ANNO LXXIII - N. 3 
LUGLIO - SETTEMBRE 2021 


RASSEGNA 
AV V O C AT U R A 
DELLO STATO 

PUBBLICAZIONE 
TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
Componenti: 
Franco 
Coppi 
-Natalino 
Irti 
-Eugenio 
Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe 
Fiengo 
-CONDIRETTORI: 
Maurizio 
Borgo, 
Danilo 
Del 
Gaizo 
e 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Andrea 
Michele 
Caridi 
-Stefano 
Maria 
Cerillo 
Pierfrancesco 
La 
Spina 
-Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Adele 
Quattrone 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Salvatore 
Adamo, 
Enrico 
De 
Giovanni, 
Guido 
Di 
Biase, 
Luca 
Di 
Pede, 
Margherita 
Feleppa, 
Michele 
Gerardo, 
Andrea 
Giordano, 
Paolo 
Grasso, 
Tommaso 
Marsh, 
Marco 
Stigliano 
Messuti, 
Gaetana 
Natale, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Fabio 
Tortora, 
Paola 
Maria 
Zerman. 


Email 
Giuseppe fiengo 
rassegna@avvocaturastato.it 


maurizio.borgo@avvocaturastato.it 
danilodelgaizo@avvocaturastato.it 
stefanovarone@avvocaturastato.it 


ABBONAMENTO 
ANNUO 
..............................................................................€ 40,00 
UN 
NUMERO 
.............................................................................................. € 12,00 


Per 
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ed 
acquisti 
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copia 
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bonifico 
bancario 
o 
postale 
a 
favore 
della 
Tesoreria 
dello 
Stato 
specificando 
codice 
IBAN: 
IT 
42Q 
01000 
03245 
348 
0 
10 
2368 
05, 
causale 
di 
versamento, 
indirizzo 
ove 
effettuare 
la 
spedizione, 
codice 
fiscale 
del 
versante. 


I 
destinatari 
della 
rivista 
sono 
pregati 
di 
comunicare 
eventuali 
variazioni 
di 
indirizzo 


AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
Email: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



i 
n 
d 
i 
c 
e 
-s 
o 
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m 
a 
r 
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o 
Nomina 
ad 
Avvocato 
Generale 
Aggiunto 
dell’Avvocato 
Leonello 
Mariani, 
D.P.R. 7 dicembre 2021 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
TEMI 
ISTITUZIONALI 
Lectio 
magistralis 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli 
“Le 
pari 
opportunità nella Costituzione 
e 
nella legislazione 
e 
il 
ruolo delle donne nella Pubblica Amministrazione” 
. . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
1 
Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2022 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
14 
Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di 
insediamento del 
Presidente 
del 
Consiglio di 
Stato e 
di 
presentazione 
della 
“Relazione 
sull’attività 
della 
Giustizia 
Amministrativa” 
anno 
2021. Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2022 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
17 
Intervento 
dell’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
della 
cerimonia 
di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2022 del T.a.r. Lazio. . . . . . ›› 
20 
Regolamento 
recante 
norme 
per 
l’organizzazione 
e 
il 
funzionamento 
degli 
uffici dell’Avvocatura dello Stato, D.P.R. 29 ottobre 2021 n. 214 
. . . . . . ›› 
25 
CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
Wally ferrante, Corte 
di 
giustizia Ue: filiazione 
omogenitoriale, la preminenza 
dell’interesse 
superiore 
del 
minore 
nel 
rispetto 
della 
identità 
nazionale 
di 
ciascun 
Stato membro. Le 
osservazioni 
del 
Governo italiano 
(C. giust. Ue, Grande Sezione, sent. 14 dicembre 2021, causa C-490/20) 
›› 
35 
CONTENZIOSO 
NAZIONALE 
Margherita 
feleppa, Gli 
ingiustificati 
automatismi 
sanzionatori. La portata 
applicativa 
della 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 
268/2016 
alla luce 
della recente 
giurisprudenza amministrativa 
(C. cost., sent. 15 
dicembre 2016 n. 268) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
67 
Danilo Del 
Gaizo, Pagamento di 
imposte 
tramite 
cessione 
di 
beni 
culturali: 
il 
procedimento 
di 
istruttoria 
di 
cui 
all’art. 
28 
bis 
d.P.R. 
602/73 
(Cons. St., Sez. IV, sent. 5 luglio 2021 n. 5130). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
87 
Wally ferrante, Il 
principio di 
trasparenza e 
l’accesso difensivo a documentazione 
con 
la 
classifica 
“riservato” 
(Cons. 
St., 
Sez. 
III, 
sent. 
4 
agosto 
2021 n. 5735) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
98 
I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 
Tommaso Marsh, Istanza di 
modifica del 
cognome 
assunto a seguito di 
adozione di persone di maggiore età 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
103 
Salvatore 
Adamo, 
Sisma 
Centro 
Italia 
2016. 
Sulla 
difesa 
in 
giudizio 
del 
Comune 
di 
Norcia in controversie 
relative 
al 
contributo di 
autonoma 
sistemazione (CAS) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
112 



Marco 
Stigliano 
Messuti, 
Contrattualistica 
pubblica 
e 
affidamenti 
in 
house 
providing. 
Convenzione 
con 
soggetto 
non 
rientrante 
nell’alveo 
delle società in house, prestazioni svolte e quantum da erogare 
. . . . . . . 

Paola 
Maria 
Zerman, 
Fondo 
Asilo, 
Migrazione 
ed 
Integrazione 
20142020. 
Modalità di 
rendicontazione, monitoraggio e 
controllo applicabili 
agli Organismi internazionali coinvolti nella gestione dei fondi 
. . . . . . . 

Enrico De 
Giovanni, 
Istanza di 
riapertura di 
procedimento disciplinare, 
ai 
sensi 
dell'art. 1393, co. 2, d.lgs. n. 66 del 
15 marzo 2010 (Codice 
del-
l’Ordinamento Militare): disamina sui vari profili giuridici 
. . . . . . . . . . 

fabio Tortora, 
Fondo rotativo per 
il 
sostegno alle 
imprese 
e 
gli 
investimenti 
in 
ricerca 
di 
cui 
all’art. 
1, 
co. 
354, 
l. 
30 
dicembre 
2004 
n. 
311 
e 


s.m.i. 
Risoluzione 
di 
contratto 
di 
finanziamento 
agevolato 
per 
inadempienze 
e intervento finanziario di soggetto terzo 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
francesco 
Meloncelli, 
Confisca 
di 
beni 
immobili 
ai 
sensi 
dell’art. 
240 
c.p.: sulla tutela dei 
diritti 
di 
garanzia dei 
terzi 
creditori 
del 
soggetto in 
danno del quale la confisca è operata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 


Andrea Giordano, Per un’intelligenza artificiale a misura d’uomo. 
Prefazione 
alla 
monografia 
“Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: 
le sfide future per il giurista” 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Gaetana 
Natale, Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le 
sfide 
future per il giurista 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 


Michele 
Gerardo, Ricorso straordinario al 
Presidente 
della Repubblica. 
Caratteri, procedimento e natura giuridica 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Guido 
Di 
Biase, 
La 
risoluzione 
delle 
controversie 
sulla 
proprietà 
delle 
cose 
in 
sede 
penale, 
ed 
in 
particolare 
dei 
beni 
archeologici. 
Gli 
strumenti 
processuali 
a 
disposizione 
dello 
Stato 
italiano, 
a 
tutela 
del 
patrimonio 
culturale nazionale e straniero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Luca 
Di 
Pede, La costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
procedimento ex 
d.lgs 
231/2001: origine ed evoluzione di un dibattito incompiuto 
. . . . . . . . . . 

pag. 
116 
›› 
125 
›› 
142 
›› 
152 
›› 
156 
›› 
169 
›› 
171 
›› 
265 
›› 
283 
›› 
304 



(*)

COMUNICATO 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 


Con Decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
del 
7 dicembre 
2021 l’Avvocato 
Leonello Mariani è stato nominato Avvocato Generale 
Aggiunto. 


Al 
caro ed illustre 
Collega 
e 
Amico vivissime 
congratulazioni 
e 
i 
più fervidi 
auguri. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


(*) Email Segreteria Particolare, lunedì 27 dicembre 2021. 



TEMIISTITUZIONALI
LECTIO 
MAGISTRALIS 
DELL’AVVOCATO 
GENERALE 
DELLO 
STATO 


(*)

GABRIELLA 
PALMIERI 
SANDULLI 


Le pari opportunità nella Costituzione e nella legislazione 
e il ruolo delle donne nella Pubblica Amministrazione 


1. Ringraziamenti e introduzione. 
Signor 
Vice 
Presidente 
della 
Corte 
costituzionale, 
Magnifica 
Rettrice, 
Magnifici 
Rettori, 
Autorità 
civili, 
militari 
e 
religiose, 
Direttrice 
Generale 
e 
Personale 
tecnico-amministrativo, 
care 
Allieve 
e 
cari 
Allievi, 
gentili 
Ospiti, 
desidero, innanzitutto, ringraziare 
davvero e 
non come 
una 
formula 
di 
mero 
stile 
la 
Magnifica 
Rettrice, Prof.ssa 
Sabina 
Nuti, per avermi 
invitato a 
tenere 
la 
lectio magistralis 
in occasione 
dell’inaugurazione 
dell’Anno Accademico 
2021-2022 della prestigiosa Scuola Superiore S. Anna. 


Lo considero un grande 
onore 
per me 
e 
per l’Istituto che 
ho il 
privilegio 
di dirigere. 


L’Avvocatura 
dello 
Stato 
ha 
da 
sempre, 
per 
consolidata 
tradizione, 
un 
costante 
e 
vivo rapporto di 
collaborazione 
con le 
Università 
e 
ciò consente, attraverso 
l’aggiornamento e 
l’attenzione 
alle 
riflessioni 
giuridiche, il 
migliore 
svolgimento dei 
compiti 
istituzionali, in funzione 
di 
positivo completamento 
della professionalità. 


Ho 
scelto 
un 
argomento 
che 
non 
solo 
è 
di 
grande 
attualità 
anche 
in 
chiave 
sistemica, 
ma 
che 
attiene 
pure 
alla 
mia 
ormai 
quarantennale 
esperienza 
professionale 
e 
sul 
quale 
spero 
di 
dare 
un 
contributo, 
proprio 
per 
questo, 
non 
solo 
teorico. 


I tre 
livelli 
di 
trattazione 
dell’argomento sintetizzati 
nel 
titolo della 
mia 


(*) 
Lectio 
magistralis 
tenuta 
dall’Avvocato 
Generale 
dello 
Stato 
in 
occasione 
dell’Inaugurazione 
dell’Anno 
Accademico 
2021/2022 
della 
Scuola 
Superiore 
Sant’Anna 
di 
Pisa, 
sabato 
11 
dicembre, 
ore 
10,30, aula magna, sede centrale. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


lectio 
magistralis 
sono 
non 
solo 
riassuntivi 
delle 
diverse 
angolazioni 
di 
visuale 
di 
esso, ma 
sono anche 
indicativi 
dell’approccio di 
valutazione: 
a) sistemico, 
appunto, di 
carattere 
generale 
(la 
Costituzione); 
b) di 
attuazione 
dei 
principi 
in 
materia 
in 
esso 
contenuti 
attraverso 
la 
ricognizione 
della 
legislazione 
in 
materia 
di 
pari 
opportunità 
nella 
pubblica 
Amministrazione; 
c) di 
concreta 
declinazione 
attraverso una 
ricostruzione 
dell’attuale 
situazione 
di 
fatto e 
di 
diritto 
nel settore pubblico. 


La 
pandemia 
o 
la 
sindemia, 
come 
si 
preferisce 
definire 
(dal 
Presidente 
dell’ISS 
-Istituto Superiore 
di 
Sanità 
Silvio Brusaferro), per la 
sua 
globalità 
e 
per l’interazione 
fra 
elementi 
biologici 
e 
sociali, l’attuale 
contesto emergenziale, 
ha 
fatto deflagrare 
le 
ineguaglianze 
già 
esistenti 
e 
ha 
colpito in modo 
più 
evidente 
i 
soggetti 
più 
deboli, 
le 
donne 
e 
i 
giovani, 
confermando 
anche 
l’asimmetria 
di 
genere 
nella 
distribuzione 
delle 
responsabilità 
di 
cura 
domestica 
e familiare (in tal senso il Rapporto ISTAT 2020). 


Anche 
se 
la 
condizione 
femminile 
è 
decisamente 
migliorata 
nei 
decenni 
della 
Repubblica, 
è 
un 
dato 
comune 
che 
occorra 
ancora 
adoperarsi 
per 
raggiungere 
un’effettiva 
uguaglianza; 
la 
pandemia, 
però, 
potrebbe 
diventare 
l’occasione 
per applicare 
in concreto il 
principio che 
anche 
dalla 
parità 
di 
genere 
passa 
uno 
sviluppo 
socioeconomico 
da 
costituire 
su 
nuove 
basi. 
La 
prima 
donna 
ambasciatrice 
britannica 
in 
Italia, 
Jill 
Morris, 
in 
un’intervista 
al 
Corriere 
della Sera 
del 
23 ottobre 
2021, ha 
affermato che 
non si 
può incentivare 
la 
ripresa 
economica 
senza 
la 
partecipazione 
delle 
donne 
e 
che 
“è 
una 
cosa 
giusta 
da fare da un punto di vista etico e morale”. 

D’altronde, la 
parità 
di 
genere 
rappresenta 
nell’ordinamento internazionale 
ed eurounitario un fattore 
di 
rilievo che 
coinvolge 
gli 
ordinamenti 
degli 
Stati membri e il dialogo tra Giudici comunitari e Giudici nazionali. 

Il 
Parlamento europeo ha 
approvato il 
21 gennaio 2021 tre 
risoluzioni 
in 
materia 
e 
la 
Commissione 
europea 
ha 
adottato la 
strategia 
per la 
parità 
di 
genere 
2020-2025 per sottolineare l’impegno delle istituzioni europee. 


La 
Commissione 
ha 
rilevato 
come, 
finora, 
nessuno 
Stato 
membro 
dell’Ue 
abbia 
realizzato la 
piena 
parità 
tra 
donne 
e 
uomini, i 
progressi 
sono lenti 
e 
i 
divari 
di 
genere 
persistono 
nel 
mondo 
del 
lavoro 
e 
a 
livello 
di 
retribuzioni, 
assistenza 
e 
pensioni. Ha 
sottolineato come 
l’azione 
legislativa 
possa 
aiutare 
a 
favorire 
la 
presenza 
delle 
donne 
nelle 
posizioni 
decisionali, 
migliorarne 
le 
opportunità 
di 
conciliazione 
tra 
lavoro e 
vita 
privata, integrare 
la 
dimensione 
di 
genere 
per rendere 
la 
parità 
tra 
le 
donne 
e 
gli 
uomini 
effettiva 
(gender 
lens), 
affinchè 
tutti 
possano 
avere 
le 
stesse 
opportunità 
nella 
vita 
indipendentemente 
dal genere. 


Gli 
articoli 
2 e 
3, paragrafo 3, del 
Trattato dell’Unione 
Europea 
fondano 
l’Unione 
stessa 
su un insieme 
di 
valori, tra 
cui 
l’uguaglianza, promuovendo 
la 
parità 
tra 
uomini 
e 
donne, obiettivi 
sanciti 
dall’art. 21 della 
Carta 
dei 
Diritti 
Fondamentali. 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Anche 
l’art. 8 del 
TFUE 
attribuisce 
all’Unione 
il 
compito di 
eliminare 
le 
disuguaglianze 
e 
di 
promuovere, appunto, la 
parità 
tra 
uomo e 
donna 
in tutte 
le 
attività 
(concetto noto come 
gender 
mainstraming 
-integrazione 
della 
dimensione 
di 
genere). 
Sin 
dal 
1957 
i 
Trattati 
sanciscono 
il 
principio 
della 
parità 
di 
retribuzione 
tra 
uomini 
e 
donne 
e 
l’art. 
157 
del 
TFUE 
autorizza 
anche 
l’azione 
positiva 
finalizzata 
all’emancipazione 
femminile 
e 
l’art. 19 prevede 
l’adozione 
di 
provvedimenti 
legislativi 
per 
combattere 
tutte 
le 
forme 
di 
discriminazione 
inclusa quella sul sesso. 


Il 
PNRR, quindi, si 
occupa 
diffusamente 
del 
tema 
e 
le 
6 Missioni 
in esso 
individuate 
sono 
accomunate 
da 
priorità 
trasversali 
relative, 
fra 
le 
altre, 
proprio 
alle pari opportunità. 


Il 
programma 
Next 
Generation 
Eu 
rappresenta 
l’occasione 
per 
recuperare 
quelli 
che 
sono testualmente 
definiti 
gli 
“storici 
ritardi 
che 
penalizzano il 
nostro 
Paese” 
e 
che 
riguardano, 
appunto, 
persone 
con 
disabilità, 
i 
giovani, 
le 
donne e il Sud, le tre priorità trasversali. 


Va 
sottolineato 
che 
le 
Riforme 
e 
le 
Missioni 
del 
PNRR 
sono 
valutate 
sulla 
base 
dell’impatto che 
avranno, appunto, nel 
recupero di 
questi 
ritardi 
e 
nel 
recupero 
del 
potenziale 
delle 
donne, 
dei 
giovani 
e 
dei 
territori 
e 
nelle 
opportunità 
fornite 
a 
tutti 
senza 
discriminazione; 
e 
questa 
attenzione 
trasversale 
si 
ritrova 
in tutte 
le 
Missioni 
del 
PNRR e 
corrisponde 
alle 
raccomandazioni 
specifiche 
della Commissione europea. 


Si 
dispone, inoltre, che 
Linee 
di 
intervento del 
PNRR saranno accompagnate 
da 
una 
serie 
di 
indicatori 
qualitativi 
e 
quantitativi 
che 
consentirà 
una 
più 
accurata 
valutazione 
(ex 
ante 
ed 
ex 
post) 
degli 
effetti 
di 
genere 
e 
generazionali 
delle politiche e degli investimenti. 


L’ottica 
delle 
pari 
opportunità 
è 
considerata, dunque, fondamentale 
per 
la 
ripresa 
dell’Italia 
e 
presuppone 
interventi 
sulle 
molteplici 
dimensioni 
della 
discriminazione verso le donne. 


2. Le pari opportunità nella Costituzione. 
2.1. Il valore della Costituzione. 
L’analisi, 
necessariamente 
concentrata 
e 
sintetica 
in 
questa 
sede, 
non 
può 
che 
muovere 
dalla 
Costituzione 
italiana, 
non 
solo 
per 
la 
sua 
posizione 
sovraordinata 
nell’ambito 
della 
gerarchia 
delle 
fonti, 
ma 
anche 
e 
soprattutto 
perché, 
come 
altre 
Costituzioni 
contemporanee, 
non 
costruisce 
“l’uguaglianza 
tra 
situazioni 
giuridiche 
astratte 
attribuita 
a 
soggetti 
altrettanto 
astratti” 
(G. 
Sivestri). 


Inoltre, come 
osservato dal 
Presidente 
Giorgio Lattanzi, non è 
mai 
accaduto 
alla 
Corte 
costituzionale 
di 
trovarsi 
di 
fronte 
a 
questioni 
che 
non trovassero 
una 
soluzione 
nella 
Costituzione, usando un’espressione 
inusuale, ma 
di 
immediata 
percezione, secondo la 
quale 
“la 
Carta 
non si 
è 
mai 
sgualcita”, per 
sottolinearne 
proprio l’attualità 
e 
la 
completezza 
e 
affermando che 
“la 
Carta 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


sa 
leggere 
il 
presente”, 
esprimendo 
con 
una 
formula 
sintetica, 
ma 
felice, 
anche 
la complessità dell’attività della Corte costituzionale. 


Una 
rassegna 
degli 
articoli 
della 
Costituzione 
che 
compongono il 
quadro 
complessivo di 
riferimento consente 
di 
inquadrare 
il 
tema 
in un’ottica 
di 
sistema 
e di coerenza ordinamentale. 


Peraltro, 
i 
profili 
costituzionali 
delle 
pari 
opportunità 
riflettono 
le 
problematiche 
e 
le 
tematiche 
generali 
sulla 
valenza 
dei 
principi 
costituzionali 
e, 
quindi, 
sono 
un 
significativo 
spunto 
di 
riflessione 
non 
circoscritto 
alla 
questione 
in esame. 


2.2. La storia. 
Non si può non iniziare dalla storia. 


Come 
sottolineato, infatti, da 
più commentatori, la 
presenza 
delle 
donne 
all’Assemblea 
Costituente 
del 
1946 
ha 
rappresentato 
un 
momento 
chiave 
della 
storia costituzionale italiana. 


Su 
566 
componenti 
solo 
21 
donne 
furono 
elette 
deputate 
e, 
di 
esse 
soltanto 
cinque 
presero 
parte 
alla 
Commissione 
incaricata 
di 
redigere 
la 
Costituzione. 


Ma, pur appartenendo a 
schieramenti 
politici 
diversi 
(9 comuniste, 9 democristiane, 
2 socialiste 
e 
1 del 
Fronte 
dell’uomo qualunque) diedero vita 
a 
un grande 
e, soprattutto, nuovo esperimento di 
democrazia, trovando un accordo 
su temi 
cruciali 
per il 
futuro del 
Paese 
con una 
“sapiente 
azione 
orizzontale”. 
La 
condizione 
di 
vistosa 
inferiorità 
numerica, infatti, non impedì 
il 
lavoro delle 
“Madri” 
Costituenti, che 
furono tutte 
accumunate 
dalla 
forte 
volontà 
di 
realizzare 
una 
politica 
diretta 
al 
riconoscimento 
dei 
diritti 
delle 
donne. 

Dai 
rapporti 
delle 
discussioni 
e 
dagli 
atti 
delle 
sedute 
emerge 
che 
il 
loro 
lavoro 
non 
venne 
facilitato 
dall’atteggiamento 
della 
maggior 
parte 
dei 
deputati 
che si mostrarono quasi sempre poco collaborativi. 


L’importanza 
di 
tale 
momento storico fu riconosciuta 
dalle 
stesse 
deputate, 
tanto che 
Maria 
Federici 
sostenne 
che 
la 
donna 
“non avrebbe 
nella 
Costituzione 
il 
posto che 
di 
fatto vi 
ha, se 
non ci 
fosse 
stato alla 
Costituente 
quel 
gruppo 
di 
donne 
che 
il 
suffragio 
universale 
e 
l’esercizio 
dell’elettorato 
passivo, 
oltre che attivo, aveva portato nell’aula di Montecitorio”. 


Consapevoli 
delle 
proprie 
capacità, le 
deputate 
diedero avvio ad un consistente 
movimento in difesa 
della 
parità 
di 
genere, anche 
se 
non si 
limitarono 
solo 
a 
questo 
aspetto, 
affrontando 
ogni 
altra 
questione 
di 
rilievo, 
dalla 
prospettiva 
internazionale alle autonomie. 


2.3. L’art. 3 della Costituzione. 
Tale 
intento prospettico generale 
è 
riscontrabile 
nelle 
singole 
norme 
costituzionali. 


In 
particolare, 
nell’art. 
3, 
la 
norma 
cardine 
che, 
anche 
grazie 
a 
una 
attenta 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


e 
sapiente 
giurisprudenza 
costituzionale, 
è 
l’architrave 
sulla 
quale 
poggia 
ogni 
considerazione in tema di parità di genere. 


Fu 
Lina 
Merlin 
a 
far 
introdurre 
nell’art. 
3, 
comma 
1, 
l’espressione 
“senza 
distinzione 
di 
sesso” 
(è 
significativo 
che, 
con 
la 
sentenza 
n. 
141/19, 
relativa 
alla 
legge 
che 
porta 
il 
suo 
nome, 
la 
Corte 
costituzionale 
si 
sia 
soffermata 
sulla 
dignità 
umana, 
in 
particolare, 
delle 
donne 
e 
sui 
diritti 
fondamentali 
delle 
persone 
più 
vulnerabili); 
fu 
Teresa 
Mattei 
a 
pretendere 
che 
l’art. 
3, 
comma 
2, 
fosse 
integrato 
dalla 
locuzione 
“di 
fatto” 
che 
esplicita 
il 
principio 
di 
uguaglianza 
sostanziale 
nei 
termini 
in 
cui 
è 
nota 
nel 
nostro 
ordinamento; 
fu 
Teresa 
Noce 
ad 
insistere 
sulla 
diversità 
di 
previdenza 
ed 
assistenza 
di 
cui 
all’art. 
38 
Cost. 


Come 
sottolineato 
in 
dottrina, 
il 
desiderio 
di 
consacrare 
la 
parità 
di 
genere 
determinò la ripetizione di tale principio. 


Esso, 
infatti, 
è 
riscontrabile 
sia 
nell’art. 
29, 
comma 
2, 
Cost., 
dove 
statuisce 
che 
“il 
matrimonio 
è 
ordinato 
sulla 
eguaglianza 
morale 
e 
giuridica 
dei 
coniugi”, 
sia 
nell’art. 
30, 
comma 
1, 
Cost. 
in 
base 
al 
quale 
“è 
dovere 
e 
diritto 
dei 
genitori 
mantenere, 
istruire 
ed 
educare 
i 
figli, 
anche 
se 
nati 
fuori 
dal 
matrimonio”. 


Il 
principio di 
uguaglianza 
di 
fatto è 
così 
intimamente 
connesso al 
tema 
delle cosiddette azioni positive. 


Lo 
stesso 
comma 
1 
dell’art. 
3, 
portato 
come 
esempio 
di 
uguaglianza 
formale, 
afferma 
che 
“i 
cittadini 
hanno 
pari 
dignità 
sociale 
e 
sono 
uguali 
davanti 
alla 
legge”. 
Come 
osservato 
in 
sede 
di 
commento, 
non 
si 
tratta 
di 
una 
endiadi, 
ma 
di 
“due 
concetti 
diversi, 
anche 
se 
strettamente 
complementari” 


(G. 
Silvestri). 
Il 
punto 
rilevante 
è 
che 
la 
dignità 
sociale 
è 
la 
premessa 
indispensabile 
per 
l’uguaglianza 
affermata 
come 
tale 
e 
viene 
considerata 
sul 
piano 
concreto 
della 
società, 
dove 
essa 
“si 
scompone 
in 
una 
pluralità 
di 
diritti 
fondamentali, 
raggruppabili 
secondo 
diversi 
criteri 
(dignità 
del 
lavoratore, 
del 
malato…), 
seguendo 
le 
varie 
posizioni 
e 
collocazioni 
della 
persona 
concreta 
sociale” 


(G. 
Silvestri). 
Ne 
deriva 
che 
l’uguaglianza 
sia 
in senso formale 
sia 
in senso sostanziale 
non è 
mai 
“un insieme 
omogeneo”. Ecco perché 
l’art. 3 è 
non solo il 
punto di 
partenza, ma 
anche 
quello di 
arrivo di 
ogni 
riflessione 
in tema 
di 
pari 
opportunità 
e di pari opportunità fra donne e uomini. 


2.4. L’art. 37 della Costituzione. 
Anche 
altri 
articoli 
della 
Costituzione 
sono rilevanti 
ai 
fini 
di 
una 
valutazione 
nell’ottica costituzionale delle pari opportunità. 


Per esempio, l’art. 37, che, come 
osservato in dottrina, si 
caratterizza 
per 
tre aspetti. 


Il 
primo 
consiste 
nella 
parità 
tra 
uomo 
e 
donna 
nel 
diritto 
al 
lavoro, 
diritto 
peraltro, intangibile anche per gli uomini. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


Il 
secondo 
attiene 
alla 
volontà 
di 
tutelare 
la 
donna 
lavoratrice, 
al 
fine 
di 
consentire 
alla 
stessa 
di 
assolvere 
la 
sua 
essenziale 
funzione 
di 
moglie 
e 
di 
madre. 


Il terzo concerne la parità retributiva per uguale lavoro. 


Occorre 
sottolineare 
che, 
l’art. 
37 
Cost. 
è 
stato 
oggetto 
di 
un 
movimentato 
dibattito in Assemblea Costituente. 

In 
linea 
generale, 
l’art. 
37 
Cost. 
risulta 
di 
complessa 
lettura. 
Appare, 
però, 
comunque 
opportuno 
sottolineare 
che, 
la 
difficoltà 
non 
attiene 
alla 
coesistenza, 
nella 
medesima 
disposizione, 
di 
due 
prescrizioni 
diverse, 
quali 
la 
parità 
e 
la 
speciale 
tutela 
delle 
lavoratrici. 
Come 
espresso 
da 
una 
corrente 
di 
pensiero, 
la 
compresenza 
delle 
prescrizioni 
sopraindicate, 
si 
è 
risolta, 
per 
decenni, 
nella 
separazione 
dei 
percorsi 
seguiti 
dall’attuazione 
dell’art. 
37 
nella 
legislazione 
italiana. 


2.5. L’art. 51 della Costituzione. 
L’integrazione 
del 
primo comma 
dell’art. 51 è 
avvenuta 
con la 
legge 
costituzionale 
n. 1/2003, che 
è 
stata 
preceduta 
da 
altri 
due 
interventi 
normativi, 
la 
legge 
costituzionale 
n. 
2/2001, 
che 
aveva 
previsto 
la 
promozione 
delle 
condizioni 
di 
parità 
per 
l’accesso 
alle 
consultazioni 
elettorali 
al 
fine 
di 
conseguire 
l’equilibrio nella 
rappresentanza 
dei 
sessi, e 
la 
legge 
costituzionale 
n. 3/2001, 
che 
aveva 
modificato il 
Titolo V 
della 
Costituzione, introducendo il 
comma 
7 
dell’art. 117, rivolgendosi 
non solo al 
legislatore 
statale 
o regionale, ma 
delineando 
una attività promozionale ampia e variegata. 


Nel 
rigettare 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
legge 
elettorale 
campana 
che 
introduceva 
sia 
quote 
di 
lista 
sia 
la 
doppia 
preferenza 
di 
genere, 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
affermato 
che 
“Il 
quadro 
normativo, 
costituzionale 
e 
statutario, 
è 
complessivamente 
ispirato 
al 
principio 
fondamentale 
dell’effettiva parità tra i 
due 
sessi 
nella rappresentanza politica, nazionale 
e 
regionale, 
nello 
spirito 
dell’art. 
3, 
secondo 
comma, 
Cost., 
che 
impone 
alla Repubblica la rimozione 
di 
tutti 
gli 
ostacoli 
che 
di 
fatto impediscono 
una piena partecipazione 
di 
tutti 
i 
cittadini 
all’organizzazione 
politica 
del 
Paese. Preso atto della storica sotto-rappresentanza delle 
donne 
nelle 
assemblee 
elettive, 
non 
dovuta 
a 
preclusioni 
formali 
incidenti 
sui 
requisiti 
di 
eleggibilità, ma a fattori 
culturali, economici 
e 
sociali, i 
legislatori 
costituzionale 
e 
statutario indicano la via delle 
misure 
specifiche 
volte 
a dare 
effettività 
ad 
un 
principio 
di 
eguaglianza 
astrattamente 
sancito, 
ma 
non 
compiutamente 
realizzato 
nella 
prassi 
politica 
ed 
elettorale” 
(sentenza 
n. 
4/2010, punto 3.1. del 
Considerato in diritto). 


Come 
osservato 
in 
dottrina, 
non 
si 
poteva 
descrivere 
in 
modo 
più 
efficace 
l’essenza 
delle 
politiche 
di 
pari 
opportunità 
in 
ambito 
politico-rappresentativo 
e il loro “ancoraggio costituzionale” al principio di uguaglianza sostanziale. 


Va 
ricordato 
che, 
con 
un 
parere 
reso 
nel 
luglio 
2020, 
in 
relazione 
alla 
pos



TEMI 
ISTITUzIONALI 


sibilità 
di 
emanare 
un decreto-legge 
per l’esercizio del 
potere 
sostitutivo nei 
confronti 
di 
una 
Regione, l’Avvocatura 
dello Stato ha 
ritenuto che 
le 
disposizioni 
dell’art. 
4, 
comma 
1, 
lett. 
c-bis, 
della 
legge 
n. 
165/2004, 
relativo 
alla 
promozione 
delle 
pari 
opportunità 
tra 
uomini 
e 
donne 
nell’accesso 
alle 
cariche 
elettive, costituiscono uno dei 
principi 
fondamentali, stabiliti 
con legge 
della 
Repubblica, idonei 
a 
limitare, ai 
sensi 
dell’art. 122, comma 
primo, la 
competenza 
legislativa 
delle 
Regioni 
nella 
materia 
del 
sistema 
elettorale. La 
promozione 
delle 
pari 
opportunità 
tra 
uomini 
e 
donne 
nell’accesso 
alle 
cariche 
elettive 
rientra, 
infatti, 
nella 
materia 
della 
“tutela 
dell’unità 
giuridica 
della 
Repubblica” 
che, ai 
sensi 
dell’art. 120, comma 
secondo, della 
Costituzione 
legittima 
il 
Governo 
all’esercizio 
del 
potere 
sostitutivo 
(da 
adottare 
con 
l’emanazione 
di 
un decreto-legge 
in un Consiglio dei 
Ministri 
al 
quale 
sia 
invitato 
a 
partecipare 
il 
Presidente 
della 
Giunta 
Regionale; 
e 
il 
Commissario sia 
individuato, in omaggio ai 
principi 
di 
sussidiarietà 
e 
di 
leale 
collaborazione, 
in 
un 
organo 
della 
stessa 
Regione). 
Inoltre 
-e 
questo 
è 
il 
punto 
più 
significativo 


-la 
questione 
sembra 
rilevare 
anche 
ai 
fini 
della 
“tutela 
dei 
livelli 
essenziali 
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. 
2.6. L’art. 97 della Costituzione. 
La 
norma 
costituzionale 
detta 
alcuni 
principi 
che 
sono 
rilevanti 
anche 
per 
assicurare la parità fra donne e uomini nella Pubblica 
Amministrazione. 


Il 
contenuto 
precettivo 
dell’art. 
97 
è 
tradizionalmente 
riferito 
all’organizzazione 
della 
pubblica 
Amministrazione 
intesa 
come 
“apparato 
tecnico-burocratico”. 


Lo stretto rapporto tra 
principio di 
legalità 
e 
imparzialità 
come 
espressa 
nell’articolo è 
la 
chiave 
di 
lettura 
anche 
dell’ultimo comma 
che 
prevede 
la 
regola 
del 
concorso 
per 
l’accesso 
ai 
pubblici 
impieghi, 
considerato 
il 
mezzo 
che 
offre 
le 
migliori 
garanzie 
di 
selezione 
dei 
soggetti 
più capaci, poiché 
la 
professionalità 
della 
burocrazia 
è 
una 
modalità 
atta 
a 
garantire 
proprio l’imparzialità 
e l’efficienza della sua azione. 


La 
regola 
del 
pubblico 
concorso 
e 
la 
meritocrazia 
della 
selezione 
all’esito 
della 
quale 
si 
procede 
all’assunzione, l’esclusione 
di 
selezioni 
caratterizzate 
da 
arbitrarie 
e 
irragionevoli 
forme 
di 
restrizione 
dei 
soggetti 
legittimati 
a 
parteciparvi, 
rappresentano e 
diventano un utile 
strumento per assicurare 
l’effettività 
delle 
pari 
opportunità, quella 
competizione 
ad armi 
pari 
che 
assicura 
la 
uguaglianza tra donne e uomini sul lavoro almeno dei punti di partenza. 


3. La legislazione 
per 
la promozione 
delle 
donne 
nella vita politica e 
istituzionale. 
Va 
ricordato che, se 
la 
legge 
17 luglio 1919, n. 1176 escludeva 
le 
donne 
dagli 
impieghi 
pubblici 
implicanti 
poteri 
giurisdizionali, 
nonché 
l’esercizio 
di 
diritti 
e 
potestà 
pubbliche, successive 
norme 
hanno determinato il 
pieno superamento 
di questa ottica riduttiva. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


In particolare, negli 
anni 
ottanta, il 
diritto comunitario assolve 
un ruolo 
cruciale 
con la 
Raccomandazione 
84/635/CEE 
che 
invita 
gli 
Stati 
membri 
ad 
adottare 
azioni 
positive 
volte 
a 
rimuovere 
gli 
ostacoli 
che 
impediscono 
la 
piena 
partecipazione 
delle 
donne 
al 
lavoro, individuando nel 
settore 
pubblico l’area 
privilegiata di intervento. 

Va, quindi, menzionata 
la 
legge 
10 aprile 
1991, n. 165 che, per la 
prima 
volta, 
nell’ambito 
della 
disciplina 
delle 
elezioni 
per 
la 
Camera 
e 
il 
Senato, 
contiene 
specifiche 
prescrizioni 
per la 
presentazione 
delle 
candidature 
dirette 
a 
garantire 
l’equilibrio di 
genere 
nella 
rappresentanza 
politica 
(nella 
successione 
interna 
delle 
liste 
dei 
collegi 
plurinominali, i 
candidati 
sono collocati 
in 
un ordine 
alternato di 
genere 
a 
pena 
di 
inammissibilità 
della 
lista 
stessa 
e, limitatamente 
ai 
capilista, nelle 
liste 
nei 
collegi 
plurinominali, nessuno dei 
due 
generi 
può essere 
rappresentato -a 
livello nazionale 
alla 
Camera, a 
livello regionale 
al Senato - in misura superiore al 60%). 


Il 
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che 
contiene 
le 
norme 
generali 
sul 
lavoro 
alle 
dipendenze 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
sin 
dal 
primo 
articolo, 
pone 
grande 
attenzione 
al 
tema 
delle 
pari 
opportunità, 
nell’ottica 
dell’efficienza 
e 
della 
migliore 
utilizzazione 
delle 
risorse 
umane, 
tenendo 
conto delle 
pari 
opportunità 
nei 
criteri 
per il 
conferimento degli 
incarichi 
dirigenziali; 
all’art. 7 prevede 
che 
“le 
amministrazioni 
pubbliche 
garantiscono 
parità 
e 
pari 
opportunità 
tra 
uomini 
e 
donne 
per l’accesso al 
lavoro e 
al 
trattamento 
sul 
lavoro”; 
nonché 
l’istituzione 
all’interno di 
ogni 
Amministrazione 
del 
Comitato unico di 
garanzia 
per le 
pari 
opportunità, il 
cui 
ruolo è 
stato rafforzato 
con la 
Direttiva 
n. 2 del 
26 giugno 2019, che 
tiene 
conto anche 
degli 
indirizzi comunitari. 


Il Codice per le pari opportunità, il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, modificato 
da 
ultimo con la 
legge 
27 dicembre 
2017, n. 205, prevede 
l’obbligo per 
le 
pubbliche 
Amministrazioni 
di 
adottare 
i 
piani 
di 
azioni 
positive 
e 
la 
promozione 
delle 
pari 
opportunità 
è 
uno 
degli 
obiettivi 
dichiarati 
del 
D.lgs. 
27 
ottobre 
2009, n. 150 in materia di produttività del lavoro pubblico. 

Con l’intento di 
promuovere 
le 
politiche 
relative 
ai 
diritti 
e 
alle 
pari 
opportunità 
l’art. 
19, 
comma 
3, 
del 
D.L. 
4 
luglio 
2006, 
n. 
223, 
convertito 
con 
modificazioni 
con la 
legge 
4 agosto 2006, n. 248 ha 
istituito presso la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
un Fondo per le 
politiche 
relative 
ai 
diritti 
e 
alle pari opportunità. 


4. Il ruolo delle donne nella Pubblica Amministrazione. 
La 
questione 
va, 
innanzitutto, 
esaminata 
sotto 
un 
duplice 
angolo 
di 
visuale: 
le modalità di accesso e lo svolgimento della carriera. 


Anche 
se 
va 
immediatamente 
sottolineato il 
dato positivo che 
nella 
Pubblica 
Amministrazione 
non si 
pone 
quello che 
si 
definisce 
“gender 
pay 
gap”, 
perché 
non esiste 
una 
retribuzione 
“di 
genere”. A 
parità 
di 
mansioni 
e 
di 
car



TEMI 
ISTITUzIONALI 


riera 
e 
di 
anzianità 
di 
servizio, infatti, non vi 
sono differenze 
stipendiali, ma 
una 
totale 
equiparazione, credo anche 
e 
proprio nell’ottica 
e 
e 
alla 
luce 
delle 
considerazioni svolte a proposito dell’art. 97 della Cost. 

Per l’accesso si 
può dire 
che 
sono stati 
rimossi 
tutti 
gli 
ostacoli 
per consentire 
una 
partecipazione 
paritaria 
fra 
uomini 
e 
donne 
ai 
concorsi 
pubblici, 
anche 
se 
di 
recente, la 
neo Presidente 
della 
SNA, Prof.ssa 
Paola 
Severino, ha 
illustrato un dato da 
lei 
stessa 
definito “sorprendente”, perché 
ha 
constatato 
che, 
nelle 
prove 
di 
accesso 
con 
domande 
a 
risposta 
multipla, 
la 
percentuale 
delle 
donne 
ammesse 
era 
significativamente 
più bassa 
di 
quella 
relativa 
alle 
ammesse 
a 
seguito 
di 
procedure 
selettive 
tradizionali 
e 
raggiungeva 
addirittura 
la 
soglia 
del 
100% nelle 
selezioni 
finali 
del 
corso 
-concorso da 
dirigente. Approfondendo 
la 
questione, ha 
scoperto che 
la 
modalità 
a 
quiz, soprattutto se 
aperti 
a 
più percorsi 
di 
ragionamento, finiva 
per privilegiare 
gli 
uomini 
piuttosto 
che 
le 
donne, più propense 
all’approfondimento e, quindi, ha 
nominato 
una 
commissione 
per verificare 
che 
i 
quiz 
del 
prossimo corso 
-concorso avessero 
una 
risposta 
quanto più univoca 
per dare 
a 
tutti 
le 
stesse 
possibilità 
di 
superare 
il 
test, non in un’ottica 
“di 
privilegio”, ma 
in un’ottica 
di 
uguaglianza 
dei 
punti 
di 
partenza; 
e 
ha 
istituito un gruppo di 
monitoraggio statistico degli 
esiti 
della 
selezione 
in 
coordinamento 
con 
il 
Dipartimento 
della 
Funzione 
Pubblica 
per 
un’accurata 
verifica 
dei 
dati 
di 
genere 
con 
la 
loro 
evoluzione 
nel 
tempo e nelle tipologie di concorso. 


Se, 
dunque, 
per 
l’accesso 
alla 
carriera 
nella 
Pubblica 
Amministrazione 
la 
situazione 
è 
complessivamente 
positiva 
o, 
almeno, 
in 
positiva 
evoluzione, 
non 
altrettanto 
può 
dirsi 
per 
il 
raggiungimento 
delle 
posizioni 
apicali 
o 
dirigenziali. 


Su questo influisce, per alcune 
tipologie 
di 
carriere 
come 
la 
Prefettura, la 
Magistratura 
e 
la 
carriera 
Diplomatica, 
il 
dato 
temporale, 
perché 
i 
rispettivi 
accessi 
al 
concorso anche 
da 
parte 
delle 
donne 
sono stati 
consentiti 
a 
partire 
dal 
1960 per la 
Prefettura, dal 
1963 per la 
Magistratura 
e 
dal 
1967 per la 
carriera 
diplomatica. 


Nella 
dirigenza 
statale 
un 
recente 
studio 
del 
ForumPA 
fa 
emergere 
un 
incremento 
numerico 
delle 
donne 
dirigenti, 
passate 
dal 
42% 
nel 
2007 
al 
50,6% 
nel 
2017 
e 
nell’ambito 
della 
dirigenza 
apicale 
(prima 
fascia) 
dei 
Ministeri 
al 
37%. 


Sotto il 
profilo del 
genere, nel 
2021 (fonte 
Annuario Statistico MAECI 
2021) rimane 
stabile 
al 
46% la 
percentuale 
femminile 
di 
personale 
di 
ruolo in 
servizio al Ministero degli 
Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. 


La 
quota 
percentuale 
di 
donne 
nella 
carriera 
diplomatica 
rimane 
stabile 
al 
23%, ma 
diminuisce, rispetto all’anno precedente, di 
un punto percentuale 
la quota di donne dirigenti (32%). 


Nel 
2020 
nei 
gradi 
apicali 
della 
carriera 
diplomatica 
sono 
4 
le 
Ambasciatrici 
di 
grado, 
24 
le 
Ministre 
plenipotenziarie, 
60 
le 
Consigliere 
di 
ambasciata, 
38 le 
Consigliere 
di 
Legazione 
e 
106 le 
Segretarie 
di 
Legazione, per un totale 
di 232 donne su 1000 Diplomatici nel complesso. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


Nella 
carriera 
prefettizia 
le 
donne 
sono più della 
metà 
664 e 
480 uomini, 
non così 
per il 
grado di 
Prefetto in questo caso è 
predominante 
la 
componente 
maschile, le donne sono 75 su 171, pari al 43,8%. 


Nella 
magistratura 
ordinaria 
dal 
1987 
i 
vincitori 
di 
concorso 
sono 
più 
donne 
che 
uomini, tra 
i 
300 nuovi 
magistrati, le 
donne 
furono 156. Negli 
anni 
successivi 
il 
trend 
è 
altalenante 
fino al 
1996, perché, da 
quel 
momento in poi, 
il 
numero delle 
donne 
vincitrici 
del 
concorso in magistratura 
è 
sempre 
superiore 
a 
quella 
degli 
uomini 
e 
il 
divario si 
allarga 
a 
partire 
dal 
2007. Dal 
2015 
il 
numero totale 
delle 
donne 
presenti 
in magistratura 
ha 
superato quello degli 
uomini. 


Ma 
la 
percentuale 
cambia 
vistosamente 
nell’assegnazione 
di 
incarichi 
direttivi 
e 
semidirettivi, 
rispettivamente, 
il 
71,4% 
e 
il 
58% 
di 
uomini; 
per 
le 
funzioni 
semidirettive 
le 
donne 
sono 
il 
43% 
sui 
745 
complessivi 
(fonte 
la 
relazione per il 2021 dell’Ufficio statistico del CSM). 


Una 
spiegazione 
potrebbe 
risiedere 
nella 
difficoltà 
di 
accettare 
trasferimenti 
di 
sede 
che 
consentano progressioni 
di 
carriera 
perché 
non sempre 
conciliabili 
con la famiglia. 


Nelle 
Forze 
Armate 
l’ingresso è 
avvenuto nel 
2000 (legge 
n. 380/1999), 
ma 
è 
proprio l’ingresso delle 
donne 
a 
rappresentare 
uno dei 
più grandi 
cambiamenti 
che 
hanno 
segnato 
il 
profondo 
processo 
di 
trasformazione 
delle 
Forze 
Armate stesse e della giustizia militare. 


L’Arma 
dei 
carabinieri 
ha 
già 
ufficiali 
donne 
nei 
gradi 
di 
Generale 
di 
brigata 
e 
Colonnello provenienti 
dal 
Corpo Forestale 
e 
dalla 
polizia 
di 
stato. Impiegate 
anche in missioni all’estero. 


Più 
circoscritta, 
invece, 
la 
presenza 
femminile 
nelle 
Autorità 
indipendenti, 
dove 
nessuna 
donna 
ha 
mai 
ricoperto 
l’incarico 
di 
Presidente, 
ma 
solo 
di 
componente 
(attualmente 
né 
l’AGCOM 
né 
l’IVASS 
hanno 
una 
donna 
nel 
Collegio; 
a 
breve 
i 
Presidenti 
di 
Camera 
e 
Senato dovrebbero nominare 
il 
terzo componente, 
presumibilmente 
donna, dell’AGCM) o di 
Vicepresidente 
(il 
Garante 
per la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
ha 
modalità 
di 
presentazione 
delle 
candidature 
che 
sembrano favorire 
una 
maggiore 
partecipazione 
femminile); 
sola 
presidenza, 
ma 
di 
un 
organo 
monocratico, 
è 
al 
femminile, 
quella 
dell’Autorità 
garante 
per l’infanzia 
e 
l’adolescenza, da 
qualcuno letta 
quasi 
fosse 
una 
competenza 
“tipica” 
di 
una 
donna, ma 
io non condivido questa 
chiave 
di 
lettura, 
troppo pessimista e riduttiva. 


Nessuna 
presidenza 
dei 
Collegi 
di 
autogoverno 
della 
Magistratura 
ordinaria 
(dove 
nessuna 
donna 
è 
stata 
eletta 
componente 
laica 
e 
nessuna 
togata); 
amministrativa 
e 
contabile 
(dopo 
che 
è 
andata 
in 
pensione 
la 
Presidente 
aggiunta). 


La 
presidenza 
della 
Corte 
costituzionale 
da 
parte 
di 
un Giudice 
donna 
è 
stata 
particolarmente 
significativa 
perché 
la 
Presidente 
è 
stata 
eletta 
dagli 
altri 
Componenti 
e, 
quindi, 
con 
una 
lungimirante 
considerazione 
delle 
sue 
capacità 
specifiche. 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Difettano 
buone 
pratiche 
tese 
a 
favorire 
una 
composizione 
gender-balanced 
che salvaguardi efficacemente il principio di parità. 


Il 
Ministro per le 
pari 
opportunità 
e 
la 
famiglia, Prof.ssa 
Elena 
Bonetti, 
consapevole 
di 
questa 
necessità, ha 
costituito un Gruppo di 
studio sul 
“Riequilibrio 
della 
rappresentanza 
di 
genere 
nei 
procedimenti 
di 
nomina”, 
composto 
da 
nove 
Docenti 
universitarie 
di 
diritto 
costituzionale, 
istituzioni 
di 
diritto pubblico e 
di 
diritto pubblico comparato, coordinato da 
un Professore 
di 
diritto 
costituzionale 
nell’aprile 
del 
2021, 
presso 
il 
Dipartimento 
per 
le 
Pari 
Opportunità 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri; 
ed è 
nato dalla 
necessità 
di 
elaborare 
proposte 
per una 
piena 
partecipazione 
delle 
donne 
nelle 
istituzioni, 
in 
posizioni 
di 
leadership 
a 
tutti 
i 
livelli 
decisionali 
e 
in 
tutti 
gli 
aspetti della vita sociale, economica e politica. 

Il 
seminario conclusivo, il 
1° 
dicembre 
scorso, si 
è 
svolto presso la 
sede 
dell’Avvocatura Generale dello Stato. 

Il 
Documento 
di 
lavoro 
finale 
è 
disponibile 
sul 
sito 
del 
Dipartimento. 
Esso, in particolare, individua 
le 
pari 
opportunità 
e 
la 
trasparenza 
come 
principi 
cardine 
della 
proposta 
di 
un nuovo intervento normativo al 
fine 
di 
incentivare 
la 
presenza 
femminile 
negli 
enti 
pubblici, delle 
autorità 
amministrative 
indipendenti 
e 
organi 
di 
garanzia, nelle 
società 
partecipate 
e 
negli 
enti 
disciplinati 
a 
livello 
regionale 
e 
locale. 
Standard 
minimi 
di 
trasparenza 
in 
relazione 
alla 
presentazione 
delle 
candidature 
e 
ai 
criteri 
di 
selezione 
delle 
stesse 
e, se 
possibile, norme 
dirette 
a 
garantire 
l’equilibrio di 
genere 
nella 
composizione 
dei 
collegi 
e 
un monitoraggio continuo sul 
rispetto dei 
vincoli 
di 
legge 
con la 
creazione 
di 
un organo ad hoc, l’Osservatorio per la 
parità 
di 
genere, presso 
la Presidenza del Consiglio dei Ministri. 

Potrà 
essere, 
infine, 
utile 
anche 
la 
prospettiva 
comparata, 
vedere 
che 
cosa 
accade negli altri Paesi che può fornire ulteriori spunti di riflessione. 


Nell’ambito dell’Unione 
europea 
vi 
sono Paesi, nei 
quali, in via 
di 
auto 
regolazione, senza, quindi, l’adozione 
di 
normative 
specifiche 
di 
tipo gender 
balance, si 
registra 
un elevato grado di 
presenza 
femminile 
all’interno delle 
istituzioni. Emblematico il 
caso della 
Svezia 
al 
primo posto nella 
Ue 
per gli 
standard di garanzia in tema di equilibri di genere. 


Un 
secondo 
gruppo 
di 
Paesi 
europei 
si 
caratterizza 
per 
l’introduzione 
di 
atti 
di 
hard 
law 
volti 
ad 
assicurare 
una 
rappresentanza 
paritaria 
con 
appositi 
sistemi 
di 
“quote”, 
come 
la 
Francia, 
particolarmente 
sensibile 
al 
tema 
della 
parità 
di 
genere, 
o 
almeno 
equilibrata, 
come 
il 
Portogallo 
e 
la 
Croazia; 
oppure 
hanno 
previsto 
meccanismi 
di 
comply 
or 
explain 
e, 
dunque 
l’obbligo 
di 
un 
supplemento 
di 
motivazione, 
rafforzata 
diremmo 
noi 
(non 
a 
caso, 
un 
onere 
analogo 
è 
stato 
individuato 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa 
in 
occasione 
di 
impugnative 
di 
nomine 
di 
incarichi 
direttivi 
della 
magistratura 
ordinaria) 
per 
le 
nomine 
adottate 
nella 
composizione 
degli 
organi 
costituzionali 
e 
delle 
autorità 
indipendenti 
in 
deroga 
al 
principio 
della 
parità 
di 
genere, 
come 
la 
Danimarca. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


Assume 
particolare 
importanza 
il 
grado di 
evoluzione 
culturale 
e 
sociale 
che 
si 
riflette 
sulle 
scelte 
concrete 
anche 
in assenza 
di 
norme 
specifiche 
cogenti, 
come nel caso della Spagna. 


Nel 
Regno Unito è 
stata 
istituita 
una 
figura 
di 
garanzia 
ad hoc 
il 
Commissario 
per le 
nomine 
pubbliche, accanto a 
un elevato grado di 
trasparenza 
nella 
pubblicazione 
delle 
posizioni 
aperte 
e 
nella 
diffusione 
delle 
informazioni 
relative a tutte le fasi della procedura. 


5. L’Avvocatura dello Stato. 
Non 
posso 
non 
illustrare, 
in 
conclusione, 
la 
situazione 
dell’Avvocatura 
dello Stato, sia 
per il 
mio ruolo di 
vertice, sia 
per la 
conoscenza 
che 
ho del-
l’Istituto, avendo svolto anche 
le 
funzioni 
di 
Segretario Generale, quindi, di 
Capo del Personale amministrativo. 


La 
presenza 
femminile 
all’interno dell’Avvocatura 
è 
stata 
da 
sempre 
significativa 
come 
impegno e 
qualità 
professionale 
e 
trova 
oggi 
un importante 
riconoscimento proprio con la mia nomina ad Avvocato Generale. 


Basti 
pensare 
che 
su 25 Avvocati 
Distrettuali 
11 sono donne 
e 
dirigono 
Avvocature 
importanti 
per qualità 
e 
quantità 
del 
contenzioso e 
del 
consultivo 
trattati 
e 
per la 
collocazione 
in un contesto regionale 
di 
rilievo (Bari, Cagliari, 
Catania, 
Genova, 
L’Aquila, 
Messina, 
Milano 
Palermo, 
Perugia, 
Salerno, 
Trieste); 
2 donne 
fanno parte 
del 
Comitato Consultivo, composto da 
sei 
Avvocati 
dello 
Stato 
e 
presieduto 
dall’Avvocato 
Generale; 
2 
sono 
Responsabili, 
su 
8 
Sezioni, della 
gestione 
di 
due 
delle 
più strategiche 
e 
di 
rilievo; 
5, su 8 Coordinatori 
sono 
donne; 
2 
Sezioni 
sono 
declinate 
interamente 
al 
femminile 
fra 
Responsabili 
e 
Coordinatrici 
(Sezione 
IV 
e 
VII); 
il 
mio 
staff 
di 
supporto 
di 
Avvocati 
dello 
Stato 
è 
interamente 
al 
femminile 
ed 
è 
una 
donna 
a 
ricoprire 
l’incarico di 
Vice Segretario generale. 


Tale 
tendenza 
si 
registra 
anche 
nel 
ruolo del 
Personale 
Amministrativo, 
dove la maggior parte dei Capi servizio sono donne. 


All’attualità 
(9 dicembre 
2021), su 286 Avvocati 
in servizio, fra 
l’Avvocatura 
Generale 
e 
le 
Avvocature 
Distrettuali, 116 sono donne 
e 
170 uomini; 
il 
sorpasso si 
registra 
per i 
74 Procuratori 
in servizio, fra 
l’Avvocatura 
Generale 
e 
le 
Avvocature 
Distrettuali, poiché 
39 sono donne 
e 
35 uomini; 
per un totale 
complessivo di 361 unità di cui 156 donne e 205 uomini. 


All’ultimo 
concorso 
di 
Avvocato 
dello 
Stato 
i 
vincitori 
e 
idonei 
sono 
stati 
22, di 
cui 
6 donne; 
per quello in corso, potrebbe 
avvenire 
per la 
prima 
volta 
nella 
storia 
dell’Istituto il 
sorpasso, perchè 
su 38 ammessi 
all’orale 
22 sono 
donne 
e 
16 uomini, ma 
per ora 
mi 
limito a 
un sincero in bocca 
al 
lupo a 
tutti 
gli ammessi all’orale. 


All’ultimo 
concorso 
di 
Procuratore 
su 
40 
vincitori 
e 
idonei 
17 
sono 
donne 
e 23 uomini. 


Tratto comune 
è 
la 
capacità 
di 
coniugare 
il 
rilevante 
impegno professio



TEMI 
ISTITUzIONALI 


nale 
con 
l’altrettanto 
rilevante 
impegno 
familiare, 
senza 
che 
l’uno 
arrechi 
pregiudizio 
all’altro in un sapiente equilibrio di ruoli. 


In occasione 
del 
saluto istituzionale 
rivolto alla 
prima 
Presidente 
donna 
della 
Corte 
costituzionale 
il 
14 gennaio 2020, ho, innanzitutto, sottolineato la 
felice 
coincidenza 
che 
fossi 
io a 
porgerlo alla 
Presidente 
anche 
a 
nome 
del-
l’Avvocatura 
dello Stato e 
mio personale 
e, poi, ho volutamente 
lasciato per 
ultimo, last 
but 
not 
least, la 
considerazione, sottolineata, invece, immediatamente 
da 
tutti 
all’atto della 
sua 
elezione 
a 
Presidente 
della 
Corte, che 
fosse 
la 
prima 
donna 
a 
ricoprire 
tale 
prestigiosissima 
carica 
nella 
storia 
della 
Corte 
costituzionale. 


Infatti, com’è 
stato efficacemente 
e 
ben più autorevolmente 
di 
me 
sottolineato, 
questa 
circostanza 
non è 
mera 
espressione 
della 
garanzia 
dell’uguaglianza 
in 
senso 
sostanziale 
che 
la 
stessa 
Costituzione 
impone 
senza 
distinzione 
di 
sesso, 
ma 
piuttosto 
di 
uguaglianza 
nella 
e 
della 
espressione 
della 
professionalità indipendentemente dal sesso. 


Di 
professionalità 
unanimemente 
riconosciute 
e 
costruite 
con passione 
e 
con impegno nel tempo. 


Come 
ha 
sottolineato il 
Presidente 
della 
Repubblica 
(in occasione 
della 
cerimonia 
degli 
auguri 
al 
Quirinale 
il 
18 dicembre 
2019), le 
recenti 
scelte 
di 
guida 
dei 
vertici 
istituzionali 
evidenziano come 
il 
merito non trovi 
ostacoli 
di 
genere 
e 
che 
la 
presenza 
delle 
donne 
anche 
nei 
ruoli 
di 
responsabilità 
delle 
imprese 
e 
della 
società 
civile 
è 
uno straordinario fattore 
di 
crescita 
e 
di 
equilibrio 
ed è la principale opportunità di sviluppo. 


“Avere 
aperto una 
strada”, espressione 
spesso usata 
per indicare 
che 
per 
la 
prima 
volta 
una 
donna 
ricopre 
una 
carica 
importante, è 
non solo uno splendido 
risultato individuale 
che 
premia 
il 
merito, ma 
è 
anche 
e, soprattutto, un 
importante 
incoraggiamento per tutte 
le 
donne, in particolare 
per le 
più giovani, 
a 
rendere 
possibile 
l’integrazione 
fra 
i 
due 
ruoli; 
e 
rappresenta 
la 
dimostrazione 
concreta 
che 
la 
realizzazione 
professionale 
non si 
consegue 
solo e 
soltanto 
dopo 
una 
serie 
più 
o 
meno 
lunga 
di 
rinunce 
o 
di 
scelte 
definitive 
verso 
l’una 
(professione) o l’altra 
(famiglia) in chiave 
di 
alternatività, conciliando 
la 
vita 
professionale 
e 
la 
vita 
familiare, con equilibrio e 
sensibilità 
che 
arricchiscono 
chi lo realizza e la società tutta. 


Grazie per l’attenzione. 


RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


CERIMONIA 
DI 
INAUGURAZIONE 
DELL’ANNO 
GIUDIZIARIO 
2022 


Intervento dell'Avvocato Generale dello Stato 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


Signor Presidente della Repubblica, 
Autorità Civili, Militari e Religiose, 
Signor Primo Presidente della Corte di Cassazione, 
Signor Procuratore Generale, 

prendo la 
parola 
in questa 
solenne 
Cerimonia 
per porgere 
il 
saluto del-
l’Istituto che ho l’alto onore di dirigere. 


2. 
Nella 
sua 
approfondita 
e 
ampia 
relazione 
il 
Primo 
Presidente 
ha 
riferito 
in modo analitico sui 
risultati 
raggiunti 
dalla 
Suprema 
Corte 
nell’anno 2021, 
frutto -ancora 
una 
volta 
-del 
grandissimo impegno profuso dai 
Magistrati 
e 
da 
tutto il 
Personale 
amministrativo, ai 
quali 
va 
il 
più vivo apprezzamento e 
il 
più sentito ringraziamento. 
La 
sinergia 
fra 
i 
diversi 
attori 
dell’attività 
giudiziaria 
si 
sviluppa, 
sul 
piano 
strettamente 
giurisdizionale, nel 
reciproco impegno per una 
celere 
ed efficace 
definizione del notevole contenzioso pendente. 


Anche 
nel 
2021 è, infatti, proseguita 
la 
collaborazione 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
con 
la 
Corte 
di 
cassazione, 
in 
particolare, 
con 
la 
Sezione 
tributaria, 
sia 
per 
lo 
svolgimento 
di 
udienze 
tematiche 
finalizzate 
alla 
decisione 
di 
un 
sempre 
maggiore 
numero di 
controversie 
e 
alla 
uniformità 
degli 
indirizzi 
giurisprudenziali; 
sia 
per 
la 
soluzione 
dei 
molteplici 
problemi 
pratici 
connessi 
alla 
estinzione 
delle 
numerose 
cause 
interessate 
dai 
vari 
provvedimenti 
di 
condono. 


3. L’anno appena 
trascorso, sulla 
spinta 
delle 
prime 
modifiche 
normative 
introdotte 
a 
seguito dell’epidemia 
da 
Covid 
-19, ha 
portato, tra 
l’altro, a 
un 
ulteriore 
consolidamento 
della 
progressiva 
digitalizzazione 
dell’attività 
giudiziaria. 
Particolare 
rilievo ha 
assunto l’avvio dei 
depositi 
telematici 
nei 
procedimenti 
avanti 
alla 
Corte 
di 
cassazione, sia 
pure 
in regime 
di 
facoltatività, che 
rappresenta 
il 
punto 
di 
arrivo 
di 
un 
percorso 
che, 
nei 
gradi 
di 
merito, 
è 
iniziato 
molti 
anni 
fa: 
un percorso significativo, nel 
quale, insieme 
al 
Consiglio Nazionale 
Forense, e 
colgo l’occasione 
per porgere 
i 
più sinceri 
auguri 
di 
buon 
lavoro alla 
neo-eletta 
Presidente 
Avv. Maria 
Masi, l’Avvocatura 
dello Stato, 
anche 
per quanto specificatamente 
riguarda 
il 
giudizio di 
legittimità, ha 
dato 
il 
proprio fattivo contributo nei 
tavoli 
che, allo scopo, sono stati 
costituiti 
per 
l’analisi 
e 
l’individuazione 
delle 
possibili 
soluzioni 
normative, organizzative 
e tecniche rispetto ai problemi che, di volta in volta, si sono posti. 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Contributo 
frutto, 
peraltro, 
di 
un’esperienza 
maturata 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
anche 
nel 
contenzioso 
sovranazionale 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
e 
al 
Tribunale 
della 
Ue 
e 
alla 
CEDU, per i 
quali 
il 
processo telematico è 
già 
operativo da 
molti 
anni. Contributo di 
esperienza 
fornito anche 
alla 
Corte 
costituzionale 
per l’avviamento del sistema 
e-Cost. 


Va, 
comunque, 
ricordato 
che 
l’avvio 
del 
processo 
civile 
telematico 
avanti 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
trova 
la 
fonte 
normativa 
nella 
disciplina 
emergenziale 
legata 
alla 
situazione 
che, purtroppo, è 
ancora 
in corso; 
è, dunque, necessario 
che 
si 
proceda, per il 
futuro, a 
un inquadramento sistematico della 
relativa 
disciplina, 
affinché 
essa 
possa 
spiegare 
i 
suoi 
effetti 
anche 
una 
volta 
terminata, 
speriamo molto presto, l’attuale fase emergenziale. 


In questa 
prospettiva 
appare 
necessario giungere 
a 
regole 
e 
piattaforme 
comuni 
tra 
i 
processi 
telematici, affinché 
sia 
possibile 
condividere, con le 
regole 
e 
la 
tecnologia, anche 
atti, documenti 
e 
informazioni 
fra 
tutte 
le 
giurisdizioni 
per 
una 
sempre 
più 
rapida 
ed 
efficiente 
risposta 
di 
giustizia 
per 
i 
cittadini. 


4. La 
situazione 
emergenziale 
ha 
determinato anche 
una 
pressoché 
completa 
digitalizzazione 
e 
dematerializzazione 
dell’attività 
svolta 
dall’Avvocatura 
dello Stato, sia per i compiti amministrativi, sia per quelli defensionali. 
Vi 
è 
stato, infatti, nel 
2021, un generalizzato incremento, di 
circa 
il 
40%, 
nei 
depositi 
telematici 
avanti 
al 
Giudice 
Ordinario, 
rispetto 
all’anno 
2020, 
che, 
a 
sua 
volta, aveva 
visto un incremento del 
30% rispetto all’anno 2019 (passando 
da 50 mila a 67mila depositi telematici). 


È 
auspicabile 
che, con il 
progressivo superamento della 
fase 
transitoria 
dettata 
dalla 
situazione 
di 
emergenza, alcune 
soluzioni 
-che 
si 
sono rivelate 
decisive 
per 
assicurare 
il 
servizio 
giustizia 
anche 
nella 
fase 
più 
acuta 
della 
pandemia 
-siano confermate 
a 
regime, avendo determinato un significativo 
snellimento 
delle 
attività 
processuali 
nel 
giusto 
contemperamento 
con 
il 
diritto 
di difesa. 

Senza 
soffermarmi 
su specifici 
dati 
statistici, ritengo, però, opportuno richiamare 
alcuni indicatori numerici particolarmente significativi. 

Nell’anno appena 
trascorso, infatti, per l’Avvocatura 
dello Stato si 
è 
registrato 
su tutto il 
territorio nazionale 
un aumento di 
oltre 
il 
10% degli 
affari 
nuovi 
rispetto al 
2020, raggiungendo, solo all’Avvocatura 
Generale, la 
notevole 
cifra di circa 49.000 affari nuovi. 

Per quanto riguarda 
gli 
esiti 
dei 
giudizi 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
cassazione 
in cui 
è 
parte 
l'Avvocatura 
dello Stato -che 
con il 
contenzioso tributario impegna 
in maniera 
rilevante 
la 
Corte 
-si 
conferma 
una 
percentuale 
di 
successo 
nelle cause patrocinate nella media superiore al 65%. 


Tali 
dati 
evidenziano 
la 
gravosità 
del 
lavoro 
e 
lo 
sforzo 
di 
tutti 
componenti 
della 
Avvocatura 
dello Stato per cercare 
di 
assicurare 
il 
più proficuo servizio 
a favore del Paese. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


5. Anche 
quest’anno concludo, pertanto, questo mio intervento certa 
di 
poter 
confermare, 
Signor 
Presidente 
della 
Repubblica, 
che 
l’Avvocatura 
dello 
Stato e 
tutti 
i 
suoi 
Componenti 
continueranno a 
profondere 
il 
massimo impegno 
per 
essere 
sempre 
all’altezza 
delle 
rilevanti 
funzioni 
loro 
assegnate 
e 
della 
fiducia riposta in loro. 
Grazie per l’attenzione. 


Roma, 21 gennaio 2022 
Palazzo di Giustizia, Aula Magna 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


CERIMONIA 
DI 
INSEDIAMENTO 
DEL 
PRESIDENTE 
DEL 
CONSIGLIO 
DI 
STATO 
E 
DI 
PRESENTAZIONE 
DELLA 
“RELAZIONE 
SULL’ATTIVITÀ 
DELLA 
GIUSTIZIA 
AMMINISTRATIVA” ANNO 
2021 
INAUGURAZIONE 
DELL’ANNO 
GIUDIZIARIO 
2022 


Intervento dell'Avvocato Generale dello Stato 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


Signor Presidente della Repubblica, 


Signora Presidente del Senato, 


Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, 


Signor Presidente della Corte costituzionale, 

Autorità Civili, Militari e Religiose, 

Signor Presidente del Consiglio di Stato, 


sono davvero onorata 
di 
prendere 
la 
parola 
in questa 
solenne 
Cerimonia 
per 
portare 
il 
saluto 
dell’Istituto 
che 
ho 
il 
privilegio 
di 
dirigere, 
nel 
segno 
della 
consolidata 
reciproca 
collaborazione 
istituzionale, della 
quale 
ringrazio Lei, 
Signor 
Presidente, 
il 
Suo 
Predecessore 
Presidente 
Filippo 
Patroni 
Griffi, 
al 
quale 
rinnovo gli 
auguri 
per la 
nuova 
prestigiosa 
carica 
di 
Giudice 
costituzionale, 
tutti i Magistrati e il Personale amministrativo. 


Collaborazione 
istituzionale 
che 
non solo ha 
consentito di 
affrontare 
efficacemente 
questo 
biennio 
di 
emergenza 
epidemiologica, 
ma 
rappresenta 
anche, nella 
sua 
più ampia 
accezione, l’espressione 
di 
un dialogo costruttivo 
con 
gli 
Avvocati, 
unitariamente 
intesi, 
Foro 
libero 
e 
Avvocatura 
pubblica, 
come 
metodo 
da 
non 
circoscrivere 
temporalmente 
e 
concettualmente 
alla 
fase 
emergenziale, 
anche 
al 
fine 
di 
assicurare 
l’espletamento dell’esercizio della 
giurisdizione 
in chiave 
di 
efficienza, di 
imparzialità 
e 
di 
affidabilità; 
perché, come 
da 
Lei, Signor Presidente 
della 
Repubblica, auspicato nel 
Messaggio al 
Parlamento 
il 
3 
febbraio 
scorso 
nel 
giorno 
del 
Giuramento, 
“La 
Magistratura 
e 
l’Avvocatura sono chiamate 
ad assicurare 
che 
il 
processo riformatore 
si 
realizzi, 
facendo 
recuperare 
appieno 
prestigio 
e 
credibilità 
alla 
funzione 
giustizia, 
allineandola agli standard europei”. 

Sono, poi, particolarmente 
onorata 
di 
partecipare 
a 
questa 
Cerimonia 
solenne 
poiché 
Lei, Presidente 
Frattini, ha 
iniziato la 
Sua 
brillante 
e 
prestigiosa 
carriera 
proprio nel 
nostro Istituto, all’Avvocatura 
Generale, dimostrando immediatamente 
di 
possedere 
le 
eccezionali 
doti 
di 
preparazione 
giuridica 
e 
l’altissima 
capacità 
professionale 
che 
hanno 
sempre 
accompagnato 
il 
Suo 
così 
rilevante percorso istituzionale. 


Il 
Suo 
esempio 
concreto, 
declinato 
come 
impegno 
e 
dedizione 
costanti 
coniugati 
con saggezza, equilibrio e 
profondo senso dello Stato, è 
stato pre



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


zioso e 
ha 
ispirato generazioni 
di 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato non solo 
dei concorsi prossimi al Suo. 


* 


L’emergenza 
sanitaria, grazie 
all’impegno costante 
degli 
Avvocati 
e 
Procuratori 
dello Stato e 
del 
Personale 
amministrativo, si 
è 
confermata 
un fattore 
di 
accelerazione 
della 
digitalizzazione, che 
era, peraltro, già 
in fase 
avanzata, 
e 
della 
consequenziale 
riorganizzazione 
dei 
processi 
di 
lavoro, condivisa 
con 
le 
Associazioni 
sindacali 
di 
categoria, in un’ottica 
di 
efficienza 
e 
di 
efficacia 
dell’attività defensionale. 


L’Avvocatura 
dello Stato ha 
eseguito complessivamente 
50.000 depositi 
telematici al Consiglio di Stato con un incremento annuo pari all’11,29%. 


Dai 
predetti 
dati 
emerge 
ancora 
una 
volta 
l’intensità 
dell’impegno 
del-
l’Istituto, unita 
alla 
considerazione 
circa 
importanza 
e 
centralità 
degli 
ambiti 
e 
delle 
materie 
che 
lo vedono quotidianamente 
impegnato davanti 
al 
Giudice 
Amministrativo. 


Per 
ragioni 
di 
brevità, 
mi 
limito 
a 
richiamare 
il 
contenzioso, 
in 
particolare, 
quello fra 
Stato e 
Regioni, nella 
materia 
riguardante 
le 
modalità 
di 
gestione 
dell’emergenza 
epidemiologica; 
sia 
in 
sede 
cautelare, 
sia 
in 
sede 
di 
merito, 
funzionale 
alla 
corretta 
individuazione 
degli 
ambiti 
di 
rispettiva 
competenza 
nell’adozione 
delle 
relative 
misure 
volte 
al 
suo 
contenimento; 
e 
la 
storica 
sentenza 
n. 37/21 della Corte costituzionale. 


* 


Come 
è 
continuato senza 
soste 
l’impegno innanzi 
alle 
giurisdizioni 
sovranazionali, 
Corte 
di 
giustizia 
e 
Tribunale 
della 
Ue 
e 
CEDU, essendo ineludibile 
la 
necessità 
di 
confrontarsi 
con 
la 
normativa 
europea 
e 
la 
tutela 
uniforme 
dei 
diritti 
che 
essa 
impone 
agli 
Stati 
Membri, ancora 
di 
più nell’attuale 
fase 
emergenziale. 


In questo delicato compito il 
Consiglio di 
Stato ha 
continuato a 
svolgere 
un importante 
ruolo di 
indirizzo, essendo, peraltro, Giudice 
di 
ultima 
istanza. 


L’importanza 
del 
rinvio 
pregiudiziale, 
strumento 
di 
cooperazione 
“da 
giudice 
a 
giudice”, 
è 
stata 
sottolineata 
dalla 
stessa 
Corte 
di 
giustizia 
come 
“chiave 
di volta” del sistema giurisdizionale della Ue. 


Proprio nel 
meccanismo del 
rinvio pregiudiziale 
si 
evidenzia 
la 
collaborazione 
istituzionale 
tra 
Consiglio di 
Stato e 
Avvocatura 
dello Stato, che, già 
presente 
nei 
giudizi 
nazionali, è 
chiamata 
a 
rappresentare 
le 
ragioni 
del 
Governo 
italiano anche 
innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
e, poi, esiti 
e 
conseguenze 
alla ripresa del giudizio in sede nazionale. Un circuito virtuoso. 


Non posso non ricordare 
che 
proprio Lei, Signor Presidente, da 
Ministro 
degli 
Affari 
Esteri, nel 
2009, con lungimirante 
visione 
sovranazionale, ha 
individuato 
nella 
figura 
dell’Agente 
del 
Governo italiano innanzi 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
e 
al 
Tribunale 
dell’Ue 
l’espressione 
di 
una 
difesa 
tecnica 
e 
istituzionale; 
scelta, 
poi, 
codificata 
nell’art. 
42, 
comma 
3, 
della 
legge 
24 
dicembre 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


2012, n. 234 (1), divenuta 
modello ispiratore, con l’art. 15 del 
decreto-legge 
4 ottobre 
2018, n. 113, della 
difesa 
del 
Governo innanzi 
alla 
CEDU 
(2); 
e, in 
altri 
ambiti, l’ITLOS, il 
Tribunale 
Internazionale 
del 
diritto del 
mare 
di 
Amburgo 
e gli arbitrati internazionali di investimento. 


* 


Concludo questo mio intervento formulando a 
Lei, Signor Presidente, a 
nome 
dell’Avvocatura 
dello Stato e 
mio personale, gli 
auguri 
più fervidi 
e 
più 
sinceri 
di 
un proficuo lavoro, confermando che 
l’Avvocatura 
dello Stato continuerà 
a 
profondere 
il 
massimo impegno nello svolgimento degli 
importanti 
compiti assegnati per essere all’altezza della fiducia in essa riposta. 


Grazie per l’attenzione. 


Roma, 22 febbraio 2022 


Palazzo Spada 


(1) “Il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
o il 
Ministro per 
gli 
affari 
europei 
e 
il 
Ministro degli 
affari 
esteri 
nominano, quale 
agente 
del 
Governo italiano previsto dall'articolo 19 dello Statuto della 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione 
europea, 
un 
avvocato 
dello 
Stato, 
sentito 
l'Avvocato 
generale 
dello 
Stato”. 
(2) Convertito con modificazioni 
con la 
legge 
1° 
dicembre 
2018, n. 132: 
“Le 
funzioni 
di 
agente 
del 
Governo a difesa dello Stato italiano dinanzi 
alla Corte 
europea dei 
diritti 
dell'uomo sono svolte 
dall'Avvocato generale dello Stato, che può delegare un avvocato dello Stato”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


CERIMONIA 
DI 
INAUGURAZIONE 
DELL’ANNO 
GIUDIZIARIO 
2022 
DEL 
TRIBUNALE 
AMMINISTRATIVO 
REGIONALE 
DEL 
LAZIO 


Intervento dell'Avvocato Generale dello Stato 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


Signor Presidente, 
Autorità, Signor Presidente, 
Colleghi 
Avvocati, Gentili Ospiti 
anche collegati da remoto, 


1. 
Con grande 
piacere 
prendo la 
parola 
in questa 
Cerimonia 
(di 
inaugurazione) 
per portare il saluto dell'Istituto che ho l'alto onore di dirigere. 
È 
il 
terzo anno che 
l'Avvocatura, anche 
dello Stato, interviene 
in questa 
occasione 
così 
importante, importante 
anche 
e 
soprattutto perché 
segna 
il 
ritorno 
-almeno parziale 
-in presenza, dopo il 
biennio così 
difficile 
dell'emergenza 
epidemiologica, come sottolineato anche nella Sua Relazione. 


Questa 
partecipazione 
assume 
rilievo anche 
perché 
è 
divenuta 
ormai 
una 
significativa 
consuetudine 
di 
scambio e 
confronto tra 
l'Avvocatura, del 
Foro 
libero 
e 
Pubblica 
unitariamente 
intesa, 
e 
la 
Magistratura 
amministrativa; 
in 
linea 
con la 
partecipazione 
alla 
Cerimonia 
di 
inaugurazione 
da 
poco svoltasi, 
al 
Consiglio di 
Stato, a 
conferma 
di 
quello spirito di 
collaborazione 
istituzionale 
che 
sussiste 
e 
deve 
esserci 
tra 
il 
Giudice 
amministrativo e 
gli 
Avvocati, 
ancora 
più 
significativa 
e 
rilevante 
in 
relazione 
agli 
obiettivi 
contenuti 
nel 
PNRR 
e 
del 
programma 
straordinario 
di 
smaltimento 
dell'arretrato, 
richiamati 
nella 
Sua 
Relazione. 
Collaborazione 
istituzionale 
rafforzata 
dalle 
riflessioni 
del 
Presidente 
Frattini 
che 
ha 
fatto 
riferimento 
alla 
visione 
integrata 
con 
quella 
degli 
Avvocati 
della 
valutazione 
giuridica 
delle 
questioni, al 
fine 
dell'ottimizzazione 
della giustizia, della sua affidabilità e della sua credibilità. 


2. 
Il 
Tar del 
Lazio è 
certamente 
un organo giudiziario che 
costituisce 
un 
unicum 
nel 
panorama 
sia 
nazionale 
che 
europeo, come 
è 
stato ricordato anche 
in 
occasione 
dei 
recenti 
Convegni 
che, 
nel 
2021, 
hanno 
celebrato 
i 
50 
anni 
dell'istituzione dei 
Tribunali 
Amministrativi Regionali. 
Quale 
giudice 
amministrativo di 
primo grado, infatti, concentra 
in sé 
le 
competenze 
di 
Tar regionale 
e 
di 
Tar centrale, in quanto decide 
sugli 
atti 
dei 
Ministri 
e 
del 
Governo, degli 
organi 
a 
rilevanza 
costituzionale, come 
il 
CSM, 
delle 
Autorità indipendenti. 


Il 
contenzioso 
che 
gli 
è 
riservato, 
quindi, 
è 
tanto 
numeroso 
quanto 
delicato; 
public 
enforcement 
del 
diritto 
della 
concorrenza, 
regolazione 
dei 
mercati, 
che 
ormai 
riguarda 
pressoché 
tutti 
i 
settori 
economici; 
esercizio 
di 
poteri 
fondamentali 
dello 
Stato, 
come 
ad 
esempio 
il 
golden 
power, 
e, 
più 
in 
generale, 
tutti 
i 
principali 
atti 
di 
governo, 
che 
trovano 
nel 
TAR 
Lazio 
il 
loro 
giudice 
naturale. 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


Si 
comprende, quindi, perché 
il 
TAR Lazio sia 
stato definito il 
Tribunale 
dell'economia, il 
TAR dei TAR, come ricordato nella Sua Relazione. 


L'evoluzione 
del 
quadro normativo interno, sempre 
più influenzato dalla 
compenetrazione 
con l'ordinamento eurounitario, pone, poi, il 
giudice 
amministrativo 
ed il 
Tar Lazio, in particolare, di 
fronte 
a 
nuove 
tipologie 
di 
contenziosi 
che 
sembrano 
discostarsi 
dal 
tradizionale 
paradigma 
del 
giudizio 
amministrativo 
come 
giudizio 
volto 
alla 
tutela 
di 
interessi 
e 
diritti 
lesi 
dal-
l'esercizio asseritamente illegittimo del pubblico potere. 


Nello 
stesso 
tempo, 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
si 
trova 
ad 
affrontare, 
nel 
perseguimento 
dell'interesse 
pubblico, 
sempre 
nuove 
sfide, 
come, 
appunto, 
quelle 
derivanti 
dal 
PNRR, 
determinate 
dai 
profondi 
mutamenti 
economici 
e 
sociali 
e 
dalla 
necessità 
di 
confrontarsi 
sempre 
più 
frequentemente 
con 
la 
normativa 
europea 
e 
la 
tutela 
uniforme 
dei 
diritti 
che 
essa 
impone 
agli 
Stati 
Membri. 


3. L'intensa 
attività 
giurisdizionale 
del 
TAR Lazio vede 
nell'Avvocatura 
dello Stato, quale 
difensore 
istituzionale 
delle 
pubbliche 
Amministrazioni 
il 
principale interlocutore. 
I dati 
numerici 
ne 
sono un'evidente 
rappresentazione: 
nel 
2021 sono stati 
impiantati 
in 
Avvocatura 
Generale 
oltre 
10.000 
nuovi 
affari 
di 
competenza 
delle 
Sezioni 
romane 
del 
TAR Lazio, con un aumento di 
circa 
il 
19% rispetto 
all'anno precedente, in linea 
con quel 
consistente 
aumento generale 
del 
contenzioso 
segnalato nella Sua Relazione. 


Anche 
nel 
difficile 
periodo dell'emergenza 
epidemiologica 
è 
stata 
proficua, 
e 
tuttora 
permane, 
la 
collaborazione 
dell'Istituto 
con 
i 
rappresentanti 
della 
Giustizia 
amministrativa 
e 
dell'Avvocatura 
del 
libero foro, sia 
per assicurare 
lo 
svolgimento 
dell'attività 
processuale 
in 
condizioni 
di 
sicurezza, 
sia 
per 
il 
miglioramento del 
processo amministrativo telematico di 
cui, peraltro, l'Avvocatura 
dello Stato è il principale fruitore. 


Nel 
2021, infatti, i 
depositi 
effettuati 
dall'Avvocatura 
dello Stato al 
Tar 
del 
Lazio 
(Roma) 
sono 
stati 
oltre 
22.502, 
con 
un 
incremento 
annuo 
pari 
al 
14,42%. 


4. 
Occorre, 
poi, 
fare 
un 
seppure 
breve, 
come 
richiede 
la 
sobrietà 
della 
Cerimonia, 
riferimento 
al 
ruolo 
svolto 
dai 
TAR, 
in 
particolare 
dal 
TAR 
del 
Lazio, 
in 
occasione 
della 
gestione 
delle 
misure 
necessarie 
al 
contenimento 
dell'emergenza 
da 
Covid-19, che 
ha 
dato origine 
a 
un nutrito contenzioso fra 
Stato e 
Regioni, 
vertente 
sulla 
delimitazione 
delle 
rispettive 
competenze 
nella 
materia 
sanitaria 
e 
sulla 
individuazione 
di 
un 
punto 
di 
equilibrio 
tra 
le 
esigenze 
di 
tutela 
del 
diritto 
alla 
salute, 
nella 
sua 
dimensione 
di 
interesse 
individuale 
e 
della 
collettività, e 
l'esercizio delle 
libertà 
fondamentali 
garantite 
dalla 
Costituzione; 
e alla ben nota sentenza n. 37/21 della Corte costituzionale. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


4.1. 
Per quanto riguarda 
le 
questioni 
più specifiche, può dirsi 
che 
si 
sono 
evolute con il mutare della situazione giuridica e fattuale. 
In una 
prima 
fase, a 
partire 
dalla 
primavera 
del 
2021, sono stati 
proposti 
ricorsi, talvolta 
di 
segno diametralmente 
opposto, relativi 
all'attuazione 
della 
campagna 
vaccinale, intesi, talvolta, a 
ottenere 
l'accelerazione 
della 
somministrazione 
delle varie dosi e, talvolta, invece, il blocco delle vaccinazioni. 


Nella 
fase 
successiva, in corso, le 
questioni 
oggetto di 
ricorso hanno riguardato 
gli 
obblighi 
vaccinali 
introdotti 
a 
carico di 
determinate 
categorie 
di 
lavoratori 
e 
le 
misure 
conseguenti 
al 
mancato 
rispetto 
degli 
obblighi 
medesimi; 
in 
particolare, 
per 
quanto 
riguarda 
i 
dipendenti 
statali, 
si 
sono 
registrati 
numerosi 
ricorsi 
di 
appartenenti 
alle 
Forze 
armate 
e 
alle 
Forze 
di 
polizia, 
sempre, 
ovviamente, corredati 
da 
istanze 
cautelari 
e 
sostenuti 
da 
eccezioni 
di 
incostituzionalità 
delle norme emergenziali alla base dei provvedimenti impugnati. 


In modo estremamente 
sintetico, può dirsi 
che, pur se 
a 
fronte 
di 
talune 
decisioni 
di 
segno opposto, gli 
orientamenti 
del 
TAR del 
Lazio hanno confermato 
la 
legittimità 
dell'azione 
del 
Governo nel 
suo complesso e 
delle 
singole 
Amministrazioni 
nel 
contrasto alla 
pandemia, contrasto che 
ne 
è 
risultato certamente 
rafforzato. 


4.2. 
I 
ricorsi 
contro 
le 
misure 
restrittive, 
per 
cittadini 
e 
imprese, 
adottate 
con 
DPCM 
sono 
stati 
numerosi 
fino 
a 
quando 
il 
provvedimento 
è 
stato 
sostituito, 
come 
fonte 
di 
regolazione, 
dal 
decreto-legge, 
come 
illustrato 
nella 
Sua 
Relazione; 
da 
quel 
momento 
in 
poi 
le 
contestazioni 
giudiziarie 
si 
sono 
concentrate 
soprattutto 
su 
obbligo 
vaccinale 
e 
green 
pass. 
Gli 
esiti 
del 
contenzioso 
sono 
stati 
in 
larga 
parte 
conformi 
alle 
tesi 
sostenute 
della 
difesa 
dello 
Stato, 
che 
hanno 
trovato 
riscontro 
nelle 
pronunce 
intervenute, 
generalmente 
ispirate 
alla 
verifica 
della 
legittimità 
delle 
misure 
adottate 
e 
della 
loro 
coerenza 
con 
i 
principi 
della 
Costituzione 
e 
del 
diritto 
sovranazionale, 
nonché 
con 
la 
finalità 
del 
più 
ragionevole 
contemperamento 
dei 
rilevantissimi 
interessi 
in 
gioco, 
a 
partire 
da 
quello 
alla 
salute 
dei 
cittadini, 
qualificato 
dall'art. 
32 
della 
Costituzione 
come 
fondamentale 
diritto 
dell'individuo 
e 
interesse 
della 
collettività. 
Numerose 
sono 
state 
le 
cause 
risarcitorie 
da 
parte 
delle 
categorie 
imprenditoriali 
colpite 
dalle 
restrizioni 
alle 
attività 
economiche, 
che 
lamentano 
l'inadeguatezza 
dei 
"ristori", 
e 
da 
parte 
di 
persone 
fisiche 
per 
le 
limitazioni 
alla 
libertà 
personale 
imposte 
dal 
lockdown, 
con 
richieste 
di 
indennizzi 
su 
base 
presuntiva. 
In 
una 
controversia 
avente 
ad 
oggetto 
il 
DPCM 
del 
14 
gennaio 
2021, 
contenente 
varie 
disposizioni 
per 
fronteggiare 
l'emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid 
19, 
tra 
le 
quali 
l'obbligo 
per 
i 
minori 
di 
età 
compresa 
fra 
i 
6 
e 
gli 
11 
anni 
di 
indossare 
la 
mascherina 
in 
ambito 
scolastico, 
è 
intervenuta 
la 
sentenza 


n. 1248/2022; 
che 
si 
segnala 
per la 
completezza 
delle 
argomentazioni 
in base 
alle 
quali 
il 
TAR, aderendo alle 
prospettazioni 
difensive 
dell'Avvocatura, ha 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


ritenuto corretto l'operato dell'Amministrazione, incentrate 
su un'esaustiva 
ed 
approfondita 
ricognizione 
del 
quadro 
normativo 
costituzionale, 
internazionale 
e 
sovranazionale 
di 
riferimento, nonché 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
costituzionale 
intervenuta 
con 
riguardo 
alla 
legittimità 
dei 
poteri 
emergenziali 
esercitati 
mediante 
decreti-legge 
e 
DDPCM, (cui 
è 
conseguita 
la 
conclusione 
che 
“Il 
fondamento comune 
di 
tutti 
i 
provvedimenti 
adottati 
dalle 
autorità politiche 
governative, nazionali, territoriali 
e 
tecniche, è 
stato -ed è 
-quello di 
assicurare, secondo il 
principio di 
massima precauzione, la salute 
dei 
cittadini, 
in 
quanto 
valore 
costituzionale 
primario 
e 
non 
negoziabile, 
tanto 
da 
comprimere 
-nei 
limiti 
e 
modi 
di 
volta 
in 
volta 
ritenuti 
indispensabili 
-anche 
l'esercizio di 
diversi 
diritti 
o libertà individuali, primo fra tutti 
quello alla libera 
circolazione”). 


E 
la 
sentenza 
(n. 391/22), con la 
quale 
è 
stata 
confermata 
la 
legittimità 
del 
DM 
(7 
agosto 
2020 
del 
Ministero 
dello 
sviluppo 
economico) 
recante 
«Piano 
voucher 
sulle 
famiglie 
a 
basso 
reddito», 
che, 
a 
seguito 
della 
pandemia, 
ha 
previsto 
un 
intervento 
di 
sostegno 
per 
garantire 
la 
fruizione 
di 
servizi 
di 
connessione 
ad internet 
in banda 
ultra 
larga 
da 
parte 
delle 
famiglie 
con ISEE 
inferiore ad euro 20.000. 


Nell'ambito 
della 
ripresa 
della 
piena 
operatività 
delle 
Amministrazioni 
dopo il 
primo periodo di 
lockdown, ha 
assunto un notevole 
rilievo il 
piano di 
assunzione 
di 
personale 
pubblico previsto dalla 
legge 
di 
Bilancio 2021 che 
ha 
autorizzato 
le 
Amministrazioni 
ad 
incrementare 
il 
proprio 
organico 
entro 
il 
prossimo quadriennio, bandendo nuove 
procedure 
concorsuali 
per migliaia 
di 
posti 
(29.600 posti, di 
cui 
oltre 
6 mila 
già 
dal 
2021). Il 
cospicuo piano di 
assunzioni 
-che 
ha 
coinvolto i 
principali 
Ministeri, le 
Forze 
dell'ordine 
e 
altri 
Enti 
-si 
è 
tradotto in una 
consistente 
attività 
del 
Dipartimento della 
Funzione 
Pubblica, del 
FORMEz 
PA 
e 
dell'ARAN 
con l'incrementarsi 
del 
conseguente 
contenzioso connesso alle attività concorsuali. 


Lo 
stretto 
legame 
del 
TAR 
Lazio 
con 
l'ordinamento 
eurounitario 
si 
è 
espresso nelle 
controversie 
successive 
alla 
decisione 
in sede 
di 
rinvio pregiudiziale 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
proposto dal 
TAR Lazio. Ricordo per tutte 
la 
questione, estremamente 
rilevante 
ai 
fini 
della 
corretta 
applicazione 
del 
protocollo 
di 
Kyoto, dei 
presupposti 
per l'aggregazione 
delle 
fonti 
di 
emissione 
ai 
fini 
del 
calcolo della 
potenza 
complessiva 
di 
un impianto e, conseguentemente, 
degli 
effetti 
inquinanti 
(sentenza 
n. 823/22; 
decisione 
della 
CGUE 
del 
29 aprile 
2021, causa 
C-617/19), con riferimento alla 
nozione 
di 
"impianto" 
unitario, rilevante 
ai 
fini 
del 
calcolo delle 
emissioni 
come 
definito dalla 
direttiva 
2003/87/CE; 
e 
quella 
definita, con la 
sentenza 
n. 10164/21, in conformità 
ai 
vincolanti 
principi 
enunciati 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
con decisione 
del 
16 
luglio 2020 (causa 
C-411/19), su questione 
pregiudiziale 
interpretativa 
sollevata 
nello stesso giudizio (provvedimenti 
in tema 
di 
compatibilità 
ambientale 
e 
approvazione 
del 
progetto preliminare 
per la 
realizzazione 
di 
un tratto della 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


strada 
statale 
n. 675 "Umbro Laziale"), che 
si 
segnala 
perché 
il 
TAR ha 
anche 
tracciato, 
ai 
fini 
della 
riedizione 
del 
potere, 
l'iter 
per 
il 
riavvio 
del 
procedimento 
a partire dagli atti annullati. 


5. 
Nel 
ringraziare 
ancora, 
Lei 
Signor 
Presidente, 
i 
Magistrati 
e 
il 
Personale 
amministrativo del 
TAR Lazio, confermo che 
l'Avvocatura 
dello Stato e 
tutti 
i 
suoi 
componenti 
continueranno 
a 
profondere 
il 
massimo 
impegno 
nello 
svolgimento 
degli importanti compiti loro assegnati. 
Grazie per l'attenzione. 


Roma, 2 marzo 2022 



TEMI 
ISTITUzIONALI 


REGOLAMENTO 
RECANTE 
NORME 
PER 
L’ORGANIZZAZIONE 
E 
IL 
FUNZIONAMENTO 
DEGLI 
UFFICI 
DELL’AVVOCATURA 
DELLO 
STATO 


Da: Grasso Paolo 
Inviato: venerdì 17 dicembre 2021 23:43 


A: 
Avvocati_tutti; 
Amministrativi_tutti 
Oggetto: DPR 214 del 29 ottobre 2021 
Allegati: 20211217_299.pdf 
Informo che 
nella 
Gazzetta 
Ufficiale 
di 
oggi, venerdì 
17 dicembre 
2021, che 
allego, è 
stato 
pubblicato 
il 
decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica 
n. 
214 
del 
29 
ottobre 
2021, 
Regolamento 
recante 
norme 
per 
l’organizzazione 
e 
il 
funzionamento 
degli 
uffici 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato. 


