nozione di attività economiche e del suo carattere obiettivo, nel senso che l’attività viene considerata di per sé, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati (v., altresì, sentenza 26 marzo 1987, causa 235/85, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1471, punto 8, come pure, in questo senso, in particolare, sentenze 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman, Racc. pag. 655, punto 19, e 27 novembre 2003, causa C-497/01, Zita Modes, Racc. pag. I-1493, punto 38). 48.- Infatti, la detta analisi nonché quella delle nozioni di cessioni di beni e di prestazioni di servizi dimostrano che tali nozioni, che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della stessa direttiva, hanno tutte un carattere obiettivo e che si applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi (v., in questo senso, sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., Racc. pag. I- 0000, punto 44). 49.- Come constatato dalla Corte al punto 24 della sentenza 6 aprile 1995, causa C-4/94, BLP Group (Racc. pag. I-983), un obbligo dell’amministrazione fiscale di procedere a indagine per accertare la volontà del soggetto passivo sarebbe contrario agli scopi del 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sistema dell’IVA di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto dando rilevanza, salvo casi eccezionali, alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi. 50.- Da ciò consegue che operazioni come quelle di cui alla causa a qua costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, dal momento che integrano i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate. 51.- Se è certamente vero che tali criteri non sono soddisfatti in caso di frode fiscale, per esempio, mediante false dichiarazioni o con l’emissione di fatture irregolari, resta ciò non di meno che la questione se l’operazione di cui trattasi sia effettuata al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale non è pertinente per determinare se siffatta operazione costituisca una cessione di beni o una prestazione di servizi e un’attività economica. 52.- Ciò considerato, si deve tuttavia rilevare che, come risulta dal punto 85 della sentenza di questo stesso giorno nella causa C-255/02, Halifax e a. (Racc. pag. I-0000), la sesta direttiva osta al diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA pagata a monte qualora le operazioni sulle quali tale diritto si basa integrino una pratica abusiva. 53.- Da quanto precede consegue che la questione pregiudiziale va risolta nel senso che operazioni quali quelle oggetto della causa a qua costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva, qualora integrino i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate, anche se sono effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale senza altro obiettivo economico. SULLE SPESE 54.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per sottoporre osservazioni alla Corte non possono costituire oggetto di rimborso. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: Operazioni quali quelle oggetto della causa a qua costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata con direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE, qualora integrino i criteri obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate, anche se sono effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico ». Osservazioni del Governo della Repubblica italiana nella causa C-223/03 – The Commissioners of Customs and Excise c/ University Huddersfield Education Corporation, promossa dal Tribunale di Manchester con ordinanza 13 maggio 2003 (ct. 33968/03, Avv. dello Stato G. De Bellis). «1. Con ordinanza pronunciata il 13 maggio 2003 il Tribunale di Manchester ha sollevato davanti alla Corte una questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 CE nell’ambito di una controversia che vede contrapposti The Commissioners of Customs and Excise (di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 seguito “I Commissioners”) e la University Huddersfield Education Corporation (di seguito “L’Università”). 2. Dal contenuto della decisione emessa il 16 ottobre 2002 dallo stesso Tribunale di Manchester ed allegata all’ordinanza di rimessione, risulta che i Commissioners hanno ritenuto indebita la detrazione dell’IVA che l’Università aveva assolto in relazione ad operazioni di ristrutturazione di due mulini (West Mill e East Mill). 3. Poiché l’attività prevalentemente svolta dall’Università (servizi di istruzione) era esente da IVA, per effetto del meccanismo del pro-rata l’IVA assolta per la ristrutturazione dei due mulini avrebbe potuto essere portata in detrazione solo in misura minima (14,56% nel 1996, ridotta in seguito al 6,04%). 4. Secondo il giudice rimettente (punti da 29 a 33 e 49 della decisione 16 ottobre 2002), l’Università avrebbe posto in essere una serie di operazioni (costituzione di un Trust a cui veniva concesso in locazione l’immobile da ristrutturare e successiva sublocazione dello stesso immobile all’Università), il cui unico scopo era quello di ottenere il rimborso integrale dell’IVA assolta. 5. Il Tribunale precisa ancora (punto 53) “È pacifico che tutte le operazioni che rientravano negli accordi relativi a ciascun piano erano reali: esse si sono tradotte in forniture effettivamente realizzate, e cioè non fittizie”. 6. I quesiti che vengono sottoposti all’esame della Corte sono pertanto i seguenti: Se nel caso in cui: 1. un’Università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile a un Trust costituito e controllato dall’Università; 2. il Trust rinuncia al suo diritto all’’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a tale immobile e concede all’Università la sublocazione dell’immobile; 3. l’Università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di svolgere un’attività economica indipendente; 4. la locazione e il leasebak (retrolocazione) costituivano nell’intenzione dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento dell’IVA con la caratteristica intrinseca di permettere un risparmio fiscale assoluto in un periodo successivo: a) la locazione e la sublocazione costituiscono forniture tassabili ai fini della sesta direttiva b) esse costituiscono attività economiche nel senso della seconda frase dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva IVA. 7. Il Governo italiano ritiene che oggetto del contendere nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Manchester, sia il fatto che l’Università abbia potuto portare integralmente in detrazione l’IVA assolta per la ristrutturazione di due immobili, nonostante gli stessi fossero destinati all’esercizio di attività per la gran parte esenti da imposta. 8. Secondo i Commissioners (punto 55 della decisione del 16 ottobre 2002) “la locazione e la sublocazione con il Trust sono giustamente classificate come atti artificialmente interposti (….) e che tali atti non possono essere presi in considerazione per determinare la validità delle pretese relative all’imposta pagata a monte avanzate dall’Università. … Se non si prendono in considerazione la locazione e la sublocazione risulta che l’imposta pagata a monte imputata da Properties all’Università è stata gestita non correttamente da quest’ultima in quanto è stata imputata a prestazioni tassabili e integralmente recuperata”. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 9. Essendo in contestazione il diritto della detrazione dell’imposta assolta a monte, si pone in realtà un problema di interpretazione dell’articolo 17 della direttiva n. 77/388/CEE, il quale dispone al paragrafo 2: “2 Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: a) l’imposta sul valore aggiunto dovuto o assolta per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo; b) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per le merci importate; c) l’imposta sul valore aggiunto dovuta ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 7, lettera a), e dell’articolo 6, paragrafo 3”. 10. Il successivo paragrafo 5 dispone “5. Per quanto riguarda i beni ed i servizi utilizzati da un soggetto passivo sia per operazioni che danno diritto a deduzione di cui ai paragrafi 2 e 3, sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, la deduzione è ammessa soltanto per il prorata dell’imposta sul valore aggiunto relativo alla prima categoria di operazioni. Detto prorata è determinato ai sensi dell’articolo 19 per il complesso delle operazioni compiute dal soggetto passivo”. 11. Il quesito formulato dal giudice a quo riguarda allora sostanzialmente l’esatta portata dell’articolo 17 paragrafo 5 della direttiva n. 77/388/CEE e cioè se tale disposizione debba essere interpretata nel senso che per valutare in quale misura i beni ed i servizi la cui IVA si intende portare in detrazione siano utilizzati sia per operazioni che danno diritto a detrazione, sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, non devono considerarsi quegli accorgimenti o quelle operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di evitare l’applicazione del meccanismo del pro-rata usufruendo dell’intera detrazione. Ad un tale quesito il Governo italiano ritiene debba essere data risposta positiva. 12. Le condizioni di ammissibilità del diritto alla detrazione previsto dall’articolo 17 della direttiva n. 77/388/CEE sono state chiaramente enunciate dalla Corte nella sentenza 13 dicembre 1989 emessa nella causa C-342/87 (Genius Holding BV). 13. In tale decisione la Corte ha stabilito il principio che il diritto a detrazione dell’imposta assolta “è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’IVA o versate in quanto erano dovute”. 14. In particolare la Corte, dopo aver analizzato varie disposizioni nonché i lavori preparatori della direttiva 77/388/CEE, ha precisato (al punto 17) che “Questa interpretazione dell’art. 17, n. 2, lett. a), è quella che meglio consente di prevenire le frodi fiscali che sarebbero agevolate qualora ogni imposta fatturata potesse essere detratta”. Tale posizione è stata di recente ribadita dalla stessa Corte nella sentenza 19 settembre 2000 in causa C-454/98 (punto 53). 15. Nel giudizio a quo, il Tribunale ha accertato che le operazioni di costituzione del Trust, di locazione e successiva sublocazione, avevano come esclusiva finalità “l’ottimizzazione dell’IVA” nel senso di consentire la detraibilità intera (anziché nella percentuale del pro-rata) dell’IVA assolta per la ristrutturazione degli immobili. 16. Tali operazioni, afferma il Tribunale (punto 136) “sono state effettuate ed eseguite con l’unica intenzione di ottenere un vantaggio fiscale: esse non avevano finalità economica autonoma“. 17. Una simile connotazione (mancanza di una finalità economica diversa dal risparmio fiscale), porta ad escludere che di tali operazioni si possa tenere conto al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’articolo 17 paragrafo 5 della direttiva n. 77/388/CEE. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 18. La difesa dell’Università davanti al Tribunale (punti da 94 a 98) ha sostenuto che i Commissioners avevano illegittimamente proceduto ad una riclassificazione delle operazioni; a conferma di ciò ha citato la sentenza 9 ottobre 2001 (in causa C-108/99 – Cantor) nella quale la Corte ha affermato (punto 33) “Il principio della neutralità fiscale non implica che un soggetto passivo il quale ha la scelta tra due operazioni possa scegliere l’una e far valere gli effetti dell’altra”. 19. Il richiamo a tale pronuncia non appare però pertinente, in quanto in quel giudizio non era in discussione la circostanza che le operazioni poste in essere avevano reali finalità economiche. 20. Una questione del genere è stata invece affrontata nella sentenza 17 luglio 1997 (in causa C-28/95 A. Leur Bloem) in cui la Corte era chiamata ad interpretare l’articolo 11 n. 1 lett. a) della direttiva 90/434/CEE il quale dispone: «1. Uno Stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte le disposizioni dei titoli II, III e IV o revocarne il beneficio qualora risulti che l’operazione di fusione di scissione, di conferimento d’attivo o di scambio di azioni: a) ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale; il fatto che una delle operazioni di cui all’art. 1, non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione, può costituire la presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali». 21. Ai punti 46 e 47 della sentenza la Corte ha affermato: “Con la seconda questione sub e), il giudice nazionale domanda se una compensazione fiscale orizzontale delle perdite tra le società che partecipano all’operazione costituisca una valida ragione economica ai sensi dell’art. 11 della direttiva. Dalla formulazione e dagli obiettivi dell’art. 11, come da quelli della direttiva, risulta che la nozione di valide ragioni economiche trascende la mera ricerca di un’agevolazione puramente fiscale. Pertanto, un’operazione di fusione per scambio di azioni unicamente volta a raggiungere tale scopo non può costituire una valida ragione economica ai sensi del detto articolo” (la sottolineatura è nostra). 22. Analoghi principi si ritiene debbano valere in sede di interpretazione della direttiva n. 77/388/CEE, la quale nel prevedere all’articolo 4 il concetto di attività economica ai fini dell’IVA, non può in alcun modo riferirsi ad attività che abbiano finalità di pura elusione fiscale. 23. Ma allora se un’operazione (quale la locazione e sublocazione effettuata dall’Università) non può essere qualificata come economica nel senso voluto dalla direttiva n. 77/388/CEE, alla stessa operazione non potrà essere attribuito alcun rilievo in sede di determinazione della percentuale di IVA detraibile agli effetti dell’articolo 17 paragrafo 5 della medesima direttiva. In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte rispondere al quesito sottoposto al suo esame affermando che per valutare in quale misura i beni ed i servizi la cui IVA si intende portare in detrazione siano utilizzati sia per operazioni che danno diritto a detrazione sia per operazioni che non conferiscono tale diritto, non devono essere presi in considerazione quegli accorgimenti o quelle operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di evitare l’applicazione del meccanismo del pro-rata (usufruendo dell’intera detrazione), in quanto tali accorgimenti ed operazioni non costituiscono, nei confronti del soggetto autorizzato ad operare la detrazione, attività economica ai sensi dell’articolo 4 paragrafo 2 della direttiva n. 77/388/CEE. Roma, 2 ottobre 2003 Avvocato dello Stato Gianni De Bellis» 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’obbligo di annullamento di atti amministrativi “anticomunitari” (Corte di giustizia delle Comunità Europee, sentenza 19 settembre 2006, nelle cause C-392/04 e C-422/04) La Corte di Giustizia è tornata ad affrontare il problema della sorte degli atti amministrativi divenuti definitivi a seguito della sopravvenienza di norme comunitarie con essi contrastanti. Con la sentenza 19 settembre 2006, in cause riunite C-392/04 e C- 422/04, il giudice comunitario si è pronunciato su una domanda pregiudiziale proposta nell’ambito di due controversie tra i - 21 Germany GmbH, da un lato, Arcor AG & Co. KG, dall’altro, e la Repubblica federale di Germania in merito ai diritti pagati per ottenere una licenza di telecomunicazioni. In particolare, le due società avevano reclamato il rimborso delle somme corrisposte sulla base di una disciplina regolamentare dichiarata illegittima dal Bundesverwaltungsgericht. A seguito del mancato accoglimento del reclamo, avevano presentato un ricorso al Verwaltungsgericht. Questo tribunale si era però pronunciato nel senso del rigetto in quanto gli avvisi di liquidazione erano divenuti definitivi e non sussistevano ragioni per superare il rifiuto dell’Amministrazione di ritirarli. Ritenendo che il Verwaltungsgericht fosse incorso in un errore non solo di diritto nazionale, ma anche di diritto comunitario, i-21 e Arcor avevano presentato domanda di «Revision» al Bundesverwaltungsgericht. La Corte, nutrendo alcuni dubbi sulla compatibilità della disciplina interna in materia di telecomunicazioni con il diritto comunitario ed in particolare con l’art. 11 della direttiva 97/13, ha proposto rinvio pregiudiziale al fine di stabilire se tale disposizione debba essere interpretata nel senso che osta alla riscossione di un diritto per licenze nel cui calcolo è stata operata una riscossione anticipata dei costi per spese amministrative generali di un’autorità nazionale di regolamentazione per un periodo di 30 anni, e, in caso di soluzione affermativa, se l’art. 10 T.C.E. e l’art. 11 della direttiva debbano essere interpretati nel senso che obbligano ad annullare un avviso di liquidazione, che non è stato oggetto di impugnazione, pur permessa dalla normativa nazionale, qualora il diritto nazionale consenta l’annullamento, ma non lo imponga. Con riguardo alla prima questione la Corte afferma che l’art. 11 osta all’applicazione, a titolo di licenze individuali, di un diritto calcolato in funzione delle spese amministrative generali dell’autorità di regolamentazione per la concessione delle licenze su un periodo di trent’anni. Il giudice comunitario richiama sul punto i principi enunciati in materia nella sentenza 18 settembre 2003, in cause riunite C-392/01 e 393/01, Albacom e Infostrada c. Ministero del Tesoro, ricordando che «l’inaffidabilità della previsione e i suoi effetti sul calcolo del canone si ripercuotono sulla compatibilità di quest’ultimo con gli imperativi di proporzionalità, di trasparenza e di non discriminazione» (punto 38). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 Nel caso di specie, invece, il calcolo delle spese generali su un periodo di trent’anni implica un’estrapolazione delle spese possibili in avvenire le quali, per definizione, sono altro dalle spese realmente sostenute, con la conseguenza che, in mancanza di un meccanismo di revisione del suo importo, il diritto applicato non può essere strettamente proporzionato al lavoro richiesto, come invece prescrive l’art. 11 della direttiva. Peraltro le imprese che operassero nel mercato solo per alcuni anni risulterebbero certamente discriminate. Nell’affrontare la seconda questione la Corte fornisce alcune precisazioni con riguardo al riferimento operato da una delle società e dalla Commissione ai principi della sentenza Kühne & Heitz (1). In quell’occasione un giudice olandese d’appello, nell’ambito di una controversia in merito ad una richiesta di pagamento di restituzioni all’esportazione, di cui l’autorità doganale, pronunciandosi in sede di reclamo, aveva confermato il rigetto nonostante fosse intervenuta una sentenza della Corte di Giustizia in materia che avrebbe fatto propendere per l’accoglimento, aveva chiesto se il diritto comunitario, in particolare il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 T.C.E., comportasse, in determinate circostanze, che un organo amministrativo sia tenuto a rivedere la decisione, divenuta definitiva, al fine di assicurare la completa efficacia del diritto comunitario così come interpretato a seguito di una successiva domanda di pronuncia pregiudiziale. In particolare il giudice aveva rilevato che una regola secondo cui decisioni divenute definitive debbano essere modificate per conformarsi ad una giurisprudenza successiva, nel caso specifico comunitaria, avrebbe creato una situazione di confusione amministrativa, compromettendo gravemente la certezza del diritto. Tuttavia l’opposto principio, secondo cui una giurisprudenza successiva ad una decisione amministrativa definitiva non può di per sé incidere sul carattere definitivo di quest’ultima, aveva trovato una deroga per quanto riguarda le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sui procedimenti penali, e probabilmente doveva essere derogata anche 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 13 gennaio 2004, in causa C-453/00. Per una ricostruzione delle problematiche sottese a tale decisione si vedano GALETTA, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2005, 35 e segg.; DE PETRIS, «Illegittimità comunitaria» dell’atto amministrativo definitivo, certezza del diritto e potere di riesame, in Giorn. Dir. Amm., 2004, 723 e segg.; GATTINARA, Il ruolo delle amministrazioni nazionali alla luce della sentenza Kühne & Heitz, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2004, 489 e segg. ; MARI, La forza del giudicato delle decisioni dei giudici nazionali di ultima istanza nella giurisprudenza comunitaria, ivi, 2004, 1007 e segg.; ANTONUCCI, Il primato del diritto comunitario, in Cons. Stato, 2004, II, 225 e segg.; GENTILI, Il principio comunitario di cooperazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia C.E., ibidem, 233 e segg.; COUTRON, Cour de justice, 13 janvier 2004, in Revue des affaires européennes, 2003- 2004, 417 e segg.; PEERBUX-BEAUGENDRE, Commentaire de l’arrêt de la CJCE du 13 janvier 2004, in Revue du droit de l’Uion Européenne, 2004, 559 e segg. in quell’ipotesi, stante la contrarietà all’ordinamento comunitario e l’esaurimento dei mezzi di tutela a disposizione del ricorrente. La Corte, ricordando che «la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario» e che «il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza» (punto 24), ha escluso che il diritto comunitario esiga che un organo amministrativo sia obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo, se non in presenza di una serie di condizioni: 1) che l’amministrazione disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; 2) che la decisione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di una giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; che tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario; 3) che l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato di tale giurisprudenza. L’organo amministrativo dovrà inoltre tener conto degli interessi di terzi. Il caso in esame viene però ritenuto diverso sotto il profilo che mentre «l’impresa Kühne & Heitz NV aveva esaurito tutti i mezzi di tutela giurisdizionale a sua disposizione, (…) i-21 e Arcor non si sono avvalse del diritto di introdurre un ricorso contro gli avvisi d’imposta loro indirizzati» (punto 53). A sostegno della decisione la Corte richiama invece la propria giurisprudenza in materia di disciplina processuale, secondo cui la piena competenza degli Stati trova il limite del rispetto del principio di equivalenza e di effettività (2): in particolare, le regole procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti conferiti ai privati da norme comunitarie dotate di efficacia diretta non devono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghi ricorsi di natura interna e non devono essere tali da rendere praticamente impossibile l’esercizio di tali diritti (3). La Corte prende infine in considerazione la circostanza che, secondo la giurisprudenza tedesca, la legge sul procedimento attribuisce piena discrezionalità nel disporre il ritiro di un atto amministrativo illegittimo (4), discre- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 (2) Su tali due esigenze GIRERD, Les principes d’équivalence et d’effectivité : encadrement ou désencadrement de l’autonomie procédurale des Etats membres?, in Rivista trimestrale diritto europeo, 2002, 75 e segg. (3) In tal senso sentenza 16 maggio 2000, in causa C-78/98, Preston e a. e sentenza 7 gennaio 2004, in causa C-201/02 Wells. (4) § 48 della legge tedesca sul procedimento amministrativo – Ritiro di un atto amministrativo illegittimo: 1) Un atto amministrativo illegittimo può essere ritirato, totalmente o parzialmente, con efficacia ex nunc o ex tunc, anche dopo che sia divenuto inoppugnabile. Un atto amministrativo che abbia costituito o confermato un diritto o un vantaggio giuridicamente rilevante può essere ritirato solo entro i limiti stabiliti dai commi 2 e 4. 2) Un atto zionalità che viene meno nell’ipotesi in cui l’atto in questione appaia «semplicemente insopportabile» per ragioni di ordine pubblico, di buona fede, di equità, di parità di trattamento o d’illegittimità manifesta. Sottolinea quindi che «se le norme di ricorso obbligano a ritirare l’atto amministrativo illegittimo per contrarietà al diritto interno, pur se ormai atto definitivo, allorché il suo mantenimento è «semplicemente insopportabile”, identico obbligo deve sussistere a parità di condizioni in presenza di un atto amministrativo non conforme al diritto comunitario» (punto 63). In relazione a ciò è affermato il principio secondo cui quando «in applicazione di norme di diritto nazionale, l’amministrazione è tenuta a ritirare una propria decisione divenuta definitiva che risulti manifestamente incompatibile con il diritto interno, identico obbligo deve sussistere ove la manifesta incompatibilità sia con il diritto comunitario» (punto 69). Si tratta di una pronuncia di notevole importanza in ordine al delicato profilo dell’obbligatorietà o meno dell’esercizio del potere di autotutela nei confronti di atti amministrativi “anticomunitari”. La Corte è giunta ad operare una distinzione in tema di riesame di atti amministrativi in contrasto con il diritto comunitario tra: a) quelli divenuti definitivi a seguito di una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; b) e quelli inoppugnabili per decorso dei termini decadenziali. Nel primo caso l’esercizio dell’autotutela è subordinato alla sussistenza delle condizioni enunciate nella citata sentenza Kühne & Heitz: la sua obbligatorietà non deriva solo e direttamente da una previsione da parte dell’ordinamento nazionale, nel quale è sufficiente sia contemplata la possibilità del riesame, ma si impone in ragione del principio di piena efficacia delle fonti comunitarie così come interpretate dalla Corte di Giustizia. Nel secondo caso invece è l’obbligatorietà del riesame per effetto prevista espressamente da una disposizione di diritto interno, ovvero come nel 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO amministrativo illegittimo, che accordi una prestazione pecuniaria una tantum o continuativa o una prestazione in natura divisibile o che ne costituisca il presupposto, non può essere ritirato ove il beneficiario abbia fatto affidamento sull’esistenza dell’atto amministrativo e il suo affidamento, previa ponderazione dell’interesse pubblico al ritiro, risulti degno di tutela. L’affidamento, di regola, è degno di tutela ove il beneficiario abbia consumato le prestazioni accordate o abbia adottato una disposizione riguardante il suo patrimonio, che non può più annullare o solo a prezzo di svantaggi inaccettabili. Il beneficiario non si può appellare all’affidamento qualora egli: 1. abbia ottenuto l’atto amministrativo mediante dolo, minaccia o corruzione; 2. abbia ottenuto l’atto amministrativo mediante dichiarazioni sostanzialmente erronee od incomplete; 3. fosse a conoscenza dell’illegittimità dell’atto o non ne fosse a conoscenza per colpa grave. Omissis. 4) Ove l’autorità venga a conoscenza di fatti, che giustificano il ritiro di un atto amministrativo illegittimo, il ritiro è consentito solo entro un anno dal momento in cui ne ha avuto conoscenza. Questo non vale nell’ipotesi di cui al comma 2 , alinea 3, n. 1. Omissis. Per il testo integrale della legge cfr. La legge tedesca sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz), Trad. con testo a fronte e commento introduttivo a cura di GALETTA, Milano, 2002. caso tedesco da un’interpretazione giurisprudenziale, a determinare, secondo il principio di equivalenza, identico obbligo nell’ipotesi di contrasto con il diritto comunitario. I riflessi di questa impostazione sulla natura del potere di autotutela nell’ambito dell’ordinamento italiano sono rilevanti. Come è noto il riesame degli atti amministrativi in sede di revoca o di annullamento d’ufficio risulta oggi legislativamente disciplinato dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge sul procedimento. In entrambe le ipotesi si tratta di una facoltà riconosciuta all’Amministrazione, stante il principio della non esauribilità dei relativi poteri. Viceversa, il diritto comunitario impone di riconoscere la doverosità nell’esercizio del potere di autotutela ossia la necessaria, e sostanzialmente vincolata, attivazione di tale procedimento “condizionata” alla sussistenza degli elementi individuati nella sentenza Kühne, primo fra tutti la presenza di una disposizione nazionale che imponga in talune ipotesi l’esercizio del potere di riesame. In proposito, recentemente, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che «anche con la recente sentenza Kühne & Heitz il giudice comunitario, pur affermando che il giudicato formatosi su una interpretazione ritenuta poi non conforme al diritto comunitario dalla stessa Corte di Giustizia non costituisce un limite all’esercizio dei poteri di autotutela ha ribadito che il diritto comunitario non esige, in linea di principio, che un organo amministrativo sia obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquistato carattere definitivo, in quanto, la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario e il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza dei termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza (Corte di Giustizia, 14 gennaio 2004, C-453/00). Dalla giurisprudenza comunitaria si ricava, quindi, che l’esercizio dei poteri di autotutela non può essere configurato in termini di doverosità con la conseguenza che il vizio della violazione del diritto comunitario non comporta il necessario, e sostanzialmente vincolato, esercizio dei poteri di autotutela da parte dell’amministrazione (tesi prospettata da Cons. Stato, IV, 5 giugno 1998, n. 918, che comporterebbe però la totale svalutazione degli elementi dell’affidamento del privato e del decorso del tempo valorizzati proprio dalla Corte di Giustizia) (…) Deve quindi ritenersi che la non doverosità dell’attivazione del procedimento di autotutela, che preclude la giustiziabilità del silenzio dell’amministrazione sulle istanze dirette a stimolare tale potere, costituisca principio che non viene derogato quando il vizio dedotto è costituito dalla violazione del diritto comunitario (vizio che comporta l’annullabilità e non la nullità del provvedimento amministrativo). Tale vizio deve essere adeguatamente ponderato dall’amministrazione procedente anche alla luce del principio di leale collaborazione previsto dall’art. 10 del Trattato UE; la valutazione se attivare o meno i poteri di autotutela resta di carattere discrezionale e non è giustiziabile perché altrimenti IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101 si determinerebbe l’effetto di consentire la riapertura del contenzioso, precluso a seguito dell’inoppugnabilità del provvedimento e in violazione di quel principio di certezza del diritto valorizzato anche dal giudice comunitario »(5). La doverosità dell’esercizio del potere di autotutela è altresì esclusa nell’ipotesi di atto amministrativo divenuto definitivo per mancata impugnazione. In questa circostanza infatti è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, a fronte di provvedimenti autoritativi divenuti inoppugnabili per scadenza dei termini, non sussiste nessun obbligo per l’autorità emanante di pronunciare sull’istanza di riesame avanzata dall’interessato (6). Con la conseguenza che non sembra potersi invocare il principio di equivalenza. A ben vedere però l’affermazione secondo cui, nel nostro sistema amministrativo, il potere di revoca e annullamento d’ufficio è pienamente discrezionale non tiene conto di alcune disposizioni in materia di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria. In proposito la Circolare del Ministero delle Finanze 5 agosto 1998, n. 198 relativa all’applicazione delle disposizioni del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, si esprime nel senso che «se è vero, a stretto rigore, che l’ufficio ha il potere ma non il dovere giuridico di ritirare l’atto viziato (mentre è certo che il contribuente, a sua volta, non ha un diritto soggettivo a che l’ufficio eserciti tale potere), è tuttavia indubbio che l’ufficio stesso non possiede una potestà discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o no i propri errori. Infatti da un lato il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti di un atto patentemente illegittimo, nel caso sia ancora aperto o comunque esperibile il giudizio, può portare alla condanna alle spese dell’amministrazione con conseguente danno erariale (la cui responsabilità potrebbe essere fatta ricadere sul dirigente responsabile del mancato annullamento dell’atto); dall’altro, essendo previsto che in caso di “grave inerzia” dell’ufficio che ha emanato l’atto può intervenire in via sostitutiva l’organo sovraordinato, è evidente che l’esercizio corretto e tempestivo dell’autotutela viene considerato dall’amministrazione non certo come una specie di “optional” che si può attuare o non attuare a propria discrezione ma come una componente del corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e, quindi, come un elemento di valutazione della loro attività dal punto di vista disciplinare e professionale». Si potrebbe dunque pervenire alla conclusione che in materia tributaria, a fronte di una disposizione interna che prevede l’obbligatorietà dell’autotutela nelle ipotesi di cui all’art. 2 del D.M. n. 37/97 (errore di persona, evidente errore logico o di calcolo, errore sul presupposto dell’imposta, doppia impo- 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (5) Cons. Stato, Sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023. (6) Cons. Stato, Sez. VI, 23 settembre 1998, n. 1276; Cons. Stato, Sez. V, 15 settembre 1997, n. 980; Cons. Stato, Sez. VI, 10 giugno 1991, n. 356; contra Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1127. sizione, mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti, mancanza di documentazione successivamente sanata non oltre i termini di decadenza, sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi precedentemente negati, errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile), secondo il principio di equivalenza, sussista identico obbligo di esercitare tale potere nei confronti di atti “anticomunitari”. In particolare, per restare in ambito tributario si potrebbe sostenere l’obbligatorietà dell’autotutela nei confronti di atti emessi in violazione della normativa IVA, la cui fonte è quasi esclusivamente comunitaria (Dir. 77/388/CEE). L’applicazione del principio di equivalenza rispetto ad una prassi interna, e non rispetto ad un’interpretazione giurisprudenziale consolidata di una disposizione, come nel caso cui si riferisce la sentenza in oggetto, risulterebbe di particolare interesse se si osserva che la giurisprudenza nazionale non attribuisce in genere alcuna rilevanza al mancato rispetto di circolari (salvo che per i limitati effetti di cui all’art. 10, 2° comma, dello Statuto del contribuente (7). Diversamente la Corte di Giustizia è incline a riconoscere valenza anche alle prassi interne per valutare la sussistenza di una violazione del diritto comunitario (8). Dott.ssa Chiara Di Seri(*) Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Grande Sezione, sentenza 19 settembre 2006(**) , nei procedimenti riuniti C-392/04 e C-422/04, aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Bundesverwaltungsgericht (Germania), con decisioni 7 luglio 2004, pervenute in cancelleria, rispettivamente, il 16 settembre e il 4 ottobre 2004, nelle cause i-21 Germany IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103 (7) L’art. 10 della legge 212/00 (Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente), al 2° comma dispone infatti che “non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa”. (8) Si veda in proposito Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza 9 dicembre 2003, in causa C-129/00 Commissione Italia, in cui è stato ritenuto che la Repubblica italiana fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CE, non avendo modificato l’art. 29, secondo comma, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, che veniva interpretato e applicato in sede amministrativa e da una parte significativa degli organi giurisdizionali – compresa la Corte suprema di cassazione – in modo tale da rendere l’esercizio del diritto al rimborso di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario eccessivamente difficile per il contribuente. (*) Dottoranda di ricerca presso la Scuola dottorale Interuniversitaria Internazionale in Diritto europeo, Storia e Sistemi giuridici dell’Europa, Università degli Studi di Roma Tre. (**) Lingua processuale: il tedesco. GmbH (C-392/04), Arcor AG & Co. KG (C-422/04), già ISIS Multimedia Net GmbH & Co. KG, contro Bundesrepublik Deutschland – Pres. V. Skouris – Rel. S. Von Bahr – Avv. Gen. D. Ruiz-Jarabo Colomer. Servizi di telecomunicazioni – Direttiva 97/13/CE – Art. 11, n. 1 – Diritti e oneri sulle licenze individuali – Art. 10 CE – Primato del diritto comunitario – Certezza del diritto – Decisione amministrativa definitiva. «1.- Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art. 11, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 10 aprile 1997, 97/13/CE, relativa ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazione (GUL 117, pag. 15), nonché dell’art. 10 CE. 2.- Tali domande sono state sollevate nell’ambito di due controversie tra i-21 Germany GmbH (in prosieguo: «i-21»), da un lato, e Arcor AG & Co. KG, già ISIS Multimedia Net GmbH & Co. KG (in prosieguo: «Arcor»), dall’altro, e la Repubblica federale di Germania (Bundesrepublik Deutschland) in merito ai diritti pagati dalle dette società per ottenere una licenza di telecomunicazioni. CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 3.- L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 prevede quanto segue: «Gli Stati membri fanno sì che i diritti richiesti alle imprese per le procedure di autorizzazione siano esclusivamente intesi a coprire i costi amministrativi sostenuti per il rilascio, la gestione, il controllo e l’esecuzione delle relative licenze individuali. I diritti per le licenze individuali sono proporzionati al lavoro che esse comportano e sono pubblicati in maniera appropriata e sufficientemente dettagliata perché possano essere facilmente accessibili ». 4.- La direttiva 97/13 è stata abrogata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva «quadro») (GU L 108, pag. 33). La normativa nazionale 5.- L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 è stato trasposto nell’ordinamento tedesco dalla legge sulle telecomunicazioni (Telekommunikationsgesetz) 25 luglio 1996 (BGBl. 1996 I, pag. 1120; in prosieguo: il «TKG»), che costituisce una legge d’abilitazione, e dal regolamento relativo alla tassazione delle licenze di telecomunicazione (Telekommunikations- Lizenzgebührenve-rordnung) 28 luglio 1997, (BGBl. 1997 I, pag. 1936; in prosieguo: la «TKLGebV»), adottato dal Ministro federale delle poste e delle telecomunicazioni sul fondamento del TKG. 6.- L’art. 48, n. 1, della legge sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) 25 maggio 1976 (BGBl. 1976 I, pag. 1253), nella versione pubblicata il 21 settembre 1998 (BGBl. 1998 I, pag. 3050), così dispone: «Ritiro di un atto amministrativo illegittimo Un atto amministrativo illegittimo può, anche dopo esser divenuto inoppugnabile, essere ritirato in tutto o in parte con effetto per il futuro o per il passato. Un atto amministrativo costitutivo o confermativo di un diritto o di un vantaggio giuridicamente rilevante (atto amministrativo che crea effetti favorevoli) può essere ritirato solo entro i limiti previsti ai nn. 2-4. (…)». 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 7.- Ove si tratti di un avviso di liquidazione d’imposta per una licenza di telecomunicazioni, il Bundesverwaltungsgericht fa presente che, in caso di ritiro del medesimo, le imprese interessate avrebbero diritto al rimborso degli importi indebitamente pagati ai sensi dell’art. 21 della legge sulle spese amministrative (Verwaltungskostengesetz) 23 giugno 1970 (BGBl. 1970 I, pag. 821). 8.- Dalle decisioni di rinvio risulta che, secondo la giurisprudenza tedesca, l’Amministrazione ha, in virtù dell’art. 48 della legge sul procedimento amministrativo, discrezionalità in linea di principio piena di ritirare un atto amministrativo illegittimo divenuto definitivo. Se, però, mantenere l’atto in questione appare «semplicemente insopportabile » per ragioni di ordine pubblico, di buona fede, di equità, di parità di trattamento o d’illegittimità manifesta, tale potere può essere annullato. FATTI E QUESTIONI PREGIUDIZIALI 9.- i-21 e Arcor sono due imprese di telecomunicazioni. Con avvisi 14 giugno 2000 e 18 maggio 2001 venivano richiesti loro diritti per quasi EUR 5 420 000, alla prima, e quasi EUR 67 000, alla seconda, a titolo di licenze individuali di telecomunicazioni. Esse pagavano gli importi senza contestarli e senza presentare ricorso nel termine di un mese dalla notifica degli avvisi. 10.- A norma della TKLGebV, l’importo del diritto è fondato sul prelievo anticipato delle spese amministrative generali dell’autorità di regolamentazione su un periodo di trent’anni. 11.- Nell’ambito di un ricorso diretto all’annullamento di un avviso di imposta contestato nei termini, il Bundesverwaltungsgericht dichiarava, con sentenza 19 settembre 2001, che la TKLGebV era incompatibile con norme di rango superiore, vale a dire quelle del TKG e della legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, e confermava l’annullamento dell’avviso in questione disposto da una corte d’appello. 12.- A seguito di tale sentenza i-21 e Arcor reclamavano il rimborso dei diritti pagati, ma i loro reclami non venivano accolti. Esse ricorrevano, pertanto, al Verwaltungsgericht che respingeva i ricorsi con l’argomento che gli avvisi di liquidazione erano divenuti definitivi e che non sarebbe sussistita ragione di ritornare, nella fattispecie, sul rifiuto dell’Amministrazione di ritirarli. 13.- Ritenendo che il Verwaltungsgericht fosse incorso in un errore non solo di diritto nazionale, ma anche di diritto comunitario, i-21 e Arcor ricorrevano per «Revision» al Bundesverwaltungsgericht. i-21 sosteneva di aver dovuto assolvere un diritto più di mille volte superiore a quello applicato alle imprese di telecomunicazione posteriormente alla sentenza del 19 settembre 2001 succitata. 14.- Nelle decisioni di rinvio il Bundesverwaltungsgericht fa presente che, con riferimento al mero diritto nazionale, le domande di «Revision» non possono essere accolte. Secondo tale collegio, non si verserebbe nel caso in cui il mantenimento degli avvisi d’imposta risulta «semplicemente insopportabile» ed il potere discrezionale dell’Amministrazione ridotto al punto da non lasciare a quest’ultima scelta diversa dal ritirarli. Il Bundesverwaltungsgericht considera, infatti, che il mantenimento degli avvisi di liquidazione non è contrario né alle nozioni di buona fede e di parità di trattamento, né a quelle di ordine pubblico e di equità e che gli avvisi in causa non sono neppure fondati su una regolamentazione manifestamente illegittima. 15.- Il collegio remittente s’interroga, invece, sulla portata del diritto comunitario. L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 sembrerebbe ostare a una regolamentazione come quel- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105 la in oggetto. Se tale interpretazione dovesse rivelarsi corretta, il Bundesverwaltungsgericht si pone l’ulteriore domanda se questa stessa disposizione, letta in combinato disposto con l’art. 10 CE relativo all’obbligo di leale cooperazione, non limiti il potere discrezionale dell’autorità di regolamentazione, alla luce segnatamente della sentenza 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz (Racc. pag. I-837). 16.- Il Bundesverwaltungsgericht si domanda, in particolare, se l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 debba essere interpretato nel senso che impone agli Stati membri, in sede di calcolo del diritto, l’obbligo di rispettare gli obiettivi della direttiva e di garantirne il rispetto. Tra tali obiettivi ci sarebbe quello di facilitare in maniera significativa l’ingresso sul mercato di nuovi concorrenti. Ebbene, il mantenimento degli avvisi di liquidazione di cui trattasi costituirebbe una restrizione della concorrenza per le imprese interessate, le quali verrebbero in particolare svantaggiate rispetto alle imprese che hanno contestato entro i termini impartiti gli avvisi di cui erano destinatarie ottenendone l’annullamento. Secondo il Bundesverwaltungsgericht, se il detto articolo dovesse essere interpretato nel senso che vieta restrizioni siffatte alla concorrenza, il principio di cooperazione di cui all’art. 10 CE potrebbe implicare l’obbligo di ritornare sugli avvisi di liquidazione in causa conformemente al diritto nazionale, senza lasciare margini di discrezionalità all’Amministrazione. 17.- Alla luce di quanto sopra, il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’art. 11, n. 1, della direttiva [97/13/CE] debba essere interpretato nel senso che osta alla riscossione di un diritto per licenze nel cui calcolo è stata operata una riscossione anticipata dei costi per spese amministrative generali di un’autorità nazionale di regolamentazione per un periodo di 30 anni. In caso di soluzione affermativa della questione sub 1): 2) Se l’art. 10 CE e l’art. 11 della direttiva [97/13] debbano essere interpretati nel senso che obbligano ad annullare un avviso di liquidazione di un diritto come descritto sub 1) e che non è stato oggetto di impugnazione, pur permessa dalla normativa nazionale, qualora il diritto nazionale consenta l’annullamento, ma non lo imponga». 18.- Con ordinanza 6 dicembre 2004 i procedimenti C-392/04 e C-422/04 sono stati riuniti ai fini della fase orale e della sentenza. SULLA PRIMA QUESTIONE Osservazioni delle parti 19.- i-21, Arcor e la Commissione delle Comunità europee sostengono che l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 osta a un diritto come quello previsto dalla normativa tedesca oggetto della causa principale. 20.- Il governo tedesco fa valere, al contrario, che tale articolo non si applica alle presenti controversie, giacché la direttiva 97/13 è stata abrogata dalla direttiva 2002/21, la quale non contiene alcuna disposizione transitoria relativa all’applicazione del detto articolo. 21.- Il governo tedesco fa valere anche che, a ogni modo, l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 non osta all’imposizione di un diritto come quello previsto dall’ordinamento tedesco. Da un lato, i costi amministrativi menzionati al detto articolo comprenderebbero le spese amministrative generali. Dall’altro, lo stesso articolo non preciserebbe che solo le spese amministrative effettivamente sostenute possono essere conteggiate nel canone di licenza, con esclusione di quelle future. La presa in considerazione di queste ultime costituirebbe 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO una garanzia di sicurezza per le imprese, che saprebbero di non andare incontro, in avvenire, ad altre tasse per la licenza. Risposta della Corte 22.- Occorre esaminare per primo l’argomento del governo tedesco secondo cui l’art. 11 della direttiva 97/13 sarebbe inapplicabile alle presenti controversie a motivo dell’abrogazione di tale direttiva da parte di una direttiva posteriore. 23.- È vero che la direttiva 97/13 è stata abrogata dall’art. 26 della direttiva 2002/21 con effetto 25 luglio 2003 conformemente alle disposizioni dell’art. 28, n. 1, secondo comma, di quest’ultima. 24.- Risulta, tuttavia, dalla lettura di questi due articoli, il 26 e il 28, n. 1, secondo comma, che il legislatore non ha inteso mettere in discussione i diritti e gli obblighi sorti durante la vigenza della direttiva 97/13 e che la direttiva 2002/21 si applica unicamente alle situazioni di diritto che si sono venute a creare a partire dal 25 luglio 2003. 25.- Deve ritenersi, di conseguenza, che, nonostante l’abrogazione della direttiva 97/13 da parte della direttiva 2002/21, la legittimità di diritti come quello richiesto a i-21 e ad Arcor con avvisi di liquidazione datati, rispettivamente, 14 giugno 2000 e 18 maggio 2001, in un arco di tempo in cui la direttiva 2002/21 non era ancora applicabile, debba essere verificata alla luce dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13. 26.- Occorre accertare, poi, se la nozione di «costi amministrativi» di cui al detto articolo comprende le spese amministrative generali dei regimi di licenze individuali, calcolate su base trentennale. 27.- La Corte ha già avuto occasione di esaminare la portata dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13. 28.- Nella sentenza 18 settembre 2003, cause riunite Albacom e Infostrada (Racc. pag. I-9449, punto 25), la Corte ha ricordato che l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 prevede che i diritti richiesti dagli Stati membri alle imprese titolari di licenze individuali siano destinati esclusivamente a coprire le spese amministrative sostenute per la concessione di tali licenze. 29.- Dai termini della disposizione come interpretata dalla Corte al punto 25 della sentenza Albacom e Infostrada, cit., risulta che questo lavoro di conferimento consta solo di quattro attività, vale a dire rilascio gestione controllo ed esecuzione delle licenze individuali. Il diritto deve essere, inoltre, proporzionato alla mole di lavoro comportata e pubblicato in maniera appropriata e sufficientemente dettagliata perché le informazioni siano facilmente accessibili. 30.- Tali requisiti costituiscono una risposta agli obiettivi di proporzionalità, di trasparenza e di non discriminazione dei regimi di licenze individuali enunciati al secondo ‘considerando’ della direttiva 97/13. 31.- Occorre, perciò, verificare se le modalità di calcolo del diritto oggetto della causa principale, consistenti nel prendere in considerazione le spese generali di concessione, per un periodo di 30 anni, delle licenze individuali, siano conformi alle disposizioni dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 lette alla luce dei detti obiettivi. 32.- Per prima cosa si deve osservare che la nozione di costi amministrativi è sufficientemente ampia da coprire le spese amministrative «generali». 33.- Le spese amministrative generali non possono riferirsi, però, ad altre attività che alle quattro espressamente menzionate all’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 e ricordate supra, al punto 29. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 107 34.- Ora, stando alle informazioni fornite alla Corte, l’importo del diritto in questione comprenderebbe altre voci di spesa, come le spese per la generale attività di sorveglianza dell’autorità di regolamentazione e, soprattutto, per il controllo di eventuali abusi di posizione dominante. 35.- Siccome questo tipo di controllo eccede il lavoro strettamente necessario al conferimento delle licenze individuali, tener conto delle spese che ne derivano è contrario alle disposizioni dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13. 36.- Si deve, poi, esser sicuri che le spese amministrative generali relative alle quattro attività indicate al detto art. 11, n. 1, possano essere calcolate su base trentennale e computate nel canone. 37.- Dalle osservazioni presentate alla Corte da i-21, da Arcor e dalla Commissione risulta che una previsione di così lunga durata pone problemi di affidabilità, tenuto conto delle caratteristiche del settore delle telecomunicazioni. Trattandosi di un settore in piena evoluzione, prevedere la situazione del mercato e il numero di imprese di telecomunicazioni a parecchi anni di distanza sembra difficile, tanto più che gli anni all’orizzonte sono trenta. Incerti sono anche il numero di licenze individuali da gestire in avvenire e, pertanto, l’ammontare delle spese generali di gestione. Non solo. La regolamentazione della materia conosce mutamenti significativi, come attestano le nuove direttive del 2002, fra cui la 2002/21, che abroga la direttiva 97/13, e queste modifiche normative sono a propria volta suscettibili di incidere sull’ampiezza delle spese amministrative generate dai regimi di licenze individuali. 38.- L’inaffidabilità della previsione e i suoi effetti sul calcolo del canone si ripercuotono sulla compatibilità di quest’ultimo con gli imperativi di proporzionalità, di trasparenza e di non discriminazione. 39.- Innanzi tutto, il calcolo delle spese generali su un periodo di trent’anni implica un’estrapolazione delle spese possibili in avvenire le quali, per definizione, sono altro dalle spese realmente sostenute. In mancanza di un meccanismo di revisione del suo importo, il diritto applicato non può essere strettamente proporzionato al lavoro richiesto, come invece espressamente prescrive l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13. 40.- Secondariamente, un sistema di calcolo siffatto, cioè non fondato sulle spese realmente sostenute, rischia di infrangere l’obbligo di pubblicazione dettagliata delle informazioni relative al diritto, quale enunciato all’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, e, per ciò stesso, l’obiettivo di trasparenza. 41.- Infine, l’obbligo di tutte le imprese di telecomunicazioni di pagare una certa somma a titolo di spese generali per un periodo di trent’anni non tiene conto del fatto che talune di loro potrebbero operare sul mercato solo per pochi anni, e può perciò condurre a una discriminazione. 42.- Risulta da quanto precede che l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 osta all’applicazione, a titolo di licenze individuali, di un diritto calcolato in funzione delle spese amministrative generali dell’autorità di regolamentazione per la concessione delle licenze su un periodo di trent’anni. SULLA SECONDA QUESTIONE Osservazioni delle parti 43.- i-21, Arcor e la Commissione sostengono ciascuna, ma per ragioni differenti, che l’art. 10 CE, in combinato disposto con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, osta al manteni- 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mento di atti amministrativi illegittimi come gli avvisi di liquidazione d’imposta di cui trattasi nella causa principale, e chiedono allo Stato membro il rimborso degli importi indebitamente riscossi. 44.- Secondo i-21, il mantenimento di un atto amministrativo siffatto è contrario al principio del primato del diritto comunitario e alla necessità di preservare il suo effetto utile. Per quanto la Corte possa riconoscerne l’importanza, il principio della certezza del diritto non può prevalere in ogni caso su quello di legalità. i-21 sottolinea che nella sentenza Kühne & Heitz, cit., la Corte ha considerato che un atto amministrativo che aveva acquisito forza di giudicato a seguito di una sentenza non impugnabile poteva essere annullato, in date circostanze, se contrario al diritto comunitario. Tale possibilità s’imporrebbe a fortiori ove l’atto amministrativo non è stato oggetto di decisione giurisdizionale ed ha semplicemente acquisito carattere definitivo alla scadenza dei termini impartiti per introdurre un ricorso. 45.- Da parte sua, Arcor ritiene la giurisprudenza Kühne & Heitz, cit., non pertinente, perché relativa a un conflitto indiretto tra una norma processuale nazionale e una norma sostanziale comunitaria, dove la prima escludeva l’applicazione della seconda. Secondo Arcor, oggetto della causa principale è un conflitto diretto tra due norme sostanziali. L’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, in combinato disposto con l’art. 10 CE, richiederebbe il rimborso dei diritti riscossi in sua violazione; la normativa nazionale, invece, lo vieterebbe. Arcor è del parere che, in casi siffatti, il diritto comunitario dovrebbe prevalere su quello nazionale contrario. 46.- La Commissione sostiene, al contrario, che la sentenza Kühne & Heitz, cit., costituisce un punto di partenza appropriato e ricorda che, in linea di principio, non sussiste un obbligo di ritirare un atto amministrativo che non è stato contestato entro i termini impartiti. Indica, poi, che nella fattispecie occorre verificare se il mantenimento degli avvisi di liquidazione illegittimi debba nondimeno essere considerato «semplicemente insopportabile » alla luce dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 sotto il profilo dei principi di equivalenza e di effettività. 47.- Quanto al principio di equivalenza, la Commissione fa valere che, in base al diritto tedesco, un atto amministrativo manifestamente illegittimo per contrarietà al diritto nazionale non può essere mantenuto. Se si effettuasse una verifica del genere guardando anche al diritto comunitario, risulterebbe, ebbene, secondo la Commissione, che gli avvisi d’imposta oggetto della causa principale e la relativa regolamentazione dovrebbero essere considerati manifestamente illegittimi alla luce dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13. 48.- Ad identica conclusione perviene la Commissione quanto al principio di effettività. Essa considera che il mantenimento degli avvisi di imposta rende praticamente impossibile l’esercizio dei diritti derivanti dal detto art. 11, n. 1, giacché permette un’eccessiva compensazione che porta a restringere la concorrenza nel corso di un periodo di trent’anni. Risposta della Corte 49.- Occorre precisare il contesto della questione sollevata. Contrariamente a quanto sostiene Arcor, la seconda questione non verte su un conflitto tra due norme di diritto sostanziale in materia di rimborso di diritti percepiti illegittimamente. Né la disposizione dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, né quelle del TKG e della TKLGebV, per come questa legge e questo regolamento sono stati illustrati nel fascicolo presentato alla Corte, trattano, infatti, di un tale rimborso. 50.- La questione verte, al contrario, sulla relazione tra l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 e l’art. 48 della legge sul procedimento amministrativo, come interpretato dal Bundesverwal- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 109 tungsgericht. Ai sensi di quest’ultimo articolo, alla scadenza di un dato termine gli avvisi d’imposta acquistano carattere definitivo e i loro destinatari perdono la facoltà di proporre ricorsi per far valere un diritto che traggono dal detto art. 11, n. 1; resta, però, l’obbligo dell’amministrazione competente di ritirare gli atti amministrativi illegittimi il cui mantenimento risulti «semplicemente insopportabile». 51.- Conformemente al principio di certezza del diritto, il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di massima, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito carattere definitivo alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale (v. sentenza Kühne & Heitz, cit., punto 24). Il rispetto di tale principio permette di evitare che atti comunitari produttivi di effetti giuridici vengano rimessi in discussione all’infinito (v., per analogia, sentenza 14 settembre 1999, causa C-310/97 P, Commissione/AssiDomän Kraft Products e a., Racc. pag. I-5363, punto 61). 52.- La Corte ha tuttavia riconosciuto la possibilità di limitare in taluni casi il detto principio. Al punto 28 della sentenza Kühne & Heitz, cit., ha affermato, infatti, che l’organo amministrativo interessato è tenuto, in applicazione del principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE, a riesaminare tale decisione, ed eventualmente a ritornare su di essa, ove siano soddisfatte le seguenti quattro condizioni: 1) che disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; 2) che la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; 3) che tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3, CE, e 4) che l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza. 53.- La controversia definita dalla sentenza Kühne & Heitz, cit., è però ben diversa da quella su cui verte la causa principale. L’impresa Kühne & Heitz NV aveva esaurito tutti i mezzi di tutela giurisdizionale a sua disposizione, mentre nelle fattispecie presente i-21 e Arcor non si sono avvalse del diritto di introdurre un ricorso contro gli avvisi d’imposta loro indirizzati. 54.- Ne consegue che, a dispetto del punto di vista difeso da i-21, nessuna rilevanza ha la sentenza Kühne & Heitz, cit., per stabilire se, in una situazione come quella oggetto della causa principale, un organo amministrativo sia tenuto a riesaminare decisioni divenute definitive. 55.- I ricorsi pendenti dinanzi al giudice del rinvio sono diretti al rimborso di diritti pagati sulla base di avvisi di liquidazione divenuti definitivi con l’argomento che, in conformità dell’art. 48 della legge sul procedimento amministrativo, come interpretato dal Bundesverwaltungsgericht, l’autorità amministrativa competente è obbligata a ritirare i detti avvisi. 56.- Si tratta perciò di stabilire se, al fine di tutelare i diritti che ai singoli riconosce l’ordinamento comunitario, sia possibile chiedere al giudice nazionale investito dei ricorsi di riconoscere l’esistenza di un obbligo siffatto in capo all’autorità amministrativa. 57.- Occorre ricordare, in proposito, che, secondo una giurisprudenza consolidata, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetti diretti, a condizione, tuttavia, che le dette 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e che non siano strutturate in modo tale da rendere in pratica impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston e a., Racc. pag. I-3201, punto 31, e 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Wells, Racc. pag. I-723, punto 67). 58.- Per quanto riguarda, innanzi tutto, il principio di effettività, esso richiede che le norme sul trattamento di avvisi di liquidazione fondati su una regolamentazione incompatibile con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 non rendano impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti da tale direttiva. 59.- È perciò importante che le imprese interessate possano proporre un ricorso contro tali avvisi entro un termine ragionevole dalla loro notifica e far valere i diritti che traggono dall’ordinamento comunitario, in particolare dall’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13. 60.- Nelle controversie in esame nessuno ha avanzato che la disciplina dei ricorsi, in particolare la previsione del termine di un mese per agire, erano irragionevoli. 61.- Si deve ricordare, peraltro, che, ai sensi dell’art. 48, n. 1, della legge sul procedimento amministrativo, un atto amministrativo illegittimo può essere ritirato anche se definitivo. 62.- Per quanto riguarda, poi, il principio di equivalenza, esso richiede che la complessiva disciplina dei ricorsi, termini compresi, si applichi indistintamente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto comunitario e a quelli per infrazione del diritto interno. 63.- Ne discende che, se le norme nazionali di ricorso obbligano a ritirare l’atto amministrativo illegittimo per contrarietà al diritto interno, pur se ormai atto definitivo, allorché il suo mantenimento è «semplicemente insopportabile», identico obbligo deve sussistere a parità di condizioni in presenza di un atto amministrativo non conforme al diritto comunitario. 64.- Dalle indicazioni del giudice del rinvio discende che, per verificare il carattere «semplicemente insopportabile» degli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale, il giudice nazionale ha esaminato se il loro mantenimento viola i principi giuridici nazionali di parità di trattamento, di equità, di ordine pubblico o di buona fede, ovvero se è manifesta la loro incompatibilità con norme di rango superiore. 65.- Quanto al principio di parità di trattamento, esso non ha subito violazioni, a giudizio del Bundesverwaltungsgericht, perché sono state i-21 e Arcor, per le quali l’avviso di liquidazione è stato mantenuto, a non approfittare della facoltà di contestare l’avviso. Imprese come queste non versano, quindi, in una situazione analoga a quella delle imprese che, avendo invece esercitato la detta facoltà, hanno ottenuto il ritiro degli avvisi d’imposta di cui erano destinatarie. 66.- Applicando così il principio della parità di trattamento previsto dalla normativa in esame, non fa differenza se la controversia verte sul diritto nazionale o su quello comunitario e non si lede, quindi, il principio di equivalenza. 67.- Non è stato allegato, poi, che i principi di ordine pubblico, di buona fede o di equità sarebbero stati applicati in maniera differenziata secondo la natura della controversia. 68.- Al contrario, è stata sollevata la questione se sia stata applicata con equivalenza la nozione di illegittimità manifesta. Secondo la Commissione, il giudice nazionale avrebbe indagato se gli avvisi d’imposta erano fondati su una normativa manifestamente illegittima per contrarietà a norme di rango superiore, vale a dire il TKG e la legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, ma non avrebbe condotto o non avrebbe condotto corret- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 111 tamente uguale indagine rispetto al diritto comunitario. La Commissione sostiene che la regolamentazione è manifestamente illegittima rispetto alle disposizioni dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 e che il principio d’equivalenza non è stato, quindi, rispettato. 69.- Nel momento in cui, in applicazione di norme di diritto nazionale, l’amministrazione è tenuta a ritirare una propria decisione divenuta definitiva che risulti manifestamente incompatibile con il diritto interno, identico obbligo deve sussistere ove la manifesta incompatibilità sia con il diritto comunitario. 70.- Per valutare il grado di chiarezza dell’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13 e accertare il carattere manifesto o meno dell’incompatibilità del diritto nazionale col detto articolo, occorre prendere in considerazione gli obiettivi della direttiva, la quale è fra le misure di liberalizzazione totale dei servizi e delle infrastrutture di telecomunicazioni e mira a favorire l’ingresso di nuovi operatori sul mercato (v., in tal senso, sentenza Albacom e Infostrada, cit., punto 35). Sotto questo profilo, l’imposizione di un diritto molto elevato che copre una previsione di spese generali su un periodo di trent’anni può ostacolare seriamente la concorrenza, come il giudice del rinvio sottolinea nelle questioni pregiudiziali, e costituisce un rilevante fattore d’accertamento. 71.- Spetta al giudice nazionale, alla luce di quanto precede, valutare se una regolamentazione chiaramente incompatibile con il diritto comunitario, come quella su cui sono fondati gli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale, sia manifestamente illegittima ai sensi del proprio diritto. 72.- Ne consegue che la seconda questione dev’essere risolta nel senso che l’art. 10 CE, in combinato disposto con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, fa obbligo al giudice nazionale di valutare se una regolamentazione chiaramente incompatibile con il diritto comunitario, come quella su cui sono fondati gli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale, sia manifestamente illegittima ai sensi del proprio diritto. Se tale si rivelerà il caso, il detto giudice ne dovrà trarre tutte le conseguenze di diritto nazionale circa il ritiro degli avvisi. SULLE SPESE 73.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) L’art. 11, n. 1, della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 10 aprile 1997, 97/13/CE, relativa ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazione, osta all’applicazione, a titolo di licenze individuali, di un diritto calcolato in funzione delle spese amministrative generali dell’autorità di regolamentazione per la concessione delle licenze su un periodo di trent’anni. 2) L’art. 10 CE, in combinato disposto con l’art. 11, n. 1, della direttiva 97/13, fa obbligo al giudice nazionale di valutare se una regolamentazione chiaramente incompatibile con il diritto comunitario, come quella su cui sono fondati gli avvisi di liquidazione oggetto della causa principale, sia manifestamente illegittima ai sensi del proprio diritto. Se tale si rivelerà il caso, il detto giudice ne dovrà trarre tutte le conseguenze di diritto nazionale circa il ritiro degli avvisi». 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Causa C-272/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Trasferimento automatico di una parte del premio di macellazione – Regolamenti (CE) del Consiglio 17 maggio 1999, n. 1254 e 28 ottobre 1999, n. 2342 – Ordinanza del 18 aprile 2006 depositata il 26 giugno 2006, della Cour d’Appel d’Anger, sezione I/A (Francia) (cs. 31853/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia sorta tra una società soccidante e una società soccidaria per il mancato trasferimento, da parte di quest’ultima, di parte del premio di macellazione, come convenuto nella clausola aggiuntiva al contratto di soccida del 17 settembre 1999, stipulata a seguito della sottoscrizione, in data 17 maggio 2000, di un protocollo d’intesa tra le organizzazioni professionali nazionali rappresentative delle imprese soccidanti e degli allevatori del settore della carne di vitello. IL QUESITO Se il trasferimento immediato, da parte dell’allevatore, del 67,63% al 71,35% del premio di macellazione introdotto dal regolamento (CE) del Consiglio 17 maggio 1999, n. 1254, in esecuzione di un contratto di soccida concluso con una società francese, controllata di un gruppo internazionale che produce e fornisce alimenti per vitelli, entro i limiti fissati da un accordo interprofessionale interno tra le organizzazioni professionali nazionali che rappresentano le imprese soccidanti e gli allevatori della filiera vitello, sia compatibile con gli obiettivi della regolarizzazione del mercato e della garanzia di un equo tenore di vita alla popolazione agricola, enunciati da tale regolamento, nonché con le misure relative al mercato interno da esso istituite a tali scopi e precisate dal regolamento (CE) della Commissione 28 ottobre 1999, n. 2342”. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «Il Governo italiano ritiene che al quesito vada data risposta positiva, non potendosi ritenere che il trasferimento di una quota del premio di macellazione, nella misura sopra indicata, possa compromettere l’obiettivo perseguito dal regolamento CE 1254/1999 di stabilizzare i mercati e di assicurare un equo tenore di vita alla popolazione agricola. Occorre premettere, per quanto concerne l’ordinamento italiano, che, dopo l’emanazione del Regolamento (CE) del Consiglio n. 1782/2003 del 29 settembre 2003, che stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto nell’ambito della politica agricola comune (e che si riferisce pertanto I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA CE anche ai regolamenti la cui interpretazione è stata rimessa dalla Corte di Angers alla Corte di Giustizia), era stato emanato dal Ministero delle politiche agricole e forestali il decreto 3 agosto 2005, recante disposizioni per l’attribuzione e l’utilizzo dei titoli all’aiuto per il regime di pagamento unico, di cui l’art. 4 (Suddivisione dei titoli) prevedeva che: “Una suddivisione dei titoli fra il soccidante ed il soccidario è equiparata alla scissione d’azienda ai sensi dell’art. 15 deI Reg. (CE) n. 795/2004. In tal caso, il soccidante ed il soccidario comunicano congiuntamente all’AGEA la percentuale concordata di ripartizione dei titoli. I titoli verranno ripartiti tra le parti secondo le percentuali comunicate e, per l’utilizzo dei titoli attribuiti al soccidante, non occorrerà più ottenere alcun assenso da parte del soccidario”. La materia è stata successivamente definita dal decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2, recante interventi urgenti per i settori dell’agricoltura, dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa, e convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81. Più specificamente, l’articolo I bis, comma 6, dispone che “...Ove non diversamente disposto, i diritti all’aiuto di cui al regolamento (CE) n. 1782/2002 del Consiglio, del 29 settembre 2003, derivanti da contratti associativi di soccida, sono assegnati dall’AGEA per il 50 per cento al soccidario e per il 50 per cento al soccidante. In altri termini, secondo la norma citata, non solo è possibile la suddivisione del premio tra soccidante e soccidario, ma altresì, in caso di mancata esplicita previsione tra i contraenti, il premio viene comunque erogato automaticamente in due quote di pari importo. Ciò premesso, si osserva che il regolamento n. 1254/1999, pur precisando che l’attuale livello di sostegno al mercato andrebbe ridotto gradualmente (terzo e ventesimo considerando), si fa carico di disciplinare, all’art. 11, il premio per l’abbattimento di capi di bestiame, di cui può beneficiare il produttore che detiene nella sua azienda, per un periodo da determinare, animali della specie bovina, entro limiti di massimali nazionali da determinare. All’art. 8, il predetto regolamento prevede che il produttore possa trasferire in tutto o in parte i suoi diritti ad altri produttori senza trasferire l’azienda. In caso di trasferimento del diritto al premio senza trasferimento dell’azienda, una parte dei diritti trasferiti, non superiore al 15%, è riservata senza pagamento compensativo nella riserva nazionale dello Stato membro in cui è situata la sua azienda, per essere ridistribuita gratuitamente. Nel quadro di tali principi, il regolamento n. 2342/1999 ha dettato le norme attuative sia con riferimento al periodo minimo di detenzione dell’animale, da parte del produttore che intenda beneficiare del premio, fissato dall’art. 5 in due mesi dal giorno successivo a quello di presentazione della domanda ovvero nel periodo minimo di due mesi, concluso meno di un mese prima della macellazione, della spedizione o dell’esportazione (art. 9, comma 1), sia in relazione alla percentuale di diritti che possono formare oggetto di trasferimento, stabilita dall’art. 23, comma 4 nella misura del 70%. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In merito al primo aspetto, il giudice del rinvio ritiene che il periodo di detenzione minimo di due mesi precluderebbe sempre al soccidante di poter beneficiare del premio in quanto, ancorché proprietario degli animali, non li detiene materialmente. Anche in base agli articoli 2170, 2171 e 2174 del codice civile italiano il soccidante, che conferisce il bestiame, e il soccidario, che deve prestare il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano. In proposito, gli “utili” possono anche consistere nel percepimento di premi per la macellazione o l’esportazione che il soccidario, destinatario secondo la normativa comunitaria di “pagamenti diretti”, può decidere, sulla base di un preventivo accordo, di trasferire in parte al soccidante, coerentemente alla natura associativa del contratto di soccida. Alla luce di quanto sopra, appare irrilevante il fatto che il soccidante, di regola, non detenga (da almeno due mesi) il capo di bestiame, posto che tale requisito deve sussistere in capo al soccidario che ha facoltà, in base alla normativa comunitaria, di trasferire una quota del premio di macellazione ad altro produttore. Quanto alla percentuale del premio trasferibile, va sottolineato che, in base al decimo considerando del regolamento n. 2342/1999, viene espressamente enunciato che è opportuno incoraggiare la mobilità dei diritti al premio e la loro disponibilità per i produttori che li fanno valere. A tal fine occorre fissare una percentuale minima di utilizzazione. Tale percentuale deve essere sufficiente ad evitare una sottoutilizzazione dei diritti disponibili in taluni Stati membri, situazione che può creare problemi per i produttori prioritari che fanno domanda di diritti tramite la riserva nazionale. Occorre pertanto autorizzare gli Stati membri ad aumentare la percentuale minima di utilizzazione dei diritti, che non potrà essere comunque superiore al 90%. Quest’ultimo è quindi l’unico limite che non può essere superato, dovendosi pertanto ritenere che la clausola aggiuntiva della causa principale non sia in contrasto con la normativa comunitaria richiamata. Il Governo Italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso che il trasferimento immediato, da parte dell’allevatore, del 67,63% al 71,35% del premio di macellazione introdotto dal regolamento (CE) del Consiglio 17 maggio 1999, n. 1254, in esecuzione di un contratto di soccida è compatibile con gli obiettivi enunciati da tale regolamento, nonché con le misure attuative del regolamento (CE) della Commissione 28 ottobre 1999, n. 2342. Roma, 12 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-275/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Ordinanza 13 giugno 2006, depositata il 27 giugno 2006 da Juzgado de lo Mercantil n. 5 di Madrid (Spagna) (cs. 31869/06, Avv. dello Stato S. Fiorentino). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 115 IL FATTO La causa vede contrapposti l’ente Productores de Musica de Espana (in prosieguo: Promusicae), associazione senza scopo di lucro che riunisce produttori ed editori di registrazioni musicali ed audiovisive, di tipo musicale e la società commerciale Telefonica de Espana S.A.U. (in prosieguo: Telefonica). La controversia verteva sulla richiesta di Promusicae di un’ingiunzione giudiziale nei confronti di Telefonica per obbligarla a fornire i nomi, l’identità e l’indirizzo di alcune persone cui fornisce il servizio di accesso ad Internet, delle quali era noto l’IP e la data e l’ora di connessione, che, utilizzando il programma di scambio di archivi (peer to peer – P2P –) denominato KaZaA, offrono nelle loro cartelle condivise fonogrammi i cui diritti patrimoniali di sfruttamento spettano agli associati dell’ente richiedente, riproducendo in un primo momento nei loro computer i fonogrammi ed offrendoli poi a chiunque sia connesso ad una rete P2P. La richiesta [di Promusicae] era fondata sull’art. 256.1.7 della Ley de Enjuiciamiento Civile (codice di procedura civile spagnolo), in combinato disposto con l’art. 24.1 della Ley de Competencia Desleal (LCD – legge sulla concorrenza sleale) e, in subordine, sull’art. 12 della legge 11 luglio 2002, n. 34, Ley de Servicios de la Sociedad de la Informacion y de Commercio Electronico (LSSI – legge sui servizi dell’informazione e sul commercio elettronico), nella parte in cui sancisce il dovere di collaborazione o di informazione in merito ai dati di connessione e traffico e implicitamente autorizzerebbe, secondo la richiedente, i titolari di diritti di proprietà intellettuale a richiedere indagini preliminari (1). 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) La Ley de Servicios de la Sociedad de la Informacion y de Comercio Electronico, n. 34 dell’11 luglio 2002, con la quale sono trasposte nell’ordinamento giuridico spagnolo la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE e, parzialmente, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 19 maggio 1998, 98/27/CE, stabilisce, all’art. 12, quanto segue: “Art. 12. Dovere di conservare i dati del traffico relativi alle comunicazioni elettroniche. 1. Gli operatori di rete ed i servizi di comunicazione elettronica, i fornitori di accesso a reti di telecomunicazione e i prestatori di servizi di conservazione dei dati devono conservare i dati di connessione e di traffico generati dalle comunicazioni effettuate durante la prestazione di un servizio della società dell’informazione per un periodo massimo di 12 mesi, nei termini stabiliti dal presente articolo e dalla sua normativa di attuazione. ..(Omissis).. Gli operatori di rete, i servizi di comunicazione elettronica ed i prestatori di servizi cui si riferisce questo articolo non possono utilizzare i dati conservati per fini diversi da quelli indicati nel seguente comma o diversi dagli altri fini previsti dalla legge e adottano i provvedimenti idonei ad evitare la perdita, l’alterazione o l’accesso non autorizzato a tali dati. 3. I dati sono utilizzati al fine del loro utilizzo nell’ambito di una indagine penale o per la tutela della pubblica sicurezza e delle difesa nazionale. Sono posti a disposizione dei giudici o dei tribunali o del pubblico ministero che li richiedano. La trasmissione di tali dati alle forze ed agli enti competenti per la sicurezza avviene nell’osservanza di quanto disposto dalla normativa sulle tutela dei dati personali”. In data 21 dicembre 2005, la giurisdizione di rinvio ha accolto l’istanza, ritenendola fondata alla luce della Ley de Competencia Desleal e ritenendo assorbite le argomentazioni proposte in via subordinata del ricorrente. Nella decisione si mette in evidenza – che i comportamenti denunciati dal richiedente costituiscono atti di concorrenza sleale, perché integrano la condotta tipica prevista dall’art. 11.2 della LCD (per imitazione servile, mediante riproduzione, ed appropriazione dei prodotti o dell’attività di un concorrente) o, quanto meno, perché rientrano nella clausola generale prevista dall’art. 5 della medesima legge; – che le informazioni richieste, relative all’identità e al domicilio dei presunti trasgressori, sono oggettivamente indispensabili per promuovere un giudizio; – che, pertanto, devono evitarsi interpretazioni rigide che rischierebbero di essere in contrasto con la tutela del diritto di difesa garantito dall’art. 24.1 della Costituzione del Regno di Spagna (2), impedendo ai privati la repressione di illeciti civili che, per mancanza di altri elementi, come ad esempio lo scopo di lucro, non potrebbero essere sanzionati neanche dal giudice penale (3). La Telefonica ha proposto opposizione alla decisione facendo leva sul già citato art. 12 della LSSI, ritenendo che, secondo tale norma, l’operatore di comunicazioni elettroniche o il prestatore di servizi possa essere obbligato a comunicare i dati che è tenuto a conservare solo nel contesto di un procedimento penale, o quando ciò sia necessario per la tutela della pubblica sicurezza o sia in gioco la sicurezza nazionale, risultando così escluso che i detti dati debbano trasmessi nel contesto di un giudizio civile o di un procedimento, come quello incardinato con l’istanza di Promusicae, di istruzione preventiva strumentale ad un futuro giudizio civile. IL QUESITO Se il diritto comunitario, nello specifico gli artt. 15, n. 2, e 18 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno; gli artt. 8, nn. 1 e 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione; l’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/48/CE, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, e gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 117 (2) Art. 24.1.: “Tutte le persone hanno il diritto di ottenere tutela effettiva dai giudici e dai tribunali nell’esercizio dei loro diritti e interessi legittimi senza che, in nessun caso, possa verificarsi la mancanza di difesa”. (3) In proposito, l’ordinanza di rinvio rileva che la circolare della procura generale dello Stato 5 maggio 2006, n.1, esclude, in linea di principio, dall’ambito penale comportamenti come “mettere in rete o scaricare da Internet” opere protette, o scambiare archivi mediante il sistema P2P, in mancanza di scopo di lucro. diritti fondamentali dell’Unione europea, consentano agli Stati membri di circoscrivere all’ambito delle indagini penali o della tutela della pubblica sicurezza e della difesa nazionale – ad esclusione, quindi, dei processi civili – il dovere di conservare e mettere a disposizione i dati sulle connessioni ed il traffico generati dalle comunicazioni effettuate durante la prestazione di un servizio della società dell’informazione, che incombe agli operatori di rete e di servizi di comunicazione elettronica, ai fornitori di accesso alle reti di telecomunicazione ed ai fornitori di servizi di conservazione dei dati. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA « (...) II) POSIZIONE DEL GIUDICE REMITTENTE La giurisdizione di rinvio ha rilevato che l’art. 12 della L.S.S.I. può prestarsi ad una interpretazione secondo la quale il dovere di conservare e di mettere a disposizione i dati di connessione e di traffico relativi alle comunicazioni elettroniche, da parte degli operatori di rete e di servizi di telecomunicazioni, dei fornitori di accesso alla rete e dei prestatori di servizi alla conservazione di dati, debba essere circoscritto all’ambito delle indagini penali o per la tutela della pubblica sicurezza e della difesa nazionale, il che escluderebbe che un ordine giudiziale di comunicazione dei dati possa essere emesso nel contesto di un procedimento civile o preparatorio dello stesso, come nel caso in esame. Il Giudice spagnolo ha quindi rilevato che il diritto nazionale, così interpretato, potrebbe porsi in contrasto con il diritto comunitario e, in particolare, violare le seguenti disposizioni: a) gli artt. 15, n. 2 e 18 della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (4); b) l’art. 8, nn. 1 e 2 della direttiva 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (5); 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (4) Art. 15, n. 2: “Gli Stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati”. Art. 18: “Gli Stati membri provvedono affinché i ricorsi giurisdizionali previsti dal diritto nazionale per quanto concerne le attività dei servizi della società dell’informazione consentano di prendere rapidamente provvedimenti, anche provvisori, atti a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in causa”. (5) Art. 8: “1. Gli Stati membri prevedono adeguate sanzioni e mezzi di ricorso contro le violazioni dei diritti e degli obblighi contemplati nella presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie a garantire l’applicazione delle sanzioni e l’utilizzazione dei mezzi di ricorso. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive. 2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie a garantire che i titolari dei diritti i cui interessi siano stati danneggiati da una violazione effettuata sul suo territorio c) l’art. 8 della direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (6); d) Gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (7); (…) III) NORMATIVA COMUNITARIA Ai fini della risoluzione della questione pregiudiziale vengono in rilievo, oltre alle norme individuate dal Giudice del rinvio, gli articoli 1, nn. 1 e 2, 2, 5, nn. 1 e 2, 6 e 15, n. 1 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche. L’art. 1 della direttiva, rubricato “Finalità e campo di applicazione”, ai numeri 1 e 2 stabilisce: «1. La presente direttiva armonizza le disposizioni degli Stati membri necessarie per assicurare un livello equivalente di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare del diritto alla vita privata, con riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle comunicazioni elettroniche e per assicurare la libera circolazione di tali dati e delle apparecchiature e dei servizi di comunicazione elettronica all’interno della Comunità. 