Il Segretario Generale 


DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 


29 ottobre 2021, n. 214 


Regolamento recante norme per l'organizzazione 
e il funzionamento degli uffici dell'Avvocatura dello Stato 


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 


Visto l'articolo 87, comma quinto, della Costituzione; 


Visto l'articolo 17, comma 1, lettera 
d) 
della legge 23 agosto 1988, n. 400; 


Visto il regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611; 


Visto il regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1612; 


Vista 
la 
legge 
3 aprile 
1979, n. 103, anche 
con riferimento alle 
competenze 
del 
consiglio 
degli avvocati e procuratori dello Stato definite dall'articolo 23; 


Vista 
la 
legge 
7 giugno 2000, n. 150, recante 
disciplina 
delle 
attività 
di 
informazione 
e 
di 
comunicazione delle pubbliche amministrazioni; 


Visto 
il 
decreto 
legislativo 
30 
marzo 
2001, 
n. 
165, 
recante 
norme 
generali 
sull'ordinamento 
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; 


Visto il 
decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, concernente 
codice 
in materia 
di 
protezione 
dei 
dati 
per sonali, recante 
disposizioni 
per l'adeguamento dell'ordinamento nazionale 
al 
regolamento (UE) n. 2016/679 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
27 aprile 
2016, 
relativo alla 
protezione 
delle 
persone 
fisiche 
con riguardo al 
trattamento dei 
dati 
personali, 
nonché alla libera cir colazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE; 


Visto 
il 
decreto 
legislativo 
7 
marzo 
2005, 
n. 
82, 
recante 
codice 
dell'amministrazione 
digitale; 


Vista 
la 
legge 
6 novembre 
2012, n. 190, recante 
dispo sizioni 
per la 
prevenzione 
e 
la 
repressione 
della corruzio ne e dell'illegalità nella pubblica amministrazione; 


Visto il 
decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, recan te 
riordino della 
disciplina 
riguardante 
il 
diritto di 
accesso civico e 
gli 
obblighi 
di 
pubblicità, trasparenza 
e 
diffusione 
di 
informazioni 
da parte delle pubbliche amministrazioni; 


Visto 
l'articolo 
15, 
comma 
01, 
del 
decreto-legge 
4 
ottobre 
2018, 
n. 
113, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
1° 
dicembre 
2018, 
n. 
132, 
che 
attribuisce 
all'Avvocato 
generale 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


dello Stato le 
funzioni 
di 
Agente 
del 
Gover no a 
difesa 
dello Stato italiano dinanzi 
alla 
Corte 
europea dei diritti dell'uomo; 


Visto l'articolo 1, comma 
318, della 
legge 
30 dicembre 
2018, n. 145, secondo il 
quale 
la 
dotazione 
organica 
dell'Avvocatura 
dello Stato è 
incrementata 
di 
6 posizioni 
di 
livello dirigenziale 
non generale e di 85 unità di perso nale non dirigenziale; 


Visto 
l'articolo 
1, 
comma 
172, 
della 
legge 
27 
dicembre 
2019, 
n. 
160, 
secondo 
il 
quale 
al 
fine 
di 
supportare 
l'Agente 
del 
Governo 
a 
difesa 
dello 
Stato 
italiano 
dinanzi 
alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo 
l'Avvocato 
generale 
dello 
Stato 
può 
nominare 
esperti, 
nel 
numero 
massi-modi 
otto; 


Visto l'articolo 1-bis, comma 
2, del 
decreto-legge 
31 dicembre 
2020, n. 183, inserito dalla 
legge 
di 
conver sione 
26 febbraio 2021, n. 21, secondo il 
quale, a 
decorrere 
dall'anno 2021, la 
dotazione 
organica 
del 
personale 
amministrativo dell'Avvocatura 
dello Stato è 
incrementata 
di 27 posizioni di livello dirigenziale non generale e di 166 unità di personale dell'Area III; 


Visto il 
decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
31 dicembre 
1993, n. 584, recante 
norme 
sugli 
incarichi 
con sentiti 
o vietati 
agli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato ai 
sensi 
dell'articolo 
58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29; 


Visto 
il 
decreto 
del 
Presidente 
della 
Repubblica 
5 
luglio 
1995, 
n. 
333, 
recante 
norme 
per 
l'adeguamento 
dell'organizzazione 
e 
del 
funzionamento 
delle 
strutture 
amministrative 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
alla 
disciplina 
prevista 
dall'articolo 
2 
della 
legge 
23 
ottobre 
1992, 
n. 
421; 


Sentito 
il 
Consiglio 
di 
amministrazione 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
nella 
seduta 
del 
14 
maggio 2021; 


Vista 
la 
deliberazione 
preliminare 
del 
Consiglio dei 
ministri, adottata 
nella 
riunione 
del 
15 
luglio 2021; 


Udito il 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato, espresso dalla 
Sezione 
consultiva 
per gli 
atti 
normativi 
nell'adunanza del 7 settembre 2021; 


Vista 
la 
deliberazione 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
adottata 
nella 
riunione 
del 
15 
ottobre 
2021; 


Sulla 
proposta 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
e 
del 
Ministro per la 
pubblica 
amministrazione; 


EMANA 


il seguente regolamento: 


Art. 1. 


Oggetto e ambito di applicazione 


1. 
Le 
disposizioni 
del 
presente 
regolamento 
disciplinano 
l'organizzazione 
e 
il 
funzionamento 
degli 
uffici 
dell'Avvocatura 
dello Stato, nel 
rispetto delle 
previsioni 
del 
regio decreto 
30 ottobre 
1933, n. 1611, della 
legge 
3 aprile 
1979, n. 103, e 
delle 
altre 
norme 
di 
legge 
che 
disciplinano la specifica materia. 
Art. 2. 


Criteri di organizzazione 


1. L'Avvocatura dello Stato è ordinata secondo i seguenti criteri: 
a) 
articolazione degli uffici per funzioni omogenee; 
b) 
collegamento 
e 
coordinamento 
delle 
attività 
degli 
uffici, 
nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
collaborazione, 
anche 
attraverso 
la 
comuncazione 
interna 
ed 
esterna 
e 
l'interconnessione 
mediante 
sistemi informatici e statistici pubblici; 
c) 
trasparenza, attraverso apposita 
struttura 
per l'in formazione 
ai 
cittadini 
e 
alle 
amministrazioni, 
e, per ciascun procedimento, attribuzione 
ad un unico ufficio della 
responsabilità 
complessiva dello stesso, nel rispetto della legge 7 agosto 1990, n. 241; 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


d) 
armonizzazione 
degli 
orari 
di 
servizio e 
di 
aper tura 
degli 
uffici 
con le 
esigenze 
di 
funzionamento 
degli 
uffici 
giurisdizionali 
e 
con 
gli 
orari 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
dei 
Paesi e delle Istituzioni dell'Unione europea. 
Art. 3. 


Dotazione organica 


1. La 
consistenza 
della 
dotazione 
organica 
del 
personale 
amministrativo di 
cui 
all'articolo 
6 del 
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, è 
definita, nell'ambito del 
po tenziale 
limite 
finanziario massimo della 
medesima, nel 
piano dei 
fabbisogni 
adottato con decreto dell'Avvocato 
generale 
dello Stato e 
approvato con decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
o del Ministro delegato, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. 
2. 
La 
consistenza 
della 
dotazione 
organica 
di 
cui 
al 
comma 
1 
è 
determinata, 
con 
riferimento 
a 
ciascuna 
sede 
territoriale, 
tenendo 
anche 
conto 
del 
numero 
di 
affari 
contenziosi 
e 
consultivi, 
nonché 
d'ordine 
e 
amministrativi, 
impiantati 
nell'ultimo 
triennio, 
del 
numero 
degli 
atti 
defensionali 
depositati e della corrispondenza inviata e ricevuta nell'ultimo triennio. 
Art. 4. 


Indirizzo amministrativo 


1. L'Avvocato generale 
dello Stato definisce 
gli 
obiettivi 
ed i 
programmi 
da 
attuare 
avvalendosi 
del 
Segretario generale 
e 
verifica 
la 
rispondenza 
dei 
risultati 
della 
gestione 
amministrativa 
alle 
direttive 
generali 
impartite. 
A 
tal 
fine, 
anche 
sulla 
base 
delle 
proposte 
del 
Segretario generale, adotta 
ogni 
anno le 
direttive 
generali 
da 
seguire 
per l'azione 
amministrativa 
e per la gestione. 
2. 
L'Avvocato generale 
è 
titolare, ai 
sensi 
della 
legge 
7 giugno 2000, n. 150, dell'informazione 
e 
della 
comu nicazione 
istituzionale, che 
cura 
avvalendosi 
dell'Ufficio stampa 
di 
cui 
all'articolo 
9, comma 
2, della 
predetta 
leg ge, istituito quale 
struttura 
di 
livello non dirigenziale 
nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. 
3. 
L'Avvocato generale, per lo svolgimento delle 
sue 
funzioni, può avvalersi 
della 
collaborazione 
di avvocati e procuratori dello Stato, fiduciariamente scelti. 
4. 
Gli 
atti 
di 
competenza 
del 
Segretario generale 
e 
degli 
altri 
dirigenti 
non sono soggetti 
ad avocazione 
da 
parte 
dell'Avvocato generale. In caso di 
inerzia 
o ritardo si 
ap plicano le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
14, comma 
3, e 
15, comma 
5, del 
decreto legislativo 30 marzo 
2001, n. 165. 
Art. 5. 


Attribuzioni del Segretario generale 


1. 
Al 
Segretario 
generale 
spetta 
la 
gestione 
finanziaria, 
tecnico-organizzativa 
e 
amministrativa, 
compresa 
l'adozione 
di 
tutti 
gli 
atti 
che 
impegnano 
l'amministrazione 
verso 
l'esterno, 
mediante 
autonomi 
poteri 
di 
spesa, 
di 
organizzazione 
delle 
risorse 
umane, 
strumentali 
e 
di 
con trollo, ad eccezione 
di 
quelli 
delegati 
ai 
dirigenti. Egli 
è 
responsabile 
della 
gestione 
e 
dei 
relativi risultati. 
2. In particolare, il Segretario generale: 
a) 
formula proposte all'Avvocato generale anche ai fini di cui all'articolo 4, comma 1; 
b) 
cura l'attuazione delle direttive generali emanate dall'Avvocato generale; 
c) 
conferisce 
gli 
incarichi 
ai 
dirigenti 
ai 
sensi 
dell'articolo 
19 
del 
decreto 
legislativo 
30 
marzo 2001, n. 165, e 
ne 
valuta 
le 
prestazioni 
alla 
stregua 
dei 
risultati 
raggiunti 
in relazione 
agli 
obiettivi 
annuali 
loro assegnati. La 
valu tazione 
del 
dirigente 
preposto all'Ufficio amministrativo 
unico 
distrettuale 
di 
cui 
all'articolo 
16 
è 
effettuata 
sentito 
l'Avvocato 
distrettuale 
competente; 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


d) 
esercita 
i 
poteri 
di 
spesa 
nei 
limiti 
degli 
stanziamenti 
di 
bilancio e 
quelli 
di 
acquisizione 
delle entrate, definendo i limiti di valore delle spese che i dirigenti possono impegnare; 
e) 
definisce 
i 
criteri 
di 
organizzazione 
degli 
uffici, in conformità 
all'articolo 2, secondo le 
direttive dell'Avvo cato generale di cui all'articolo 4, comma 1; 
f) 
dirige, 
coordina 
e 
controlla 
l'attività 
dei 
dirigenti 
e 
dei 
responsabili 
dei 
procedimenti 
amministrativi, 
anche 
con 
potere 
sostitutivo 
in 
caso 
di 
inerzia, 
e 
adotta, 
nei 
confronti 
dei 
dirigenti, 
le misure previste dall'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; 
g) 
svolge 
le 
attività 
di 
organizzazione 
e 
gestione 
del 
personale 
e 
di 
gestione 
dei 
rapporti 
sindacali e di lavoro; 
h) 
decide 
sui 
ricorsi 
gerarchici 
contro 
gli 
atti 
e 
i 
provvedimenti 
amministrativi 
non 
definitivi 
dei dirigenti; 
i) 
fornisce risposte ai rilievi degli organi di controllo sugli atti di competenza. 
3. Fermo restando il 
disposto dell'articolo 6 del 
regio decreto 30 ottobre 
1933, n. 1612, il 
Segretario 
generale, 
per 
lo 
svolgimento 
delle 
sue 
funzioni, 
può 
avvalersi 
della 
collaborazione 
di 
avvocati 
e 
procuratori 
dello 
Stato, 
addetti 
all'Ufficio 
di 
segreteria 
generale, 
nominati 
dall'Avvocato 
generale su proposta del Segretario generale. 
4. 
Il 
Segretario 
generale 
è 
responsabile 
del 
risultato 
dell'attività 
svolta 
dall'ufficio 
di 
segreteria 
generale 
cui 
è 
preposto, dell'attuazione 
delle 
direttive 
a 
lui 
impartite 
dall'Avvocato generale, 
della 
gestione 
del 
personale 
e 
delle 
risorse 
finanziarie 
e 
strumentali 
a 
lui 
assegnate. 
En tro il 
30 aprile 
di 
ogni 
anno presenta 
all'Avvocato generale 
una 
relazione 
complessiva 
sul-
l'attività svolta nell'anno precedente. 
Art. 6. 


Attribuzioni degli 
Avvocati distrettuali 


1. Gli 
Avvocati 
distrettuali, oltre 
alle 
competenze 
previste 
da 
disposizioni 
legislative 
e 
regolamentari, 
svolgo no le seguenti funzioni: 
a) 
definiscono, in esecuzione 
delle 
direttive 
adottate 
dall'Avvocato generale, gli 
obiettivi 
e 
i 
programmi 
da 
attuare 
nell'ambito 
delle 
rispettive 
Avvocature 
distrettuali, 
indicandone 
la 
priorità. A 
tal 
fine 
adottano ogni 
anno le 
direttive 
generali 
da 
seguire 
per l'azione 
amministrativa 
e 
per 
la 
gestione, 
anche 
sulla 
base 
delle 
proposte 
formulate, 
nell'esercizio 
delle 
attribuzioni 
disciplinate 
dall'articolo 
7, 
dal 
dirigente 
preposto 
all'Ufficio 
amministrativo 
unico 
distrettuale 
di cui all'articolo 16; 
b) 
richiedono, 
anche 
su 
proposta 
del 
dirigente 
preposto 
all'ufficio 
amministrativo 
unico 
distrettuale, 
il 
contingente 
di 
personale 
amministrativo 
necessario 
alle 
esigenze 
funzionali 
delle 
rispettive 
Avvocature distrettuali; 
c) 
esercitano, 
anche 
avvalendosi 
del 
dirigente 
preposto 
all'Ufficio 
amministrativo 
unico 
distrettuale, 
la 
sorveglianza 
sull'andamento 
dei 
servizi 
ed 
effettuano 
la 
verifica 
della 
rispondenza 
dei 
risultati 
della 
gestione 
amministrativa 
alle 
direttive 
impartite 
ai 
sensi 
della 
lettera 
a); 
d) 
dispongono in ordine 
all'adeguamento dell'orario di 
servizio alla 
specifica 
realtà 
locale, 
tenuto conto dei criteri generali determinati dal Segretario generale. 
2. 
Gli 
Avvocati 
distrettuali 
sono 
responsabili 
dell'attuazione 
delle 
direttive 
ad 
essi 
impartite 
dall'Avvocato generale. Entro il 
30 aprile 
di 
ogni 
anno presentano all'Avvocato generale 
una 
relazione complessiva sull'attività svolta nell'anno precedente. 
Art. 7. 


Attribuzioni dei dirigenti 


1. I dirigenti 
esercitano i 
compiti 
e 
assumono le 
respon sabilità 
previsti 
dal 
decreto legislativo 
30 marzo 2001, n. 165. In particolare: 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


a) 
formulano proposte 
ed esprimono pareri 
al 
Segretario generale 
e, in sede 
locale, all'Avvocato 
distrettuale; 
b) 
curano 
l'attuazione 
dei 
progetti 
e 
delle 
gestioni 
ad 
essi 
assegnati 
dal 
Segretario 
generale, 
adottando i 
relativi 
atti 
e 
provvedimenti 
amministrativi 
ed esercitando i 
poteri 
di 
spesa 
e 
di 
acquisizione 
delle 
entrate 
delegati 
dal 
Segretario generale, nell'ambito delle 
sue 
direttive 
e, 
in sede locale, di quelle dell'Avvocato distrettuale: 
c) 
svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati dal Segretario generale; 
d) 
dirigono, 
coordinano 
e 
controllano 
l'attività 
degli 
uffici 
ad 
essi 
affidati 
e 
dei 
responsabili 
dei 
procedimenti 
amministrativi, 
anche 
esercitando 
poteri 
sostitutivi 
in 
caso 
di 
inerzia 
ai 
sensi 
dell'articolo 17, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; 
e) 
provvedono 
alla 
gestione 
del 
personale 
e 
delle 
risorse 
finanziarie 
e 
strumentali 
assegnati 
agli uffici ad essi affidati; 
f) 
effettuano la 
valutazione 
del 
personale 
assegnato agli 
uffici 
ad essi 
affidati, nel 
rispetto 
del 
principio del 
merito, ai 
fini 
della 
progressione 
economica 
e 
tra 
le 
aree, nonché 
della 
corresponsione 
di indennità e premi incentivanti; 
g) 
forniscono 
le 
risposte 
ai 
rilievi 
degli 
organi 
di 
controllo 
sugli 
atti 
di 
propria 
competenza. 
2. 
I 
dirigenti 
sono 
responsabili 
del 
risultato 
dell'attività 
svolta 
dagli 
uffici 
ai 
quali 
sono 
preposti, 
dell'attuazione 
delle 
direttive 
ad essi 
impartite 
dal 
Segretario generale 
e, in sede 
locale, 
dall'Avvocato 
distrettuale, 
della 
gestione 
del 
personale 
e 
delle 
risorse 
finanziarie 
e 
strumentali 
ad essi 
assegnate. Entro il 
31 marzo di 
ogni 
anno presentano al 
Segretario generale 
e, in sede 
locale, 
anche 
all'Avvocato 
distrettuale, 
una 
relazione 
complessiva 
sull'attività 
svolta 
nell'anno 
precedente. 
Art. 8. 


Ufficio studi e formazione professionale 


1. L'Ufficio studi 
e 
formazione 
professionale 
è 
struttura 
di 
livello non dirigenziale 
ed è 
costituito 
da 
avvocati 
o 
procuratori 
dello 
Stato 
nominati 
dall'Avvocato 
generale 
e 
coordinati 
dal-
l'Avvocato 
generale 
aggiunto 
o 
da 
un 
Vice 
Avvocato 
generale. 
L'incarico 
dei 
componenti 
dura 
tre anni ed è rinnovabile non più di una volta. 
2. L'Ufficio studi coadiuva l'Avvocato generale nelle seguenti attività: 
a) 
predisposizione 
delle 
relazioni 
periodiche 
previste 
dall'articolo 15 del 
regio decreto 30 
ottobre 1933, n. 1611; 
b) 
elaborazione di studi e ricerche della normativa e della giurisprudenza rilevanti; 
c) 
rilevazione e analisi dell'attività parlamentare; 
d) 
elaborazione 
dei 
programmi 
di 
formazione 
e 
aggiornamento 
professionale 
degli 
avvocati 
e procuratori dello Stato. 
Art. 9. 
Segreterie particolari e Segreteria degli organi collegiali 


1. Alle 
dirette 
dipendenze 
dell'Avvocato generale 
e 
del 
Segretario generale 
operano le 
rispettive 
segreterie 
particolari, 
cui 
sono 
addette 
unità 
di 
personale 
della 
dotazione 
organica 
dell'Avvocatura 
generale 
che 
attendono agli 
adempimenti 
connessi 
alle 
rispettive 
attività 
istituzionali. 
2. 
La 
Segreteria 
particolare 
dell'Avvocato generale 
attende 
anche 
agli 
adempimenti 
connessi 
al 
cerimoniale, 
alla 
organizzazione 
di 
congressi 
e 
incontri 
di 
studio 
e 
alla 
partecipazione 
agli stessi. 
3. 
Nell'ambito 
dell'ufficio 
di 
Segreteria 
generale 
opera 
la 
Segreteria 
degli 
organi 
collegiali, 
cui 
sono addette 
unità 
di 
personale 
che 
curano gli 
adempimenti 
relativi 
al 
funzionamento del 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


Comitato consultivo, del 
Consiglio degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato e 
del 
Consiglio di 
amministrazione. 
Art. 10. 


Responsabile per la transizione digitale 


1. Il 
Responsabile 
per la 
transizione 
digitale 
è 
nominato dall'Avvocato generale, sentito il 
Segretario 
generale, 
tra 
gli 
avvocati 
dello 
Stato 
dotati 
di 
specifiche 
competenze 
ed 
esperienze 
professionali. L'incarico dura al massimo cinque anni ed è rinnovabile non più di una volta. 
2. Il 
Responsabile 
per la 
transizione 
digitale 
cura 
i 
rap porti 
con le 
autorità 
e 
le 
amministrazioni 
che 
hanno competenze 
in ambito informatico, anche 
con riferimento ai 
processi 
giurisdizionali 
telematici, e 
definisce 
la 
strategia 
per l'assolvimento dei 
compiti 
di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 7 marzo 2005, n. 82, secondo le 
direttive 
dell'Avvo cato generale, nell'ottica 
della 
transizione 
verso modalità 
operative 
digitali, in conformità 
alle 
linee 
di 
indirizzo per l'informatica 
nella 
pubblica 
amministrazione 
e, in generale, alle 
vigenti 
disposizioni 
in materia 
di 
informatizzazione 
della 
pubblica 
amministrazione. 
Per 
lo 
svolgimento 
dei 
suoi 
compiti 
il 
Responsabile 
per 
la 
transizione 
digitale 
si 
avvale 
dell'ufficio 
VII 
-Risorse 
informatiche 
e 
statistica 
di cui all'articolo 15, comma 8. 
Art. 11. 


Responsabile della prevenzione 
della corruzione e della trasparenza 


I. 
Il 
Responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
della 
trasparenza 
(RPCT) 
è 
nominato 
dall'Avvocato generale, sentito il 
Segretario generale, di 
norma 
tra 
i 
dirigenti 
di 
ruolo in servizio 
presso l'Avvocatura 
dello Stato in possesso di 
adeguata 
conoscenza 
dell'organizzazione 
e del funzionamento dell'amministrazione. 
2. 
Il 
RPCT 
svolge 
i 
compiti 
stabiliti 
dall'articolo 
1, 
comma 
7, 
della 
legge 
6 
novembre 
2012, 
n. 190. 
3. 
A 
supporto del 
RPCT 
è 
costituita 
una 
unità 
organizzativa 
di 
livello non dirigenziale. Il 
personale assegnato è destinatario di specifica formazione. 
Art. 12. 


Responsabile della protezione dei dati personali 


1. Il 
Responsabile 
della 
protezione 
dei 
dati 
personali 
è 
nominato dall'Avvocato generale, 
sentito il 
Segretario generale, tra 
gli 
avvocati 
o i 
procuratori 
dello Stato dotati 
di 
specifiche 
competenze 
ed esperienze 
professionali 
in materia. L'incarico dura 
al 
massimo cinque 
anni, 
al ter mine dei quali non può essere rinnovato. 
2. lI Responsabile 
della 
protezione 
dei 
dati 
perso nali 
svolge 
i 
compiti 
stabiliti 
dal 
regolamento 
(UE) n. 2016/679 del 
Parlamento europeo e 
dl 
Consiglio, del 
27 aprile 
2016, e 
dal 
decreto 
legislativo 30 giugno 2003, n. 196. 
Art. 13. 


Organismo di valutazione della performance 


1. 
L'Organismo 
di 
valutazione 
della 
performance 
ha 
il 
compito 
di 
valutare 
il 
funzionamento 
complessivo del 
sistema 
della 
valutazione, della 
trasparenza 
e 
integrità 
dei 
controlli 
interni 
e 
di 
garantire 
la 
correttezza 
dei 
processi 
di 
misurazione 
e 
valutazione 
della 
performance 
individuale 
del 
personale 
amministrativo. L'Organismo di 
valutazio ne 
opera 
in posizione 
di 
autonomia 
e risponde esclusivamente nei confonti dell'Avvocato generale dello Stato. 
2. L'Organismo di 
valutazione 
è 
composto da 
un Vice 
Avvocato generale 
dello Stato, che 
lo presiede, e 
da 
due 
avvocati 
dello Stato, nominati 
dall'Avvocato generale. Il 
mandato dei 
componenti dell'organismo dura tre anni ed è rinnovabile non più di una volta. 

TEMI 
ISTITUzIONALI 


Art. 14. 


Organizzazione delle strutture amministrative 
dell'Avvocatura generale dello Stato 


1. L'Avvocatura 
generale 
è 
articolata 
nei 
seguenti 
uffici 
dirigenziali 
di 
livello non generale: 
a) 
Ufficio I - Affari generali, programmazione e risorse umane; 
b) 
Ufficio II - Ragioneria, bilancio e trattamento economico; 
c) 
Ufficio III - Risorse strumentali e logistica; 
d) 
Ufficio lV - Contratti e documentazione giuridica; 
e) Ufficio V -Archivio e impianti; 
f) 
Ufficio VI - Servizi legali; 
g) 
Ufficio VII - Risorse informatiche e statistica; 
h) 
Ufficio VIII - Compensi professionali. 
2. 
Gli 
Uffici 
di 
cui 
al 
comma 
1 
sono 
articolati 
nei 
servizi 
di 
livello 
non 
dirigenziale 
secondo 
le disposizioni di cui all'articolo 15, cui sono preposti funzionari di area terza. 
3. 
L'articolazione 
dei 
servizi 
di 
cui 
all'articolo 15 trova 
applicazione 
presso le 
Avvocature 
distrettuali en tro limiti funzionali alla dimensione di ogni 
Avvocatura distrettuale. 
4. 
Gli 
Uffici 
di 
cui 
al 
comma 
1, nell'ambito delle 
rispettive 
competenze, assicurano adeguato 
supporto anche alle 
Avvocature distrettuali dello Stato. 
Art. 15. 
Attribuzioni degli Uffici e dei Servizi 
dell'Avvocatura generale dello Stato 


1. Gli Uffici e i Servizi sono articolati secondo quanto previsto dal presente articolo. 
2. 
L'Ufficio I -Affari 
generali, programmazione 
e 
risorse 
umane 
cura 
gli 
affari 
generali, 
la 
programmazione, 
la 
gestione 
del 
personale 
e 
della 
documentazione 
giuridica 
ed 
è 
articolato 
nei seguenti Servizi, con le competenze per ciascuno di seguito indicate: 
a) Servizio affari 
generali, organizzazione 
e 
meto do: 
ricezione, protocollo e 
smistamento 
della 
corrispon denza 
non riguardante 
affari 
legali; 
raccolta 
e 
conser vazione 
della 
normativa 
interna 
e 
degli 
atti 
relativi 
agli 
affari 
di 
Segreteria 
generale; 
relazioni 
con il 
pubblico, ai 
sensi 
dell'articolo 11 del 
decreto legislativo 30 mar zo 2001, n. 165; 
programmazione 
e 
pianificazione 
strategica 
dell'attività 
amministrativa 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato, 
anche 
mediante 
la 
predisposizione 
del 
piano della 
performance 
e 
la 
redazione 
della 
relazione 
annuale 
sulla 
performance 
e 
della 
direttiva 
annuale 
dell'Avvocato generale 
sull'azione 
amministrativa; 
misurazione 
della 
performance 
e 
dei 
risultati 
dell'attività 
amministrativa, 
anche 
in 
funzione 
di 
supporto dell'organismo di 
valutazione 
della 
performance 
di 
cui 
all'articolo 13; 
formulazione 
di 
proposte 
di 
miglioramento 
dell'azione 
amministrativa 
e 
del 
benessere 
organizzativo; 
ufficio 
di 
supporto del 
Responsabile 
della 
prevenzione 
della 
corruzione 
e 
della 
trasparenza, nonche 
del Responsabile della protezione dei dati personali; 
b) Servizio personale: 
gestione 
del 
personale, reclu tamento e 
trattamento giuridico degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello 
Stato 
e 
del 
personale 
amministrativo, 
formazione, 
disciplina, 
stato 
giuridico, 
gestione 
dei 
procedimenti 
disciplinari; 
predisposizione 
del 
piano 
dei 
fabbisogni; 
rapporti 
con 
le 
organizzazioni 
sindacali 
e 
contrattazione 
decentrata; 
svolgimento 
della 
pratica 
forense; 
conferimento di 
onorificenze; 
procedimento per il 
rilascio delle 
tessere 
di 
riconoscimento. 
Nell'ambito dell'ufficio è 
nominato il 
Responsabile 
dei 
processi 
di 
inserimento delle 
persone 
con disabilità, ai 
sensi 
dell'articolo 39-ter 
del 
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 
165. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


2. 
L'Ufficio II -Ragioneria, bilancio e 
trattamento economico cura 
la 
redazione 
del 
bilancio, 
la 
gestione 
dei 
capitoli 
e 
il 
trattamento 
economico 
del 
personale 
ed 
è 
articolato 
nei 
seguenti 
servizi, con le competenze per ciascuno di seguito indicate: 
a) 
Servizio ragioneria 
e 
bilancio: 
formazione 
e 
gestione 
dei 
capitoli 
di 
bilancio destinati 
all'acquisizione 
di 
beni 
e 
servizi; 
previsione 
e 
consuntivo delle 
spese 
di 
investimento e 
per 
consumi 
intermedi 
nell'ambito 
del 
bilancio 
finanziario 
ed 
economico; 
attività 
di 
coordinamento 
per la 
gestione 
del 
bilancio finanziario ed economico dell'Avvocatura 
dello Stato; 
gestione 
dei fondi spesa degli enti ed altri soggetti patrocinati e attività consequenziali; 
b) 
Servizio 
trattamento 
economico 
e 
di 
quiescenza 
degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello 
Stato: 
trattamento economico fondamentale 
e 
accessorio degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato in 
servizio; 
previsione, 
gestione 
e 
consuntivo 
delle 
spese 
di 
personale 
degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato nell'ambito del 
bilancio finanziario ed economico; 
accertamento dei 
servizi 
utili 
altrattamento di 
quiescenza 
e 
previdenza 
e 
alla 
liquidazione 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
e 
di 
fine rapporto degli avvocati e procuratori dello Stato; 
c) 
Servizio trattamento economico e 
di 
quiescenza 
del 
personale 
amministrativo e 
provvidenze 
economiche: 
trattamento economico fondamentale 
e 
accessorio del 
personale 
amministrativo 
in 
servizio; 
previsione, 
gestione 
e 
consuntivo 
delle 
spese 
di 
personale 
amministrativo 
nell'ambito 
del 
bilancio 
finanziario 
ed 
economico; 
accertamento 
dei 
servizi 
utili 
al 
trattamento 
di 
quiescenza 
e 
previdenza 
e 
alla 
liquidazione 
dei 
trattamenti 
pensionistici 
e 
di 
fine 
rapporto 
del 
personale 
amministrativo; 
adempimenti 
in materia 
di 
sussidi 
e 
altre 
provvidenze 
econo miche 
in favore degli avvocati e procuratori dello Stato e del personale amministrativo. 
4. 
L'Ufficio III -Risorse 
strumentali 
e 
logistica 
cura 
l’approvvigionamento e 
la 
manutenzione 
di 
beni 
e 
servizi, la 
vigilanza 
e 
la 
logistica 
ed è 
articolato nei 
seguenti 
ser vizi, con le 
competenze per ciascuno di seguito indicate: 
a) 
Servizio 
economato: 
riscossione 
e 
pagamento 
di 
somme 
di 
denaro, 
custodia 
valori 
e 
rendicontazione; 
richiesta 
di 
acquisizione 
dei 
beni 
mobili, dei 
servizi 
e 
rendicontazione; 
cura 
dei 
lavori 
di 
manutenzione 
ordinaria 
degli 
immobili 
sede 
dell'Avvocatura 
generale 
dello 
Stato 
nonché 
dei 
servizi 
di 
custodia, 
tecnici 
e 
di 
pulizia 
dei 
locali; 
telecomunicazioni; 
manutenzione 
delle apparecchiature multifunzione e dei veicoli di servizio; ritiro e spedizione posta; 
b) 
Servizi 
ausiliari: 
vigilanza, 
gestione 
delle 
esigenze 
logistiche 
e 
movimentazione, 
servizio 
automobilistico, servizio di portineria. centralino, fotocopie. 
5. 
L'Ufficio 
IV 
-Contratti 
e 
documentazione 
giuridica 
cura 
le 
procedure 
per 
l'acquisizione 
di 
beni 
e 
servizi 
nonché 
l'acquisizione 
e 
la 
conservazione 
di 
libri, 
riviste 
e 
banche 
dati 
informatiche 
ed 
è 
articolato 
nei 
seguenti 
servizi, 
con 
le 
competenze 
per 
ciascuno 
di 
seguito 
indicate: 
a) 
Servizio contratti: 
predisposizione 
e 
gestione 
delle 
procedure 
per le 
acquisizioni 
di 
lavori, 
servizi 
e 
forniture, 
anche 
informatici, 
di 
competenza 
dell'Avvocatura 
generale, 
tenuto 
conto 
del 
programma 
delle 
acquisizioni, 
nonché 
delle 
esigenze 
rappresentate 
dagli 
Uffici, 
anche 
in relazione 
alle 
scadenze 
contrattuali, nei 
limiti 
delle 
disponibilità 
di 
bilancio; 
acquisizione 
dagli 
Uffici 
dei 
capitolati 
tecnici 
relativi 
ai 
lavori, 
ai 
servizi 
e 
alle 
forniture 
da 
espletare, 
nonché 
di 
ogni 
ulteriore 
supporto 
tecnico, 
ove 
necessari; 
assolvimento 
degli 
obblighi 
di 
comunicazione 
all'Autorità 
nazionale 
anticorruzione 
e 
degli 
obblighi 
di 
pubblicità 
e 
di 
trasparenza 
inerenti ai procedimenti di competenza; 
b) 
Servizio documentazione 
giuridica: 
servizio di 
biblioteca, di 
banche 
dati 
professionali 
e 
acquisto 
di 
libri: 
adempimenti 
per 
la 
stampa 
o 
copia 
delle 
pubblicazioni 
di 
servizio; 
ricerche 
presso 
banche 
dati 
esterne; 
supporto 
per 
la 
pubblicazione 
della 
Rassegna 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato; 
attività 
di 
ricognizione 
e 
divulgazione 
delle 
novità 
normative 
e 
giurisprudenziali 
rile

TEMI 
ISTITUzIONALI 


vanti 
per 
lo 
svolgimento 
dell'attività 
istituzionale, 
anche 
in 
funzione 
di 
supporto 
degli 
altri 
Uffici. 


6. L'Ufficio V 
-Archivio e 
impianti 
cura 
la 
protocollazione 
e 
lo smistamento del 
flusso di 
corrispondenza 
ed atti 
giudiziari 
in entrata 
e 
in uscita 
ed è 
articolato nei 
seguenti 
servizi, con 
le competenze per ciascuno di seguito indicate: 
a) 
Servizio protocollo in entrata 
e 
impianti: 
adempimenti 
e 
lavorazioni 
relativi 
ad atti 
notificati, 
corrispon denza in arrivo, impianto affari; 
b) 
Servizio protocollo in uscita: 
adempimenti 
e 
lavo razioni 
relativi 
alla 
corrispondenza 
in 
partenza. 
7. L'Ufficio VI -Servizi 
legali 
cura 
le 
attività 
strumen tali 
e 
di 
supporto alla 
professione 
legale 
ed è articolato nei seguenti servizi, con le competenze per ciascuno di seguito indicate: 
a) 
Servizio collaborazione 
professionale: 
servizio di 
segreteria 
di 
avvocati 
e 
procuratori; 
redazione 
materiale 
di 
atti 
e 
lettere, espletamento delle 
attività 
telematiche 
di 
gestione 
e 
deposito 
di atti e documenti e di notificazione di atti e provvedimenti; 
b) 
Servizio attività 
esterna 
e 
agenda: 
adempimen ti 
interni 
ed esterni 
in materia 
di: 
notificazione 
di 
atti 
e 
provvedimenti, depositi, ricerche 
e 
altri 
incombenti 
presso le 
cancellerie 
e 
segreterie 
delle 
autorità 
giudiziarie; 
acquisizione 
e 
lavorazione 
sentenze 
o 
altri 
provvedimenti 
decisori; agenda e scadenziere; 
c) 
Servizio supporto all'Agente 
del 
Governo presso la 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo: 
adempimenti 
connessi 
alle 
attività 
istituzionali 
di 
competenza 
dell'Agente 
del 
Governo 
a 
difesa 
dello Stato italiano dinanzi alla Cor te europea dei diritti dell'uomo. 
8. L'Ufficio VII -Risorse 
informatiche 
e 
statistica 
cura 
l'attività 
di 
analisi 
statistica, pianificazione 
e 
sviluppo dei 
sistemi 
informatici 
e 
della 
digitalizzazione, anche 
a 
supporto, per le 
materie 
di 
competenza, 
del 
Responsabile 
per 
la 
transizione 
digitale, 
ed 
è 
articolato 
nei 
seguenti 
servizi, con le competenze per ciascuno di seguito indicate: 
a) 
Servizio statistica 
e 
pianificazione: 
analisi 
statistiche 
riferite 
al 
patrimonio dati 
dell'amministrazione, 
anche 
in funzione 
di 
supporto degli 
altri 
Uffici; 
programmazione 
degli 
interventi 
di 
sviluppo 
e 
manutenzione 
evolutiva 
dei 
sistemi 
informativi 
in 
coerenza 
con 
le 
strategie 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
verifica 
dei 
risultati 
pianificati; 
definizione 
di 
accordi 
e 
protocolli 
d'intesa 
con altre 
pubbliche 
amministrazioni; 
supporto, per le 
materie 
di 
competenza, al 
Responsabile 
per la transizione digitale; 
b) 
Servizio informatica 
e 
digitalizzazione: 
acquisizione 
delle 
risorse 
strumentali 
in ambito 
ICT 
(Information and Communication Technology); 
gestione 
e 
manu tenzione 
dei 
sistemi 
elaborativi, 
degli 
apparati 
di 
rete 
e 
di 
sicurezza, con i 
relativi 
software 
costituenti 
il 
sistema 
informativo 
dell'Avvocatura 
generale; 
analisi, sviluppo e 
formazione 
di 
software 
applicativo e 
gestionale, 
curando 
la 
progettazione 
e 
l'implementazione 
di 
tutte 
le 
architetture 
ICT; 
assistenza 
tecnica 
agli 
utenti 
dell'Avvocatura 
dello Stato relativamente 
alle 
apparecchiature 
e 
ai 
sistemi 
informatici. 
9. L'Ufficio VIII -Compensi 
professionali 
cura 
la 
liquidazione, il 
recupero e 
il 
riparto dei 
compensi 
professionali 
ed è 
articolato nei 
seguenti 
servizi, con le 
competenze 
per ciascuno 
di seguito indicate: 
a) 
Servizio 
liquidazione 
e 
recupero 
onorari: 
liquidazione 
e 
recupero 
onorari 
di 
competenza 
dell'Avvocatura 
generale 
dello Stato; 
istruttoria 
per onorari 
di 
competenza 
delle 
Avvocature 
distrettuali dello Stato; 
b) 
Servizio riparto onorari: 
rendicontazione 
e 
ripar to degli 
onorari 
di 
competenza 
dell'Avvocatura 
generale 
dello Stato; 
verifica 
dei 
rendiconti 
delle 
somme 
esatte 
a 
titolo di 
onorari 
di 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


causa 
e 
relativi 
riparti 
e 
liquidazione 
a 
favore 
degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato e 
del 
personale 
amministrativo 
avente 
diritto 
presso 
ciascun 
Ufficio 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato; 
riparto e 
liquidazione 
dei 
compensi 
affluiti 
al 
fondo perequativo degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato e al fondo perequativo del perso nale amministrativo. 


Art. 16. 


Uffici amministrativi unici distrettuali 


1. Presso ciascuna 
Avvocatura 
distrettuale 
dello Stato è 
istituito un Ufficio amministrativo 
unico, 
di 
livello 
dirigenziale 
non 
generale, 
per 
la 
gestione 
unificata 
dei 
servizi 
amministrativi, 
comunque 
nei 
limiti 
della 
vigente 
dotazione 
organica 
del 
personale 
dirigenziale 
di 
livello 
non 
generale. 
Art. 17. 


Disposizioni transitorie 


1. Le 
strutture 
esistenti 
alla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
presente 
decreto e 
i 
provvedimenti 
di 
attribuzione 
della 
titolarità 
degli 
organi 
e 
degli 
uffici 
in corso di 
efficacia 
alla 
medesima 
data 
sono fatti 
salvi 
fino alla 
definizione 
delle 
procedure 
di 
conferimento della 
titolarità 
delle 
strutture 
oggetto di 
riorganizzazione 
ai 
sensi 
del 
presente 
decreto. Fino alla 
conclusione 
delle 
procedure 
di 
conferimento della 
titolarità 
delle 
strutture 
oggetto di 
riorganizzazione 
ai 
sensi 
del 
presente 
decreto, 
le 
strutture 
già 
esistenti 
proseguono 
lo 
svolgimento 
delle 
ordinarie 
attività 
con le risorse umane e strumentali loro assegnate dalla normativa vigente. 
Art. 18. 
Disposizioni finali e abrogazioni 


1. Con decreti 
motivati 
dell'Avvocato generale, sulla 
base 
di 
criteri 
di 
economicità, funzionalità, 
accorpamento 
di 
funzioni 
omogenee 
ed 
eliminazione 
di 
duplicazioni 
funzionali, 
possono essere 
definiti 
in dettaglio i 
compiti 
degli 
Uffici 
dirigenziali 
stabiliti 
dal 
presente 
decreto 
e rideterminate le articolazioni dei servizi definite dal presente decreto. 
2. 
All'attuazione 
del 
presente 
decreto 
si 
provvede 
nell'ambito 
delle 
risorse 
umane, 
strumentali 
e 
finanziarie 
disponibili 
a 
legislazione 
vigente 
e 
senza 
nuovi 
o maggio ri 
oneri 
per la 
finanza pubblica. 
3. 
Il 
decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
5 luglio 1995, n. 333, è 
abrogato a 
decorrere 
dall'entrata in vigore del presente regolamento. 
Il 
presente 
decreto, 
munito 
del 
sigillo 
dello 
Stato, 
sarà 
inserito 
nella 
Raccolta 
ufficiale 
degli 
atti 
normativi 
della 
Repubblica 
italiana. È 
fatto obbligo a 
chiunque 
spetti 
di 
osservarlo e 
di 
farlo osservare. 


Dato a Roma, addì 29 ottobre 2021 


MATTARELLA 
DRAGHI, Presidente del 
Con siglio dei ministri 
BRUNETTA, Ministro per la 

pubblica amministrazio ne 
Visto, il Guardasigilli: CARTABIA 
Registrato alla Corte dei conti il 2 dicembre 2021 


Ufficio controllo atti 
P.C.M. Ministeri 
della giustizia e 
degli 
affari 
esteri 
e 
della cooperazione 
internazionale, reg.ne succ. n. 2876 



ContenzioSoComUnitarioedinternazionaLe
Corte di giustizia Ue: filiazione omogenitoriale, preminenza 
dell’interesse superiore del minore nel rispetto della identità 
nazionale e costituzionale di ciascun 
Stato membro. 
Le osservazioni del Governo italiano 


Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
europea, Grande 
sezione, 
sentenza 
14 diCembre 
2021, Causa 
C-490/20 


CT 38148/20 Avv. Ferrante 


CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA 


OSSERVAZIONI 


del 
GOVERNO 
DELLA 
REPUBBLICA 
ITALIANA, in persona 
dell’Agente 
designato 
per 
il 
presente 
giudizio, 
domiciliato 
presso 
l’Ambasciata 
d’Italia 
a 
Lussemburgo 


nella causa C-490/20 
promossa 
ai 
sensi 
dell’art. 267 TFUE 
con ordinanza 
del 
2 ottobre 
2020 
del 
Administrativen sad Sofia-grad - Bulgaria. 
** ** ** 


1. 
Con 
l’ordinanza 
in 
epigrafe, 
è 
stato 
chiesto 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
europea 
di 
pronunciarsi, 
ai 
sensi 
dell’art. 
267 
TFUE, 
sulle 
seguenti 
questioni pregiudiziali: 
1. 
se 
l’articolo 20 tFue 
e 
l’articolo 21 tFue 
nonché 
gli 
articoli 
7, 24 
e 
45 della Carta dei 
diritti 
fondamentali 
dell’unione 
europea debbano essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
non 
consentono 
alle 
autorità 
amministrative 
bulgare, 
presso le 
quali 
è 
stata presentata una domanda di 
certificazione 
della nascita 
di 
un 
bambino 
con 
nazionalità 
bulgara 
avvenuta 
in 
un 
altro 
stato 
membro 
dell’unione, 
che 
è 
stata 
attestata 
da 
un 
certificato 
di 
nascita 
spagnolo, 
nel 
quale 
due 
persone 
di 
sesso femminile 
sono registrate 
come 
madri, senza precisare 
ulteriormente 
se 
una di 
loro, e 
in caso affermativo quale, sia la madre 
biologica del 
bambino, di 
rifiutare 
il 
rilascio di 
un certificato di 
nascita bul

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


garo con la motivazione 
che 
la ricorrente 
si 
rifiuta di 
indicare 
chi 
è 
la madre 
biologica del bambino. 

2. 
se 
l’articolo 4, paragrafo 2, tue 
e 
l’articolo 9 della Carta dei 
diritti 
fondamentali 
dell’unione 
europea debbano essere 
interpretati 
nel 
senso che 
la 
salvaguardia 
dell’identità 
nazionale 
e 
dell’identità 
costituzionale 
degli 
stati 
membri 
dell’unione 
significa 
che 
questi 
ultimi 
dispongono 
di 
un’ampia 
discrezionalità 
con riferimento alle 
disposizioni 
per 
l’accertamento della filiazione. 
in particolare: 
-se 
l’articolo 4, paragrafo 2, tue 
debba essere 
interpretato nel 
senso 
che 
consente 
agli 
stati 
membri 
di 
richiedere 
informazioni 
sulla discendenza 
biologica del bambino; 
-se 
l’articolo 4, paragrafo 2, tue 
in combinato disposto con l’articolo 
7 
e 
l’articolo 
24, 
paragrafo 
2, 
della 
Carta 
debba 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
è 
imprescindibile 
ponderare, 
da 
una 
parte, 
l’identità 
nazionale 
e 
l’identità 
costituzionale 
di 
uno 
stato 
membro 
e, 
dall’altra, 
l’interesse 
superiore 
del 
bambino 
nell’intento di 
bilanciare 
gli 
interessi, tenuto conto del 
fatto che 
attualmente 
non sussiste 
un consenso né 
dal 
punto di 
vista dei 
valori 
né 
da quello 
giuridico sulla possibilità di 
far 
registrare 
come 
genitori 
in un certificato di 
nascita 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
senza 
precisare 
ulteriormente 
se 
uno 
di 
loro, 
e 
in 
caso 
affermativo 
quale, 
sia 
il 
genitore 
biologico 
del 
bambino. 
in 
caso di 
risposta positiva a tale 
domanda, come 
si 
possa realizzare 
concretamente 
detto bilanciamento di interessi. 
3. 
se 
le 
conseguenze 
giuridiche 
della 
brexit 
siano 
rilevanti 
per 
la 
risposta 
alla 
prima 
questione 
in 
quanto 
una 
delle 
madri, 
che 
è 
indicata 
nel 
certificato 
di 
nascita 
rilasciato 
in 
un 
altro 
stato 
membro, 
è 
cittadina 
del 
regno 
unito, 
l’altra 
madre 
è 
cittadina 
di 
uno 
stato 
membro 
dell’unione, 
se 
si 
considera 
in 
particolare 
che 
il 
rifiuto 
di 
rilasciare 
un 
certificato 
di 
nascita 
bulgaro 
del 
bambino 
rappresenta 
un 
ostacolo 
per 
il 
rilascio 
di 
un 
certificato 
di 
identità 
del 
bambino 
da 
parte 
di 
uno 
stato 
membro 
dell’unione 
e, 
di 
conseguenza, 
rende 
eventualmente 
più 
difficile 
il 
pieno 
esercizio 
dei 
suoi 
diritti 
come 
cittadino 
dell’unione. 
4. 
se, 
in 
caso 
di 
risposta 
affermativa 
alla 
prima 
questione, 
il 
diritto 
dell’unione, 
in 
particolare 
il 
principio 
di 
effettività, 
obblighi 
le 
competenti 
autorità nazionali 
a discostarsi 
dal 
modello per 
la redazione 
di 
un certificato 
di nascita, che è parte costitutiva del diritto nazionale vigente. 
esposizione dei fatti di causa 


2. 
La 
questione 
pregiudiziale 
sollevata 
dal 
Tribunale 
amministrativo 
Bulgaro 
riguarda 
la 
conformità 
agli 
artt. 
20 
e 
21 
TFUE 
nonché 
agli 
artt. 
7, 
24 
e 
45 
della 
Carta 
di 
Nizza 
della 
legislazione 
Bulgara, 
che 
preclude 
il 
rilascio, 
da 
parte 
del 
Comune 
di 
Sofia, 
di 
un 
certificato 
di 
nascita 
di 
un 
minore, 
nato 
in 
Spagna 
nel 
2019 
ed 
ivi 
soggiornante, 
dal 
quale 
risultino 
come 
madri 
due 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
una 
cittadina 
bulgara, 
anch’essa 
soggiornante 
in 
Spagna, 
e 
una 
cittadina 
britannica 
che 
hanno 
contratto 
matrimonio 
nel 
Regno 
Unito. 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


3. 
Nel 
certificato di 
nascita 
rilasciato in Spagna, risultano, quali 
genitori, 
due 
persone 
di 
sesso femminile: 
la 
cittadina 
bulgara, designata 
come 
"madre 
A", e la cittadina del Regno Unito, indicata come "madre". 
4. 
La 
cittadina 
bulgara 
ricorrente 
ha 
richiesto 
alle 
competenti 
autorità 
bulgare 
il 
rilascio di 
un certificato di 
nascita 
del 
minore, sulla 
base 
dell'estratto 
del certificato di nascita di cui sopra. 
5. 
Il 
Comune 
di 
Sofia, competente 
per la 
registrazione, ha 
assegnato alla 
ricorrente 
un termine 
per la 
presentazione 
delle 
prove 
della 
discendenza 
genetica 
del bambino rispetto alla sua madre biologica. 
6. 
Tale 
informazione 
non è 
stata 
fornita 
in quanto, ad avviso della 
ricorrente, 
non 
vi 
è 
obbligo 
in 
tal 
senso 
alla 
luce 
della 
pertinente 
normativa 
vigente 
in Bulgaria. 
7. 
Conseguentemente, il 
Comune 
di 
Sofia 
ha 
rifiutato di 
redigere 
il 
certificato 
di nascita. 
8. 
La 
legislazione 
bulgara 
prevede, 
come 
quella 
italiana, 
che 
si 
considera 
madre 
chi 
ha 
partorito 
il 
nato; 
entrambe 
le 
normative 
non 
prevedono 
il 
matrimonio 
tra 
persone 
dello 
stesso 
sesso 
(quella 
bulgara 
non 
contempla 
nemmeno 
forme 
di 
unione 
civile 
da 
cui 
derivino 
effetti 
giuridici) 
e, 
analogamente, 
non 
prevedono 
il 
riconoscimento 
di 
una 
filiazione 
da 
parte 
di 
persone 
dello 
stesso 
sesso. 
9. 
Contro 
il 
rifiuto 
di 
rilasciare 
il 
certificato 
di 
nascita 
recante 
l’indicazione 
di 
due 
madri 
è 
stato 
presentato 
ricorso 
al 
tribunale 
amministrativo 
al 
fine 
di 
ottenere 
un 
ordine 
a 
carico 
del 
Comune 
di 
Sofia 
di 
redigere 
detto 
certificato. 
10. 
Le 
ragioni 
dell'amministrazione 
si 
basano 
sul 
fatto 
che 
non 
sussistono 
dati 
sufficienti 
sulla 
discendenza 
del 
bambino 
in 
relazione 
alla 
madre 
biologica 
e 
che 
la 
legislazione 
bulgara 
vigente 
non consente 
la 
registrazione 
di 
due 
genitori 
entrambi 
di 
sesso femminile 
(o entrambi 
di 
sesso maschile) nel 
certificato 
di 
nascita 
di 
un 
bambino, 
atteso 
che 
in 
Bulgaria 
è 
attualmente 
inammissibile 
il 
matrimonio tra 
persone 
dello stesso sesso, per cui 
non è 
neppure 
possibile 
registrare 
due 
genitori 
dello stesso sesso nell'atto di 
nascita, in 
quanto ciò contrasterebbe con l'ordine pubblico. 
11. Secondo la 
parte 
ricorrente, invece, in base 
alle 
norme 
di 
diritto internazionale 
privato 
vigenti 
in 
Bulgaria 
e 
in 
base 
alla 
pertinente 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
giustizia, in questo caso, non potrebbe 
essere 
sollevato il 
limite 
dell'ordine pubblico. 
12. 
Inoltre 
la 
decisione 
impugnata 
costituirebbe 
un'interferenza 
illecita 
nella 
vita 
privata 
della 
richiedente, così 
come 
nel 
diritto, suo e 
della 
cittadina 
britannica, 
alla 
vita 
privata 
e 
familiare, 
nella 
misura 
in 
cui 
è 
stata 
richiesta 
una 
prova sulla discendenza biologica del figlio. 
normativa dell’Unione. 


13. 
L’art. 
20 
del 
TFUE 
istituisce 
la 
cittadinanza 
dell’Unione 
e 
stabilisce 
che 
“è 
cittadino 
dell’unione 
chiunque 
abbia 
la 
cittadinanza 
di 
uno 
stato 
membro”. 
14. L’art. 21 del 
TFUE 
prevede 
che 
“ogni 
cittadino dell’unione 
ha il 
di

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


ritto 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
stati 
membri, 
fatte 
salve 
le 
limitazioni 
e 
le 
condizioni 
previste 
dai 
trattati 
e 
dalle 
disposizioni 
adottate in applicazione degli stessi”. 


15. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
7 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea, 
c.d. Carta 
di 
Nizza, “ogni 
individuo ha diritto al 
rispetto della propria 
vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”. 
16. L’art. 9 della 
Carta 
di 
Nizza 
dispone 
che 
“il 
diritto di 
sposarsi 
e 
il 
diritto 
di 
costituire 
una famiglia sono garantiti 
secondo le 
leggi 
nazionali 
che 
ne disciplinano l’esercizio” (enfasi aggiunta). 
17. L’art. 24 della 
Carta 
di 
Nizza 
sui 
diritti 
del 
bambino prevede 
che 
“1. 
i bambini 
hanno diritto alla protezione 
e 
alle 
cure 
necessarie 
per 
il 
loro benessere. 
essi 
possono 
esprimere 
liberamente 
la 
propria 
opinione; 
questa 
viene 
presa 
in 
considerazione 
sulle 
questioni 
che 
li 
riguardano 
in 
funzione 
della 
loro età e 
della loro maturità. 2. in tutti 
gli 
atti 
relativi 
ai 
bambini, siano essi 
compiuti 
da autorità pubbliche 
o da istituzioni 
private, l’interesse 
superiore 
del 
bambino deve 
essere 
considerato preminente. 3. ogni 
bambino ha diritto 
di 
intrattenere 
regolarmente 
relazioni 
personali 
e 
contatti 
diretti 
con 
i 
due 
genitori, 
salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”. 
18. A 
norma 
dell’art. 45 della 
Carta 
di 
Nizza, recante 
libertà 
di 
circolazione 
e 
di 
soggiorno, “1. ogni 
cittadino dell’unione 
ha il 
diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio degli 
stati 
membri. 2. la libertà 
di 
circolazione 
e 
di 
soggiorno 
può 
essere 
accordata, 
conformemente 
al 
trattato 
che 
istituisce 
la Comunità europea, ai 
cittadini 
dei 
paesi 
terzi 
che 
risiedono 
legalmente nel territorio di uno stato membro”. 
19. 
L’art. 
4, 
paragrafo 
2 
del 
TUE 
stabilisce 
che 
“l’unione 
rispetta 
l’uguaglianza 
degli 
stati 
membri 
davanti 
ai 
trattati 
e 
la 
loro 
identità 
nazionale 
insita 
nella loro struttura fondamentale, politica e 
costituzionale, compreso il 
sistema 
delle autonomie locali e regionali. rispetta le funzioni essenziali dello 
stato, in particolare 
le 
funzioni 
di 
salvaguardia dell’integrità territoriale, di 
mantenimento 
dell’ordine 
pubblico 
e 
di 
tutela 
della 
sicurezza 
nazionale. 
in 
particolare, la sicurezza nazionale 
resta di 
esclusiva competenza di 
ciascuno 
stato membro” (enfasi aggiunta). 
risposta al primo quesito 


20. 
Con 
il 
primo 
quesito, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
chiede 
in 
sostanza 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
di 
chiarire 
se 
gli 
articoli 
20 
(cittadinanza 
dell’Unione) 
e 
21 
(diritto 
di 
circolazione 
e 
di 
soggiorno 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri) 
TFUE 
e 
gli 
articoli 
7 
(rispetto 
della 
vita 
privata 
e 
familiare), 
24 
(diritti 
del 
fanciullo) 
e 
45 
(libertà 
di 
circolazione 
e 
stabilimento) 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
impediscano 
alle 
autorità 
amministrative 
bulgare 
di 
rifiutare 
il 
rilascio 
del 
certificato 
di 
nascita 
di 
un 
bambino 
nato 
in 
un 
altro 
Stato 
membro 
del-
l'Unione, 
per 
il 
quale 
le 
autorità 
di 
questo 
Stato 
hanno 
registrato 
due 
madri, 
senza 
precisare 
quale 
delle 
due 
sia 
la 
madre 
biologica, 
adducendo 
(le 
autorità 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


bulgare) 
quale 
motivo 
ostativo 
la 
mancata 
indicazione, 
da 
parte 
della 
richiedente, 
della 
madre 
biologica. 


21. Il 
giudice 
del 
rinvio ritiene 
che 
il 
caso ricada 
nell'ambito di 
applicazione 
del 
diritto dell'Unione 
in quanto il 
minore 
è 
figlio di 
un cittadino del-
l'Unione 
che 
soggiorna 
legalmente 
nel 
territorio di 
un altro Stato membro ed 
ha quindi anche motivo di invocare il diritto alla libera circolazione. 
22. Il 
rifiuto di 
rilasciare 
un certificato di 
nascita, necessario per ottenere 
un documento di identità, influirebbe sull'esercizio di tale diritto. 
23. Le 
ragioni 
del 
rifiuto si 
fondano nella 
concezione 
della 
famiglia 
tradizionale, 
radicata 
nella 
Costituzione 
bulgara, e 
che 
trova 
espressione 
nel 
codice 
del 
diritto 
di 
famiglia, 
che 
prevede 
che 
la 
madre 
del 
bambino 
sia 
la 
donna 
che lo ha partorito, anche nel caso di "procreazione artificiale". 
24. 
La 
legge 
nazionale, 
coerentemente 
con 
tale 
impostazione, 
prevede 
che 
l'ufficiale 
di 
stato 
civile 
deve 
redigere 
l'atto 
di 
nascita 
inserendo 
alcuni 
dati 
tra 
i 
quali 
la 
"discendenza 
accertata". 
A 
tal 
fine, 
vengono 
predisposti, 
dalle 
competenti 
autorità, 
modelli 
di 
atti 
dello 
stato 
civile 
che 
impongono, 
senza 
possibilità 
di 
operare 
una 
scelta 
diversa, 
di 
indicare 
la 
"madre" 
e 
il 
"padre", 
sicché 
in 
questo 
caso 
non 
sarebbe 
tecnicamente 
possibile 
rilasciare 
il 
certificato. 
25. Tuttavia, il 
giudice 
si 
interroga 
sulla 
proporzionalità 
dell'impatto di 
questo rifiuto sull'interesse 
del 
minore 
all'esercizio dei 
suoi 
diritti 
di 
cittadino 
europeo. Sul 
punto il 
giudice 
rileva 
che 
"questo rifiuto non ha 
alcun effetto 
giuridico sulla cittadinanza bulgara del bambino". 
26. Il 
Governo italiano ritiene 
di 
dare 
risposta 
negativa 
al 
primo quesito. 
27. Si 
reputa 
infatti 
che 
l’articolo 20 TFUE 
e 
l’articolo 21 TFUE 
nonché 
gli 
articoli 
7, 24 e 
45 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
debbano essere 
interpretati 
nel 
senso che 
non ostino al 
rifiuto da 
parte 
delle 
autorità 
amministrative 
bulgare 
-presso 
le 
quali 
è 
stata 
presentata 
una 
domanda 
di 
certificazione 
della 
nascita 
di 
un bambino con nazionalità 
bulgara 
avvenuta 
in 
un 
altro 
Stato 
membro 
dell’Unione, 
che 
è 
stata 
attestata 
da 
un 
certificato 
di 
nascita 
spagnolo, 
nel 
quale 
due 
persone 
di 
sesso 
femminile 
sono 
registrate 
come 
madri, 
senza 
precisare 
ulteriormente 
se 
una 
di 
loro, 
e 
in 
caso 
affermativo quale, sia 
la 
madre 
biologica 
del 
bambino -di 
rilasciare 
un certificato 
di 
nascita 
bulgaro con la 
motivazione 
che 
la 
ricorrente 
si 
rifiuta 
di 
indicare 
chi è la madre biologica del bambino. 
28. 
La 
questione 
posta 
dal 
tribunale 
del 
rinvio, 
come 
chiarito 
dallo 
stesso, 
non 
risulta 
essere 
stata 
ancora 
affrontata, 
nei 
medesimi 
e 
peculiari 
termini, 
dalla Corte di giustizia. 
29. Essa 
essenzialmente 
verte 
sulla 
possibilità 
di 
affermare 
l'esistenza 
di 
un 
diritto 
ad 
ottenere 
la 
registrazione 
di 
un 
atto 
di 
nascita 
di 
un 
minore 
recante 
l’indicazione 
di 
due 
madri, tacendo sulle 
circostanze 
che 
hanno portato alla 
sua 
nascita 
e, 
in 
particolare, 
all'esistenza 
di 
un 
legame 
biologico 
o 
quantomeno 
"intenzionale", nell'ambito di 
un progetto di 
procreazione 
medicalmente 
assi

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


stita 
o anche 
di 
maternità 
surrogata 
(non essendo specificato, come 
dato atto 
dal 
giudice 
bulgaro, se 
sia 
stato fatto ricorso a 
tale 
pratica), tra 
le 
persone 
che 
si dichiarano genitori e il nato. 


30. 
Al 
riguardo, 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU, 
pur 
riconoscendo 
alla 
coppia 
omosessuale 
il 
diritto al 
rispetto della 
vita 
privata, anche 
familiare, ed 
includendo in tale 
nozione 
anche 
il 
diritto al 
rispetto della 
decisione 
di 
diventare 
genitore 
e 
del 
modo di 
diventarlo (cfr. Corte 
EDU, 16 gennaio 2018, Nedescu 
c. Romania; 
27 agosto 2015, Parrillo c. Italia; 
28 agosto 2012, Costa 
e 
Pavan c. Italia), ha 
escluso la 
possibilità 
di 
ravvisare 
un trattamento discriminatorio 
nella 
legge 
nazionale 
che 
attribuisca 
alla 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
finalità 
esclusivamente 
terapeutiche, riservando alle 
coppie 
eterosessuali 
sterili 
il 
ricorso 
alle 
relative 
tecniche 
(cfr. 
Corte 
EDU, 
sent. 
15 
marzo 
2012, 
Gas 
e 
Dubois 
c. 
Francia), 
ed 
ha 
riconosciuto 
che 
in 
tale 
materia 
gli 
Stati 
godono 
di 
un 
ampio 
margine 
di 
apprezzamento, 
soprattutto 
con 
riguardo 
a 
quei 
profili 
in 
relazione 
ai 
quali 
non 
si 
riscontra 
un 
generale 
consenso 
a 
livello 
Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3 novembre 2011, S.H. c. Austria). 
31. 
Quanto 
poi 
all'interesse 
del 
minore, 
la 
Corte 
EDU, 
pur 
osservando 
che 
il 
mancato riconoscimento del 
rapporto di 
filiazione 
è 
destinato inevitabilmente 
ad incidere 
sulla 
vita 
familiare 
del 
minore, ha 
escluso la 
configurabilità 
di 
una 
violazione 
del 
diritto al 
rispetto della 
stessa, ove 
sia 
assicurata 
in 
concreto 
la 
possibilità 
di 
condurre 
un'esistenza 
paragonabile 
a 
quella 
delle 
altre 
famiglie 
(cfr. Corte 
EDU, sent. 26 giugno 2014, mennesson e 
Labassee 
c. Francia). 
32. 
Tali 
principi 
non 
sembrano 
essere 
stati 
contraddetti 
dal 
recente 
parere 
della Grande Camera della Corte EDU del 10 aprile 2019. 
33. 
Invero, 
al 
di 
là 
del 
valore 
giuridico 
non 
vincolante 
del 
suddetto 
parere 
ai 
sensi 
del 
Protocollo 16, soprattutto per paesi 
come 
la 
Bulgaria 
e 
l’Italia 
che 
non 
lo 
ha 
ratificato, 
non 
pare 
che 
lo 
stesso 
abbia 
una 
portata 
innovativa 
rispetto 
alla precedente giurisprudenza in materia della stessa Corte. 
34. 
Non 
sembra, 
in 
particolare, 
che 
la 
Corte 
EDU 
abbia 
ridotto 
il 
margine 
di 
apprezzamento 
riservato 
agli 
Stati 
contraenti, 
essendosi 
limitata 
ad 
argomentare 
ulteriormente 
in 
ordine 
al 
rapporto 
tra 
l'articolo 
8 
CEDU 
e 
il 
superiore 
interesse 
del 
minore 
ribadendo, come 
già 
detto nella 
sentenza 
del 
26 giugno 
2014 
resa 
sui 
casi 
menesson 
e 
Labassée 
c. 
Francia, 
che 
gli 
Stati 
contraenti 
non sono tenuti 
a 
riconoscere 
un rapporto di 
filiazione 
con il 
genitore 
d’intenzione, 
ma 
a 
prevedere 
una 
via 
legale 
effettivamente 
percorribile, alternativa 
al 
riconoscimento dell'atto di 
nascita, nell'ambito della 
quale 
possa 
essere 
valutato 
in concreto ed anche 
a 
distanza 
di 
tempo rispetto alla 
nascita, se 
tale 
legame 
meriti di essere riconosciuto nel superiore interesse del minore. 
35. La 
Corte 
EDU 
ricorda, in tale 
occasione, che 
il 
riconoscimento del 
rapporto di 
filiazione 
con il 
genitore 
committente 
di 
maternità 
surrogata 
non 
sempre 
può essere 
considerato di 
per sé 
nell'interesse 
del 
minore 
e 
richiama 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


espressamente 
il 
caso Paradiso e 
Campanelli 
c. Italia 
(sentenza 
della 
Grande 
Camera del 24 gennaio 2017). 


36. Non pare 
pertanto potersi 
ricavare 
dal 
citato parere 
un effettivo ribaltamento 
dei 
principi 
enunciati 
nei 
casi 
menesson 
e 
Labassée 
quanto 
ai 
margini 
di 
apprezzamento degli 
Stati 
contraenti 
e 
quanto alla 
conformità 
all'articolo 8 
della 
Convenzione 
del 
rifiuto di 
riconoscere 
e 
trascrivere 
l'atto di 
nascita 
con 
riferimento alla filiazione tra genitore non biologico e minore. 
risposta al secondo quesito 


37. 
Con 
il 
secondo 
quesito, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
chiede 
se 
l'articolo 
9 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
(diritto 
a 
contrarre 
matrimonio 
e 
a 
costituire 
una 
famiglia) 
e 
l'articolo 
4, 
paragrafo 
2 
TUE 
(rispetto 
dell’identità 
nazionale 
degli 
Stati 
membri), 
consentano 
agli 
Stati 
membri 
di 
chiedere 
informazioni 
sulla 
discendenza 
biologica 
del 
bambino 
e 
se 
si 
debbano 
bilanciare, 
da 
un 
lato, 
l'identità 
nazionale 
e 
costituzionale 
dello 
Stato 
membro 
e, 
dall'altro, 
l'interesse 
superiore 
del 
minore 
considerando 
che 
in 
Bulgaria 
non 
vi 
è, 
al 
momento, 
una 
visione 
valoriale 
o 
giuridica 
condivisa 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
stessa 
di 
registrare 
come 
genitori 
due 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
e 
senza 
che 
sia 
precisato 
se 
una 
di 
loro, 
e 
in 
caso 
affermativo 
quale, 
sia 
il 
genitore 
biologico 
del 
bambino. 
38. 
In 
caso 
di 
risposta 
positiva 
a 
tale 
domanda 
il 
giudice 
chiede 
alla 
Corte 
di 
indicare 
i 
criteri 
in 
base 
ai 
quali 
condurre, 
in 
concreto, 
questo 
bilanciamento 
di interessi. 
39. Il Governo italiano ritiene di rispondere positivamente al quesito. 
40. Come 
si 
è 
visto, l’art. 9 della 
Carta 
di 
Nizza 
rinvia 
alle 
legislazioni 
nazionali per la disciplina del diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. 
41. Dal 
canto suo, l’art. 4, paragrafo 2 TUE 
sancisce 
il 
rispetto dell’identità 
nazionale 
degli 
Stati 
membri 
insita 
nella 
loro struttura 
fondamentale, politica 
e costituzionale. 
42. 
In 
tale 
contesto, 
non 
può 
che 
sostenersi 
un’interpretazione 
delle 
citate 
norme 
unionali 
che 
salvaguardi 
il 
margine 
di 
apprezzamento 
riservato 
agli 
Stati 
membri 
in 
una 
materia 
eticamente 
sensibile 
quale 
quella 
oggetto 
del 
giudizio, 
nel rispetto dei valori costituzionali di ciascuno di essi. 
43. Al 
riguardo, con la 
sentenza 
n. 221 del 
2019, pronunciata 
proprio in 
un caso di 
filiazione 
da 
parte 
di 
una 
coppia 
omosessuale 
di 
sesso femminile, 
la 
Corte 
costituzionale 
italiana 
ha 
affermato la 
conformità 
al 
dettato costituzionale 
della 
legge 
n. 40/2004 nella 
parte 
in cui 
non consente 
il 
ricorso alle 
tecniche 
di 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
alle 
coppie 
formate 
da 
due 
persone di sesso femminile. 
44. In proposito, la 
Corte 
Costituzionale, nella 
citata 
sentenza, ha 
affermato 
che 
l'infertilità 
"fisiologica" 
della 
coppia 
omosessuale 
non 
è 
affatto 
omologabile 
all'infertilità 
(di 
tipo 
assoluto 
e 
irreversibile) 
della 
coppia 
eterosessuale 
affetta 
da 
patologie 
riproduttive: 
così 
come 
non lo è 
l'infertilità 
"fisiologica" 
della 
donna 
sola 
e 
della 
coppia 
eterosessuale 
in età 
avanzata. Si 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


tratta 
di 
fenomeni 
chiaramente 
e 
ontologicamente 
distinti. L'esclusione 
dalla 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
delle 
coppie 
formate 
da 
due 
donne 
non 
è, dunque, fonte 
di 
alcuna 
distonia 
e 
neppure 
di 
una 
discriminazione 
basata 
sull'orientamento sessuale. 


45. In questo senso, ricorda 
detta 
sentenza, si 
è, del 
resto, specificamente 
espressa 
anche 
la 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo. 
Essa 
ha 
affermato, 
infatti, 
che 
una 
legge 
nazionale 
che 
riservi 
l'inseminazione 
artificiale 
a 
coppie 
eterosessuali 
sterili, attribuendole 
una 
finalità 
terapeutica, non può essere 
considerata 
fonte 
di 
una 
ingiustificata 
disparità 
di 
trattamento 
nei 
confronti 
delle 
coppie 
omosessuali, rilevante 
agli 
effetti 
degli 
artt. 8 e 
14 CEDU: 
ciò, proprio 
perché 
la 
situazione 
delle 
seconde 
non 
è 
paragonabile 
a 
quella 
delle 
prime 
(Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo, sentenza 
15 marzo 2012, Gas 
e 
Dubois 
contro Francia). 
46. 
Quanto 
al 
superiore 
interesse 
del 
minore, 
la 
Corte 
Costituzionale, 
nella 
citata 
sentenza, ha 
chiarito che 
di 
certo, non può considerarsi 
irrazionale 
e 
ingiustificata, in termini 
generali, la 
preoccupazione 
legislativa 
di 
garantire, 
a 
fronte 
delle 
nuove 
tecniche 
procreative, il 
rispetto delle 
condizioni 
ritenute 
migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. 
47. 
In 
questa 
prospettiva, 
l'idea, 
sottesa 
alla 
disciplina 
in 
esame, 
che 
una 
famiglia 
ad 
instar 
naturae 
-due 
genitori, 
di 
sesso 
diverso, 
entrambi 
viventi 
e 
in 
età 
potenzialmente 
fertile 
-rappresenti, 
in 
linea 
di 
principio, 
il 
"luogo" 
più 
idoneo 
per 
accogliere 
e 
crescere 
il 
nuovo 
nato 
non 
può 
essere 
considerata, 
a 
sua 
volta, 
di 
per 
sé 
arbitraria 
o 
irrazionale. 
E 
ciò 
a 
prescindere 
dalla 
capacità 
della 
donna 
sola, 
della 
coppia 
omosessuale 
e 
della 
coppia 
eterosessuale 
in 
età 
avanzata 
di 
svolgere 
validamente 
anch'esse, 
all'occorrenza, 
le 
funzioni 
genitoriali. 
48. Nell'esigere, in particolare, per l'accesso alla 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
la 
diversità 
di 
sesso dei 
componenti 
della 
coppia 
-condizione 
peraltro 
chiaramente 
presupposta 
dalla 
disciplina 
costituzionale 
della 
famiglia 
-il 
legislatore 
ha 
tenuto conto, d'altronde, anche 
del 
grado di 
accettazione 
del 
fenomeno della 
cosiddetta 
“omogenitorialità” 
nell'ambito della 
comunità 
sociale, 
ritenendo che, all'epoca 
del 
varo della 
legge, non potesse 
registrarsi 
un 
sufficiente consenso sul punto. 
49. 
In 
proposito, 
va 
evidenziato 
che 
l’accesso 
alle 
tecniche 
di 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
costituisce 
un prius 
rispetto alla 
trascrivibilità 
di 
un atto di 
nascita 
di 
altro Stato membro o di 
paese 
terzo recante 
l’indicazione 
di due madri o di due padri, che costituisce un posterius. 
50. 
Al 
riguardo, 
la 
Corte 
costituzionale 
italiana, 
con 
la 
sentenza 
n. 
230 
del 
2020 
ha 
dichiarato 
inammissibile 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
legge 
n. 
76 
del 
2016 
sulle 
unioni 
civili 
e 
del 
D.P.R. 
n. 
396 
del 
2000 
sull’ordinamento 
dello 
Stato 
civile 
nella 
parte 
in 
cui 
non 
consentono 
l’indicazione 
nell’atto 
di 
nascita 
di 
un 
minore 
di 
due 
madri, 
di 
cui 
una 
biologica 
e 
l’altra 
“intenzionale”. 
51. La 
Corte 
costituzionale, pur avendo posto in risalto la 
libertà 
e 
la 
vo

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


lontarietà 
dell'atto che 
consente 
di 
diventare 
genitori, ha 
riconosciuto che 
tale 
valore 
dev'essere 
bilanciato 
con 
altri 
valori 
costituzionalmente 
protetti, 
soprattutto 
quando, 
come 
nella 
specie, 
si 
discuta 
della 
scelta 
di 
ricorrere 
a 
tecniche 
che, alterando le 
dinamiche 
naturalistiche 
del 
processo di 
generazione 
degli 
individui, 
aprono 
scenari 
affatto 
innovativi 
rispetto 
ai 
paradigmi 
della 
genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale. 


52. Precisato inoltre 
che 
la 
possibilità, dischiusa 
dai 
progressi 
scientifici 
e 
tecnologici, di 
una 
scissione 
tra 
atto sessuale 
e 
procreazione, mediata 
dal-
l'intervento del 
medico, pone 
il 
problema 
di 
stabilire 
se 
il 
desiderio di 
avere 
un figlio tramite 
l'uso delle 
tecnologie 
meriti 
di 
essere 
soddisfatto sempre 
e 
comunque, ovvero se 
sia 
giustificabile 
la 
previsione 
di 
specifiche 
condizioni 
di 
accesso alle 
pratiche 
considerate, soprattutto in 
una prospettiva di 
salvaguardia 
dei 
diritti 
del 
concepito 
e 
del 
nato, 
si 
ritiene 
che 
il 
compito 
di 
ponderare 
gli 
interessi 
in 
gioco 
e 
di 
trovare 
un 
equilibrio 
tra 
le 
diverse 
istanze, 
tenendo conto degli 
orientamenti 
maggiormente 
diffusi 
all’interno del 
tessuto 
sociale 
nel 
singolo momento storico, spetti 
in 
via primaria al 
legislatore 
di 
ciascuno Stato membro, quale interprete della collettività nazionale. 
53. 
Alla 
luce 
di 
tali 
principi, 
si 
reputa 
quindi 
che 
legittimamente 
uno 
Stato 
membro 
possa 
richiedere 
informazioni 
sulla 
discendenza 
biologica 
del 
bambino. 
54. 
Nel 
caso 
di 
specie, 
considerando 
che 
la 
legge 
bulgara 
considera 
madre 
colei 
che 
partorisce 
il 
bambino e 
che, ciononostante, la 
ricorrente 
si 
è 
rifiutata 
di 
indicare 
se 
una 
delle 
due 
madri 
risultanti 
dal 
certificato di 
nascita 
spagnolo 
sia 
la 
madre 
biologica 
del 
bambino 
e, 
in 
caso 
positivo, 
chi 
sia 
delle 
due, 
è 
possibile 
ipotizzare 
che 
la 
coppia 
abbia 
potuto 
far 
ricorso 
alla 
maternità 
surrogata, 
fatto che 
può essere 
valutato da 
ciascuno Stato membro ai 
fini 
della 
compatibilità 
con i principi di ordine pubblico. 
55. Come 
detto, lo stesso giudice 
del 
rinvio afferma 
che 
non vi 
sono elementi 
agli 
atti 
per 
escludere 
che 
la 
coppia 
abbia 
fatto 
ricorso 
alla 
surrogazione 
di 
maternità, che 
in diversi 
Stati 
membri 
è 
vietata 
(in Italia 
è 
sanzionata 
penalmente, 
il 
che 
comporta 
in sé 
una 
valutazione 
da 
parte 
del 
legislatore 
nazionale 
tale da determinarne la contrarietà all’ordine pubblico). 
56. 
La 
stessa 
Corte 
costituzionale 
italiana, 
con 
la 
sentenza 
n. 
272 
del 
2017 
ha 
espresso una 
valutazione 
di 
elevato disvalore 
di 
tale 
pratica, ritenuta 
tale 
da 
“offendere 
in 
modo intollerabile 
la dignità della donna e 
da minare 
nel 
profondo le relazioni umane”. 
57. Anche 
le 
Sezioni 
Unite 
della 
Corte 
di 
cassazione 
italiana 
(sentenza 
n. 
12193/19) si 
sono occupate 
di 
vicenda 
analoga 
a 
quella 
oggetto del 
giudizio 
a quo 
(in quel 
caso si 
trattava 
di 
una 
coppia 
omosessuale 
maschile) e 
hanno 
ritenuto che, per stabilire 
quale 
sia 
in concreto il 
contenuto della 
nozione 
di 
ordine 
pubblico 
occorra 
prendere 
in 
considerazione 
sia 
i 
principi 
fondamentali 
dalla 
Carta 
costituzionale, sia 
quelli 
consacrati 
nelle 
fonti 
internazionali 
e 
sovranazionali, 
oltre 
che 
il 
modo in cui 
essi 
"si 
sono incarnati 
nella 
disciplina 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


ordinaria 
dei 
singoli 
istituti", 
e 
della 
interpretazione 
fornita 
dalla 
giurisprudenza 
costituzionale e ordinaria. 


58. Costituisce 
"ordine 
pubblico" 
quell'insieme 
dei 
valori 
fondanti 
di 
un 
ordinamento in un determinato momento storico. 
59. 
Secondo 
le 
Sezioni 
Unite, 
per 
verificare 
se 
contrasta 
con 
l'ordine 
pubblico 
il 
riconoscimento di 
un atto di 
nascita, formato all'estero, che 
sancisce 
un rapporto di 
filiazione 
tra 
un minore 
e 
un adulto che 
non ha 
con lui 
alcun 
legame 
biologico, 
a 
seguito 
di 
ricorso 
a 
surrogazione 
di 
maternità, 
occorre 
considerare 
che 
tale 
pratica 
è 
tra 
quelle 
espressamente 
vietate, in Italia, dalla 
legge 
n. 40/2004 e 
occorre 
chiedersi 
se 
questo divieto esprima 
uno dei 
valori 
fondanti dell'ordinamento interno. 
60. 
Le 
Sezioni 
Unite, 
nella 
richiamata 
sentenza, 
rispondono 
positivamente 
a 
tale 
interrogativo, 
rilevando 
che 
la 
sanzione 
penale 
contro 
la 
pratica 
della 
maternità 
surrogata 
esprime 
la 
volontà 
del 
legislatore 
di 
contribuire 
alla 
tutela 
concreta 
di 
beni 
fondamentali 
come 
quello 
della 
"dignità 
umana" 
della 
gestante, 
e 
del 
sistema 
legale 
di 
adozione 
dei 
minori, 
governato 
da 
regole 
particolari 
poste 
a 
tutela 
di 
tutti 
gli 
interessati 
e 
principalmente 
dei 
minori 
stessi. 
61. Si 
tratta 
quindi 
di 
scelta 
che 
è 
il 
portato di 
un principio di 
ordine 
pubblico 
in forza 
del 
quale 
l'ordinamento nazionale 
pone 
un divieto all'ingresso 
di 
norme 
e 
provvedimenti 
stranieri 
che 
siano con esso contrastanti, a 
protezione 
della coerenza interna del sistema giuridico. 
62. Questa 
nozione 
di 
ordine 
pubblico, secondo le 
Sezioni 
Unite, quindi, 
"non 
può 
ridursi 
ai 
soli 
valori 
condivisi 
dalla 
comunità 
internazionale, 
ma 
comprende 
anche 
principi 
e 
valori 
esclusivamente 
propri, purché 
fondamentali 
e (perciò) irrinunciabili". 
63. Il 
divieto di 
maternità 
surrogata, in assenza 
del 
quale 
il 
descritto assetto 
di 
tutela 
di 
interessi 
fondamentali 
verrebbe 
messo nel 
nulla 
da 
un mero 
accordo tra 
privati, non può pertanto ritenersi 
irragionevole, né 
contrastante 
con 
l'interesse 
superiore 
del 
minore, 
tutelato 
dall'articolo 
3 
della 
Convenzione 
di New 
York. 
64. 
Tale 
orientamento, 
che 
ha 
negato 
la 
trascrivibilità 
di 
un 
atto 
di 
nascita 
recante 
come 
genitori 
due 
persone 
dello 
stesso 
sesso 
è 
stato 
da 
ultimo 
recepito 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
italiana 
anche 
con 
riguardo 
alla 
filiazione 
di 
una 
coppia 
omosessuale 
di 
sesso femminile 
che 
non aveva 
fatto ricorso alla 
surrogazione 
di maternità (Cass. n. 8029 del 2020). 
65. In tale 
sentenza 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
osservato che 
le 
sentenze 
n. 
162 del 
2014 e 
n. 96 del 
2015 della 
Corte 
costituzionale, pur avendo comportato 
un 
ampliamento 
del 
novero 
dei 
soggetti 
abilitati 
ad 
accedere 
alla 
procreazione 
medicalmente 
assistita, hanno lasciato inalterate 
le 
coordinate 
di 
fondo 
della 
predetta 
legge, costituite 
dalla 
configurazione 
di 
tali 
tecniche 
come 
rimedio 
alla sterilità o infertilità umana avente 
una causa patologica e 
non 
altrimenti 
rimuovibile 
e 
dall'intento di 
garantire 
che 
il 
nucleo familiare 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


scaturente 
dalla loro applicazione 
riproduca il 
modello della famiglia caratterizzata 
dalla presenza di una madre e di un padre. 


66. 
Premesso 
che 
l'ammissione 
delle 
coppie 
omosessuali 
alla 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
richiederebbe 
la 
sconfessione, 
sul 
piano 
della 
tenuta 
costituzionale, delle 
linee 
guida 
della 
relativa 
disciplina, ha 
rilevato che 
quest'ultima 
non 
presenta 
alcuna 
incongruenza 
interna, 
non 
essendo 
l'infertilità 
fisiologica 
della 
coppia 
omosessuale 
omologabile 
a 
quella 
della 
coppia 
eterosessuale 
affetta 
da 
patologie 
riproduttive. Pur confermando che 
nella 
nozione 
di 
formazione 
sociale 
di 
cui 
all’art. 
2 
della 
Costituzione, 
rientra 
anche 
l'unione 
omosessuale, intesa 
come 
stabile 
convivenza 
tra 
due 
persone 
del 
medesimo 
sesso, 
ha 
ricordato 
che, 
come 
già 
affermato 
nella 
citata 
sentenza 
n. 
162 
del 
2014, la 
Costituzione 
non pone 
una 
nozione 
di 
famiglia 
inscindibilmente 
correlata 
alla 
presenza 
di 
figli, 
ribadendo 
che 
il 
riconoscimento 
della 
libertà 
e 
volontarietà 
dell'atto 
che 
consente 
di 
diventare 
genitori 
di 
sicuro 
non 
implica 
che 
tale libertà possa esplicarsi senza limiti. 
67. 
Alla 
luce 
di 
tali 
principi 
sembra 
dover 
essere 
concretamente 
realizzato 
il bilanciamento degli interessi in gioco. 
risposta al terzo quesito 

68. 
Con 
il 
terzo 
quesito 
il 
giudice 
del 
rinvio 
chiede 
alla 
Corte 
se 
abbia 
rilevanza, 
nel 
caso 
concreto, 
il 
fatto 
che 
una 
delle 
madri 
registrate 
nel 
certificato 
formato 
in 
Spagna, 
abbia 
la 
cittadinanza 
del 
Regno 
Unito 
e 
se 
pertanto 
il 
rifiuto 
di 
rilascio 
di 
un 
certificato 
di 
nascita 
da 
parte 
delle 
autorità 
bulgare 
costituisca 
un 
ostacolo 
al 
pieno 
esercizio 
dei 
diritti 
del 
bambino 
come 
cittadino 
dell'Unione. 
69. Il Governo italiano ritiene di dare risposta negativa al quesito. 
70. Invero, da 
quanto affermato dallo stesso giudice 
del 
rinvio pregiudiziale, 
il 
bambino acquisisce 
la 
cittadinanza 
bulgara 
in virtù dell’articolo 25, 
paragrafo 1 della 
Costituzione 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria: 
è 
cittadino bulgaro 
chiunque 
abbia 
almeno un genitore 
di 
cittadinanza 
bulgara. Il 
mancato 
rilascio di 
un certificato di 
nascita 
bulgaro non integra 
un rifiuto della 
cittadinanza 
bulgara. Il 
figlio minorenne 
è 
per legge 
cittadino bulgaro, indipendentemente 
dal 
fatto che 
non gli 
sia 
stato rilasciato al 
momento alcun certificato 
di nascita bulgaro (punto 33 dell’ordinanza di rinvio). 
71. 
Alla 
luce 
di 
tale 
precisazione 
del 
giudice 
nazionale, 
pare 
evidente 
l’irrilevanza 
del 
fatto che 
l’altra 
madre 
indicata 
nell’atto di 
nascita 
sia 
una 
cittadina 
britannica 
e 
che, 
per 
effetto 
della 
Brexit, 
la 
stessa 
non 
sia 
più 
una 
cittadina 
dell’Unione. 
72. 
La 
cittadinanza 
dell’Unione 
del 
minore, 
derivante 
dalla 
cittadinanza 
bulgara 
della 
madre 
ricorrente 
comporta 
che 
nessuna 
violazione 
degli 
articoli 
20 
e 
21 
TFUE 
e 
degli 
articoli 
7, 
24 
e 
45 
della 
Carta 
di 
Nizza 
possa 
ritenersi 
integrata 
nella 
fattispecie, 
come 
è 
confermato 
dal 
fatto 
che 
il 
minore 
sta 
legittimamente 
soggiornando 
in 
uno 
Stato 
membro 
(la 
Spagna) 
senza 
alcuna 
limitazione 
del 
suo 
diritto 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
dell’Unione. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


risposta al quarto quesito 

73. Con il 
quarto quesito il 
giudice 
bulgaro chiede 
alla 
Corte 
se, in caso 
di 
risposta 
affermativa 
al 
primo 
quesito, 
il 
principio 
di 
effettività, 
imponga 
alle 
competenti 
autorità 
nazionali 
di 
discostarsi 
dal 
modello per la 
redazione 
di 
un 
certificato 
di 
nascita, 
che 
è 
parte 
costitutiva 
del 
diritto 
nazionale 
vigente. 
74. Avendo risposto negativamente 
al 
primo quesito, il 
Governo italiano 
non ritiene di dover rispondere al quarto quesito. 
Conclusioni 


75. Il 
Governo italiano propone 
quindi 
alla 
Corte 
di 
rispondere 
negativamente 
al 
primo 
quesito, 
affermando 
che 
l’articolo 
20 
TFUE 
e 
l’articolo 
21 
TFUE 
nonché 
gli 
articoli 
7, 24 e 
45 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
del-
l’Unione 
europea 
debbano 
essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
non 
ostino 
al 
rifiuto 
da 
parte 
delle 
autorità 
amministrative 
bulgare 
-presso le 
quali 
è 
stata 
presentata 
una 
domanda 
di 
certificazione 
della 
nascita 
di 
un 
bambino 
con 
nazionalità 
bulgara 
avvenuta 
in un altro Stato membro dell’Unione, che 
è 
stata 
attestata 
da 
un 
certificato 
di 
nascita 
spagnolo, 
nel 
quale 
due 
persone 
di 
sesso 
femminile 
sono registrate 
come 
madri, senza 
precisare 
ulteriormente 
se 
una 
di 
loro, e 
in 
caso affermativo quale, sia 
la 
madre 
biologica 
del 
bambino -di 
rilasciare 
un 
certificato di 
nascita 
bulgaro con la 
motivazione 
che 
la 
ricorrente 
si 
rifiuta 
di 
indicare chi è la madre biologica del bambino. 
76. 
Il 
Governo 
italiano 
propone 
inoltre 
alla 
Corte 
di 
rispondere 
positivamente 
al 
secondo 
quesito, 
affermando 
che 
l'articolo 
9 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
e 
l'articolo 
4, 
paragrafo 
2 
TUE 
consentono 
agli 
Stati 
membri 
di 
chiedere 
informazioni 
sulla 
discendenza 
biologica 
del 
bambino 
e 
di 
bilanciare, 
da 
un 
lato, 
l'identità 
nazionale 
e 
costituzionale 
dello 
Stato 
membro 
e, 
dall'altro, 
l'interesse 
superiore 
del 
minore, 
considerando 
che 
in 
Bulgaria 
non 
vi 
è, 
al 
momento, 
una 
visione 
valoriale 
o 
giuridica 
condivisa 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
di 
registrare 
come 
genitori 
due 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
e 
senza 
che 
sia 
precisato 
se 
una 
di 
loro, 
e 
in 
caso 
affermativo 
quale, 
sia 
il 
genitore 
biologico 
del 
bambino. 
77. Il 
Governo italiano propone 
infine 
alla 
Corte 
di 
rispondere 
negativamente 
al 
terzo 
quesito, 
affermando 
che 
le 
conseguenze 
giuridiche 
della 
Brexit 
sono 
irrilevanti 
per 
la 
risposta 
al 
primo 
quesito, 
atteso 
che 
la 
cittadinanza 
dell’Unione 
del 
minore, derivante 
dalla 
cittadinanza 
bulgara 
della 
madre 
ricorrente, 
garantisce 
allo stesso il 
diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel territorio degli Stati membri. 
78. 
Avendo 
fornito 
risposta 
negativa 
al 
primo 
quesito, 
il 
Governo 
italiano 
non ritiene di dover rispondere al quarto quesito. 
Roma, 30 novembre 2020 
Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 



CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


CT 38148/20 Avv. Ferrante 


CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA 


NOTE DI OSSERVAZIONI ORALI 


UDIENZA 9 FEBBRAIO 2021 


del 
GOVERNO 
DELLA 
REPUBBLICA 
ITALIANA, in persona 
dell’Agente 
designato 
per 
il 
presente 
giudizio, 
domiciliato 
presso 
l’Ambasciata 
d’Italia 
a 
Lussemburgo 


nella causa C-490/20 
promossa 
ai 
sensi 
dell’art. 267 TFUE 
con ordinanza 
del 
2 ottobre 
2020 
del 
Administrativen sad Sofia-grad - Bulgaria. 


** ** ** 


1. 
Vista 
la 
complessità 
delle 
domande 
poste 
alle 
parti 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
per una risposta orale (1), si osserva quanto segue. 
2. 
Il 
Governo 
italiano 
ritiene 
che 
lo 
Stato 
membro 
di 
origine 
(la 
Bulgaria) 
(1) «III. Domande a tutti i partecipanti all’udienza: 
1. 
lo 
stato 
membro 
di 
origine 
è 
tenuto 
-in 
virtù 
degli 
articoli 
20 
e 
21 
tFue, 
letti 
in 
combinato 
disposto 
con gli 
articoli 
7, 24, paragrafo 2, e 
45 della Carta di 
nizza e 
le 
disposizioni 
della direttiva 2004/38 a 
riconoscere 
il 
legame 
di 
filiazione, biologica o giuridica, che 
è 
stato legalmente 
stabilito dallo stato 
membro ospitante 
conformemente 
alle 
sue 
disposizioni 
nazionali 
applicabili 
e, in tal 
caso, in quale 
misura? 
un tale obbligo esiste in particolare: 
a) 
al 
fine 
di 
rilasciare 
dei 
documenti 
d’identità 
a 
un 
minore 
che 
possiede 
la 
nazionalità 
dello 
stato 
membro 
di origine? 
b) 
al 
fine 
di 
rilasciare 
un atto di 
nascita a tale 
minore 
nella misura in cui 
tale 
atto costituisce 
una condizione 
necessaria per 
il 
rilascio di 
documenti 
di 
identità? (in tale 
contesto: è 
ammissibile, da un punto 
di 
vista concettuale, adottare 
un atto di 
nascita al 
solo fine 
della libera circolazione 
nel 
territorio del-
l’unione)? 
c) 
per 
fini 
diversi 
dal 
rilascio 
di 
documenti 
d’identità 
e/o 
di 
un 
atto 
di 
nascita 
a 
tale 
minore 
(per 
esempio 
ai 
fini 
dell’applicazione 
del 
diritto di 
famiglia o del 
diritto successorio dello stato membro di 
origine)? 
d) 
ai 
fini 
di 
stabilire 
la 
nazionalità 
del 
minore 
(e 
dunque 
dell’acquisto 
della 
nazionalità 
dello 
stato 
membro 
di 
origine)? 
(in 
particolare, 
un 
obbligo 
in 
tal 
senso 
potrebbe 
discendere 
dai 
diritti 
che 
al 
minore 
e/o al suo genitore cittadino dello stato membro di origine derivano dal diritto dell’unione?) 
e) 
per 
quanto concerne 
i 
due 
genitori 
inseriti 
nell’atto di 
nascita adottato dallo stato membro ospitante 
o 
unicamente 
per 
quanto 
concerne 
il 
genitore 
cittadino 
dello 
stato 
membro 
di 
origine? 
(a 
tale 
riguardo, 
vogliate 
prendere 
posizione 
anche 
sull’argomento sviluppato dal 
giudice 
del 
rinvio nell’ambito del 
secondo 
quesito, in base 
al 
quale 
una soluzione 
in tal 
senso potrebbe 
costituire 
un punto di 
equilibrio tra, 
da un lato, l’identità nazionale 
e 
costituzionale 
della repubblica di 
bulgaria e, dall’altro, il 
diritto alla 
vita privata e alla libera circolazione del minore.) 
2. 
il 
richiamo all’identità nazionale 
o costituzionale 
di 
uno stato membro ai 
sensi 
dell’articolo 4, paragrafo 
2, tue, per 
giustificare 
un eventuale 
ostacolo alla libera circolazione, è 
sottoposto ad un controllo 
di proporzionalità? 
3. 
Quali principi possono essere tratti per la presente causa 
a) dalla sentenza del 
5 giugno 2018, Coman e. a. (C-673/16) e 
in particolare 
dal 
punto 45 della stessa? 
b) dalla sentenza del 14 ottobre 2008, Grunkin e paul (C-353/06)? 
c) dalla sentenza del 
26 marzo 2019, sm (minore 
sottoposto a kafala algerina) C-129/18, punti 
da 50 
a 54? 
d) dalla sentenza della Corte 
europea dei 
diritti 
dell’uomo del 
26 giugno 2014, mennesson c. Francia 
e 
del 
suo parere 
reso il 
10 aprile 
2019 a seguito della predetta sentenza (domanda n. p16-2018-001)?» 
(n.d.r.) 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


non 
sia 
tenuto 
-in 
virtù 
degli 
articoli 
20 
e 
21 
TFUE, 
letti 
in 
combinato 
disposto 
con gli 
articoli 
7, 24, paragrafo 2, e 
45 della 
Carta 
di 
Nizza 
e 
le 
disposizioni 
della 
direttiva 
2004/38 -a 
riconoscere 
il 
legame 
di 
filiazione, biologica 
o giuridica, 
che 
è 
stato legalmente 
stabilito dallo Stato membro ospitante 
(la 
Spagna) 
conformemente 
alle 
sue 
disposizioni 
nazionali 
applicabili 
(quesito della 
Corte sub III, 1). 