2. Ai fini di cui al paragrafo 1, le disposizioni della presente direttiva precisano e integrano la direttiva 95/46/CE. Esse prevedono inoltre la tutela dei legittimi interessi degli abbonati che sono persone giuridiche». L’art. 2 della direttiva (“Definizioni”) stabilisce: IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 119 possano intentare un’azione per danni e/o chiedere un provvedimento inibitorio e, se del caso, il sequestro del materiale all’origine della violazione, nonché delle attrezzature, prodotti o componenti di cui all’articolo 6, paragrafo 2”. (6) Art. 8, n. 1: “Gli Stati membri assicurano che, nel contesto dei procedimenti riguardanti la violazione di un diritto di proprietà intellettuale e in risposta a una richiesta giustificata e proporzionata del richiedente, l’autorità giudiziaria competente possa ordinare che le informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione di merci o di prestazione di servizi che violano un diritto di proprietà intellettuale siano fornite dall’autore della violazione e/o da ogni altra persona che: a) sia stata trovata in possesso di merci oggetto di violazione di un diritto, su scala commerciale; b) sia stata sorpresa a utilizzare servizi oggetto di violazione di un diritto, su scala commerciale; c) sia stata sorpresa a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di violazione di un diritto; oppure d) sia stata indicata dai soggetti di cui alle lettere a), b) o c) come persona implicata nella produzione, fabbricazione o distribuzione di tali prodotti o nella fornitura di tali servizi. (7) Art. 17, n. 2: “La proprietà intellettuale è protetta”; Art. 47: “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà, garantiti dal diritto dell’Unione, siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo (...)” «Salvo diversa disposizione, ai fini della presente direttiva si applicano le definizioni di cui alla direttiva 95/46/CE e alla direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo comune per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva quadro). Si applicano inoltre le seguenti definizioni: a) ... Omissis…; b) “dati relativi al traffico”: qualsiasi dato sottoposto a trattamento ai fini della trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica o della relativa fatturazione; c ... h) ...Omissis...» L’art. 5 della direttiva, intitolato “riservatezza delle comunicazioni”, ai numeri 1 e 2 stabilisce: «1. Gli Stati membri assicurano, mediante disposizioni di legge nazionali, la riservatezza delle comunicazioni effettuate tramite la rete pubblica di comunicazione e i servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico, nonché dei relativi dati sul traffico. In particolare essi vietano l’ascolto, la captazione, la memorizzazione e altre forme di intercettazione o di sorveglianza delle comunicazioni, e dei relativi dati sul traffico, ad opera di persone diverse dagli utenti, senza consenso di questi ultimi, eccetto quando sia autorizzato legalmente a norma dell’articolo 15, paragrafo 1. Questo paragrafo non impedisce la memorizzazione tecnica necessaria alla trasmissione della comunicazione fatto salvo il principio della riservatezza. 2. Il paragrafo 1 non pregiudica la registrazione legalmente autorizzata di comunicazioni e dei relativi dati sul traffico se effettuata nel quadro di legittime prassi commerciali allo scopo di fornire la prova di una transazione o di una qualsiasi altra comunicazione commerciale». L’art. 6 della direttiva, intitolato “Dati sul traffico”, stabilisce: «1. I dati sul traffico relativi agli abbonati ed agli utenti, trattati e memorizzati dal fornitore di una rete pubblica o di un servizio pubblico di comunicazione elettronica devono essere cancellati o resi anonimi quando non sono più necessari ai fini della trasmissione di una comunicazione, fatti salvi i paragrafi 2, 3 e 5 del presente articolo e l’articolo 15, paragrafo 1. 2. I dati relativi al traffico che risultano necessari ai fini della fatturazione per l’abbonato e dei pagamenti di interconnessione possono essere sottoposti a trattamento. Tale trattamento è consentito solo sino alla fine del periodo durante il quale può essere legalmente contestata la fattura o preteso il pagamento. 3. Ai fini della commercializzazione dei servizi di comunicazione elettronica o per la fornitura di servizi a valore aggiunto, il fornitore di un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico ha facoltà di sottoporre a trattamento i dati di cui al paragrafo 1 nella misura e per la durata necessaria per siffatti servizi, o per la commercializzazione, sempre che l’abbonato o l’utente a cui i dati si riferiscono abbia dato il proprio consenso. Gli abbonati o utenti hanno la possibilità di ritirare il loro consenso al trattamento dei dati relativi al traffico in qualsiasi momento. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 4. Il fornitore dei servizi deve informare l’abbonato o l’utente sulla natura dei dati relativi al traffico che sono sottoposti a trattamento e sulla durata del trattamento ai fini enunciati al paragrafo 2 e, prima di ottenere il consenso, ai fini enunciati al paragrafo 3. 5. Il trattamento dei dati relativi al traffico ai sensi dei paragrafi da 1 a 4 deve essere limitato alle persone che agiscono sotto l’autorità dei fornitori della rete pubblica di comunicazione elettronica e dei servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico che si occupano della fatturazione o della gestione del traffico, delle indagini per conto dei clienti, dell’accertamento delle frodi, della commercializzazione dei servizi di comunicazione elettronica o della prestazione di servizi a valore aggiunto. Il trattamento deve essere limitato a quanto è strettamente necessario per lo svolgimento di tali attività. 6. I paragrafi 1, 2, 3 e 5 non pregiudicano la facoltà degli organismi competenti di ottenere i dati relativi al traffico in base alla normativa applicabile al fine della risoluzione delle controversie, in particolare di quelle attinenti all’interconnessione e alla fatturazione». L’art. 15 della direttiva, rubricato “Applicazione di alcune disposizioni della direttiva 95/46/CE”, stabilisce che: «1. Gli Stati membri possono adottare disposizioni legislative volte a limitare i diritti e gli obblighi di cui agli articoli 5 e 6, all’articolo 8, paragrafi da 1 a 4, e all’articolo 9 della presente direttiva, qualora tale restrizione costituisca, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 95/46/CE (8) una misura necessaria, opportuna e proporzionata all’interno di una società democratica per la salvaguardia della sicurezza nazionale (cioè della sicurezza dello Stato), della difesa, della sicurezza pubblica; e la prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, ovvero dell’uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica. A tal fine gli Stati membri possono tra l’altro adottare misure legislative le quali prevedano che i dati siano conservati per un periodo di tempo limitato per i motivi enunciati nel presente paragrafo. Tutte le misure di cui al presente paragra- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 121 (8) L’art. 13, n. 1, dispone: “Gli Stati membri possono adottare disposizioni legislative intese a limitare la portata degli obblighi e dei diritti previsti dalle disposizioni dell’articolo 6, paragrafo 1, dell’articolo 10, dell’articolo 11, paragrafo 1 e degli articoli 12 e 21, qualora tale restrizione costituisca una misura necessaria alla salvaguardia: a) della sicurezza dello Stato; b) della difesa; c) della pubblica sicurezza; d) della prevenzione, della ricerca, dell’accertamento e del perseguimento di infrazioni penali o di violazioni della deontologia delle professioni regolamentate; e) di un rilevante interesse economico o finanziario di uno Stato membro o dell’Unione europea, anche in materia monetaria, di bilancio e tributaria; f) di un compito di controllo, ispezione o disciplina connesso, anche occasionalmente, con l’esercizio dei pubblici poteri nei casi di cui alle lettere c), d) ed e); g) della protezione della persona interessata o dei diritti e delle libertà altrui”. fo sono conformi ai principi generali del diritto comunitario, compresi quelli di cui all’articolo 6, paragrafi 1 e 2, del trattato sull’Unione europea». Vengono, inoltre, in rilievo gli articoli 1, 3 n. 1 e 11 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2006/24/CE, riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione e che modifica la direttiva 2002/58/CE. L’art. 1 della direttiva, rubricato “Oggetto e campo di applicazione”, dispone che: «1. La presente direttiva ha l’obiettivo di armonizzare le disposizioni degli Stati membri relative agli obblighi, per i fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione, relativi alla conservazione di determinati dati da essi generati o trattati, allo scopo di garantirne la disponibilità a fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati gravi, quali definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale. 2. La presente direttiva si applica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione delle persone sia fisiche che giuridiche, e ai dati connessi necessari per identificare l’abbonato o l’utente registrato. Non si applica al contenuto delle comunicazioni elettroniche, ivi incluse le informazioni consultate utilizzando una rete di comunicazioni elettroniche». L’art. 3, n. 1, della direttiva, intitolato “Obbligo di conservazione dei dati”, stabilisce: «1. In deroga agli articoli 5, 6 e 9 della direttiva 2002/58/CE, gli Stati membri adottano misure per garantire che i dati di cui all’articolo 5 della presente direttiva, qualora siano generati o trattati nel quadro della fornitura dei servizi di comunicazione interessati, da fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione nell’ambito della loro giurisdizione, siano conservati conformemente alle disposizioni della presente direttiva» L’art. 11 della direttiva (“Modifica della direttiva 2002/58/CE”) stabilisce: «All’articolo 15 della direttiva 2002/58/CE è inserito il seguente paragrafo: «1 bis. Il paragrafo 1 non si applica ai dati la cui conservazione è specificamente prevista dalla direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione (12), ai fini di cui all’articolo 1, paragrafo 1, di tale direttiva». IV) OSSERVAZIONI DEL GOVERNO ITALIANO Il Governo italiano osserva, in via preliminare, che la questione è stata proposta in forma inammissibilmente ipotetica dal Giudice nazionale, tenuto conto che al punto 11 dell’ordinanza di rinvio la Corte spagnola afferma di formulare il quesito “senza pregiudizio della decisione finale che adotterà” e sul presupposto che l’interpretazione delle norme interne “potrebbe” 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO circoscrivere il dovere di conservare e mettere a disposizione i dati di connessione e di traffico all’ambito delle indagini penali o per la tutela della pubblica sicurezza e della difesa nazionale, il che “escluderebbe” i giudici e i tribunali civili nel contesto di un processo civile o preparatorio dello stesso. Nel presente atto di intervento, pertanto, si dovrà assumere che il quesito prenda le mosse da un’interpretazione del diritto interno spagnolo secondo il quale non è consentito al giudice civile di ordinare agli operatori di rete e di servizi di telecomunicazioni, ai fornitori di accesso alla rete e ai prestatori dei servizi di conservazione dei dati di mettere a disposizione di terzi i dati di connessione e di traffico relativi alle comunicazioni elettroniche. Una simile disciplina si dimostra, ad avviso del Governo italiano, conforme al diritto comunitario, perché una soluzione diversa finirebbe per interferire con il diritto fondamentale alla riservatezza delle comunicazioni, garantito all’individuo dall’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che, secondo giurisprudenza costante, fa parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte deve garantire l’osservanza. La tutela della riservatezza delle comunicazioni, inoltre, è, nella materia qui implicata, strumentale alla libera circolazione dei servizi della società dell’informazione, che costituisce manifestazione di un principio più generale, di rilevanza comunitaria, quale la libertà di espressione salvaguardata dall’art. 10 della CEDU. Il diritto fondamentale alla riservatezza può subire le sole restrizioni che appaiano necessarie, opportune e proporzionate a specifiche finalità di tutela, potendo essere compresso solo in vista della salvaguardia di beni giuridici di superiore valore o della reazione nei confronti di offese particolarmente gravi a beni giuridici di pari valore (come tali, quindi, considerate dalla legislazione penale degli Stati membri). Si tratta di finalità che non vengono in rilievo nel caso in esame, ove si fa questione della lesione, secondo modalità tali da non integrare reato, degli aspetti patrimoniali del diritto d’autore. Il punto di equilibrio tra le indicate opposte esigenze di tutela risulta chiaramente individuato nel quadro giuridico esistente in materia di protezione di dati (direttiva 95/46/Ce e 2002/58/CE). L’articolo 5, par. 1, della direttiva 2002/58/CE impone agli Stati membri di vietare l’ascolto, la captazione, la memorizzazione e altre forme di intercettazione o di sorveglianza delle comunicazioni, e dei relativi dati sul traffico, ad opera di persone diverse dagli utenti, senza consenso di questi ultimi, eccetto quando sia autorizzato legalmente a norma dell’articolo 15, par. 1. Il successivo articolo 6, par. 1, della direttiva 2002/58/CE stabilisce un generale divieto di conservazione dei dati sul traffico relativi agli abbonati ed agli utenti, quando non sono più necessari ai fini della trasmissione delle comunicazioni. Questo divieto conosce delle eccezioni, nel novero delle quali non rientra la fattispecie che ha dato luogo alla controversia principale. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 123 Un primo gruppo di eccezioni si rinvengono nei paragrafi 2 e 3 del citato articolo 6 della direttiva 2002/58/CE: si tratta della conservazione dei dati che risultano necessari ai fini della fatturazione per l’abbonato e dei pagamenti di interconnessione (par. 2), nonché dei dati rispetto ai quali l’abbonato o l’utente abbia consentito il trattamento ai fini della commercializzazione di servizi di comunicazione elettronica o per la fornitura di servizi a valore aggiunto (par. 3). Il trattamento di questi dati deve essere limitato a quanto è strettamente necessario per lo svolgimento di tali attività (par. 5). Altre eccezioni si rinvengono nell’art. 15, par. 1, della direttiva, che consente agli Stati membri di adottare disposizioni legislative volte a limitare il divieto di conservazione dei dati sul traffico, quando ciò risulti necessario per la salvaguardia della sicurezza nazionale, della difesa o della sicurezza pubblica o, ancora, per la prevenzione, ricerca, accertamento o perseguimento dei reati o dell’uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica. La recente direttiva 2006/24/CE ha, poi, vincolato gli Stati membri a prevedere l’obbligo di conservazione dei dati, per un periodo determinato, allo scopo di garantirne la disponibilità a fini di indagine, di accertamento o perseguimento di reati gravi (art. 1). Affermare che la conservazione dei dati da parte dei fornitori di una rete pubblica o di un servizio pubblico di comunicazione elettronica sia eccezionalmente ammessa per circoscritte finalità, quali quelle sin qui elencate, equivale a negare che i dati così conservati possano essere utilizzati per scopi diversi e che, conseguentemente, l’autorità giudiziaria possa ordinare l’esibizione dei dati o, comunque, la comunicazioni delle informazioni che ne risultano in vista della repressione di un illecito civile. Le fattispecie sopra descritte, infatti, si pongono quali eccezioni rispetto ad una regola generale e devono ricevere una stretta interpretazione. La conservazione dei dati per finalità diverse potrebbe, pertanto, essere ammessa solo ove si rinvenissero nell’ordinamento giuridico comunitario, in forza di disposizioni particolari o di principi generali, ulteriori puntuali eccezioni. Simili ulteriori eccezioni non si ritrovano, ad avviso del Governo italiano, nelle norme invocate dal Giudice del rinvio che, di seguito, si passeranno brevemente in rassegna. IV.1) Gli artt. 15, n. 2 e 18 della direttiva 200/31/CE. Merita premettere che la direttiva 2000/31/CE non interferisce con la protezione dei singoli relativamente al trattamento dei dati personali che “é disciplinata unicamente dalla direttiva 85/46/CE e dalla direttiva 97/66/CE”, come dispone il quattordicesimo considerando della direttiva, che poi conseguentemente enuncia “L’applicazione della presente direttiva deve essere pienamente conforme ai principi relativi alla protezione dei dati personali” e, ancora, “la presente direttiva non può impedire l’utilizzazione anonima di reti aperte quali Internet”. Ciò premesso, sembra evidente che le due norme indicate in rubrica non giovino alla tesi che qui si rifiuta. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’art. 15 n. 2 consente agli Stati membri di derogare alla regola posta nel numero 1 del medesimo articolo, secondo la quale “Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14 [si tratta dei servizi di “mere conduit”, “caching” e “hosting”], gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”. È pertanto questione che appartiene all’interpretazione del diritto nazionale se nella fattispecie operasse una simile deroga, che peraltro sarebbe stata limitata alla identificazione dei destinatari dei servizi dell’informazione che abbiano “accordi di memorizzazione dei dati” con i prestatori di servizi medesimi. L’art. 18 obbliga gli Stati membri a predisporre misure giurisdizionali atte “a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in causa”. Questa esigenza non presuppone necessariamente l’identificazione dell’autore delle violazione e risulta adeguatamente garantita dall’art. 8, nn. 2, 3, 4 e 5 della direttiva 2002/58/CE (9). IV.2) L’art. 8, nn. 1 e 2, della direttiva 200/31/CE. I paragrafi 1 e 2 della direttiva 200/31/CE, il cui testo si è riportato alla nota 5, impongono agli Stati membri di assicurare al titolare di un diritto d’autore, che si assume violato, adeguati rimedi giurisdizionali per la repressione della violazione. Il paragrafo 3 del medesimo articolo 8 dispone “Gli Stati membri si assicurano che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi”. L’interpretazione sistematica dell’art. 8 deve, allora, portare a ritenere che, allorquando i rimedi giurisdizionali si indirizzino nei confronti di un terzo, diverso dal presunto autore della violazione, essi debbano potersi tradurre in un provvedimento “inibitorio”, vale a dire in un provvedimento che IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 125 (9) Art. 8: “2. Qualora sia disponibile la presentazione dell’identificazione della linea chiamante, il fornitore di servizi deve offrire all’abbonato chiamato la possibilità, mediante una funzione semplice e gratuitamente, per ogni ragionevole utilizzo di tale funzione, di impedire la presentazione dell’identificazione delle chiamate entranti. 3. Qualora sia disponibile la presentazione dell’identificazione della linea chiamante e tale indicazione avvenga prima che la comunicazione sia stabilita, il fornitore di servizi deve offrire all’abbonato chiamato la possibilità, mediante una funzione semplice, di respingere le chiamate entranti se la presentazione dell’identificazione della linea chiamante è stata eliminata dall’utente o abbonato chiamante. 4. Qualora sia disponibile la presentazione dell’identificazione della linea collegata, il fornitore di servizi deve offrire all’abbonato chiamato la possibilità di impedire, mediante una funzione semplice e gratuitamente, la presentazione dell’identificazione della linea collegata all’utente chiamante. 5. ... Omissis ... . I paragrafi 2, 3 e 4 si applicano anche alle chiamate in entrata provenienti da paesi terzi. consiste in un ordine di non fare, il che esclude che si possa invocare la disposizione qui in esame al fine ritenere possibile l’emissione del provvedimento giurisdizionale richiesto dalla ricorrente. Provvedimenti più stringenti devono restare, pertanto, prerogativa dell’autorità giudiziaria alla quale, peraltro, la legislazione penale di molti Stati membri dà comunemente accesso nell’ipotesi di frodi informatiche, anche non caratterizzate dallo scopo di lucro. IV.3) L’art. 8 della direttiva 2004/48/CE (c.d. Direttiva “enforcement”) Secondo il paragrafo 1 dell’articolo 8 della direttiva 2004/48 gli Stati membri, nel contesto dei procedimenti riguardanti la violazione di un diritto di proprietà intellettuale, assicurano che l’autorità giudiziaria competente possa ordinare che le informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione di merci e di prestazioni di servizi che violano un diritto di proprietà intellettuale siano fornite dall’autore della violazione, nonché, tra gli altri, da chi sia stato sorpreso a fornire su scala commerciale servizi utilizzati in attività di violazione di un diritto. Tuttavia, il paragrafo 3 del medesimo articolo stabilisce che “I paragrafi 1 e 2 si applicano fatte salve le altre disposizioni regolamentari che: ... e) disciplinano la protezione o la riservatezza delle fonti informative o il trattamento di dati personali”. L’apparente conflitto tra diritto alla prova e riservatezza delle fonti informative è, pertanto, espressamente risolto dal legislatore comunitario, che stabilisce la prevalenza di quest’ultimo, secondo le modalità che lo disciplinano, tra le quali vi è il divieto di conservazione dei dati o, se si preferisce, l’obbligo di conservazione dei dati in vista di tassative e limitate finalità pubblicistiche, ciò che implica la costituzione di un vero e proprio segreto d’ufficio rispetto alle informazioni così detenute. IV.4) Gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il Giudice del rinvio richiama, da ultimo, le norme evidenziate in rubrica, attinenti alla protezione della proprietà intellettuale e al diritto di azione e di difesa a tutela dei diritti riconosciuti dall’Unione. Spetta, tuttavia, all’ordinamento giuridico stabilire le condizioni alle quali il diritto alla prova debba essere garantito. Tra i limiti tradizionalmente ammessi dalla giurisprudenza vi è certamente quello dell’apposizione del segreto su determinate informazioni, in vista di un superiore interesse pubblico. Si è visto che, nel nostro caso, l’esistenza di un dovere di segretezza deve essere desunta dal quadro giuridico comunitario esistente in materia di protezione dei dati personali. V) CONCLUSIONI In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte rispondere al quesito sottoposto al suo esame affermando che: 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il diritto comunitario, nello specifico gli artt. 15, n. 2, e 18 della direttiva del Parlamento europeo e dei Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno; gli artt. 8, nn. I e 2 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione; l’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/48/CE, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, e gli artt. 17, n. 2 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, impone agli Stati membri di circoscrivere all’ambito delle indagini penali o della tutela della pubblica sicurezza e della difesa nazionale – ad esclusione, quindi, dei processi civili – il dovere di conservare e mettere a disposizione i dati sulle connessioni ed il traffico generati dalle comunicazioni effettuate durante la prestazione di un servizio della società dell’informazione, che incombe agli operatori di rete e di servizi di comunicazione elettronica, ai fornitori di accesso alle reti di telecomunicazione ed ai fornitori di servizi di conservazione dei dati. Roma, 13 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Sergio Fiorentino». Causa C-276/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Reddito minimo garantito – Legislazione belga – Regolamento del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408 – Regolamento (CE) 29 aprile 2004 n. 883 – Accordo di cooperazione Cee-Marocco (27 aprile 1976) e Accordo Ce- Marocco (26 febbraio 2006) – Ordinanza del 13 giugno 2006, depositata il 26 giugno 2006 del Tribunal du travail de Verviers (Belgio) (cs. 31875/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia sorta in seguito al rifiuto, da parte dell’Ente nazionale belga per le pensioni, di concedere ad una cittadina marocchina regolarmente soggiornante in Belgio, la prestazione denominata “reddito minimo garantito alle persone anziane” (la GRAPA - Garantie légale d’un Revenu Aux Personnes Agées), che rientra tra le “prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo” ai sensi dell’art. 70, n. 2 lett. b) del regolamento CE n. 883/2004, relativamente alle quali il finanziamento deriva esclusivamente dalla tassazione obbligatoria intesa a coprire la spesa pubblica generale e la cui concessione non dipende dall’avvenuto versamento di contributi da parte del beneficiario. I QUESITI Se il rifiuto di concedere il reddito minimo garantito per legge alle persone anziane, per la ragione che la ricorrente - non rientra nell’ambito di applicazione del regolamento del Consiglio delle Comunità europee 14 giugno 1971 n. 1408, - non è stata riconosciuta apolide o rifugiata, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 127 - non è cittadina di un paese con cui, in materia di reddito minimo garantito, il Belgio ha concluso una convenzione di reciprocità di fatto, - non ha diritto ad alcuna pensione di vecchiaia o di reversibilità sulla base di un regime belga, non derivi da - un’interpretazione troppo restrittiva del regolamento CE 29 aprile 2004 n. 883 (che ha sostituito il regolamento CEE 14 giugno 1971 n. 1408), in particolare alla luce dell’art. 14 della CEDU, dell’art. 1 del suo Protocollo n. 1 e alla luce del regolamento CE 14 maggio 2003 n. 859, - oppure da un’interpretazione di tale regolamento CE n. 883/2004 che sarebbe incompatibile con l’Accordo di cooperazione che la Comunità economica europea ed il Regno del Marocco hanno firmato il 27 aprile 1976 in Rabat e che fu approvato, a nome della Comunità, con il regolamento CEE del Consiglio 26 settembre 1978 n. 2211 (G.U. L 264, pag. 1) e completato dall’Accordo CE-Marocco 26 febbraio 1996 (G.U. L 70 del 18 marzo 2000). LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO ITALIANO «Il Governo italiano ritiene che al quesito vada data risposta negativa, in quanto, a seguito dell’entrata in vigore del regolamento CE n. 859 del 14 maggio 2003, a decorrere dal 1 giugno 2003, i regolamenti CEE n. 1408/71 e 574/72 sono applicabili ai cittadini dello Stato terzo, ai quali gli stessi regolamenti CEE non siano già applicabili unicamente a causa della sua nazionalità, a condizione che gli stessi risiedano legalmente in uno Stato membro e sempre che si trovino in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all’interno di un solo Stato membro (art. 1 del regolamento n. 859/2003). Nel caso in questione, la ricorrente, cittadina marocchina, ha soddisfatto la condizione del soggiorno legale in uno Stato dell’Unione europea ma, di fatto, non ha esercitato il diritto di libera circolazione nell’ambito dell’Unione europea, che è alla base dell’applicazione della regolamentazione comunitaria di sicurezza sociale ad un cittadino di uno Stato terzo. Pertanto le disposizioni dei regolamenti CEE n. 1408/71 e 574/72 – estese, a determinate condizioni, ai lavoratori extracomunitari in base a quanto previsto dal regolamento CE 859/2003 – non sono applicabili nei confronti della sig.ra(…), in quanto cittadina di un Paese terzo alla quale i regolamenti CEE n. 1408/71 e 574/72 non sono applicabili non soltanto a causa della sua nazionalità, ma anche perché la sua situazione non presenta legami con due o più Stati membri, avendo la stessa avuto legami con il Paese terzo ed un solo Stato membro dell’Unione Europea (Belgio). In proposito, la partenza della ricorrente dal Marocco ed il suo arrivo direttamente in Belgio non può certamente essere considerato un trasferimento intracomunitario ai sensi dell’art. 2 del regolamento CE n. 883/2004. Si consideri, altresì, che le disposizioni del regolamento CE n. 883/2004 hanno confermato la normativa previgente concernente i cittadini degli Stati terzi (vedi articolo 90) e non hanno apportato alcuna modifica all’ambito di applicazione soggettivo, per consentire la completa estensione della regolamentazione comunitaria ai cittadini degli Stati terzi (vedi articolo 1). 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Pertanto, nell’evidenziare che la prestazione belga è assimilabile, per taluni aspetti, all’assegno sociale previsto dalla legislazione italiana, si ritiene che il rifiuto dell’ente belga di concedere alla ricorrente la prestazione denominata “reddito minimo garantito alle persone anziane”, non possa derivare da un’interpretazione restrittiva del regolamento C.E. n. 883/2004, proprio alla luce dell’art. 1 del regolamento CE n. 859/2003. Né può ritenersi invocabile, nella fattispecie, l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che pone il divieto di discriminazione, anche in base alla cittadinanza, ai fini del godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione stessa, tra i quali non rientrano i diritti previdenziali. Né appare pertinente il richiamo all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, non potendosi considerare il diritto di credito di natura patrimoniale invocato dalla ricorrente alla stessa stregua della proprietà privata dei beni, cui è diretta la protezione di cui al citato art. 1. Quanto alla seconda parte del quesito, non si ritiene che il rifiuto dell’Ente previdenziale belga possa ritenersi incompatibile con l’Accordo di cooperazione CEE-Marocco siglato il 27 aprile 1976. Detto Accordo è stato approvato con regolamento CEE del Consiglio 26 settembre 1978 n. 2211, il cui art. 1 prevede esattamente le medesime condizioni di applicabilità disposte dall’art. 1 del regolamento n. 859/2003 e cioè che il cittadino dello Stato terzo risieda legalmente in uno Stato membro e che si trovi in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all’interno di un solo Stato membro. Non sussistendo in capo alla ricorrente la seconda condizione, la stessa non può far valere i diritti attribuiti dai regolamenti CEE n. 1408/71 e n. 574/72, come affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza 11 ottobre 2001, cause riunite C-95/99 a C-98/99 e C-180/99, Addou. Peraltro, in base all’art. 41 del citato Accordo del 27 aprile 1976 “Fatto salvo il disposto dei paragrafi seguenti, i lavoratori di cittadinanza marocchina ed i loro familiari conviventi godono, in materia di previdenza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono occupati”. Orbene, come esposto nell’ordinanza di rinvio, la ricorrente invoca la spettanza della GRAPA, beneficio di natura non contributiva, solo sulla base della sua età e non per il fatto di aver prestato attività lavorativa in Belgio. Inoltre, pur avendo la ricorrente ottenuto la residenza in Belgio a seguito di ricongiungimento familiare con il figlio, non risulta che la stessa sia convivente con quest’ultimo, né che questi sia cittadino belga o comunque cittadino di un altro Stato membro o che lo stesso abbia prestato attività lavorativa in Belgio. La tutela di non discriminazione accordata dal citato art. 41 dell’Accordo CEE-Marocco, apprestata per i lavoratori ed i loro familiari conviventi, non è quindi invocabile dalla ricorrente. Successivamente, con Accordo del 26 febbraio 1996, entrato in vigore il 1 marzo 2000, è stata istituita un’Associazione tra le Comunità europee e il IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 129 Regno del Marocco il cui art. 65, che riproduce l’art. 41 dell’Accordo del 27 aprile 1976, ha precisato che “l’espressione ‘previdenza sociale’ copre gli aspetti della previdenza sociale attinenti alle prestazioni in caso di malattia e di maternità, di invalidità, di vecchiaia, di reversibilità, le prestazioni per infortuni sul lavoro e per malattie professionali, le indennità in caso di decesso, i sussidi di disoccupazione e le prestazioni familiari. La presente disposizione, tuttavia, non può avere l’effetto di rendere applicabili le altre norme sul coordinamento previste dalla normativa comunitaria basata sull’art. 51 del trattato CE …”. Il divieto di discriminazione basato sulla cittadinanza non si riferisce quindi a prestazioni di natura non contributiva, come la GRAPA, non correlate alla posizione di lavoratore o di familiare convivente di lavoratore. Inoltre, la giurisprudenza della Corte citata nell’ordinanza di rinvio, che si opporrebbe alle discriminazioni fondate sulla cittadinanza, riguarda sempre ipotesi di lavoratori o di familiari conviventi di lavoratori o di lavoratori migranti che abbiano successivamente acquistato la cittadinanza di uno Stato membro. In particolare, la sentenza del 11 novembre 1999, causa C-179/98, Mesbah, emessa proprio in un giudizio di rinvio tra una cittadina marocchina e lo Stato belga, ha affermato che un familiare di un lavoratore migrante avente cittadinanza marocchina, allorché quest’ultimo ha acquistato la cittadinanza dello Stato membro ospitante prima della data in cui tale familiare ha cominciato a risiedere presso di lui nel detto Stato membro ed ha richiesto l’attribuzione di una prestazione previdenziale in forza della normativa di questo Stato, non può richiamarsi all’art. 41, n. 1 dell’Accordo di cooperazione tra la Comunità economica europea e il Regno del Marocco, firmato a Rabat il 27 aprile 1976 e approvato, a nome della Comunità, con regolamento CEE del Consiglio 26 settembre 1978 n. 2211 e far leva sulla cittadinanza marocchina del detto lavoratore al fine di giovarsi del principio della parità di trattamento in materia di previdenza sociale enunciato da questa disposizione. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso che il rifiuto dell’ente previdenziale belga di concedere alla ricorrente il reddito minimo garantito per legge alle persone anziane non deriva da un’interpretazione troppo restrittiva del regolamento n. 883/2004, né è incompatibile con l’Accordo di cooperazione CEE-Marocco firmato il 27 aprile 1976. Roma, 13 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-294/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Permesso di soggiorno in qualità di studente e/o au pair – Richiesta modifica autorizzazione in permesso di lavoro – Accordo di Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia del 12 settembre 1963 – Decisione del Consiglio di Associazione n. 1/80 – Ordinanza del 15 giugno 2006, depositata il 30 giugno 2006, notificata il 18 agosto 2006, della Court of Appeal (Administrative Court) – Regno Unito (cs. 37483/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL FATTO La questione è stata sollevata nell’ambito di un ricorso in appello proposto dal Secretary of State of Home Department avverso la decisione dell’Administrative Court della High Court of England and Wales che aveva accolto l’istanza di tre cittadini turchi, entrati nel Regno Unito, rispettivamente, una con un permesso di soggiorno “au pair” e gli altri due per studio, per ottenere un’autorizzazione aggiuntiva a soggiornare in quello Stato ai sensi dell’articolo 6 della decisione 1/80. I QUESITI 1.- Se una cittadina turca autorizzata ad entrare nel Regno Unito per due anni al fine di accedere ad un impiego quale “au pair” e che sia stata continuativamente occupata in tale qualità per oltre un anno al pari di una vera e propria attività economica, possa definirsi una lavoratrice ai sensi dell’art. 6 della decisione 1/80 del Consiglio di associazione istituito dall’Accordo di Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia regolarmente registrata come forza lavoro del Regno Unito. 2.- Se un cittadino turco autorizzato ad entrare nel Regno Unito al fine di seguire un corso di studio in detto stato e che sia stato occupato presso un medesimo datore di lavoro per il tempo previsto dal permesso stesso possa, parimenti, essere considerato un lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione 1/80 del Consiglio di associazione istituito dall’Accordo di Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia regolarmente registrato come forza lavoro del Regno Unito. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «Il Governo italiano ritiene che, al primo quesito vada data risposta negativa, non potendosi ritenere che lo svolgimento di attività “au pair” possa far acquisire lo status di lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione n. 1/80. Innanzi tutto, occorre premettere che ai sensi dell’art. 2, n. 1 dell’Accordo di associazione concluso il 12 settembre 1963 tra la CEE e la Turchia, l’Accordo medesimo ha lo scopo di promuove un rafforzamento continuo ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche tra le parti contraenti, tenendo conto della necessità di assicurare un più rapido sviluppo dell’economia turca ed il miglioramento del livello dell’occupazione e del tenore di vita del popolo turco. Tale obiettivo viene perseguito mediante la realizzazione graduale della libera circolazione dei lavoratori (art. 12), nonché mediante l’eliminazione delle restrizioni alla libertà di stabilimento (art. 13) e alla libera prestazione dei servizi (art. 14) al fine di facilitare successivamente l’adesione della Turchia alla Comunità (art. 28). Il 23 novembre 1970 è stato inoltre sottoscritto un Protocollo addizionale, che costituisce parte integrante dell’Accordo di associazione, che stabilisce all’art. 41 n. 1 che “Le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 131 dei servizi” e all’art. 59 il principio secondo il quale “nei settori coperti dal presente protocollo, la Turchia non può beneficiare di un trattamento più favorevole di quello che gli Stati membri si accordano reciprocamente in virtù del trattato che istituisce la Comunità”. Alla luce di tale principio, il cittadino turco non può fruire, in base all’Accordo tra la CEE e la Turchia, di maggiori garanzie rispetto a quelle che assistono i cittadini comunitari nei loro reciproci rapporti in ordine al diritto di soggiorno in un altro Stato membro, che deriva dal diritto di accedere al mercato del lavoro. Non viene invece affermato il contrario e cioè che gli Stati membri della Comunità non possano accordare ai cittadini comunitari un trattamento più favorevole rispetto a quello riservato ai cittadini turchi. Il 19 settembre 1980, il Consiglio di associazione, istituito dall’Accordo di associazione CEE-Turchia, emanava la decisione n. 1/80. Le disposizioni sociali della decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione, istituito per l’applicazione ed il progressivo sviluppo del regime previsto dall’accordo, costituiscono un’ulteriore tappa verso la graduale realizzazione della libera circolazione dei lavoratori turchi nella Comunità europea. In particolare, l’art. 6, n. 1, di quest’ultima decisione riconosce ai lavoratori migranti turchi che ne soddisfano le condizioni precisi diritti in materia di esercizio di un’attività lavorativa. Come risulta da una giurisprudenza costante, quest’ultima norma, a cui è stata riconosciuta un’efficacia diretta, conferisce agli interessati un diritto individuale in materia di lavoro e un correlativo diritto di soggiorno (v. sentenza 2 giugno 2006, causa C-136/03, Dorr e Unal). Più in particolare, ai sensi dell’art. 6 n. 1 citato, dopo un anno di regolare impiego, il lavoratore turco ha il diritto di continuare ad esercitare un’attività lavorativa subordinata presso lo stesso datore di lavoro (primo trattino). Dopo tre anni di regolare impiego, fatta salva la precedenza da accordare ai lavoratori degli Stati membri, egli ha il diritto di candidarsi ad un altro posto di lavoro offerto da un datore di lavoro di suo gradimento, nella stessa professione (secondo trattino). Dopo quattro anni di regolare impiego, egli ha il diritto incondizionato di cercare qualsiasi attività salariata liberamente scelta e di accedervi (terzo trattino) (v. citate sentenze Eroglu, punto 12; Tetik punto 26, e Nazli, punto 27). Le tre situazioni oggetto del procedimento nel corso del quale è stata sollevata la questione pregiudiziale si riferirebbero tutte alla prima ipotesi. Con la decisione 26 novembre 1998, causa C-1/97, Birden, la Corte di Giustizia ha affermato il principio secondo il quale, nella determinazione della portata della nozione di lavoratore ai sensi dell’art. 6, n. 1 della decisione n. 1/80, occorre rifarsi all’interpretazione di tale nozione nel diritto comunitario. Per essere considerata lavoratore, nell’accezione comunitaria del termine, una persona deve prestare attività reali ed effettive, ad esclusione di attività talmente ridotte da porsi come puramente marginali ed accessorie. La caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione (v., per quanto riguarda l’art. 48 del Trattato, in particolare, sentenze 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum. Racc. pag. 2121, punti 16 e 17; 21 giugno 1988, causa 197/86, Brown, Racc. pag. 3205, punto 21, e 26 febbraio 1992, causa C-357/89, Raulin Racc. pag. I-1027, punto 10, nonché, per quanto riguarda l’art. 6, n. 1, della decisione n. 1/80, citate sentenze Gunaydin, punto 31, ed Ertanir, punto 43). Orbene, nel caso della ragazza “au pair” non sembra che vi siano gli estremi per soddisfare i requisiti di cui alla nozione comunitaria di lavoratore, come prima meglio specificati. Infatti, la cittadina turca lavora per un numero di ore settimanali che vanno da 15 a 25 e percepisce una somma di 70 sterline a settimana, oltre a godere di alloggio e vitto. Si tratta quindi di un rapporto che risponde pienamente alla fattispecie astratta di cui al Trattato Europeo per l’impiego alla pari, sottoscritto a Strasburgo il 24 novembre 1969, ratificato anche dall’Italia con la Legge n. 304 del 18 maggio 1973. Lavorare alla pari, in base alla citata normativa, significa essere ospiti in una famiglia straniera e, in cambio di vitto, alloggio e una piccola retribuzione (‘pocket-money’ o ‘argent-de-poche’), aiutare ad accudire ai bambini e sbrigare leggere faccende domestiche. L’‘au pair’ costituisce una categoria specifica che non è né quella di studente, né quella di lavoratore. I programmi alla pari, infatti, sono progetti di scambi culturali per l’apprendimento e/o il perfezionamento di una lingua straniera. Lavorando alla pari si ricevono, in cambio del servizio prestato presso la famiglia ospitante, vitto e alloggio e, se possibile, l’uso di una camera individuale, nonché un piccolo compenso variabile da nazione a nazione. L’au pair deve disporre di tempo sufficiente per seguire corsi di lingua e perfezionarsi sul piano culturale e professionale ed avere la possibilità di partecipare alle funzioni della propria religione. Essendo questo il tipo di rapporto intrattenuto dalla cittadina turca, non sembra che la stessa si possa far rientrare in quel concetto di lavoratore prima enunciato, rispetto al quale, oltre alla diversa struttura e configurazione dell’attività lavorativa, puramente marginale ed accessoria, manca un elemento fondamentale che è dato dal vincolo della subordinazione, totalmente assente nel caso che occupa il Giudice inglese. Deve quindi concludersi che una ragazza “au pair” non possa considerarsi un lavoratore regolarmente inserito nel mercato del lavoro, come richiesto per l’applicazione dell’art. 6, n. 1 primo trattino della decisione n. 1/80. L’altro quesito posto alla Corte di Giustizia riguarda l’ipotesi di due studenti, entrambi entrati nel Regno Unito con un permesso per motivi di studio ed un’autorizzazione a svolgere un impiego retribuito purché non eccedente le venti ore settimanali. Anche a tale quesito va data risposta negativa non potendosi ritenere che i due cittadini turchi, entrati nel Regno Unito per motivi di studio, abbiano acquisito lo status di lavoratore dipendente ai sensi dell’art. 6 della decisio- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 133 ne n. 1/80, avendo sempre lavorato a tempo parziale e con un impegno non superiore alle venti ore settimanali. In base alla legislazione italiana (Testo Unico sull’immigrazione), il permesso di soggiorno dello straniero per motivi di studio non può essere di durata superiore ad un anno, in relazione alla frequenza di un corso per studio o formazione debitamente certificata. Il permesso è tuttavia rinnovabile nel caso di corsi pluriennali. Il rinnovo dipende dal superamento di un certo numero di esami di profitto all’interno del corso di studio della persona. Salvo che sia diversamente stabilito dagli accordi internazionali o dalle condizioni per le quali lo straniero è ammesso a frequentare corsi di studio in Italia, il permesso di soggiorno per motivi di studio può essere convertito, prima della sua scadenza, in permesso per motivi di lavoro nel limite delle quote stabilite annualmente con il Decreto-flussi del Governo e previa stipula del contratto di soggiorno per lavoro, o in caso di lavoro autonomo, previo rilascio della certificazione attestante la sussistenza dei requisiti necessari. Questo implica che la persona che si trova in Italia per motivi di studio e vuole convertire il suo permesso di soggiorno in permesso per motivi di lavoro, potrà farlo solo se ci sarà disponibilità di posti all’interno delle quote previste annualmente. Diversamente, dovrà fare rientro nel proprio Paese e attendere il decreto flussi successivo. Il permesso di soggiorno per studio permette di svolgere un’attività lavorativa di tipo subordinato per un tempo non superiore a 20 ore settimanali, anche cumulabili per cinquantadue settimane, fermo restando il limite annuale di 1040 ore. Ciò premesso, nei due casi prospettati nella seconda questione pregiudiziale, che comunque presuppongono la regolare registrazione del lavoratore come forza lavoro del Paese ospitante, non si può parlare di inserimento nel regolare mercato del lavoro, avendo gli studenti comunque svolto un’attività di lavoro a tempo parziale, non superiore alle venti ore settimanali e comunque secondaria e marginale rispetto al prioritario impegno dello studio. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito nel senso che lo svolgimento di attività “au pair” non possa far acquisire lo status di lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione n. 1/80. Il Governo italiano inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito nel senso che i due cittadini turchi, entrati nel Regno Unito per motivi di studio, non abbiano acquisito lo status di lavoratore dipendente ai sensi dell’art. 6 della decisione n. 1/80, avendo sempre lavorato a tempo parziale e con un impegno non superiore alle venti ore settimanali. Roma, 26 ottobre 2006 Avv. dello Stato Wally Ferrante». C-303/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) –Discriminazione nei confronti di una persona in rapporti con un disabile – Direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE – Ordinanza del 6 luglio 2006, depositata in data 10 luglio 2006, notificata il 6 settembre 2006, de The London South Employment Tribunal (Regno Unito) (cs. 39603/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL FATTO La ricorrente ha la qualifica di segretaria di studio legale. Il primo convenuto è uno studio legale, che opera in Inghilterra; il secondo convenuto è un associato del primo convenuto; nessuno dei due convenuti è un organismo di diritto pubblico. La ricorrente, che non è essa stessa disabile, sostiene di essere stata discriminata dai convenuti a causa dell’handicap di suo figlio, del quale essa si prende principalmente cura, ed asserisce di avere abbandonato l’impiego presso il primo convenuto a causa di tale trattamento. I convenuti eccepiscono (tra l’altro) che le disposizioni di diritto nazionale che la ricorrente richiama a suo sostegno prevedono soltanto la protezione di una persona disabile discriminata in base al proprio handicap, e negano che il diritto nazionale vieti la discriminazione nei confronti di una persona in rapporti con un disabile, trattata meno favorevolmente in ragione di tale rapporto. I QUESITI 1.- Se nell’ambito del divieto di discriminazione a causa di handicap, la direttiva protegga contro la discriminazione diretta e contro le molestie soltanto persone esse stesse disabili. 2.- In caso di risposta negativa alla suddetta questione 1), se la direttiva tuteli lavoratori che, pur non essendo essi stessi disabili, vengono trattati in modo meno favorevole o subiscono molestie a causa del loro rapporto con una persona disabile. 3.- Se, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore in modo meno favorevole rispetto a come tratti o tratterebbe altri lavoratori, ed è accertato che il motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio disabile di cui ha cura, tale trattamento integri una discriminazione diretta in violazione del principio della parità di trattamento stabilito dalla direttiva. 4.- Se, qualora un datore di lavoro molesti un lavoratore, ed è accertato che il motivo di tale trattamento è costituito dal fatto che il lavoratore ha un figlio disabile di cui ha cura, tali molestie integrino una violazione del principio di parità di trattamento stabilito dalla direttiva. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «Il Governo italiano ritiene che al primo quesito vada data risposta positiva e, conseguentemente, che agli altri tre quesiti vada data risposta negativa in quanto la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, senza alcuna discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, non prevede espressamente un divieto di discriminazione nei confronti di lavoratori che abbiano un familiare portatore di handicap del quale abbiano la cura ma esclusivamente un divieto di discriminazione diretto ed indiretto del lavoratore che sia esso stesso disabile. In particolare, la discriminazione fondata sull’handicap è diretta quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sarebbe stata trattata IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 135 un’altra in situazione analoga (art. 2, comma 2 lett. a) della direttiva 2000/78/CE) mentre detta discriminazione è indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone portatrici di handicap, a meno che il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi (art. 2, comma 2 lett. b) della citata direttiva). Le “molestie” sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato, adottato in ragione dell’handicap, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo (art. 2, comma 3 della citata direttiva). L’art. 3 della direttiva 2000/78/CE, nel delimitare il proprio campo di applicazione, precisa che i principi nella stessa affermati si applicano: alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro nonché alla promozione; alla formazione professionale e ai tirocini; alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento; all’attività delle organizzazioni di lavoratori o di datori di lavoro. Dal canto suo, l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, dedicato espressamente alla condizione dei disabili, stabilisce che, per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Quanto all’azione positiva e alle misure specifiche, l’art. 7 della citata direttiva prevede, quanto ai disabili, che il principio di parità di trattamento non pregiudica il diritto degli Stati di adottare misure intese a salvaguardare o promuovere il loro inserimento nel mondo del lavoro. Da tutte le disposizioni richiamate, si evince chiaramente che il divieto di discriminazione fondato sull’handicap è volto a tutelare il lavoratore disabile e non già il lavoratore in ragione del suo rapporto con una persona disabile (c.d. discriminazione per relationem). Inoltre, nel ventisettesimo considerando della direttiva 2000/78/CE si ricorda che, nella sua raccomandazione 86/379/CEE del 24 luglio 1986 concernente l’occupazione dei disabili nella Comunità, il Consiglio ha definito un quadro orientativo in cui si elencano alcuni esempi di azioni positive intese a promuovere l’occupazione e la formazione dei portatori di handicap, e nella sua risoluzione del 17 giugno 1999 relativa alle pari opportunità di lavoro per i disabili, ha affermato l’importanza di prestare un’attenzione particolare segnatamente all’assunzione e alla permanenza sul posto di lavoro del personale e alla formazione e all’apprendimento permanente dei disabili. 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ancora, nel sedicesimo considerando della citata direttiva, si afferma che la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap e, nel ventesimo considerando della stessa direttiva, si sottolinea l’opportunità di prevedere misure appropriate destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti. Il destinatario della particolare tutela apprestata dal diritto comunitario è quindi il disabile in quanto tale nel mondo del lavoro e non il lavoratore non disabile in quanto familiare di un portatore di handicap. Del resto la Corte di giustizia ha già avuto modo di propendere per un’interpretazione restrittiva della nozione di handicap e della sua rilevanza nel rapporto di lavoro con la sentenza del 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacon Navas, nella quale è stato affermato che il caso di una persona che è stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente per causa di malattia non rientra nel quadro generale per la lotta contro la discriminazione fondata sull’handicap istituito dalla direttiva 2000/78/CE e che la malattia in quanto tale non può essere considerata un motivo che si aggiunge a quelli in base ai quali la direttiva 2000/78/CE vieta qualsiasi discriminazione, dovendo escludersi un’assimilazione pura e semplice tra la nozione di malattia e quella di handicap. Pertanto, il caso della ricorrente, segretaria di uno studio legale, che lamenta di essere stata discriminata dal suo datore di lavoro a causa dell’handicap di suo figlio, del quale essa si prende principalmente cura, non sembra rientrare nell’ambito di protezione della direttiva 2000/78/CE. La legislazione inglese, che prevede esclusivamente un divieto di discriminazione nei confronti del lavoratore esso stesso disabile e non anche nei confronti del lavoratore in quanto familiare di un soggetto portatore di handicap, non viola quindi i principi della direttiva 2000/78/CE. È evidente, tuttavia, che ogni Stato ha la facoltà di apprestare una maggiore tutela rispetto a quella prevista dalla citata direttiva che, al suo ventottesimo considerando, precisa espressamente di fissare dei requisiti minimi, lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli per garantire e rendere più efficace il divieto di discriminazione fondato sull’handicap. Infatti il bambino handicappato di una madre lavoratrice sarà tanto più tutelato quanto quest’ultima non subirà discriminazioni che non le permettano di accudire nel migliore dei modi al proprio figlio. Nell’ordinamento italiano, ad esempio, la legge 5 febbraio 1992 n. 104, sull’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate prevede non solo una tutela diretta dell’handicappato ma anche una serie di agevolazioni a favore del lavoratore familiare del disabile, che consentono a quest’ultimo di poter fruire delle maggiori cure di cui abbisogna. In particolare, l’art. 33 della predetta legge, come modificato dall’art. 33 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (Testo Unico delle dispo- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 137 sizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) prevede che la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata hanno diritto al prolungamento fino a tre anni del congedo parentale a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati. Ai sensi della predetta norma, i genitori di bambini handicappati possono chiedere ai rispettivi datori di lavoro di usufruire, in alternativa, di permessi giornalieri retribuiti fino al compimento del terzo anno di vita del figlio. La stessa disposizione prevede inoltre che il genitore o il familiare, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede. Alla luce di quanto sopra, deve ritenersi che, sebbene la legislazione inglese in materia non si ponga in contrasto con la direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri debbano assicurare che la loro normativa consenta di rendere effettiva e concreta la tutela dell’handicap, anche introducendo misure ulteriori e più favorevoli rispetto a quelle minime richieste dalla predetta direttiva. Infatti, dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto nell’intera Comunità di un’interpretazione autonoma ed uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi (sentenza 18 gennaio1984, causa C-327/82, Ekro, punto 11 e 9 marzo 2006, causa C-323/03, Commissione/Spagna, punto 32). Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere i quesiti nel senso di ritenere che la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, senza alcuna discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, non prevede espressamente un divieto di discriminazione nei confronti di lavoratori che abbiano un familiare portatore di handicap del quale abbiano la cura ma esclusivamente un divieto di discriminazione diretto ed indiretto del lavoratore che sia esso stesso disabile. Peraltro, deve ritenersi che, sebbene la legislazione inglese in materia non si ponga in contrasto con la direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri debbano assicurare che la loro normativa consenta di rendere effettiva e concreta la tutela dell’handicap, anche introducendo misure ulteriori e più favorevoli rispetto a quelle minime richieste dalla predetta direttiva. Roma, 13 novembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Causa C-331/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Residenza all’esterno della Comunità al compimento dell’età per l’ottenimento della pensione di vecchiaia – Applicazione dell’art. 48 del regolamento n. 1408/71 – Ordinanza del 27 luglio 2006, depositata il 31 luglio 2006, notificata il 4 ottobre 2006, del Rechtbank Amsterdam (Paesi Bassi) (cs. 47180/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO Il ricorrente cittadino britannico, ha risieduto e lavorato nei Paesi Bassi dal 1 settembre 1972 al 1 aprile 1975 e dal 1 gennaio 1976 al 31 dicembre 1977. Nei nove mesi intercorsi tra questi due periodi il ricorrente ha lavorato in Danimarca, ivi versando i contributi previdenziali. Dal 1 gennaio 1978 egli risiede negli Stati Uniti. Al raggiungimento dell’età pensionabile, il ricorrente ha inoltrato la relativa domanda ma l’ente previdenziale olandese gli ha comunicato che egli ha diritto ad un trattamento pensionistico pari al 10% della misura integrale. Ai sensi dell’art. 48 n. 1 del regolamento CEE n. 1408/71, l’istituzione di uno Stato membro non è tenuta a corrispondere prestazioni previdenziali per periodi contributivi inferiori all’anno, se, tenuto conto di questi soli periodi, nessun diritto alle prestazioni è acquisito in virtù della legislazione dello Stato membro mentre, a norma dell’art. 48 n. 2, l’istituzione competente di ciascuno degli Stati membri prende in considerazione i periodi di cui al n. 1 ai fini dell’applicazione dell’art. 46 n. 2, escluse le disposizioni della lettera b). Ai sensi del citato art. 46 n. 2 lett. a) l’istituzione competente calcola l’importo teorico della prestazione cui l’interessato avrebbe diritto se tutti i periodi di assicurazione e/o di residenza, compiuti sotto le legislazioni degli Stati membri alle quali il lavoratore subordinato o autonomo è stato soggetto, fossero stati compiuti nello Stato membro in questione e sotto la legislazione che essa applica alla data della liquidazione. Se, in virtù di questa legislazione, l’importo della prestazione è indipendente dalla durata dei periodi compiuti, tale importo è considerato come l’importo teorico da considerare. In proposito, la sentenza della Corte di Giustizia del 18 febbraio 1982, causa 55/81, Vermaut, ha affermato che l’ente competente deve tener conto dei periodi assicurativi inferiori ad un anno maturati dal lavoratore in applicazioni delle leggi di altri Stati membri, anche se il diritto alla pensione spetta in forza delle sole leggi nazionali. IL QUESITO Nel caso in cui un lavoratore risieda all’esterno della Comunità nel momento in cui egli compie l’età che dà diritto ad un trattamento pensionistico, se l’art. 48 del regolamento n. 1408/71 debba essere applicato così come lo sarebbe nell’ipotesi in cui il lavoratore interessato risiedesse nel territorio della Comunità. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 139 LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «Il Governo italiano ritiene che, al quesito vada data risposta positiva, atteso che la finalità di favorire la libera circolazione delle persone all’interno della Comunità non potrebbe essere perseguita pienamente se si limitasse l’applicazione della regolamentazione comunitaria in materia di sicurezza sociale unicamente a coloro che, avendo periodi di residenza e di lavoro negli Stati membri, non si siano trasferiti in uno Stato terzo, condizionando così l’applicazione di tale regolamentazione comunitaria all’obbligo della residenza in uno Stato membro al momento di presentazione della domanda di prestazione. In proposito, l’art. 42 del Trattato prevede, in materia di sicurezza sociale, l’adozione delle misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori, attuando un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni sia per il calcolo di queste. D’altro canto, il principio stabilito con l’art. 48 del regolamento n. 1408/71 è volto a favorire in particolare la libera circolazione tra gli Stati comunitari, offrendo al lavoratore la garanzia che anche brevissimi periodi di assicurazione, risultanti in un qualsiasi Stato membro, non restino in nessun caso privi di rilievo ai fini pensionistici, bensì vengano presi in considerazione – ai fini dell’applicazione dell’articolo 46 n. 2 lett. a) – per l’accertamento del diritto e per la determinazione dell’importo della pensione spettante a carico di un altro Stato membro, sia nel caso in cui in quest’ultimo Stato si perfezioni il diritto alla pensione nazionale, sia nel caso in cui si perfezioni il diritto alla pensione in base ai regolamenti della Comunità europea (si veda in proposito la citata sentenza della Corte di Giustizia relativa al caso Vermaut). Si ritiene quindi che la regolamentazione comunitaria debba essere applicabile sia nei confronti dei lavoratori che si spostano all’interno della Comunità, sia nei confronti di coloro che si sono spostati all’esterno della stessa. Occorre tenere presente, infatti, che l’articolo 3 n. 1 del regolamento 1408/71, così come modificato dall’articolo 1, lettera a) del regolamento 647/05, prevede che, fatte salve le particolari disposizioni previste dallo stesso regolamento 1408/71, le persone alle quali esso è applicabile sono soggette agli obblighi e sono ammesse al beneficio della legislazione di ciascuno Stato membro alle stesse condizioni dei cittadini di tale stato, indipendentemente dal requisito della residenza nel territorio in uno degli Stati membri, requisito che, appunto, è stato soppresso dal citato art. 1 del regolamento n. 647/2005. Pertanto non possono sussistere limitazioni derivanti dalla residenza all’esterno della Comunità se non nei casi specificamente previsti. Si rileva inoltre che l’art. 2 n. 1 del regolamento n. 883/04, destinato a sostituire il regolamento n. 1408/71, benché non ancora in vigore, prevede il proprio ambito di applicazione ai cittadini di uno Stato membro, agli apo- 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO lidi ed ai rifugiati residenti in uno Stato membro che sono o sono stati soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri nonché ai loro familiari e superstiti. Il requisito della cittadinanza (posseduto dal ricorrente) è quindi alternativo a quello della residenza, a condizione che, in entrambi casi, l’interessato sia o sia stato soggetto alla legislazione di uno o più Stati membri, ipotesi verificatasi nel caso di specie. D’altra parte né il contenuto, né le finalità delle disposizioni dell’art. 10 n. 1 del regolamento 1408/71 – il quale stabilisce che le prestazioni pensionistiche erogate dagli stati membri non possono subire riduzioni per il fatto che il beneficiato risiede nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale si trova l’istituzione debitrice – possono indurre a ritenere che l’art. 48 del medesimo regolamento si applichi esclusivamente nel caso in cui colui che richiede la prestazione risieda sul territorio comunitario. La disposizione dell’articolo 10 n. 1, infatti, intesa a garantire il mantenimento del diritto alle prestazioni nei casi di trasferimento da uno Stato membro ad un altro, non implica, di per sé, che il diritto alle prestazioni debba essere conservato unicamente nel caso di trasferimento da uno Stato membro ad un altro, né tanto meno esclude l’acquisizione del diritto alle prestazioni se il richiedente non risiede più in uno Stato membro al momento della maturazione del diritto alla pensione. Al riguardo, infine è utile tenere presente che la Corte di Giustizia, con la sentenza del 23 ottobre 1986, causa C-300/84, Van Roosmalen, ha dichiarato, tra l’altro, che, ai fini dell’applicabilità del regolamento 1408/71, è determinante il collegamento tra l’assicurato ed il regime previdenziale di uno Stato membro, elemento che sussiste nel caso rimesso in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dal Tribunale olandese. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso che le disposizioni dell’art. 48 del regolamento n. 1408/71 debbano trovare applicazione nei confronti del lavoratore che è residente all’esterno della Comunità al compimento dell’età pensionabile, così come troverebbero applicazione nell’ipotesi in cui lo stesso lavoratore, al momento del pensionamento, fosse residente nel territorio della Comunità. Roma, 13 dicembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-349/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Diritto di soggiorno e tutela contro l’espulsione di un cittadino turco in possesso di un permesso di soggiorno illimitato in Germania – Art. 59 protocollo addizionale all’Accordo 12 settembre 1963 (associazione CEE – Turchia) – Artt. 7 e 14 decisione n. 1/80 del consiglio di associazione CEE – Turchia – Direttiva Parlamento e Consiglio 29 aprile 2004, 2004/38/CE – Regolamento CEE del Consiglio del 15 ottobre 1968 – Ordinanza del 16 agosto 2006, depositata il 21 agosto 2006, notificata il 18 ottobre 2006, del Verwaltungsgericht Darmstadt (Germania) (cs. 43709/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 141 IL FATTO Il ricorrente, cittadino turco, è entrato nella Repubblica federale di Germania poco dopo la sua nascita, per ricongiungimento familiare con i suoi genitori, ivi residenti; il padre è stato impiegato come lavoratore dipendente dal 1971 al 1991 e gode dal 1991 di una pensione di anzianità e la madre ha svolto dal 1999 al 2005 un’attività quale donna delle pulizie, lavorando di regola fra le 30 e le 70 ore mensili. Nel 1988, il ricorrente, al compimento del sedicesimo anno di età, ha ricevuto un permesso di soggiorno illimitato. Dopo aver conseguito il diploma di scuola media, ha ottenuto un posto di apprendista, dal quale è stato tuttavia allontanato per inaffidabilità. Egli ha interrotto anche una successiva formazione. Ancora minorenne, il ricorrente commetteva una serie di reati (violazione della normativa sugli stupefacenti e furto). Dopo il compimento del ventunesimo anno di età, a partire dal 1994, egli è stato condannato 18 volte in sede penale, prevalentemente per reati legati agli stupefacenti e contro la proprietà, prima al pagamento di diverse pene pecuniarie quindi anche alla reclusione. Dal 1 febbraio 1996 al 28 novembre 1997, il ricorrente si è recato in Turchia per assolvere il servizio militare. Dopo il suo ritorno, egli ha vissuto nell’abitazione dei propri genitori a partire dal 4 agosto 2000. Durante tale periodo, egli ha ricevuto mensilmente fra € 400 e € 1.400, quale remunerazione per svariate attività di breve durata o quale sussidio di disoccupazione ed ha sostenuto i propri genitori con € 200 mensili. Il soggiorno presso i genitori è stato interrotto soltanto da quello presso centri ospedalieri di recupero per tossicodipendenti nonché per l’esecuzione della sua pena detentiva dal 23 giugno 2004 all’8 febbraio 2006. Con provvedimento del 14 ottobre 2004, il ricorrente veniva espulso dalla Repubblica federale di Germania, ricorrendo i presupposti per l’espulsione obbligatoria di cui all’art. 47, primo comma n. 1 dell’Auslaendergesetz (legge tedesca sugli stranieri). I QUESITI 1.- Se sia compatibile con l’art. 59 del Protocollo addizionale dell’Accordo 12 settembre 1963 che crea un’Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia relativo alla fase transitoria dell’Associazione, il fatto che un cittadino turco, giunto da bambino nella Repubblica federale di Germania nell’ambito di un ricongiungimento familiare con i genitori, impiegati in tale Stato, non perda il suo diritto di soggiorno derivante dal diritto, ai sensi dell’art. 7, primo comma, secondo trattino, della decisione n. 1/80 del Consiglio di Associazione CEE-Turchia n. 1/80, di rispondere a qualsiasi offerta di impiego – tranne nei casi di cui all’art. 14 della decisione n. 1/80 e di abbandono, per un periodo di tempo non trascurabile e senza giustificato motivo, dello Stato ospitante – neppure nel caso in cui, al compimento del ventunesimo anno di età, egli non viva più con i genitori e non riceva da essi più alcun sostentamento. In caso di risposta negativa alla prima questione: 2.- se un cittadino turco, il cui diritto ai sensi dell’art. 7, primo comma, secondo trattino, della decisione n. 1/80 sia venuto meno per la ragione indi- 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO cata nella prima questione, ottenga nuovamente tale diritto qualora, dopo il compimento del ventunesimo anno di età, egli ritorni per un periodo di oltre tre anni nella casa dei genitori, possa abitarvi a titolo gratuito e vi riceva sostentamento, mentre la madre, in tale periodo, svolge un’occupazione minore (donna delle pulizie per normalmente 3-70 ore mensili, talvolta 20 ore mensili). Il giudice del rinvio pone inoltre altri sette quesiti in caso di risposta affermativa alla prima o alla seconda questione. Dalla risposta negativa alle prime due questioni, come si vedrà, deriva la non necessità di affrontare anche gli altri quesiti che devono ritenersi assorbiti. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «Ai sensi dell’art. 47, primo comma (espulsione obbligatoria): “Uno straniero viene espulso: 1. qualora sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per aver commesso uno o più reati dolosi, ad una pena detentiva o ad una pena detentiva minorile di almeno tre anni, o in un periodo di cinque anni sia stato condannato per reati dolosi, con sentenza passata in giudicato, a più pene detentive o pene detentive minorili pari, nel complesso, ad almeno tre anni o qualora, in occasione dell’ultima sentenza passata in giudicato, sia stata disposta nei suoi confronti la custodia cautelare, oppure 2. qualora sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato e senza beneficio della sospensione condizionale, ad una pena detentiva minorile di almeno due anni o ad una pena detentiva, per aver commesso un reato doloso ai sensi della legge sugli stupefacenti, per turbamento dell’ordine pubblico, alle condizioni di cui all’art. 125°, seconda frase, del codice penale, o per turbamento dell’ordine pubblico in occasione di una pubblica riunione o di un corteo vietati, conformemente all’art. 125 del codice penale.” Ai sensi dell’art. 47, secondo comma (espulsione discrezionale): “Lo straniero viene di regola espulso: 1- qualora sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato e senza beneficio della sospensione condizionale, ad una pena detentiva minorile di almeno due anni o ad una pena detentiva per aver commesso uno o più reati dolosi; 2- qualora, contravvenendo alle disposizioni della legge sugli stupefacenti, in mancanza di autorizzazione coltivi, produca, importi, trasporti o esporti, alieni, ceda a terzi, immetta in circolazione in qualsiasi altro modo o commerci sostanze stupefacenti, oppure qualora istighi o cooperi ad un’azione del genere”. Il ricorrente impugnava il decreto di espulsione sostenendo di poter beneficiare della speciale tutela contro l’espulsione, assicurata dall’art. 48, primo comma dell’Auslaendergesetz, in base al quale: “Uno straniero che 1. sia titolare di un diritto di soggiorno, 2. sia titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e sia nato nel territorio nazionale o ivi abbia fatto ingresso da minorenne, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 143 3. sia titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e conviva con uno straniero di cui ai precedenti punti 1 e 2 in regime di convivenza matrimoniale o more uxorio, …può essere espulso solo per gravi motivi di sicurezza e di ordine pubblico. Tali motivi sussistono generalmente nei casi previsti dall’art. 47, primo comma”. Il ricorrente ritiene inoltre di rientrare nella categoria di persone di cui all’art. 7, primo comma, secondo trattino della decisione n. 1/80, alle quali sono garantiti diritti che possono cessare solo se sussistono le circostanze di cui all’art. 14 della decisione n. 1/80, in base al quale “Le disposizioni della presente sezione vengono applicate fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, di sicurezza e di sanità pubbliche” ovvero se vi è stato allontanamento dallo Stato membro ospitante per un significativo lasso di tempo. L’amministrazione resistente ha fondato il provvedimento di espulsione sull’art. 47, primo comma n. 1, AuslG, in base al quale uno straniero viene espulso, tra l’altro, qualora, nell’arco di cinque anni, sia stato condannato per reati dolosi a più pene detentive per almeno tre anni complessivi. L’amministrazione ritiene che sussista un prevalente interesse pubblico all’espulsione del ricorrente che, a partire dal 1994 è stato continuamente chiamato a rispondere di reati. Inoltre, in considerazione dei suoi precedenti e del suo persistente stato di tossicodipendenza, non eliminato da svariati tentativi terapeutici, si dovrebbe ritenere esistente un rischio di recidiva. Alla luce del gran numero di fatti illeciti commessi e della persistente probabilità di ripetizione degli stessi, sussisterebbe un rischio sufficientemente grave per l’ordine pubblico, in grado di mettere in pericolo un interesse fondamentale della collettività. Il Governo italiano ritiene che, al primo quesito vada data risposta negativa, non apparendo la soluzione opposta conforme all’art. 59 del Protocollo addizionale del 23 novembre 1970, che costituisce parte integrante dell’Accordo di associazione concluso il 12 settembre 1963 tra la CEE e la Turchia. Va ricordato che l’art. 59 citato stabilisce che “nei settori coperti dal presente protocollo, la Turchia non può beneficiare di un trattamento più favorevole di quello che gli Stati membri si accordano reciprocamente in virtù del trattato che istituisce la Comunità”. Alla luce di tale principio, va affermato che il cittadino turco, lavoratore o familiare di lavoratore, non può fruire, in base all’Accordo tra la CEE e la Turchia, di maggiori garanzie rispetto a quelle che assistono i cittadini comunitari nei loro reciproci rapporti in ordine al diritto di soggiorno in un altro Stato membro, che deriva dal diritto di accedere al mercato del lavoro, nonché in relazione alla tutela contro l’espulsione. L’art. 7 della decisione n. 1/80 prevede che: I familiari che sono stati autorizzati a raggiungere un lavoratore turco inserito nel regolare mercato del lavoro di uno Stato membro: – hanno il diritto di rispondere, fatta salva la precedenza ai lavoratori degli stati membri della Comunità, a qualsiasi offerta di impiego, se vi risiedono regolarmente da almeno tre anni; 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – beneficiano del libero accesso a qualsiasi attività dipendente di loro scelta se vi risiedono regolarmente da almeno cinque anni.” I figli dei lavoratori turchi che hanno conseguito una formazione professionale nel paese ospitante potranno, indipendentemente dal periodo di residenza in tale Stato membro e purché uno dei genitori abbia legalmente esercitato un’attività nello Stato membro interessato da almeno tre anni, rispondere a qualsiasi offerta d’impiego in tale Stato membro”. La posizione del ricorrente rientra nel comma 1, secondo trattino, risiedendo egli in Germania dal 1972. Lo stesso ha quindi certamente acquisito lo status di familiare di lavoratore che gli ha consentito di ottenere il premesso di soggiorno a tempo indeterminato. Tutto sta a vedere se sia possibile perdere tale status oltre ai due casi enunciati dalle sentenze della Corte di giustizia 7 luglio 2005, causa C- 373/03, Aydinli; 11 novembre 2004, causa C-467/02, Cetinkaya e 16 marzo 2000, causa C-329/97, Ergat dell’abbandono dello Stato ospitante per un periodo significativo o della ricorrenza di motivi di ordine pubblico, di sicurezza e di sanità pubbliche. In ordine al primo quesito, l’ordinanza di rinvio ricalca l’ordinanza dello stesso Giudice tedesco nella causa C-325/05, Derin, la cui fase orale si è svolta innanzi alla Corte di Giustizia il 16 novembre 2006 e in cui le conclusioni dell’Avvocato Generale verranno depositate il 11 gennaio 2007. Adifferenza del Sig. Derin, però, il ricorrente è stato espulso ai sensi dell’art. 47, comma 1 dell’AuslG, che prevede l’espulsione obbligatoria, e non già ai sensi dell’art. 47, comma 2, che disciplina l’espulsione discrezionale, e pertanto la presenza dello stesso deve ritenersi integrare una minaccia seria all’ordine pubblico e alla sicurezza dello Stato ospitante ai sensi dell’art. 14 della decisione n. 1/80. A norma dell’art. 48 dell’Auslaendergesetz vi è infatti una presunzione generale di sussistenza dei gravi motivi di sicurezza ed ordine pubblico in relazione al primo comma dell’art. 47, che si riferisce alla condanna alla pena detentiva di almeno tre anni ovvero di almeno due anni se trattasi di reati previsti dalla legge sugli stupefacenti, con conseguente espulsione obbligatoria. Ciò precisato, occorre ricordare che, nei rapporti tra cittadini comunitari, per lo status di familiare, secondo la nozione fornita dalla sentenza della Corte di giustizia 30 settembre 2004, causa C-275/02 Ayaz, occorre far riferimento al disposto di cui all’art. 10 n. 1 del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968 n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità. Il citato art. 10 stabilisce che “ hanno diritto di stabilirsi con il lavoratore cittadino di un o Stato membro occupato sul territorio di un altro Stato membro, qualunque sia la loro cittadinanza: a) il coniuge ed i loro discendenti minori di anni 21 o a carico; b) gli ascendenti di tale lavoratore e del suo coniuge che siano a suo carico.” La giurisprudenza comunitaria ha pertanto affermato che il diritto di soggiornare in uno Stato membro, in qualità di familiare di lavoratore, cessa IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 145 quando il figlio compie 21 anni, se ha costituito un proprio autonomo nucleo familiare (sentenze Lebon, causa C-316/85, Diatta, causa 267/83 e Baumbast, causa C-413/99). Per fruire del predetto diritto pertanto occorrono le due condizioni alternative della minore età o della vivenza a carico dei genitori. Ovviamente, il diritto di soggiorno può successivamente sorgere in relazione ad altro status quale, direttamente, quello di lavoratore di colui che prima derivava il predetto diritto dalla qualità di figlio di lavoratore. Se nei rapporti tra cittadini comunitari, il diritto di soggiorno cessa venendo meno una delle due suddette condizioni, appare incompatibile con l’art. 59 del Protocollo addizionale un’interpretazione delle norme che regolano l’analogo diritto dei cittadini turchi nei confronti dei cittadini comunitari nel senso che le stesse garantiscano loro una tutela maggiore. Appare quindi condivisibile l’orientamento dell’Avvocato Generale Geelhoed, nelle conclusioni presentate il 25 maggio 2004 (in causa C- 275/02, Ayaz), che individua, accanto alle due ipotesi del figlio maggiorenne a carico del lavoratore (che rientra nel campo di applicazione dell’art. 7, primo comma) e del figlio inserito nel mercato del lavoro (che deriva diritti autonomi dall’art. 6), quella del figlio che ancora non lavora e non è più a carico del lavoratore, fattispecie che non rientra in nessuna categoria, con conseguente perdita del diritto di soggiorno. Peraltro, ai sensi della direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004 sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare liberamente nel territorio degli Stati membri – che richiama espressamente l’art. 10 del regolamento n. 1612/68 – tale diritto è limitato ad un periodo di tre mesi (art. 6). Il successivo art. 7 prevede il diritto del cittadino dell’Unione di soggiornare per un periodo maggiore solo in quanto lavoratore o familiare di un lavoratore. Pertanto, la comparazione tra il trattamento garantito ai familiari di un lavoratore turco dalla decisione n. 1/80, che prevede la perdita del diritto di soggiorno acquisito a norma dell’art. 7 solo in due limitati casi (abbandono del territorio del Stato ospitante e ragioni di ordine pubblico) è certamente più favorevole rispetto a quello assicurato ai familiari dei lavoratori comunitari che vedono cessare automaticamente il loro diritto di soggiorno al compimento del 21 anno di età qualora non siano più a carico dei genitori. Detto trattamento appare quindi incompatibile con l’art. 59 del Protocollo addizionale. Dalla risposta negativa al primo quesito, deriva la necessità di affrontare anche il secondo, con il quale il tribunale tedesco chiede alla Corte di sapere se, a seguito della perdita del diritto di cui all’art. 7, primo comma, secondo trattino della decisone n. 1/80, lo stesso diritto possa essere nuovamente ottenuto, dopo il compimento del ventunesimo anno di età, qualora lo straniero ritorni ad abitare presso la casa dei genitori, con vivenza a carico degli stessi. Secondo il Governo italiano, anche a tale quesito va fornita risposta negativa in quanto lo status acquisito dopo la maggiore età e dopo la cessazione della convivenza con i genitori non è più dipendente dalla originaria 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO situazione di minore entrato nel territorio dello Stato membro ospitante a seguito di ricongiungimento familiare. È pacifico che il ricorrente non abbia acquisito un autonomo status di lavoratore ai sensi dell’art. 6 della decisione n. 1/80 e che, contemporaneamente, abbia perso quello derivato di familiare di lavoratore, minore o a carico, con la conseguenza che lo stesso non può non essere soggetto a tutte le disposizioni normative proprie del nuovo status, ivi compresa la possibilità di espulsione. Va rilevato peraltro che il ricorrente, pur essendo tornato ad abitare con i suoi genitori, non risulta a carico degli stessi, avendo egli anzi provveduto a sostenerli con € 200 mensili, parte dei suoi guadagni per svariate attività di breve durata o del suo sussidio di disoccupazione. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito nel senso che il cittadino turco, entrato in Germania per ricongiungimento con i propri genitori lavoratori dipendenti, perda il diritto di soggiorno dopo il compimento del ventunesimo anno di età ove non abiti più con i suoi genitori e non sia più a loro carico, non apparendo la soluzione opposta conforme all’art. 59 del Protocollo addizionale del 23 novembre 1970. Quanto al secondo quesito, il Governo italiano propone alla Corte di risolverlo nel senso che, a seguito della perdita del diritto di cui all’art. 7, primo comma, secondo trattino della decisione n. 1/80, lo stesso diritto non possa essere nuovamente ottenuto, dopo il compimento del ventunesimo anno di età, qualora lo straniero ritorni ad abitare presso la casa dei genitori, con vivenza a carico degli stessi in quanto lo status acquisito dopo la maggiore età e dopo la cessazione della convivenza con i genitori non è più dipendente dalla originaria situazione di minore entrato nel territorio dello Stato membro ospitante a seguito di ricongiungimento familiare. Dalla risposta negativa ai primi due quesiti deriva la non necessità di rispondere agli altri sette quesiti che debbono ritenersi assorbiti. Roma, 21 dicembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-350/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Diritto alla concessione delle ferie o all’indennità sostitutiva in caso di prolungata incapacità al lavoro – Art. 7, n. 1 e 2 Direttiva 2003/88/CE – Ordinanza del 26 agosto 2006, depositata il 21 agosto 2006, notificata il 18 ottobre 2006, del Landesarbeitsgericht Düsseldorf (Germania) (cs. 43710/06, Avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO Il ricorrente, dipendente della Bundesversicherungsanstalt für Angestellte (BfA) dal 1971, a causa di una grave patologia, non è stato più in condizione di lavorare a decorrere dal settembre 2004, sino al 30 settembre 2005. Il ricorrente, nel maggio 2005, ha chiesto di poter fruire delle ferie relative all’anno 2004 a decorrere dal 1 giugno 2005 ma il suo datore di lavoro IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 147 ha respinto la richiesta, essendo preliminare a tale riconoscimento l’accertamento dell’idoneità al lavoro del ricorrente. Nel settembre 2005, è stata concessa al ricorrente una pensione a tempo indeterminato per invalidità totale, con effetto retroattivo dal 1 marzo 2005; il rapporto di lavoro si è quindi concluso a partire dal 30 settembre 2005. Il ricorrente ha successivamente intentato un’azione per ottenere l’indennità sostitutiva delle ferie per gli anni 2004 e 2005; la domanda è stata respinta dall’Arbeitsgericht ed è stata riproposta in appello innanzi al Landesarbeitsgericht Düsseldorf, che ha rimesso alla Corte di giustizia le questioni pregiudiziali. I QUESITI 1.- Se l’art. 7 n. 1 della direttiva 2003/88/CE (= art. 7 della direttiva 93/104/CE) debba essere inteso nel senso che il lavoratore deve in ogni caso godere di un periodo di ferie pagate minimo di quattro settimane e in particolare che le ferie non godute nel corso dell’anno di riferimento dal lavoratore a causa di malattia devono essere concesse successivamente, o se disposizioni e/o prassi nazionali possano prevedere che il diritto alle ferie pagate annuali di un lavoratore venga meno qualora lo stesso, nell’anno di riferimento, sia divenuto incapace di lavorare per causa di malattia prima di godere delle ferie e non abbia recuperato la propria capacità lavorativa prima della conclusione dell’anno di riferimento o del periodo di riporto determinato dalla legge, dal contratto collettivo o da quello individuale. 