3. 
Al 
riguardo, si 
ritiene 
che 
un tale 
obbligo non sussista 
per fini 
diversi 
dal 
rilascio di 
documenti 
d’identità 
e/o di 
un atto di 
nascita 
a 
tale 
minore, ad 
esempio 
ai 
fini 
dell’applicazione 
del 
diritto 
di 
famiglia 
o 
del 
diritto 
successorio 
dello Stato membro di 
origine, dovendosi 
rispondere 
quindi 
negativamente 
al 
quesito posto dalla Corte sub III, 1) c). 
4. 
L’art. 9 della 
Carta 
di 
Nizza 
dispone 
infatti 
che 
“il 
diritto di 
sposarsi 
e 
il 
diritto di 
costituire 
una famiglia sono garantiti 
secondo le 
leggi 
nazionali 
che 
ne 
disciplinano l’esercizio”. La 
legge 
nazionale 
bulgara, da 
quanto affermato 
dal 
giudice 
del 
rinvio, non prevede 
né 
il 
matrimonio tra 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
né 
il 
riconoscimento 
del 
rapporto 
di 
filiazione 
tra 
un 
minore 
e 
genitori 
dello 
stesso 
sesso 
e, 
conseguentemente, 
non 
riconosce 
nemmeno 
diritti 
successori 
tra 
il 
minore 
e 
il 
genitore 
non biologico che 
ha 
partecipato al 
progetto 
di procreazione medicalmente assistita, c.d. genitore d’intenzione. 
5. 
La 
risposta 
al 
quesito 
volto 
a 
stabilire 
se 
un 
tale 
obbligo 
di 
riconoscere 
la 
filiazione 
sussista 
ai 
fini 
di 
stabilire 
la 
nazionalità 
del 
minore 
e 
dunque 
del-
l’acquisto della 
nazionalità 
bulgara 
(quesito posto dalla 
Corte 
sub III, 1) d), 
sembrerebbe 
essere 
implicita 
in quanto affermato dallo stesso giudice 
del 
rinvio, 
secondo il 
quale 
la 
questione 
del 
diritto del 
neonato alla 
cittadinanza 
non 
si pone nella presente controversia (punto 33 dell’ordinanza di rinvio). 
6. 
Il 
Tribunale 
amministrativo di 
Sofia 
afferma 
infatti 
che 
il 
bambino acquisisce 
la 
cittadinanza 
bulgara 
in 
virtù 
dell’articolo 
25, 
paragrafo 
1, 
della 
Costituzione 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria: 
“È 
cittadino bulgaro chiunque 
abbia 
almeno 
un 
genitore 
di 
cittadinanza 
bulgara 
…” 
e 
ai 
sensi 
dell’art. 
8 
della 
legge 
sulla 
cittadinanza 
bulgara: 
“È 
cittadino 
bulgaro 
per 
discendenza 
chiunque 
abbia almeno un genitore 
di 
cittadinanza bulgara”. Il 
Giudice 
del 
rinvio precisa 
inoltre 
che 
il 
rilascio di 
un certificato di 
nascita 
bulgaro non integra 
un rifiuto 
della 
cittadinanza 
bulgara 
e 
che 
il 
figlio minorenne 
è 
per legge 
cittadino 
bulgaro, 
indipendentemente 
dal 
fatto 
che 
non 
gli 
sia 
stato 
rilasciato 
al 
momento 
alcun certificato di nascita bulgaro. 
7. 
Il 
problema 
dell’acquisito della 
cittadinanza 
sembrerebbe 
quindi 
non 
porsi nella fattispecie. 
8. 
Ciò 
detto, 
il 
Governo 
italiano 
ritiene 
di 
poter 
rispondere 
congiuntamente 
ai 
quesiti 
posti 
dalla 
Corte 
sub III, 1) a): 
se 
l’obbligo di 
riconoscere 
la 
filiazione 
sussista 
ai 
fini 
del 
rilascio di 
documenti 
d’identità 
a 
un minore 
che 
possieda 
la 
nazionalità 
dello Stato membro di 
origine; 
sub III, 1) b): 
se 
un tale 
obbligo sussista 
ai 
fini 
del 
rilascio di 
un atto di 
nascita 
a 
detto minore 
ove 
tale 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


atto sia 
una 
condizione 
necessaria 
per il 
rilascio di 
documenti 
di 
identità 
che 
consentano 
l’esercizio 
del 
diritto 
alla 
libera 
circolazione 
nel 
territorio 
del-
l’Unione e sub III, 1) e). 


9. 
Con 
tale 
ultimo 
quesito, 
la 
Corte 
chiede 
alle 
parti 
se 
l’obbligo 
di 
riconoscere 
un 
legame 
di 
filiazione 
esista 
in 
relazione 
ad 
entrambi 
i 
genitori 
inseriti 
nel-
l’atto 
di 
nascita 
adottato 
dallo 
Stato 
membro 
ospitante 
(la 
Spagna) 
o 
unicamente 
in 
relazione 
al 
genitore 
cittadino 
dello 
Stato 
membro 
di 
origine 
(la 
Bulgaria). 
10. Il 
Governo italiano ritiene 
che 
un obbligo in tal 
senso esista 
solo in 
relazione al genitore cittadino dello Stato membro di origine. 
11. A 
tale 
riguardo, si 
ritiene 
di 
rispondere 
positivamente 
anche 
all’interrogativo 
posto dalla 
Corte 
in relazione 
all’argomento sviluppato dal 
giudice 
del 
rinvio nell’ambito del 
secondo quesito, in base 
al 
quale 
una 
soluzione 
in 
tal 
senso potrebbe 
costituire 
un punto di 
equilibrio tra, da 
un lato, l’identità 
nazionale 
e 
costituzionale 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria 
e, dall’altro, il 
diritto 
alla vita privata e alla libera circolazione del minore. 
12. Come 
noto, analogo rinvio pregiudiziale 
è 
stato sollevato dal 
Tribunale 
amministrativo 
di 
Cracovia 
(Polonia) 
con 
ordinanza 
del 
9 
dicembre 
2020, 
depositata 
il 
4 gennaio 2021, causa 
C-2/21 K.S., che 
è 
stata 
sospesa 
in attesa 
della decisione sulla presente causa. 
13. Le 
due 
differenze 
giuridiche 
e 
sostanziali 
rispetto alla 
presente 
causa 
risiedono nel 
fatto che, in quel 
caso, viene 
invocato, ai 
fini 
di 
stabilire 
la 
conformità 
al 
diritto dell’Unione 
del 
rifiuto delle 
competenti 
autorità 
polacche 
di 
trascrivere 
un 
atto 
di 
nascita 
spagnolo 
di 
un 
minore 
polacco 
dal 
quale 
risultino 
due 
madri, una 
polacca 
e 
una 
irlandese, anche 
l’art. 21 della 
Carta 
di 
Nizza, 
in base 
al 
quale 
è 
vietata 
ogni 
discriminazione 
fondata 
sul 
sesso, la 
razza, il 
colore 
della 
pelle, le 
origini 
etniche 
o sociali, le 
caratteristiche 
genetiche, la 
lingua, la 
religione 
o le 
convinzioni 
personali, le 
opinioni 
politiche 
o di 
qualsiasi 
altra 
natura, l’appartenenza 
ad una 
minoranza 
nazionale, il 
patrimonio, 
la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. 
14. 
Quanto 
alla 
differenza 
sostanziale, 
in 
quel 
caso, 
la 
madre 
biologica 
è 
stata 
individuata 
nella 
ricorrente 
polacca 
mentre 
nel 
caso 
di 
specie 
la 
ricorrente 
bulgara 
si 
è 
rifiutata 
di 
precisare 
se 
una 
delle 
due 
madri 
figuranti 
nell’atto 
di 
nascita 
spagnolo, 
e 
in 
caso 
positivo, 
chi 
delle 
due, 
sia 
la 
madre 
biologica 
del 
minore. 
15. 
A 
tale 
riguardo, 
nella 
presente 
causa, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
ha 
precisato 
che, mancando ogni 
informazione 
sulla 
madre 
biologica, non può escludersi 
che si tratti di maternità surrogata (punto 29 dell’ordinanza di rinvio). 
16. 
Peraltro, 
il 
fatto 
che, 
in 
base 
alla 
legislazione 
Bulgara, 
sia 
considerata 
madre 
colei 
che 
partorisce, lascerebbe 
ipotizzare 
che 
l’omessa 
informazione 
su chi 
sia 
la 
madre 
biologica 
possa 
ricondursi 
proprio all’aver fatto ricorso a 
tale tecnica di procreazione medicalmente assistita. 
17. Al 
riguardo sembra 
possibile 
affermare 
che 
lo Stato membro abbia 
il 
diritto 
di 
accertare 
la 
discendenza 
biologica 
del 
minore 
anche 
per 
valutare 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


l’eventuale 
contrarietà 
o meno di 
un atto di 
nascita 
straniero al 
proprio ordine 
pubblico. 


18. 
Da 
uno 
studio 
del 
Parlamento 
Europeo 
-Direzione 
generale 
Politiche 
Interne 
-Unità 
Tematica 
C 
-Diritti 
dei 
Cittadini 
e 
Affari 
Costituzionali 
su 
“Il 
regime 
di 
maternità 
surrogata 
negli 
Stati 
membri 
dell’U.E.” 
risulta 
infatti 
che: 
la 
maggior 
parte 
degli 
Stati 
prevede 
un 
divieto 
generalizzato 
di 
tale 
pratica; 
molti 
Stati 
prevedono 
il 
divieto 
di 
maternità 
surrogata 
c.d. 
commerciale; 
alcuni 
Stati 
hanno 
previsto 
particolari 
agevolazioni 
non 
normative; 
molti 
Stati 
non 
hanno 
adottato 
una 
legge 
specifica 
sulla 
maternità 
surrogata 
(i 
contratti 
non 
sono 
applicabili 
e 
il 
trasferimento 
della 
genitorialità 
legale 
richiede 
l’adozione). 
19. Da 
quanto sopra, emerge 
chiaramente 
che 
in Europa 
vi 
è 
solo un ristrettissimo 
numero di 
Stati 
che 
ha 
legiferato, prevedendo comunque 
limitazioni 
e 
condizioni 
restrittive, 
in 
materia 
di 
maternità 
surrogata 
mentre 
la 
maggior 
parte 
degli 
Stati 
ha 
vietato 
espressamente 
tale 
pratica 
o 
non 
ha 
proprio 
legiferato in materia, non registrandosi 
ancora 
un diffuso consenso nella 
popolazione, 
dal 
punto di 
vista 
etico e 
valoriale, sulla 
percorribilità 
della 
pratica 
della gestazione per altri. 
20. 
Ne 
deriva 
che 
ogni 
Stato 
membro, 
al 
fine 
di 
attestare 
la 
filiazione 
di 
un 
minore 
rispetto 
ai 
propri 
genitori, 
può 
legittimamente 
richiedere 
che 
siano 
fornite 
informazioni 
sulle 
modalità 
che 
hanno 
consentito 
la 
nascita 
dello 
stesso 
e 
sull’esistenza 
di 
un 
legame 
biologico 
del 
bambino 
con 
colui 
o 
colei 
che 
se 
ne 
dichiara 
genitore. 
Tali 
informazioni 
non 
sono 
state 
fornite, 
nemmeno 
su 
esplicita 
richiesta 
da 
parte 
delle 
autorità 
competenti, 
dalla 
ricorrente 
nel 
giudizio 
a 
quo. 
21. 
Quanto 
al 
quesito 
posto 
dalla 
Corte 
al 
punto 
III, 
2), 
il 
Governo 
italiano 
ritiene 
che 
il 
richiamo 
all’identità 
nazionale 
o 
costituzionale 
di 
uno 
Stato 
membro 
ai 
sensi 
dell’articolo 
4, 
paragrafo 
2, 
TUE, 
per 
giustificare 
un 
eventuale 
ostacolo 
alla 
libera 
circolazione, 
debba 
essere 
certamente 
sottoposto 
ad 
un 
controllo di proporzionalità. 
22. In tale 
quadro, va 
valutato se 
sia 
giustificato il 
rifiuto della 
ricorrente 
di 
fornire 
indicazioni 
sulle 
modalità 
che 
hanno consentito la 
nascita 
del 
bambino 
e 
sulla 
circostanza 
se 
una 
delle 
due 
madri 
indicate 
nell’atto 
di 
nascita 
spagnolo sia la madre biologica, e, in caso positivo, chi sia delle due. 
23. Il 
giudice 
del 
rinvio, infatti, ritiene, correttamente, che 
le 
norme 
giuridiche 
che 
definiscono la 
discendenza 
del 
bambino tengano conto dello stato 
dell’evoluzione 
dei 
rapporti 
sociali 
nella 
Repubblica 
di 
Bulgaria, tanto da 
un 
punto di 
vista 
puramente 
giuridico, quanto con riferimento ai 
valori 
di 
importanza 
fondamentale nella tradizione costituzionale bulgara. 
24. Pertanto, atteso che, ai 
sensi 
dell’art. 4, paragrafo 2 TUE, l’Unione 
rispetta 
l’uguaglianza 
degli 
Stati 
membri 
davanti 
ai 
trattati 
e 
la 
loro identità 
nazionale 
insita 
nella 
loro struttura 
fondamentale, politica 
e 
costituzionale, il 
giudice 
del 
rinvio 
dubita 
che 
l’obbligo 
imposto 
alle 
autorità 
amministrative 
bulgare, 
nella 
certificazione 
di 
una 
nascita 
avvenuta 
all’estero, 
di 
registrare 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


nel 
certificato di 
nascita 
bulgaro come 
genitori 
del 
bambino due 
madri, non 
pregiudichi 
l’identità 
nazionale 
dello Stato bulgaro, che 
non ha 
previsto, nel-
l’ambito 
della 
discrezionalità 
legislativa 
riconosciuta 
in 
materia 
a 
ciascuno 
Stato, 
la 
possibilità 
di 
registrare 
nel 
certificato di 
nascita 
due 
genitori 
dello 
stesso sesso. 


25. Il Governo italiano, ritiene di condividere tale dubbio. 
26. Analoga 
legislazione 
esiste 
anche 
in Italia 
e 
di 
recente 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
ribadito il 
principio già 
espresso con la 
sentenza 
n. 230 del 
2020 
(citata 
ai 
punti 
da 
50 a 
52 dell’atto di 
intervento) con due 
ordinanze 
emesse 
all’esito 
dell’udienza 
del 
27 
gennaio 
2020, 
come 
emerge 
dai 
comunicati 
stampa 
pubblicati 
sul 
sito 
della 
stessa 
Corte, 
nei 
giudizi 
con 
R.O. 
79/20 
e 
R.O. 
99/20, che 
hanno dichiarato l’inammissibilità 
di 
identica 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
decisa 
dalla 
sentenza 
n. 230 del 
2020 sopra 
richiamata 
in 
relazione 
alla 
filiazione 
di 
una 
coppia 
omossessuale 
di 
sesso femminile 
e, rispettivamente, 
in relazione 
alla 
filiazione 
di 
una 
coppia 
omosessuale 
di 
sesso 
maschile che aveva fatto ricorso all’estero alla maternità surrogata. 
27. Al 
riguardo, dal 
punto di 
vista 
del 
minore, non pare 
possa 
introdursi 
una 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
chi 
sia 
nato, 
mediante 
tecniche 
di 
procreazione 
medicalmente 
assistita, da 
una 
coppia 
omossessuale 
femminile 
e 
chi 
sia 
nato 
da 
una 
coppia 
omosessuale 
maschile, che 
richiede 
ontologicamente 
il 
ricorso 
alla 
maternità 
surrogata, 
il 
cui 
maggior 
disvalore, 
compromettendo 
gravemente 
ed “offendendo in modo intollerabile 
la 
dignità 
della 
donna”, è 
sanzionato in 
modo più severo da molte legislazioni europee. 
28. 
La 
Corte 
chiede 
infine 
alle 
parti 
di 
pronunciarsi 
su 
quali 
insegnamenti 
possono 
essere 
tratti 
da 
alcune 
sentenze 
della 
stessa 
CGUE 
e 
della 
CEDU 
(punto III, 3). 
29. Quanto alla 
sentenza 
Coman, si 
osserva 
che, al 
punto 45, la 
Corte 
rileva 
che 
l’obbligo 
per 
uno 
Stato 
membro 
di 
riconoscere 
un 
matrimonio 
tra 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
contratto 
in 
un 
altro 
Stato 
membro 
conformemente 
alla 
normativa 
di 
quest’ultimo, ai 
soli 
fini 
della 
concessione 
di 
un permesso 
di 
soggiorno 
a 
un 
cittadino 
di 
uno 
Stato 
terzo, 
non 
pregiudica 
l’istituto 
del 
matrimonio 
in tale 
primo Stato membro, il 
quale 
è 
definito dal 
diritto nazionale 
e 
rientra 
nella 
competenza 
degli 
Stati 
membri. Esso non comporta 
l’obbligo, 
per detto Stato membro, di 
prevedere, nella 
normativa 
nazionale, l’istituto del 
matrimonio tra persone dello stesso sesso. 
30. La 
Corte 
si 
è 
quindi 
limitata 
ad affermare 
che 
l’art. 21, paragrafo 1 
TFUE 
osta 
a 
che 
le 
autorità 
competenti 
dello Stato membro di 
cui 
il 
cittadino 
dell’Unione 
ha 
la 
cittadinanza 
(Romania) rifiutino di 
concedere 
un diritto di 
soggiorno sul 
territorio di 
detto Stato membro al 
cittadino (americano) di 
uno 
Stato 
terzo 
dello 
stesso 
sesso 
che 
abbia 
contratto 
matrimonio 
con 
il 
primo, 
per 
il 
fatto che 
l’ordinamento di 
tale 
Stato membro non prevede 
il 
matrimonio fra 
persone dello stesso sesso. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


31. 
Negare 
il 
permesso 
di 
soggiorno 
nelle 
circostanze 
di 
cui 
alla 
causa 
principale, soggiorno comunque 
sottoposto ai 
sensi 
dell’art. 7 della 
direttiva 
2004/38/CE 
a 
diverse 
tassative 
condizioni 
(essere 
lavoratore 
o disporre 
di 
risorse 
economiche 
sufficienti 
o essere 
iscritto ad un corso di 
studi 
disponendo 
di 
un’assicurazione 
sanitaria 
o essere 
un familiare 
di 
un cittadino dell’Unione 
rispondente 
alla 
predette 
condizioni) è 
all’evidenza 
cosa 
ben diversa 
dal 
riconoscere 
un 
rapporto 
di 
filiazione, 
in 
assenza 
di 
un 
legame 
biologico, 
tra 
un 
minore 
e 
due 
persone 
dello stesso sesso senza 
nemmeno sapere 
se 
una 
delle 
due sia la madre biologica del bambino. 
32. Tale 
riconoscimento infatti 
impatta 
in modo molto più radicale 
sul-
l’identità 
nazionale 
e 
costituzionale 
di 
uno Stato membro e 
sulla 
sua 
libertà 
di 
autodeterminarsi 
nell’adozione 
di 
una 
legislazione 
in materia 
ed è 
idoneo ad 
influire 
in modo ben più penetrante 
sui 
valori 
etici 
e 
culturali 
di 
una 
nazione 
in un dato momento storico. 
33. Quanto alla 
sentenza 
Grunkin e 
Paul, la 
Corte 
ha 
affermato che 
l’art. 
18 CE 
(ora 
art. 21 TFUE), in circostanze 
come 
quelle 
della 
causa 
principale 
(un 
bambino 
tedesco, 
nato 
e 
cresciuto 
in 
Danimarca, 
da 
madre 
e 
padre 
entrambi 
tedeschi, il 
cui 
cognome 
recava 
il 
cognome 
di 
entrambi 
i 
genitori, possibilità 
esclusa 
dal 
diritto tedesco) osta 
a 
che 
le 
autorità 
di 
uno Stato membro 
(la 
Germania), in applicazione 
del 
diritto nazionale, rifiutino di 
riconoscere 
il 
cognome 
di 
un cittadino tedesco come 
esso è 
stato determinato e 
registrato in 
un altro Stato membro. 
34. Al 
riguardo, si 
osserva 
che 
la 
Corte, nel 
giungere 
a 
tale 
conclusione 
ha 
espressamente 
affermato 
(al 
punto 
38) 
che 
non 
era 
stata 
dedotta 
alcuna 
specifica 
ragione 
idonea 
ad ostare 
al 
riconoscimento del 
cognome 
del 
bambino 
così 
come 
era 
stato attribuito in Danimarca, come 
ad esempio la 
contrarietà 
di tale cognome all’ordine pubblico. 
35. Nel 
caso di 
specie, invece, il 
giudizio di 
proporzionalità 
certamente 
va 
effettuato tenendo conto della 
possibile 
contrarietà 
della 
registrazione 
del-
l’atto di 
nascita 
spagnolo all’ordine 
pubblico bulgaro, inteso come 
insieme 
di 
principi 
condivisi 
e 
di 
valori 
fondamentali, come 
tali 
irrinunciabili, di 
un determinato 
ordinamento. 
36. Quanto alla 
sentenza 
Sm, C-129/18, pronunciata 
in un caso riguardante 
un uomo e 
una 
donna, cittadini 
francesi, sposatisi 
nel 
Regno Unito, e 
divenuti 
tutori 
di 
un bambina 
algerina, abbandonata 
dalla 
nascita, per effetto 
del 
regime 
algerino 
della 
kafala, 
ai 
quali 
è 
stata 
respinta 
la 
domanda 
di 
ingresso 
della 
minore 
nel 
Regno Unito in quanto figlia 
adottiva, atteso che 
il 
regime 
della 
kafala 
non 
è 
riconosciuto 
come 
“adozione” 
ai 
sensi 
della 
Convenzione 
dell’Aia 
del 
1993, la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
affermato che 
la 
nozione 
di 
«discendente 
diretto» rinvia 
di 
solito all’esistenza 
di 
un legame 
di 
filiazione, 
in linea 
diretta, che 
unisce 
la 
persona 
interessata 
ad un’altra 
persona. 
In assenza 
di 
qualsiasi 
legame 
di 
filiazione 
tra 
il 
cittadino dell’Unione 
e 
il 
mi

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


nore 
interessato, quest’ultimo non può essere 
qualificato come 
«discendente 
diretto» del primo, ai sensi della direttiva 2004/38/CE (punto 52). 


37. La 
Corte 
ha 
quindi 
concluso che 
tale 
nozione 
di 
discendente 
diretto, 
contenuta 
nell’articolo 
2, 
punto 
2, 
lettera 
c) 
della 
predetta 
direttiva 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
non ricomprende 
un minore 
posto sotto la 
tutela 
legale 
permanente 
di 
un 
cittadino 
dell’Unione 
a 
titolo 
della 
kafala 
algerina 
in 
quanto tale sottoposizione non crea alcun legame di filiazione tra di loro. 
38. La 
Corte 
ha 
soggiunto che 
è 
tuttavia 
compito delle 
autorità 
nazionali 
competenti 
agevolare 
l’ingresso e 
il 
soggiorno di 
un minore 
siffatto in quanto 
altro familiare 
di 
un cittadino dell’Unione, conformemente 
all’articolo 3, paragrafo 
2, 
lettera 
a), 
di 
tale 
direttiva, 
letto 
alla 
luce 
dell’articolo 
7 
e 
dell’articolo 
24, paragrafo 2, della 
Carta 
di 
Nizza, procedendo ad una 
valutazione 
equilibrata 
e 
ragionevole 
di 
tutte 
le 
circostanze 
attuali 
e 
pertinenti 
del 
caso 
di 
specie, 
che 
tenga 
conto 
dei 
diversi 
interessi 
presenti 
e, 
in 
particolare, 
dell’interesse 
superiore del minore in questione. 
39. Il 
giudice 
del 
rinvio (Corte 
Suprema 
del 
Regno Unito) ha 
dato atto 
infatti 
che 
i 
coniugi 
si 
sono determinati 
a 
chiedere 
l’affidamento di 
un minore 
in Algeria 
secondo il 
regime 
della 
kafala 
dopo aver appreso che 
era 
più facile 
ottenere 
l’affidamento di 
un minore 
in tale 
paese 
che 
nel 
Regno unito e 
che 
il 
processo 
di 
valutazione 
della 
loro 
capacità 
di 
diventare 
tutori, 
in 
esito 
al 
quale 
sono 
stati 
considerati 
“idonei” 
ad 
accogliere 
un 
minore 
secondo 
il 
regime 
della 
kafala, era “limitato” rispetto a quello per addivenire ad una adozione. 
40. 
Il 
giudice 
del 
rinvio 
ha 
paventato 
che 
l’interpretazione 
secondo 
la 
quale 
il 
minore 
posto 
sotto 
il 
regime 
della 
kafala 
sia 
considerato 
un 
discendente 
diretto 
potrebbe 
generare 
un 
rischio 
di 
sfruttamento, 
abuso 
e 
tratta 
di 
minori 
che 
la 
convenzione 
dell’Aia 
del 
1993 
mira 
ad 
impedire 
e 
a 
scoraggiare 
(punto 
41). 
41. Da 
tali 
principi 
si 
ricava 
che, anche 
nel 
caso di 
specie, il 
diritto di 
libera 
circolazione 
nel 
territorio 
dell’Unione 
Europea 
dovrebbe 
essere 
garantito 
al 
minore 
a 
prescindere 
dal 
riconoscimento 
di 
un 
rapporto 
di 
filiazione 
con 
due genitori dello stesso sesso. 
42. 
Quanto 
alla 
sentenza 
della 
CEDU 
mennesson 
c. 
Francia, 
la 
Corte 
Europea, 
in un caso di 
coppia 
eterosessuale 
francese 
che 
ha 
fatto ricorso negli 
Stati 
Uniti 
alla 
tecnica 
delle 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
della 
maternità 
surrogata, ha 
affermato che 
gli 
Stati 
contraenti 
non sono tenuti 
a 
riconoscere 
un 
rapporto 
di 
filiazione 
con 
il 
genitore 
d’intenzione, 
ma 
a 
prevedere 
una 
via 
legale 
effettivamente 
percorribile, alternativa 
al 
riconoscimento del-
l'atto di 
nascita, nell'ambito della 
quale 
possa 
essere 
valutato in concreto se 
tale legame meriti di essere riconosciuto nel superiore interesse del minore. 
43. Tale 
principio è 
stato ribadito con il 
parere 
del 
10 aprile 
2019, reso 
sullo stesso caso dalla 
Grande 
Chambre 
della 
CEDU, precisando che 
il 
diritto 
al 
rispetto della 
vita 
privata 
del 
bambino ai 
sensi 
dell’articolo 8 della 
CEDU 
non richiede 
che 
il 
riconoscimento di 
un legame 
di 
filiazione 
tra 
il 
bambino e 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


la 
madre 
d’intenzione 
debba 
essere 
fatto tramite 
la 
trascrizione 
nei 
registri 
di 
stato civile 
dell’atto di 
nascita 
legalmente 
adottato all’estero, potendo tale 
diritto 
essere 
garantito con altro strumento quale 
quello dell’adozione 
del 
bambino 
da parte della madre d’intenzione. 


44. 
Anche 
in 
base 
alla 
giurisprudenza 
della 
CEDU 
quindi 
non 
sussiste 
un 
obbligo 
dello 
Stato 
di 
origine 
di 
assicurare 
che 
il 
diritto 
alla 
libera 
circolazione 
del 
minore 
venga 
garantito 
necessariamente 
con 
la 
trascrizione, 
nell’atto 
di 
nascita 
bulgaro, delle 
due 
madri 
risultanti 
dal 
certificato di 
nascita 
spagnolo, 
in 
assenza 
della 
precisazione 
se 
una 
di 
loro 
e, 
in 
caso 
positivo 
quale, 
sia 
la 
madre biologica del bambino. 
Roma, 8 febbraio 2021 

Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 


Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
europea, 
Grande 
Sezione, 
sentenza 
14 
dicembre 
2021, 
causa 
C-490/20 
-pres. 
K. 
Lenaerts, 
rel. 
m. 
Ilešič 
-Domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
proposta 
dall’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale 
amministrativo di 
Sofia, Bulgaria) il 
2 
ottobre 2020 - V.m.A. / Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo». 


«rinvio pregiudiziale 
-Cittadinanza dell’unione 
-articoli 
20 e 
21 tFue 
-diritto di 
libera 
circolazione 
e 
di 
libero soggiorno nel 
territorio degli 
stati 
membri 
-minore 
nato nello stato 
ospitante 
dei 
suoi 
genitori 
-atto di 
nascita rilasciato da tale 
stato membro che 
designa due 
madri 
per 
detto 
minore 
-rifiuto, 
da 
parte 
dello 
stato 
membro 
d’origine 
di 
una 
di 
tali 
due 
madri, di 
rilasciare 
un atto di 
nascita di 
detto minore 
in assenza di 
informazioni 
sull’identità 
della 
madre 
biologica 
del 
medesimo 
-possesso 
di 
siffatto 
atto 
quale 
presupposto 
per 
il 
rilascio 
di 
una carta d’identità o di 
un passaporto -normativa nazionale 
di 
tale 
stato membro d’origine 
che non ammette la genitorialità di persone dello stesso sesso» 


1 
La 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
verte 
sull’interpretazione 
dell’articolo 
4, 
paragrafo 
2, TUE, degli 
articoli 
20 e 
21 TFUE 
nonché 
degli 
articoli 
7, 9, 24 e 
45 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). 


2 Tale 
domanda 
è 
stata 
proposta 
nell’ambito di 
una 
controversia 
tra 
V.m.A. e 
la 
Stolichna 
obshtina, rayon «Pancharevo» (Comune 
di 
Sofia, distretto di 
Pancharevo, Bulgaria) (in 
prosieguo: 
il 
«Comune 
di 
Sofia»), in merito al 
rifiuto di 
quest’ultimo di 
rilasciare 
un atto 
di nascita della figlia di 
V.m.A. e di sua moglie. 


Contesto normativo 


Diritto internazionale 


3 L’articolo 2 della 
Convenzione 
internazionale 
sui 
diritti 
del 
fanciullo, adottata 
dall’Assemblea 
generale 
delle 
Nazioni 
Unite 
il 
20 
novembre 
1989 
(raccolta 
dei 
trattati 
delle 
nazioni unite, vol. 1577, pag. 3), così dispone: 


«1. Gli 
Stati 
parti 
si 
impegnano a 
rispettare 
i 
diritti 
enunciati 
nella 
presente 
Convenzione 
e 
a 
garantirli 
a 
ogni 
fanciullo che 
dipende 
dalla 
loro giurisdizione, senza 
distinzione 
di 
sorta 
e 
a 
prescindere 
da 
ogni 
considerazione 
di 
razza, di 
colore, di 
sesso, di 
lingua, di 
re

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
55 


ligione, 
di 
opinione 
politica 
o 
altra 
del 
fanciullo 
o 
dei 
suoi 
genitori 
o 
rappresentanti 
legali, 
dalla 
loro origine 
nazionale, etnica 
o sociale, dalla 
loro situazione 
finanziaria, dalla 
loro 
incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza. 


2. Gli 
Stati 
parti 
adottano tutti 
i 
provvedimenti 
appropriati 
affinché 
il 
fanciullo sia 
effettivamente 
tutelato 
contro 
ogni 
forma 
di 
discriminazione 
o 
di 
sanzione 
motivate 
dalla 
condizione 
sociale, 
dalle 
attività, 
opinioni 
professate 
o 
convinzioni 
dei 
suoi 
genitori, 
dei 
suoi 
rappresentanti legali o dei suoi familiari». 
4 L’articolo 7 di tale Convenzione prevede quanto segue: 


«1. Il 
fanciullo è 
registrato immediatamente 
al 
momento della 
sua 
nascita 
e 
da 
allora 
ha 
diritto a 
un nome, ad acquisire 
una 
cittadinanza 
e, nella 
misura 
del 
possibile, a 
conoscere 
i suoi genitori e a essere allevato da essi. 
2. Gli 
Stati 
parti 
vigilano affinché 
questi 
diritti 
siano attuati 
in conformità 
con la 
loro legislazione 
nazionale 
e 
con 
gli 
obblighi 
che 
sono 
imposti 
loro 
dagli 
strumenti 
internazionali 
applicabili 
in materia, in particolare 
nei 
casi 
in cui 
se 
ciò non fosse 
fatto, il 
fanciullo verrebbe 
a trovarsi apolide». 
diritto dell’Unione 


trattato ue 


5 L’articolo 4, paragrafo 2, TUE così dispone: 
«L’Unione 
rispetta 
l’uguaglianza 
degli 
Stati 
membri 
davanti 
ai 
trattati 
e 
la 
loro identità 
nazionale 
insita 
nella 
loro struttura 
fondamentale, politica 
e 
costituzionale, compreso il 
sistema 
delle 
autonomie 
locali 
e 
regionali. Rispetta 
le 
funzioni 
essenziali 
dello Stato, in 
particolare 
le 
funzioni 
di 
salvaguardia 
dell’integrità 
territoriale, 
di 
mantenimento 
dell’ordine 
pubblico e 
di 
tutela 
della 
sicurezza 
nazionale. In particolare, la 
sicurezza 
nazionale 
resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». 


trattato Fue 


6 L’articolo 20 TFUE dispone quanto segue: 


«1. 
È 
istituita 
una 
cittadinanza 
dell’Unione. 
È 
cittadino 
dell’Unione 
chiunque 
abbia 
la 
cittadinanza 
di 
uno Stato membro. La 
cittadinanza 
dell’Unione 
si 
aggiunge 
alla 
cittadinanza 
nazionale e non la sostituisce. 
2. I cittadini 
dell’Unione 
godono dei 
diritti 
e 
sono soggetti 
ai 
doveri 
previsti 
nei 
trattati. 
Essi hanno, tra l’altro: 
a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; 
(...) 
Tali 
diritti 
sono 
esercitati 
secondo 
le 
condizioni 
e 
i 
limiti 
definiti 
dai 
trattati 
e 
dalle 
misure 
adottate in applicazione degli stessi». 
7 L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE enuncia quanto segue: 
«Ogni 
cittadino dell’Unione 
ha 
il 
diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri, fatte 
salve 
le 
limitazioni 
e 
le 
condizioni 
previste 
dai 
trattati 
e 
dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi». 


Carta 


8 
L’articolo 
7 
della 
Carta, 
«Rispetto 
della 
vita 
privata 
e 
della 
vita 
familiare», 
prevede 
quanto 
segue: 
«Ogni 
persona 
ha 
diritto al 
rispetto della 
propria 
vita 
privata 
e 
familiare, del 
proprio domicilio 
e delle proprie comunicazioni». 


9 L’articolo 9 della 
Carta, intitolato «Diritto di 
sposarsi 
e 
di 
costituire 
una 
famiglia», prevede: 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


«Il 
diritto di 
sposarsi 
e 
il 
diritto di 
costituire 
una 
famiglia 
sono garantiti 
secondo le 
leggi 
nazionali che ne disciplinano l’esercizio». 


10 L’articolo 24 della Carta, intitolato «Diritti del minore», recita come segue 


«1. I minori 
hanno diritto alla 
protezione 
e 
alle 
cure 
necessarie 
per il 
loro benessere. Essi 
possono 
esprimere 
liberamente 
la 
propria 
opinione. 
Questa 
viene 
presa 
in 
considerazione 
sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. 
2. 
In 
tutti 
gli 
atti 
relativi 
ai 
minori, 
siano 
essi 
compiuti 
da 
autorità 
pubbliche 
o 
da 
istituzioni 
private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente. 
3. 
Il 
minore 
ha 
diritto 
di 
intrattenere 
regolarmente 
relazioni 
personali 
e 
contatti 
diretti 
con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse». 
11 L’articolo 45 della Carta, intitolato «Libertà di circolazione e di soggiorno», recita: 


«1. Ogni 
cittadino dell’Unione 
ha 
il 
diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio degli Stati membri. 
2. 
La 
libertà 
di 
circolazione 
e 
di 
soggiorno 
può 
essere 
accordata, 
conformemente 
ai 
trattati, 
ai cittadini dei paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio di uno Stato membro». 
direttiva 2004/38/Ce 


12 La 
direttiva 
2004/38/CE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
29 aprile 
2004, relativa 
al 
diritto dei 
cittadini 
dell’Unione 
e 
dei 
loro familiari 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri, 
che 
modifica 
il 
regolamento 
(CEE) 
n. 
1612/68 
ed 
abroga 
le 
direttive 
64/221/CEE, 
68/360/CEE, 
72/194/CEE, 
73/148/CEE, 
75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE 
e 
93/96/CEE 
(GU 
2004, L 
158, pag. 
77, 
e 
rettifica 
in 
GU 
2004, 
L 
229, 
pag. 
35), 
prevede 
all’articolo 
2, 
intitolato 
«Definizioni»: 
«Ai fini della presente direttiva, si intende per: 


1) 
“cittadino 
dell’Unione”: 
qualsiasi 
persona 
avente 
la 
cittadinanza 
di 
uno 
Stato 
membro; 
2) “familiare”: 
a) il coniuge; 
b) 
il 
partner 
che 
abbia 
contratto 
con 
il 
cittadino 
dell’Unione 
un’unione 
registrata 
sulla 
base 
della 
legislazione 
di 
uno Stato membro, qualora 
la 
legislazione 
dello Stato membro 
ospitante 
equipari 
l’unione 
registrata 
al 
matrimonio 
e 
nel 
rispetto 
delle 
condizioni 
previste 
dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante; 
c) i 
discendenti 
diretti 
di 
età 
inferiore 
a 
21 anni 
o a 
carico e 
quelli 
del 
coniuge 
o partner 
di cui alla lettera b); 
d) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b); 
3) “Stato membro ospitante”: 
lo Stato membro nel 
quale 
il 
cittadino dell’Unione 
si 
reca 
al fine di esercitare il diritto di libera circolazione o di soggiorno». 
13 L’articolo 4 di detta direttiva, intitolato «Diritto di uscita», prevede: 


«1. Senza 
pregiudizio delle 
disposizioni 
applicabili 
ai 
controlli 
dei 
documenti 
di 
viaggio 
alle 
frontiere 
nazionali, ogni 
cittadino dell’Unione 
munito di 
una 
carta 
d’identità 
o di 
un 
passaporto in corso di 
validità 
e 
i 
suoi 
familiari 
non aventi 
la 
cittadinanza 
di 
uno Stato 
membro e 
muniti 
di 
passaporto in corso di 
validità 
hanno il 
diritto di 
lasciare 
il 
territorio 
di uno Stato membro per recarsi in un altro Stato membro. 
(...) 
3. Gli 
Stati 
membri 
rilasciano o rinnovano ai 
loro cittadini, ai 
sensi 
della 
legislazione 
nazionale, 
una carta d’identità o un passaporto dai quali risulti la loro cittadinanza. 
4. 
Il 
passaporto 
deve 
essere 
valido 
almeno 
per 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
e 
per 
i 
paesi 
di 
transito 
diretto tra 
gli 
stessi. Qualora 
la 
legislazione 
di 
uno Stato membro non preveda 
il 
rilascio 

CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
57 


di 
una 
carta 
d’identità, il 
periodo di 
validità 
del 
passaporto, al 
momento del 
rilascio o del 
rinnovo, non può essere inferiore a cinque anni». 


14 L’articolo 5 della direttiva, intitolato «Diritto di ingresso», recita: 


«1. 
Senza 
pregiudizio 
delle 
disposizioni 
applicabili 
ai 
controlli 
dei 
documenti 
di 
viaggio 
alle 
frontiere 
nazionali, 
gli 
Stati 
membri 
ammettono 
nel 
loro 
territorio 
il 
cittadino 
del-
l’Unione 
munito 
di 
una 
carta 
d’identità 
o 
di 
un 
passaporto 
in 
corso 
di 
validità, 
nonché 
i 
suoi 
familiari 
non 
aventi 
la 
cittadinanza 
di 
uno 
Stato 
membro, 
muniti 
di 
valido 
passaporto. 
(...) 
4. Qualora 
il 
cittadino dell’Unione 
o il 
suo familiare 
non avente 
la 
cittadinanza 
di 
uno 
Stato membro sia 
sprovvisto dei 
documenti 
di 
viaggio o, eventualmente, dei 
visti 
necessari, 
lo 
Stato 
membro 
interessato 
concede, 
prima 
di 
procedere 
al 
respingimento, 
ogni 
possibile 
agevolazione 
affinché 
possa 
ottenere 
o 
far 
pervenire 
entro 
un 
periodo 
di 
tempo 
ragionevole 
i 
documenti 
necessari, oppure 
possa 
dimostrare 
o attestare 
con altri 
mezzi 
la 
qualifica di titolare del diritto di libera circolazione. 
(...)». 
diritto bulgaro 


15 Ai 
sensi 
dell’articolo 25, paragrafo 1, della 
Konstitutsia 
na 
Republika 
Bulgaria 
(Costituzione 
della Repubblica di Bulgaria), (in prosieguo: la «Costituzione bulgara»): 
«La 
cittadinanza 
bulgara 
è 
detenuta 
da 
ogni 
persona 
di 
cui 
almeno 
un 
genitore 
sia 
cittadino 
bulgaro o che 
sia 
nata 
nel 
territorio bulgaro, se 
non acquisisce 
un’altra 
cittadinanza 
per 
filiazione. La cittadinanza bulgara può essere acquisita anche per naturalizzazione». 


16 Ai 
sensi 
dell’articolo 
8 
della 
Zakon 
za 
balgarskoto 
grazhdanstvo 
(legge 
bulgara 
sulla 
cittadinanza), 
del 
5 
novembre 
1998 
(DV 
n. 
136 
del 
18 
novembre 
1998, 
pag. 
1), 
«una 
persona 
ha 
la 
cittadinanza 
bulgara 
per 
filiazione 
se 
almeno 
uno 
dei 
suoi 
genitori 
è 
cittadino 
bulgaro». 


17 
Il 
Semeen 
kodeks 
(codice 
di 
famiglia), 
del 
12 
giugno 
2009 
(DV 
n. 
47 
del 
23 
giugno 
2009, 
pag. 19), prevede, all’articolo 60, intitolato «Filiazione nei confronti della madre»: 
«(1) La filiazione nei confronti della madre è determinata dalla nascita. 


(2) La 
madre 
del 
bambino è 
la 
donna 
che 
lo ha 
dato alla 
luce, anche 
in caso di 
procreazione 
assistita. 
(...)». 
Procedimento principale e questioni pregiudiziali 


18 V.m.A. è 
cittadina 
bulgara 
e 
K.D.K. è 
cittadina 
del 
Regno Unito. Quest’ultima 
è 
nata 
a 
Gibilterra, dove le due donne si sono sposate nel 2018. Dal 2015 risiedono in Spagna. 


19 Nel 
dicembre 
2019, V.m.A. e 
K.D.K. hanno avuto una 
figlia, S.D.K.A., che 
è 
nata 
e 
vive 
con entrambi 
i 
genitori 
in Spagna. L’atto di 
nascita 
di 
detta 
figlia, rilasciato dalle 
autorità 
spagnole, menziona 
V.m.A. come «madre 
A» e K.D.K. come «madre». 


20 Il 
29 gennaio 2020, V.М.А. ha 
chiesto al 
comune 
di 
Sofia 
di 
rilasciarle 
un atto di 
nascita 
per S.D.K.A., essendo quest’ultimo necessario, in particolare, per il 
rilascio di 
un documento 
d’identità 
bulgaro. A 
sostegno della 
sua 
domanda, V.М.А. ha 
presentato una 
traduzione 
in lingua 
bulgara, legalizzata 
e 
autenticata, dell’estratto del 
registro dello stato 
civile di Barcellona (Spagna), relativo all’atto di nascita di S.D.K.A. 


21 Con 
lettera 
del 
7 
febbraio 
2020, 
il 
Comune 
di 
Sofia 
ha 
invitato 
V.m.A. 
a 
fornire, 
entro 
7 
giorni, 
prove 
relative 
alla 
filiazione 
di 
S.D.K.A, 
in 
relazione 
all’identità 
della 
madre 
biologica. 
Esso 
ha 
precisato 
a 
tal 
proposito 
che 
il 
modello 
di 
atto 
di 
nascita 
figurante 
nei 
modelli 
di 
atti 
di 
stato 
civile 
in 
vigore 
a 
livello 
nazionale 
prevede 
una 
sola 
casella 
per 
la 
«madre» 
e 
un’altra 
per 
il 
«padre», 
e 
solo 
un 
nome 
può 
apparire 
in 
ciascuna 
di 
queste 
caselle. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


22 
Il 
18 
febbraio 
2020, 
V.М.А. 
ha 
risposto 
al 
Comune 
di 
Sofia 
che, 
in 
virtù 
della 
legislazione 
bulgara in vigore, non era obbligata a fornire l’informazione richiesta. 


23 Con decisione 
del 
5 marzo 2020, il 
Comune 
di 
Sofia 
ha 
quindi 
respinto la 
domanda 
di 


V.m.A. 
diretta 
al 
rilascio 
di 
un 
atto 
di 
nascita 
di 
S.D.K.A. 
Esso 
ha 
motivato 
tale 
decisione 
di 
rigetto 
con 
la 
mancanza 
di 
informazioni 
riguardanti 
l’identità 
della 
madre 
biologica 
del 
minore 
interessato e 
con il 
fatto che 
la 
menzione 
in un atto di 
nascita 
di 
due 
genitori 
di 
sesso 
femminile 
era 
contraria 
all’ordine 
pubblico 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria, 
che 
non autorizza il matrimonio tra due persone dello stesso sesso. 
24 V.m.A. ha 
proposto ricorso avverso tale 
decisione 
di 
rigetto dinanzi 
all’Administrativen 
sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria), il giudice del rinvio. 


25 
Detto 
giudice 
afferma 
che, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
25, 
paragrafo 
1, 
della 
Costituzione 
bulgara 
e 
dell’articolo 
8 
della 
legge 
bulgara 
sulla 
cittadinanza, 
S.D.K.A. 
ha 
la 
cittadinanza 
bulgara, 
nonostante 
il 
fatto che, ad oggi, l’interessata 
non ha 
alcun atto di 
nascita 
rilasciato dalle 
autorità 
bulgare. Infatti, il 
rifiuto di 
dette 
autorità 
di 
rilasciarle 
un tale 
atto non significherebbe 
che le sia negata la cittadinanza bulgara. 


26 Il 
giudice 
del 
rinvio nutre 
invece 
dubbi 
riguardo alla 
questione 
se 
il 
rifiuto, da 
parte 
delle 
autorità 
bulgare, 
di 
registrare 
la 
nascita 
di 
un 
cittadino 
bulgaro, 
avvenuta 
in 
un 
altro 
Stato 
membro 
e 
attestata 
da 
un 
atto 
di 
nascita 
che 
indica 
due 
madri, 
rilasciato 
dalle 
autorità 
competenti 
di 
quest’ultimo Stato membro, violi 
i 
diritti 
conferiti 
a 
detto cittadino dagli 
articoli 
20 e 
21 TFUE, nonché 
dagli 
articoli 
7, 24 e 
45 della 
Carta. Infatti, il 
rifiuto da 
parte 
delle 
autorità 
bulgare 
di 
rilasciare 
un atto di 
nascita 
-anche 
se 
non avrebbe 
alcun 
impatto 
giuridico 
sulla 
cittadinanza 
bulgara 
del 
minore 
interessato 
e, 
di 
conseguenza, 
sulla 
cittadinanza 
dell’Unione 
di 
quest’ultimo -potrebbe 
rendere 
più difficile 
il 
rilascio 
di 
un documento d’identità 
bulgaro e, di 
conseguenza, ostacolare 
l’esercizio da 
parte 
del 
minore 
del 
diritto alla 
libera 
circolazione 
e 
quindi 
il 
pieno godimento dei 
suoi 
diritti 
di 
cittadino dell’Unione. 


27 
Inoltre, 
poiché 
l’altra 
madre 
di 
S.D.K.A., 
K.D.K., 
è 
cittadina 
del 
Regno 
Unito, 
lo 
stesso 
giudice 
si 
chiede 
se 
le 
conseguenze 
giuridiche 
derivanti 
dall’accordo 
sul 
recesso 
del 
Regno 
Unito 
di 
Gran 
Bretagna 
e 
Irlanda 
del 
Nord 
dall’Unione 
europea 
e 
dalla 
Comunità 
europea 
dell’energia 
atomica 
(GU 
2020, 
L 
29, 
pag. 
7; 
in 
prosieguo: 
l’«accordo 
sul 
recesso»), 
e 
in 
particolare 
il 
fatto 
che 
tale 
minore 
non 
possa 
più 
godere 
dello 
status 
di 
cittadino 
dell’Unione 
in 
virtù 
della 
cittadinanza 
di 
K.D.K., 
siano 
pertinenti 
per 
la 
valutazione 
di 
tale 
questione. 


28 Inoltre, 
l’Administrativen 
sad 
Sofia-grad 
(Tribunale 
amministrativo 
di 
Sofia) 
si 
chiede 
se 
l’obbligo 
eventualmente 
imposto 
alle 
autorità 
bulgare, 
nell’ambito 
dell’emissione 
di 
un 
atto 
di 
nascita, 
di 
menzionare 
in 
tale 
atto 
due 
madri 
come 
genitori 
del 
minore 
in 
questione, 
sia 
tale 
da 
pregiudicare 
l’ordine 
pubblico 
e 
l’identità 
nazionale 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria, 
poiché 
tale 
Stato 
membro 
non 
ha 
previsto 
la 
possibilità 
di 
menzionare 
in 
un 
atto 
di 
nascita 
due 
genitori 
dello 
stesso 
sesso 
per 
tale 
minore. 
Detto 
giudice 
rileva, 
a 
tal 
riguardo, 
che 
le 
disposizioni 
che 
disciplinano 
la 
filiazione 
di 
tale 
minore 
assumono 
un’importanza 
fondamentale 
nella 
tradizione 
costituzionale 
bulgara, 
nonché 
nella 
dottrina 
bulgara 
in 
materia 
di 
diritto 
di 
famiglia 
e 
delle 
successioni, 
sia 
sotto 
il 
profilo 
puramente 
giuridico 
sia 
sotto 
il 
profilo 
dei 
valori, 
tenuto 
conto 
dello 
stadio 
attuale 
di 
evoluzione 
della 
società 
in 
Bulgaria. 


29 
Pertanto, 
l’Administrativen 
sad 
Sofia-grad 
(Tribunale 
amministrativo 
di 
Sofia) 
ritiene 
necessario 
trovare 
un 
equilibrio 
tra, 
da 
un 
lato, 
l’identità 
costituzionale 
e 
nazionale 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria 
e, 
dall’altro, 
gli 
interessi 
del 
minore, 
e, 
in 
particolare, 
il 
suo 
diritto 
alla vita privata e alla libera circolazione. 



CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
59 


30 Tale 
giudice 
si 
chiede 
se, nel 
caso di 
specie, un tale 
equilibrio possa 
essere 
raggiunto in 
applicazione 
del 
principio 
di 
proporzionalità 
e, 
in 
particolare, 
se 
la 
menzione, 
nella 
rubrica 
«madre», 
del 
nome 
di 
una 
delle 
due 
madri 
che 
compaiono 
nell’atto 
di 
nascita 
emesso 
dalle 
autorità 
spagnole, dal 
momento che 
la 
stessa 
può essere 
sia 
la 
madre 
biologica 
del 
minore 
sia 
quella 
divenuta 
tale 
per altra 
via, ad esempio tramite 
l’adozione, senza 
compilare 
la 
rubrica 
«Padre», costituirebbe 
un equilibrio adeguato tra 
tali 
diversi 
legittimi 
interessi. 
Esso osserva 
che, sebbene 
una 
tale 
soluzione 
potrebbe 
anche 
comportare 
alcune 
difficoltà, 
a 
causa 
di 
eventuali 
differenze 
tra 
l’atto 
di 
nascita 
emesso 
dalle 
autorità 
bulgare 
e 
quello emesso dalle 
autorità 
spagnole, tale 
soluzione 
permetterebbe 
così 
il 
rilascio di 
un atto di 
nascita 
da 
parte 
delle 
autorità 
bulgare, eliminando così, o almeno attenuando, 
eventuali 
ostacoli 
alla 
libera 
circolazione 
del 
minore 
interessato. Tuttavia, detto giudice 
si 
chiede 
se 
questa 
soluzione 
sia 
compatibile 
con il 
diritto di 
tale 
minore 
alla 
vita 
privata 
e familiare, sancito dall’articolo 7 della Carta. 


31 Infine, qualora 
la 
Corte 
giunga 
alla 
conclusione 
che 
il 
diritto dell’Unione 
esige 
che 
entrambe 
le 
madri 
del 
minore 
in 
questione 
siano 
menzionate 
nell’atto 
di 
nascita 
emesso 
dalle 
autorità 
bulgare, il 
giudice 
del 
rinvio si 
chiede 
come 
debba 
essere 
attuato tale 
obbligo, 
non potendo detto giudice 
sostituire 
il 
modello di 
atto di 
nascita 
figurante 
nei 
modelli 
di atti di stato civile in vigore a livello nazionale. 


32 In tali 
circostanze, l’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale 
amministrativo di 
Sofia) 
ha 
deciso di 
sospendere 
il 
procedimento e 
di 
sottoporre 
alla 
Corte 
le 
seguenti 
questioni 
pregiudiziali: 
«1) 
Se 
gli 
articoli 
20 
e 
21 
TFUE 
nonché 
gli 
articoli 
7, 
24 
e 
45 
della 
[Carta] 
debbano 
essere 
interpretati 
nel 
senso che 
non consentono alle 
autorità 
amministrative 
bulgare, presso le 
quali 
è 
stata 
presentata 
una 
domanda 
di 
certificazione 
della 
nascita 
di 
un bambino, cittadino 
bulgaro, avvenuta 
in un altro Stato membro dell’Unione, e 
attestata 
da 
un atto di 
nascita 
spagnolo, 
nel 
quale 
due 
persone 
di 
sesso 
femminile 
sono 
state 
registrate 
come 
madri, 
senza 
precisare 
ulteriormente 
se 
una 
di 
esse, 
e 
in 
caso 
affermativo 
quale, 
sia 
la 
madre 
biologica 
del 
bambino, di 
rifiutare 
il 
rilascio di 
un atto di 
nascita 
bulgaro con la 
motivazione 
che la ricorrente si rifiuta di indicare chi è la madre biologica del bambino. 


2) 
Se 
l’articolo 
4, 
paragrafo 
2, 
TUE 
e 
l’articolo 
9 
della 
Carta 
debbano 
essere 
interpretati 
nel 
senso 
che 
la 
salvaguardia 
dell’identità 
nazionale 
e 
dell’identità 
costituzionale 
degli 
Stati 
membri 
[dell’Unione] 
significa 
che 
questi 
ultimi 
dispongono 
di 
un’ampia 
discrezionalità 
con 
riferimento 
alle 
disposizioni 
per 
l’accertamento 
della 
filiazione. 
In 
particolare: 
se 
l’articolo 
4, 
paragrafo 
2, 
TUE 
debba 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
consente 
agli 
Stati membri di richiedere informazioni sulla discendenza biologica del bambino; 
se 
l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, in combinato disposto con l’articolo 7 e 
con l’articolo 
24, 
paragrafo 
2, 
della 
Carta, 
debba 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
è 
imprescindibile 
ponderare, da 
una 
parte, l’identità 
nazionale 
e 
l’identità 
costituzionale 
di 
uno Stato membro 
e, dall’altra, l’interesse 
superiore 
del 
bambino, tenuto conto del 
fatto che 
attualmente 
non esiste 
consenso né 
dal 
punto di 
vista 
dei 
valori 
né 
dal 
punto di 
vista 
giuridico sulla 
possibilità 
di 
far 
registrare 
come 
genitori, 
in 
un 
atto 
di 
nascita, 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
senza 
precisare 
ulteriormente 
se 
uno di 
essi, e 
in caso affermativo quale, sia 
il 
genitore 
biologico 
del 
bambino. 
In 
caso 
di 
risposta 
affermativa 
a 
tale 
domanda, 
come 
si 
possa 
realizzare 
concretamente detto bilanciamento di interessi. 
3) Se 
le 
conseguenze 
giuridiche 
del[l’accordo di 
recesso] siano rilevanti 
per la 
risposta 
alla 
prima 
questione, 
in 
quanto 
una 
delle 
madri, 
che 
è 
indicata 
nell’atto 
di 
nascita 
rilasciato 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


in un altro Stato membro, è 
cittadina 
del 
Regno Unito, e 
l’altra 
madre 
è 
cittadina 
di 
uno 
Stato 
membro 
dell’Unione, 
se 
si 
considera 
in 
particolare 
che 
il 
rifiuto 
di 
rilasciare 
un 
atto 
di 
nascita 
bulgaro del 
bambino rappresenta 
un ostacolo per il 
rilascio di 
un certificato di 
identità 
del 
bambino 
da 
parte 
di 
uno 
Stato 
membro 
[dell’Unione] 
e, 
di 
conseguenza, 
rende 
eventualmente più difficile il pieno esercizio dei suoi diritti come cittadino dell’Unione. 


4) Se, in caso di 
risposta 
affermativa 
alla 
prima 
questione, il 
diritto dell’Unione, in particolare 
il 
principio di 
effettività, obblighi 
le 
competenti 
autorità 
nazionali 
a 
discostarsi 
dal 
modello per la 
redazione 
di 
un atto di 
nascita 
[figurante 
nei 
modelli 
di 
atti 
di 
stato civile], 
che è parte costitutiva del diritto nazionale vigente». 
Procedimento dinanzi alla Corte 


33 Nella 
sua 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale, il 
giudice 
del 
rinvio chiede 
che 
la 
causa 
sia 
trattata 
con 
procedimento 
accelerato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
105 
del 
regolamento 
di 
procedura 
della 
Corte. 
Tale 
giudice 
sostiene, 
in 
particolare, 
che 
il 
rifiuto 
delle 
autorità 
bulgare 
di 
rilasciare 
a 
S.D.K.A., 
che 
sarebbe 
cittadina 
bulgara, 
un 
atto 
di 
nascita 
causerebbe 
a 
tale 
minore 
serie 
difficoltà 
per 
ottenere 
un 
documento 
d’identità 
bulgaro 
e, 
di 
conseguenza, 
per esercitare 
il 
suo diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli Stati membri, garantito all’articolo 21 TFUE. 


34 L’articolo 105, paragrafo 1, del 
regolamento di 
procedura 
prevede 
che, su domanda 
del 
giudice 
del 
rinvio 
o, 
in 
via 
eccezionale, 
d’ufficio, 
il 
presidente 
della 
Corte, 
sentiti 
il 
giudice 
relatore 
e 
l’avvocato generale, può decidere 
di 
sottoporre 
un rinvio pregiudiziale 
a 
procedimento 
accelerato quando la natura della causa richiede un suo rapido trattamento. 


35 Nella 
fattispecie, il 
19 ottobre 
2020, il 
presidente 
della 
Corte 
ha 
deciso, sentiti 
il 
giudice 
relatore 
e 
l’avvocato 
generale, 
di 
accogliere 
la 
domanda 
di 
procedimento 
accelerato 
menzionata 
al 
punto 33 della 
presente 
sentenza. Tale 
decisione 
è 
stata 
motivata 
con il 
fatto 
che 
S.D.K.A., una 
minore 
in tenera 
età, è 
attualmente 
priva 
di 
un passaporto, mentre 
risiede 
in uno Stato membro di 
cui 
non è 
cittadina. Poiché 
le 
questioni 
poste 
sono volte 
a 
determinare 
se 
le 
autorità 
bulgare 
siano 
tenute 
a 
rilasciare 
un 
atto 
di 
nascita 
per 
tale 
minore 
e 
poiché 
dalla 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
risulta 
che 
tale 
atto è 
necessario, secondo 
il 
diritto 
nazionale, 
per 
poter 
ottenere 
un 
passaporto 
bulgaro, 
una 
risposta 
della 
Corte 
entro un breve 
periodo di 
tempo può contribuire 
a 
che 
tale 
minore 
ottenga 
più rapidamente 
un 
passaporto 
(v., 
in 
tal 
senso, 
ordinanza 
del 
presidente 
della 
Corte 
del 
3 
luglio 
2015, Gogova, C‑215/15, non pubblicata, EU:C:2015:466, punti da 12 a 14). 
Sulle questioni pregiudiziali 


36 Con le 
sue 
questioni, che 
devono essere 
esaminate 
congiuntamente, il 
giudice 
nazionale 
chiede, in sostanza, se 
il 
diritto dell’Unione 
obblighi 
uno Stato membro a 
rilasciare 
un 
atto di 
nascita, al 
fine 
di 
ottenere 
un documento d’identità 
secondo le 
norme 
di 
tale 
Stato 
membro, per un minore, cittadino di 
tale 
Stato membro, la 
cui 
nascita 
in un altro Stato 
membro è 
attestata 
da 
un atto di 
nascita 
emesso dalle 
autorità 
di 
tale 
altro Stato membro, 
conformemente 
alla 
sua 
legislazione 
nazionale, 
e 
che 
designa, 
quali 
madri 
di 
tale 
minore, 
una 
cittadina 
del 
primo di 
tali 
Stati 
membri 
e 
sua 
moglie, senza 
precisare 
quale 
delle 
due 
donne 
abbia 
dato alla 
luce 
la 
bambina. In caso affermativo, detto giudice 
si 
chiede 
se 
il 
diritto 
dell’Unione 
esiga 
che 
un 
tale 
atto 
includa, 
come 
quello 
emesso 
dalle 
autorità 
dello 
Stato membro in cui il minore è nato, i nomi di tali due donne in qualità di madri. 


37 Il 
suddetto giudice 
desidera 
anche 
sapere 
se 
il 
fatto che 
l’altra 
madre 
del 
minore 
in questione 
sia 
cittadina 
del 
Regno Unito, che 
non è 
più uno Stato membro, abbia 
una 
qualche 
influenza sulla risposta a tale questione. 



CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


38 In via 
preliminare, è 
importante 
ricordare 
che, da 
un lato, la 
determinazione 
dei 
modi 
di 
acquisto 
e 
di 
perdita 
della 
cittadinanza 
rientra, 
in 
conformità 
al 
diritto 
internazionale, 
nella 
competenza 
di 
ciascuno Stato membro, e 
che, dall’altro, in situazioni 
ricadenti 
nel-
l’ambito del 
diritto dell’Unione, le 
norme 
nazionali 
di 
cui 
trattasi 
devono rispettare 
quest’ultimo 
(sentenze 
del 
2 marzo 2010, Rottmann, C‑135/08, EU:C:2010:104, punti 
39 e 
41, nonché del 12 marzo 2019, Tjebbes e altri, C‑221/17, EU:C:2019:189, punto 30). 


39 Secondo gli 
accertamenti 
effettuati 
dal 
giudice 
del 
rinvio, che 
è 
l’unico competente 
in 
materia, 
S.D.K.A. 
è 
cittadina 
bulgara 
per 
nascita 
ai 
sensi 
dell’articolo 
25, 
paragrafo 
1, 
della Costituzione bulgara. 


40 Ai 
sensi 
dell’articolo 20, paragrafo 1, TFUE, è 
cittadino dell’Unione 
chiunque 
abbia 
la 
cittadinanza 
di 
uno 
Stato 
membro. 
Ne 
consegue 
che, 
in 
quanto 
cittadina 
bulgara, 
S.D.K.A. 
gode dello status di cittadino dell’Unione ai sensi della disposizione di cui trattasi. 


41 A 
tale 
riguardo, la 
Corte 
ha 
ripetutamente 
affermato che 
lo status 
di 
cittadino dell’Unione 
è 
destinato ad essere 
lo status 
fondamentale 
dei 
cittadini 
degli 
Stati 
membri 
[v. sentenze 
del 
20 settembre 
2001, Grzelczyk, C‑184/99, EU:C:2001:458, punto 31 e 
del 
15 luglio 
2021, A (Assistenza sanitaria pubblica), C‑535/19, EU:C:2021:595, punto 41]. 


42 Come 
risulta 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte, 
un 
cittadino 
di 
uno 
Stato 
membro 
che, 
nella 
sua 
qualità 
di 
cittadino 
dell’Unione 
abbia 
esercitato 
la 
propria 
libertà 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
in 
uno 
Stato 
membro 
diverso 
dal 
suo 
Stato 
membro 
d’origine, 
può 
avvalersi 
dei 
diritti 
connessi 
a 
tale 
qualità, 
in 
particolare 
di 
quelli 
previsti 
dall’articolo 
21, 
paragrafo 
1, 
TFUE, 
anche, 
eventualmente, 
nei 
confronti 
del 
suo 
Stato 
membro 
d’origine 
(sentenza 
del 
5 
giugno 
2018, 
Coman 
e 
a., 
C‑673/16, 
EU:C:2018:385, 
punto 
31 
e 
la 
giurisprudenza 
ivi 
citata). 
Anche 
i 
cittadini 
dell’Unione 
che 
sono 
nati 
nello 
Stato 
membro 
ospitante 
dei 
loro 
genitori 
e 
che 
non 
si 
sono 
mai 
avvalsi 
del 
diritto 
alla 
libera 
circolazione 
possono 
invocare 
tale 
disposizione 
e 
le 
disposizioni 
adottate 
per 
la 
sua 
applicazione 
(sentenza 
del 
2 
ottobre 
2019, 
Bajratari, 
C‑93/18, 
EU:C:2019:809, 
punto 
26 
e 
giurisprudenza 
ivi 
citata). 


43 Ai 
sensi 
dell’articolo 
21, 
paragrafo 
1, 
TFUE, 
ogni 
cittadino 
dell’Unione 
ha 
il 
diritto 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri, 
fatte 
salve 
le 
limitazioni 
e 
le 
condizioni 
previste 
dai 
trattati 
e 
dalle 
disposizioni 
adottate 
in 
applicazione 
degli 
stessi. 
Per 
permettere 
ai 
loro 
cittadini 
di 
esercitare 
tale 
diritto, 
l’articolo 
4, 
paragrafo 
3, 
della 
direttiva 
2004/38 
impone 
agli 
Stati 
membri, 
conformemente 
alla 
loro 
legislazione, 
di 
rilasciare 
ai 
loro 
cittadini 
una 
carta 
d’identità 
o 
un 
passaporto 
che 
indichi 
la 
loro 
cittadinanza. 


44 Pertanto, poiché 
S.D.K.A. è 
una 
cittadina 
bulgara, le 
autorità 
bulgare 
sono obbligate 
a 
rilasciarle 
una 
carta 
d’identità 
o un passaporto che 
indichi 
la 
sua 
cittadinanza 
e 
il 
suo cognome 
come 
risulta 
dall’atto 
di 
nascita 
emesso 
dalle 
autorità 
spagnole, 
in 
quanto 
la 
Corte 
ha 
già 
dichiarato che 
l’articolo 21 TFUE 
osta 
a 
che 
le 
autorità 
di 
uno Stato membro, in 
applicazione 
del 
diritto 
nazionale, 
rifiutino 
di 
riconoscere 
il 
cognome 
di 
un 
figlio 
così 
come 
esso è 
stato determinato e 
registrato in un altro Stato membro in cui 
tale 
figlio è 
nato e 
risiede 
sin dalla 
nascita 
(v., in tal 
senso, sentenza 
del 
14 ottobre 
2008, Grunkin e 
Paul, C‑353/06, EU:C:2008:559, punto 39). 


45 Occorre 
inoltre 
precisare 
che 
l’articolo 4, paragrafo 3, della 
direttiva 
2004/38 impone 
alle 
autorità 
bulgare 
di 
rilasciare 
una 
carta 
d’identità 
o un passaporto a 
S.D.K.A. indipendentemente 
dall’emissione 
di 
un nuovo atto di 
nascita 
per tale 
minore. Così, nei 
limiti 
in cui 
il 
diritto bulgaro esige 
l’emissione 
di 
un atto di 
nascita 
bulgaro prima 
del 
rilascio di 
una 
carta 
d’identità 
o di 
un passaporto bulgaro, tale 
Stato membro non può invocare 
il 
suo 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


diritto 
nazionale 
per 
rifiutare 
l’emissione 
di 
tale 
carta 
d’identità 
o 
passaporto 
per 
S.D.K.A. 


46 Tale 
documento, da 
solo o in combinazione 
con altri 
documenti, eventualmente 
con un 
documento rilasciato dallo Stato membro ospitante 
del 
minore 
interessato, deve 
permettere 
a 
un minore 
in una 
situazione 
come 
quella 
di 
S.D.K.A 
di 
esercitare 
il 
proprio diritto 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio degli 
Stati 
membri, garantito all’articolo 
21, 
paragrafo 
1, 
TFUE, 
con 
ciascuna 
delle 
sue 
due 
madri, 
il 
cui 
status 
di 
genitori 
di 
tale 
minore 
sia 
stato accertato dallo Stato membro ospitante 
delle 
medesime 
nel 
corso 
di un soggiorno conforme alla direttiva 2004/38. 


47 Occorre 
ricordare 
che 
i 
diritti 
riconosciuti 
ai 
cittadini 
degli 
Stati 
membri 
all’articolo 21, 
paragrafo 1, TFUE 
includono il 
diritto di 
condurre 
una 
normale 
vita 
familiare 
sia 
nello 
Stato 
membro 
ospitante 
sia 
nello 
Stato 
membro 
del 
quale 
essi 
possiedono 
la 
cittadinanza, 
al 
ritorno in tale 
Stato membro, ivi 
beneficiando della 
presenza, al 
loro fianco, dei 
loro 
familiari 
(sentenza 
del 
5 giugno 2018, Coman e 
a., C‑673/16, EU:C:2018:385, punto 32 
e giurisprudenza citata). 


48 È 
pacifico che, nel 
procedimento principale, le 
autorità 
spagnole 
hanno accertato legalmente 
l’esistenza 
di 
un rapporto di 
filiazione, biologica 
o giuridica, tra 
S.D.K.A. e 
i 
suoi 
due 
genitori, 
V.m.A. 
e 
K.D.K., 
e 
hanno 
attestato 
il 
medesimo 
nell’atto 
di 
nascita 
rilasciato 
per 
la 
figlia 
di 
queste 
ultime. 
In 
applicazione 
dell’articolo 
21 
TFUE 
e 
della 
direttiva 
2004/38, a 
V.m.A. e 
K.D.K., in quanto genitori 
di 
un cittadino dell’Unione 
minorenne 
di 
cui 
hanno la 
custodia 
effettiva, deve 
quindi 
essere 
riconosciuto da 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
il 
diritto di 
accompagnare 
quest’ultimo nell’esercizio del 
suo diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio degli 
Stati 
membri 
(v., per analogia, sentenza 
del 
13 
settembre 
2016, Rendón marín, C‑165/14, EU:C:2016:675, punti 
da 
50 a 
52 e 
giurisprudenza 
ivi citata). 


49 Pertanto, 
le 
autorità 
bulgare, 
come 
quelle 
di 
qualsiasi 
altro 
Stato 
membro, 
sono 
tenute 
a 
riconoscere 
tale 
rapporto 
di 
filiazione 
al 
fine 
di 
consentire 
a 
S.D.K.A., 
poiché 
la 
medesima 
ha 
ottenuto, 
secondo 
il 
giudice 
del 
rinvio, 
la 
cittadinanza 
bulgara, 
di 
esercitare 
senza 
impedimenti, 
insieme 
a 
ciascuno 
dei 
suoi 
due 
genitori, 
il 
proprio 
diritto 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri, 
garantito 
all’articolo 
21, 
paragrafo 
1, 
TFUE. 


50 
Inoltre, 
per 
permettere 
effettivamente 
a 
S.D.K.A. 
di 
esercitare 
il 
proprio 
diritto 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio degli 
Stati 
membri 
con ciascuno dei 
suoi 
due 
genitori, 
è 
necessario 
che 
V.m.A. 
e 
K.D.K. 
possano 
disporre 
di 
un 
documento 
che 
le 
menzioni 
come 
persone 
autorizzate 
a 
viaggiare 
con tale 
minore. Nella 
fattispecie, le 
autorità 
dello 
Stato 
membro 
ospitante 
sono 
nella 
posizione 
migliore 
per 
emettere 
tale 
documento, 
che 
può consistere 
nell’atto di 
nascita. Gli 
altri 
Stati 
membri 
sono obbligati 
a 
riconoscere 
tale documento. 


51 Vero è, come 
ha 
notato il 
giudice 
del 
rinvio, che 
l’articolo 9 della 
Carta 
prevede 
che 
il 
diritto 
di 
sposarsi 
e 
il 
diritto di 
costituire 
una 
famiglia 
sono garantiti 
secondo le 
leggi 
nazionali 
che ne disciplinano l’esercizio. 


52 A 
questo proposito, allo stato attuale 
del 
diritto dell’Unione, lo status 
delle 
persone, in 
cui 
rientrano le 
norme 
sul 
matrimonio e 
sulla 
filiazione, è 
una 
questione 
di 
competenza 
degli 
Stati 
membri 
e 
il 
diritto 
dell’Unione 
non 
incide 
su 
tale 
competenza. 
Gli 
Stati 
membri 
sono quindi 
liberi 
di 
prevedere 
o meno, nel 
loro diritto nazionale, il 
matrimonio tra 
persone 
dello stesso sesso e 
la 
genitorialità 
di 
queste 
ultime. Tuttavia, nell’esercizio di 
tale 
competenza, 
ciascuno 
Stato 
membro 
deve 
rispettare 
il 
diritto 
dell’Unione 
e, 
in 
particolare, 
le 
disposizioni 
del 
Trattato 
FUE 
relative 
alla 
libertà 
riconosciuta 
a 
ogni 
cittadino 
del



CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 


l’Unione 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
nel 
territorio degli 
Stati 
membri, riconoscendo, a 
tal 
fine, 
lo 
status 
delle 
persone 
stabilito 
in 
un 
altro 
Stato 
membro 
conformemente 
al 
diritto 
di 
quest’ultimo 
(v., 
in 
tal 
senso, 
sentenza 
del 
5 
giugno 
2018, 
Coman 
e 
a., 
C‑673/16, 
EU:C:2018:385, punti da 36 a 38 e giurisprudenza ivi citata). 


53 In tale 
contesto, il 
giudice 
del 
rinvio chiede 
alla 
Corte 
se 
l’articolo 4, paragrafo 2, TUE 
possa 
giustificare 
il 
rifiuto 
delle 
autorità 
bulgare 
di 
rilasciare 
un 
atto 
di 
nascita 
di 
S.D.K.A 
e 
quindi 
una 
carta 
d’identità 
o un passaporto per tale 
minore. In particolare, detto giudice 
afferma 
che 
un eventuale 
obbligo per siffatte 
autorità 
di 
emettere 
un atto di 
nascita 
che 
indichi 
due 
persone 
di 
sesso 
femminile 
come 
genitori 
di 
tale 
minore 
potrebbe 
pregiudicare 
l’ordine 
pubblico e 
l’identità 
nazionale 
della 
Repubblica 
di 
Bulgaria, in quanto la 
Costituzione 
bulgara 
e 
il 
diritto di 
famiglia 
bulgaro non prevedono la 
genitorialità 
di 
due 
persone 
dello stesso sesso. 


54 
A 
tale 
riguardo, 
occorre 
ricordare 
che, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
4, 
paragrafo 
2, 
TUE, 
l’Unione 
rispetta 
l’identità 
nazionale 
dei 
suoi 
Stati 
membri, 
insita 
nella 
loro 
struttura 
fondamentale, 
politica e costituzionale. 


55 
Inoltre, 
la 
Corte 
ha 
dichiarato 
in 
più 
occasioni 
che 
la 
nozione 
di 
«ordine 
pubblico», 
in 
quanto 
giustificazione 
di 
una 
deroga 
a 
una 
libertà 
fondamentale, 
dev’essere 
intesa 
in 
senso 
restrittivo, di 
guisa 
che 
la 
sua 
portata 
non può essere 
determinata 
unilateralmente 
da 
ciascuno 
Stato 
membro 
senza 
il 
controllo 
delle 
istituzioni 
dell’Unione. 
Ne 
consegue 
che 
l’ordine 
pubblico può essere 
invocato solo in presenza 
di 
una 
minaccia 
reale 
e 
sufficientemente 
grave 
che 
colpisce 
un 
interesse 
fondamentale 
della 
società 
(sentenza 
del 
5 
giugno 
2018, Coman e a., C‑673/16, EU:C:2018:385, punto 44 e giurisprudenza ivi citata). 


56 Orbene, come 
ha 
sottolineato l’avvocato generale 
ai 
paragrafi 
150 e 
151 delle 
sue 
conclusioni, 
l’obbligo per uno Stato membro, da 
un lato, di 
rilasciare 
una 
carta 
d’identità 
o 
un passaporto a 
un minore, cittadino di 
tale 
Stato membro, nato in un altro Stato membro 
e 
il 
cui 
atto di 
nascita 
rilasciato dalle 
autorità 
di 
quest’altro Stato membro designa 
come 
suoi 
genitori 
due 
persone 
dello stesso sesso, e, dall’altro, di 
riconoscere 
il 
rapporto di 
filiazione 
tra 
tale 
minore 
e 
ciascuna 
di 
queste 
due 
persone 
nell’ambito dell’esercizio, da 
parte 
del 
medesimo, dei 
suoi 
diritti 
a 
titolo dell’articolo 21 TFUE 
e 
degli 
atti 
di 
diritto 
derivato ai 
medesimi 
connessi, non viola 
l’identità 
nazionale 
né 
minaccia 
l’ordine 
pubblico 
di tale Stato membro. 


57 Infatti, tale 
obbligo non impone 
allo Stato membro di 
cui 
il 
minore 
interessato ha 
la 
cittadinanza 
di 
prevedere 
nel 
suo diritto interno la 
genitorialità 
di 
persone 
dello stesso sesso 


o di 
riconoscere, a 
fini 
diversi 
dall’esercizio dei 
diritti 
che 
a 
tale 
minore 
derivano dal 
diritto 
dell’Unione, il 
rapporto di 
filiazione 
tra 
tale 
minore 
e 
le 
persone 
indicate 
come 
genitori 
di 
quest’ultimo 
nell’atto 
di 
nascita 
emesso 
dalle 
autorità 
dello 
Stato 
membro 
ospitante 
(v., 
per 
analogia, 
sentenza 
del 
5 
giugno 
2018, 
Coman 
e 
a., 
C‑673/16, 
EU:C:2018:385, punti 45 e 46). 
58 Si 
deve 
aggiungere 
che 
una 
misura 
nazionale 
idonea 
ad ostacolare 
l’esercizio della 
libera 
circolazione 
delle 
persone 
può 
essere 
giustificata 
solo 
se 
è 
conforme 
ai 
diritti 
fondamentali 
sanciti 
dalla 
Carta 
di 
cui 
la 
Corte 
garantisce 
il 
rispetto (sentenza 
del 
5 giugno, Coman e 
a., C‑673/16, EU:C:2018:385, punto 47). 


59 
Nella 
situazione 
oggetto 
del 
procedimento 
principale, 
il 
diritto 
al 
rispetto 
della 
vita 
privata 
e 
familiare 
garantito dall’articolo 7 della 
Carta 
e 
i 
diritti 
del 
minore 
garantiti 
dall’articolo 
24 della 
Carta, in particolare 
il 
diritto a 
che 
si 
tenga 
conto dell’interesse 
superiore 
del 
minore 
come 
una 
considerazione 
primaria 
in 
tutti 
gli 
atti 
relativi 
ai 
minori 
e 
il 
diritto 
di 
man



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 3/2021 


tenere 
regolarmente 
relazioni 
personali 
e 
contatti 
diretti 
con 
entrambi 
i 
genitori, 
sono 
fondamentali. 


60 A 
tale 
riguardo, come 
risulta 
dalle 
spiegazioni 
relative 
alla 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
(GU 
2007, C 303, pag. 17), a 
norma 
dell’articolo 52, paragrafo 3, della 
Carta, i 
diritti 
garantiti 
dall’articolo 
7 
della 
medesima 
hanno 
lo 
stesso 
significato 
e 
la 
stessa 
portata 
di 
quelli 
garantiti 
dall’articolo 8 della 
Convenzione 
europea 
per la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950. 


61 Orbene, dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo risulta 
che 
l’esistenza 
di 
una 
«vita 
familiare» è 
una 
questione 
di 
fatto dipendente 
dalla 
realtà 
pratica 
di 
stretti 
legami 
personali 
e 
che 
la 
possibilità 
per 
un 
genitore 
e 
il 
figlio 
di 
essere 
insieme 
rappresenta 
un elemento fondamentale 
della 
vita 
familiare 
(Corte 
EDU, 12 luglio 2001, 


K. e 
T. c. Finlandia, CE:ECHR:2001:0712JUD002570294, §§ 150 e 
151). Inoltre, come 
la 
Corte 
ha 
avuto modo di 
constatare, da 
questa 
giurisprudenza 
risulta 
che 
la 
relazione 
intrattenuta 
da 
una 
coppia 
omosessuale 
può rientrare 
nel 
concetto di 
«vita 
privata» così 
come 
in quello di 
«vita 
familiare» allo stesso modo di 
una 
coppia 
di 
sesso opposto nella 
stessa 
situazione 
(v. sentenza 
del 
5 giugno 2018, Coman e 
a., C‑673/16, EU:C:2018:385, 
punto 50, e giurisprudenza ivi citata). 
62 
Di 
conseguenza, 
come 
ha 
rilevato 
l’avvocato 
generale 
al 
paragrafo 
153 
delle 
sue 
conclusioni, 
il 
rapporto 
del 
minore 
interessato 
con 
ciascuna 
delle 
due 
persone 
con 
cui 
ha 
una 
vita 
familiare 
effettiva 
nello 
Stato 
membro 
ospitante 
e 
che 
sono 
menzionate 
come 
suoi 
genitori 
nel-
l’atto 
di 
nascita 
emesso 
dalle 
autorità 
di 
tale 
Stato 
è 
protetto 
dall’articolo 
7 
della 
Carta. 


63 
Inoltre, 
come 
è 
stato 
ricordato 
al 
punto 
59 
della 
presente 
sentenza, 
il 
diritto 
al 
rispetto 
della 
vita 
familiare, 
quale 
sancito 
dall’articolo 
7 
della 
Carta, 
dev’essere 
letto 
in 
combinato 
disposto 
con 
l’obbligo 
di 
tener 
conto 
dell’interesse 
superiore 
del 
minore, 
riconosciuto 
dall’articolo 24, paragrafo 2, della 
Carta. Orbene, poiché 
l’articolo 24 della 
Carta 
costituisce, 
come 
ricordano le 
spiegazioni 
relative 
alla 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali, un’integrazione 
nel 
diritto 
dell’Unione 
dei 
principali 
diritti 
del 
minore 
sanciti 
nella 
Convenzione 
sui 
diritti 
del 
fanciullo, che 
è 
stata 
ratificata 
da 
tutti 
gli 
Stati 
membri, occorre, nell’interpretazione 
di 
detto articolo, tenere 
debitamente 
conto delle 
disposizioni 
di 
tale 
Convenzione 
[v., 
in 
tal 
senso, 
sentenze 
del 
14 
febbraio 
2008, 
Dynamic 
medien, 
C‑244/06, 
EU:C:2008:85, punto 39, e 
dell’11 marzo 2021, État 
belge 
(Rimpatrio del 
genitore 
di 
un 
minore), C‑112/20, EU:C:2021:197, punto 37]. 


64 In particolare, l’articolo 2 di 
tale 
Convenzione 
stabilisce 
il 
principio di 
non discriminazione 
del 
minore, il 
quale 
esige 
che 
i 
diritti 
enunciati 
in tale 
Convenzione, tra 
cui, all’articolo 
7, 
il 
diritto 
di 
essere 
registrato 
alla 
nascita, 
di 
avere 
un 
nome 
e 
di 
acquisire 
una 
cittadinanza, siano garantiti 
al 
minore 
senza 
che 
quest’ultimo subisca 
discriminazioni 
al 
riguardo, comprese quelle basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori. 


65 Ciò premesso, sarebbe 
contrario ai 
diritti 
fondamentali 
che 
gli 
articoli 
7 e 
24 della 
Carta 
garantiscono 
a 
tale 
minore 
privarlo 
del 
rapporto 
con 
uno 
dei 
suoi 
genitori 
nell’ambito 
dell’esercizio del 
suo diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
sul 
territorio degli 
Stati 
membri 
o 
rendergli 
de 
facto 
impossibile 
o 
eccessivamente 
difficile 
l’esercizio 
di 
tale 
diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso. 


66 Infine, il 
fatto che 
uno dei 
genitori 
del 
minore 
interessato sia 
cittadina 
del 
Regno Unito, 
che non è più uno Stato membro, è irrilevante al riguardo. 
67 Inoltre, nel 
caso in cui, dopo la 
verifica, S.D.K.A. non dovesse 
possedere 
la 
cittadinanza 
bulgara, occorre 
ricordare 
che, indipendentemente 
dalla 
loro nazionalità 
e 
a 
prescindere 



CONTENZIOSO 
COmUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
65 


dal 
fatto 
che 
esse 
stesse 
abbiano 
lo 
status 
di 
cittadine 
dell’Unione, 
K.D.K. 
e 
S.D.K.A. 
devono 
essere 
considerate 
da 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
come, rispettivamente, il 
coniuge 
e 
la 
discendente 
diretta 
ai 
sensi 
dell’articolo 
2, 
paragrafo 
2, 
lettere 
a) 
e 
c), 
della 
direttiva 
2004/38 e, di 
conseguenza, come 
familiari 
di 
V.m.A. (v., in tal 
senso, sentenza 
del 
5 giugno 
2018, Coman e. C‑673/16, EU:C:2018:385, punto 36 e 51). 


68 Infatti, un minore 
il 
cui 
status 
di 
cittadino dell’Unione 
non sia 
stato accertato e 
il 
cui 
atto 
di 
nascita 
rilasciato dalle 
autorità 
competenti 
di 
uno Stato membro designi 
come 
genitori 
due 
persone 
dello stesso sesso, una 
delle 
quali 
sia 
cittadina 
dell’Unione, deve 
essere 
considerato, 
da 
tutti 
gli 
Stati 
membri, 
come 
un 
discendente 
diretto 
di 
tale 
cittadina 
del-
l’Unione, 
ai 
sensi 
della 
direttiva 
2004/38, 
ai 
fini 
dell’esercizio 
dei 
diritti 
conferiti 
dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e dagli atti di diritto derivato connessi. 


69 Alla 
luce 
di 
tutte 
le 
considerazioni 
che 
precedono, occorre 
rispondere 
alle 
questioni 
pregiudiziali 
dichiarando 
che 
l’articolo 
4, 
paragrafo 
2, 
TUE, 
gli 
articoli 
20 
e 
21 
TFUE 
nonché 
gli 
articoli 
7, 24 e 
45 della 
Carta, letti 
in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 
3, della 
direttiva 
2004/38, devono essere 
interpretati 
nel 
senso che, nel 
caso di 
un minore 
cittadino dell’Unione 
il 
cui 
atto di 
nascita 
rilasciato dalle 
autorità 
competenti 
dello Stato 
membro 
ospitante 
designi 
come 
suoi 
genitori 
due 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
lo 
Stato 
membro 
di 
cui 
tale 
minore 
è 
cittadino 
è 
tenuto, 
da 
un 
lato, 
a 
rilasciargli 
una 
carta 
d’identità 


o un passaporto, senza 
esigere 
la 
previa 
emissione 
di 
un atto di 
nascita 
da 
parte 
delle 
sue 
autorità 
nazionali 
e, 
dall’altro, 
a 
riconoscere, 
come 
ogni 
altro 
Stato 
membro, 
il 
documento 
promanante 
dallo Stato membro ospitante 
che 
consente 
a 
detto minore 
di 
esercitare, con 
ciascuna 
di 
tali 
due 
persone, il 
proprio diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel territorio degli Stati membri. 
Sulle spese 


70 Nei 
confronti 
delle 
parti 
nel 
procedimento principale 
la 
presente 
causa 
costituisce 
un incidente 
sollevato dinanzi 
al 
giudice 
nazionale, cui 
spetta 
quindi 
statuire 
sulle 
spese. Le 
spese 
sostenute 
da 
altri 
soggetti 
per presentare 
osservazioni 
alla 
Corte 
non possono dar 
luogo a rifusione. 
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 
L’articolo 4, paragrafo 2, tUe, gli 
articoli 
20 e 
21 tFUe nonché 
gli 
articoli 
7, 24 e 
45 della Carta dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea, in 
combinato disposto 
con 
l’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2004/38/Ce del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, 
del 
29 
aprile 
2004, 
relativa 
al 
diritto 
dei 
cittadini 
dell’Unione 
e 
dei 
loro 
familiari 
di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri, 
che 
modifica 
il 
regolamento 
(Cee) 
n. 
1612/68 
ed 
abroga 
le 
direttive 
64/221/Cee, 
68/360/Cee, 
72/194/Cee, 
73/148/Cee, 
75/34/Cee, 
75/35/Cee, 
90/364/Cee, 
90/365/Cee 
e 
93/96/Cee, 
devono 
essere 
interpretati 
nel 
senso 
che, 
nel 
caso 
di 
un 
minore, 
cittadino 
dell’Unione 
il 
cui 
atto 
di 
nascita 
rilasciato 
dalle 
autorità 
competenti 
dello 
Stato 
membro 
ospitante 
designi 
come 
suoi 
genitori 
due 
persone 
dello 
stesso 
sesso, 
lo 
Stato 
membro 
di 
cui 
tale 
minore 
è 
cittadino 
è 
tenuto, 
da 
un 
lato, 
a 
rilasciargli 
una carta d’identità o un 
passaporto, senza esigere 
la previa emissione 
di 
un 
atto di 
nascita da parte 
delle 
sue 
autorità nazionali 
e, dall’altro, a riconoscere, come 
ogni 
altro 
Stato 
membro, 
il 
documento 
promanante 
dallo 
Stato 
membro 
ospitante 
che 
consente 
a detto minore 
di 
esercitare, con 
ciascuna di 
tali 
due 
persone, il 
proprio diritto 
di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. 



ContenziosonazionaLe
Gli 
ingiustificati 
automatismi 
sanzionatori. 
La 
portata 
applicativa 
della 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 
268/2016 
alla 
luce 
della 
recente 
giurisprudenza 
amministrativa 


Margherita Feleppa* 

SoMMARIo: 1. Premessa. L’automatismo legislativo derivante 
dagli 
artt. 866, 867 e 
923 
d.lgs 
n. 66/2010 -2. La questione 
sottoposta alla Corte 
-3. I precedenti 
-4. La sentenza n. 
268/2016 della Corte 
Costituzionale 
-5. La giurisprudenza amministrativa che 
ha applicato 
la sentenza n. 268/2016 - 6. Considerazioni conclusive. 

1. Premessa. L’automatismo legislativo derivante 
dagli 
artt. 866, 867 e 
923 
d.lgs n. 66/2010. 
A 
distanza 
di 
sei 
anni 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 
268/2016, il 
tema 
degli 
automatismi 
legislativi 
nell’ambito del 
pubblico impiego 
costituisce 
ancora 
un 
argomento 
di 
grande 
attualità, 
in 
virtù 
delle 
recenti 
pronunce 
del 
giudice 
amministrativo 
che 
hanno 
applicato 
il 
ragionamento 
della 
sentenza in commento, nonché di una pronuncia della Consulta del 2021. 


Con la 
sentenza 
n. 268/2016 depositata 
il 
15 dicembre 
2016 (1), la 
Corte 


(*) 
Dottoressa 
in 
Giurisprudenza, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(avv. Stato Liborio Coaccioli). 
Un ringraziamento all’avv. Stato Liborio Coaccioli per la revisione dell’articolo. 


(1) In G.U. n. 51 del 
21 dicembre 
2016, 1ª 
serie 
spec. Consultabile 
nella 
Rassegna dell’Arma dei 
Carabinieri 
con il 
commento di 
F. BASSettA, Legittimità costituzionale 
degli 
artt. 866 co. 1, 867 co. 3 
e 
923 co. 1, lett. i) del 
D.Lgs. 66/2010 (Codice 
ordinamento Militare) (Sentenza Cort. Cost. n. 268 del 
19 ottobre 
2016) 
in Rassegna dell’Arma dei 
Carabinieri, 2017, n. 1, pp. 188 e 
ss. Si 
veda 
anche 
il 
contributo 
di 
G. DoDAro, Incostituzionalità della cessazione 
automatica del 
rapporto di 
impiego militare 
per condanna a pena interdittiva temporanea 
in Dir. pen. processo, 2017, n. 6, pp. 773 e ss. 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Costituzionale 
ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
degli 
artt. 
866, 
comma 
1, 867, comma 
3 e 
923, comma 
1, lettera 
i), del 
decreto legislativo 15 
marzo 
2010, 
n. 
66 
(2) 
(codice 
dell’ordinamento 
militare, 
d’ora 
in 
avanti 
c.o.m.), nella 
parte 
in cui 
non prevedevano l’instaurarsi 
del 
procedimento disciplinare 
per 
la 
cessazione 
dal 
servizio 
per 
perdita 
del 
grado 
conseguente 
alla 
pena 
accessoria 
dell’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
ex 
art. 28 c.p. 
Invero, 
i 
citati 
articoli 
introducevano 
un 
meccanismo 
automatico 
di 
espulsione 
dal 
rapporto di 
pubblico impiego a 
seguito di 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
di 
condanna, 
senza 
la 
previa 
attivazione 
del 
procedimento 
disciplinare 
e, 
dunque, 
senza 
che 
fosse 
possibile 
valutare 
da 
parte 
dell’Amministrazione 
procedente 
la 
gravità 
del 
reato 
commesso, 
la 
sua 
rilevanza 
rispetto 
all’attività 
svolta 
in 
concreto 
dal 
dipendente, 
né 
l’opportunità 
dell’eventuale 
mantenimento 
in 
servizio. 


Il 
descritto 
meccanismo 
automatico 
di 
espulsione 
dal 
rapporto 
di 
pubblico 
impiego evoca 
il 
citato tema 
degli 
automatismi 
legislativi, ovvero quei 
meccanismi 
che 
“al 
verificarsi 
d’una 
fattispecie 
concreta 
descritta 
con 
precisione 
dalla 
norma, 
fanno 
seguire 
la 
doverosa 
conseguenza, 
altrettanto 
precisamente 
definita della norma” 
(3). nel 
caso di 
specie, al 
verificarsi 
del 
presupposto di 
cui 
all’art. 
866 
c.o.m. 
-la 
pena 
accessoria 
dell’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
-seguiva 
la 
“doverosa conseguenza” 
della 
perdita 
del 
grado, 
conseguenza che azzerava ogni margine di discrezionalità. 

nella 
giurisprudenza 
costituzionale 
si 
registra 
una 
tendenza 
all’eliminazione 
degli 
automatismi, nello specifico verso gli 
automatismi 
che, come 
si 
dirà, vengono ritenuti 
ingiustificati 
(4). Questo è 
il 
filone 
giurisprudenziale 
in 
cui si inserisce la pronuncia in commento. 


Il 
presente 
contributo si 
propone, dunque, di 
esaminare 
la 
citata 
sentenza 


(2) Il 
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (in G.U. Serie 
Generale 
n.106 del 
8 maggio 2010 
-Suppl. ordinario n. 84) disciplina 
“l'organizzazione, le 
funzioni 
e 
l’attività della difesa e 
sicurezza militare 
e delle Forze armate”, come statuito dall’art. 1. 
(3) G. ZAGreBeLSky, V. MArCenò, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, 210. Sugli 
automatismi 
sanzionatori 
nell’ambito 
del 
diritto 
penale 
si 
segnala 
G. 
BeFerA, 
Automatismi 
sanzionatori 
vs 
Corte 
costituzionale: un esito annunciato 
in Cass. Pen., 2018, n. 4, pp. 1184 e ss. 
(4) Cfr. Corte 
Cost. n. 40/1990 sull’automatismo scaturente 
dagli 
artt. 139, 142 e 
158 della 
legge 
16 febbraio 1913 n. 89 (ordinamento del 
notariato e 
degli 
archivi 
notarili) che 
prevedevano la 
destituzione 
e 
l'inabilitazione 
di 
diritto del 
notaio condannato per determinati 
reati. In essa 
si 
afferma: 
“l'automatismo 
di 
un'unica massima sanzione, prevista indifferentemente 
per 
l'infinita serie 
di 
situazioni 
che 
stanno nell'area della commissione 
di 
uno stesso pur 
grave 
reato, non può reggere 
il 
confronto con il 
principio di 
eguaglianza che 
come 
esige 
lo stesso trattamento per 
identiche 
situazioni, postula un trattamento 
differenziato per 
situazioni 
diverse”, nonché 
Corte 
Cost. n. 158/1990, n. 16/1991 e 
197/1993 
su cui 
si 
veda 
A. CAntAro, Ancora sulla destituzione 
di 
diritto e 
decadenza: novità e 
conferme 
della 
più recente 
giurisprudenza costituzionale 
in Giur. Cost., 1993, n. 2, pp. 1349 e 
ss. Si 
vedano anche 
G. 
SCIULLo, 
Destituzione 
di 
diritto 
e 
Corte 
costituzionale: 
a 
ciascuno 
-anche 
al 
legislatore 
-le 
sue 
responsabilità, 
in Le 
Regioni 
1989, n. 6, pp. 1810 e 
ss. e 
A. AnDreonI, La destituzione 
di 
diritto nel 
rapporto 
di 
pubblico 
impiego 
(rivisitato), 
in 
Giur. 
Cost. 
1988, 
n. 
8, 
pp. 
4577 
e 
ss. 
Sul 
tema 
del 
rapporto 
d’impiego 
dei militari, cfr. Corte Cost. n. 363/1996. 

ContenZIoSo 
nAZIonALe 


della 
Corte 
Costituzionale, approfondendo i 
precedenti 
in materia 
ed affrontando 
le 
recenti 
pronunce 
del 
giudice 
amministrativo che 
hanno interpretato 
la 
sentenza 
268/2016 
e 
ne 
hanno 
chiarito 
la 
portata 
applicativa, 
toccando 
anche 
i 
recenti 
sviluppi 
che 
hanno portato la 
questione 
nuovamente 
al 
vaglio della 
Consulta 
nel 
2021. Il 
fine 
ultimo è 
quello di 
offrire 
una 
breve 
panoramica 
sul-
l’approccio del 
giudice 
delle 
leggi, che 
finora 
si 
è 
mostrato avverso agli 
automatismi 
legislativi 
riguardo al 
tema 
della 
cessazione 
del 
rapporto di 
impiego 
dei pubblici dipendenti, seppure con qualche eccezione. 


2. La questione sottoposta alla Corte. 
Come 
anticipato, la 
sentenza 
in commento tratta 
la 
questione 
della 
cessazione 
dal 
servizio militare 
per perdita 
del 
grado conseguente 
alla 
pena 
accessoria 
dell’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici. 
oggetto 
della 
pronuncia sono i seguenti articoli del codice dell’ordinamento militare: 


-l’articolo 
866, 
rubricato 
“Condanna 
penale”, 
il 
cui 
comma 
1 
recita: 
“La 
perdita 
del 
grado, 
senza 
giudizio 
disciplinare, 
consegue 
a 
condanna 
definitiva, 
non 
condizionalmente 
sospesa, 
per 
reato 
militare 
o 
delitto 
non 
colposo 
che 
comporti 
la pena accessoria della rimozione 
o della interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici, 
oppure 
una 
delle 
pene 
accessorie 
di 
cui 
all'articolo 
19, 
comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”; 


-l’articolo 867, “Provvedimenti 
di 
perdita del 
grado”, comma 
3, in cui 
si 
legge: 
“Se 
la perdita del 
grado consegue 
a condanna penale, la stessa decorre 
dal passaggio in giudicato della sentenza”; 
-infine, l’articolo 923, disciplinante 
le 
cause 
che 
determinano la 
cessazione 
del 
rapporto di 
impiego, nello specifico il 
comma 
1, lettera 
i) secondo 
cui 
“Il 
rapporto 
di 
impiego 
del 
militare 
cessa 
per 
una 
delle 
seguenti 
cause 
[...] 
i) perdita del grado”. 
Dal 
tracciato 
quadro 
normativo 
discende 
che, 
quando 
un 
appartenente 
alle 
Forze 
armate 
riporta 
una 
condanna 
definitiva, non condizionalmente 
sospesa, 
per 
reato 
militare 
o 
delitto 
non 
colposo 
che 
comporti 
la 
pena 
accessoria 
della 
rimozione 
o della 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici, viene 
disposta 
la 
perdita 
del 
grado. Quest’ultima 
misura, come 
disposto dall’art. 923 
c.o.m., è 
di 
per sé 
causa 
di 
cessazione 
del 
rapporto di 
impiego. Pertanto, l’effetto 
giuridico 
della 
perdita 
del 
grado 
si 
produce 
di 
pieno 
diritto, 
senza 
che 
sia 
necessario instaurare il procedimento disciplinare. 


Quanto 
alla 
dibattuta 
natura 
dell’istituto 
disciplinato 
dall’art. 
866, 
occorre 
precisare 
che 
non si 
tratta 
di 
semplice 
pena 
accessoria, bensì 
di 
un effetto indiretto 
della 
pena 
accessoria 
di 
carattere 
interdittivo, quale 
l’interdizione 
dai 
pubblici 
uffici. 
Sul 
punto, 
sono 
intervenute 
due 
pronunce 
del 
Consiglio 
di 
Stato secondo cui 
detto effetto indiretto, “giustificato dalla fisiologica impossibilità 
di 
prosecuzione 
del 
rapporto in conseguenza dell’irrogazione 
di 
una 
sanzione 
di 
carattere 
interdittivo 
[…]”, 
assurge 
a 
“mero 
presupposto 
oggettivo 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


cui 
è 
ricollegato 
l’effetto 
ex 
lege 
della 
perdita 
del 
grado 
e 
della 
cessazione 
dal 
servizio” 
(5). 
Da 
tale 
qualificazione, 
discende 
l’applicazione 
del 
“principio 
generale 
tempus 
regit 
actum 
che 
impone, 
in 
assenza 
di 
deroghe, 
l’applicazione 
della normativa sostanziale 
vigente 
al 
momento dell’esercizio del 
potere 
amministrativo, 
in 
conformità 
a 
quanto 
disposto 
dall’art. 
2187, 
d.lgs. 
n. 
66/2010, 
secondo 
cui 
solo 
i 
procedimenti 
in 
corso 
alla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
del 
presente 
codice 
e 
del 
regolamento rimangono disciplinati 
dalla previgente 
normativa” 
(6). 
Perciò, 
l’art. 
866 
c.o.m., 
non 
contempla 
un 
procedimento 
disciplinare, ma 
un procedimento di 
presa 
d’atto degli 
effetti 
che 
ha 
sul 
rapporto 
d’impiego 
una 
sanzione 
penale 
che 
rende 
incompatibile 
la 
prosecuzione 
del rapporto (7). 


tornando alla 
questione 
sottoposta 
alla 
Corte 
Costituzionale, è 
legittimo 
prevedere 
la 
perdita 
del 
grado, senza 
l’espletamento del 
procedimento disciplinare 
per il 
dipendente 
delle 
Forze 
armate 
condannato definitivamente 
con 
pena 
accessoria 
dell’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici? 
Prima 
di 
analizzare 
la 
decisione, occorre 
effettuare 
una 
disamina 
retrospettiva 
dei 
precedenti. 


3. I precedenti. 
Già 
nel 
1988, con la 
sentenza 
n. 971, la 
Corte 
aveva 
affrontato una 
questione 
di 
simile 
tenore 
circa 
la 
destituzione 
del 
pubblico 
dipendente 
in 
seguito 
a 
condanna 
penale 
(8). nel 
caso di 
specie, veniva 
in esame 
l’articolo 85 lett. 


a) 
d.P.r. 
10 
gennaio 
1957 
n. 
3 
(statuto 
degli 
impiegati 
civili 
dello 
Stato), 
il 
quale 
disponeva 
che 
l'impiegato incorre 
nella 
destituzione 
senza 
l’attivazione 
del 
procedimento disciplinare 
a 
seguito di 
condanna 
per taluni 
delitti 
specificamente 
elencati, fra 
cui 
il 
peculato, reato commesso nel 
caso esaminato. La 
Corte, 
ragionando 
sulla 
“indispensabile 
gradualità 
sanzionatoria, 
ivi 
compresa 
la 
misura 
massima 
destitutoria 
[la 
quale] 
importa 
-dunque 
-che 
le 
valutazioni 
relative 
siano ricondotte, ognora, alla naturale 
sede 
di 
valutazione: il 
procedimento 
disciplinare” 
e 
ritenendo che 
“in difetto 
[di 
detto procedimento] ogni 
(5) 
Consiglio 
di 
Stato, 
Sez. 
VI, 
sentt. 
nn. 
389 
e 
390 
del 
27 
gennaio 
2014. 
Così 
anche 
t.A.r. 
Campania, 
Salerno, Sez. I, sent. n. 2438 del 
18 novembre 
2015 e, da 
ultimo, Cons. St., Sez. II, sent. n. 3691 
del 
10 
maggio 
2021 
e 
t.A.r. 
Lombardia, 
Sez. 
III, 
sent. 
2371 
del 
15 
dicembre 
2016 
confermata 
da 
Cons. 
St., Sez. IV, sent. n. 486 del 21 gennaio 2020. 
(6) Cons. St., Sez. VI, sentt. nn. 389 e 390 del 27 gennaio 2014, cit. 
(7) In questi 
termini 
si 
è 
espresso il 
Consiglio di 
Stato, Sez. I, parere 
n. 1916 del 
23 novembre 
2020, 
secondo 
cui 
“Di 
piana 
lettura 
è, 
infatti, 
la 
previsione 
dell’art. 
866, 
comma 
1, 
CoM. 
[…] 
La 
norma 
in tale 
ipotesi, quindi, non solo non contempla un procedimento disciplinare 
ma anzi 
lo esclude 
espressamente, 
demandando 
all’amministrazione 
una 
mera 
presa 
d’atto 
degli 
effetti 
che 
ha 
sul 
rapporto 
d’impiego 
una sanzione penale che rende incompatibile la prosecuzione del rapporto d’impiego”. 
(8) 
In 
G.U. 
n. 
42 
del 
19 
ottobre 
1988, 
1ª 
serie 
spec. 
Si 
veda 
il 
commento 
di 
e. 
GrAGnoLI, 
La 
Corte 
costituzionale 
elimina la destituzione 
di 
diritto nel 
pubblico impiego, nota 
a 
Corte 
costituzionale 
14 ottobre 1988, in Riv. it. dir. lav., 1989, n. 4, pp. 671 e ss. 

ContenZIoSo 
nAZIonALe 


relativa 
norma 
risulta 
incoerente, 
per 
il 
suo 
automatismo, 
e 
conseguentemente 
irrazionale”, 
dichiarava 
il 
citato 
articolo 
costituzionalmente 
illegittimo 
per 
contrasto 
con 
l’art. 
3 
Cost., 
così 
mostrandosi 
avversa 
agli 
automatismi 
sanzionatori 
collegati all’accertamento compiuto nel giudizio penale. 


tuttavia, 
bisogna 
attendere 
il 
1999, 
nello 
specifico 
la 
sentenza 
n. 
286, 
perché 
venga 
portato 
all’attenzione 
della 
Corte 
il 
tema 
dell’interdizione 
dai 
pubblici 
uffici, 
seppur, 
questa 
volta 
si 
trattava 
di 
interdizione 
perpetua 
(9). 
Veniva, 
pertanto, in rilievo il 
più specifico problema 
degli 
effetti 
destitutori 
di 
una 
pena 
accessoria 
interdittiva. 
I 
sospetti 
di 
illegittimità 
costituzionale 
riguardavano 
l’art. 29, primo comma, del 
codice 
penale, nella 
parte 
in cui 
statuisce 
che 
“la 
condanna 
alla 
reclusione 
per 
un 
tempo 
non 
inferiore 
a 
cinque 
anni 
importa 
l'interdizione 
perpetua 
del 
condannato 
dai 
pubblici 
uffici”; 
e 
l'art. 
85, 
lett. b), del 
d.P.r. 10 gennaio 1957, n. 3, nella 
parte 
in cui 
prescrive 
che 
l'impiegato 
incorre 
nella 
destituzione, 
escluso 
il 
procedimento 
disciplinare, 
per 
condanna 
passata 
in 
giudicato 
che 
importi 
l'interdizione 
dai 
pubblici 
uffici. 
La 
questione 
riguardava, infatti, un dipendente 
pubblico che 
era 
stato destituito a 
seguito di 
condanna 
a 
cinque 
anni 
e 
sei 
mesi 
di 
reclusione, nonché 
all’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici. Discostandosi 
da 
quanto deciso nel 
1988, il 
giudice 
delle 
leggi 
dichiarava 
la 
questione 
non fondata, affermando che: 
“Il 
giudice 
a quo vorrebbe 
che 
dalla pena accessoria 
[…] non scaturisse 
l'automatismo 
della rimozione, ma si 
affermasse 
nella sua ineludibilità l'interposizione 
del 
giudizio 
disciplinare. 
[…] 
l'affermazione 
del 
principio 
della 
necessità 
del 
procedimento 
disciplinare, 
in 
luogo 
della 
destituzione 
di 
diritto 
dei 
pubblici 
dipendenti, 
non 
concerne 
le 
pene 
accessorie 
di 
carattere 
interdittivo, 
in 
genere, 
né 
l'interdizione 
dai 
pubblici 
uffici, 
in 
particolare. 
La 
risoluzione 
del 
rapporto 
d'impiego costituisce, in questo caso, soltanto un effetto indiretto della pena 
accessoria 
comminata 
in 
perpetuo. 
[…] 
nella 
sua 
discrezionalità, 
il 
legislatore 
resta libero -sia pure 
con l'osservanza del 
principio di 
razionalità normativa 
-di 
determinare 
i 
presupposti, 
i 
contenuti 
e 
la 
durata 
della 
misura, 
assolvendo 
la pena accessoria finalità di 
difesa sociale 
e 
di 
prevenzione 
speciale”. Con 
tale 
precedente, perciò, si 
statuiva 
che 
il 
principio della 
necessaria 
previa 
instaurazione 
del 
procedimento disciplinare, di 
cui 
è 
evidenza 
la 
citata 
sentenza 


n. 
971/1988, 
non 
poteva 
applicarsi 
alle 
pene 
accessorie 
di 
carattere 
interdittivo, 
quale l’interdizione dai pubblici uffici. 
nel 
2013 
la 
Corte 
tornò 
ad 
occuparsi 
del 
tema, 
questa 
volta 
con 
specifico 
riferimento alle 
Forze 
armate 
ed al 
codice 
dell’ordinamento militare. occorre 
notare 
sin d’ora 
che 
si 
versava 
nell’ipotesi 
della 
perdita 
del 
grado, ipotesi 
distinta, 
come 
dirà 
la 
Corte, 
dalla 
destituzione 
del 
pubblico 
dipendente. 
Con 
l’ordinanza 
n. 128 del 
28 marzo 2013, il 
t.A.r. Lazio chiedeva 
alla 
Corte 
di 
pronunciarsi 
circa 
la 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 866 c.o.m., ritenendo 


(9) Corte Cost. n. 286/1999 in G.U. n. 28 del 14 luglio 1999, 1ª serie spec. 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


che 
l’assenza 
del 
procedimento 
disciplinare 
e 
la 
tutela 
del 
diritto 
al 
lavoro 
rendessero 
la 
questione 
non manifestamente 
infondata 
(10). Sosteneva, inoltre, 
che 
dovesse 
trovare 
applicazione, 
anche 
nei 
confronti 
del 
pubblico 
dipendente 
che 
presta 
servizio nelle 
Forze 
armate, l’art. 9 della 
legge 
7 febbraio 1990, n. 
19 (Modifiche 
in tema 
di 
circostanze, sospensione 
condizionale 
della 
pena 
e 
destituzione 
dei 
pubblici 
dipendenti), in base 
al 
quale 
“Il 
pubblico dipendente 
non può essere 
destituito di 
diritto a seguito di 
condanna penale. È 
abrogata 
ogni 
contraria disposizione 
di 
legge. 2. La destituzione 
può essere 
sempre 
inflitta 
all’esito del 
procedimento disciplinare 
[…]” 
(11). nel 
caso di 
specie, si 
trattava 
di 
un militare 
che 
aveva 
subito la 
perdita 
del 
grado per aver riportato 
una 
condanna 
alla 
pena 
di 
due 
anni 
e 
quattro mesi 
di 
reclusione, nonché 
alla 
pena 
accessoria 
della 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
per il 
reato 
di 
peculato continuato. tuttavia, con la 
sentenza 
n. 276/2013 la 
Corte 
ha 
pronunciato 
l’inammissibilità 
per 
insufficiente 
determinazione 
dei 
termini 
del 
giudizio 
e 
carenza 
di 
motivazione, 
ritenendo 
che 
il 
generico 
riferimento 
dell'ordinanza 
al 
principio generale 
in tema 
di 
destituzione 
del 
pubblico impiegato, 
contenuto nella 
l. n. 19 del 
1990, e 
alla 
giurisprudenza 
costituzionale 
che 
intorno 
ad 
esso 
si 
è 
sviluppata, 
fosse 
del 
tutto 
insufficiente 
per 
una 
corretta 
prospettazione 
della 
questione 
(12). 
Invero, 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
non 
specificava 
gli 
effetti 
della 
perdita 
del 
grado, non chiarendo la 
comparazione 
con 
la 
destituzione 
del 
pubblico 
impiegato. 
Secondo 
il 
giudice 
delle 
leggi, 
sarebbe 
stato, 
poi, 
necessario 
specificare 
le 
ragioni 
per 
cui 
il 
principio 
generale 
dettato 
per il 
pubblico impiego sarebbe 
stato di 
per sé 
applicabile 
anche 
agli 
appartenenti 
all’Arma 
dei 
Carabinieri, senza 
che 
assuma 
rilievo la 
peculiarità 
delle 
funzioni 
dell’Arma 
stessa. 
Giova 
richiamare, 
infine, 
quanto 
osservato 
dalla 
Corte 
circa 
l’evoluzione 
normativa 
nel 
cui 
contesto andrebbe 
letto l’art. 866: 
“a 
sostegno 
della 
prospettata 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale, 
il 
TAR 
ha genericamente 
richiamato il 
disfavore 
mostrato dalla Corte 
costituzionale 
per 
le 
disposizioni 
di 
legge 
che 
comportano l’automatica cessazione 
del 
rapporto 
di 
pubblico impiego in seguito a condanna penale, senza tenere 
conto 
della più recente 
evoluzione 
normativa in materia di 
reati 
contro la pubblica 
amministrazione, disposta a partire 
dalla legge 
27 marzo 2001, n. 97 (Norme 
sul 
rapporto 
tra 
procedimento 
penale 
e 
procedimento 
disciplinare 
ed 
effetti 
del 
giudicato penale 
nei 
confronti 
dei 
dipendenti 
delle 
amministrazioni 
pubbliche), 
successivamente 
modificata. Negli 
anni 
più recenti, il 
legislatore 
ha 
inasprito le 
pene 
per 
tale 
tipo di 
reati, tra cui 
quello di 
peculato che 
viene 
in 
rilievo nel 
caso di 
specie, oltre 
a rendere 
più severe 
le 
sanzioni 
accessorie 
relative 
all’interdizione 
dai 
pubblici 
uffici 
e 
ad 
incidere 
altresì, 
sempre 
nel 
senso 


(10) In G.U. n. 23 del 5 giugno 2013, 1ª serie spec. 
(11) Si tratta di una disposizione introdotta a seguito di Corte Cost. n. 971/1988. 
(12) In G.U. n. 48 del 27 novembre 2013, 1ª serie spec. 

ContenZIoSo 
nAZIonALe 


di 
un maggior 
rigore, sulle 
conseguenze 
relative 
al 
rapporto di 
lavoro con la 
pubblica amministrazione, anche 
attraverso la previsione 
di 
ipotesi 
di 
estinzione 
automatica 
a 
seguito 
di 
condanna 
in 
sede 
penale, 
come 
risulta 
dal 
nuovo 
testo 
dell’art. 
32-quinquies 
del 
codice 
penale. 
La 
disposizione 
impugnata 
deve 
essere 
necessariamente 
valutata 
in 
riferimento 
a 
tale 
contesto 
normativo, 
tanto 
più che 
essa è 
contenuta nel 
nuovo ordinamento militare, di 
cui 
al 
già citato 
d.lgs. n. 66 del 
2010, ed è 
quindi 
coeva a questa linea legislativa particolarmente 
severa 
nei 
confronti 
dei 
reati 
contro 
la 
pubblica 
amministrazione”. 
Così, 
rimaneva 
aperta 
la 
questione 
della 
legittimità 
costituzionale 
della 
perdita 
del 
grado 
senza 
previo 
giudizio 
disciplinare, 
ma 
veniva 
chiarito 
che 
una 
futura 
pronuncia 
in merito avrebbe 
dovuto fare 
i 
conti 
con la 
linea 
legislativa 
particolarmente 
severa 
nei 
confronti 
dei 
reati 
contro la 
pubblica 
amministrazione. 

La 
sentenza 
del 
2013 non ha, però, scoraggiato il 
giudice 
amministrativo 
a 
riproporre 
una 
questione 
del 
tutto 
analoga, 
che 
porterà 
alla 
sentenza 
n. 
268/2016. 

La 
Corte, 
tuttavia, 
nel 
frattempo, 
esaminava 
una 
simile 
questione 
vertente 
sull’art. 8, primo comma, lettera 
c), del 
d.P.r. 25 ottobre 
1981, n. 737 (Sanzioni 
disciplinari 
per il 
personale 
dell’Amministrazione 
di 
pubblica 
sicurezza 
e 
regolamentazione 
dei 
relativi 
procedimenti), 
disponente 
-per 
gli 
appartenenti 
ai 
ruoli 
dell’Amministrazione 
della 
pubblica 
sicurezza 
-la 
destituzione 
di 
diritto 
quale 
conseguenza 
automatica 
dell’applicazione 
di 
una 
misura 
di 
sicurezza 
personale. 
Con 
la 
sentenza 
n. 
112/2014, 
la 
destituzione 
automatica 
veniva 
dichiarata 
costituzionalmente 
legittima 
in ragione 
“della peculiarità e 
delicatezza dei 
compiti 
affidati 
ad una particolare 
categoria di 
soggetti” 
per 
cui 
“il 
giudizio 
di 
pericolosità 
sociale, 
che 
è 
presupposto 
dell’applicazione 
della misura, è 
ostativo della permanenza del 
rapporto di 
impiego, stante 
la 
indefettibile 
necessità che 
sussistano -e 
non vi 
sia ragione 
di 
temere 
che 
possano 
venir 
meno in futuro -i 
requisiti 
soggettivi 
di 
idoneità richiesti 
dall’ordinamento” 
(13). 
Giova 
osservare 
che, 
trattandosi 
di 
misura 
di 
sicurezza 
personale, le 
valutazioni 
della 
Corte, come 
essa 
stessa 
dirà, non sono pienamente 
trasportabili 
sul 
piano di 
misure 
che 
non riguardano la 
pericolosità 
sociale 
del dipendente. 


Sullo 
sfondo 
delle 
analizzate 
pronunce, 
con 
ordinanza 
del 
26 
giugno 
2015, il 
t.A.r. Lombardia 
sollevava 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
degli 
artt. 866, comma 
1, 867, comma 
3 e 
923, comma 
1 lettera 
i), del 
d.lgs. 


n. 
66 
del 
2010, 
per 
violazione 
degli 
artt. 
3, 
4, 
24, 
secondo 
comma, 
35 
e 
97 
Cost. riteneva 
che 
il 
combinato disposto di 
detti 
articoli 
fosse 
indice 
di 
una 
scelta 
sproporzionata 
del 
legislatore, 
nonché 
inosservante 
del 
principio 
di 
(13) Cfr. Corte 
Cost. n. 112/2014 in G.U. n. 20 del 
7 maggio 2014, 1ª 
serie 
spec. e 
commento di 
G.P. DoLSo, La destituzione 
di 
diritto ancora al 
vaglio della Corte 
costituzionale 
in Giur. Cost., 2014, 
n. 4, pp. 3596 e ss. 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


uguaglianza 
in quanto riservante 
un identico trattamento a 
situazioni 
strutturalmente 
diverse, 
equiparando 
gli 
effetti 
dell’interdizione 
perpetua 
a 
quelli 
dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. 


Allo stesso modo, con l’ordinanza 
del 
5 novembre 
2015, il 
t.A.r. Campania 
sollevava 
la 
medesima 
questione 
vertente 
sugli 
stessi 
articoli 
invocati 
dal 
t.A.r. 
Lombardia 
(14). 
Il 
rimettente 
sospettava 
la 
violazione 
dell’art. 
3 
Cost. 
in 
quanto 
l’indiscriminata 
ampiezza 
del 
presupposto 
cui 
veniva 
collegata 
la 
misura 
espulsiva 
dall’Arma 
sarebbe 
inidonea 
a 
fondare 
una 
adeguata 
presunzione 
assoluta. Inoltre, a 
sostegno della 
contrarietà 
all’art. 3 militerebbero 
gli 
orientamenti 
della 
Corte 
circa 
la 
necessità 
di 
gradualità 
sanzionatoria 
che 
assicuri 
adeguatezza 
tra 
illecito 
e 
irroganda 
sanzione 
(sentenza 
n. 
270 
del 
1986), nonché 
i 
precedenti 
circa 
la 
necessaria 
mediazione 
del 
procedimento 
disciplinare 
teso 
ad 
evitare 
l’automatismo 
della 
massima 
sanzione 
disciplinare, 
senza 
possibilità 
di 
discriminare 
tra 
i 
molteplici 
possibili 
comportamenti 
(sent. 


n. 40 e 
n. 158 del 
1990, n. 16 e 
n. 104 del 
1991, n. 197 del 
1993, n. 363 del 
1996). richiamando la 
sentenza 
n. 286 del 
1999, il 
giudice 
a quo sottolineava 
la 
necessità 
di 
distinguere 
il 
(legittimo) effetto destitutorio in rapporto all’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici, 
rispetto 
all’interdizione 
temporanea, 
inerente 
il 
caso di 
specie, per cui 
non vi 
sarebbe 
la 
strutturale 
incompatibilità 
con la 
prosecuzione 
del 
rapporto d’impiego pubblico, non ravvisandosi 
il 
carattere 
perpetuo 
della 
misura. 
Le 
norme 
censurate 
violerebbero 
anche 
il 
diritto 
di 
difesa 
garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto precludono 
ogni 
possibilità 
di 
difesa 
in 
relazione 
alla 
misura 
espulsiva, 
attività 
che 
avrebbe 
potuto 
trovare 
spazio 
nel 
solo 
procedimento 
disciplinare. 
Il 
rimettente 
prospettava 
anche 
la 
violazione 
del 
diritto 
al 
lavoro, 
tutelato 
dagli 
artt. 
4 
e 
35 
Cost., posto che 
la 
cessazione 
del 
rapporto d’impiego impedirebbe 
il 
reinserimento 
nel 
mondo del 
lavoro. Infine, si 
precluderebbe 
ogni 
possibile 
valutazione 
della 
pubblica 
amministrazione 
sulla 
possibilità 
di 
prosecuzione 
del 
rapporto d’impiego, così 
da 
incidere 
sul 
buon andamento sotto il 
profilo della 
migliore 
utilizzazione 
delle 
risorse 
professionali 
in 
violazione 
dell’art. 
97 
Cost. 
Analogamente 
all’ordinanza 
del 
t.A.r. 
Lombardia, 
anche 
i 
fatti 
all’esame 
del 
t.A.r. Campania 
riguardavano un militare 
nei 
cui 
confronti 
era 
stata 
pronunciata 
la 
perdita 
del 
grado e 
la 
contestuale 
cessazione 
del 
rapporto d’impiego, 
a 
seguito 
di 
pena 
pecuniaria 
e 
pena 
accessoria 
dell’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici, per avere 
intenzionalmente 
procurato a 
un terzo, nella 
sua 
qualità 
di 
pubblico 
ufficiale, 
l’indebito 
vantaggio 
consistito 
nella 
mancata 
elevazione 
del 
verbale 
di 
contravvenzione 
per 
non 
avere 
il 
terzo 
indossato 
la 
cintura 
di sicurezza. Spiccava, dunque, la tenuità del fatto. 
La Corte, pertanto, si è trovata nuovamente a decidere sulla questione. 

(14) Le 
due 
ordinanze 
sono pubblicate 
in G.U. nn. 46 del 
18 novembre 
2015 e 
16 del 
20 aprile 
2016, 1ª serie spec. 

ContenZIoSo 
nAZIonALe 


4. La sentenza n. 268/2016 della Corte Costituzionale. 
Visti 
i 
precedenti 
della 
Corte 
Costituzionale 
ed esaminate 
le 
ordinanze 
di 
rimessione, si procede ora all’analisi della sentenza in epigrafe. 


La 
Corte, dopo aver esaminato la 
cornice 
fattuale, si 
sofferma 
sul 
diritto, 
disponendo, innanzitutto, la 
riunione 
dei 
giudizi, vertendo le 
esaminate 
ordinanze 
sulle 
medesime 
questioni. 
Successivamente, 
viene 
espunto 
qualsiasi 
dubbio 
circa 
l’inammissibilità 
delle 
ordinanze, 
sottolineandosi 
come 
queste 
“non soffrano delle 
medesime 
carenze” 
dell’ordinanza 
che 
aveva 
dato luogo 
alla 
sentenza 
276/2013, in quanto i 
giudici 
rimettenti 
hanno “ricostruito con 
completezza il 
quadro normativo di 
riferimento, anche 
alla luce 
delle 
più recenti 
evoluzioni 
legislative, hanno dato adeguato conto della giurisprudenza 
costituzionale 
e 
comune 
sul 
tema, si 
sono fatti 
carico delle 
necessarie 
precisazioni 
in ordine 
alle 
peculiarità delle 
funzioni 
dell’Arma dei 
carabinieri, attinenti 
alla 
pubblica 
sicurezza 
e 
all’ordine 
pubblico, 
e 
hanno 
precisato 
l’oggetto della questione, individuandolo nelle 
disposizioni, congiuntamente 
interpretate, 
di 
cui 
agli 
art. 
866, 
comma 
1, 
867, 
comma 
3 
e 
923 
del 
citato 
d.lgs. n. 66 del 2010”. 

nel 
merito, la 
Corte 
esordisce 
affermando: 
“la questione 
è 
fondata in riferimento 
all’art. 3 Cost., sia per 
contrasto con il 
fondamentale 
canone 
di 
ragionevolezza 
e 
proporzionalità, a cui 
tutte 
le 
leggi 
debbono conformarsi, sia 
per violazione del principio di eguaglianza”. 

Prendendo le 
mosse 
dalla 
ragionevolezza 
e 
proporzionalità, la 
Corte 
richiama 
i 
precedenti 
circa 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’automatica 
destituzione 
da 
un 
pubblico 
impiego 
a 
seguito 
di 
sentenza 
penale, 
atteso 
che 
la 
sanzione 
disciplinare 
va 
graduata 
nell’ambito 
dell’autonomo 
procedimento 
disciplinare, in ossequio ai 
criteri 
di 
proporzionalità 
e 
adeguatezza, non potendo 
costituire 
l’effetto 
automatico 
di 
una 
condanna 
(sentenze 
n. 
234 
del 
2015, n. 2 del 
1999, n. 363 del 
1996, n. 220 del 
1995, n. 197 del 
1993, n. 16 
del 
1991, n. 158 del 
1990, n. 971 del 
1988 e 
n. 270 del 
1986, per il 
personale 
militare 
sentenze 
n. 363 del 
1996 e 
n. 126 del 
1995). Sullo sfondo di 
tali 
decisioni, 
nonché 
sul 
precedente 
circa 
l’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici 
(sent. n. 286 del 
1999), la 
Consulta, distinguendo il 
giudizio in esame 
dal 
precedente 
del 
1999, 
afferma 
che 
“Solo 
eccezionalmente 
l’automatismo 
potrebbe 
essere 
giustificato: 
segnatamente 
quando 
la 
fattispecie 
penale 
abbia 
contenuto 
tale 
da essere 
radicalmente 
incompatibile 
con il 
rapporto di 
impiego o di 
servizio, 
come 
ad esempio quella sanzionata anche 
con la pena accessoria del-
l’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici 
ex 
art. 
28, 
secondo 
comma, 
cod. 
pen. 
[…] 
o dell’estinzione 
del 
rapporto di 
impiego ex 
art. 32-quinquies 
cod. 
pen. Queste 
ragioni 
di 
incompatibilità assoluta con la prosecuzione 
del 
rapporto 
di 
impiego 
-che 
giustifica 
l’automatismo 
destitutorio 
non 
come 
sanzione 
disciplinare, ma come 
effetto indiretto della pena già definitivamente 
inflitta 


-non sussiste 
in relazione 
all’interdizione 
temporanea dai 
pubblici 
uffici 
ex 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


art. 
28, 
terzo 
comma, 
cod. 
pen., 
connotata 
per 
definizione 
da 
un 
carattere 
provvisorio e, quindi, tale 
da non escludere 
la prosecuzione 
del 
rapporto momentaneamente 
interrotto. 
Da 
qui 
l’intrinseca 
irrazionalità 
della 
disciplina 
censurata che 
collega automaticamente 
-senza possibilità di 
alcuna valutazione 
discrezionale 
sulla proporzionale 
graduazione 
della sanzione 
disciplinare 
nel 
caso concreto -una grave 
conseguenza irreversibile 
ad una misura 
temporanea 
che, 
di 
per 
sé, 
non 
la 
implica 
necessariamente”. 
Segue 
il 
confronto 
con il 
precedente 
del 
2014 (sent. n. 112 del 
2014) con il 
quale 
era 
stata 
dichiarata 
la 
legittimità 
dell’automatica 
cessazione 
dal 
servizio del 
personale 
appartenente 
all’amministrazione 
di 
pubblica 
sicurezza 
riportate 
una 
misura 
di 
sicurezza 
personale. Viene 
chiarito che 
il 
conflitto tra 
il 
giudizio in esame 
e 
quello risalente 
al 
2014 è 
solo apparente: 
mentre 
nella 
sent. n. 112/2014 si 
valutava 
l’esigenza 
di 
protezione 
della 
collettività 
derivante 
dalla 
misura, 
avente 
come 
presupposto necessario l’accertamento della 
pericolosità 
sociale 
del 
condannato 
(nel 
caso 
di 
specie, 
proprio 
un 
impiegato 
in 
ambito 
di 
pubblica 
sicurezza); 
nel 
caso in esame, l’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
è 
soltanto 
una 
pena 
accessoria 
che 
non 
si 
applica 
solo 
a 
persone 
socialmente 
pericolose. 
A 
destituire 
di 
fondamento 
l’esaminato 
automatismo 
legislativo 
è, 
poi, 
anche 
la 
non 
riconducibilità 
di 
quest’ultimo 
ai 
canoni 
esplicitati 
dalla 
Corte 
circa 
le 
presunzioni 
legislative, le 
quali 
“violano il 
principio di 
eguaglianza, 
se 
sono 
arbitrarie 
e 
irrazionali, 
cioè 
se 
non 
rispondono 
a 
dati 
di 
esperienza 
generalizzati, riassunti 
nella formula dell’id quod plerumque 
accidit”, 
con la 
conseguenza 
che 
“l’irragionevolezza della presunzione 
assoluta si 
può 
cogliere 
tutte 
le 
volte 
in cui 
sia “agevole” 
formulare 
ipotesi 
di 
accadimenti 
reali 
contrari 
alla 
generalizzazione 
posta 
a 
base 
della 
presunzione 
stessa”(ex 
multis, sentenze 
n. 185 del 
2015, n. 232 e 
n. 213 del 
2013, n. 182 e 
n. 164 del 
2011, n. 265 e 
n. 139 del 
2010). Secondo la 
Corte, che 
aderisce 
alla 
tesi 
del 


t.A.r. 
Campania 
rimettente, 
tale 
presunzione 
collega 
l’automatica 
cessazione 
dal 
servizio 
ad 
una 
serie 
di 
presupposti 
eccessivamente 
ampi 
che, 
quindi, 
“non 
possono validamente 
fondare, in tutti 
i 
casi 
in esse 
ricompresi, una presunzione 
assoluta di 
inidoneità o indegnità morale 
o, tanto meno, di 
pericolosità 
dell’interessato, 
tale 
da 
giustificare 
una 
sanzione 
disciplinare 
così 
grave 
come 
la perdita del 
grado con conseguente 
cessazione 
dal 
servizio”. Ciò è 
confermato 
proprio 
dai 
fatti 
all’origine 
dell’ordinanza 
di 
rimessione 
del 
t.A.r. 
Campania, 
ovvero 
la 
condanna 
di 
un 
militare 
per 
abuso 
lieve 
d’ufficio 
(ove 
l’ 
indebito 
vantaggio 
consisteva 
nella 
mancata 
elevazione 
del 
verbale 
di 
contravvenzione 
stradale, per non aver indossato la cintura di sicurezza) a fronte 
della 
quale 
non 
è 
certo 
proporzionata 
la 
perdita 
del 
grado 
con 
conseguente 
cessazione dal servizio. 
Quanto alla 
violazione 
del 
principio di 
uguaglianza, la 
Corte 
spiega 
che 
le 
denunciate 
norme 
del 
c.o.m. 
sottopongono 
gli 
appartenenti 
alle 
Forze 
armate 
ad un ingiustificato trattamento deteriore 
rispetto ai 
dipendenti 
dello Stato e 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


di 
altre 
amministrazioni 
pubbliche 
per cui, invece, il 
legislatore 
ha 
previsto il 
menzionato divieto di 
destituzioni 
di 
diritto per condanna 
penale, in virtù del-
l’art. 9 della 
legge 
7 febbraio 1990, n. 19. La 
Corte 
precisa 
che 
l’evoluzione 
legislativa 
che 
ha 
previsto alcuni 
casi 
di 
cessazione 
automatica 
del 
rapporto 
di 
impiego non può assumersi 
quale 
indice 
di 
legittimità 
degli 
artt. 866, 867 e 
923 
c.o.m. 
Infatti, 
pur 
prevedendo 
l’art. 
32-quinquies 
c.p. 
la 
cessazione 
del 
rapporto 
di 
impiego, 
si 
tratta 
di 
casi 
tassativamente 
indicati 
che 
hanno 
una 
“portata 
applicativa 
ben 
circoscritta 
e 
delimitata 
da 
precisi 
requisiti 
qualitativi 
e 
quantitativi, 
che 
non 
può 
in 
alcun 
modo 
essere 
assimilata 
all’ampiezza 
delle 
fattispecie 
che 
possono determinare 
la cessazione 
del 
rapporto di 
servizio del 
personale 
militare 
ai 
sensi 
degli 
impugnati 
articoli”. Concludendo sul 
punto, 
la 
Consulta 
osserva 
che 
detta 
disparità 
di 
trattamento 
non 
è 
giustificabile 
nemmeno 
avendo riguardo al 
peculiare 
status 
dei 
militari 
sotto il 
profilo delle 
garanzie 
procedimentali 
poste 
a 
presidio 
del 
diritto 
di 
difesa, 
a 
loro 
volta 
strumentali 
al 
buon 
andamento 
dell’Amministrazione, 
da 
ciò 
conseguendo 
anche la violazione degli artt. 24 e 97 Cost. (15). 

5. 
La 
giurisprudenza 
amministrativa 
che 
ha 
applicato 
la 
sentenza 
n. 
268/2016. 
Prima 
della 
sentenza 
n. 268, la 
giurisprudenza 
amministrativa 
era 
ferma 
nell’applicare 
gli 
insegnamenti 
della 
Consulta 
(nel 
particolare, la 
citata 
sent. 
286/1999), 
sostenendo 
che 
l’applicazione 
delle 
sanzioni 
accessorie 
di 
carattere 
interdittivo 
al 
di 
fuori 
del 
procedimento 
amministrativo 
era 
giustificata 
in 
quanto si 
trattava 
di 
un effetto 
ex 
lege 
della 
condanna 
(16). ed, invero, un simile 
approccio si 
rinviene 
anche 
nella 
giurisprudenza 
che 
applica 
la 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 276/2013, secondo cui 
“continuano ad esistere 
nel 
nostro ordinamento fattispecie 
di 
destituzione 
automatica dei 
dipendenti 
pubblici 
e 
[…] 
tali 
fattispecie 
sono 
costituite 
proprio 
dalle 
sanzioni 
accessorie 
penali” (17). 


(15) Sulla 
specialità 
dello status 
giuridico del 
personale 
militare 
si 
segnala 
la 
nota 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 
120/2018 
che 
ha 
dichiarato 
costituzionalmente 
illegittimo 
l’articolo 
1475, 
comma 
2 del 
c.o.m., in quanto prevedeva 
che 
“I militari 
non possono costituire 
associazioni 
professionali 
a carattere 
sindacale 
o aderire 
ad altre 
associazioni 
sindacali” 
invece 
di 
prevedere 
che 
“I militari 
possono 
costituire 
associazioni 
professionali 
a 
carattere 
sindacale 
alle 
condizioni 
e 
con 
i 
limiti 
fissati 
dalla 
legge; non possono aderire 
ad altre 
associazioni 
sindacali”. Sul 
punto, si 
veda 
il 
contributo di 
C. PAn-
ZerA, La libertà sindacale 
dei 
militari 
in un’atipica sentenza sostitutiva della Corte 
costituzionale 
in 
www.federalismi.it, 2019, n. 23 e 
di 
C. SALAZAr, La Carta sociale 
europea nella sentenza n. 120 del 
2018 della Consulta: ogni cosa è illuminata? 
in Quad. cost. 
2018, n. 4, pp. 905 e ss. 
(16) Cfr. Cons. St., Sez. VI, sent. nn. 389 e 
390, cit., secondo cui: 
“È, infatti, la stessa Corte 
costituzionale 
ad affermare 
che 
il 
principio della necessaria previa instaurazione 
del 
procedimento disciplinare, 
in luogo della destituzione 
di 
diritto dei 
pubblici 
dipendenti, «non concerne 
le 
pene 
accessorie 
di 
carattere 
interdittivo, in genere, né 
l’interdizione 
dai 
pubblici 
uffici, in particolare» (v. Corte 
cost. n. 
286 
del 
1999, 
e 
gli 
altri 
precedenti 
ivi 
richiamati)”, 
si 
veda 
anche 
t.A.r. 
Lombardia, 
Sez. 
III, 
sent. 
2371, cit. 
(17) t.A.r. Lazio, Sez. I bis, sent. n. 2469 dell’11 febbraio 2015. 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Dopo la 
decisione 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 268/2016, il 
giudice 
amministrativo 
si 
è 
trovato più volte 
a 
giudicare 
casi 
analoghi 
nei 
quali, come 
si 
illustrerà, non solo ha 
applicato quanto disposto dalla 
citata 
sentenza 
n. 268, 
ma ne ha anche chiarito la portata. 

tra 
le 
varie 
sentenze 
sul 
tema, 
merita 
un 
approfondimento 
la 
n. 
490 
del 
27 
maggio 
2019 
resa 
dal 
Consiglio 
di 
giustizia 
amministrativa 
per 
la 
regione 
siciliana. 
I 
fatti 
riguardavano 
un 
militare 
a 
cui 
era 
stato 
irrogato 
un 
provvedimento 
di 
perdita 
del 
grado 
per 
rimozione 
conseguente 
alla 
pena 
accessoria 
della 
rimozione 
irrogata 
in 
sede 
penale. 
nonostante, 
quindi, 
si 
trattasse 
di 
una 
questione 
in 
parte 
differente 
da 
quella 
esaminata 
nella 
sentenza 
268 
(riguardante 
la 
perdita 
del 
grado 
conseguente 
alla 
pena 
accessoria 
della 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici), 
l’appellante 
prospettava 
l’ 
illegittimità 
costituzionale, 
per 
violazione 
degli 
artt. 
3 
e 
97 
Cost., 
degli 
artt. 
866, 
comma 
1, 
867, 
comma 
3 
e 
923 
del 
c.o.m., 
nella 
parte 
in 
cui 
dispongono 
la 
cessazione 
dal 
servizio 
come 
conseguenza 
automatica 
dell’applicazione 
in 
sede 
di 
condanna 
penale 
definitiva 
della 
sanzione 
accessoria 
della 
rimozione 
del 
grado. 
Il 
Consiglio 
di 
giustizia 
amministrativa, 
nel 
respingere 
tale 
eccezione, 
osservava 
che: 
“La 
Corte 
[…] 
ha 
dichiarato 
l'illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 
866, 
comma 
1 
c.o.m., 
solo 
nella 
parte 
in 
cui 
non 
prevede 
l'instaurarsi 
del 
procedimento 
disciplinare 
per 
la 
cessazione 
dal 
servizio 
per 
perdita 
del 
grado 
conseguente 
alla 
pena 
accessoria 
della 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici. 
Il 
che 
trova 
il 
suo 
fondamento 
logico 
nel 
carattere 
temporaneo 
della 
pena 
accessoria 
applicata 
dal 
giudice 
penale. 
Ma 
laddove 
il 
giudice 
penale, 
come 
nella 
specie, 
applica 
una 
pena 
accessoria 
di 
per 
sé 
perpetua 
ed 
espulsiva, 
quale 
è 
la 
rimozione, 
nulla 
può 
fare 
l’Amministrazione 
se 
non 
prenderne 
atto, 
e 
non 
può 
logicamente 
trovare 
spazio 
un 
procedimento 
disciplinare”. 
Con 
ciò 
si 
chiariva 
che 
la 
ratio 
della 
sentenza 
268 
è 
quella 
di 
eliminare 
non 
un 
qualsiasi 
automatismo 
legislativo, 
bensì 
solo 
quegli 
automatismi 
caratterizzati 
da 
mancanza 
di 
proporzionalità 
e 
ragionevolezza 
poiché 
ricollegano 
una 
grave 
conseguenza 
irreversibile 
ad 
una 
misura 
temporanea 
che, 
di 
per 
sé, 
non 
la 
implica 
necessariamente. 
Seguendo 
tale 
logica, 
la 
rimozione 
deve 
distinguersi 
dalla 
interdizione 
temporanea 
che, 
appunto, 
non 
può 
implicare 
conseguenze 
irreversibili 
quali 
la 
cessazione 
del 
rapporto 
di 
impiego. 
tale 
linea 
direttrice 
è 
stata 
seguita 
anche 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
che 
ha 
ritenuto 
che 
“la 
Corte 
costituzionale 
[…] 
ha 
espressamente 
e 
specificamente 
valorizzato, 
a 
sostegno 
della 
decisione 
di 
accoglimento, 
il 
carattere 
“provvisorio 
e, 
quindi, 
tale 
da 
non 
escludere 
la 
prosecuzione 
del 
rapporto 
momentaneamente 
interrotto” 
proprio 
della 
pena 
accessoria 
del-
l’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici. 
Vi 
sono, 
dunque, 
evidenti 
ragioni 
per 
ritenere 
il 
decisum 
della 
Corte 
non 
estensibile 
alle 
conseguenze 
delle 
pene 
accessorie 
di 
carattere 
perpetuo, 
quali 
l’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici 
(art. 
28 
c.p.), 
l’estinzione 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
o 
di 
im



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


piego 
(art. 
32-quinquies 
c.p.) 
e, 
appunto, 
la 
rimozione” 
(18). 
Parimenti, 
il 


t.A.r. 
Campania 
ha 
evidenziato 
“la 
mancata 
attinenza 
del 
ragionamento 
seguito 
dalla 
Corte 
costituzionale 
alle 
conseguenze 
delle 
pene 
accessorie 
di 
carattere 
perpetuo, 
quali, 
l’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici 
(art. 
28 
c.p.), 
l’estinzione 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
o 
di 
impiego 
(art. 
32 
-quinquies 
c.p.) 
e, 
come 
nella 
specie, 
la 
rimozione 
per 
perdita 
del 
grado” 
(19). 
Sebbene 
non paiono sussistere 
dubbi 
sull’efficacia 
retroattiva 
della 
sentenza 
n. 268/2016, la 
giurisprudenza 
amministrativa 
ha 
precisato che 
questa 
si 
applica 
quando 
“il 
rapporto 
giuridico 
in 
contestazione 
[risulta] 
ancora 
pendente” 
(20), specificando che 
“Va al 
riguardo richiamato il 
principio (tra le 
tante 
Cassazione 
civile, 
sezione 
lavoro, 
7 
ottobre 
2015, 
n. 
20100) 
secondo 
cui 
è 
ben vero che 
la efficacia retroattiva delle 
sentenze 
dichiarative 
dell'illegittimità 
costituzionale 
di 
una 
norma 
comporta 
che 
tali 
pronunce 
abbiano 
effetto 
anche 
in ordine 
ai 
rapporti 
di 
lavoro svoltisi 
precedentemente; ma ciò certamente 
non riguarda i 
rapporti 
definiti 
con sentenza passata in giudicato e 
le 
situazioni comunque definitivamente esaurite” (21). 


Conseguenza 
dell’applicazione 
della 
sentenza 
in commento sarà, perciò, 
la 
constatazione 
secondo 
cui: 
“venuto 
meno 
retroattivamente 
la 
base 
legale 
in 
virtù 
della 
quale 
il 
potere 
sanzionatorio 
è 
stato 
esercitato, 
il 
provvedimento 
impugnato risulta certamente 
viziato da (sopravvenuta) carenza di 
potere 
in 
concreto 
e 
va, 
dunque, 
annullato 
[…]. 
Resta 
fermo 
il 
riesercizio 
del 
potere 
amministrativo, 
nel 
segmento 
di 
attività 
non 
astretto 
dai 
limiti 
del 
presente 
giudicato, con la conseguente 
possibilità per 
l’Amministrazione 
di 
appartenenza 
di 
rivalutare 
la vicenda sotto il 
profilo disciplinare, sempre 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
previsti 
dalla 
legge, 
anche 
sotto 
il 
profilo 
della 
tempestività 
dell’azione” 
(22). Vi 
sono, invero, casi 
in cui 
l’Amministrazione, preso atto 
della 
sentenza 
268, ha 
annullato in autotutela 
il 
provvedimento di 
perdita 
del 
grado ed ha, così, riattivato il 
proprio potere 
disciplinare, ben potendo rivalutare 
la vicenda sotto tale profilo (23). 


(18) Cons. St., Sez. IV, sent. n. 486, cit. 
(19) t.A.r. Campania, Sez. VII, sent. n. 4628 del 20 ottobre 2020. 
(20) In termini: 
Cons. St., Sez. IV, sent. n. 7921 dell’11 dicembre 
2020. Del 
resto, anche 
la 
Guida 
tecnica 
“Procedure 
disciplinari” 
7^ 
edizione 
aprile 
2021 del 
Ministero della 
Difesa 
specifica 
che 
“Per 
quanto concerne 
il 
personale 
militare 
sprovvisto di 
attualità del 
rapporto di 
impiego (in congedo), la 
citata 
pronuncia 
della 
Corte 
Costituzionale 
è 
improduttiva 
di 
effetti. 
Infatti, 
nel 
dichiarare 
l’illegittimità 
costituzionale 
degli 
articoli 
866, 
comma 
1, 
867, 
comma 
3 
e 
923, 
comma 
1, 
lettera 
i), 
del 
c.o.m., 
la 
Corte 
interviene 
sulle 
conseguenze 
che 
la 
perdita 
del 
grado 
riverbera 
sul 
rapporto 
di 
impiego. 
ove 
il 
rapporto 
di 
impiego 
non 
sussiste 
(più), 
trovano 
applicazione 
i 
soli 
artt. 
866, 
comma 
1, 
e 
867, 
comma 
3, 
in 
quanto 
tali non affetti da illegittimità costituzionale” p. 190. 
(21) Cons. St., Sez. IV, sent. n. 838 del 
4 febbraio 2019. nel 
caso di 
specie, il 
provvedimento di 
espulsione era stato impugnato dopo tre anni dalla sua emissione e comunicazione all’interessato. 
(22) Cons. St., Sez. IV, sent. n. 7921, cit. 
(23) Cfr. Cons. St., Sez. I, parere n. 180 dell’8 febbraio 2021. 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


In conclusione, leggendo al 
contrario il 
principio affermato dalla 
Corte 
Costituzionale 
con 
la 
sentenza 
268/2016, 
si 
può 
affermare 
che: 
l’automatismo 
esaminato 
rimane 
giustificato 
nel 
caso 
della 
interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici 
ed estinzione 
del 
rapporto di 
impiego ex 
art. 32 quinquies 
c.p. A 
tale 
eccezione, 
la 
giurisprudenza 
amministrativa, come 
detto, aggiunge 
anche 
la 
misura 
della rimozione. 

6. Considerazioni conclusive. 
Con la 
pronuncia 
in commento, il 
giudice 
delle 
leggi 
non solo ha 
confermato 
il 
proprio orientamento sfavorevole 
verso gli 
automatismi 
sanzionatori 
-secondo 
la 
Corte, 
questi 
ultimi 
devono 
rappresentare 
un’eccezione, 
piuttosto 
che 
una 
regola 
-ma 
ha 
anche 
smentito le 
indicazioni 
di 
segno contrario rinvenibili 
nei 
citati 
precedenti 
del 
1999 e 
del 
2014 (rispettivamente, sentt. nn. 286 
e 
112) (24). Così 
facendo, perciò, anche 
tali 
precedenti 
discordanti 
sono stati 
allineati 
con l’attuale 
orientamento della 
Consulta, disegnando un quadro ove 
i 
principi 
scaturenti 
dall’art. 3 Cost. lasciano poco spazio a 
situazioni 
in cui 
conseguenze 
definitive, 
quali 
la 
cessazione 
del 
rapporto 
d’impiego, 
discendono 
ope legis 
da situazioni di per sé temporanee. 

Sulla 
falsariga 
di 
tale 
ragionamento si 
è 
allineata 
la 
giurisprudenza 
amministrativa 
che, come 
si 
è 
visto, non ha 
esitato a 
sottolineare 
la 
centralità 
del 
carattere 
non definitivo dell’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
quale 
punto 
dirimente 
per 
la 
pronuncia 
di 
illegittimità 
costituzionale, 
riuscendo 
a 
tenere 
indenne l’ipotesi della rimozione. 

In seguito alla 
sentenza 
analizzata, l’illegittimità 
degli 
automatismi 
sanzionatori, 
come 
quello previsto dal 
combinato disposto degli 
artt. 866, 867 e 
923 c.o.m., rappresenta un punto fermo. 

Ciò 
potrebbe 
far 
presumere 
la 
possibilità 
di 
ulteriori 
pronunce 
in 
tal 
senso. 
Già 
il 
t.A.r. 
Friuli 
Venezia 
Giulia 
ha, 
infatti, 
di 
recente 
sollevato 
una 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
circa 
l’art. 
6-ter, 
comma 
3, 
del 
d.P.r. 
24 
aprile 
1982, 
n. 
335 
(ordinamento 
del 
personale 
della 
Polizia 
di 
Stato 
che 
espleta 
funzioni 
di 
polizia), 
in 
riferimento 
agli 
artt. 
3, 
24 
e 
97 
della 
Costituzione, 
nella 
parte 
in 
cui, 
per 
gli 
allievi 
agenti 
e 
gli 
agenti 
in 
prova, 
prevede 
l’espulsione 
dal 
corso 
a 
seguito 
del 
mero 
riscontro 
di 
mancanze 
punibili 
con 
sanzioni 
disciplinari 
più 
gravi 
della 
deplorazione. 
Il 
tribunale 
era 
stato 
investito 
dal 
ricorso 
per 
l’annullamento, 
previa 
sospensione, 
del 
provvedimento 
di 
espulsione 
dal 
corso 
di 
formazione 
per 
agenti 
della 
Polizia 
di 
Stato 
di 
un 
allievo 
agente 
che 
si 
sarebbe 
reso 
responsabile 
di 
una 
mancanza 
punibile 
con 
sanzione 
disciplinare 
più 
grave 
della 
deplorazione 
e, 
in 
particolare, 
della 
violazione 
di 
cui 
all’art. 
6, 
citato, 
che 
punisce 
con 
la 
sospensione 
(san


(24) Così, P. rIVeLLo, La Corte 
Costituzionale 
elimina un ingiustificato automatismo dal 
codice 
dell’ordinamento militare 
in Riv. dir. mil., 2017 n. 2, pp. 1 e ss. 

ContenZIoSo 
nAZIonALe 


zione 
più 
grave 
della 
deplorazione) 
l’appartenente 
ai 
ruoli 
dell’amministrazione 
della 
pubblica 
sicurezza 
che 
abbia 
fatto 
uso 
non 
terapeutico 
di 
sostanze 
stupefacenti 
o 
psicotrope. 
nell’ordinanza 
di 
rimessione 
si 
legge 
che: 
“La 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 
268/2016 
[…] 
presenta, 
ad 
avviso 
del 
Tribunale, 
particolari 
analogie 
con 
la 
presente, 
avendo 
riguardato 
proprio 
un 
automatismo 
sanzionatorio 
disciplinare 
che 
conseguiva 
al 
mero 
accertamento 
di 
una 
violazione, 
senza 
la 
mediazione 
di 
un 
apposito 
procedimento 
amministrativo. 
In 
questo 
caso 
l'infrazione 
era 
pur 
sempre 
accertata, 
in 
tutti 
i 
suoi 
elementi, 
nel 
contesto 
di 
un 
giudizio 
penale, 
con 
le 
relative 
garanzie 
e 
l'elevatissimo 
margine 
di 
certezza 
(«al 
di 
là 
di 
ogni 
ragionevole 
dubbio», 
come 
recita 
l'art. 
533 
c.p.p.) 
che 
in 
tale 
sede 
guida 
l'accertamento 
della 
responsabilità. 
E 
tuttavia, 
l’impossibilità 
di 
graduare 
la 
sanzione 
disciplinare 
secondo 
criteri 
di 
proporzionalità 
e 
adeguatezza 
al 
caso 
concreto 
ha 
condotto 
la 
Corte 
a 
ritenere 
le 
disposizioni 
contestate 
irragionevoli 
e 
quindi 
in 
contrasto 
con 
l'art. 
3 
della 
Costituzione. 
Più 
in 
generale, 
la 
Corte 
ha 
nel 
tempo 
espunto 
dall’ordinamento 
diverse 
ipotesi 
di 
presunzioni 
assolute, 
laddove 
le 
stesse 
non 
esprimessero 
un 
rapporto 
causa-
effetto 
conforme 
all'id 
quod 
plerumque 
accidit. 
[…] 
Nel 
caso 
di 
specie, 
pur 
in 
una 
doverosa 
ottica 
di 
selezione 
morale 
nella 
fase 
che 
precede 
l'ingresso 
in 
servizio, 
si 
dubita 
che 
possa 
assolutamente 
presumersi 
l'indegnità 
alla 
funzione 
di 
chi 
commetta 
«mancanze 
punibili 
con 
sanzioni 
disciplinari 
più 
gravi 
della 
deplorazione» 
anche 
quando 
l'infrazione 
presenti 
in 
concreto 
una 
gravità 
e 
un 
trascurabile 
offensività 
ai 
valori 
e 
all'importanza 
del 
ruolo” 
(25). 
tuttavia, 
la 
Corte 
Costituzionale, 
con 
la 
sentenza 
n. 
162/2021 
ha 
pronunciato 
l’inammissibilità 
per 
difetto 
di 
rilevanza, 
a 
causa 
della 
contestuale 
definizione 
della 
domanda 
cautelare 
e 
non 
vi 
è 
stata, 
perciò, 
alcuna 
pronuncia 
sul 
merito 
della 
questione 
(26). 
Ad 
ogni 
modo, 
così 
come 
è 
avvenuto 
per 
la 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
del 
2016, 
nulla 
impedisce 
al 
giudice 
amministrativo 
di 
risollevare 
un’analoga 
questione 
in 
futuro, 
essendo 
ben 
possibile 
che 
ulteriori 
automatismi 
sanzionatori, 
per 
dirla 
con 
la 
Corte: 
“ingiustificati”, 
vengano 
espunti 
dall’ordinamento. 


(25) t.A.r. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, ord. n. 114 del 2 marzo 2020. 
(26) Corte 
Cost., 162/2021 in G.U. n. 30 del 
28 luglio 2021, 1ª 
serie 
spec. che 
osserva 
“l’istanza 
cautelare 
avanzata 
nel 
giudizio 
a 
quo 
è 
stata 
rigettata 
a 
causa 
dell’insufficiente 
specificazione 
dei 
profili 
di 
periculum 
in mora e 
di 
concreta utilità del 
provvedimento interinale 
domandato, apparendo al 
TAR 
verosimile 
l’inattuabilità 
pratica 
della 
misura 
richiesta, 
cioè 
l’ammissione 
con 
riserva 
agli 
esami. 
L’incidente 
di 
costituzionalità 
della 
norma 
censurata, 
dunque, 
non 
viene 
proposto 
per 
decidere 
l’istanza 
cautelare 
di 
sospensione 
del 
provvedimento 
impugnato, 
bensì 
dopo 
il 
suo 
rigetto, 
al 
fine 
di 
dare 
soluzione 
al giudizio «sotto il profilo del merito», ma prima che si radichi la potestà decisoria a esso afferente”. 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Corte 
costituzionale, sentenza 15 dicembre 
2016 n. 268 -Pres. 
Paolo Grossi, Red. Marta 
Cartabia 
-Giudizi 
di 
legittimità 
costituzionale 
degli 
articoli 
866, comma 
1, 867, comma 
3, e 
923, comma 
1, lettera 
i), del 
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice 
dell’ordinamento 
militare), promossi 
dal 
tribunale 
amministrativo regionale 
per la 
Lombardia 
con ordinanza 
del 
26 
giugno 
2015 
e 
dal 
tribunale 
amministrativo 
regionale 
per 
la 
Campania 
con 
ordinanza del 5 novembre 2015. 


(omissis) 
Considerato in diritto 


1.– Con ordinanza 
del 
26 giugno 2015 il 
tribunale 
amministrativo regionale 
per la 
Lombardia 
ha 
sollevato, in riferimento all’art. 3 della 
Costituzione, questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
degli 
articoli 
866, comma 
1, 867, comma 
3 e 
923 (recte: 
923, comma 
1, lettera 
i, 
del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare). 


Secondo la 
prospettazione 
del 
rimettente, per effetto delle 
disposizioni 
impugnate, il 
passaggio 
in 
giudicato 
della 
sentenza 
di 
condanna, 
non 
condizionalmente 
sospesa, 
per 
delitto 
non 
colposo 
che 
comporti 
la 
pena 
accessoria 
della 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici, 
determina 
la 
perdita 
del 
grado 
senza 
giudizio 
disciplinare; 
a 
sua 
volta, 
la 
perdita 
del 
grado 
è 
causa automatica di cessazione del rapporto di impiego del militare. 


La 
disciplina 
in esame 
violerebbe 
l’art. 3 Cost. sotto molteplici 
profili: 
anzitutto, sarebbe 
frutto di 
una 
scelta 
legislativa 
incongrua 
e 
sproporzionata, come 
tale 
del 
tutto irragionevole; 
inoltre, 
essa 
riserverebbe 
un 
identico 
trattamento, 
la 
cessazione 
automatica 
del 
rapporto 
di 
impiego, a 
situazioni 
strutturalmente 
diverse, per di 
più equiparando gli 
effetti 
della 
interdizione 
temporanea a quelli della interdizione perpetua dai pubblici uffici. 


2.– 
Con 
ordinanza 
del 
5 
novembre 
2015, 
il 
tribunale 
amministrativo 
regionale 
per 
la 
Campania 
ha 
sollevato questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
delle 
medesime 
disposizioni 
contenute 
negli 
artt. 866, comma 
1, 867, comma 
3 e 
923, comma 
1 (recte: 
923, comma 
1, lettera 
i), del 
d.lgs. n. 66 del 
2010, per violazione 
degli 
artt. 3, 24, secondo comma, 4, 35 e 
97 Cost. 


Il 
giudice 
a 
quo 
ritiene 
che 
la 
disciplina 
in 
esame 
sia 
intrinsecamente 
irragionevole, 
perché 
prevedendo, a 
determinate 
condizioni, l’automatica 
perdita 
del 
grado senza 
procedimento disciplinare 
-la 
quale, a 
sua 
volta, è 
causa 
di 
automatica 
cessazione 
del 
rapporto di 
impiego violerebbe 
il principio di gradualità e proporzione delle sanzioni. 


La 
violazione 
sarebbe 
particolarmente 
evidente 
nella 
specie 
sottoposta 
a 
giudizio, in cui 
l’espulsione 
automatica 
del 
militare 
è 
conseguente 
ad 
una 
condanna 
per 
abuso 
lieve 
di 
ufficio, 
per non avere 
l’interessato elevato una 
contravvenzione 
stradale 
consistente 
nel 
mancato utilizzo 
delle cinture di sicurezza. 


L’automatismo 
della 
cessazione 
dal 
servizio 
determinerebbe, 
inoltre, 
una 
violazione 
del 
principio di 
uguaglianza. Si 
verificherebbe, infatti, una 
ingiustificata 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
il 
militare 
che 
incorra 
nella 
ricordata 
sanzione 
penale 
accessoria 
temporanea, per la 
quale 
è 
previsto un automatismo espulsivo, rispetto allo stesso militare 
che 
sia 
soggetto all’analoga 
sanzione 
penale 
militare 
accessoria 
della 
rimozione, per la 
quale 
la 
perdita 
del 
grado e 
la 
cessazione 
dal 
servizio 
sono 
invece 
subordinate 
alle 
valutazioni 
da 
compiersi 
in 
un 
procedimento 
disciplinare. 
Parimenti 
ingiustificata 
sarebbe 
poi 
la 
disparità 
di 
trattamento 
rispetto 
al 
pubblico 
impiegato la 
cui 
posizione, per analoga 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici, dovrebbe 
invece essere vagliata in procedimento disciplinare all’uopo previsto dalla legge. 


oltre 
ai 
ricordati 
profili 
di 
violazione 
dell’art. 3 Cost., il 
rimettente 
ravvisa 
altresì 
la 
contestuale 
violazione: 
dell’art. 
24, 
secondo 
comma, 
Cost., 
in 
quanto 
l’automatismo 
della 
perdita 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


del 
grado e 
la 
conseguente 
cessazione 
dal 
servizio impedirebbero all’interessato qualsiasi 
difesa 
in merito all’applicazione 
delle 
ricordate 
misure 
disciplinari; 
degli 
artt. 4 e 
35 Cost., in 
quanto 
il 
predetto 
automatismo 
finirebbe 
per 
pregiudicare 
il 
diritto 
al 
lavoro; 
dell’art. 
97 
Cost., 
in quanto il 
medesimo automatismo pregiudicherebbe 
il 
buon andamento della 
pubblica 
amministrazione, 
impedendo all’amministrazione 
interessata 
ogni 
valutazione 
sulla 
perdurante 
opportunità 
della 
permanenza 
in servizio e, quindi, sulla 
migliore 
utilizzazione 
delle 
risorse 
professionali. 


3.– In via 
preliminare 
deve 
osservarsi 
che 
le 
questioni 
sollevate 
con le 
due 
descritte 
ordinanze 
hanno ad oggetto le 
medesime 
disposizioni 
e 
lamentano la 
violazione 
di 
parametri 
almeno 
parzialmente 
coincidenti. 
Ai 
fini 
di 
una 
decisione 
congiunta 
è 
perciò 
opportuna 
la 
riunione dei relativi giudizi. 


4.– 
Sempre 
in 
via 
preliminare, 
deve 
osservarsi, 
che 
la 
costituzione 
della 
parte 
privata 
D.M. 
è pienamente ammissibile, in quanto si tratta di parte nel giudizio a quo. 


5.– 
non 
sono 
state 
eccepite, 
né 
risultano, 
cause 
di 
inammissibilità 
delle 
sollevate 
questioni, 
dovendosi 
escludere 
che 
le 
ordinanze 
introduttive 
del 
presente 
giudizio soffrano delle 
medesime 
carenze 
che 
hanno indotto questa 
Corte, con la 
sentenza 
n. 276 del 
2013, a 
dichiarare 
inammissibile 
analoga 
questione 
sollevata 
sul 
solo art. 866 del 
d.lgs. n. 66 del 
2010, per incompleta 
ricostruzione del quadro normativo e insufficienza di motivazione. 


Invero, 
entrambi 
i 
tribunali 
rimettenti 
si 
sono 
confrontati 
con 
la 
precedente 
sentenza 
di 
inammissibilità 
e 
hanno colmato le 
numerose 
lacune 
che 
avevano allora 
indotto questa 
Corte 
a 
ritenere 
che 
la 
questione 
di 
legittimità 
non fosse 
sufficientemente 
precisata 
nei 
suoi 
termini 
essenziali, 
né 
fosse 
sufficientemente 
sorretta 
da 
un 
adeguato 
iter 
argomentativo, 
alla 
luce 
della 
complessità del quadro normativo in cui la disposizione censurata doveva essere collocata. 


non 
così 
nel 
caso 
oggi 
all’esame 
della 
Corte. 
I 
giudici 
rimettenti 
hanno 
ricostruito 
con 
completezza 
il 
quadro normativo di 
riferimento, anche 
alla 
luce 
delle 
più recenti 
evoluzioni 
legislative, 
hanno 
dato 
adeguato 
conto 
della 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
comune 
sul 
tema, 
si 
sono fatti 
carico delle 
necessarie 
precisazioni 
in ordine 
alle 
peculiarità 
delle 
funzioni 
del-
l’Arma 
dei 
carabinieri, 
attinenti 
alla 
pubblica 
sicurezza 
e 
all’ordine 
pubblico, 
e 
hanno 
precisato 
l’oggetto della 
questione, individuandolo nelle 
disposizioni, congiuntamente 
interpretate, di 
cui agli art. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del citato d.lgs. n. 66 del 2010. 


Al 
riguardo 
deve 
solo 
osservarsi 
che, 
in 
riferimento 
a 
quest’ultima 
disposizione, 
la 
censura 
non investe 
l’intero articolo, ma 
deve 
essere 
circoscritta 
al 
solo comma 
1, lett. i). tra 
le 
numerose 
cause 
di 
cessazione 
del 
rapporto 
di 
impiego 
enumerate 
nell’intero 
corpo 
dell’art. 
923, 
viene 
in rilievo, nel 
presente 
giudizio, solo quella 
connessa 
alla 
«perdita 
del 
grado», indicata 
appunto al 
comma 
1, lett. i), come 
si 
evince 
inequivocabilmente 
dalla 
puntuale 
motivazione 
delle 
due 
ordinanze 
di 
rimessione. Ad essa, dunque, deve 
limitarsi 
il 
giudizio di 
questa 
Corte. 


6.– nel 
merito la 
questione 
è 
fondata 
in riferimento all’art. 3 Cost., sia 
per contrasto con il 
fondamentale 
canone 
di 
ragionevolezza 
e 
proporzionalità, a 
cui 
tutte 
le 
leggi 
debbono conformarsi, 
sia per violazione del principio di eguaglianza. 


6.1.– Le 
disposizioni 
impugnate 
prevedono un caso di 
automatica 
cessazione 
del 
rapporto 
di pubblico impiego, applicabile al personale militare. 


Per effetto del 
congiunto operare 
delle 
disposizioni 
censurate 
-artt. 866, comma 
1, 867, 
comma 
3 e 
923, comma 
1, lettera 
i), del 
d.lgs. n. 66 del 
2010 -il 
militare 
che 
abbia 
subito una 
condanna 
penale, non condizionalmente 
sospesa, per la 
quale 
è 
prevista 
la 
pena 
accessoria 
della 
interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici, 
cessa 
automaticamente 
e 
definitivamente 
dal 
servizio a 
partire 
dal 
passaggio in giudicato della 
sentenza 
di 
condanna. Infatti, l’art. 923, 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


comma 
1, 
lettera 
i) 
stabilisce 
la 
cessazione 
dal 
servizio 
del 
militare 
in 
caso 
di 
«perdita 
del 
grado». A 
sua 
volta, ai 
sensi 
dell’art. 866, comma 
1, la 
«perdita 
del 
grado» consegue, «senza 
giudizio 
disciplinare», 
alla 
condanna 
definitiva, 
non 
condizionalmente 
sospesa, 
per 
delitto 
non 
colposo 
che 
comporti 
l’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici. 
In 
proposito, 
l’art. 
867, comma 
3, precisa 
che 
la 
perdita 
del 
grado decorre 
dal 
passaggio in giudicato della 
sentenza 
di condanna. 


L’esplicita 
previsione 
che 
la 
cessazione 
dal 
servizio avviene 
«senza 
giudizio disciplinare» 
(art. 866, comma 
1) e 
con decorrenza 
dal 
«passaggio in giudicato» della 
sentenza 
penale 
di 
condanna 
(art. 
867, 
comma 
3) 
attesta 
inequivocabilmente 
il 
carattere 
automatico 
della 
misura 
destitutoria. 


6.2.– 
La 
giurisprudenza 
costituzionale 
è 
costante 
nell’affermare 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’automatica 
destituzione 
da 
un pubblico impiego a 
seguito di 
sentenza 
penale, senza 
la 
mediazione del procedimento disciplinare. 


Questa 
Corte 
ha, infatti, chiarito che 
la 
sanzione 
disciplinare 
va 
graduata, di 
regola, nel-
l’ambito 
dell’autonomo 
procedimento 
a 
ciò 
preposto, 
secondo 
criteri 
di 
proporzionalità 
e 
adeguatezza 
al 
caso concreto, e 
non può pertanto costituire 
l’effetto automatico e 
incondizionato 
di 
una 
condanna 
penale 
(sentenze 
n. 234 del 
2015, n. 2 del 
1999, n. 363 del 
1996, n. 220 del 
1995, n. 197 del 
1993, n. 16 del 
1991, n. 158 del 
1990, n. 971 del 
1988 e 
n. 270 del 
1986), 
neppure 
quando si 
tratti 
di 
rapporto di 
servizio del 
personale 
militare 
(ad esempio, sentenze 


n. 363 del 1996 e n. 126 del 1995). 
Solo 
eccezionalmente 
l’automatismo 
potrebbe 
essere 
giustificato: 
segnatamente 
quando 
la 
fattispecie 
penale 
abbia 
contenuto tale 
da 
essere 
radicalmente 
incompatibile 
con il 
rapporto 
di 
impiego 
o 
di 
servizio, 
come 
ad 
esempio 
quella 
sanzionata 
anche 
con 
la 
pena 
accessoria 
dell’interdizione 
perpetua 
dai 
pubblici 
uffici 
ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze 


n. 286 del 
1999 e 
n. 363 del 
1996) o dell’estinzione 
del 
rapporto di 
impiego ex art. 32-quinquies 
cod. pen. 
Queste 
ragioni 
di 
incompatibilità 
assoluta 
con la 
prosecuzione 
del 
rapporto di 
impiego che 
giustifica 
l’automatismo 
destitutorio 
non 
come 
sanzione 
disciplinare, 
ma 
come 
effetto 
indiretto 
della 
pena 
già 
definitivamente 
inflitta 
-non sussiste 
in relazione 
all’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata 
per definizione 
da 
un 
carattere 
provvisorio 
e, 
quindi, 
tale 
da 
non 
escludere 
la 
prosecuzione 
del 
rapporto 
momentaneamente 
interrotto. 


Da 
qui 
l’intrinseca 
irrazionalità 
della 
disciplina 
censurata 
che 
collega 
automaticamente 
senza 
possibilità 
di 
alcuna 
valutazione 
discrezionale 
sulla 
proporzionale 
graduazione 
della 
sanzione 
disciplinare 
nel 
caso concreto -una 
grave 
conseguenza 
irreversibile 
ad una 
misura 
temporanea che, di per sé, non la implica necessariamente. 


6.3.– né 
si 
versa, nella 
specie, in un caso in cui 
l’automatismo destitutorio si 
giustifica 
in 
vista 
della 
necessità 
di 
tutelare 
la 
collettività 
dalla 
pericolosità 
sociale 
del 
condannato, quale 
già accertata nel procedimento penale. 


Vero 
è 
che 
questa 
Corte, 
in 
nome 
di 
tale 
esigenza 
di 
protezione 
della 
collettività, 
ha 
ritenuto 
non illegittima 
la 
previsione 
-contenuta 
nell’art. 8, comma 
1, lettera 
c), del 
d.P.r. 25 ottobre 
1981, 
n. 
737 
(Sanzioni 
disciplinari 
per 
il 
personale 
dell’Amministrazione 
di 
pubblica 
sicurezza 
e 
regolamentazione 
dei 
relativi 
procedimenti) 
-dell’automatica 
cessazione 
dal 
servizio 
del 
personale 
appartenente 
all’amministrazione 
di 
pubblica 
sicurezza 
a 
cui, 
in 
sede 
penale, 
sia 
stata 
applicata 
una 
misura 
di 
sicurezza 
personale 
(così, ad esempio, nella 
sentenza 
n. 112 del 
2014). 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


È 
altresì 
vero, però, che 
la 
misura 
di 
sicurezza 
ha 
come 
presupposto necessario della 
sua 
applicazione 
l’accertamento in concreto della 
pericolosità 
sociale 
della 
persona 
che 
vi 
è 
soggetta. 
Sicché 
la 
Corte 
ha 
ritenuto non irragionevole 
la 
scelta 
del 
legislatore 
di 
prevedere 
una 
presunzione 
assoluta 
di 
incompatibilità 
con il 
rapporto di 
servizio nell’ambito dell’amministrazione 
della pubblica sicurezza, della persona sottoposta a misura di sicurezza personale. 


L’interdizione 
temporanea 
dai 
pubblici 
uffici 
-di 
cui 
si 
tratta 
nel 
caso 
sottoposto 
all’attuale 
giudizio 
della 
Corte 
costituzionale 
-non 
è, 
invece, 
una 
misura 
di 
sicurezza 
che 
si 
applica 
esclusivamente a persone socialmente pericolose, ma è soltanto una pena accessoria. 


6.4. Una 
presunzione 
assoluta 
(nella 
specie 
di 
incompatibilità 
con il 
rapporto di 
servizio) 
deve poi essere rispettosa dei canoni esplicitati dalla Corte in proposito. 
Secondo la 
costante 
giurisprudenza 
costituzionale, infatti, «le 
presunzioni 
assolute, specie 
quando limitano un diritto fondamentale 
della 
persona, violano il 
principio di 
eguaglianza, se 
sono 
arbitrarie 
e 
irrazionali, 
cioè 
se 
non 
rispondono 
a 
dati 
di 
esperienza 
generalizzati, 
riassunti 
nella 
formula 
dell’id quod plerumque 
accidit», con la 
conseguenza 
che 
«l’irragionevolezza 
della 
presunzione 
assoluta 
si 
può cogliere 
tutte 
le 
volte 
in cui 
sia 
“agevole” 
formulare 
ipotesi 
di 
accadimenti 
reali 
contrari 
alla 
generalizzazione 
posta 
a 
base 
della 
presunzione 
stessa» (ex 
multis, sentenze 
n. 185 del 
2015, n. 232 e 
n. 213 del 
2013, n. 182 e 
n. 164 del 
2011, n. 265 e 
n. 139 del 2010). 


tali 
principi 
sono 
violati 
dalle 
disposizioni 
sottoposte 
allo 
scrutinio 
della 
Corte 
nel 
giudizio 
in esame. 


nella 
specie, proprio in uno dei 
procedimenti 
a 
quibus 
(r.o. n. 78 del 
2016), si 
rinviene 
una 
chiara 
esemplificazione 
di 
un 
accadimento 
reale 
che 
smentisce 
la 
generalizzazione 
legislativa. 
Si 
tratta, 
segnatamente, 
di 
un 
militare 
condannato 
alla 
pena 
detentiva 
di 
mesi 
due 
e 
giorni 
venti 
di 
reclusione 
per abuso lieve 
d’ufficio. nel 
caso di 
specie, il 
condannato, agendo nella 
sua 
qualità 
di 
pubblico 
ufficiale, 
ha 
procurato 
intenzionalmente 
a 
un 
terzo 
(conducente 
di 
un’auto) un indebito vantaggio, consistente 
nella 
mancata 
elevazione 
del 
verbale 
di 
contravvenzione 
stradale, per non avere 
questi 
indossato la 
cintura 
di 
sicurezza. nella 
sentenza 
definitiva 
di 
condanna, 
con 
la 
quale 
la 
pena 
detentiva 
è 
stata 
sostituita 
con 
quella 
pecuniaria, 
sono 
stati 
evidenziati 
gli 
elementi 
di 
tenuità 
del 
fatto 
e 
lieve 
offensività 
in 
concreto, 
che 
contrastano 
con l’abnormità 
delle 
conseguenze 
derivanti 
dall’applicazione 
della 
massima 
sanzione 
disciplinare, 
basata sulla mera presunzione di pericolosità o indegnità del pubblico ufficiale. 


Dunque, a 
causa 
dell’ampiezza 
dei 
presupposti 
a 
cui 
viene 
collegata 
l’automatica 
cessazione 
dal 
servizio, le 
disposizioni 
impugnate 
non possono validamente 
fondare, in tutti 
i 
casi 
in esse 
ricompresi, una 
presunzione 
assoluta 
di 
inidoneità 
o indegnità 
morale 
o, tanto meno, 
di 
pericolosità 
dell’interessato, tale 
da 
giustificare 
una 
sanzione 
disciplinare 
così 
grave 
come 
la perdita del grado con conseguente cessazione dal servizio. 


L’automatica 
interruzione 
del 
rapporto 
di 
impiego 
è, 
infatti, 
suscettibile 
di 
essere 
applicata 
a 
una 
troppo ampia 
generalità 
di 
casi, rispetto ai 
quali 
è 
agevole 
formulare 
ipotesi 
in cui 
essa 
non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito. 


Di 
qui, 
l’irragionevolezza 
delle 
disposizioni 
oggetto 
di 
giudizio, 
e 
la 
conseguente 
violazione 
dell’art. 3 Cost. sotto questo profilo. 


6.5.– La 
disciplina 
censurata 
viola 
anche 
il 
principio di 
uguaglianza, in quanto sottopone 
a 
un ingiustificato trattamento deteriore 
l’appartenente 
all’Arma 
dei 
carabinieri 
rispetto ai 
dipendenti 
dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche. 


Per questi 
ultimi, infatti, il 
legislatore 
aveva 
disposto il 
radicale 
divieto di 
«destituzioni 
di 
diritto» per condanna 
penale, in virtù dell’art. 9 della 
legge 
7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


in 
tema 
di 
circostanze, 
sospensione 
condizionale 
della 
pena 
e 
destituzione 
dei 
pubblici 
dipendenti). 


Successivamente 
sono 
intervenute 
altre 
disposizioni, 
tra 
le 
quali 
si 
deve 
ricordare 
l’art. 
32quinquies 
cod. pen., inserito dall’art. 5 della 
legge 
27 marzo 2001, n. 97 (norme 
sul 
rapporto 
tra 
procedimento penale 
e 
procedimento disciplinare 
ed effetti 
del 
giudicato penale 
nei 
confronti 
dei 
dipendenti 
delle 
amministrazioni 
pubbliche), modificato dall’art. 1, comma 
75, lettera 
b), 
della 
legge 
6 
novembre 
2012, 
n. 
190 
(Disposizioni 
per 
la 
prevenzione 
e 
la 
repressione 
della 
corruzione 
e 
dell’illegalità 
nella 
pubblica 
amministrazione) 
e, 
poi, 
dall’art. 
1 
della 
legge 
27 maggio 2015, n. 69 (Disposizioni 
in materia 
di 
delitti 
contro la 
pubblica 
amministrazione, 
di 
associazioni 
di 
tipo mafioso e 
di 
falso in bilancio). La 
disposizione 
stabilisce 
che 
in casi 
tassativamente 
indicati 
si 
applica 
la 
cessazione 
automatica 
del 
rapporto di 
impiego, peraltro 
non come 
sanzione 
disciplinare, ma 
come 
pena 
accessoria. In particolare, si 
deve 
trattare 
di 
condanne 
per 
i 
delitti 
di 
cui 
agli 
articoli 
314, 
primo 
comma, 
317, 
318, 
319, 
319-ter, 
319-quater, 
primo comma, e 
320 cod. pen., per i 
quali 
sia 
stata 
in concreto inflitta 
la 
pena 
della 
reclusione 
per un tempo non inferiore 
a 
due 
anni. L’art. 32-quinquies 
cod. pen. ha, pertanto, una 
portata 
applicativa 
ben circoscritta 
e 
delimitata 
da 
precisi 
requisiti 
qualitativi 
e 
quantitativi, che 
non 
può in alcun modo essere 
assimilata 
all’ampiezza 
delle 
fattispecie 
che 
possono determinare 
la 
cessazione 
del 
rapporto di 
servizio del 
personale 
militare 
ai 
sensi 
degli 
impugnati 
artt. 866, 
867 e 923 del Codice dell’ordinamento militare. 


Per 
i 
casi 
non 
rientranti 
nel 
citato 
art. 
32-quinquies 
cod. 
pen., 
l’art. 
5, 
comma 
4, 
della 
legge 


n. 97 del 2001 prevede, invece, l’instaurazione di un apposito procedimento disciplinare. 
Anche 
tale 
disparità 
di 
trattamento non trova 
ragionevole 
giustificazione, considerato che 
questa 
Corte 
ha 
già 
avuto occasione 
di 
affermare 
che 
il 
peculiare 
status 
dei 
militari, che 
pure 
esige 
il 
rispetto di 
severi 
codici 
di 
rettitudine 
e 
onestà, non può costituire 
di 
per sé 
una 
valida 
ragione 
a 
sostegno di 
una 
discriminazione 
del 
personale 
militare 
rispetto agli 
impiegati 
civili 
dello Stato sotto il 
profilo delle 
garanzie 
procedimentali 
poste 
a 
presidio del 
diritto di 
difesa, 
che 
risultano altresì 
strumentali 
al 
buon andamento dell’amministrazione 
militare 
(sentenza 
n. 126 del 1995). 


Di qui anche la conseguente violazione degli artt. 24 e 97 Cost. 
7.– Le 
rilevate 
ragioni 
di 
illegittimità 
costituzionale 
assumono rilievo assorbente 
degli 
ulteriori 
parametri dedotti. 
Per Questi Motivi 


LA Corte CoStItUZIonALe 


riuniti i giudizi, 


dichiara 
l’illegittimità 
costituzionale 
degli 
articoli 
866, 
comma 
1, 
867, 
comma 
3 
e 
923, 
comma 
1, lettera 
i), del 
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice 
dell’ordinamento 
militare), nella 
parte 
in cui 
non prevedono l’instaurarsi 
del 
procedimento disciplinare 
per la 
cessazione 
dal 
servizio per perdita 
del 
grado conseguente 
alla 
pena 
accessoria 
della 
interdizione 
temporanea dai pubblici uffici. 


Così 
deciso in roma, nella 
sede 
della 
Corte 
costituzionale, Palazzo della 
Consulta, il 
19 
ottobre 2016. 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


Pagamento di imposte tramite cessione di beni culturali: il 
procedimento di istruttoria di cui all’art. 28 bis d.P.R. 602/73 


ANNoTAzIoNE 
A 
CoNSIGLIo 
DI 
STATo, SEzIoNE 
QuARTA, SENTENzA 
5 LuGLIo 
2021 N. 5130 


Con 
la 
sentenza 
in 
rassegna 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
fornito, 
a 
quanto 
consta, 
per la 
prima 
volta 
l’interpretazione 
dell’art. 28-bis 
d.P.r. 602/73, che 
disciplina 
il 
procedimento 
di 
cessione 
di 
beni 
culturali 
a 
scomputo 
del 
pagamento di imposte dirette. 


Con l’allegato atto di 
appello era 
stata 
impugnata 
l’avversa 
sentenza 
del 
tAr Lazio, la 
quale 
aveva 
ritenuto, in sostanza, che 
la 
Commissione 
interministeriale 
contemplata 
dalla 
norma 
non 
potesse 
rifiutare 
la 
cessione, 
esprimendo 
avviso 
contrastante 
con 
il 
parere 
favorevole 
della 
Soprintendenza 
competente 
circa 
l’interesse 
culturale 
dei 
beni 
offerti 
dal 
debitore 
d’imposta 
per il pagamento di quest’ultima. 


Danilo Del Gaizo* 


Ct 47201/2018 


AVVoCAtUrA 
GenerALe 
DeLLo 
StAto 


ConSIGLIo DI StAto In S.G. 


rICorSo In 
APPeLLo 


per 


il 
MInIStero 
Per 
I 
BenI 
e 
Le 
AttIVItÀ 
CULtUrALI 
e 
Per 
IL 
tUrISMo 


(C.F. 
80188210589), 
nonché 
per 
il 
MInIStero 
DeLL’eConoMIA 
e 
DeLLe 
FInAnZe 
(C.F. 
80207790587), 
in 
persona 
dei 
Ministri 
pro 
tempore, 
rappresentati 
e 
difesi 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(C.F. 
8022403058; 
fax: 
0696514000, 
P.e.C.: 
ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it), 
presso 
i 
cui 
uffici 
domiciliano 
per 
legge 
in 
roma, 
Via 
dei 
Portoghesi, 
12; 
-ricorrentecontro 


t.G., 
rappresentato 
e 
difeso 
dagli 
avvocati 
ercole 
Forgione 
(C.F. 
FrGrCL65t13H501k, 
P.e.C.: 
ercoleforgione@ordineavvocatiroma.org) 
e 
Salvatore 
Mileto 
(C.F. 
MLtSVt58S06H501C, 
P.e.C.: 
salvatoremileto@ordineavvocatiroma.
org), 
con 
domicilio 
digitale 
come 
da 
PeC 
da 
registri 
di 
Giustizia 
e 
domicilio 
eletto 
presso 
lo 
studio 
Salvatore 
Mileto 
in 
roma, 
via 
Pietro 
Da 
Cortona 
8; 


-resistenteper 
l’annullamento e/o la riforma 


(*) Vice 
Avvocato Generale dello Stato. 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


della 
sentenza 
del 
tAr 
Lazio, 
sez. 
II-quater, 
n. 
5179, 
pubblicata 
il 
15 
maggio 2020, non notificata. 
FAtto 


Con ricorso al 
tAr, il 
dott. t.G. chiedeva 
l’annullamento del 
decreto interministeriale 
adottato dal 
Ministero dei 
Beni 
e 
delle 
Attività 
Culturali 
e 
del 
turismo, di 
concerto con il 
Ministero economia 
e 
Finanze, rep. n. 613 in data 
18 
giugno 
2018, 
con 
il 
quale 
era 
stata 
rigettata 
la 
propria 
domanda 
di 
cessione 
allo 
Stato, 
a 
scomputo 
di 
imposte 
dirette, 
di 
undici 
opere 
d’arte, 
in 
base 
all’istituto 
previsto dall’art. 28-bis del D.P.r. n. 602/1973. 


Il 
ricorrente 
deduceva 
una 
serie 
di 
profili 
di 
illegittimità, lamentando in 
particolare 
il 
vizio di 
incompetenza 
e 
di 
violazione 
e/o falsa 
applicazione 
del-
l’art. 28-bis, commi 
3 e 
4, del 
D.P.r. n. 602/1973, nonché 
della 
Circolare 
MI-
BACt 
-Segretariato generale 
-Servizio I n. 23, prot. 8497, in data 
17 luglio 
2015, 
poiché 
la 
Commissione 
interministeriale, 
“anziché 
limitarsi 
agli 
aspetti 
economici 
e 
finanziari” 
della 
cessione 
proposta, 
aveva 
“inopinatamente 
rimesso 
in discussione 
e 
rinnovato” 
la 
valutazione 
“squisitamente 
storico-artistica” 
espressa 
con 
nota 
del 
22 
settembre 
2016 
dalla 
Soprintendenza 
Archeologica 
Belle 
Arti 
e 
Paesaggio per il 
Comune 
di 
roma 
in ordine 
all’interesse 
all’acquisizione allo Stato dei beni offerti in cessione dal ricorrente. 


Si 
costituiva 
in giudizio il 
Ministero per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali, chiedendo 
il rigetto del ricorso. 


Con ordinanza 
in data 
18 dicembre 
2018, n. 7822 il 
tAr, ritenendo il 
ricorso 
assistito da 
fumus 
boni 
iuris, accoglieva 
la 
domanda 
cautelare 
proposta 
contestualmente 
con lo stesso, invitando il 
Ministero ad effettuare 
il 
riesame 
del provvedimento. 


In 
data 
9 
febbraio 
2019, 
il 
Ministero 
depositava 
un’articolata 
memoria 
con 
la 
quale 
sosteneva 
una 
ricostruzione 
del 
procedimento 
di 
cessione 
in 
oggetto 
in 
cui, 
contrariamente 
a 
quanto 
sostenuto 
con 
il 
ricorso, 
il 
parere 
favorevole 
espresso 
dalla 
Soprintendenza 
in 
data 
22 
settembre 
2016 
era 
“da 
considerarsi 
mero 
atto 
endoprocedimentale, 
certamente 
non 
vincolante”, 
trattandosi 
“solo 
di 
una 
prima 
valutazione, 
che 
a 
norma 
dell’art. 
7 
della 
L. 
n. 
512/82”, 
avrebbe 
dovuto 
poi 
essere 
“completata 
dalla 
dichiarazione 
dell’interesse 
dello 
Stato 
ad 
acquisire 
il 
bene 
(…) 
formalmente 
dichiarato 
dagli 
organi 
centrali 
del 
Ministero, 
gerarchicamente 
sovraordinati 
alle 
Soprintendenze, 
come 
analogamente 
accade 
per 
gli 
acquisti 
tramite 
prelazione 
o 
tramite 
procedura 
espropriativa”. 
Conseguentemente 
“la 
competenza 
dell’ufficio 
periferico” 
avrebbe 
dovuto 
“ritenersi 
circoscritta 
ad 
una 
prima 
fase 
istruttoria 
del 
procedimento”, 
mentre 
la 
Commissione 
interministeriale, 
istituita 
ai 
sensi 
del 
comma 
4 
art. 
28-bis 
del 
D.P.r. 
602/1973, 
avrebbe 
potuto 
agire 
“in 
piena 
autonomia 
rispetto 
a 
quanto 
espresso 
da 
ognuno 
degli 
Istituti 
periferici 
sul 
territorio”. 


Con ordinanza 
n. 4891/2019 il 
tAr ordinava 
al 
MIBACt 
di 
procedere 
al 
riesame 
del 
provvedimento, al 
quale 
l’Amministrazione 
provvedeva 
adot



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


tando il 
decreto interministeriale, rep. n. 1358 del 
13 novembre 
2019, con il 
quale respingeva nuovamente la proposta di cessione in oggetto. 