2.- Se l’art. 7 n. 2 della direttiva 2003/88/CE debba essere interpretato nel senso che, al termine del rapporto di lavoro, il lavoratore ha in ogni caso diritto ad un’indennità finanziaria in sostituzione delle ferie scadute e non godute (indennità sostitutiva) o se disposizioni e/o prassi nazionali possano prevedere che i lavoratori non abbiano diritto ad indennità sostitutiva qualora siano incapaci di lavorare per malattia fino alla conclusione dell’anno di riferimento o del periodo di riporto e/o qualora, dopo la conclusione del rapporto di lavoro, divengano titolari di una pensione a causa della ridotta capacità lavorativa o di invalidità. 3.- In caso di risposta affermativa alla prima e alla seconda questione: Se l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il diritto alle ferie annuali o alla compensazione monetaria presuppone che il lavoratore sia stato effettivamente attivo nell’anno di riferimento o se il diritto sussista anche in caso di assenza giustificata (per malattia) o di assenza ingiustificata per l’intero anno di riferimento. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «La normativa comunitaria in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori trova il proprio fondamento giuridico innanzi tutto nell’art. 118A del Trattato CE (ora art. 137, atteso che gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE -143 CE), in base al quale gli Stati membri si adoperano per promuovere il miglioramento dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori e si fissano come 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO obiettivo l’armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni esistenti in questo settore. Alla luce di tale disposizione, sono state adottate la direttiva del Consiglio del 12 giugno 1989, 89/391CEE, che stabilisce i principi generali in materia di sicurezza e salute dei lavoratori e la direttiva del Consiglio del 23 novembre 1993, 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 2000, 2000/34/CE. La direttiva 93/104/CE, abrogata e sostituita, a decorrere dal 2 agosto 2004, dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003, 2003/88/CE, prevede le prescrizioni minime di sicurezza e sanitarie in materia di organizzazione del lavoro, in relazione ai periodi di riposo quotidiano, di pausa, di riposo settimanale e di ferie annuali, ferma restando la possibilità di ciascuno Stato membro di mantenere e di stabilire una maggiore protezione delle condizioni di lavoro. L’art. 7 della direttiva, in tema di ferie annuali, rimasto immutato, dispone: “1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”. L’art. 15 della direttiva fa salva la facoltà degli Stati membri di applicare o introdurre disposizioni più favorevoli alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori mentre l’art. 17 prevede una serie di deroghe a diverse norme di base della direttiva stessa, tra le quali non rientra quella sul diritto alle ferie annuali retribuite, previsto dal citato art. 7. La normativa tedesca sulle ferie minime per i lavoratori dipendenti prevede che le ferie debbano essere concesse e godute nell’anno solare in corso e che un riporto delle ferie nel successivo anno solare sia ammissibile, qualora sussistano rilevanti ragioni legate alla gestione dell’impresa o alla persona del lavoratore, nei primi tre mesi del successivo anno solare. Qualora le ferie non possano essere più concesse, in tutto o in parte, per la conclusione del rapporto di lavoro, va corrisposto un indennizzo. A sua volta il contratto collettivo quadro per i dipendenti del BfA prevede che le ferie debbano essere godute entro l’anno di riferimento e che le ferie non godute debbano essere utilizzate entro il 30 aprile dell’anno successivo, o, qualora non possano essere godute entro tale data per incapacità al lavoro, entro il 30 giugno. Le ferie non godute nei termini indicati non sono più utilizzabili. Il contratto collettivo prevede inoltre che, qualora al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche per effetto della ridotta capacità lavorativa, il diritto alle ferie non sia stato ancora utilizzato deve essere corrisposta un’indennità sostitutiva. Ciò premesso, il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che l’art. 7 n. 1 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il lavoratore deve in ogni caso godere di un periodo di ferie pagate di almeno IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 149 quattro settimane e in particolare che le ferie non godute nel corso dell’anno di riferimento a causa di malattia del lavoratore devono essere concesse successivamente, non apparendo compatibile con i principi comunitari l’estinzione del diritto alle ferie per effetto dell’assenza dal servizio giustificata da motivi di salute, protrattasi oltre l’anno di riferimento o oltre il periodo massimo di riporto delle ferie nell’anno successivo. Ai sensi del sesto considerando della direttiva 2003/88/CE, occorre tener conto dei principi dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. Sin dalla Convenzione dell’ILO n. 52 del 1936, era previsto, all’art. 2, comma 3, che non dovessero essere computate, nel congedo annuale retribuito, le interruzioni del servizio dovute a malattia, al fine di tutelare distintamente la salute dei lavoratori e il diritto al recupero delle energie psico-fisiche cui sono finalizzate le ferie. Con la successiva Convenzione dell’ILO n. 132 del 1970, ratificata, tra gli altri, da quattordici Stati membri della Comunità, non solo viene ribadito il principio che i periodi di inabilità al lavoro derivanti da malattie o incidenti non possono essere calcolati nel congedo pagato minimo annuale (art. 6) ma viene altresì precisato che potrà essere autorizzato il frazionamento del congedo annuale pagato, fermo restando che una delle frazioni di congedo dovrà corrispondere almeno a due settimane ininterrotte (art. 8) e che tale parte ininterrotta di congedo annuale pagata debba essere accordata e usufruita entro il termine di un anno al massimo mentre il resto del congedo annuale pagato dovrà essere goduto entro il termine di diciotto mesi al massimo, a partire dalla fine dell’anno che dà diritto al congedo. Inoltre, come correttamente evidenziato dalla Corte di giustizia con la sentenza del 6 aprile 2006, causa C-124/05, Federatie Nederlandse Vakbeweging, punto 24, un congedo garantito dal diritto comunitario non può pregiudicare il diritto di godere di un altro congedo garantito da tale diritto (v. sentenza 14 aprile 2005, causa C-519/03, Commissione/Lussemburgo, Racc. pag. I-3067, punto 33). Così, se alla fine di un anno si cumulino i periodi di più congedi garantiti dal diritto comunitario, può essere inevitabile riportare le ferie annuali o una parte delle stesse all’anno successivo. In proposito, la Corte ha affermato che, se è vero che l’effetto positivo delle ferie sulla sicurezza e sulla salute del lavoratore si manifesta pienamente se le ferie vengono prese nell’anno in corso, tale periodo di riposo rimane tuttavia interessante e utile, al fine di reintegrare le energie fisiche consumate durante il periodo lavorativo, anche se sia goduto in un momento successivo. Come osservato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott nella predetta causa C-124/05, posto che il periodo minimo di ferie annuali non può essere compensato con un’indennità finanziaria, ai sensi dell’art. 7 n. 2 della direttiva, in quanto tale possibilità potrebbe esporre il lavoratore al rischio di subire pressioni, da parte del datore di lavoro, affinché non utilizzi il periodo minimo di ferie, qualora dette ferie non possano essere godute integralmente nel corso dell’anno di pertinenza, il loro riporto all’anno successivo può ancora contribuire al necessario riposo del lavoratore 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Peraltro, la Corte, con la sentenza del 18 marzo 2004, causa C-342/01, Merino Gomez, ha già avuto modo di affermare, in tema di tutela delle lavoratrici gestanti o puerpere, che una lavoratrice deve poter usufruire delle sue ferie annuali in un periodo diverso da quello corrispondente al suo congedo di maternità, se le date di godimento delle ferie annuali previamente fissate mediante accordo collettivo coincidono con quelle del suo congedo per maternità. Infatti, ammettere la coincidenza dei due periodi di congedo comporterebbe l’annullamento di uno di essi mentre la finalità del diritto alle ferie annuali è diversa da quella del diritto al congedo di maternità. In caso di malattia o di gravidanza o di altre cause di assenza giustificata dal lavoro è quindi possibile che anche il periodo minimo di ferie retribuite, pari a quattro settimane, venga riportato all’anno successivo. Peraltro, la non monetizzabilità delle ferie non godute, in costanza di rapporto, giusta il divieto di cui all’art. 7 n. 2 della direttiva, è diretta a far sì che il lavoratore possa di norma beneficiare di un riposo effettivo ed assicura in tal modo una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute (Corte di giustizia, sentenza del 16 marzo 2006, cause riunite C- 131/04 e C-257/04, punto 60). Nell’ottica dell’effettività della fruizione delle ferie, anche l’ordinamento italiano prevede, all’art. 36 della Costituzione, il principio dell’irrinunciabilità del diritto al riposo settimanale e del diritto alle ferie annuali. La Corte costituzionale è più volte intervenuta per garantire l’effettività del diritto alle ferie, al fine di consentire al lavoratore un riposo che si proporzioni alla quantità di lavoro prestato sicché egli possa ritemprare le energie psicofisiche usurate dal lavoro e possa altresì soddisfare le sue esigenze ricreativoculturali e più incisivamente partecipare alla vita familiare e sociale. Con la sentenza n. 66 del 10 maggio 1963, la Corte costituzionale ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2109 del codice civile italiano, nella parte in cui prevedeva che il diritto ad un periodo di ferie annuale retribuito sorgesse solo “dopo un anno di ininterrotto servizio”, pregiudicando così quei lavoratori che non riuscissero mai a completare dodici mesi di servizio presso uno stesso datore di lavoro. Con la sentenza n. 616 del 30 dicembre 1987, la Corte costituzionale ha successivamente dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 2109 del codice civile italiano, nella parte in cui non prevedeva che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospendesse il decorso; ciò non solo a tutela del diritto al riposo e del diritto alla salute del lavoratore, cui sono distintamente finalizzati il congedo ordinario e il congedo per malattia, ma anche a vantaggio dello stesso datore di lavoro, che è interessato a che effettivamente avvenga la ripresa ed il rafforzamento delle energie del lavoratore affinché il suo successivo apporto lavorativo sia più proficuo nei risultati. Peraltro, la stessa definizione di “riposo adeguato” di cui all’art. 2 n. 9) della direttiva 2003/88/CE tiene conto di interessi più ampi, che esulano dalla sola tutela del lavoratore, facendo riferimento a periodi di riposo regolari e sufficientemente lunghi e continui per evitare che i lavoratori, “a causa IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 151 della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione del lavoro, causino lesioni a se stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute a breve o a lungo termine”. Inoltre, il principio affermato in tempi non recenti dalla Corte costituzionale italiana con la citata sentenza n. 66 del 1963 è stato ampiamente confermato dalla nota sentenza della Corte di giustizia del 26 giugno 2001, causa C-173/99, BECTU, con la quale è stato affermato che l’art. 7 n. 1 della direttiva non consente di adottare una normativa nazionale in base alla quale i lavoratori iniziano a maturare il diritto alle ferie annuali retribuite solo a condizione di avere compiuto un periodo minimo di tredici settimane di lavoro ininterrotto alle dipendenze dello stesso datore di lavoro. Il sindacato dei lavoratori esercenti attività nei settori radiotelevisivo, cinematografico, teatrale e dello spettacolo (BECTU), ha infatti evidenziato che, in tale campo, i lavoratori vengono spesso assunti con contratti di breve durata e che il presupposto di un periodo di lavoro ininterrotto presso lo stesso datore di lavoro li priverebbe nella sostanza del diritto alle ferie. Nella predetta sentenza BECTU, la Corte ha affermato che il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite va considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla stessa direttiva 93/104 (punto 43). Alla luce dei principi richiamati, non può non concludersi che il diritto all’effettiva fruizione delle ferie da parte del ricorrente della causa principale – che è divenuto incapace di lavorare per causa di malattia dopo otto mesi di effettivo servizio (da gennaio all’inizio di settembre 2004) prima di godere delle ferie e non abbia recuperato la propria capacità lavorativa prima della conclusione dell’anno di riferimento o del periodo di riporto determinato dalla legge (30 giugno dell’anno successivo) – non viene meno, pena la compromissione delle distinte finalità cui sono dirette le ferie e il congedo per malattia. Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 7 n. 2 della direttiva 2003/88/CE debba essere interpretato nel senso che, al termine del rapporto di lavoro, il lavoratore ha in ogni caso diritto ad un’indennità finanziaria in sostituzione delle ferie scadute e non godute, non apparendo conforme ai principi comunitari una disposizione nazionale che preveda che i lavoratori non abbiano diritto ad indennità sostitutiva qualora siano incapaci di lavorare a causa di una malattia protrattasi fino alla conclusione dell’anno di riferimento o del relativo periodo di riporto o qualora, dopo la conclusione del rapporto di lavoro, divengano titolari di una pensione a causa della ridotta capacità lavorativa. I due presupposti previsti dall’art. 7 n. 2 della direttiva per l’erogazione dell’indennità finanziaria sostitutiva sono che il rapporto di lavoro si sia concluso e che il periodo minimo di ferie non sia stato utilizzato. Pertanto, come affermato dalla citata sentenza della Corte di giustizia emessa nella causa C- 124/05, detta disposizione implica che i giorni di ferie 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO di cui il lavoratore non ha beneficiato, nel corso di un anno qualsiasi rispetto a diritto minimo acquisito per legge durante tale anno, non possono formare oggetto di riscatto in costanza del contratto di lavoro (punto 20). Infatti, sarebbe sufficientemente verosimile che la possibilità di riscatto successivo di giorni del periodo minimo di ferie annuali possa indurre i lavoratori a non prendere affatto o non per intero il minimo annuale di ferie (punto 21). In ogni caso, la possibilità di sostituire con un’indennità finanziaria il periodo minimo di ferie annuali riportate costituirebbe un incentivo, incompatibile con gli obiettivi della direttiva, a rinunciare alle ferie come periodo di riposo ovvero a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi (punto 32). Tali preclusioni cadono nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, come accaduto nella causa principale. Nessun dubbio pare possa esservi in ordine alla spettanza dell’indennità sostitutiva per le ferie non godute nell’anno 2004, per effetto della sopraggiunta malattia protrattasi da settembre sino alla fine dell’anno e oltre, avendo il ricorrente prestato effettivamente la propria attività lavorativa per i primi otto mesi dell’anno 2004. Né può ritenersi che, non avendo il ricorrente recuperato la propria capacità lavorativa prima del termine del periodo di riporto dell’anno successivo, egli avrebbe perso il diritto a fruire delle ferie e conseguentemente anche il diritto a percepire l’indennità sostitutiva in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Come si è visto nell’esaminare il primo quesito, infatti, non appare conforme ai principi comunitari l’estinzione del diritto alle ferie per il sopraggiungere di una malattia che si protragga per tutto l’anno di riferimento e per il periodo di riporto determinato dalla legge. Quanto all’indennità sostitutiva per le ferie non godute nell’anno 2005, va innanzitutto precisato che il periodo lavorativo che può essere preso in considerazione, per calcolare un proporzionato diritto alle ferie, è solo quello relativo ai primi due mesi dell’anno, atteso che, a decorrere dal 1 marzo 2005, il ricorrente percepisce con effetto retroattivo una pensione di invalidità a tempo indeterminato. Nonostante la risoluzione del rapporto di lavoro sia stata formalmente effettuata il 30 settembre 2005, la retroattività della pensione di invalidità impedisce di calcolare il medesimo periodo (dal 1 marzo al 30 settembre 2005) sia per ottenere detta pensione, che presuppone la permanente inabilità al lavoro, sia come base di calcolo delle ferie come se il ricorrente fosse abile al lavoro. L’indennità sostitutiva per le ferie non godute nell’anno 2005 andrà quindi calcolata, considerando solo i primi due mesi dell’anno 2005, a nulla rilevando che in detto periodo il lavoratore fosse in congedo per malattia. Ai sensi dell’art. 5, comma 4 della citata Convenzione dell’organizzazione internazionale del lavoro n. 132 del 1970, infatti, “le assenze dal lavoro per motivi indipendenti dalla volontà della persona impiegata interessata, come anche le assenze per malattia, incidente o congedo per maternità, saranno calcolate nel periodo di servizio”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 153 A norma del precedente art. 4, comma 1 della Convenzione ILO, chiunque abbia compiuto, nel corso di un determinato anno, un periodo di servizio di durata inferiore al periodo richiesto per aver diritto alla totalità del congedo annuale, avrà diritto, per l’anno in questione, a un congedo pagato di durata proporzionalmente ridotta. Proporzionalmente ridotta sarà quindi anche l’indennità sostitutiva delle ferie non godute per l’anno 2005. Circa il terzo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il diritto alle ferie annuali o alla compensazione monetaria sussiste anche in caso di assenza giustificata per malattia per l’intero anno di riferimento; non anche in caso di assenza ingiustificata. Come si è visto, l’art. 5, comma 4 della citata Convenzione ILO n. 132 del 1970 equipara il periodo di malattia al periodo di servizio, trattandosi di assenza dovuta a motivi indipendenti dalla volontà del lavoratore e quindi giustificata. Nel medesimo periodo quindi maturano tutti i diritti del lavoratore, ivi compreso quello alle ferie annuali retribuite, che verranno utilizzate una volta recuperata la capacità lavorativa o, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, anche per sopravvenuta invalidità totale, saranno compensate con la corresponsione dell’indennità sostitutiva. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito affermando che l’art. 7 n. 1 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il lavoratore deve in ogni caso godere di un periodo di ferie pagate di almeno quattro settimane e in particolare che le ferie non godute nel corso dell’anno di riferimento a causa di malattia del lavoratore devono essere concesse successivamente, non apparendo compatibile con i principi comunitari l’estinzione del diritto alle ferie per effetto dell’assenza dal servizio giustificata da motivi di salute, protrattasi oltre l’anno di riferimento o oltre il periodo massimo di riporto delle ferie nell’anno successivo. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito affermando che l’art. 7 n. 2 della direttiva 2003/88/CE debba essere interpretato nel senso che, al termine del rapporto di lavoro, il lavoratore ha in ogni caso diritto ad un’indennità finanziaria in sostituzione delle ferie scadute e non godute, non apparendo conforme ai principi comunitari una disposizione nazionale che preveda che i lavoratori non abbiano diritto ad indennità sostitutiva qualora siano incapaci di lavorare a causa di una malattia protrattasi fino alla conclusione dell’anno di riferimento o del relativo periodo di riporto o qualora, dopo la conclusione del rapporto di lavoro, divengano titolari di una pensione a causa della ridotta capacità lavorativa. Il Governo italiano propone infine alla Corte di risolvere il terzo quesito affermando che l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE debba essere inteso nel senso che il diritto alle ferie annuali o alla compensazione monetaria sussiste anche in caso di assenza giustificata per malattia per l’intero anno di riferimento; non anche in caso di assenza ingiustificata. Roma, 27 dicembre 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Causa C-445/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Regole sanitarie e divieti di importazione di carne di maiale – Diritto a riparazione nel caso di errata trasposizione nel diritto interno di norme comunitarie – Art. 30 trattato CEE (28 CE) – Direttiva del Consiglio 29 luglio 1991 91/497/CEE – Problematiche sanitarie in materia di scambi di carni fresche – Ordinanza del 12 ottobre 2006, depositata il 6 novembre 2006, del Bundesgerichtshof – Germania (cs. 8375/07, Avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO La ricorrente, un’associazione di imprese danesi di macellazione e di allevatori di suini, chiede alla convenuta Repubblica federale di Germania il risarcimento del danno per violazione del diritto comunitario, avendo quest’ultima imposto un divieto di fatto all’importazione dalla Danimarca, dal 1993 al 1999, per le carni dei suini maschi non castrati. I QUESITI 1.- Se le disposizioni dell’art. 5, n. 1, lett. o) e dell’art. 6, n. 1, lett. b), punto iii), della direttiva del Consiglio 26 giugno 1964, 64/433/CEE, relativa a problemi sanitari in materia di scambi intracomunitari di carni fresche, come modificata dalla direttiva del Consiglio 29 luglio 1991, 91/497/CEE (G.U. L 268, pag. 69) in combinato disposto con l’art. 5, n. 1 e con gli artt. 7 e 8 della direttiva del Consiglio 11 dicembre 1989, 89/662/CEE, relativa ai controlli veterinari applicabili negli scambi intracomunitari, nella prospettiva della realizzazione del mercato interno (G.U. L. 395, pag. 13) conferiscano ai produttori e ai commercianti di carni suine una posizione giuridica che, in caso di errori di attuazione o di applicazione, possa far sorgere una pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato. 2.- Se i produttori e commercianti di carni suine possano, a prescindere dalla risposta alla prima questione, lamentare la violazione dell’art. 30 del Trattato CE (attuale art. 28 CE) per motivare una pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato in caso di attuazione e applicazione della suddetta direttiva contrarie al diritto comunitario. 3.- Se il diritto comunitario imponga che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato venga interrotta in seguito a un procedimento per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE o se comunque venga sospesa fino alla conclusione di tale procedimento, quando manchi un rimedio giuridico interno efficace per costringere lo Stato membro ad attuare una direttiva. 4.- Se il termine di prescrizione per una pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato che si basa sull’insufficiente attuazione di una direttiva e su un conseguente divieto (di fatto) di importazione, cominci a decorrere, a prescindere dal diritto nazionale applicabile, solo a partire dalla completa attuazione della direttiva oppure se il termine di prescrizione possa cominciare a decorrere conformemente al diritto naziona- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 155 le già dal momento in cui si sono prodotti i primi effetti lesivi e ne sono prevedibili altri. Qualora la completa attuazione di una direttiva dovesse avere effetti sull’inizio del termine di prescrizione, se ciò valga in generale o soltanto nei limiti in cui la direttiva conferisca un diritto ai singoli. 5.- Se, considerato che gli Stati membri non devono stabilire condizioni per il risarcimento dei danni più sfavorevoli rispetto ad altre azioni che coinvolgono solo il diritto interno, e che l’ottenimento di un risarcimento non deve essere reso di fatto impossibile o oltremodo difficile, sussistano perplessità nei confronti di una normativa nazionale, ai sensi della quale l’obbligo di risarcimento non sorge quando la persona lesa ha dolosamente o colposamente omesso di far valere il danno utilizzando le vie giudiziarie. Se suscitano perplessità nei confronti di questo “primato della tutela di diritto primario” anche qualora esso sia sottoposto alla condizione di poterselo ragionevolmente aspettare dalla persona interessata. Se sia irragionevole aspettarselo già ai sensi del diritto comunitario qualora il giudice adito non possa presumibilmente rispondere alle questioni controverse di diritto comunitario senza un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee o qualora sia già pendente un procedimento per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA « (...) Le condizioni sanitarie per la produzione e per la commercializzazione nel mercato comunitario di carni fresche sono disciplinate dalla direttiva 64/433/CEE, successivamente modificata dalla direttiva 91/497/CEE al fine di tener conto della soppressione dei controlli veterinari alle frontiere interne della Comunità e per rafforzare le garanzie sanitarie nello Stato membro di origine, come disposto con la direttiva 89/662/CEE relativa ai controlli veterinari applicabili negli scambi intracomunitari, nella prospettiva della realizzazione del mercato interno. Ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett o) della direttiva 64/433/CEE non sono idonee al consumo umano le carni che presentino un intenso odore sessuale. A norma del successivo art. 6, n. 1, lett. b), punto iii), eccettuato il predetto caso, le carni di suini maschi non castrati di peso, espresso in carcassa, superiore a 80 kg, sono munite di un bollo speciale e sono sottoposte a un trattamento termico. Ai sensi della lettera g) del citato articolo, i trattamenti e i controlli sanitari sono effettuati nello stabilimento di origine. Conformemente all’art. 5 della direttiva 89/662/CEE, le competenti autorità degli Stati membri possono, nei luoghi di destinazione della merce, verificare, tramite controlli veterinari per sondaggio non discriminatori e prelievi a campione, il rispetto dei requisiti previsti dall’art. 3 (marcatura, etichettatura, certificato sanitario ecc.) verificati in via generale dagli stabilimenti d’origine. Ai sensi del successivo art. 7, se in occasione di un controllo effettuato nel luogo di destinazione, la competente autorità constata che la merce non soddisfa le condizioni previste dalle direttive comunitarie può lasciare allo speditore la scelta tra la distruzione della merce, la sua utilizzazione ad altri fini o la sua rispedizione allo stabilimento di origine. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’art. 8 della predetta direttiva prevede poi una procedura diretta a risolvere le difficoltà derivanti dalle eventuali differenze che possono sussistere tra i metodi utilizzati dagli Stati membri nei controlli sanitari. In base a tale procedura, la Commissione verifica il metodo che fa sorgere dei dubbi, mediante un’ispezione o incaricando un veterinario ufficiale, e il risultato di detta verifica è vincolante per gli Stati membri interessati. La Germania, con note del 18 e 26 gennaio 1993, ha comunicato che avrebbe trasposto le predette direttive nel diritto nazionale – il regolamento sull’igiene delle carni del 7 novembre 1991, come modificato il 27 aprile 1993 (Fleischhygieneverordnung – FlHV) – in modo da fissare un valore massimo dell’ormone androsterone indipendentemente dal peso della carcassa e stabilendo che, in caso di superamento di detto valore, la carne sarebbe stata considerata inidonea al consumo umano per il suo intenso odore sessuale e non avrebbe potuto essere esportata verso la Germania come carne fresca. Nelle predette note, la Germania precisava inoltre che i lotti di carne suina, indipendentemente dal bollo che ne attesta la salubrità, sarebbero stati esaminati nel luogo di destinazione per verificare il rispetto del valore limite dell’ormone e, in caso di superamento, sarebbero stati contestati e rispediti indietro. Con la sentenza del 12 novembre 1998, causa C-102/96, Commissione/ Germania, la Corte di giustizia ha accertato la violazione, da parte della Germania, degli obblighi imposti dalle due predette direttive, avendo previsto un valore limite indipendentemente dal peso della carcassa, avendo stabilito una verifica sistematica nel luogo di destinazione in violazione del principio secondo il quale la regola delle verifiche all’origine implica una maggiore fiducia nei controlli veterinari eseguiti dallo Stato speditore (sesto considerando della direttiva 89/662/CEE) e avendo pretermesso la procedura di cui all’art. 8 della citata direttiva, prevedendo un procedimento unilaterale di contestazione che non contempla alcun tentativo di accordo bonario con l’autorità dello Stato speditore, né l’intervento dirimente della Commissione. A seguito di tale sentenza, l’associazione ricorrente ha proposto una domanda di risarcimento del danno subito dal 1993, epoca di adozione delle predette note poi recepite nella modifica del FlHV, sino al 1999, data in cui il FlHV è stato ulteriormente modificato in modo conforme alle predette direttive, per effetto dell’interruzione dell’esportazione di suini maschi non castrati e dei conseguenti maggiori costi di produzione sostenuti per l’allevamento e la macellazione di suini castrati. Ciò premesso, il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che dalle predette direttive non derivino diritti per i produttori e i commercianti di carni suine che consentano loro di azionare il risarcimento del danno nei confronti dello Stato membro che abbia violato le medesime direttive. Com’è noto, sin dalla sentenza Francovich del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, è stato affermato che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunita- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 157 rio ad esso imputabili è da considerare inerente al sistema del Trattato in quanto, pur non essendo espressamente previsto, trova il suo fondamento nell’art. 5 del Trattato (attuale art. 10), in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario, tra i quali, quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario. Classico esempio di violazione da parte degli Stati del diritto comunitario è la mancata o tardiva trasposizione di una direttiva, obbligo imposto dall’art. 249 del Trattato, in base al quale la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Mancando peraltro nel Trattato disposizioni che disciplinino in modo diretto e puntuale le conseguenze delle violazioni del diritto comunitario da parte degli Stati membri, la Corte di giustizia, nella sentenza del 5 marzo 1996, Brasserie du Pêcheur e Factortame, cause riunite C-46/93 e 48/93, ha affermato che spetta proprio alla Corte – nell’espletamento del compito conferitole dall’art. 164 del Trattato (ora art. 220) di garantire l’osservanza del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato – statuire su tale questione avvalendosi dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico comunitario e, se necessario, dei principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Del resto, è proprio a tali ultimi principi che l’art. 215 del Trattato (ora art. 288) fa rinvio in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità per danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. In proposito, osserva la Corte, che in un gran numero di ordinamenti giuridici nazionali, il regime giuridico della responsabilità dello Stato è stato elaborato, in maniera determinante, in via giurisprudenziale. Ciò detto, la Corte, nella sentenza del 10 luglio 1997, Palmisani, causa C-261/95, ha confermato, nel solco già tracciato dalle citate sentenze Francovich e Brasserie du Pêcheur e Factortame, che le condizioni alle quali uno Stato membro è tenuto a risarcire i danni provocati sono tre: che la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di una violazione sufficientemente caratterizzata, grave e manifesta e che esista un nesso di causalità diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Orbene, nella fattispecie, a differenza di quanto accaduto per le sentenze Francovich e Palmisani, aventi entrambe ad oggetto la tardiva trasposizione della direttiva 80/987/CEE relativa alla tutela dei lavoratori salariati in caso di insolvenza del datore di lavoro, non può ritenersi che le direttive 64/433/CEE e 89/662/CEE conferiscano diritti ai singoli cittadini della Comunità, limitandosi ad imporre dei vincoli agli Stati membri per armonizzare le norme dirette a risolvere i problemi sanitari che si pongono in materia di produzione e di immissione sul mercato di carni fresche destinate al consumo umano, introducendo un sistema fondato sulla fiducia reciproca tra gli Stati per quel che concerne i controlli veterinari effettuati sui rispettivi territori. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In sostanza tali controlli, che prima venivano praticati alle frontiere interne degli Stati membri, sono spostati nel paese di origine delle carni fresche, riservando agli Stati destinatari della merce solo una verifica eventuale e a campione, sul presupposto dell’equivalenza delle garanzie sanitarie poste in tutti gli Stati membri, tali da assicurare, allo stesso tempo, la tutela della salute e la parità di trattamento dei prodotti. Nel secondo, terzo e quarto considerando della direttiva 64/433/CEE, viene infatti enunciato l’intento di eliminare le disparità esistenti negli Stati membri in materia di prescrizioni sanitarie nel settore delle carni, al fine di favorire gli scambi intracomunitari. Da quanto sopra, si evince chiaramente che entrambe le direttive in questione non sono volte a costituire diritti per i singoli bensì a promuovere un funzionamento armonioso dei controlli sanitari sui prodotti animali nella prospettiva della realizzazione del mercato interno. Quanto al carattere manifesto della violazione, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha precisato che, perché tale condizione sia soddisfatta, occorre tener conto del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, la persistenza della violazione anche dopo che questa sia stata accertata a seguito di un procedimento di infrazione (sentenza del 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler). In proposito, non può ritenersi che la violazione delle direttive in questione da parte della Germania possa assumere un carattere grave e manifesto, tenuto conto della giustificazione addotta nell’invocare la norma del Trattato (art. 30) che consente di introdurre restrizioni alle importazioni per tutelare la salute e la vita delle persone e degli animali. Inoltre, subito dopo la sentenza della Corte di giustizia (del 1998) che ha accertato l’esistenza della violazione, la Germania ha modificato la propria normativa (nel 1999) al fine di renderla conforme ai principi contenuti nelle citate direttive. Infine, sebbene la giurisprudenza della Corte abbia precisato che il danno può consistere anche nel lucro cessante (citata sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame) non può ritenersi che sussista un nesso di causalità diretto tra la violazione del diritto comunitario e il danno asseritamente riportato dalla ricorrente posto che la Germania non ha posto un espresso divieto di importazione di suini maschi non castrati ma è stata la ricorrente che ha gradualmente modificato le proprie esportazioni verso la Germania iniziando a macellare suini castrati. Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che i produttori e commercianti di carni non possano lamentare la violazione dell’art. 30 del Trattato (attuale art. 28) che vieta le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente, al fine di ottenere il risarcimento del danno da parte dello Stato che abbia attuato in maniera non fedele le richiamate direttive comunitarie. Invero, la citata sentenza 12 novembre 1998, causa C-102/96, Commissione /Germania ha precisato che, se è vero che l’art. 36 del Trattato IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 159 (attuale art. 30) consente di mantenere delle restrizioni alla libera circolazione delle merci giustificate da motivi di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali, le quali costituiscono esigenze fondamentali riconosciute dal diritto comunitario – invocate dalla Germania a sostegno della propria scelta normativa – l’applicazione di tale disposizione deve essere esclusa laddove direttive comunitarie prevedano l’armonizzazione delle misure necessarie alla realizzazione dello specifico obiettivo perseguito mediante il ricorso all’art. 36. Ciò detto, va ricordato che la citata sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame aveva ad oggetto, per la prima delle due cause riunite, proprio una restrizione all’esportazione di birra in Germania, da parte della società francese la Brasserie du Pêcheur, in quanto non conforme ai requisiti di genuinità prescritti dalla normativa nazionale tedesca. In proposito, va ricordato che, mentre la citata sentenza della Corte del 12 novembre 1998 che ha accertato la violazione delle direttive comunitarie 64/433/CEE e 89/662/CEE da parte della Repubblica federale di Germania non si è pronunciata in ordine alla configurazione del comportamento del predetto Stato membro quale violazione dell’art. 30 (ora 28) del Trattato, come evidenziato dal giudice del rinvio, nella sentenza del 12 marzo 1987, causa C-178/84, Commissione/Germania, la Corte ha accertato che la restrizione all’esportazione di birra verso la Germania, da parte della società la Brasserie du Pêcheur, integrasse proprio una violazione dell’art. 30 (ora 28) del Trattato, in assenza di una normativa comunitaria di armonizzazione. È evidente allora come, nella successiva sentenza del 5 marzo 1996, Brasserie du Pêcheur e Factortame, la Corte abbia accertato il diritto al risarcimento del danno per violazione dell’art. 30 (ora 28) del Trattato, ritenendo che al divieto posto agli Stati da tale norma primaria, corrispondesse un diritto per i singoli da tutelare. Nel caso di specie, invece, esisteva una ben precisa normativa di armonizzazione, le delibere 64/433/CEE e 89/662/CEE – dalle quali, come si è detto, non derivano però diritti per i singoli – e pertanto solo in relazione a tale normativa va valutata la domanda risarcitoria. In proposito, va ricordato che la Corte ha chiaramente affermato che, qualora direttive comunitarie prevedano l’armonizzazione delle misure necessarie per garantire la tutela degli interessi tutelati dagli artt. 30-36 del Trattato, ogni misura nazionale relativa a tale materia deve essere valutata con riguardo alle disposizioni della direttiva pertinente e non alla luce del diritto primario (sentenza 11 luglio 1996, C-436/93, Bristol-Myers Squibb, punto 25; sentenza 12 ottobre 1993, C-37/92, Vanacker e Llesage, punto 9). Vista la risposta negativa ai primi due quesiti, sarebbe superflua la risposta agli altri ma si ritiene comunque di rispondere ai quesiti concernenti la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per violazione della normativa comunitaria data la rilevanza di massima della questione. Circa il terzo quesito, il Governo italiano ritiene che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato non sia interrotta, né sospesa per effetto di un procedimento per ina- 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dempimento e sino alla conclusione dello stesso, tranne il caso di un’azione tempestivamente iniziata, la cui decisione venga sospesa dal giudice adito in attesa dell’esito del procedimento di infrazione. Preliminarmente, va osservato che non essendo disciplinato, come si è detto, dal diritto comunitario il risarcimento dei danni degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, non vi è nemmeno alcuna previsione positiva che preveda un termine di prescrizione per esercitare tale diritto. In via di principio, un termine di prescrizione, onde adempiere alla sua funzione di garantire la certezza del diritto, dovrebbe essere fissato previamente dal legislatore comunitario. In mancanza, la giurisprudenza del Tribunale di primo grado ha ritenuto non estensibile analogicamente il termine di prescrizione previsto da altre norme comunitarie, come ad esempio l’art. 43 (ora 46) dello Statuto della Corte di giustizia che stabilisce il termine di prescrizione di cinque anni per l’azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti della Comunità (sentenza 15 settembre 1998, cause riunite T-126/96 e T-127/96, BFM e EFIM/ Commissione). Come si è detto, l’art. 215 del Trattato (ora art. 288) fa rinvio, in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità per danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni, ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico comunitario e, se necessario, dei principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Correttamente, quindi, il giudice del rinvio ha ritenuto di applicare la normativa tedesca in materia di prescrizione ed in particolare quella in materia di responsabilità amministrativa – che prevede un termine triennale – che più può accostarsi, in assenza di un’espressa disciplina, alla responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario. Quanto alla decorrenza del termine di prescrizione non si ritiene che la stessa possa iniziare solo a partire dal momento della corretta trasposizione della direttiva nel diritto comunitario. Tale principio, affermato nel caso specifico della sentenza Emmott (del 25 luglio 1001, causa C-208/90) è stato più volte disatteso, successivamente dalla stessa Corte (sentenze 27 ottobre 1993, causa C-338/91, Steenhorst-Neerings; 6 dicembre 1994, causa C- 410/92, Johnson; 17 luglio 1997, cause riunite C-114/95 e C-115/95 Texaco e Olieselskabet Danimarca) in quanto, nel precedente citato, la soluzione era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza dai termini avrebbe comportato la totale privazione per la ricorrente di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù della direttiva non trasposta. Né può ritenersi che la decorrenza della prescrizione possa essere interrotta dalla instaurazione del procedimento di inadempimento da parte della commissione, dovendo comunque l’atto interruttivo provenire dalla parte che ha interesse a far valere il diritto risarcitorio. Al più, il termine di prescrizione potrà rimanere sospeso, ove l’azione risarcitoria sia stata tempestivamente intentata dal danneggiato, sino all’esito del procedimento di infrazione, ove il giudice adito ritenga di attendere IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 161 tale decisione per valutare l’esistenza e la portata della violazione del diritto comunitario. Circa il quarto quesito, il Governo italiano ritiene che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato che si basa sull’insufficiente attuazione di una direttiva cominci a decorrere dal momento in cui si sono prodotti i primi effetti lesivi e ne sono prevedibili altri e non dalla completa attuazione della direttiva. In proposito, il giudice del rinvio ritiene che, data l’incertezza, sino alla sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame del 5 marzo 1996, circa la risarcibilità del danno per violazione del diritto comunitario qualora la violazione sia riconducibile all’organo legislativo dello Stato membro, la decorrenza della prescrizione, nel caso di specie, non potrebbe decorrere che a seguito di un ragionevole spatium deliberandi di tre mesi successivi a detta sentenza. Seguendo tale tesi, il diritto della ricorrente, azionato a fine 1999, sarebbe comunque prescritto. Tuttavia, si ritiene che, in linea generale, tale tesi non possa essere condivisa, dovendosi ritenere ormai acquisito, sin dalla sentenza Francovich del 1991, il principio della risarcibilità del danno per violazione del diritto comunitario, a prescindere dalla natura del potere, esecutivo, legislativo o giudiziario al quale tale violazione sia riconducibile, attesa l’unicità dello Stato (tale principio è stato successivamente confermato dalla citata sentenza Köbler del 2003 con riferimento al potere giudiziario). Si ritiene quindi che la prescrizione inizi a decorre dal momento in cui la violazione del diritto comunitario da parte dello Stato membro abbia iniziato a produrre gli effetti lesivi nella sfera del danneggiato. In proposito, va segnalato che la giurisprudenza italiana, in relazione al folto contenzioso instaurato a seguito della mancata tempestiva attuazione della direttiva 82/1976/CEE, che ha stabilito i requisiti minimi del corso che il medico specializzando deve frequentare, con conseguente adeguata remunerazione, prescrivendo agli Stati membri di adottare le misure necessarie per conformarsi entro il 31 dicembre 1982, ha sempre ritenuto di applicare il termine di prescrizione quinquennale decorrente dall’annualità del corso frequentata, a prescindere dalla data in cui la Corte di Giustizia, con sentenza 7 luglio 1987, causa 49/1986, ha accertato l’inadempimento dello Stato italiano. Successivamente, lo Stato italiano ha adottato il Decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 257 con il quale ha istituito una borsa di studio a favore dei medici specializzandi a decorrere dall’anno accademico 1991/92, con esclusione dei medici che avevano cominciato il corso dal 1 gennaio 1983 (termine contenuto dalla direttiva per la sua trasposizione negli ordinamenti nazionali). Per questi ultimi, il decorso della prescrizione è stato stabilito dalla giurisprudenza italiana nella data del provvedimento legislativo che ha sostanzialmente negato la loro pretesa (1991), a prescindere dalla successiva sentenza della Corte di giustizia del 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari che ha affermato la non corretta trasposizione della direttiva. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In ogni caso, deve osservarsi che, secondo la giurisprudenza comunitaria, non è precluso ad uno Stato membro di opporre alle pretese dei singoli fondate sul diritto comunitario, termini nazionali di decadenza o di prescrizione, il cui decorso prescinda dalla considerazione del fatto che, alla data in cui la pretesa poteva essere fatta valere, la direttiva che fondava tale pretesa non era stata ancora correttamente attuata nell’ordinamento nazionale. Detto principio è stato enunciato dalla Corte di giustizia nella causa C- 231/1996 nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la richiesta di rimborso di una tassa di concessione di governativa per l’iscrizione delle società nel registro delle imprese. La Corte ha infatti affermato che il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro di opporre, alle azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione di una direttiva, un termine nazionale di decadenza che decorra dalla data del pagamento dei tributi di cui si tratta, anche se, a tale data, la direttiva non era stata ancora correttamente attuata nell’ordinamento nazionale. Vista la risposta negativa al terzo e quarto quesito, non si ritiene necessario rispondere al quinto quesito. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito affermando che, dalle direttive 64/433/CEE e 89/662/CEE, non derivano diritti per i produttori e i commercianti di carni suine che consentano loro di azionare il risarcimento del danno nei confronti dello Stato membro che abbia violato le medesime direttive. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito affermando che i produttori e commercianti di carni non possano lamentare la violazione dell’art. 30 del Trattato (attuale art. 28) che vieta le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura d’effetto equivalente, al fine di ottenere il risarcimento del danno da parte dello Stato che abbia attuato in maniera non fedele le richiamate direttive comunitarie. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il terzo quesito affermando che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato non sia interrotta, né sospesa per effetto di un procedimento per inadempimento e sino alla conclusione dello stesso, tranne il caso di un’azione tempestivamente iniziata, la cui decisione venga sospesa dal giudice adito in attesa dell’esito del procedimento di infrazione. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il quarto quesito affermando che la prescrizione della pretesa, fondata sul diritto comunitario, di un risarcimento da parte dello Stato che si basa sull’insufficiente attuazione di una direttiva cominci a decorrere dal momento in cui si sono prodotti i primi effetti lesivi e ne sono prevedibili altri e non dalla completa attuazione della direttiva. Vista la risposta negativa ai precedenti quesiti, non si ritiene necessario rispondere al quinto quesito. Roma, 2 marzo 2006 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 163 Causa C-460/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Art. 10 della direttiva 92/85/CEE – Notifica, dopo il periodo di tutela, di licenziamento (non estraneo a maternità e a nascita di un figlio) – Direttiva del Consiglio 76/207/CEE sulla parità di trattamento tra uomini e donne -Ordinanza del 6 novembre 2006, depositata il 17 novembre 2006 del Tribunal du Travail Bruxelles – Belgio (cs. 9237/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO La ricorrente, dipendente di uno studio di architettura dal 1987, è stata in congedo di maternità da settembre 1995 alla fine di dicembre 1995. Il congedo di maternità scadeva il 31 dicembre 1995 e il periodo di tutela contro il licenziamento scadeva il 31 gennaio 1996. La dipendente è stata licenziata con lettera del 21 febbraio 1996 con preavviso di 6 mesi a far data dal 1° marzo 1996. La decisione di licenziare la dipendente è stata però presa ed attuata prima della scadenza del periodo di tutela contro il licenziamento; infatti la società convenuta, già durante la gravidanza e durante il congedo per maternità, aveva fatto pubblicare due annunci sul giornale per sostituire definitivamente la dipendente, precisando, nel rispondere ad una candidata, che il posto sarebbe stato vacante da metà settembre 1995 a gennaio 1996 e successivamente da agosto 1996, corrispondente alla scadenza del preavviso di 6 mesi notificato alla ricorrente al termine del periodo di tutela. I motivi del licenziamento forniti dalla società, generici ed indimostrati, inducono il giudice del rinvio ad ipotizzare che il licenziamento non sia estraneo alla gravidanza ed alla nascita del figlio della ricorrente. I QUESITI 1.- Se l’art. 10 della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE), debba essere interpretato nel senso che esso vieta unicamente di notificare una decisione di licenziamento durante il periodo definito al suo n. 1, o nel senso che esso vieta anche di prendere una tale decisione e di predisporre la sostituzione definitiva della lavoratrice prima che il periodo di tutela sia terminato. 2.- Se il licenziamento notificato dopo il periodo di tutela di cui all’art. 10 della direttiva 92/85, ma non estraneo alla maternità e/o alla nascita di un figlio, sia contrario all’art. 2, n. 1 (ovvero all’art. 5 n. 1) della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976/, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro e, in tal caso, se la sanzione debba essere almeno equivalente a quella che il diritto nazionale prevede in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «Ai sensi dell’art. 40 della legge belga sul lavoro 16 marzo 1971, il datore di lavoro di una lavoratrice incinta non può compiere “atti che pongano unilateralmente fine al rapporto” da quando è stato informato della gravidanza fino ad un mese dopo la scadenza del congedo di maternità, se non per motivi estranei alla condizione di gestante. Tale atto deve essere interpretato, secondo i lavori preparatori, come “atto giuridico” e quindi richiede una notifica alla lavoratrice e non una mera decisione di licenziarla, evincibile da un concreto intento di sostituirla a tempo indeterminato. Dal canto suo, l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE vieta il licenziamento delle lavoratici gestanti, puerpere e che allattano nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, che, a norma dell’art. 8 della medesima direttiva, deve essere di almeno quattordici settimane, di cui almeno due settimane di congedo obbligatorio. Ciò premesso, il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE debba essere interpretato nel senso che esso vieta non solo di notificare una decisione di licenziamento durante il periodo di gravidanza, puerperio o allattamento ma anche di prendere una tale decisione e di predisporre la sostituzione definitiva della lavoratrice prima che il periodo di tutela sia terminato. Va ricordato che l’art. 137, comma 1, lettera i) del Trattato prevede il sostegno della Comunità all’azione degli Stati membri nel settore della parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro. Più in dettaglio, l’art. 141 del Trattato dispone l’adozione di misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni. La Commissione, nel suo programma di azione per l’applicazione della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata il 9 dicembre 1989 dal Consiglio europeo di Strasburgo, ha fissato tra gli obiettivi quello dell’adozione da parte del Consiglio di una direttiva riguardante la protezione sul lavoro della donna gestante. È stata quindi adottata la direttiva 92/85/CEE che, al suo ottavo considerando, prevede che le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento debbano essere considerate sotto molti punti di vista come un “gruppo esposto a rischi specifici” ai sensi della direttiva 89/391/CEE concernente il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, con conseguente necessità di adottare nei loro confronti misure volte alla protezione della loro sicurezza e salute. In particolare, al quindicesimo considerando, la predetta direttiva 92/85/CEE osserva che il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, con conseguente opportunità di contemplare un divieto di licenziamento nel periodo compreso tra IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 165 l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, come appunto disposto dall’art.10 della medesima direttiva, tranne in casi eccezionali non connessi al loro stato, con obbligo del datore di lavoro di fornire per iscritto giustificati motivi per il licenziamento. L’incidenza dell’eventuale licenziamento sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti può giungere fino al rischio particolarmente grave di indurre queste ultime ad interrompere volontariamente la loro gravidanza ed al fine di scongiurare una tale eventualità il legislatore comunitario ha previsto, per mezzo del predetto art. 10, una tutela particolare a favore di tali lavoratrici, sancendo un divieto temporaneo di licenziamento nel richiamato periodo di tempo (Corte di giustizia, sentenza del 4 ottobre 2001, causa C- 109/00, Tele Danmark, punto 26). Conformemente alla giurisprudenza della Corte, inoltre, il danno economico subito dal datore di lavoro o le esigenze di buon funzionamento dell’impresa non possono giustificare il licenziamento di una lavoratrice gestante, dovendo il datore di lavoro assumersi il rischio delle ripercussioni economiche e organizzative derivanti dallo stato interessante delle proprie dipendenti (Corte di Giustizia, sentenza Tele Danmark cit., punto 23). Da quanto sopra, si evince chiaramente che l’intento perseguito dal legislatore comunitario è quello di apprestare una tutela concreta e reale alla maternità, evitando che le misure poste a garanzia della salute psico-fisica della donna possano essere aggirate con comportamenti che integrino comunque una discriminazione diretta o indiretta a causa della gravidanza. La parità fra uomini e donne costituisce peraltro un principio fondamentale del diritto comunitario, sancito dagli articoli 2 e 3, comma 2 del Trattato, che si propone appunto di eliminare le ineguaglianze. Gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vietano anch’essi qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e sanciscono il diritto alla parità di trattamento fra uomini e donne in tutti i campi, ed anche in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso (sentenza 8 novembre 1990, causa C-179/88, Hertz, punto 13). Pertanto, il divieto di notificare il licenziamento durante il periodo di tutela non può che ricomprendere anche il divieto di porre in essere atti inequivoci volti a predisporre tutte le condizioni per una sostituzione definitiva della lavoratrice gestante al termine del periodo di tutela. Nella fattispecie in esame, la notifica del licenziamento dopo il predetto termine costituisce un evidente escamotage per rispettare il divieto nella forma contravvenendo però allo stesso nella sostanza. Il datore di lavoro, attivandosi concretamente per cercare un sostituto della lavoratrice sin dal momento in cui ha avuto notizia della sua gravidanza, facendo pubblicare annunci sul giornale in relazione al posto dalla stessa occupato e chiarendo in seguito che tale posto si sarebbe definitivamente reso vacante in coincidenza con la scadenza del periodo di tutela contro il 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO licenziamento, persegue esattamente lo scopo vietato dalla direttiva che è quello di licenziare la lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza o della nascita del figlio. Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che il licenziamento notificato dopo il periodo di tutela di cui all’art. 10 della direttiva 92/85, ma non estraneo alla maternità o alla nascita di un figlio, è contrario sia all’art. 2, n. 1, sia all’art. 5 n. 1 della direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro e, in tal caso, la sanzione deve essere almeno equivalente a quella che il diritto nazionale prevede in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85. In base al terzo considerando della predetta direttiva 76/207/CEE, la parità di trattamento tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile costituisce uno degli obiettivi della Comunità in quanto si tratta in particolare di promuovere la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera. In particolare, l’art. 2, comma 1 della predetta direttiva dispone che il principio di parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia. L’art. 5, comma 1, dal canto suo, specifica che il principio di parità di trattamento comprende le condizioni inerenti al licenziamento, che debbono essere disciplinate senza alcuna discriminazione fondata sul sesso. Va ricordato che la predetta direttiva è stata abrogata, con decorrenza 15 agosto 2009, dalla direttiva 5 luglio 2006 n. 2006/54/CEE (art.34), riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, che, al suo ventiquattresimo considerando, ricorda che la Corte di giustizia ha costantemente riconosciuto la legittimità, per quanto riguarda il principio di parità di trattamento, della protezione della condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità nonché dell’introduzione di misure di protezione della maternità come strumento per garantire una sostanziale parità. L’esigenza di una tutela sostanziale implica che la decisione preordinata del licenziamento durante il periodo di tutela, sebbene la formale notifica sia avvenuta dopo, come nel caso di specie, non solo viola la norma specifica di cui all’art. 10 della direttiva 92/85/CEE ma altresì i citati articoli 2 n. 1 e 5 n. 1 della direttiva 76/207/CEE, trattandosi di un licenziamento palesemente avvenuto a causa della gravidanza o della nascita del figlio. Va inoltre sottolineato che, ai sensi del comma 7 del predetto art. 2, alla fine del periodo di congedo per maternità, la donna ha diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli e a beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza. Quindi, se la donna non può essere pregiudicata nella qualità delle proprie mansioni per effetto della gravidanza, avendo diritto a riprendere lo stes- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 167 so lavoro o un posto equivalente, a maggior ragione la gravidanza non può costituire valido motivo per la perdita del lavoro. Quanto alla sanzione per il licenziamento illegittimo, si osserva che l’art. 6 della direttiva 76/207/CEE, come modificato dall’art. 1 della direttiva 2002/73/CE, dispone espressamente che gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti le misure necessarie per garantire un indennizzo o una riparazione reale ed effettiva che essi stessi stabiliscono per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione contraria all’art. 3 – che contempla anche le discriminazioni relative alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento - in modo da risultare dissuasiva e proporzionata al danno subito. Orbene, mentre l’art. 40 della legge belga 16 marzo 1971, attuativa della direttiva 92/85/CEE, prevede espressamente che, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere alla lavoratrice un’indennità forfetaria pari alla remunerazione lorda per sei mesi, la legge belga 4 agosto 1978, attuativa della direttiva 76/207/CEE non prevede alcuna specifica sanzione per il trattamento discriminatorio tra uomo e donna. Ciononostante, se tale sanzione, ai sensi del citato art. 6 della direttiva 76/207/CEE deve essere “reale ed effettiva” e non meramente simbolica, la stessa deve essere almeno equivalente a quella prevista dal diritto nazionale in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85/CEE. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito affermando che l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE debba essere interpretato nel senso che esso vieta non solo di notificare una decisione di licenziamento durante il periodo di gravidanza, puerperio o allattamento ma anche di prendere una tale decisione e di predisporre la sostituzione definitiva della lavoratrice prima che il periodo di tutela sia terminato. Il Governo Italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito affermando che il licenziamento notificato dopo il periodo di tutela di cui all’art. 10 della direttiva 92/85, ma non estraneo alla maternità o alla nascita di un figlio, è contrario sia all’art. 2, n. 1, sia all’art. 5 n. 1 della direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro e, in tal caso, la sanzione deve essere almeno equivalente a quella che il diritto nazionale prevede in esecuzione dell’art. 10 della direttiva 92/85. Roma, 19 marzo 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali come prerogativa statale: i confini della Regione (Corte Costituzionale, sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006 n. 182) La Corte Costituzionale si è di recente pronunciata, con la sentenza n. 182 del 20 aprile 2006, sulla controversia relativa alla legittimità dell’intervento legislativo della Regione Toscana nell’ambito della disciplina concernente la tutela del paesaggio ed il governo del territorio, argomentando in relazione alle competenze di Stato e Regione sul piano legislativo ed amministrativo, nonché in riferimento alle reciproche interferenze. In particolare, la norma sancita dall’art. 32, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005 n. 1 è stata prospettata come violativa dell’art. 117, lettera s, della Costituzione, oltre che dei principi fondamentali sul “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali” recati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, contenuto nel decreto legislativo del 22 gennaio 2004, n. 42; anche in relazione all’art. 34, comma 3, appartenente al contestato apparato normativo di elaborazione regionale è stato prospettato il contrasto con i principi dinanzi enunciati; da ultimo, il disposto dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana 1/2005, è stato ritenuto integrante la violazione dell’art. 117, lettere l e m, della Costituzione. In sostanza, la pronuncia del Giudice di legittimità costituzionale è articolata nel senso di delineare la potestà esclusiva dello Stato relativamente alle materie di tutela dell’ambiente e dei beni culturali, prospettando la competenza legislativa regionale concorrente in riferimento all’ambito di valorizzazione dei beni culturali stessi: spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sul territorio nazionale, laddove le leggi regionali, emanate nell’esercizio di potestà concorrenti, possono attenere al settore della tutela ambientale, purché nel rispetto delle regole uniformi fissate dallo Stato. I L C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La questione di legittimità costituzionale veniva sollevata con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, notificato in data 10 marzo 2005 e depositato il 15 marzo 2005, su conforme deliberazione del Consiglio dei Ministri in data 4 marzo 2005. Per ciò che concerne la prima delle questioni indicate, relativa alla riscontrata illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 3, della legge regionale impugnata, il ricorrente rilevava come la disposizione normativa de quo richiamasse, nella sua prima parte, la disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio riguardo all’individuazione dei beni paesaggistici, precisando che gli immobili e le aree dichiarate di notevole interesse pubblico sono comprese negli statuti dei piani regionali, provinciali e comunali, a seconda del rispettivo rilievo. Il comma 3, tuttavia, prevedeva esclusivamente l’espletamento delle forme di pubblicità previste dall’art. 140, commi 2, 3 e 4, dello stesso Codice dei beni culturali, qualora l’entrata in vigore dei citati strumenti urbanistici comportasse la modifica di vari atti e provvedimenti previsti dal Codice stesso: in ordine a tale aspetto, la legge regionale risultava elusiva dell’accordo Stato-Regione previsto dal Codice per gli adeguamenti al piano paesaggistico elaborato d’intesa, ponendosi in contrasto con la norma dell’art. 143 dello stesso decreto legislativo 42/2004. Siffatta disposizione palesava, altresì, un’indebita interferenza dell’ente locale nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, ai sensi dell’art. 117, lettera s, della Costituzione, oltre a risultare in netto contrasto anche con i principi fondamentali sanciti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio in tema di “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali”, con espresso riferimento ai beni paesaggistici. I principi fondamentali da ultimo menzionati, evincibili dalle disposizioni del Codice dei beni culturali, risultavano, ad avviso del ricorrente, altresì violati dall’art. 34, comma 3, della contestata legge di elaborazione regionale. Il dettato legislativo della norma citata riservava allo statuto del piano strutturale dei comuni l’indicazione delle aree nelle quali la realizzazione di opere ed interventi consentiti richiedesse il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 87, l’indicazione delle aree nelle quali non fosse richiesta l’autorizzazione per gli interventi, la cui compatibilità venisse verificata contestualmente al rilascio del titolo edilizio e l’indicazione delle aree compromesse o degradate nelle quali gli interventi di recupero e riqualificazione non fossero affatto soggetti ad autorizzazione. In tale sede, secondo quanto argomentato dal ricorrente, la disciplina regionale si poneva in contrasto con l’ordine gerarchico dei piani, secondo cui la pianificazione territoriale deve sottostare a quella paesaggistica (art. 145 del Codice), con l’attribuzione al piano paesaggistico delle aree in cui gli interventi debbano o meno essere assistiti da autorizzazione (art. 143, comma 5, del Codice), e con l’esclusione di applicabilità dell’art. 143, comma 5, qualora il piano paesaggistico non sia stato elaborato congiuntamente da Stato e Regione. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 171 In ultimo, la rilevata illegittimità costituzionale dell’art. 105 della legge 1/2005 della Regione Toscana veniva riscontrata con riferimento ai prescritti adempimenti procedurali finalizzati agli interventi in zona sismica, per i quali veniva stabilita la trasmissione alla struttura regionale competente di un preavviso scritto, con allegati progetto d’opera e relazioni tecniche, senza che per iniziare i lavori fosse necessaria l’autorizzazione della struttura regionale. I parametri legislativi statali con i quali è ravvisabile il contrasto della norma enunciata, sono individuati nell’art. 18 della legge 3 febbraio 1974, n. 64, recante “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche” e nel successivo d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prescriventi la preventiva autorizzazione per gli interventi in zone sismiche, a tutela dell’incolumità pubblica. La disposizione dell’art. 105, comma 3, è reputata, sotto tale aspetto, confliggente con la potestà legislativa statale in materia di ordinamento civile, nonché di diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale, ai sensi degli artt. 117, comma 2, lettere l e m, e 3 della Costituzione. La Regione Toscana si costituiva in giudizio, adducendo, in sostanza, argomentazioni secondo le quali le norme contestate costituirebbero espressione della potestà legislativa che l’art. 117 della Costituzione attribuisce alle Regioni in materia di governo del territorio e valorizzazione dei beni ambientali, ribadendo la conformità dell’apparato normativo regionale alla legislazione statale vigente, in aderenza ad una corretta interpretazione dello stesso. La problematica, nell’ottica del resistente, si appunterebbe quindi sulla valutazione del rispetto dei principi e degli standard posti dalla legge dello Stato, da parte della Regione, in materia di governo del territorio, valorizzazione e tutela dei beni paesaggistici. In particolare, la Regione Toscana argomentava la conformità delle norme impugnate rispetto all’ordinamento giuridico statale rilevandone il carattere eminentemente riproduttivo di statuizioni fondamentali: l’art. 32, comma 2, si configura come disposizione aderente all’art. 144, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, laddove l’elaborazione congiunta di un piano paesaggistico, adottato d’intesa tra Stato e Regione (art. 143, commi da 10 a 12) si configurerebbe come una mera facoltà, atta a produrre effetti obbligatori soltanto se esercitata. La difesa a fronte della dedotta incostituzionalità dell’art. 34, comma 3, della legge Regione Toscana n. 1/2005, veniva, poi, articolata in forza dell’espressa affermazione regionale del primato paesaggistico (art. 30 della legge) e dell’asserita applicazione del principio di sussidiarietà che lega le funzioni esercitate dal Comune alle attribuzioni di competenza regionale: la Regione manterrebbe, in ogni caso, la scelta definitiva, giacché attraverso il piano d’indirizzo territoriale dà le direttive ai Comuni per l’individuazione delle aree da sottoporre a tutela ed esprime sulle scelte comunali parere vincolante ai fini dell’efficacia. Sarebbe, in tale prospettiva, escluso il contrasto con l’art. 143, comma 5, del Codice dei beni culturali. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La legittimità dell’art. 105 della legge 1/2005 veniva, da ultimo, ribadita dalla Regione Toscana dinanzi alla Corte Costituzionale, alla luce della legge 10 dicembre 1981, n. 741, il cui art. 20 concerne la semplificazione dei procedimenti previsti dalla legge antisismica, consentendo alle Regioni di prevedere con legge la non necessità dell’autorizzazione preventiva, organizzando la vigilanza con modalità di controllo successivo a campione. Orbene, la Corte ha accolto la questione di legittimità avanzata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dichiarando l’incostituzionalità degli articoli 32, comma 3, 34, comma 3 e 105, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio). La Corte ha esplicato con estrema chiarezza e linearità il fulcro della problematica sottoposta alla sua valutazione. La disciplina relativa alla pianificazione paesaggistica, improntata all’unitarietà, assurge a valore imprescindibile e, pertanto, non derogabile dal legislatore regionale. Essa è espressione di una metodologia uniforme, posta nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici inerenti a tutto il territorio nazionale: l’ambiente è un valore suscettibile di essere qualificato e rispettato in quanto primario, attraverso un intervento unitario che prescinda dalla pluralità di interventi delle amministrazioni locali. Lo Stato, in questi termini, fa valere la propria potestà legislativa eminente in materia di ambiente e beni culturali, sancita dall’art. 117, comma 2, lettera s, della Costituzione, oltre alla propria potestà di stabilire principi fondamentali in materia di governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali (art. 117, comma 3, Cost.), ai quali le Regioni devono conformarsi nell’esercizio delle proprie competenze, cooperando per una migliore tutela del paesaggio, ma pur sempre nel rispetto dei parametri imposti dalla legislazione statale. La pronuncia della Corte appare, in una molteplicità di passaggi, ricostruttiva della logica sottesa alla regolamentazione conferita dal nostro ordinamento giuridico alla materia dell’ambiente e dei beni culturali e permette, altresì, di accedere ad una corretta interpretazione dei rapporti tra Stato ed amministrazioni locali nell’ambito di tale settore, alla luce dell’art. 117 della Costituzione. Dott.ssa Eva Calvi(*) Corte Costituzionale, sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006 n. 182 – Pres. A. Marini – Rel. A. Finocchiaro – Presidente del Consiglio dei Ministri (Avv. dello Stato M. Fiorilli) c/ Regione Toscana (Avv. F. Lorenzoni). «(Omissis) Considerato in diritto (omissis) 2. – Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate nei confronti dell’art. 32, comma 3, dell’art. 34, comma 3, e dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, sono fondate. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 173 Nelle prime due questioni indicate – concernenti la pianificazione paesaggistica da parte della Regione – lo Stato fa valere la propria potestà legislativa primaria in materia di ambiente e beni culturali (art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione) e la propria potestà di stabilire principi fondamentali in materia di governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali (art. 117, terzo comma, della Costituzione), ai quali le Regioni devono sottostare nell’esercizio delle proprie competenze, cooperando eventualmente ad una maggior tutela del paesaggio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato. Le questioni sollevate dal ricorso attengono ai temi della tutela del paesaggio e del governo del territorio, alle relative competenze, legislative e amministrative, e alle reciproche interferenze. La tutela tanto dell’ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.): da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, e, dall’altro, le leggi regionali, emanate nell’esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato. Appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l’intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell’interesse ambientale (sentenze n. 62, n. 232 e n. 336 del 2005). In relazione alla pianificazione paesaggistica, lo Stato, nella parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, pone una disciplina dettagliata, cui le Regioni devono conformarsi, provvedendo o attraverso tipici piani paesaggistici, o attraverso piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici (art. 135, comma 1). L’opzione per questo secondo strumento, adottato anche dalla legge regionale della Toscana oggetto di censura, comporta che, nella disciplina delle trasformazioni – com’è negli scopi del piano urbanistico –, la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente (art. 135, comma 2). L’art. 143 descrive il contenuto del piano, che è ricognitivo, prescrittivo e propositivo. La parte prescrittiva – che ha sollecitato le censure del Presidente del Consiglio dei ministri, riguardo al recepimento operato nella legge della Regione Toscana – è contenuta nei commi da 5 a 8, che, con riferimento agli interventi apprestabili sui beni tutelati, prevede una modulazione del regime autorizzatorio, a tre livelli: regime autorizzatorio rafforzato (comma 5, lettera a), riguardante le aree di pregio, per le quali qualsiasi trasformazione deve essere autorizzata; regime autorizzatorio attenuato (lettera b), riguardante le aree di minor pregio, in cui la compatibilità paesistica può esser valutata nell’ambito del procedimento autorizzatorio edilizio; regime autorizzatorio escluso (lettera c), in cui la pregressa compromissione del valore paesaggistico fa soprassedere alla necessità di autorizzazione, per le operazioni di recupero e riqualificazione. La diversa modulazione del regime autorizzatorio, in rapporto agli ambiti territoriali e agli obiettivi di qualità paesaggistica, è operativa nella misura in cui il piano paesaggistico, o il piano urbanistico- territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, sia stato oggetto di elaborazione congiunta tra il Ministero e la Regione. La ratio della disciplina statale è nel senso che, affermata la competenza regionale nella pianificazione paesaggistica, in quello che è effetto saliente di essa, ovvero la modifica di regime dei beni che essa recepisce e il cui uso deve regolare, lo Stato deve poter interloquire attraverso forme di concertazione, senza le quali la Regione può ben elaborare autonomamente il piano, senza però che quell’effetto si produca. 2.1. – La legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, che regola il piano di indirizzo territoriale, il cui statuto ha valore di piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici (art. 33), riproduce, quasi testualmente, il contenuto dell’art. 143 e ciò, secondo la difesa regionale, dimostrerebbe la conformità della norma regionale ai principi statali. La tesi non può essere seguita dal momento che, al di là della programmatica enunciazione dell’art. 30, comma 1, della legge regionale n. 1 del 2005 – secondo cui “gli strumenti della pianificazione territoriale e gli atti di governo del territorio si conformano alle disposizioni di cui al presente capo, aventi la finalità di tutelare e valorizzare la bellezza dei paesaggi ed il pregio dei beni culturali e del patrimonio storico e naturale presenti nel territorio della Regione” – né nell’art. 33, né in alcuna altra parte della stessa legge, è riportata la clausola di cui all’art. 143, comma 12, del Codice, secondo cui quanto previsto dai commi da 5 a 8 dell’art. 143 non trova applicazione se il piano paesaggistico non è stato elaborato d’intesa con lo Stato. La legge regionale non effettua tale richiamo, facendo dipendere la modifica del regime giuridico dei beni paesaggistici, in sostanza, dal solo espletamento delle forme di pubblicità del piano (art. 32, comma 3). Non è da condividere la difesa regionale, secondo cui sarebbe ammissibile una lettura secundum constitutionem, attraverso l’inserzione automatica della disposizione di cui all’art. 143, comma 12, del Codice. Il rilievo critico di fondo della disciplina regionale attiene alla tecnica di redazione del testo normativo, e così di recepimento della fonte sopraordinata. L’estrema minuziosità della disciplina regionale, anche attraverso la pedissequa riproduzione delle altrettanto dettagliate disposizioni del Codice sui contenuti del piano paesaggistico, non può non far ritenere la necessità che la fondamentale condizione di applicabilità della parte precettiva del piano – la modifica del regime dei beni paesaggistici recepiti dal piano è la ragione stessa della pianificazione paesaggistica – sia positivamente inserita nel tessuto normativo alla stregua di una regolamentazione completa, omogenea e contestuale. La Regione ha previsto (o meglio, ha implicitamente previsto) che la modifica al regime giuridico dei beni paesaggistici si compia senza che lo Stato abbia partecipato all’elaborazione del piano, in tal modo violando il principio secondo cui solo se il piano paesaggistico è stato elaborato d’intesa, il vincolo paesaggistico che grava sui beni può essere tramutato in una disciplina d’uso del bene stesso. La prima questione è quindi fondata e deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 3, della legge regionale della Toscana n. 1 del 2005, nella parte in cui non prevede che, ove non venga stipulato l’accordo per l’elaborazione d’intesa del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici tra le Regioni, il Ministero per i beni e le attività culturali ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, ovvero ad esso non segua l’elaborazione congiunta del piano, non trova applicazione quanto previsto nell’art. 143, commi 5, 6, 7, 8, del Codice dei beni culturali e del paesaggio. 2.2. – Relativamente alla seconda questione, con la quale si contesta la legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, è da rilevare che la Regione fa disciplinare i beni paesaggistici dal piano strutturale dei Comuni – sia pure sulla base delle indicazioni del piano di indirizzo territoriale e del piano territoriale – in tal modo sottraendo la disciplina paesaggistica dal contenuto del piano, sia esso tipicamente paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, che deve essere unitario, globale, e quindi regionale, e al quale deve sottostare la pianificazione urbanistica ai livelli inferiori. L’art. 135 del Codice è tassativo, relativamente al piano paesaggistico, nell’affidarne la competenza alla Regione. L’art. 143 elenca dettagliata- 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mente i suoi contenuti e l’art. 145 definisce i rapporti con “gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province” secondo un modello rigidamente gerarchico (immediata prevalenza del primo, obbligo di adeguamento dei secondi con la sola possibilità di introdurre ulteriori previsioni conformative che “risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani”).La scelta della Regione Toscana di elaborare un piano d’indirizzo territoriale, il cui statuto abbia valenza di piano urbanisticoterritoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, ha comportato che, muovendosi nell’ambito della normativa generale sul governo del territorio, non sia stata abbandonata, anche riguardo al paesaggio, la logica tradizionale della pianificazione urbanistica, di demandare agli strumenti inferiori la disciplina sempre più specifica. Si è così fatto “scorrere” dal piano urbanistico-territoriale al piano strutturale dei Comuni l’individuazione delle aree “già paesaggistiche” per le quali non si ritenga necessaria l’autorizzazione (poiché soppressa tout court o assorbita nel titolo edilizio) e la decisione di sottoporre a monitoraggio le trasformazioni territoriali quale condizione per l’entrata in vigore delle norme che consentono la realizzazione di opere con il solo rilascio del titolo edilizio (art. 34, commi 3 e 5), sia pure sulla base delle indicazioni generali del piano regionale d’indirizzo territoriale (art. 33, comma 1) e gli obiettivi di qualità e criteri di riparto territoriale del piano provinciale di coordinamento (art. 34, comma 1); con la conseguenza che, in ultima analisi, è il piano strutturale, ossia l’ordine inferiore della pianificazione, che detta la disciplina concreta dei beni paesaggistici. La legge toscana sul governo del territorio tende al superamento della separatezza tra pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall’altro, facendo rientrare la tutela del paesaggio nell’ambito del sistema della pianificazione del territorio e rendendo pertanto partecipi anche i livelli territoriali inferiori di governo (province e comuni) nella disciplina di tutela del paesaggio. Il principio di fondo di questo sistema – che è condivisibile nella misura in cui gli enti locali sono chiamati a contribuire alla pianificazione regionale (art. 144, comma 1, del Codice); ed in cui gli strumenti di pianificazione territoriale dei livelli sub-regionali di governo perseguano, attraverso la propria disciplina, obiettivi di tutela e valorizzazione del paesaggio (art. 145, comma 4) – presenta però il suo elemento critico, laddove, trasferendo le decisioni operative concernenti il paesaggio alla dimensione pianificatoria comunale, si pone in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione, nell’ambito di una materia a legislazione esclusiva statale ex art. 117 Cost., ma anche della legislazione di principio nelle materie concorrenti del governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali. La giurisprudenza costituzionale ha ammesso che le funzioni amministrative, inizialmente conferite alla Regione, possano essere attribuite agli enti locali (sentenze n. 259 del 2004 e n. 214 del 2005, in materia ambientale), ma è l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali. In relazione a tutte le norme statali interposte, che sono state indicate nel ricorso, sussiste il contrasto: con l’art. 143, comma 5, del Codice, che attribuisce al piano paesaggistico regionale l’individuazione delle aree tutelabili; con l’art. 145 del Codice, che ordina gerarchicamente gli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali; e con l’art. 143, comma 12, dello stesso Codice, IL CONTENZIOSO NAZIONALE 175 ove si esclude l’applicabilità del comma 5 del medesimo articolo, qualora sia mancata l’intesa per l’elaborazione del piano. Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in considerazione del mancato rispetto delle norme interposte ora richiamate, nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale comunale, anziché il piano regionale paesaggistico, a indicare le aree in cui la realizzazione degli interventi non è soggetta all’autorizzazione di cui all’art. 87 della legge regionale. 3. – Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, è fondata. Dispone questa norma che, per gli interventi in zona sismica, deve semplicemente darsi preavviso scritto alla struttura regionale competente, allegando il progetto dell’opera, una relazione tecnica e una relazione sulla fondazione (commi 1 e 2), senza che, per iniziare i lavori, sia necessaria l’autorizzazione della struttura regionale, salva la possibilità di controlli a campione da parte delle individuate strutture regionali (art. 110). È bensì vero che già a partire dalla legge della Regione Toscana 6 dicembre 1982, n. 88 (Ulteriori norme per l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche), operava nella Regione l’istituto della denuncia di inizio dell’attività (art. 2), in attuazione dell’art. 20 della legge 10 dicembre 1981, n. 741 (Ulteriori norme per l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione delle opere pubbliche), che in materia di interventi in zona a rischio sismico abilitava le regioni a sostituire il sistema di monitoraggio connesso al regime autorizzatorio, di cui all’art. 18 della legge 2 febbraio 1974, n. 64 (Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche), con “modalità di controllo successivo”. Questo principio è però venuto meno a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 94 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il quale prevede l’autorizzazione regionale esplicita. L’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali. Né costituisce argomento probante, per avallare la tesi della Regione, la circostanza che la legge n. 741 del 1981 non compaia fra quelle abrogate dall’art. 136 del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, dal momento che non se ne fa espressa menzione neppure nell’elenco delle disposizioni di legge mantenute in vigore (art. 137). L’opzione per una disciplina derogatoria a sistemi di controllo semplificato, ove siano coinvolti interessi primari della collettività, ha ricevuto, infine, conferma dall’art. 3 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80, che generalizzando – a modifica dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 – il regime della denuncia di inizio attività, esclude tuttavia dalla procedura semplificata “gli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità…”. Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in considerazione del mancato rispetto della norma statale di principio sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non dispone che non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione (omissis)». 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177 La tutela risarcitoria nei confronti dell’attività provvedimentale della pubblica amministrazione: sviluppi in tema di giurisdizione e di pregiudizialità. (Corte di Cassazione, SS. UU., ordinanze 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660) Con le due ordinanze nn. 13659 e 13660 del giugno 2006, pronunciate in sede di regolamento di giurisdizione e dal contenuto sostanzialmente identico, le Sezioni Unite della Suprema Corte ritornano sulla materia della giurisdizione in tema di responsabilità civile della pubblica amministrazione connessa ad attività provvedimentale. Le questioni a cui le Sezioni Unite sono state chiamate a dare risposta possono così essere sintetizzate : – come è ripartita tra giudice ordinario e giudice amministrativo la tutela giurisdizionale diretta a far valere la responsabilità della p.a. da attività provvedimentale illegittima dopo la legge n. 205/2000? – Può la parte limitarsi a chiedere il risarcimento del danno, senza dover chiedere anche l’annullamento, e, in caso di risposta affermativa, quale è il regime di tale diversa forma di tutela giurisdizionale? Prima di dare risposta ai quesiti appena formulati, appare opportuno ripercorrere, sia pure brevemente, le tappe dell’iter legislativo e giurisprudenziale su questo tema. Per oltre un secolo la giurisprudenza della Suprema Corte è stata ferma nel ritenere che il danno ingiusto, che costituisce il presupposto del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., dovesse essere inteso come danno lesivo di un diritto soggettivo perfetto. Il sistema ha così escluso la risarcibilità dell’interesse legittimo per un periodo di tempo assai lungo (che va dal 1865 al 1992), con l’eccezione di alcune isolate decisioni. L’art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 ha poi introdotto una fattispecie di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del diritto comunitario. In attuazione della direttiva del Consiglio CE n. 665/89 del 21 dicembre 1989, si è riconosciuta la possibilità, in tema di aggiudicazione di appalti pubblici, di ottenere il risarcimento del danno dal giudice ordinario, dopo l’annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice amministrativo. Il sistema così introdotto, che imponeva al privato di adire prima il giudice amministrativo per l’annullamento del provvedimento illegittimo e poi il giudice ordinario per il risarcimento del danno è apparso, però, particolarmente gravoso e poco rispettoso del principio di effettività di tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 della Costituzione. Con gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80/1998 si sono attribuiti alcuni settori particolari – vale a dire gli appalti ed i servizi pubblici, l’edilizia e l’urbanistica – ad una “nuova” giurisdizione esclusiva del giu178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dice amministrativo, estesa anche ai diritti patrimoniali consequenziali e al risarcimento del danno. Il legislatore, inoltre, ha esteso la “nuova” giurisdizione a qualsiasi fattispecie di giurisdizione esclusiva, vecchia o nuova. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la nota sentenza 22 luglio 1999 n. 500 (1), hanno affermato la risarcibilità di tutti gli interessi giuridicamente rilevanti e hanno individuato quale giudice competente il giudice ordinario. La Cassazione ha interpretato l’art. 2043 c.c. come contenente una clausola generale, che consente la condanna al risarcimento del danno di coloro che, attraverso comportamenti commissivi od omissivi, atti od operazioni, assunti injure, abbiano leso un interesse giuridicamente rilevante di un soggetto terzo. Si è così superata la tradizionale impostazione che vedeva questo interesse esclusivamente coincidente con un diritto soggettivo e, perciò, escludeva la risarcibilità degli interessi legittimi. Le azioni risarcitorie dovevano essere rivolte sempre innanzi al giudice ordinario, ferma restando la competenza del giudice amministrativo in ordine all’annullamento degli atti e alle materie di giurisdizione esclusiva (per le quali ultime il giudice amministrativo era competente non soltanto per l’annullamento degli atti, ma anche per le azioni risarcitorie). L’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205 ha modificato, tra l’altro, l’art. 35 del decreto legislativo n. 80/1998 nel senso di prevedere che il giudice amministrativo, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative al risarcimento del danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. La novità rispetto al sistema delineato dal decreto legislativo n. 80/1998 è consistita nell’affermazione per cui il giudice amministrativo conosce delle questioni risarcitorie non soltanto nelle materie attribuite alla sua giurisdizione esclusiva, ma, in generale, anche in quelle attribuite alla sua giurisdizione di legittimità. Il legislatore del 2000, dunque, ha affermato che il giudice amministrativo è il giudice competente in tema di risarcimento su interessi legittimi e diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva e su interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità. L’Adunanza Plenaria n. 4/2003 del Consiglio di Stato (2), preso atto della concentrazione, innanzi al giudice amministrativo, della tutela impugnatoria dell’atto illegittimo e di quella risarcitoria conseguente, ha affermato che l’annullamento dell’atto amministrativo è pregiudiziale rispetto alla richiesta di risarcimento del danno. In altri termini, per i giudici di Palazzo Spada l’azione di risarcimento, che può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento che in via autonoma, è ammissibile a condizione che sia impugnato tempestivamente il (1) Foro italiano, 1999, I, 2487 e Giornale di diritto amministrativo, 1999, IX, 832. (2) Foro italiano, 2003, III, 433 e Giornale di diritto amministrativo, 2003, V, 567. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179 provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento. La Corte Costituzionale, con la sentenza 6 luglio 2004, n. 204 (3), ha chiarito che la tutela risarcitoria non può essere considerata come una materia devoluta in blocco alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma deve valutarsi alla stregua di uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio; ha, inoltre, aggiunto che il sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica, cioè al giudice amministrativo, poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione, costituisce attuazione del precetto dell’art. 24 della Costituzione. In conclusione, con la citata sentenza, il Giudice delle Leggi, pure avendo limitato l’area di estensione della giurisdizione del giudice amministrativo, ha tuttavia stabilito che, nei casi in cui ci sia esercizio di potere amministrativo e, quindi, giurisdizione amministrativa, quest’ultima sia piena e sia estesa anche alla tutela risarcitoria. Di recente, ossia con la sentenza 11 maggio 2006, n. 191 (4), la Corte Costituzionale ha ribadito la validità di una siffatta ricostruzione del sistema di tutela giurisdizionale amministrativa. Con sentenza 23 gennaio 2006, n. 1207 (5), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mettendo in discussione quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 204/2004, hanno cercato di riappropriarsi di una parte della tutela risarcitoria e hanno stabilito che l’azione risarcitoria rientra nella giurisdizione del giudice ordinario tutte le volte in cui non venga in contestazione il legittimo esercizio dell’attività amministrativa. Più specificamente, si è affermata sussistere la giurisdizione ordinaria sull’azione risarcitoria nelle ipotesi in cui, essendo l’atto amministrativo stato annullato o revocato dalla pubblica amministrazione nell’esercizio del suo potere di autotutela, oppure rimosso a seguito di pronuncia definitiva del giudice amministrativo, oppure avendo esaurito i suoi effetti per il decorso del termine di efficacia ad esso assegnato dalla legge, non opera la connessione legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria. Così facendo, la Cassazione ha fatto dipendere la giurisdizione da una scelta del privato, consentendo a quest’ultimo di scegliere il giudice a cui rivolgersi, e cioè se proporre la domanda risarcitoria innanzi al giudice amministrativo, e quindi unitamente alla domanda di annullamento, oppure innanzi al giudice ordinario, e dunque autonomamente, dopo l’annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo. Ciò, peraltro, in aperto contrasto con quanto affermato altrove dalla stessa Corte di Cassazione, in ordine alla necessità che le scelte processuali della parte siano estranee alla giurisdizione. (3) Foro italiano, 2004, I, 2594 e Giornale di diritto amministrativo, 2004, IX, 969. (4) Corriere giuridico, 2006, VII, 922 e Foro italiano, 2006, VI, 1625. (5) Giornale di diritto amministrativo, 2006, VII, 749. 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’Adunanza Plenaria n. 2/2006 del Consiglio di Stato (6), nel solco tracciato dalla precedente pronuncia della stessa Adunanza Plenaria n. 4/2003, ha stabilito che la regola della concentrazione, innanzi al giudice dell’impugnazione, anche della pretesa risarcitoria si applica anche quando la controversia sul risarcimento sia prospettata con autonomo, e successivo, ricorso, ossia dopo che il giudizio sul provvedimento si sia concluso e la relativa decisione sia passata in giudicato. Con le ordinanze 13 giugno 2006 nn. 13659 e 13660, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno abbandonato l’orientamento inaugurato con la sentenza n. 1207/2006. Le affermazioni contenute nelle citate ordinanze, con cui si è data risposta agli interrogativi indicati all’inizio di questo lavoro, sono essenzialmente le seguenti: – la Cassazione ha richiamato le affermazioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, per cui la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi sussiste in presenza di un concreto esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano; – spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela (ripristinatorie o risarcitorie) che l’ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall’esercizio illegittimo del potere e tra queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno; – se il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione su una domanda autonoma di risarcimento del danno in quanto nel termine stabilito non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti, allora la decisione del giudice amministrativo si presta a cassazione da parte delle Sezioni Unite, a norma dell’art. 362, primo comma, c.p.c. In definitiva, la Cassazione avverte la necessità, dopo le affermazioni contenute nella sentenza n. 1207/2006, di ribadire che c’è giurisdizione del giudice amministrativo ogni volta che si contesta l’esercizio di un potere amministrativo o si sostiene che c’è stato un cattivo uso del medesimo, salvo che si tratti di diritti incomprimibili : dove c’è un potere amministrativo, c’è l’interesse legittimo e la tutela dell’interesse legittimo non può che spettare al giudice amministrativo, a prescindere dalle tecniche e dagli strumenti di tutela utilizzati. Inoltre, esaminate e scartate le due tesi, quella “tutta civilistica” (ossia quella della proposizione di un’autonoma domanda risarcitoria innanzi al giudice ordinario, sostenuta dalla sentenza n. 1207/2006) e quella “tutta amministrativa” (ossia quella della pregiudiziale amministrativa), la Cassazione afferma la giurisdizione del giudice amministrativo sia quando la domanda risarcitoria è proposta autonomamente, sia quando è proposta unitamente alla (6) Rassegna Avvocatura dello Stato, 2006, I, 226. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181 domanda di annullamento, e, quindi, la fine del principio della pregiudiziale amministrativa, essendo compatibili tutela demolitoria e tutela risarcitoria. Infine, nelle citate ordinanze c’è un obiter dictum: se il giudice amministrativo si rifiuta di esaminare un’autonoma domanda risarcitoria sul presupposto che non è stato preventivamente richiesto l’annullamento del provvedimento amministrativo, allora tale pronuncia è assoggettabile a cassazione con rinvio da parte della Suprema Corte. Tale ultimo passaggio potrebbe generare contrasti tra le due Supreme Magistrature e non resta che attendere la reazione del Consiglio di Stato al nuovo orientamento della Corte di Cassazione, considerato che, per i giudici di Palazzo Spada, c’è il rischio concreto che la loro pronuncia possa essere assoggettata ad un controllo di merito operato dalla Corte di Cassazione. Dott. Francesco Spada(*) Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanze 13 giugno 2006 nn. 13659 e 13660 – Pres. aggiunto V. Carbone – P. G. P. Ciccolo – C.A. c/ Università degli Studi di Pisa e c/ F. E.; Pres. aggiunto R. Corona – P. G. V. Gambardella – Comune di Anagni c/ M. G., P. G. e P. D. «(Omissis) Considerato in diritto. «(Omissis) 10.- Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa è valso a rendere intelligibile quale si debba oggi considerare il punto d’arrivo nella ricerca della soluzione del primo degli aspetti segnalati all’inizio, ovvero in base a quali criteri si trovi oggi ad essere stabilito il riparto tra le giurisdizioni. Rilevano a questo fine due momenti, ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino considerata nel suo aspetto statico e gli effetti che l’ordinamento ricollega all’azione amministrativa una volta che questa sia esercitata. La tutela giurisdizionale contro l’agire illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte 1’ azione della pubblica amministrazione non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perchè a sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto. A questo fine, si ritiene che vada richiamato il principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2000, secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l’esercizio in concreto del potere amministrativo secondo le forme tipiche previste dall’ordinamento: ciò sia nella giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di annullamento. Il che non si verifica quando l’amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l’operare del soggetto pubblico sia ascrivibile a mera attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che 1’esercizio del potere non sia riconoscibile neppure come indiretto ascendente della vicenda. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Esemplificando, l’amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in cui l’azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29 luglio 1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l’integrità personale. Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del patrimonio del privato sia l’effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri, ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719): qui si è nell’ambito delle controversie meramente risarcitone già contemplate nell’art. 33, comma 2, del D.Lgs. n. 80 del 1998, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la sentenza n. 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è ravvisabile, più in generale, la reazione a meri comportamenti lesivi dell’amministrazione. Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione ordinaria le forme di occupazione usurpativa, caratterizzate dal tratto che la trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità manca affatto. E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a un bene, la cui destinazione ad opera di pubblica utilità si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta scadenza del suo termine d’efficacia. Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta come interesse legittimo, la tutela risarcitoria va chiesta al giudice amministrativo. Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si rinviene nella circostanza che oggetto della domanda non è l’annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno. Riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell’interessato è postulata come conseguenza di un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell’emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio. Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all’esercizio del potere, e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo (Ad. pl. 15 settembre 2005 n. 7), non di un diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione quella valutata dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti l’accesso al giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si considera che ad attrarre la fattispecie nell’orbita della sua giurisdizione possa valere la presenza di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel potere, in particolare, che si è manifestato nella dichiarazione di pubblica utilità. 11.- Resta da affrontare quello che all’inizio si è indicato come il secondo aspetto problematico della tutela del cittadino di fronte all’attività provvedimentale illegittima della pubblica amministrazione, ovvero la possibilità di domandare la sola tutela risarcitoria. Da quando nell’ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse legittimo, è emersa la questione se il privato si possa limitare a rivendicare per il diritto o l’interesse leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di tale domanda. 12.- Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul punto due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro. (Omissis) 17.- In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi suesposte (tutta civilistica e tutta amministrativistica) conducono ad una possibile diminuzione dell’effettività della tutela del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall’art. 24 Cost. Quella civili- 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO stica, perchè finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela giurisdizionale, per giunta secondo una direttrice che si allontana dalla regola del riparto. Quella amministrativistica, perchè rischia di assicurare all’interesse legittimo una protezione che comprime l’ambito della tutela risarcitoria riducendone, per modalità o contenuti, la portata. Essa altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con 1’ estendere 1’ area della giurisdizione amministrativa al di là della connessione con l’esercizio in concreto del potere pubblico. In una situazione del genere, l’osservazione secondo la quale il legislatore del 2000 ha opportunamente concentrato le forme di tutela dell’interesse legittimo in una sola sede giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza degli artt. 2 e 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, che configurano comunque a tutela del cittadino la giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui si faccia questione di un diritto civile o politico. II nostro sistema si basa appunto sull’art. 2907 c.c., cui fa riscontro l’art. 99 c.p.c, ed e un sistema di civil law, in cui il riconoscimento della posizione soggettiva da tutelare, cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), precede la tutela giurisdizionale. In un sistema del genere, l’art. 2 della legge del 1865 – secondo una lettura coerente con le disposizioni di cui al Titolo IV della Costituzione – costituisce, in definitiva, una norma di chiusura, che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela, quando altri valori di pari rilievo costituzionale non rendono legittimo il ricorso a diversi modelli di tutela. 18.- Quante volte si sia in presenza di atti riferibili, oltre che ad una pubblica amministrazione, a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l’atto sia capace di esplicare i propri effetti perchè il potere non incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere chiesta al giudice amministrativo. Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva. Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare allora il termine di decadenza pertinente all’azione di annullamento. 19.- A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa interpretazione delle norme attributive della giurisdizione e dall’altro renderne esplicite le conseguenze. Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcitoria, è venuta meno sul piano del diritto sostanziale la differenza tra le situazioni che nell’ordinamento trovano protezione. L’evoluzione dell’ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai diritti quanto al bagaglio delle tutele: come era stato per le situazioni di diritto soggettivo, di norma dotate, oltre che di tutela risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata dal diritto al risarcimento del danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria autonoma è stata affiancata alla tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni di interesse legittimo erano prima dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre conformata in modo da comprendervi il risarcimento del danno, che con l’annullamento non si può elidere. Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della funzione di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della pubblica amministrazione, un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione sui risarcimento del danno consente di riconoscere loro la portata di avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche solo in rapporto alla tutela risarcitoria autonoma. Ma ciò perchè, nel bilanciamento tra valori rilevanti sul piano costituzionale, è da riconoscere legittimità ad una norma che, mentre concentra la tutela giurisdizionale presso il giudice amministrativo, non reca pre- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183 giudizio alla tutela sostanziale delle situazioni soggettive sacrificate dall’agire illegittimo della pubblica amministrazione. D’altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per le situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della giurisdizione piena e quello di una tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta in rapporto alla tutela risarcitoria. Dalla premessa discende in modo necessario la conseguenza che il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento. Si può obiettare che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza 1’ esercizio dell’azione. Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo non potrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguale a quello cui è soggetta la domanda di annullamento, perchè ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall’esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione. Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all’avere affermato che l’art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda autonoma di risarcimento del danno. Tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l’illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento, né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. II giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene. P.Q.M. - La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, pronunciando sul ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo. (…)». 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185 Rilevabilità del giudicato esterno ed autonomia dei periodi di imposta nel giudicato tributario (Corte di Cassazione, SS.UU. sentenza 16 giugno 2006, n. 13916) Con la sentenza n. 13916/06, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affrontato il delicato – e più generale – tema della rilevabilità nel giudizio di legittimità del giudicato esterno intervenuto successivamente alla chiusura del giudizio di merito e la tematica – più specifica – relativa al giudicato nel processo tributario, con particolare riferimento al principio dell’autonomia dei periodi di imposta. Entrambe le statuizioni, ampiamente motivate, risultano quindi di particolare importanza (1). Il fatto – Con delibera (n. 95 del 25 luglio 1996) del Consiglio comunale di Verona veniva costituita l’AMIA (Azienda Municipale di Igiene Ambientale). Quest’ultima iniziava la sua attività di raccolta rifiuti per il suddetto Comune (e per altri Comuni limitrofi) dal 1 gennaio 1997. Nel periodo iniziale di attività l’Azienda assoggettava ad IVA anche le operazioni di raccolta rifiuti espletate per il Comune di Verona. Nondimeno, su indicazione del citato ente locale l’AMIA presentava apposita istanza di rimborso all’amministrazione finanziaria – ritenendo doversi applicare alla fattispecie de qua l’esenzione triennale di cui all’art. 66, comma 14 D.L. n. 331/93 (convertito in legge n. 427/93) – riguardo le fatture all’uopo emesse per l’anno 1997. Formatosi il silenzio rifiuto, l’Azienda adiva il giudice tributario che, tanto in primo che secondo grado, accoglieva la domanda attorea. Avverso la pronuncia della CTR l’amministrazione finanziaria proponeva ricorso per Cassazione, al quale resisteva con controricorso l’AMIA. A seguito di apposita istanza presentata da quest’ultima – originata dal passaggio in giudicato di pronunce giudiziali riguardanti la medesima causa petendi, relativa, tuttavia, a diversi periodi di imposta (anni 1998- 1999) – la Sezione Tributaria, cui era stata assegnata la trattazione della causa, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando (correttamente): in primo luogo un contrasto giurisprudenziale tra le diverse sezioni civili circa la rilevabilità del giudicato esterno formatosi in pendenza del giudizio di legittimità; in secondo luogo rilevando un contrasto (in realtà meramente apparente), (1) C. GLENDI, Giuste aperture al ne bis in idem in Cassazione ma discutibili estensioni del giudicato tributario extra moenia, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2006, 7, 557, secondo cui: “La recentissima sentenza n. 13196/06 è meritoriamente destinata a passare alla storia del diritto processuale in generale e rientra, con qualche minor merito, nella cronaca del diritto processuale in specie”. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO questa volta tutto interno alla stessa, circa la rilevanza del giudicato esterno – in materia tributaria – intercorso tra le stesse parti ma relativo ad annualità diverse dello stesso tributo o tributi diversi, pur in presenza dei medesimi presupposti fattuali. Rilevabilità del giudicato esterno (questione generale) – Con riferimento alla tematica, di portata generale nell’economia processualcivilistica, dell’anzidetta rilevabilità del giudicato esterno in sede di legittimità, le Sezioni Unite, ponendosi nel solco ermeneutico già tracciato con la (propria) precedente pronuncia n. 226/01, circa la sostanziale equiparazione del giudicato esterno al giudicato interno e contestuale rilevabilità d’ufficio di entrambi (2), ribadiscono la piena ed assoluta rilevanza dello stesso a prescindere da qualsivoglia fattore temporale. In tal guisa, quindi, le Sezioni Unite vengono a comporre il contrasto che si era sul punto creato, anche a seguito del precedente arresto più sopra citato (3), fornendo una lettura per così dire “elastica” della norma di cui all’art. 372 c.p.c. In primo luogo, infatti, hanno evidenziato che il divieto in esso contenuto non può che riferirsi a quei documenti che potevano essere prodotti nella fase di merito e non già, pena un’ingiustificata compressione del diritto di difesa – peraltro come noto costituzionalmente tutelato (art. 24 Cost.) –, a qualsivoglia documento successivamente venutosi a formare. In secondo luogo, inoltre, hanno chiarito come la documentazione comprovante la formazione del giudicato esterno rientra a pieno titolo nell’alveo dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso e del controricorso, la cui produzione è espressamente ammessa dall’art. 372 citato (4). Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite per giustificare tale ultimo assunto risulta pienamente condivisibile. Il giudicato, sia esso interno od esterno, non deve essere incluso nel fatto bensì, essendo destinato a fissare la “regola” del caso concreto, è da assimilarsi – pur non identificandosene tout court – agli elementi normativi. Si chiarisce, altresì, che il giudicato, nel quale si risolve la funzione primaria del processo – dello ius dicere –, non è patrimonio esclusivo dei diritti delle (2) Si parla a riguardo di “notevole forza maieutica della sentenza n. 226/01”. Per un’accurata ricostruzione della pronuncia in questione si veda O. FITTIPALDI, Preclusioni processuali e giudicato esterno: verso un disimpegno della Cassazione dalla teorica dell’eccezione?, in Corriere Giuridico, 2001, 11, 1462 ; M. IOZZO, Eccezione di giudicato esterno e poteri del giudice (anche di legittimità), in Foro It., 2001, 10, 2810. (3) Nel senso di riconoscere rilevanza al giudicato esterno formatosi dopo la conclusione del giudizio di merito – e quindi “allegato” per la prima volta in sede di legittimità – Cass., Sez. lav., n. 16376/03; Sez. III, n. 19772/03; Sez. Trib., n. 360/06. In senso contrario, invece, Sez. I, n. 11731/03; Sez. Trib., n. 13854/04. (4) Si legge testualmente: “la documentazione comprovante la formazione del giudicato esterno in tempi successivi alla conclusione del giudizio di merito (fa venire) a mancare un presupposto essenziale per la trattazione nel merito del ricorso”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187 parti; rispondendo, invece, ad un preciso ed assorbente interesse pubblico, consistente nella definizione delle liti, e per essa alla certezza del diritto. L’inesausta ricerca della verità, con il potenziale corollario di innumerevoli giudicati contrastanti, ben lungi dall’assicurare una maggiore tutela dei diritti dei cittadini, si risolverebbe in un pericoloso attentato alla sicurezza dei traffici ed alla certezza del diritto (5). Una siffatta interpretazione della norma di cui all’art. 372 c.p.c. (e dei principi generali in materia processuale) risulta oramai percorso obbligato – prosegue la Corte – giusta la cristallizzazione, ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, del principio del “giusto processo”, e con esso del canone della ragionevole durata, i quali impongono un controllo sulla ragionevolezza della vicenda processuale. Disconoscere l’efficacia vincolante di un giudicato esterno solo per il fatto che lo stesso sia stato prodotto – si badi incolpevolmente – per la prima volta in sede di legittimità significherebbe indugiare su letture formalistiche del disposto di cui all’art. 372 citato, senza, peraltro, valutarne correttamente la ratio essendi, volta a sanzionare (eventualmente) comportamenti negligenti delle parti durante lo svolgimento della vicenda processuale. Giudicato esterno ed autonomia dei periodi di imposta – Riconosciuta nei termini anzidetti la rilevabilità del giudicato esterno in sede di legittimità, si doveva stabilire se, con specifico riferimento al processo tributario, potesse riconoscersi efficacia vincolante ad un accertamento contenuto in una decisione – ovviamente con autorità di cosa giudicata – resa tra le stesse parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo ovvero, come nel caso sub judice, relativa alla verifica dei presupposti di fatto per usufruire di un’esenzione su un periodo di tre anni (1997/1999). Anche con riferimento a tale interrogativo la sezione tributaria aveva chiesto l’intervento dirimente delle sezioni unite, avendo registrato un contrasto interno alla stessa sezione specializzata. Nonostante siano state sollevate puntuali riserve sull’opportunità di una tale rimessione – essendo il contrasto prettamente interno ad una sezione specializzata all’uopo costituita – (6), si evidenzia come in realtà tale contrasto risultasse, ad un esame più approfondito, meramente apparente. Le pronunce che tendevano a negare la c.d. “ultrattività” dell’accer- (5) Con una recentissima pronuncia (n. 1052/07) le Sezioni Unite, sempre in materia tributaria, hanno avuto modo di ribadire – sebbene la quaestio controversa fosse diversa – la necessità di evitare il moltiplicarsi di controversie e, quel che più conta, di giudicati (potenzialmente) contrastanti. Nello specifico, componendo il contrasto sorto intorno l’interpretazione della norma di cui all’art. 14 D.Lgs. n. 546/92, in tema di litisconsorzio necessario nel processo tributario (si veda M. PISELLI, Il rischio di pronunce divergenti non garantisce il contribuente, in Guida al Diritto, 2007, 7, 57 ss.). (6) In toni fortemente critici C. GLENDI, Giuste aperture cit., secondo cui: “che senso ha l’esistenza stessa di una sezione tributaria se coloro che ne fanno parte non sono in grado di risolversi i loro conflitti interni. La loro impotenza a risolversi i conflitti interni equivale a la negazione della specialità che è stata alla base di questa istituzione”. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tamento riguardavano in realtà – come puntualmente rilevato da un’autorevole dottrina (7) – casi nei quali i fatti posti a base a fondamento dell’imposizione non erano in realtà unici con efficacia pluriennale ma fatti continuativi, da accertare anno per anno. Nonostante, quindi, le motivazioni di tali arresti contenessero affermazioni volte ad escludere l’efficacia del giudicato tributario al di fuori del periodo di imposta cui esso accede, le questioni di fatto dedotte in tali controversie non erano ontologicamente assimilabili. Appare quindi – sempre con tale autorevole dottrina – che le Sezioni Unite, più che risolvere un contrasto ermeneutico, si siano limitate a confermare la linea interpretativa (più o meno) costantemente adottata dalla giurisprudenza di legittimità e che, con opportune precisazioni, può ritenersi condivisibile. Sebbene le conclusioni – sebbene poco precise (come a breve si dirà) nella delimitazione dei confini di rilevanza del giudicato esterno – possano appunto considerarsi condivisibili, sono le premesse da cui esse sono tratte a dare adito a qualche dubbio. Se è innegabile, infatti, che al processo tributario vada riconosciuta una pari dignità e rilevanza rispetto al processo civile – con gli inevitabili corollari in termini di garanzie e principi processuali –, appare superflua e (quantomeno) opinabile l’asserzione, peraltro oggetto di ampi dibattiti in dottrina, (8) secondo cui il processo tributario, ben lungi dal risolversi in una mera impugnazione-annullamento, consisterebbe in una vera e propria impugnazione- merito. Opinabile (9) perché, come autorevolmente sostenuto (10), l’assunto secondo cui il processo tributario è volto all’accertamento della situazione sottesa all’adozione del provvedimento impugnato – con una valutazione che, quindi, accede al “merito” della controversia – non risulta affatto incompatibile con una struttura processuale di tipo impugnatorio. Anche nel giudizio di annullamento, infatti, il giudice conosce del rapporto di imposta, giustappunto mediante l’impugnazione del provvedimento adottato. La circostanza che si continui a considerare il processo tributario modellato su di una struttura impugnatoria non osterebbe, quindi, alla considerazione che l’accertamento operato dal giudice possa estendersi alla sottesa situazione di fatto, con le eventuali conseguenze in ordine alla vincolatività del giudicato su di esse. (7) TESAURO, Giudicato tributario cit., ove si registra una dettagliata rassegna delle sentenze allineate a tale interpretazione (Cass. n. 10280/00; 6883/01; 8658/01; 8709/03). (8) Per una ricostruzione completa si veda E. MANZON, I limiti oggettivi del giudicato tributario nell’ottica del giusto processo: lo swing-over della Cassazione, in Corriere Giuridico, 2006, 12, 1702. (9) In termini fortemente critici, invece, GLENDI, Giuste aperture cit., p. 558. (10) F. TESAURO, Giudicato tributario cit., p. 1174. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189 Superflua perché, come correttamente evidenziato (11), se si accede alla teoria – sposata nella sentenza in questione – della vincolatività del giudicato anche per le questioni pregiudiziali vagliate dal giudice, non vi è motivo per escludere che ciò valga anche nei processi di annullamento (12). Come in precedenza sostenuto, tuttavia, entrando nel merito della decisione annotata, possono rinvenirsi delle osservazioni che, previa opportuna precisazione, possono essere oggetto di generale condivisione. Tale precisazione concerne l’ambito di operatività dell’efficacia vincolante del giudicato esterno nell’economia di un altro processo relativo ad un diverso periodo di imposta. Sebbene sostanzialmente corretta, la disamina relativa alla problematica del principio di autonomia dei periodi di imposta – come potenziale ostacolo all’estensione di efficacia del giudicato esterno nel processo tributario – risulta essere, in realtà, un falso problema. Come autorevolmente osservato (13), infatti, il principio per cui ogni periodo di imposta è autonomo non significa che, nel determinare la base imponibile, si debba tener conto solo dei fatti di quel periodo. Vi sono, infatti, elementi fattuali che dispongono di una propria efficacia pluriennale e, come assolutamente incontrovertibile, una cosa è l’autonomia dei periodi di imposta, un’altra è la determinazione della base imponibile (14). Le problematiche potenzialmente ostanti alla rilevanza nel processo tributario del giudicato esterno non scaturiscono quindi dal citato principio di autonomia dei periodi di imposta. In presenza di un fatto realizzatosi in un determinato periodo di imposta – come ad esempio l’acquisto di un determinato bene – che, tuttavia, continua a produrre determinati effetti con riferimento ad una data imposta periodica, sarebbe assolutamente illogico non riconoscere efficacia vincolante al giudicato involgente l’accertamento dello stesso, solo perché riferito ad un diverso periodo di imposta. Queste, in estrema sintesi, sono le conclusioni cui (correttamente) pervengono le Sezioni Unite della Cassazione. È tuttavia necessaria una precisazione. L’assunto della Corte pare poter essere foriero di un eccessivo ampliamento dell’efficacia vincolante del giudicato esterno nella parte in cui riconosce tale possibilità anche a giudicati che abbiano accertato fatti “a carattere tendenzialmente permanente”. (11) Id. (12) Id., p. 1175: “Ciò che la teoria dell’annullamento esclude non attiene alla cognizione, ma all’esito del processo, che può consistere nell’annullamento totale o parziale dell’atto impugnato, e non nella (inaccettabile) formazione di un nuovo atto impositivo, di matrice giudiziale”. (13) F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. 2, VII ed., Torino, Giappichelli, 2005, p. 23. (14) Si possono citare gli esempi dell’acquisto di un bene ammortizzabile, le rimanenze finali di un periodo sono le giacenze iniziali del successivo. In realtà, come acutamente osservato (15), l’avverbio tendenzialmente mal si concilia con il principio di diritto espresso. Un fatto “tendenzialmente” permanente deve essere – per sua natura – successivamente accertato, giacché non “necessariamente” permanente. Si fa l’esempio, a riguardo, della residenza fiscale, della qualifica commerciale – peraltro portata (erroneamente) ad esempio nella sentenza de qua – e di altre situazioni che, benché potenzialmente permanenti, possono tuttavia mutare nel tempo e per le quali, dunque, non può certo valere il principio dell’efficacia ultrannuale del giudicato. In conclusione, quindi, deve precisarsi che la (riconosciuta) efficacia del giudicato esterno nel processo tributario deve essere circoscritta – pena un’ingiustificata ed illogica estensione del principio sotteso – all’accertamento involgente quei singoli fatti che, sebbene avvenuti in pendenza di un determinato periodo di imposta, producono effetti irreversibili o, comunque, ultrannuali, essendo a ciò improprio ogni generico riferimento a qualificazioni giuridiche o elementi preliminari della fattispecie. Dott. Valerio Balsamo Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 16 giugno 2006, n. 13916 – Pres. V. Carbone – Rel. R. Botta – Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate (Avv. dello Stato G. Albenzio) c/ A.M.I.A. Verona S.p.A. – Azienda municipale di igiene ambientale (Avv.ti C. Consolo, L. Manzi). «Svolgimento del processo – Dopo essere stata costituita, con delibera del Consiglio Comunale di Verona n. 95 del 25 luglio 1996, in azienda speciale ai sensi degli artt. 22 e 23, L. 142/1990, l’A. M. I. A. iniziò ad operare dal 1 gennaio 1997, svolgendo l’attività di raccolta rifiuti, e relativo trasporto alle discariche autorizzate, per il Comune di Verona e per i comuni limitrofi, nonché l’attività di spazzatura delle strade per il solo Comune di Verona. Nelle prime operazioni, l’A. M. I. A. assoggettò ad IVA anche i servizi svolti per il Comune di Verona, finché essa – su indicazione del medesimo comune che riteneva le prestazioni eseguite dall’A. M. I. A. esenti da IVA fino al terzo anno dell’esercizio successivo a quello di acquisizione della personalità giuridica, in applicazione dell’art. 66, comma XIV, D.L. 331/1993 (conv. con L. 427/1993) – chiedeva il rimborso dell’IVA. relativamente alle fatture emesse nei confronti dell’ente locale per l’anno 1997. Formatosi il silenzio rifiuto, l’A.M.I.A. ricorreva al giudice tributario che accoglieva l’impugnazione sia in primo che in secondo grado. Avverso la sentenza d’appello, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione con unico motivo. Resiste l’A. M. I. A. con controricorso, proponendo con il medesimo atto ricorso incidentale con unico motivo, relativamente alla disposta integrale compensazione delle spese di lite. 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (15) F. TESAURO, Giudicato tributario cit., p. 1176. Chiamata la causa innanzi alla Sezione Tributaria di questa Corte per l’udienza del 28 giugno 2005, il Collegio, con ordinanza n. 20035/05 depositata il 17 ottobre 2005 – vista l’istanza presentata dall’Azienda controricorrente con la quale veniva chiesta l’assegnazione della causa alle Sezioni Unite della Corte ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., allegando la sopravvenuta formazione di un giudicato sulla medesima questione oggetto del presente giudizio, ma relativamente al rimborso chiesto al medesimo titolo per gli anni 1998 e 1999 – rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite con riferimento al contrasto rilevato in seno alle diverse sezioni civili della Corte in ordine a) “alla rilevabilità e/o deducibilità del giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di legittimità”; e in seno alla sezione tributaria della medesima Corte in ordine b) “all’efficacia di giudicato esterno, in materia tributaria, dell’accertamento definitivo contenuto in decisione resa tra le stesse parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo o tributi diversi, pur in presenza dei medesimi presupposti fattuali”. La causa veniva, quindi, assegnata alle Sezioni Unite per essere chiamata all’odierna udienza. Motivazione – Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale in quanto proposti avverso la medesima sentenza. 1. Come già indicato in narrativa la presente causa è chiamata innanzi alle Sezioni Unite per la soluzione di un duplice contrasto verificatosi nella giurisprudenza della Corte in ordine alla rilevabilità (e deducibilità) del giudicato esterno nel giudizio di legittimità e all’efficacia (e, in caso positivo, ai limiti di efficacia) del giudicato esterno in materia tributaria. La soluzione delle situazioni di contrasto descritte dell’ordinanza di rimessione prevale ed è, quindi, necessariamente preliminare all’esame dei motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale: tali situazioni devono essere esaminate e risolte nello stesso ordine con il quale esse sono esposte nella richiamata ordinanza, avendo la prima – relativa alla rilevabilità del giudicato esterno nel giudizio di legittimità – carattere assorbente rispetto alla seconda – relativa all’efficacia del giudicato esterno in materia tributaria -, la quale, in caso di soluzione in senso negativo della prima, nemmeno dovrebbe essere affrontata. 2. Orbene, il contrasto giurisprudenziale in ordine alla rilevabilità (e deducibilità) del giudicato esterno nel giudizio di legittimità trova il suo fondamentale precedente e punto di avvio nella sentenza delle Sezioni Unite n. 226/2001 che ha affermato il seguente principio: “Poiché nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di Ufficio delle eccezioni, derivando invece la necessità dell’istanza di parte solo dall’esistenza di una eventuale specifica previsione normativa, l’esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’Ufficio, ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa qualora essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito. Del resto, il giudicato interno e quello esterno, non solo hanno la medesima autorità che è quella prevista dall’art. 2909 c.c., ma corrispondono entrambi all’unica finalità rappresentata dall’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, le quali non interessano soltanto le parti in causa, risultando l’autorità del giudicato, riconosciuta non nell’interesse del singolo soggetto che lo ha provocato, ma nell’interesse pubblico, essendo essa destinata a esprimersi – nei limiti in cui ciò sia concretamente possibile – per l’intera comunità. Più in particolare, il rilievo dell’esistenza di un giudicato esterno non è subordinato ad una tempestiva allegazione dei fatti costitutivi dello stesso, i quali non subiscono i limiti di utilizzabilità rappresentati dalle eventualmente intervenute rappresentanti dalle eventualmente intervenute decadenze istruttorie, e la stessa loro allegazione può essere effettuata in ogni stato e fase del giudizio di merito. Da ciò consegue che, in mancanza di IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191 pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia affermato la tardività dell’allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – e la legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito”. Partendo da questa assolutamente ragionevole “apertura” in ordine alla natura del giudicato esterno e alle connesse conseguenze sulla relativa deducibilità e rilevabilità ex officio nel giudizio di legittimità, la giurisprudenza della Corte, pur mantenendo fermo il principio affermato, si è poi divisa in ordine alla deducibilità e rilevabilità del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito (e al valore preclusivo da riconoscere alla disposizione di cui all’art. 372 c.p.c.) tra due orientamenti, uno favorevole ad ulteriori passi in avanti ed uno maggiormente prudente e preoccupato, invece, di rimanere entro più rigidi confini. 2.1. Nel primo senso si è posta la sentenza n. 16376/2003 della Sezione Lavoro di questa Corte, che ha ritenuto rilevabile nel giudizio di legittimità il giudicato esterno anche qualora esso “risulti da atti che siano stati prodotti per la prima volta in cassazione, purché il documento nuovo costituito dalla sentenza passata in giudicato si sia formato dopo l’esaurimento dei gradi di merito e venga prodotto con la notifica del ricorso per cassazione, non operando in tal caso la preclusione di cui all’art. 372 c.p.c., che vieta nel giudizio di legittimità il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi, atteso che altrimenti l’eventuale contrasto tra le due pronunzie potrebbe sostanziare i presupposti di un vizio revocatorio, causando un inconveniente incompatibile con il principio di rango costituzionale di economicità dei giudizi”. Nella stessa prospettiva si è collocata la sentenza n. 19772/2003 della Terza Sezione della Corte la quale, pur affermando che la disposizione di cui all’art. 372 c.p.c. preclude la produzione per la prima volta in sede di legittimità di atti da cui risulti la formazione del giudicato esterno nel corso del giudizio di merito, riconosce, poi, che siffatta preclusione non possa valere “qualora il giudicato non si sia formato nel corso del giudizio di merito e il documento serva per dimostrare che è venuto meno l’interesse alla proposizione del ricorso per tassazione”. Più di recente, la Sezione Tributaria di questa Corte con la sentenza n. 360/2006 , ritenuto che sia “denunciabile con ricorso per cassazione il contrasto rispetto ad un giudicato esterno intervenuto successivamente all’emanazione della sentenza impugnata al pari di quanto avviene per lo ius superveniens, ha proposto una “lettura elastica” dell’art. 372 c.p.c., in quanto ritenere preclusa l’acquisizione del documento comprovante la formazione del giudicato esterno successivamente alla conclusione del giudizio di merito “comporterebbe il grave inconveniente di consentire una pronuncia definitiva da parte (della) Corte, che potrebbe porsi in insanabile contrasto con il precedente, esponendo così la sentenza di cassazione al rischio di un vizio revocatorio”. 2.2. In senso contrario si è posta la sentenza n. 11731/2003 della Prima Sezione della Corte, la quale ha ritenuto irrilevante la circostanza che il giudicato si sia formato successivamente al giudizio di merito giacché la limitazione stabilita dall’art. 372 c.p.c. “è intrinseca alla struttura del giudizio di legittimità e, dunque, non è superabile”. Nella stessa prospettiva si è collocata la sentenza n. 13854/2004 della Sezione Tributaria della Corte, la quale ha ritenuto operante la preclusione derivante dall’art. 372 c.p.c. anche “nel caso di sopravvenienza del giudicato esterno dopo la proposizione del ricorso o del controricorso, tenuto 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO conto della peculiare struttura del giudizio di cassazione, incompatibile con l’attività di istruzione probatoria” (in senso adesivo, cfr. Cass. n. 4307/2005 in motivazione, nonché Cass. n. 3925/2002). 2.3. Le Sezioni Unite, pur riconoscendo che quest’ultimo orientamento sia mosso da legittime (ed apprezzabili) preoccupazioni, ritengono, tuttavia, che ad esso vada preferito il primo e debba essere, quindi, affermata la deducibilità e la rilevabilità nel giudizio di legittimità del giudicato esterno che si sia formato successivamente alla conclusione del giudizio di merito. Militano a favore di questa conclusione molteplici ragioni. Innanzitutto non può disconoscersi la notevole forza maieutica della sentenza n. 226/2001, con la quale queste Sezioni Unite hanno affermato tre importanti principi: a) il giudicato interno e il giudicato esterno hanno la medesima autorità e corrispondono entrambi all’unica finalità rappresentata dall’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, finalità cui è sotteso un interesse pubblico; b) l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’Ufficio; c) Il giudicato non deve essere incluso nel fatto e, pur non identificandosi nemmeno con gli elementi normativi astratti, è da assimilarsi, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, a tali elementi normativi. La conseguenza è che l’interpretazione del giudicato deve essere trattata piuttosto alla stregua dell’interpretazione delle norme che non alla stregua dell’interpretazione dei negozi e degli atti giuridici. Una volta assimilato il giudicato (interno o esterno, che esso sia) agli “elementi normativi” - assimilazione più volte confermata da queste Sezioni Unite le quali hanno ribadito che “il giudicato, essendo destinato a fissare la “regola” del caso concreto, partecipa della natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche” (Cass. S.U. nn. 23242 del 2005 e 5105 del 2003) – e rilevato che esso corrisponde non (solo) ad un interesse delle parti, ma (anche) ad un interesse pubblico, e, in verità, riduttivo limitare la deducibilità e rilevabilità del giudicato esterno solo all’ipotesi in cui il giudicato stesso si sia formato nel corso del giudizio di merito. Siffatta conclusione appare di maggior evidenza qualora si tenga conto – come si deve tener conto – della costituzionalizzazione dei principi sul “giusto processo” operata dalla nuova formulazione dell’art. 111 Cost. – soprattutto quello sulla “ragionevole durata del processo” -, i quali impongano un controllo sull’intrinseca ragionevolezza della procedura vincolandola a criteri di efficacia e di efficienza del “dire diritto”. Ciò esclude che siano legittimamente perseguibili linee interpretative che diano rilievo a formalismi superflui – non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive – che possano ostacolare soluzioni maggiormente, congrue all’obiettivo della “ragionevole durata”. Privilegiando questa chiave di lettura è agevole vedere come il giudicato sia uno dei presidi essenziali della “ragionevole durata”. in quanto, preclude, mediante la sanzione dell’irrevocabilità della decisione, una inesausta ricerca della verità in un “processo senza fine”. Di più, nel giudicato si risolve la funzione primaria del processo, che è quella di stabilire la “regola del caso concreto”, eliminando – mediante la stabilita della decisione – l’incertezza riguardo all’applicazione di una norma di diritto ad una specifica fattispecie: sicché, proprio perché assolve a questa fondamentale esigenza dell’ordinamento, il giudicato non è patrimonio esclusivo dei diritti delle parti, ma risponde ad un preciso interesse pubblico. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 193 Il canone di “certezza”, assicurato dal giudicato, trova compiuta espressione nel superiore principio del ne bis in idem, cui è orientato un sistema specifico di mezzi processuali – quali sono ad es. quelli predisposti dagli artt. 39 e 395 n. 3 c.p.c. – inteso ad evitare il formarsi (anche come semplice fattispecie di pericolo) di giudicati contrastanti. In questa prospettiva sarebbe non solo assurdo sotto il profilo del comune buon senso, ma anche contrario ai criteri di logicità ed economia cui deve essere costantemente orientata la vicenda processuale, imporre ad un giudice di pronunciare una sentenza che egli, nel momento della decisione, già sa essere in contrasto con il principio del ne bis in idem e potenzialmente destinata ad essere inutiliter data. Questa, e non altra, sarebbe la condizione nella quale si troverebbe la Corte di legittimità, qualora dovesse omettere – consapevolmente e (eventualmente) per effetto di una opzione esegetica (eccessivamente) formalista – di dare rilievo al giudicato esterno che si sia formato successivamente alla conclusione del giudizio di merito (o, persino, alla notifica del ricorso per cassazione, com’è nel caso di specie). Nel quadro di un orientamento giurisprudenziale che ha correttamente sancito – e proprio in funzione del rispetto del canone fondamentale del ne bis in idem e dei principi del giusto processo – la rilevabilità ex officio del giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di merito (tra tutte la già ricordata sentenza di queste Sezioni Unite n. 226/2001) ed ha ammesso – in ragione del rispetto dei medesimi principi – la produzione in sede di legittimità della documentazione comprovante la nullità della sentenza impugnata che derivi da giudicato interno per inammissibilità del ricorso in appello, in quanto tale sentenza, avendo deciso nonostante il giudicato formatosi, non è idonea a disciplinare il rapporto controverso e non è conforme alla fattispecie (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 18129/2005), sarebbe privo di ragionevoli giustificazioni stabilire l’irrilevanza del giudicato esterno solo perché esso si sia formato dopo la conclusione del giudizio di merito. L’esigenza da salvaguardare – garantire il ne bis in idem ed evitare la possibile formazione di giudicati contrastanti – rimane, con tutta evidenza, la stessa e l’unico motivo dell’operare diversamente sarebbe (irragionevolmente) costituita dal “fattore tempo”: il mero fatto, cioè, che il giudicato esterno sia sopravvenuto nella pendenza del giudizio in cassazione o comunque successivamente alla conclusione della fase di merito, circostanza che certamente non può addebitarsi ad alcuna delle parti in conflitto. Peraltro, la rilevabilità del giudicato esterno formatosi in pendenza del giudizio di cassazione si palesa essere il mezzo più efficace per la garanzia del ne bis in idem e atto a favorire una soluzione compatibile con una “ragionevole durata del processo”, rispondendo così ad un’interpretazione costituzionalmente conforme delle regole processuali. 2.4. All’affermanda rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito non è di ostacolo un supposto divieto di produzione della documentazione attestante la formazione del predetto giudicato (non potendo supplirvi la, peraltro assai spesso impossibile, scienza privata del giudice) che deriverebbe dall’art. 372 c.p.c.. La richiamata norma di rito non costituisce preclusione alla producibilità nel giudizio di cassazione della predetta documentazione in quanto: a) il divieto imposto dall’art. 372 c.p.c. è assoluto esclusivamente con riferimento ai documenti che potevano essere prodotti nella fase di merito e non lo sono stati (la documentazione comprovante la formazione del giudicato esterno in tempi successivi alla conclusione del giudizio di merito, per questo solo fatto non può rientrare nella suddetta categoria di documenti); 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO b) i documenti di cui la medesima norma di rito consente la produzione sono quelli attinenti alla nullità della sentenza impugnata e all’ammissibilità del ricorso o del controricorso: la documentazione comprovante la formazione del giudicato esterno in tempi successivi alla conclusione del giudizio di merito presenta caratteristiche che militano a favore della sua collocabilità in questa seconda categoria di documenti. In primo luogo, l’aver riconosciuto che il giudicato – in quanto espressione della regola iuris del caso concreto – è assimilabile agli “atti normativi” (cfr. la più volte citata Cass. n. 226/2001), già esclude che la produzione dei documenti che comprovino la formazione del giudicato successivamente alla conclusione del giudizio di merito possa trovare ostacolo nella disposizione di cui all’art. 372 c.p.c., dato che la produzione per la prima volta in sede di legittimità di atti a contenuto normativo è stata tradizionalmente riconosciuta possibile dalla giurisprudenza della Corte (cfr. Cass. n. 4823/2000 , 1102/1981 e 442/1979 circa la copia di un regolamento edilizio). In secondo luogo, questa Corte ha costantemente riconosciuto che “quando nel corso del giudizio di legittimità intervenga una transazione o altro fatto che determini la cessazione della materia del contendere, in tale fattispecie è ravvisabile una causa di inammissibilità del ricorso sia pure sopravvenuta – in ogni caso, idonea a consentire, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., la produzione del documento che ne comprovi la sussistenza – per essere venuto meno l’interesse della parte ricorrente ad una pronuncia sul merito dell’impugnazione” (Cfr Cass. n. 13565/2005; 11176/2004 ; 1205/2003 ; S.U. 368/2000). Orbene nel sopravvenire del giudicato esterno si viene a determinare nel giudizio di legittimità una situazione non dissimile, venendo a mancare un presupposto essenziale per la trattazione nel merito del ricorso: infatti, è stata già affermata, rispetto alla fattispecie sottoposta all’esame della Corte, la regola iuris la cui stabilità, in ragione del superiore interesse dell’ordinamento, e destinata a prevalere sulla pretesa di una delle parti ad ottenere l’affermazione per lo stesso caso di un diversa regola. In altri termini la regola iuris (del caso concreto) superveniens impone al giudice un dovere di conformarvisi, determinando nel giudizio pendente una situazione non dissimile da quella che comunemente si definisce con l’espressione “cessata materia del contendere”. La documentazione comprovante l’avvenuta formazione del giudicato esterno successivamente alla conclusione del giudizio di merito, proprio per le caratteristiche del giudicato di porsi come regola iuris del caso concreto, può essere prodotta in sede di legittimità nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., unitamente al deposito del ricorso, se si tratta di giudicato formatosi nella pendenza del termine di impugnazione, o in caso di formazione successiva alla notifica del ricorso, fino all’udienza di discussione prima dell’inizio della relazione, cioè nello stesso termine che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto ammissibile come l’ultimo utile per il deposito di documenti attestanti la legittimazione processuale (Cass., Sez. I, n. 15350/2000 e n. 5066/1997) o relativi all’ammissibilità del ricorso (Cass., Sez. Lav., n. 23321/2004 e n. 3736/2000). Tuttavia, dovrà, in ogni caso, essere assicurata la garanzia del contraddittorio e, pertanto, se la produzione del documento, attestante la formazione del giudicato esterno successivamente alla conclusione del giudizio di merito, dovesse aver luogo oltre il termine stabilito per il deposto delle memorie ex art. 378 c.p.c., la Corte – tanto più avvalendosi dei poteri riconosciutile dal comma 3 dell’art. 384 c.p.c., nella formulazione risultante dalla novella di cui al D.Lgs. n. 40/2006 (per i ricorsi cui tale novella sia applicabile), per il caso che debba essere posta a base della decisione una questione rilevabile d’Ufficio (e l’efficacia del IL CONTENZIOSO NAZIONALE 195 giudicato esterno è tra queste) – dovrà assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito in cancelleria di eventuali osservazioni. 2.5. Da ultimo, si deve osservare, in ordine alla deducibilità in sede di legittimità del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito, che non può valere, nel caso, quanto affermato nella già richiamata sentenza n. 226/2001 di queste Sezioni Unite, circa il fatto che l’eccezione di giudicato non possa essere dedotta per la prima volta in cassazione, attesa la non deducibilità di questioni nuove in sede di giudizio di legittimità. Questa affermazione, mentre conserva tutta la sua validità con riferimento alla fattispecie posta ad oggetto della predetta sentenza n. 226/2001 – ossia ad un giudicato esterno che si sia formato nel corso del giudizio di merito -, non è efficacemente replicabile nel caso che qui interessa – nel quale il giudicato esterno si assume essersi formato successivamente alla conclusione del giudizio di merito -, in quanto è “nuova” la questione che avrebbe potuto essere sollevata nel giudizio di merito e non lo è stata: orbene è più che ovvio che non poteva proporsi nel giudizio di merito l’eccezione relativa ad un giudicato che si sia formato solo dopo la conclusione di quel giudizio. 3. Affermata, quindi, per le ragioni esposte la deducibilità e rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito, con la possibilità di produrre nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., la relativa attestazione, a seconda dei casi, con il deposito del ricorso o fino all’udienza di discussione, diviene rilevante stabilire nel caso di specie se, in materia tributaria, possa attribuirsi efficacia di giudicato esterno all’accertamento definitivo contenuto in una decisione resa tra le stesse parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo o a tributi diversi pur in presenza dei medesimi presupposti di fatto. Anche su questo punto, l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite ha registrato un contrasto, stavolta tutto interno alla Sezione Tributaria della Corte, tra due orientamenti: un primo, che si fonda su alcune pronunce emesse da altre Sezioni della Corte in materie diverse da quella tributaria, favorevole a dare rilievo al giudicato esterno, un secondo, di segno negativo, giustificato dalla ritenuta autonomia dei rapporti d’imposta. 3.1. Nel primo senso, si sono pronunciate le sentenze della Sezione tributaria nn. 10280/2000 (sulla rilevanza del giudicato esterno formatosi relativamente ad altra annualità della medesima imposta), 6883/2001 (sulla rilevanza del giudicato esterno formatosi relativamente ad altra imposta) e 7506/2001 (che afferma il principio, pur escludendone l’applicazione nel caso concreto – accertamento di maggior reddito a carico della società e accertamento di maggior reddito a carico dei soci – per difetto di identità delle parti in entrambe le cause), che hanno riprodotto un principio affermato da altre Sezioni della Corte con riferimento al giudizio civile (la Sezione Lavoro, con la sentenza n. 15497/2003, la Sezione Terza, con le sentenze nn. 3795 e 9401 del 1999 e 5748/1988; la Sezione Prima, con la sentenza n. 7891/1995; la Sezione Seconda con le sentenze nn. 1564/1988 e 4807/1978): “In tema di giudicato, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo”. Questo stesso principio è riaffermato da altra sentenza della Sezione Tributaria – la n. 8658/2001 (sulla rilevanza del giudicato 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO esterno formatosi relativamente ad altra annualità della medesima imposta) – secondo cui la regola espressa dal predetto principio non trova deroga in caso di situazioni giuridiche di durata, giacché anche in tal caso l’oggetto del giudicato è un unico rapporto e non gli effetti verificatisi nel corso del suo svolgimento e conseguentemente neppure il riferimento al principio dell’autonomia dei periodi d’imposta può consentire un’ulteriore disamina tra le medesime parti della qualificazione giuridica del rapporto stesso contenuta in una decisione della Commissione Tributaria passata in giudicato”. 3.2. In senso contrario, si è pronunciata la sentenza n. 8709/2003 della medesima Sezione Tributaria, secondo la quale “nel sistema tributario, ogni anno fiscale mantiene la propria autonomia rispetto agli altri e comporta la costituzione, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi agli anni precedenti e successivi. Ne consegue che, qualora le controversie relative a diverse annualità d’imposta del medesimo tributo, ancorché concernenti questioni in tutto o in parte analoghe, siano separatamente decise con più sentenze (anziché con una sola, previa riunione dei relativi giudizi), ciascun giudizio mantiene la sua autonomia e la decisione ad esso relativa non è suscettibile di costituire cosa giudicata rispetto ai giudizi relativi alle altre annualità”. Un concetto analogo si trova espresso nella sentenza n. 14714/2001 della stessa Sezione, laddove si afferma che “nel contenzioso tributario, ai fini dell’applicazione dell’art. 395, n. 5, c.p.c. (richiamato dall’art. 64 D.Lgs. n. 546/1992), perché una sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente avente autorità di cosa giudicata, occorre che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che l’oggetto del secondo giudizio sia costituito dal medesimo apporto tributario definito irrevocabilmente nel primo, ovvero che in quest’ultimo sia stato definitivamente compiuto un accertamento radicalmente incompatibile con quello operante nel giudizio successivo; ne consegue che – posto che, ex art. 7 TUIR, l’imposta sui redditi è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma – non è configurabile il detto motivo di revocazione allorché il precedente giudicato si riferisca ad un’annualità di imposta sui redditi diversa dal periodo d’imposta considerato nell’impugnata sentenza”. In fattispecie non tributaria, a conclusioni (apparentemente) non dissimili sembra pervenire la sentenza n. 14593/2004 della Seconda Sezione secondo la quale “ricorre l’effetto preclusivo del giudicato esterno allorché tra il giudizio in corso e quello definito con sentenza inoppugnabile sussista una piena identità di causa pretendi e di petitum, il che non può verificarsi qualora siano azionati in giudizio due crediti diversi, sebbene relativi ad uno stesso rapporto che si protrae nel tempo, per la cui concreta realizzazione sono necessari due distinti titoli esecutivi”. 3.3. Queste Sezioni Unite ritengono sia da affermare la maggior correttezza del primo tra gli orientamenti descritti, sia pur con qualche ulteriore precisazione dovuta, in special modo, alla peculiarità della materia tributaria che poco si presta a generalizzazioni. 3.4. I problemi in realtà non sorgono in ragione di una supposta radicale diversità del processo tributario rispetto al processo civile, che anzi, come evidenzia la dottrina più consapevole, la legge di delega dalla qual è nata la disciplina del nuovo (ed ancor attuale) processo tributario aveva assunto, tra i criteri e i principi direttivi della riforma, proprio l’adeguamento del processo tributario al processo civile (e in questa direzione appare con chiarezza orientata ogni successiva evoluzione delle regole processuali). In particolare si è formato un consenso ormai quasi unanime sul fatto che il processo tributario non sia un “giudizio sull’atto” (da annullare), ma abbia, invece, ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo del contribuente: un giudizio che inevitabilmente si estende al merito e, quindi, anche all’accertamento del rapporto. La giurisprudenza di questa Corte, in IL CONTENZIOSO NAZIONALE 197 linea con siffatto orientamento, ha affermato che “l’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo la cognizione non solo dell’atto, come nelle ipotesi di “impugnazione annullamento”, orientate unicamente all’eliminazione dell’atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una cd. “impugnazione-merito”, perché diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva (nella specie) dell’accertamento dell’Amministrazione Finanziaria, implicante per esso giudice di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte; ne consegue che il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte” (così Cass. n. 3309/2004 ; in senso conforme cfr. Cass. nn. 614/2006; 4280/2001 ; v. altresì, Cass. nn. 28770/2005; 16171/2300). Sicché, una volta stabilito che il processo tributario non è (solo) un “giudizio sull’atto”, si deve escludere che il giudicato (salvo che il giudizio non si sia risolto nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione) esaurisca i propri effetti nel limitato perimetro del giudizio in esito al quale si è formato e se ne deve ammettere una potenziale capacità espansiva in un altro giudizio tra le stesse parti, secondo regole non dissimili – nei limiti della “specificità tributaria” – da quelle che disciplinano l’efficacia del “giudicato esterno” nel processo civile. D’altro canto, la tipicità del modello processuale tributario non può essere letta senza tener conto del fatto che la nuova formulazione dell’art. 111 Cost. fissa una direttiva generale cui deve rispondere l’interpretazione di ogni modello processuale secondo la regola del “giusto processo”, che impone tra l’altro la realizzazione della “effettività della tutela” (scopo cui precipuamente risponde l’efficacia del giudicato). 3.5. La maggiore difficoltà che, in materia tributaria, trova il riconoscimento di una “ultrattività del giudicato” – cioè della possibilità che l’accertamento relativo ad un periodo d’imposta “faccia stato” anche per i periodi successivi -, è dovuta alla “autonomia dei periodi d’imposta”, che troverebbe un sostegno normativo nella disposizione di cui all’art. 7, TUIR, secondo la quale l’imposta è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma”. In una prospettiva analoga, ma con riferimento alla diversa fattispecie delle obbligazioni contributive nel settore delle assicurazioni sociali obbligatorie, è stata negata la “configurabilità di un unico rapporto giuridico fondamentale che colleghi i debiti relativi dei diversi periodi”, con la conseguenza che “la diversità dei periodi, pur nell’identità dei termini di riferimento e di connotazione del rapporto, basta a far configurare quali diversi i rapporti contributivi ad essi afferenti, dal che segue, a sua volta, che il giudice del primo giudizio non può stabilire, con efficacia di giudicato, che le norme sottoposte al suo esame debbano essere interpretate nel senso che anche per il futuro l’obbligo contributivo si atteggia in un determinato modo, giacché per questa parte egli giudicherebbe di un rapporto del quale non si sono ancora realizzati tutti i presupposti, e pertanto in assenza di un interesse delle parti alla relativa pronunzia, configurandosi quindi una tale decisione, per questo aspetto, quale meramente interpretativa della astratta volontà di legge e non, come è invece coessenziale al giudicato, come affermazione della volontà di legge nel caso concreto” (Cass. S.U. n. 10933/1997). In realtà la disposizione di cui all’art. 7 TUIR – la quale riguarda, peraltro, le sole imposte sui redditi (e non ogni fattispecie di “imposta periodica”) e trova significative deroghe sul piano normativo (ad es. per quanto concerne il “riporto delle perdite”, il “riporto dei crediti d’imposta”, la “rettifica delle rimanenze”) – non ha alcuna decisività (come non l’ha, 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO per la specificità del tema affrontato, la precitata sentenza delle Sezioni Unite n. 10933/1997) rispetto alla soluzione del problema della “ultrattività del giudicato”, in quanto, come ha rilevato la dottrina più consapevole, l’autonomia delle obbligazioni d’imposta relative a periodi diversi vale solo a negare la possibile esistenza di un’unica obbligazione corrispondente a più periodi d’imposta o di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra le più obbligazioni sorte in periodi d’imposta diversi: ma non vale ad escludere, e ciò proprio per la “periodicità” di alcuni tributi, che possano esistere elementi rilevanti ai fini della determinazione del dovuto che siano comuni a più periodi d’imposta o che l’accertamento giudiziale del modo d’essere dell’obbligazione relativa ad un singolo periodo d’imposta possa implicare anche l’accertamento di una questione capace di “fare stato” (con forza di giudicato) nel giudizio relativo all’obbligazione sorta in un periodo d’imposta diverso. In altri termini, se è vero che l’autonomia dei periodi d’imposta comporta l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori del periodo considerato, è altrettanto vero che una siffatta indifferenza trova ragionevole giustificazione solo in relazione a quei fatti che non abbiano caratteristica di durata e che comunque siano variabili da periodo a periodo (ad es. la capacità contributiva, le spese deducibili): ma ben vi possono essere – ed effettivamente vi sono – elementi costitutivi della fattispecie a carattere (tendenzialmente) permanente, in quanto entrano a comporre la fattispecie medesima per medesima pluralità di periodi di imposta. Così lo sono, ad es., le qualificazioni giuridiche (che individuano vere e proprie situazioni di fatto) – “ente commerciale”, “ente non commerciale”, “soggetto residente”, “soggetto non residente”, “bene di interesse storico-artistico”, ecc. – assunte dal legislatore quali elementi “preliminari” per l’applicazione di una specifica disciplina tributaria e per la determinazione in concreto dell’obbligazione per una pluralità di periodi d’imposta (a valere, cioè, fino a quando quella qualificazione non sia venuta meno fattualmente – ad es. trasformazione dell’ente non commerciale in ente commerciale – o normativamente). A questa tipologia di “elementi preliminari”, possono essere ascritti anche la “categoria e la rendita catastale” e la “spettanza di un’esenzione o agevolazione pluriennale”. 3.6. È innegabile che tali elementi – per la loro caratteristica di eccedere il limitato arco temporale del “periodo d’imposta” assunto dalla norma tributaria per la determinazione del dovuto, rimanendo costanti per più periodi, e per la loro pregiudizialità nella costituzione della medesima fattispecie tributaria oggetto del giudizio relativo ad ogni singolo periodo d’imposta – possono essere oggetto di accertamento e l’eventuale giudicato formatosi in un giudizio relativo ad un periodo di imposta può (e deve) avere efficacia preclusiva nel giudizio relativo al medesimo tributo per altro periodo d’imposta. Altrimenti si verrebbe a porre in discussione lo stesso principio di effettività della tutela, alla cui asseverazione risponde la c.d. “efficacia regolamentare del giudicato” (e del giudicato tributario, in particolare), in base alla quale il primo giudicato – stante il suo contenuto precettivo che eccede la definizione del “segmento di rapporto” oggetto specifico del singolo giudizio e assume il valore di regola dell’agire futuro delle parti, così realizzando l’interesse protetto dalla situazione giuridica accertata in giudizio – è idoneo a condizionare ogni successivo giudizio, immutata restando la situazione fattuale e normativa. Ciò vale tanto più con riferimento ai summenzionati “elementi preliminari” nella costituzione della fattispecie tributaria – ad es., come si è già detto, le “qualificazioni giuridiche” -, i quali, per la loro strutturale propedeuticità (o strumentalità) al riconoscimento di un determinato diritto, sono naturalmente correlati ad un interesse protetto che ha il carattere della durevolezza e, quindi, all’efficacia regolamentare del giudicato che su di essi si sia for- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 199 mato. Ciò esclude, peraltro, che il giudicato relativo ad un singolo periodo d’imposta sia idoneo a “fare stato” per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica: non ad ogni statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì, come conviene un’autorevole dottrina, solo a quelle che siano relative a “qualificazioni giuridiche” o ad altri eventuali “elementi preliminari” rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo. In buona sostanza, si tratta di evitare un’eccessiva enfatizzazione della autonomia dei periodi di imposta, privilegiando la possibile considerazione unitaria del tributo (periodico) dettata dalla sua stessa ciclicità, nel rispetto, sul piano sostanziale, del principio di ragionevolezza e, sul piano processuale, del principio della effettività della tutela. Si tratta ancora una volta di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario il quale, al di là delle soluzioni specifiche relative al caso concreto dibattuto in giudizio, è destinato ad essere, per gli elementi della fattispecie che a questo fine rilevino, norma agendi, cui dovranno conformarsi tanto l’amministrazione quanto il contribuente – stretti da un vincolo procedimentale di collaborazione nella determinazione del tributo che corre tra i poli della dichiarazione (e possibile autoliquidazione) e del controllo (ed eventuale accertamento-rettifica) – per la individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi di imposta. Gli elementi rispetto ai quali opera l’efficacia regolamentare del giudicato tributario sono quelli, e solo quelli, che abbiano un “valore condizionante” per la valutazione e la disciplina di una pluralità di altri elementi della fattispecie e per la produzione degli effetti previsti dalla norma (o, secondo il linguaggio utilizzato da altra dottrina, quegli elementi che costituiscano “i referenti per l’applicazione di specifiche discipline”). 4. Tornando ora al caso oggetto del presente giudizio, si può osservare che esso concerne una fattispecie di pretesa esenzione pluriennale che sarebbe stabilita dall’art. 66, comma 14, D.L. 331/1993, convertito con legge 427/1993, a norma della quale “nei confronti delle società per azioni e delle aziende speciali istituite ai sensi degli artt. 22 e 23 della legge 8 giugno 1990, n. 142, nonché nei confronti dei nuovi consorzi costituiti a norma degli artt. 25 e 60 della medesima legge si applicano, fino al termine del terzo anno dell’esercizio successivo a quello rispettivamente di acquisizione della personalità giuridica o della trasformazione in aziende speciali consortili, le disposizioni tributarie applicabili all’ente territoriale di appartenenza”. Nella fattispecie si tratterebbe dell’esclusione dalla soggezione ad IVA, come per i comuni, della prestazione di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani svolta da un’azienda speciale (nel caso, la controricorrente e ricorrente incidentale) per il primo triennio di attività. 4.1. Non rileva discutere in questa sede del fatto se una siffatta “esenzione” spettasse o meno all’A. M. I. A. per il Comune di Verona, in quanto è stato accertato, con sentenza passata in giudicato, che la esenzione effettivamente spettava all’A. M. I. A. per gli anni 1998 e 1999, laddove la sentenza qui impugnata l’ha negata per l’anno 1997 (primo anno del triennio della supposta esenzione). Orbene, tenuto conto di quanto dapprima si è detto in ordine all’efficacia del giudicato tributario nell’ambito dei tributi periodici (con le cui caratteristiche le “esenzioni o agevolazioni pluriennali” hanno una evidente correlazione), va considerato che in questo tipo di esenzioni o agevolazioni il tempo costituisce un elemento referente della fattispecie. Invero la “pluriennalità” assume carattere costitutivo dell’esenzione o agevolazione in quanto il relativo arco temporale di estensione è stabilito in ragione di una considerazione unitaria di un insieme di periodi di imposta, trattati sostanzialmente come una sorta di “maxiperiodo”: sicché la disciplina dell’esenzione o agevolazione ha 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO riguardo non a singole obbligazioni considerate isolatamente, ma ad un complesso unitario di periodi di imposta, con la ineludibile conseguenza che, una volta accertato con sentenza passata in giudicato che spetti al contribuente il diritto all’esenzione per un segmento dell’arco temporale di estensione dell’esenzione medesima, tale sentenza avrà necessariamente efficacia di giudicato esterno in un diverso giudizio nel quale eventualmente si dibatta della spettanza del diritto per un’altro segmento del medesimo arco temporale. L’agevolazione, infatti, o spetta per l’intero spazio pluriennale per il quale è data (nel caso, il primo triennio di attività dell’azienda speciale) e che nella fattispecie agevolativa è assunto come elemento unitario, o non spetta affatto. Pertanto, alla luce delle surriportate considerazioni, va affermato che, nel caso di specie, è rilevabile – ex officio e sulla base della documentazione acquisita agli atti nel pieno rispetto del contraddittorio tra le parti – il giudicato esterno formatosi successivamente alla notifica del ricorso per cassazione relativamente al riconoscimento – per gli anni 1998 e 1999 – della spettanza all’A. M. I. A. dell’esenzione pluriennale dall’IVA per il primo triennio di attività di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani per il Comune di Verona; va affermato, altresì, che tale giudicato, per la caratteristica unitaria dell’arco temporale di estensione dell’agevolazione considerata, ha effetto anche per l’anno oggetto del presente giudizio (il 1997), che rappresenta il primo del triennio iniziale di esercizio da parte dell’A. M. I. A. dell’attività agevolata e per il quale spetta, quindi, l’esenzione de qua (come per il 1998 e il 1999). 5. Il ricorso principale proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate poiché finalizzato a porre in discussione la questione relativa alla spettanza dell’esenzione che risulta coperta dal giudicato esterno dedotto da parte controricorrente, deve essere, pertanto, rigettato. Rigettato deve essere anche il ricorso incidentale proposto dall’A. M. I. A. per il Comune di Verona, relativo al solo capo della compensazione delle spese, in quanto nella specie, da un lato, non risulta violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa e, dall’altro, non risultano addotte dal giudice di merito ragioni palesemente o macroscopicamente illogiche e tali da inficiare, per la loro inconsistenza o evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale. La “novità della questione”, che il giudice di merito assume come motivazione della disposta compensazione delle spese, non presenta le suddette caratteristiche e si sottrae, pertanto, al sindacato della Corte. La rilevanza e la difficoltà delle questioni risolte con il presente giudizio giustifica la compensazione delle spese anche per quanto concerne la fase di cassazione. P.Q.M. – La Corte Suprema di Cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa le spese. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 maggio 2006». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 201 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tesi a confronto sull’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato (Tribunale di Torino, sezione dei giudici per le indagini preliminari, ordinanza 26 giugno 2006; Tribunale di Milano, sezione decima, 3 marzo 2005). Francesco Carrara, nelle prime pagine del suo Programma del corso di diritto criminale, sosteneva che “al delitto è essenziale la genesi del fatto da una volontà intelligente, la quale non è che nell’uomo”, pertanto “il soggetto attivo primario del delitto non può essere che l’uomo; solo, in tutto il creato che come fornito di volontà razionale sia ente dirigibile”. L’assunto potrebbe risultare irrealistico in un mondo, come il nostro, in cui le società, o comunque gli enti collettivi indubbiamente agiscono e nel quale la criminalità delle associazioni illecite e gli illeciti delle associazioni (1) destano maggiore allarme sociale. Il pensiero di Carrara, tuttavia, esprime le più profonde radici della nostra tradizione penalistica, informata al principio societas delinquere non potest, rappresentando altresì un certo disagio, non alieno a settori disciplinari estranei al diritto punitivo, nei quali non risulta sempre agevole distinguere l’universitas degli universi, ossia l’ente collettivo dai singoli membri che lo compongono. È significativo che la Corte di Cassazione, in base all’assunto che per gli enti personificati non sia ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patema d’animo, abbia in un primo tempo negato, con specifico riferimento all’equa riparazione prevista dalla legge n. 89/01, la reintegrazione del cosiddetto danno morale soggettivo (cfr. ex plurimis Cass. civ. 2 agosto 2002, n. 11952). La constatazione di un difforme orientamento della CEDU, che poneva sullo stesso piano persone fisiche e giuridiche con riguardo alla possibilità di ottenere la riparazione del danno non patrimoniale derivante dalla irragionevole durata del processo, ha indotto i giudici di legittimità ad un ripensamento e ad accordare espressamente il ristoro dei danni non patrimoniali correlati all’insorgere di turbamenti di natura psichica. È stato rilevato, a sostegno del mutato indirizzo, che le persone giuridiche “hanno una soggettività transitoria e strumentale, in quanto le situazioni giuridiche loro imputate sono destinate a tradursi… in situazioni giuridiche riferite ad individui persone fisiche, e che, quindi, nella personalità giuridica non deve essere ravvisato lo statuto di un’entità diversa dalle persone fisiche, ma una particolare normativa avente pur sempre ad oggetto relazioni tra (1) PALAZZO, Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 418 s. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 203 uomini (in tal senso Cass. 26 ottobre 1995 n. 11151 e 12 dicembre 1995, n. 12733). Per detta ragione non si dubita che alle persone giuridiche possono essere imputati stati soggettivi legati al possesso di qualità psichiche tipicamente umane, come quelli di buona o mala fede, ovvero le situazioni connesse alla volontà degli atti o degli effetti di questi, come il dolo o la colpa” (così Cass. 21 luglio 2004, n. 13504). L’opzione interpretativa adottata sembra risentire della teoria finzionistica della persona giuridica elaborata dal Savigny, ma non è questa la sede per riaccendere la polemica, forse irresolubile e probabilmente di esclusivo interesse teorico, fra realtà o finzione dell’ente collettivo. Ai fini del presente scritto ci si limita a rilevare che il D.Lgs. n. 231/01 sancisce de facto il superamento del principio societas puniri non potest. Accanto alle responsabilità dell’individuo la novella profila una responsabilità autonoma dell’ente collettivo, distinta dal reato-presupposto commesso dall’agente-persona fisica. Sebbene prima facie il ricorso alla sanzione amministrativa come strumento punitivo contro gli enti collettivi induca a ritenere che il legislatore del 2001 non abbia superato le tradizionali posizioni, la letteratura penalistica maggioritaria ha inteso la responsabilità “amministrativa” introdotta dalla novella quale una sorta di formula nominativa, di etichetta adottata dal legislatore al mero scopo di evitare alla radice ogni possibile contrasto interpretativo con l’art. 27 Cost.(2). A sostegno dell’opzione criminalistica depongono la competenza giurisdizionale, che è stata devoluta al giudice penale, contrariamente alla scelta operata, con riferimento alle sanzioni amministrative punitive, dalla legge n. 689/81, e l’introduzione di un sistema di norme, di inequivocabile matrice penalistica, che si completa, ex art. 34 D.Lgs. cit., nel richiamo alla disciplina del codice di procedura penale del 1988. Come detto, però, sotto il profilo nominalistico, l’infrazione dell’ente collettivo costituisce un illecito amministrativo. È, dunque, apparentemente agevole sostenere che, siccome il D.Lgs. n. 231 del 2001 non introduce un illecito penale, l’ente non potrà essere chiamato a rispondere delle conseguenze civilistiche di un reato che non può commettere. Pertanto potrà essere citato esclusivamente in qualità di responsabile civile ai sensi degli artt. 83 s. c.p.p. La questione merita una più attenta analisi. Giova riportarsi al dato normativo che, per la verità, non consente univoche soluzioni e si presta, anzi, a suffragare opposte soluzioni. Il Tribunale di Milano, nella pronuncia sotto pubblicata (3), dopo avere evidenziato, per escludere la costituzione di parte civile, l’assenza nel (2) Per tutti PALIERO, Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere (et puniri) potest, in Corr. gir., 2001, 845. (3) In senso conforme Trib. Milano, ord. 9 marzo 2004, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 1333, con nota critica di GROSSO, Sulla costituzione di parte civile nei confronti degli enti col204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO provvedimento di riforma di una norma corrispondente all’art. 1 85 c.p., rileva che: – l’art. 54 del D.Lgs. cit., nel disciplinare il sequestro conservativo di beni facenti capo all’ente, individua il P.M. come unico titolare della richiesta in deroga a quanto disposto dall’art. 316, II c., c.p.c.; – l’art. 69 D.Lgs. cit. prevede solo l’applicazione all’ente delle sanzioni amministrative e la condanna al pagamento delle spese processuali, con esclusione di ogni riferimento alla decisione sulle questioni civili; – l’art. 58 della novella non prevede, a differenza dell’art. 408, II c., c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere alla archiviazione del procedimento. Peraltro una diversa interpretazione, sostenuta da autorevole dottrina (4) e confortata dall’ordinanza del Tribunale di Torino 26 giugno 2006, ammette la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente collettivo. Viene dedotto a fondamento della tesi proposta che: – la costituzione di parte civile non costituisce altro che l’esperimento della pretesa aquiliana nascente da un illecito per il quale è competente il giudice penale. A ciò non si oppone l’art. 185 c.p., specificazione dell’art. 2043 c.c., per il quale certamente non è invocabile il divieto di analogia giacché non viene a costituire norma penale, pur essendo prevista dal Codice Rocco, ma civile in quanto disciplina la responsabilità risarcitoria; – le norme di chiusura del provvedimento di riforma del 2001 prevedono, nel procedimento relativo a illeciti amministrativi dipendenti da reato, l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale (art. 34) nonché l’applicazione delle disposizioni relative all’imputato in quanto compatibili (art. 35); – gli artt. 12 e 17 del decreto prevedono la riduzione della sanzione pecuniaria e l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive nel caso che l’ente abbia risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso. Esaminate le opposte argomentazioni, vi è motivo di dubitare che una scelta fondata sul dato normativo sia del tutto appagante. L’annosa problematica in esame è forse risolvibile rifacendosi alla natura giuridica della responsabilità dell’ente. Ne consegue che il rispetto del nomen juris esclude la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente, diversamente l’adesione all’opzione penalistica ammette l’azione civile. Pare decisiva, ai fini della scelta, la considerazione che, nella fattispecie, l’interesse tutelato dall’intervento del legislatore del 2001 è costituito dal lettivi chiamati a rispondere ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 davanti al giudice penale; Trib. Torino, ord. 13 novembre 2004; Trib. Milano, ord. 25 gennaio 2005, tutte pubblicate sulla rassegna giurisprudenziale del sito in rete della Rivista della responsabilità amministrativa delle società e degli enti, www.rivista231.it. (4) GROSSO, op. ult. cit, 1335 s. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 205 bene giuridico del reato-presupposto della responsabilità dell’ente. Coincidendo i beni giuridici tutelati, pare contraddittorio che il legislatore individui nella condotta umana un reato e, di contro, un’infrazione amministrativa per l’ente collettivo (5). Sul punto, in attesa che si consolidi un orientamento giurisprudenziale univoco, rilevato che, in un recente intervento della Cassazione (6), i giudici di legittimità hanno chiaramente enunciato che il D.Lgs. n. 231 del 2001 viene a “sancire la morte del dogma societas delinquere non potest” in quanto “ad onta del nomen juris, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale, forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale, di rango costituzionale (art. 27 Cost.)”, sembra opportuno interrogarsi su come affrontare, dalla parte del soggetto offeso, un procedimento ex D.Lgs. n. 231/01. È stato notato che citazione del responsabile civile e costituzione di parte civile presuppongono responsabilità differenti (7). L’una indiretta, per fatto altrui, ai sensi dell’art. 2049 c.c., in ragione del rapporto che lega l’imputato all’ente; la seconda diretta con riguardo all’autonoma responsabilità del soggetto collettivo a titolo di illecito amministrativo dipendente da reato. Effettivamente si tratta di illeciti distinti da cui può derivare un differente pregiudizio. È da ritenere, tuttavia, che, quanto meno nella maggior parte dei casi, dalla condotta lesiva origini un unico danno la cui riparazione non può essere richiesta due volte, pena una eccessiva richiesta risarcitoria rispetto al detrimento effettivamente subito. Conviene, in ogni caso, intraprendere le iniziative giudiziarie più idonee ad assicurare l’effettivo ristoro della persona offesa e forse occorre non abdicare alle prerogative processuali riconducibili alle profilate differenti responsabilità, e dunque costituirsi parte civile nei confronti dell’agente-persona fisica, contestualmente citando come responsabile civile l’impresa, nonché costituirsi parte civile nei confronti del soggetto collettivo. L’utilità di citare in qualità di responsabile civile l’ente trae fondamento dall’eventualità che, all’esito del giudizio, l’imputato persona fisica possa essere condannato e, di contro, assolto l’ente collettivo per l’illecito “amministrativo dipendente da reato”. Peraltro, la valutazione di opportunità sulla costituzione di parte civile nei confronti dell’ente è giustificata ove si consideri la fattispecie in cui il (5) Sia consentito fare rinvio per ulteriori e più specifiche considerazioni a VIGNOLI, La controversa ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato, in Resp. amm. soc. enti, 2006, n. 3, 19 s. (6) Cass., Sez. II pen, 20 dicembre 2005-30 gennaio 2006, n. 3615, in Guida dir., 2006, n. 15, 59 s., con commento di GALDIERI, L’assenza di un vantaggio economico non esclude l’applicazione delle sanzioni. (7) GROSSO, op. ult. cit, 1335 s. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO reo-persona fisica non venga identificato (art. 8 D.Lgs. cit.), pur essendo, oltre ogni ragionevole dubbio, comprovato che l’evento lesivo sia riconducibile all’attività d’impresa e si possa muovere all’ente un rimprovero con contestuale condanna del soggetto organizzato. Dott. Francesco Vignoli (*) Tribunale di Torino, sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari, ordinanza 26 giugno 2006 – Giud. A. Salvatori. «(…) Quanto all’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti di un ente chiamato a rispondere quale responsabile amministrativo ai sensi del D.Lgs. 231/01, sembra opportuno prendere le mosse dal profilo strettamente civilistico della questione, posto che la costituzione di parte civile nel processo penale altro non è se non l’esperimento od il trasferimento davanti al giudice penale del giudizio relativo alla responsabilità ordinariamente azionabile davanti al giudice civile. Secondo l’impostazione tradizionale, la responsabilità civile di un ente poteva essere ancorata al disposto dell’art. 2049 c.c.. Tale norma, che come è noto prevede la responsabilità in capo al padrone o al committente per un fatto illecito del dipendente o del commesso, consentiva già prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 231/01, l’esercizio nel processo penale delle pretese civili nei confronti dell’ente per danni cagionati dal reato realizzato dalla persona fisica, attraverso lo strumento della citazione del responsabile civile ex artt. 83 e ss. c.p.p.. Il D.Lgs. 231/01 non ha lasciato la situazione immutata. Invero, a prescindere dalla natura (amministrativa, penale, tertium genus) degli illeciti qualificati dalla legge come “amministrativi dipendenti da reato”, non può essere superato il dato incontrovertibile dell’introduzione mediante il D.Lgs. 231/01 di una nuova ipotesi di illecito. Posto che l’art. 2043 c.c. prevede che “qualunque fatto illecito” che cagiona ad altri un danno obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno, ne consegue che, a seguito del D.Lgs. 231/01, il danneggiato deve ritenersi legittimato ad adire il giudice civile anche per ottenere dall’ente il risarcimento dei danni che sono scaturiti dalla realizzazione degli illeciti amministrativi ad esso riconducibili. Alla responsabilità indiretta dell’ente, che trae la propria fonte nell’art. 2049 c.c., si è aggiunta, pertanto, una responsabilità diretta dell’ente stesso ex art. 2043 c.c.. Va ancora segnalato che, in base alla nuova disciplina più volte richiamata, la competenza a giudicare su questa nuova ipotesi di illecito spetta al giudice penale. Appare coerente con il sistema ritenere che, in assenza di una esplicita esclusione, anche per tale pretesa civile – originata dal combinato disposto della disciplina del D.Lgs. 231/01 e dall’art. 2043 c.c. – debba valere il principio generale, sancito dagli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., secondo cui l’azione civile può essere iniziata o trasferita nel processo penale. Tali norme, che stabiliscono rispettivamente che “ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto da quello commesso” e che “l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale dal sogget- (*) Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale di Milano. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 207 to al quale il reato ha arrecato danno nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”, non appaiono infatti ostative alla possibilità per il danneggiato di far valere la propria pretesa risarcitoria nel procedimento, che si svolge davanti al giudice penale, relativo all’accertamento della responsabilità dell’ente. Al contrario, non può non rilevarsi come il D.Lgs. 231/01, pur qualificando espressamente come amministrativa la responsabilità degli enti, nel dettare la specifica disciplina applicabile alla materia riferisca ripetutamente tale responsabilità al “reato”; la circostanza che, a prescindere dalla natura della stessa, si tratti di una forma di responsabilità “da reato”, fornisce un aggancio letterale non irrilevante al contenuto dell’art. 185 c.p. Inoltre, la corretta e sistematica interpretazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. – i quali, si ribadisce, sanciscono, in modo chiaro con riferimento alla competenza del giudice penale esistente al momento della loro promulgazione, un principio di portata generale – non può prescindere dalla novità rappresentata dalla sopravvenuta attribuzione al giudice penale anche della competenza a giudicare degli illeciti previsti dal D.Lgs. 231/01. Per mera completezza, si rileva che, ove non si ritenesse di addivenire a tale interpretazione estensiva, nel caso di specie dovrebbe farsi ricorso all’analogia – pacificamente ammissibile posto che l’art. 185 c.p. rappresenta una norma che, sebbene prevista nel codice penale, non è una norma penale, ma una norma civile (costituente una specificazione dell’art. 2043 c.c.), mentre l’art. 74 c.p.p. è una norma processuale – al fine di evitare una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni simili. Su tali basi, le disposizioni del codice di procedura penale e le disposizioni processuali relative all’imputato che consentono la costituzione di parte civile – richiamate dagli artt. 34 e 35 del D.Lgs. 231/01 – appaiono pienamente compatibili e dunque applicabili anche al procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato. A fronte delle argomentazioni sopra accennate, non appaiono decisivi i rilievi che sono stati posti a fondamento di decisioni di merito di segno opposto (cfr. Trib. Milano ordinanza 9 marzo 2004 gip Forleo; Trib. Milano ordinanza 25 gennaio 2005 gip Tacconi; Trib. Torino 13 novembre 2004 gip Perelli). Si ribadisce l’irrilevanza della natura della responsabilità dell’ente, in quanto la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. può fondarsi anche su un mero illecito amministrativo. Si evidenzia, poi, che il legislatore del D.Lgs. 231/01 ha espressamente formulato un generale richiamo alle norme del codice di procedura penale e alla disciplina applicabile all’imputato mediante l’art. 34 e l’art. 35 all’evidente fine di evitare una gravosa riproposizione dell’intera disciplina codicistica. Tale scelta, che appare ampiamente giustificata dalla esigenza di non appesantire inutilmente la disciplina di legislazione speciale, consente di agevolmente superare gli argomenti che fanno leva sulla mancata previsione nella Sezione II del Capo III “soggetti, giurisdizione e competenza” della parte civile (differentemente da quanto avviene nel libro I del c.p.p. in cui vi è compiutamente disciplinata la detta parte), sull’assenza di previsione o mancato espresso richiamo dell’istituto della costituzione di parte civile e delle disposizioni concernenti la condanna ai danni e alle spese relative all’azione civile. Per quanto concerne l’art. 54 relativo al sequestro conservativo, laddove non solo non prevede alcun potere in capo alla parte civile ma, nel richiamare espressamente la disciplina del sequestro conservativo del c.p.p., con riferimento all’art. 316 c.p.p. limita il richiamo al relativo quarto comma, omettendo il comma secondo (ossia quello che consente la richiesta anche alla parte civile sui beni dell’imputato o del responsabile civile) ed il comma terzo (che stabilisce che il sequestro richiesto dal P.M. giova anche alla parte civile), la specificità e puntualità dei riferimenti potrebbe far ritenere effettivamente non colmabile tale lacuna ai sensi dell’art. 34. Tuttavia, ciò dimostrerebbe esclusivamente la volontà 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO legislativa di introdurre una specifica deroga – che appare giustificata dalla particolare attenzione mostrata dal legislatore (e resa palese dal disposto dell’art. 15 in materia di commissario giudiziale) alle esigenze pubbliche e alle ripercussioni sull’occupazione – alla disciplina generale in materia di sequestro, ma non implica necessariamente che si sia voluta introdurre una analoga deroga ai principi generali in materia di parte civile. Peraltro tale argomento – che dalla esclusione della possibilità per la parte civile di richiedere il sequestro conservativo deduce la impossibilità della costituzione stessa nel procedimento relativo all’accertamento degli illeciti di cui al D.Lgs. 231/01 – sembra provare troppo in quanto coerentemente se ne dovrebbe dedurre non soltanto l’impossibilità di costituirsi pare civile nei confronti dell’ente, ma addirittura la impossibilità di citarlo quale responsabile civile. Altrettanto non risolutive le ragioni che si fondano sulla completa assenza di riferimenti alla persona offesa o alla parte civile nell’art. 58 (che non prevede, come invece l’art. 408 comma 2 c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere alla archiviazione del procedimento), posto che si tratta di una procedura decisamente più snella, drasticamente difforme da quella codicistica, tanto da non prevedere neppure l’intervento del giudice. Del tutto irrilevante il ragionamento che si fonda sul disposto dell’art. 61 comma 2 e sulla mancata previsione della indicazione della persona offesa dal reato nel decreto che dispone il giudizio nei confronti dell’ente, tenuto conto che tale norma – in perfetta aderenza con la tecnica legislativa sopra menzionata – non prevede neppure, contrariamente all’art. 429 c.p.p., che venga indicata la denominazione dell’ente, il giudice competente, l’indicazione del giorno, del luogo e dell’ora della comparizione. P.q.m. (…) rigetta tutte le altre eccezioni di esclusione delle parti civili ed ammette le restanti costituzioni di parte civile». Tribunale Ordinario di Milano, sezione decima, 3 marzo 2005. «II Tribunale, premesso che: – con decreto 30 aprile 2004 il G.U.P. del Tribunale di Milano ha disposto il rinvio a giudizio di vari soggetti-persone fisiche per reati di corruzione e di concussione, nonché il rinvio a giudizio della M. C. s.r.l. per l’illecito amministrativo previsto dagli artt 5 e ss. D.Lgs. 231/01 in relazione al reato di corruzione propria contestato ad A. E. e V. P., nei cui confronti si era separatamente proceduto; – nella prima udienza dibattimentale (7 ottobre 2004) il Tribunale ha disposto la separazione degli atti relativi alla M. C. s.r.l. e il relativo procedimento è stato assegnato a questo Collegio; – nella successiva udienza del 2 dicembre 2004 l’Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), a mezzo del procuratore speciale e difensore Avv. Nicola D’Angelo, ha depositato atto di costituzione di parte civile nei confronti della M. C. s.r.l., chiedendone la condanna, in relazione agli illeciti alla stessa ascritti (o “ai diversi illeciti... ritenuti dall’Autorità Giudiziaria”), al risarcimento dei danni patrimoniali ed extrapatrimoniali derivati all’INAIL “in conseguenza dei fatti in relazione ai quali è stato chiesto e disposto il giudizio”; analoga costituzione di parte civile, l’INAIL, aveva operato nell’udienza preliminare, ma il G.U.P., con provvedimento 9 aprile 2004, l’aveva ritenuta e dichiarata inammissibile; – il difensore della M. C. s.r.l. ha chiesto che anche in questa sede sia dichiarata l’inammissibilità della costituzione di parte civile; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 209 – il P.M. ha chiesto che sia affermata l’ammissibilità della costituzione, essendo ravvisatole la legittimazione passiva della società a risarcire in via autonoma il danno; sentite le parti e visti gli atti, a scioglimento della riserva formulata nell’udienza 2 dicembre 2004, osserva quanto segue. Il presente procedimento concerne esclusivamente l’illecito contestato alla società M. C. s.r.l. ex artt. 5 e seguenti del D.Lgs. n. 231/01. Il citato decreto, emanato in forza della delega contenuta nell’art. 1 della legge 29 settembre 2000 n. 300, disciplina la responsabilità “delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica” in dipendenza da reati commessi, a loro vantaggio o nel loro interesse, da persone che rivestono posizioni “apicali” o da loro “sottoposti”. Si tratta di una responsabilità espressamente definita – sia nello stesso decreto, sia, ancor prima, nella legge delega -”amministrativa” (non penale), come “amministrativi” (non penali) sono definiti gli illeciti cui essa consegue (art. 1 D.Lgs. n. 231/01) e “amministrative” le sanzioni per questi comminabili (art. 9 D.Lgs. cit.). Il decreto legislativo non contempla una norma corrispondente all’art. 185 c.p.; in nessun punto è positivamente affermato che gli illeciti in questione sono fonte di un obbligo di risarcimento e, laddove si parla della “responsabilità patrimoniale dell’ente” (art. 27), si fa cenno solo all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria”. Vero è che nel secondo comma del medesimo articolo si afferma che “i crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi hanno privilegio” “sui crediti dipendenti da reato” (ed è solo “a tal fine” che la sanzione amministrativa pecuniaria viene equiparata alla “pena” pecuniaria), ma detta previsione non pare in contrasto con quanto sopra osservato, atteso che essa stessa evidenzia la diversità della fonte dei crediti considerati (da illecito amministrativo da reato). Il dettato dell’art. 185 c.p. neppure risulta riproposto in relazione all’obbligo di “restituzione” ed elementi di segno contrario non sono ravvisabili nella disposizione di cui all’art. 19 del decreto – il quale prevede la confisca nei confronti dell’ente “del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato” – in quanto appare evidente che la norma si riferisce al “danneggiato” dal reato (non dall’illecito amministrativo) e che la previsione – la quale, peraltro, diversamente da quanto stabilito per la confisca, non ammette la restituzione per equivalente – si limita a disciplinare la diversa destinazione da dare al bene materiale, prezzo o profitto del reato, che, altrimenti, sarebbe comunque oggetto di confìsca. All’assenza di una norma di diritto ‘sostanziale’ fa riscontro l’assenza di disposizioni che, in materia ‘processuale’, analogamente a quanto previsto dall’art. 74 c.p.p., prevedano e disciplinino la legittimazione e l’esercizio dell’azione civile nel procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Detto procedimento è oggetto del Capo III del D.Lgs. n. 231/01, la cui Sezione seconda, relativa ai soggetti, pone norme in ordine all’individuazione dell’Autorità competente a conoscere degli illeciti amministrativi, alla partecipazione dell’ente al procedimento (ivi comprese le ipotesi di contumacia) e alla figura del difensore dell’ente, ma, diversamente dal Libro I del codice di procedura penale (pure relativo ai soggetti), non contiene alcun cenno all’istituto della costituzione di pare civile. Quest’ultima non è mai menzionata in tutto il decreto, neppure in tema di misure cautelari (artt. 45 e segg.) di disciplina delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare (artt. 55 e segg.), di procedimenti speciali (artt. 62-64); non nella disciplina del giudizio (artt. 65 e segg.), laddove, in tema di condanna (art. 69), prevede solo l’applicazione all’ente delle sanzioni amministrative e la condanna al pagamento delle spese processuali, con esclusione di ogni riferimento alla decisione sulle 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO questioni civili, ampiamente trattate, invece, dal codice di procedura penale; non in tema di impugnazioni (artt. 71-73). Orbene, benché l’art. 34 D.Lgs. n. 231/01 stabilisca che nel procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano le norme dello stesso Capo III del decreto, nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del D.Lgs. n. 271/89 (disposizioni dì attuazione del c.p.p.), non pare che, in tema di costituzione di parte civile, il silenzio del legislatore delegato sia riconducibile ad implicito richiamo alle norme processual-penalistiche, né pare che tali norme siano compatibili con l’impianto e le espresse previsioni del decreto in esame. In tal senso militano numerose disposizioni che, nel disciplinare istituti o “momenti procedurali” presenti anche nel codice di procedura penale, significativamente non contemplano la persona offesa (né la persona offesa dal reato, né una ipotetica persona offesa dall’illecito amministrativo), ovverosia il soggetto che, più di ogni altro, potrebbe presentar veste di danneggiato, con conseguente interesse per le sorti del procedimento. Così, esemplificativamente, l’art. 55 del decreto, in tema di annotazione dell’illecito amministrativo, stabilisce che l’annotazione sul registro di cui all’art. 335 c.p.p. è comunicata all’ente o al suo difensore che ne faccia richiesta negli stessi limiti in cui è consentita la comunicazione delle iscrizioni della notizia di reato alla persona alla quale il reato è attribuito; non è, dunque, prevista la comunicazione a persona offesa, espressamente richiamata, invece, nell’art. 335, co. 3, c.p.p. L’art. 58 del decreto, in tema di archiviazione, non prevede alcun avviso alla persona offesa della determinazione del P.M. di procedere all’archiviazione degli atti, diversamente da quanto stabilito nell’art. 408, comma 2, c.p.p.; vero è che l’istituto presenta connotazioni differenti da quello disciplinato dal codice di procedura penale, ma la diversità dell’Autorità Giudiziaria competente a disporre l’archiviazione (qui il P.M. anziché il G.I.P., significativamente, quanto alla natura dell’azione, a fronte del disposto dell’art. 112 Cost.) non pare rilevante in questa sede alla luce delle finalità della prevista comunicazione del decreto di archiviazione al procuratore generale presso la corte d’appello, suscettibile di dar luogo a nuovi accertamenti e ad una diversa decisione. L’art. 61 del decreto, in tema di contenuto del decreto disponente il giudizio, diversamente dall’art. 429 c.p.p., non prevede l’indicazione né della persona offesa, né delle altre parti private (e dunque anche la parte civile) diverse dal soggetto che viene rinviato a giudizio. Di particolare rilievo è, poi, l’art. 54 del decreto, in tema di sequestro conservativo. Analogamente a quanto previsto dall’art. 316 c.p.p., la norma in questione stabilisce che il sequestro possa essere richiesto dal P.M. se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della sanzione (nel 316 c.p.p., pena) pecuniaria, delle spese del dissequestro conservativo possa essere anche formulata dalla parte civile a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato, mentre l’art. 54 D.Lgs. n. 231/01 non solo non ripropone espressamente tale statuizione, non solo non prevede il sequestro su richiesta della parte civile a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dall’illecito amministrativo, ma, nel richiamare l’art. 316 c.p.p. fa esclusivo riferimento al quarto comma (e “in quanto applicabile”), omettendo sia il secondo comma ( richiesta della parte civile), sia il terzo comma (“Il sequestro disposto a richiesta del pubblico ministero giova anche alla parte civile”). Tutto ciò evidenzia che si è in presenza di una precisa scelta del legislatore di non prevedere, nel procedimento per l’illecito amministrativo dipendente da reato, la possibilità di costituzione di parte civile in quanto, da un lato, il tenore letterale dell’art. 54 citato esclude che le ulteriori previsioni dell’art. 316 c.p.p. possano trovare ingresso in virtù IL CONTENZIOSO NAZIONALE 211 del richiamo alle norme del codice di procedura penale ex art. 34 dello stesso decreto e, dall’altro, risulterebbe del tutto illogico che, una volta ritenuta ammissibile la costituzione di parte civile, la stessa venisse privata di uno degli strumenti di maggior rilievo finalizzato ad assicurare le garanzie del soddisfacimento delle sue pretese. Le considerazioni sin qui esposte portano a ritenere inammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente cui sia contestato un illecito amministrativo ex D.Lgs. n. 231/01. A diversa conclusione non pare si possa pervenire in ragione di quanto osservato dalla difesa dell’INAIL e dal P.M. Inconferente risulta, in primo luogo, il richiamo all’art. 8 del decreto, laddove stabilisce che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile. Tale norma, invero, non incide sulla natura e sul contenuto della responsabilità dell’ente ed anzi conferma la diversità di quest’ultima dalla responsabilità dell’autore del reato, con i conseguenti riflessi in ordine all’applicabilità del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. che all’autore del reato fanno riferimento. Inconferente risulta, ancora, il richiamo agli artt. 13 (sanzioni interdittive applicabili nel caso in cui l’ente abbia tratto dal reato un profìtto di rilevante entità e il reato sia stato commesso da soggetti in posizione “apicale”) e 5 (inversione dell’onere della prova nel caso di reato commesso da soggetti in posizione “apicale”) del decreto. È indubbio, invero, che il D.Lgs. n. 231/01 abbia introdotto una responsabilità diversa da quella, per fatto altrui, prevista dall’art. 2049 (che da luogo alla possibilità di essere citato quale responsabile civile nel procedimento penale a carico dell’imputato) e pure diversa da quella disciplinata dall’art. 6 legge n. 689/81, ed è altresì vero che, nel sistema delineato dal D.Lgs. n. 231/01, l’ente risponde per un fatto proprio, ma tale fatto, appunto, non è un reato, la sua responsabilità non è penale e dunque il richiamo alle citate norme non modifica quanto in precedenza osservato. Quanto agli artt. 12 e 17 del decreto – i quali prevedono la riduzione della sanzione pecuniaria e l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive nel caso, tra l’altro, che l’ente abbia risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso – va pienamente condiviso quanto già osservato dal G.I.P. Si tratta, certamente, di norme volte ad incentivare condotte riparatorie, ma non tali da confortare l’assunto di una diretta legittimazione passiva dell’ente rispetto all’azione civile del danneggiato dal reato in un procedimento che ha per oggetto un fatto diverso, un illecito amministrativo. E che tali articoli facciano riferimento al danno cagionato dal reato (non dall’illecito amministrativo) risulta chiaro dal tenore testuale degli stessi e, quanto all’art. 17, dalla sua rubrica (“Riparazione delle conseguenze del reato”) e dalla collocazione della previsione nel suo più ampio contenuto, concernente tutti gli aspetti rilevanti per la sussistenza dell’illecito amministrativo (commissione di un reato ad opera di uno dei soggetti considerati/risarcimento; carenze organizzativo-gestionali/eliminazione delle carenze; reato commesso nel suo interesse o vantaggio/messa a disposizione del profitto). Considerazioni analoghe valgono per l’art. 65 (termine per provvedere alla riparazione delle conseguenze del reato) che prevede la possibilità di una sospensione del processo se l’ente chiede di provvedere alle attività di cui all’art. 7 e dimostra di essere stato nell’impossibilità di effettuarle prima. In conclusione e riassuntivamente, non solo il D.Lgs. n. 231/01 non prevede in alcun punto la costituzione dì parte civile o la parte civile tout court, non solo pone norme che appaiono escludere tale istituto nell’ambito del procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, ma, altresì, qualifica espressamente come illecito amministrativo il fatto fonte di responsabilità, anch’essa amministrativa, il che esclude l’applicabilità degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che al reato ed all’autore dello stesso fanno riferimento. P. Q. M. Dichiara inammissibile la costituzione di parte civile dell’Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) nei confronti della M. C. s.r.l. e, per l’effetto, ne dispone l’esclusione. Milano, 3 marzo 2005». 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 213 Modalità di svolgimento di una procedura di gara a trattativa privata, a seguito della formulazione da parte di una delle imprese invitate di un’offerta qualificabile come “nuova” e non già “migliorativa”. (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 2 ottobre 2006 n. 5745) La trattativa privata rappresenta una procedura prevista e disciplinata originariamente dall’art. 6 R.D. n. 2440 del 1923 e caratterizzata da ampia discrezionalità non solo nella scelta del contraente, ma anche nella negoziazione del contenuto del rapporto contrattuale, sebbene subordinatamente alla ricorrenza di “speciali ed eccezionali circostanze”, la cui mancanza comporta l’illegittimità dell’intera procedura “qualora la preferenza accordata a tale sistema di scelta del contraente si traduca in un provvedimento non rispondente ad una interpretazione oggettiva dei requisiti di necessità ed urgenza richiesti dalla normativa vigente”(Consiglio di Stato, sez. IV, 5 luglio 2002, n. 3697 in Foro Amm. C.D.S., 2002, 1639). Al riguardo il Consiglio di Stato (sez. V, decisione n. 546 del 10 maggio 1999), con riferimento all’art. 267 del T.U. di cui al R.D. 14 settembre 1931, n. 1175, ha specificato che tale norma “consente di dare in concessione pubblici servizi (nella specie trattasi di erogazione gas metano) a trattativa privata, ma solo in presenza di “circostanze speciali” che, però, non possono coinvolgere esclusivi aspetti di carattere tecnico-economico in quanto ciò sottrarrebbe le Amministrazioni al confronto concorrenziale in tutti i casi in cui le stesse fossero in grado di individuare soggetti disposti ad offrire il servizio a condizioni verosimilmente più favorevoli rispetto ad altri operatori. Pertanto la norma citata deve essere interpretata in senso restrittivo e conforme all’attuale orientamento del legislatore, inteso a privilegiare il confronto concorrenziale tutte le volte in cui vi ostino fatti oggettivamente impeditivi; con la conseguenza che, non diversamente dalle ipotesi di appalti di lavori o servizi, anche nel caso delle concessioni di pubblici servizi il ricorso alla trattativa privata deve ritenersi circoscritto in limiti ristretti e coincidenti con l’impossibilità, per la Pubblica Amministrazione, di far ricorso a pubbliche gare in ragione dell’estrema urgenza nel provvedere, ovvero in relazione alla sussistenza di presupposti d’ordine tecnico tali da impedire, se non al prezzo di costi sproporzionati, la ricerca di altre soluzioni basate sul previo confronto concorrenziale”. Si è giunti anche ad affermare (Consiglio di Stato, sez. V, decisione n. 500 del 28 aprile 1999) che “Il Comune non può affidare il servizio di acquedotto con il sistema della trattativa privata quando non sussistano giustificazioni in ordine alle circostanze speciali che lo consentono, non essendo a tal fine ex se sufficiente il fatto che il Comune stesso partecipi al capitale societario con una quota del tutto esigua”. 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nel rispetto dei previsti limiti applicativi, la discrezionalità riservata alla Pubblica Amministrazione con la concessione di ampi spazi di intervento ai fini della negoziazione di uno o più termini del contratto ha trovato il proprio contrappeso nell’effettiva partecipazione anche del privato alla determinazione del contenuto contrattuale (cfr. Corte di Cassazione, S.U., 5 dicembre 1995, n. 12523, in Foro Amministrativo, 1996, 1802), elemento questo che caratterizza e distingue più di ogni altro tale operazione rispetto alle procedure concorsuali in cui la disciplina del rapporto viene predisposta unilateralmente dall’Amministrazione appaltante (cfr. Repertorio degli Appalti Pubblici, a cura di Luca R. Perfetti, 2005, vol. II). In proposito il Consiglio di Stato (sez. V, decisione n. 90 del 29 gennaio 1999) ha statuito che “L’Amministrazione che stabilisce di affidare a trattativa privata, previa gara officiosa, un servizio, nella specie quello di tesoreria, è svincolata dalla puntuale osservanza delle norme che disciplinano, in modo rigido, le ordinarie procedure concorsuali di scelta del contraente (asta pubblica, licitazione privata, appalto concorso), essendo titolare di un potere di apprezzamento assai ampio, subordinato soltanto al rispetto dei vincoli procedimentali e sostanziali prestabiliti, di volta in volta, dalla stessa Amministrazione ed ai generalissimi principi di imparzialità e di correttezza che governano ogni manifestazione dell’attività dei soggetti pubblici”. In virtù delle circostanze di eccezionalità ed urgenza, e dunque del loro carattere derogatorio rispetto agli altri metodi selettivi concorsuali, in più occasioni la giurisprudenza ha posto a carico dell’Amministrazione un pregnante onere motivazionale, congruo e dettagliato, in ordine alla sussistenza di dette circostanze, che giustifichi in concreto il ricorso alla trattativa privata (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. V, 24 ottobre 2002, n. 5860; sez. V, 10 giugno 2002, n. 3208). Anche per quanto attiene agli appalti di servizi, l’applicazione della trattativa privata è stata influenzata dalle medesime esigenze, inducendo il legislatore nazionale a recepire pressoché integralmente la normativa contenuta nella direttiva 92/50 CEE. Aciò aggiungasi che la trattativa privata coinvolge, oltre la sfera di autonomia dei due contraenti (privato e pubblico), un più vasto ambito di interessi e valori di rilievo costituzionale, quali la trasparenza e il buon andamento ex art. 97 Cost., la salvaguardia della libertà di concorrenza e degli assetti di mercato, la libertà di iniziativa economica, con conseguente “attitudine lesiva della sfera giuridica di coloro rimasti estranei alla contrattazione e interessati all’osservanza delle forme dell’evidenza pubblica”(Consiglio di Stato, sez. V, 10 aprile 2000, n. 2079, in Foro amm., 2000, 1289). E’ stato in tal senso specificato che “L’attività preordinata all’affidamento di contratti pubblici, secondo il modulo della trattativa privata, non è riconducibile all’esercizio dell’autonomia negoziale propria dei soggetti privati, ma presenta connotazioni di rilievo pubblicistico, manifestate nell’adozione di atti amministrativi, sindacabili dal giudice amministrativo, in quanto lesivi di interessi legittimi” (Consiglio di Stato, sez. V, 24 dicembre 2001, n. 6377, in Foro Amministrativo 2001, 3184; T.A.R. Lazio, sez. I, 21 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 215 giugno 2001, n. 5542, in Foro Amministrativo 2001; Consiglio di Stato, sez. V, 3 febbraio 1999, n. 112, in Foro Amministrativo 1999, 340). La sindacabilità della scelta operata dall’Amministrazione di avvalersi della procedura in questione trova un limite nella circostanza che il privato partecipi alla trattativa senza esprimere formali riserve sul metodo adottato, il quale, pertanto non potrà in un secondo momento “dolersi della scelta dell’Amministrazione di avvalersi di quella specifica procedura, costituendo tale comportamento acquiescenza al provvedimento di indizione di tale tipo di gara” (T.A.R. Toscana, sez. I, 15 aprile 2003, n. 1456, in Foro Toscano, 2003, 391). A ciò aggiungasi che la giurisprudenza amministrativa ha individuato posizioni di interesse legittimo oltre che in capo a quei soggetti che siano stati invitati a presentare un’offerta, anche in capo a quelli che abbiano in precedenza intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione, ovvero che risultino già titolari di un rapporto contrattuale, nei confronti dei quali corrisponde un adeguato onere motivazionale in merito al loro eventuale mancato interpello (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 maggio 1995, n. 498, in Consiglio di Stato 1995, I, 843; sez. IV, 17 febbraio 1997, n. 125, in Urbanistica e Appalti, 1997, 906). Passando ad esaminare lo svolgimento dei procedimenti di aggiudicazione degli appalti pubblici, occorre premettere che alcuni dei sistemi di affidamento dei contratti in questione sono qualificati dalla previsione di un «subprocedimento di preselezione o di prequalifica», volto appunto alla selezione, tra le imprese che hanno avanzato apposita domanda di partecipazione alla gara e sulla base dei soli requisiti (morali, finanziari, tecnici ed organizzativi) di ammissione dagli stessi attestati, di quelle che l’amministrazione aggiudicatrice intende invitare alla fase selettiva vera e propria, i.e. quella finalizzata alla valutazione comparativa delle offerte (cfr. M. PROTTO, Il nuovo diritto europeo degli appalti, in Urbanistica e Appalti, 7/2004, 755; G. RIGA, Bandi di gara e lettere di invito, in App. Urb. Edil., 1/2004, 35; M. GATTI, Gli appalti pubblici di servizi e forniture, 2004; A. NOBILE, Gli appalti pubblici nei settori speciali. La disciplina comunitaria concernente le pubbliche forniture nonché gli appalti pubblici di servizi e di lavori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni, trasposta nell’ordinamento giuridico italiano, 2001). Tanto premesso, la “lettera-invito” è l’atto amministrativo endoprocedimentale che conclude il subprocedimento preselettivo, caratteristico delle procedure ristrette di scelta del contraente (licitazione privata e appalto-concorso), ma anche delle procedure negoziate assimilabili a quelle ristrette (trattativa privata previa gara informale, previa pubblicazione di bando e previa istituzione di un sistema di qualificazione). La lettera-invito assolve, congiuntamente al bando, la funzione di lex specialis di gara, le cui regole non possono essere disattese neppure nel caso in cui risultino formulate incongruamente, salva la possibilità, in tale ipotesi, di fare ricorso ai poteri di autotutela e al rinnovo del procedimento; non senza considerare che l’esercizio di tali ultimi poteri è tanto più opportuno 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO quanto meno consistente è lo stato di avanzamento della selezione e, quindi, l’affidamento generato sulla regolare conclusione della stessa (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 1° ottobre 2003, n. 5712, in Foro Amministrativo- C.d.S., 10/2003, 3041). I destinatari delle lettere sono selezionati attraverso le domande di partecipazione alla gara (licitazione privata e appalto-concorso) o tra gli iscritti in appositi elenchi (licitazione privata semplificata nonché procedure ristrette e trattativa privata previa istituzione di un sistema di qualificazione) o, ancora, in base a informazioni ricavate dal mercato (trattativa privata previa gara informale) (cfr. E. MAURO, Lettera-invito). Alla lettera-invito si ritengono applicabili le norme sull’interpretazione dei contratti (artt. 1362 ss. c.c.), nei limiti della loro compatibilità con la natura amministrativa dell’invito (T.A.R. Puglia, sez. I, 12 dicembre 1994, n. 1259, in Foro Amm., 6/1995, 1372). Al riguardo giova evidenziare che la giurisprudenza privilegia il “criterio letterale”. Illuminante è il Consiglio di Stato (sez. V, 15 aprile 2004, n. 2162, in www.lexitalia.it, 4/2004), secondo cui, in caso di oscurità o equivocità delle disposizioni che regolano i presupposti, l’espletamento o la conclusione della gara, contenute nella lex specialis della stessa o nei suoi allegati, un corretto rapporto tra amministrazione aggiudicatrice e aspirante aggiudicatario, rispettoso dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa, nonché di quello enunciato dall’art. 1337 c.c., in forza del quale, nello svolgimento delle trattative, le parti devono comportarsi secondo correttezza, impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l’affidamento degli interessati, attraverso l’interpretazione di ciò che vi è detto espressamente e restando il concorrente dispensato dal ricostruire, sulla base di indagini ermeneutiche integrative, significati ulteriori e inespressi (ibidem T.A.R. Lazio, sez. III, 28 ottobre 2003 n. 9098; T.A.R. Campania, sez. I, 25 luglio 2003, n. 10090). Le prescrizioni dell’invito che non brillano per trasparenza, invece, sono da leggere, innanzitutto, alla luce del “principio di massima apertura delle gare”, cioè ammettendo alle stesse anche i candidati che non hanno interpretato correttamente la lex specialis della selezione (Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 2004, n. 684, in www.lexitalia.it, 2/2004; sez. VI, 2 aprile 2003, n. 1709, in Urbanistica e Appalti, 10/2003, 1201, con nota di D. Ponte). D’altro canto, sebbene strumentale all’effettività della concorrenza e, dunque, alla soddisfazione dell’interesse pubblico all’identificazione del miglior contraente sul mercato, il principio della più ampia partecipazione alle gare non può prevalere su quello di “serietà dell’offerta”, che postula la rigorosa ottemperanza di quanto preteso dalla lettera a pena di esclusione (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2003, n. 958, in www.giustiziaamministrativa. it). Inoltre, la scarsa intellegibilità delle regole poste dall’invito consente il ricorso tanto al “metodo teleologico”, volto alla ricostruzione dell’intenzione dell’autore dell’atto (Consiglio di Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n. 4326, IL CONTENZIOSO NAZIONALE 217 in Foro Amministrativo – C.d.S., 7-8/2003, 2253), quanto al “criterio sistematico”, che vuole che le disposizioni dubbie siano interpretate per mezzo di quelle indubbie, anche di quelle degli altri atti e documenti che compongono la lex specialis della selezione (Consiglio di Stato, sez. V, 17 ottobre 2002, n. 5676, in Riv. giur. edil. 2/2003, I, 595). D’altronde, non può ragionevolmente imputarsi agli aspiranti aggiudicatari, a titolo di trascuratezza o di imperizia, ed è quindi ragione giustificatrice delle conseguenti imperfezioni delle offerte, un’interpretazione piuttosto che un’altra di precetti ambigui della lettera (Consiglio di Stato, sez.V, 23 marzo 2004, n. 1530, in www.giustizia-amministrativa.it, relativa ad una fattispecie di antinomia tra invito e capitolato speciale). In applicazione dei suddetti canoni interpretativi, nel caso di specie, il Supremo Consesso amministrativo ha affermato che “Anche a voler ammettere che si era in presenza di un quadro di riferimento molto generico, con regole molto elastiche, al limite quasi della legittimità, amplissima essendo in tal modo la discrezionalità rimessa all’amministrazione aggiudicatrice nella individuazione dell’offerta in assoluto migliore, non può d’altra parte negarsi che tali regole esistevano, non erano state contestate tempestivamente e ritualmente e costituivano la lex specialis della gara e, in quanto tali, vincolavano non solo i partecipanti, ma la stessa amministrazione che le aveva poste attraverso la lettera di invito alle imprese partecipanti alla gara stessa. Orbene, posto che l’impresa, oltre a presentare un’offerta conforme agli elementi fondamentali della proposta contrattuale, così come indicati nella lettera di invito, aveva anche presentato un’offerta migliorativa, il primo adempimento in capo all’amministrazione aggiudicatrice era quello di stabilire se tale offerta migliorativa fosse effettivamente tale in ragione delle regole da essa stessa fissate nella lettera d’invito, perché solo nel caso di questa prima valutazione positiva, l’offerta migliorativa avrebbe potuto essere oggetto di delibazione ai fini dell’aggiudicazione della fornitura di gas”. Aggiungendo che “In ogni caso, anche a voler prescindere dalle considerazioni svolte circa le corrette e legittime modalità che dovevano essere osservate per il puntuale rispetto dei principi generali in materia di procedimenti ad evidenza pubblica (a nulla rilevando la circostanza che nel caso di specie si era sostanzialmente in presenza di una trattativa privata), l’amministrazione aggiudicatrice non avrebbe mai potuto limitarsi, così come ha fatto, a chiedere una “integrazione” (che come si è visto tale non poteva essere neppure considerata) della originaria offerta sulla scorta dei nuovi elementi indicati”. Emerge in maniera evidente il carattere vincolante delle previsioni della lettera di invito; vincolo sussistente in entrambe le direzioni: sia per i partecipanti alla procedura di gara, sia per l’Amministrazione Committente. Per quanto poi concerne, nello specifico, l’eventuale carattere “migliorativo” dell’offerta, l’Amministrazione deputata al relativo vaglio, non può esimersi dal verificare se l’offerta sia in concreto “migliorativa” o “nuova”; dovendo in tale ultimo caso dichiararne l’invalidità, non superabile mediante la richiesta di integrazione dell’originaria offerta ad altra impresa concorrente, sulla scorta dei nuovi elementi emersi. Come correttamente evidenziato nella decisione che si commenta, è vero che è consentito prevedere espressamente nella lettera di invito la facoltà per l’impresa offerente di formulare la proposta inserendo alcuni ulteriori elementi “volti a migliorarla ulteriormente ovvero a specificarne i contenuti”, ma è altrettanto vero che, proprio in quanto elementi migliorativi ed integrativi dell’offerta, questi non possono riguardare gli aspetti e i dati fondamentali stabiliti dalla stessa Amministrazione aggiudicatrice. Diversamente opinando si giungerebbe all’illogica conseguenza di consentire all’impresa di “colorare” a suo piacimento – adattandolo alle proprie esigenze e condizioni – il quadro della disciplina di gara, in spregio alle fondamentali regole di par condicio, pubblicità, imparzialità, trasparenza che devono presiedere allo svolgimento delle gare pubbliche. In questo ordine di idee, sebbene da altro versante, giova considerare che non è concesso nemmeno alla Commissione di una gara di appalto il potere di introdurre “elementi di specificazione e di integrazione” dei criteri e delle modalità di valutazione delle offerte indicati nella lex specialis della selezione, se non nei limiti in cui si tratti di elementi “modesti” (Consiglio di Stato, sez. V, 3 marzo 2004, n. 1040, in www.lexitalia.it, 3/2004), e il potere medesimo sia esercitato prima dell’apertura delle offerte, poiché la conoscenza, anche solo potenziale, delle stesse costituisce un fattore distorsivo dell’esito del procedimento, ponendo la Commissione in condizione di plasmare i parametri specificativo-integrativi, adattandoli alle peculiarità di una singola offerta e di sortire, in tal modo, un effetto premiale nei confronti della stessa (Consiglio di Stato, sez. V, 3 marzo 2003, n. 1181, in Rass. giur. sanità, 231-2/2003, 202; sez. V, 19 febbraio 2003, n. 908, in Foro amministrativo – C.d.S., 2/2003, 602, secondo cui, qualora taluni sottocriteri compaiano per la prima volta in calce ai tabulati con i punteggi assegnati, devono ritenersi lesi i principi di buona e trasparente amministrazione e di par condicio). Orbene, nel caso di specie, l’Amministrazione, accertato il carattere di “novità” dell’offerta, avrebbe dovuto: o ritenerla non valida o non utile in relazione alle regole che essa stessa aveva posto per lo svolgimento della gara; ovvero, rilevato che dalla ulteriore offerta avanzata erano emersi nuovi elementi per una più conveniente fornitura del gas, avrebbe dovuto avviare una nuova procedura di gara (preferibilmente informando le imprese partecipanti dell’intenzione di non procedere alla conclusione della gara). Coerentemente ai suindicati passaggi argomentativi, il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza gravata anche nella parte in cui ha annullato esclusivamente il “provvedimento di aggiudicazione” del servizio di fornitura del gas oggetto della contestata procedura concorsuale, proprio in quanto frutto di una erronea interpretazione ed applicazione della stessa possibilità prevista nella lettera di invito di integrare e migliorare le offerte originarie. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ed invero la fattispecie che ci occupa comporta non già l’annullamento dell’intera procedura concorsuale, bensì solo di quella parte successiva alla presentazione delle originarie offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara. Infine, appare condivisibile anche la statuizione di rigetto della domanda risarcitoria ex adverso avanzata, dovendosi ritenere la posizione giuridica della ricorrente integralmente reintegrata dall’annullamento del provvedimento aggiudicatario, a cui consegue il potere della Stazione appaltante di provvedere nuovamente, o mediante aggiudicazione della gara sulla scorta delle originarie offerte, o mediante annullamento della gara già avviata e instaurazione di una nuova procedura, sulla base dei nuovi elementi emersi con l’offerta aggiuntiva. Soltanto all’esito del nuovo esercizio di tale potere potrà valutarsi la ricorrenza dei presupposti per l’accoglimento della pretesa risarcitoria. Altro aspetto degno di nota affrontato dal Consiglio di Stato è quello concernente l’onere di tempestiva impugnazione, essendo stato affermato sul punto che soltanto con il provvedimento aggiudicatario del servizio di fornitura in questione la lesione della posizione giuridica dell’altra impresa (P. s.r.l.) si è concretizzata ed è dunque sorto l’onere, ritualmente assolto, della relativa impugnazione; non potendo neppure ipotizzarsi in epoca precedente al provvedimento di aggiudicazione l’esistenza di un onere di impugnare disposizioni di gara, in particolare quelle che consentivano la formulazione di integrazioni e miglioramenti dell’originaria offerta, non essendo le stesse neppure potenzialmente lesive. In proposito si è già detto che la lettera-invito è l’atto amministrativo endoprocedimentale che definisce il subprocedimento di prequalifica. In quanto atto endoprocedimentale, la lettera non è di norma autonomamente lesiva e, dunque, impugnabile. Tale atto è però in grado di produrre l’arresto procedimentale, determinabile così dal mancato invito come dall’invito recante determinate clausole: ipotesi comportanti la lesione immediata e, conseguentemente, l’onere di immediata impugnazione dell’esclusione, pena l’inammissibilità del ricorso sia contro la sola aggiudicazione, sia contro aggiudicazione e invito ad un tempo, senza che, peraltro, rispetto all’esclusione sia individuabile controinteressato alcuno (T.A.R. Lazio, sez. III, 25 settembre 2002, n. 8142, in Foro amministrativo – T.A.R., 9/2002, 2919). Sono altresì impugnabili l’invito altrui (Consiglio di Stato, sez. V, 17 maggio 2000, n. 2884, in Foro amministrativo, 5/2000, 1747) e, persino, il mancato invito altrui (Consiglio di Stato, sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 6779, in Riv. giur. edil., 4/2003, I, 1007, che afferma la sussistenza dell’interesse dell’aspirante aggiudicatario a impugnare l’esclusione di terzi, senza che ciò comporti una sostituzione processuale, laddove tale esclusione leda un interesse del ricorrente; tuttavia è onere dello stesso dimostrare che, se i terzi fossero stati ammessi, l’esito del procedimento di aggiudicazione gli sarebbe stato favorevole, perché, in carenza di simile prova, difetta l’interesse ad impugnare l’esclusione altrui), ma sempre congiuntamente all’aggiudicazione. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 219 L’Adunanza Plenaria, con la nota sentenza del 29 gennaio 2003, n. 1 (in Riv. giur. edil., 4/2003, I, 1029, con nota di G. Mari) ha definitivamente chiarito, tra l’altro, che la domanda di partecipazione non costituisce acquiescenza alla disciplina della selezione e, dunque, non rende inammissibile il ricorso avverso l’esclusione. Dott.ssa Carmela Pluchino(*) Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 2 ottobre 2006 n. 5745 – Pres. Salvatore – Est. Saltelli – D.I. e S. S.r.l. (Avv. Pozzi) c/ P. S.r.l., poi P. S.p.A. (Avv.ti Presutti e Calugi) e A.T.E.R. della Provincia di Pistoia (Avv. Stanghellini) e nei confronti di Regione Toscana (n.c.) e Soc. T.G.C. S.p.A., già P. S.p.A. (Avv.ti Calugi, Gesmundo e Presutti) – (conferma T.A.R. Toscana, sez. seconda, 17 giugno 2004 n. 2086). 1.- Anche a voler ammettere che si era in presenza di un quadro di riferimento molto generico, con regole molto elastiche, al limite quasi della legittimità, amplissima essendo in tal modo la discrezionalità rimessa all’amministrazione aggiudicatrice nella individuazione dell’ offerta in assoluto migliore, non può d’altra parte negarsi che tali regole esistevano, non erano state contestate tempestivamente e ritualmente e costituivano la lex specialis della gara e, in quanto tali, vincolavano non solo i partecipanti, ma la stessa amministrazione che le aveva poste attraverso la lettera di invito alle imprese partecipanti alla gara stessa. Orbene, posto che l’impresa, oltre a presentare un’offerta conforme agli elementi fondamentali della proposta contrattuale, così come indicati nella lettera di invito, aveva anche presentato un’offerta migliorativa, il primo adempimento in capo all’amministrazione aggiudicatrice era quello di stabilire se tale offerta migliorativa fosse effettivamente tale in ragione delle regole da essa stessa fissate nella lettera d’invito, perché solo nel caso di questa prima valutazione positiva, l’offerta migliorativa avrebbe potuto essere oggetto di delibazione ai fini dell’aggiudicazione della fornitura di gas. 2.- In ogni caso, anche a voler prescindere dalle considerazioni svolte circa le corrette e legittime modalità che dovevano essere osservate per il puntuale rispetto dei principi generali in materia di procedimenti ad evidenza pubblica (a nulla rilevando la circostanza che nel caso di specie si era sostanzialmente in presenza di una trattativa privata), l’amministrazione aggiudicatrice non avrebbe mai potuto limitarsi, così come ha fatto, a chiedere una “integrazione” (che come si è visto tale non poteva essere neppure considerata) della originaria offerta sulla scorta dei nuovi elementi indicati. 3.- L’effetto della pronuncia di annullamento (che non riguarda evidentemente la validità dei contratti già stipulati, trattandosi di questione che fuoriesce dalla cognizione del giudice amministrativo) comporta quindi non già l’annullamento della intera procedura, bensì solo di quella parte della procedura concorsuale successiva alla presentazione delle originarie offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara, dovendo l’amministrazione 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura distrettuale di Milano. aggiudicatrice anche nel sub – procedimento finalizzato alla integrazione ed al miglioramento delle offerte già presentate, attenersi al rispetto dei principi generali che presiedono allo svolgimento delle procedure per la scelta del contraente. 4.- La posizione giuridica della originaria ricorrente e dei soggetti ad essa succeduti deve considerarsi integralmente reintegrata dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, a cui consegue il potere dell’amministrazione di provvedere nuovamente verificando se procedere ulteriormente all’aggiudicazione della gara sulla scorta delle originarie offerte ovvero all’annullamento della gara avviata … e all’avvio di una nuova procedura concorsuale sulla base dei nuovi elementi emersi con la offerta aggiuntiva. «Fatto – Con lettera in data 30 ottobre 2003, prot. 9123, l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia invitava alcune ditte, dotate dell’autorizzazione ministeriale prevista dall’articolo 17 del d.P.R. 23 maggio 2000, n. 164, a presentare una proposta per l’affidamento del predetto servizio di energia per due edifici di sua proprietà, ubicati in Pistoia, il primo alla via La Pira (costituito da 36 unità immobiliari per una superficie utile di circa 3170 metri quadrati; altezza utile interna di 2,70 metri; consumo medio di gas metano negli ultimi cinque anni di 28140 metri cubi annui; potenzialità della caldaia 179 Kw; centrale termica munita di certificazione prevenzione incendi) ed il secondo in via Del Villone, n. 6 (costituito di 14 unità immobiliari per una superficie utile di circa 1144 metri quadrati; altezza utile interna di 3,00 metri; consumo medio di gas metano negli ultimi cinque anni di 18000 metri cubi annui; potenzialità della caldaia 258 Kw; centrale termica munita di certificazione prevenzione incendi). Secondo le previsioni della lettera di invito, la proposta di affidamento del servizio doveva tener conto almeno delle seguenti condizioni: “– la durata contrattuale dovrà essere non superiore a 5 anni; – nel prezzo offerto dovrà essere inclusa: la manutenzione ordinaria e straordinaria; la fornitura combustibile; gli oneri per la messa a norma della centrale termica compreso per tutte le certificazioni richieste per legge, oneri per incarico terzo responsabile; – modalità di esercizio: come da zona climatica indicata dal d.P.R. 412/93 e succ. con inizio il 1° novembre e termine il 15 aprile, salvo deroghe da parte della autorità competente; orario di accensione come stabilito per legge e possibilità di modulazione giornaliera da concordarsi di volta in volta con il committente con mantenimento temperatura interna di 20°; – eventuale revisione dei prezzi solo sul costo del combustibile”. Nella predetta lettera di invito era altresì precisato che la proposta, oltre a tener conto dei dati sopra riportati, avrebbe potuto contenere anche “ulteriori elementi volti a migliorarla ulteriormente ovvero a specificarne i contenuti”. Tutte le ditte invitate presentavano la propria offerta, eccezion fatta per la B. e la M. S.r.l.. Per quanto qui interessa, le migliori offerte risultavano essere quella della D. S.r.l. (che per un periodo di cinque anni aveva previsto una spesa annuale di €. 14.061,95 per l’edificio di via del Villone e di €. 17.473,75 per l’edificio di via La Pira, per un totale complessivo di €. 31.535,70) e quella della P. S.r.l. (che per un l’identico periodo di cinque anni aveva previsto una spesa annua di €. 18.927,15 per l’edificio di via del Villone e di €. 22.186,56 per l’edificio di via La Pira, per un totale di €. 41.113,71). Utilizzando la facoltà prevista dalla stessa lettera di invito (di formulare ulteriori elementi volti a migliorare l’originaria proposta), la P. S.p.A. formulava un preventivo di spesa di gas metano per un periodo di 9 anni, in relazione al quale la spesa annua si riduceva complessivamente a €. 37.052,62 (e precisamente a €. 15.584,25 per l’edificio di via Del Villone e a €. 21.468,37 per l’edificio di via La Pira), comprendendo anche la sostituzione delle caldaie. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 221 L’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, con fax 10342 dell’11 dicembre 2003 invitava la D. S.r.l. a presentare una propria offerta aggiuntiva, contenente: proposta di investimento su nove anni; condizione migliorativa sul costo di assistenza; inserimento della sostituzione della caldaia; spesa annua fissa indipendentemente dal consumo per il periodo di legge 1° novembre/15 aprile con la sola variazione del prezzo del combustibile; per il fabbricato di via La Pira l’impegno di accollarsi l’onere di manutenzione e di terzo responsabile, attualmente in corso con la ditta B. e M. Con la nota prot. 10958 del 19 dicembre 2003 la predetta D. S.r.l. riscontrando la predetta richiesta, proponeva una offerta “migliorativa” per la durata di nove anni di fornire energia, ivi compresa la sostituzione della caldaia per entrambi gli immobili, per un importo annuo complessivo di €. 30.480,95 (di cui €. 13.177,70 per l’edificio di via Del Villone ed €. 17.303,25 per l’immobile di via La Pira), precisando che “la spesa annua è confermata fissa indipendentemente dal consumo per il periodo 01/11 – 15/04, con quindi la sola variazione del costo della manodopera e del combustibile, sono esclusi eventuali anticipi e proroghe delle accensioni rispetto al 01/11 – 15/04 e le eventuali ore giornaliere eccedenti le 12 ore previste per la zona climatica “D”; impegno ad accollarsi l’onere di manutenzione e terzo responsabile attualmente in corso con la ditta B. e M. fino al 2005”, con l’ulteriore impegno a tenere “bloccato il costo della manodopera, revisionandolo solo dal momento in cui si rilevi un aumento superiore al 10%”. Con la delibera n. 177 del 22 dicembre 2003 l’amministratore straordinario dell’A. T.E.R. della Provincia di Pistoia affidava effettivamente il servizio di fornitura di gas per gli immobili di via La Pira e di via Del Villone, per un periodo di nove anni, compresa la sostituzione della caldaia e alle altre condizioni indicate negli schemi di contratto, alla D. S.r.l. per un importo annuo complessivo di €. 30.480,95, IVA compresa (di cui €. 17.303,25 per l’edificio di via La Pira, n. 2, ed €. 13.177,70 per l’edificio di via Del Villone, n. 6). In data 5 febbraio 2004, con atti rep. 10383 e 10384, venivano stipulati i relativi contratti. La P. S.p.A., cui con nota n. 375 del 19 gennaio 2004 era stata comunicata l’aggiudicazione della ricordata fornitura alla D. S.r.l., con ricorso giurisdizionale notificato il 20 marzo 2004 chiedeva al Tribunale amministrativo regionale per la Toscana l’annullamento di tutti gli atti relativi alla trattativa svolta dall’A.T.E.R. per la Provincia di Pistoia per l’affidamento del servizio in questione e, in particolare, la lettera 30 ottobre prot. 9123, il provvedimento in data 22 dicembre 2003, n. 177, nonché dei due contratti in data 5 febbraio 2003 stipulata dalla citata A.T.E.R. della Provincia di Pistoia con la D. S.r.l. A sostegno dell’impugnativa venivano, in sintesi, dedotti: a) “violazione del D.Lgs. 24 luglio 1992, n. 358, art. 1 e 3, del D.Lgs. 17 marzo 1995 n. 157 art. 3 e della legge 11 febbraio 1994 n. 109, art. 2, omesso svolgimento della gara con la procedura ad evidenza pubblica, violazione della legge reg. 8 marzo 2001 n. 12, artt. 1 – 2 e 20 e violazione della lettera d’invito 30 ottobre 2003”, in quanto la fornitura di energia oggetto dell’affidamento ricadeva nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 358/1992, sussistendone i prescritti presupposti (tra cui anche il valore complessivo del contratto ammontante per anni 9 ad €. 249.389,00 e, dunque, superiore al valore soglia fissato in €. 200.000,00), così che del tutto illegittimamente non erano state applicate le relative prescrizioni in materia di predeterminazione dei criteri di aggiudicazione, di trasparenza della valutazione delle offerte e di disciplina delle offerte anomale; peraltro, sempre secondo la società ricorrente, la stessa legge regionale n. 12 del 2001, all’articolo 20, non consenti- 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO va lo svolgimento della gara con il metodo della trattativa privata plurima, difettandone i presupposti; b) “violazione dei principi di imparzialità, trasparenza, logicità e segretezza in procedimento di affidamento degli appalti pubblici, violazione della legge n. 241/1990, art. 3 e della legge reg. 8 marzo 2001 n. 12, art. 20, difetto di motivazione e violazione degli artt. 24 e 113 Cost.”, in quanto nel corso della gara l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva sostanzialmente stravolto i principi fissati dalla lettera di invito, tanto che l’offerta finale “integrativa” aveva un contenuto del tutto differente da quello originariamente indicato nella lettera d’invito; ciò senza contare che la integrazione della offerta era stata richiesta alla sola controinteressata D. S.r.l., nonostante le nuove caratteristiche del servizio fossero state individuate dall’amministrazione solo nel fax dell’11 dicembre 2003. La società ricorrente formulava anche istanza di risarcimento dei danni derivati dalla perdita della possibilità di aggiudicarsi la gara e dalle spese sostenute per partecipare alla medesima, riservandosi di specificarli e quantificarli in corso di causa; chiedeva comunque anche il risarcimento in forma specifica attraverso la rinnovazione della procedura di gara. L’adito Tribunale, con la sentenza segnata in epigrafe, nella resistenza della D. S.r.l. e dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sollevata dalle parti resistenti, accoglieva in parte il ricorso, annullando gli atti impugnati, ma respingendo l’istanza risarcitoria per mancanza di prova del danno e dell’elemento soggettivo della colpa o del dolo. In particolare, ritenuto infondato il primo motivo di censura in quanto la società ricorrente aveva partecipato alla procedura, poi contestata, senza alcuna riserva, il Tribunale considerava meritevole di accoglimento il secondo motivo di censura, atteso che effettivamente l’aggiudicazione del servizio di fornitura di gas alla società D. S.r.l. era avvenuta sulla base di condizioni diverse da quelle che la stessa amministrazione aveva stabilito nella originaria lettera d’invito. Avverso tale pronuncia ha proposto appello la società D. S.r.l., deducendo: a) il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia non aveva agito come pubblica amministrazione ovvero come titolare di un pubblico servizio, ma come un mero privato amministratore dei condomini degli edifici di via La Pira, n. 2, e di via Del Vilone, n. 6, cui sostanzialmente inerivano tutte le spese di gestione, manutenzione e funzionamento degli impianti di riscaldamento; ciò, ad avviso dell’appellante, trovava conferma nel fatto che, piuttosto che quale atto di avvio di una procedura di gara a trattativa privata, la lettera di invito del 30 ottobre 2003 costituiva espressione di una mera indagine di mercato e che la fornitura del gas poteva essere oggetto di contratto individuale dei singoli condomini; b) l’inammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto la P. S.r.l. aveva contestato la procedura solo dopo avervi partecipato, sostanzialmente prestando acquiescenza alla scelta dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia di procedere ad una trattativa privata; in realtà, aveva errato l’adito Tribunale ad accogliere tale eccezione solo con riferimento al primo motivo di ricorso, laddove esso si attagliava sicuramente anche al secondo motivo, non potendo dubitarsi della legittimità dell’azione amministrativa che, applicando le previsione della lettera di invito, aveva permesso l’integrazione e il miglioramento di una delle offerte presentate, cosa che aveva, per un verso, determinato la comparazione delle offerte originariamente migliori e, per altro verso, la possibilità effettivamente di scegliere l’offerta in assoluto più conveniente; c) l’infondatezza del secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, erroneamente IL CONTENZIOSO NAZIONALE 223 accolto, in quanto non poteva neppure porsi un problema di modifica delle condizioni della procedura concorsuale: infatti, l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva agito come un privato amministratore condominiale, senza autovincolarsi allo svolgimento di una procedura concorsuale; in ogni caso si era trattato di una gara informale, cosa che consentiva di apportare varianti migliorative alle proposte contrattuali e, in ogni caso, l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva effettivamente comparato le offerte pervenute, scegliendo quella più conveniente; d) per altro, anche a voler ammettere la correttezza della tesi sostenuta dai primi giudici, gli stessi non avevano tuttavia tenuto conto del fatto che l’offerta della D. S.r.l. era comunque indiscutibilmente la migliore anche solo per il periodo di cinque anni e pertanto gli atti impugnati potevano essere annullati solo per la parte eccedente tale periodo. Si è costituita in giudizio la società P. S.p.A. (già P. S.r.l.) che, oltre a dedurre l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello principale, controdeducendo su tutti i singoli motivi di censura sollevati, ha altresì spiegato appello incidentale, chiedendo anch’essa la riforma della sentenza di primo grado, lamentando: 1) “violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di interesse al ricorso giurisdizionale”, in quanto era stato, a suo avviso, erroneamente respinto il primo motivo del ricorso introduttivo dichiarandolo erroneamente inammissibile per intervenuta acquiescenza per la stessa partecipazione alla procedura concorsuale, laddove tale acquiescenza non era minimamente rinvenibile, tanto più che solo la effettiva partecipazione alla procedura concorsuale e la successiva sua conclusione ne legittimava la contestazione giurisdizionale; è stata, pertanto, espressamente riproposta la censura formulata con il primo motivo del ricorso di primo grado; 2) “violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno per attività illecita”, in quanto era errata anche la decisione di respingere la istanza risarcitoria, non potendosi condividere né l’assunto secondo cui mancava l’elemento psicologico della responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice, né quello secondo cui la forma di risarcimento in forma specifica era stata in sostanza assicurata con l’annullamento della aggiudicazione cui conseguiva la rinnovazione della gara. Anche l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia si è costituita in giudizio deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello principale e spiegando, altresì, appello incidentale con cui ha chiesto la riforma della impugnata sentenza, sostenendo sia la infondatezza del secondo motivo del ricorso di primo grado, inopinatamente accolto dai primi giudici, sia la erronea declaratoria di annullamento di tutta la procedura concorsuale, laddove l’annullamento non poteva che riguardare soltanto quella parte del procedimento successiva alla richiesta di miglioramento dell’offerta avanzata alla Società D. S.r.l., sia il capo relativo alla condanna alle spese di giudizio che, stante la evidente parziale soccombenza della stessa ricorrente in prime cure, andavano compensate. Si è costituita in giudizio la S.G.C. S.p.A. derivata dalla fusione per incorporazione di P. S.p.A. nella A. V. S.p.A.. Con ordinanza n. 4589 del 7 ottobre 2004 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare di sospensione della efficacia della sentenza impugnata. Le parti hanno ampiamente illustrato nell’imminenza della udienza di discussione del merito dell’affare le proprie rispettive tesi difensive; in particolare sia l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, sia la D. S.r.l. hanno insistito nell’eccezione della sopravvenuta carenza di interesse al ricorso della P. per effetto della sopravvenuta legge 23 agosto 2004, n. 239. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Diritto. I.- In linea preliminare deve essere esaminata l’eccezione di sopravvenuta improcedibilità del ricorso proposto in prime cure dalla Società P. S.r.l., poi P. S.p.A., successivamente incorporata dalla T.G.C. S.p.A., in relazione alla entrata in vigore della legge 23 agosto 2004, n. 239, così come sollevata negli atti difensivi dalla D. S.r.l. e dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia. Ad avviso delle parti deducenti, poiché l’articolo 1, comma 34, della legge 23 agosto 2004, n. 239 (recante norme in materia di “Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”) ha disposto testualmente che “le aziende operanti nei settori dell’energia elettrica e del gas naturale che hanno in concessione o in affidamento la gestione di servizi pubblici locali ovvero la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni infrastrutturali, nel territorio in cui la concessione o l’affidamento si riferiscono e per la loro durata, non possono esercitare, in proprio o con società collegate o partecipate, alcuna attività in regime di concorrenza, ad eccezione della vendita di energia elettrica e di gas e di illuminazione pubblica, nel settore dei servizi postcontatore, nei confronti degli stessi utenti del servizio pubblico e degli impianti”, la T.G.C. S.p.A., già P. S.p.A., essendo interamente controllata dalla T.G. S.p.A., società che gestisce il servizio di distribuzione del gas per il Comune di Pistoia, non potrebbe neppure partecipare alla eventuale nuova gara per l’affidamento del servizio oggetto della presente controversia, quest’ultimo servizio essendo evidentemente inerente anche ad attività c.d. postcontatore (quale la manutenzione ordinaria e straordinaria, la messa a norma della centrale termica con le relative certificazioni di legge, l’incarico di terzo responsabile); d’altra parte, quand’anche la contestata procedura di gara si fosse conclusa in modo favorevole per la P. S.r.l., la ricordata disposizione normativa (e le successive vicende societarie) avrebbero imposto e giustificato la revoca dell’aggiudicazione dell’appalto e la rescissione del relativo contratto: di qui l’inconfutabile esistenza di un’oggettiva situazione di sopravvenuta improcedibilità per carenza di interesse del ricorso di prime cure. L’assunto, ad avviso della Sezione, non è meritevole di accoglimento. I.1.- Sotto un primo profilo deve innanzitutto osservarsi che, ai fini dell’applicazione della ricordata disposizione normativa, sulla scorta delle puntuali deduzioni svolte sul punto dalla T.G.C. S.p.A. (sulla cui legittimazione processuale nella presente causa, quale soggetto che è succeduto alla P. S.p.A., a sua volta succeduta alla P. S.r.l., non sussiste peraltro alcun dubbio), deduzioni suffragate dalla documentazione prodotta, non emerge alcuna forma di collegamento di essa con la società T.G. S.p.A., asserita affidataria del servizio pubblico di distribuzione del gas nel Comune di Pistoia. Invero, dagli atti depositati risulta che la T.G.C. S.p.A. è sorta, giusta atto notarile del 9 novembre 2004, rep. n. 49419, fascicolo n. 23147, dalla fusione per incorporazione della P. S.p.A. nella società A.V. S.p.A.: unico socio di T.G.C. S.p.A. è T.G.V. S.p.A. che, quali soci, annovera, oltre a varie amministrazioni comunali della zona, anche la Banca (...) S.p.A., la Banca (...) S.p.A., la P. I. S.p.A. e la P. S.p.A.. T.G. S.p.A., da cui pure risulta essersi scissa T.V. S.p.A. (con atto del 1° dicembre 2005), risulta costituita da un unico socio, T.E. S.p.A., che non figura quale socio delle ricordate T.G.C. S.p.A. e T.G.V. S.p.A.: non risulta provata, dunque, l’esistenza di situazioni che danno luogo alle ipotesi di controllo e di collegamento societario che, d’altra parte, quale limite al diritto di impresa non possono essere oggetto di interpretazione estensiva, in mancanza di elementi certi, precisi e concordanti che non possono neppure essere ricavati dalla mera circostanza che alcuni soggetti titolari di cariche o qualifiche di una socie- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 225 tà siano titolari di cariche e qualifiche di altre società (ciò dando evidente luogo ad eventuali ipotesi di conflitto di interesse o di responsabilità contrattuali nei confronti delle rispettive società di appartenenza). I.2.- Peraltro, ad avviso della Sezione, l’infondatezza della eccezione in esame può egualmente apprezzarsi anche sotto altro assorbente e decisivo profilo, e cioè anche indipendentemente dalla questione sopra rilevata. Invero, com’è noto, lo scrutinio di legittimità di un provvedimento amministrativo (che rappresenta in realtà la res litigiosa di cui deve occuparsi la Sezione) deve essere condotto in stretta osservanza del principio fondamentale del tempus regit actum, dovendo valutarsi il rispetto dei principi generali in materia di azione amministrativa, predicati dall’articolo 97 della Costituzione, con esclusivo riferimento al momento in cui il provvedimento stesso è stato emanato: ne discende che lo jus superveniens (che peraltro non ha, salvo sua espressa disposizione, alcun effetto retroattivo), non può neppure avere, in linea generale, un effetto sanante di eventuali illegittimità perpetrate, tanto più quando, come nel caso di specie, le denunciate illegittimità siano avvenute in danno del privato. Ammettere la fondatezza della tesi ex adverso propugnata significherebbe violare palesemente i principi fissati dagli articoli 24 e 113 della Costituzione, per un verso, espropriando il cittadino (o in questo caso l’impresa) del diritto costituzionale di azione e di difesa e, per altro verso, sottraendo inopinatamente l’attività della pubblica amministrazione al controllo giurisdizionale. Né, a fondare l’eccezione in esame, può sostenersi la tesi secondo cui la normativa contenuta nel citato articolo 1, comma 34, della legge 23 agosto 2004, n. 239, avrebbe legittimato la revoca dell’aggiudicazione eventualmente intervenuta in favore della P. S.p.A.: anche a voler prescindere dal già ricordato principio generale secondo cui la legge non dispone per l’avvenire e anche senza voler tener conto che non vi è alcuna disposizione nella ricordata normativa che prevede una simile ipotesi di rescissione del contratto stipulato, occorre osservare, per contro, che la stessa disposizione prevede una sorta di disposizione transitoria precisando che “Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero delle attività produttive, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e le altre amministrazioni interessate provvederanno ad integrare le norme ed i provvedimenti rilevanti ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al presente comma”. Ciò esclude, ad avviso della Sezione, che l’entrata in vigore della predetta normativa avrebbe potuto determinare automaticamente la legittimità di un eventuale provvedimento di revoca dell’aggiudicazione della fornitura del gas avvenuta in favore della P. S.p.A.. A ciò consegue che non può, quindi, in alcun modo dubitarsi della sussistenza dell’interesse della T. G.C. S.p.A., succeduta alla P. S.p.A. e alla P. S.r.l., ad ottenere la pronuncia in ordine alla legittimità o meno del provvedimento di aggiudicazione dell’appalto di fornitura del gas indetto dall’A.T.E.R. per la Provincia di Pistoia, anche al solo fine di ottenere una soddisfazione soltanto risarcitoria, non essendo del resto indifferente – anche dal punto di vista della procedura di fusione per incorporazione della predetta P. S.p.A. nella G.T.C. S.p.A.– che nel patrimonio della prima sussistesse il contratto di fornitura del gas della cui legittima aggiudicazione si discute. Resta quindi del tutto irrilevante, ai fini dell’interesse a ricorrere, la questione della concreta possibilità della società T.G.C. S.p.A. a rendersi aggiudicataria dell’eventuale nuova aggiudicazione del servizio di fornitura in relazione ai servizi c.d. di postcontato- 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO re, trattandosi di questione che, per un verso, non atteneva alla legittimità del provvedimento impugnato e che, per altro verso, concerne i requisiti di partecipazione alla nuova gara (e all’annessa prova della inesistenza della situazione di incompatibilità prevista dalla norma). II.- Così sgombrato il campo dalla esaminata questione preliminare, può procedersi all’esame dell’appello principale proposto dalla D. S.r.l. Esso è infondato e deve essere respinto. II.1.- Priva di fondamento è innanzitutto l’eccezione di difetto di giurisdizione, che è stata prospettata sostenendo che l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia avrebbe agito nel caso di specie come un mero amministratore di un condominio privato e quindi negando la qualità di soggetto pubblico della predetta Azienda ovvero negando che si sarebbe in presenza di un’attività oggettivamente pubblica. Osserva al riguardo la Sezione che, per un verso, non è assolutamente contestabile che l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia sia un ente pubblico regionale, dotato di autonomia amministrativa e contabile, assoggettata al rispetto della normativa pubblicistica in tema di contratti pubblici (in particolare alla legge regionale 8 marzo 2001, n. 12), non rinvenendosi alcuna disposizione contraria sul punto, mentre, per altro verso, come si ricava dalla lettura della stessa lettera di invito alla procedura concorsuale in questione (nota n. 9123 del 30 ottobre 2003 dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia), gli immobili siti nel comune di Pistoia, rispettivamente alla via La Pira, n. 2, e alla via Del Villone, n. 6 (cui si riferiva la fornitura di gas oggetto dell’affidamento) sono di proprietà della predetta Azienda e dunque hanno natura pubblica: rispetto ad essi, almeno al momento in cui è stata avviata la procedura concorsuale, non può in nessun caso ipotizzarsi una vicenda esclusivamente privatistica tale da escludere il ricorso alla procedura ad evidenza pubblica. Né risulta decisiva la considerazione che la fornitura del gas sarebbe stata oggetto di rimborso da parte dei singoli assegnatari degli alloggi attraverso pagamento rateale sul canone mensile di locazione, atteso che, indipendentemente da ogni considerazione sul fatto che il rimborso potesse riguardare o meno la sola fornitura del gas ovvero anche gli importi accessori relativi alla manutenzione, alla sostituzione della caldaia, etc., stante la proprietà pubblica degli immobili, non vi è dubbio che le somme anticipate avevano indiscutibilmente natura pubblica, essendo messe a disposizione dall’ente pubblico regionale e pertanto non potevano che essere amministrate nel rispetto dei principi di cui all’articolo 97 della Costituzione, ivi compreso quello della scelta del contraente dell’appalto attraverso il procedimento ad evidenza pubblica, con conseguenza controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo. II.2.- Possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro stretta connessione, il secondo ed il terzo motivo di gravame, con i quali è stato lamentato che i primi giudici avevano erroneamente accolto il secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio che, al contrario, per un verso era inammissibile, per acquiescenza alla procedura di gara determinata dalla stessa partecipazione, e, per altro verso, infondato, stante l’assoluta correttezza del comportamento tenuto dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia che aveva effettivamente comparato le offerte presentate dalla D. S.r.l. e dalla P. S.r.l., aggiudicando senza dubbio la fornitura di gas alla impresa che aveva presentato l’offerta effettivamente più vantaggiosa. Anche tali censure sono destituite di fondamento. II.2.1.- Si deve innanzitutto osservare che la censura svolta dalla P. S.r.l. con il secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, rubricato “Violazione dei principi di imparzialità, trasparenza, logicità e segretezza in procedimento di affidamento IL CONTENZIOSO NAZIONALE 227 degli appalti pubblici, violazione della legge n. 241/1990, art. 3 e della legge reg. 8 marzo 2001, 12, art. 20, difetto di motivazione e violazione degli artt. 24 e 113 Cost.”, non riguardava la presunta illegittimità delle regole fissate dall’amministrazione aggiudicatrice per il concreto svolgimento della gara, ma concerneva esclusivamente le modalità concrete con cui il procedimento di gara si era dipanato: si lamentava, in realtà, che la determinazione dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia di chiedere un’integrazione dell’offerta già presentata alla sola società D. S.r.l. aveva violato i principi fondamentali di imparzialità, trasparenza, logicità e segretezza peculiari del procedimento di scelta del contraente per l’affidamento di un pubblico appalto. La lesione della posizione giuridica della società P. S.r.l. derivata dall’aggiudicazione del servizio di fornitura del gas alla società D. S.r.l. non dipendeva, in altri termini, dalle regole di gara fissate nella lettera di invito, né dal fatto che l’amministrazione aggiudicatrice avesse richiesto, in concreto, un’integrazione dell’offerta originaria, ma solo dalle modalità con cui la predetta amministrazione aggiudicatrice aveva utilizzato la facoltà di chiedere un’integrazione e un miglioramento delle offerte già presentate, avanzando detta richiesta ingiustificatamente ed in violazione delle regole fondamentali delle procedure ad evidenza pubblica alla sola D. S.r.l.. A ciò consegue che solo con il provvedimento di aggiudicazione del servizio di fornitura in questione alla più volte citata D. S.r.l. la predetta lesione si è concretizzata ed è dunque sorto l’onere, tempestivamente e ritualmente assolto dalla P. S.r.l., della relativa impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, non potendo neppure ipotizzarsi in epoca precedente a quest’ultimo l’esistenza di un onere di impugnare disposizioni di gara, quale quelle che consentivano la formulazione di integrazioni e miglioramenti della originaria offerta di gara, non solo non attuali, ma neppure potenzialmente lesive. Deve pertanto escludersi che il secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado potesse essere considerato inammissibile, non essendo rinvenibile in alcun modo nella mera partecipazione alla procedura di gara da parte della P. S.r.l. alcuna acquiescenza a successivi comportamenti o provvedimenti della amministrazione aggiudicatrice non conformi alle disposizioni di gara ovvero ai principi generali che le disciplinano. II.2.2.- Nel merito, poi, come correttamente rilevato dai primi giudici, il secondo motivo di censura proposto in primo grado dalla P.S.r.l. era anche fondato. Occorre preliminarmente chiarire, al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci anche in ordine all’effettiva ricostruzione della fattispecie concreta indispensabile per la delibazione della questione giuridica controversa, che, diversamente da quanto sostenuto o quanto meno insinuato dall’appellante, i primi giudici hanno stigmatizzato l’operato dell’amministrazione aggiudicatrice, annullando il relativo provvedimento di scelta del contraente, non già per la mancata comparazione delle offerte presentate ovvero per illegittimità della procedura (trattativa privata) prescelta, quanto piuttosto per la decisiva considerazione che, dopo aver previamente fissato nella lettera d’invito le regole, sia pur sommarie e approssimative della procedura concorsuale, le stesse regole erano state inopinatamente violate, in dispregio delle fondamentali regole della imparzialità, trasparenza, logicità e segretezza. Orbene, in punto di fatto, non è contestato che nella lettera di invito in data 30 ottobre 2003 l’amministrazione aggiudicatrice aveva chiesto alle ditte interessate di formulare una proposta di affidamento del servizio di fornitura del gas che tenesse conto di alcuni elementi fondamentali quali: la durata contrattuale non superiore a 5 anni; il prezzo complessivo in 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO cui dovevano ritenersi inclusi la manutenzione ordinaria e straordinaria, la fornitura di combustibile, gli oneri per la messa a norma della centrale termica compreso per tutte le certificazioni richieste per legge, oneri per incarico terzo responsabile; le specifiche modalità di esercizio, secondo quanto previsto per la zona climatica indicata dal d.P.R. 412/93, con inizio dal 1° novembre e termine il 15 aprile, salvo deroghe da parte della autorità competente; l’orario di accensione come stabilito per legge e possibilità di modulazione giornaliera da concordarsi di volta in volta con il committente con mantenimento temperatura interna di 20°; l’eventuale revisione dei prezzi del solo costo del combustibile. Sebbene la predetta lettera di invito prevedesse espressamente la facoltà per la ditta offerente di formulare la proposta inserendo anche ulteriori elementi “volti a migliorarla ulteriormente ovvero a specificarne i contenuti”, non può revocarsi che proprio in quanto elementi migliorativi ed integrativi dell’offerta, questi non potevano riguardare gli elementi fondamentali stabiliti dalla stessa amministrazione aggiudicatrice: in altri termini, è del tutto ragionevole ritenere che l’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia aveva inteso rimettere alle ditte offerenti la facoltà di “qualificare”, attraverso elementi integrativi, le loro rispettive offerte, precostituendo, sotto altro profilo, un abile (e decisivo) strumento di valutazione delle offerte stesse, fermo restando il loro contenuto base (costituito dagli elementi fondamentali di cui tener conto espressamente indicati nella lettera di invito). Anche a voler ammettere che si era in presenza di un quadro di riferimento molto generico, con regole molto elastiche, al limite quasi della legittimità, amplissima essendo in tal modo la discrezionalità rimessa all’amministrazione aggiudicatrice nella individuazione della offerta in assoluto migliore, non può d’altra parte negarsi che tali regole esistevano, non erano state contestate tempestivamente e ritualmente e costituivano la lex specialis della gara e, in quanto tali, vincolavano non solo i partecipanti, ma la stessa amministrazione che le aveva poste attraverso la lettera di invito alle imprese partecipanti alla gara stessa. Orbene, posto che la P. S.r.l., oltre a presentare un’offerta conforme agli elementi fondamentali della proposta contrattuale, così come indicati nella lettera di invito, aveva anche presentato un’offerta migliorativa, il primo adempimento in capo all’amministrazione aggiudicatrice era quello di stabilire se tale offerta migliorativa fosse effettivamente tale in ragione delle regole da essa stessa fissata nella lettera d’invito, perché solo nel caso di questa prima valutazione positiva, l’offerta migliorativa avrebbe potuto essere oggetto di delibazione ai fini dell’aggiudicazione della fornitura di gas. Sennonché l’offerta asseritamente migliorativa della P. S.r.l. non poteva essere presa in considerazione alla stregua delle regole fissate dalla lettera d’invito perché, come risulta dagli atti di causa e come del resto è pacifico tra le parti in causa, essa considerava un periodo temporale diverso (9 anni invece che 5) e contemplava anche la sostituzione delle caldaie relative agli immobili di via La Pira n. 2 e via Del Villone n. 6: essa, dunque, non poteva essere considerata semplicemente un’offerta migliorativa della prima, ma costituiva una nuova offerta; l’amministrazione aggiudicatrice, conseguentemente, avrebbe dovuto: o ritenere non valida o non utile detta offerta in relazione alle regole che essa stessa aveva posto per lo svolgimento della gara, valutando solo quelle offerte coerenti con le previsioni della lettera d’invito ovvero, rilevato che dalla ulteriore offerta avanzata dalla P. S.r.l. emergevano nuovi elementi per una più conveniente fornitura del gas ai predetti immobili avrebbe dovuto avviare una nuova procedura di gara (eventualmente informando le ditte partecipanti dell’intenzione di non procedere alla conclusione della gara). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 229 In ogni caso, anche a voler prescindere dalle considerazioni svolte circa le corrette e legittime modalità che dovevano essere osservate per il puntuale rispetto dei principi generali in materia di procedimenti ad evidenza pubblica (a nulla rilevando la circostanza che nel caso di specie si era sostanzialmente in presenza di una trattativa privata), l’amministrazione aggiudicatrice non avrebbe mai potuto limitarsi, così come ha fatto, a chiedere una “integrazione” (che come si è visto tale non poteva essere neppure considerata) della originaria offerta alla sola D. S.r.l. sulla scorta dei nuovi elementi indicati dalla P. S.r.l.. Anche a voler ammettere (anche in assenza di qualsiasi elemento, sia pur indiziario, da cui ricavare una simile evenienza) che effettivamente le offerte originarie della D. S.r.l. e della P. S.r.l. fossero le più vantaggiose e convenienti in relazione alle condizioni stabilite nella originaria lettera di invito e che, dunque, l’amministrazione aggiudicatrice abbia voluto valutare dette offerte non solo tra di loro ma anche in relazione all’ulteriore offerta aggiuntiva della P. S.r.l., avviando cioè un’atipica forma concorsuale, era necessario consentire a quest’ultima di “dialogare” con l’amministrazione, ponendo dunque le due imprese concorrenti sullo stesso piano: ciò in concreto non è stato fatto, proprio in violazione dei principi fondamentali di par condicio, di pubblicità, di trasparenza, di logicità e di imparzialità che devono presiedere allo svolgimento della gare pubbliche. Né vi è stata alcuna motivazione al contestato comportamento dell’Amministrazione aggiudicatrice, non potendosi a tal fine invocare né la discrezionalità dell’Amministrazione (che notoriamente non coincide con l’arbitrarietà), né la convenienza e l’interesse pubblico che, com’è noto, trovano al contrario tutela nella procedimentalizzazione dell’esercizio del potere e nel rispetto delle regole che, in modo evidente, nel caso di specie, è assolutamente mancato. La decisione dei primi giudici è assolutamente corretta e condivisibile, non potendosi negare che sono state palesemente violate nel caso di specie le fondamentali regole di imparzialità, buon andamento, logicità e segretezza che devono presiedere, per il rispetto dei principi fissati dall’articolo 97 della Costituzione, all’azione amministrativa ed alla scelta del contraente nelle procedure ad evidenza pubblica. II.3.- È ugualmente infondato anche il quarto motivo di gravame sollevato dalla società appellante, secondo cui i primi giudici non avrebbero potuto annullare gli atti di gara, così come richiesto dalla impresa ricorrente in primo grado, l’intervento caducatorio dovendo essere limitato alla sola parte del procedimento concorsuale ritenuto invalido. Osserva al riguardo la Sezione che, in realtà, dall’attento esame del contenuto della sentenza impugnata risulta annullato esclusivamente il provvedimento di aggiudicazione del servizio di fornitura del gas oggetto della contestata procedura concorsuale, proprio in quanto frutto di un’erronea interpretazione ed applicazione della stessa possibilità prevista nella lettera di invito di integrare e migliorare le originarie offerte presentate. L’effetto della pronuncia di annullamento (che non riguarda evidentemente la validità dei contratti già stipulati, trattandosi di questione che fuoriesce dalla cognizione del giudice amministrativo) comporta quindi non già l’annullamento della intera procedura, bensì solo di quella parte della procedura concorsuale successiva alla presentazione delle originarie offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara, dovendo l’amministrazione aggiudicatrice anche nel sub – procedimento finalizzato alla integrazione ed al miglioramento delle offerte già presentate, attenersi al rispetto dei principi generali che presiedono allo svolgimento delle procedure per la scelta del contraente. III.- Le osservazioni svolte sub. II sono idonee a respingere anche l’appello incidentale proposto dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia, nella parte in cui le relative censure, 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO come sopra rilevato, concernono l’asserita erroneità della sentenza per aver accolto il secondo motivo del ricorso proposto in prime cure dalla P. S.r.l.. Quanto al motivo di censura relativo all’asserita erroneità del capo della sentenza che ha disposto la condanna alle spese del giudizio di primo grado, si tratta di una doglianza assolutamente infondata. Infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi, la statuizione del giudice di primo grado sulle spese di giudizio costituisce espressione di un ampio potere discrezionale, ispirato peraltro anche a ragioni di equità e di convenienza, che la rende come tale insindacabile, fatta eccezione per il caso di condanna della parte totalmente vittoriosa oppure di condanna al pagamento di somme palesemente esorbitanti o irrazionali (C.d.S., sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2832; 4 febbraio 2003, n. 537; 18 ottobre 2002, n. 5731; 18 dicembre 2001, n. 6292). Nel caso di specie non è revocabile in dubbio che la statuizione sulle spese ha riguardato effettivamente solo la parte soccombente, non potendo neppure assimilarsi ad un’ipotesi di soccombenza parziale la circostanza che sia stato ritenuto fondato uno solo dei (due) motivi di censura sollevati avverso il provvedimento di aggiudicazione e la procedura concorsuale in esame, atteso che entrambi sono stati annullati interamente (e non pro parte); né d’altra parte la contestata statuizione sulle spese può ritenersi arbitraria o illogica per il solo fatto che è stata respinta la domanda risarcitoria proposta con il ricorso introduttivo del giudizio. IV.- Passando all’esame dell’appello incidentale proposto da P. S.p.A. (già P. S.r.l.), cui è succeduta la T.G.C. S.p.A. (sulla cui legittimazione non vi è stata alcuna contestazione), la Sezione rileva che esso è in parte improcedibile ed in parte infondato. IV.1.- Invero, la circostanza che l’appello principale della società D.I.C. s.r.l. e quello incidentale dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia siano stati rigettati con conseguente conferma della impugnata sentenza nella parte in cui ha dichiarato illegittimi i provvedimenti impugnati (ed in particolare il provvedimento di aggiudicazione del servizio di fornitura del gas in favore della D.I. S.r.l. e la relativa procedura ad evidenza pubblica, eccezion fatta per i contratti già stipulati, per le ragioni sopra esposte) rende improcedibile l’appello incidentale della P. S.p.A (già P. S.r.l.) nella parte in cui ha sostenuto la fondatezza del primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio di prime cure, asseritamente erroneamente rigettato dai primi giudici, difettando al riguardo ogni interesse ad ottenere una pronuncia sul punto. IV.2.- Quanto al capo della sentenza che ha respinto la domanda risarcitoria, la Sezione non può non rilevare che, come correttamente rilevato dai primi giudici, la posizione giuridica della originaria ricorrente e dei soggetti ad essa succeduti deve considerarsi integralmente reintegrata dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, a cui consegue il potere dell’amministrazione di provvedere nuovamente verificando se procedere ulteriormente all’aggiudicazione della gara sulla scorta delle originarie offerte ovvero all’annullamento della gara avviata con la lettera di invito del 30 ottobre 2003 e all’avvio di una nuova procedura concorsuale sulla base dei nuovi elementi emersi con la offerta aggiuntiva della P. S.r.l. Solo all’esito del nuovo esercizio di tale potere potrà essere eventualmente valutata ai fini risarcitori la posizione della P. S.r.l. e dei soggetti ad essa succeduti. V. In conclusione, alla stregua delle osservazioni svolte, devono essere respinti tanto l’appello principale proposto dalla Società D. S.r.l. quanto l’appello incidentale della A.T.E.R. della Provincia di Pistoia; deve essere dichiarato in parte improcedibile ed in parte deve essere respinto l’appello incidentale proposto dalla P. S.r.l. ora T.G.C. S.p.A. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 231 La reciproca soccombenza fra le parti giustifica l’integrale compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M - Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso principale proposto dalla D. S.r.l. e sugli appelli incidentali proposti dall’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia e dalla P. S.p.A. (già P. S.r.l.), cui è succeduta la società T.G.C. S.p.A., avverso la sentenza n. 2086 del 17 giugno 2004 del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sez. II, così provvede: – respinge l’appello principale e respinge altresì l’appello incidentale dell’A.T.E.R. della Provincia di Pistoia; – dichiara in parte improcedibile ed in parte respinge l’appello incidentale di P. S.r.l., ora T.G.C. S.p.A.; – dichiara compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio. – Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa». 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO A.G.S.– Parere del 25 settembre 2006, n. 107024. Ambito di applicazione della Convenzione internazionale di New York e, in particolare, sua operatività solo per le azioni esecutive di recupero dei crediti alimentari, o anche per i giudizi di accertamento del quantum debeatur (consultivo 45837/05, avvocato L. D’Ascia). «1. Si fa seguito alla nota prot. 156823 del 23 novembre 2005, relativa al contrasto interpretativo sorto in ordine all’ambito di applicazione della Convenzione di New York del 20 giugno 1956, e in particolare all’interpretazione del suo art. 6. Da un lato, vi è la tesi “restrittiva” (proposta dall’Avvocatura Distrettuale di Bologna, e abbracciata da altre Avvocature Distrettuali) secondo cui l’attivazione della procedura della Convenzione di New York richiederebbe sempre una preventiva pronuncia giudiziaria dello Stato del creditore, che accerti e quantifichi il credito alimentare, e sarebbe dunque finalizzata solo alla fase dell’esecuzione forzata. Dall’altro lato, vi è la tesi, sostenuta da codesto Ministero con nota prot. 16578 del 6 settembre 2005, secondo cui l’art. 6 della Convenzione abilita l’Istituzione Intermediaria a promuovere anche giudizi volti ad ottenere una condanna del debitore al pagamento dell’assegno alimentare, operando quindi non solo per le azioni esecutive ma anche per quelle di cognizione e condanna. Date le possibili ripercussioni sul piano delle relazioni internazionali, questo Generale Ufficio, prima di rendere un parere di massima su questo problema interpretativo, chiedeva a codesta Amministrazione un supplemento di istruttoria volto ad accertare quale fosse la prassi seguita dagli altri Paesi aderenti alla Convenzione. Con nota prot. 1180/4.0.1.559 dell’1 marzo 2006, codesto Ufficio comunicava: a) che come Autorità Speditrice il Ministero dell’Interno formula agli altri Paesi richieste di assistenza solo per l’esecuzione di provvedimenti giurisdizionali che già accertano e quantificano il credito alimentare, quindi solo per la fase esecutiva; b) che allo stesso modo si comporta la quasi totalità dei Paesi aderenti alla Convenzione, ad eccezione di alcuni Paesi come Svezia e Norvegia; c) che “sinora i tentativi di determinazione in via I P A R E R I D E L C O M I T A T O C O N S U LT I V O giurisdizionale in Italia del quantum dell’obbligo alimentare hanno raramente prodotto risultati concreti”. Infine, codesto Ufficio rilevava che “l’interpretazione adottata dall’Avvocatura Distrettuale di Bologna, ossia di chiedere ai due Paesi interessati di inviare richieste già definite nel quantum, offrirebbe un contributo allo snellimento di una procedura già di per se assai complessa”. 2. Ciò considerato, e prendendo atto di un sensibile avvicinamento della posizione di codesto Ministero a quella dell’Avvocatura Distrettuale di Bologna, la Scrivente ritiene di poter rendere il seguente parere di massima. Si prende atto innanzi tutto delle oggettive difficoltà pratiche connesse all’evasione delle richieste di assistenza per la quantificazione del credito alimentare: tali difficoltà investono sia l’operato di codesta Amministrazione, sia quello delle Avvocature Distrettuali dello Stato, chiamate a svolgere un’attività difensiva che, per i suoi contenuti, richiederebbe uno stretto collegamento con il diretto interessato. Occorre poi ricostruire gli obiettivi perseguiti dalla Convenzione di New York. Nelle premesse della Convenzione tali obiettivi sono sintetizzati nella necessità di risolvere il “problema umanitario che si presenta per le persone bisognose di assistenza legale all’estero” e di superare le “difficoltà legali e pratiche” legate alla “promozione di azioni alimentari o alla esecuzione di decisioni”. L’art. 1 compendia poi l’oggetto della Convenzione nell’attività di aiuto e assistenza fornita ai creditori alimentari per ottenere il pagamento degli alimenti dovuti da un soggetto che si trovi sottoposto alla giurisdizione di un’altra Parte contraente (c.d. Stato del debitore). A parere della Scrivente, la soluzione del problema sollevato dipende principalmente dalla interpretazione dell’art. 1 della Convenzione, e in particolare dal significato da attribuire al requisito della sottoposizione del debitore alla giurisdizione di un altro Paese contraente. Occorre infatti stabilire se ai fini della Convenzione di New York la competenza giurisdizionale dello Stato del debitore debba essere esclusiva, o se possa anche sussistere una competenza giurisdizionale concorrente dello Stato del creditore. Questa Avvocatura ritiene che debba preferirsi la prima interpretazione, e che quindi per l’attivazione della Convenzione di New York debba sussistere il requisito della esclusività della giurisdizione dello Stato del debitore. Occorre cioè che il creditore non abbia altra alternativa che rivolgersi a un giudice di uno Stato estero per il soddisfacimento della propria pretesa alimentare. Tale interpretazione trova il suo sostegno innanzi tutto nella prassi internazionale ormai consolidata, di cui codesto Ministero ha dato comunicazione, che vede solo la Svezia e la Norvegia su una posizione di applicazione estensiva della Convenzione. D’altro canto, una diversa interpretazione, che ammettesse in via generalizzata la possibilità di ricorrere alla Convenzione di New York, in alterna- 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tiva alle azioni esperibili dal creditore nel proprio Paese, porterebbe a uno stravolgimento delle finalità della Convenzione medesima. Questa si trasformerebbe infatti, da strumento per superare le difficoltà di organizzare un’azione giudiziale all’estero, in una forma di gratuito patrocinio generalizzato fornito a cittadini di Paesi stranieri, operante anche quando questi abbiano la possibilità di beneficiare nel proprio Stato della tutela giurisdizionale, e, ove previsto, del gratuito patrocinio. In realtà, se un creditore alimentare può agire nel proprio Paese per far valere le sue pretese alimentari, non vi è motivo di mettere in moto la complessa e onerosa procedura della Convenzione di New York, e soprattutto di porre il patrocinio a carico di uno Stato estero. Tale ricostruzione della portata applicativa della Convenzione potrebbe trarre conforto, oltre che dalla prassi internazionale e dall’indagine delle finalità perseguite dalla Convenzione, anche da una interpretazione dell’art. 6, par. 1, Convenzione di New York, dove testualmente si stabilisce che l’Istituzione Intermediaria “transige et, lorsque cela est nécessaire, elle intente et poursuit une action alimentaire et fait exécuter tout jugement, ordonnance ou autre acte judiciaire” (transige, e, quando è necessario, intenta e promuove un’azione alimentare e fa eseguire sentenze, ordinanze o altri atti giudiziari). Fatta salva l’attività stragiudiziale di transazione, le iniziative giudiziarie dell’Istituzione Intermediaria (sia quelle che si traducono in azioni di cognizione, sia le azioni esecutive) sono quindi subordinate alla condizione della “necessarietà”. È dunque vero che l’Istituzione Intermediaria ha la legittimazione ad agire anche per l’accertamento e la quantificazione del credito alimentare, ma sempre a condizione che l’azione davanti a un giudice di un Paese estero rispetto a quello del creditore sia necessaria. Il che conferma la tesi appena prospettata: la Convenzione di New York – come mezzo assistenziale eccezionale – può essere attivata solo quando ciò è necessario, ossia solo quando lo Stato di appartenenza del creditore non abbia la competenza giurisdizionale – neanche concorrente – rispetto all’azione che si intende esercitare. La finalità della Convenzione è quindi quella di consentire al creditore alimentare di non dover subire le conseguenze negative dell’essere costretto ad adire un giudice straniero. 3. Per esaminare le conseguenze pratiche che derivano da questa interpretazione, e confortarne ulteriormente l’esattezza, rispondendo anche al quesito sollevato da codesta Avvocatura, è opportuno distinguere tra azioni esecutive e azioni di cognizione, verificando se per esse lo Stato del creditore abbia o meno la competenza giurisdizionale. Preliminarmente si osserva che ovviamente ciascun Paese aderente alla Convenzione di New York ha una propria disciplina interna di diritto internazionale privato processuale, che potrà attribuire la competenza giurisdizionale in capo al giudice dello Stato del creditore, o viceversa contenere criteri di collegamento che proiettano la competenza verso uno Stato estero. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 235 Posto dunque che la verifica deve essere effettuata caso per caso (rectius, Paese per Paese), possono qui svolgersi alcune considerazioni di carattere generale, quanto meno per quanto riguarda i Paesi aderenti alla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (ratificata in Italia con legge 21 giugno 1971, n. 804), di recente trasfusa nel Regolamento CE 44/2001 del 22 dicembre 2000 del Consiglio dell’Unione Europea. Con riferimento alle azioni meramente esecutive, volte a riscuotere un credito già accertato e riconosciuto con provvedimento giurisdizionale, la normativa della maggior parte dei Paesi (e lo stesso Regolamento CE 44/2001 [v. art. 22, n. 5]) attribuisce la competenza giurisdizionale esclusiva allo Stato in cui ha luogo l’esecuzione, ossia lo Stato dove sono situati i beni del debitore che si intendono aggredire. In questi casi, sussiste dunque pienamente il requisito della necessità per il creditore alimentare di agire davanti a un giudice di uno Stato estero, e deve pertanto essere sempre azionabile la Convenzione di New York. Di segno opposto sembra essere l’assetto normativo in tema di competenza giurisdizionale per le azioni di accertamento del credito alimentare e condanna del debitore al pagamento. Per i Paesi Europei, l’art. 5, n. 2 del Regolamento CE 44/2001 in tema di obbligazioni alimentari prevede, in aggiunta al foro generale del domicilio del convenuto, anche la competenza giurisdizionale dello Stato in cui il creditore alimentare ha il domicilio o la residenza abituale. Pertanto, operando qui la giurisdizione concorrente dello Stato del creditore, l’azione giudiziale all’estero non costituisce una necessità per quest’ultimo, e dovrebbe quindi essere esclusa l’applicazione della Convenzione di New York: il creditore alimentare deve pertanto procurarsi nel proprio Paese un titolo giudiziale che accerti e quantifichi il suo credito alimentare, e solo successivamente ricorrere alla Convenzione di New York per dare esecuzione al provvedimento giurisdizionale nel Paese in cui il debitore ha il proprio patrimonio. 4. Va peraltro rilevato che, nonostante l’affermarsi di una consolidata prassi internazionale in tal senso, la questione interpretativa in esame non è regolata da una esplicita e chiara disposizione della Convenzione, e dunque la soluzione offerta con il presente parere potrebbe non essere condivisa, e determinare una reazione diplomatica da parte di quei (sia pur pochi) Paesi – come la Svezia e la Norvegia – che accedono invece alla tesi dell’estensione illimitata dell’ambito di operatività della Convenzione. Potrebbe allora essere adottata una soluzione, per così dire, “intermedia”, che prenda le mosse proprio dalla clausola di necessità contenuta nell’art. 6, par. 1, cit., e ne fornisca una lettura più elastica rispetto a quella che la lega al rigido parametro della esistenza o meno della giurisdizione esclusiva dello Stato del debitore. Si potrebbe affermare cioè che, in presenza della giurisdizione concorrente dello Stato del creditore, il ricorso alla Convenzione di New York non sia di norma necessario, e dunque ai sensi dell’art. 6 la richiesta di assistenza all’Istituzione Intermediaria dello Stato del debitore non sia ammissibile. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ma si potrebbero far salve le ipotesi in cui vi siano particolari motivi che inducano a ritenere preferibile la proposizione dell’azione alimentare nello Stato del debitore, pur avendo il creditore la possibilità di rivolgersi al giudice del proprio Paese. Tra questi motivi vi potrebbe essere ad esempio quello del rischio che la sentenza emessa dal giudice dello Stato del creditore non sia suscettibile di riconoscimento nello Stato del debitore: è il caso in cui l’ordinamento processuale dello Stato del creditore non assicuri adeguatamente i diritti di difesa (del convenuto), oppure che in quel Paese debba applicarsi una disciplina sostanziale contraria all’ordine pubblico del Paese dove la sentenza dovrebbe essere eseguita. Ancora, sarebbe possibile accogliere la richiesta di assistenza ai sensi della Convenzione quando l’acquisizione della prova dell’esistenza del credito alimentare sia particolarmente difficile e onerosa nello Stato del creditore, e al contrario sia notevolmente più agevole nello Stato del debitore. È chiaro però che il ricorso alla Convenzione, in presenza della giurisdizione concorrente dello Stato del creditore, deve costituire in ogni caso l’eccezione, e non la regola, e che sull’Autorità Speditrice del Paese del creditore grava l’onere di fornire all’Istituzione Intermediaria gli elementi concreti da cui possa evincersi la necessità, ai sensi dell’art. 6, par. 1, cit., di proporre l’azione di cognizione davanti al giudice dello Stato del debitore. In definitiva, nei casi di giurisdizione concorrente dello Stato del debitore e dello Stato del creditore, la scelta di ricorrere o meno alla Convenzione non è rimessa al mero arbitrio del creditore, ma deve essere supportata da elementi concreti da cui emerga la particolare difficoltà per quest’ultimo di ottenere una sentenza di accertamento del credito alimentare da parte del giudice del proprio Paese, e quindi la necessità di adire il giudice dello Stato del debitore 5. Alla luce di queste considerazioni la Scrivente ritiene quindi preferibile in linea di massima la tesi restrittiva secondo cui l’Istituzione Intermediaria ha la legittimazione straordinaria ad agire nei soli casi in cui lo Stato del creditore non abbia la competenza giurisdizionale. Ciò anche tenendo conto di quanto rappresentato da ultimo da codesto Ministero nella nota prot. 1180/40.1.559, da cui è emerso che tale orientamento si conformerebbe a una prassi seguita dalla quasi totalità dei Paesi aderenti alla Convenzione, e che esso determinerebbe una sensibile semplificazione della procedura di assistenza. Dovranno dunque essere respinte, di norma, le richieste di assistenza per azioni che possano essere proposte anche davanti ai giudici dello Stato del creditore. Ma potrà essere fatta salva la possibilità di valutare, e accogliere, le richieste accompagnate da motivi specifici che possano indurre a ritenere che, in quel caso concreto, sia necessario e preferibile adire l’autorità giudiziaria dello Stato del debitore». I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 237 A.G.S. – Parere del 4 ottobre 2006, n. 111689. Se nel caso di autorizzazione ad effettuare nuove assunzioni utilizzando la graduatoria di un concorso già espletato sia necessario rispettare la riserva di posti a favore di candidati interni già prevista dal bando (consultivo 13634/06, avvocato R. Tortora). «Con la nota in riferimento codesto Istituto ha chiesto alla Scrivente se, nell’ipotesi di autorizzazione ad effettuare nuove assunzioni al fine di procedere allo scorrimento di una graduatoria relativa ad un concorso già espletato, sia necessario rispettare la riserva di posti a favore dei candidati interni prevista dall’originario bando di concorso. Deve premettersi, innanzitutto, che l’ordinamento conosce diverse ipotesi di scorrimento della graduatoria di un concorso pubblico: 1- l’art. 8 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 consente di conferire secondo l’ordine della graduatoria, oltre ai posti originariamente posti a concorso, anche quelli che risultino disponibili alla data di approvazione della graduatoria medesima, nei limiti proporzionali stabiliti dal comma 2; 2- il medesimo art. 8 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, al terzo comma (così come sostituito dall’articolo unico della legge 8 luglio 1975 n. 305), consente poi, nel caso che alcuni dei posti messi a concorso restino scoperti per rinuncia, decadenza o dimissioni dei vincitori, di procedere ad altrettante nomine secondo l’ordine della graduatoria, nel termine di due anni; 3- il comma 22 dell’art. 3 della legge 24 dicembre 1993 n. 537 prevede, in via generale, che le graduatorie dei concorsi pubblici restino efficaci per diciotto mesi dalla loro pubblicazione per eventuali coperture di posti resisi disponibili successivamente e fino alla scadenza del termine anzidetto. Tuttavia il comma 100 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004 n. 311 ha prorogato di un triennio i termini di validità delle graduatorie per le assunzioni di personale presso le amministrazioni pubbliche che per gli anni 2005, 2006 e 2007 sono soggette a limitazioni delle assunzioni, mentre il precedente comma 96, in deroga al divieto di cui al comma 95, ha consentito alle amministrazioni di procedere ad assunzioni “per fronteggiare indifferibili esigenze di servizio di particolare rilevanza ed urgenza”, nell’ambito di determinati stanziamenti e secondo particolari procedure di autorizzazione. L’ipotesi in esame è proprio quest’ultima, risultante dal combinato disposto dei commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n. 311/2004. Tale fattispecie appare significativamente diversa da quelle di cui ai nn. 1) e 2). Le due ipotesi previste dall’art. 8 del d.P.R. n. 3/1957 concernono, infatti, la copertura di posti coperti nello stesso ambito di svolgimento della procedura concorsuale, ovvero la copertura, a procedura conclusa, dello stesso numero di posti già messi a concorso in specifica surrogazione dei vincitori (rinunzianti, decaduti, dimissionari), ed hanno quindi sempre riferimento, oggettivo o soggettivo, alla particolare vicenda concorsuale che ha dato luogo alla graduatoria. L’ipotesi sub 3) riguarda invece operazioni non soltanto successive all’approvazione della graduatoria del concorso e dunque successive alla chiusura delle operazioni concorsuali, ma altresì svincolate 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO del tutto sia da ogni riferimento proporzionale al numero dei posti per la cui copertura il concorso era stato bandito, sia da ogni collegamento soggettivo alle posizioni dei vincitori del concorso. Come ha rilevato Cons. Stato, Sez. V, 16 ottobre 2002 n. 5611, “la procedura di ‘scorrimento delle graduatorie concorsuali’, rectius dell’utilizzazione delle graduatorie anche oltre i termini e le modalità prefissate nella singola procedura concorsuale, risponde a finalità ed esigenze che (…) sono proprie dell’Amministrazione, finalità per cui è principale interesse di questa ovviare alla vacanza sopravvenuta di posti in organico avvalendosi della graduatoria di un precedente concorso, piuttosto che procedere all’avvio di un nuovo (costoso e lungo) procedimento concorsuale”. Non si tratta, in altri termini, di un ampliamento o di una “coda” della procedura concorsuale già definita, ma di un autonomo istituto di carattere “eccezionale” (così lo qualifica la medesima sentenza Cons. Stato, Sez. V, 16 ottobre 2002 n. 5611), implicante l’utilizzo degli esiti di una precedente e distinta procedura, che costituisce “sempre e comunque una mera facoltà dell’Amministrazione” e che richiede, con la disponibilità dei relativi posti, la verifica in concreto dell’interesse dell’Amministrazione a procedere alla loro copertura. La procedura in questione, ancorché concettualmente rispettosa di un metodo selettivo (in quanto con essa si attinge pur sempre ad una graduatoria stilata a conclusione di un concorso pubblico), rimane comunque estranea alla procedura concorsuale di cui si utilizza la graduatoria. Di ciò si trae conferma dalle disposizioni che autorizzano la copertura dei posti disponibili con utilizzazione degli idonei delle graduatorie di pubblici concorsi approvate da altre amministrazioni (art. 9 legge 3/2003; art. 3, comma 61, legge 350/2003). Ne consegue che nel caso di utilizzo di una graduatoria di un precedente concorso non torna applicabile la “lex specialis” di questo contenuta nel relativo bando per la copertura dei posti ivi previsti. L’utilizzo della graduatoria di un precedente concorso trova invero la propria fonte disciplinatrice altrove; in particolare, per quanto qui interessa, nel combinato disposto dei commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n. 311/2004, che nulla dispongono a salvaguardia di ipotetiche riserve di posti a favore del personale interno che fossero già previste dal bando dello stesso concorso di cui si utilizza la graduatoria. L’utilizzo effettuato sulla base di tali norme dovrà pertanto rispettare i principi generali e seguire la graduatoria di merito, senza considerazione alcuna di riserve di posti. Per effetto di quanto sopra evidenziato non sembra neppure applicabile la riserva di posti contenuta nell’art. 56 del C.C.N.L. 1998/2001, il quale, appunto, limita la riserva ai posti conferiti mediante concorso pubblico: nel caso in esame, come si è detto, le assunzioni trovano la propria fonte non in un bando di concorso, bensì nel combinato disposto dei commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n. 311/2004. Le disposizioni dei bandi di concorso che prevedono una riserva di posti a favore di determinate categorie di candidati presentano del resto carattere I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 239 eccezionale e sono, come tali, di stretta interpretazione. Con la copertura dei posti riservati previsti dal bando si esaurisce il loro ambito applicativo specificamente previsto e non è quindi ipotizzabile una loro “ultrattività”. Coerente a tale ordine di considerazioni appare Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 1995 n. 293, nella quale ha affermato che “nei concorsi pubblici, una volta formata una graduatoria unica degli idonei ed esaurite le quote di riserva, non è possibile altro criterio di scelta per la nomina che lo scorrimento secondo l’ordine numerico dei graduati, ivi compresi gli appartenenti a categorie privilegiate”. Pertanto, pur nella consapevolezza dell’obiettiva incertezza della questione che potrebbe dar luogo a controversie, la Scrivente, conclusivamente, non può che ribadire che lo “scorrimento” della graduatoria del concorso indetto con la deliberazione n. 321/04/PER dell’8 aprile 2004, ai fini dell’assunzione in deroga di ulteriore personale ai sensi del combinato disposto dei commi 96 e 100 dell’art. 1 della legge n. 311/2004, dovrà essere effettuato secondo l’ordine di merito della graduatoria, senza tener conto di alcuna riserva di posti a favore dei candidati interni già prevista dal bando». A.G.S. – Parere del 6 ottobre 2006, n. 112597. Elezioni amministrative del 28-29 maggio 2006 – Ricorsi elettorali pendenti dinanzi al T.A.R. della Sardegna – Onere di impugnare la proclamazione degli eletti e conseguenze sulla procedibilità dei ricorsi pendenti – Indicazioni all’Avvocatura distrettuale di Cagliari sulla condotta da tenere in giudizio (consultivo 26013/06, avvocato F. Fedeli). «Con la nota a margine, codesta Avvocatura Distrettuale ha rappresentato alla Scrivente lo stato dei ricorsi pendenti dinanzi al T.A.R. Sardegna, ad iniziativa di alcune liste dapprima escluse, con provvedimenti della Commissione Elettorale Circondariale di Cagliari, dal partecipare alle consultazioni elettorali amministrative del 28-29 maggio 2006 (differite, nei Comuni di Cagliari e di Carbonia, all’11-12 giugno 2006) e poi riammesse, con ordinanze cautelari, dal Giudice Amministrativo (ad eccezione della lista “Democrazia Cristiana”, ricorsi T.A.R. n. 388-389/2006), con riferimento alle possibili eccezioni di improcedibilità, che codesta Avvocatura Distrettuale potrebbe sollevare in vista dell’udienza di merito, connesse all’onere gravante sui ricorrenti in materia elettorale, più volte affermato dalla giurisprudenza, di impugnare l’atto di proclamazione degli eletti. Nel concordare con la linea difensiva finora sostenuta da codesta Avvocatura Distrettuale e già nota alla Scrivente per aver assunto il patrocinio della Commissione Elettorale Circondariale di Cagliari e della Sottocommissione Elettorale di Carbonia nella fase cautelare di appello dinanzi al Consiglio di Stato, si osserva che l’onere di impugnare, con motivi aggiunti, la proclamazione degli eletti, a pena di improcedibilità del ricorso, sussiste unicamente per le liste che non abbiano ottenuto dal Giudice Amministrativo, in sede cautelare, l’ammissione a partecipare alle elezioni e, 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO quindi, unicamente per i ricorsi n. 388 -389/2006 ad istanza dei sig.ri (…), rappresentanti della lista “Democrazia Cristiana”, poiché negli altri casi le liste che sono state riammesse alla competizione elettorale hanno visto rimosso dal Giudice Amministrativo il vizio che inficiava la regolarità della consultazione elettorale, sicché i ricorrenti non hanno interesse ad impugnare la proclamazione degli eletti, essendosi interrotto – grazie al provvedimento cautelare del Giudice Amministrativo – il nesso che consentiva la comunicazione del vizio dall’atto endo-procedimentale al provvedimento finale (salva la facoltà e l’eventuale interesse ad impugnare la proclamazione degli eletti per vizi diversi dalla mancata ammissione della lista). L’eventuale impugnativa della proclamazione degli eletti da parte di una lista ricusata dalla Commissione Elettorale e poi ammessa a partecipare alle elezioni dal Giudice Amministrativo sarebbe inammissibile per carenza di interesse, a meno che la lista non sollevi censure diverse da quella afferente al provvedimento di esclusione. Infatti, il provvedimento cautelare del Giudice Amministrativo soddisfa l’interesse della lista a partecipare alla consultazione elettorale sicché quest’ultima, in sede di merito, non può chiedere l’invalidazione delle elezioni (come avverrebbe qualora fosse impugnata la proclamazione degli eletti) ma solo insistere per ottenere l’annullamento del provvedimento di ricusazione (che il T.A.R. Sardegna, discostandosi dall’Ad. Plenaria n. 10/2005, ha ritenuto immediatamente lesivo ed impugnabile), già sospeso in fase cautelare. Ai fini della verifica della persistenza dell’interesse ad impugnare e, quindi, della procedibilità del ricorso, occorre tuttavia tenere conto, in materia elettorale, anche dei risultati della consultazione popolare, poiché le liste che sono state ammesse in sede cautelare dal Giudice Amministrativo e che, pur avendo partecipato alle elezioni, non hanno conseguito alcun seggio all’esito dello scrutinio, non possono più vantare alcun interesse a perseguire una pronuncia di merito, in quanto quest’ultima non potrebbe arrecare o consolidare alcun vantaggio obiettivo in favore delle liste ricorrenti. Si riportano, sul punto, le considerazioni svolte dal T.A.R. Lazio, sezione II bis, nella sentenza n. 5566/2005 (ric. n. 2515/2005 S.A. ed altri c/ Ufficio Elettorale Regionale presso la Corte di Appello di Roma e altri) che, condividendo le considerazioni della Scrivente, ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso con il quale la lista “Alternativa Sociale con Alessandra Mussolini” aveva impugnato l’esclusione dalle elezioni del Presidente e del Consiglio della Regione Lazio del 3-4 aprile 2005, alle quali aveva poi partecipato in virtù di un’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, senza tuttavia conseguire alcun seggio, in quanto “tale riscontro obiettivo è ex se sufficiente a determinare l’improcedibilità del ricorso, anche a prescindere dalla richiesta in tal senso avanzata dai ricorrenti. La circostanza che la lista “Alternativa sociale con Alessandra Mussolini” ha partecipato alle elezioni regionali senza conseguire alcun seggio, infatti, comporta un’oggettiva sopravvenuta carenza di interesse al ricorso dei ricorrenti, in quanto, l’eventuale accoglimento del gravame, come evidenziato dalla difesa erariale, non potrebbe che consolidare un risultato negativo. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 241 A tale stregua essendo venuto meno l’interesse processuale al ricorso, che altro non è che la proiezione processuale dell’interesse sostanziale dei ricorrenti rappresentato dalla pretesa giuridica oggetto del ricorso in trattazione, non può che concludersi con l’improcedibilità del ricorso stesso, atteso che è principio consolidato che la sussistenza dell’interesse processuale al ricorso – costituito dall’utilità o dal vantaggio che può derivare al ricorrente dall’accoglimento del gravame – deve sussistere fino al momento della decisione. Né può ritenersi, come sostenuto dall’interventore ad opponendum all’odierna pubblica udienza, che sussisterebbe comunque un interesse morale e civico (oltre che civilistico) della parte che ha partecipato al giudizio a conoscere se la tornata elettorale cui ha parimenti partecipato si sia svolta correttamente. Tale prospettato interesse, infatti, è inconferente con l’oggetto del giudizio in trattazione, che è unicamente quello di verificare la legittimità degli impugnati provvedimenti di esclusione delle liste ricorrenti e non già di verificare la legittimità delle successive operazioni elettorali e del conclusivo provvedimento di proclamazione degli eletti, in relazione alla intervenuta partecipazione delle liste ricorrenti al procedimento elettorale, per effetto del provvedimento cautelare di appello. Né appaiono conferenti i precedenti giurisprudenziali richiamati dal predetto interventore (T.A.R. Campania, Napoli, II, 30 aprile 1998 n. 1333; Cons. St., V, 28 gennaio 2005 n. 187), entrambi relativi all’ipotesi di improcedibilità del ricorso per omessa impugnazione del provvedimento finale dell’atto di proclamazione degli eletti, secondo i quali nel primo si è proceduto comunque ad una decisione di merito del ricorso e nel secondo, pur dichiarando sotto il richiamato profilo, il ricorso improcedibile è stato comunque affrontato “in via delibativa” l’esame dei profili di censura dedotti. Ciò nella considerazione che nella specie l’improcedibilità del ricorso non viene dichiarata per l’omessa impugnazione dell’atto di proclamazione degli eletti, ma sul duplice presupposto della espressa richiesta dei ricorrenti – alla quale si sono associate sia le Autorità emananti i provvedimenti impugnati che la Regione quale Amministrazione alla quale vengono imputati i risultati delle elezioni regionali – e della obiettiva esistenza del fatto che la lista ricorrente ha partecipato alle elezioni regionali senza conseguire alcun seggio”. Con la declaratoria di improcedibilità del ricorso, per sopravvenuta carenza di interesse, rimangono comunque fermi gli effetti delle ordinanze cautelari che avevano disposto l’ammissione delle liste ricorrenti alla competizione elettorale, così da escludere che possano derivare conseguenze invalidanti sull’esito della consultazione popolare. In altri termini, la declaratoria di improcedibilità del ricorso attesta il venir meno dell’interesse (attuale) ad una pronuncia di merito da parte della lista ricorrente alla luce dei risultati della consultazione popolare come in concreto determinatisi e destinati, quindi, a rimanere confermati. Pertanto, ad avviso della Scrivente, la situazione dei ricorsi pendenti dinanzi al T.A.R. Sardegna può essere così delineata: 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – il ricorso n. 386/2006 è procedibile senza necessità che venga impugnata la proclamazione degli eletti, in quanto la lista ammessa (“l’Ulivo”) ha conseguito al consiglio comunale di Cagliari 10 seggi con il 20,2% dei votanti (i dati elettorali sono desunti dal sito internet del Ministero dell’Interno); – il ricorso n. 387/2006, ad istanza del P.R.I., è improcedibile non avendo la lista riportato alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Cagliari, alle quali è stata ammessa dal Giudice Amministrativo, alcun seggio; – i ricorsi n. 388-389/2006 per conto della lista “Democrazia Cristiana”, esclusa dalla consultazione elettorale relativa al comune di Monserrato con provvedimento della Commissione Elettorale la cui efficacia non è stata sospesa dal Consiglio di Stato in sede cautelare, sono improcedibili qualora i ricorrenti non impugnino la proclamazione degli eletti, con motivi aggiunti o autonomo ricorso; – il ricorso 390/2006 è improcedibile non avendo la lista “Colori della Terra-Ambientalisti Umanitari – Codacons – Lista Consumatori – Doveri Civici – Democrazia Cristiana” conseguito alcun seggio all’esito delle elezioni del consiglio comunale di Cagliari alle quali è stata ammessa a partecipare dal Giudice Amministrativo; – il ricorso n. 401/2006 è improcedibile non avendo la lista ammessa dal Giudice Amministrativo, alle elezioni per il rinnovo della municipalità di Pirri, conseguito alcun seggio. – il ricorso n. 395/2006 è procedibile senza necessità che venga impugnata la proclamazione degli eletti, in quanto la lista ammessa ha conseguito un seggio nel consiglio comunale di Carbonia con il 2,7% dei votanti. Codesta Avvocatura si atterrà alle suesposte indicazioni, comunicando le decisioni che verranno emesse dal T.A.R. Sardegna per valutare eventuali iniziative da assumere in fase di gravame (omissis)». A.G.S. – Parere del 17 ottobre 2006, n. 116847. Terminali del lotto automatizzato: contributo una tantum dovuto dai raccoglitori per l’installazione dei terminali: eccedenze di versamento: debenza di interessi in sede di rimborso (consultivo 58647/05, avvocati M. Mari – A. Grumetto). «Con riferimento alla disciplina del contributo una tantum dovuto dai raccoglitori delle giocate al lotto, per l’installazione dei terminali del sistema automatizzato del giuoco, si richiede l’avviso della Scrivente in ordine alla debenza degli interessi sulle somme versate in eccedenza dagli stessi raccoglitori e da rimborsare da parte dell’Amministrazione. Va ricordato, infatti, che l’art. 5, comma 1, legge 85/90 (che sostituisce l’art. 12 della legge 528/82) in vista della progressiva automatizzazione del gioco, stabiliva che ogni raccoglitore, per l’installazione delle apposite apparecchiature, fosse tenuto a versare all’Amministrazione un contributo una tantum, da determinarsi con decreto ministeriale. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 243 Il D.M. dell’8 agosto 1996 fissava l’ammontare di tale contributo in lit. 4.000.000 per ciascun terminale installato, da corrispondersi entro 60 giorni dalla data di ricevimento della richiesta dell’ispettorato compartimentale dei monopoli di Stato territorialmente competente, salva rateizzazione, a richiesta, in quattro annualità con addebito degli interessi al tasso legale e prestazione di apposita garanzia. Il successivo D.M. n. 474/99, abrogativo del D.M. dell’8 agosto 1996, fatti salvi i rapporti esauriti, stabiliva che il contributo di lire 4.000.000 venisse corrisposto in quattro rate annuali con prestazione di fideiussione, precisando che la prima rata dovesse versarsi all’atto dell’installazione di ciascun terminale, mentre per i terminali già installati il versamento della prima rata dovesse avvenire alla data di entrata in vigore dello stesso D.M.. L’art. 41, comma 2, legge n. 388/00 (legge finanziaria per il 2001), infine, con disposizione sostitutiva del comma 5 dell’art. 12, legge n. 528/82 (già novellato, come detto, dalla legge 85/90) stabiliva in L. 2.500.000 (attuali €. 1.291,15), l’importo del contributo una tantum, fissando il termine del 30 giugno 2001 per il pagamento relativo ai terminali già funzionanti alla data di entrata in vigore della stessa nuova disposizione ed il termine di 60 giorni dalla data di ricevimento della richiesta dell’Amministrazione per i terminali successivamente installati. Orbene, è fuor di dubbio che in tutti i casi in cui risulti che il contributo sia stato versato due volte si debba procedere alla restituzione del secondo contributo versato. È da dubitare peraltro che debba procedersi a restituzione in altri casi, in particolare allorché i rapporti concernenti terminali funzionanti al momento di entrata in vigore della legge 388/2000 risultino, a tale momento, già esauriti. Le relative questioni, che peraltro non formano oggetto del parere richiesto, potrebbero essere sollevate a difesa dell’Amministratore in un’eventuale sede contenziosa. In ogni caso, avuto riguardo allo specifico quesito proposto, deve osservarsi che nei casi in cui sussista obbligo di restituzione, la fattispecie è da ritenere disciplinata dall’art. 2033 c.c., con la conseguenza che, non potendosi dubitare della buona fede dell’Amministrazione che ha introitato il contributo nella misura stabilita dalla normativa vigente al momento dell’installazione dei terminali, gli interessi sono dovuti solo a decorrere dalla domanda giudiziale. Ciò secondo la costante interpretazione data della giurisprudenza alla disposizione anzidetta, in coordinata relazione alla prescrizione dell’art. 1148 c.c.». A.G.S. – Parere del 17 ottobre 2006, n. 117287. Ministero dell’Economia e delle Finanze – Assegnazione a mansioni superiori – Artt. 56 e 57 del D.Lgs. n. 29/93 – Art. 3, co. 208, L. 549/1995 – Decorrenza del diritto alle differenze retributive – Disciplina generale o speciale (consultivo 33814/05, avvocato A. Grumetto). «Codesta Amministrazione ha richiesto l’avviso della Scrivente in relazione al problema della decorrenza del diritto alla retribuibilità delle mansioni superiori. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Riferisce che per i dipendenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze esiste una disciplina speciale, contenuta nella legge n. 549 del 1995, il cui art. 3, comma 208, prevede che, in deroga all’art. 57 del D.Lgs. n. 29/93 all’epoca vigente, la disciplina delle mansioni superiori in esso prevista trova applicazione ai dipendenti del Ministero decorsi 60 giorni dall’approvazione della prima graduatoria dei corsi di riqualificazione previsti dal precedente comma 207. Riferisce altresì che, come noto, la Corte costituzionale (sentenza n. 194 del 2002) ha dichiarato illegittimi i commi 205, 206 e 207 del predetto art. 3, ma non il comma 208, che conteneva il differimento dell’entrata in vigore della disciplina di cui all’art. 57 D.Lgs. n. 29/93. Letti gli atti trasmessi, la Scrivente osserva quanto segue. 1) È noto che la disciplina delle mansioni superiori oggi vigente (art. 52 T.U. n. 165 del 2001, che ha recepito l’art. 56 del D.Lgs. n. 29/98, come sostituito dall’art. 25 del D.Lgs. n. 80/98 e modificato dall’art. 15 del D.Lgs. n. 387/98) riguarda sia l’ipotesi del conferimento legittimo di mansioni superiori (in via provvisoria e nei casi di vacanza del posto in organico o per la sostituzione di un dipendente con diritto alla conservazione del posto di lavoro), sia l’ipotesi del conferimento illegittimo (vale a dire fuori dei casi previsti dalla legge). 2) Con il presente parere la Scrivente intende prendere in esame entrambe le ipotesi. 3) Con riguardo alla seconda (conferimento illegittimo), l’art. 57 del D.Lgs. n. 29/93, nel testo vigente all’epoca della legge n. 549 del 1995, non prevedeva l’ipotesi di conferimento illegittimo di mansioni superiori, ma solo l’ipotesi di conferimento legittimo. La disciplina per i casi di conferimento contra legem venne inserita nell’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93 mercé la sua sostituzione ad opera dell’art. 25 del D.Lgs. n. 80/98. 4) Pertanto, ad un primo approccio, non sembra possibile ritenere che l’art. 3, comma 208 della legge n. 549 del 1995, nella parte in cui richiama l’art. 57 D.Lgs. n. 29/93 (si ripete: nel testo all’epoca vigente), consenta di ritenere che anche la disciplina del conferimento illegittimo di mansioni superiori sia stata differita all’esito dell’espletamento dei corsi previsti dalla legge. 5) Con riguardo ad entrambe le ipotesi di conferimento di mansioni superiori, invece, anche a voler ritenere che il rinvio di cui al predetto comma 208 sia dinamico – (e cioè si riferisca alla materia delle mansioni superiori nel suo complesso ) e che pertanto, abrogato l’art. 57 (ad opera dell’art. 43 del D.Lgs. n. 80/98) il rinvio debba intendersi all’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93 -, come ricordato da codesto Ministero, la disciplina dei corsi di riqualificazione di cui ai precedenti commi dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995 è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (n. 194 del 2002); sicché è venuto meno il presupposto di fatto cui ancorare il rinvio dell’entrata in vigore della disciplina delle mansioni superiori per il personale del Ministero. Né risulta che il Legislatore abbia modificato la disciplina in parola dopo la ricordata sentenza della Corte costituzionale. 6) Non autorizza ad ammettere un rinvio della disciplina delle mansioni superiori neppure la legge n. 265 del 2002, con la quale, in considerazione I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 245 della citata pronuncia della Corte costituzionale, si è stabilita “a titolo individuale ed in via provvisoria” la conservazione del trattamento retributivo e delle funzioni del personale che aveva superato i corsi di riqualificazione dichiarati illegittimi dal Giudice delle leggi. Tale intervento ha evidenti caratteristiche di misura “tampone” per gli interessati e non fa salve (né avrebbe potuto farlo) le graduatorie dei corsi espletati. 7) In conclusione, per quanto sopra esposto, ritiene la Scrivente che il problema della decorrenza della retribuibilità delle mansioni superiori legittime ed illegittime sia da ricondurre, anche per il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nell’ambito della disciplina generale (art. 56 D.Lgs. n. 80/98, poi confluito nell’art. 52 del T.U. n. 165/01), con la conseguenza che, in presenza di tutti i presupposti previsti dalla disciplina, il diritto alle differenze retributive spetti a far data dal 22 novembre 1998, e cioè dall’entrata in vigore dell’art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998, modificativo del comma 6 dell’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93 (come di recente ritenuto dall’Ad. pl. Consiglio di Stato n. 3/06). 8) Tale conclusione consente di ricondurre ad unità la disciplina dell’istituto per tutto il comparto delle Amministrazioni statali e si presenta conforme ai principi costituzionali contenuti nell’art. 36 Cost., per come più volte esplicitati dalla Corte costituzionale (in particolare si v. l’ord. n. 337/93). 9) Si coglie l’occasione per rammentare in questa sede il diverso orientamento della Corte di cassazione, in virtù di una serie di decisioni (n. 91/04 e n. 14944/04) con le quali si è ritenuto che il diritto alla retribuibilità delle mansioni superiori spetti a partire dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 80/98 (che ha sostituito l’art. 56 del D.Lgs. n. 29/93) e che la modifica operata con l’art. 15 del D.Lgs. n. 387/98 abbia carattere interpretativo e non innovativo; con la precisazione, peraltro, tenuto conto del momento iniziale della giurisdizione dell’A.G.O., che avanti a questa non possono essere avanzate pretese per il periodo anteriore al 1 luglio 1998. 10) Anche in attesa di una definitiva pronuncia della Corte di cassazione, la Scrivente ritiene, allo stato, di seguire l’indirizzo dell’Ad. Pl. del Consiglio di Stato n. 3/06, con la conseguenza di riconoscere il diritto al trattamento a partire dal 22 novembre 1998». A.G.S. – Parere del 26 ottobre 2006, n. 121593. Rimborso spese legali ex art. 18 d.l. n. 67/97 – Se sussista il diritto al rimborso in caso di assoluzione con formula ai sensi dell’art. 530 II c.p.p. che lascia aperta l’eventualità di affermazione di responsabilità civili o amministrative (consultivo 27471/06, avvocato M. Russo). «Codesta Amministrazione ha richiesto alla Scrivente il parere di congruità previsto dall’art. 18 legge 135/97 in relazione alla parcella presentata dal legale di un dipendente. Ciò premesso, si osserva quanto segue. Sussiste, nella specie, il presupposto della connessione dei fatti contestati con l’espletamento del servizio, vertendo l’accusa penale su un’imputazione di peculato militare evidentemente occasionata dal servizio. Per quanto 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO concerne l’esclusione della responsabilità, deve rilevarsi che la sentenza di primo grado, riformata in appello ma successivamente confermata in Cassazione, assolve l’imputato dai fatti ascrittigli “perché il fatto non sussiste” espressamente richiamando la norma di cui all’art. 530, 2° comma c.p.p.. Tale formula assolutoria viene adottata “quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”. Ciò premesso, si osserva che, con recente parere n. 358/06 della C.G.A. Sez. consultiva, è stato affermato che la formula assolutoria di cui sopra non corrisponderebbe ad un effettivo e totale esonero da responsabilità, in quanto essa lascerebbe aperta la possibilità di future azioni volte a fare valere per gli stessi fatti la responsabilità civile o amministrativa del dipendente, con la conseguenza che verrebbe a mancare uno dei presupposti (appunto l’esclusione di responsabilità) per la concessione del rimborso delle spese sostenute per la difesa. In effetti, nella parte motiva della sentenza pronunciata dal Tribunale militare, viene espressamente affermata la teorica possibilità di ammettere “…una responsabilità amministrativa disciplinare” nei confronti dell’imputato, per gli stessi fatti oggetto del giudizio penale (peraltro poi esclusa nel caso di specie, almeno rebus sic stantibus, dal provvedimento di archiviazione adottato per gli stessi fatti dalla Corte dei Conti – cfr. sentenza Corte App. pen. del 12 luglio 2005, pag. 6). Tutto ciò premesso, si osserva che la Scrivente, sulla questione di principio enunciata dalla C.G.A., ha avuto modo di esprimersi in senso difforme con parere in data 9 giugno 1998 prot. 70620 approvato dal Comitato Consultivo, affermando: “Per quanto riguarda il problema di decisioni che hanno escluso determinate responsabilità (per esempio penali) ma dai cui fatti di causa emergono altre forme di responsabilità non perseguite nelle sedi competenti, si osserva come non sia possibile negare la richiesta di rimborso. Questa, infatti, è direttamente connessa all’attività difensiva che ha portato nel corso di quel dato giudizio alla negazione di quella data responsabilità. La decisione, del resto, si ricollega al profilo valutativo che l’ordinamento effettua di un determinato fatto; per cui ben può aversi una situazione da cui scaturiscono diversi giudizi (es. penali, civili, contabili ecc. ) che operano su piani diversi, per cui per uno di essi quel dato atto o fatto non ha alcuna rilevanza, di tal che non sembra possano sussistere ostacoli per la responsabilità delle spese sostenute per la difesa, difesa che appunto ha portato all’esclusione di responsabilità per quel tipo di procedimento”. Tanto considerato, la Scrivente non ritiene di doversi discostare dall’orientamento assunto sulla questione, nonostante il diverso avviso recentemente espresso dalla C.G.A. Ed invero, la potenziale rilevanza della condotta in termini di responsabilità civile, disciplinare od amministrativa – sia che venga poi accertata in concreto nelle sedi opportune, sia a maggior ragione se rimanga a livello solo ipotetico – non vale a superare la considerazione che il titolo in base al quale il dipendente è chiamato a rispondere (nonché i relativi presupposti) sono autonomi e distinti, come pure lo sono i relativi procedimenti accertativi e le spese sostenute per questi ultimi. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 247 Non pare, pertanto, che – anche in presenza di altra (potenziale o certa) responsabilità – possa negarsi il rimborso delle spese del procedimento penale che abbia accertato l’insussistenza di quel tipo di responsabilità. Tutto quanto sopra premesso, la Scrivente, prima di rendere parere sulla congruità degli importi richiesti, chiede a codesta Amministrazione di voler precisare se gli altri dipendenti, imputati nel medesimo procedimento penale, abbiano a loro volta presentato istanza di rimborso e, in caso affermativo, se la stessa sia stata inoltrata alla Scrivente per il parere di competenza. Quanto sopra ai fini del necessario coordinamento nella trattazione delle singole posizioni, strettamente connesse fra loro». A.G.S. – Parere del 27 ottobre 2006, n. 122483. Istanza di rimborso spese legali – Parcella predisposta dal legale del dipendente – Congruità – Voce “Esame e Studio” – Modalità di computo (consultivo 44255/04, avvocato M. Salvatorelli). «(…) la Scrivente osserva quanto segue. Le sessioni telefoniche e gli incontri con l’assistito, benché non documentati, appaiono ragionevoli e congrui con riferimento alla natura del procedimento. Per la voce esame e studio degli atti, si osserva poi che essa è stata correttamente reiterata per ogni grado, ma moltiplicata per ciascun atto o documento esaminato, mentre spetta – salva la possibilità di aumento di cui al comma 3 dell’art. 1 della Tariffa – “ogni volta che...viene compiuta l’attività” (art. 1, comma 4) intesa nel suo complesso, atteso che la tariffa indica specificamente quanto la liquidazione spetta per ogni atto. Conseguentemente, per ciascuna fase di giudizio, laddove nel prospetto di parcella viene indicata la voce “esame e studio atti di indagine”, va liquidato per ciascuna fase una sola volta l’importo di €. 60,00, anziché: – 15 volte, come per la fase A) (indagini preliminari); – 14 volte, come per la fase B) (udienza preliminare); – 62 volte, come per la fase C) (dibattimento); – 3 volte, come per la fase E) (rinvio). Il totale imponibile, anziché €. 31.146,00, va determinato, salvo errori, in €. 25.746,00, oltre rimborso spese, CAP e IVA da calcolarsi come per legge (…)». A.G.S. – Parere del 27 ottobre 2006, n. 122486. Rimborso spese legali – Parcella predisposta dal legale del dipendente – Congruità – Voce “Esame e Studio” – Modalità di computo (consultivo 41952/04, avvocato M. Salvatorelli). «Con riferimento alla richiesta di rimborso di cui all’oggetto, rilevato che i fatti per i quali il dipendente è stato sottoposto al procedimento sono connessi con l’espletamento del servizio e che il procedimento si è concluso 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO con ordinanza di archiviazione, con esclusione di responsabilità a carico del dipendente, si esprime parere favorevole in ordine alla spettanza del rimborso. Si osserva, tuttavia che le somme indicate nei progetti di parcella dell’avvocato non appaiono congrue. Il parere espresso sul punto dal Consiglio dell’Ordine, infatti, anche laddove si pronunci in deroga alle tabelle professionali ai sensi dell’art. 1, co. 3, ultima parte, della tariffa penale, rileva unicamente nei rapporti tra professionista e patrocinato, ma non può essere ritenuto vincolante nei confronti dell’Amministrazione in sede di rimborso e dell’Avvocatura, cui nella fattispecie la legge attribuisce una specifica competenza in ordine alla determinazione della congruità. Orbene, in difetto di documentazione, gli importi indicati a titolo di esame e studio (voci 2 e 4 del progetto di parcella) non possono essere congruiti a fronte di un importo massimo previsto dalla tabella allegata alla tariffa all’epoca applicabile pari a £. 100.000, poiché per detta voce, salva la possibilità di aumento di cui al richiamato comma 1 dell’art. 3 Tar. pen., spetta non per ciascun atto o documento esaminato, ma “ogni volta che...viene compiuta l’attività”. Il progetto di parcella va pertanto ridotto a un totale di £. 10.900.000, per il qual è ragionevole, in considerazione della notoria rilevanza dell’impegno del processo, nonché della mole della documentazione esaminata, applicare l’aumento del quadruplo ex art. 1 co. 2 Tar. pen., per un importo totale di £. 43.600.000, pari a €. 22.518,00, sul quale dovranno essere calcolati il rimborso forfettario (spese generali): (10%), C.P.A. (2%) e IVA(20%), come per legge. Come prassi, al rimborso si procederà dietro esibizione di fatture quietanzate (…)». A.G.S. – Parere del 6 novembre 2006, n. 125554. Impugnabilità del decreto presidenziale ex art. 83 ter disp. Att. c.p.c. – Ricorribilità per cassazione della sentenza adottata da una sezione distaccata della Corte d’Appello sulla base di un decreto presidenziale ex art. 83 ter disp. Att. c.p.c. che abbia assegnato il giudizio a Sezione distaccata della Corte d’Appello sita in città diversa da quella in cui ha sede l’Avvocatura dello Stato: se le regole del foro erariale prevalgano sulle norme regolanti la ripartizione tra sedi principali e Sezioni distaccate (consultivo 36481/06, avvocato M. Russo). «Codesta Avvocatura ha prospettato alla Scrivente l’opportunità di impugnare con ricorso per cassazione il decreto adottato, a mente dell’art. 83 ter Disp. Att. C.p.c., dal presidente della Corte d’Appello di Cagliari. Con tale provvedimento, è stato assegnato alla Sezione distaccata di Sassari della Corte d’Appello di Cagliari il reclamo di cui all’oggetto. Ciò in quanto il presidente di tale autorità giudiziaria ha ritenuto che la regola del foro erariale di cui all’art. 7 R.D. 1611/33 non osti a che la cognizione su un giudizio di appello (o, come nella specie, di reclamo, assimilabile all’appel- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 249 lo) possa appartenere ad una sezione distaccata della Corte d’Appello nel cui distretto abbia sede l’Avvocatura dello Stato. A detta del presidente della Corte d’Appello di Cagliari, infatti, la norma del foro erariale serve unicamente ad individuare la Corte d’Appello competente per distretto sicché – una volta che tale individuazione sia correttamente avvenuta – non v’è ragione per cui una controversia in cui sia parte l’Amministrazione dello Stato non debba essere assegnata ad una Sezione staccata, pur sempre facente parte della Corte d’Ap-pello principale. Secondo la prospettazione suggerita da codesta Avvocatura, il provvedimento presidenziale non dovrebbe essere censurato sotto il profilo della violazione delle norme in materia di competenza, bensì sotto il profilo della violazione di legge e, segnatamente, della norma di cui all’art. 7 r.d. 1611/33 che – per effetto della determinazione presidenziale – viene a subire una deroga ad opera della legge istitutiva della Sezione Distaccata di Sassari. Tanto premesso, la Scrivente rende il seguente parere. Si concorda, innanzi tutto, con quanto osservato da codesta Avvocatura circa l’impossibilità di configurare il problema della spettanza di una controversia alla cognizione della sede principale o della Sezione Distaccata di un’Autorità giudiziaria in termini di questione di competenza. È infatti principio consolidato della giurisprudenza di legittimità che l’attribuzione dei giudizi ad una Sezione distaccata di un’autorità giudiziaria o, piuttosto, alla sede principale, rilevino solo in termini di organizzazione interna all’Ufficio (tra le altre, Cass. SS.UU. 1374/94 in materia di Sezioni staccate delle preture e, più di recente, Cass. I sez. n. 8025/01 nonché, proprio sul riparto di funzioni tra la Corte d’Appello di Cagliari e la Sez. distaccata di Sassari, Cass. I sez. 1814/05). E, d’altronde, il tenore letterale della normativa di riferimento non pare dare luogo ad equivoci: l’art. 59 R.D. 12/1941, prevedendo che: “Le sezioni distaccate delle Corti d’Appello hanno sede nei comuni indicati…. Esse, nella circoscrizione territoriale nella quale esercitano la giurisdizione, costituiscono sezioni delle corti d’appello dalle quali dipendono”, lascia chiaramente intendere che dette Sezioni distaccate sono pur sempre articolazioni della stessa Corte d’Appello. Per quanto riguarda, invece, la possibilità di rivolgere il ricorso per cassazione avverso il decreto presidenziale di cui si è fin qui detto, la Scrivente è di avviso diverso rispetto a quanto propone codesta Avvocatura. Infatti, l’art. 83 ter disp. att. c.p.c., prevede: L’inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, delle cause nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica è rilevata non oltre l’udienza di prima comparizione. Il giudice, se ravvisa l’inosservanza o ritiene comunque non manifestamente infondata la relativa questione, dispone la trasmissione del fascicolo d’ufficio al presidente del tribunale, che provvede con decreto non impugnabile”. Ed in effetti, Cass. SS. UU. cit. ha definito il provvedimento che decide della distribuzione delle cause fra sezioni delle preture come di natura ordi- 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO natoria non impugnabile mentre, proprio con particolare riferimento al provvedimento ex art. 83 ter Disp. Att. c.p.c., Cass. 15752/02 parla di provvedimento “amministrativo ordinamentale non procedimentale”. Allo stato, quindi, non sembra sostenibile la tesi della natura decisoria del decreto presidenziale, né di conseguenza – nell’immediato – sembra possibile azionare innanzi al giudice della legittimità la ritenuta violazione dell’art. 7 r.d. 1611/33 impugnando il decreto, peraltro espressamente definito dall’art. 83 ter cit. “non impugnabile”. Un ricorso del genere, infatti, rischierebbe verosimilmente di andare incontro ad una declaratoria di inammissibilità. Tuttavia, sembra alla Scrivente che – nonostante la non impugnabilità del decreto presidenziale ex art. 83 ter cit. – l’Amministrazione non debba rimanere, in linea di principio, sfornita di ogni tutela rispetto al vizio di costituzione del giudice derivante dalla violazione dell’art. 7 R.D. 1611/33. Ciò tanto più che – sia pure con un certo margine di alea, e con la precisazione che, come già detto, non si tratta di questione di competenza bensì di violazione di legge – la posizione sostenuta da codesta Avvocatura presenta un significativo interesse, stanti i problemi di spesa ed organizzativi conseguenti alla deroga al principio del foro erariale. Ciò posto, pare alla Scrivente che lo strumento processuale attraverso il quale potrà sottoporsi all’attenzione della Corte di cassazione la questione di massima di cui sopra sia rappresentato dal ricorso per cassazione avverso il provvedimento che definisce il giudizio nel merito, provvedimento sul quale la violazione normativa che inficia il decreto presidenziale ordinatorio ex art. 83 ter cit. finisce inevitabilmente con il riverberarsi. Tanto premesso in linea di principio, il concreto interesse ad utilizzare il caso di specie per la sottoposizione alla Suprema Corte della questione di principio sarà, comunque, compiutamente valutato all’esito del reclamo, sembrando preferibile – in linea di massima, e salvo diversa valutazione alla luce del decreto che definirà il giudizio di merito – coltivare la questione in sede di legittimità in relazione a contenzioso su altra materia (…)». A.G.S. – Parere del 13 novembre 2006, n. 129398. Ordinanze emesse a titolo di riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione – Esecutività (consultivi 25080/06 e 27960/06, avvocato M. Greco). «... riesaminata la questione alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale della materia, deve osservarsi quanto segue. La giurisprudenza (cfr. Cass. Pen. 41523/05 Ministero Economia e Finanze c/ A.) ha costantemente affermato che l’ordinanza della Corte d’Appello diventa esecutiva solo dopo il passaggio in giudicato (ex combinato disposto degli artt. 127 e 585 c.p.p.), ossia in mancanza di impugnazione nel termine di 15 giorni dall’avvenuta notifica alle parti (cioè dalla comunicazione a queste da parte della competente Cancelleria; ex combinato disposto degli artt. 544,2° co., e 548 c.p.p.). Orbene la Scrivente, in possesso della sola copia autentica dell’ordinanza come sopra comunicatale, non ha cognizione dell’impugnazione even- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 251 tualmente proposta dall’interessato o dal P.M. con il deposito dell’atto in cancelleria se non dopo la notifica effettuatale ai sensi dell’art. 584 c.p.p.; notifica che, di fatto, avviene con notevole ritardo. L’invio della copia dell’ordinanza a codesta Amministrazione operato dalla Scrivente senza specifiche indicazioni non può avere quindi che una mera funzione notizia rimanendo eventualmente a carico dell’interessato l’invio della copia esecutiva (a giudizio definito) per la conseguente esecuzione. Ciò posto possono darsi i seguenti casi: a) l’ordinanza della Corte d’Appello respinge il ricorso: non si pone allora alcun problema; b) l’ordinanza della Corte d’Appello accoglie il ricorso e liquida un indennizzo: - se essa viene impugnata (solo o anche) dall’Avvocatura (sull’an e/o sul quantum) non deve procedersi ad alcun pagamento; - se essa viene inpugnata (solo o anche) dal P.M. (sull’an e/o sul quantum) analogamente non deve procedersi ad alcun pagamento; - se essa viene impugnata dal solo interessato per il quantum (senza che l’Avvocatura o il P.M. abbiano proposto ricorso incidentale), si potrebbe procedere al pagamento di quanto già liquidato (sulla base di copia autentica non rilasciata in forma esecutiva), salvo eventuale integrazione all’esito del giudizio. Conclusivamente la Scrivente, nel trasmettere le ordinanze della Corte d’Appello relative ai precedenti di cui all’oggetto in copia conforme all’originale, si limiterà ad esprimere le proprie valutazioni di impugnabilità ferma rimanendo la possibilità di darvi esecuzione prima delle definitività delle statuizioni solo nei casi e limiti sopra specificati nonché, come è ovvio, nel caso che sia stata stabilita una provvisionale. Com’è ovvio, le ordinanze della Corte di Cassazione che, senza disporre un rinvio avanti alla Corte di Appello, definiscono direttamente il merito della questione sono immediatamente eseguibili. Ogni diverso precedente parere deve ritenersi superato». A.G.S. – Parere del 27 novembre 2006, n. 135578. Dismissione Beni del Ministero della Difesa già appartenenti al Demanio militare – Legge 23 dicembre 1996 n. 662, art. 3, comma 112 – Applicabilità della prelazione a favore di conduttore del fondo avente destinazione agricola (art. 3, co.99 bis L. n. 662/96) – (consultivo 13925/06, avvocato M. Salvatorelli). «1.- Con nota del 23 marzo 2006, prot. n. M_D/GGEN/02/417602/ 2000/G.43.96, il Ministero della Difesa, Direzione Generale dei Lavori e del Demanio, ha chiesto alla Scrivente di fornire indicazioni in merito alla sussistenza del diritto di prelazione in capo al concessionario di un fondo agricolo appartenente al demanio militare ed oggetto di dismissione ai sensi dell’art. 3, comma 112, della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Codesta Amministrazione fa presente che sulla predetta questione si è già pronunciata l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce che, con nota 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO del 22 novembre 2005, cons. n. 5656/05 SL, ha ritenuto sussistente il diritto di prelazione del concessionario del fondo agricolo, richiamando la disposizione del comma 99 bis del medesimo art. 3 della legge 662/96, e precisando che, in difetto di una specifica disciplina circa le modalità di esercizio della prelazione, la stessa debba essere esercitata secondo quanto previsto in via generale dall’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590. La vicenda da cui ha origine la questione sottoposta alla Scrivente ha ad oggetto il fondo (…), appartenente al patrimonio del Ministero della Difesa ed inserito nei programmi di dismissione del demanio militare predisposti ai sensi del citato comma 112, art. 3, della legge n. 662/96. Il predetto fondo è stato successivamente concesso in uso agricolo alla Sig.ra M., a decorrere dal novembre del 1999 e per la durata di sei anni; in seguito, nel corso del 2002, il Ministero della Difesa ha bandito una gara, posta in essere dalla CONSAP s.p.a., per l’aggiudicazione dell’immobile in argomento, all’esito della quale è stato stipulato, senza preventiva notifica della proposta di alienazione alla concessionaria del fondo, un contratto preliminare di compravendita tra il Ministero stesso e l’Associazione (…). 2.- La soluzione della questione rappresentata dal Ministero della Difesa richiede, preliminarmente, un’attenta analisi della disposizione recata dal comma 112 dell’art. 3 della legge n. 662/96, al fine di delimitarne la portata applicativa rispetto alle previsioni dei co. 99 e 99 bis del medesimo articolo. 2.1.- L’art. 3 della legge n. 662/96, nell’ambito delle misure di razionalizzazione della finanza pubblica concernenti le entrate, prevede una serie di ipotesi di dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato, individuando per ciascuna di esse, ed in relazione ai differenti interessi pubblici perseguiti, le modalità e i tempi di alienazione degli immobili, ovvero demandandone l’individuazione alle Amministrazioni di volta in volta competenti. 2.2.- In tale contesto, il comma 99 dell’art. 3 della legge 662/96 ha previsto un’ipotesi generale di dismissione dei beni immobili e dei diritti immobiliari appartenenti al patrimonio dello Stato e non conferiti nei fondi di cui al precedente comma 86 del medesimo articolo, riconoscendo al Ministero dell’Economia e delle Finanze la possibilità di individuare i beni immobili da assoggettare ad alienazione secondo tempi e modalità indicati con Decreto Ministeriale. Tale disposizione prevede inoltre esplicitamente che i concessionari o conduttori dei predetti beni hanno diritto di esercitare la prelazione sugli stessi, secondo le modalità individuate nell’anzidetto Decreto. 2.3.- Il successivo comma 99 bis dell’articolo 3 citato, introdotto con legge 23 dicembre 1999, n. 488, e modificato con legge 23 dicembre 2000, n. 388, estende espressamente la disciplina recata dal comma 99 anche alle alienazioni dei beni immobili dello Stato “soggetti ad utilizzazione agricola” e riconosce ai conduttori del fondo un diritto di prelazione da esercitarsi in base ad indicazioni che avrebbero dovuto essere contenute in un apposito Decreto Ministeriale, peraltro mai intervenuto. 2.4.- Una specifica ipotesi di dismissione del patrimonio dello Stato relativa ai beni in uso al Ministero della Difesa è poi recata dal comma 112 dell’art. 3 della legge n. 662/96 in base al quale ‘per le esigenze organizzative I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 253 e finanziarie connesse alla ristrutturazione delle Forze armate, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministero della difesa, sentiti i Ministri del tesoro e delle finanze, sono individuati gli immobili da inserire in apposito programma di dismissioni”. La disposizione in argomento prevede, alle lettere a), b), c) ed e), le procedure secondo le quali l’anzidetta dismissione deve aver luogo. In particolare, il Ministero della Difesa conferisce a società a prevalente capitale pubblico il compito di effettuare le alienazioni, le permute, le valorizzazioni e gestioni dei beni inseriti nel programma di dismissione, nonché il compito di stimare il valore dei beni da alienare. Viene altresì previsto che la valutazione operata dalla società affidataria sia successivamente sottoposta all’approvazione del Ministero della Difesa, sentito il parere di apposita Commissione di congruità. Una volta determinato il valore del bene, è previsto l’espletamento di una gara per l’individuazione dell’acquirente ed il contratto di alienazione viene successivamente stipulato dalla società affidataria in rappresentanza del Ministero della Difesa, che ha il potere di approvare o meno il contenuto negoziale determinatosi all’esito della sopra descritta procedura. La lettera d) del comma 112 in argomento stabilisce, infatti, che l’approvazione del contratto di alienazione di ciascun bene può essere negata dal Ministero della Difesa ove “il contenuto convenzionale, anche con riferimento ai termini ed alle modalità di pagamento del prezzo e di consegna del bene, risulti inadeguato rispetto alle esigenze della Difesa anche se sopraggiunte successivamente all’adozione del programma”. Il successivo comma 113 sancisce infine espressamente un diritto di prelazione in favore degli enti locali con riferimento alle ipotesi regolate dai commi 99 e 112, senza far menzione della prelazione per i concessionari di fondi aventi vocazione agricola di cui al comma 99 bis, successivamente introdotto. Con la legge 23 dicembre 2000, n.388 il comma 113 non è stato infatti modificato. 3.