Il 
ricorrente 
impugnava 
quindi 
con ricorso per motivi 
aggiunti 
il 
nuovo 
decreto interministeriale, deducendo anche 
con riferimento a 
tale 
atto molteplici 
profili 
di 
“violazione 
e/o falsa 
applicazione 
dell’art. 28-bis 
del 
DPr n. 
602/1973” 
(nonché 
“cautelativamente” 
della 
stessa 
“Circolare 
MIBACt 
-Segretariato 
generale 
-Servizio I n. 23, prot. 8497, in data 
17 luglio 2015”, ove 
interpretata 
nel 
senso 
sostenuto 
dalla 
parte 
resistente), 
poiché 
la 
Commissione 
si 
sarebbe 
ancora 
una 
volta 
illegittimamente 
sostituita 
al 
competente 
organo 
del 
MIBACt 
nella 
valutazione 
dell’interesse 
all’acquisto 
delle 
opere 
d’arte 
offerte in cessione. 


Con 
la 
sentenza 
indicata 
in 
epigrafe 
il 
tAr 
Lazio, 
sez. 
II-quater, 
dichiarata 
l’improcedibilità 
del 
ricorso 
introduttivo, 
per 
sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse, 
accoglieva 
i 
motivi 
aggiunti 
proposti 
dal 
dott. 
G., 
e 
conseguentemente 
annullava 
per 
«macroscopico 
vizio 
di 
incompetenza» 
(p. 
14) 
il 
Decreto 
rep. 
1358 
del 
13 
novembre 
2019 
emesso 
della 
Commissione 
Interministeriale 
-riunitasi 
nella 
composizione 
indicata 
al 
comma 
IV, 
dell’art. 
28-bis 
D.P.r. 
602/1973 
-con 
il 
quale 
veniva 
disposto 
il 
rigetto 
dell’istanza 
di 
pagamento 
dell’imposte, 
mediante 
cessione 
di 
«beni 
culturali», 
avanzata 
dal 
ricorrente 
in 
data 
1 
ottobre 
2015. 


A 
giudizio 
del 
Collegio, 
sinteticamente, 
la 
Commissione 
avrebbe 
esorbitato 
l’ambito 
di 
propria 
competenza, 
ribaltando 
indebitamente 
il 
«parere 
favorevole
» 
all’acquisizione 
espresso 
dalla 
Soprintendenza 
ABAP, 
la 
quale 
avrebbe, 
nell’estrinsecarsi 
di 
tale 
procedimento, 
competenza 
esclusiva 
riguardo 
la 
definizione 
dell’«interesse 
culturale» 
all’acquisto 
da 
parte 
dello 
Stato. 


residuerebbe 
in 
capo 
alla 
Commissione 
una 
sfera 
di 
discrezionalità 
limitata, 
poiché, nel 
definire 
«le 
condizioni 
ed il 
valore 
della cessione», la 
medesima 
non 
si 
potrebbe 
discostare 
dalla 
valutazione 
posta 
in 
essere 
dalla 
Soprintendenza, 
in 
quanto 
dovrebbe 
esclusivamente 
apprezzare 
«la 
convenienza 
e 
l’opportunità in concreto della proposta di 
cessione, una volta che 
essa 
sia 
stata 
già 
valutata 
positivamente 
sotto 
il 
profilo 
dell’interesse 
culturale 
all’acquisto» (p. 10 della sentenza). 


La predetta pronuncia merita censura per i seguenti motivi di 


DIrItto 


i. Error 
in 
iudicando: errata interpretazione 
art. 28-bis, commi 
iii 
e 
iV, D.P.R. 602/1973. 
1.-Sussistono 
motivate 
ragioni 
per 
propugnare 
la 
legittimità 
dell’operato 
della 
Commissione 
interministeriale, 
poiché 
la 
medesima 
nel 
disporre 
il 
provvedimento 
di 
diniego 
ha 
chiaramente 
operato 
nel 
pieno 
delle 
proprie 
attribuzioni, 
senza 
alcuno 
sconfinamento 
nella 
sfera 
di 
competenza 
appartenente 
alla 
Soprintendenza. 


2.-L’istituto 
del 
pagamento 
di 
imposte 
tramite 
cessione 
di 
«beni 
culturali» 
ex 
art. 28-bis 
D.P.r. 602/1973 definisce 
un meccanismo, assimilabile 
alla 
c.d. 
«datio in solutum», mediante 
il 
quale 
il 
contribuente 
ha 
la 
possibilità 
di 
pro



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


porre 
l’estinzione 
del 
proprio debito con l’erario garantendo la 
dazione 
di 
un 
bene in luogo del pagamento di una somma. 


In 
tale 
dinamica, 
evidentemente, 
intervengono 
due 
diversi 
interessi 
di 
natura 
pubblicistica 
che 
necessitano 
equa 
ponderazione. 
Da 
un 
lato, 
sussiste 
l’interesse 
dello 
Stato 
all’acquisizione 
del 
bene; 
dall’altro, 
vi 
è 
quello 
all’ottenimento del dovuto gettito erariale. 


Siffatta 
commistione 
giustifica 
la 
definizione 
del 
procedimento di 
istruttoria 
complesso e 
bifasico di 
cui 
all’art. 28-bis, commi 
III e 
IV, in quanto occorre 
definire nel concreto l’effettiva preponderanza dell’uno o dell’altro. 


In 
questo 
senso, 
nella 
prima 
fase 
la 
Soprintendenza 
individua 
per 
ogni 
singola 
opera 
offerta 
l’«esistenza delle 
caratteristiche 
previste 
dalla legislazione 
vigente 
di 
tutela», avendo particolare 
riguardo a 
profili 
di 
valenza 
storico-
artistica, quali 
lo stato di 
conservazione 
e 
l’autenticità 
dei 
beni 
oggetto 
della 
procedura. 
Come 
evidentemente 
voluto 
ex 
art. 
28-bis, 
comma 
III, 
tale 
valutazione 
ha 
ad 
oggetto 
la 
sola 
«attestazione» 
della 
rispondenza 
delle 
caratteristiche 
presentate 
dal 
bene 
offerto in cessione, singolarmente 
inteso, ai 
criteri 
in astratto predeterminati dal legislatore. 


3.-ebbene, 
ogni 
altra 
valutazione, 
anche 
sotto 
il 
profilo 
dell’interesse 
culturale, 
che 
esorbiti 
dalla 
riconduzione, 
per 
sussunzione, 
di 
un 
bene 
ai 
criteri 
predeterminati per legge, pertiene alla Commissione. 


tale 
considerazione, viene 
suffragata 
fortemente 
dal 
dettato normativo, 
il 
quale 
attribuisce 
la 
definizione 
delle 
«condizioni 
ed 
il 
valore 
della 
cessione» 
alla 
Commissione 
interministeriale, 
delineando 
l’ambito 
valutativo 
di 
quest’ultima 
con riguardo alla 
cessione 
unitariamente 
intesa 
e 
non ad una 
valutazione 
«per ogni singolo bene». 


Pertanto, in questa 
seconda 
fase 
la 
Commissione 
dovrà 
necessariamente 
rinnovare 
a 
valutazione 
dell’interesse 
culturale, 
riferibile 
al 
bene 
singolarmente 
inteso, 
in 
un’ottica 
procedimentale 
ove 
il 
medesimo 
deve 
godere 
di 
una 
lettura 
in chiave economica e fattuale. 


Si 
pensi 
ad esempio alla 
destinazione 
museale 
delle 
opere, che 
non può 
in alcun modo esser contenuta 
nell’attestazione 
della 
Soprintendenza, se 
non 
in quanto mera 
proposta, poiché 
esorbitante 
dal 
procedimento di 
attestazione-
sussunzione previsto dal comma III. 


Assumendo quanto riportato, pare 
evidente 
come 
non vi 
sia 
alcuna 
netta 
demarcazione 
tra 
le 
due 
fasi 
valutative, poiché 
entrambe 
insistono su una 
diversa 
profilazione del medesimo interesse, ossia quello culturale. 


Da 
un lato, la 
Soprintendenza 
definisce 
l’interesse 
storico-artistico per i 
singoli 
beni, mediante 
la 
ricognizione 
riguardante 
la 
rispondenza 
delle 
caratteristiche 
presentate 
dagli 
stessi 
con quelle 
individuate 
in astratto a 
livello legislativo; 
dall’altro, la 
Commissione 
valuta 
l’interesse 
culturale 
all’acquisto 
nella 
sua 
concreta 
effettività, considerando anche 
le 
possibilità 
e 
i 
costi 
di 
gestione 
del bene, una volta che lo stesso venga ceduto. 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


3.- Del 
resto, già 
dando lettura 
alla 
motivazione 
del 
primo decreto di 
diniego 
(rep. 
n. 
613 
del 
18 
giungo 
2018), 
rimane 
evidente 
come 
la 
Commissione, 
non si 
sia 
in alcun modo intromessa 
nel 
procedimento qualificatorio, previsto 
dal comma III come esclusivamente pertinente alla Soprintendenza. 


Veniva, 
difatti, 
affermato: 
«L’elenco 
delle 
opere 
è 
eterogeneo 
e 
non 
forma 
un insieme 
coerente. I prezzi 
di 
stima indicati 
solo al 
livello massimo, quando 
non lo superino. La Soprintendenza belle 
arti 
e 
paesaggio per 
il 
Comune 
di 
Roma 
non 
ha 
ritenuto 
di 
esercitare 
il 
vincolo 
sulle 
opere 
presentate, 
forse 
non 
valutandone 
l’eccezionalità nella produzione 
di 
ogni 
singolo artista. Per 
alcune, 
infatti, ha già dichiarato il 
proprio disinteresse 
concedendo l’attestato 
di 
libera 
circolazione. 
Trattasi 
inoltre 
di 
artisti 
già 
ben 
rappresentati 
nelle 
collezioni pubbliche, specialmente in quelle romane 
[…]». 


Dunque, 
non 
pare 
che 
nessuna 
di 
queste 
riportate 
argomentazioni 
fondanti 
il 
rigetto 
possa 
dirsi 
sconfinante 
nelle 
prerogative 
della 
Soprintendenza, 
avendo 
le 
stesse 
ad 
oggetto 
la 
valutazione 
della 
cessione 
relativamente 
agli 
aspetti 
economico 
finanziari 
e/o 
la 
definizione 
dell’interesse 
culturale 
delle 
opere 
calato 
in 
un 
contesto 
esorbitante 
il 
semplice 
riscontro 
delle 
caratteristiche 
legislativamente 
necessarie 
al 
fine 
della 
determinazione 
del 
loro 
valore 
artistico. 


4.- Stesse 
considerazioni 
possono spendersi 
rispetto le 
motivazioni 
specifiche 
che 
sono state 
addotte 
e 
aggiunte 
dal 
decreto di 
cui 
in questa 
sede 
si 
perora la legittimità. 


Sinteticamente, il rigetto viene giustificato in base 


a) al 
rilascio da 
parte 
del 
competente 
Ufficio esportazione 
di 
roma 
del-
l’attestato di libera circolazione; 
b) 
dalla 
presenza 
di 
opere 
dei 
medesimi 
autori 
nelle 
collezioni 
pubbliche, 
specialmente nella Capitale; 
c) 
dall’assenza, 
per 
ciascuna 
opera, 
di 
precisi 
riferimenti 
con 
le 
Collezioni 
conservate nelle Gallerie nazionali d’Arte 
Antica di roma. 
ebbene, 
anche 
questo 
insieme 
di 
valutazioni 
non 
sembra 
in 
alcun 
modo 
insistere 
sulla 
sfera 
di 
competenza 
riservata 
alla 
Soprintendenza. 
Difatti, 
l’insieme 
delle 
motivazioni 
di 
diniego 
si 
fondano 
non 
su 
una 
diversa 
valutazione 
di 
merito 
artistico 
delle 
singole 
opere, 
bensì 
su 
una 
lettura 
dell’interesse 
culturale, 
già 
riscontrato 
e 
definito 
dalla 
Soprintendenza, 
calato 
nel 
contesto 
economico, 
pragmatico, 
fattuale 
che 
di 
per 
sé 
non 
appare 
favorevole 
all’acquisizione. 


ii. Error 
in 
iudicando: omessa pronuncia sul 
contenuto a monte 
vincolato 
del 
provvedimento emanato dalla Commissione 
interministeriale 
ex 
art. 21-octies, L. 241/90. 
6.- In subordine, pare 
opportuno evidenziare 
come 
nel 
primo provvedimento 
di 
rigetto, 
con 
esplicito 
richiamo 
anche 
nel 
successivo, 
la 
Commissione 
riportasse 
come 
«l’ammontare 
della 
richiesta 
non 
trova[sse] 
capienza 
nella 
dotazione del capitolo prevista per l’anno in corso 
[…]». 


Infatti, Il 
beneficio di 
cui 
all’art. 28-bis 
è 
da 
annoverarsi 
nella 
categoria 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


dei 
crediti 
di 
imposta, i 
quali 
trovano capienza 
in apposito capitolo di 
spesa 
del 
Bilancio dello Stato. Precisamente, il 
capitolo 7756 («Somma da accreditare 
alla contabilità speciale 
1778 Agenzia delle 
Entrate 
-Fondi 
di 
bilancio 
per 
essere 
riversata 
all’entrata 
del 
Bilancio 
dello 
Stato 
per 
i 
minori 
versamenti 
conseguenti 
alla 
fruizione 
dei 
crediti 
di 
imposta 
derivanti 
dalla 
cessione 
di 
beni 
di 
interesse 
culturale 
in 
luogo 
del 
pagamento 
di 
imposte») 
reca 
uno 
stanziamento 
di 
euro 
3.000.000, 
annualmente 
stabilito 
dalla 
Legge 
di 
Bilancio 
dello 
Stato, 
che 
si 
deve 
considerare 
quale 
limite 
alla 
spesa. 
La 
determinazione 
di 
tale 
vincolo risponde 
alla 
fondamentale 
esigenza 
di 
contemperamento, per 
come 
sopra 
individuata, tra 
l’interesse 
dello Stato all’acquisizione 
e 
l’ottenimento 
delle somme dovute all’erario. 


ora, 
nel 
momento 
in 
cui 
si 
fronteggi 
l’incapienza 
della 
dotazione, 
appare 
evidente come l’istanza non possa in alcun modo avere esito positivo. 


Infatti, richiamando quale 
principio generale 
l’art. 21-octies 
L. 241/90, 
non si 
deve 
ritenere 
«annullabile 
un provvedimento per 
vizi 
formali 
che 
non 
incidano sulla sua legittimità sostanziale 
ed il 
cui 
contenuto non avrebbe 
potuto 
essere 
differente 
da 
quello 
in 
concreto 
adottato 
atteso 
che 
la 
dequotazione 
dei 
vizi 
formali 
dell'atto, mira a garantire 
una maggiore 
efficienza all'azione 
amministrativa, risparmiando antieconomiche 
ed inutili 
duplicazioni 
di 
attività, 
laddove 
il 
riesercizio del 
potere 
non potrebbe, comunque, portare 
all'attribuzione 
del 
bene 
della 
vita 
richiesto 
dall'interessato» 
(da 
ultimo, 
Cons. 
stato sez. ii, 18 marzo 2020, n. 1925). 


Pertanto, 
nell’originaria 
impossibilità 
per 
l’Amministrazione 
ministeriale 
di 
discostarsi 
dai 
vincoli 
finanziari, 
non 
sembra 
che 
un 
rinnovato 
esercizio 
del 
potere possa dare in alcun modo esito positivo. 


***** 


*** 


Pertanto, 
per 
i 
su 
esposti 
motivi, 
si 
chiede 
che 
l’ecc.mo 
Consiglio 
di 
Stato 
in sede 
Giurisdizionale 
voglia 
accogliere 
il 
presente 
appello e 
per l’effetto, in 
annullamento dell’appellata 
sentenza 
n. 5179 del 
15 maggio 2020 emessa 
dal 


t.A.r. Lazio, sez. II-quater, confermare 
il 
Decreto della 
Commissione 
Interministeriale 
rep. 1358 del 
13 novembre 
2019, avente 
ad oggetto il 
rigetto del-
l’istanza 
ex 
art. 28-bis 
D.P.r. 602/1973 promossa 
da 
controparte. Con vittoria 
di 
spese 
ed onorari. Ai 
sensi 
dell’art. 13, comma 
6-bis, D.P.r n. 115/2002, la 
presente 
controversia 
è 
soggetta 
al 
versamento 
del 
contributo 
unificato 
di 
€ 
975,00, da prenotarsi a debito. 
Unitamente 
al 
presente 
ricorso 
notificato 
saranno 
depositati 
l’originale 
della sentenza impugnata e l’istanza di fissazione udienza. 
roma lì, 12 dicembre 2020 


Danilo Del Gaizo 
Avvocato dello Stato 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


Consiglio 
di 
stato, 
sezione 
Quarta, 
sentenza 
5 
luglio 
2021 
n. 
5130 
-Pres. 
L. 
Maruotti, 
Est. 


G. rotondo -Ministero per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali 
e 
per il 
turismo e 
Ministero dell'economia 
e delle finanze (Avv. Gen. Stato) contro G.t. (n.c.). 
FAtto 


1. Con il 
ricorso in esame 
(n.r.g. 10237/2020), il 
Ministero per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali 
e 
per il 
turismo e 
il 
Ministero dell’economia 
e 
delle 
finanze 
impugnano la 
sentenza 
n. 5179, 
pubblicata 
il 
15 maggio 2020, con la 
quale 
il 
t.a.r. per il 
Lazio, Sede 
di 
roma, sez. II-quater, 
previa 
declaratoria 
di 
improcedibilità 
del 
ricorso introduttivo per sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse 
(proposto avverso il 
primo decreto di 
rigetto), ha 
accolto il 
ricorso per motivi 
aggiunti 
proposto 
dal 
sig. 
t.G. 
(odierno 
appellato) 
avverso 
il 
decreto 
interministeriale 
rep. 
n. 
1358, 
datato 
13 novembre 
2019 (adottato a 
seguito delle 
ordinanze 
propulsive 
di 
riesame 
del 
t.a.r. n. 
7822 del 
2018 e 
n. 4891/2019), recante 
nuovo rigetto della 
proposta 
di 
cessione 
allo Stato di 
undici 
opere 
d’arte, a 
scomputo del 
pagamento di 
imposte 
dirette 
ex art. 28 bis 
del 
d.P.r. n. 
602/1973. 
2. Il 
ricorrente, nel 
ricorso di 
primo grado, deduceva 
che 
la 
Commissione 
interministeriale 
si 
sarebbe 
sostituita 
al 
competente 
organo del 
MIBACt 
nella 
valutazione 
dell’interesse 
all’acquisto 
delle opere d’arte offerte in cessione. 
3. Si 
costituiva 
in giudizio il 
Ministero per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali, che 
offriva 
una 
diversa 
ricostruzione 
del 
procedimento di 
cessione 
ex art. 28-bis 
del 
d.P.r. n. 602 del 
1973 che 
qualifica 
il 
parere 
favorevole 
espresso 
dalla 
Soprintendenza, 
reso 
in 
data 
22 
settembre 
2016, 
come 
“mero 
atto 
endoprocedimentale, 
certamente 
non 
vincolante”, 
consistente 
soltanto 
in 
una 
“prima valutazione” circa l’opportunità e convenienza dell’operazione economica. 
4. Il 
t.a.r., con la sentenza impugnata: 
-accoglieva 
il 
gravame 
sul 
presupposto che 
la 
Commissione 
interministeriale 
si 
sarebbe 
indebitamente 
sostituita 
alla 
Soprintendenza 
del 
MIBACt 
in ordine 
alla 
valutazione 
della 
sussistenza 
dell’interesse 
“culturale” 
all’acquisto 
delle 
opere, 
anziché 
limitarsi 
a 
stabilire 
“le 
condizioni 
e 
il 
valore” 
della 
cessione 
così 
come 
previsto 
dall’art. 
28-bis 
del 
d.P.r. 
n. 
602/1973; 
- compensava le spese. 
4.1. Ad avviso del 
t.a.r., il 
<procedimento scolpito con riferimento a tale 
peculiare 
forma di 
compensazione 
contempla 
due 
distinti 
segmenti: 
il 
primo 
attiene 
alla 
valutazione 
tecnica 
sull’interesse 
“culturale” 
all’acquisizione 
dei 
beni 
offerti 
in 
cessione 
ed 
è 
riservata 
al 
competente 
ufficio del 
Ministero per 
i 
Beni 
culturali 
e 
ambientali; il 
secondo segmento è 
demandato a 
una 
Commissione 
interministeriale, 
presieduta 
dallo 
stesso 
Ministro 
per 
i 
beni 
culturali 
e 
ambientali, 
o da un suo delegato, alla quale 
la legge 
assegna testualmente 
la valutazione 
delle 
“condizioni” 
e 
del 
“valore 
della 
cessione” 
proposta. 
La 
suddivisione 
in 
due 
distinti 
segmenti 
del 
procedimento 
in 
esame 
è 
chiaramente 
espressione 
del 
principio 
di 
separazione 
fra 
il 
livello 
decisionale 
tecnico-amministrativo e 
il 
livello della decisione 
politica. Del 
primo è 
responsabile 
l’Amministrazione, che 
ha il 
compito di 
valutare 
l’astratta sussistenza delle 
“caratteristiche” 
dei 
beni 
proposti 
in cessione 
necessarie 
per 
poter 
essere 
presi 
in considerazione 
ai 
fini 
dell’acquisizione 
da 
parte 
dello 
Stato 
(ex 
art. 
28-bis, 
comma 
1), 
nonché 
dell’interesse 
(sempre 
sotto il 
profilo artistico e 
storico) di 
quest’ultimo all’acquisizione 
medesima; del 
secondo, 
viceversa, è 
responsabile 
il 
Ministro, il 
quale 
si 
avvale 
dell’apporto consulenziale 
di 
un’apposita Commissione 
interministeriale 
(presieduta dal 
Ministro stesso, o comunque 
da 
un suo delegato), per 
apprezzare 
la convenienza e 
l’opportunità in concreto della proposta 
di 
cessione, una volta che 
essa sia stata già valutata positivamente 
sotto il 
profilo dell’inte

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


resse 
culturale 
all’acquisto (…) 
La relazione 
che 
sussiste 
fra i 
due 
segmenti 
procedimentali 
e 
i 
rispettivi 
centri 
di 
imputazione 
soggettiva non è 
informata a un rapporto di 
“sovraordinazione 
gerarchica” 
(…) 
La Commissione 
ha “ritenuto di 
poter 
autonomamente 
rivalutare 
le 
caratteristiche 
tecniche 
delle 
opere 
offerte 
in compensazione, disattendendo quanto espresso 
dalla struttura amministrativa competente 
sul 
punto 
(…). Il 
fatto che, nel 
caso in esame, per 
quasi 
tutte 
le 
opere 
offerte 
in cessione 
era stato rilasciato (peraltro nel 
2015) l’attestato di 
libera 
circolazione 
dei 
beni 
in questione 
ai 
sensi 
dell’art. 65 del 
d.lgs. n. 42/2004 (…) avrebbe 
potuto al 
più giustificare 
un supplemento di 
istruttoria demandato al 
competente 
ufficio del 
Ministero (Soprintendenza)>. 


5. Appellano la 
sentenza 
il 
Ministero per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali 
e 
per il 
turismo e 
il 
Ministero 
dell’economia e delle finanze, che deducono: 
5.1. 
Error 
in 
iudicando: 
errata 
interpretazione 
dell’art. 
28-bis, 
commi 
III 
e 
IV, 
del 
d.P.r. 
602/1973; 
5.2. Error 
in iudicando: 
mancata 
pronuncia 
sul 
contenuto del 
provvedimento emanato dalla 
Commissione Interministeriale ex art. 21-octies 
della L. 241/1990. 
5.3. Le appellanti osservano che: 
-nel 
procedimento in questione 
rilevano due 
diversi 
interessi 
di 
natura 
pubblicistica, che 
necessitano 
equa 
ponderazione: 
da 
un lato, sussiste 
l’interesse 
dello Stato all’acquisizione 
del 
bene; 
dall’altro, vi 
è 
quello all’ottenimento del 
dovuto gettito erariale. nella 
prima 
fase, la 
Soprintendenza 
individua 
per ogni 
singola 
opera 
offerta 
l’«esistenza 
delle 
caratteristiche 
previste 
dalla 
legislazione 
vigente 
di 
tutela», 
avendo 
particolare 
riguardo 
a 
profili 
di 
valenza 
storico-
artistica. 
ogni 
altra 
valutazione, 
anche 
sotto 
il 
profilo 
dell’interesse 
culturale, 
che 
esorbiti 
dalla 
riconduzione, 
per 
sussunzione, 
di 
un 
bene 
ai 
criteri 
predeterminati 
per 
legge, 
perterrebbe, 
invece, alla Commissione. 
-è 
stato evidenziato che 
«l’ammontare 
della 
richiesta 
non trova 
capienza 
nella 
dotazione 
del 
capitolo prevista per l’anno in corso». 
6. L’appellato non si è costituito. 
7. All’udienza del giorno 8 giugno 2021, la causa è stata trattenuta per la decisione. 
DIrItto 
8. Preliminarmente, il 
Collegio dà 
atto che 
si 
è 
formato il 
giudicato sul 
capo di 
sentenza 
che 
ha 
dichiarato improcedibile 
il 
ricorso di 
primo grado proposto avverso il 
decreto interministeriale 
adottato dal 
“Ministero dei 
Beni 
e 
delle 
Attività 
Culturali 
e 
del 
turismo -Direzione 
generale 
Archeologia 
Belle 
Arti 
e 
Paesaggio”, di 
concerto con il 
“Ministero economia 
e 
Finanze 
-Dipartimento Finanze 
-Direzione 
Agenzie 
ed enti 
della 
Fiscalità”, rep. n. 613 in data 
18 giungo 2018, e i relativi atti presupposti ivi richiamati. 
9. 
L’appello 
s’incentra 
sulla 
legittimità 
del 
decreto 
interministeriale 
adottato 
dal 
Ministero 
dei 
beni 
e 
delle 
attività 
culturali 
e 
del 
turismo -Direzione 
generale 
archeologia 
belle 
arti 
e 
paesaggio, di 
concerto con il 
Ministero dell’economia 
e 
delle 
finanze 
-Dipartimento Finanze 
-Direzione 
Agenzie 
ed enti 
della 
Fiscalità, rep. n. 1358; 
in data 
13 novembre 
2019, che 
ha 
sostituito il precedente decreto. 
10. L’appello è fondato. 
11. Il 
procedimento scandito dall’articolo 28-bis 
del 
d.P.r. 29 luglio 1973, n. 602, pur volto 
al 
perseguimento dell’interesse 
culturale, presenta 
natura 
bifasica, in quanto dispone 
che 
nel 
corso del procedimento si debbano pronunciare due organi statali. 
11.1. Alla 
Soprintendenza 
è 
demandato il 
compito di 
definire 
l’interesse 
storico-artistico per 
ogni 
singolo 
bene 
proposto 
in 
cessione. 
La 
Soprintendenza 
procede 
alla 
ricognizione 
delle 

ContenZIoSo 
nAZIonALe 


caratteristiche 
presentate 
da 
tali 
beni 
al 
fine 
di 
appurarne 
la 
corrispondenza 
al 
paradigma 
normativo 
di 
riferimento, ovvero alle 
caratteristiche 
previste 
dalla 
legislazione 
di 
tutela 
di 
quei 
beni. 
La 
Commissione 
-pur 
dovendo 
anch’essa 
individuare 
l’interesse 
culturale 
all’acquisto 
dei 
beni 
culturali 
offerti 
in cessione 
a 
scomputo del 
debito erariale 
-valuta 
l’opportunità 
di 
acquisto 
in concreto, tenuto conto dei 
costi 
di 
gestione 
delle 
opere 
e 
della 
convenienza 
dell’acquisto, 
tenuto 
conto 
anche 
del 
loro 
valore 
oggettivo, 
dell’ammontare 
del 
credito 
vantato 
dallo 
Stato nei 
confronti 
del 
debitore 
che 
sia 
proprietario delle 
opere, nonché 
dell’attendibilità 
di 
quanto dichiarato dall’interessato sul loro valore. 


11.2. 
È 
evidente, 
dunque, 
che 
la 
Commissione 
deve 
compiere 
una 
(ri)valutazione 
(rectius, 
medesima 
valutazione) 
dell’interesse 
culturale, 
ma 
questa 
volta 
in 
termini 
più 
complessi, 
ampi 
e 
concreti, 
riferiti 
cioè 
non 
solo 
all’interesse 
dello 
Stato 
all’acquisizione 
del 
bene, 
bensì 
anche 
all’interesse 
all’ottenimento 
del 
dovuto 
gettito 
erariale 
o 
di 
opere 
aventi 
un 
valore 
equivalente. 
11.3. 
Il 
procedimento, 
così 
come 
regolato 
dall’art. 
28-bis 
citato 
sconta, 
pertanto, 
un 
primo 
passaggio 
endoprocedimentale, 
che 
è 
quello 
volto 
alla 
valutazione 
circa 
la 
verifica 
dello 
stato 
di 
conservazione 
delle 
opere, al 
fine 
di 
appurarne 
l’autenticità 
e, quindi, l’afferenza 
alla 
procedura. 
La 
Soprintendenza, 
in 
questa 
fase, 
deve 
attestare 
la 
rispondenza 
delle 
caratteristiche 
presentate 
dai 
singoli 
beni 
offerti 
in cessione 
ai 
criteri 
indicati 
nel 
comma 
3 dell’articolo in esame. tale 
verifica di interesse riguarda la sussunzione del bene nell’ambito dei criteri normativi. 
11.4. non potrebbe, pertanto, la 
Soprintendenza, con la 
propria 
decisione, esaurire 
la 
fase 
di 
formazione 
della 
voluntas 
decidendi 
in ordine 
al 
definitivo acquisito delle 
opere; 
al 
riguardo, 
la 
sua 
eventuale 
dichiarazione 
di 
irrinunciabilità 
all’acquisto (come 
formulata 
nella 
specie) si 
rivela 
come 
espressiva 
di 
un 
forte 
auspicio 
che 
il 
procedimento 
si 
concluda 
con 
l’acquisto 
delle 
opere 
da 
parte 
dello 
Stato, 
avendo 
natura 
di 
parere 
favorevole, 
come 
va 
infatti 
qualificata 
la nota della Soprintendenza del 17 ottobre 2016, n. 14921. 
11.5. 
D’altra 
parte, 
la 
Soprintendenza 
non 
può 
esprimere 
una 
volontà 
‘definitiva’ 
e 
quindi 
esaurire 
la 
fase 
procedimentale 
relativa 
alla 
volontà 
di 
procedere 
all’acquisito: 
ai 
sensi 
dell’art. 
28 
bis, 
solo 
la 
Commissione 
-sulla 
base 
di 
una 
valutazione 
complessiva 
ed 
effettiva 
dell’intera 
“operazione” 
economica, 
pratica 
e 
fattuale 
-può 
verificare 
se 
vi 
siano 
disponibilità 
del 
bilancio 
per procedere 
all’acquisto; 
la 
procedura 
di 
‘compensazione’, infatti, si 
sostanzia 
in ogni 
caso 
e 
comunque, secondo i 
principi 
di 
contabilità 
pubblica, in un ordinario impegno di 
spesa 
cui 
segue l’imputazione del pagamento e il relativo mandato. 
Sul 
punto, è 
particolarmente 
significativa 
la 
circostanza 
che 
la 
Commissione, in entrambi 
i 
provvedimenti, 
abbia 
affermato 
(nel 
secondo 
riportandosi 
all’affermazione 
contenuta 
nel 
primo provvedimento) che 
«l’ammontare 
della 
richiesta 
non trova[sse] capienza 
nella 
dotazione 
del 
capitolo prevista 
per l’anno in corso», evidentemente 
anche 
in ragione 
del 
valore 
attribuito dall’interessato alle opere. 
11.6. 
La 
Soprintendenza, 
dunque, 
esprime 
in 
questa 
fase, 
secondo 
le 
modalità 
procedurali 
scandite 
dall’art. 28-bis 
del 
d.P.r. n. 602 del 
1973, un parere 
di 
merito in relazione 
alla 
sussistenza 
di 
un interesse 
dello Stato di 
acquisire 
beni 
di 
particolare 
interesse, avuto riguardo a 
quanto stabilito dalla 
legge 
n. 512 del 
1982, che 
si 
concretizza 
in una 
proposta 
rimessa 
alla 
valutazione conclusiva del Ministro per i beni culturali, che si esprime con il decreto finale. 
11.7. Alla 
Commissione 
interministeriale 
compete, pertanto, la 
definizione 
delle 
«condizioni 
ed il 
valore 
della 
cessione». L’organo dovrà 
delineare 
l’ambito valutativo procedendo, questa 

rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


volta, ad una 
valutazione 
unitariamente 
intesa 
e 
non più per singolo bene 
come 
operato dalla 
Soprintendenza. 
La 
valutazione 
riguarderà 
pur 
sempre 
il 
medesimo 
interesse 
culturale, 
quello 
culturale, 
ma 
questa 
sotto 
un’angolatura 
diversa 
ossia 
alla 
luce 
di 
una 
operazione 
più 
complessa 
e 
organica, 
in cui 
l’intero compendio viene 
apprezzato in un’ottica 
di 
convenienza 
economica 
e 
fattuale 
ai fini del suo acquisito definitivo. 


12. Contrariamente 
a 
quanto ha 
dedotto l’interessato in primo grado, il 
procedimento seguito 
dall’Amministrazione 
neppure 
è 
incorso 
in 
profili 
di 
contraddizione, 
né 
ha 
arrecato 
alcun 
vulnus 
al regime delle competenze. 
12.1. Ciascun organo ha 
operato, infatti, all’interno delle 
proprie 
attribuzioni, dando vita 
ad 
un 
unico 
procedimento 
a 
struttura 
bifasica 
in 
cui 
ciascuno 
di 
essi 
ha 
adempiuto 
al 
proprio 
compito: 
la 
Soprintendenza, valutando, ai 
fini 
dell’acquisito, la 
rispondenza 
delle 
caratteristiche 
presentate 
dai 
singoli 
beni 
all’interesse 
culturale 
di 
cui 
alla 
legge 
n. 512 del 
1982; 
la 
Commissione, 
valutando 
il 
medesimo 
interesse 
culturale 
avuto 
riguardo 
ai 
beni 
(questa 
volta) 
unitariamente 
considerati 
e, dunque, della 
convenienza 
all’acquisto nella 
sua 
concreta 
effettività 
ed in relazione 
al 
valore 
dichiarato, tenuto anche 
conto della 
possibilità 
economica 
di 
assumere 
la 
spesa 
e 
dei 
costi 
di 
gestione 
dei 
beni 
una 
volta 
accettata 
la 
proposta 
e 
perfezionatosi 
l’acquisito mediante la 
datio rei 
(per i beni mobili come nella fattispecie). 
13. neppure 
tra 
Soprintendenza 
e 
la 
Commissione 
interministeriale 
si 
è 
palesata 
una 
qualche 
interferenza per ambito di materia. 
13.1. 
tanto 
si 
evince 
per 
tabulas 
dalla 
motivazione 
dell’atto 
datato 
21 
gennaio 
2019, 
adottato 
dalla 
Commissione 
interministeriale, 
in 
cui 
si 
legge 
che: 
(i) 
“L’elenco 
delle 
opere 
è 
eterogeneo 
e 
non 
forma 
un 
insieme 
coerente” 
(valutazione 
unitaria 
dei 
beni); 
(ii) 
“I 
prezzi 
di 
stima 
indicati 
solo al 
livello massimo, quando non lo superino” 
(valutazione 
di 
convenienza 
economica); 
(iii) 
“La 
Soprintendenza 
belle 
arti 
e 
paesaggio 
per 
il 
Comune 
di 
roma 
non 
ha 
ritenuto 
di 
esercitare 
il 
vincolo 
sulle 
opere 
presentate, 
forse 
non 
valutandone 
l’eccezionalità 
nella 
produzione 
di 
ogni 
singolo 
artista. 
Per 
alcune, 
infatti, 
ha 
già 
dichiarato 
il 
proprio 
disinteresse 
concedendo 
l’attestato 
di 
libera 
circolazione. 
trattasi 
inoltre 
di 
artisti 
già 
ben 
rappresentati 
nelle 
collezioni 
pubbliche, 
specialmente 
in 
quelle 
romane” 
(valutazione 
in 
ordine 
alla 
carenza 
delle 
condizioni 
per 
procedere 
all’acquisito); 
(iv) 
“presenza 
di 
opere 
dei 
medesimi 
autori 
nelle 
collezioni 
pubbliche, 
specialmente 
nella 
Capitale” 
-“assenza, per ciascuna 
opera, di 
precisi 
riferimenti 
con 
le 
Collezioni 
conservate 
nelle 
Gallerie 
nazionali 
d’Arte 
Antica 
di 
roma” 
(valutazione 
unitaria 
operata 
su un piano diverso rispetto alla 
Soprintendenza, effettuata 
alla 
stregua 
del 
contesto 
economico di 
rilevanza 
pratica 
dei 
beni, quindi 
in concreto e 
in ragione 
della 
opportunità 
e 
convenienza fattuale). 
14. Per quanto sin qui 
argomentato, l’appello è 
fondato e 
deve 
essere 
accolto; 
per l’effetto, in 
riforma 
della 
sentenza 
impugnata 
(n. 5179 del 
15 maggio 2020 emessa 
dal 
t.A.r. Lazio, sez. 
II-quater), deve 
essere 
respinto il 
ricorso di 
primo grado proposto avverso il 
decreto interministeriale 
adottato dal 
Ministero dei 
Beni 
e 
delle 
Attività 
Culturali 
e 
del 
turismo -Direzione 
generale 
Archeologia 
Belle 
Arti 
e 
Paesaggio, 
di 
concerto 
con 
il 
Ministero 
economia 
e 
Finanze 
-Dipartimento Finanze 
-Direzione 
Agenzie 
ed enti 
della 
Fiscalità, rep. n. 1358 in data 
13 
novembre 2019. 
15. Le 
spese 
processuale 
di 
entrambi 
i 
gradi 
di 
giudizio, liquidate 
in dispositivo, seguono la 
soccombenza. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Quarta), definitivamente 
pronunciando 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


sull'appello, come 
in epigrafe 
proposto, lo accoglie 
e, per l’effetto, in riforma 
della 
sentenza 
impugnata 
(n. 5179 del 
15 maggio 2020), respinge 
il 
ricorso proposto in primo grado dal 
sig. 
G.t. 
Condanna 
il 
sig. 
t.G. 
al 
pagamento 
delle 
spese 
processuali 
che 
liquida, 
in 
favore 
del 
Ministero 
per i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali 
e 
per il 
turismo e 
del 
Ministero dell’economia 
e 
delle 
finanze, 
in complessivi euro 5.000,00 oltre accessori di legge se dovuti. 
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2021. 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


il principio di trasparenza e l’accesso difensivo 
a documentazione con la classifica “riservato” 

ANNoTAzIoNE 
A 
CoNSIGLIo 
DI 
STATo, SEzIoNE 
TERzA, SENTENzA 
4 AGoSTo 
2021 N. 5735 


La 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
n. 
5735/2021, 
nell’ambito 
di 
un 
ricorso 
per 
l’accesso 
ai 
documenti 
relativi 
al 
procedimento 
finalizzato 
allo 
scioglimento 
di 
consiglio comunale 
ex 
art. 143 tUeL, ha 
affermato l’insussistenza 
di 
un obbligo di 
diffusa 
motivazione 
nella 
scelta 
di 
apporre 
la 
classifica 
“riservato” 
ad 
un 
documento 
atteso 
che 
“non 
incombeva 
certamente 
al 
Ministero 
dell’Interno -come 
diversamente 
adombrato dall’appellante 
con una 
esegesi 
della 
norma 
che 
condurrebbe, 
in 
realtà, 
a 
conseguenze 
assurde 
e 
contraddittorie 
-doppiare 
l’atto 
di 
classifica 
con 
un 
ulteriore 
provvedimento 
ad 
hoc 
che, 
nello 
specifico, avrebbe dovuto giustificare le ragioni dell’avvenuta classifica. 

Distinguere 
l’atto di 
volontà 
con cui 
si 
impone 
la 
classifica, con un separato 
atto che 
ne 
giustifichi 
le 
specifiche 
ragioni, finirebbe 
per disvelare 
quelle 
ragioni 
della 
segretezza 
poste 
a 
fondamento delle 
infra 
indicate 
disposizioni 
normative 
di 
riferimento; 
e 
questo 
non 
appare 
ragionevole 
e 
sicuramente 
contraddittorio 
dal punto vista logico giuridico”. 


Quanto 
all’onere 
in 
capo 
al 
richiedente 
di 
specificare 
le 
ragioni 
dell’istanza 
di 
accesso 
finalizzata 
alla 
tutela 
giurisdizionale, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
precisato 
che 
“Il 
legislatore 
ha, 
infatti, 
ulteriormente 
circoscritto 
l'oggetto 
della 
situazione 
legittimante 
l'accesso 
difensivo 
rispetto 
all'accesso 
"ordinario", 
esigendo 
che 
la 
stessa, 
oltre 
a 
corrispondere 
al 
contenuto 
dell'astratto 
paradigma 
legale, 
sia 
anche 
collegata 
al 
documento 
al 
quale 
è 
chiesto 
l'accesso 
(art. 
24, 
comma 
7, 
della 
l. 
n. 
241 
del 
1990), 
in 
modo 
tale 
da 
evidenziare 
in 
maniera 
diretta 
ed 
inequivoca 
il 
nesso 
di 
strumentalità 
che 
avvince 
la 
situazione 
soggettiva 
finale 
al 
documento 
di 
cui 
viene 
richiesta 
l'ostensione, 
e 
per 
l'ottenimento 
del 
quale 
l'accesso 
difensivo, 
in 
quanto 
situazione 
strumentale, 
fa 
da 
tramite. 


La 
volontà 
del 
legislatore 
è 
di 
esigere 
che 
le 
finalità 
dell'accesso 
siano 
dedotte 
e 
rappresentate 
dalla 
parte 
in modo puntuale 
e 
specifico nell'istanza 
di 
ostensione, e 
suffragate 
con idonea 
documentazione, così 
da 
permettere 
al-
l'amministrazione 
detentrice 
del 
documento 
il 
vaglio 
del 
nesso 
di 
strumentalità 
necessaria 
tra 
la 
documentazione 
richiesta 
sub 
specie 
di 
astratta 
pertinenza 
con la situazione "finale" controversa”. 


Wally Ferrante* 


(*) Avvocato dello Stato. 



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


Consiglio di 
stato, sezione 
terza, sentenza 4 agosto 2021 n. 5735 
-Pres. F. Frattini, Est. 


A.M. 
Marra 
-omissis 
(avv. 
F. 
Scafarelli) 
c. 
Ministero 
dell’Interno, 
Ufficio 
territoriale 
del 
Governo di 
Venezia (avv. gen. Stato). 
FAtto e DIrItto 
L’odierno appellante, eletto nel 
2006 Sindaco del 
Comune 
di 
omissis, si 
è 
poi 
dimesso da 
tale 
carica 
elettiva 
a 
causa 
di 
un 
procedimento 
penale 
cui 
è 
stato 
sottoposto 
per 
il 
reato 
di 
“Scambio 
elettorale politico-mafioso, ai sensi dell’art. 416 ter cod. pen.”. 
Successivamente, il 
Prefetto di 
Venezia 
ha 
avviato il 
procedimento per lo scioglimento del 
Consiglio Comunale 
per il 
pericolo di 
infiltrazioni 
della 
criminalità 
organizzata 
ai 
sensi 
del-
l’art. 143 t.U.e.L. 
In data 
23 marzo 2020, l’odierno appellante 
ha 
chiesto l’accesso, per esercitare 
in giudizio il 
proprio diritto di 
difesa, ai 
seguenti 
atti 
e 
precisamente: 
1) decreto del 
Ministro dell’Interno 
del 
omissis, con cui 
è 
stato delegato il 
Prefetto di 
Venezia, ed eventuali 
atti 
istruttori, prodromici 
e 
propedeutici; 
2) decreto del 
Prefetto di 
Venezia 
del 
omissis 
di 
nomina 
della 
Commissione 
d’indagine, 
con 
cui 
è 
stato 
disposto 
l’accesso 
presso 
il 
Comune 
di 
omissis, 
ed 
il 
successivo 
provvedimento 
di 
proroga 
del 
omissis; 
3) 
relazione 
della 
Commissione 
d’indagine 
del 
omissis; 
4) verbale 
della 
seduta 
del 
Comitato provinciale 
per l’ordine 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, 
sentito dal 
Prefetto ai 
sensi 
del 
comma 
3 dell’art. 143 del 
t.U. enti 
Locali; 
4) relazione 
del Prefetto di 
Venezia del 
omissis. 
Il 
provvedimento 
impugnato 
ha 
respinto 
tale 
richiesta, 
allegando 
che 
le 
“relazioni” 
redatte 
dalla 
Prefettura 
sdi 
Venezia 
“in quanto classificate 
Riservato 
sono sottratte 
all’accesso e, pertanto, 
non ostensibili”; 
citando, a 
sostegno, il 
disposto dell’art. 3, comma 
1, lett. m) del 
d.m. 
10 maggio 1994, n. 415, il 
quale 
esclude 
dall’accesso gli 
“atti, documenti 
e 
note 
informative 
utilizzate 
per 
l’istruttoria 
finalizzata 
all’adozione, 
tra 
l’altro, 
dei 
provvedimenti 
di 
cui 
al 
citato 
art. 143, in applicazione della normativa antimafia”. 
In estrema 
sintesi 
la 
Prefettura 
di 
Venezia 
, ha 
denegato la 
richiesta 
di 
accesso sul 
rilievo che: 
… “la 
documentazione 
richiesta, in quanto è 
stata 
attribuita 
la 
classifica 
di 
‘riservato’, è 
sottratta 
all’accesso e pertanto non è ostensibile”. 
Indi 
l’interessato ha 
presentato nuova 
istanza 
di 
accesso a 
mezzo della 
quale 
ha 
richiesto: 
“di 
poter prendere 
visione 
ed estrarre 
copia 
dei 
provvedimenti 
di 
classificazione 
con le 
relative 
motivazioni, mediante 
i 
quali 
è 
stata 
attribuita 
la 
ricordata 
classifica 
di 
‘riservato’ 
e 
di 
‘segretezza’, 
nonché 
di 
tutti 
gli 
atti 
istruttori, 
prodromici 
e 
propedeutici 
afferenti 
ai 
medesimi 
subprocedimenti di classificazione”. 
A 
tale 
istanza 
la 
Prefettura 
ha 
dato 
riscontro 
precisando 
che 
“la 
classifica 
viene 
effettuata 
contestualmente 
all’elaborazione 
del 
documento stesso dall’ente 
originatore 
e 
pertanto non sussistono 
provvedimenti 
ad hoc 
per l’attribuzione di una classifica di segretezza”. 
L’odierno 
appellante 
ha 
impugnato 
ai 
sensi 
dell’art. 
116 
c.p.a. 
avanti 
al 
tribunale 
amministrativo 
regionale 
per il 
Veneto il 
diniego di 
accesso, articolando due 
motivi, e 
ne 
ha 
chiesto 
l’annullamento. 
A 
supporto 
di 
tale 
richiesta, 
l’appellante 
ha 
esposto 
di 
essere 
titolare 
di 
uno 
specifico 
interesse 
difensivo, che sarebbe prevalente anche nell’ipotesi di documenti riservati. 
La 
dichiarata 
finalità 
dell’accesso era 
quella 
di 
verificare 
la 
correttezza 
dei 
provvedimenti 
e 
degli 
atti 
assunti 
in seno al 
visto procedimento ex art. 143 del 
t.U. enti 
Locali 
asseritamente 
indispensabile per l’appellante nel menzionato procedimento penale. 
La 
sentenza 
appellata 
ha 
accolto parzialmente 
il 
ricorso; 
statuendo che 
il 
diritto del 
ricorrente 



rASSeGnA 
AVVoCAtUrA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


deve 
essere 
riconosciuto limitatamente 
a 
quei 
documenti 
per i 
quali 
non sussiste 
un interesse 
pubblico 
alla 
riservatezza 
e 
segnatamente 
ai 
documenti 
indicati 
nella 
richiamata 
relazione 
della Prefettura, depositata in data 22 ottobre 2020. 
Quanto, invece, all’ulteriore 
censura, il 
primo giudice, nel 
respingerla 
ha 
chiarito che: 
.. nelle 
istanze 
di 
accesso 
non 
sono 
stati 
forniti 
gli 
elementi 
necessari 
a 
far 
considerare 
indispensabile 
l’ostensione 
dei 
documenti 
richiesti 
e 
quindi 
a far 
ritenere 
prevalente 
il 
diritto di 
accesso rispetto 
ai 
rilevantissimi 
interessi 
pubblici 
-giudiziari, alla sicurezza e 
all’ordine 
pubblico evidenziati 
dalle 
Amministrazioni 
resistenti 
con l’apposizione 
della classifica di 
“Riservati”, 
con la motivazione 
dei 
provvedimenti 
impugnati 
e 
altresì 
con la relazione 
depositata in data 
22 ottobre 2020. 


Si 
è 
costituita 
l’Amministrazione 
dell’Interno appellata, che 
ha 
contestato la 
fondatezza 
del 
ricorso. 
nella pubblica udienza dell’8 giugno 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. 
L’appello è infondato. 
osserva, anzitutto, il 
Collegio che 
la 
sentenza 
gravata 
è 
immune 
da 
censure 
nella 
parte 
in cui 
ha 
respinto la 
richiesta 
di 
accesso dei 
suririchimati 
atti 
classificati 
come 
“riservati”, in quanto 
il 
provvedimento 
impugnato, 
in 
primo 
grado, 
pur 
limitando 
le 
allegate 
prerogative 
dell’odierno 
appellante, non è 
privo di 
motivazione 
attesa 
la 
vista 
classificazione 
di 
cui 
gli 
stessi 
atti 
di 
cui 
si chiede l’ostensione sono coperti. 
È, 
dunque, 
evidente 
che, 
in 
tale 
quadro, 
rispetto 
al 
quale 
il 
provvedimento 
gravato 
non 
è 
affatto 
restato 
silente, 
non 
incombeva 
certamente 
al 
Ministero 
dell’Interno 
-come 
diversamente 
adombrato dall’appellante 
con una 
esegesi 
della 
norma 
che 
condurrebbe, in realtà, a 
conseguenze 
assurde 
e 
contraddittorie 
-doppiare 
l’atto 
di 
classifica 
con 
un 
ulteriore 
provvedimento 
ad hoc 
che, nello specifico, avrebbe dovuto giustificare le ragioni dell’avvenuta classifica. 
Distinguere 
l’atto di 
volontà 
con cui 
si 
impone 
la 
classifica, con un separato atto che 
ne 
giustifichi 
le 
specifiche 
ragioni, 
finirebbe 
per 
disvelare 
quelle 
ragioni 
della 
segretezza 
poste 
a 
fondamento delle 
infra 
indicate 
disposizioni 
normative 
di 
riferimento; 
e 
questo non appare 
ragionevole e sicuramente contraddittorio dal punto vista logico giuridico. 
Con 
questo 
non 
si 
vuol 
certamente 
contravvenire 
al 
principio 
di 
trasparenza, 
ma 
solo 
rimarcare 
in simili 
casi 
la 
possibilità 
degli 
interessati 
di 
utilizzare 
gli 
strumenti 
che 
l’ordinamento appresta 
facendo 
richiesta 
al 
giudice 
che 
disponga, 
come 
sovente 
accade 
nei 
procedimenti 
di 
scioglimento dei 
comuni 
ai 
sensi 
del 
citato art. 143, quando l’atto debba 
essere 
classificato 
ovvero 
quando 
sia 
possibile 
acquisirlo 
agli 
atti 
in 
plico 
sigillato, 
con 
divieto 
di 
estrazione 
copie e con le garanzie di preservazione del vincolo di classificazione. 
Spetta 
in 
definitiva, 
come 
condivisibilmente 
chiarito 
dal 
primo 
giudice, 
al 
soggetto 
che 
genera 
il 
documento la 
valutazione 
in ordine 
all’apposizione 
della 
classifica 
sulla 
base 
dei 
criteri 
di 
cui 
al 
quadro normativo di 
riferimento (art. 42 co. 2 e 
4 L. n. 124/2007; 
art. 4, co. 6 e 
8 del 
DPCM 
12 giugno 2009, n. 7), senza 
che 
sia 
necessaria 
l’adozione 
di 
un provvedimento ad 
hoc 
che ne espliciti le motivazioni. 
Sotto diverso aspetto, la 
richiesta 
dell’appellante 
appare 
alquanto generica, in quanto l’interessato 
si 
limita 
ad affermare 
di 
voler esercitare 
il 
diritto di 
accesso al 
fine 
di 
difendersi 
in 
giudizio, senza 
spiegare 
per quale 
motivo gli 
atti 
oggetto della 
domanda 
di 
accesso siano necessari 
alla 
sua 
difesa, con la 
conseguenza 
che 
ciò finirebbe 
per impedire 
di 
cogliere… quel 
nesso 
di 
strumentalità 
a 
cui 
la 
giurisprudenza 
sovente 
fa 
richiamato 
(ad. 
plen., 
18 
marzo 
2021, n. 4). 
Il 
legislatore 
ha, infatti, ulteriormente 
circoscritto l'oggetto della 
situazione 
legittimante 
l'ac



ContenZIoSo 
nAZIonALe 


cesso difensivo rispetto all'accesso "ordinario", esigendo che 
la 
stessa, oltre 
a 
corrispondere 
al 
contenuto 
dell'astratto 
paradigma 
legale, 
sia 
anche 
collegata 
al 
documento 
al 
quale 
è 
chiesto 
l'accesso (art. 24, comma 
7, della 
l. n. 241 del 
1990), in modo tale 
da 
evidenziare 
in maniera 
diretta 
ed inequivoca 
il 
nesso di 
strumentalità 
che 
avvince 
la 
situazione 
soggettiva 
finale 
al 
documento 
di 
cui 
viene 
richiesta 
l'ostensione, 
e 
per 
l'ottenimento 
del 
quale 
l'accesso 
difensivo, 
in quanto situazione strumentale, fa da tramite. 
La 
volontà 
del 
legislatore 
è 
di 
esigere 
che 
le 
finalità 
dell'accesso 
siano 
dedotte 
e 
rappresentate 
dalla 
parte 
in 
modo 
puntuale 
e 
specifico 
nell'istanza 
di 
ostensione, 
e 
suffragate 
con 
idonea 
documentazione, così 
da 
permettere 
all'amministrazione 
detentrice 
del 
documento il 
vaglio 
del 
nesso 
di 
strumentalità 
necessaria 
tra 
la 
documentazione 
richiesta 
sub 
specie 
di 
astratta 
pertinenza con la situazione "finale" controversa. 
In 
conclusione, 
per 
tutte 
le 
ragioni 
esposte, 
l’appello 
deve 
essere 
respinto 
in 
entrambi 
i 
motivi 
dedotti, con la conseguente conferma della sentenza impugnata. 
Le 
spese 
del 
presente 
grado del 
giudizio, liquidate 
in dispositivo, seguono la 
soccombenza 
dell’odierno appellante nei confronti del Ministero dell’Interno. 


P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
terza), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 
Condanna 
il 
sig. omissis 
a 
rifondere 
in favore 
del 
Ministero dell’Interno le 
spese 
del 
presente 
grado del 
giudizio, che 
liquida 
nell’importo di 
€ 2.000,00, oltre 
gli 
accessori 
come 
per legge. 
ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'articolo 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 giugno 2003, n. 196, e 
dell’articolo 10 del 
regolamento (Ue) 2016/679 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016, a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all'oscuramento 
delle 
generalità 
nonché 
di 
qualsiasi 
altro dato idoneo ad identificare l’odierno appellante. 
Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2021. 


ParerIdelComItatoConsultIvo
Istanza di modifica del cognome assunto 
a seguito di adozione di persone di maggiore età 


Parere 
del 
10/03/2021-158818, al 24703/2020, avv. Tommaso 
marsh 


Con 
la 
presente 
nota 
si 
fornisce 
riscontro 
al 
quesito, 
posto 
da 
codesta 
Amministrazione, 
con 
riguardo 
al 
procedimento 
di 
modifica 
del 
cognome, 
avviato 
a 
seguito 
dell'istanza 
presentata 
dai 
fratelli 
omissis, 
prima 
con 
nota 
del 
27 
aprile 
2018 
e, 
successivamente, 
con 
nota 
dell'11dicembre 
2018, 
prot. 
n. 
463562, 
con 
la 
quale 
essi 
richiedevano 
di 
anteporre 
il 
proprio 
cognome 
d'origine 
-a 
seguito 
del 
procedimento 
di 
adozione 
di 
maggiorenne 
-a 
quello 
dell'adottante. 


L'istanza 
confluiva 
nel 
provvedimento con cui 
codesta 
Amministrazione 
dichiarava 
inammissibile 
la 
modifica 
richiesta, stante, da 
un lato, il 
chiaro tenore 
dell'art. 299 c.c., il 
quale 
sancisce 
che 
l'adottato maggiorenne 
vede 
anteposto 
il 
cognome 
dell'adottante 
a 
quello proprio di 
origine 
e, dall'altro, che 
in 
ogni 
caso 
non 
si 
ravvisano 
gli 
estremi 
di 
un'incisione 
del 
diritto 
all'identità 
personale 
degli 
interessati, attesa 
la 
conservazione 
del 
cognome 
d'origine, il 
quale semplicemente viene posposto a quello di adozione. 


Si 
richiede, in particolare, a 
questa 
Avvocatura, di 
indicare 
se 
sia 
ammissibile 
una 
lettura 
di 
sistema 
che 
consenta, 
anche 
alla 
luce 
di 
una 
interpretazione 
evolutiva 
del 
dato 
normativo 
consegnato 
all'art. 
299 
c.c., 
di 
superarne 
il 
tenore 
apparentemente imperativo. 


Di 
seguito, una 
sintetica 
ricostruzione 
dei 
fatti 
di 
maggior rilievo sottesi 
alla vicenda che occupa. 


*** 


Gli 
istanti, i 
signori 
omissis, nascevano il 
23 agosto 1996 dall'unione 
coniugale 
tra 
i 
signori 
omissis, 
la 
cui 
separazione 
è 
stata 
omologata 
dal 
Tribunale 
di Napoli in data 3 marzo 1999. 


In 
seguito, 
la 
sig.ra 
omissis 
ha 
intrapreso 
un 
rapporto 
sentimentale 
stabile 
con il 
sig. omissis 
che, pertanto, si 
è 
preso cura 
dei 
fratelli 
omissis 
sin dalla 
te



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


nera 
età, 
creando 
con 
loro 
un 
profondo 
e 
significativo 
legame 
affettivo, 
al 
pari 
di 
quello intrattenuto dagli 
stessi 
col 
padre 
biologico che, comunque, non ha 
mai mancato al suo ruolo genitoriale. 


Successivamente, 
il 
Tribunale 
di 
Roma, 
con 
sentenza 
del 
24 
marzo 
2017, 
dichiarava 
l'adozione 
dei 
sig.ri 
omissis, da 
parte 
del 
sig. omissis, nulla 
disponendo 
tuttavia 
in ordine 
alla 
richiesta, sempre 
formulata 
dagli 
istanti, di 
conservare 
l'ordine prioritario del cognome d'origine. 


A 
seguito 
del 
provvedimento 
giudiziale 
anzidetto 
e 
alla 
pedissequa 
annotazione 
effettuata 
dal 
Comune 
di 
Napoli, gli 
interessati 
richiedevano a 
codesta 
Amministrazione 
di 
effettuare 
la 
modifica 
che 
occupa. L'istanza 
veniva 
corredata 
dalla 
dichiarazione 
di 
assenso di 
tutti 
i 
soggetti 
coinvolti 
nella 
vicenda. 


*** 


Alla 
questione 
relativa 
alla 
legittimità 
della 
modifica 
nel 
cognome 
nei 
termini 
anzidetti 
si 
ritiene 
debba 
rispondersi 
affermativamente, 
pur 
con 
le 
precisazioni 
e 
i 
limiti 
che 
di 
seguito verranno illustrati, previa 
una 
necessaria 
ricostruzione 
del quadro giuridico di riferimento. 


L'ordinamento contempla 
la 
regola 
secondo cui 
ogni 
individuo sin dalla 
nascita, oltre 
ad acquisire 
la 
capacità 
giuridica, insita 
nell'art. 1 c.c., ha 
diritto 
ad un nome 
(art. 6 c.c.), che 
consente 
di 
distinguersi, rispettivamente, all'interno 
della 
famiglia 
di 
appartenenza 
e 
nel 
più 
ampio 
ambito 
sociale, 
quale 
conseguenza 
del possesso di uno status familiae. 


Il 
diritto 
al 
nome 
si 
inserisce, 
come 
pacificamente 
riconosciuto 
dalla 
dottrina 
e 
dalla 
giurisprudenza, 
anche 
costituzionale, 
nel 
novero 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
di 
cui 
all'art. 
2 
Cost., 
costituendo 
il 
nome 
e 
la 
connessa 
tutela 
che 
ne 
viene 
fornita, 
diretta 
esplicazione 
della 
personalità 
dell'individuo. 


Il 
rango 
del 
valore 
del 
diritto 
al 
nome 
è 
confermato 
da 
quanto 
statuito 
dalla 
Corte 
Europea 
dei 
diritti 
dell'Uomo, 
la 
quale 
ha 
ricondotto 
nella 
nozione 
di 
"vita 
privata" 
-ambito 
tutelato 
dall'art. 
8 
CEDU 
-le 
problematiche 
relative 
al 
diritto 
al 
nome, 
che 
assurge 
a 
pieno 
titolo 
a 
rango 
di 
diritto 
della 
personalità. 


Più 
in 
particolare, 
la 
Corte 
di 
Strasburgo 
ha 
definito 
quello 
al 
nome 
come 
un diritto a 
conservare 
un segno che 
identifica 
l'individuo nel 
contesto sociale 
in 
cui 
vive. 
Viene, 
dunque, 
in 
esponente 
un 
diritto 
che 
fuoriesce 
dalla 
sfera 
strettamente individuale per porsi in una dimensione relazionale. 


Va, 
tuttavia, 
tenuto 
conto 
che, 
alla 
stregua 
dei 
principi 
affermati 
dalla 
Convenzione 
citata, il 
diritto al 
nome 
e 
all'identità 
personale 
sono suscettibili 
di 
bilanciamento, 
da 
compiersi 
in 
ossequio 
al 
principio 
di 
proporzionalità, 
con 
contrapposti interessi altrettanto meritevoli di tutela. 


Al 
riguardo, 
è 
necessario 
evidenziare 
che 
il 
diritto 
del 
singolo 
alla 
propria, 
unica 
e 
personale 
identità 
deve 
confrontarsi 
con l'esigenza 
pubblicistica 
della 
stabilità 
degli 
estremi 
anagrafici 
identificativi 
della 
persona 
e 
della 
certezza 
degli atti e dei rapporti giuridici. 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


L'art. 6, comma 
3, c.c. dispone, infatti, che 
non sono ammessi 
cambiamenti, 
aggiunte 
o rettifiche 
al 
nome 
“se 
non nei 
casi 
e 
con le 
formalità dalla 
legge indicati”. 


Le 
vicende 
modificative 
del 
nome 
sono disciplinate, sotto il 
profilo sostanziale 
e 
procedimentale, dal 
D.P.R., n. 396/2000, recante 
“il 
regolamento 
per 
la 
revisione 
e 
la 
semplificazione 
dell'ordinamento, 
dello 
stato 
civile, 
a 
norma dell'art. 2, comma 12, della l. n. 127/1997”. 


Quanto ai 
presupposti 
per l'attivazione 
del 
procedimento in questione, la 
giurisprudenza 
amministrativa 
ha 
chiarito che 
“la domanda (di 
cambiamento 


o 
aggiunta 
al 
nome/cognome) 
proposta 
ai 
sensi 
dell'art. 
89, 
d.p.r. 
n. 
396/2000, 
può essere 
sostenuta anche 
da intenti 
soggettivi 
e 
atipici, purché 
meritevoli 
di 
tutela e 
non contrastanti 
con il 
pubblico interesse 
alla stabilità ed alla certezza 
degli 
elementi 
identificativi 
della 
persona 
e 
del 
suo 
status 
giuridico 
e 
sociale 
(ex plurimis, Cons. St., III, 15 ottobre 2013, n. 5021). 
Quanto, 
invece, 
alla 
natura 
della 
funzione 
esplicata, 
si 
è 
chiarito 
che 
il 
decreto di 
modifica 
del 
nome 
costituisce 
provvedimento eminentemente 
discrezionale, 
in cui 
la 
salvaguardia 
dell'interesse 
pubblico alla 
tendenziale 
stabilità 
del 
nome, connesso ai 
profili 
pubblicistici 
dello stesso come 
mezzo di 
identificazione 
dell'individuo 
nella 
comunità 
sociale, 
può 
venire 
contemperata 
con gli 
interessi 
di 
coloro che 
quel 
nome 
intendano mutare 
o modificare 
nonché 
di coloro che a quel mutamento intendano opporsi. 


Sull'altro versante, l'art. 299, comma 
1, così 
come 
sostituito dall'art. 61 
della 
L. 
n. 
184/1983, 
dispone 
che 
“l'adottato 
assume 
il 
cognome 
dell'adottante 
e lo antepone al proprio”. 


La 
formulazione 
antecedente 
la 
modifica 
anzidetta 
era 
la 
seguente 
“l'adottato 
assume il cognome dell'adottante e lo aggiunge al proprio". 


Dunque, 
occorre 
comprendere 
se 
la 
attuale 
formulazione 
della 
norma 
concernente 
le 
vicende 
modificative 
del 
cognome 
dell'adottato osti 
a 
una 
lettura 
che 
consente 
di 
ritenere 
ammissibile 
una 
modificazione 
dell'ordine 
dei 
cognomi 
come disposto dall'articolo in esame. 


La 
risoluzione 
della 
questione 
presuppone 
una 
ricostruzione 
analitica 
dello statuto complessivo dell'adozione 
di 
persone 
di 
maggiore 
età 
e 
dell'evoluzione 
dello stesso. 


originariamente 
l'istituto 
nasceva 
per 
assicurare 
la 
discendenza 
a 
chi 
non 
l'avesse 
(rendendo, 
così, 
possibile 
la 
trasmissione 
del 
patrimonio 
e 
del 
cognome): 
l'interesse 
primario 
protetto 
da 
questo 
tipo 
di 
adozione, 
in 
altri 
termini, 
era 
quello 
dell'adottante, 
che, 
privo 
di 
discendenza, 
intendesse 
trasmettere 
il 
patrimonio 
ed 
il 
nome 
ad 
un 
soggetto 
cui 
era 
legato 
da 
rapporti 
di 
affetto. 


La 
Corte 
Costituzionale, prima 
con sentenza 
n. 557 del 
19 maggio 1988 
e 
poi 
con sentenza 
n. 245 del 
20 luglio 2004, ha 
dichiarato l'illegittimità 
costituzionale 
dell'art. 291 c.c. -per contrasto con l'art. 3 Cost. -nella 
parte 
in 
cui 
non consente 
l'adozione 
a 
persone 
che 
abbiano discendenti 
legittimi, mi



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


norenni 
o, 
se 
maggiorenni, 
consenzienti, 
valorizzando 
l'interesse 
personale 
dei 
soggetti 
coinvolti 
e 
superando la 
precedente 
concezione 
meramente 
patrimoniale 
sottesa all'istituto. 


In tale 
prospettiva, quindi, l'istituto dell'adozione 
del 
maggiorenne 
perde 
totalmente 
il 
presupposto di 
natura 
patrimoniale 
che 
connota 
l'impianto normativo 
di 
riferimento, 
diventando 
viceversa 
tale 
aspetto 
una 
mera 
conseguenza 
degli 
obblighi 
di 
solidarietà 
che 
incombono sul 
“genitore” 
adottivo, anche 
del 
maggiorenne. 


In quest'ottica 
deve 
essere 
interpretato il 
tenore 
del 
nuovo art. 299 c.c.: 
rendere 
pubblico e 
certo il 
nuovo stato dell'adottato, per un verso, e 
(soprattutto) 
valorizzare 
la 
volontà 
espressa 
dal 
soggetto maggiorenne 
di 
suggellare 
il legame venutosi a creare con l'adottante, del quale acquisisce il cognome. 


Dunque, la 
valorizzazione 
del 
rinnovato piano assiologico degli 
interessi 
autorizza 
a 
ritenere 
che 
la 
volontà 
insita 
nella 
sostituzione 
dell'art. 
299, 
comma 
1, c.c., fosse 
quella 
di 
attribuire 
preminente 
rilievo al 
nuovo rapporto costituitosi 
con l'adottante, tutelando la volontà dell'adottato. 


Sembra 
essere, dunque, questa 
la 
ragione 
di 
fondo che 
ha 
ispirato il 
legislatore 
del 1983. 


La 
chiara 
intenzione 
di 
superare 
una 
concezione 
arcaica 
dell'istituto del-
l'adozione di maggiorenne, valorizzandolo là dove la "nuova famiglia" costituisce 
la 
formazione 
sociale 
per 
antonomasia 
all'interno 
della 
quale 
si 
sviluppa 
e 
realizza 
la 
personalità 
del 
soggetto, induce 
a 
ritenere 
che 
la 
scelta, operata 
dal 
legislatore, 
di 
disporre 
la 
anteposizione 
del 
nome 
d'adozione 
non 
possa 
essere 
intesa 
come 
una 
imposizione 
all'adottato, che 
altrimenti 
si 
vedrebbe 
costretto 
a 
rinunciare 
all'adozione 
ove 
non 
volesse 
rinunciare 
alla 
precedenza 
del proprio cognome. 


Detta 
considerazione 
induce, 
quindi, 
a 
concepire 
l'istituto 
come 
strumento 
volto alla 
valorizzazione 
della 
scelta 
operata 
dall'adottato stesso e 
dall'adottante, 
nei 
limiti 
in cui 
le 
descritte 
istanze 
esistenziali 
non si 
pongano in contrasto 
con 
i 
pur 
rilevanti 
interessi 
pubblici 
tuttora 
implicati 
nello 
statuto 
dell'adozione 
di 
maggiorenne 
e 
nelle 
vicende 
modificative 
del 
nome 
che 
ne 
scaturiscono. 


Tale 
lettura, che 
consente 
di 
ammettere 
una 
diversa 
modulazione 
dell'ordine 
dei 
cognomi 
dell'adottato maggiorenne, sembra 
anche 
trovare 
conferma 
in un'ottica di sistema. 


In 
primo 
luogo, 
viene 
in 
rilievo, 
l'art. 
262 
c.c., 
il 
quale, 
al 
comma 
3 
(come 
modificato dal 
decreto-legge 
n. 154/2014), enuncia 
che 
“se 
la filiazione 
nei 
confronti 
del 
padre 
è 
stata accertata o riconosciuta successivamente 
al 
riconoscimento 
da parte 
della madre, il 
figlio può assumere 
il 
cognome 
del 
padre 
aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”. 


Si 
osserva, 
al 
riguardo, 
che, 
se 
il 
legislatore 
ha 
attribuito 
al 
figlio, 
successivamente 
riconosciuto, 
la 
libertà 
di 
scegliere 
l'ordine 
di 
cognomi, 
a 
fortiori 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


tale 
libertà 
non può ritenersi 
esclusa 
laddove 
la 
costituzione 
del 
rapporto (e 
con esso l'acquisizione 
e 
l'aggiunta 
del 
nuovo cognome) si 
inserisca 
nel 
contesto 
di un atto volontario posto in essere da un soggetto maggiorenne. 


Il 
presente 
approdo 
non 
sembra 
potersi 
ritenere 
scalfito 
dalla 
sentenza 
costituzionale 
n. 120/2001, con cui 
la 
Corte, chiamata 
a 
pronunciarsi 
anche 
in 
ordine 
alla 
legittimità 
costituzionale 
dell'art. 299, comma 
1, c.c. afferma 
che 
“la precedenza del 
cognome 
dell'adottante 
non è 
irrazionale 
così 
come 
non 
costituisce 
violazione 
del 
diritto all’identità personale 
il 
fatto che 
il 
cognome 
adottivo 
preceda 
o 
segua 
quello 
originario. 
la 
lesione 
di 
tale 
identità 
sarebbe 
ravvisabile 
nella soppressione 
del 
segno distintivo, non certo nella sua collocazione 
dopo il cognome”. 


Il 
Giudice 
delle 
leggi, 
infatti, 
si 
limita 
a 
escludere 
la 
illegittimità 
del-
l'enunciato normativo in esame, ritenendo non irrazionale 
la 
scelta 
legislativa 
di 
anteporre 
il 
cognome 
d'adozione. 
Tuttavia, 
non 
giunge 
ad 
escludere 
espressamente 
la 
possibilità 
che 
l'assetto configurato normativamente 
possa 
essere 
successivamente 
rimodulato laddove 
emergessero interessi 
collocabili 
su un 
superiore piano valoriale. 


In 
secondo 
luogo, 
viene 
in 
rilevo, 
da 
un 
lato, 
l'art. 
33, 
D.P.R., 
n. 
396/2000, 
e, dall'altro, l'art. 89 D.P.R. n. 396/2000 citato. 


Il 
primo articolo dispone 
che 
“Il 
figlio maggiorenne 
che 
subisce 
il 
cambiamento 
o 
la 
modifica 
del 
proprio 
cognome 
a 
seguito 
della 
variazione 
di 
quello del 
genitore 
da cui 
il 
cognome 
deriva, nonché 
il 
figlio nato fuori 
del 
matrimonio, riconosciuto, dopo il 
raggiungimento della maggiore 
età da uno 
dei genitori o contemporaneamente da entrambi, hanno facoltà: 


di 
scegliere, entro un anno dal 
giorno in cui 
ne 
vengono a conoscenza, 
di 
mantenere 
il 
cognome 
portato precedentemente, se 
diverso, ovvero di 
aggiungere 
o di anteporre ad esso, a loro scelta, quello del genitore". 


L'enunciato normativo richiamato conferisce 
vigore 
alla 
lettura 
sopra 
offerta 
della lettera dell'art. 299 c.c. 


Se 
quest'ultimo venisse 
inteso nel 
senso di 
non ammettere 
una 
modulazione 
differente 
dei 
cognomi, 
si 
incorrerebbe 
nel 
paradosso 
di 
consentire 
al 
figlio dell'adottato maggiorenne 
di 
disporre 
liberamente 
del 
cognome 
di 
cui 
subisce 
la 
modifica 
a 
causa 
di 
quella 
intervenuta 
su quella 
del 
padre 
a 
seguito 
dell'adozione 
precludendo a 
quest'ultimo di 
determinarsi 
in ordine 
al 
proprio 
cognome, modificato a causa dell'adozione. 


In secondo luogo, viene in rilievo l'art. 89 cit. 


Detta 
norma 
prevede 
che 
“chiunque 
vuole 
cambiare 
il 
nome 
o 
aggiungere 
al 
proprio un altro nome 
ovvero vuole 
cambiare 
il 
cognome, anche 
perché 
ridicolo 
o 
vergognoso 
o 
perché 
rivela 
l'origine 
naturale 
o 
aggiungere 
al 
proprio 
un altro cognome, deve farne domanda al prefetto 
(...)”. 


Alla 
luce 
della 
interpretazione 
teleologica 
e 
sistematica 
dell'enunciato 
del-
l'art. 
299, 
comma 
1, 
c.c., 
è 
ragionevole 
ritenere 
che 
esso 
contenga 
una 
norma 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


posta 
principalmente 
a 
tutela 
della 
scelta 
esistenziale 
espressa 
dall'adottato 
e 
dall'adottante, 
di 
cui 
l'anteposizione 
del 
cognome 
di 
quest'ultimo, 
nel 
complessivo 
cognome 
dell'adottante, 
costituisce 
una 
mero 
riflesso 
esteriore, 
con 
la 
conseguenza 
di 
poter 
ammettere, 
a 
fronte 
dell'emersione 
di 
motivi 
meritevoli 
di 
tutela, 
un 
diverso 
assetto 
eventualmente 
voluto 
dai 
soggetti 
coinvolti. 


A 
tale 
riguardo 
è 
opportuno 
precisare 
che 
l'eventualità 
di 
una 
modulazione 
dell'assetto dei 
cognomi 
divergente 
da 
quello prescritto dall'art. 299 c.c. non 
ne 
scalfisce 
la 
portata 
imperativa. 
Infatti, 
il 
tenore 
letterale 
dell'articolo 
in 
esame, in uno con la 
natura 
pubblicistica 
degli 
interessi 
implicati, ne 
confermano 
in ogni caso la natura inderogabile. 


In 
questa 
prospettiva, 
il 
rapporto 
che 
intercorre 
fra 
l'art. 
299 
c.c. 
e 
l'art. 
89 


D.P.R. 
n. 
396/2000 
citato 
è 
tutt'altro 
che 
antinomico: 
la 
prima 
norma 
trova 
immediatamente 
e 
inderogabilmente 
applicazione 
nel 
momento 
in 
cui 
interviene 
il 
provvedimento 
giurisdizionale 
che 
autorizza 
l'adozione 
di 
maggiorenne; 
la 
seconda 
norma 
citata, 
invece, 
interviene 
successivamente, 
nel 
contesto 
del 
procedimento 
amministrativo, 
attivato 
dai 
soggetti 
interessati 
alla 
modificazione 
di 
cui 
si 
discorre, 
con 
il 
quale 
è 
demandato 
al 
Prefetto 
il 
compito 
di 
ponderare 
gli 
interessi, 
pubblici 
e 
individuali, 
sopra 
identificati. 
Solo 
all'esito 
del 
descritto 
procedimento 
amministrativo, 
là 
dove 
le 
istanze 
esistenziali 
avanzate 
dagli 
interessati 
appaiano 
meritevoli 
di 
valorizzazione 
e 
non 
contrastanti 
con 
i 
contrapposti 
interessi 
superindividuali 
che 
vengono 
in 
esponente, 
sarà 
possibile 
adottare 
una 
decisione 
che 
autorizzi 
la 
modificazione 
nei 
termini 
anzidetti. 
Dunque, la 
modifica 
eventualmente 
accordata 
ai 
sensi 
dell'art. 89 cit. interverrebbe 
in un momento successivo a 
quello della 
sentenza 
d'adozione, in 
cui 
trova 
incondizionatamente 
applicazione 
il 
disposto 
dell'art. 
299 
c.c., 
il 
quale, pertanto, conserva la sua portata imperativa e dunque inderogabile. 


Tale 
ricostruzione, 
oltre 
che 
apparire 
coerente 
con 
la 
natura 
(ampiamente) 
discrezionale 
del 
potere 
attribuito dal 
Prefetto dall'art. 89 cit., trova 
pieno riscontro 
con le 
cadenze 
che 
hanno caratterizzato la 
vicenda 
concreta 
oggetto 
del presente parere. 


Infatti, come 
si 
è 
sopra 
accennato, il 
Tribunale 
di 
Roma, all'esito del 
procedimento 
di 
volontaria 
giurisdizione 
attivato dagli 
interessati, mentre 
ha 
autorizzato 
l'adozione 
non 
si 
è, 
invece, 
espresso 
in 
merito 
alla 
domanda 
formulata in ordine all'assetto dei cognomi. 


Tale 
esito 
non 
si 
configura 
quale 
omessa 
pronuncia, 
tale 
da 
inficiare, 
seppur 
parzialmente, il 
provvedimento in questione, ma 
si 
profila 
come 
il 
logico 
portato della 
natura 
delle 
situazioni 
giuridiche 
sottese 
alla 
fattispecie 
oggetto 
di giudizio. 


Da 
un lato, il 
diritto a 
conseguire 
l'adozione 
anelata; 
dall'altro l'interesse 
legittimo 
che 
si 
enuclea 
nella 
conservazione 
della 
priorità 
del 
cognome 
di 
origine 
degli 
adottati, 
interesse 
il 
cui 
vaglio 
non 
può 
che 
essere 
sottoposto 
in 
prima 
istanza 
all'autorità 
amministrativa. Diversamente, ossia 
nell'ipotesi 
in 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


cui 
il 
Tribunale 
avesse 
accordato la 
modificazione 
auspicata 
dagli 
istanti, lo 
stesso avrebbe 
operato un'indebita 
interferenza 
nella 
sfera 
che 
l'art. 89 cit. riserva 
ai pubblici poteri, nel caso di specie al Prefetto. 


Dunque, è 
nel 
procedimento amministrativo che 
potrà 
intervenire 
la 
modificazione 
richiesta, e 
la 
stessa 
potrà 
essere 
accordata 
nella 
misura 
in cui 
gli 
interessi 
individuali 
di 
cui 
sono portatori 
gli 
istanti 
siano suscettibili 
di 
un ragionevole 
contemperamento con il 
contrapposto interesse 
pubblicistico sopra 
descritto. 


*** 


Calando 
le 
coordinate 
giuridiche 
sinora 
tracciate 
nella 
fattispecie 
concreta, 
appare 
ragionevole 
concludere 
nel 
senso di 
dover operare 
un ponderato 
contemperamento degli 
interessi 
che 
vengono in rilievo, discendendone, pertanto, 
la 
constatazione 
per cui 
nella 
fattispecie 
concreta 
in esame 
l'interesse 
individuale 
manifestato 
dagli 
istanti 
non 
si 
pone 
in 
contrasto 
con 
l'interesse 
pubblicistico alla certezza e continuità delle risultanze anagrafiche. 


Invero, come 
emerge 
dalla 
documentazione 
fornita 
da 
codesta 
Amministrazione, 
i 
fratelli 
omissis 
non hanno manifestato il 
bisogno di 
discontinuità 
con il rapporto con il padre biologico e la famiglia di origine. 


Al 
contrario, tale 
legame 
è 
tuttora 
persistente 
e 
solido e 
la 
volontà 
di 
ricorrere 
all'adozione 
deriva 
per lo più dall'avvertita 
esigenza 
di 
fornire 
pieno 
suggello e 
riconoscimento al 
nuovo consorzio familiare 
costituitosi 
nel 
contesto 
della vita dei signori 
omissis. 


La 
conservazione 
del 
legame 
con 
il 
genitore, 
da 
un 
lato, 
la 
circostanza 
dell'identificazione 
degli 
istanti 
nel 
proprio cognome 
di 
origine, dall'altro, integrano 
circostanze 
che 
sembrano ampiamente 
giustificare 
la 
modificazione 
nel senso richiesto. 


L'interesse 
individuale 
in 
questione 
appare, 
inoltre, 
come 
sopra 
argomentato, 
non pregiudicare 
quello alla 
continuità 
dello stato e 
delle 
risultanze 
anagrafiche, 
che 
non 
risulta 
significativamente 
scalfito 
dalla 
modifica 
richiesta 
dagli istanti. 


In 
quest'ottica, 
la 
volontà 
concorde 
manifestata 
per 
iscritto 
da 
tutti 
i 
soggetti 
implicati 
nella 
vicenda 
consente 
di 
ritenere 
acquisiti 
tutti 
gli 
elementi 
necessari 
a 
dar 
seguito 
alla 
richiesta 
dei 
Signori 
omissis. 


*** 


A 
margine 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, 
si 
può 
concludere 
nel 
senso 
che 
l'articolo 
299 
c.c. 
sia 
da 
considerarsi 
norma 
inderogabile, 
atteso 
che 
la 
stessa 
trova 
applicazione 
nel 
momento 
in 
cui 
viene 
pronunciata 
la 
sentenza 
che 
dispone 
l'adozione, 
con 
la 
conseguente 
annotazione 
del 
cognome 
modificato 
a 
margine 
dell'atto 
di 
nascita. 


L'articolo 
89 
d.p.r. 
396/2000, 
invece, 
opera 
in 
un 
momento 
successivo 
e 
riguarda 
una 
distinta 
fattispecie, 
vale 
a 
dire 
quella, 
che 
viene 
in 
rilievo 
nel 
caso 
in 
esame, 
in 
cui 
l'adottato, 
che 
ha 
già 
visto 
anteporre 
il 
cognome 
dell'adottante 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


al 
proprio, 
presenti 
un'istanza 
al 
Prefetto 
volta 
alla 
modifica 
di 
quel 
cognome. 


Deve, 
dunque, 
ritenersi 
possibile 
la 
modifica 
del 
cognome 
dell'adottato, 
ai 
sensi 
dell'articolo 
89 
cit., 
con 
riferimento 
alla 
fattispecie 
che 
occupa, 
perché 
in 
questo 
caso, 
in 
conformità 
con 
quanto 
statuito 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa, 
“sussistono 
quegli 
intenti 
soggettivi 
e 
atipici 
... 
meritevoli 
di 
tutela 
e 
non 
contrastanti 
con 
il 
pubblico 
interesse 
alla 
stabilità 
ed 
alla 
certezza 
degli 
elementi 
identificativi 
della persona”(ex 
plurimis, Cons. St., III, 15 ottobre 
2013, 
n. 
5021 
cit.). 


*** 


occorre, 
tuttavia, 
svolgere 
alcune 
fondamentali 
precisazioni, 
da 
valersi 
come 
imprescindibili 
coordinate 
di 
indirizzo 
dell'azione 
amministrativa 
da 
svolgersi 
nell'avvenire. 


Come 
si 
è 
osservato 
molteplici 
sono 
le 
problematiche 
interpretative 
che 
pone 
la 
questione 
trattata, 
così 
come 
non 
può 
certo 
sottacersi 
la, 
comunque 
attuale 
e 
consistente 
rilevanza 
che 
conserva 
il 
principio 
della 
certezza 
dello 
status 
e 
l'esigenza 
di 
ordine 
pubblico 
alla 
sua 
continuità. 


In 
questa 
prospettiva, 
il 
rilievo 
da 
attribuire 
alla 
dimensione 
individuale 
ed 
esistenziale 
della 
persona 
non 
può 
far 
del 
tutto 
scolorire 
i 
succitati 
interessi 
pubblicistici 
contrapposti, 
al 
punto 
da 
relegare 
le 
situazioni 
giuridiche 
connesse 
al 
nome 
a 
vicende 
totalmente 
assoggettate 
alla 
disponibilità 
delle 
parti. 


Tale 
fondamentale 
precisazione 
porta 
con 
sé 
dei 
fondamentali 
corollari, 
costituenti 
altrettante 
direttrici 
di 
indirizzo 
giuridico: 


in 
primo 
luogo, 
non 
possono 
essere 
totalmente 
pretermesse 
le 
rilevanti, 
seppur 
non 
dirimenti, 
valutazioni 
effettuate 
dal 
Giudice 
delle 
Leggi 
(v. 
supra), 
il 
quale, 
pur 
non 
soffermandosi 
diffusamente 
sulla 
possibilità 
di 
modificare 
l'assetto 
prefigurato 
dall'art. 
299, 
c.c., 
ne 
ha 
affermato 
la 
non 
irragionevolezza 
nella 
parte 
in 
cui 
attribuisce 
la 
priorità 
del 
cognome 
dell'adottante 
nell'ordine 
dei 
cognomi 
dell'adottato 
maggiorenne. 


Se 
è 
vero 
che 
la 
giurisprudenza 
costituzionale, 
anche 
più 
recente 
(si 
vedano 
al 
riguardo 
i 
recenti 
e 
significativi 
approdi 
cui 
si 
è 
giunti 
in 
ordine 
alla 
delicata 
questione 
dell'attribuzione 
al 
figlio 
del 
cognome 
paterno 
e/o 
materno) 
ha 
rivelato 
un 
approccio 
gradualmente 
più 
vicino 
e 
sensibile 
agli 
interessi 
esistenziali 
di 
cui 
sono 
portatori 
i 
soggetti 
coinvolti, 
altrettanto 
vero 
è 
che 
non 
si 
dispone 
ancora 
di 
una 
netta 
linea 
di 
indirizzo 
che 
affermi 
la 
desuetudine 
costituzionale 
della 
formulazione 
della 
norma 
in 
esame 
o 
quantomeno 
ne 
fornisca 
una 
interpretazione 
che 
consenta 
di 
leggerla 
nel 
senso 
che, 
contestualmente 
o 
successivamente 
al 
provvedimento 
che 
autorizza 
l'adozione 
di 
maggiorenne, 
i 
soggetti 
interessati 
abbiano 
la 
facoltà, 
eventualmente 
alle 
condizioni 
sopra 
descritte, 
di 
derogare 
al 
precetto 
normativo 
in 
parola. 


Allo 
stato, 
una 
siffatta 
lettura 
sembra 
essere 
offerta 
in 
una 
isolata, 
per 
quanto 
ben 
motivata, 
sentenza 
di 
merito 
(Trib. 
Parma, 
sent., 
n. 
2/2019). 


In 
ogni 
caso, 
le 
indicate 
coordinate 
ermeneutiche 
depongono 
nel 
senso 
di 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


confermare 
la 
natura 
imperativa 
del 
dettato 
dell'art. 
299 
c.c., 
con 
la 
conseguenza 
che 
un 
assetto 
del 
cognome 
dell'adottato 
divergente 
da 
quello 
prefigurato 
dalla 
norma 
anzidetta 
non 
potrà 
delinearsi 
contestualmente 
all'adozione, 
ma 
solo 
in 
un 
momento 
successivo, 
nell'ambito 
del 
procedimento 
amministrativo, 
a 
condizione 
che 
sussistano 
le 
condizioni 
sopra 
tracciate. 


In 
secondo 
luogo, 
nel 
fornire 
la 
soluzione 
prospettata 
nel 
presente 
parere 
assume 
rilievo 
fondamentale 
la 
circostanza 
costituita 
dal 
pieno 
e 
incondizionato 
consenso 
di 
tutte 
le 
parti 
interessate. 


Infatti, 
come 
sopra 
rappresentato, 
nel 
caso 
di 
specie, 
sia 
gli 
adottati, 
sia 
l'adottante, 
sia 
i 
genitori 
degli 
adottati 
sono 
concordi 
nell'apportare 
la 
modificazione 
di 
cui 
al 
presente 
parere. 


Ben 
più 
problematiche 
potrebbero 
configurarsi 
le 
questioni 
relative 
alle 
istanze 
proposte 
dall'adottato 
in 
mancanza 
dell'assenso 
di 
anche 
uno 
solo 
dei 
soggetti 
il 
cui 
interesse 
è 
implicato 
nella 
vicenda 
sottoposta 
all'attenzione 
del-
l'Amministrazione. 


Si 
pensi, 
solo 
per 
fare 
un 
esempio, 
all'ipotesi 
in 
cui 
l'adottante 
dissenta 
dalla 
possibilità 
di 
non 
vedere 
anteposto, 
nell'ordine 
dei 
cognomi 
dell'adottato, 
il 
proprio 
cognome 
a 
quello 
del 
genitore. 
In 
un 
caso 
siffatto 
sarebbe 
arduo 
pretermettere 
del 
tutto 
tale 
istanza: 
d'altronde, 
la 
scelta 
di 
adottare 
un 
maggiorenne 
non 
rileva 
solo 
sul 
piano 
simbolico 
e 
affettivo, 
ma 
ha 
rilevanti 
ricadute 
sul 
piano 
giuridico 
e 
comporta 
una 
significativa 
assunzione 
di 
responsabilità, 
anche 
sul 
piano 
patrimoniale. 


Al 
contempo, 
sarebbe 
altrettanto 
arduo 
porre 
del 
tutto 
in 
disparte 
gli 
interessi 
parimenti 
rilevanti 
e 
dunque 
degni 
di 
tutela 
portati 
dal 
genitore: 
la 
scelta, 
operata 
dal 
figlio 
maggiorenne, 
di 
stabilire 
un 
rapporto 
adottivo 
con 
un 
soggetto 
estraneo, 
con 
la 
conseguenza 
di 
ridimensionare, 
almeno 
sul 
piano 
esistenziale, 
il 
pregresso 
rapporto 
con 
il 
genitore 
solleva 
la 
delicata 
questione 
se 
a 
quest'ultimo 
sia 
consentito 
opporsi 
alla 
scelta 
del 
figlio 
di 
conservare 
la 
priorità 
del 
cognome 
di 
nascita. 


Le 
considerazioni 
di 
sistema 
finora 
svolte 
conducono 
a 
circoscrivere 
le 
conclusioni 
cui 
si 
è 
giunti 
alla 
fattispecie 
concreta 
esaminata, 
tenuto 
conto 
della 
sua 
specificità. 


In 
considerazione 
della 
complessità 
e 
della 
novità 
della 
questione 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato, 
che 
si 
è 
espresso 
in 
conformità 
nella 
seduta 
del 
29 
dicembre 
2020. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


sisma Centro Italia 2016. sulla difesa in giudizio 
del Comune di norcia in controversie relative 
al contributo di autonoma sistemazione (Cas)(*) 


Parere 
del 
10/03/2021-159921, al 31893/2020, avv. salvaTore 
adamo 


1. Con la 
nota 
in data 
11 settembre 
2020, in riferimento, codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
ha 
chiesto alla 
Scrivente 
di 
esprimere 
le 
proprie 
valutazioni 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
di 
assumere 
la 
rappresentanza 
e 
la 
difesa 
del 
Comune 
di 
Norcia 
nei 
giudizi 
promossi 
e 
promuovendi 
dai 
destinatari 
di 
provvedimenti 
di 
revoca 
del 
contributo di 
autonoma 
sistemazione 
adottati 
dal 
medesimo Comune, 
nel 
quadro 
dell'attuazione 
dell'ordinanza 
del 
Capo 
del 
dipartimento 
della 
protezione 
civile 
(di 
seguito oCDPC) n. 388/2016 emessa 
ai 
sensi 
del-
l'art. 5 legge 
n. 225/92, in seguito alla 
delibera 
del 
Consiglio dei 
ministri 
in 
data 
25 
agosto 
2016 
(dichiarativa 
dello 
stato 
di 
emergenza 
in 
conseguenza 
del-
l'eccezionale 
evento sismico che 
ha 
colpito il 
territorio delle 
Regioni 
Lazio, 
marche, Umbria e 
Abruzzo il 24 agosto 2016). 
In 
particolare, 
codesta 
Avvocatura, 
dopo 
aver 
rappresentato 
che 
l'anzidetto 
contributo è 
stato introdotto e 
disciplinato dalla 
predetta 
oCDPC n. 388/2016 
a 
sostegno dei 
nuclei 
familiari, la 
cui 
abitazione 
principale 
abituale 
e 
continuativa 
sia 
stata 
distrutta 
in tutto o in parte 
in seguito al 
sisma, o comunque 
sia 
stata 
sgomberata 
in esecuzione 
di 
provvedimenti 
delle 
pubbliche 
Autorità, 
evidenzia 
che 
l'art. 3 della 
medesima 
ordinanza 
demanda 
ai 
Comuni 
interessati 
“l'istruttoria e 
la gestione 
delle 
attività volte 
all'assegnazione 
del 
contributo 
ai 
nuclei 
familiari”, nella 
qualità 
di 
“soggetti 
attuatori” 
abilitati, ai 
sensi 
dell'art. 1 della 
medesima 
ordinanza, al 
pari 
dei 
presidenti 
delle 
Regioni 
e 
dei 
prefetti, 
a 
valersi 
ai 
fini 
dell'attuazione 
dell'oCDPC, 
“delle 
rispettive 
strutture 
organizzative”: 
previsione, 
questa, 
del 
tutto 
coerente 
con 
quella 
dell'art. 
25 
del 
sopravvenuto D.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, recante 
il 
Codice 
della 
protezione 
civile. 


Ciò 
premesso, 
codesta 
Avvocatura 
ritiene 
dirimente, 
ai 
fini 
della 
soluzione 
del 
quesito sulla 
possibilità 
di 
assumere 
il 
patrocinio del 
Comune 
di 
Norcia, 
accertare 
se 
i 
provvedimenti 
di 
revoca 
del 
contributo 
di 
autonoma 
sistemazione 
oggetto delle 
controversie 
in questione 
debbano ritenersi 
adottati 
dall'ente 
locale 
“o piuttosto dal Comune quale organo straordinario dello stato”. 


Al 
riguardo, 
l'Avvocatura 
in 
indirizzo 
dopo 
aver 
ricordato 
che 
l'art. 
16 
del 
D.P.R. 6 febbraio 1981, n. 66, statuisce 
che 
il 
Sindaco, “quale 
ufficiale 
del 
Governo, 
è 
organo 
locale 
di 
protezione 
civile”, 
evidenzia 
che 
la 
giurisprudenza 
(in 
particolare 
la 
sentenza 
n. 
2059/2007 
del 
Tar 
Puglia), 
dopo 
l'entrata 
in 
vigore 


(*) Il 
parere, tenuto conto della sua specificità, non 
può automaticamente 
essere 
esteso ad altre 
e 
diverse 
ipotesi di Commissari / Soggetti 
Attuatori. 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


della 
legge 
n. 225/1992 (istitutiva 
del 
Servizio nazionale 
della 
protezione 
civile) 
ha 
distinto l'imputazione 
degli 
atti 
adottati 
dal 
sindaco in materia, a 
seconda 
che 
essi 
siano 
riferibili 
all'ambito 
di 
applicazione 
dell'art. 
15 
nell'esercizio 
dei 
poteri 
direttamente 
conferiti 
al 
Sindaco quale 
autorità 
territoriale 
di 
protezione 
civile 
-oppure 
alla 
sfera 
applicativa 
dell'art. 5 della 
medesima 
legge 
(il 
cui 
contenuto 
è 
poi 
confluito 
nell'art. 
25 
del 
Codice 
della 
protezione 
civile 
di 
cui 
al 
D.lgs. n. 1/2018 citato). In questo secondo caso, il 
Sindaco non eserciterebbe 
un'attribuzione 
propria, spettantegli 
quale 
Autorità 
territoriale 
di 
protezione 
civile, ma 
un potere 
conferitogli 
da 
specifiche 
disposizioni 
dettate 
da 
un'ordinanza 
di 
protezione 
civile 
nel 
contesto 
di 
una 
“delega 
interorganica 
con 
la 
conseguenza 
che 
in 
capo 
all'autorità 
comunale 
si 
ravvisa 
la 
natura 
di 
organo 
statale 
che 
ope 
legis 
trova 
domicilio 
presso 
la 
competente 
avvocatura dello stato” 
(così 
la 
citata 
sentenza 
n. 2059/2007 del 
Tar Puglia). 


In quest'ultimo senso, secondo codesta 
Avvocatura, potrebbe 
essere 
ricostruita 
la 
fattispecie 
che 
qui 
viene 
in 
considerazione, 
anche 
in 
ragione 
del 
fatto 
che 
l'ordinanza 
qualifica 
espressamente 
come 
“soggetto 
attuatore” 
il 
Comune 
nella 
gestione 
del 
contributo di 
autonoma 
sistemazione, nozione 
che 
rimanderebbe 
ad un ipotesi 
“di 
delegazione 
amministrativa con la conseguenza che 
la 
funzione 
esercitata 
dal 
delegato 
appartiene 
al 
delegante 
che 
costituisce 
dunque 
soggetto 
passivamente 
legittimato 
nei 
giudizi 
di 
riferimento 
(v. 
Tar 
lazio 
27 
aprile 
2020, 
n. 
4215 
che 
espressamente 
afferma 
come 
gli 
atti 
adottati 
dal 
soggetto 
attuatore 
siano 
imputabili, 
in 
virtù 
del 
rapporto 
organico, 
al-
l'amministrazione dello stato cui fa capo la funzione esercitata”). 


Con successiva 
nota 
in data 
15 ottobre 
2020, l'Avvocatura 
in indirizzo ha 
ulteriormente 
puntualizzato 
i 
termini 
della 
questione, 
per 
un 
verso, 
rimarcando 
il 
contrasto 
interpretativo 
tra 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
quella 
del 
Giudice 
amministrativo, 
con 
riguardo 
al 
profilo 
della 
legittimazione 
passiva 
-rispettivamente 
attribuita 
allo Stato e 
al 
Comune 
-nei 
giudizi 
promossi 
avverso 
gli 
atti 
adottati 
dal 
Sindaco 
quale 
ufficiale 
di 
Governo; 
per 
altro 
verso, 
evidenziando 
che 
l'anzidetta 
querelle 
giurisprudenziale 
potrebbe, 
comunque, 
non assumere 
rilievo decisivo per la 
soluzione 
del 
caso di 
specie, tenuto 
conto che 
la 
stessa 
giurisprudenza 
amministrativa 
che 
-in contrasto con 
alcune 
pronunce 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
-nega 
la 
qualificazione 
di 
ufficiale 
di 
Governo al 
Sindaco che 
operi 
come 
autorità 
locale 
di 
protezione 
civile 
affermerebbe 
comunque 
che, 
quando 
il 
medesimo 
sia 
chiamato 
a 
partecipare 
al-
l'attuazione 
delle 
ordinanze 
di 
protezione 
civile 
adottate 
dal 
Capo 
del 
competente 
dipartimento, agirebbe 
quale 
“soggetto attuatore” 
ed i 
relativi 
atti 
sarebbero 
imputabili 
allo 
Stato, 
come 
affermato 
dalla 
sentenza 
n. 
4215 
del 
2020 del 
Tar Lazio. 


*** 


2. 
Nel 
dare 
atto dell'accuratezza 
della 
disamina 
operata 
da 
codesta 
Avvocatura 
delle 
complesse 
e 
variegate 
questioni 
sottese 
al 
quesito, circa 
la 
possi

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


bilità 
di 
assumere 
il 
patrocinio del 
Comune 
di 
Norcia 
nelle 
controversie 
che 
qui 
vengono 
in 
considerazione, 
la 
Scrivente 
ritiene, 
tuttavia, 
di 
dover 
svolgere 
alcune 
precisazioni 
in ordine 
alla 
possibilità 
prefigurata 
nella 
ricordata 
nota 
del 
15 ottobre 
2020, di 
individuarne 
la 
soluzione 
muovendo dalla 
considerazione, 
ritenuta 
assorbente, della 
qualità 
di 
“soggetto attuatore”, rivestita 
nella 
specie da quel Comune. 


In proposito, va 
rilevato che 
la 
citata 
sentenza 
del 
Tar Lazio n. 4215 del 
2020, 
che 
codesta 
Avvocatura 
ha 
ritenuto 
confermativa 
di 
siffatto 
convincimento, 
è 
stata 
successivamente 
riformata 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
(Sez. 
V, 
23 
novembre 
2020, n. 7332) proprio nella 
parte 
in cui 
affermava, ai 
fini 
dell'individuazione 
del 
soggetto passivamente 
legittimato e 
della 
corretta 
instaurazione 
del 
contraddittorio, 
l'automatica 
imputabilità 
dell'attività 
posta 
in 
essere 
dal 
“soggetto 
attuatore” 
al 
soggetto 
sostanzialmente 
interessato 
all'esito 
dei 
procedimenti 
attuativi. Il 
Consiglio di 
Stato ha, invece, ritenuto necessaria, ai 
medesimi 
fini, 
l'indagine 
sul 
soggetto 
cui 
fossero 
formalmente 
imputati 
(o 
imputabili) 
gli 
atti 
del 
procedimento posto in essere 
(nel 
caso di 
specie, trattandosi 
di 
una 
gara 
d'appalto curata 
e 
gestita 
dall'Anas 
quale 
soggetto attuatore, 
con funzioni 
di 
stazione 
appaltante, ai 
sensi 
dell'art. 61, comma 
19, D.lgs. n. 
50/2017, dei 
compiti 
commissariali 
previsti 
dal 
comma 
13 del 
medesimo art. 
61, il 
Consiglio di 
Stato ha 
ritenuto correttamente 
notificato all'Anas 
e 
non al 
Commissario, presso l'Avvocatura 
dello Stato, il 
ricorso avverso gli 
atti 
della 
gara d'appalto). 


Ad ogni 
buon conto, vero è 
che 
la 
più ampia 
problematica, nella 
quale 
si 
inscrive 
il 
quesito esaminato presenta, in effetti, connotazioni 
che 
mal 
si 
prestano 
a 
soluzioni 
di 
carattere 
unitario 
e 
generalizzato, 
in 
considerazione 
del 
tenore 
tutt'altro che 
univoco del 
quadro giurisprudenziale 
di 
riferimento, ma, 
soprattutto, 
per 
l'obiettiva 
eterogeneità 
della 
specifica 
disciplina 
normativa, 
concernente 
le 
varie 
gestioni 
commissariali 
e 
i 
rapporti 
con i 
soggetti 
attuatori. 


Ciò premesso, la 
Scrivente 
ritiene 
comunque 
condivisibile 
la 
soluzione 
affermativa 
del 
quesito 
prospettata 
da 
codesta 
Avvocatura, 
con 
riguardo 
al 
caso di specie. 


In 
questo 
senso, 
infatti, 
depone 
il 
fatto 
che 
la 
menzionata 
oCDPC 
n. 
388/2016 (all'art. 1, comma 
1), in coerenza 
con il 
contenuto dell'art. 5 della 
legge 
n. 
225/1992 
(poi 
trasfuso 
nell'art. 
25 
del 
D.lgs. 
n. 
1/2018 
citato), 
prevede 
la 
possibilità, per il 
Capo del 
Dipartimento della 
Protezione 
civile 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri, di 
"avvalersi", per l'attuazione 
dell'ordinanza, 
tra gli altri, “dei sindaci dei Comuni interessati dall'evento sismico". 


Può, 
pertanto, 
ritenersi 
che 
questi 
ultimi, 
a 
loro 
volta 
abilitati 
ad 
avvalersi 
“delle 
rispettive 
strutture 
organizzative”, 
agiscano, 
con 
riguardo 
all'attività 
che 
nella 
specie 
viene 
in considerazione 
-volta 
all'assegnazione 
ai 
nuclei 
familiari 
dei 
contributi 
di 
autonoma 
sistemazione 
nella 
misura 
puntualmente 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


specificata, al 
pari 
dei 
presupposti 
di 
fatto, dalla 
stessa 
ordinanza, all'art. 3 -, 
non 
già 
nell'esercizio 
di 
proprie 
attribuzioni, 
ma 
quali 
organi 
straordinari 
dello 
Stato 
deputati 
all'attuazione 
della 
medesima 
ordinanza 
del 
Capo 
Dipartimento, 
cui 
pertanto devono ritenersi 
imputate 
le 
relative 
attività 
(sul 
punto, cfr. Cons. 
Stato, 
Sez. 
IV, 
21 
ottobre 
2019, 
n. 
7153, 
relativa 
a 
fattispecie 
pure 
regolata 
dalla 
legge 
n. 225/1992, all'art. 5, ove 
si 
afferma 
che 
“in casi 
siffatti, l'attività 
amministrativa è 
da imputarsi 
allo stato, irrilevante 
essendo la natura istituzionale 
dell'organo emittente, che, in tali 
ipotesi, agisce 
comunque 
quale 
organo 
straordinario dello stato”). 


*** 


Sulla 
base 
delle 
precedenti 
considerazioni, 
si 
ritiene 
conclusivamente 
che 
codesta 
Avvocatura 
possa 
assumere 
il 
patrocinio dell'autorità 
comunale 
interessata, 
quale 
organo 
straordinario 
del 
Dipartimento 
della 
Protezione 
civile 
della Presidenza del Consiglio dei ministri, nelle controversie in oggetto. 


Sulla 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo che 
si 
è 
espresso in 
conformità nella seduta del 16 febbraio 2021. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Contrattualistica pubblica e affidamenti in house providing. 


Convenzione con soggetto non rientrante nell’alveo delle 


società in house, prestazioni svolte e quantum da erogare 


Parere 
del 
02/04/2021-216778, al 2776/2021, avv. marCo 
sTIGlIano 
messuTI 


Con 
la 
nota 
emarginata 
codesta 
Direzione 
Generale 
ha 
richiesto 
allo 
scrivente 
un parere 
finalizzato a 
comprendere 
lo status 
dei 
rapporti 
esistenti 
con 
il Consorzio interuniversitario C. 


Tale 
richiesta 
segue 
un precedente 
parere 
dello Scrivente 
del 
21 gennaio 
2016, 
con 
nota 
prot. 
29459, 
in 
riscontro 
alla 
richiesta 
del 
ministero 
prot. 
mUR 
n. 25929 del 9 dicembre 2015. 


Nello specifico, codesta 
Direzione 
Generale 
ha 
formulato i 
seguenti 
quesiti: 


1) 
se 
la 
«sentenza n. 2660/2015 del 
Consiglio di 
stato e 
le 
altre 
sentenze 
ivi 
citate 
(cfr. C. giust. ue 
11 gennaio 2005, C-26/03, stadt 
halle; C. giust. 
ue 
21 
luglio 
2005, 
C-231/05, 
Consorzio 
Coname; 
C. 
giust. 
ue, 
sez. 
I, 
18 
gennaio 
2007, C-225/05, Jean auroux) [possano] 
configurare 
il 
requisito della 
“specifica 
giurisprudenza 
comunitaria 
e 
nazionale” 
richiesto 
dall'art. 
11 
della 
Convenzione 
e 
quindi 
possano rinvenirsi 
i 
presupposti 
per 
ritener 
risolte 
di 
diritto le 
due 
Convenzioni, ai 
sensi 
dell’art. 11 della medesima -"... in base 
alla 
specifica 
giurisprudenza 
comunitaria 
e 
nazionale..." 
(cfr. 
art. 
11 
della 
Convenzione)»; 
2) 
se 
il 
ministero 
sia 
“tenuto 
comunque 
a 
corrispondere 
un 
indennizzo 
e/o 
corrispettivo 
al 
Consorzio 
in 
questione, 
visto 
che 
le 
prestazioni 
oggetto 
delle 
due 
convenzioni 
sono 
state 
da 
quest'ultimo 
eseguite. 
ed 
in 
caso 
di 
risposta 
positiva, 
con 
quali 
criteri 
e 
comunque 
alla 
luce 
di 
quale 
normativa 
vigente 
è da individuarsi il quantum da erogare al C.”. 
Al 
fine 
di 
una 
compiuta 
risoluzione 
del 
quesito in oggetto, occorre 
ricostruire 
le 
vicende 
intercorse 
in via 
di 
fatto tra 
il 
ministero e 
il 
Consorzio interuniversitario 
C. 


In data 
28 marzo 2011 e 
29 dicembre 
2011, codesto ministero stipulava 
due 
convenzioni, rispettivamente, con il 
Consorzio (..) e 
con il 
Consorzio (..). 
In tali 
documenti 
si 
regolavano i 
rapporti 
tra 
i 
diversi 
soggetti, relativi 
ad affidamenti 
in house 
per varie 
attività 
nell'ambito universitario e 
della 
ricerca. 
Tutti 
i 
citati 
consorzi, in data 
1° 
luglio 2013, confluivano nel 
C. a 
seguito di 
fusione per incorporazione. 


Con 
sentenza 
n. 
2660, 
del 
26 
maggio 
2015, 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
sezione 
VI, 
annullando 
un 
provvedimento 
di 
affidamento 
dell'Università 
della 
Calabria, 
negava 
a 
C. 
la 
natura 
di 
soggetto 
in 
house. 
Tale 
statuizione 
risultava 
motivata 
principalmente 
da 
un 
duplice 
ordine 
di 
ragioni: 
1) 
mancanza 
di 
partecipazione 
pubblica 
totalitaria, 
per 
presenza 
anche 
di 
Università 
private; 
2) 
insussistenza 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


del 
requisito 
dell'attività 
prevalentemente 
svolta 
a 
favore 
dei 
soggetti 
consorziati. 
Simili 
ragioni, 
dunque, 
precludevano 
la 
qualificazione 
quale 
“longa 
manus” 
delle 
università 
consorziate 
dell'allora 
ministero 
dell'Università 
e 
della 
Ricerca. 


Le 
conclusioni 
esposte, 
inoltre, 
venivano 
suffragate 
anche 
da 
ulteriori 
pronunce 
del 
giudice 
amministrativo in cui 
si 
ribadiva 
come 
dovesse 
“escludersi 
che, all'epoca dell’adozione 
dell'atto impugnato, C. fosse 
qualificabile 
quale 
organismo in house 
degli 
enti 
consorziati 
(ivi 
compreso il 
mIur) [...]” 
per assenza 
del 
“requisito del 
'controllo analogo' 
in ragione 
della presenza di 
enti 
privati 
nella 
compagine 
del 
Consorzio 
C. 
[...]". 
Il 
controllo 
analogo, 
inoltre, 
è 
stato escluso anche 
a 
causa 
della 
"posizione 
di 
indiscussa primazia riconosciuta 
al 
mIur 
nell'ambito 
dell'organizzaione 
e 
del 
funzionamento 
[...]" 
del 
consorzio; 
così 
come 
è 
stato ritenuto inesistente 
anche 
“[...] il 
requisito del-
l'attività prevalentemente 
svolta a favore 
dei 
soggetti 
consorziati, in ragione 
del 
fatto 
che 
il 
C. 
svolge, 
direttamente 
o 
tramite 
società 
controllate, 
una 
parte 
rilevante 
della propria attività a favore 
di 
soggetti 
non consorziati, pubblici 
e 
privati, 
sia 
in 
Italia 
che 
all'estero 
[...] 
” 
(Consiglio 
di 
Stato, 
sezione 
VI, 
n. 
6009, del 22 ottobre 2018, punto 7.3.1). 


In data 
13 luglio 2015, anche 
alla 
luce 
della 
sopracitata 
pronuncia, la 
Ragioneria 
Generale 
dello Stato muoveva 
dei 
rilievi 
a 
codesto ministero proprio 
riguardanti 
gli 
affidamenti 
diretti 
operati 
con le 
due 
Convenzioni 
a 
favore 
del 
C., del (..) e del (..). 


A 
seguito 
di 
tali 
eventi, 
codesto 
ministero 
richiedeva 
di 
conoscere 
l'avviso 
della 
scrivente 
Avvocatura 
in merito agli 
effetti 
della 
sentenza 
sui 
rapporti 
intercorrenti 
con 
il 
C., 
nonché 
indicazioni 
in 
merito 
al 
contegno 
da 
tenere 
rispetto 
agli 
affidamenti 
in corso e 
ai 
rapporti 
economici 
pendenti. La 
richiesta 
di 
parere 
involgeva 
tutte 
relazioni 
sorte 
alla 
luce 
delle 
Convenzioni 
citate 
ed antecedentemente 
alla sentenza del Consiglio di Stato del 2015. 


Con il 
suddetto parere 
la 
scrivente 
Avvocatura 
osservava 
come 
i 
giudici 
amministrativi 
avessero negato la 
ricorrenza 
in capo al 
Consorzio dello status 
di 
ente 
in 
house 
in 
ragione: 
a) 
della 
mancata 
partecipazione 
pubblica 
totalitaria; 


b) dell'insussistenza 
del 
requisito dell'attività 
prevalentemente 
svolta 
a 
favore 
dei 
soggetti 
consorziati. Alla 
luce 
di 
ciò, nel 
precedente 
parere 
si 
evidenziavano 
dubbi 
circa 
la 
legittimità 
degli 
affidamenti 
diretti 
effettuati 
dal 
ministero 
in favore 
del 
C. e 
si 
suggeriva, per ragioni 
di 
opportunità, di 
“quanto meno al 
momento, soprassedere dal compimento di attività solutorie ulteriori”. 
A 
seguito di 
ciò, secondo quanto ricostruito con la 
presente 
richiesta 
di 
parere, 
il 
ministero 
ha 
interrotto 
l'erogazione 
dei 
compensi, 
nonostante 
le 
prestazioni 
pattuite 
siano state 
correttamente 
rese, come 
attestato dalla 
Commissione 
di 
Verifica dei risultati. 


Per completezza 
si 
evidenzia 
come 
allo stato attuale 
il 
rapporto giuridico 
tra 
ministero, gli 
enti 
pubblici 
consorziati 
ed il 
Consorzio stesso, è 
inquadra



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


bile 
nel 
modello organizzativo dell'in house 
providing, a 
seguito degli 
interventi 
normativi 
contenuti 
nell'art. 9, commi 
11-bis 
e 
ss., del 
decreto-legge 
n. 
78 
del 
19 
giugno 
2015, 
convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
legge 
6 
agosto 
2015, 


n. 125, e della modifica statutaria di cui al D.m. 26 marzo 2018. 
*** 


Stante 
quanto sopra 
ricostruito in via 
di 
fatto, occorre 
ora 
evidenziare 
il 
complesso di 
norme 
convenzionali 
che 
regolano i 
rapporti 
tra 
il 
ministero e 
l'attuale C. 


Le 
relazioni 
tra 
i 
diversi 
soggetti 
risultano definite 
da 
due 
Convenzioni, 
la 
prima 
che 
vede 
come 
soggetto 
stipulante 
il 
(..), 
e 
la 
seconda 
il 
C. 
e 
(..). 
Tutti 
i 
citati 
soggetti 
sono, ad oggi 
ed alla 
data 
della 
sentenza 
del 
Consiglio di 
Stato 
del 2015, confluiti nell'unico consorzio C. 


In 
base 
agli 
artt. 
10 
e 
11 
(rispettivamente 
dell'Accordo 
con 
il 
(..) 
e 
di 
quello con il 
C. e 
(..)), le 
convenzioni 
debbono ritenersi 
risolte 
di 
diritto nel-
l’ipotesi 
in 
cui 
vengano 
meno 
le 
«condizioni 
e 
i 
requisiti 
previsti 
e 
imposti 
dalla 
legge 
e/o 
in 
base 
a 
specifica 
giurisprudenza 
comunitaria 
e 
nazionale 
per 
la 
qualificazione 
di 
un 
soggetto 
giuridico 
quale 
soggetto 
in 
house», 
facendo 
salvi 
i 
compensi 
pattuititi 
per 
le 
attività 
svolte 
prima 
del 
verificarsi 
delle 
condizioni di risoluzione. 


Nello 
specifico 
le 
convenzioni, 
in 
testo 
identico, 
affermano 
che 
«1. 
la 
presente 
Convenzione 
s'intenderà risolta di 
diritto ove 
vengano meno con riferimento 
al 
(..) e/o al 
C. (o al 
(..)) le 
condizioni 
e 
i 
requisiti 
previsti 
e 
imposti 
dalla 
legge 
e/o 
in 
base 
a 
specifica 
giurisprudenza 
comunitaria 
e 
nazionale 
per la qualificazione di un soggetto giuridico quale soggetto ‘in house’. 


2. In particolare 
e 
allo scopo, il 
(..) ed il 
C. (o il 
(..)), s'impegnano per 
tutta la durata della presente 
Convenzione 
ad ottemperare 
alle 
condizioni 
ed 
ai 
requisiti 
previsti 
e 
prescritti 
dalla 
legge 
e 
dalla 
giurisprudenza 
comunitaria 
e 
nazionale 
per 
la 
qualifica 
di 
soggetto 
giuridico 
‘in 
house’ed, 
in 
particolare, 
ad acquisire 
finanziamenti 
derivanti 
da prestazioni 
effettuate 
a vantaggio di 
imprese 
private 
e/o soggetti 
non pubblici 
in misura marginale 
e 
comunque 
di 
norma 
non 
superiore 
al 
10% 
dei 
proventi 
complessivamente 
acquisiti 
nello 
svolgimento delle proprie attività. 
3. risolta di 
diritto la presente 
Convenzione 
nei 
termini 
sopra indicati, 
cesserà qualsiasi 
posizione 
debitoria da parte 
del 
mIur 
nei 
confronti 
del 
(..) 
e 
del 
C. (o del 
(..)) fatti 
salvi 
i 
compensi 
per 
le 
attività espletate 
dai 
Consorzi, 
prima del verificarsi delle suddette condizioni». 
*** 


Per ragioni 
di 
maggiore 
analiticità, i 
quesiti 
posti 
verranno analizzati 
singolarmente. 


a) 
Per 
ciò 
che 
concerne 
la 
prima 
questione, 
e 
cioè 
se 
la 
«sentenza 
n. 
2660/2015 del 
Consiglio di 
stato e 
le 
altre 
sentenze 
ivi 
citate 
(fr. C. giust. ue 
11 
gennaio 
2005, 
C-26/03, 
stadt 
halle; 
C. 
giust. 
ue 
21 
luglio 
2005, 
C-231/03, 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


Consorzio 
Coname; 
C. 
giust. 
ue, 
sez. 
I, 
18 
gennaio 
2007, 
C-225/05, 
Jean 
auroux) 
[possano] 
configurare 
il 
requisito della "specifica giurisprudenza comunitaria 
e 
nazionale" 
richiesto 
dall’art. 
11 
della 
Convenzione 
e 
quindi 
possano rinvenirsi 
i 
presupposti 
per 
ritener 
risolte 
di 
diritto le 
due 
Convenzioni, 
ai 
sensi 
dell’art. 11 della medesima -"... in base 
alla specifica giurisprudenza 
comunitaria 
e 
nazionale..." 
(cfr. 
art. 
11 
della 
Convenzione)», 
occorre 
osservare 
preliminarmente 
come 
la 
pronuncia 
del 
Consiglio di 
Stato 
abbia 
negato la 
sussistenza 
dei 
requisiti, normativamente 
imposti, per l'applicabilità 
dell'istituto dell'in house providing. 


Simile 
assunto, dunque, comporta 
l'irrilevanza 
dell'interpretazione 
attribuibile 
agli 
artt. 10 e 
11 delle 
Convenzioni, stante 
la 
loro radicale 
nullità 
ex 
art. 1418 cod. civ., per violazione di norme imperative. 


È 
principio noto, infatti, quello secondo cui 
i 
soggetti 
pubblici 
in sede 
di 
affidamento di 
contratti 
sono chiamati: 
a) predisporre 
apposita 
procedura 
selettiva 
a 
norma 
di 
legge; 
b) rispettare 
le 
previsioni 
relative 
alla 
disciplina 
in 
house, imposte 
ad oggi 
dal 
d.lgs. n. 50 del 
2016, art. 5, ma 
all'epoca 
già 
vincolanti 
alla 
luce 
della 
stabile 
giurisprudenza 
europea 
(in 
primis 
‘Teckal’, 
causa 
C-107/98). Tali 
due 
ordini 
di 
obblighi 
risultano imposti 
inderogabilmente 
dai 
principi regolatori il settore della contrattualistica pubblica. 


Nel 
caso 
di 
specie, 
invece, 
gli 
accordi 
intercorrenti 
tra 
il 
mIUR 
ed 
il 
Consorzio 
risultano 
volti 
a 
regolare 
e 
permettere 
affidamenti 
diretti 
ad 
un 
soggetto 
che, 
come 
più 
volte 
affermato 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa, 
risulta 
privo dei 
connotati 
tipici 
della 
società 
in house. Infatti, secondo la 
ricostruzione 
del 
Consiglio di 
Stato, C. avrebbe 
assunto la 
qualifica 
di 
longa manus 
dell'amministrazione 
solo 
a 
seguito 
dell'intervento 
normativo 
e 
delle 
modifiche 
statutarie. 


Tuttavia, 
l'art. 
9, 
commi 
11-bis 
e 
ss., 
del 
decreto-legge 
n. 
78 
del 
19 
giugno 
2015, 
convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
legge 
6 
agosto 
2015, 
n. 
125, 
e 
la 
modifica 
dello statuto del 
C. di 
cui 
al 
D.m. 26 marzo 2018, pur avendo previsto 
esplicitamente 
la 
natura 
in house 
del 
Consorzio, non risultano in grado di 
intervenire 
retroattivamente, con conseguente 
inoperatività 
per il 
caso di 
specie 
(Consiglio di Stato, sezione 
VI, 30 aprile 2018, n. 2583). 


L'adozione 
di 
una 
convenzione, dunque, volta 
a 
disciplinare 
degli 
affidamenti 
con un soggetto non rientrante 
nell'alveo delle 
società 
in house, si 
pone 
in contrasto con i 
principi 
generali 
regolatori 
la 
materia 
dei 
contratti 
pubblici. 
Questo sia 
per ciò che 
concerne 
la 
pubblicità 
e 
il 
rispetto della 
concorrenza, 
principi 
che 
devono permeare 
l'intera 
attività 
contrattuale 
della 
pubblica 
amministrazione, 
che rispetto alla specifica disciplina degli affidamenti diretti. 


A 
nulla 
rileva, sul 
punto, l'adozione 
delle 
apposite 
cautele 
relative 
alla 
risoluzione 
delle 
Convezioni 
a 
seguito della 
perdita 
dei 
requisiti 
dell'in house 
(artt. 10 e 
11). Queste, infatti, troverebbero applicazione 
solo laddove 
la 
Convenzione, 
quantomeno al 
tempo della 
stipula, potesse 
considerarsi 
legittima 
e 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


rispettosa 
degli 
obblighi 
di 
legge. Nel 
caso di 
specie, invece, la 
nullità 
che 
affligge 
l'intera 
pattuizione, 
provoca 
la 
decadenza 
ex 
tunc 
delle 
Convenzioni, 
con perdita di rilevanza 
ab origine 
degli obblighi convenuti. 


Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
sopraesposte, 
dunque, 
le 
convenzioni 
in 
esame 
possono ritenersi 
nulle 
ab origine, stante 
la 
violazione 
della 
disciplina 
legislativa 
in materia 
di 
qualificazione 
e 
affidamento in house 
providing 
e 
la 
retroattività degli effetti della nullità contrattuale. 


*** 


2) Venendo ora 
al 
secondo quesito, e 
cioè 
«se 
il 
ministero sia "tenuto comunque 
a corrispondere 
un indennizzo e/o corrispettivo al 
Consorzio in questione, 
visto 
che 
le 
prestazioni 
oggetto 
delle 
due 
convenzioni 
sono 
state 
da 
quest'ultimo eseguite. ed in caso di 
risposta positiva, con quali 
criteri 
e 
comunque 
alla luce 
di 
quale 
normativa vigente 
è 
da individuarsi 
il 
quantum 
da 
erogare al C.». 
Ciò che 
si 
richiede, dunque, riguarda 
l'attività 
economica 
in caso di 
risoluzione 
di 
diritto 
per 
prestazioni 
già 
erogate. 
Nel 
caso 
di 
specie, 
infatti, 
il 
Consorzio 
avrebbe 
svolto 
delle 
attività 
professionali 
a 
vantaggio 
di 
codesto 
ministero, senza 
però aver ancora 
ricevuto il 
corrispettivo delle 
proprie 
prestazioni. 


Sul 
punto occorre 
osservare 
come, stante 
l'inoperabilità 
della 
risoluzione 
in 
base 
a 
quanto 
precedentemente 
affermato, 
non 
possono 
trovare 
applicazione 
le 
norme 
dettate 
dalle 
stesse 
convenzioni 
rispetto alla 
liquidazione 
dei 
compensi 
(comma 
3, 
degli 
artt. 
10 
e 
11). 
Infatti, 
la 
già 
analizzata 
nullità 
ab 
origine 
del 
contratto, alla 
luce 
dei 
suoi 
effetti 
retroattivi, comporta 
la 
necessaria 
applicazione 
dei principi generali del diritto civile. 


In merito, è 
noto come 
l'ordinamento italiano non ammetta 
l'intervento 
di 
prestazioni 
economiche 
prive 
di 
una 
giustificazione 
causale. Rientrano in 
quest'ultima 
categoria, dunque, anche 
quelle 
attività 
svolte 
dal 
Consorzio in 
assenza 
di 
una 
qualsivoglia 
pattuizione 
e 
in relazione 
ad un illegittimo affidamento, 
stante la nullità delle Convenzioni. 


In 
tale 
ipotesi, 
perciò, 
pur 
venendo 
meno 
l'accordo 
regolante 
le 
attività 
pattuite, 
risulta 
evidente 
come 
il 
ministero 
abbia 
ottenuto 
un 
vantaggio 
dalle 
prestazioni 
ricevute, 
così 
come, 
correlatamente, 
il 
Consorzio 
abbia 
subito 
una 
diminuzione 
patrimoniale 
relativa 
ai 
costi 
sostenuti. 
Una 
simile 
ipotesi 
risulterebbe 
connotata 
proprio 
degli 
elementi 
tipici 
di 
cui 
all'art. 
2041 
c.c. 
laddove, 
appunto, 
viene 
riconosciuto 
il 
diritto 
all'indennizzo 
per 
la 
diminuzione 
patrimoniale 
subita. 
Il 
caso 
di 
specie, 
inoltre, 
non 
trova 
limitazioni 
nella 
natura 
pubblica 
di 
uno 
(o 
entrambi) 
dei 
soggetti, 
sono 
infatti 
le 
stesse 
Sezioni 
Unite 
della 
Cassazione, 
con 
sentenza 
26 
maggio 
2015, 
n. 
10798 
a 
chiarire 
come 
la 
regola 
di 
carattere 
generale 
secondo 
cui 
non 
sono 
ammessi 
arricchimenti 
ingiustificati, 
né 
spostamenti 
patrimoniali 
ingiustificabili, 
trova 
applicazione 
paritaria 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
privato 
come 
dell'ente 
pubblico 
e 
poiché 
il 
riconosci



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


mento 
dell'utilità 
non 
costituisce 
requisito 
dell'azione 
di 
indebito 
arricchimento, 
il 
privato, 
attore 
ex 
art. 
2041 
cod. 
civ. 
nei 
confronti 
della 
P.A., 
deve 
provare 
il 
solo 
fatto 
oggettivo 
dell'arricchimento 
(Cfr. 
anche 
Cass. 
n. 
16793/2018). 


In 
tal 
caso, 
dunque, 
l’amministrazione 
sarà 
tenuta 
a 
versare 
nei 
limiti 
del-
l'arricchimento un indennizzo pari 
alla 
diminuzione 
patrimoniale 
sofferta 
dal 
Consorzio, come 
specificamente 
imposto dalla 
disciplina 
civilistica. Questo 
alla 
luce 
dell'assenza 
di 
qualsiasi 
attività 
pattizia 
in 
grado 
di 
disciplinare 
i 
rapporti 
intercorsi tra mIUR e Consorzio - stante la nullità delle convenzioni. 


In proposito, è 
costante 
la 
giurisprudenza 
secondo cui 
“In tema di 
azione 
d'indebito 
arricchimento 
nei 
confronti 
della 
P.a., 
nell'ipotesi 
di 
nullità 
del 
contratto 
di 
appalto di 
un’opera pubblica, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. 
va 
liquidata 
nei 
limiti 
della 
diminuzione 
patrimoniale 
subita 
dall'appaltatore, 
corrispondente, in concreto, ai 
costi 
effettivamente 
affrontati 
per 
la sua costruzione, 
non potendovi 
rientrare 
l'utile 
d'impresa né 
ogni 
altra posta volta 
a garantire 
quanto l'appaltatore 
stesso si 
riprometteva di 
ricavare 
dall'esecuzione 
di 
un 
valido 
contratto 
di 
appalto”(ex 
multis, 
Cass. 
sez. 
I, 
10 
maggio 
2017 n. 11446). 


Si 
osserva, inoltre, come 
laddove 
alcuni 
pagamenti 
fossero già 
stati 
effettuati 
in 
favore 
del 
Consorzio, 
nell'errata 
convinzione 
della 
validità 
delle 
Convenzioni, la 
liquidazione 
delle 
spettanze 
ex 
art. 2041 cod. civ. per la 
restante 
parte 
delle 
attività, 
richiederebbe 
l'attivazione 
di 
una 
"stanza 
di 
compensazione", 
volta 
a 
liquidare 
solo l'eccedenza 
tra 
quanto già 
pagato a 
titolo 
di 
compenso, e 
quanto effettivamente 
deve 
essere 
ancora 
versato in ragione 
dell'ingiustificato arricchimento. 


La 
necessità 
di 
limitare 
rigorosamente 
le 
somme 
da 
riconoscere 
al 
C. al 
mero rimborso dei 
costi 
sostenuti 
implica, poi, la 
verifica 
se 
tali 
costi 
eccedessero 
quelli 
di 
mercato; 
e, in questo caso, implica 
di 
limitare 
l'indennizzo 
per arricchimento alla 
sola 
entità 
dei 
costi 
di 
mercato, e 
non dei 
costi 
(in ipotesi, 
eccessivi) effettivamente sostenuti dal C. 


Ciò 
anche 
per 
prevenire 
possibili 
dubbi 
in 
merito 
alla 
qualificazione 
come 
aiuti 
di 
Stato illegali, e 
come 
tali 
da 
restituire, delle 
somme 
corrisposte 
al 
C. 
sulla 
base 
di 
affidamenti 
di 
servizi 
senza 
gara, 
nonostante 
il 
C. 
non 
potesse 
essere qualificato come soggetto in house. 


La 
possibilità 
di 
configurare, in tale 
ipotesi, degli 
aiuti 
di 
Stato a 
favore 
del 
C. è 
stata 
approfonditamente 
esaminata, da 
ultimo, dal 
Tar del 
Lazio nella 
nota 
sentenza 
sez. 
III 
bis, 
13 
agosto 
2019 
n. 
10528, 
in 
particolare 
nel 
paragrafo 


3.3 
della 
motivazione 
in 
diritto, 
a 
cui 
può 
rinviarsi. 
In 
sintesi, 
il 
TAR 
ha 
escluso 
che 
gli 
affidamenti 
diretti 
al 
C. di 
servizi 
verso corrispettivo possano configurare 
aiuti 
di 
Stato, 
ma 
in 
sostanza 
ha 
fondato 
tale 
conclusione 
sull'affermazione 
(par. 3.3.3.) che 
«la scelta dell'amministrazione 
di 
far 
svolgere 
un servizio al 
C., qualificato come 
ente 
in house, non si 
traduce 
in una 
previsione 
contrastante 
con la disciplina in tema di 
aiuti 
di 
stato, potendo semmai 
presentare 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


rilievo 
ai 
fini 
della 
concorrenza 
per 
il 
mercato 
e, 
in 
particolare, 
nel 
senso 
della 
disapplicazione illegittima della procedura ad evidenza pubblica. 


In 
ogni 
caso, 
nel 
presente 
giudizio 
e 
alla 
luce 
delle 
modifiche 
normative 
e 
statutarie 
medio 
tempore 
intervenute 
appaiono 
sussistere 
adeguati 
elementi 
probatori, 
in 
termini 
probabilistici, 
per 
qualificare 
l'ente 
come 
in 
house, 
con 
riferimento 
ai 
requisiti 
del 
"controllo 
analogo 
congiunto", 
dell’“attività 
prevalente" 
e 
della 
"totale 
partecipazione 
pubblica", 
ai 
fini 
del 
presente 
giudizio. 


Il 
C. 
è 
attualmente 
interamente 
a 
capitale 
pubblico 
e 
le 
clausole 
statutarie 
non appaiono strumenti 
di 
agevole 
modifica della compagine 
statutaria finalizzati 
a introdurre soggetti di natura privata al suo interno. 


le 
modifiche 
statutarie 
sembrano aver 
consentito a tutti 
i 
consorziati 
di 
avere 
pari 
influenza dominante 
sulla gestione 
del 
Consorzio seppur 
in relazione 
alla relativa partecipazione.[...]. 


la permanenza di 
alcuni 
poteri 
di 
incidenza del 
miur, quale 
quello relativo 
alla 
revoca 
dell'amministratore, 
esercitabile 
comunque 
sulla 
base 
dei 
presupposti 
descritti 
nello 
statuto 
e 
previa 
attivazione 
da 
parte 
dei 
soci, 
non 
appare idoneo a incidere sulla natura del C. 


Il 
requisito 
dell'attività 
prevalente 
appare 
adeguatamente 
dimostrato 
dal 
C. 
e 
dalla 
documentazione 
depositata, 
mentre 
parte 
ricorrente 
non 
ha 
fornito 
adeguati 
elementi 
istruttori 
per 
ritenere 
il 
superamento 
della 
percentuale 
prescritta 
dalla 
norma. 
si 
ribadisce, 
in 
ogni 
caso 
e 
ai 
limitati 
fini 
del 
presente 
giudizio, 
che 
la 
questione 
della 
natura 
in 
house 
o 
meno 
del 
C. 
non 
incide 
sulla 
configurabilità 
dell'aiuto, 
ma 
eventualmente 
sulla 
legittimità 
dell'affidamento 
diretto». 


Non può quindi 
escludersi 
che, in un caso in cui 
le 
circostanze 
di 
fatto richiamate 
dal 
Tar 
non 
ricorrano, 
l'affidamento 
diretto 
al 
C. 
possa 
costituire 
non 
solo una 
violazione 
delle 
norme 
interne 
ed europee 
sulle 
procedure 
di 
aggiudicazione, 
ma altresì un aiuto di Stato illegale. 


E, in questo caso, sussisterebbe 
in capo al 
C. un obbligo di 
restituzione 
integrale, 
anche 
con 
interessi, 
del 
beneficio 
economico 
ricavato 
dall'affidamento 
(1). 


(1) Si 
veda, in un caso che 
potrebbe 
presentare 
analogie, la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
del-
l'Unione 
europea 
del 
24 novembre 
2020, causa 
C-445/19, Viasat 
Broadcasting UK 
Ltd, ove 
ai 
punti 
4143 
la Corte ha ribadito: 
41. di 
conseguenza, gli 
aiuti 
di 
stato che 
non sono oggetto di 
deroga espressa alla regola generale 
costituita 
dall'obbligo 
di 
previa 
notifica, 
previsto 
all'articolo 
108, 
paragrafo 
3, 
prima 
frase, 
TFue, 
rimangono 
soggetti 
a 
tale 
obbligo, 
anche 
qualora 
gli 
aiuti 
siano 
destinati 
ad 
imprese 
incaricate 
della 
gestione 
di 
servizi 
di 
interesse 
economico generale. Pertanto, gli 
stati 
membri 
hanno l'obbligo di 
non 
attuare siffatte misure fin quando la Commissione non abbia adottato una decisione finale in merito. 
42. 
si 
deve 
infine 
ricordare 
che, 
secondo 
giurisprudenza 
costante, 
tenuto 
conto 
del 
carattere 
imperativo 
del 
controllo 
sugli 
aiuti 
statali 
effettuato 
dalla 
Commissione 
ai 
sensi 
dell'articolo 
108 
TFue, 
da 
un 
lato, 
le 
imprese 
beneficiarie 
di 
un 
aiuto 
possono, 
in 
linea 
di 
principio, 
nutrire 
un 
legittimo 
affidamento 
quanto 
alla 
regolarità 
dell'aiuto 
soltanto 
qualora 
questo 
sia 
stato 
concesso 
nel 
rispetto 
della 
procedura 
prevista 
dal-
l'articolo 
suddetto 
e, 
dall'altro, 
un 
operatore 
economico 
diligente 
deve 
normalmente 
essere 
in 
grado 
di 
accertarsi 
che 
tale 
procedura 
sia 
stata 
rispettata. 
In 
particolare, 
quando 
un 
aiuto 
è 
stato 
messo 
ad 
esecuzione 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


Donde, come 
detto, l'assoluta 
necessità 
di 
limitare 
quanto riconosciuto al 


C. 
allo 
stretto 
rimborso 
dei 
costi 
di 
mercato 
riferibili 
alle 
attività 
svolte 
in 
modo corretto ed effettivamente 
utilizzate 
o utilizzabili 
dall'amministrazione 
committente. 
*** 


In 
aggiunta 
a 
quanto 
finora 
detto, 
per 
ragioni 
di 
completezza, 
si 
evidenzia 
come 
codesto 
ministero 
potrebbe 
anche 
incorrere 
in 
responsabilità 
precontrattuale 
per 
effetto 
della 
nullità 
della 
convenzione. 
Nello 
specifico, 
l'affidamento 
ingenerato 
nel 
Consorzio 
circa 
la 
legittimità 
dell'operato 
ministeriale 
potrebbe 
provocare 
la 
configurazione 
dell'ipotesi 
di 
cui 
all'art. 1338 cod. civ., relativamente 
alla conoscenza delle cause di invalidità. 


Per 
quanto 
la 
giurisprudenza 
sia 
concorde 
nell'escludere 
tale 
responsabilità 
laddove 
"l'invalidità 
del 
contratto 
derivi 
da 
norme 
generali 
da 
presumersi 
note 
alla 
generalità 
dei 
consociati 
e 
quindi 
tali 
da 
escludere 
l'affidamento 
incolpevole 
della 
parte 
adempiente" 
(Cassazione 
civile, 
sez. 
lav., 
26 
giugno 
2020, 
n. 
12836; 
Cassazione 
civile, 
sez. 
lav., 
31 
gennaio 
2020, 
n. 
2316), 
l'evoluzione 
della 
disciplina 
dell'in 
house 
providing 
non 
permette 
di 
escludere 
in 
radice 
qualsivoglia 
ipotesi 
di 
legittimo 
affidamento. 
La 
cristallizzazione 
del 
concetto 
di 
"in 
house" 
da 
parte 
del 
legislatore 
(quale 
norma 
generale), 
infatti, 
è 
intervenuta 
solo 
con 
il 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
del 
2016. 
In 
precedenza 
l'istituto, 
pur 
operando 
nell'ordinamento, 
trovava 
fondamento 
nelle 
sole 
pronunce 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione 
Europea, 
nonché 
della 
giurisprudenza 
nazionale 
(a 
partire 
dalla 
storica 
sentenza 
Teckal, 
causa 
C-107/98, 
per 
proseguire 
con 
le 
sentenze 
11 
gennaio 
2005, 
causa 
C-26/03 
-stadt 
halle 
e 
rPl 
lochauc; 
21 
luglio 
2005, 
causa 
C-231/03 
-Coname; 
13 
ottobre 
2005, 
causa 
C-458/03 
-Parking 
Brixen 
Gmbh; 
10 
novembre 
2005, 
causa 
C-29/04 
-mölding 
e 
Commissione 
c/austria; 
6 
aprile 
2006, 
causa 
C-410/04 
-anavc/Comune 
di 
Bari; 
11 
maggio 
2006, 
causa 
C-340/04 
-Carbotermo). 
Non 
sembrerebbe, 
dunque, 
possibile 
con 
certezza 
escludere 
un 
"affidamento 
incolpevole" 
a 
causa 
della 
presenza 
di 
"norme 
generali, 
da 
presumersi 
note 
alla 
generalità 
dei 
consociati", 
come, 
invece, 
richiesto 
dalla 
Suprema 
Corte 
per 
escludere 
la 
responsabilità 
della 
PA. 


senza 
previa 
notifica 
alla 
Commissione, 
ed 
è 
pertanto 
illegale 
in 
forza 
dell'articolo 
108, 
paragrafo 
3, 
TFue, 
il 
beneficiario 
dell'aiuto 
in 
questione 
non 
può, 
in 
quel 
momento, 
nutrire 
alcun 
legittimo 
affidamento 
né 
sulla 
regolarità 
della 
concessione 
del 
medesimo 
(sentenza 
del 
5 
marzo 
2019, 
eesti 
Pagar, 
C-349/17, 
eu:C:2019:172, 
punto 
98 
e 
giurisprudenza 
ivi 
citata), 
né 
di 
conseguenza, 
sulla 
regolarità 
del 
vantaggio 
che 
trae 
dal 
mancato 
versamento 
degli 
interessi 
dovuti 
per 
il 
periodo 
d'illegalità 
dell'aiuto 
stesso. 


43. ne 
consegue 
che, al 
fine 
di 
garantire 
l'effetto utile 
dell'obbligo di 
notifica, previsto da tale 
disposizione, 
nonché 
un esame 
adeguato e 
completo degli 
aiuti 
di 
stato da parte 
della Commissione, i 
giudici 
nazionali 
sono tenuti 
a trarre 
tutte 
le 
conseguenze 
di 
una violazione 
di 
tale 
obbligo e 
ad adottare 
le 
misure 
idonee 
a porvi 
rimedio, il 
che, come 
è 
stato esposto al 
punto 26 della presente 
sentenza, include 
l'obbligo, per 
il 
beneficiario di 
un aiuto illegale, di 
pagare 
interessi 
per 
il 
periodo d'illegalità dell'aiuto 
medesimo, 
anche 
nel 
caso 
in 
cui 
detto 
beneficiario 
sia 
un’impresa 
incaricata 
della 
gestione 
di 
un 
servizjo 
di interesse economico generale, ai sensi dell'articolo 106, paragrafo 2, TFue. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Se, 
infatti, 
la 
conoscenza 
del 
"diritto 
vivente", 
regolante 
l'attività 
contrattuale 
dell'amministrazione, 
deve 
presumersi 
e 
ritenersi 
inderogabile 
per 
ciò 
che 
concerne 
la 
PA 
stessa, 
un 
obbligo 
altrettanto 
stringente 
non 
può 
attribuirsi 
in 
capo 
al 
soggetto 
privato. 


Tale 
ricostruzione 
risulta 
suffragata 
anche 
dall'ormai 
consolidato 
principio 
secondo 
cui 
in 
ambito 
contrattuale 
la 
responsabilità 
della 
pubblica 
amministrazione 
debba 
essere 
valutata 
in termini 
particolarmente 
stringenti, soprattutto 
rispetto all'affidamento prodotto o producibile 
nella 
controparte 
(a 
titolo 
di 
esempio si 
pensi 
alla 
responsabilità 
oggettiva 
derivante 
da 
provvedimento 
illegittimo 
nel 
settore 
degli 
appalti, 
così 
come 
ricostruita 
da 
Consiglio 
di 
Stato, 
sez. V, 8 novembre 2012, n. 5686). 


Qualora 
il 
C. avanzi 
pretese 
in tal 
senso, oltre 
ad opporre 
comunque 
l'inconfigurabilità 
di 
una 
responsabilità 
precontrattuale 
alla 
stregua 
della 
giurisprudenza 
sopra 
menzionata 
(sia 
pure 
con 
le 
riserve 
appena 
esposte), 
dal 
punto 
di 
vista 
della 
quantificazione 
e 
della 
prova 
del 
danno 
codesta 
Amministrazione 
dovrà 
opporre 
il 
consolidato principio secondo cui 
"l'erronea scelta del 
contraente 
di 
un contratto di 
appalto, divenuto inefficace 
e 
"tamquam 
non esset" 
per 
effetto dell'annullamento dell’aggiudicazione 
da parte 
del 
giudice 
amministrativo, 
espone 
la P.a. a dover 
corrispondere 
il 
risarcimento dei 
danni 
per 
le 
perdite 
e 
i 
mancati 
guadagni 
subiti 
dal 
privato 
aggiudicatario; 
tale 
responsabilità 
non è 
qualificabile 
né 
come 
aquiliana, né 
come 
contrattuale 
in senso 
proprio, 
sebbene 
a 
questa 
si 
avvicini 
poiché 
consegue 
al 
"contatto" 
fra 
le 
parti 
nella fase 
procedimentale 
anteriore 
alla stipula del 
contratto, ed ha origine 
nella 
violazione 
del 
dovere 
di 
buonafede 
e 
correttezza. 
Pertanto, 
il 
risarcimento 
del 
danno dovuto all'appaltatore 
va parametrato non già alla conclusione 
del 
contratto, bensì 
al 
cd. interesse 
contrattuale 
negativo che 
copre 
sia 
il 
danno emergente, ovvero le 
spese 
sostenute, che 
il 
lucro cessante, da intendersi, 
però, non come 
mancato guadagno rispetto al 
contratto non eseguito 
ma in riferimento ad altre 
occasioni 
di 
contratto che 
la parte 
allega di 
avere 
perso" (così, da ultimo, Cass. 25 luglio 2018 n. 19775). 


*** 


In conclusione, per i 
motivi 
sopraesposti, a 
parere 
dello scrivente: 
a) le 
convenzioni 
regolanti 
i 
rapporti 
tra 
il 
Consorzio C. e 
codesto ministero risultano 
nulle 
ab origine, ex 
art. 1418 cod. civ., per violazione 
delle 
norme 
imperative 
in materia 
di 
affidamento contrattuale; 
b) con riferimento ai 
pagamenti, 
invece, le 
prestazioni 
svolte 
rientrerebbero nell'alveo dell'art. 2041 c.c., con 
conseguente 
pagamento 
dell'indebito 
con 
i 
limiti 
indicati 
nel 
corpo 
del 
parere. 


Sulla 
questione 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
di 
quest'Avvocatura 
che, nella seduta del 18 marzo 2021, si è espresso in conformità. 


Si resta a disposizione per ogni ulteriore ed eventuale chiarimento. 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


Fondo asilo, migrazione ed Integrazione 2014-2020. 
modalità 


di rendicontazione, monitoraggio e controllo applicabili agli 


organismi internazionali coinvolti nella gestione dei fondi 
(*) 


Parere 
del 
12/05/2021-300455, al 6330/2020, avv. Paola 
marIa 
Zerman 


Con la 
nota 
a 
margine 
codesto Ufficio ha 
chiesto un'integrazione 
del 
parere 
reso dalla 
Scrivente 
in data 
31 marzo 2020 prot. 180925 circa 
il 
regime 
di 
rendicontazione 
delle 
spese, da 
parte 
di 
organismi 
internazionali, in relazione 
ai 
finanziamenti 
europei 
da 
parte 
del 
Fondo Asilo, migrazione 
e 
Integrazione 
(FAmI) 
istituito 
con 
regolamento 
UE 
n. 
516/2014 
-per 
la 
quota 
destinata all'Italia in qualità di Stato membro UE per il periodo 2014-2020. 


In concreto, codesta 
Amministrazione 
aveva 
evidenziato la 
situazione 
di 
criticità 
venutasi 
a 
creare 
nei 
rapporti 
con i 
prefati 
organismi 
internazionali, 
assumendo, 
questi 
ultimi, 
che 
il 
sistema 
di 
controllo 
e 
rendicontazione 
adottati 
dagli 
stessi 
rendono nella 
sostanza 
superfluo il 
ricorso ad audit 
esterno e 
controlli 
da 
parte 
di 
codesta 
Autorità 
Responsabile, come 
previsto dalla 
regolamentazione 
europea. 


Particolarmente, chiedono: 


-l'oIm, 
di 
poter 
rendicontare 
nelle 
modalità 
già 
stabilite 
per 
gli 
interventi 
finanziati 
a 
valere 
sui 
Fondi 
Solid 
2008-2013 
a 
suo 
tempo 
avallati 
sia 
dalla 
CE 
che 
dai 
successivi 
audit 
sia 
della 
Commissione 
Europea 
che 
della 
Corte 
dei Conti europea. 


Al 
riguardo 
codesta 
AR 
riferiva 
che, 
a 
seguito 
di 
interlocuzione 
con 
la 
CE 
(secondo cui 
l'AR può prevedere 
specifiche 
regole 
di 
rendicontazione 
all'interno 
della 
Convenzione 
di 
sovvenzione 
sottoscritta 
dal 
Beneficiario), 
aveva 
acconsentito alla 
parziale 
semplificazione 
delle 
modalità 
di 
rendicontazione 
e controlli. 


-l'unHCr 
l'applicazione 
dell'accordo 
FAFA 
(Financial 
and 
amministrative 
Framework 
agreement) 
stipulato 
tra 
l'oNU 
e 
la 
Commissione 
Europea, 
sugli 
interventi 
finanziati 
nell'ambito 
della 
FAmI, 
che 
prevede 
i 
principi 
ai 
quali 
attenersi 
nel 
caso 
in 
cui 
la 
Commissione 
finanzi 
un 
programma 
o 
progetto 
amministrato 
dalle 
Nazioni 
Unite, 
tra 
cui 
le 
modalità 
di 
rendicontazione 
e 
controllo 
sulle 
spese. 
Codesta 
A.R. 
rendeva 
noto 
che, 
a 
seguito 
di 
numerose 
interlocuzioni 
con 
la 
Commissione, 
la 
quale 
peraltro 
in 
una 
nota 
ha 
ritenuto 
non 
applicabile 
il 
FAFA 
ai 
singoli 
Stati 
membri, 
era 
dapprima 
addivenuta 
all'accordo 
di 
limitare 
le 
verifiche 
al 
10 
% 
delle 
spese, 
ma 
che 
l'UNHCR 
aveva 
(con 
nota 
del 
5 
aprile 
2017), 
richiesto 
di 
addivenire 
ad 
un'ulteriore 
semplificazione. 


(*) Il 
regolamento (ue) 2021/1147 del 
7 luglio 2021, che 
istituisce 
il 
fondo asilo, migrazione 
e 
Integrazione 
2021-2027, 
ha 
disciplinato 
espressamente, 
all’art. 
22, 
il 
regime 
delle 
verifiche 
di 
gestione 
e audit di progetti eseguiti da organizzazioni internazionali. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


*** 


Con la 
nota 
a 
margine 
codesto Ufficio evidenzia 
che, a 
seguito del 
citato 
parere, 
la 
situazione 
di 
criticità 
con 
gli 
enti 
citati 
non 
appare 
risolta, 
atteso 
che 
gli 
stessi 
ribadiscono di 
avere 
una 
disciplina 
speciale, in quanto enti 
di 
natura 
internazionale, e, ancor più, manifestano la 
propria 
indisponibilità 
sia 
a 
sottoscrivere 
le 
convenzioni 
come 
predisposte 
da 
codesta 
Amministrazione, che 
a 
una generale futura collaborazione. 


*** 


-I‑

Excursus argomentativo del parere già reso in data 31 marzo 2020. 


Approfondita 
la 
questione, nel 
precitato parere, la 
Scrivente 
ha 
ritenuto 
di 
dover 
illustrare 
in 
modo 
sintetico 
il 
sistema 
europeo 
delineato 
per 
la 
gestione 
e 
controllo 
dei 
programmi 
FAmI, 
al 
fine 
di 
comprendere 
se 
la 
richiesta 
dei 
precitati 
organismi 
si 
ponesse 
o meno in contrasto con i 
principi 
o regole 
di 
corretta 
e 
trasparente 
gestione 
richiesta 
dalla 
UE 
e 
di 
cui 
codesto 
Dipartimento 
è responsabile. 


Al riguardo, esponeva. 


1. 
La 
rendicontazione 
contabile 
deve, come 
suo fondamento, essere 
rivolta 
all'Ente 
che 
eroga 
il 
denaro da 
amministrare. Per quanto concerne 
le 
risorse 
investite 
dall'Unione 
europea 
nel 
FAmI, 
il 
predetto 
principio 
è 
articolato 
in 
uno 
plurimo 
livello 
di 
controllo 
previsto 
dal 
Regolamento 
UE 
n. 
514/2014 
recante 
disposizioni 
generali 
sul 
Fondo 
in 
questione, 
che 
però 
in 
ultima 
analisi 
deve 
garantire 
la 
possibilità 
di 
verifica 
da 
parte 
della 
Commissione, 
diretto 
all'accertamento 
dell'efficacia 
dei 
sistemi 
di 
gestione 
nazionale, 
oltre 
ad 
ulteriori 
valutazioni (art. 31). 
2. 
Il 
regolamento 
prevede 
che 
gli 
Stati 
membri 
pongano 
in 
essere 
una 
serie 
di 
controlli 
dei 
programmi 
nazionali 
conformemente 
ai 
principi 
previsti 
dalla 
stessa 
normativa 
(art. 24 comma 
2) che 
rimane 
comunque 
applicabile 
in 
ragione 
del 
principio di 
sussidiarietà 
(punto 22 della 
premessa, nonché 
punto 
47 e art. 11). 
3. 
Gli 
Stati 
membri 
rispondono dell'attività 
di 
controllo e 
di 
audit, sicché 
gli 
stessi 
sono responsabili 
del 
rimborso 
dell'importo indebitamente 
versato 
a 
un 
beneficiario 
come 
"conseguenza 
della 
colpa 
o 
della 
negligenza 
di 
uno 
sato membro" e non recuperato (art. 5 comma 3). 
4. 
A 
ciò si 
aggiunga 
la 
previsione 
del 
co-finanziamento delle 
azioni 
sostenute 
nei 
programmi 
di 
cui 
al 
FAmI, da 
altre 
fonti 
anche 
pubbliche, con la 
conseguente 
applicazione 
della 
disciplina 
nazionale 
in materia 
di 
contabilità, 
sia per la gestione trasparente, che in tema di controllo e responsabilità. 
5. 
I 
vari 
livelli 
di 
controllo 
previsti 
dal 
regolamento 
vanno, 
in 
sintesi, 
da 
quello 
svolto 
a 
livello 
nazionale 
dal 
singolo 
Stato 
membro, 
al 
controllo 
da 
parte 
della 
stessa 
Commissione 
europea, 
nonché 
della 
Corte 
dei 
Conti 
europea 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


(oltre 
che 
nazionale). Egualmente 
l'oLAF 
può svolgere 
verifiche 
in loco per 
verificare se vi siano state violazioni. 


6. 
Il 
soggetto 
centrale 
nella 
attività 
di 
controllo, 
a 
livello 
nazionale, 
è 
come 
noto, 
l'autorità 
responsabile 
(art. 
27) 
-designata 
a 
seguito 
di 
parere 
positivo 
di 
un 
organismo 
di 
audit, 
ex 
art. 
26 
(ruolo 
svolto 
da 
codesto 
Dipartimento). 
7. 
A 
sua 
volta 
l'AR 
è 
tenuta 
a 
fornire 
all'autorità 
di 
audit, 
di 
cui 
all'art. 
29 del 
regolamento ue n. 514/2014, tutti 
i 
dati 
necessari 
relative 
procedure 
di 
gestione 
e 
controllo sulle 
spese, affinché 
la 
stessa 
possa 
formulare 
il 
parere 
di 
validazione 
della 
regolarità 
dei 
conti 
richiesto dall'art. 59 del 
regolamento 
UE 
966/2012 -che 
stabilisce 
le 
regole 
finanziarie 
applicabili 
al 
bilancio del-
l'Unione - necessario ai fini dell'erogazione del finanziamento previsto. 
8. 
La 
Commissione, cooperando con la 
citata 
attività 
di 
audit, controlla 
"i 
controllori" 
e 
cioè 
se 
gli 
Stati 
membri 
abbiano istituito adeguati 
sistemi 
di 
gestione 
e 
controllo 
e 
se 
"detti 
sistemi 
funzionino 
in 
modo 
efficace 
nel 
corso 
dell'esecuzione 
dei 
programmi 
nazionali" 
(art. 31 R.514/2014, nonché 
art. 14 
comma 
3 lett. C) del 
regolamento UE 
1042/2014 che 
integra 
il 
regolamento 
n. 
514/2014), 
anche 
facendo 
audit 
o 
controlli 
sul 
posto, 
diretti 
a 
verificare 
l'efficacia 
dei 
sistemi 
di 
gestione 
e 
controllo, 
l'esistenza 
di 
documenti 
giustificativi 
richiesti 
e 
la 
loro rispondenza 
alle 
azioni 
finanziate, e, in conclusione, la 
sana 
gestione finanziaria del programma. 
9. La 
pluralità 
di 
controlli 
sopra 
indicati 
attestano un elevato indice 
di 
rigore, che 
deve 
essere 
diretto a 
verificare 
che 
non ci 
siano state 
frodi 
nella 
gestione del denaro pubblico. 
10. 
Esaminando 
più 
specificamente 
la 
disciplina 
dei 
controlli 
a 
cui 
si 
deve 
attenere 
ogni 
Stato 
membro 
(artt. 
21 
e 
seguenti), 
essa 
si 
basa 
sul 
principio 
della 
separazione 
delle 
funzioni 
tra 
autorità 
di 
gestione 
e 
di 
controllo 
(rispettato 
da 
codesta 
AR mediante 
l'assegnazione 
delle 
due 
diverse 
funzioni 
a 
due 
Dipartimenti 
distinti, 
rispettivamente 
quello 
per 
le 
libertà 
civili 
e 
la 
Direzione 
Centrale 
per le 
risorse 
umane 
finanziarie 
e 
strumentali, come 
riportato a 
pag. 
16 
del 
manuale 
relativo 
al 
sistema 
di 
gestione 
e 
controllo 
dell'AR, 
versione 
27 marzo 2015). 
11. 
Il 
regolamento 
di 
esecuzione 
2015/840 
UE 
disciplina 
l'attività 
di 
gestione 
e 
controllo 
della 
spesa 
che 
deve 
essere 
svolta 
dalle 
ar 
(che 
può 
essere 
anche 
affidato 
a 
Revisori 
indipendenti) 
-e 
cioè 
un 
"controllo 
amministrativo 
sistematico 
e, 
per 
raggiungere 
un 
livello 
sufficiente 
di 
affidabilità 
lo 
completa(no) 
con 
controlli 
sul 
posto, 
in 
caso 
anche 
con 
controlli 
sul 
posto 
senza 
preavviso 
delle 
spese 
connesse 
alle 
richieste 
di 
pagamento 
dei 
beneficiari, 
che 
sono 
dichiarate 
nei 
conti 
annuali" 
(art. 
27). 
12. In particolare, impone 
una 
duplice 
categoria di 
controlli, una 
di 
natura 
amministrativa e quella sul posto. 
13. I 
controlli 
sul 
posto 
sono oltre 
che 
di 
natura 
operativa, anche 
finanziaria 
su 
almeno il 
10% del 
contributo della ue 
(che 
possono ridursi 
se 
in 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


precedenza il 
tasso di 
errore 
è 
stato inferiore 
al 
2% 
art. 4), diretti, in particolare, 
ad evitare 
che 
sui 
progetti 
interessati 
vi 
sia 
un doppio finanziamento sia 
da 
parte 
della 
UE 
che 
nazionale, 
nonché 
alla 
verifica 
della 
regolarità 
contabile. 
Nello specifico, l'AR deve 
verificare 
che 
le 
spese 
inerenti 
alle 
dichiarazioni 
finanziarie, corrispondano effettivamente 
alle 
registrazioni 
contabili, e 
siano 
ammissibili secondo quanto previsto dal regolamento 514 del 2014 (art. 3). 


14. 
I 
controlli 
amministrativi 
vengono 
svolti 
dall'AR 
su 
tutte 
le 
dichiarazioni 
finanziarie 
inviate 
dai 
beneficiari 
per 
ricevere 
i 
finanziamenti, 
e 
vanno 
dall'esame 
analitico per valutare 
la 
pertinenza 
della 
spesa 
alla 
correttezza 
formale 
e 
l'accuratezza 
matematica 
delle 
dichiarazioni 
finanziarie. 
L'AR 
"può 
esigere 
che 
il 
beneficiario ottenga da un 
revisore 
dei 
conti 
indipendente 
un 
certificato di audit" sugli aspetti indicati (art. 1). 
15. 
In 
tale 
contesto, 
come 
evidenziato, 
particolarmente 
rigoroso 
per 
la 
tutela 
degli 
interessi 
finanziari 
dell'Unione, 
si 
inserisce 
il 
sistema 
di 
controlli 
che 
i 
prefati 
organismi 
internazionali 
(oIm 
e 
UNHCR), in quanto destinatari, 
tra 
gli 
altri, 
dei 
progetti 
finanziati 
dal 
FAmI 
(art. 
8 
comma 
1 
lett. 
D), 
ritengono 
di poter applicare in virtù di ulteriore normativa internazionale. 
16. Il 
Financial 
and administrative 
framework agreement 
(FAFA) stipulato 
il 
29 aprile 
2003 e 
modificato nel 
2018, stabilisce 
le 
regole 
finanziarie 
applicabili 
tra 
le 
Nazioni 
Unite, 
intese 
anche 
come 
singole 
articolazioni 
in 
Dipartimenti, 
compreso l'UNHCR e 
la 
Commissione 
UE, con riferimento a 
tutti 
i Servizi all'interno della Commissione. 
17. 
Come 
chiarito 
nel 
preambolo, 
i 
principi 
dell'accordo 
sono 
applicabili 
in 
caso 
di 
finanziamento 
o 
contributo 
ad 
un'operazione, 
programma 
o 
progetto, 
gestito 
dalle 
NU, 
firmato 
dalla 
Commissione 
o 
dal 
paese 
beneficiario 
e 
approvato 
dalla 
Commissione, in particolare 
di 
finanziamenti 
relativi 
al 
Fondo di 
sviluppo 
ed 
Echo 
(european 
civil 
protection 
and 
humanitarian 
aid 
operations). 
18. L'accordo regola 
le 
modalità 
di 
rendicontazione 
delle 
spese, l'ammissibilità 
delle 
stesse, meglio specificate 
nelle 
linee 
guida 
del 
2012 applicabili 
tra UE e Nazioni Unite nelle azioni congiunte di carattere umanitario (1). 
19. 
Secondo 
quanto 
scritto 
nel 
preambolo 
del 
FAFA 
(versione 
consolidata 
del 
2018), l'UN 
può gestire 
i 
contributi 
comunitari 
secondo le 
proprie 
regole, 
(1) 
eCho-un 
Guidelines 
eCho's 
Guidance 
applicable 
to 
humanitarian 
aid 
actions 
implemented 
by 
the 
un Compiled by 
the 
un-eCho 
Joint 
Task-Force 
June 
2012. "These 
Joint 
eCho-un Guidelines 
are 
meant 
as 
a useful 
tool 
for 
staff 
in the 
un and the 
eC, or 
more 
specically 
by 
the 
directorate 
General 
for 
humanitarian 
aid 
and 
civil 
protection 
(eCho). 
These 
Guidelines 
aim 
to 
offer 
them 
concrete 
advice 
on 
specific 
aspects 
particular 
to 
the 
eu-un 
partnership 
in 
the 
provision 
of 
aid 
for 
the 
prevention 
of 
and 
recovery 
from 
humanitarian 
crises. 
The 
shared 
objectives, 
principles 
and 
commitments 
of 
the 
un and the 
eu 
have 
been outlined in a number 
of 
strategic 
policy 
and programmatic 
frameworks1, including 
the 
Financial 
and administrative 
Framework 
agreement 
(the 
FaFa) which set 
the 
basis 
for 
the 
eu-un partnership in practice. The 
FaFa2 allows 
for 
a signicant 
simplification of 
the 
programmatic 
partnership between the 
two organizations 
which also facilitates 
eu-un cooperation in the 
domain of 
humanitarian aid". 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


ove 
così 
valutato da 
parte 
della 
Commissione 
(2). In ogni 
caso, i 
principi 
di 
controllo 
e 
di 
rendicontazione 
indicati 
nell'accordo, 
appaiono 
molto 
essenziali, 
riguardano 
nello 
specifico, 
l'attività 
di 
reporting 
(n. 
2), 
i 
costi 
ammissibili 
(eligible 
direct 
costs 
n. 3): 
in sintesi 
gli 
stessi 
devono essere 
direttamente 
attribuibili 
all'azione 
perseguita, necessari 
allo scopo, identificabili. Il 
punto 3.2 
indica 
in 
modo 
specifico 
quali 
costi 
rientrano 
nelle 
categorie 
indicate. 
Secondo 
quanto descritto dai 
punti 
12 e 
seguenti, la 
Commissione 
riconosce 
il 
primato 
obbligatorio 
del 
sistema 
di 
controllo 
dell'un 
incluso 
il 
principio 
di 
audit 
esterno esclusivo dell'UN. 


20. Da 
parte 
sua, l'UN 
riconosce 
la 
necessità 
per la 
Commissione 
di 
relazionare 
agli 
organi 
competenti 
dell'UE 
in 
ordine 
alle 
spese 
sostenute 
per 
i 
progetti 
e 
pertanto 
di 
poter 
accedere 
ai 
documenti 
e 
dati 
per 
controllare 
e 
richiedere 
tutte 
le 
informazioni 
finanziarie 
rilevanti. 
Le 
attività 
finanziate 
o 
co-finanziate 
dalla 
UE 
devono 
essere 
soggette 
a 
procedure 
di 
interni 
ed 
esterni audit stabilite dalle Nazioni Unite 
(3). 
21. Dall'accordo emerge, dunque, che, in sintesi, per quanto concerne 
i 
progetti 
regolati 
dallo stesso, occorre 
fare 
riferimento alla 
procedura 
di 
controllo 
e 
auditing previsto dalla 
normativa 
e 
prassi 
oNU, sebbene 
sia 
prevista 
la 
disponibilità 
alla 
verifica 
anche 
in 
loco 
da 
parte 
della 
Commissione 
per 
l'accertamento 
della correttezza delle procedure. 
*** 


Riportato in sintesi 
il 
quadro normativo sopra 
descritto, la 
Scrivente 
osservava: 


1. 
Esaminando 
il 
testo 
dell'accordo, 
non 
si 
può 
non 
notare 
come, 
con 
ogni 
probabilità 
in ragione 
di 
dinamiche 
di 
fiducia 
e 
rispetto internazionali, la 
tipologia 
e 
le 
modalità 
di 
controllo 
appaiano 
meno 
stringenti 
rispetto 
a 
quelli 
previsti 
dalla regolamentazione 
ue 
sopra 
citata, sia 
in relazione 
alla 
entità 
della 
verifica 
contabile-amministrativa 
(prevista 
allora 
del 
100% e 
quantitativamente 
non indicata 
nell'accordo FAFA), che 
al 
generale 
quanto generico riferimento 
a 
sistemi 
di 
audit 
interno 
ed 
esterno 
in 
ordine 
alla 
verifica 
della 
correttezza contabile. 
2. 
Tale 
circostanza, poi, potrebbe 
diventare 
particolarmente 
critica 
laddove, 
come 
accade, gli 
organismi 
internazionali 
sopra 
citati 
concorrano con 
altri 
soggetti 
pubblici 
e 
privati 
nella 
gestione 
dei 
progetti 
finanziati 
dal 
FAmI. 
ove 
si 
ritenga 
applicabile 
l'accordo FAFA 
rispetto alla 
normativa 
ordinaria, si 
verrebbero 
a 
creare 
due 
dissimili 
sistemi 
di 
controllo 
e 
di 
rendicontazione 
con(
2) "un organization may 
manage 
european union.. contributions 
in accordance 
with their 
own 
rules and regulations as assessed by the Commission". 
(3) "The 
financial 
transactions 
and financial 
statements 
concerning the 
activities 
financed or 
cofinanced 
by 
the 
european union shall 
be 
subject 
to the 
internal 
and external 
auditing procedures 
laid 
down in the applicable financial regulations, rules and directives of the un organizations". 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


tabile, violando gli 
stessi 
principi 
regolamentari, diretti 
a 
garantire 
non solo 
la 
trasparenza 
e 
la 
correttezza 
delle 
spese, ma 
anche 
la parità di 
trattamento 
tra i 
diversi 
enti/organismi 
che 
partecipano ai 
progetti. Questi 
ultimi 
sarebbero, 
infatti, soggetti 
a 
stringenti 
controlli, mentre 
quelli 
riconducibili 
al-
l'oNU 
opererebbero 
in 
regime 
nella 
sostanza 
speciale, 
in 
virtù 
di 
un 
rapporto 
fiduciario tra Enti sovranazionali. 


3. 
ma 
proprio 
la 
natura 
dell'Accordo 
FAFA 
manifesta 
i 
limiti 
soggettivi 
della 
sua 
applicazione. 
Come 
scritto 
in 
premessa, 
lo 
stesso 
è 
diretto 
a 
migliorare 
la 
partnership 
tra 
UE 
e 
Commissione 
attraverso 
una 
disciplina 
di 
riferimento 
(4). 
4. 
Non pare, al 
riguardo, trovare 
applicazione 
l'art. 216 del 
TFUE, laddove 
prevede 
l'efficacia 
degli 
accordi 
conclusi 
dall'Unione 
nei 
confronti 
degli 
Stati 
membri 
(5), non risultando che 
la 
procedura 
di 
adozione 
del 
FAFA 
sia 
quella 
assai 
articolata 
prevista 
a 
tal 
fine 
dal 
successivo 
art. 
218, 
per 
gli 
accordi 
internazionali 
(capo 
V), 
quanto 
piuttosto 
l'art. 
220 
dello 
stesso 
TFUE 
che 
contempla la possibilità di 
collaborazione 
tra l'Unione 
e 
le 
organizzazioni 
internazionali 
(6), 
collaborazione 
che 
necessariamente 
si 
traduce 
in 
accordi 
dall'efficacia limitata ai 
soggetti 
che 
li 
hanno sottoscritti, e 
cioè 
l'Organizzazione 
delle 
Nazioni 
Unite 
e 
la UE 
e 
non i 
singoli 
Stati 
attuatori 
di 
progetti 
con denaro ad essi destinato in quota parte dall'UE. 
Infatti, 
la 
procedura 
di 
conclusione 
degli 
accordi 
internazionali 
contenuta 
nell'art. 
218 
TFUE 
presuppone 
l'adempimento 
di 
specifiche 
formalità 
che 
scandiscono le 
diverse 
fasi 
che 
conducono alla 
approvazione 
e 
conclusione 
di 
un 
trattato 
ed 
è 
comunemente 
considerata 
norma 
autonoma 
e 
generale 
di 
portata 
costituzionale 
(7), perciò non derogabile. 


Trattasi, 
come 
noto, 
di 
una 
procedura 
che 
vede 
protagonisti 
la 
Commissione, 
organo 
al 
quale 
è 
affidata 
l'iniziativa 
e 
la 
conduzione 
dei 
negoziati 
(8) 
in 


(4) ".. this 
agreement 
sets 
out 
a framework 
for 
the 
un and the 
Commission to enhance 
their 
cooperation 
including programmatic partneship". 
(5) "1. l'unione 
può concludere 
un accordo con uno o più paesi 
terzi 
o organizzazioni 
internazionali 
qualora i 
trattati 
lo prevedano o qualora la conclusione 
di 
un accordo sia necessaria per 
realizzare, 
nell'ambito delle 
politiche 
dell'unione, uno degli 
obiettivi 
fissati 
dai 
trattati, o sia prevista in 
un 
atto 
giuridico 
vincolante 
dell'unione, 
oppure 
possa 
incidere 
su 
norme 
comuni 
o 
alterarne 
la 
portata. 
2. Gli accordi conclusi dall'unione vincolano le istituzioni dell'unione e gli stati membri". 
(6) "TITolo 
vI relaZIonI dell'unIone 
Con le 
orGanIZZaZIonI InTernaZIonalI 
e 
I PaesI TerZI e 
deleGaZIonI dell'unIone 
articolo 220 (ex 
articoli 
da 302 a 304 del 
TCe) 1. 
L'Unione 
attua 
ogni 
utile 
forma 
di 
cooperazione 
con 
gli 
organi 
delle 
Nazioni 
Unite 
e 
degli 
istituti 
specializzati 
delle 
Nazioni 
Unite, il 
Consiglio d'europa, l'organizzazione 
per 
la sicurezza e 
la cooperazione 
in europa e l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico". 


(7) CGUE, sentenza 
del 
9 agosto 1994, Repubblica 
francese 
c. Commissione 
delle 
Comunità 
europee, 
causa C-327/91, in Racc., 1994, p. I-3641, p.to 28. 
(8) È 
richiesto alla 
predetta 
istituzione 
anche 
l’impegno ad «adoperarsi 
affinché 
gli 
accordi 
negoziati 
siano compatibili 
con le 
politiche 
e 
norme 
interne 
dell'unione» (così 
L.S. RoSSI, Il 
«paradosso 
del 
metodo 
intergovernativo» 
(gli 
equilibri 
istituzionali 
nel 
progetto 
della 
convenzione 
europea), 
in 
L.S. 
RoSSI, 
(a 
cura 
di), 
Il 
progetto 
di 
Trattato-Costituzione. 
verso 
una 
nuova 
architettura 
dell'unione 
europea, 
Giuffré, milano, 2004, pp. 141-167). 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


quanto 
chiamata 
ad 
«assicura[re] 
la 
rappresentanza 
esterna 
dell'unione» 
(art. 
17, 
par. 
1 
TUE), 
il 
Consiglio, 
il 
quale 
«autorizza 
l'avvio 
dei 
negoziati, 
definisce 
le 
direttive 
di 
negoziato, 
autorizza 
la 
firma 
e 
conclude 
gli 
accordi 
[...] 
ed 
imparti[
sce] 
direttive 
al 
negoziatore 
e 
designa 
un 
comitato 
speciale» 
nei 
casi 
previsti 
dal 
Trattato 
(art. 
218, 
parr. 
2 
e 
4 
TFUE) 
e 
il 
Parlamento 
europeo 
(9). 


Peraltro, ai 
sensi 
dell'art. 218, comma 
6 lettera 
a) punto iii), la 
previa 
approvazione 
del 
Parlamento 
è 
necessaria 
per 
gli 
accordi 
che 
"creano 
un 
quadro 
istituzionale 
specifico organizzando procedure 
di 
cooperazione", a 
cui 
potrebbe 
essere ricondotto il FAFA. 


Solo 
con 
riferimento 
agli 
impegni 
internazionali 
assunti 
nel 
rispetto 
della 
procedura 
formale 
di 
cui 
all'art. 
218 
TFUE, 
«gli 
accordi 
conclusi 
dal-
l'unione 
vincolano 
le 
istituzioni 
dell'unione 
e 
gli 
stati 
membri» 
(art. 
216, 
par. 
2, 
TFUE) 
(10). 


Coinvolgimento, che, al 
contrario, non è 
richiesto nelle 
diverse 
forme 
di 
collaborazione 
tra 
l'Unione 
e 
le 
organizzazioni 
internazionali 
(ai 
sensi 
dell'art. 
220 TFUE). 


Com'è 
noto, infatti, e 
come 
si 
è 
già 
avuto modo di 
precisare, «l'unione 
attua 
ogni 
utile 
forma 
di 
cooperazione 
con 
gli 
organi 
delle 
nazioni 
unite» 
(art. 220, par. 1 TFUE); 
pertanto, sono molteplici 
le 
forme 
di 
collaborazione 
-tradottesi 
nell'adozione 
di 
accordi 
internazionali 
-nelle 
materie 
di 
cosiddetta 
"cooperazione 
multilaterale", ossia 
in settori 
che 
coinvolgono interessi 
particolarmente 
sensibili. 


In tali 
casi, il 
ricorso alla 
procedura 
formale, ove 
avvenga, è 
indicato all'incipit 
del trattato. 


Tuttavia, 
in 
mancanza 
di 
indicazioni 
in 
merito 
alla 
procedura 
seguita, 
non 
pare 
ammissibile 
l'estensione 
soggettiva 
degli 
accordi 
agli 
altri 
Stati, dovendosi 
ritenere le norme sui 
Trattati di stretta interpretazione. 


5. Il 
trattato FAFA 
non pare 
quindi 
applicabile 
nell'ambito di 
azioni 
umanitarie 
che 
siano 
state 
demandate 
alla 
autonoma 
gestione 
dei 
singoli 
Stati 
membri, 
in 
relazione 
a 
progetti 
specifici 
finanziati 
dal 
FAmI, 
e 
dettagliatamente 
regolamentati 
nella 
precitata 
normativa, 
anche 
per 
le 
ragioni 
che 
si 
indicano di seguito: 
a) 
Per 
assicurare 
la parità di 
trattamento nei 
confronti 
di 
tutti 
i 
soggetti 
pubblici e privati coinvolti nelle azioni finanziate dal FamI: 
(9) Per ulteriori 
approfondimenti 
si 
veda 
E. BARoNCINI, l'unione 
europea e 
la procedura di 
conclusione 
degli 
accordi 
internazionali 
dopo il 
Trattato di 
lisbona, in Cuadernos 
de 
derecho Transnacional 
(marzo 2013), Vol. 5, n. 1, pp. 5-37. 
(10) Il 
Consiglio, pertanto, oltre 
ad impartire 
direttive 
al 
negoziatore, autorizza 
la 
firma 
dell'accordo 
e 
la 
sua 
conclusione; 
viceversa, dispone 
la 
sospensione 
dell'accordo, ai 
sensi 
dell'art. 218, par. 9, 
qualora 
ravvisi 
profili 
di 
incompatibilità 
con la 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell'Unione 
ovvero, più in 
generale, con le 
finalità 
di 
cooperazione 
poste 
alla 
base 
degli 
accordi 
che 
detti 
Paesi 
hanno sottoscritto 
con l'Unione (cfr. E. BARoNCINI, op. cit., p. 31). 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


come 
già 
rilevato, diversamente 
opinando, si 
porrebbe 
in essere 
una 
disciplina 
difforme 
tra 
i 
vari 
organismi 
coinvolti, che, sotto il 
profilo operativo, 
verrebbe 
a 
vantaggio 
degli 
organismi 
internazionali, 
in 
violazione 
del 
principio 
di parità degli operatori previsto dalla normativa UE. 


b) 
Per 
il 
regime 
di 
responsabilità contabile 
che 
attiene 
alla gestione 
del FamI: 
anche 
in tal 
caso si 
è 
già 
evidenziato che 
il 
predetto Fondo può essere 
cofinanziato 
dai 
singoli 
Stati 
membri. 
Ne 
deriva 
la 
sicura 
assoggettabilità 
ai 
controlli 
contabili 
previsti 
nei 
singoli 
Stati, a 
tutela 
della 
sana 
gestione 
del 
denaro 
dei 
cittadini, con conseguente 
responsabilità 
personale 
per dolo o colpa 
grave 
(ai 
sensi 
dell'art. 1 L. 1994 n. 20) dei 
pubblici 
funzionari 
dell'AR che 
hanno 
autorizzato 
eventuali 
rimborsi 
non 
dovuti 
o 
spese 
ritenute 
non 
ammissibili. 
Da 
qui, la 
necessità 
del 
controllo amministrativo contabile 
sulla 
totalità 
delle 
dichiarazioni 
finanziarie, salva 
eventuale 
riduzione 
ove, come 
scritto al 
punto 
13, ne ricorrano le condizioni previste dalla legge. 


c) 
Per 
un 
principio 
di 
trasparenza 
amministrativo-contabile 
in 
ordine 
alla gestione e rendicontazione delle spese a carico del FamI. 
Sebbene 
l'Accordo 
FAFA 
preveda 
una 
serie 
di 
principi 
attinenti 
al 
corretto 
utilizzo del 
denaro e 
di 
rendicontazione 
delle 
spese, nonché 
di 
possibilità 
di 
verifica 
da 
parte 
della 
Commissione, non vi 
è 
dubbio che 
un sistema 
di 
rendicontazione 
così 
semplificato, sia 
facilmente 
giustificabile 
nell'ambito di 
progetti 
gestiti 
direttamente 
dalla 
Commissione, 
ma 
diventi 
poco 
trasparente 
laddove 
i 
singoli 
Stati 
membri 
finanzino programmi 
di 
elevati 
importo senza 
potere procedere ad una puntuale e specifica verifica delle singole spese. 


d) In 
ragione 
della necessità di 
uniformare 
le 
procedure 
contabili 
e 
rendicontazione anche ai fini della più efficace azione amministrativa. 
L'impiego 
di 
diversi 
sistemi 
di 
rendicontazione 
e 
controllo 
in 
ordine 
al 
medesimo 
programma, 
inevitabilmente 
determina 
una 
maggiore 
difficoltà 
nelle 
procedure, con ciò rallentando, invece 
che 
semplificando, l'azione 
amministrativa. 
Una 
gradualità 
nell'intensità 
nel 
controllo, 
come 
detto, 
è 
prevista 
dalla 
regolamentazione 
UE 
solo in casi 
precisi 
e 
determinati, al 
di 
fuori 
dei 
quali non paiono giustificate ulteriori riduzione dei controlli. 


*** 


-II‑

Conclusioni del parere già reso. 


Espresso 
quanto 
sopra, 
questo 
G.U. 
rendeva 
il 
parere 
richiesto 
nel 
senso 
che: 


1. Si 
ritiene 
che 
le 
modalità 
di 
rendicontazione, monitoraggio e 
controllo 
dei 
programmi 
finanziati 
dal 
FAmI dovessero attenersi 
esclusivamente 
alla 
articolata e stringente disciplina prevista dai regolamenti ue. 
2. 
ove 
codesta 
AR 
fosse 
stata 
ancora 
sollecitata 
sia 
dall'oIm 
che 
dal 
UNHCR, in ordine 
all'adozione 
di 
procedure 
semplificate, avrebbe 
potuto ri

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


chiedere 
in via 
ufficiale 
una 
interpretazione 
autentica 
alla 
stessa 
Commissione 
al 
fine 
di 
chiarire 
la 
portata 
e 
il 
limite 
del 
FAFA, peraltro del 
tutto ammissibile 
in 
relazione 
alle 
dinamiche 
collaborative 
previste 
nella 
disciplina 
comunitaria citata. 


3. 
Per 
quanto 
concerne 
le 
procedure 
di 
rendicontazione 
richieste 
dal-
l'oIm, secondo le 
modalità 
già 
stabilite 
per gli 
interventi 
finanziati 
sui 
Fondi 
solId 
(Solidarietà 
e 
gestione 
dei 
flussi 
migratori) 2008 -2013 non parevano 
esserci 
preclusioni, 
laddove 
la 
rendicontazione 
avesse 
seguito 
le 
consuete 
modalità 
allora 
previste 
in sede 
regolamentare 
anche 
in considerazione 
del 
fatto 
che 
le 
stesse 
sono 
state 
avallate, 
come 
rappresentato 
con 
la 
nota 
a 
margine, 
sia 
dalla 
CE 
che 
dai 
successivi 
audit 
della 
Commissione 
Europea 
e 
della 
Corte 
dei Conti europea. 
4. Poiché 
in base 
all'art. 60 era 
previsto il 
riesame 
del 
regolamento del 
FamI 
n. 514 del 
2014, entro il 
30 giugno 2020, 
si 
suggeriva 
a 
codesta 
AR di 
attivarsi 
nel 
senso della 
apposizione 
di 
una 
disposizione 
chiarificatrice 
del 
regime 
di 
rendicontazione 
applicabile 
alle 
precitate 
organizzazioni 
Internazionali, 
e 
da 
inserire 
in 
modo 
chiaro 
ed 
univoco 
nelle 
singole 
Convenzioni 
di 
progetto. 
*** 


-IIISull'inapplicabilità 
del 
regime 
delle 
immunità 
alle 
organizzazioni 
in 
questione 
nella materia di cui è parere. 


Con la 
nota 
a 
margine 
viene 
riportata 
la 
posizione 
dei 
predetti 
organismi 
internazionali, che 
invocando tale 
status, e 
la 
conseguente 
immunità 
riconosciuta 
dalla 
Convenzione 
di 
New 
York, 
affermano 
che 
da 
questa 
discenderebbe 
l'inapplicabilità 
della 
normativa 
europea 
e 
italiana 
nella 
materia 
di 
cui 
è 
il 
parere. 


Non si ritiene che la prefata posizione sia giuridicamente corretta. 


Al 
fine 
di 
definire 
più correttamente 
la 
posizione 
degli 
enti 
in questione 
alla 
luce 
del 
diritto internazionale, pare 
opportuno soffermarsi 
con maggiore 
attenzione 
sulla 
tematica 
relativa 
all'applicabilità 
della 
Convenzione 
sui 
privilegi 
delle 
istituzioni 
specializzate, conclusa 
a 
New 
York il 
21 novembre 
1947, 
e 
sul 
relativo regime 
di 
specialità 
e 
di 
immunità 
dalla 
giurisdizione 
invocato 
dai medesimi. 


Sembra 
opportuno 
fare 
chiarezza 
sulla 
disciplina 
delle 
immunità 
delineata 
dalla 
Convenzione 
di 
New 
York e, più in generale, dagli 
ulteriori 
accordi 
in 
materia, nonché 
dal 
diritto consuetudinario, al 
fine 
di 
comprenderne 
la 
reale 
portata. 


Il 
diritto 
internazionale 
"classico", 
formatosi 
sulla 
convinzione 
di 
una 
assoluta 
parità 
tra 
gli 
Stati 
e 
di 
una 
conseguente 
omogeneità 
tra 
i 
membri 
della 
comunità 
internazionale, accoglieva 
un regime 
delle 
immunità definito c.d. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


"assoluto", in forza 
del 
quale, cioè, si 
escludeva 
in maniera 
radicale 
la 
possibilità 
di 
convenire 
in 
giudizio 
uno 
Stato 
straniero. 
L'assenza 
di 
qualsiasi 
forma 
di 
gerarchia 
nei 
rapporti 
tra 
gli 
Stati 
imponeva 
a 
ciascuno di 
astenersi 
dall'adottare 
atti 
autoritativi 
nei 
confronti 
di 
un altro Stato, che 
potessero risultare 
lesivi 
della 
propria 
sovranità; 
e 
ciò 
in 
virtù 
del 
principio 
di 
matrice 
consuetudinaria 
par in parem non habet iudicium. 


Progressivamente, 
col 
mutare 
del 
panorama 
internazionale 
e 
delle 
funzioni 
assunte 
nel 
tempo dagli 
Stati, il 
principio di 
immunità 
assoluta 
ha 
finito 
col 
rappresentare 
un 
mero 
retaggio 
storico. 
Soprattutto 
dal 
momento 
in 
cui 
gli 
Stati, 
a 
partire 
dalla 
seconda 
metà 
del 
Novecento, 
hanno 
acquisito 
un 
ruolo 
protagonista 
nell'ambito dei 
rapporti 
privatistici 
e 
delle 
transazioni 
commerciali, 
per cui è parso necessario restringere il perimetro delle attività esenti. 


Si 
è 
così 
formata 
una 
prassi 
consuetudinaria, 
di 
seguito 
recepita 
dalla 
Convenzione 
delle 
nazioni 
unite 
sulle 
immunità giurisdizionali 
degli 
stati 
e 
dei 
loro beni 
(11) del 
2004, la 
quale 
ha 
posto l'accento sulla 
necessaria 
distinzione 
da 
operare 
tra 
attività 
iure 
imperii 
ed attività 
iure 
gestionis 
di 
uno Stato. 


In 
particolare, 
in 
base 
alla 
c.d. 
teoria 
della 
immunità 
ristretta 
o 
relativa, 
solo 
le 
attività 
poste 
in 
essere 
da 
uno 
Stato 
nell'esercizio 
delle 
funzioni 
sovrane 
sarebbero 
radicalmente 
escluse 
da 
ogni 
interferenza 
esterna, 
e 
dunque 
per 
esse 
opera il regime di immunità (atti 
iure imperii) (12). 


Viceversa, ogniqualvolta 
lo Stato opera 
al 
pari 
dei 
privati, e 
dunque, ad 
esempio, nell'ambito delle 
attività 
commerciali 
o di 
emissione 
dei 
prestiti 
obbligazionari, 
le 
attività 
poste 
in 
essere 
(atti 
iure 
gestionis) 
sono 
assoggettabili 
al sindacato giurisdizionale altrui (13). 


La 
rilevanza, 
quale 
principio 
comunemente 
accolto 
dal 
diritto 
internazionale, 
della 
distinzione 
tra 
attività 
che 
esprimono l'esercizio dei 
poteri 
sovrani 
ed 
attività 
iure 
gestionis 
per 
le 
quali 
l'immunità 
non 
può 
essere 
invocata, 
è 


(11) l'art. 5 
della 
Convenzione 
sancisce 
in via 
generale 
il 
principio dell'immunità 
dalla 
giurisdizione 
degli 
Stati, fatte 
salve, però, «le 
disposizioni 
della presente 
Convenzione». La 
Convenzione, 
nella 
Parte 
terza (artt. 10-17), individua 
una 
serie 
di 
attività 
per le 
quali 
non opera 
la 
regola 
dell'immunità, 
e 
dunque 
a 
causa 
dell'esercizio delle 
quali 
lo Stato può essere 
sottoposto all'altrui 
giurisdizione. 
Tra 
queste 
sono annoverate, ad esempio, le 
transazioni 
commerciali 
(art. 10), i 
rapporti 
di 
lavoro (art. 
11), la 
partecipazione 
ad una 
società 
o ad un gruppo di 
società 
aventi 
sede 
o essendosi 
costituiti 
nel 
territorio 
dello Stato del foro (art. 15). 
(12) 
Siffatto 
regime, 
almeno 
fino 
alla 
sentenza 
n. 
5004 
del 
2004 
(Ferrini) 
della 
Corte 
di 
cassazione 
italiana, è 
stato considerato applicabile 
nel 
caso di 
danni 
causati 
da 
azioni 
belliche. Tuttavia, si 
segnala 
un'inversione 
di 
tendenza, la 
quale 
è 
stata 
inaugurata 
dalla 
sentenza Ferrini 
-e 
recentemente 
sembra 
essere 
riaffiorata 
per 
mezzo 
della 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 
238 
del 
2014 
-con 
cui 
si 
è 
negata 
la 
possibilità 
di 
invocare 
la 
norma 
sull'immunità 
anche 
per gli 
atti 
compiuti 
dallo Stato nell'esercizio di 
poteri 
sovrani, quale 
appunto è 
il 
caso dei 
danni 
causati 
dalla 
commissione 
di 
crimini 
internazionali 
durante 
la 
Seconda 
guerra 
mondiale, laddove 
l'operatività 
di 
tale 
prassi 
si 
ponga 
in contrasto con la 
tutela 
costituzionale dei diritti inviolabili della persona, che operano perciò come controlimiti. 
(13) Principio, altresì, condiviso dalla 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione 
europea 
la 
quale, nella 
sentenza 
C. giust. 19-7-2012, causa C-154/11, mahamdia, ha 
confermato che 
l'immunità 
opera 
esclusivamente 
per determinate attività, che sono sostanzialmente qualificabili come 
atti di governo. 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


stata 
recentemente 
riaffermata 
dalle 
sezioni 
unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
italiana, nella 
sentenza n. 28180 del 2020: 


«Il 
principio 
di 
diritto 
internazionale 
consuetudinario 
sull'immunità 
dalla 
giurisdizione 
civile 
degli 
stati 
esteri 
("par 
in 
parem 
non 
habet 
imperium") 
non 
ha valore 
assoluto ma trova operatività esclusivamente 
con riferimento agli 
atti 
compiuti 
"iure 
imperii 
", 
che 
costituiscono 
estrinsecazione 
della 
sovranità 
propria della potestà politica. 