- Dalla ricostruzione normativa sopra operata discende che l’ipotesi di dismissione di beni dello Stato prevista dal comma 112 dell’art. 3 della legge n. 662/96, applicabile in via esclusiva alle sole alienazioni effettuate nell’interesse del Ministero della Difesa, è del tutto autonoma e distinta rispetto alla fattispecie generale. Attesa la generale ratio di tutela della posizione del coltivatore diretto, in assenza di una espressa esclusione e di una incompatibilità logica, deve tuttavia ritenersi astrattamente applicabile anche alla dismissione dei beni della Difesa il comma 99 bis, che regolamenta la prelazione con riferimento agli immobili destinati, per loro natura, ad utilizzazione agricola. Tali conclusioni non sembrano infatti contrastare con la specifica volontà perseguita dal Legislatore istituendo una peculiare procedura di dismissione dei beni di pertinenza del Ministero della Difesa, atteso che il meccanismo della prelazione, con le modalità di determinazione del prezzo di alienazione che gli sono proprie, non appare in linea di principio contrastare con l’esigenza di reperimento delle risorse finanziarie necessarie a ristrutturare le 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Forze armate. Ciò è in concreto confermato anche dalla procedura seguita nel caso di specie, come riferito dall’Amministrazione. 4.- Tanto premesso in linea generale, osserva però la Scrivente che la speciale prelazione prevista dall’art.99 bis non deve ritenersi a tutt’oggi operante. Osta, infatti, alla concreta applicabilità della stessa la perdurante mancata emanazione del Decreto del Ministro del Tesoro (oggi: dell’Economia e Finanze) di concerto con il Ministro delle Politiche Agricole e Forestali espressamente previsto dallo stesso comma 99 bis per la concreta individuazione delle sue modalità di esercizio. In ossequio alla inequivoca volontà manifestata dal Legislatore si ritiene comunque che, fino all’approvazione della detta norma regolamentare, in tutte le ipotesi di dismissione contemplate dalla legge n.662/96 - e, quindi, anche in quella speciale regolamentata dal comma 112 che qui interessa - si potrà applicare la prelazione prevista dalle LL. 26 maggio 1965, n. 590 (“Disposizioni per lo sviluppo della proprietà coltivatrice “) e 14 agosto 1971 (“Disposizioni per il finanziamento delle provvidenze per lo sviluppo della proprietà coltivatrice”), ovviamente nelle sole ipotesi in cui ricorrano i presupposti di applicabilità della stessa, e con le modalità ivi regolamentate. Per quanto riguarda il caso concreto che ha dato luogo alla richiesta del presente parere vorrà pertanto valutare codesta spett.le Amministrazione, di concerto con l’Avvocatura Distrettuale competente, il ricorrere dei presupposti per applicare la prelazione a favore della Signora M.». A.G.S. – Parere del 15 dicembre 2006, n. 144292(*). Spettanza del compenso sostitutivo del congedo ordinario maturato e non fruito dal personale collocato a riposo in seguito a riforma per infermità (consultivo 40871/06, avvocato P. Marchini). “Il quesito in oggetto non sembra riguardare la questione, ben più controversa, se durante la sospensione del rapporto di lavoro per malattia maturi il diritto al congedo ordinario, questione in merito alla quale codesto ministero manifesta l’opinione secondo cui “il dipendente collocato in aspettativa per infermità conserva integralmente il diritto alla maturazione del congedo ordinario durante tale periodo, tuttavia la sua fruizione può perfezionarsi unicamente con la ripresa dell’attività lavorativa al termine dell’assenza”. Per incidens va detto che sia la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione, sia quella del Consiglio di Stato sono ferme nell’escludere che durante l’assenza per malattia maturi il diritto alle ferie. La Cassazione Civile, sez. Lavoro, 13 febbraio 1992, n. 1786 (Pres. Sandulli R. – Rel. Farinaro D. - P.M. Simeone F. (Conf) - E.N.E.L. c/ S.) si è, infatti, espressa nei seguenti termini: I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 255 (*) Parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato in via ordinaria. “In mancanza di specifiche disposizioni contrattuali o legislative (come l’art. 6 della legge 30 dicembre 1971 n. 1204 sulla tutela delle lavoratrici madri), la legale sospensione del lavoro per malattia (che può durare anche un intero anno) non comporta la maturazione del diritto alle ferie annuali le quali, come periodo di riposo finalizzato alla reintegrazione delle energie fisiche e psichiche del lavoratore, debbono seguire ad un periodo d’ininterrotto lavoro, avendo in questo la loro causa giuridica e la loro giustificazione nei confronti del datore di lavoro; in contrario è irrilevante sia la previsione d’irrinunciabilità ex art. 36, terzo comma, Cost., che implica la nullità delle rinunce alla maturabilità delle ferie (in relazione allo svolgimento di attività lavorativa o a periodi a questa equiparati) o alle ferie già maturate, sia la previsione dell’art. 5 della Convenzione O.I.L. 24 giugno 1970 n. 132, resa esecutiva in Italia con legge 10 aprile 1981 n. 157, che (fra l’altro) subordina la computabilità delle assenze per malattia ad un ulteriore intervento (non risultante attuato per l’Italia) dei singoli Stati, non influendo sulla questione neppure la sentenza della Corte Costituzionale n. 616 del 1987 (dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 2109 cod. civ. in quanto non prevedente che la malattia insorta durante il periodo delle ferie ne sospenda il decorso). (V. Sent. n. 189/80, C. Cost.)”. Anche il Consiglio di Stato, oltre che con il richiamato parere n. 2217/2003 reso in sede di ricorso straordinario, si è espresso in tal senso affermando: “Quanto alla particolare posizione in cui viene a trovarsi il dipendente durante il periodo di aspettativa è sufficiente ricordare che essa rappresenta una modificazione del rapporto di lavoro consistente in una sospensione dell’attività lavorativa. Non suscettibile di esecuzione, con la conseguenza che detto periodo non è computabile ai fini del congedo ordinario (C.d.S., sez. IV, 26 maggio 1999, n. 670). Pertanto, come il diritto al congedo ordinario non matura quando il dipendente è collocato in aspettativa per infermità (parere n. 2217/03, Sezione I, adunanza del 9 luglio 2003), così neppure alcun compenso sostitutivo di esso è ipotizzabile (C.d.S., IV, 27 aprile 2005, n. 1956). Pertanto, salvo il caso di espressa disposizione di legge o di contratto collettivo, non è da ritenere condivisibile la posizione di codesto ministero circa la maturazione del congedo ordinario in costanza di malattia. Venendo al punto del quesito e chiarito che la fattispecie riguarda ferie maturate prima dell’aspettativa per malattia e non potute fruire dopo per avvenuta cessazione del rapporto di lavoro, questa avvocatura concorda con l’indirizzo del ministero richiedente nel ritenere che si possa corrispondere il compenso sostitutivo per i giorni di congedo ordinario maturato fino al momento del collocamento in aspettativa per malattia. Ciò in quanto va applicato il principio sotteso all’art. 18 del d.P.R. 16 marzo 1999, n. 254 secondo il quale il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non fruite discende direttamente dal mancato godimento: pur che risulti certo che questo non sia stato determinato dalla volontà dell’interessato (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 5 maggio 2003, n. 3844 - Pres. Tosti - Rel. De Bernardi - Ministero dell’Interno c/ G.). Conforme anche Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2005: si deve riconoscere il diritto alla indennità sostitutiva delle ferie nel caso in cui la mancata 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO fruizione delle ferie stesse da parte del dipendente della P.A. non sia in alcun modo imputabile al medesimo, ma sia attribuibile ad una situazione oggettiva di impedimento, quale quella determinata dalla malattia contratta a causa di servizio che, nel caso in questione, ha portato alla cessazione del rapporto per inidoneità permanente al servizio di istituto». A.G.S. – Parere del 18 dicembre 2006, n. 145248. Istanza di rimborso delle spese di patrocinio legale presentata da ex ministro dei Lavori pubblici (consultivo 5392/06, avvocato M. Corsini). «1. In relazione alla istanza indicata in oggetto, con la nota 1 febbraio 2006 a riferimento sono stati posti a questa Avvocatura generale i seguenti quesiti: I) se il rimborso ai sensi dell’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997 n. 67 conv. nella legge 23 maggio 1997 n. 153 possa essere riconosciuto ad un ex Ministro, persona non annoverabile tra i “dipendenti di amministrazioni statali”; II) se, nel caso in esame, siano ravvisabili i presupposti oggettivi indicati dal citato art. 18 (“giudizi.. .promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità”); III)se sia necessario attendere l’esito del giudizio di responsabilità amministrativa pendente a carico dell’ex Ministro dinanzi alla Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio della Corte dei Conti, e IV)se le richieste di rimborso (non quantificate nella istanza anzidetta) e le singole componenti di esse possono, qualora fosse riconosciuto diritto al rimborso, essere considerate congrue. Sul primo dei testé elencati quesiti si riferisce che la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso della estensione alle persone investite di mandato amministrativo (ad esempio, negli enti locali) o di incarico nel Governo nazionale l’applicabilità delle disposizioni di legge (statale o regionale) e di contratto collettivo le quali riconoscono ai sottoordinati “dipendenti” il ristoro delle spese per il patrocinio legale, ovviamente purché ricorrano tutti i presupposti oggettivi richiesti da dette disposizioni (cfr. tra altre, Corte conti, sez. reg. controllo Lazio, delibera n. 14/c del 2004, Corte conti, sez. riunite, 5 aprile 1991 n. 707, Cass., I, 13 dicembre 2000 n. 15724). Il fondamento di tale estensione è, per quanto concerne gli “agenti” per lo Stato, ravvisabile unicamente in una congiunta lettura del citato art. 18 e dell’art. 44 del T.U. RD 30 ottobre 1933 n. 1611 (sull’Avvocatura dello Stato); ed invero v’è analogia di finalità e di criteri applicativi tra le due disposizioni testé citate. Per contro, ad avviso di questa Avvocatura generale, detto fondamento non è rinvenibile in un generico principio secondo cui chi agisce per un interesse non proprio, in quanto legittimamente investito del compito di realizzare interessi estranei alla sua sfera individuale (di un altro soggetto, di un gruppo organizzato, o di altro centro di imputazione giuridica) non dovrebbe sopportare I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 257 nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di tale attività (in argomento, anche T.A.R. Sicilia 3 febbraio 2005 n. 128). 2. – Più complessa la risposta al secondo quesito. Tale risposta può essere scissa in due parti, iniziando dal parametro espresso con le parole “giudizi.., conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità”. Nel caso in esame, accantonando episodi minori e remoti (e perciò ininfluenti), si sono avuti due giudizi distinti, in sequenza cronologica. Il primo, iniziato con il decreto 16 dicembre 1996 “che dispone il giudizio” emesso dal Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma in accoglimento di richieste (la prima datata 10 ottobre 1996) della Procura della Repubblica presso detto Tribunale, si è concluso con la sentenza Appello Roma, II pen., 16 giugno 2003 n. 4759. Tale sentenza ha dichiarato la nullità assoluta del citato decreto 16 dicembre 1996, e conseguentemente ha demolito in ogni sua parte la sentenza Trib. Roma 21 giugno 2001 n. 12807; ciò sulla base della sentenza (interpretativa di rigetto) Corte cost. 24 aprile 2002 n. 184, la quale, a sua volta, ha tenuto conto della sopravvenuta legge cost. 23 novembre 1999 n. 2. La menzionata sentenza 16 giugno 2003, dal contenuto esclusivamente processuale, non ha escluso la responsabilità dell’ex Ministro imputato e degli altri imputati. Constatazione di per sé sufficiente ad escludere l’accoglibilità di qualsiasi richiesta di rimborso delle spese di patrocinio legale sopportate per pervenire alla menzionata declaratoria di nullità assoluta, declaratoria specificamente domandata ed auspicata dall’appellante (il quale ha preferito evitare una pronuncia “sul merito”). Il secondo giudizio è iniziato con decreto 4 febbraio 2005 emesso dal Giudice per le indagini preliminari e dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma in accoglimento di richiesta 22 aprile 2004 formulata dalla Procura della Repubblica presso detto Tribunale nel procedimento n. 39685/03. Questa richiesta non può essere considerata una duplicazione di quelle del 1996 (minori sono il numero degli imputati ed il numero dei capi di imputazione). Il secondo giudizio si è concluso con sentenza 9 giugno 2005 n. 2257, la quale reca il dispositivo “dichiara non luogo a procedere... perché il fatto non sussiste”. La motivazione di questa sentenza ha cura di precisare che la sostituzione dell’art. 64 c.p.p. ad opera della legge 1 marzo 2001 n. 63 ha reso inutilizzabile le dichiarazioni rese e raccolte secondo le regole poste dal previgente art. 64 c.p.p., che la rinnovazione ammessa dall’art. 26 comma 2 della citata legge n. 63 del 2001 non è stata possibile avendo tutti i soggetti “comunicato la propria indisponibilità a rendere dichiarazioni anticipando di avvalersi della facoltà di non rispondere”, e che – una volta sottratte le dichiarazioni divenute inutilizzabili – “l’impianto accusatorio attuale è sprovvisto delle fonti di prova necessarie per sostenere l’accusa”, in quanto le residue prove “costituiscono unicamente elementi indizianti a contenuto non in equivoco”, “il collegamento tra le dazioni di denaro ed i lavori non può ritenersi provato in assenza di riscontri” e “la documentazione bancaria da cui emerge il transito del danaro... rimane un indizio forte . . ma disancorato da una condotta illecita accertata con pienezza”. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Dunque, la motivazione della citata sentenza 9 giugno 2005 non ravvisa prove sufficienti della commissione dei fatti addebitati, e, però non reca indicazioni di esplicita esclusione della responsabilità [dell’ex Ministro]. In tale situazione, appare lecito dubitare che il contenuto di detta sentenza sia di per sé sufficiente ad escludere, anche per il secondo giudizio, il rimborso delle spese di patrocinio. Appare pertanto necessario passare ad esaminare pure se sussiste o meno l’altro presupposto, e cioè la connessione “con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali” (peraltro, non pare che, nella specie in esame, possa parlarsi di “espletamento del servizio”). In proposito, la giurisprudenza (Cons. Stato, III, 25 novembre 2003, parere n. 332, T.A.R. Liguria 22 agosto 2002 n. 882) ha affermato che la connessione anzidetta “può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell’agire del dipendente direttamente all’amministrazione di appartenenza”. Occorre, quindi, che il fatto o l’atto oggetto del giudizio sia stato compiuto nell’esercizio delle attribuzioni affidate all’autore di esso e che vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto, nel senso che l’autore non avrebbe assolto ai suoi compiti se non ponendo in essere quella determinata condotta. Per contro, non è ravvisabile connessione ogniqualvolta la persona fisica abbia agito per il soddisfacimento di interessi egoistici (quindi in “conflitto di interessi” con l’amministrazione), e più in generale per fini estranei ai compiti affidatigli e/o alla funzione pubblica esercitata ed a tali fini abbia alterato il normale ed imparziale andamento di procedimenti amministrativi; ciò a prescindere dall’effettivo conseguimento di “proventi” illeciti (ad esempio, la mancata prova del ricevimento di “dazioni” non ripristina 1’ anzidetta connessione). Così, per il caso la persona fisica sia stata prosciolta in sede penale per fatti che, cionondimeno, costituiscono illecito non penale (disciplinare o amministrativo- contabile od anche solo civile) talune pronunce della giurisprudenza appaiono orientate ad escludere il rimborso delle spese di patrocinio. Con riguardo a tale orientamento è necessario affrontare anche il tema della possibilità o meno di far valere, in ambiti diversi dal processo penale, la inutilizzabilità prevista dal comma 1 bis del novellato art. 64 c.p.p.. Questa Avvocatura generale reputa che detta inutilizzabilità operi soltanto nel processo penale; e ciò non soltanto per la “sedes” in cui il citato art. 64 è collocato e per l’assenza di disposizioni derogatorie alla disciplina della prova civile, ma anche perché il processo penale ha, in seguito alla riforma approvata con d.P.R. 22 settembre 1988 n. 447 ed al venir meno del principio detto di unità della giurisdizione, abbandonato l’ambizione di ricostruire la “verità oggettiva”. Può quindi accadere che dichiarazioni inutilizzabili nel processo penale siano valutabili ex art. 116 c.p.c. in giudizi o procedimenti diversi dal processo anzidetto. Persino superfluo aggiungere che l’ex Ministro, come ogni persona investita di mandato amministrativo o di incarico di Governo, non è - a differenza dei “dipendenti” - sottoposto a potestà disciplinare. Quanto poc’anzi osservato, oltre a fornire una seconda ed essa pure autosufficiente motivazione per l’esclusione del rimborso delle spese di I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 259 patrocinio relative al giudizio penale conclusosi con la citata sentenza 16 giugno 2003, potrebbe – in esito ad una autonoma valutazione di tutto il materiale probatorio utilizzabile nei giudizi diversi dal processo penale – condurre ad escludere il rimborso “de quo” anche per il giudizio concluso dalla sentenza penale 9 maggio 2005 n. 2257. Tuttavia, il non rilevante importo (come si dirà tra breve) delle richieste avanzate per quest’ultimo giudizio, può giustificare, sempreché non sopravvenga controversia sul diniego di rimborso per il giudizio conclusosi nel 2003 (e quindi di fatto a titolo transattivo), la non – apertura di una rinnovata disamina dei comportamenti dell’ex Ministro ai soli fini della determinazione sul rimborso per il giudizio svoltosi tra il 2004 e il 2005. 3.– In ordine al terzo quesito, sembra alla Scrivente che il presente procedimento amministrativo ed il giudizio dinanzi alla Corte dei Conti siano reciprocamente autonomi. Comunque, questa nota è inviata per conoscenza alla Procura regionale per opportuno coordinamento, ed anche per aggiornate informazioni circa lo stato attuale di quel giudizio (forse già deciso, almeno in primo grado). Per quanto scritto in ordine al secondo quesito, la risposta al quarto quesito può essere breve. Del resto, il richiedente ha presentato al Ministero in indirizzo (che li ha inoltrati) gruppi di fatture e notule ordinate solo per professionista; tali gruppi includono attività svolte in relazione a molte vicende diverse dalle due qui considerate e delle quali neppure si conosce l’oggetto e l’esito, nonché imprecisate attività solo stragiudiziali e per ciò stesso non pertinenti rispetto alla istanza di rimborso indicata in oggetto. Sicché, nel complesso, la documentazione presentata sarebbe stata non idonea, perché incompleta e confusa, a sorreggere detta istanza neppure nell’ipotesi all’accoglimento di essa non ostassero le obiezioni, logicamente preliminari, esposte nella risposta al secondo quesito. Comunque, questa Avvocatura generale ha compiuto una dettagliata analisi delle singole fatture e notule, analisi che potrebbe essere utilizzata qualora insorgesse controversia. In coerenza con quanto nel par. 2 di questa nota, si esprime — allo stato degli atti — parere di congruità soltanto per la voce di euro 9.240 (più spese generali CAP e IVA) indicata dall’avv. Dario Buzzelli per la discussione all’udienza del 9 giugno 2005 nel preavviso di fattura 4 ottobre 2005, e per lo 80% dell’importo di euro 25.000 (più CAP e IVA) di cui alla fattura n. 53 del 15 giugno 2005, pagato all’avv. Paola Severino “a saldo” e quindi con inclusione delle attività svolte dalla nominata avvocato nel 2004 e nel primo semestre del 2005 (poi diversamente descritte nel preavviso di fattura 21 settembre 2005). In conclusione, codesta amministrazione potrebbe, per il momento, con un primo atto escludere “in toto” il rimborso delle spese di patrocinio relative al giudizio conclusosi nel 2003, indicando a sostegno del diniego i due motivi dianzi prospettati, e preannunciare successivo atto da dedicarsi alla istanza di rimborso delle spese relative al giudizio conclusosi nel 2005». 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La responsabilità del medico dipendente e l’uso giurisprudenziale della teoria del contatto sociale di Maria Vittoria Lumetti(*) SOMMARIO: 1.- L’attuale concezione della responsabilità del professionista medico. Il rapporto tra medicina e diritto. 2.- La natura giuridica della professione medica tra contratto e tort. 3.- Le fonti dell’obbligo di cura del sanitario. 4.- La revisione del concetto di contratto e delle tecniche procedimentali che conducono alla sua formazione. 5.- La crisi della summa divisio tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Il progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale e i moduli nuovi di tutela giuridica. 6.- L’interpretazione estensiva dell’art. 1173: la dissociazione tra la fonte e l’obbligazione che ne scaturisce. 7.- La natura del rapporto trilatere che lega il paziente, la struttura ospedaliera e il medico dipendente della struttura ospedaliera. 8.- Rapporto paziente-struttura ospedaliera: il contratto di spedalità. 9.- Rapporto medico-struttura ospedaliera. 10.- Rapporto paziente-medico e la responsabilità del medico dipendente. 11.- La tesi della responsabilità aquiliana. 12.- Le tesi contrattuali. 13.- La problematica giuridica degli effetti del contratto. La figura della promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo. Il contratto a favore di terzi. 14.- La sentenza della Cassazione n. 589 del 1999 e la riscoperta della responsabilità da contatto sociale. 15.- La genesi della responsabilità da contatto: il contratto di fatto e la svalutazione del dogma della volontà. 16.- Le ipotesi simili e le guidelines giurisprudenziali, l’amministratore di fatto, la responsabilità precontrattuale, il danno da procreazione, la responsabilità da contatto amministrativo. 17.- Gli effetti dell’accoglimento della tesi contrattuale. La responsabilità medica e il grado della colpa. L’applicazione in via diretta e non più analogica dell’art. 2236 c.c. Tendenza alla trasformazione da obbligazione di mezzi a obbligazioni di risultato. 18.- Il riparto dell’onere della prova e la res ipsa loquitur. 19.- Il medico considerato come non un semplice quisque de populo. 20.- Gli effetti dello shopping del diritto e l’esigenza che la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale. 21.- Conclusioni. D O T T R I N A (*) Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale di Bologna. 1. L’attuale concezione della responsabilità del professionista medico. Il rapporto tra medicina e diritto La responsabilità medica è strutturata come un sistema composito che non prende in considerazione il solo rapporto medico - paziente. Interessa i rapporti che si creano quando un soggetto è destinatario di prestazioni mediche di ogni tipo, diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, poste in essere non solo dai medici, ma anche da personale con tipi diversi di professionalità Il settore coinvolge tematiche di diritto costituzionale, amministrativo, statuale, regionale, civile, penale, di deontologia professionale. Proprio per questo la responsabilità medica presenta caratteristiche sui generis e provoca il confronto dinamico tra giuristi e medici, sollevando molti quesiti nel rapporto medicina -diritto ed esperto-legislatore- giudice. È inevitabile che la medicina influenzi il diritto e lo modifichi. L’indagine si traduce nell’analisi del rapporto intercorrente tra alcuni aspetti di fondamentale rilievo per l’epistemologia giudiziaria (1) e le corrispondenti problematiche, dibattute nell’ambito della più generale riflessione scientifica contemporanea. L’epistemologia scientifica si confronta con quella giudiziaria e si riverbera sul metodo del contraddittorio nella formazione della prova, sul grado di certezza da raggiungere nel giudizio sul fatto, sull’accertamento del nesso di causalità, che si avvale delle valutazioni giuridiche e della evoluzione delle conoscenze scientifiche e, da ultimo, sul risultato conoscitivo del processo (2). È necessario, dunque, procedere ad un adeguato approfondimento dei presupposti culturali e delle opzioni metodologiche occorrenti per il controllo, da parte del legislatore e del giudice, sul sape- 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Su questi punti fondamentali cfr. C. PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, 195; C. PIZZI, Fatti, coerenza, informazione, in Diritto pen. e processo, 1996, 245; M. TARUFFO, Elementi per un’analisi del giudizio di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, 785; A. GIULIANI, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico: “nuova retorica” e teoria del processo, in Soc. dir., 1986, 2, 81; N. BOBBIO, Sul ragionamento dei giuristi, in L’analisi del ragionamento giuridico, a cura di Comanducci-Guastini, Torino; A. ARNIO, La Teoria dell’argomentazione e oltre, in L’analisi del ragionamento…cit., 211; N. MAC CORMICK, La congruenza nella giustificazione giuridica, in L’analisi del ragionamento…cit… 243; G.F. RICCI, Nuovi rilievi sul problema della specificità della prova giuridica, in Riv. trim.dir. proc.civ., 2000, 1129; J. WROBLEWSKI, Il ragionamento giuridico nell’interpretazione del diritto, in L’analisi…cit., 267; F.M. CATALANO, Prova indiziaria, probabilistic evidence e modelli matematici di valutazione, in Riv. Dir. proc., 1996, 514; V. DENTI, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, 414; L.G. LOMBARDO, Appunti sulle origini e sulle prospettive del libero convincimento, in Dir. e giurisprudenza, 1992, 17. (2) De MATTEIS, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale, in Danno e resp., 1999, 7, 781; P. PAURI, Contributo al corso residenziale indetto dal consorzio per la altra formazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in diritto amministrativo sul tema: La riforma del sistema sanitario regionale (la l.r. Marche 20 giugno 2003 n. 13) - Osimo 14-15 maggio 2004, in Diritto&Diritti, n. 9/2004; cfr. in generale C.M. MAZZONI, Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998. re specialistico riversato nel processo, anche attraverso la consulenza tecnica. Da qui emerge il problema di come il diritto possa disciplinare una situazione che può talora presentare margini di incertezza sulla riscontrabilità degli effetti. La medicina oggi a buon diritto può essere ritenuta una scienza anche se, per molti aspetti, ancora empirica, ma comunque sufficientemente esatta, soprattutto per quelle specialità ove la ricerca è stata incrementata anche attraverso l’applicazione di sofisticati strumenti tecnologici. Si è infatti persa quella “immaginifica concezione della medicina come un’attività dai margini e dalle certezze approssimative e dalle speranze sovente miracolistiche…” (3). Il contenzioso in materia di responsabilità civile per l’esercizio di attività sanitarie costituisce una tradizionale zona di contatto (e sovrapposizione) dei due volti dell’illecito civile: quello contrattuale ed extracontrattuale. Da almeno due decenni vive un’irrefrenabile escalation: la tendenza a non riversare sul paziente il rischio di danni, comunque riconducibili a trattamenti sanitari e/o all’assunzione di farmaci, all’uso di attrezzature diagnostiche o terapeutiche, oppure le disfunzioni organizzative del servizio, può cogliersi analizzando il modo in cui la giurisprudenza ha progressivamente elaborato le regole estrapolate dall’interpretazione estensiva delle norme che costituiscono il fondamento del diritto civile. 2. La natura giuridica della professione medica tra contratto e tort. È ormai acquisito nella coscienza giuridica il superamento della tradizionale identificazione del requisito dell’ingiustizia del danno con la violazione di un diritto soggettivo assoluto. Si ritengono infatti meritevoli di tutela aquilana anche interessi connessi all’attività contrattuale. Basti pensare alla responsabilità extracontrattuale da contratto che si ravvisa in tutte le ipotesi in cui un soggetto cagiona ad altri un pregiudizio economico attraverso la stipulazione di un contratto incompatibile con un preesistente accordo negoziale (4). Si delinea dunque un fenomeno osmotico tra vincolo DOTTRINA 263 (3) “Si pensi per esempio all’ecografia che ha consentito addirittura di conoscere il sesso, le fattezze e quindi la situazione del feto mentre prima tale indagine era affidata solo alle analisi di laboratorio, o in ortopedia alle conquiste della biomeccanica e alle protesi sempre più perfette”, R. BERTI, La responsabilità medica secondo il diritto vivente in http://web.tiscalinet.it/ ceredoc/html/*, o alla fecondazione artificiale, L. NAVARRA, Fecondazione artificiale: un caso recente e un’opinione dissenziente (ma solo sul metodo), in Foro It., 1999, I, 1653. Cfr. anche F. NERESINI, Bioetica e medicina tra scienza, diritto e società, in Sociologia del diritto, 1995, 95. (4) S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004, 4 ss.; M. FRANZONI, La tutela aquiliana del contratto, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, II, Torino, 1999, 1599-1631; F. GALGANO, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, 651 ss.; D. POLETTI, Dalla lesione del credito alla responsabilità extracontrattuale da contratto, in Contratto e impresa, 1987, 124 ss.; D. POLETTI, La responsabilità extracontrattuale da contatto, in Danno resp., 1999, 899 ss; G. FERRANDO, La lesione del diritto di credito da parte di terzi, in Nuova giur. Civ .comm., 1985, II, 340. G. PONZANELLI, Il tort of interference nei rapporti contrattuali: le esperienze nordamericane e italiana a confronto, in Quadrimestre, 1989, 99 ss. obbligatorio e la regola del neminem laedere, tipica dell’ordinamento di common law, sistema basato sul principio di tipicità dell’illecito civile. Numerosi sono i casi di torts remedies for breach of contracts che confermano nell’ordinamento nordamericano la labilità della tradizionale distinzione tra contract e tort (5). Anzi, parte della dottrina anglosassone ritiene che si possa giungere all’unificazione dei regimi di responsabilità (6). Tuttavia, contrariamente a quanto avviene negli ordinamenti dell’area di common law, ove persiste la tendenza a radicare la detta responsabilità nell’ambito della responsabilità aquiliana (torts), nei paesi di area romanistica tale responsabilità si inquadra, ora, in quella contrattuale (Cass. civ. III, 22 gennaio 1999, 589). È da evidenziare che la caratteristica strutturale della American Tort Law prevede, oltre al risarcimento di tutti i danni per lucro cessante, anche quello per danni (punitive o exemplerary damages) concessi non tanto per finalità riparatorie, quanto per porre in essere un’azione di deterrenza di punizione volta a prevenire o evitare la commissione nel futuro di nuovi atti illeciti. Altro elemento di diversità consiste nel carattere science-based della regolazione della scienza negli Stati Uniti, ossia maggiormente informato a fatti e conoscenze scientifiche oggettive. Negli Stati Uniti i giudici hanno temperato il rigore scientifico assunto come base di partenza, rivendicando il proprio spazio di autonomia, a fronte della pretesa di oggettività della scienza. In Europa prevale un modo policy-related di interpretare il sapere scientifico: la scienza deve dare rilievo agli spazi di incertezza, riconoscendo i propri limiti – e non occultarli o trascurarli. Tali spazi sono colmati dalle diverse valutazioni adottate dal diritto. Dal punto di vista filosofico – sociologico la problematica è costituita dall’oggetto della giustizia distributiva e riguarda “la distribuzione delle risorse, delle opportunità, i profitti e i vantaggi, i ruoli e gli incarichi, le responsabilità e in generale il capitale comune e gli accessori delle attività della comunità… . L’oggetto della giustizia commutativa considera invece “ tutti gli altri problemi, che riguardano quello che è necessario per il benessere individuale nella comunità, che sorgono in relazioni e scambi fra gli individui e/o gruppi, dove il capitale comune e quanto è richiesto per le attività comuni non sono direttamente chiamati in causa” (7). Ma non 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (5) S.CHUTORIAN, Torts remedies for breach of contract: the expansion of tortious breach of implied convenent og good faith and fair dealing into the commercial realm, in Col. L.Rev., 1986, 377 ss. (6) G. GILMORE, Theth of contract, Columbus (OHIO), 1974; S. CHUTORIAN, Tort remedies... op. cit., 377 ss.; W. PROSSER, The border land of tort and contract, Ann Arbor, 1953. (7) U. IZZO, Per una semantica della precauzione, in www.ambientediritto.it; U. PAGANO, Economia e diritto, in www.econ-pol.unisi.it. J. Finnis osserva come molte delle regole della common law of torts venissero viste prima del 1950 come degli strumenti atti a realizzare la giustizia commutativa e, in particolare, la giustizia correttiva nel senso di Aristotele. Una delle due parti era tenuta a compensare l’altra per il danno subito e a correggere così la violazione della giustizia commutativa. La domanda fondamentale che sembrava porsi questo tipo di approccio era: “Come qualcuno danneggiato dal torto di un altro potrebbe essere riportato alla condizione in cui si trovava precedentemente?”. Questa domanda, che è quella fondamentale della giustizia commutativa è stata spesso sostituita dalla seguente domanda: “Come vanno suddivisi i rischi della vita in comune?” che è una domanda tipica della giustizia distributiva. sempre la distinzione fra giustizia commutativa e distributiva è chiara (8). È importante osservare che nei paesi di common law il diritto è di formazione giudiziaria (judge made law), spontanea, consensualistica, casistica (per il singolo caso concreto), equitativa e consuetudinaria. Tutto ruota in gran parte sui simili precedenti, nell’analogia da fatto a fatto, sulla ratio decidendi equamente adattata: il diritto viene realizzato con regole ricavabili dal criterio adottato per risolvere il singolo caso concreto secondo equità. L’elemento legislativo è solo uno degli elementi che compongono il combinato empirico, non vincolante e neppure il più importante. Sono i giudici e le professioni liberali (avvocati) che in common law creano il diritto (9). Il diritto nei paesi di civil law è invece realizzato dal legislatore con norme generali e astratte. Nel nostro ordinamento si va sempre più configurando, nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, un tipo di responsabilità contrattuale nascente da un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto (10). La Cassazione ha più volte affermato che l’attore deve dimostrare solo l’esistenza di quel timore e che esso ha causato oggettivamente la perdita di valore del bene, ma non la ragionevolezza del comportamento del pubblico (11). Sul medico, infatti, gravano gli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa e il vincolo con il paziente sussiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione: la violazione si configura come culpa in non faciendo, e dà origine a responsabilità contrattuale. Si tratta di rapporti sorti per obbligo sociale di prestazione, anche perché il medico può svolgere la propria attività in diversi contesti. La teoria tradizionale sostiene che l’obbligazione inerente alla sua prestazione professionale, costituisce un’obbligazione di mezzi o di diligenza, e non di risultato o di scopo. Fino agli inizi degli anni settanta, l’orientamento della giurisprudenza e di larga parte della dottrina era univoco: affinché questa colpa potesse essere rilevante ai fini civile e penale, doveva possedere i requisiti della gravità, in quanto costituiva una palese violazione della diligenza comune ed elementare. La distinzione tra colpa per imperizia e colpa per imprudenza e negligenza era pertanto netta (12). Come vedremo, la tendenza attuale è quella di inquadrare la responsabilità contrattuale del medico nell’ambito di una obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto: è dunque possibile dissociare la DOTTRINA 265 (8) J. FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Clarendon Press, Oxford, 1980, 166 ss. (9) Com’è noto il sistema di common law è il frutto di una lenta, radicale profondissima e remotissima evoluzione che fa tesoro di tutte le precedenti esperienze storiche, conservando quanto di positivo esse hanno apportato fino all’attualità F. GALGANO, Tipicità ed atipicità dell’illecito in common law, in Atlante di diritto comparato, Bologna, 1992, 145 ss.; M. TARUFFO, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, 826. (10) Cfr. Cass. civ. III, 22 gennaio 1999, n. 589. (11) C. CASTRONUOVO, L’obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e torto, in La nuova responsabilità civile, Milano, 1997, 198; S. JASANOFF, La scienza davanti ai giudici. La regolazione giuridica della scienza in America, Milano, 2001,76. (12) In merito ad un excursus circa l’evoluzione giurisprudenziale cfr. P. PAURI, Contributo al corso…cit. fonte dell’obbligazione che ne scaturisce, in modo che quest’ultima possa essere sottoposta alle regole proprie dell’obbligazione contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto. Si tratta di una applicazione del criterio della proximity, o della prossimità del terzo, criterio già utilizzato dalla giurisprudenza anglosassone al fine di estendere l’ambito di operatività della responsabilità contrattuale anche alla posizione di soggetti estranei alla pattuizione contrattuale in tutti i casi in cui alla luce delle circostanze concrete, tale posizione sia caratterizzata da un particolare grado di “prossimità” o vicinanza rispetto agli interessi presi in considerazione nel contratto (13). L’ultima tesi elaborata da dottrina e giurisprudenza è quella di ipotizzare la responsabilità contrattuale del medico dipendente ospedaliero come nascente da un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in quanto sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa e il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad una obbligazione di prestazione. La violazione di tale obbligo si configura come culpa in non faciendo, e dà origine a responsabilità contrattuale (14). In realtà, come vedremo, è l’esperienza tedesca che risulta essere più vicina a noi non solo per il dato in comune dello stesso sistema di civil law (da non sottovalutare) ma perché, pur contemplando un diverso regime di responsabilità civile, ha fornito lo spunto per introdurre anche in Italia la teoria del contatto sociale. 3. Le fonti dell’obbligo di cura del sanitario Le fonti dell’obbligo di cura possono derivare da un contratto, da una fonte legale o provvedimentale, da un atto unilaterale ai sensi dell’art. 1173 c.c. L’obbligazione di una determinata prestazione da parte del medico può avere origine non contrattuale, come nel caso di una situazione di urgenza ove la prestazione dell’attività prescinde da una preesistente obbligazione nei confronti del beneficiario (15). Talora l’incarico è conferito dalla Pubblica amministrazione e non dal soggetto interessato, in vista del perseguimento del pubblico interesse. Altre volte il rapporto obbligatorio è in favore di un terzo beneficiario, come nel caso dei familiari che affidino la cura del proprio congiunto, incapace di intendere e volere, ad un medico di loro fiducia. La responsabilità contrattuale di chi esercita l’attività medico-chirurgica trova la sua fonte nel rapporto contrattuale di opera professionale di cui all’art. 2229 e segg. Cod. civ. In altri casi può derivare da una gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., da un arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.(16), o anche da ordinanze contin- 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (13) F. CARINGELLA, Studi di Diritto Civile, Milano, 2003, 974. (14) F.CARINGELLA, Studi…op. cit., 971. (15) Cfr. in generale sulla problematica NARDI, C. CIPOLLA, D’ABRUZZO, La responsabilità del medico in medicina d’urgenza e Pronto Soccorso, Torino, 1996. (16) L’azione di indebito arricchimento è esperibile dal medico nei confronti della P.A. solo qualora sia intervenuto il riconoscimento dell’utilità pubblica dell’opera. La mancanza del riconoscimento è desumibile anche dall’esistenza di un divieto, da parte dell’ente, di effettuare l’opera o la prestazione. gibili e urgenti (17). Il contratto può essere d’opera professionale ai sensi dell’art. 2229 c.c., o di lavoro subordinato, alle dipendenze di una struttura sanitaria pubblica o privata (in cui il rapporto di lavoro è di natura privatistica, anche se il datore di lavoro è un ente pubblico). In quest’ultimo caso il paziente stipula un contratto con una casa di cura e viene affidato ad un medico dipendente dalla stessa struttura sanitaria: si crea quella che è stata definita una “dicotomia tra la parte formale del contratto di cura e il soggetto che effettivamente esegue la prestazione pattuita, ciò che ha dato luogo a numerosi dibattiti intorno alla natura della responsabilità dei soggetti coinvolti e, segnatamente, del medico dipendente” (18). La genesi di un contratto può dipendere dalla volontà, dal comportamento negoziale e, in determinati casi, da un fatto. In ogni caso il contenuto dell’obbligazione contrattuale o non, che insorge in capo al medico al momento in cui si accinge ad intervenire professionalmente nell’interesse del paziente, è costituito, oltre che da un’attività “diligente”rivolta verso un risultato utile per la sua integrità psicofisica sulla base delle regole dell’arte sanitaria, anche da una serie di doveri complementari all’obbligazione principale, rivolti alla correttezza, alla segretezza ed al rispetto della persona umana sotto ogni profilo, avuto riguardo alle particolari condizioni personali in cui si trova il destinatario dell’attività professionale, ben evidenziate dal codice deontologico. La violazione delle suddette obbligazioni accessorie dà luogo a responsabilità extracontrattuale (19). 4. La revisione del concetto di contratto e delle tecniche procedimentali che conducono alla sua formazione Se il danneggiato agisce in giudizio nei confronti del datore lavoro del medico il giudizio di responsabilità è di tipo contrattuale. Se agisce invece direttamente nei confronti del medico l’azione era, sino a tempi recenti, di tipo extracontrattuale, in quanto il medico è terzo rispetto al rapporto paziente- istituzione. Al fine di evitare diversificazioni ritenute ingiustificate rispetto alle ipotesi in cui il rapporto professionale sia direttamente instaurato tra paziente e medico con il contratto d’opera professionale, a fronte di prestazioni sostanzialmente identiche, la giurisprudenza ha sussunto nell’ambito della responsabilità contrattuale anche quella precedentemente ascritta alla responsabilità di tipo extracontrattuale, in base all’elaborazione della categoria del contatto sociale. Il medico dipendente avrebbe, secondo tali ultime tesi giurisprudenziali, la medesima responsabilità professionale incombente sulla struttura sanitaria, stante la comune radice delle obbligazioni che i due soggetti assumono verso i terzi (obbligazioni ex contractu). DOTTRINA 267 (17) F.CARINGELLA, Studi…op. cit.,1027. (18) F. CARINGELLA, Studi…op. cit…, 1027. (19) M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile…, cit., 823 e 987. La Cassazione, con la sentenza 22 gennaio 1999, n. 589 (20), lascia emergere il concetto di contatto sociale al fine di giustificare il sorgere di una obbligazione contrattuale a carico del medico, che può essere sottoposta alle regole proprie del contratto, pur se il fatto generatore non è il contratto. Il tentativo di ricostruzione unitaria prende le mosse dalla negazione del valore della dichiarazione di volontà avanzata dai primi autori tedeschi, con esaltazione del comportamento delle parti valutato nella sua tipica concludenza, quale esplicazione dell’autonomia privata approvata e protetta dall’ordine giuridico ed integrante un comportamento negoziale. La pôle de reference è l’abbandono del concetto di contratto sostenuto da un accordo necessariamente dichiarato, ben potendo derivare il vincolo da un consapevole contatto tra le sfere di interessi di due consociati, unito alla statuizione di un regolamento di interessi (21). Non conta l’intenzione o la consapevolezza, ma il comportamento considerato come negoziale in forza di una valutazione socialmente tipica (22). 5. La crisi della summa divisio tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Il progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale e i moduli nuovi di tutela giuridica Parte della dottrina tende ad inquadrare la materia della responsabilità medica in termini di vero e proprio sottosistema della responsabilità civile pretoria, dove i due diversi profili, contrattuale ed aquiliano, sfumano. Vengono creati moduli nuovi di tutela giuridica che offrono nuovi criteri valutativi. Il contenzioso in materia di responsabilità civile per l’esercizio di attività sanitarie sta diventando sempre più zona di contatto e sovrapposizione dei due volti dell’illecito civile: quello contrattuale ed extracontrattuale, soprattutto negli ultimi due decenni. Si registra sempre più la tendenza a non riversare sul paziente il rischio di danni riconducibili a trattamenti sanitari e all’assunzione di farmaci, all’uso di attrezzature diagnostiche o terapeutiche, o a disfunzioni organizzative del servizio. La suddetta tendenza si coglie nei principi che via via la giurisprudenza è andata elaborando. La teoria del contatto sociale da ultimo elaborata risente dei labili confini tra responsabilità contrattuale e aquiliana. La crisi della summa divisio aveva già dato origine alla elaborazione della categoria del contratto di fatto. Istituti al confine tra contratto e fatto illecito sono la responsabilità precontrattuale, la responsabilità per false informazioni, la responsabilità da contatto amministrativo, oltre che quella del medico dipendente di una casa di cura. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (20) Cass. 22 gennaio 1999, n. 589 in Corr. Giur., 1999, 441. In senso analogo si veda Cass. 2 dicembre 1998, n. 12233, in Giust. Civ. Mass. 1998, 2521, e Cass. 27 luglio 1998 n. 7336 in Resp. Civ. e prev., 1999, 996; Cass. 12 febbraio 2044 n. 10297 in Diritto e Giust. del 17 luglio 2004, 38. (21) Cfr. E. BETTI, Sui cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Jus, 1957, 353; F. CARINGELLA, Studi…, op. cit., 1588. (22) G. STELLA RICHTER, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato, in Riv. Dir. proc., 1977, 197; F. CARINGELLA, Studi…, op. cit., 1590. 6. L’interpretazione estensiva dell’art. 1173: la dissociazione tra la fonte e l’obbligazione che ne scaturisce Come vedremo la responsabilità dei medici dipendenti dalla struttura ospedaliera inizialmente era inserita nell’ambito della responsabilità extracontrattuale. La svolta è avvenuta con la sentenza della Cassazione n. 589 del 1999 che ha giustificato la responsabilità del medico dipendente sulla base della teoria del contatto sociale. L’applicazione della disciplina in tema di responsabilità contrattuale anche ai rapporti che sono sorti attraverso il solo obbligo sociale di prestazione scaturisce dall’estensione dell’ambito delle fonti di obbligazione (artt. 1173) (23). L’art. 1173 c.c., che stabilisce che le obbligazioni derivano da contratto, fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale, come il diritto alla salute, che trascendono singole proposizioni legislative (24). L’art. 1173 c.c. viene interpretato estensivamente e da esso si enuclea un tertium genus di fonte dell’obbligazione. Il medico è tenuto ad adempiere obblighi di cura che derivano dalla sua appartenenza ad una professione protetta su cui il paziente ha fatto affidamento entrando in contatto con il medico, pur in assenza del formale negozio giuridico. 7. La natura del rapporto trilatere che lega il paziente, la struttura ospedaliera e il medico dipendente della struttura ospedaliera Tra paziente, struttura ospedaliera e medico dipendente si crea un rapporto trilatere che vede il paziente legato alla struttura ospedaliera da un contratto atipico di spedalità, il medico da un contratto di lavoro subordinato con la struttura ospedaliera e il paziente legato da un rapporto con il medico dipendente la cui natura è controversa. La novità dei recenti interventi giurisprudenziali consiste proprio nel fatto che si spezza il legame tra colpa del sanitario e responsabilità dell’ente. Il rapporto trilatere risulta così ampliato, in quanto in capo all’ente si configurano sempre di più aspetti di marketing e gestionali della struttura sanitaria. Il deficit organizzativo diventa fonte autonoma di responsabilità delle strutture e si delineano sempre più i doveri di organizzazione. Imprescindibile è, dunque, approfondire la natura del rapporto che lega struttura ospedaliera, medico dipendente e paziente. Se il danno è cagionato ad un paziente da un’errata diagnosi, con conseguente non corretto trattamento terapeutico da parte di un medico dipendente di un ente ospedaliero pubblico, ci si chiede a che titolo risponde il sanitario dipendente di una struttura ospedaliera. Il paziente, infatti, è sottoposto alle sue cure. DOTTRINA 269 (23) Cfr. G. CIAN, La figura generale dell’obbligazione nell’evoluzione giuridica contemporanea fra unitarietà e pluralità degli statuti, in Riv. dir. Civ., 2003, 8. Cfr. anche M. GIORGIANNI, Appunti sulle fonti delle obbligazioni, in Riv. dir. civ., 1965, I, 72 ss. (24) Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589; Cass. 22 novembre 1993, n. 11503, in Rep. Foro it. 1993, voce Contratto in genere (contratto, atto e negozio, in genere), n. 207. La particolarità risiede nella dicotomia tra la parte formale del contratto di cura e il soggetto che effettivamente esegue la prestazione pattuita. Ciò ha dato luogo a numerosi dibattiti sulla natura della responsabilità del medico dipendente. Le problematiche sorgono in riferimento al rapporto tra paziente e medico ed è in riferimento a questa ultima ipotesi che è stata elaborata la teoria del “contatto sociale”. 8. Rapporto paziente-struttura ospedaliera: il contratto di spedalità È ormai consolidata l’opinione che riconosce la natura contrattuale del rapporto intercorrente tra il paziente e la struttura dipendente dall’ente sanitario nazionale. Tale riconoscimento si basa sulla considerazione che il servizio è reso dalla struttura nell’interesse ed a vantaggio dei privati che, fattane richiesta, ne usufruiscono. Il contratto tra ente e paziente è un contratto atipico ed è definito di “spedalità”. Alle prestazioni sanitarie si accompagnano quelle di altra natura, piuttosto assimilabili a quella derivanti dal contratto di albergo (vitto alloggio riscaldamento) ed altre ancora, come quelle organizzative, di sicurezza delle attrezzature e quelle specificamente assistenziali dei pazienti. Il contratto si perfeziona già prima dell’inizio del trattamento o degli accertamenti con l’accordo tra le parti o con l’inizio della attività propriamente diagnostico con l’accettazione nella struttura sanitaria (25). L’ente non si trova rispetto ai privati in una posizione di potere ma di parità, in quanto a seguito della richiesta di ricovero o, più in generale, della prestazione medica, si costituisce un rapporto giuridico, strutturato su di un diritto soggettivo del privato e sul dovere della prestazione dell’ente. Va peraltro detto che negli ultimi anni parte della giurisprudenza ha mutato le sue posizioni originali per quanto concerne l’individuazione dello specifico rapporto contrattuale che sorge fra ospedale e paziente. L’orientamento tradizionale ritiene che l’attività svolta dall’ente che eroga il servizio sanitario sia simile all’attività svolta dal medico nell’esecuzione dell’obbligazione privatistica della prestazione. Al rapporto fra ente e paziente si applicherebbero quindi in via analogica le norme che disciplinano il contratto di prestazione d’opera intellettuale di cui agli artt. 2229 e segg. cod. civ. In questo ambito, il presupposto essenziale per l’affermazione della responsabilità contrattuale dell’ente diviene l’accertamento di un comportamento non diligente del sanitario il cui operato è riferibile all’ente o attraverso il richiamo all’art. 28 della Costituzione – che enuncia il principio della c.d. immedesimazione organica - o attraverso il richiamo all’art. 1228 cod. civ. che disciplina la responsabilità del debitore per il fatto dei propri ausiliari. Ulteriore corollario di tale ricostruzione sistematica è l’applicabilità dell’art. 2236 cod. civ. in tema di prestazione particolarmente complessa. L’orientamento che potremmo definire emergente muove invece dalla constatazione che i servizi erogati dalla struttura ospedaliera sono molto più ampi e complessi rispetto a quelli resi dal singolo 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (25) M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, 2006, 1071. medico, tenuto anche conto della forma “organizzata” attraverso cui sono gestiti. Per questo motivo è stata prospettata una diversa qualificazione del rapporto struttura-paziente che troverebbe la sua fonte in un contratto “innominato”, vale a dire un contratto non espressamente previsto dalla legge, che è stato definito come “contratto di spedalità” (26). Alla base di questo nuovo indirizzo giurisprudenziale vi è la considerazione che ciò che caratterizza il servizio reso dall’ospedale rispetto a quello reso dal medico tradizionale è la natura “organizzata, multi settoriale e complessa” per cui è lecito attendersi che la gestione delle risorse umane e delle attrezzature di cui dispone la struttura sia ispirata a parametri di efficienza organizzativa che riducano al minimo, o almeno a livello accettabile, il rischio cui è sottoposto il paziente durante il ricovero. Con la conseguenza che ove tale efficienza organizzativa manchi, la struttura dovrebbe essere ritenuta responsabile indipendentemente da una colpa del singolo medico. La novità della ricostruzione consiste proprio nello spezzare il legame tra colpa del sanitario e responsabilità dell’ente per riconoscere una responsabilità autonoma della struttura per violazione di doveri suoi propri, tra i quali spicca il dovere di organizzazione. La configurazione della deficienza organizzativa come fonte autonoma di responsabilità della struttura, chiamata a rispondere dei danni occorsi al paziente a causa dell’inadempimento del contratto di cura o di spedalità intercorso con lo stesso, costituisce un ulteriore sviluppo della dinamica giurisprudenziale volta ad aumentare le possibilità di ristoro del danneggiato in caso di medical malpractice. Il nuovo approccio della giurisprudenza produce riflessi importanti anche sulla posizione del medico. Difatti, il difetto organizzativo fa gravare sul sanitario nuovi e diversi compiti, rappresentati dall’obbligo di informare il paziente anche in merito alle eventuali carenze strutturali e dalla necessità di una maggiore diligenza richiesta dalla difficile situazione ambientale in cui si svolge la prestazione medica. Secondo la giurisprudenza precedente il paziente che si presentava in una struttura sanitaria per sottoporsi ad una visita o ad un ricovero, concludeva con la stessa struttura un contratto per prestazione d’opera (27). La natura contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera si ritiene ora essere riconducibile ad un contratto atipico di spedalità, in quanto ben più articolato rispetto allo schema del contratto per prestazione d’opera (28). L’esigenza di superare la tradizionale qualificazione in termini di contratto di prestazione d’opera intellettuale nasce dalla convinzione che fra la responsabi- DOTTRINA 271 (26) S. MEANI, La responsabilità civile del medico…op. cit. (27) Cass., 13 marzo 1998, n. 2750, in Arch. civ., 1998, 6, 659; Trib. Napoli, 15 febbraio 1995, in Gius, 1996, 87; Cass., 22 novembre 1993, n. 11503, in Rass. dir. civ., 1995, 908, con nota di VENNERI; cfr. in dottrina G. P. MONATERI, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, IV, Torino, 1998, 769. (28) Pret. Tomezzo 21 aprile 1997, in Riv. it. medicina legale, 1999, 1730; Cass. civ. sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503, in Riv. It. Medicina Legale, 1995, 1275; Cass. 1 marzo 1988, n. 6144, in Foro it., 1988, I, 2296, con nota di A. M. PRINCIGALLI; Nuova giur. civ., 1991, I, 357, nota di R. Pucella. lità del medico e quella del paziente non vi sia una perfetta coincidenza, dato che la prestazione strictu senso medica è solo una parte della più complessa obbligazione assunta dall’ente. Tale obbligazione comprende, accanto alla prestazione principale di cura, anche una serie illimitata di cure, e di prestazioni che la struttura fornisce al malato: l’alloggio, la ristorazione, la sicurezza degli impianti e dei locali in cui si svolgono le operazioni sanitarie, l’organizzazione dei turni del personale medico, paramedico ed infermieristico, la messa a punto di programmi per il buon funzionamento delle attrezzature paramedicali, ecc. Alla base di questo nuovo indirizzo giurisprudenziale vi è la considerazione che ciò che caratterizza il servizio reso dall’ospedale rispetto a quello reso dal medico tradizionale è la natura organizzata, multisettoriale e complessa. È lecito, dunque, attendersi che la gestione delle risorse umane e delle attrezzature di cui dispone la struttura sia improntata a parametri di efficienza organizzativa che riducono al minimo o a livello accettabile, il rischio cui è sottoposto il paziente durante il ricovero. Ne consegue che qualora tale efficienza manchi, la struttura dovrebbe essere ritenuta responsabile indipendentemente da una colpa del singolo medico. La novità della ricostruzione consiste proprio nello spezzare il legame tra colpa del sanitario e responsabilità dell’ente per riconoscere una responsabilità autonoma della struttura per violazione dei doveri suoi propri, tra i quali spicca il dovere di organizzazione (29). 9. Rapporto medico - struttura ospedaliera Tra il medico che esercita la sua professione all’interno dell’ospedale e l’ente ospedaliero intercorre un rapporto di lavoro subordinato, così come è un rapporto di lavoro subordinato il rapporto tra la struttura sanitaria e il paziente, mentre tra paziente e medico vi è un contratto d’opera professionale. L’esecuzione dell’obbligazione che l’ospedale contrae con il malato è in concreto demandata ad un lavoratore dipendente, anche se non vi è identità tra la prestazione complessiva che in virtù del contratto concluso il paziente ha il diritto di pretendere dall’ospedale, e la frazione di quella prestazione che il medico fornisce al paziente stesso (30). La responsabilità dell’ente pubblico è diretta in forza del rapporto di immedesimazione organica, che 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (29) S. MEANI, La responsabilità civile del medico…op. cit. “La crescente importanza rivestita dagli aspetti organizzativi e gestionali, dell’adeguatezza strutturale del luogo di cura e del controllo della qualità del servizio erogato è confermata anche a livello legislativo. Si veda, fra gli altri, il d.P.R. 14 gennaio 1997 che in un apposito atto allegato stabilisce i requisiti minimi di tipo strutturale, organizzativo e tecnologico necessari per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private. Lo stesso procedimento di accreditamento istituzionale introdotto con il D.Lgs. n. 229 del 1999 presuppone l’identificazione da parte delle Regioni di requisiti minimi (ulteriori rispetti a quali previsti a livello nazionale per ottenere l’autorizzazione all’esercizio di attività sanitaria) e dei rispettivi indicatori”. (30) F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da “contatto sociale”, in Giur. it., 2000, 740, il quale ipotizza la figura allegorica del triangolo dove in tutti i tre i lati ricorre una ipotesi di legame contrattuale. attribuisce all’ente l’operato del medico e la responsabilità di quest’ultimo. La radice si rinviene nell’esecuzione colposa della prestazione professionale, ossia nello stesso fatto. Quale corollario ulteriore ne deriva che è la stessa normativa che, disciplinando la prestazione professionale medica regola anche la responsabilità dell’ente pubblico. 10. Rapporto paziente- medico e la responsabilità del medico dipendente Il rapporto medico - paziente ha subito notevoli evoluzioni nel tempo. I rapporti economici e sociali sono in rapida evoluzione, anche con riguardo al trattamento che si vuole garantire al soggetto destinatario delle attività sanitarie, nel quadro dell’effettiva realizzazione del precetto costituzionale contenuto nell’art. 32 cost. È cambiata la libera professione medica, sono cambiate le esigenze del paziente che ha sempre più consapevolezza dei propri diritti, l’intervento pubblicistico ha presentato talora delle disfunzioni (31). Se lo schema formale rimane fermo nel tempo, la valutazione dei comportamenti ha assunto nuove prospettive. Le problematiche che il settore coinvolge riguardano principalmente la natura della responsabilità del medico, l’oggetto della prestazione, la ripartizione dell’onere della prova (onus probandi), la colpa e la diligenza, il nesso causale tra condotta ed evento. Fino a qualche anno fa l’individuazione della natura della responsabilità per i danni arrecati in seguito a negligente svolgimento dell’attività diagnostica e terapeutica, veniva risolta in base alla circostanza che il contatto fra il medico fosse o meno mediato da una struttura pubblica (illecito aquiliano) o privata (illecito ex contractu). L’aspetto di novità negli ultimi anni è costituito proprio dalla nuova ricostruzione della natura della responsabilità del medico dipendente da ente pubblico (32). L’ultimo orientamento della giurisprudenza, a partire dalla sentenza della Cass. n. 589 del 1999, ha affermato che, pur non potendosi ravvisare un contratto la responsabilità del medico dipendente da una struttura pubblica nei confronti del paziente, in realtà si configura un “contatto sociale”, che si instaura in seguito all’affidamento del paziente alle cure del medico. Da detto affidamento consegue che i regimi di ripartizione dell’onere della prova, del grado di colpa e della prescrizione sono quelli previsti dal contratto di opera intellettuale professionale. Circa il rapporto tra paziente e medico sono state elaborate tre tesi principali: la prima, quella più risalente nel tempo, ritiene che il sanitario dipendente risponda a titolo di responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c. (33), la tesi intermedia attribuisce una valenza contrattuale al rapporto con riferimento ai c.d. contratti protettivi o a favore di terzi, mentre l’ultima aderisce DOTTRINA 273 (31) P . PAURI, La responsabilità civile…op. cit. (32) S. MAZZAMUTO, note in tema di responsabilità civile del medico, in Europa dir. priv., 2000, 504. (33) Cass., 20 novembre 1998, n. 11743, in Resp. Foro it., 1998, voce “Professioni intellettuali”, n. 165, Cass., 24 marzo 1979, n. 1716, in Giur. it., 1981, I, 1, 297. alla tesi del contratto di fatto o responsabilità da contatto. La giurisprudenza è partita, dunque, da una qualificazione che si inseriva nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, per arrivare a ritenere applicabili i principi dettati in tema di responsabilità contrattuale. La svolta è avvenuta con la nota sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 1998 che ha giustificato la responsabilità contrattuale del medico dipendente sulla base della teoria del c.d “contatto sociale”. Analizzeremo le suddette tesi e le conseguenze che derivano dall’adozione delle une o delle altre. 11. La tesi della responsabilità aquiliana L’orientamento dottrinale risalente nel tempo ipotizzava la responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c. in capo al sanitario dipendente (34). Il fondamento giuridico del regime della responsabilità extracontrattuale è stato individuato nella assenza di un vincolo contrattuale con il paziente, in quanto il medico è legato solo all’ente ospedaliero da un rapporto di lavoro subordinato. La Cassazione è pervenuta a costruire una particolare ipotesi di cumulo definito improprio (35): il cumulo ricorre quando da un medesimo comportamento derivano sia un inadempimento contrattuale, sia un danno ingiusto in quanto lesivo di un diritto oggetto di tutela, indipendentemente dal rapporto negoziale (36). Sotto il profilo processuale questa figura si risolve in una situazione di concorso di azioni esercitabili, tanto in via elettiva quanto cumulativa, qualora sia possibile assommare nello stesso processo i vantaggi dell’azione contrattuale e quelli dell’azione aquiliana (37). L’accettazione del paziente nell’ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d’opera professionale tra il paziente e l’ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del malato, l’obbligazione di compiere l’attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura (38). Conseguentemente, la responsabilità 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (34) Cass., 20 novembre 1998, n. 11743, in Resp. Foro it., 1998, voce “Professioni intellettuali”, n. 165, Cass., 24 marzo 1979, n. 1716, in Giur. it., 1981, I, 1, 297. (35) Cass. 13 marzo 1998, n. 2750; Cass. 26 marzo 1990, n. 2428, in Giur. it., 1990, I, 600 con nota di Carusi; Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, in Resp. civ. e prev., 1984, 78, con nota di C. Somarè. (36) G. PONZANELLI, Il concorso di responsabilità: le esperienze italiana e francese a confronto, in Resp. civ. prev., 1984, 36; cfr. anche sull’argomento in generale G. P. MONATERI, Cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (Analisi comparata di un problema). Padova, 1989, 41. (37) Cfr. anche la sentenza della Cassazione n. 500 del 27 luglio 1999, in Guida al dir., 1999, 31, 36; G.P. MONATERI, voce cumulo di azioni, in Digesto civ., V, Torino, 1989, 41; R. SACCO, Concorso delle azioni contrattuale ed extracontrattuale, in Risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, Milano, 1983. (38) In tal senso: Cass. 13 luglio 1945, n. 539, in Giur. it. 1946, I, 1, 332; Cass. 27 gennaio 1948, n. 111, in Giur. compl. Cass. civ. 1948, I, 112; Cass. 15 giugno 1954, n. 2016, in Rass. dir. san. 1955, 3, con nota di BORELLI, in Giur. it. 1955, I, 1, 276, con nota del predetto sanitario verso il paziente per danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale. Costantemente, si è affermato che la extracontrattualità dell’illecito del medico dipendente non osta all’applicazione analogica dell’art. 2236, in quanto la ratio di questa norma consiste nella necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente dalla qualificazione dell’illecito. Le Sezioni Unite della DOTTRINA 275 contraria di Peretti - Griva e in Giur. compl. Cass. civ. 1955, II, 56, con nota contraria di Di Salvo, App. Napoli 27 luglio 1956, in Rass. dir. san. 1956, 134; App. Roma 11 febbraio 1959, in Arch. ric. giur. 1960, 488, con nota di Capocaccia; Cass. 27 febbraio 1962, n. 363, in Giust. civ. 1962, I, 1061; Cass. 25 luglio 1964, n. 2057, in Mass. giur. it. 1964, 678; App. Milano 16 ottobre 1964, in Foro it. 1965, I, 1083; Cass. 24 luglio 1965, n. 1744, in Giur. it. 1965, I, 1, 1304; Cass., Sez. Un., 25 luglio 1966, n. 2039, in Mass. giur. it. 1966, 903; App. Firenze 20 settembre 1966, in Rep. Foro it. 1967, voce Professioni intellettuali, n. 78; Cass. 6 marzo 1967, in Rep. Foro it. 1967, voce Reato colposo, nn. 111-112; Cass. 25 luglio 1967, n. 1950, in Giust. civ. 1967, I, 1772; Cass., Sez. Un., 20 dicembre 1967, 2980, in Foro amm. 1968, I, 1, 233; Corte Cost. 14 marzo 1968, n. 2, in Giur. it. 1968, I, 1, 912, con nota di Duni, La Corte costituzionale di fronte all’art. 28 ed al problema della responsabilità civile degli enti pubblici; Cass. 21 febbraio 1969, n. 584, in Rep. Foro it. 1969, voce Responsabilità civile, n. 313; Cass. 6 marzo 1969, n. 733, in Mass. giur. it. 1969, 299 (solo massima); Cass. 12 maggio 1969, n. 1619, in Foro it. 1969, I, 3184; Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, id., 1970, I, 2135, con nota di richiami; Cass. 5 marzo 1970, n. 533, in Rep. Foro it. 1970, voce Responsabilità civile, n. 55; Cass. 20 luglio 1970, n. 1187, in Foro it. 1970, I, 2080, con nota di richiami; Cass. 6 maggio 1971, n. 1282, in Giust. civ. 1971, I, 1417; in Foro it. 1971, I, 1476; in Giur. it. 1971, I, 1, 1396; Cass. 13 ottobre 1972, n. 3044 e 15 dicembre 1972, n. 3616, in Foro it. 1973, I, 1170 e 1474, con note di richiami; Cass. 16 giugno 1975, n. 2439, in Foro it. 1976, I, 745, in Giur. it. 1976, I, 1, 953; Cass. 29 marzo 1976, n. 1132, in Rep. Foro it. 1977, voce Professioni intellettuali, n. 62; Cass. 5 ottobre 1976, n. 3273, in Foro it. 1977, I, 450, con nota di richiami; Cass. 18 aprile 1978, n. 1845, in Rep. Foro it. 1978, voce cit., n. 359; Trib. Verona 25 settembre 1978, id., 1979, voce Responsabilità civile, n. 106 e in Giur. merito 1979, 390, con nota di U. Ferrante; Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it. 1978, I, 4; Cass. 24 marzo 1979, n. 1716, in Giust. civ. 1979, I, 1440; Cass. 26 marzo 1990, n. 2428 in Rep. Foro it. 1990, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n.113; Cass. 18 novembre 1997, n. 11440, id., 1997, voce Danni civili (liquidazione e valutazione), n. 269, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 118; Cass. 13 marzo 1998, n. 2750, in Foro it., 1998, I, 1521, in Arch. civ. 1998, 659. In dottrina: ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Milano, 1955, 274 e segg.; A.M. SANDULLI, Manuale di dir. amministrativo, Napoli, 1969, 671 e 672; TOINI, Fatto illecito civile come presupposto della responsabilità civile della p.a. e del pubblico funzionario o dipendente in relazione all’art. 28 cost., in Amm. it. 1969, 411; C. CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano,1958, 12 e segg.; ALTAVILLA, La colpa, Torino, 1957, II, 19; G. A. NORELLI, Sul divenire della responsabilità in ambito sanitario, note medico-legali, in Riv. it. medicina legale 1985, 789; P. D’ OVIDIO, Prospettabilità di una responsabilità dell’amministrazione pubblica per un mero disservizio: applicazione in campo sanitario, in Arch. civ. 1985, 1203; R. IANNOTTA, Problemi dell’organizzazione giuridica del servizio di pronto soccorso e della responsabilità patrimoniale per danni conseguenti all’erogazione di tale servizio, in Rass. amm. sanità, 1984, 215. Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 6 maggio 1971 n. 1282 (39), hanno ritenuto che la responsabilità dell’Ente Ospedaliero e del medico dipendente per i danni subiti da una paziente “può essere affermata solo se risulti che l’autore del fatto lesivo abbia agito con dolo o colpa grave” (40). Il problema, più di prassi che di merito, si accentrava sul diverso decorso delle prescrizioni e sul diverso regime dell’onere probatorio, e soprattutto sulla possibilità del concorso dei due diversi tipi di responsabilità. La sentenza sopra richiamata afferma che “un più attento esame convince che l’art. 2236 Cod. Civ., può e deve trovare applicazione oltre che nel campo contrattuale anche in quello extracontrattuale, in quanto che esso prevede un limite di responsabilità per la prestazione dell’attività dei professionisti in generale, cioè sia che essa si svolga nell’ambito di un contratto e costituisca perciò adempimento di un’obbligazione contrattuale, sia che venga riguardata al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio e perciò solo come possibile fonte di responsabilità extracontrattuale”. 12. Le tesi contrattuali Numerose decisioni di merito o di legittimità si sono succedute nell’arco degli ultimi venti anni, tra conferme e revirement (41): la problematica è, tuttavia, sostanzialmente rimasta invariata. Il principale ostacolo delle tesi contrattuali è costituito dall’effetto preminente del contratto che, quale atto di autonomia privata, consiste nell’aver esso “forza di legge tra le parti” (art 1372 comma 1 c.c.). L’autonomia contrattuale implica la possibilità, per i contraenti, di regolare i propri rapporti: né sacrifici né vantaggi possono essere imposti a terzi. Ai sensi dell’art 1372 comma 2 c.c. il contratto vincola infatti esclusivamente le parti stipulanti, 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (39) Cass. Sez. un. 6 maggio 1971 n. 1282 in Foro It. 1972, I° 1476. (40) R. BERTI, La responsabilità medica secondo il diritto vivente, in *http://web.tiscalinet. it/ceredoc/html/*: “Al di là del caso di specie, che riguardava tra l’altro anche un problema di giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quello amministrativo in relazione al T.U. 10 gennaio 1957 n. 3 sul Pubblico Impiego, quello che le Sezioni Unite hanno disaminato e risolto era in pratica il problema del concorso tra le diverse ipotesi di responsabilità da fatto illecito, per la colpa commessa dal medico-agente, e contrattuale per l’ente dal quale il medico dipendeva, problema che in pratica si è dibattuto e si dibatte ancora oggi perché, prescindendo dagli aspetti pratici che non sempre risultano modificati per l’un tipo o l’altro di responsabilità, era ed è difficile chiamare contrattuale il rapporto che si instaura tra il medico ospedaliero, non espressamente eletto dal paziente, e il paziente stesso, risultando più naturale ed evidente che costui debba rispondere solo a titolo aquiliano mentre naturale è, superati i problemi di ordine pubblicistico che il servizio nazionale di sanità ha indotto, definire contrattuale il rapporto tra paziente e struttura ospedaliera e quindi inquadrabile la discendente responsabilità nell’ambito dell’art. 2236 Cod. Civ.”. (41) Cass. Civ. sez. Lav. 7 agosto 1982, n. 4437; Cass. Civ. Sez. Lav. 23 giugno 1994 n. 6064; Cass. Civ. Sez. III 11 aprile 1995, n. 4152; Cass. Civ. Sez. III 12 agosto 1995 n. 8845; Cass. Civ. Sez. III 18 novembre 1997, n. 11440; Cass. Civ. Sez. III 1 marzo 1998, n. 2144; Cass. Civ. Sez. III 8 marzo 1999, n. 1441. non producendo alcun effetto rispetto ai terzi estranei al sinallagma contrattuale. Tale assunto viene definito principio di relatività del contratto, laddove per relatività del contratto si intende la limitazione degli effetti contrattuali rispetto alle sole parti. Detto postulato, che si esprime nel brocardo res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest, non è da intendersi in senso rigoristico come preclusivo, al di là dei casi espressamente tipizzati dal legislatore, di qualsivoglia effetto giuridico nei confronti dei soggetti estranei al rapporto negoziale, e necessita di essere approfondito nel suo significato. Il principio di relatività degli effetti del contratto costituisce, dunque, l’aspetto negativo dell’autonomia contrattuale: essendo il contratto lo strumento attraverso il quale i soggetti autoregolamentano la propria sfera di interessi, con il principio di relatività si esprime la regola dell’intangibilità della sfera giuridica individuale, che non può essere modificata da atti negoziali altrui. 13. La problematica giuridica degli effetti del contratto. La figura della promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo. Il contratto a favore di terzi Alcune tesi dottrinarie e giurisprudenziali hanno ricondotto il rapporto tra medico, paziente e casa di cura nello schema del contratto a favore di terzi. Tale ricostruzione è possibile valorizzando il rapporto che intercorre tra casa di cura e medico dipendente (42). È vero che il principio secondo il quale il contratto non produce effetto rispetto ai terzi risponde all’idea del contratto come espressione di autonomia privata, ma sono presenti, già nel codice civile, delle importanti eccezioni. Al legislatore è apparso eccessivo escludere qualsiasi effetto diretto del contratto nei confronti dei terzi in ragione della libertà individuale. La soluzione normativa introdotta dall’art. 1372 comma 2 c.c. va quindi interpretata nel senso che un terzo non può vedersi imporre alcun effetto sfavorevole, ma può invece essere destinatario degli effetti favorevoli dell’altrui atto negoziale, salvo rifiuto. Parte della dottrina ha sostenuto che il principio di relatività del contratto vada ricompreso in un più ampio assunto fondato non solo sull’art. 1372 c.c., ma anche sul 1411 c.c. (contratto a favore di terzo) e sull’ammissibilità delle promesse gratuite, secondo cui i terzi possono essere destinatari degli effetti favorevoli dell’altrui atto negoziale, salva la facoltà del rifiuto. Il principio di relatività così temperato tutela l’autonomia privata del terzo in quanto può divenire destinatario solamente di effetti giuridici favorevoli. Per quanto attiene agli effetti del contratto vanno distinti gli effetti diretti dagli effetti riflessi. La DOTTRINA 277 (42) F.CARINGELLA, op. cit…, 1032. Cfr. in generale sul contratto a favore di terzi F. MESSINEO, Contratto nei rapporti col terzo, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 196 ss; M.GIRINO, Studi in tema di stipulazione a favore di terzi, Milano, 1965; U. MAJELLO, Contratto a favore di terzi, in Digesto, sez. civ., IV, Torino, 1989, 240; M. FRANZONI, Il contratto e i terzi, in I contratti in generale, II,a cura di E. GABRIELLI, Torino, 1999, 1073 ss.; M. SESTA, Interesse, causa e motivi nella stipulazione a favore di terzo, in Studi in memoria di G. Gorla, III, Milano, 1994. regola della relatività del contratto riguarda l’efficacia diretta del contratto quale atto giuridico, tale regola non riguarda l’efficacia riflessa. Si parla di efficacia riflessa del contratto riguardo a quegli effetti che il contratto produce per i terzi quale semplice fatto giuridico (43). Ulteriori eccezioni sono previste dalle disposizioni in tema di simulazione dall’art. 1415 c.c. La norma dispone che la simulazione non può essere opposta ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione. La ratio della norma è quella di tutelare l’affidamento del terzo su una situazione apparente. Un’altra eccezione è data dall’art. 1153 c.c. che dispone che colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà. In tal modo il terzo viene privato di un suo diritto dal nuovo acquirente. In realtà, a seconda dell’ampiezza che si vuole attribuire al principio di relatività, il contratto a favore di terzi può o meno costituire un’eccezione alla regola della relatività. Infatti, secondo una prima impostazione dottrinale, il contratto di cui all’art. 1411 c.c. è una eccezione normativamente prevista al principio di relatività degli effetti contrattuali (44). L’accoglimento di tale ricostruzione porta alla conclusione che il contratto a favore di terzi non costituisce una deroga al principio di relatività bensì è espressione di un altro principio, ricavabile dal 1333 c.c., compatibile con la regola della relatività. Una lettura in positivo del principio di relatività comporta che il contratto non può imporre obblighi 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (43) Dal contratto possono poi derivare effetti riflessi sia a vantaggio che a svantaggio di terzi: per es., da un contratto di locazione derivano effetti vantaggiosi non solo per il conduttore ma anche per i suoi conviventi. Un esempio di effetti di fatto derivanti al terzo da un contratto è rappresentato dal contratto con prestazioni da eseguirsi al terzo. In questo caso, non solo il terzo beneficia degli effetti che il contratto produce ma è l’interesse del creditore ad esigere che il terzo benefici di tali effetti, nel senso che l’interesse creditorio in tanto è soddisfatto in quanto il terzo effettivamente venga a beneficiare della posizione contrattuale. La relatività degli effetti non impedisce poi che il terzo venga leso in vere e proprie posizioni giuridiche: ad es., la vendita che si conclude tra Tizio e Caio toglie al creditore Sempronio parte della garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio del debitore alienante. Dal contratto non può derivare, quale effetto, la sottrazione di un diritto altrui (terzo rispetto al contratto). In questo senso appare chiaro l’art. 1478 c.c. sulla vendita di cosa altrui, che non produce effetto traslativo. Il contratto non può impedire al terzo di acquistare un diritto; considerato che, ai sensi dell’art 1379 c.c. il divieto di alienazione stabilito per contratto ha effetto solo tra gli stipulanti. (44) Secondo un’altra parte della dottrina, la ratio del contratto a favore di terzi si ricaverebbe dall’art. 1333 c.c. che disciplina la figura del contratto con prestazioni a carico del solo proponente. La norma introduce una deroga al normale procedimento di formazione del contratto poiché il negozio si può concludere senza una vera e propria accettazione da parte dell’oblato: è sufficiente che quest’ultimo non rifiuti entro un determinato termine. Ciò significa che è possibile, in generale, attribuire dei diritti al soggetto anche senza l’accettazione espressa dello stesso beneficiario. Questa regola sarebbe alla base anche dell’art. 1421 c.c., che permette di attribuire ai terzi dei diritti senza il loro consenso. in capo ai terzi (45). In realtà il contratto a favore di terzo difficilmente può ricondursi al rapporto trilatere tra paziente medico e struttura, in quanto il paziente non è solo un terzo titolato a richiedere l’esecuzione della prestazione, ma è egli stesso parte del contratto concluso con la casa di cura. Ne consegue che il soggetto danneggiato non fa valere il contratto esistente tra l’ente e il sanitario, ma il diverso contratto da lui concluso con l’ente ospedaliero avente ad oggetto la prestazione sanitaria, oppure propone un’azione di responsabilità extracontrattuale per lesione al diritto alla salute. Inoltre al momento della stipula del contratto tra casa di cura e medico il paziente non è ancora determinato e quindi non può acquistare nell’immediato alcunché (46). 14. La sentenza della Cassazione n. 589 del 1999 e la riscoperta della responsabilità da contatto sociale La giurisprudenza, da ultimo, ha qualificato come contrattuale la responsabilità del medico che opera all’interno di una struttura ospedaliera, ribaltando i precedenti orientamenti giurisprudenziali che ravvedevano in capo al DOTTRINA 279 (45) Un’applicazione di questo assunto è data dall’istituto della promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo disciplinato dall’art. 1381 c.c.: se Tizio promette a Caio la prestazione del terzo, quest’ultimo non è obbligato. Di conseguenza se un contraente ha promesso l’obbligazione o il fatto di un terzo, l’altro contraente non può avanzare alcuna pretesa nei confronti del terzo, il quale rimane completamente libero di rifiutare di obbligarsi o di non compiere il fatto previsto. Qualora il terzo rifiuti di eseguire la prestazione, il promittente è obbligato ad indennizzare. Ciò significa, che, a seguito della promessa, non si produce in capo al terzo alcuna obbligazione; si può promettere ad altri l’obbligazione o il fatto del terzo ma non si può costringere il terzo ad eseguire la prestazione promessa. La parte che per contratto promette la prestazione di un terzo infatti assume, nei confronti dell’altro contraente, un’obbligazione contrattuale avente ad oggetto una prestazione propria. Conseguenza di tale è assunto è che, nel caso in cui il promittente non si attivi per l’adempimento del terzo, lo stesso promittente sarà tenuto al risarcimento del danno nei confronti del promissorio. Va infine osservato che la giurisprudenza ha ritenuto che la promessa del fatto del terzo comporta per il promittente l’assunzione di una duplice obbligazione: una primaria di facere, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso, ed una successiva di dare, cioè di corrispondere un indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi. In conclusione, si può affermare che l’istituto della promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo è un’applicazione del principio generale della relatività degli effetti del contratto, secondo cui il contratto non può avere effetti sfavorevoli per i terzi, non può incidere direttamente nella loro sfera giuridica creando a loro carico obblighi. (46) F. CARINGELLA…op. cit., 1033. Per la tesi che ritiene che la responsabilità dell’ente gestore del servizio sia diretta, in quanto l’attività del medico dipendente è ad esso direttamente riferibile in virtù del principio dell’immedesimazione organica ai sensi dell’art. 28 Cost cfr. Cass. 1 marzo 1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Riv. It. medicina legale, 1997, 1073. Per la critica cfr. F. CARINGELLA…op. cit., 1033, il quale afferma che l’art. 28 Cost. si limita a statuire che è diretta la responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti, ma sul piano della natura, contrattuale o extracontrattuale, di tale responsabilità, non sono fornite indicazioni. Il principio della immedesimazione organica in realtà obbedisce a principi contrari alla responsabilità oggettiva o di riflesso. medico solo una responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri inerenti alla professione, ex art. 2236 c.c., concorrente con quella contrattuale dell’ente (47). Il leading case è costituito dalla sentenza della Cassazione n. 589 del 1999. In tale pronuncia la Cassazione aderisce alla tesi contrattualistica riscoprendo la tesi della responsabilità da contatto sociale: la responsabilità del medico ospedaliero è inquadrata nell’ambito della responsabilità da contatto (e quindi contrattuale). La Corte richiama il tradizionale insegnamento per cui sarebbe possibile parlare di responsabilità extracontrattuale solo quando tra autore dell’illecito e soggetto danneggiato, non sussiste alcun rapporto obbligatorio sorto prima del fatto lesivo. Ciò non accadrebbe nel caso del medico, in quanto obbligato nei confronti del paziente a svolgere diligentemente la sua prestazione. La ricostruzione della Cassazione riscopre uno schema nel quale vengono convogliati gli obblighi generati dalla realtà materiale, non riconducibili ad alcuna categoria contrattuale e tantomeno all’obbligo generico del neminem laedere, posto a difesa della sfera giuridica altrui. La nozione tedesca (cfr. oltre) di obbligazione senza obbligo primario di prestazione viene recepita dalla giurisprudenza per essere utilizzata nell’ambito dei rapporti contrattuali di fatto, sia pure con l’avvertenza di intendere tali non semplicemente le situazioni diverse dal contratto, bensì le fattispecie che concretamente realizzino le vicende di un determinato rapporto contrattuale. Ora, al di là del contratto formale che sempre si instaura tra professionista e cliente con il conferimento dell’incarico o con la elezione del rapporto fiduciario, quello che rileva per la Suprema Corte è l’attività che di fatto, e quindi sostanzialmente, viene prestata in favore del malato che, con particolare riguardo alla professione medica, costituisce “la fonte prima” del vincolo contrattuale. In tal modo si sono unificate le due diverse responsabilità che prima venivano addebitate ai due diversi soggetti, pubblico e privato, colmando anche quelle diversità di trattamento processuale che comportavano una diversa concezione del problema giuridico di individuazione della responsabilità. In passato si era propensi ad agire contro l’Ente Ospedaliero e contro il medico a titolo di responsabilità extracontrattuale in virtù del rapporto di rappresentanza che lega il medico all’ospedale e quindi in forza di quei principi di responsabilità che poi il Codice Civile del 1942 ha enunciato negli artt. 2049 e 1228 (48). Ci troviamo dunque davanti a due 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (47) Cass. 22 gennaio 1999, n. 589. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da “contatto sociale” (nota a Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 598), in Giur. it., 2000, 740; M. FORZIATI, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il contatto sociale conquista la Cassazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 661; F. DE MATTEIS, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale, in Danno e resp., 1999, 7, 781; per le critiche a questa impostazione cfr. A. DI MAJO, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corr. giur., 1999, 4, 477. Cfr. anche L. BIGLIAZZI GERI, Moltiplicazione cancro, Venezia, 1996. (48) F. INTRONA, La Responsabilità Professionale nell’esercizio delle arti sanitarie, Padova, 1955, 340. soggetti debitori, medico e ospedale, che hanno quale fonte comune il vincolo di subordinazione dell’uno rispetto all’altro (49). Se si analizza la genesi del rapporto tra paziente e medico dipendente, esiste un momento in cui le parti stabiliscono se entrare in relazione e, da quel momento, assumono un impegno reciproco e pongono una regola di comportamento: obbligazione e prestazione entrano a pieno titolo in un rapporto fondato sulla volontà delle parti. La matrice negoziale del rapporto, peraltro, è indebolita solo con riguardo alla possibilità di scelta delle parti contrattuali: da una parte, il medico, in quanto dipendente della struttura, è tenuto a prestare la sua attività nei confronti del soggetto che abbia concluso un accordo con l’ente; dall’altra parte il paziente, che non è libero di scegliere il professionista a cui rivolgersi essendo in ciò vincolato dall’indicazione fornita dalla struttura. È a questo punto che, secondo il più recente orientamento della Corte di cassazione, il contratto sociale surroga la consensualità tipica dell’accordo negoziale, giustificando la nascita di vincoli contrattuali in tutto equivalenti a quelli generati da un contratto di prestazione d’opera. Quella in esame, alla luce dei nuovi orientamenti giurisprudenziali, può essere definita come una fattispecie contrattuale a struttura complessa, dominata dalla presenza di un collegamento negoziale tra tre rapporti ex contractu: quello tra ente e medico, quello tra ente e paziente e quello tra paziente e medico. Ne consegue che, mentre le prestazioni pecuniarie - prezzo, compenso, spese - sono regolate dai primi due rapporti e la predisposizione di un’adeguata struttura organizzativa compete principalmente all’ente, la prestazione professionale è oggetto, a diverso titolo, di entrambi i rapporti facenti capo al paziente: quello instaurato con l’ente, in quanto l’ente assicura la disponibilità di personale qualificato a cui rivolgersi, riservandosi di condizionare la scelta del medico da parte del paziente; quello instaurato col medico, nel momento in cui il paziente decide di avvalersi di quella disponibilità, in quanto è in questo preciso ambito, in cui il rapporto di cura si sviluppa, che la prestazione viene definita ed eseguita concretamente. L’esistenza di un rapporto contrattuale tra medico e paziente, il cui contenuto obbligatorio si individua nel contratto di prestazione d’opera professionale, configura in capo al primo una responsabilità da inadempimento nei confronti del secondo che, dunque, concorre con quella dell’ente, emergente ad altro titolo. La distinzione dei due rapporti spiega la diversità dei criteri d’imputazione della responsabilità dell’ente e di quella del medico: il regime della responsabilità oggettiva dell’ente, quello della responsabilità per colpa, con i criteri di cui all’art. 2236 c.c., per il secondo. Per i medici che hanno eseguito l’intervento, pertanto, valgono i normali termini prescrizionali decennali, poiché essi rispondono, in via solidale con l’ente ospedaliero a cui appartengono, a titolo contrattuale, del proprio operato. La responsabilità di tipo extracontrattuale, per quanto in astratto sia configurabile come concor- DOTTRINA 281 (49) Cass. Sez. Un. 12 maggio 1938; Cass. Civ. 20 gennaio 1933. rente con quella contrattuale, invece, non può entrare nel campo quando la relativa azione, non esercitata nel termine di cinque anni, sia prescritta. In questo caso la violazione dei doveri inerenti alla bona ars medica, quand’anche abbia provocato lesioni illecite al paziente, non potrà comportare obblighi risarcitori che vadano oltre il danno patrimoniale direttamente ed immediatamente imputabile alla condotta negligente accertata. La responsabilità medica, dunque, non potrà estendersi a coprire il c.d. danno morale, che trae origine dall’accertamento di un fatto illecito di rilevanza penale, di natura extra contrattuale (50). La teoria della responsabilità da contatto (51) è stata invocata dai giudici di legittimità per estendere l’ambito delle fonti di obbligazione (art. 1173 cod. civ.) (cfr. pr.15) ed applicare la disciplina in tema di responsabilità contrattuale anche ai rapporti che sorgono attraverso il solo obbligo sociale di prestazione. Si afferma, infatti, che il medico è tenuto ad adempiere obblighi di cura che derivano dalla sua appartenenza ad una professione c.d. protetta e su cui il paziente ha fatto “affidamento” entrando in “contatto” con il medico, pur in assenza del “formale” negozio giuridico. In altri termini, il medico è chiamato a rispondere a titolo contrattuale dei danni cagionati nell’esercizio della propria attività professionale per il solo fatto di essere venuto in contatto con il paziente, anche in assenza di un obbligo di prestazione a favore del paziente posto a suo carico. Richiamando i principi della responsabilità contrattuale si è potuta applicare in via diretta e non più analogica la disciplina dettata dall’art. 2236 cod. civ., relativa alla limitazione di responsabilità per il medico ai soli casi di dolo o colpa grave, allorquando la prestazione si presentava particolarmente complessa (52). L’utilizzo delle regole dettate in tema di responsabilità contrattuale ha inoltre alleggerito l’onere della prova a carico del paziente attore, dato che ora egli è tenuto a dimostrare solo l’inadempimento e/o inesattezza dell’adempimento del medico, mentre spetterà a quest’ultimo provare che l’inadempimento è stato incolpevole o derivante da impossibilità sopravvenuta a lui non imputabile (art. 1218 cod. civ.). Del resto, anche nel caso in cui il professionista invochi il più stretto grado di colpa di cui all’art. 2236 cod. civ., sarà sempre suo onere dimostrare che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà e che, nella fattispecie, non vi era stato dolo o colpa grave. Per quanto concerne la distribuzione dell’onere della prova, può essere anzitutto opportuno richiamare il più recente orientamento della 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (50) Cass. civ. sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589 ; Trib. Milano, 19 febbraio 2001. (51) In senso critico si vedano: DI CIOMMO, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero, in Foro it, 1999, I, 3335. (52) Così VITI, Responsabilità medica: tra perdita di chances di sopravvivenza e nesso di causalità, in Corr. Giur., 2004, 102. Vedi anche A. LANOTTE, L’obbligazione del medico dipendente è un’obbligazione senza prestazione o una prestazione senza obbligazione?, in Foro it., 1999, I, 3338. Sui rapporti contrattuali di fatto, si vedano, fra gli altri: V. FRANCESCHELLI, Rapporti contrattuali di fatto, in Contratti, 1994, 646; C. ANGELICI, Rapporti contrattuali di fatto, voce dell’ Enc. Giuridica Treccani, Roma, 1991, XXV. Cassazione secondo cui, a fronte dell’inesatto adempimento di una prestazione medica, resa nell’ambito di una struttura sanitaria, compete alla struttura e/o al medico, in ragione e applicazione del principio di riferibilità o vicinanza della prova, provare l’incolpevolezza dell’inadempimento (ossia della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore) e la diligenza nell’adempimento (53). Più in generale, va detto che è rimasta in vigore la distinzione tra interventi di facile esecuzione o di routine - in cui il medico è responsabile anche in caso di colpa lieve - ed interventi di difficile esecuzione - in cui il sanitario è responsabile solo in caso di dolo o colpa grave. Rispetto all’intervento del primo tipo, il paziente deve provare solo che questo rientrava in pieno nell’ambito delle conoscenze tecniche acquisite dalla comunità scientifica. Al professionista spetterà invece dimostrare che l’insuccesso non è dipeso da propria negligenza, poiché in questo ambito scatta il principio c.d. res ipsa loquitur, secondo cui vi è una presunzione di colpa in capo al medico (54). È stato precisato che l’accertamento in merito alla speciale difficoltà dell’operazione deve riguardare il singolo caso concreto in tutte le sue particolarità operative e non può limitarsi all’intervento considerato in via astratta e generale (55). Non si deve, comunque, dimenticare che la limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave attiene esclusivamente al profilo della perizia e non copre i danni provocati da negligenza o imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (56). I principi dettati in tema di responsabilità contrattuale hanno permesso di affermare che anche i medici sono tenuti a rispettare i c.d. obblighi di protezione (57), ossia quegli obblighi accessori (58) alla prestazione principale (nella spe- DOTTRINA 283 (53) Per un approfondimento della questione concernente la ripartizione dell’onere della prova tra medico e paziente si rinvia a M. GRONDONA, commento a Cass. 19 maggio 1999, n. 4852, in Danno e Resp., 2000, 157 e ss. Cfr. A. DI MAJO, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, in Corr. Giur. 2005, 38. Così F. DE MATTEIS, cit., 35, la quale richiama le pronunce di: Cass. 21 giugno 2004, n. 11488, cit.; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297, in Dir. e Giust., 2004, f. 28, 37; Cass., SS. UU., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Corr. Giur., 2001, 1565, con nota di MARICONDA dal titolo “Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro”. (54) Per un approfondito esame di questo principio si rimanda a U. IZZO, Il tramonto di un “sottosistema” della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in Danno e resp., 2, 2005, 144 e segg. Cfr. oltre. (55) Cass. 30 maggio 1996, n. 5005, in Giust. civ. Mass., 1996, 797. (56) Sul punto: Cass. 10 maggio 2000, n. 5945, in Riv. it. Medicina legale, 2001, 1137, ed in Dir. e Giust., 2000, fasc. 19, 51; Trib. Milano, 23 maggio 2003, in Giur. mil., 2003, 435; Cass. 18 novembre 1997, n. 11440, in Riv. it. medicina legale, 1999, 982. (57) Cass. 2 ottobre 2001, n. 12198, in Giust. Civ., 2002, I, 3167, afferma testualmente che “Il contratto di prestazione professionale avente ad oggetto la prestazione medica… impone al sanitario dipendente della struttura ospedaliera gli obblighi di diagnosi, cura ed assistenza e gli altri obblighi di protezione propri della prestazione medica”. (58) G. GIACALONE, cit., 1004, parla di doveri accessori che integrano il contratto che trovano la loro fonte nell’ordinamento e, in particolare, nelle clausole generali di correttezcie, diagnosi o cura) che, seppur non espressamente stabiliti, sono posti a carico del debitore al fine di rafforzare la tutela del creditore. Grazie a questi concetti si è potuto ampliare il raggio di azione della responsabilità contrattuale, ricomprendendovi anche la violazione degli obblighi esterni alla prestazione principale, altrimenti destinati a ricevere tutela in base ai principi della responsabilità extracontrattuale. Fra questi obblighi accessori posti a carico del medico rientra anche l’obbligo di informazione e l’obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto, anche nella fase post – operatoria (59). Si deve subito precisare che l’obbligo di informazione nell’ambito della professione medica può assumere svariate dimensioni e contenuti. La giurisprudenza e la dottrina hanno per lo più focalizzato la loro attenzione sull’obbligo di informare il paziente circa la natura ed i rischi connessi al trattamento terapeutico, al fine di ottenere il suo consenso informato all’esecuzione dell’operazione (60). La Corte ha specificato che la natura di una responsabilità (nella specie contrattuale o extracontrattuale) va determinata non sulla base della condotta in concreto tenuta dal soggetto agente, ma sulla base della natura del precetto che quella condotta viola. Ciò comporta che una stessa condotta può violare due (o più) precetti, uno di natura contrattuale ed uno di natura extracontrattuale, fondando quindi due diverse responsabilità. Infatti, nel nostro ordinamento (contrariamente all’ordinamento francese dove vige incontrastato il principio del non - cumulo), vige il principio dell’ammissibilità del concorso della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, allorché un unico comportamento risalente al medesimo autore appaia di per sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti al contraente da clausole contrattuali, ma anche dei diritti soggettivi, tutelati anche indipendentemente dalla fatti- 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO za, diligenza e professionalità. C. CASTRONUOVO, Obblighi di protezione, in Enc. Giur. Treccani, XXI, Roma, 1990; A. DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, 315 ss. BENFATTI, Doveri di protezione, voce del Digesto Civ., Torino 1991, VII, 221; F. DI CIOMMO, commento a Tribunale di Spoleto 18 marzo 1999, in Danno e Resp., 1999, 1252, il quale ricorda che la dottrina distingue fra attività medica propriamente terapeutica (in cui l’ampiezza del dovere di informazione è ridotta), attività medico-estetica od odontostomatologica (in cui il dovere di informazione assume particolare valenza, considerati anche i risvolti psichici della vicenda) ed attività diagnostica (in cui il dovere di informazione rappresenta esso stesso la prestazione medica). (59) Così, A. LANOTTE, nota a Cass. 21 luglio 2003, n. 11316, in Foro it., 2003, I, 2970. Vedi anche: Cass. 11 marzo 2002, n. 3492, in Riv. it. medicina legale, 2003, 449. (60) Sul punto, si vedano: Cass. 16 maggio 2000, n. 6318, in Danno e Resp., 2001, 154, con nota di CASSANO; Cass. 6 ottobre 1997, n. 9705, in Resp. civ. e prev., 1998, 667, con nota di G. CITARELLA; Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771, con nota di L. PALMIERI; Trib. Venezia, 4 ottobre 2004, in Corriere del Merito, 2005, 21; App. Milano, 2 ottobre 2002, in Giur. mil., 2003, 31; DONATI, Consenso informato e responsabilità da prestazione medica, in Rass. Dir. Civ., 2000, 1 ss.; M. GORGONI, La “stagione” del consenso e dell’informazione: strumenti di realizzazione del diritto alla salute e di quello di autodeterminazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 488. DOTTRINA 285 specie contrattuale (61). Il fatto che sia la responsabilità del medico che quella dell’ente gestore del servizio sanitario abbiano entrambe radici nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, pur costituendo un importante elemento fattuale, non comporta necessariamente che le responsabilità di entrambi i soggetti siano di natura contrattuale di tipo professionale (62). Dottrina e giurisprudenza tendono, quindi, a ritenere che (61) In tal senso: Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, in Rep. Foro it. 1982, voce Professioni intellettuali, n. 41; voce Responsabilità civile, n. 44; Cass. 23 giugno 1994, n. 6064. (62) Contra Cass. 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it. 1971, I, 1476; in Foro amm. 1974, 29, con nota di C. MARZUOLI, L’applicabilità dell’art. 2236 all’illecito dell’amministrazione sanitaria; App. Milano 21 settembre 1976, in Rep. Foro it. 1977, voce Professioni intellettuali, n. 47 e Arch. civ. 1977, 330; Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it. 1979, I, 4; Cass. 4 giugno 1979, n. 3158, in Rep. Foro it. 1979, voce Prescrizione e decadenza, n. 123; Cass. 21 marzo 1981, n. 1656, in Foro it. 1981, I, 1585 e in Giur. it. 1985, I, 1, 248, con nota di C. CERONI, Grado della colpa e onere della prova; Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, id., 1984, voce Professioni intellettuali, n. 60 e in Resp. civ. 1984, 78, con nota di C. SOMARÈ, Alcune considerazioni in tema di diligenza; Cass. 9 novembre 1982, n. 5885, id., voce cit., n. 42; App. Milano 11 gennaio 1983, in Rep. Foro it. 1984, voce Professioni intellettuali, n. 45; App. Roma 6 settembre 1983, in Foro it. 1983, I, 2838, con nota di PRINCIGALLI; Cass. 27 febbraio 1984, n. 1393, in Foro it. 1984, I, 1280 e 1985, I, 1497, con nota di M. ANNUNZIATA, La ricerca del dolo o della colpa nei confronti della p.a.; Cass. 22 ottobre 1984, n. 5333, in Foro it. 1985, I, 1403, Cass. 28 gennaio 1985, n. 485, in Rep. Foro it. 1986, voce Responsabilità civile, n. 73; T.A.R. Piemonte, sez. II, 20 maggio 1985, n. 239, in Rep. Foro it. 1985, voce Impiegato dello Stato, n. 333 e in Trib. amm. reg. 1985, I, 2205; Trib. Padova 9 agosto 1985, in Foro it. 1986, I, 1995, con nota di V. ZENO - ZENCOVICH, Responsabilità e risarcimento per mancata interruzione della gravidanza; Cass. 5 maggio 1987, in Foro it. 1988, I, 107; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144, in Foro it.,1988, I, 2296, PRINCIGALLI; in Nuova giur. civ. 1988, I, 604, con nota di Pucella; Cass. 1 febbraio 1991, n. 977, in Giur. it. 1991, I, 1600, con nota di Carusi; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939, in Rep. Foro it. 1993, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 114; Cass 11 aprile 1995, n. 4152, id., 1995, voce cit., 167-168. In dottrina: POGLIANI, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, Milano,1969,332333; GENTILE, Regime della prescrizione in materia di responsabilità civile, in Resp.civ e prev.,1958, 294; RUPERTO, Prescrizione e decadenza, in Giur. civ. e comm. diretta da W. Bigiavi, Torino, 1968, 251; P. G. PONTICELLI, Responsabilità medica e servizio sanitario nazionale, in Giur. it. 1987, IV, 136; id., Professione e impiego nel servizio sanitario nazionale, Bologna, 1982; V. QUERCI e F. PASQUINI, In tema di responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale, in Riv. it. medicina legale, 1987, 467; F. STADERINI, La responsabilità degli operatori sanitari verso i terzi e verso l’amministrazione, in Nuova rass., 1986, 633; C. LESSONA, Responsabilità del medico dipendente e dell’amministrazione sanitaria, in La responsabilità in materia sanitaria, Milano, 1984, 57; M. DOHLER, L’autonomia professionale dei medici e lo stato sociale: problema o soluzione?, in Riv. trim. scienza ammin. 1986, fasc. 2, 35; C. MACRÌ, La responsabilità professionale, in Le professioni intellettuali, in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da Bigiavi, Torino, 1987, 259; G. MARZO, Appunti sulla responsabilità civile in campo medico, in Giur. it. 1986, I, 2, 681; M. CLARICH, La responsabilità del medico nelle strutture sanitarie pubbliche, in La responsabilità medica, Milano,1982,175; M. SANTILLI, La responsabilità dell’ente ospedaliero pubblico, in La responsabilità medica, cit., 181; V. G. COLAIANNI, Responsabilità della p.a. soprattutto nelle materia del pubblico 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO detto concetto sia quello previsto dall’art. 1176 c.c., che impone di valutare la colpa con riguardo alla natura dell’attività esercitata e, pertanto, la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell’attività e che in rapporto alla professione di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale. Da ciò discende che la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell’attività e che in rapporto alla professione di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale (63). Come è stato rilevato anche dalla dottrina, dunque, la diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione. Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione. Il settimo principio affermato, è quello per cui riportata la responsabilità del medico, dipendente della struttura sanitaria, nei confronti del paziente nell’ambito della responsabilità contrattuale, trova applicazione diretta l’art. 2236 cod. civ., a norma del quale, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave, senza la necessità di effettuarne un’applicazione analogica, come pure era avvenuto da parte dell’orientamento che sosteneva la responsabilità extracontrattuale del medico dipendente mentre è dubbio che nella fattispecie ricorrano i presupposti per l’applicazione dell’analogia, di cui all’art. 12 disp. prel. cod. civ. (64). Le conseguenze impiego, in Nuova rass. 1984, 2353; A. G. IANNARELLI, Riferimenti giurisprudenziali sul nesso psicologico in tema di responsabilità civile della p.a., in Foro amm. 1985, 689; F. MERUSI, La responsabilità dei pubblici dipendenti secondo la Costituzione: l’art. 28 rivisitato, in Riv. trim. dir. pubbl. 1986, 58; M. SANTILLI, Il diritto civile dello Stato, Milano, 1985, 145; G. SANVITI, La responsabilità civile della p.a.: gli aspetti speciali e gli aspetti di carattere generale, in La responsabilità civile, Torino, 1987, III, 459; A. PRINCIGALLI, La responsabilità del medico, Napoli, 1983, 285; M. SANTILLI, La responsabilità del funzionario, in Riv. critica dir. privato 1987, 133; M. FORTINO, La responsabilità civile del professionista, Milano, 1983, 113, A. VIGOTTI, La responsabilità del professionista, in La responsabilità civile, IV, 237; M. ZANA, La responsabilità del medico, in Riv. critica dir. privato 1987, 159. Cass, sez. I, 1 ottobre 1994, n. 7989, in Rep. Foro it. 1994, voce Responsabilità civile (in genere), n. 59. (63) Cass. 12 agosto 1995, n. 8845, in Rep. Foro it. 1995, voce Prescrizione e decadenza (prescrizione in genere), n. 29; voce Danni civili (danno alla persona e alla salute), n. 156; voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 170. (64) Contra: Cass. 5 aprile 1984, n. 2222, in Rep. Foro it. 1984, voce Professioni intellettuali, n. 59; Cass. 7 maggio 1988, n. 3389, id.,1988,voce cit (prestazioni d’opera), n. 74; voce cit. (responsabilità del professionista), n. 96; Cass. 11 agosto 1990, n. 8218, id., 1990, voce cit., n. 114. Corte Cost. 28 novembre 1973, n. 166, in Foro it. 1974, I, 19; in Cons. Stato 1973, II, 1123; in Giust. civ., 1974, III, 12; in Giust. pen. 1974, I, 35; in Giur. Costit. 1973, 1795; in Resp. civ. 1973, 242; in Arch. resp. civ. 1974, 23; Cass. 18 novembre 1997, cit. In tal senso: Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, cit.; Cass. 12 agosto 1995, n. 8845, cit. DOTTRINA 287 che discendono dall’accettazione della tesi contrattuale non possono fermarsi alle sole conseguenze dannose ma anche alla inadempienza all’obbligo di curare, perché vi è anche e necessariamente da esaminare la parte prodromica al perfezionamento del contratto dalla quale possono determinarsi ulteriori conseguenze che soprattutto alla luce delle recenti conquiste giurisprudenziali in tema di consenso informato, acquistano un valore determinante. Afferma la Cassazione, concludendo il suo costrutto logico-giuridico, che “omologate le responsabilità della struttura sanitaria e del medico come responsabilità entrambe di natura contrattuale, sia ai fini della rilevanza del grado della colpa che della ripartizione dell’onere probatorio, non esiste una differenza di posizione tra i due soggetti, né per effetto di una diversa posizione del paziente a seconda che agisca nei confronti dell’Ente Ospedaliero o del medico dipendente”. Si potrà condividere o meno il dettato della Suprema Corte, richiamato immediatamente dopo da una quasi identica sentenza (65), ma ciò che conta è che essendo omologa la responsabilità dell’ente e del medico, omologhe sono le azioni ai fini dell’onere probatorio e della prescrizione che il danneggiato potrà proporre nei confronti dell’uno, dell’altro o di tutti e due i soggetti. Si eliminavano così quelle incertezze sulla scelta delle azioni da proporsi. 15. La genesi della responsabilità da contatto: il contratto di fatto e la svalutazione del dogma della volontà La nozione di contratto di fatto nasce in Germania negli anni quaranta, anche se proprio in Italia, la dottrina del primo quindicennio del secolo, aveva già individuato la categoria (66). La tesi tedesca trae origine dalla concezione della culpa in contrahendo, espressione con la quale si indica la responsabilità precontrattuale, come responsabilità di tipo contrattuale, in quanto le parti del futuro contratto sono legate da un rapporto speciale che dà origine ad una serie di obblighi reciproci di buona fede giustificati con la necessità di proteggere l’affidamento della parte incolpevole (67). Secondo una parte della dottrina la responsabilità precontrattuale assumerebbe le caratteristiche funzionali di quella contrattuale, mentre i presupposti strutturali sono tipicamente aquiliani (68). È in questo ordinamento che è nata la teoria degli obblighi di protezione, secon- (65) Cass. 19 maggio 1999 n. 4852, Guida al Diritto n. 30 del 31 luglio 1999, 63. (66) S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004, 5 ss. G. CIAN, Significato e lineamenti della riforma dello Schuldrecht tedesco, in Riv. dir. Civ., 2003, 8; E. FERRANTE, Il progetto di riforma del libro II del codice civile tedesco su obbligazioni e contratti: verso un nuovo Schuldrecht, in Contratto e impresa/Europa, 2001, 272 ss.; E. FERRANTE, Il nuovo Schuldrecht: ultimi sviluppi della riforma tedesca del diritto delle obbligazioni e dei contratti, in Contratto e impresa/Europa, 2001, 771. (67) R. VON JHERING, Culpa in contraendo oder Schadensersatz bei nichtigen oder nicht zur Perfection gelangten Verträgen, in Jering’s Jahrb., 1861, rist. Acura di E. Schmidt, bad Homburg – Berlin –Zürich, 1969. (68) “Si ascrive all’area del contratto in senso ampio una responsabilità che altrimenti avrebbe continuato ad esprimere la disciplina dei comportamenti tra persone distanti, e non dei rapporti tra privati”, S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, …5, sub nota 10. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO do cui il rapporto obbligatorio è considerato articolato in un obbligo di prestazione e di comportamento collaterale alla prestazione (69). Il contratto di fatto consiste nell’attuazione o esecuzione di una prestazione non preceduta da alcuna proposta. Vengono attribuiti ad alcuni fatti i medesimi effetti giuridici che si sarebbero prodotti in conseguenza di una dichiarazione di volontà. I rapporti contrattuali di fatto sono, dunque, quelli che, pur non trovando il loro fondamento in una volontà diretta a costituirli o in un comportamento negoziale, si manifestano egualmente come rapporti della vita di relazione e, in virtù della loro tipicità sociale, acquistano rilevanza per il diritto (70). La tendenza allora dominante era quella di svalutare il dogma della volontà, con la conseguenza di giungere alla esasperata valorizzazione degli interessi della comunità rispetto a quelli dell’individuo. Si giustificava così il sorgere di vincoli anche a carico di chi, pur non avendo manifestato alcuna intenzione al riguardo, avesse attuato un comportamento di favorevole impatto sociale. Nella dogmatica civilistica il tema rientra da tempo nella teoria delle fonti dell’obbligazione. In particolare si prende spunto dall’art. 2126 c.c. e dal principio a-contrattualistico che dominerebbe l’ordinamento giuridico del lavoro. Generalmente, si individuano due tesi: la tesi del rapporto obbligatorio di fatto, che configura come conseguenza la responsabilità extracontrattuale, e la tesi contrattualistica, per la quale la responsabilità è di tipo contrattuale. Tale fattispecie viene inquadrata dalla dottrina tedesca (71) nelle obbligazioni senza (obbligo primario di) prestazione, nell’ambito del principio del dogma della volontà, ossia del dominio della volontà nell’ambito negoziale (72). Per la prima tesi la fonte dell’obbligazione è un fatto o un atto venuto ad esistenza nella realtà, in quanto è legittimo che da una attività giuridica che si è svolta mediante il rapporto di fatto, nasca una corrispondente obbligazione. La fonte si rinviene nell’art. 1173 ultimo comma c.c. (atto o fatto idoneo a produrre l’obbligazione), da cui deriva una responsabilità di tipo extracontrattuale. La tipologia riguarda: il trasporto di cortesia, il comodato precario ed, in generale, i rapporti di cortesia, il traspor- (69) La Leistungspflichten (prestazione) e la Verhaltenspflichten (comportamento) che si ricollegano al dovere di protezione, categoria dogmatica elaborata da Kress, in Lehrbuch des Algemeinen Sculdrechts, München, 1929, 5 ss. Per altre citazioni tedesche cfr. S. FAILLACE, op. cit., 6. (70) Cfr. al riguardo FINZI, Il possesso dei diritti, 1915, ristampato a Milano nel 1968; E. BETTI, Dei cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Nuova riv. dir. comm., 1956, I, 238 e in Jus, 1957, 353 e ss; HAUPT, Uber faktisce Verhaltnisse, in Festschrift fur H. Siber, Lipsia, 1943, e la ulteriore bibliografia riportata da R. SACCO, Il contratto di fatto, in Trattato op. cit., 42; C. M. BIANCA, Diritto civile, Il contratto, vol. 3, Milano, 1987, 40). F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da “contatto sociale”, in Giur. it., 2000, 740, il quale ipotizza la figura allegorica del triangolo dove in tutti i tre i lati ricorre una ipotesi di legame contrattuale. (71) LARENZ, SCHULDRECHT, Munchen, 1982, I, 13, 101. (72) Cfr. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico, op. cit., 4; C. CASTRONUOVO, L’obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e torto, in La nuova responsabilità civile, 2 ed., Milano, 1997, 198. to gratuito, il trasporto di persona che non abbia pagato il biglietto del viaggio, il comodato a termine, il godimento di fornitura di energia elettrica o di acqua dopo la scadenza del relativo contratto (73). In questi casi le parti non si sono assoggettate volontariamente ad una determinata disciplina corrispondente a quella legale. La caratteristica riguarda l’aspetto volontaristico. La tesi a-contrattualistica ritiene che questi comportamenti materiali con i quali le parti si scambiano attribuzioni patrimoniali non abbiano una valenza negoziale, non accennino ad una volontà di autovincolarsi. La tesi contrattualistica ritiene, invece, che alla base di questi rapporti vi sia un sostrato volontaristico che permette di connotarli in chiave negoziale. È proprio nell’ottica della tematica del comportamento concludente, del negozio di attuazione, dei comportamenti con valore legale tipico, che si inserisce la tematica del contratto di fatto. Per la tesi contrattualistica il legislatore svaluta il momento volontaristico, supera il dogma della volontà e ritiene irrilevante la ricerca di una volontà comportamentale ai fini dell’assunzione dell’autovincolo, dando rilievo al valore sociale che di solito determinati comportamenti assumono (c.d. comportamenti impegnativi). Tipico esempio è costituito dal comportamento concludente o comportamento attuativo di cui agli artt. 1333 c.c.(contratto con obbligazione del solo proponente), art. 684 c.c.(distruzione del testamento olografo: il testamento si intende revocato), 685 c.c. (ritiro del testamento segreto si intende revocato se non può valere come testamento olografo). In tutti questi casi la manifestazione della volontà è indiretta. Anche in riferimento all’1327 comma 1 c.c. la suddetta tesi individua un contratto di fatto: per la dottrina la figura dell’esecuzione prima della risposta dell’accettante configura o un modello di accettazione tacita o un negozio di attuazione, in cui l’attuazione è solo uno dei modi in cui può manifestarsi la volontà dell’oblato, in quanto realizza immediatamente la volontà del soggetto, pur senza porre l’agente in relazione con altri soggetti (manifestazione della volontà diretta). Altri esempi vengono individuati negli artt. 476 c.c. (accettazione tacita dell’eredità), e 1444 comma 2 (convalida tacita). È comunque indubitabile che in tutti questi casi il contratto regolare non si formi, ma l’ordinamento intende salvare determinate situazioni costituitesi per effetto del rapporto svoltosi di fatto e stabilisce che, sulla base della specifica attività svolta nell’ambito di un rapporto di fatto, nasca una corrispondente obbligazione, che scaturisce da un fatto idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.). In tal caso non è più lecito parlare tecnicamente di contratto di fatto, quanto piuttosto di rapporto contrattuale di fatto. Si viene a costituire, dunque, un’obbligazione con contenuto analogo a quello dell’obbligazione ex contractu (74). Al di fuori dell’ambito contrattuale si segnalano, come esempi di rapporti praeter legem, che non presentano i requisiti previsti dalla legge: l’amministratore di fatto, l’ufficiale di stato DOTTRINA 289 (73) N. LIPARI, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia. Spunti per una teoria del rapporto giuridico, in Riv.trim.dir.proc.civ., 1968, I, 415. (74) C. M. BIANCA, Diritto civile, Il contratto op. cit. 40, nota 112. civile di fatto (art. 113, c.c.), la separazione di fatto fra coniugi (arg. ex art. 158 c.c.) o il rapporto coniugale di fatto (in quest’ultimo caso la giurisprudenza ha utilizzato lo schema dell’obbligazione naturale). La dottrina individua come esempi di contratti di fatto la mediazione (il contatto sociale è qui in grado di porre in relazione i patrimoni di due o più consociati), i rapporti associativi di fatto (la società nulla o irregolare o di fatto, le associazioni non riconosciute, le imprese familiari, il contratto di massa (predisposto dall’imprenditore in modo uniforme mediante moduli o formulari (75). Secondo la teoria tradizionale (76) i rapporti contrattuali di fatto sarebbero classificabili in tre categorie: rapporti ricollegati al fatto della offerta al pubblico di una prestazione o servizio di pubblico interesse e alla conseguente sua richiesta o messa a profitto da parte degli utenti (es. utilizzazione del mezzo di trasporto tranviario o della somministrazione di beni di generale consumo); rapporti che derivano da contatto sociale istaurato tra più sfere di interessi, quando, in mancanza di qualsiasi fattispecie contrattuale, assume decisivo rilievo la conseguente possibilità di reciproca influenza (es. trasporto di cortesia); rapporti derivanti dalla inserzione in una organizzazione comunitaria, rispetto alla quale il caratteristico elemento fiduciario legittimerebbe una parte a «fare assegnamento sulla cooperazione promessa dall’altra» (es. del rapporto non preceduto da un valido o regolare atto costitutivo; società di fatto o esecuzione di fatto di un rapporto di lavoro). Una terza tesi tenta una ricostruzione unitaria del fenomeno, e prende le mosse dalla critica della totale negazione del valore della dichiarazione di volontà avanzata dai primi autori tedeschi. Si giunge, per questa via, alla configurazione del comportamento delle parti, «valutato nella sua tipica concludenza», quale esplicazione (attuazione) di autonomia privata, «approvata e protetta dall’ordine giuridico» ed integrante comunque un comportamento negoziale (77). Il punto di svolta della dottrina dei rapporti contrattuali di fatto è rappresentato dall’abbandono dell’idea per cui il contratto deve essere sostenuto da un accordo necessariamente dichiarato, ben potendo derivare da un consapevole contatto tra le sfere di interessi di due consociati, unito alla statuizione di un regolamento di interessi che viene posto in essere da entrambi i portatori degli interessi in questione o da uno soltanto di essi (negozio unilaterale). Dal punto di vista della comunità viene valutato come congrua, soddisfacente soluzione del problema pratico relativo alla distribuzione o produzione di beni nell’ambito della vita di relazione. La volontà non risulterebbe dunque del tutto pretermessa rispetto alla costituzione del rapporto contrattuale, ma verrebbe apprezzata esclusivamente con riguardo al contenuto del contratto, piuttosto che al contratto come 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (75) Cfr. Contratto di massa, voce Enc. dir. aggiornamento, 1997, 403 ss.; il lavoro subordinato di fatto, la gestione di fatto, cfr. anche R. SACCO, Il contratto di fatto, in Trattato di dir. priv., Obbligazioni e contratti, II, diretto da P. Rescigno, 52 ss. (76) E. BETTI, Dei cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Nuova riv. dir. comm., 1956, I, 238 e in Jus, 1957, 353 e ss. (77) E. BETTI, Dei cosiddetti rapporti contrattuali…op. cit., 367. tale. Non si nega l’esistenza di un accordo alla base del rapporto contrattuale, ma si ammette che le modalità tradizionali di esplicazione del consenso non sempre possono essere attuate: ciò non significa che il rapporto sorga privo di un suo elemento essenziale. Gli artt. 1327 e 1333 sono ipotesi in cui già il legislatore prevede la conclusione del contratto fuori dal tradizionale incontro della proposta con l’accettazione. In ogni caso nei rapporti contrattuali di fatto non si può rinvenire una dichiarazione di volontà. Ne consegue che la capacità di agire non ha alcuna rilevanza e che sarebbe erroneo equiparare i rapporti di fatto ai meri atti giuridici leciti. La tipologia del comportamento privo dell’espressione del consenso, ma considerato negoziale in forza di una valutazione socialmente tipica, può essere, dunque, riconducibile allo schema attuativo di un contratto tipico (comportamento imitativo di un contratto: amministratore di fatto, società di fatto); oppure non riconducibile in alcuno schema contrattuale da ritenersi imitato (78). 16. Le ipotesi simili e le guidelines giurisprudenziali, l’amministratore di fatto, la responsabilità precontrattuale, il danno da procreazione, la responsabilità da contatto amministrativo L’inserimento della negotiorum gestio nella categoria dei rapporti contrattuali di fatto da parte della Cassazione è stata determinata dalla riscoperta della teoria del contatto sociale. La pronuncia della Cassazione del 6 marzo 1999, n. 1925 ha incluso la assunzione non autorizzata della gestione di affari altrui nell’ambito dei rapporti contrattuali di fatto (amministratore di fatto) (79). È stata abbandonata la teoria della preposizione tacita ed implicita al fine di valorizzare il momento genetico rispetto a quello funzionale del rapporto (80). Nella società di fatto è ricompresa la società nulla, in cui manchi un atto scritto del contratto o in senso più ampio la c.d. società irregolare, il cui contratto non sia stato pubblicato. Nella categoria rientra anche la prestazione resa in esecuzione del contratto di lavoro di fatto, quale rapporto che trae origine da un contratto nullo e per il fatto del semplice inserimento in un’organizzazione comunitaria. La dottrina recente e maggioritaria aderisce ad una visione contrattualistica del rapporto di lavoro, a differenza di quella tedesca che invece aderisce alla tesi a-contrattualistica. La costruzione del danno alla persona in funzione della lesione dell’integrità psicofisica come valore in sé tutelabile, ha determinato la occasione per ampliare il novero delle situazioni soggettive meritevoli di tutela, allargando l’indagine, precedentemente circoscritta alle sole lesioni DOTTRINA 291 (78) N. LIPARI, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia. Spunti per una teoria del rapporto giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1968, I, 415; V. FRANCESCHELLI, Rapporti contrattuali di fatto: un cinquantenario, in Contratti, 1993, 705 ss. (79) Cass. 14 settembre 1999, n. 9795, in Giur. comm., 2000, I, 79 ss., con nota di A. SCHERMI, Annotazioni sull’amministratore di fatto, e E. VALERIO, Una svolta giurisprudenziale in tema di amministratori di fatto?, 1049 ss. (80) S. FAILLACE, La responsabilità…op. cit., 39. dell’integrità psicofisica o alla morte, anche ai settori della nascita e del concepimento. La questione del danno da procreazione raggiunge un punto di incontro tra i due modelli della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, l’uno caratterizzato dall’inadempimento ad un pregresso rapporto giuridico di tipo obbligatorio, l’altro dalla causazione di un danno ingiusto provocato da un comportamento o da un fatto illecito in assenza di un preesistente rapporto obbligatorio tra le parti. La convergenza dei due modelli, sulla base di una regola non scritta ma largamente diffusa anche in Germania (81), configura il cumulo delle due azioni. In particolare, la responsabilità precontrattuale per violazione dell’art. 1337 c.c., per una parte della dottrina costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale e si collega alla violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell’iter formativo del contratto. Presuppone che tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione di un contratto giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l’affidamento nella conclusione del contratto. Oppure presuppone che una delle parti abbia interrotto le trattative così eludendo le ragionevoli aspettative dell’altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli, ed infine che il comportamento della parte inadempiente sia stato determinato, se non da malafede, almeno da colpa, e non sia quindi assistito da un giusto motivo. Secondo l’opposta tesi, invece, la responsabilità precontrattuale è attratta nell’ambito della responsabilità contrattuale in quanto i soggetti delle trattative non sono tra loro estranei, ma sono legati da un contatto sociale che può dirsi qualificato, in quanto oggetto di una diretta considerazione da parte dell’ordinamento giuridico che impone a ciascuno obblighi di comportamento anche attivi. La tesi tedesca, in particolare, è a favore della tesi contrattuale in quanto gli obblighi di condotta precontrattuali non possono riconoscersi in quelli che derivano dal contratto, in quanto la previsione della regola di comportamento esprime una potenzialità precettiva che non si esaurisce nel solo aspetto risarcitorio. Un altro esempio di labile confine tra contratto e responsabilità aquiliana è costituito dal c.d. danno da procreazione o da vita indesiderata. La questione del danno da procreazione, ad esempio, raggiunge un 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (81) G.STELLA RICHTER, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1977, I, 151; D. CARUSI, Contraccezione, aborto e “danno da procreazione”: di una importante sentenza del tribunale costituzionale tedesco e di alcune questioni in materia di responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 1999, 1173; D. CARUSI, Fallito intervento d’interruzione di gravidanza e responsabilità medica per omessa informazione: il “danno da procreazione” nella giurisprudenza della Cassazione italiana e nelle esperienze straniere (nota a sent. Cass., sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, Usl n. 21 Padova c. Petix e altro), in Rass. dir. civ., 1996, 343; G. BALDINI, Il danno da procreazione: evoluzione dei profili di responsabilità alla luce delle nuove tecniche di riproduzione artificiale, in Rass. Dir. civ., 1995, 481; G. CRISCUOLI, Il problema del risarcimento del danno da procreazione non programmata: le risposte della giurisprudenza common law, in Rass. dir. civ., 1987, 442; A. R. VENERI, Diritto del nascituro a nascere sano, obbligo di prestazione del medico e sua responsabilità contrattuale, in Rass. dir. civ., 1995, 908 ss. punto di incontro tra i due modelli della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, l’uno caratterizzato dall’inadempimento ad un pregresso rapporto giuridico di tipo obbligatorio, l’altro dalla causazione di un danno ingiusto provocato da un comportamento o da un fatto illecito in assenza di un preesistente rapporto obbligatorio tra le parti. Il diritto del nascituro costituisce una ipotesi in bilico tra l’affermazione dei nuovi diritti della persona ancorati agli art. 2 e 32 Cost. e l’introduzione di un nuovo tipo di danno: il danno esistenziale. I danni astrattamente derivabili dall’imperizia o dalla negligenza dimostrata dal ginecologo durante la gestazione o al momento del parto si distinguono in tre tipologie: danni alla salute della madre, danni alla salute del bambino, danni da nascita indesiderata. L’evoluzione del fenomeno procreativo come scelta responsabile e consapevole dei soggetti, l’avanzamento tecnologico e sociale con conseguente spostamento in avanti dei canoni o dei presupposti della diligenza medica richiesta dai genitori nell’interesse del nascituro, nonché il crescente intervento del medico, soprattutto nell’ipotesi della fecondazione artificiale, introducono novità rilevantissime tali da indurre, “in via straordinaria, qualora ricorrano determinate circostanze, ad estendere i principi generali della responsabilità civile anche ad un campo, come quello della procreazione, che ne era fino ad oggi escluso” (82). Parte della dottrina ritiene che anche la responsabilità della Pubblica Amministrazione per l’attività provvedimentale illegittima non possa considerarsi responsabilità aquiliana, ma vada piuttosto ricondotta nell’alveo della responsabilità contrattuale (83). L’Amministrazione sarebbe infatti tenuta, nello svolgimento della propria attività di cura degli interessi pubblici, a rispettare non solo un dovere generico di DOTTRINA 293 (82) M. BONA, Perdita del nascituro: un nuovo precedente per il danno esistenziale, in Danno e resp., 2000, 89; M. ROSSETTI, Danno esistenziale: adesione iconoclasta od epoche?, in Danno e Resp., 2000, 209; Cass, 7 giugno 2000, n. 7713, in Danno e resp., 835, con note di G. P. MONATERI, Alle soglie: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, e di G. PONZANELLI, Attenzione: non è danno esistenziale ma vera e propria pena privata e in Corr. giur., 2000, 874, con nota di DE MAURZO, La Cassazione e il danno esistenziale. G. BALDINI, Il danno da procreazione, in Rass. di dir. civ., 3, 1995, 517. D. CARUSI, Contraccezione, aborto e “danno da procreazione”: di una importante sentenza del tribunale costituzionale tedesco e di alcune questioni in materia di responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 1999, 1173; D. CARUSI, Fallito intervento d’interruzione di gravidanza e responsabilità medica per omessa informazione: il “danno da procreazione” nella giurisprudenza della Cassazione italiana e nelle esperienze straniere (nota a sent. Cass., sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, Usl n. 21 Padova c. Petix e altro), in Rass. dir. civ., 1996, 343; G. BALDINI, Il danno da procreazione: evoluzione dei profili di responsabilità alla luce delle nuove tecniche di riproduzione artificiale, in Rass. dir. civ., 1995, 481; G. CRISCUOLI, Il problema del risarcimento del danno da procreazione non programmata: le risposte della giurisprudenza common law, in Rass. dir. civ., 1987, 442. PONZANELLI, La responsabilità medica ad un bivio: assicurazione obbligatoria, sistema residuale no-fault o risk-managment?, in Danno e Resp., 2003, 428 e segg. A. R. VENERI, Diritto del nascituro a nascere sano, obbligo di prestazione del medico e sua responsabilità contrattuale, in Rass. dir. civ., 1995, 908 ss. (83) F. CARINGELLA, op. cit. 974. C. VACCÀ, L’intervento di chirurgia estetica è di risultato?, in Resp. civ. prev., 1986, 44 ss. non ledere l’altrui sfera giuridica, ma una serie di obblighi comportamentali specifici, anche attivi, posti direttamente dalla legge. Il soggetto che subisce una conseguenza dannosa dall’attività amministrativa non può essere considerato un quisque de populo rispetto all’amministrazione: con l’instaurazione del procedimento amministrativo sorgerebbe tra l’amministrazione e il privato una relazione specifica qualificata, volta alla protezione di beni giuridici determinati facenti capo a quest’ultimo. 17. Gli effetti dell’accoglimento della tesi contrattuale. La responsabilità medica e il grado della colpa. L’applicazione in via diretta e non più analogica dell’art. 2236 c.c. Tendenza alla trasformazione da obbligazione di mezzi a obbligazioni di risultato. La riconduzione della responsabilità medica nell’ambito della fattispecie contrattuale implica che essa possa essere equiparata a tutti gli effetti alla responsabilità professionale. Si applicano, pertanto, le disposizioni di cui agli artt. 1176 primo e secondo comma c.c. e 2236 c.c. L’art. 1176 al comma 1 c.c., infatti, prevede la diligenza del buon padre di famiglia nell’esecuzione delle obbligazioni e, al secondo comma, la diligenza qualificata con riguardo alla natura dell’attività esercitata per le attività professionali. L’art. 2236 c.c., invece, riguarda la limitazione della responsabilità professionale al dolo e alla colpa grave nei casi di particolare difficoltà tecnica e va coordinato con l’art. 1176 c.c. La Cassazione ha ritenuto che tale limitazione operi solo in riferimento alla perizia e non anche alla negligenza o all’imprudenza: in questi ultimi casi il medico risponderebbe anche per colpa lieve, in quanto solo la perizia prescinderebbe dalla preparazione professionale media, o perché il caso è di particolare complessità o perché le tecniche non sono studiate o sperimentate sufficientemente (84). La conseguenza dell’accoglimento della tesi contrattuale è che la responsabilità medica attiene alla responsabilità professionale. L’ordinamento prevede norme particolari e criteri speciali particolari di imputazione della responsabilità. In particolare l’art. 2236, co. 2 stabilisce che il grado di diligenza cui è tenuto il debitore deve essere commisurato alla natura dell’attività dovuta (85). La giurisprudenza da tempo ha elaborato regole generali relative alla misura della diligenza, all’onere della prova, alla presunzione della colpa e del nesso causale, all’attenuazione della responsabilità in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, applicabili indistintamente, prescindendo dalla struttura del rapporto (86). La 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (84) Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 598, in Giur. it., 2000, 740. (85) F. CARINGELLA, op. cit... 1013 (86) Per le critiche all’operazione giuridica posta in essere dalla Cassazione, soprattutto con la differenza tra obbligazione di mezzi e di risultato, nel caso di specie sfumato, v. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente, cit., 743 e E. SCODITTI, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale (commento a Cass. 25 novembre 1994, n. 10014), in Foro it.,1995, I, c. 2913; F. CAGGIA, In tema di responsabilità del medico, in Giur. It., 1998, I, 45. A.M. PRINCIGALLI, La responsabilità civile. Profili generali, in Diritto privato eurogiurisprudenza ravvisa nella prestazione del professionista quella di un debitore qualificato: l’adempimento dell’obbligazione va valutato in base all’art. 1176, secondo comma c.c., con la conseguenza che il professionista è tenuto a conoscere le regole del mestiere e ad operare con perizia e prudenza. Ciò implica il rispetto di tutte le regole della conoscenza della professione medica, intesa come conoscenza ed attuazione delle regole proprie della professione. Il grado di diligenza deve essere apprezzato in relazione alle circostanze concrete; la limitazione della responsabilità ex art. 2236 c.c., applicabile ai soli casi di dolo e colpa grave, si applica alla perizia per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (87). Il medico instaura con il paziente un contratto d’opera intellettuale, che si specifica come “contratto di prestazione medica” che viene definito come “l’accordo in virtù del quale il medico, effettuata la diagnosi ed indicata la terapia, si obbliga nei confronti del paziente, dietro corrispettivo, a realizzarla secondo le migliori prescrizioni dell’arte medica, assumendo, perciò una obbligazione di mezzi”. Il medico si impegna a prestare la propria opera intellettuale per raggiungere il risultato sperato. Si osserva infatti che, da un lato, un risultato, inteso come momento finale e conclusivo della prestazione, è comunque dovuto in tutte le obbligazioni, e che, dall’altro, ogni qual volta viene raggiunto un risultato ciò implica necessariamente che sono stati impiegati i mezzi occorrenti. Ne deriva che le cure del medico sono un mezzo per la guarigione del malato, ma sono un risultato se lo scopo preso in considerazione è quello di essere curato. Dunque, nei casi di prestazione medica non implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, si individua in realtà un’obbligazione di risultato (88). La nozione di contatto sociale viene poi utilizzata per estendere l’ambito delle fonti di obbligazioni (art. 1173 c.c.) applicando la disciplina dei contratti anche ai rapporti che sorgono attraverso l’obbligo sociale di prestazione. Nel caso di specie sorgerebbe in capo all’ente ospedaliero un obbligo di prestazione cui corrisponderebbe un dovere di protezione del medico dipendente e, di conseguenza, la relativa responsabilità (89). DOTTRINA 295 peo, a cura di Lipari, Padova, 1997, 989 ss; G.P. MONATERI, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, 1998, 751 ss. (87) Cfr. Cass. 19 maggio 2004, n. 9471, in Dir. e Giust., 2004, f. 25, 32 che in motivazione parla di “sostanziale trasformazione dell’obbligazione del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di (quasi) risultato”. Cfr. in generale L. MENGONI, Obbligazioni di “risultato” e obbligazioni di “mezzi”. Studio critico, in Riv. dir. Comm., 1954, 185 ss. e V. DE LORENZI, voce Obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, in Dig. Disc. priv., Torino, 1995, 397. (88) P. PAURI, La responsabilità civile e penale derivante dall’errore medico, in Diritto e Diritto (sett. 2004). (89) R. BERTI, La responsabilità medica secondo il diritto vivente, in http://web.tiscalinet. it/ceredoc/html/* 18. Il riparto dell’onere della prova e la res ipsa loquitur La tesi dell’obbligazione per risultato si basa sul principio della res ipsa loquitur. L’accoglimento della tesi contrattuale crea, infatti, ripercussioni proprio in merito all’onere probatorio. La Cassazione afferma che l’onere della prova incombe in capo al professionista: egli deve fornire la prova che la prestazione presentava problemi tecnici di particolare difficoltà (90). Il paziente deve invece provare che l’intervento era di carattere rutinario (91). Ulteriore rilevante differenza è il diverso termine di prescrizione dell’azione di responsabilità. È importante individuare le caratteristiche dell’errore professionale che deriva dalla trasgressione di quelle norme, che sono universalmente riconosciute valide dalla scienza. In particolare, l’errore compiuto dal medico riguarda la diagnosi, la prognosi o la terapia, e consiste nel falso apprezzamento di fatti oggettivi per i quali la scienza medica fornisce una interpretazione ufficiale o stabilisce regole precise, dettate dalle conoscenze scientifiche più avanzate e provate dall’esperienza. L’errore è inescusabile, e quindi c’è colpa, quando sia conseguenza diretta della mancata conoscenza di principi fondamentali (92). L’utilizzo della responsabilità contrattuale alleggerisce l’onere della prova a carico del paziente attore in quanto si applica l’art. 1218 c.c.: egli è tenuto a dimostrare solo l’inadempimento del medico, mentre spetterà al medico provare che l’inadempimento è stato incolpevole o derivante da impossibilità sopravvenuta a lui non imputabile (93). È rimasta in vigore la distinzione tra interventi di facile esecuzione o di routine: la limitazione di responsabilità del medico si applica ai soli casi di dolo o colpa grave nei casi di prestazione particolarmente complessa. Risulta evidente che oramai l’obbligazione del medico dipendente si sostanzia in una obbligazione senza prestazione o, il che è lo stesso, in una prestazione senza obbligazione (94). La giurisprudenza considera unitariamente, a tali fini, l’attività sanitaria come prestazione di mezzi, senza più farsi carico della natura della 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (90) Cfr. anche Cass., 4 febbraio 1998, n. 1127, in Giur. it., 1998, 1800. (91) Cass., 8 gennaio 1999, n. 103, in Arch. civ., 1999, 4, 437. (92) P. PAURI, La responsabilità civile e penale derivante dall’errore medico, in Diritto e Diritto (sett. 2004). (93) M. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario al Codice civile a cura di Scialoja- Branca-Galgano, Bologna – Roma, 1993, 129 ss; V. FINESCHI, Res ipsa loquitur: un principio in divenire nella definizione della responsabilità medica, in Riv. It. medicina legale, 1989, 419; F. CAGGIA, In tema di responsabilità del medico, in Giur. It., 1998, I, 40; G. BALDINI, Il danno da procreazione: evoluzione dei profili di responsabilità alla luce delle nuove tecniche di riproduzione artificiale, in Rass. di dir. civ., 3, 1995, 493; Cfr. altresì, ivi citato, L.KAPLOW, The Value of Accuracy in Adjuducatio: an Economic Analysis, in 23 J. Leg. Stud. 307, 308 (1994). (94) A. LANOTTE, nota a Cass. 21 luglio 2003, n. 11316 in Foro It., 2003, I, 2970. Cass. 11 marzo 2002, n. 3492, in Riv. it. Med. Leg. 2003, 449. responsabilità del medico. Ritiene che incombe in capo al professionista, che invoca il più ristretto grado di colpa di cui all’art. 2236 cod. civ., provare che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, mentre spetta al paziente danneggiato provare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee (95). È il paziente a dover provare che l’intervento era di facile o rutinaria esecuzione ed in tal caso il professionista ha l’onere di provare, per non incorrere in responsabilità, che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso da un difetto di diligenza propria (96). Al fine di scongiurare il rischio di ipotizzare in capo al medico una ipotesi di obbligazione di risultato e non di mezzi, la Cassazione ricorre al modello della res ipsa loquitur, ossia al criterio dell’evidenza circostanziale, tipico degli ordinamenti di common law (laddove, tuttavia la responsabilità medica è di carattere aquiliano, cfr. pr. 6). La res ipsa loquitur opera come una presunzione di colpa, ma è un principio tipico della responsabilità extracontrattuale. Nel caso della responsabilità medica verrebbe “prestato” alla responsabilità contrattuale. Relativamente all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. la Cassazione, per giustificarla anche al di fuori delle fattispecie del contratto d’opera intellettuale, sostiene che la regola di cui al predetto articolo si configura come un limite di responsabilità per la prestazione dell’attività professionale in genere, sia che essa si svolga nell’ambito di un contratto, sia che venga riferita al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio. “L’applicazione della res ipsa loquitur all’attività medica rappresenta uno dei tanti modi di supplire alle circostanze incerte con cui le regole della responsabilità civile fanno i conti quando sono calate nel processo, e non v’è ragione di dubitare che anche in questo caso l’applicazione della regola rifletta, in modo più o meno consapevole, la scelta di risparmiare sul prezzo dell’accuratezza della decisione” (97). 19. Il medico considerato come non un semplice quisque de populo Il modello del cumulo è stato superato in quanto il medico dipendente non può essere considerato come un semplice quisque de populo soggetto soltanto a quel dovere del neminem laedere che grava su ciascun consociato (98). La struttura della responsabilità medica risulta atipica laddove si DOTTRINA 297 (95) In tal senso: Cass. 3 dicembre 1974, n. 3957, in Rep. Foro it. 1974, voce Professioni intellettuali, n. 23; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1127. (96) Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, cit.; Cass. 30 maggio 1996, n. 5005, in Rep. Foro it. 1996, voce Professioni intellettuali (responsabilità del professionista), n. 167; Cass. 18 novembre 1997, n. 11440. (97) U. IZZO, Il danno da contagio post-trasfusionale come danno evidenziale? Regole e concetti in tema di presunzioni e responsabilità, in Danno e resp., 2001, 250. (98) V.CARBONE, Responsabilità del medico come responsabilità da contatto, in Danno e resp., 1999, 3, 303. G. CHINÉ, Contratto di massa, voce Enc. dir. aggiornamento, 1997, 403 ss.; R. SACCO, Il contratto di fatto, in Trattato di dir. priv., Obbligazioni e contratti, II, diretto da P. Rescigno, 52 ss. riscontra che, anche quando è stata collocata all’interno della responsabilità aquiliana, ad essa sono comunque applicati istituti propri della responsabilità contrattuale, quali la distinzione in obbligazioni di mezzo e di risultato, il criterio della diligenza professionale, il richiamo a regole di causalità materiale, nonché la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. (99). La Cassazione ha infatti ravvisato nell’art. 1173 c.c., sfruttandone al massimo il dettato “aperto”, la fonte dell’obbligazione di tipo contrattuale tra paziente e medico ospedaliero, partendo dal presupposto che la professione medica sia una professione protetta, anche dal punto di vista penale, considerato che il suo abusivo esercizio configura una fattispecie di reato ai sensi dell’art. 348 c.p. e che l’esercizio dell’ars medica è considerato un servizio di pubblica necessità del quale il cittadino è per legge obbligato ad avvalersi (art. 359, n. 1, c.p.). L’attività medica, inoltre, incide sul bene della salute che è di rilevanza costituzionale (art. 32 Cost.) e proprio per questo la deontologia ricade nell’ambito della normativa civile ai sensi dell’art. 1337 c.c., che impone il generale dovere di correttezza alle parti, nonostante manchi un vincolo contrattuale. Tutti questi elementi contribuiscono a far sorgere l’obbligazione nel momento che il paziente entra in “contatto” con il medico. La scelta del modello di responsabilità contrattuale da parte della Cassazione si spiega in quanto, a differenza della responsabilità aquiliana, permette di sanzionare anche la culpa in non faciendo e non solo la culpa in faciendo: il paziente chiede al medico di essere curato e, dunque, il medico non è tenuto solo a non peggiorare la salute del paziente bensì a migliorarla. L’art. 2043 c.c., invece, può essere invocato per sanzionare una lesione del diritto alla salute, qualora il soggetto già versi in uno stato patologico e lo peggiori. È il comportamento richiesto al medico che legittima e giustifica il ricorso al modello contrattuale, atteso che egli ha l’obbligo di garantire la tutela di interessi esposti a pericolo nel momento in cui avviene il contatto sociale, essendo il suo obbligo più intenso del generico neminem laedere che incombe sulla generalità dei consociati, configurandosi come obbligo di protezione (100). 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (99) F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico dipendente, cit., 50, nota 24. Relativamente all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. l’autore evidenzia che la Cassazione, per giustificarla anche al di fuori delle fattispecie del contratto d’opera intellettuale, ha sostenuto che la regola di cui al predetto articolo si configura come un limite di responsabilità per la prestazione dell’attività professionale in genere, sia che essa si svolga nell’ambito di un contratto, sia che venga riferita al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio, Cass., sez. un., 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, I, 1476. Cfr. anche Cass. 19 maggio 1999, n. 4852, in NGCC, 2000, 226, con nota di C. PARODI, Il percorso evolutivo del danno riflesso. (100) Tale fattispecie viene inquadrata dalla dottrina tedesca (LARENZ, SCHULDRECHT, Munchen, 1982, I, 13, 101) nelle obbligazioni senza (obbligo primario di) prestazione, nell’ambito del principio del dogma della volontà, ossia del dominio della volontà nell’ambito negoziale, cfr. F. G. PIZZETTI, La responsabilità del medico op. cit., 4; C. CASTRONUOVO, L’obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e torto, in La nuova responsabilità civile, 2 ed., Milano, 1997, 198. Il medico sarà dunque imputabile di culpa in non faciendo qualora non abbia fornito al paziente cure adeguate rispetto all’affidamento e alle richieste formulate (101). Dalla configurazione della responsabilità contrattuale del medico dipendente discendono vantaggi inequivocabili in capo al paziente, sotto il profilo del regime probatorio, della colpa, del termine prescrizionale, dell’imputabilità del fatto dannoso. 20. Gli effetti dello shopping del diritto e l’esigenza che la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale Elementi della responsabilità extracontrattuale, come la res ipsa loquitur sono prestati a quella contrattuale ed elementi di quella contrattuale, come l’onere della prova, sono prestati a quella extracontrattuale. Gli effetti dello shopping del diritto hanno condotto la giurisprudenza ad alleggerire l’onere probatorio del paziente danneggiato in occasione di prestazioni mediche di routine di interventi ad alta vincolatività. Hanno inoltre ridotto l’ambito di discrezionalità tradizionalmente accordato all’agire del professionista, elevando i requisiti quantitativi e qualitativi delle informazioni che il medico deve comunicare al paziente per consentirgli di valutare appieno l’opportunità di intraprendere l’atto terapeutico o diagnostico prospettatogli. Si sminuisce così il rilievo pratico dell’attenuazione del regime di imputazione della responsabilità previsto dall’art. 2236 c.c. in caso di prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di speciali difficoltà: vengono differenziati i criteri di valutazione della condotta medica impiegati in particolari settori della medicina (medicina estetica, odontoiatrica, medicina psichiatrica, trasfusionale ecc.). Si connota in senso sempre più marcatamente oggettivo l’imputazione dei danni iatrogeni subiti dal paziente a causa di una mancanza tecnico gestionale attribuibile alla struttura sanitaria, con l’estensione dell’area del danno risarcibile grazie all’impiego del criterio di collegamento tra condotta ed evento che concede una rilevanza crescente all’idea della perdita di chances (è il caso della responsabilità medica per la nascita di un figlio indesiderato). Fra questi obblighi accessori posti a carico del medico rientra anche l’obbligo di informazione e di sorveglianza sulla salute del soggetto, anche nella fase postoperatoria (102). In questo quadro la più penetrante tutela risarcitoria accordata al paziente dall’evoluzione giurisprudenziale pone notevoli problemi assicurativi e minaccia di alimentare la pratica della c.d. medicina difensiva, come già da decenni accade negli Stati Uniti. I principi dettati in tema di responsabilità contrattuale hanno permesso di affermare che anche i medici sono tenuti a rispettare i c.d. obblighi di protezione, ossia quegli obblighi accessori alla prestazione principale (diagnosi o cura) DOTTRINA 299 (101) Per le critiche a questa impostazione v. A. DI MAJO, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corr. giur. 1999, 4, 450. (102) A. LANOTTE, nota a Cass. 21 luglio 2003, n. 11316 in Foro It., 2003, I, 2970. Cass. 11 marzo 2002, n. 3492, in Riv. it. med. leg. 2003, 449. che, se pur non espressamente stabiliti, sono posti a carico del debitore al fine di rafforzare la tutela del creditore. Grazie a questi concetti si è potuto ampliare il raggio di azione della responsabilità contrattuale, ricomprendendovi anche la violazione degli obblighi esterni alla prestazione principale, altrimenti destinati a ricevere tutela in base ai principi della responsabilità. Il fenomeno giuridico è strettamente collegato al mutare della sensibilità sociale nei confronti degli esiti infausti della cura, che a sua volta riflette maggiori aspettative di certezza ed infallibilità che il progresso scientifico e tecnologico proietta sull’immagine sociale della medicina. L’esistenza di quell’obbligo- dovere che condiziona l’opera sanitaria fa sì che quest’ultima assurga a una sorta di contratto di fatto del diritto alla salute. 21. Conclusioni Quei vuoti, che il nostro ordinamento purtroppo contiene essendo vecchio rispetto all’esigenza attuale di giustizia, consentono sempre di più il ricorso a locuzioni contrabbandate da diritti stranieri, come il contratto di fatto, il contratto con effetti protettivi o il sofisma del diritto vivente, elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale. Ma per avere una risposta alle più pressanti ed attuali esigenze anche la ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione, per quanto logica e giuridicamente esatta, non può costituire un punto definitivo. Si lasciano aperti altri spazi di indagine che riguardano, al di là della teoria, la quotidiana pratica dei diritti dei pazienti. A seguito delle mutate conoscenze scientifiche e del sorgere di nuovi valori, sono state elaborate nuove situazioni soggettive, collegate ai diritti umani, non ancora consapevolmente protette. La giurisprudenza è pervenuta ad una opzione metodologica che vuole apprestare una esaustiva organizzazione sistematica e ordinatoria all’esperienza medica degli ultimi decenni. Il problema è che si sta creando una giurisprudenza che interpreta estensivamente le norme del codice. Si vuole dare maggiore visibilità a un ribaltamento di significati con un certo, bisogna dirlo, esautoramento di talune norme di quello che a tutt’oggi resta in ogni caso il principale strumento normativo di regolazione della disciplina privatistica. Il nuovo non va disperso ma riorganizzato e riqualificato con un’opera di puntuale e rigorosa verifica dell’intero impianto di concetti e categorie ordinatrici. Il rischio è una confusione concettuale o la creazione di rigide barriere probatorie e processuali in grado di condizionare negativamente il delicato esercizio dell’attività medica. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Responsabilità medica e consenso informato. Prospettive di risoluzione stragiudiziale delle controversie. di Giuseppe Camardi(*) SOMMARIO: 1.– Premessa. Evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità professionale medica. 2.– Consenso informato e responsabilità del medico. 3.– Prospettive di conciliazione stragiudiziale in ambito medico. 1. Premessa. evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità professionale medica. La relazione fra medico e paziente, così come tutte le relazioni umane, è contraddistinta da un esile reticolo di elementi emotivi e cognitivi, a volte difficile e conflittuale. Solamente il medico è, per il paziente, in grado di ristabilire l’equilibrio interrotto dalla malattia ed è per tale motivo che egli accetta di affidargli la cura del proprio corpo pur di ritrovare il proprio benessere. Il medico sperimenta quotidianamente la pesante responsabilità di colui al quale è affidata la salute ed in generale la vita stessa di altri individui, difatti, quando il rapporto medico-paziente (1) viene turbato da un errore professionale, le conseguenze possono essere particolarmente gravi (2). L’esercizio della professione medica invero “si caratterizza per l’ispirazione ideale e per l’elevato valore etico nonché sociale, ma anche per l’idoneità ad integrare fattispecie illecite, essendo destinato a realizzarsi sulla persona (3)”. Il regime della responsabilità medica può tuttavia considerarsi “un sistema composito” (4) in quanto, accanto all’elementare rapporto medico-paziente, deve necessariamente collocarsi l’insieme delle relazioni che si istituiscono DOTTRINA 301 (*) Dottorando di ricerca in Diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Bologna, già praticante avvocato nell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Firenze. (1) Così PALMIERI A. , Relazione medico-paziente tra consenso “globale” e responsabilità del professionista, in Nuova Giur. civ. comm. 13, 573, 1997, nota a Cass. civ. 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it. 121, I, 771. (2) In questi termini GADDI D., MAROZZI F., QUATROCOLO A., Voci di danno inascoltate: mediazione dei conflitti e responsabilità professionale medica, in Riv. it. medicina legale 2003, 5, 839. (3) Così FRATI P., MONTANARI VERGALLO G., DI LUCA N. M., Gli effetti del consenso informato nella prospettiva civilistica, in Riv. it. medicina legale 2002, 4-5, 1035. (4) ALPA G., La responsabilità medica, in Resp. Civ. e prev. 1999, 315; GUERINONI E., “Vecchio”e “nuovo” nella responsabilità del medico: un campionario di questioni e soluzioni, Resp. Civ. e prev. 2001, 3, 598. allorché un soggetto diviene destinatario di prestazioni mediche di qualsiasi natura, preventive, diagnostiche, terapeutiche, ospedaliere, chirurgiche, estetiche, assistenziali, ecc. La responsabilità medica concerne pertanto la struttura ospedaliera, il personale sanitario, medico e paramedico (5). La giurisprudenza, da tempo, ha elaborato regole universali concernenti la misura della diligenza, l’onere della prova, la presunzione della colpa e del nesso causale (6), nonché l’attenuazione della responsabilità in presenza di quesiti specialistici di particolare difficoltà (7). La riconduzione della responsabilità medica nell’ambito della fattispecie contrattuale comporta che essa possa essere equiparata alla responsabilità professionale con la conseguente applicazione delle disposizioni normative di cui agli articoli 1176, commi 1 e 2, c.c. e 2236 c.c. (8). In tema di qualificazione del dovere di diligenza del medico (9), si conferma in giurisprudenza la tendenza che individua in tale soggetto un debitore qualificato (10). Infatti, il “medico chirurgo nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia..., ma è quella speci- 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (5) Fra i tanti, BARNI M., Diritti doveri responsabilità del medico. Dalla bioetica al biodiritto, Milano, 1999; BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, III edizione, Padova, 1998. (6)A riguardo si veda LUMETTI M. V. e altri, Il risarcimento del danno nel processo civile amministrativo, amministrativo contabile, penale, tributario, Maggioli, 2003, 215 ss. (7) MONATERI G.P. , La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, 1998, 751 ss. (8) CASTRONOVO C., Profili della responsabilità medica, in Vita not., 1997, 1223 ss.; PRINCIGALLI A. M., La responsabilità del medico, Napoli, 1983. Come ha sottolineato GUERINONI E., in “Vecchio”e “nuovo” nella responsabilità del medico: un campionario di questioni e soluzioni, cit, fondamentale a riguardo è il delicato tema concernente l’oggetto della prestazione medica in relazione alla classica ripartizione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. La giurisprudenza ha utilizzato la suddetta distinzione al fine di individuare l’oggetto dell’obbligazione nell’esercizio di attività concernenti prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 ss. c.c. . A riguardo si è fatto riferimento ad un concetto di diligenza la cui violazione rientra nella c.d. “ colpa professionale” costituendo dunque inadempimento di un obbligazione di mezzi. In tal modo si è rafforzato l’orientamento secondo cui la responsabilità del professionista intellettuale non scaturisce affatto dal mancato raggiungimento del risultato sperato dal paziente bensì dal mancato utilizzo da parte del sanitario della necessaria diligenza richiesta dalla particolare attività svolta. (9) MENGONI L., Obbligazioni di “risultato” e obbligazioni di “mezzi”, in Riv. dir. comm., 1954, I; DI MAJO A. , Delle obbligazioni in generale, in Comm. Cod. civ. Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 1988, sub art. 1176. Sempre sul tema della distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato in ambito medico, alcuni autori, tra cui VACCÀ C., L’intervento di chirurgia estetica è di risultato?, in Resp. Civ. e prev. 1986, sostengono che l’obbligazione del chirurgo plastico sia da considerarsi un’obbligazione di risultato. (10) GUERINONI E., “Vecchio”e “nuovo” nella responsabilità del medico: un campionario di questioni e soluzioni, cit., 598. fica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176, comma 2, c.c., la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica”. La diligenza ex art. 1176, comma 2 deve essere intesa come comprensione e concretizzazione delle regole procedurali proprie di una determinata professione. Sebbene il grado di diligenza deve essere valutato con riferimento al caso concreto (11), la limitazione della responsabilità professionale di cui all’art. 2236 c.c. relativa ai soli casi di dolo e colpa grave “attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza” che non rientrano affatto nella suddetta restrizione (12). La Cassazione (13), con riferimento all’onere probatorio, ritiene che incombe in capo al professionista fornire la prova che la prestazione presentava problemi tecnici di particolare difficoltà. L’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni pertanto, stimola ad una scrupolosa riflessione sul decisivo input impresso dal diritto vivente ai principi che regolamentano il sistema della responsabilità civile medica (14). La giurisprudenza infatti, in ambito sanitario, ha cercato di assicurare la concreta attuazione dei diritti inviolabili dell’uomo al fine di pervenire ad una più ampia ed accessibile riparazione dei danni lamentati dal paziente, sforzandosi di valorizzare le potenzialità della responsabilità civile in senso preventivo (15). I mezzi per poter realizzare un sistema visibilmente preventivo in ambito di “malpractice medica” devono inevitabilmente basarsi sul c.d. studio epidemiologico della prevenzione dei conflitti nel settore della responsabilità professionale analizzando la frequenza con la quale si effettuano errori DOTTRINA 303 (11) STANZIONE P, ZAMBRANO V., Attività sanitaria e responsabilità civile, Milano, 1998; GAGGIA F., In tema di responsabilità del medico, in Giur. it. 1998, I, 40. (12) Cfr. Cass. civ. , 19 maggio 1999, n. 4852, Foro it. , 1999, I, 2874. (13) Cass. civ. 4 febbraio 1998, n. 1127, in Giur. it., 1998, 1800; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, 598, in Giur. it., 2000, 740, LUMETTI M. V.e altri, Il risarcimento del danno nel processo civile, amministrativo, amministrativo contabile, penale, tributario, cit., 222 ss. (14) FINESCHI V., ZANA M., La responsabilità professionale medica: l’evoluzione giurisprudenziale in ambito civile tra errore sanitario e tutela del paziente, in Riv. it. medicina legale 2002, 1, 49. (15) BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, IV edizione, Cedam, Padova, 2001; il paziente, che si appresta a essere curato, è dunque sostenuto da una “tutela forte” tanto che negli ultimi anni si è giunti a dichiarare la responsabilità contrattuale delle strutture sanitarie per insufficienze relative all’organizzazione che siano però riconosciute causa unica ed accertata con “ragionevole probabilità” di danni subiti dagli utenti della suddetta struttura. Si fa riferimento ad esempio, ai danni subiti dai pazienti per carenze relative ai tempi eccessivi di attesa per visite specialistiche, dall’assenza di un servizio di anestesia e rianimazione in un ospedale pediatrico ove si pratichino interventi chirurgici complessi, dall’inefficienza della strumentazione nella sezione di rianimazione neonatale (Cass., 19 maggio 1999, n. 4852), dalla mancanza di un cardiotografo funzionante (Cass., 16 maggio 2000, n. 6318), ecc. medici in una determinata struttura sanitaria, i fattori che hanno contribuito a generarli e i sacrifici in termini monetari patiti dai pazienti. L’istituto della responsabilità civile in senso preventivo influenza tutti i settori del giudizio di responsabilità medica adottando il regime giuridico proprio della responsabilità contrattuale (16) a prescindere dalla fonte dell’obbligo di cura e considerando il consenso informato tra le prerogative riconosciute al paziente nell’esercizio del diritto alla salute (17). 2. Consenso informato e responsabilità del medico Nell’ambito dei diversi settori della responsabilità medica la discussione si è concentrata su varie questioni. Grande rilevanza riveste il delicato tema del c.d. “consenso informato” strettamente legato agli obblighi di informazione sulla natura, il decorso ed i postumi di un determinato intervento chirurgico o di una certa terapia. La formazione del consenso ad uno specifico trattamento sanitario presuppone un precisa informazione (18) da parte del medico cui è richiesta la prestazione sanitaria. Il difetto di informazione non consentendo di ottenere un consenso informato da parte del paziente dà luogo ad un illecito. Il suddetto dovere di informazione consiste nell’obbligo di informare il paziente sulla natura dell’intervento, sulle possibili difficoltà, sugli eventuali rischi e sulle probabili conseguenze del trattamento sanitario nonché l’indicazione delle diverse alternative a quell’intervento. L’obbligo in questione “si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (16) Ariguardo occorre chiarire che il superamento dello stabile indirizzo giurisprudenziale che qualificava come contrattuale la responsabilità delle strutture sanitarie nei confronti del paziente, ed extracontrattuale la responsabilità degli operatori in esse operanti, sembra essersi compiuto con l’asserzione della Cassazione secondo cui “l’obbligazione del medico dipendente del servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata su contratto, ma sul ‹‹contatto sociale›› connotato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta, ha natura contrattuale”.”... stante la natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente, come di quella dell’ente gestore del servizio sanitario, i regimi di ripartizione dell’onere della prova, del grado della colpa e della prestazione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale” ; Cass. 22 gennaio 1999, 598, cit. ; Alla stessa conclusione giunge Cass. civ., 8 gennaio 1999, n. 103, con riferimento alle strutture private per l’attività dei medici in esse operanti, anche in assenza di un rapporto fiduciario di prestazione d’opera professionale e altresì qualora i suddetti medici non rientrino nell’organizzazione aziendale delle strutture stesse. (17) GALGANO F. , Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1984; FINESCHI V., ZANA M., La responsabilità professionale medica: l’evoluzione giurisprudenziale in ambito civile tra errore sanitario e tutela del paziente, cit.; Comitato nazionale di Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, Roma, 1992, 64. (18) FERRANDO G., Chirurgia estetica, “consenso informato”del paziente e responsabilità del medico, in Nuova giur. civ. comm. , 1995, I; MATTEIS R., Consenso informato e responsabili, in Danno e Responsabilità del medico 1, 215, 1996. fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento (19)”. La funzione principale del consenso è quella di consentire al paziente una scelta libera e cosciente sulla eventualità di sottoporsi o meno ad un determinato trattamento ed il suo fondamento lo si individua nella sfera dei diritti costituzionali della persona di cui agli articoli 13, 32 e 2 Cost. che sono espressione del c.d. principio personalistico (20). Il consenso del paziente alla prestazione medico chirurgica deve essere personale, espresso o tacito, specifico e consapevole. Esso infatti, frutto di una scelta ragionata e di una conoscenza precisa e dettagliata della situazione, deve essere diretto ad un preciso fine (21). Tuttavia i requisiti del consenso devono essere articolati in funzione delle molteplici necessità terapeutiche. Sul tema degli effetti, si è constatato che la volontà del paziente è soggetta al vincolo di cui all’art. 5 c.c. che, vietando “gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica”, esprimerebbe la parziale disponibilità del proprio organismo (22) limitando visibilmente l’efficacia scusante del consenso solamente ad una parte degli interventi chirurgici, abbandonando nell’illecito quei trattamenti che, essendo idonei ad influire ineluttabilmente sull’integrità fisica, si mostrano DOTTRINA 305 (19) Cass. , 15 gennaio 1997, n. 364, in Resp. Civ., 1997, 1310. Così anche Cass., sez. civ., 24 settembre 1999, n. 9374, in Riv. it. med. leg., 1999 secondo cui “la necessità del consenso del paziente all’attività medica discende dal principio costituzionale della inviolabilità della persona umana ed impone che negli interventi chirurgici con varie fasi, che assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo di informazione del sanitario si estenda alle singole fasi ed ai rispettivi rischi”. (20) A riguardo, Cass. civ. , 23 maggio 2001, n. 7027; Cass. civ. , 25 novembre 1994, n. 10014 ; Cass. civ., 15 gennaio 1997, n. 364, ecc., secondo cui “la necessità del consenso si evince, in generale dall’art. 13 della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi inclusa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica”. Estremamente critica verso l’orientamento giurisprudenziale è una parte minoritaria della dottrina tra cui DONATI A., Consenso informato e responsabilità da prestazione medica, in Rass. Dir. Civ. 21, 1 e 7, 2000, secondo cui le disposizioni costituzionali sopracitate sono connotate da una valenza prettamente pubblicistica, e non sono pertanto idonee a regolare relazioni di diritto privato. (21) La più completa ricerca volta sul punto risulta essere l’indagine elaborata da BARBUTO G., Alcune considerazioni in tema di consenso dell’avente diritto e trattamento medico chirurgico, in Cass. pen. 2003, 1, 327. (22) D’ADDINO-SERRAVALLE P., Atti di disposizione del proprio corpo e tutela della persona umana, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1983; RODRIGUEZ D., Ancora in tema di consenso all’atto medico chirurgico, in Riv. it. med. leg. 13, 1117, 1991. (23) FRATI P., MONTANARI VERGALLO G., DI LUCA N. M., Gli effetti del consenso informato nella prospettiva civilistica, cit. più pericolosi sotto il profilo della responsabilità professionale (23). In senso opposto, comunque, si è affermato (24) che il riconoscimento costituzionale del diritto alla salute renderebbe praticamente inapplicabile il divieto ex art. 5 c.c. agli atti di disposizione del proprio corpo a scopo terapeutico, diversamente si metterebbe a repentaglio il diritto di curarsi al fine