[...] la nozione 
di 
immunità rileva solo quando la controversia riguardi 
"atti 
di 
sovranità compiuti 
iure 
imperii", per 
modo che, contemporaneamente 
e 
di 
contro, ogni 
affermazione 
di 
immunità deve 
essere 
esclusa tutte 
le 
volte 
in 
cui 
la 
domanda 
verta 
su 
atti 
(ovvero 
sulle 
conseguenze 
di 
atti) 
che 
in 
quella 
specifica nozione non rientrino» (14). 


Sempre 
negli 
ultimi 
anni, la 
Corte 
di 
giustizia 
UE, nell'esplicitare 
le 
interferenze 
intercorrenti 
tra 
le 
attività 
di 
classificazione 
e 
di 
certificazione 
di 
navi 
per conto e 
su delega 
di 
uno Stato sovrano e 
la 
nozione 
di 
"materia 
civile 
e 
commerciale" 
finalizzata 
all'applicazione 
del 
Regolamento 
UE 
n. 
44 
del 
2001, al 
fine 
di 
definire 
più correttamente 
le 
attività 
"di 
diritto privato e 
commerciale" 
per le quali non opera l'immunità, ha precisato che: 


«l'art. 1, paragrafo 1, del 
regolamento n. 44/2001 deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso che 
un ricorso per 
risarcimento danni 
proposto contro persone 
giuridiche 
di 
diritto privato che 
esercitano un'attività di 
classificazione 
e 
di 
certificazione 
di 
navi 
per 
conto 
e 
su 
delega 
di 
uno 
stato 
terzo 
rientra 
nella 
nozione 
di 
"materia civile 
e 
commerciale" 
ai 
sensi 
di 
tale 
disposizione 
e, di 
conseguenza, 
nell'ambito 
di 
applicazione 
di 
tale 
regolamento, 
qualora 
tale 
attività 
non sia esercitata in forza di 
prerogative 
dei 
pubblici 
poteri 
ai 
sensi 
del 
diritto 
dell'unione, 
circostanza 
che 
spetta 
al 
giudice 
del 
rinvio 
valutare. 
Il 
principio di 
diritto internazionale 
consuetudinario sull'immunità giurisdizionale 
non osta all'esercizio, da parte 
del 
giudice 
nazionale 
adito, della competenza 
giurisdizionale 
prevista 
da 
detto 
regolamento 
in 
una 
controversia 
relativa 
a 
un 
siffatto 
ricorso, 
qualora 
detto 
giudice 
constati 
che 
tali 
organismi 
non 
si 
sono avvalsi 
delle 
prerogative 
dei 
pubblici 
poteri 
ai 
sensi 
del 
diritto 
internazionale 
». 


Valutazione 
che, pertanto, spetta 
al 
giudice 
adito caso per caso, in considerazione 
del 
fatto che 
si 
tratti 
o meno di 
«poteri 
definiti 
in tutti 
i 
loro aspetti 
dal 
quadro normativo nazionale 
[...] 
riconducibili 
all'autonomia decisionale 
propria dell'esercizio di 
prerogative 
dei 
pubblici 
poteri» (C. giust. 12 dicembre 
2013, in causa C-327/12). 


(14) Nella 
specie, la 
Suprema 
Corte, cassando la 
sentenza 
di 
merito che 
aveva 
dichiarato l'immunità 
dalla 
giurisdizione 
italiana 
di 
una 
organizzazione 
riconosciuta 
di 
Stato estero delegata 
a 
svolgere 
attività 
di 
classificazione 
e 
certificazione 
di 
navi, ha 
escluso l'operatività 
dell'immunità 
giurisdizionale 
rispetto a 
tali 
attività, le 
quali 
non comportano un potere 
decisionale 
avulso dal 
quadro normativo, di 
fonte eminentemente internazionale, predefinito a garantire le condizioni di sicurezza in mare. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Accanto alle 
immunità 
di 
tipo assoluto e 
relativo, la 
prassi 
internazionale 
conosce 
una 
serie 
di 
immunità 
riconosciute 
a 
persone 
o ad organizzazioni 
internazionali 
nell'esercizio delle loro funzioni (immunità funzionale). 


In particolare, la 
Convenzione 
di 
Vienna 
sulle 
relazioni 
diplomatiche 
del 
1961 
distingue 
tra 
immunità 
spettanti 
alla 
missione 
diplomatica 
e 
ai 
suoi 
membri 
proprio nell'ambito dell'esercizio della 
funzione 
diplomatica 
(ratione 
materiae), 
ed immunità 
personali 
le 
quali, pertanto, sono riconducibili 
al 
singolo 
individuo 
proprio 
in 
virtù 
dell'incarico 
e 
della 
funzione 
ricoperta 
(ratione 
personae). 


Una 
particolare 
categoria 
di 
immunità 
funzionale 
è 
quella 
riconosciuta 
dall'art. 
105 
della 
Carta 
delle 
nazioni 
unite 
all'organizzazione 
delle 
Nazioni 
Unite, 
nonché 
ai 
rappresentanti 
dei 
membri 
delle 
Nazioni 
Unite 
e 
ai 
funzionari 
dell'organizzazione. 


Al 
di 
là 
dell'immunità 
riconosciuta 
ai 
rappresentanti 
dei 
membri 
dell'oNU 
e 
ai 
funzionari 
dell'organizzazione 
(comma 
2), 
appare 
dirimente, 
con 
riguardo 
alla 
tematica 
in oggetto, valutare 
l'applicabilità 
o meno del 
comma 
1 della 
disposizione 
agli 
enti 
riconducibili 
all'organizzazione 
delle 
Nazioni 
Unite, 
e 
dunque all'oIm e all'UNHCR. 


Ai 
sensi 
dell'art. 105, primo comma, "l'organizzazione 
gode, nel 
territorio 
di 
ciascuno 
dei 
suoi 
membri, 
dei 
privilegi 
e 
delle 
immunità 
necessari 
per il 
conseguimento dei suoi fini". 


L'immunità 
riconosciuta 
in 
capo 
alla 
predetta 
organizzazione, 
all'interno 
del 
territorio 
dei 
propri 
membri, 
è 
chiaramente 
strumentale 
al 
raggiungimento 
degli 
scopi 
dell'organizzazione 
medesima. Ciò significa 
che 
essa 
ha 
ragione 
di 
essere 
riconosciuta 
per tutte 
le 
attività 
che 
appaiono necessarie 
a 
realizzare 
uno degli obiettivi indicati nello Statuto. 


La 
Carta 
delle 
Nazioni 
Unite 
ha, 
pertanto, 
indicato 
in 
maniera 
chiara 
e 
dettagliata 
i 
fini 
(art. 
1) 
ed 
i 
principi 
(art. 
2) 
sui 
quali 
si 
fonda 
l'organizzazione. 


Per esigenze di chiarezza se ne riporta il contenuto: 


articolo 1 


I fini delle nazioni unite sono: 


1. 
mantenere 
la 
pace 
e 
la 
sicurezza 
internazionale, 
ed 
a 
questo 
scopo: 
prendere 
efficaci 
misure 
collettive 
per 
prevenire 
e 
rimuovere 
le 
minacce 
alla 
pace 
e 
per 
reprimere 
gli 
atti 
di 
aggressione 
o le 
altre 
violazioni 
della pace, e 
conseguire 
con 
mezzi 
pacifici, 
ed 
in 
conformità 
ai 
principi 
della 
giustizia 
e 
del 
diritto internazionale, la composizione 
o la soluzione 
delle 
controversie 
o 
delle 
situazioni 
internazionali 
che 
potrebbero portare 
ad una violazione 
della 
pace; 
2. 
sviluppare 
tra 
le 
nazioni 
relazioni 
amichevoli 
fondate 
sul 
rispetto 
e 
sul 
principio 
dell'eguaglianza 
dei 
diritti 
e 
dell'auto-determinazione 
dei 
popoli 
e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale; 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


3. 
Conseguire 
la 
cooperazione 
internazionale 
nella 
soluzione 
dei 
problemi 
internazionali 
di 
carattere 
economico, 
sociale 
culturale 
od 
umanitario 
e 
nel 
promuovere 
ed 
incoraggiare 
il 
rispetto 
dei 
diritti 
dell'uomo 
e 
delle 
libertà 
fondamentali 
per 
tutti 
senza 
distinzioni 
di 
razza, 
di 
sesso, 
di 
lingua 
o 
di 
religione; 
4. 
Costituire 
un 
centro 
per 
il 
coordinamento 
dell'attività 
delle 
nazioni 
volta al conseguimento di questi fini comuni. 
In attuazione 
dei 
suddetti 
principi 
e 
finalità, l'Assemblea 
Generale 
delle 
Nazioni 
Unite 
ha 
adottato 
le 
Convenzioni 
generali 
sulle 
immunità 
e 
i 
privilegi 
dell'oNU 
e 
degli 
istituti 
specializzati 
(del 
13 
febbraio 
1946 
e 
del 
21 
novembre 
1947), le 
quali 
sono state 
per l'appunto invocate 
dalla 
controparte 
nella 
fattispecie 
di 
odierna 
trattazione, al 
fine 
di 
poter beneficiare 
del 
regime 
di 
immunità 
e privilegi in esse contenuto. 


Tali 
convenzioni 
sono state 
ratificate, rispettivamente, con legge 
20 dicembre 
1957 n. 1318 e 
con legge 
24 luglio 1951 n. 1740. La 
convenzione 
del 
1947, come 
risulta 
dal 
suo preambolo, ha 
inteso unificare 
il 
regime 
delle 
immunità 
delle 
istituzioni 
specializzate 
e 
quello dell'oNU, stabilito invece 
dalla 
convenzione del 1946. 


Stando, 
dunque, 
al 
tenore 
testuale 
della 
convenzione 
del 
1947 
(art. 
I) 
le 
immunità 
si 
applicano 
alle 
seguenti 
istituzioni 
specializzate: 
"a) 
l'organizzazione 
Internazionale 
del 
lavoro, 
b) 
l'organizzazione 
delle 
nazioni 
unite 
per 
l'alimentazione 
e 
l'agricoltura, 
c) 
l'organizzazione 
delle 
nazioni 
unite 
per 
l'educazione, 
la 
scienza 
e 
la 
Cultura, 
d) 
l'organizzazione 
dell'aviazione 
civile 
internazionale, 
e) 
il 
Fondo 
monetario 
internazionale, 
f) 
la 
Banca 
internazionale 
per 
la 
ricostruzione 
e 
lo 
sviluppo, 
g) 
l'organizzazione 
mondiale 
della 
sanità, 
h) 
l'unione 
postale 
universale, 
i) 
l'unione 
internazionale 
delle 
telecomunicazioni". 
Tra 
queste 
non 
figurano 
l'oIm 
e 
I'UNHCR. 


Tuttavia, 
l'art. 
1 
prevede 
che 
la 
convenzione 
si 
applica 
a, 
"j) 
qualsiasi 
altra 
istituzione 
collegata 
all'organizzazione 
delle 
nazioni 
unite 
ai 
sensi 
degli 
articoli 57 e 63 dello statuto". 


A 
questo 
riguardo 
si 
osserva 
che 
l'UNHCR 
non 
sembra 
riconducibile 
alle 
figure 
contemplate 
nell'art. 57, che 
sono soltanto "I vari 
istituti 
specializzati 
costituiti 
con 
accordi 
intergovernativi 
ed 
aventi, 
in 
conformità 
ai 
loro 
statuti, 
vasti 
compiti 
internazionali 
nei 
campi 
economico, sociale, culturale, educativo, 
sanitario e 
simili 
sono collegati 
con 
le 
Nazioni 
Unite 
in 
conformità alle 
disposizioni dell'articolo 63". 


L'UNHCR 
fu, 
infatti, 
costituito 
non 
con 
un 
accordo 
intergovernativo, 
bensì 
direttamente 
dall'Assemblea 
Generale 
delle 
Nazioni 
Unite 
con 
deliberazione 
del 
14 
dicembre 
1950. 
Neppure 
risulta 
che 
l'oNU, 
nei 
confronti 
dell'UNHCR, 
abbia, 
come 
previsto 
dall'art. 
63 
per 
le 
organizzazioni 
intergovernative, 
ritenuto 
di 
concludere 
"accordi 
con 
qualsiasi 
istituto 
di 
quelli 
indicati 
all'articolo 
57 
per 
definire 
le 
condizioni 
in 
base 
alle 
quali 
l'istituto 
considerato 
sarà 
collegato 
con 
le 
nazioni 
unite". 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Sembra, quindi, che 
l'UNHCR costituisca 
un organo direttamente 
incardinato 
nell'oNU; 
sicché 
le 
immunità 
da 
riconoscere 
a 
questa 
entità 
vanno determinate 
applicando direttamente la convenzione del 1946. 


Discorso diverso va fatto per l'oIm. 


Questa 
venne 
costituita 
il 
5 
dicembre 
1951 
da 
un 
accordo 
intergovernativo 
stipulato 
a 
Bruxelles 
al 
di 
fuori 
dell'oNU, 
come 
Comitato 
intergovernativo 
per la 
migrazione 
europea, ratificato con legge 
22 febbraio 1968 n. 441. Assunse 
successivamente 
la 
denominazione 
di 
organizzazione 
internazionale 
della 
migrazione. 
Soltanto 
dal 
settembre 
2016 
l'oIm 
è 
entrata 
nel 
sistema 
oNU 
diventando Agenzia 
Collegata 
alle 
Nazioni 
Unite 
ai 
sensi 
degli 
artt. 57 
e 63 dello Statuto dell'oNU sopra richiamati. 


Il 
regime 
delle 
immunità 
riconoscibili 
all'UNHCR è 
posto, quindi, come 
detto, dalla Convenzione del 1946. 


L'art. 1 di 
questa 
prevede 
nelle 
Sezioni 
2, 3 e 
5: 
"Sezione 
2 
l'organizzazione, 
con i 
suoi 
beni 
e 
averi, indipendentemente 
dal 
luogo in cui 
si 
trovano e 
dal 
loro 
detentore, 
gode 
dell'immunità 
di 
giurisdizione, 
salvo 
esplicita 
rinuncia 
dell'organizzazione 
a tale 
immunità in un caso particolare. resta tuttavia inteso 
che 
tale 
rinuncia non può estendersi 
alle 
misure 
esecutive. Sezione 
3 
I 
locali 
dell'organizzazione 
sono inviolabili. I suoi 
beni 
e 
averi, indipendentemente 
dal 
luogo in cui 
si 
trovano e 
dal 
loro detentore, sono esenti 
da perquisizioni, 
requisizioni, 
confische, 
espropriazioni 
e 
qualsiasi 
altra 
forma 
di 
coercizione 
esecutiva, 
amministrativa, 
giudiziaria 
o 
legislativa. 
Sezione 
5 
senza essere 
sottoposta ad alcun controllo, regolamento o moratoria finanziaria, 
l'organizzazione 
può: a) possedere 
fondi, oro o divise 
di 
qualsiasi 
natura 
e 
avere 
conti 
in qualsiasi 
moneta; b) trasferire 
liberamente, da un Paese 
a un altro o all'interno di 
un qualsiasi 
Paese, i 
fondi, l'oro o le 
divise 
in suo 
possesso e convertire queste ultime in qualsiasi altra moneta". 


Come 
si 
vede, si 
tratta 
di 
immunità 
strettamente 
riferite 
al 
possesso e 
alla 
gestione 
dei 
beni 
in proprietà 
dell'organizzazione. Esse, quindi, non possono 
essere 
invocate 
al 
ben diverso fine, assolutamente 
non considerato dalla 
convenzione, 
di 
sottrarre 
l'organizzazione 
ai 
controlli 
sull'impiego 
che 
essa 
faccia 
di 
risorse 
finanziarie 
non 
proprie 
bensì 
concessele 
da 
uno 
Stato 
contraente 
per 
un 
fine 
specifico 
di 
interesse 
comune 
a 
tale 
Stato 
e 
all'organizzazione, 
la 
quale 
accetta, in sostanza, di agire come "longa manus" dello Stato in questione. 


Sembra, quindi, che 
sia 
infondata 
la 
pretesa 
dell'UNHCR di 
considerare 
illegittimi 
i 
controlli 
sulla 
gestione 
dei 
fondi 
FAmI da 
parte 
dell'autorità 
italiana, 
basandosi sulle sue immunità convenzionali. 


Peraltro, dagli 
atti 
trasmessi 
non risulta 
che 
l'UNHCR abbia 
assunto tale 
posizione. 


Posizione che, invece, è stata assunta dall'oIm. 


Venendo al 
regime 
di 
questa, si 
osserva 
che 
la 
convenzione 
istitutiva 
del 
1951, sopra 
ricordata, prevede 
soltanto, in tema 
di 
immunità, che 
"1. The 
or



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


ganization 
shall 
enjoy 
such 
privileges 
and 
immunities 
as 
are 
necessary 
for 
the 
exercise 
of 
its 
functions 
and the 
fulfilment 
of 
its 
purposes. (...) 3. These 
privileges 
and 
immunities 
shall 
be 
defined 
in 
agreements 
between 
the 
organization 
and 
the 
states 
concerned 
or 
through 
other 
measures 
taken 
by 
these 
states" 
(art. 23, paragrafi 1 e 3). 


Vi 
è, 
quindi, 
una 
chiara 
affermazione 
di 
immunità 
meramente 
funzionale, 
alla 
stregua 
dell'art. 
105 
della 
Carta 
dell'oNU; 
e 
non 
risultano 
accordi 
specifici 
tra lo Stato italiano e l'oIm conclusi ai sensi del paragrafo 3. 


Peraltro, 
come 
detto, 
a 
partire 
dal 
settembre 
2016 
l'oIm 
è 
divenuta 
un 
ente collegato all'oNU ai sensi degli artt. 57 e 63 dello Statuto oNU. 


Potrebbe, 
quindi, 
ritenersi 
che 
all'oIm 
si 
applichi 
dal 
settembre 
2016 
anche la convenzione del 1947. 


Peraltro, l'art. III di 
questa, nelle 
Sezioni 
4, 5, 7 riproduce 
testualmente, 
riferendole 
alle 
istituzioni 
specializzate, le 
disposizioni 
dell'art. I, Sezioni 
2, 
3, 5 della convenzione del 1946 relativa all'oNU, sopra riportate. 


Valgono, quindi, anche 
per l'oIm 
le 
considerazioni 
ivi 
fatte 
a 
proposito 
dell'infondatezza del richiamo a tali disposizioni. 


Questo excursus 
conferma 
quanto poc'anzi 
affermato, vale 
a 
dire 
che 
la 
questione 
va 
risolta 
alla 
luce 
del 
concetto di 
immunità 
meramente 
funzionale. 
Anche 
le 
Convenzioni 
del 
1946 e 
del 
1947, in quanto attuative 
del 
disposto 
dell'art. 105 Carta 
oNU, a 
volerle 
ritenere 
applicabili, andrebbero lette 
nella 
cornice 
dei 
principi 
e, soprattutto, delle 
finalità 
indicate 
nella 
Carta, le 
quali 
costituiscono 
i 
criteri 
interpretativi 
ai 
fini 
di 
una 
loro 
corretta 
applicazione. 
Alla 
luce 
dei 
citati 
scopi, 
indicati 
dall'art. 
1 
della 
Carta 
oNU 
-per 
il 
rinvio 
operato dall'art. 105 -non sembra 
possa 
farsi 
applicazione 
del 
prefato sistema 
contenuto nelle 
Convenzioni, atteso che 
certamente 
gli 
enti 
in questione 
non 
operano 
all'interno 
del 
territorio 
nazionale 
per 
il 
conseguimento 
dei 
fini 
propri 
dell'organizzazione delle Nazioni Unite indicati dall'art. 1. 


In 
sostanza, 
a 
parere 
della 
Scrivente, 
l'applicazione 
di 
un 
regime 
di 
rendicontazione 
privilegiato 
(o 
meglio, 
di 
sottrazione 
a 
qualsiasi 
controllo 
dell'autorità 
nazionale 
responsabile) 
non 
troverebbe 
alcuna 
giustificazione 
nell'esigenza 
di 
garantire 
il 
conseguimento 
degli 
obiettivi 
dell'oNU 
indicati 
dalla 
Carta 
delle 
Nazioni 
Unite 
(immunità 
funzionale), 
e 
dunque 
sarebbe 
privo 
di 
qualsivoglia 
fondamento 
pattizio 
e 
consuetudinario 
e, 
pertanto, 
ingiustificato. 


Peraltro, 
qualora 
si 
insistesse 
nel 
ritenere 
applicabili 
le 
norme 
convenzionali 
sulle 
immunità 
sopra 
illustrate, dovrebbe 
anche 
tenersi 
conto delle 
Sezioni, 
rispettivamente, 6 dell'art. I della 
convenzione 
del 
1946 e 
8 dell'art. III 
della 
convenzione 
del 
1947, i 
quali, con formulazione 
sostanzialmente 
identica, 
dispongono: 
"Sezione 
8 
nell'esercizio 
dei 
diritti 
concessi 
loro 
in 
virtù 
della sezione 
7 di 
cui 
sopra, ogni 
istituzione 
specializzata tiene 
conto di 
qualsiasi 
esigenza 
presentatale 
dal 
Governo 
di 
uno 
stato 
Parte 
della 
presente 
Con



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


venzione, nella misura in cui 
ritenga di 
potervi 
adempiere 
senza pregiudicare 
i 
propri 
interessi". Vi 
è 
quindi 
un obbligo convenzionale 
delle 
organizzazioni 
di 
accettare 
ogni 
limitazione 
delle 
immunità 
che 
serva 
a 
soddisfare 
esigenze 
obiettive 
dello Stato contraente 
e 
che 
non pregiudichi 
gli 
interessi 
dell'organizzazione 
stessa. 


Questa 
previsione 
potrebbe 
essere 
applicata 
al 
caso qui 
in esame, in cui 
l'esigenza 
dello Stato di 
non incorrere 
in censure 
da 
parte 
della 
Commissione 
europea 
è 
obiettiva, 
e 
lo 
svolgimento 
dei 
controlli 
risponde 
anche 
agli 
interessi 
delle 
organizzazioni 
internazionali 
in 
quanto 
consente 
proprio 
il 
migliore 
conseguimento 
dei 
loro scopi 
istituzionali, in vista 
dei 
quali 
esse 
hanno ottenuto 
il finanziamento da parte del FAmI. 


Tantomeno potrebbe 
invocarsi 
il 
regime 
di 
immunità 
assoluta 
o relativa 
per le 
organizzazioni 
in oggetto che, come 
si 
è 
avuto modo di 
precisare 
diffusamente, 
trova applicazione esclusivamente per gli Stati. 


In concreto, naturalmente, ci 
si 
potrebbe 
scontrare 
con l'incoercibilità 
di 
un eventuale 
rifiuto delle 
organizzazioni 
di 
consentire 
i 
controlli 
di 
gestione 
dell'autorità 
nazionale 
responsabile. Anche 
esclusa 
l'immunità 
dalla 
giurisdizione 
alla 
stregua 
delle 
considerazioni 
sopra 
svolte, eventuali 
provvedimenti 
giurisdizionali 
che 
volessero sottoporre 
le 
organizzazioni 
ai 
controlli 
in questione 
potrebbero risultare all'atto pratico non eseguibili. 


In tali 
ipotesi, l'autorità 
responsabile 
dovrebbe 
valutare 
la 
possibilità 
di 
rettificare 
il 
concorso del 
FAmI ai 
progetti 
di 
cui 
le 
organizzazioni 
siano beneficiarie 
finali 
ma 
in ordine 
ai 
quali 
rifiutino di 
consentire 
i 
controlli 
regolamentari, 
sospendendo le 
ulteriori 
erogazioni 
e 
recuperando quelle 
effettuate. 
L'impossibilità 
di 
un regolare 
controllo sulla 
gestione 
del 
beneficiario finale 
è, infatti, equiparabile ad una gestione scorretta dei fondi a questi affidati. 


Ciò 
allo 
scopo 
di 
prevenire 
rettifiche 
da 
parte 
della 
Commissione 
a 
carico 
dello 
Stato 
per 
non 
avere 
assicurato 
un 
regolare 
controllo 
sull'utilizzo 
dei 
fondi 
FAmI da parte dei beneficiari in questione. 


*** 


Ciò 
rappresentato 
a 
titolo 
di 
inquadramento 
strettamente 
tecnico-giuridico, 
la 
Scrivente 
ravvisa 
nella 
questione 
nuovamente 
sottoposta 
a 
questo 
G.U., 
profili 
di 
natura 
prettamente 
politica 
che 
potrebbero 
non 
trovare 
una 
soluzione 
sotto 
il 
mero 
profilo 
tecnico-giuridico 
e 
che 
attengono, 
nella 
sostanza, 
alla qualità dei rapporti tra Stato e organizzazioni Internazionali. 


I 
risvolti 
di 
natura 
politica, 
con 
la 
conseguente 
necessità 
di 
mantenere 
una 
collaborazione 
attiva 
con gli 
organismi 
internazionali 
coinvolti 
nella 
gestione 
dei 
Fondi 
Fami, possono suggerire, considerata 
la 
rilevanza 
internazionale 
dei 
predetti 
organismi, di 
adottare 
protocolli 
speciali, in considerazione 
della 
peculiarità 
dei 
soggetti, 
a 
seguito 
di 
un'interlocuzione 
formale 
con 
la 
Commissione, 
nei 
quali 
si 
faccia 
riferimento 
alla 
disciplina 
derogatoria 
prevista 
a 
favore 
di 
organismi 
internazionali, sia 
in quanto tali, che, in alternativa, in 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


virtù 
dell'applicazione 
soggettiva 
del 
predetto 
FAFA 
anche 
in 
relazione 
ai 
progetti 
gestiti dai singoli Stati con il FAmI. 


Nulla, infatti, vieta 
ai 
singoli 
Stati 
di 
aderire 
a 
convenzioni 
già 
in atto tra 
UE e organizzazioni laddove non in contrasto con gli interessi degli stessi. 


Nel 
caso 
di 
specie, 
peraltro, 
le 
forme 
di 
controllo 
e 
contabilità 
ritenute 
adeguate 
nei 
rapporti 
tra 
UE 
e 
organismi 
facenti 
capo all'oNU, grazie 
al 
trattato 
FAFA, ben potrebbero essere 
estese 
anche 
ai 
singoli 
Stati 
che 
ritengano 
di farne applicazione. 


Una 
volta 
adottati, ne 
conseguirebbe 
il 
venir meno anche 
della 
responsabilità 
amministrativo-contabile 
dei 
soggetti 
coinvolti 
ed erogatori 
dei 
finanziamenti, 
secondo le procedure speciali contemplate dai prefati protocolli. 


Trattandosi 
di 
questione 
di 
massima 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
dell'Avvocatura dello Stato che, nella seduta del 30 aprile 2021, si è espresso 
in conformità. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Istanza 
di 
riapertura 
di 
procedimento 
disciplinare, 
ai 
sensi 
dell'art. 
1393, 
co. 
2, 
d.lgs. 
n. 
66 
del 
15 
marzo 
2010 
(Codice 
dell’ordinamento 
militare): 
disamina 
sui 
vari 
profili 
giuridici 


Parere 
del 
12/05/2021-300713, al 26457/2020, avv. enrICo 
de 
GIovannI 


Codesta 
Direzione 
Generale 
ha 
chiesto un parere 
in merito alla 
vicenda 
riguardante l'allora C.le magg. Sc. omissis, rappresentando quanto segue. 


Il 
"Tribunale 
di 
Pisa, con sentenza n. 212/2012 in data 24 maggio 2012, 
divenuta irrevocabile 
il 
10 luglio 2012, applicava all’omissis 
la pena di 
anni 
uno e 
mesi 
quattro di 
reclusione 
ed euro 4.000,00 di 
multa, in ordine 
al 
reato 
di 
"produzione, traffico e 
detenzione 
illecita di 
sostanze 
stupefacenti"; 
si 
precisa 
che trattasi di sentenza patteggiata. 


Sotto il 
profilo disciplinare, il 
Graduato venne 
quindi 
sanzionato con la 
perdita 
del 
grado 
per 
rimozione, 
inflittagli 
con 
decreto 
n. 
417/I-3/2013 
in 
data 
8 agosto 2013. Avverso tale 
decreto l'omissis 
propose 
ricorso al 
T.A.R. per la 
Toscana, 
che 
lo 
respinse 
con 
sentenza 
n. 
275/2014 
del 
5 
febbraio 
2014, 
avverso 
la 
quale 
egli 
propose 
ricorso in appello al 
Consiglio di 
Stato. Il 
Consiglio di 
Stato, con ordinanza 
n. 2115/2014 del 
20 maggio 2014, rigettò la 
richiesta 
di 
sospensione 
cautelare 
della 
sentenza 
impugnata, mentre 
il 
merito dell'impugnazione 
non 
fu 
deciso, 
e 
anzi, 
con 
decreto 
in 
data 
24 
settembre 
2020 
il 
ricorso 
in appello fu dichiarato perento per inattività. 


Sotto 
il 
profilo 
penale, 
tuttavia, 
con 
sentenza 
n. 
14590/2015 
del 
7 
gennaio 
2015, la 
Corte 
di 
Cassazione, adita 
dall'omissis 
ex 
art. 606 lett. c) c.p.p. per 
violazione 
del 
diritto di 
difesa 
dovuto alla 
mancata 
convocazione 
dell'imputato, 
accoglieva 
il 
ricorso e 
annullava 
la 
citata 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Pisa, 
rimettendo 
gli 
atti 
del 
processo 
al 
medesimo 
Tribunale. 
Quest'ultimo, 
con 
sentenza 
n. 488/18 del 
16 marzo 2018, divenuta 
irrevocabile 
il 
15 ottobre 
2019, 
ha 
ritenuto 
che 
“all'esito 
dell'istruttoria 
dibattimentale, 
a 
parere 
di 
questo 
giudicante, 
non è 
emersa la prova della penale 
responsabilità di 
omissis", e 
di 
conseguenza 
ha 
assolto il 
militare 
"per 
non aver 
commesso il 
fatto" 
ai 
sensi 
dell'art. 530 secondo comma c.p.p. 


Alla 
luce 
di 
tale 
pronuncia 
liberatoria, 
l'omissis 
ha 
proposto 
istanza 
di 
riapertura 
del 
procedimento disciplinare, ai 
sensi 
dell'art. 1393, comma 
2, d.lgs. 
n. 66 del 15 marzo 2010. 


A 
tal 
riguardo, codesta 
Amministrazione 
ritiene, da 
un lato, che 
l'operato 
degli 
organi 
disciplinari 
che 
ha 
portato 
all'emanazione 
dell'atto 
di 
destituzione 
impugnato non risulti 
affetto da 
criticità 
e, dall'altro lato, che 
l'istanza 
in questione 
sia 
da 
considerare 
inammissibile, in quanto con essa 
si 
invoca 
l'applicazione 
di 
un 
istituto 
non 
vigente 
all'epoca 
dei 
fatti 
e 
del 
relativo 
procedimento 
disciplinare. 


Codesta 
Direzione 
Generale, 
peraltro, 
tenuto 
conto 
di 
quanto 
disposto 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


dall'art. 
653 
c.p.p. 
e 
ritenuto 
che 
ragioni 
di 
giustizia 
suggeriscano 
l'opportunità 
di 
riconsiderare 
il 
caso 
nella 
prospettiva 
di 
massima 
garanzia 
possibile 
per 
l'interessato (che 
ha 
subito una 
destituzione 
a 
seguito dell'esito sfavorevole 
di 
un processo penale, successivamente 
sovvertito con sentenza 
di 
assoluzione), 
prospetta, per un verso, l'impossibilità 
di 
ritenere 
il 
provvedimento amministrativo 
disciplinare 
in 
questione 
affetto 
da 
nullità 
o 
annullabilità 
(artt. 
21 
septies 
e 
21 
octies 
legge 
n. 
241 
del 
1990); 
per 
altro 
verso, 
la 
possibilità 
di 
inquadrare 
la 
fattispecie 
nel 
concetto di 
revocabilità 
dell'atto amministrativo 
per mutamento della 
situazione 
di 
fatto, ai 
sensi 
dell'art. 21 quinquies 
legge 
n. 
241 del 1990, con conseguente riammissione in servizio dell'omissis. 


Da 
ultimo, codesta 
Direzione 
Generale 
rappresenta 
che 
l'art. 1394 d.lgs. 


n. 
66 
del 
2010, 
recante 
"ricostruzione 
di 
carriera", 
non 
sembrerebbe 
poter 
trovare 
applicazione 
nella 
vicenda 
in esame, evidenziando come 
l'eventuale 
revoca 
del 
provvedimento disciplinare 
non configurerebbe 
nessuna 
delle 
ipotesi 
contemplate da tale disposizione. 
Questa 
Avvocatura 
osserva 
quanto 
segue, 
partitamente 
sui 
vari 
profili 
giuridici 
della complessa e peculiare vicenda. 


-sull'istanza 
di 
riapertura 
del 
procedimento 
disciplinare, 
ai 
sensi 
dell'art. 1393, comma 2, d.lgs. n. 66 del 15 marzo 2010. 


L' 
art. 1393 del 
d.lgs. n. 66 del 
2010, recante 
"Codice 
dell'ordinamento 
militare" 
(d'ora 
in poi 
C.o.m.), nel 
testo vigente 
anteriormente 
alla 
legge 
n. 
124 del 
7 agosto 2015 e 
al 
d.lgs. n. 91 del 
26 aprile 
2016, prevedeva, nel 
caso 
in cui 
il 
militare 
fosse 
stato già 
rinviato a 
giudizio (o sottoposto ad una 
delle 
misure 
di 
cui 
all'art. 
915, 
comma 
1, 
C.o.m.), 
il 
divieto 
di 
promuovere 
nei 
suoi 
confronti 
un procedimento disciplinare 
avente 
ad oggetto il 
medesimo fatto, 
sino alla 
conclusione 
del 
processo penale 
(o sino alla 
conclusione 
del 
procedimento 
di 
prevenzione). La 
disposizione 
citata 
prevedeva 
inoltre, nel 
caso in 
cui 
il 
procedimento 
disciplinare 
de 
eadem 
re 
et 
persona 
fosse 
stato 
già 
avviato, 
la 
sospensione 
di 
tale 
procedimento 
fino 
alla 
definizione 
del 
processo 
celebrato 
in 
sede 
penale. 
Tale 
"meccanismo" 
(c.d. 
pregiudiziale 
penale) 
era 
diretto 
a 
prevenire 
ed evitare 
contrasti 
tra 
l'esito del 
procedimento disciplinare 
promosso 
nei 
confronti 
del 
militare 
e 
l'esito del 
procedimento penale 
avente 
ad oggetto 
la 
medesima 
vicenda 
e 
la 
medesima 
persona 
(di 
questo avviso, Cons. Stato, 
Sez. IV, sent. n. 1302 del 
23 febbraio 2017, dep. 22 marzo 2017, il 
quale, con 
riferimento all'art. 1393 C.o.m., ha 
affermato che 
"È 
evidente, infatti, che 
la 
ratio legis 
sottesa a questa disposizione 
mira a vincolare 
il 
procedimento disciplinare 
agli 
esiti 
del 
processo penale 
in punto, in particolare, di 
accertamento 
del 
fatto materiale 
di 
reato, la cui 
definitiva individuazione 
ad opera 
del 
giudice 
penale 
si 
riflette 
a valle 
anche 
nel 
procedimento disciplinare, costituendo 
la base 
oggettiva da cui 
si 
diramano le 
autonome 
delibazioni 
am



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


ministrative 
dell'autorità"); 
ciò, anche 
alla 
luce 
dell'art. 653 cod. proc. pen., 
rubricato "efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare". 


A 
seguito 
delle 
profonde 
innovazioni 
apportate 
alla 
disposizione 
in 
discorso 
(dapprima, con la 
legge 
n. 124 del 
2015 e, poi, con il 
d.lgs. n. 91 del 
2016), 
il 
legislatore 
ha 
abolito 
la 
c.d. 
pregiudiziale 
penale, 
ammettendo 
l'avvio, 
il 
proseguimento e 
la 
conclusione 
del 
procedimento disciplinare 
nei 
confronti 
del 
militare 
sottoposto a 
processo penale 
per il 
medesimo fatto. Consapevole 
della 
necessità 
di 
evitare 
possibili 
incompatibilità 
tra 
l'esito del 
procedimento 
disciplinare 
e 
l'esito 
del 
procedimento 
penale 
insistenti 
sulla 
medesima 
vicenda 
e 
riguardanti 
il 
medesimo individuo, il 
legislatore 
ha 
previsto, ai 
commi 
2 e 
3 
dell'art. 1393 C.o.m., la 
possibilità 
di 
una 
riapertura 
del 
procedimento disciplinare: 
a) se 
il 
procedimento disciplinare 
non sospeso si 
conclude 
con l'adozione 
di 
una 
sanzione 
e 
successivamente 
il 
processo penale 
termina 
con una 
sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
che 
riconosce 
che 
il 
fatto 
addebitato 
al 
dipendente 
non sussiste 
o non costituisce 
illecito penale 
o che 
il 
militare 
non 
lo 
ha 
commesso; 
b) 
se 
il 
procedimento 
disciplinare 
si 
conclude 
senza 
una 
sanzione 
e 
successivamente 
il 
processo penale 
perviene 
ad una 
sentenza 
irrevocabile 
di 
condanna; 
c) se 
dalla 
sentenza 
irrevocabile 
di 
condanna 
risulta 
che 
il 
fatto 
addebitabile 
al 
dipendente 
in 
sede 
disciplinare 
può 
comportare 
la 
sanzione 
di 
stato 
della 
perdita 
del 
grado 
per 
rimozione, 
oppure 
la 
cessazione 
dalla 
ferma 
o dalla 
rafferma, mentre 
in esito al 
procedimento disciplinare 
è 
stata 
irrogata 
una sanzione diversa. 


operata 
tale 
premessa, 
la 
Scrivente 
ritiene 
che, 
come 
osservato 
da 
codesta 
Amministrazione, con riferimento alle 
disposizioni 
del 
C.o.m. debba 
trovare 
applicazione 
il 
principio 
tempus 
regit 
actum 
(con specifico riferimento all'art. 
1393 
C.o.m., 
si 
vedano: 
T.A.R. 
Puglia, 
Lecce, 
sez. 
II, 
23 
maggio 
2018, 
n. 
883; 
T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 3 agosto 2017, n. 416; 
T.A.R. Veneto, Sez. 
I, Sent. del 
3 ottobre 
2018, dep. 12 ottobre 
2018, n. 937; 
T.A.R. Veneto, Sez. 
I, n. 345 del 
10 aprile 
2020, che 
ha 
chiarito che 
"con riguardo ai 
rapporti 
tra 
il 
giudizio disciplinare 
e 
il 
giudizio penale 
che 
scaturiscano dagli 
stessi 
fatti 
nei 
confronti 
del 
militare, la (ulteriore) modifica recata dall'art. 4, co. 1, lett. 
t), d.lgs. n. 91/2016 alla nuova disciplina introdotta dall'art. 15, co. 1, della 


l. n. 124/2015, non può che 
applicarsi 
ai 
soli 
fatti 
aventi 
rilievo disciplinare 
verificatisi 
dopo 
la 
sua 
entrata 
in 
vigore; 
i 
fatti 
verificatisi 
in 
epoca 
anteriore, 
invece, 
restano 
regolati 
dalla 
precedente 
formulazione 
dell'art. 
1393 
del 
d.lgs. 
n. 66/2010"). Pertanto, considerato che 
il 
fatto da 
cui 
ha 
avuto origine 
il 
procedimento 
disciplinare 
in discorso risale 
al 
periodo 2010-2012 e 
che 
il 
procedimento 
disciplinare 
medesimo si 
è 
concluso con il 
decreto n. 417/I-3/2013 
in data 
8 agosto 2013, nel 
caso in esame 
non può che 
trovare 
applicazione 
la 
disciplina 
di 
cui 
all'art. 1393 C.o.m. nel 
testo antecedente 
le 
modifiche 
apportate 
dal 
legislatore 
con le 
riforme 
del 
2015 e 
2016, da 
cui 
discende 
l'inammissibilità 
dell'istanza 
di 
riapertura 
del 
procedimento 
disciplinare 
avanzata 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


dall'omissis 
ai 
sensi 
dell'art. 
1393 
C.o.m. 
così 
come 
modificato 
dalle 
citate 
riforme. 


-In 
generale, sui 
rapporti 
tra procedimento disciplinare 
e 
giudicato 
penale. 
Tanto 
premesso, 
preso 
atto 
della 
circostanza 
che 
nel 
caso 
in 
esame 
il 
provvedimento 
disciplinare 
è 
stato adottato in esito ad un giudizio penale 
conclusosi 
con 
sentenza 
di 
patteggiamento 
che 
codesta 
Amministrazione 
aveva 
ritenuto (erroneamente, come 
più avanti 
si 
vedrà) irrevocabile 
e 
che 
solo in 
un momento successivo all'adozione 
della 
sanzione 
disciplinare 
la 
citata 
sentenza 
penale 
è 
stata 
dapprima 
annullata, 
per 
vizi 
di 
procedura, 
dalla 
Cassazione 
e 
poi 
sovvertita 
da 
una 
sentenza 
assolutoria 
passata 
in giudicato, appare 
opportuno, 
al 
fine 
di 
rispondere 
all'insieme 
dei 
quesiti 
proposti, analizzare 
brevemente 
il 
rapporto 
sussistente 
tra 
procedimento 
disciplinare 
e 
giudicato 
penale. 


La 
costante 
giurisprudenza 
amministrativa 
è 
granitica 
nell'affermare 
l'esistenza 
di 
un rapporto di 
autonomia 
tra 
procedimento disciplinare 
e 
procedimento 
penale. 
In 
particolare, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
precisato 
che 
"In 
riferimento al 
personale 
della Guardia di 
Finanza l'illiceità penale 
e 
quella 
disciplinare 
degli 
arruolati 
orbitano 
su 
piani 
assolutamente 
differenti, 
per 
cui 
l'amministrazione 
conserva 
sempre 
il 
suo 
potere 
di 
autonoma 
valutazione 
del-
l'illecito nell'ambito del 
procedimento disciplinare 
anche 
in presenza di 
una 
sentenza di 
assoluzione. l'area dell'illecito penale 
è 
infatti 
notoriamente 
più 
ristretta 
rispetto 
a 
quella 
dell'illecito 
disciplinare, 
per 
cui 
uno 
stesso 
fatto 
può 
essere 
giudicato lecito dal 
punto di 
vista penale, ed illecito sotto il 
profilo disciplinare" 
(Cons. 
Stato 
Sez. 
IV 
Sent., 
7 
novembre 
2012, 
n. 
5669; 
dello 
stesso 
avviso, T.A.R. Friuli-V. Giulia 
Trieste 
Sez. I, 27 marzo 2019, n. 146). Più di 
recente, è 
stato ribadito che 
"in sede 
disciplinare, l'amministrazione 
può legittimamente 
tener 
conto 
delle 
risultanze 
emerse 
nelle 
varie 
fasi 
del 
pregresso 
procedimento penale, sì 
da evitare 
ulteriori 
accertamenti 
istruttori 
alla luce 
del 
principio di 
economicità del 
procedimento, ma a condizione 
che 
di 
tali 
risultanze 
sia 
autonomamente 
valutata 
la 
rilevanza 
in 
chiave 
disciplinare" 
(Cons. Stato Sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1499, sottolineatura nostra). 


Tuttavia, 
detto 
rapporto 
di 
autonomia 
trova 
una 
rilevante 
eccezione 
in 
tutti 
quei 
casi 
in cui 
il 
processo penale 
si 
concluda 
con sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
per insussistenza 
del 
fatto o per non commissione 
dello stesso 
da 
parte 
dell'imputato, 
nonché, 
all'opposto, 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
venga 
accertata 
la 
responsabilità 
penale 
dell'imputato. 
Infatti, 
per 
un 
verso, 
qualora 
il 
processo 
penale 
si 
concluda 
con sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione 
per insussistenza 
del 
fatto o per non commissione 
dello stesso da 
parte 
dell'imputato, tale 
pronuncia 
fa 
stato 
nel 
procedimento 
disciplinare, 
precludendo 
l'esercizio 
del-
l'azione 
disciplinare 
medesima 
e 
risultando 
"ostativa 
ad 
una 
diversa 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


valutazione 
dei 
fatti 
in senso disciplinare 
da parte 
dell'amministrazione" 
(cfr. 
Cons. Stato Sez. VI Sent., 30 luglio 2010, n. 5035; 
Cons. Stato Sez. IV 
Sent., 
22 maggio 2012, n. 2971), salvo che 
l'assoluzione 
non sia 
stata 
pronunciata 
ai 
sensi 
dell'art. 
530, 
capoverso, 
cod. 
proc. 
pen., 
ipotesi 
in 
cui 
l'Amministrazione 
non è 
vincolata 
dal 
giudicato penale 
di 
condanna 
e 
può anche 
procedere 
ad un 
accertamento e 
ad una 
valutazione 
dei 
fatti 
diversi 
da 
quelli 
compiuti 
dal 
giudice 
penale; 
per altro verso, qualora 
il 
processo penale 
si 
concluda 
con sentenza 
irrevocabile 
di 
condanna 
(o 
di 
patteggiarnento), 
tale 
sentenza 
"ha 
efficacia di 
giudicato nel 
procedimento disciplinare 
quanto all'accertamento 
della sussistenza del 
fatto, alla sua illiceità penale 
e 
alla sua commissione 
da 
parte 
dell'imputato", 
con 
la 
conseguenza 
che 
l'Amministrazione 
deve 
limitarsi 
ad una 
valutazione 
in ordine 
alla 
rilevanza 
disciplinare 
dei 
fatti 
così 
come 
accertati 
in sede 
penale, non potendo, di 
contro, procedere 
ad un accertamento 
dei 
fatti 
diverso da 
quello compiuto dal 
giudice 
penale 
(cfr. Cons. Stato Sez. 
VI, 5 dicembre 2006, n. 7108; Cons. Stato Sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1864). 


-sul 
contrasto, 
nel 
caso 
di 
specie, 
tra 
giudicato 
penale 
e 
provvedimento 
disciplinare. 


Nel 
caso in esame, il 
decreto del 
Vice 
Direttore 
Generale 
della 
Direzione 
Generale 
per il 
Personale 
militare 
del 
ministero della 
Difesa 
emesso in data 
8 agosto 2013 ha 
disposto la 
perdita 
del 
grado per rimozione 
nei 
confronti 
del 
omissis 
ritenendo 
rilevanti 
sotto 
il 
profilo 
disciplinare 
i 
fatti 
così 
come 
accertati 
nella 
sentenza 
del 
GIP 
del 
Tribunale 
di 
Pisa 
n. 212/2012 del 
24 maggio 2012, 
conclusiva 
del 
relativo procedimento penale 
(ma 
richiamando nelle 
premesse 
anche il rendimento in servizio e precedenti disciplinari del 
omissis). 


Peraltro, a 
conferma 
del 
fatto che, conformemente 
a 
quanto stabilito dal-
l'art. 653, comma 
1 bis, cod. proc. pen., il 
provvedimento disciplinare 
è 
stato 
adottato 
sulla 
base 
dei 
fatti 
così 
come 
accertati 
in 
sede 
penale, 
si 
pone 
la 
stessa 
motivazione 
del 
provvedimento 
disciplinare, 
la 
quale 
recepisce 
sostanzialmente 
il 
capo di 
imputazione 
di 
cui 
alla 
citata 
sentenza 
di 
patteggiamento n. 
212/2012; 
tant'è 
che 
nel 
citato decreto del 
Vice 
Direttore 
Generale 
si 
legge: 
"Graduato dell'esercito, dal 
giugno 2010 al 
maggio 2012, in Tirrenia, Pisa e 
livorno, svolgeva attività di 
consumo e 
cessione 
di 
sostanza stupefacente 
del 
tipo hashish e 
marijuana. Inoltre, il 
18 novembre 
2010 veniva trovato in possesso 
presso la propria abitazione 
di 
un panetto di 
hashish di 
99,9 grammi, 
nonché 
di 
due 
quantitativi 
separati 
di 
marijuana rispettivamente 
di 
140,4 e 
3,5 grammi lordi 
[...]". 


orbene, deve 
notarsi 
che 
a 
seguito della 
"riapertura" 
del 
medesimo processo 
penale 
in forza 
della 
sentenza 
della 
Cassazione 
n. 14590/2015, l'accertamento 
dei 
fatti 
operato nella 
citata 
sentenza 
n. 212/2012 con riferimento al 
omissis 
non 
solo 
è 
stato 
annullato, 
ma 
è 
stato 
anche 
sovvertito 
dalla 
successiva 
sentenza 
irrevocabile 
di 
assoluzione, emessa 
dal 
Tribunale 
di 
Pisa 
il 
16 marzo 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


2018, 
ai 
sensi 
dell'art. 
530, 
comma 
2, 
c.p.p., 
per 
mancata 
commissione 
del 
fatto 
da 
parte 
dell'imputato; 
ci 
si 
trova 
quindi 
di 
fronte 
ad 
un 
parziale 
contrasto 
fra 
il 
provvedimento disciplinare, nella 
parte 
in cui 
fa 
riferimento all'attività 
di 
cessione 
di 
stupefacenti, 
e 
la 
sentenza 
definitiva 
che, 
nell'assolvere 
l'omissis 
ai 
sensi 
dell'art. 530, comma 
2, c.p.p. (essendo risultata 
mancante 
o insufficiente 
la 
prova 
del 
reato), 
pur 
affermando 
che 
nella 
"camera 
indicata 
come 
quella 
occupata 
dall'omissis 
... 
veniva 
trovato 
un 
panetto 
di 
hashish 
di 
gr. 
99,9", ritiene 
che 
"le 
indagini 
non sono state 
esaustive 
e, soprattutto, la modalità 
in 
cui 
è 
stato 
riscontrato 
nel 
omissis 
un 
potenziale 
spacciatore, 
solo 
sulla 
base 
di 
una 
dichiarazione 
di 
un 
soggetto 
che 
aveva 
sentito 
il 
nome 
di 
ricki, come colui che forniva sostanze stupefacenti" (sic). 


Fermo quanto sopra 
occorre 
preliminarmente 
chiedersi 
se 
sia 
corretto ritenere 
che, 
come 
si 
legge 
nella 
nota 
di 
codesta 
Amministrazione 
"l'operato 
degli 
organi 
disciplinari 
che 
ha portato all'emanazione 
dell'atto destitutivo 
impugnato non risulti affetto da criticità di sorta". 


- sul provvedimento di destituzione. 
Come 
si 
è 
osservato, il 
provvedimento destitutivo è 
stato assunto sul 
presupposto 
della 
irrevocabilità 
della 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Pisa 
n. 212/2012 
in data 24 maggio 2012, presupposto poi rivelatosi errato. 


La 
stessa 
copia 
della 
sentenza 
trasmessa 
alla 
Scrivente 
reca, in prima 
pagina, 
la 
data 
del 
deposito, ma 
non quella 
della 
irrevocabilità; 
e, comunque, la 
circostanza 
che 
essa 
non fosse 
irrevocabile 
è 
stata 
inequivocabilmente 
comprovata 
dall'annullamento 
della 
medesima 
a 
seguito 
del 
ricorso 
per 
cassazione. 


Va 
tuttavia 
sottolineato che 
il 
provvedimento era 
ancorato anche 
a 
presupposti 
di 
fatto, quali 
la 
detenzione 
di 
stupefacenti, il 
rendimento in servizio 
e 
precedenti 
disciplinari 
del 
omissis, che 
non risultano smentiti 
dalla 
sentenza 
di 
assoluzione; 
ma 
comunque, anche 
a 
voler ritenere 
il 
provvedimento di 
destituzione 
affetto da 
criticità, va 
osservato che 
la 
sua 
legittimità 
è 
stata 
affermata 
dal Giudice amministrativo con sentenza ormai passata in giudicato. 


Il 
giudicato amministrativo venutosi 
a 
formare 
fa 
sì 
che 
risulti 
giudizialmente 
accertata 
la 
legittimità 
del 
provvedimento 
amministrativo 
impugnato 
(quanto meno in relazione 
ai 
vizi 
contestati 
con i 
motivi 
di 
ricorso formulati), 
e 
ciò 
esclude 
che 
nel 
caso 
di 
specie 
si 
possa 
o 
debba 
far 
luogo 
all'annullamento 
d'ufficio dell'atto ai sensi dell'art. 21-nonies 
della L. 241/1990. 


In sostanza, dunque, pur se 
la 
destituzione 
fu, forse, affetta 
da 
taluni 
vizi, 
il 
provvedimento 
appare 
ormai 
ragionevolmente 
consolidato 
e 
non 
si 
colgono, 
per quanto noto alla 
Scrivente, ragioni 
di 
pubblico interesse 
che 
ne 
consiglino 
l'annullamento ex 
officio, che, peraltro, determinerebbe 
effetti 
ex 
tunc, anche 
sul 
piano 
retributivo 
e 
di 
carriera, 
con 
negative 
conseguenze 
per 
l'Amministrazione. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


- sull'applicabilità dell'art. 21-quinquies della legge 241/90. 
Resta 
da 
chiedersi 
se 
l'Amministrazione 
possa 
procedere 
alla 
revoca 
del 
provvedimento 
di 
destituzione 
ai 
sensi 
dell'art. 
21-quinquies 
della 
l. 
241/2001; 
il 
primo comma 
della 
norma 
citata 
stabilisce 
infatti 
che 
"1. Per 
sopravvenuti 
motivi 
di 
pubblico 
interesse 
ovvero 
nel 
caso 
di 
mutamento 
della 
situazione 
di-
fatto 
non 
prevedibile 
al 
momento 
dell'adozione 
del 
provvedimento 
o, 
salvo 
che 
per 
i 
provvedimenti 
di 
autorizzazione 
o 
di 
attribuzione 
di 
vantaggi 
economici, 
di 
nuova valutazione 
dell'interesse 
pubblico originario, il 
provvedimento amministrativo 
ad 
efficacia 
durevole 
può 
essere 
revocato 
da 
parte 
dell'organo 
che 
lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. la revoca determina 
la inidoneità del 
provvedimento revocato a produrre 
ulteriori 
effetti. 
se 
la revoca comporta pregiudizi 
in danno dei 
soggetti 
direttamente 
interessati, 
l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo". 


In via generale va ritenuto quanto segue. 


La 
revoca 
prevista 
dall'art. 
21-quinquies 
della 
legge 
sul 
procedimento 
amministrativo 
per 
"mutamento 
della 
situazione 
di 
fatto 
non 
prevedibile 
al 
momento dell'adozione 
del 
provvedimento" 
non è, a 
rigore, una 
vera 
e 
propria 
revoca, dando a 
tale 
istituto il 
senso e 
il 
significato attribuitogli 
da 
parte 
della 
dottrina 
amministrativistica, che 
pone 
in luce 
come 
essa 
si 
fondi 
e 
si 
basi 
essenzialmente 
su motivi 
di 
opportunità 
connessi 
alla 
valutazione 
o alla 
rivalutazione 
dell'interesse 
pubblico sotteso all'atto (si 
tratterebbe, con riferimento 
alla 
norma 
in esame, di 
concetto meglio riferibile 
alle 
altre 
due 
ipotesi 
-"sopravvenuti 
motivi 
di 
pubblico interesse" 
ovvero "nuova valutazione 
dell'interesse 
pubblico originario" - contemplate dalla stessa disposizione). 


La 
terza 
ipotesi 
introdotta 
dalla 
norma 
in esame 
-quella 
basata 
sul 
"mutamento 
della 
situazione 
di 
fatto 
non 
prevedibile 
al 
momento 
dell'adozione 
del 
provvedimento" 
-nei 
sensi 
suddetti 
non 
costituirebbe 
invece 
una 
revoca 
in 
senso proprio -quantomeno ove 
si 
intenda 
questa 
secondo la 
ricordata 
accezione 
del 
termine 
-, risultando in linea 
astratta 
più corretto parlare, a 
questo 
riguardo, 
di 
rimozione, 
la 
quale, 
al 
pari 
della 
revoca, 
presuppone 
che 
l'atto 
che 
ne 
costituisce 
oggetto 
fosse 
originariamente 
legittimo 
e 
che, 
successivamente, 
siano 
venute 
meno 
le 
condizioni 
-per 
1'art. 
21‑quinquies, 
di 
fatto 
-che 
ne 
avevano 
legittimato 
l'adozione: 
donde 
l'obbligo, 
per 
l'Amministrazione, 
di 
rimuoverlo, 
o, meglio, di far venire meno gli effetti dallo stesso prodotti. 


Si 
tratta, 
in 
altri 
termini, 
del 
tema 
(della 
rilevanza 
giuridica) 
delle 
sopravvenienze, 
le 
quali, 
com'è 
noto, 
possono 
essere 
di 
fatto 
o 
di 
diritto: 
il 
successivo 
mutamento 
della 
situazione 
-di 
fatto 
o 
di 
diritto 
-esistente 
al 
momento 
dell'adozione 
dell'atto 
amministrativo 
-situazione 
in 
ragione 
e 
in 
considerazione 
della 
quale 
questo 
è 
stato 
emanato 
-comporta 
infatti 
il 
dovere 
dell'Amministrazione 
di 
rimuovere 
l'atto 
-o 
meglio 
di 
rimuovere 
il 
rapporto 
da 
questo 
creato 
o 
gli 
effetti 
duraturi 
da 
questo 
prodotti 
-tutte 
le 
volte 
in 
cui 
tale 
rapporto 
o 
tali 
effetti 
non 
siano 
più 
conformi 
alla 
legge 
in 
ragione, 
ap



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


punto, 
del 
mutamento 
determinatosi 
nella 
situazione 
di 
fatto 
o 
diritto 
sottesa 
all'atto. 


A 
differenza 
della 
revoca 
in senso proprio -la 
quale 
si 
fonda 
su ragioni 
di 
opportunità 
(sopravvenute) -, la 
rimozione 
attiene 
invece 
al 
tema 
della 
legalità 
perché 
nella 
mutata 
situazione 
-di 
fatto 
o 
di 
diritto 
-il 
perdurare 
del 
rapporto o dell'effetto dell'atto non risulta più conforme a legge. 


Dunque, ai 
sensi 
della 
ricostruzione 
fornita, l'art. 21-quinquies 
della 
l. n. 
241/1990 disciplina 
soltanto la 
revoca/rimozione 
motivata 
da 
sopravvenienze 
di 
fatto stabilendo che 
essa 
è 
possibile 
solo se 
il 
mutamento della 
situazione 
fattuale 
era 
imprevedibile 
al 
momento dell'adozione 
dell'atto; 
la 
revoca/rimozione 
motivata 
da 
sopravvenienze 
di 
diritto esulerebbe 
invece 
totalmente 
dal-
l'ambito di applicazione della disposizione. 


Tanto premesso, si 
torna 
a 
sottolineare 
che 
l'applicabilità 
della 
norma 
è 
sottoposta 
alla 
ricorrenza 
di 
alcune 
condizioni, 
ovvero: 
1) 
quella 
del 
mutamento 
della 
situazione 
di 
fatto, 
2) 
la 
non 
prevedibilità 
di 
tale 
circostanza 
al 
momento 
dell'adozione 
del 
provvedimento 
e 
3) 
la 
natura 
di 
provvedimento 
ad 
efficacia durevole dell'atto da revocare. 


Esaminando la 
fattispecie 
oggetto del 
presente 
parere 
alla 
luce 
della 
ricordata 
previsione normativa, va considerato quanto segue. 


1. La 
sopravvenuta 
inesistenza 
di 
una 
sentenza 
penale 
di 
condanna 
non 
appare costituire un mutamento "di fatto". 
Infatti, in ordine 
alla 
ricorrenza 
del 
descritto requisito, cui 
l'art. 21-quinquies 
della 
legge 
sul 
procedimento 
amministrativo 
condiziona 
la 
"revoca" 
con 
riferimento 
al 
"mutamento 
della 
situazione 
di 
fatto 
non 
prevedibile 
al 
momento 
dell'adozione 
del 
provvedimento", deve 
ritenersi 
che 
un mutamento della 
situazione 
di 
fatto ricorra 
soltanto nel 
caso in cui 
muti 
la 
condizione 
materiale 


-e, quindi, di 
fatto -delle 
persone, dei 
luoghi, delle 
cose 
oggetto del 
provvedimento; 
e, specularmente, che 
si 
verifichi 
un mutamento della 
situazione 
di 
diritto 
quando 
cambi, 
oltre 
che 
il 
quadro 
giuridico 
di 
riferimento, 
la 
condizione 
giuridica 
-e, quindi, di 
diritto, appunto -di 
quelle 
persone, di 
quei 
luoghi, di 
quelle 
cose; 
in questo quadro si 
deve 
ritenere 
che 
il 
mutamento della 
condizione 
giuridica 
dell'ex 
dipendente 
da 
condannato 
ad 
assolto 
costituisce 
un 
mutamento 
della 
situazione 
di 
diritto 
-e 
non 
di 
fatto 
-del 
destinatario 
del 
provvedimento disciplinare 
il 
che, di 
per sé, impedirebbe 
la 
revoca 
del 
provvedimento 
medesimo, 
quantomeno 
ai 
sensi 
della 
norma 
in 
esame 
-il 
citato 
art. 21-quinquies. 
2. 
La 
non 
prevedibilità 
del 
mutamento, 
che 
nella 
fattispecie 
sarebbe 
consistita 
nel sovvertimento della decisione del giudice penale, non sussiste. 
Al 
riguardo, fermo restando che 
occorre 
tenere 
distinta 
l'imprevedibilità 
soggettiva 
da 
quella 
oggettiva, 
occorre 
chiedersi 
se 
non 
sia 
solo 
a 
quest'ultima 
che 
la 
disposizione 
faccia 
riferimento. occorre 
dunque 
stabilire 
se 
in base 
all'articolo 
in esame 
sia 
o meno necessario che 
quel 
mutamento fosse 
o meno 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


oggettivamente 
prevedibile 
secondo 
un 
criterio 
di 
media 
ed 
ordinaria 
diligenza. 


ora, 
nella 
specie, 
l'assoluzione 
dell'ex 
dipendente 
era 
un'eventualità 
in 
astratto 
prevedibile 
e 
che 
non 
è 
stata 
in 
concreto 
prevista 
sol 
perché 
non 
è 
stata 
svolta 
un'adeguata 
istruttoria 
-accertando, 
in 
particolare, 
che 
la 
sentenza 
fosse 
debitamente 
munita 
dell'attestazione 
di 
irrevocabilità 
-, assumendo, all'esito 
del 
procedimento 
disciplinare, 
un 
provvedimento 
viziato 
ma 
ritenuto 
(erroneamente) 
ormai 
definitivo ed inoppugnabile: 
nella 
descritta 
situazione 
non 
sarebbe 
dunque 
possibile 
per 
l'Amministrazione 
surrogarsi 
ora 
all'ex 
dipendente 
per rimuovere 
un provvedimento ab origine 
illegittimo ma 
la 
cui 
illegittimità 
-prima 
di 
tutto originaria, a 
prescindere, cioè, dall'esito assolutorio 
del 
processo penale 
-avrebbe 
dovuto essere 
fatta 
valere 
dallo stesso destinatario 
attraverso la 
diligente 
coltivazione 
dell'impugnazione 
avverso lo stesso 
tempestivamente proposta. 


3. 
Quanto, 
infine, 
alla 
natura 
di 
atto 
ad 
efficacia 
durevole 
del 
provvedimento 
da 
revocare, 
sembra 
che 
vada 
anch'essa 
esclusa 
nella 
presente 
fattispecie. 
Proseguendo a 
ragionare 
nell'ottica 
in esame, la 
rimozione 
-ma 
anche 
la 
revoca, siano esse 
motivate 
da 
sopravvenienze 
fattuali 
o giuridiche 
-è 
concepibile 
soltanto 
con 
riferimento 
ad 
atti 
ad 
efficacia 
prolungata, 
i 
quali, 
come 
tali, 
non 
esauriscono 
i 
propri 
effetti 
nel 
momento 
in 
cui 
vengono 
adottati 
-perché, 
in 
questo 
caso, 
non 
vi 
è 
nulla 
da 
rimuovere 
o 
da 
revocare 
-, 
ma 
i 
cui 
effetti 
si 
protraggono nel 
tempo fintantoché 
non venga 
meno il 
rapporto giuridico al 
quale 
hanno dato origine 
(come 
avviene, ad esempio, nel 
caso delle 
concessioni, 
degli 
atti 
permissivi 
-licenze, 
autorizzazioni 
-, 
degli 
atti 
ablativi 
-espropriazioni, 
requisizioni -, di quelli di pianificazione). 


In 
questa 
prospettiva, 
si 
può 
ipotizzare 
una 
diversa 
classificazione, 
dal 
punto di 
vista 
degli 
effetti 
e 
dell'efficacia, del 
provvedimento disciplinare 
di 
perdita 
del 
grado per rimozione 
rispetto al 
requisito richiesto dalla 
norma 
in 
esame. 


Quanto agli 
effetti, si 
tratta 
certamente 
di 
un atto costitutivo nella 
misura 
in cui fa venir meno, estinguendolo, il rapporto di pubblico impiego. 


Quanto all'efficacia, esso deve 
ritenersi 
dotato di 
un'efficacia 
istantanea 
perché 
il 
suo effetto -consistente 
nell'estinzione 
del 
rapporto di 
servizio -si 
realizza 
e 
si 
esaurisce 
nel 
momento stesso in cui 
viene 
posto in essere: 
il 
che, 
naturalmente, 
non 
significa 
che 
dopo 
tale 
momento 
vengano 
meno 
(anche) 
gli 
effetti - risoluzione del rapporto - da esso determinati. 


L'atto 
che 
interessa, 
dunque, 
non 
deve 
essere 
classificato, 
dal 
punto 
di 
vista dell'efficacia, quale atto ad efficacia prolungata. 


ma 
se 
il 
provvedimento 
disciplinare 
che 
ne 
occupa 
è 
atto 
ad 
efficacia 
istantanea, riesce 
ben difficile 
configurare, rispetto ad esso, una 
revoca-rimozione 
la 
quale, per principio, è 
predicabile 
soltanto con riferimento ad atti 
ad 
efficacia prolungata. 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


In 
realtà, 
l'atto, 
proprio 
perché 
ad 
efficacia 
istantanea 
ed 
illegittimo, 
avrebbe 
potuto -e 
potrebbe 
-formare 
oggetto soltanto di 
annullamento, oltre 
che 
giurisdizionale, anche 
d'ufficio, a 
condizione, in questa 
seconda 
ipotesi, 
che 
fosse 
esistito 
-o 
esistesse 
-un 
interesse 
pubblico 
ulteriore 
rispetto 
a 
quello 
al 
semplice 
ripristino 
della 
legalità 
violata; 
mentre, 
come 
ho 
detto, 
la 
rimozione 
presuppone, 
al 
pari 
della 
revoca, 
che 
l'atto 
rimuovendo-revocando 
sia/fosse 
stato 
originariamente 
legittimo 
-e 
non 
è 
il 
nostro 
caso 
-e 
che, 
successivamente, 
siano/fossero 
venute 
meno 
le 
condizioni 
che 
ne 
avevano 
legittimato 
l'adozione: 
donde 
l'obbligo, per l'Amministrazione, di 
rimuoverlo, o, meglio, 
di far venire meno gli effetti (prolungati) e i rapporti dallo stesso prodotti. 


Dunque, nel 
caso di 
specie 
l'atto non è 
revocabile 
poiché 
non è 
un "provvedimento 
amministrativo ad efficacia durevole". 


- Conclusioni. 
Dall'insieme 
delle 
considerazioni 
che 
precedono consegue 
l'impraticabilità 
della 
revoca 
ex art. 21-quinquies 
citato, fermo il 
rigetto, per le 
ragioni 
già 
esposte, dell'istanza 
formulata 
dall'interessato ai 
sensi 
dell'art. 1393, comma 
2, d.lgs. n. 66 del 15 marzo 2010. 


In tal senso è il parere della Scrivente. 


Sul 
presente 
parere, 
in 
relazione 
alla 
complessità 
giuridica 
delle 
questioni 
affrontate, è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo dell'Avvocatura 
dello Stato, 
che si è espresso in conformità in data 7 maggio 2021. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti 
in ricerca di cui all’art. 1, co. 354, l. 30 dicembre 2004 n. 311 e 


s.m.i. risoluzione di contratto di finanziamento agevolato per 
inadempienze e intervento finanziario di soggetto terzo 
Parere 
del 
30/06/2021-406404, al 17176/2021, avv. FaBIo 
TorTora 


Con 
la 
nota 
in 
epigrafe 
codesto 
ministero, 
premessa 
la 
ricostruzione 
sistematica 
della 
normativa 
di 
riferimento, 
e 
cioè 
dell'art. 
1, 
comma 
354, 
della 
legge 
30 
dicembre 
2004, 
n. 
311 
(che 
ha 
previsto 
l'istituzione, 
presso 
la 
Gestione 
separata 
della 
Cassa 
depositi 
e 
prestiti 
S.p.A., 
del 
Fondo 
rotativo 
per 
il 
sostegno 
alle 
imprese 
e 
gli 
investimenti 
in 
ricerca 
per 
la 
concessione 
di 
finanziamenti 
agevolati 
alle 
imprese 
rimborsabili 
con 
un 
piano 
di 
rientro 
pluriennale, 
con 
Garanzia 
statale 
di 
ultima 
istanza), 
e 
dei 
successivi 
commi 
da 
355 
a 
361 
del 
medesimo 
art. 
1 
(che 
dettano 
la 
disciplina 
per 
l'operatività 
del 
Fondo), 
oltre 
che 
dei 
successivi 
Decreti 
attuativi 
del 
2006 
e 
del 
2011, 
ed 
illustrata 
sinteticamente 
la 
vicenda 
che 
occupa, 
avente 
ad 
oggetto 
risoluzione 
di 
contratto 
di 
finanziamento 
agevolato, 
già 
concesso 
in 
base 
alla 
normativa 
richiamata 
a 
omissis, 
a 
seguito 
di 
inadempienze 
della 
medesima, 
chiede 
alla 
Scrivente 
Avvocatura 
di 
esprimersi 
sulla 
correttezza 
delle 
valutazioni 
operate 
in 
ordine 
alla 
determinazione 
di 
accoglimento 
di 
proposta 
transattiva 
pervenuta, 
nell'ambito 
della 
detta 
materia 
e 
già 
positivamente 
vagliata 
dalla 
CDP 
S.p.A., 
avente 
ad 
oggetto 
l'intervento 
finanziario 
di 
un 
terzo 
ad 
integrazione 
di 
quanto 
già 
recuperato 
in 
sede 
di 
ordinaria 
gestione 
del 
contratto. 


Deve 
necessariamente 
premettersi 
che, 
benché 
la 
nota 
a 
riscontro 
si 
concluda 
con 
una 
richiesta 
alla 
Scrivente 
Avvocatura 
"di 
rendere 
con 
urgenza 
il 
proprio 
parere 
ai 
sensi 
dell'articolo 
13 
del 
r.d. 
30 
ottobre 
1933, 
n. 
1611", 
nel 
caso 
di 
specie 
non 
sembra 
vertersi 
in 
ipotesi 
di 
atto 
di 
transazione 
ex 
art. 
1965 


c.c. 
già 
formato 
da 
codesta 
Amministrazione, 
o 
di 
atto 
di 
transazione 
da 
predisporre 
a 
cura 
della 
Scrivente, 
ma 
di 
semplice 
disamina 
giuridica 
preliminare 
di 
una 
proposta, 
che 
allo 
stato 
non 
sembra 
aver 
ancora 
coinvolto 
direttamente 
il 
debitore 
(la 
proposta 
perviene 
direttamente 
dal 
soggetto 
terzo), 
ed 
avente 
ad 
oggetto 
sostanzialmente 
una 
possibile 
cessione 
del 
debito 
a 
soggetto 
terzo, 
che 
se 
lo 
accollerebbe, 
a 
fronte 
di 
acquisto 
del 
corrispondente 
credito 
con 
le 
correlate 
garanzie 
rilasciate, 
in 
favore 
del 
debitore, 
dalla 
Congregazione 
(..), 
soggetto 
fideiussore 
e 
terzo 
datore 
di 
ipoteca 
per 
il 
detto 
finanziamento. 
L'operazione, 
come 
illustrata 
dal 
soggetto 
terzo 
(..) 
nella 
propria 
proposta 
del 
27 
ottobre 
2020, 
sarebbe 
finalizzata 
ad 
"acquisire 
la 
Casa 
di 
Cura 
di 
proprietà 
della 
omonima 
Congregazione 
che 
è 
anche 
titolare 
dell'intero 
capitale 
sociale 
di 
omissis". 
Rappresenta 
codesto 
Dipartimento 
che, 
a 
fronte 
di 
una 
esposizione 
debitoria 
iniziale 
pari 
ad 
€ 
2.548.665,00, 
e 
successivi 
incassi 
per 
una 
somma 
non 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


quantificata 
(che 
per 
differenza 
si 
calcola 
in 
€ 
617.376,19), 
l'esposizione 
debitoria 
attuale 
della 
omissis 
ammonterebbe 
ad 
€ 
1.931.288,81. 


L'intervento 
del 
terzo, 
illustrato 
nella 
proposta 
allegata, 
permetterebbe 
di 
recuperare 
un 
importo 
pari 
ad 
€ 
1.515.000,00, 
portando 
la 
percentuale 
finale 
di 
realizzo 
(considerato 
il 
già 
versato 
dalla 
debitrice) 
a 
circa 
l’84% 
dell'importo 
originariamente 
finanziato 
(€ 
2.132.376,19). 


Come 
detto, 
tale 
proposta 
ha 
già 
trovato 
favorevole 
accoglimento 
presso 
la 
CDP 
S.p.A., 
organismo 
finanziatore, 
alla 
luce 
soprattutto 
delle 
valutazioni 
espresse 
in 
proposito 
dal 
Soggetto 
Agente 
(Banca 
(..)) 
sui 
seguenti 
punti: 
"la 
stessa 
è 
"meritevole 
di 
accettazione 
e 
conveniente 
in 
quanto 
prevede: 
a) 
un 
ammontare 
superiore 
del 
credito 
recuperato 
[pari 
a 
complessivi 
euro 


3.030.000 
da 
ripartire 
in 
parti 
uguali 
con 
il 
soggetto 
Finanziatore] 
rispetto 
a 
quello 
che 
potrebbe 
rinvenire 
dalle 
procedure 
esecutive 
[stimato 
in 
complessivi 
euro 
2.010.000 
da 
ripartire 
in 
parti 
uguali 
con 
il 
soggetto 
Finanziatore]; 
b) 
un 
azzeramento 
del 
rischio 
di 
mancato 
incasso; 
c) 
una 
netta 
riduzione 
dei 
tempi 
di 
recupero". 
Su 
tale 
base 
la 
CDP 
S.p.A. 
ha 
sottoposto 
tale 
proposta 
al 
parere 
preventivo 
di 
codesto 
Dipartimento, 
in 
base 
a 
quanto 
stabilito 
dall'art. 
2, 
co. 
1, 
del 
Decreto 
del 
Direttore 
Generale 
del 
Tesoro 
del 
15 
novembre 
2011 
n. 
90562 
(che 
prevede 
che, 
in 
caso 
di 
adesione 
da 
parte 
di 
CDP 
a 
procedure 
di 
concordato 
preventivo 


o 
in 
caso 
di 
accettazione 
di 
proposte 
transattive 
avanzate 
dal 
beneficiario 
del 
finanziamento, 
la 
garanzia 
dello 
Stato 
opera 
esclusivamente 
in 
presenza 
di 
una 
preventiva 
autorizzazione 
da 
parte 
del 
Dipartimento 
del 
Tesoro 
su 
tali 
operazioni). 
Tutto 
ciò 
considerato, 
la 
proposta, 
per 
come 
rappresentata 
e 
documentata 
da 
codesta 
Amministrazione, 
appare 
comunque 
orientata 
al 
soddisfacimento 
di 
una 
non 
trascurabile 
percentuale 
dell'originario 
debito, 
comportando 
una 
soddisfazione 
nell'ordine 
dell'84 
% 
circa 
dello 
stesso. 
Ciò 
appare 
coerente, 
in 
linea 
teorica, 
con 
quanto 
stabilito 
dall'art. 
2, 
co. 
3, 
del 
decreto 
attuativo 
del 
ministro 
dell'economia 
e 
delle 
finanze 
del 
12 
luglio 
2006 
n. 
72963, 
che 
stabilisce 
che 
la 
Garanzia 
statale 
di 
ultima 
istanza, 
già 
prevista 
dall'art. 
1 
comma 
359, 
della 
Legge 
n. 
311/2004, 
nel 
caso 
in 
cui 
CDP 
recuperi 
parzialmente 
il 
proprio 
credito 
per 
il 
tramite 
di 
accordi 
transattivi, 
"opera 
per 
la 
restante 
parte 
del 
credito, 
ma 
comunque 
per 
un 
importo 
non 
superiore 
al 
40 
per 
cento 
del-
l'ammontare 
del 
finanziamento 
agevolato 
concesso", 
come 
riportato 
nella 
richiesta 
di 
parere. 


Inoltre 
la 
proposta, 
qualora 
finalizzata 
in 
un 
accordo 
del 
quale 
sia 
parte 
anche 
il 
debitore, 
parrebbe 
dar 
luogo, 
sul 
piano 
giuridico, 
a 
una 
fattispecie 
negoziale 
compatibile 
con 
le 
previsioni 
dello 
stesso 
decreto 
ministeriale, 
avendo 
ad 
oggetto, 
a 
fronte 
della 
rilevata 
riduzione 
del 
credito 
vantato 
da 
CDP 
e 
della 
rinuncia 
di 
quest'ultima 
alle 
procedure 
esecutive 
pendenti 
e 
alle 
garanzie 
che 
assistono 
i 
relativi 
crediti, 
l'immediato 
soddisfacimento 
dello 
stesso, 
nella 
con



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


siderevole 
misura 
sopra 
indicata, 
da 
parte 
di 
un 
terzo 
soggetto, 
evitando 
l'allungamento 
temporale 
e 
l'alea 
concernente 
la 
possibilità 
di 
recuperare 
un 
credito 
di 
pari 
importo, 
connessi 
all'ulteriore 
corso 
delle 
suddette 
procedure 
esecutive. 
Tenuto, 
peraltro, 
conto, 
della 
circostanza 
che 
il 
suddetto 
accordo 
dovrebbe 
necessariamente 
avere 
ad 
oggetto 
diritti 
disponibili 
dei 
sottoscrittori, 
si 
evidenzia 
che, 
diversamente 
da 
quanto 
sembra 
ipotizzato 
nella 
proposta 
in 
esame, 
il 
saldo 
definitivo 
del 
debito 
nella 
misura 
convenuta, 
da 
parte 
del 
terzo, 
dovrebbe 
avvenire 
contestualmente 
alla 
rinuncia 
alle 
procedure 
esecutive 
da 
parte 
di 
CDP 
e 
non 
già 
anche 
all'acquisizione 
degli 
immobili 
assoggettati 
ad 
esecuzione, 
non 
risultando 
la 
stessa 
CDP 
e 
il 
Soggetto 
Agente 
gli 
esclusivi 
titolari 
di 
tutte 
le 
azioni 
esecutive 
in 
corso 
e 
non 
dipendendo, 
quindi, 
soltanto 
dalla 
loro 
rinuncia 
la 
cessazione 
delle 
suddette 
procedure. 


Dati 
per 
presupposti 
ed 
accertati 
in 
concreto, 
con 
valutazione 
non 
di 
competenza 
della 
Scrivente: 


-sia 
il 
verificarsi 
della 
condizione 
prevista 
dall'art. 
2, 
comma 
1, 
lett. 
a), 
del 
Decreto 
attuativo 
del 
ministro 
dell'economia 
e 
delle 
finanze 
del 
12 
luglio 
2006 
n. 
72963; 


-sia 
la 
insussistenza 
delle 
cause 
di 
inefficacia 
della 
garanzia 
previste 
dal-
l'art. 
2, 
comma 
2, 
lett. 
a) 
e 
b), 
del 
medesimo 
Decreto; 


-sia 
le 
minori 
e 
più 
dilazionate 
possibilità 
di 
realizzazione 
del 
credito 
in 
executivis, 
in 
escussione 
tanto 
delle 
"garanzie 
personali" 
(risultando 
fideiussione 
in 
atti) 
che 
"reali 
costituite 
a 
tutela 
del 
credito"(ex 
art. 
1, 
comma 
2, 
lett. 
b), 
del 
medesimo 
Decreto) 
secondo 
la 
valutazione 
espressa 
dal 
Soggetto 
Agente, 
nella 
comunicazione 
del 
4 
dicembre 
2020, 
nella 
relazione 
integrativa 
del 
23 
febbraio 
2021, 
nonché 
la 
complessiva 
convenienza 
dell'operazione 
sotto 
il 
profilo 
economico; 


tenuto, 
altresì, 
conto, 
della 
necessità 
di 
assicurare 
la 
sussistenza 
degli 
ulteriori 
presupposti 
per 
l'operatività 
della 
garanzia 
statale, 
indicati 
nei 
citati 
decreti 
ministeriali, 
allo 
stato 
non 
si 
rinvengono 
motivi 
ostativi 
alla 
espressione 
di 
un 
parere 
favorevole 
di 
codesto 
ministero 
sulla 
proposta 
formulata, 
nei 
sensi 
rappresentati 
nella 
nota 
a 
riscontro 
e 
nei 
termini 
sopra 
evidenziati, 
a 
condizione 
che 
l'eventuale 
accordo 
concluso 
sulla 
base 
di 
quest'ultima 
faccia 
comunque 
salvo 
il 
diritto 
di 
surroga 
dello 
Stato 
nei 
diritti 
di 
credito 
di 
CDP, 
nei 
limiti 
della 
garanzia 
statale 
effettivamente 
prestata, 
atteso 
che, 
in 
caso 
di 
positivo 
esito 
della 
complessa 
operazione, 
sarà 
onere 
di 
codesto 
ministero 
"proseguire 


o 
dare 
avvio 
a 
tutte 
le 
ulteriori 
attività 
di 
recupero 
di 
quanto 
già 
dovuto 
alla 
CdP 
dal 
debitore", 
come 
previsto 
dall'art. 
2, 
comma 
5, 
del 
Decreto 
del 
Direttore 
Generale 
del 
Tesoro 
del 
15 
novembre 
2011 
n. 
90562, 
in 
base 
alla 
surroga 
prevista 
dal 
precedente 
comma 
4. 
Valuterà, 
infine, 
codesta 
Direzione, 
come 
per 
altra 
analoga 
precedente 
fattispecie 
(miragica 
S.p.A. 
-ns. 
CS 
35876/20), 
l'opportunità 
di 
prevedere 
da 
parte 
di 
CDP 
S.p.A. 
che 
l'accordo 
transattivo 
soggiaccia 
alla 
condizione 
riso



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


lutiva 
espressa, 
sia 
del 
mancato 
puntuale 
adempimento 
anche 
di 
parte 
degli 
impegni 
assunti 
dal 
Soggetto 
proponente 
e/o 
delle 
condizioni 
previste 
dall'accordo 
medesimo; 
sia 
della 
ricorrenza 
di 
un 
evento 
lesivo 
e/o 
pregiudizievole 
all'adempimento 
degli 
impegni 
assunti. 


Sulla 
questione 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato 
che, 
nella 
seduta 
del 
30 
giugno 
2021, 
si 
è 
espresso 
in 
conformità. 


Si 
resta, 
comunque, 
a 
disposizione 
per 
eventuali 
ulteriori 
necessità. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


Confisca di beni immobili ai sensi dell’art. 240 c.p.: 

sulla tutela dei diritti di garanzia dei terzi creditori 


del soggetto in danno del quale la confisca è operata 


Parere 
del 
23/12/2021-748432, al 44027/2020, avv. FranCesCo 
melonCellI 


la richiesta di parere. 


In relazione 
al 
procedimento penale 
in oggetto, codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
riferisce 
che 
è 
stata 
pronunciata 
sentenza 
penale 
irrevocabile 
che, ai 
sensi 
dell'art. 
240 
cp, 
ha 
disposto 
la 
confisca 
di 
una 
serie 
di 
beni 
immobili, 
consegnati 
poi 
all'Agenzia 
del 
demanio, 
sui 
quali 
risultavano 
trascritti 
ipoteche 
e pignoramenti anche antecedenti al relativo sequestro preventivo. 


Dall'Agenzia 
del 
demanio 
è 
stato 
allora 
posto 
un 
quesito 
circa 
le 
modalità 
di 
gestione 
dei 
suddetti 
beni, soprattutto in relazione 
alle 
eventuali 
esigenze 
di tutela del terzo creditore. 


Codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, 
al 
termine 
di 
un'approfondita 
e 
condividibile 
disamina 
della 
problematica 
sollevata 
dall'amministrazione, 
pone 
all'attenzione 
il 
seguente 
dilemma: 
se 
l'Agenzia 
del 
demanio 
possa 
procedere 
in 
ogni 
caso 
alla 
vendita 
degli 
immobili, 
previa 
richiesta 
al 
conservatore 
dei 
registri 
immobiliari 
di 
cancellare 
le 
ipoteche 
e 
i 
pignoramenti, 
anche 
anteriori 
al 
sequestro 
preventivo, 
sulla 
base 
del 
solo 
provvedimento 
di 
confisca, 
ovvero 
se 
essa 
debba, 
invece, 
rivolgersi 
al 
Tribunale 
che 
ha 
disposto 
la 
confisca, 
per 
chiedere 
di 
procedere 
alla 
vendita, 
sicché, 
a 
seguito 
dell'informativa 
che 
ne 
riceverebbero 
i 
creditori 
procedenti, 
sarebbe 
probabile 
la 
proposizione, 
da 
parte 
loro, 
di 
un 
incidente 
d'esecuzione, 
con 
consequenziale 
verifica 
della 
loro 
buona 
fede 
e, 
in 
caso 
d'accertamento 
positivo, 
di 
loro 
partecipazione 
alla 
distribuzione 
del 
ricavato. 


Ritenendo che 
il 
dilemma 
costituisca 
questione 
di 
massima 
da 
sottoporre 
all'Avvocatura 
Generale, codesta 
Distrettuale 
mostra 
di 
propendere 
in favore 
di 
un'interpretazione 
estensiva 
degli 
artt. 52 e 
ss. del 
D.Lgs 
6 settembre 
2011, 


n. 
159 
(Codice 
delle 
leggi 
antimafia 
e 
delle 
misure 
di 
prevenzione, 
nonché 
nuove 
disposizioni 
in 
materia 
di 
documentazione 
antimafia), 
quanto 
alla 
tutela 
dei diritti di garanzia dei terzi creditori. 
le disposizioni normative rilevanti. 


La 
normativa 
in materia 
di 
confisca 
è 
ampia 
e 
assai 
articolata, comprendendo 
norme 
di 
carattere 
generale 
a 
fianco 
di 
numerose 
norme 
di 
carattere 
speciale e particolare. 


Limitandosi, perciò e 
di 
primo acchito, alle 
disposizioni 
tenute 
presenti 
nella 
richiesta 
di 
parere, figura, anzitutto, l'art. 240 cp (Confisca), il 
quale 
dispone 
che 
«nel 
caso 
di 
condanna, 
il 
giudice 
può 
ordinare 
la 
confisca 
delle 
cose 
che 
servirono o furono destinate 
a commettere 
il 
reato, e 
delle 
cose, che 
ne sono il prodotto o il profitto. 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


È sempre ordinata la confisca: 


1. delle cose che costituiscono il prezzo del reato; 
1-bis. dei 
beni 
e 
degli 
strumenti 
informatici 
o telematici 
che 
risultino essere 
stati 
in tutto o in parte 
utilizzati 
per 
la commissione 
dei 
reati 
di 
cui 
agli 
articoli 
615-ter, 
615-quater, 
615-quinquies, 
617-bis, 
617-ter, 
617-quater, 
617quinquies, 
617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies, 640-ter 
e 
640-quinquies 
nonché 
dei 
beni 
che 
ne 
costituiscono 
il 
profitto 
o 
il 
prodotto 
ovvero di 
somme 
di 
denaro, beni 
o altre 
utilità di 
cui 
il 
colpevole 
ha la disponibilità 
per 
un valore 
corrispondente 
a tale 
profitto o prodotto, se 
non è 
possibile 
eseguire la confisca del profitto o del prodotto diretti; 


2. 
delle 
cose, 
la 
fabbricazione, 
l'uso, 
il 
porto, 
la 
detenzione 
o 
l'alienazione 
delle 
quali 
costituisce 
reato, 
anche 
se 
non 
è 
stata 
pronunciata 
condanna. 
le 
disposizioni 
della 
prima 
parte 
e 
dei 
numeri 
1 
e 
1-bis 
del 
capoverso 
precedente 
non si 
applicano se 
la cosa o il 
bene 
o lo strumento informatico o 
telematico 
appartiene 
a 
persona 
estranea 
al 
reato. 
la 
disposizione 
del 
numero 
1-bis 
del 
capoverso 
precedente 
si 
applica 
anche 
nel 
caso 
di 
applicazione 
della 
pena 
su 
richiesta 
delle 
parti 
a 
norma 
dell'articolo 
444 
del 
codice 
di 
procedura 
penale. 


la disposizione 
del 
n. 2 non si 
applica se 
la cosa appartiene 
a persona 
estranea al 
reato e 
la fabbricazione, l'uso, il 
porto, la detenzione 
o l'alienazione 
possono essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa». 


Si 
precisa, peraltro, che 
il 
comma 
1-bis 
dell'art. 240 cp, ratione 
temporis 
applicabile 
ai 
fatti 
di 
causa, così 
prevedeva: 
«1-bis, dei 
beni 
e 
degli 
strumenti 
informatici 
o telematici 
che 
risultino essere 
stati 
in tutto o in parte 
utilizzati 
per 
la 
commissione 
dei 
reati 
di 
cui 
agli 
articoli 
615-ter, 
615-quater, 
615-quinquies, 
617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635ter, 
635-quater, 635-quinquies, 640-ter e 640-quinquies». 


Inoltre, 
l'art. 
52 
del 
DLgs 
n. 
159/2011 
(diritti 
dei 
terzi) 
prevede, 
tra 
l'altro, 
che 
«1. la confisca non pregiudica i 
diritti 
di 
credito dei 
terzi 
che 
risultano 
da atti 
aventi 
data certa anteriore 
al 
sequestro, nonché 
i 
diritti 
reali 
di 
garanzia 
costituiti 
in epoca anteriore 
al 
sequestro, ove 
ricorrano le 
seguenti 
condizioni: 


a) 
che 
il 
proposto non disponga di 
altri 
beni 
sui 
quali 
esercitare 
la garanzia 
patrimoniale 
idonea 
al 
soddisfacimento 
del 
credito, 
salvo 
che 
per 
i 
crediti 
assistiti da cause legittime di prelazione su beni sequestrati; 
b) 
che 
il 
credito non sia strumentale 
all'attività illecita o a quella che 
ne 
costituisce 
il 
frutto o il 
reimpiego, sempre 
che 
il 
creditore 
dimostri 
la buona 
fede e l'inconsapevole affidamento; 
c) 
nel 
caso 
di 
promessa 
di 
pagamento 
o 
di 
ricognizione 
di 
debito, 
che 
sia 
provato il rapporto fondamentale; 
d) 
nel 
caso di 
titoli 
di 
credito, che 
il 
portatore 
provi 
il 
rapporto fondamentale 
e quello che ne legittima il possesso. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


2. I crediti 
di 
cui 
al 
comma 1 devono essere 
accertati 
secondo le 
disposizioni 
contenute 
negli 
articoli 
57, 58 e 
59 e 
concorrono al 
riparto sul 
valore 
dei 
beni 
o 
dei 
compendi 
aziendali 
ai 
quali 
si 
riferiscono 
in 
base 
alle 
risultanze 
della contabilità separata di cui all'articolo 37, comma 5. 
2-bis. 
Gli 
interessi 
convenzionali, 
moratori 
e 
a 
qualunque 
altro 
titolo 
dovuti 
sui 
crediti 
di 
cui 
al 
comma 1 sono riconosciuti, nel 
loro complesso, nella 
misura 
massima 
comunque 
non 
superiore 
al 
tasso 
calcolato 
e 
pubblicato 
dalla 
Banca d'Italia sulla base 
di 
un paniere 
composto dai 
buoni 
del 
tesoro poliennali 
quotati sul mercato obbligazionario telematico (rendIsTaTo). 


3. 
nella valutazione 
della buonafede, il 
tribunale 
tiene 
conto delle 
condizioni 
delle 
parti, 
dei 
rapporti 
personali 
e 
patrimoniali 
tra 
le 
stesse 
e 
del 
tipo 
di 
attività svolta dal 
creditore, anche 
con riferimento al 
ramo di 
attività, alla 
sussistenza 
di 
particolari 
obblighi 
di 
diligenza 
nella 
fase 
precontrattuale 
nonché, 
in caso di enti, alle dimensioni degli stessi. 
3-bis. Il 
decreto con cui 
sia stata rigettata definitivamente 
la domanda 
di 
ammissione 
del 
credito, presentata ai 
sensi 
dell'articolo 58, comma 2, in 
ragione 
del 
mancato 
riconoscimento 
della 
buonafede 
nella 
concessione 
del 
credito, proposta da soggetto sottoposto alla vigilanza della Banca d'Italia, è 
comunicato 
a 
quest'ultima 
ai 
sensi 
dell'articolo 
9 
del 
decreto 
legislativo 
21 
novembre 2007, n. 231, e successive modificazioni. 


4. 
la confisca definitiva di 
un bene 
determina lo scioglimento dei 
contratti 
aventi 
ad oggetto un diritto personale 
di 
godimento o un diritto reale 
di 
garanzia, nonché l'estinzione dei diritti reali di godimento sui beni stessi. 
5. ai 
titolari 
dei 
diritti 
di 
cui 
al 
comma 4, spetta in prededuzione 
un equo 
indennizzo 
commisurato 
alla 
durata 
residua 
del 
contratto 
o 
alla 
durata 
del 
diritto reale. se 
il 
diritto reale 
si 
estingue 
con la morte 
del 
titolare, la durata 
residua del 
diritto è 
calcolata alla stregua della durata media della vita determinata 
sulla 
base 
di 
parametri 
statistici. 
le 
modalità 
di 
calcolo 
dell'indennizzo 
sono 
stabilite 
con 
decreto 
da 
emanarsi 
dal 
ministro 
dell'economia 
e 
delle 
finanze 
e 
del 
ministro della giustizia entro centoottanta giorni 
dall'entrata in 
vigore del presente decreto. 
6. se 
sono confiscati 
beni 
di 
cui 
viene 
dichiarata l'intestazione 
o il 
trasferimento 
fittizio, 
i 
creditori 
del 
proposto 
sono 
preferiti 
ai 
creditori 
chirografari 
in buonafede 
dell'intestatario fittizio, se 
il 
loro credito è 
anteriore 
all'atto 
di intestazione fittizia...». 
metodologia e limitazione dell'ambito del parere. 


occorre 
anzitutto prendere 
atto che 
in materia 
di 
confisca 
il 
quadro dottrinale 
e 
giurisprudenziale 
si 
presenta 
al 
momento in forte 
evoluzione 
e 
frammentato, 
al 
punto che 
appare 
arduo individuare 
persino un punto fermo sulla 
natura 
in generale 
dell'istituto della 
confisca 
in ambito penale. Come 
noto, infatti, 
quale 
effetto della 
contrapposizione 
di 
punti 
di 
vista 
diversi 
e 
di 
una 
co



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


piosa 
normazione 
disorganica, è 
stato prospettato, anche 
e 
soprattutto in giurisprudenza, 
che 
nell'ordinamento 
s'individua 
una 
pluralità 
di 
confische 
(a 
mero titolo d'esempio, obbligatoria, facoltativa, codicistica 
di 
parte 
generale, 
codicistica 
di 
parte 
speciale, 
extracodicistica, 
generale/speciale/particolare, 
diretta/
per equivalente 
o di 
valore, allargata, per sproporzione, di 
prevenzione, 
amministrativa da depenalizzazione, variamente combinate tra di loro). 


Pertanto, 
in 
giurisprudenza, 
si 
è 
affermata 
da 
tempo 
la 
tendenza 
a 
privilegiare 
valutazioni 
casistiche, 
che 
cioè 
variano 
da 
caso 
a 
caso, 
a 
seconda 
del 
tipo 
di 
confisca 
di 
cui 
si 
tratta 
(cfr. 
Cass. 
pen. 
Sez. 
Unite 
Sent., 
27 
marzo 
2008, 
n. 
26654). 


In 
linea 
con 
questa 
tendenza, 
risulta 
allora 
preferibile 
e 
maggiormente 
confacente 
all'esigenza 
dell'Agenzia 
del 
demanio, 
all'attualità, 
piuttosto 
che 
tracciare 
una 
soluzione 
generale 
riferibile 
a 
un istituto unitario (la 
confisca 
in 
sé), verificare 
preliminarmente 
quale 
confisca 
sia 
stata 
disposta 
nella 
fattispecie 
in esame, al 
fine 
di 
risolvere 
il 
caso concreto da 
cui 
muove 
la 
richiesta 
di 
consulenza 
legale, senza 
pretesa, in questa 
sede, di 
fornire 
una 
soluzione 
generale 
che 
sia 
valevole 
per ogni 
figura 
di 
confisca 
presente 
nell'ordinamento, 
cosicché 
si 
possa 
formulare 
sì 
un parere 
di 
massima, concernente 
soltanto lo 
specifico oggetto d'interesse 
che, come 
subito si 
vedrà, è 
costituito dalla 
confisca 
ai sensi dell'art. 240 cp. 


Ebbene, dal 
dispositivo della 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Lecce 
del 
5 aprile 
2013, che 
sarebbe 
stata 
confermata 
in Corte 
d'appello (agli 
atti 
è 
leggibile 
con 
chiarezza 
soltanto 
il 
dispositivo 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado), 
risulta 
confermato 
che 
la 
confisca 
di 
beni 
immobili 
già 
in 
sequestro 
-gli 
unici 
d'interesse 
per l'Agenzia 
del 
demanio -è 
stata 
ordinata 
soltanto ai 
sensi 
dell'art. 240 cp, 
senza 
ulteriore 
specificazione. 
Non 
risulta 
del 
tutto 
chiaro 
a 
quale 
titolo 
di 
reato 
siano 
state 
comminate 
le 
condanne, 
profilandosi, 
peraltro, 
un'associazione 
a 
delinquere 
(art. 
416 
cp) 
per 
rapina 
(628 
cp) 
e 
reati 
per 
produzione, 
traffico 
e 
detenzione 
illeciti 
di 
sostanze 
stupefacenti 
o 
psicotrope 
(art. 
73 
DPR 
n. 309/1990). 


Appare 
dunque 
estraneo al 
caso in disamina 
l'art. 12-sexies 
(Ipotesi 
particolari 
di 
confisca) 
del 
DL 
8 
giugno 
1992, 
n. 
306, 
conv. 
con 
mod. 
in 
L. 
7 
agosto 
1992, n. 356, che 
è 
citato nella 
richiesta 
di 
parere, seppur al 
solo scopo di 
comparazione 
delle 
fattispecie, e 
ai 
sensi 
del 
quale 
alla 
c.d. confisca 
allargata 
si applica, tra gli altri, l'art. 52 del DLgs n. 159/2011. 


Inoltre, 
a 
meno 
che 
gli 
immobili 
non 
costituiscano 
il 
prezzo 
del 
reato, 
cosa 
che 
pare 
doversi 
qui 
escludere, salvo diversa 
verifica 
di 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, la 
confisca 
disposta 
non può che 
configurarsi 
come 
facoltativa 
e diretta, di cui al primo comma dell'art. 240 cp. 


Gli 
orientamenti 
della giurisprudenza italiana sulla tutela del 
terzo creditore 
rispetto alla confisca. 


Siccome 
si 
tratta 
di 
confisca 
diretta 
e 
facoltativa, 
essa 
rientra, 
secondo 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


tradizione, 
nell'istituto 
delle 
misure 
di 
sicurezza 
reali 
o 
patrimoniali, 
a 
carattere 
non punitivo bensì 
cautelare, aventi 
finalità 
preventiva 
fondata 
sulla 
pericolosità 
del 
reo (anche 
indiretta 
per mezzo della 
pericolosità 
della 
cosa) derivante 
dalla 
disponibilità 
di 
alcune 
cose 
che 
servirono o furono destinate 
a 
commettere 
il 
reato ovvero delle 
cose 
che 
ne 
sono il 
prodotto o il 
profitto. Trattandosi 
di 
misura 
di 
sicurezza 
patrimoniale, 
dalla 
confisca 
consegue 
un 
istantaneo 
trasferimento 
del bene in favore del patrimonio dello Stato. 


È discusso se l'acquisto sia effettuato a titolo derivativo o originario. 


Vi 
sono 
pronunce 
che 
ne 
affermano 
in 
generale 
la 
natura 
derivativa: 
la 
confisca, sia 
essa 
quella 
regolata 
dagli 
artt. 236 e 
240 cp, quale 
misura 
di 
sicurezza, 
sia 
quella 
disciplinata 
come 
vera 
e 
propria 
sanzione 
o 
surrogato 
di 
sanzione 
da 
alcune 
leggi 
speciali 
(soprattutto in materia 
fiscale), e 
sia 
quella 
avente - infine - duplice carattere preventivo e repressivo, dà luogo ad un acquisto 
in favore 
dello Stato, del 
bene 
confiscato, non altrimenti 
definibile 
che 
come 
"derivativo", proprio in quanto esso non prescinde 
dal 
rapporto già 
esistente 
fra 
quel 
bene 
ed il 
precedente 
titolare, ma 
anzi 
un tale 
rapporto "presuppone" 
ed 
un 
tal 
rapporto 
è 
volto 
a 
fare 
venir 
meno, 
per 
ragioni 
di 
prevenzione 
e/o di 
politica 
criminale, con l'attuare 
il 
trasferimento del 
diritto, 
dal 
privato condannato o indiziato di 
appartenenza 
ad associazioni 
mafiose, 
allo Stato (Cass. Sez. 1 civ., Sentenza n. 5988 del 3 luglio 1997). 


Vi 
sono, per converso, pronunce 
che 
ne 
affermano la 
natura 
di 
acquisto a 
titolo originario, se 
si 
tratti 
di 
confisca 
preventiva: 
nel 
riferirsi 
ai 
commi 
da 
189 a 
205 della 
L. 24 dicembre 
2012, n. 228, Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 
26 
febbraio 
2013) 
7 
maggio 
2013, 
n. 
10533 
ha 
ritenuto 
che 
«il 
legislatore 
sembra 
avere 
risolto, nel 
senso della prevalenza della misura di 
prevenzione 
patrimoniale, 
il 
quesito 
relativo 
ai 
rapporti 
ipoteca-confisca, 
indipendentemente 
dal 
dato 
temporale, 
con 
conseguente 
estinzione 
di 
diritto 
degli 
oneri 
e 
pesi 
iscritti o trascritti. 


nessun dubbio che 
la norma faccia riferimento anche 
all'ipoteca, al 
sequestro 
conservativo ed al 
pignoramento ricompresi 
tra i 
pesi 
e 
gli 
oneri 
dei 
quali è affermata l'estinzione. 


ma, 
quel 
che 
pare 
anche 
avere 
avuto 
soluzione 
è 
la 
natura 
dell'acquisto 
del 
bene 
confiscato 
da 
parte 
dello 
stato 
che, 
a 
seguito 
dell'estinzione 
di 
diritto 
dei 
pesi 
e 
degli 
oneri 
iscritti 
o 
trascritti 
prima 
della 
misura 
di 
prevenzione 
della 
confisca 
acquista 
un 
bene 
non 
più 
a 
titolo 
derivativo, 
ma 
libero 
dai 
pesi 
e 
dagli 
oneri, 
pur 
iscritti 
o 
trascritti 
anteriormente 
alla 
misura 
di 
prevenzione. 


In sostanza, superando la condivisa opinione 
della giurisprudenza civile 
e 
penale 
sulla natura derivativa del 
titolo di 
acquisto del 
bene 
immobile 
da 
parte 
dello stato a seguito della confisca, il 
legislatore 
ha inteso ricomprendere 
questa 
misura 
nel 
solco 
delle 
cause 
di 
estinzione 
dell'ipoteca 
disciplinate 
dall'art. 2878 c.c. 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


alla 
stregua 
di 
tale 
normativa, 
dunque, 
in 
ogni 
caso, 
la 
confisca 
prevarrà 
sull'ipoteca. 


la salvaguardia del 
preminente 
interesse 
pubblico, dunque, giustifica il 
sacrificio 
inflitto 
al 
terzo 
di 
buonafede, 
titolare 
di 
un 
diritto 
reale 
di 
godimento 


o di garanzia, ammesso, ora, ad una tutela di tipo risarcitorio. 
Il 
bilanciamento dei 
contrapposti 
interessi 
viene, quindi, differito ad un 
momento successivo, allorché 
il 
terzo creditore 
di 
buona fede 
chiederà -attraverso 
l'apposito procedimento - il riconoscimento del suo credito». 


Si 
rinvengono poi 
pronunce 
giurisprudenziali 
che 
nell'ambito dell'una 
o 
dell'altra 
categorizzazione, o a 
prescindere 
da 
essa, effettuano distinzioni 
specifiche. 


In funzione 
delle 
differenza 
specifica 
costituita 
dalla 
finalità 
preventiva 


o repressiva, si 
è 
così 
anzitutto affermato nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
con riguardo all'art. 240 cp, che, pur riconoscendo alla 
confisca 
il 
carattere 
di 
modo 
di 
acquisto 
a 
titolo 
originario 
a 
favore 
dello 
Stato, 
non 
ne 
consegue, 
come 
effetto necessario ed indiscriminato, l'estinzione 
di 
ogni 
diritto reale 
e 
di 
garanzia 
reale 
gravante 
sulla 
cosa, 
tale 
estinzione 
operando 
rispetto 
ai 
diritti 
reali 
o di 
garanzia 
che 
appaiono nelle 
singole 
ipotesi 
incompatibili 
con la 
funzione 
e 
gli 
scopi 
in vista 
dei 
quali 
è 
previsto il 
sorgere 
di 
un diritto a 
titolo originario. 
Deve 
distinguersi 
al 
riguardo 
la 
confisca 
preventiva 
dalla 
confisca 
repressiva. mentre 
nel 
primo caso i 
diritti 
reali 
o di 
garanzia 
reale 
del 
terzo 
vengono in genere 
soppressi, e 
solo eccezionalmente 
si 
convertono nel 
diritto 
ad un parziale 
indennizzo per la 
perdita 
subita, nel 
secondo caso non vi 
è 
alcuna 
incompatibilità 
concettuale 
al 
permanere 
dei 
diritti 
reali 
e 
di 
garanzia 
sulla 
cosa 
confiscata 
che 
viene 
acquisita 
al 
patrimonio disponibile 
dello Stato 
(Cass. Sez. 3 civ., Sentenza n. 1207 del 30 maggio 1967). 
Così, per Cass. pen. Sez. I Sent., 27 ottobre 
2017, n. 15534, in tema 
di 
confisca 
per equivalente, la 
natura 
sanzionatoria 
del 
provvedimento non osta 
alla 
tutela 
del 
diritto sul 
bene 
oggetto di 
confisca 
vantato da 
un terzo estraneo 
alla condotta illecita altrui, che versa in condizione di buona fede. 


Non 
manca, 
però, 
la 
giurisprudenza 
che 
sembra 
invertire 
il 
rapporto 
di 
genere 
a 
specie, 
di 
cui 
si 
è 
appena 
letto 
nella 
risalente 
pronuncia 
della 
Suprema 
Corte 
dell'anno 1967. Infatti, per Cass. pen. Sez. III Sent., 18 aprile 
2019, n. 
38608, la 
previsione 
dell'art. 52 d.lgs. 6 settembre 
2011, n. 159, secondo cui 
la 
confisca 
non 
pregiudica 
i 
diritti 
di 
credito 
dei 
terzi 
e 
i 
diritti 
reali 
di 
garanzia 
anteriori 
al 
sequestro, 
sebbene 
riferita 
alla 
cd. 
confisca 
di 
prevenzione, 
esprime 
un principio generale, valido anche 
per gli 
altri 
tipi 
di 
confisca, diretta 
o per 
equivalente, per i 
quali 
venga 
in rilievo la 
posizione 
del 
terzo titolare 
di 
diritti 
di 
credito o di 
garanzia, ivi 
compresa 
quella 
in ambito tributario di 
cui 
all'art. 
12-bis 
d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. La 
disciplina 
in materia 
di 
tutela 
dei 
terzi 
rispetto alla 
confisca 
preventiva 
nel 
settore 
antimafia 
viene 
dunque 
letta, non 
come 
un'eccezione, ma 
come 
un'applicazione 
settoriale 
di 
un principio di 
più 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


ampia 
portata. Si 
tratta 
dell'estensione, che 
sarebbe 
soltanto esplicitata 
nel 
diritto 
positivo 
proprio 
nella 
normativa 
antimafia, 
del 
principio 
generale 
di 
tutela 
del 
terzo in buona 
fede 
che 
ha 
agito con affidamento incolpevole, derivabile 
dall'art. 27 Cost. sulla personalità della responsabilità penale. 


Quanto 
all'ipoteca, 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
s'è 
consolidata 
in 
effetti, 
per 
lo 
meno 
a 
partire 
da 
Cass. 
pen. 
Sez. 
Unite 
ord., 
28 
aprile 
1999, 
n. 
9, 
a 
proposito 
della 
confisca 
per 
equivalente, 
nel 
senso 
che 
l'applicazione 
della 
confisca 
non 
determina 
l'estinzione 
del 
preesistente 
diritto 
reale 
di 
garanzia 
costituito 
a 
favore 
di 
terzi 
sulle 
cose 
che 
ne 
sono 
oggetto 
quando 
costoro, 
avendo 
tratto 
oggettivamente 
vantaggio 
dall'altrui 
attività 
criminosa, 
riescano 
a 
provare 
di 
trovarsi 
in 
una 
situazione 
di 
buona 
fede 
e 
di 
affidamento 
incolpevole. 


Sempre 
in materia 
di 
confisca 
per equivalente, però, la 
posizione 
non è 
granitica: 
secondo Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 11 luglio 2018) 18 gennaio 
2019, n. 2351, «il 
rilievo della ontologica differenza tra la confisca per 
equivalente 
e 
quella di 
prevenzione, giacché, mentre 
quella disposta all'esito del 
giudizio penale 
postula l'accertamento della consumazione 
di 
un reato e 
l'affermazione 
della 
relativa 
responsabilità, 
a 
fronte 
dei 
quali 
le 
garanzie 
dei 
terzi 
sui 
beni 
confiscati 
sono destinate 
a recedere, quella di 
prevenzione 
si 
fonda 
sui 
presupposti 
stabiliti 
dal 
d.lgs. n. 159 del 
2011, art. 24 ..., e, ai 
sensi 
del 
d.lgs. n. 159 del 
2011, art. 16, può essere 
disposta nei 
confronti 
dei 
soggetti 
di 
cui 
al 
d.lgs. n. 159 del 
2001, art. 4 ...: tale 
radicale 
differenza di 
presupposti, 
destinatari 
e 
funzione, 
giustifica 
anche 
la 
diversa 
disciplina 
applicabile, 
sicché 
non 
è 
dato 
rilevare 
la 
ingiustificata 
disparità 
di 
trattamento 
prospettata 
..., 
né 
i 
presupposti 
per 
una 
estensione 
adeguatrice 
della 
disciplina 
dettata 
per 
la confisca di 
prevenzione». Analogamente, v. Cass. Sez. 5, Sentenza 
n. 
8935 del 
20 gennaio 2016; 
Sez. 4, Sentenza 
n. 36092 del 
6 luglio 2017; 
Sez. 
2, Sentenza n. 10471 del 12 febbraio 2014. 


Qualche 
mese 
dopo, nello stesso anno, tuttavia, la 
Corte 
di 
cassazione, 
Sez. 
3 
pen., 
con 
la 
già 
citata 
sentenza 
n. 
38608 
del 
18 
aprile 
2019, 
ha 
di 
nuovo 
sostenuto 
che 
la 
previsione 
dell'art. 
52 
d.lgs. 
6 
settembre 
2011, 
n. 
159, 
secondo 
cui 
la 
confisca 
non pregiudica 
i 
diritti 
di 
credito dei 
terzi 
e 
i 
diritti 
reali 
di 
garanzia 
anteriori 
al 
sequestro, sebbene 
riferita 
alla 
cd. confisca 
di 
prevenzione, 
esprime 
un 
principio 
generale, 
valido 
anche 
per 
gli 
altri 
tipi 
di 
confisca, 
diretta 


o per equivalente, per i 
quali 
venga 
in rilievo la 
posizione 
del 
terzo titolare 
di 
diritti 
di 
credito o di 
garanzia, ivi 
compresa 
quella 
in ambito tributario di 
cui 
all'art. 12-bis 
d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Si 
tratta 
di 
posizione 
confermata, 
da 
ultimo, 
anche 
da 
Corte 
di 
cassazione, 
Sez. 
3 
pen., 
9 
settembre 
2021, 
n. 
33429/21, secondo cui 
«3.14. le 
disposizioni 
in materia di 
tutela dei 
terzi 
e 
di 
esecuzione 
del 
sequestro previste 
dal 
codice 
delle 
leggi 
antimafia di 
cui 
al 
d.lgs. 6 settembre 
2011, n. 159, si 
applicano anche 
alle 
confische 
disposte 
da 
fonti 
normative 
poste 
al 
di 
fuori 
del 
codice 
penale 
e, 
dunque, 
anche 
a 
quella 
disposta ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis. 

PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


3.15. resta da appurare in che modo operi tale tutela. 
3.16. al 
riguardo non possono che 
venire 
in rilievo le 
norme 
contenute 
nel 
Titolo Iv 
libro I, d.lgs. n. 159 del 
2011, ed in particolare 
gli 
artt. 52 e 
55. 
3.17. l 
'art. 55, comma 1, in particolare, esclude 
che 
sui 
beni 
sottoposti 
a sequestro ("scilicet" 
anche 
finalizzato ad una delle 
confische 
di 
cui 
all'art. 
240-bis 
c.p., 
e/o 
art. 
578-bis 
c.p.p.) 
possano 
essere 
iniziate 
o 
proseguite 
azioni 
esecutive. Il 
successivo comma 2 sancisce 
l'estinzione 
tout 
court 
delle 
procedure 
esecutive 
in relazione 
a beni 
oggetto di 
provvedimento definitivo di 
confisca. 
3.18. la tutela del 
terzo creditore 
in buona fede 
non opera, dunque, mediante 
la sterilizzazione 
nei 
suoi 
confronti 
del 
provvedimento ablativo, bensì 
nei 
termini 
e 
modi 
stabiliti 
dall'art. 52, d.lgs. n. 159, cit., il 
cui 
comma 1 stabilisce 
che 
"la 
confisca 
non 
pregiudica 
i 
diritti 
di 
credito 
dei 
terzi 
che 
risultano 
da atti 
aventi 
data certa anteriore 
al 
sequestro, nonché 
i 
diritti 
reali 
di 
garanzia 
costituiti 
in epoca anteriore 
al 
sequestro", se 
ricorrono le 
condizioni 
indicate 
alle successive lettere a), b), c) e d). 
3.19. Ciò perché 
la confisca comporta l'acquisizione 
del 
bene 
allo stato 
libero da oneri e pesi (d.lgs. n. 159 del 2011, art. 45, comma 1). 
3.20. 
Il 
terzo, 
dunque, 
può 
far 
valere 
le 
proprie 
ragioni 
creditorie 
in 
sede 
esecutiva penale... 
3.21. 
Ciò 
non 
esclude 
in 
alcun 
modo 
che 
la 
Banca 
non 
abbia 
un 
interesse 
tutelabile 
in 
sede 
penale 
sol 
perché 
non 
proprietaria 
del 
bene 
confiscato, 
bensì, 
come 
nel 
caso 
di 
specie, 
di 
un 
diritto 
reale 
di 
garanzia 
(ma 
sarebbe 
sufficiente 
anche 
un diritto credito chirografario azionato in sede 
esecutiva sul 
bene 
confiscato); si 
deve 
al 
contrario riconoscere 
che 
la banca è 
titolare 
di 
una 
situazione 
giuridica 
soggettiva 
attiva 
preesistente 
al 
provvedimento 
ablatorio 
che 
non 
solo 
la 
legittimava 
all'esercizio 
dell'azione 
in 
sede 
esecutiva 
per 
la riscossione 
coattiva del 
credito ma anche 
alla conservazione 
del 
bene 
che 
costituisce 
la garanzia immediata e 
diretta del 
proprio credito e 
alla conseguente 
prosecuzione 
in sede 
civilistica dell'azione 
esecutiva definitivamente 
estinta 
dal 
sopravvenuto 
provvedimento 
di 
confisca. 
Tale 
provvedimento 
ha 
sicuramente 
inciso 
non 
sul 
diritto 
di 
credito 
bensì 
sui 
limiti 
e 
modi 
di 
esercizio 
del 
diritto stesso che, in caso di 
confisca, possono pregiudicarne 
il 
riconoscimento 
o 
limitarne 
l'oggetto. 
dunque 
la 
banca 
ha 
certamente 
interesse 
alla 
eliminazione 
dal 
modo giuridico di 
un provvedimento che 
pregiudica e/o limita 
il pieno e incondizionato esercizio del proprio diritto di credito». 
In 
funzione 
della 
distinzione 
tra 
tutela 
penale 
e 
civile, 
altra 
giurisprudenza 
ha, infine, sancito che 
gli 
effetti 
della 
confisca 
penale 
(di 
qualunque 
natura), 
ordinata 
anteriormente 
all'assegnazione 
o 
all'aggiudicazione 
nell'espropriazione 
forzata, prevalgono sui 
diritti 
dei 
terzi 
creditori 
del 
soggetto in danno 
del 
quale 
la 
confisca 
è 
operata, 
anche 
se 
si 
tratta 
di 
diritti 
reali 
di 
garanzia 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


iscritti 
anteriormente, sicché 
la 
confisca 
penale 
intervenuta 
prima 
del 
pignoramento 
prevale 
senz'altro 
su 
quest'ultimo, 
sul 
piano 
civile, 
indipendentemente 
dalla 
data 
della 
sua 
trascrizione, mentre 
l'eventuale 
tutela 
dei 
diritti 
dei 
creditori 
pignoranti 
o titolari 
di 
diritti 
reali 
di 
garanzia 
è 
possibile 
solo in sede 
penale, 
nell'ambito 
dell'esecuzione 
penale 
(Cass. 
civ. 
Sez. 
III, 
30 
novenbre 
2018, 
n. 30990). 


Ancor 
più 
recentemente, 
però, 
prendendo 
espressamente 
in 
considerazione 
quest'ultima 
posizione 
della 
stessa 
Sezione, Cass. civ. Sez. III, Sent., 10 
dicembre 
2020, n. 28242, ha 
opinato che 
«... successivamente 
alla giurisprudenza 
delle 
sezioni 
unite 
civili 
di 
questa Corte 
del 
2013 ed 
alle 
sue 
prime 
pronunce 
applicative 
(applicata 
poi 
dalle 
più 
recenti 
Cass. 
30/11/2018, 
n. 
30990, 
ma 
a 
confisca 
d.l. 
n. 
306 
del 
1992, 
ex 
art. 
12-sexies 
nonchè 
Cass. 
08/02/2019, 


n. 3709, ma a confisca ai 
sensi 
della l. n. 575 del 
1965), l'evoluzione 
della 
disciplina sostanziale 
e 
processuale 
della confisca (tra cui 
soprattutto quella 
introdotta dalla razionalizzazione 
operata con la l. 17 ottobre 
2017, n. 161) 
e 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
penale 
hanno 
chiaramente 
interpretato 
come 
speciale 
la disciplina dettata dal 
d.lgs. 6 settembre 
2011, n. 159, così 
escludendo 
che 
questa possa reputarsi 
invece 
espressione 
di 
un principio generale 
di 
prevalenza delle 
esigenze 
pubblicistiche 
sottese 
ai 
corrispondenti 
istituti 
in 
materia penale e di prevenzione. 
3. ne 
segue 
che, da un lato, i 
rapporti 
tra confisca e 
procedure 
esecutive 
civili 
sono 
regolati 
dal 
d.lgs. 
n. 
159 
del 
2011 
(con 
sostanziale 
prevalenza 
del-
l'istituto 
penalistico 
sui 
diritti 
reali 
dei 
terzi, 
che 
solo 
se 
di 
buona 
fede 
possono 
vedere 
tutelate 
le 
loro ragioni, ma in sede 
di 
procedimento di 
prevenzione 
o 
di 
esecuzione 
penale) esclusivamente 
nelle 
ipotesi 
di 
confisca che 
sono disciplinate 
da 
quello 
direttamente 
o 
da 
norme 
che 
esplicitamente 
vi 
rinviano 
(come 
l’art. 
104-bis 
disp. 
att. 
cpp.; 
da 
ultimo: 
Cass. 
pen. 
13/05/2 
20, 
n. 
14378, 
imp. 
marchio, 
ud. 
12/12/2019; 
Cass. 
pen. 
10/07/2019, 
n. 
30422, 
imp. 
samariti, 
ud. 30/05/2019); e, dall'altro, che 
pure 
a regolare 
i 
rapporti 
tra le 
tipologie 
di 
confisca diverse 
da quelle 
del 
d.lgs. n. 159 del 
2011 (e 
da quelle 
ad esse 
equiparate 
per 
espressa previsione 
normativa) e 
le 
procedure 
esecutive 
civili 
si 
applica 
il 
principio 
generale 
della 
successione 
temporale 
delle 
formalità 
nei 
pubblici 
registri 
(Cass. 
pen. 
sez. 
III, 
09/11/2018, 
n. 
51043, 
deri 
e 
altri, 
c.d. 03/10/2018, per 
la quale, "ai 
sensi 
dell'art. 2915 c.c., l'opponibilità del 
vincolo 
penale 
al 
terzo 
acquirente 
in 
sede 
esecutiva 
dipende 
dalla 
trascrizione 
del 
sequestro, 
ai 
sensi 
dell'art. 
104 
disp. 
att. 
c.p.p., 
che 
deve 
essere 
antecedente 
a quella del 
pignoramento immobiliare, venendo così 
a rappresentare 
il 
presupposto 
per 
la confisca anche 
successivamente 
all'acquisto"; sicché, "se 
la 
trascrizione 
del 
sequestro è 
successiva, il 
bene 
deve 
ritenersi 
appartenente 
al 
terzo pieno iure, con conseguente 
impossibilità della confisca posteriore 
all'acquisto")
». 
Nel 
senso della 
compatibilità 
tra 
vincoli 
penali 
e 
civili, con consequen



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


ziale 
applicazione 
del 
sistema 
ordinario 
di 
priorità 
delle 
trascrizioni 
(art. 
2915 
cc), si 
è 
espressa 
anche 
Cass. pen. Sez. III, Sent., 9 novembre 
2018, n. 51043, 
secondo 
cui 
«in 
tema 
di 
rapporto 
tra 
sequestro 
e 
confisca 
in 
sede 
penale 
e 
procedimento 
immobiliare 
in 
sede 
civile 
con 
riferimento 
alla 
posizione 
dei 
terzi 
acquirenti, 
difettando 
specifiche 
disposizioni 
che 
lo 
disciplinino, 
deve 
ritenersi 
che 
il 
legislatore 
abbia considerato ed ammesso la possibilità di 
una 
contemporanea pendenza di 
due 
procedimenti, cui 
consegue 
la possibilità di 
rinvenire 
un 
punto 
di 
coordinamento 
nel 
principio 
secondo 
il 
quale 
la 
confisca 
diretta 
del 
profitto, 
.... 
non 
può 
attingere 
beni 
appartenenti 
a 
persone 
estranee 
al 
reato. ... va poi 
rilevato, tenuto conto anche 
del 
disposto dell'art. 2915 c.c., 
che 
l'opponibilità del 
vincolo penale 
al 
terzo acquirente 
in sede 
esecutiva dipende 
dalla trascrizione 
del 
sequestro (ex 
art. 104 disp. att. c.p.p.), che 
deve 
essere 
antecedente 
a 
quella 
del 
pignoramento 
immobiliare, 
venendo 
così 
a 
rappresentare 
il 
presupposto 
per 
la 
confisca 
anche 
successivamente 
all'acquisto. 


diversamente, se 
la trascrizione 
del 
sequestro è 
successiva, il 
bene 
deve 
ritenersi 
appartenente 
al 
terzo 
"pieno 
iure" 
con 
conseguente 
impossibilità 
della confisca posteriore all'acquisto». 


In conclusione, quale 
risultato della 
disamina 
della 
giurisprudenza, deve 
convenirsi 
con 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
che 
non 
si 
rinvengono 
pronunce 
risolutive 
sull'art. 240 cp, con riguardo alla 
tutela 
dei 
creditori 
del 
soggetto 
assoggettato a 
confisca, e 
che, al 
riguardo, il 
quadro giurisprudenziale 
non è comunque univoco. 


l'ordinamento comunitario. 


A 
fronte 
della 
frammentata 
interpretazione 
normativa 
risultante 
dalla 
giurisprudenza 
nazionale, 
appena 
descritta, 
non 
può 
non 
esaminarsi 
l'ordinamento 
comunitario in materia. 


In proposito, il 
18 dicembre 
2020 (v. art. 41) è 
entrato in vigore 
il 
Reg. 
(CE) 14/11/2018, n. 2018/1805/UE, relativo al 
riconoscimento reciproco dei 
provvedimenti di congelamento e di confisca. 


Con 
la 
finalità 
di 
agevolare 
e 
semplificare 
il 
riconoscimento 
e 
l'esecuzione 
dei 
provvedimenti 
di 
congelamento 
e 
confisca 
emessi 
dalle 
autorità 
di 
uno 
Stato membro diverso da 
quello in cui 
devono produrre 
i 
loro effetti, il 
regolamento 
armonizza 
le 
norme 
nazionali 
che 
prevedono 
le 
varie 
tipologie 
di 
provvedimento ablativo e 
offre 
a 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
un quadro generale 
di 
riferimento, in quanto "dovrebbe 
applicarsi 
a tutti 
i 
provvedimenti 
di 
congelamento 
e 
tutti 
i 
provvedimenti 
di 
confisca emessi 
nel 
quadro di 
un procedimento 
in 
materia 
penale. 
«Procedimento 
in 
materia 
penale» 
è 
un 
concetto 
autonomo 
del 
diritto 
dell'unione 
interpretato 
dalla 
Corte 
di 
giustizia 
del-
l'unione 
europea, ferma restando la giurisprudenza della Corte 
europea dei 
diritti 
dell'uomo. Tale 
termine 
contempla pertanto tutti 
i 
tipi 
di 
provvedimenti 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


di 
congelamento 
e 
provvedimenti 
di 
confisca 
emessi 
in 
seguito 
a 
procedimenti 
connessi 
ad un reato e 
non solo i 
provvedimenti 
che 
rientrano nell'ambito di 
applicazione 
della direttiva 2014/42/ue. esso contempla inoltre 
altri 
tipi 
di 
provvedimenti 
emessi 
in assenza di 
una condanna definitiva" 
(considerando 


n. 13 del Regolamento). 
L'ambito d'applicazione 
è 
dunque 
molto esteso e 
comprende 
senz'altro la 
fattispecie 
oggetto della 
richiesta 
di 
parere 
dell'Agenzia 
del 
demanio, ovverosia 
la 
confisca 
tradizionale 
(misura 
di 
sicurezza) 
prevista 
dal 
codice 
penale 
all'art. 
240. Infatti, ai 
sensi 
dei 
par. 1 e 
par. 4 dell'art. 1 del 
Regolamento, «1. Il 
presente 
regolamento stabilisce 
le 
norme 
secondo le 
quali 
uno stato membro 
riconosce 
ed esegue 
nel 
suo territorio provvedimenti 
di 
congelamento e 
provvedimenti 
di 
confisca emessi 
da un altro stato membro nel 
quadro di 
un procedimento 
in materia penale 
... 4. Il 
presente 
regolamento non si 
applica ai 
provvedimenti 
di 
congelamento 
e 
ai 
provvedimenti 
di 
confisca 
emessi 
nel 
quadro 
di 
un procedimento in materia civile 
o amministrativa»; 
provvedimento 
di 
confisca 
è 
«una sanzione 
o misura definitiva imposta da un organo giurisdizionale 
a seguito di 
un procedimento connesso a un reato, che 
provoca la 
privazione 
definitiva di 
un bene 
di 
una persona fisica o giuridica» (art. 2 n. 2 
del Regolamento). 


Deve 
notarsi, poi, che 
per il 
n. 10 dell'art. 2 del 
Regolamento sono annoverati 
tra 
i 
soggetti 
colpiti 
dalla 
confisca 
anche 
i 
terzi 
i 
cui 
diritti 
relativi 
ai 
beni 
oggetto 
del 
provvedimento 
di 
confisca 
sono 
direttamente 
lesi 
da 
detto 
provvedimento secondo il diritto dello Stato di esecuzione. 


Si 
tratta 
di 
definizione 
del 
terzo 
che 
rinvia 
alla 
legislazione 
degli 
Stati 
membri, dovendo ricavarsi 
la 
qualifica 
in questione, volta 
per volta, in base 
alla legge nazionale dello Stato di esecuzione (v. Considerando n. 15). 


La 
considerazione 
del 
terzo, 
nell'art. 
2 
del 
Regolamento, 
tra 
i 
soggetti 
colpiti 
dalla 
confisca 
è 
rilevante 
per 
attribuirgli 
i 
diritti 
d'informativa, 
di 
cui 
all'art. 
32, e 
la 
legittimazione 
processuale, sia 
a 
contestare 
il 
contenuto del 
provvedimento 
ablatorio (art. 33) sia ad esperire la tutela risarcitoria (art. 34). 


Ancorché 
il 
Regolamento 
sia 
applicabile 
a 
decorrere 
dal 
19 
dicembre 
2020 (art. 41), può comunque 
ben reputarsi 
che 
la 
realizzazione 
della 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali, anche 
a 
favore 
dei 
terzi 
creditori, sia 
stata 
anticipata 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
giustizia, la 
quale, pur in mancanza 
di 
disposizioni 
normative 
esplicite 
sulla 
necessità 
di 
tutelare 
i 
diritti 
dei 
terzi 
in 
buona 
fede, aveva 
già 
affermato che 
una 
normativa 
nazionale 
che 
consenta 
la 
confisca 
di 
un bene 
che 
appartenga 
a 
un terzo in buona 
fede 
è 
in contrasto con 
il 
diritto dell'Unione 
e, in particolare, con l'art. 47 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali, 
ai 
sensi 
del 
quale 
ogni 
persona, i 
cui 
diritti 
e 
le 
cui 
libertà 
garantiti 
dal 
diritto 
dell'Unione 
siano 
stati 
violati, 
ha 
diritto 
a 
un 
ricorso 
effettivo 
dinanzi 
a 
un 
giudice. 
Ne 
risulta 
che 
un 
terzo, 
cui 
è 
stato 
confiscato 
un 
bene, 
deve 
poter 
contestare 
la 
legittimità 
di 
tale 
misura 
al 
fine 
di 
recuperare 
tale 
bene 
qualora 



PARERI 
DEL 
ComITATo 
CoNSULTIVo 


la 
confisca 
non 
sia 
giustificata 
e 
che, 
dunque, 
una 
normativa 
nazionale 
che 
consente 
la 
confisca, nell'ambito di 
un procedimento penale, di 
un bene 
appartenente 
a 
una 
persona 
diversa 
da 
quella 
che 
ha 
commesso il 
reato, senza 
che 
tale 
persona 
estranea 
al 
reato disponga 
di 
un effettivo mezzo giuridico di 
tutela, 
è 
in 
contrasto 
con 
il 
diritto 
dell'Unione 
(sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione europea 14 gennaio 2021, n. 393/19). 


Pur 
riferendosi 
la 
Corte 
di 
giustizia, 
in 
ragione 
della 
fattispecie 
esaminata, 
soltanto 
all'appartenenza 
del 
bene 
a 
terzi, 
la 
Scrivente 
ritiene 
che 
la 
medesima 
valutazione, tenuto conto dell'esigenza 
del 
rispetto dei 
principi 
comunitari 
di 
proporzionalità 
e 
di 
necessità 
delle 
misure 
di 
sicurezza 
(cfr. Considerando n. 
21 del 
Regolamento cit. e 
par. 53 della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
cit.), 
non 
possa 
che 
coinvolgere 
qualsiasi 
altro 
diritto 
soggettivo 
o 
situazione 
di 
fatto 
giuridicamente 
tutelata, 
ancorché 
diverso 
dalla 
proprietà 
e/o 
dal 
possesso, 
che il terzo vanti sul bene. 


Queste 
conclusioni 
sono di 
carattere 
generale, al 
punto che 
le 
distinzioni 
operate 
nella 
giurisprudenza 
nazionale, 
sopra 
riferite, 
non 
appaiono 
più 
in 
grado d'impedire 
l'esplicazione 
della 
tutela 
del 
terzo al 
livello massimo possibile 
nell'ordinamento, 
come 
si 
desume 
dalla 
premessa 
della 
cit. 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
giustizia 
(par. 48 della 
sentenza 
cit.), attuale 
ad avviso di 
chi 
scrive 
anche 
dopo l'entrata 
in vigore 
del 
Regolamento cit., secondo cui 
dalla 
formulazione 
della 
definizione 
comunitaria 
di 
confisca 
risulta 
che 
poco importa 
che 
la 
confisca 
costituisca 
o 
meno 
una 
pena 
nel 
diritto 
penale, 
visto 
che 
una 
misura 
che 
comporta 
una 
privazione 
permanente 
del 
bene 
sequestrato, disposta 
da 
un 
giudice 
in relazione 
a 
un reato, rientra 
comunque 
nella 
nozione 
di 
«confisca». 


l'interpretazione sistematica preferibile. 


Alla 
luce 
dell'evoluzione 
avutasi 
nell'ordinamento comunitario e 
dell'efficacia 
diretta 
del 
Reg. (CE) 14/11/2018, n. 2018/1805/UE 
nell'ordinamento 
nazionale, deve 
ritenersi 
consequenzialmente 
innovato, dal 
punto di 
vista 
sistematico, 
il sopra descritto quadro normativo italiano. 


Ne 
consegue 
che 
per il 
divieto di 
discriminazione 
alla 
rovescia 
(art. 53 


L. 24 dicembre 
2012, n. 234) nonché 
in virtù dei 
principi 
generali 
dell'ordinamento, 
italiano e 
comunitario nonché 
internazionale 
(v. art. 6 della 
Convenzione 
per la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell'uomo e 
delle 
libertà 
fondamentali 
e 
l'art. 1 del 
relativo Protocollo addizionale), di 
buona 
fede 
e 
di 
affidamento, e 
del 
principio di 
personalità 
della 
responsabilità 
penale 
(art. 27 Cost.), appare 
preferibile 
interpretare 
il 
sistema 
normativo italiano, anche 
per il 
periodo anteriore 
all'entrata 
in vigore 
del 
Reg. (CE) 14/11/2018, n. 2018/1805/UE, nel 
senso 
che 
sia 
il 
più 
garantistico 
a 
tutela 
dei 
diritti 
dei 
terzi 
(anche 
aventi 
la 
qualifica 
di 
creditori), il 
cui 
interesse 
di 
contestazione 
è 
stato ritenuto meritevole 
di 
tutela 
anche 
nella 
sentenza 
della 
Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 20 
luglio 2017) 19 ottobre 2017, n. 48126 (cfr. par. 8.1.). 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 3/2021 


la risposta al quesito. 


Alla 
luce 
di 
tutto 
quanto 
si 
è 
fin 
qui 
esposto, 
la 
Scrivente 
esprime 
il 
parere 
di 
massima, secondo il 
quale 
è 
necessario, da 
parte 
dell'Agenzia 
del 
demanio, 
in 
caso 
di 
pignoramenti 
o 
iscrizioni 
d'ipoteca 
anteriori 
alla 
confisca 
di 
beni 
immobili, rivolgersi 
al 
giudice 
che, in base 
all'art. 240, primo comma, del 
codice 
penale, ha 
disposto la 
confisca, per chiedere 
di 
procedere 
alla 
vendita 
dei 
beni 
confiscati, in modo che, a 
seguito dell'informativa 
che 
ne 
ricevano i 
creditori 
(ipotecari 
o 
pignoranti), 
possa 
consentirsi 
la 
proposizione, 
da 
parte 
loro, 
di 
un incidente 
d'esecuzione 
in sede 
penale, con consequenziale 
verifica 
della 
loro buona 
fede, permettendo così 
a 
loro di 
partecipare 
alla 
distribuzione 
del 
ricavato in caso d'accertamento positivo di siffatto stato soggettivo. 


Questo 
parere, 
riguardante 
questione 
di 
massima, 
è 
stato 
sottoposto 
al 
Comitato consultivo del 
22 dicembre 
2021, che 
si 
è 
espresso conformemente 
a quanto sopra enunciato. 



LEGISLAZIONEEDATTUALITÀ
Intelligenza artificiale, neuroscienze, 
algoritmi: le sfide future per il giurista 


Gaetana Natale* 


Prefazione 


- Per un’intelligenza artificiale a misura d’uomo L’intelligenza 
artificiale 
è 
tra 
le 
più grandi 
sfide 
del 
terzo millennio (G. 
ALPA 
[a 
cura 
di], Diritto e 
intelligenza artificiale, Pisa, 2020, 13; 
già 
S. Ro-
Dotà, 
Tecnologie 
e 
diritti, 
Bologna, 
1995, 
ora 
edito 
a 
cura 
di 
G. 
ALPA, 
G. 
ReStA, M.R. MAReLLA, Bologna, 2021). 


I 
sistemi 
che 
«mostrano 
un 
comportamento 
intelligente», 
«analizzando 
il 
proprio ambiente 
e 
compiendo azioni, con un certo grado di 
autonomia, per 
raggiungere 
specifici 
obiettivi» (CoMMISSIone 
euRoPeA, Comunicazione 
«intelligenza 
artificiale 
per 
l’europa», 25 aprile 
2018, n. 237, 1) danno risposte 
inedite e pongono, al contempo, nuovi punti di domanda. 


L’artificial 
intelligence 
sembra 
impattare 
ogni 
ambito 
dell’orizzonte 
giuridico 
e 
delle 
professioni 
legali. 
Rende 
attuale 
e 
possibile 
ciò 
che 
appariva 
avveniristico. 
Dischiude 
un «grande 
teatro delle 
meraviglie», in cui 
«si 
vedono 
cose 
che 
parevano impossibili 
fino a 
ieri, e 
che 
ci 
conducono in una 
sorta 
di 
iper-realtà» (A. GARAPon 
-J. LASSèGue, 
La giustizia digitale. Determinismo 
tecnologico e libertà, Bologna, 2021, 11, che richiamano Baudrillard). 

Investe 
il 
diritto civile 
e 
il 
suo processo, il 
procedimento amministrativo 
e 
le 
tecniche 
di 
tutela 
avanti 
agli 
organi 
di 
giustizia 
(cfr. cap. II della 
mono


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto di 
Sistemi 
Giuridici 
Comparati, Consigliere 
Giuridico 
del Garante per la Privacy. 


Redazione 
delle 
note 
a 
cura 
delle 
Dott.sse 
Giulia 
Arcari 
e 
Valentina 
Sabatino, ammesse 
alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


grafia), i 
rapporti 
di 
lavoro, il 
diritto dei 
contratti 
(cfr. cap. IV 
della 
monografia), 
il 
sistema 
del 
diritto penale 
e 
delle 
correlate 
garanzie 
nelle 
indagini 
e 
nel 
giudizio (cfr. cap. III della monografia). 


Rinnova 
nel 
profondo 
le 
professioni 
legali, 
rendendo 
possibili 
le 
ricerche 
selettive 
dei 
dati, l’automazione 
dell’attività 
di 
analisi 
casistica, il 
confezionamento 
di 
testi 
giudiziali 
e 
negoziali 
(P. MoRo, 
intelligenza artificiale 
e 
professioni 
legali. 
La 
questione 
del 
metodo, 
in 
Journal 
of 
ethics 
and 
Legal 
Technologies, 
n. 
1/2019, 
25) 
e 
persino 
la 
previsione 
della 
sentenza 
‘probabile’ 


(G. ZACCARIA, figure 
del 
giudicare: calcolabilità, precedenti, decisione 
robotica, 
in 
riv. dir. civ., n. 2/2020, 277). 
Il 
diritto ha, del 
resto, un’anima 
matematica 
(cfr. già 
L. LoeVInGeR, Jurimetrics. 
The 
next 
step forward, in Minnesota Law review, n. 33/1949, 455). 
Come 
si 
è 
sostenuto, tutte 
le 
questioni 
di 
diritto puro possono essere 
definite 
con 
«certezza 
geometrica» 
(G.W. 
LeIBnIZ, 
Principi 
ed 
esempi 
della 
scienza 
generale, 
in 
ID., 
Scritti 
di 
logica, 
a 
cura 
di 
F. 
BARone, 
Milano, 
2009, 
121). 
Attribuendo 
a 
ciascuno ciò che 
gli 
spetta 
(D. 1.1.10), le 
norme 
postulano equilibrio 
e 
proporzionalità. 
Presuppongono 
un 
ordo 
coerente; 
sono 
tanto 
più 
vicine 
all’uomo quanto più risultano prevedibili 
e 
calcolabili 
(n. IRtI, Un diritto incalcolabile, 
torino, 2016). 

Le rinnovate possibilità sono, tendenzialmente, illimitate. 


eppure, 
la 
scienza 
giuridica 
impone, 
anzitutto, 
la 
critica 
della 
ragion 
pura, 
lo 
scrutinio 
dei 
limiti 
che 
danno, 
in 
definitiva, 
senso 
a 
quelle 
late 
possibilità. 


Di 
qui 
l’importanza 
dei 
principi 
etici 
elaborati 
negli 
Stati 
uniti 
d’America, 
del 
diritto unionale 
e 
della 
conforme 
giurisprudenza 
nazionale, che 
esortano 
il 
giurista 
a 
indagare 
l’a.i. 
con spirito critico (G. ALPA, L’intelligenza artificiale. 
il contesto giuridico, Modena, 2021, 14). 


Gli 
algoritmi 
non 
stravolgono 
gli 
istituti; 
non 
tutti 
i 
procedimenti 
sono 
suscettibili 
di 
trattazione 
telematica; 
non tutti 
i 
momenti 
dei 
processi 
possono 
svolgersi su un cloud 
che sovrasta il mondo delle cose. 


Ammesso 
pure 
che 
i 
robot 
-inquietanti 
ma, 
al 
contempo, 
familiari 
(A. 
PunZI, Judge 
in the 
machine. e 
se 
fossero le 
macchine 
a restituirci 
l’umanità 
del 
giudicare?, in A. CARLeo 
[a 
cura 
di], Decisione 
robotica, Bologna, 2019, 
319, che 
richiama 
Freud) -pensino e 
provino sentimenti 
(e. BeRkeLey, Giant 
Brains 
or 
machines 
that 
think, 
new 
york, 
1961), 
il 
giurista 
in 
carne 
e 
ossa 
non 
appare surrogabile. 


Le 
decisioni 
automatizzate 
non esonerano l’uomo dalla 
loro verifica, che 
postula l’effettiva conoscenza dei processi che governano gli algoritmi. 


non è 
dato rinunciare 
alla 
piena 
conoscibilità 
delle 
sequenze 
informatiche, 
«secondo 
una 
declinazione 
rafforzata 
del 
principio 
di 
trasparenza» 
(Cons. 
St., 
sez. 
VI, 
8 
aprile 
2019, 
n. 
2270), 
alla 
loro 
comprensibilità, 
al 
loro 
sindacato 
con gli strumenti che inverano l’effettività. 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


La 
sinergia 
tra 
il 
«right 
to explainability» e 
il 
principio di 
non esclusività 
riporta l’algoritmo all’uomo. 


L’apertura 
al 
nuovo, 
con 
giudizio, 
è 
il 
monito 
sotteso 
alle 
pagine 
della 
Monografia 
che 
presentiamo; 
una 
Monografia 
che 
guarda 
al 
futuro senza 
dimenticarsi 
dell’antico, di 
quell’uomo che 
è 
causa 
-efficiente 
e 
finale 
-di 
ogni 
ordinamento. 


I 
capitoli, 
densi 
di 
riferimenti 
ai 
più 
recenti 
orientamenti 
tanto 
quanto 
alle 
pagine 
dei 
classici, 
ci 
ricordano 
che 
il 
diritto 
è 
costituito 
per 
l’uomo 


(D. 
1.5.2). 
Che 
l’ingresso 
nell’ordinamento 
di 
un’intelligenza 
soltanto 
artificiale 
snaturerebbe 
il 
sistema 
delle 
regole, 
tanto 
da 
farne 
un 
disumano 
e, 
dunque, 
ineffettivo 
-controsenso. 
Che 
il 
giurista 
è 
un 
sacerdote 
che 
come 
insegna 
il 
Digesto 
-coltiva 
la 
giustizia 
e 
professa 
la 
conoscenza 
del 
buono 
e 
del 
giusto 
«separando 
ciò 
che 
è 
equo 
da 
ciò 
che 
è 
iniquo, 
discernendo 
il 
lecito 
dall’illecito, 
[…] 
aspirando 
[…] 
alla 
vera 
filosofia, 
e 
non 
ad 
una 
simulata». 
Andrea Giordano* 


SoMMario: 1. i problemi 
che 
gli 
algoritmi 
pongono oggi 
al 
giurista -2. algoritmo e 
diritto 
amministrativo -3. algoritmo e 
diritto penale 
-4. algoritmo e 
contratto -5. il 
governo 
della tecnica e 
il 
controllo umano delle 
sue 
applicazioni 
-6. Qual 
è 
oggi 
la più grande 
intelligenza 
artificiale 
del 
mondo? 
-7. 
algoritmi, 
neuroscienze 
e 
neurodiritti. 
L’algoritmo 
e 
l’adolescenza 
-8. 
Strumenti 
normativi 
regolatori 
e 
prospettive 
future 
nella 
dimensione 
euro-unitaria 
e 
in 
quella 
nazionale 
-9. 
Servizio 
civile 
digitale 
-10. 
Hate 
speech: 
un 
fenomeno 
incontrollabile? -11. La figura degli 
influencer 
-12. La commercializzazione 
dei 
dati 
personali: 
il 
caso 
facebook 
-13. 
La 
tutela 
dei 
minori 
e 
il 
diritto 
all’oblio 
-14. 
L’“eredità 
digitale” 


-15. il 
fenomeno del 
c.d. revenge 
porn -16. La diffamazione 
tramite 
chat 
privata o mailing 
list - 17. L’interoperabilità: il dialogo necessario tra il digitale e il diritto. 
1. i problemi che gli algoritmi pongono oggi al giurista. 
if 
this, 
then 
that: 
con 
questa 
semplice 
espressione, 
che 
sta 
ad 
indicare 
il 
concetto 
di 
algoritmo, 
ossia 
una 
sequenza 
di 
passaggi 
elementari 
in 
un 
tempo 
finito, 
si 
racchiude 
il 
futuro 
della 
tecnologia 
e 
del 
destino 
dell’uomo. 
nella 
complessità 
che 
caratterizza 
il 
nostro 
tempo, 
il 
giurista, 
spinto 
da 
una 
visione 
essenzialmente 
antropocentrica, 
dovrà 
svolgere 
una 
funzione 
“ordinante”, 
che 
ponga 
l’algoritmo 
non 
in 
sostituzione 
dell’essere 
umano, 
bensì 
al 
suo 
servizio. 


Come, però, potrà 
svolgere 
tale 
funzione, con quali 
strumenti 
normativi 


(*) Magistrato della Corte dei Conti. 


Della presente 
monografia si 
pubblicano i 
primi 
cinque 
capitoli, i 
successivi 
nel 
prossimo volume 
della Rassegna 
(n.d.r.). 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


ed interpretativi, con quali 
categorie 
giuridiche, con quali 
processi 
di 
modellizzazione 
concettuale idonei a cogliere, gestire e regolare la complessità? 


«il 
limite 
di 
Prometeo invocato dalla cultura greca oggi 
evidenzia il 
rischio 
di 
una tecnologia che 
compie 
un processo di 
mimesi 
e 
di 
superamento 
della razionalità umana. Questo, perché 
l’algoritmo oggi 
non costituisce 
più 
un 
“mere 
tool”, 
ossia 
mero 
elemento 
di 
trasmissione 
della 
volontà 
umana, 
ma 
un 
coelemento 
essenziale 
ed 
imprescindibile 
di 
formazione 
della 
volontà 
stessa 
che 
incide 
sul 
processo 
di 
autodeterminazione 
dell’individuo. 
Le 
neuroscienze 
aprono 
scenari 
inimmaginabili 
nel 
binomio 
“coscienza 
e 
identità”: 
cogito 
ergo 
sum, 
secondo 
Cartesio, 
l’uomo 
è 
il 
pensiero, 
ma 
il 
pensiero 
è 
il 
correlato 
neuronale 
della 
coscienza 
umana, 
quella 
coscienza 
suitas 
che 
nell’antica 
Grecia 
consentiva di 
distinguere 
l’ardire 
dalla Hybris. in fondo, se 
ci 
pensiamo 
bene, Prometeo è 
colui 
che 
vede 
ed agisce 
in tempo nella consapevolezza del 
Katèchon, ossia del 
limite: il 
limite 
di 
ammissibilità etica, giuridica, sociale 
delle 
innovazioni 
tecnologiche. 
non 
tutto 
ciò 
che 
è 
tecnologicamente 
possibile, 
è 
giuridicamente 
ed eticamente 
accettabile 
e 
condivisibile. Se 
Parmenide 
affermava: 
«il 
pensiero è 
l’essere: è 
la stessa cosa pensare 
e 
pensare 
ciò che 
è, 
perché 
senza 
l’essere 
in 
ciò 
che 
è 
detto 
non 
troverai 
il 
pensare», 
il 
profilo 
della 
libertà cognitiva come 
presupposto di 
autodeterminazione 
individuale 
oggi 
è 
messa 
a 
dura 
prova 
dai 
c.d. 
neuro-link: 
gli 
algoritmi 
entrano 
nell’intime 
sphere 
e 
nella predittività dei 
propri 
pensieri, delle 
decisioni 
e 
delle 
scelte 
individuali. 
Se 
l’habeas 
corpus 
ha rappresentato la base 
dello Stato di 
diritto, 
l’habeas 
data 
la 
base 
del 
diritto 
di 
autodeterminazione 
digitale, 
l’habeas 
mentem 
diventa il 
fulcro dei 
c.d. “neuro-diritti” 
per 
evitare 
la deriva neurodeterministica, 
c.d. 
“riduzionismo 
scientifico” 
e 
“determinismo 
tecnologico”». 
Sono queste 
le 
autorevoli 
considerazioni 
del 
Garante 
per la 
Privacy, il 
Professore 
Pasquale 
Stanzione, esposte 
in un convegno sul 
tema 
delle 
neuroscienze 
e la tutela dei dati (1). 

occorre, dunque, uno statuto giuridico ed etico, che 
coniughi 
l’innovazione 
con la 
dignità 
umana, intesa 
sempre 
come 
fine, e 
mai 
come 
mezzo, facendo 
tesoro dell’insegnamento di kant. 

Vi 
è 
da 
chiedersi, però, se 
occorra 
oggi 
introdurre 
un concetto di 
neuroetica, 
ossia 
di 
etica 
della 
neurotecnologia, per proporre 
un approccio etico, sistematico 
e integrato alle tecnologie di intelligenza artificiale. 

Langdon 
Winner 
(2) 
affermava 
che 
ogni 
disposizione 
tecnologica 
è 
espressione 
di 
potere 
e 
Lewis 
Mumford 
(3) 
parlava 
di 
“Technical 
arrangements 


(1) Il 
discorso è 
stato tenuto al 
Convegno del 
28 gennaio 2021, a 
Roma, sul 
tema 
“Giornata europea 
per 
privacy, neurodiritti 
e 
neuroscienze”, in occasione 
dei 
40 anni 
della 
Convenzione 
europea 
per la protezione dei dati personali firmata a Strasburgo il 28 gennaio 1981. 
(2) L. WInneR, “autonomous technology”, Cambridge, Mass., 1977. 
(3) L. MuMFoRD, “Technics and Civilization”, 1961. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


as 
forms 
of 
order”: 
oggi 
il 
problema 
che 
si 
affaccia 
all’orizzonte 
non è 
solo 
l’implementazione 
della 
tutela 
dei 
dati, che 
costituiscono i 
new oils, essential 
facilities 
della 
driven 
data 
economy, 
ma 
anche 
la 
tutela 
della 
facoltà 
cognitiva 
dei 
cittadini, utenti, consumatori 
o fruitori 
dei 
servizi. Vi 
è 
da 
chiedersi 
cosa 
resta della libertà e responsabilità umana? 


Il 
dato 
neuronale, 
con 
le 
c.d. 
tecniche 
di 
brain 
reading 
nell’interfaccia 
uomo-computer, viene 
immesso per la 
prima 
volta 
nell’area 
dei 
dati 
digitali, 
nella 
c.d. infosfera, ecosistema 
digitale, andando al 
di 
là 
delle 
applicazioni 
di 
neuro-enhancement 
nel 
campo bio medico e 
ponendo il 
problema 
della 
«opacità 
del machine learning». 

Il dato neuronale è un dato differente dagli altri: 


1) ha 
un’importanza 
ontologica, perché 
è 
la 
sede 
dei 
processi 
vitali, è 
coscienza, 
pensiero, memoria; 
2) 
ha 
un’importanza 
antropologica 
nell’autopercezione 
di 
sé, 
dimensione 
fenomenologica e soggettiva della persona; 
3) ha 
un’importanza 
epistemologica, il 
dato neuronale 
è 
predittivo come 
il dato genetico; 
4) ha 
un’importanza 
metodologica, i 
dati 
neuronali 
possono essere 
rimodulati, 
il 
brain reading 
si può trasformare in brain writing. 
Siamo oltre 
il 
test 
di 
Turing, criterio per determinare 
se 
una 
macchina 
sia 
in grado di esibire un comportamento intelligente (4). 

(4) 
Interessante 
sul 
tema 
l’articolo 
del 
fisico 
I. LICAtA, 
“i 
teoremi 
di 
Gödel 
e 
l’intelligenza 
artificiale”, 
su 
https://www.indiscreto.org/i-teoremi-di-godel-e-lintelligenza-artificiale/. 
nella 
visione 
collettiva, 
i 
risultati 
dell’opera 
del 
matematico 
Kurt 
Gödel 
fissano 
dei 
“limiti” 
alle 
capacità 
razionali 
della 
mente 
umana. 
Si 
tratta 
della 
famosa 
teoria 
sulla 
indecidibilità, 
che 
oggi 
si 
riflette 
sulle 
teorie 
sull’I.A. 
I 
teoremi 
di 
Gödel 
(1931) 
fissano 
dei 
limiti 
molto 
precisi 
alla 
matematica 
e 
al 
metodo 
assiomatico 
del 
‘900, 
riconducibile 
a 
Hilbert. 
Secondo 
il 
primo 
teorema 
di 
Gödel, 
ogni 
sistema 
sufficientemente 
potente, 
coerente 
ed 
assiomatizzabile 
è 
sintatticamente 
incompleto, 
per 
cui 
è 
sempre 
possibile 
produrre 
una 
proposizione 
P 
indecidibile, 
ossia 
della 
quale 
è 
impossibile 
stabilire, 
con 
gli 
strumenti 
del 
sistema, 
la 
verità 
o 
la 
falsità. 
Il 
secondo 
teorema 
di 
Gödel, 
ancora 
più 
drastico, 
prevede 
che 
ogni 
sistema 
sufficientemente 
potente, 
coerente 
e 
assiomatizzabile 
è 
incapace 
di 
dimostrare 
una 
proposizione 
che 
esprima 
in 
modo 
canonico 
la 
coerenza 
dello 
stesso 
sistema. 
Si 
veda 
k. 
GöDeL, 
“Sulle 
proposizioni 
formalmente 
indecidibili 
dei 
Principia 
Mathematica 
e 
di 
sistemi 
affini”, 
in 
S.G. 
ShAnkeR 
(a 
cura 
di), 
“il 
teorema 
di 
Gödel”, 
trad. 
it. 
di 
P. 
PAGLI, 
Franco 
Muzzio 
editore, 
Padova, 
1991, 
che 
a 
pp. 
23-25 
scrive: 
«La 
tendenza 
della 
matematica 
verso 
un 
sempre 
maggiore 
rigore 
ha 
portato, 
come 
è 
ben 
noto, 
alla 
formalizzazione 
di 
suoi 
ampi 
settori, 
così 
che 
al 
loro 
interno 
è 
possibile 
dimostrare 
un 
teorema 
usando 
solo 
poche 
regole 
meccaniche. 
i 
sistemi 
formali 
più 
ampi 
elaborati 
sino 
a 
questo 
momento 
sono 
quello 
dei 
Principia 
Mathematica 
(PM), 
e 
il 
sistema 
di 
assiomi 
di 
zermelo-fraenkel 
per 
la 
teoria 
degli 
insiemi 
(con 
i 
successivi 
sviluppi 
di 
J. 
Von 
neumann). 
Questi 
due 
sistemi 
sono 
talmente 
generali 
che 
tutti 
i 
metodi 
dimostrativi 
attualmente 
impiegati 
in 
matematica 
sono 
stati 
formalizzati 
al 
loro 
interno, 
cioè 
ridotti 
a 
pochi 
assiomi 
e 
alcune 
regole 
di 
inferenza. 
Si 
potrebbe 
quindi 
supporre 
che 
questi 
assiomi 
e 
queste 
regole 
siano 
sufficienti 
a 
decidere 
ogni 
quesito 
matematico 
formalmente 
esprimibile 
in 
essi. 
Si 
dimostrerà 
più 
avanti 
che 
non 
è 
così, 
e 
che 
al 
contrario 
esistono 
nei 
due 
sistemi 
citati 
problemi 
relativamente 
semplici 
riguardanti 
la 
teoria 
dei 
numeri 
naturali 
che 
non 
possono 
venire 
decisi 
sulla 
base 
degli 
assiomi». 
Dagli 
studi 
di 
Gödel, 
per 
cui 
la 
matematica 
non 
è 
che 
un 
sistema 
aperto, 
in 
grado 
di 
generare 
sempre 
nuovi 
problemi, 
deriva 
la 
teoria 
generale 
dei 
sistemi 
complessi 
logicamente 
aperti. 
I 
risultati 
di 
Gödel 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


tale 
criterio, 
si 
ricorderà, 
fu 
suggerito 
da 
alan 
Turing, 
inventore 
del 
computer, 
nel 
suo noto articolo “Computing machinery 
and intelligence”, apparso 
nel 
1950 sulla 
rivista 
Mind; 
ma 
certamente 
allora 
turing non poteva 
immaginare 
gli scenari attuali (5). 

“il 
futuro non è 
ciò che 
progettiamo, ma è 
Kairòs, ciò che 
ci 
sorprende”, 
diceva 
San Paolo di 
tarso. Stiamo andando verso l’iperumano, il 
transumano 
e postumano, il c.d. Ubermensh 
di cui parlava nietzsche? 


Le 
scienze 
contemporanee 
hanno contribuito a 
definire 
l’uomo come 
un 
“sé 
multiplo”, la 
mente 
è 
l’idea 
del 
corpo, il 
corpo è 
brain feeling, siamo un 
complesso di 
mente 
e 
corpo: 
così 
si 
esprime 
antonio Damasio 
nel 
suo scritto 
“l’errore di Cartesio”. 


Ma 
se 
spostiamo 
la 
nostra 
analisi 
nell’universo 
quantistico, 
non 
possiamo 
non tener conto di 
quanto ha 
affermato roger 
Penrose, premio nobel 
per la 
fisica, con riferimento alla 
c.d. “libertà dell’evento”. In altri 
termini, oggi 
noi 
viviamo 
in 
un 
universo 
quantistico 
in 
cui 
il 
possibile 
è 
la 
base 
di 
comprensione 
dell’evento, “brain imaging”. Se 
questo è 
vero, allora 
le 
neurotecnologie 
possono 
anche 
favorire 
uno 
sviluppo 
qualitativo 
dell’uomo, 
inteso 
come 
com


producono 
effetti 
sulle 
teorie 
dell’IA: 
se 
consideriamo 
un 
sistema 
di 
IA 
“forte”, 
basato 
sulla 
manipolazione 
simbolica 
e 
implementato 
tramite 
funzioni 
turing-computabili, 
si 
tratta 
di 
un 
sistema 
formale, 
per 
cui 
potremmo 
considerare 
i 
teoremi 
di 
indecidibilità 
anche 
in 
questo 
caso. 
Gödel 
ne 
parlò 
nella 
“Conferenza 
Gibbs” 
del 
26 
dicembre 
1951, 
quando 
il 
tema 
dell’IA 
era 
già 
nell’aria: 
turing 
nel 
1950 
aveva 
pubblicato 
“Computing 
Machinery 
and 
intelligence”, 
e 
già 
nel 
1937 
aveva 
teorizzato 
la 
definizione 
di 
“numeri 
calcolabili”. 
nella 
conferenza 
si 
parlò 
della 
connessione 
tra 
i 
risultati 
di 
Gödel 
e 
quelli 
di 
turing, 
contributi 
che 
portavano 
una 
limitazione 
precisa 
dei 
sistemi 
formali. 
Gödel 
introdusse 
la 
distinzione 
tra 
proposizioni 
matematiche 
obiettivamente 
vere 
e 
proposizioni 
vere 
in 
relazione 
ad 
un 
sistema 
formale 
e 
sostenne 
che 
la 
capacità 
della 
mente 
umana 
di 
gestire 
le 
prime 
non 
era 
limitata 
dai 
teoremi 
relativi 
al 
secondo 
tipo 
di 
proposizioni. 
Sostenne 
la 
possibilità 
di 
considerare 
una 
“macchina 
intelligente” 
e 
la 
possibilità 
di 
trovare 
una 
somiglianza 
tra 
il 
cervello 
e 
un 
automa 
finito, 
che, 
secondo 
Gödel, 
potrebbe 
andare 
incontro 
a 
questioni 
indecidibili, 
così 
come 
la 
mente 
umana, 
con 
la 
differenza 
che 
quest’ultima 
può 
sempre 
escogitare 
strategie 
per 
superare 
gli 
ostacoli 
e 
le 
difficoltà. 
Sull’argomento 
c’è 
una 
bibliografia 
molto 
vasta: 
si 
vedano, 
ad 
esempio, 
J.W. 
DAWSon 
JR., 
“Dilemmi 
logici. 
La 
vita 
e 
l’opera 
di 
Kurt 
Gödel”, 
Bollati 
Boringhieri, 
torino, 
2001; 
R. 
GoLDSteIn, 
“incompletezza. 
La 
dimostrazione 
e 
il 
paradosso 
di 
Kurt 
Gödel”, 
Codice 
edizioni, 
torino, 
2006; 
J.L. 
CAStI, 
W. 
De 
PAuLI, 
“Gödel. 
L’eccentrica 
vita 
di 
un 
genio”, 
Raffaello-Cortina 
edizioni, 
Milano, 
2001; 
A. 
hoDGeS, 
“Storia 
di 
un 
enigma. 
Vita 
di 
alan 
Turing 
1912-1954”, 
Bollati 
Boringhieri, 
torino, 
2004; 
D. 
LeAVItt, 
“L’uomo 
che 
sapeva 
troppo. 
alan 
Turing 
e 
l’invenzione 
del 
computer”, 
La 
Biblioteca 
delle 
Scienze, 
Milano, 
2009; 
I. 
LICAtA, 
“La 
logica 
aperta 
della 
mente”, 
Codice 
edizioni, 
torino, 
2008; 
“Piccole 
variazioni 
sulla 
scienza”, 
Dedalo, 
Bari, 
2016; 
“Complessità. 
Un’introduzione 
semplice”, 
Di 
Renzo 
editore, 
2018; 


A. 
tuRInG, 
“Le 
basi 
chimiche 
della 
morfogenesi”, 
Mimesis 
edizioni, 
Sesto 
San 
Giovanni, 
2021; 
S. 
SteRRett, 
“Bringing 
up 
Turing’s 
“Child 
Machine”, 
in 
“How 
the 
world 
computes” 
turing 
Centenary 
Conference, 
Springer, 
2012. 
(5) Interessante, in proposito, è 
il 
recente 
studio dell’università 
della 
California, che 
prevede 
che 
entro il 
2052 l’intelligenza 
artificiale 
uguaglierà 
le 
funzioni 
del 
cervello umano, fino a 
superarle, così 
che 
non riusciremo più a 
superare 
il 
test 
di 
Turing. Questo perché 
gli 
algoritmi 
ci 
studiano, scelgono per 
noi, ci 
ricordano le 
nostre 
preferenze 
e 
i 
nostri 
impegni, scrivono per noi, completando i 
nostri 
discorsi 
digitali; 
v. 
https://www.ilfoglio.it/bandiera-bianca/2021/11/03/news/scommettiamo-che-tra-un-po-nonriusciremo-
piu-a-superare-il-test-di-turing--3328633/. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


plesso unico di 
mente 
e 
corpo, pensieri, emozioni, coscienza, critica. è 
questa 
la 
sfida 
che 
attende 
il 
giurista: 
a 
lui 
l’arduo compito di 
individuare, attraverso 
un 
approccio 
multidisciplinare, 
principi, 
regole, 
principles 
and 
model-rules 
capaci 
di 
realizzare 
quello che 
è 
stato di 
recente 
definito “l’umanesimo digitale” 
(6). 


Sembrerà 
strano, ma 
il 
primo computer è 
stato un computer a 
vapore, un 
calcolatore 
universale, risalente 
alla 
prima 
metà 
dell’800 (7), e 
la 
prima 
programmatrice 
è 
stata 
una 
donna, ada Lovelance, definita 
da 
Charles 
Babbage 
“incantatrice dei numeri”. 

Certo 
molti 
anni 
dovettero 
trascorrere 
prima 
che 
Tim 
Berners-Lee, 
nel 
1989, presso i 
laboratori 
Cern di 
Ginevra, presentasse 
il 
primo sistema 
di 
“information 
management”(called Mesh), il 
primo website 
concepito come 
“a 
democratic 
arena” 
per 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
al 
servizio 
dei 
cittadini, 


(6) nell’elaborazione 
filosofica 
dell’IA 
e 
del 
rapporto tra 
uomo e 
macchina, possiamo ricordare 
le 
parole 
di 
Gödel, 
sopra 
richiamato, 
che 
nel 
suo 
platonismo 
critico 
e 
moderato 
dichiarò 
che 
«o 
la 
mente 
umana 
oltrepassa 
infinitamente 
la 
potenza 
di 
ogni 
macchina 
finita, 
o 
altrimenti 
devono 
esistere 
problemi 
diofantini 
insolubili 
in modo assoluto». Per Gödel 
le 
teorie 
sull’IA, come 
la 
tesi 
di 
Church-turing che 
sostiene 
sia 
possibile 
simulare 
qualunque 
processo mentale 
tramite 
funzioni 
turing-computabili, erano 
ingenue; 
tuttavia, i 
suoi 
argomenti 
non erano ancora 
abbastanza 
forti. Quando fu pubblicato l’articolo 
“anti 
IA” 
del 
filosofo 
J.R. 
LuCAS, 
“Mind, 
Machines 
and 
Gödel”, 
in 
Philosophy, 
36, 
nel 
1961, 
incentrato 
sulla 
possibilità 
per un sistema 
logico-formale 
di 
“restare 
in scacco” 
davanti 
a 
una 
proposizione 
indecidibile 
ottenuta 
con la 
procedura 
di 
Gödel, quest’ultimo non si 
oppose 
criticamente. tra 
l’altro questa 
tesi 
è 
stata 
ripresa 
nel 
libro di 
R. PenRoSe, “La Mente 
nuova dell’imperatore”, nel 
1992. Se 
secondo 
turing «la memoria umana è 
necessariamente 
limitata», secondo Gödel, invece, «la mente 
nel 
suo uso, 
non 
è 
statica, 
ma 
si 
sviluppa 
costantemente 
(…) 
Quindi, 
benché 
a 
ogni 
stadio 
del 
suo 
sviluppo 
il 
numero 
dei 
suoi 
stati 
possibili 
discernibili 
sia finito, non c’è 
motivo per 
cui 
questo numero non possa divergere 
all’infinito nel corso di questo sviluppo». 
L’idea 
di 
Gödel 
era 
la 
seguente: 
si 
può costruire 
una 
macchina 
intelligente 
fondata 
su un gruppo di 
assiomi 
di 
partenza, ma 
durante 
l’interazione 
con l’ambiente, a 
causa 
di 
elementi 
casuali, questa 
può diventare 
via via più complessa, modificandosi strutturalmente in modo imprevisto, fino a sfuggirci. 
Per Gödel 
le 
capacità 
innovative, intuitive, strategiche 
della 
mente 
umana 
non hanno quasi 
nulla 
a 
che 
fare 
con 
le 
proposizioni 
indecidibili 
dei 
sistemi 
formali. 
Per 
quanto 
si 
possa 
spiegare 
un 
comportamento 
umano con le 
Macchine 
di 
turing, ciò è 
diverso dalla 
capacità 
di 
produrre 
quei 
comportamenti. Gödel 
aveva 
capito che 
la 
mente 
umana 
è 
logicamente 
aperta 
ed in grado di 
produrre 
nuova 
informazione, potendo 
cambiare 
continuamente 
le 
“regole 
del 
gioco” 
(si 
pensi 
ai 
modelli 
distribuiti 
sub-simbolici 
connessionisti 
e 
bio-morfi), 
mentre 
le 
architetture 
“classiche” 
dell’IA 
“forte” 
hanno 
dimostrato 
di 
essere 
logicamente 
chiuse, avendo successo solo nei 
mondi 
limitati 
semanticamente. Quanto detto ci 
porta 
a 
pensare 
che 
verosimilmente 
la 
mente 
artificiale 
sarà 
meno “meccanica” 
di 
quanto si 
pensi 
e 
sarà 
basata 
su modelli 
capaci 
di 
implementare 
un’apertura 
logica, e 
allora 
ci 
chiederemo (come 
un nuovo test 
di 
turing): 
le 
macchine 
intelligenti 
avranno 
la 
capacità 
di 
gestire 
l’incertezza 
e 
fare 
scommesse 
sul 
mondo? 
(7) Le 
macchine 
hanno cominciato a 
fare 
calcoli 
semplici 
e 
oggi, dopo “appena” 
200 anni, un’intelligenza 
artificiale 
ha 
formulato, 
per 
la 
prima 
volta, 
congetture 
matematiche. 
è 
un 
risultato 
di 
uno 
studio condotto dai 
ricercatori 
di 
DeepMind 
e 
dell’università 
di 
oxford, pubblicato sulla 
rivista 
scientifica 
nature: 
si 
è 
scoperto che 
i 
moderni 
computer, che 
da 
molti 
anni 
ci 
aiutano nella 
soluzione 
di 
problemi 
di 
matematica, 
grazie 
all’apprendimento 
automatico 
sono 
riusciti 
a 
rilevare 
connessioni 
matematiche 
altrimenti 
invisibili 
agli 
esseri 
umani. 
Si 
tratta 
di 
un 
grande 
passo 
avanti 
e 
sono 
auspicabili 
applicazioni 
in altri 
campi, coma 
la 
biologia 
e 
l’economia, v. https://www.wired.it/article/intelligenzaartificiale-
deepmind-matematica-nodi/. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


senza 
royalties 
o speculazioni. Ma 
tale 
idea 
democratica 
e 
gratuita 
del 
web è 
stata 
oggi 
vanificata 
dalle 
grandi 
piattaforme 
Facebook, 
Google 
e 
Amazon, 
che 
ne 
hanno monopolizzato l’utilizzo, disponendo di 
un’enorme 
quantità 
di 
dati, 
senza 
precise 
regole 
volte 
ad 
una 
loro 
effettiva 
responsabilizzazione. 
Tim 
Berners-Lee, 
insieme 
ad 
altri 
scienziati, 
sta 
lavorando 
oggi 
ad 
un 
progetto 
chiamato Solid 
per ridecentrare 
il 
web e 
renderlo di 
nuovo uno spazio libero. 
è 
emblematico che, nel 
1909, lo scrittore 
britannico forster 
abbia 
scritto una 
storia 
di 
fantascienza 
intitolata 
“The 
machine 
stops”, 
in 
cui 
l’autore 
immagina 
che 
le 
persone 
vivono isolate 
accanto ad una 
macchina 
che 
provvede 
a 
tutti 
i 
loro 
bisogni. 
Gli 
umani 
in 
tale 
racconto 
vivono 
connessi, 
pur 
rimanendo 
isolati, 
determinando in loro la 
paura 
delle 
esperienze 
dirette. Questo è 
il 
motivo per 
cui la tecnologia deve considerarsi “as a tool, not a master”. 

Ma 
dal 
punto 
di 
vista 
giuridico, 
come 
deve 
considerarsi 
il 
rapporto 
uomo-
macchina? 
Il 
grande 
giurista 
Gunther 
Teubner 
ha, 
per 
primo, 
affrontato 
il 
tema 
dell’algoritmo 
e 
degli 
agenti 
digitali 
autonomi, 
ossia 
di 
quelli 
che 
possono 
elaborare 
e 
prendere 
decisioni 
indipendentemente 
dal 
produttore 
e 
dall’utilizzatore 
del 
programma. Secondo tale 
autore, occorre 
analizzare 
il 
rapporto che 
si 
instaura 
tra 
l’uomo e 
il 
software 
utilizzato, nonché 
la 
distribuzione 
della 
responsabilità 
per danni 
cagionati 
nella 
sfera 
giuridica 
di 
coloro i 
quali 
hanno 
fatto 
affidamento 
incolpevole 
sulla 
dichiarazione 
dell’agente 
digitale 
autonomo, 
soprattutto 
se 
si 
tiene 
conto 
della 
prevalenza 
nel 
sistema 
della 
teoria 
oggettiva 
della 
dichiarazione 
di 
volontà. 
L’assistente 
digitale 
è 
diventato 
sempre 
meno 
un 
semplice 
nuncius 
della 
volontà 
della 
persona 
fisica. 
e, 
sicuramente, 
non 
è 
tale 
quando 
è 
capace 
di 
prendere 
decisioni 
autonome 
e, 
in 
quanto 
tale, causare 
danni 
a 
terzi. Le 
categorie 
che 
vengono in rilievo sono chiaramente 
la 
rappresentanza 
e 
il 
rapporto associativo uomo/macchina. occorrerà 
soffermarsi 
sul 
nuovo concetto di 
informazione, sempre 
più alterata 
non solo 
dalle 
c.d. fake 
news, ma 
dalla 
c.d. “information pollution”, ossia 
dall’inquinamento 
delle 
informazioni. tale 
concetto si 
declina 
nei 
fenomeni 
di 
clickbait, 
sloppy 
journalism, misleading headings, biased news 
and filter 
bubble. Sono 
tutti 
processi 
che 
contengono notizie 
false, notizie 
manipolate 
o informazioni 
modellate 
su profilazioni 
del 
soggetto che 
effettua 
delle 
ricerche 
sul 
web, riuscendo 
a 
trovare 
le 
informazioni 
sempre 
più corrispondenti 
alla 
propria 
formazione 
culturale 
e 
ai 
propri 
interessi, con una 
selezione 
subdola 
di 
dati 
che 
avviene 
a 
sua 
insaputa. Siamo in una 
dimensione 
bel 
lontana 
dalla 
parresìa, 
ossia 
dalla 
verità 
di 
cui 
parlavano i 
greci 
nel 
sistema 
democratico della 
polis. 


Luciano 
Floridi, 
docente 
di 
Filosofia 
ed 
etica 
dell’Informazione 
a 
oxford, 
nel 
suo libro “Pensare 
l’infosfera”, sostiene 
che 
viviamo ormai 
in un mondo 
virtuale, 
l’infosfera 
appunto, 
in 
cui 
tutti 
siamo 
degli 
inforgs, 
organismi 
del 
sostrato 
informazionale 
(8). 
La 
postmodernità 
rifugge 
sempre 
più 
dalle 
cose, 
per 


(8) Interessante 
anche 
l’analisi 
del 
suo nuovo libro, “intelligenza artificiale. L’uso delle 
nuove 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


andare 
verso 
relazioni 
con 
inarrestabile 
astrazione 
dal 
materiale. 
Siamo 
passati 
da 
una 
posizione 
ontologica 
assoluta 
-modellata 
su un mondo letto in termini 
aristotelici 
(c.d. primato della 
cosa) e 
newtoniani 
(primato nello spazio e 
nel 
tempo) 
-a 
quella 
epistemologica-relazionale, 
dominante 
nell’infosfera; 
un 
costruzionismo 
di 
ispirazione 
neo-kantiana, definito come 
processo di 
modellizzazione 
(non 
copia 
platonica 
del 
modello) 
che 
dà 
forma 
alla 
realtà, 
rendendola 
intelligibile. Se 
Cartesio affermava 
“cogito ergo sum”, oggi 
possiamo 
dire 
“videor 
ergo sum”: 
la 
costruzione 
del 
sé 
(c.d. Bildung) passa 
attraverso 
lo 
strumento 
digitale. 
Il 
selfie 
è 
il 
sentirsi, 
il 
realizzarsi 
nello 
sguardo 
dell’altro, 
Leib 
a 
Korper, 
la 
pietrificazione 
del 
sé, 
di 
cui 
parla 
Sartre 
in 
pagine 
memorabili 
di 
“L’essere 
e 
il 
nulla”. Il 
selfie 
è 
l’esposizione 
del 
corpo online, 
che 
ha 
come 
unità 
di 
misura 
i 
likes. 
un 
famoso 
psichiatra, 
Giovanni 
Stanghellini, 
parla 
di 
“selfie 
come 
sentirsi 
nello 
sguardo 
dell’altro, 
l’altro 
è 
l’unica 
possibilità di essere riconosciuti”. 

tutto questo a 
che 
prezzo per l’uomo? 
Il 
c.d. “effetto flynn” 
ci 
dovrebbe 
far riflettere: 
richard flynn 
ha 
condotto uno studio tra 
il 
1990 e 
il 
2009, dimostrando 
che 
il 
quoziente 
intellettivo (Qi) stia 
cominciando lentamente, ma 
inesorabilmente, 
a 
calare. 
un 
calo 
costante 
che, 
oggi, 
è 
diventato 
un 
vero 
e 
proprio 
tracollo, 
se 
pensiamo 
alla 
percentuale 
di 
persone 
afflitte 
dal 
c.d. 
“analfabetismo 
funzionale” 
(sanno leggere, ma 
non capiscono il 
senso, né 
sono in 
grado di 
rielaborarlo). I giovani 
hanno oggi 
molte 
informazioni 
e 
poca 
conoscenza, 
o meglio, una 
“conoscenza 
irrelata 
e 
non correlata”. Le 
nuove 
tecnologie 
digitali, specialmente 
per i 
più giovani, rappresentano un potentissimo e 
pervasivo 
elemento 
di 
degradazione 
delle 
facoltà 
cognitive, 
emotive 
e 
relazionali. 
Perché questo accade, quali sono le ragioni? 


Il 
neurobiologo 
Laurent 
alexandre 
(9) 
ritiene 
che 
la 
ragione 
risieda 
in 
questa 
considerazione: 
“laddove 
il 
libro 
favoriva 
una 
concentrazione 
duratura 
e 
creativa, internet 
incoraggia la rapidità, il 
campionamento distratto di 
piccoli 
frammenti 
di 
informazioni 
provenienti 
da fonti 
diverse”. Il 
processo che 
consiste 
nell’immagazzinare 
i 
dati, 
creando 
così 
la 
memoria, 
per 
poi 
elaborarli, 
creando un ordine diverso, si chiama “apprendimento”. 

Il 
problema 
è 
che 
oggi 
è 
l’intelligenza 
artificiale 
ad 
occuparsi 
del 
processo 
di 
immagazzinamento dei 
dati 
(memoria 
ed elaborazione 
dei 
dati), con l’intelligenza 
umana 
ridotta 
a 
svolgere 
un 
ruolo 
ausiliario 
e 
sempre 
più 
ininfluente. 

macchine”, 
Bompiani, 
2021. 
nella 
sua 
intervista 
su 
“il 
foglio”, 
di 
G. 
LeGAnZA, 
“Luciano 
floridi 
ci 
spiega cosa c’è 
di 
antico nell’intelligenza artificiale”, l’autore 
spiega 
che 
“siamo noi 
che 
adattiamo il 
mondo 
alle 
macchine, 
non 
viceversa. 
nell’ai 
è 
presente 
la 
tradizione 
filosofica 
greca. 
La 
differenza 
con 
l’intelligenza 
umana? 
i 
computer 
sono 
più 
bravi, 
ma 
noi 
sappiamo 
adattarci 
meglio”, 
su 
https://www.ilfoglio.
it/cultura/2021/12/04/news/luciano-floridi-ci-spiega-cosa-c-e-di-antico-nell-intelligenzaartificiale-
3426829/. 


(9) 
L. 
ALexAnDRe, 
“La 
guerra 
delle 
intelligenze, 
intelligenza 
artificiale 
contro 
intelligenza 
umana”, pag. 75, ed. torino, 2017. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


ecco 
che, 
allora, 
abbiamo 
assistito 
alla 
nascita 
del 
GPt3, 
Generative 
Pretrained 
Transformer: 
l’11 
giugno 
2020 
è 
stata 
presentata 
GPt3, 
un’intelligenza 
artificiale 
in 
grado 
di 
scrivere 
un 
romanzo 
nello 
stile 
dello 
scrittore 
che 
si 
preferisce, 
che 
scrive 
in 
pochi 
istanti 
il 
racconto 
che 
si 
preferisce. 
Ricorda 
il 
generatore 
automatico 
di 
lettere 
d’amore 
che 
alan 
Turing 
sperimentò 
nel 
1952 
a 
Manchester. 


GPt3 è 
la 
terza 
versione 
di 
un progetto di 
ricerca 
di 
un laboratorio fondato 
a 
San Francisco nel 
2015, open ai, che, tra 
i 
fondatori, ha 
elon Musk 
e 
tra i finanziatori 
Microsoft. 

non è 
trascorso nemmeno un anno e 
GPt3 non scrive 
romanzi, ma 
è 
già 
utilizzato da 
oltre 
10.000 sviluppatori 
ed è 
presente 
in oltre 
300 applicazioni. 

Rientrano 
in 
questo 
processo 
le 
risposte 
ancora 
semplici 
di 
alexa 
e 
Siri 
nei 
nostri 
smartphone 
e 
gli 
assistenti 
vocali, 
i 
dialoghi 
non 
facili 
con 
le 
chatbot 
quando 
andiamo 
sul 
sito 
della 
nostra 
banca 
o 
di 
una 
grande 
azienda 
che 
fornisce 
telefonia, 
acqua 
e 
luce; 
qui 
sappiamo 
di 
dialogare 
con 
un 
risponditore 
automatico. 


Il 
confine 
tra 
umano e 
artificiale 
nel 
GPt3 è 
meno netto, impercettibile, 
sarà 
sempre 
più 
difficile 
distinguere 
volti, 
suoni 
e 
testi 
creati 
da 
un’intelligenza 
artificiale da quelli reali. 

è 
innegabile 
la 
difficoltà 
di 
lettura 
di 
algoritmi 
che 
utilizzano 
grandi 
quantità 
di 
dati 
(big data) e, in misura 
crescente, si 
caratterizzano per l’impiego di 
tecnologie 
basate 
sull’intelligenza 
artificiale 
che 
non si 
limitano a 
seguire 
fedelmente 
le 
istruzioni 
del 
programmatore, ma 
diventano intelligenza 
spontaneus, 
autocreativa, autoevolutiva, inventando soluzioni 
e 
percorsi 
inediti, con 
il 
risultato che 
neppure 
colui 
che 
ha 
fornito le 
istruzioni 
alla 
macchina 
attraverso 
l’algoritmo 
è 
pienamente 
in 
grado 
di 
ripercorrere 
il 
processo 
decisionale 
e offrire una spiegazione comprensibile. 

Il 
problema 
del 
carattere 
non neutrale 
dell’algoritmo, e 
la 
sua 
scarsa 
trasparenza, 
assume 
un 
ruolo 
centrale 
nel 
dibattito 
giuridico 
recente, 
da 
qui 
il 
pericolo 
che 
la 
società 
possa 
diventare 
una 
grande, 
unica 
scatola 
nera, 
una 
“black 
box society” (10). 


è il c.d. “surveillance capitalism” di cui parla 
S. zuboff 
(11). 


Sulla 
base 
della 
complessità 
di 
tali 
considerazioni, la 
Commissione 
europea 
ha 
elaborato il 
Digital 
Services 
act 
che, considerando essenziale 
“la legalità 
procedimentale 
della 
conservazione 
dei 
dati”, 
il 
c.d. 
Digital 
Due 
Process, predispone 
una 
tutela 
del 
cittadino basata 
su due 
principi 
fondamentali: 
il 
principio dell’autodeterminazione 
del 
singolo e 
il 
principio di 
responsabilizzazione 
delle piattaforme digitali. 

(10) F. PASQuALe, “The Black Box Society. The secret 
algorithms that Control Money and information”, 
Cambridge - Ma 2015. 
(11) S. ZuBoFF, “Big other: surveillance 
capitalism 
and the 
prospects 
of 
an information civilization”, 
“Journal 
of 
information Technology” 
(2015) 30, 75-89; 
ID., “The 
age 
of 
Surveillance 
Capitalism. 
The fight for a Human future at the new frontier of Power”, London, 2019. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Sono questi 
i 
binari 
lungo i 
quali 
dovranno essere 
definite, a 
livello europeo, 
le 
norme 
che 
saranno determinanti 
per costruire 
un corretto rapporto 
uomo-macchina. 

Sul 
piano 
della 
qualità 
e 
del 
livello 
della 
regolamentazione 
(12), 
si 
distingue 
tra 
auto-regolazione, 
co-regolazione 
ed 
eteroregolazione, 
ponendosi 
il 
problema 
se 
e 
in 
che 
in 
termini 
la 
regolamentazione 
dei 
social 
network 
debba 
essere 
affidata 
alle 
grandi 
società 
monopoliste 
del 
web, o se 
occorra 
un intervento 
più incisivo della 
normativa 
nazionale 
e 
sovranazionale. Sappiamo che 
Facebook 
ha, 
al 
suo 
interno, 
sotto 
forma 
di 
trust, 
il 
facebook 
oversight 
Board, 
che 
esamina 
le 
questioni 
poste 
dalla 
Community, ma 
occorre 
un intervento di 
eteroregolazione 
sovranazionale, capace 
di 
impedire 
che 
pubbliche 
funzioni 
siano esercitate da poteri privati. 

In questa 
ottica, il 
Digital 
Services 
act, attualmente 
a 
livello di 
proposta 
della 
Commissione, si 
pone 
l’obiettivo di 
prevenire 
il 
disordine 
normativo e 
di 
creare 
un mercato digitale 
online 
sicuro ed affidabile 
(13). nella 
nuova 
re


(12) 
Per 
quanto 
concerne 
il 
problema 
relativo 
al 
tipo 
di 
legislazione 
che 
deve 
regolare 
l’IA, 
ad 
oggi 
abbiamo 
due 
fondamentali 
esempi 
di 
approccio 
globale 
all’IA 
da 
parte 
delle 
legislazioni 
dei 
vari 
paesi 
nel 
mondo. 
Da 
un 
lato, 
abbiamo 
l’esempio 
del 
Rapporto 
dell’Alto 
Commissario 
delle 
nazioni 
unite 
per 
i 
diritti 
umani 
sul 
“Diritto 
alla 
Privacy 
nell’era 
digitale”, 
commissionato 
dal 
Consiglio 
per 
i 
diritti 
umani 
nella 
sua 
risoluzione 
42/15, 
in 
cui 
si 
analizza 
come 
l’uso 
diffuso 
da 
parte 
degli 
Stati 
e 
delle 
imprese 
dell’I.A., 
tra 
cui 
rientrano 
la 
profilazione, 
il 
processo 
decisionale 
automatizzato 
e 
le 
tecnologie 
di 
apprendimento 
automatico, 
influenzi 
il 
godimento 
del 
diritto 
alla 
privacy 
e 
dei 
diritti 
connessi, 
fornendo 
alcune 
raccomandazioni 
agli 
Stati 
e 
alle 
imprese 
in 
merito 
alla 
progettazione 
e 
all’attuazione 
di 
salvaguardie 
per 
prevenire 
e 
minimizzare 
i 
risultati 
dannosi. 
Dall’altro 
lato, 
c’è 
il 
primo 
accordo 
mondiale 
sull’etica 
dell’I.A. 
stipulato 
recentemente 
dall’unesco, 
approvato 
il 
25 
novembre 
2021, 
che 
prende 
atto 
che 
l’I.A. 
pone 
importanti 
quesiti 
e 
problemi 
etici, 
che 
necessitano 
un 
intervento 
sovranazionale. 
Il 
direttore 
generale 
dell’unesco, 
audrey 
azoulay, 
ha 
presentato 
una 
“Raccomandazione” 
di 
28 
pagine, 
ratificata 
dai 
193 
stati 
membri, 
tra 
cui 
anche 
la 
Cina. 
A 
fronte 
di 
un 
cospicuo 
aumento 
dei 
pregiudizi 
di 
genere 
ed 
etnici 
e 
di 
minacce 
significative 
alla 
privacy, 
alla 
dignità 
e 
ad 
altri 
diritti, 
si 
vuole, 
infatti, 
rispondere 
con 
un 
testo 
che 
assicuri 
la 
massima 
trasparenza 
e 
intelligibilità 
sul 
funzionamento 
degli 
algoritmi, 
dato 
che 
si 
influisce 
sui 
diritti 
dell’uomo 
e 
sulle 
libertà 
fondamentali. 
I 
valori 
e 
i 
principi 
comuni 
che 
devono 
guidare 
la 
costruzione 
delle 
macchine 
che 
impiegano 
l’Intelligenza 
Artificiale 
sono 
elencati 
dal 
secondo 
articolo 
della 
Raccomandazione 
e 
sono 
i 
seguenti: 
equità 
e 
non 
discriminazione, 
sostenibilità, 
privacy, 
sicurezza 
e 
protezione, 
trasparenza 
e 
“spiegabilità”, 
responsabilità 
e 
accountability, 
consapevolezza 
e 
alfabetizzazione. 
Per 
un 
approfondimento 
sul 
tema 
di 
veda 
L. 
MISChIteLLI, 
“intelligenza 
artificiale 
etica: 
ecco 
l’approccio 
“globale” 
Unesco 
(approvato 
anche 
dalla 
Cina)”, 
su 
agendadigitale.eu. 
(13) 
Il 
mercato 
digitale 
è 
in 
continua 
espansione. 
Sul 
nuovo 
fenomeno 
dell’acquisto 
di 
terreni 
virtuali 
vedi 
W. 
FeRRI, 
“2,4 
milioni 
per 
500mq 
di 
cyber 
spazio: 
il 
Metaverso 
e 
la 
corsa 
all’oro 
digitale”, 
su 
lindipendenteonline.it, 
che 
spiega 
bene 
questa 
“corsa 
all’oro 
in 
salsa 
digitale”: 
gli 
investitori 
accorrono 
oggi 
alle 
risorse 
offerte 
da 
Metaverso 
per 
ottenere 
(in 
futuro) 
grandi 
ritorni 
economici. 
non 
è 
una 
novità, 
ma 
la 
portata 
del 
fenomeno 
cresce 
quanto 
più 
si 
ingigantisce 
“la 
febbre 
per 
il 
digitale”. 
Lo 
dimostrerebbero 
i 
dati 
pubblicati 
da 
Dappradar, 
portale 
secondo 
cui 
il 
mercato 
dei 
terreni 
virtuali 
ha 
smosso 
circa 
100 
milioni 
di 
dollari 
sui 
soli 
The 
Sandbox, 
Decentraland, 
CryptoVoxels 
e 
Somnium 
Space. 
non 
sarebbero 
solo 
piccoli 
investitori 
in 
ricerca 
di 
facili 
guadagni. 
Si 
parla 
anche 
di 
agenzie 
immobiliari 
virtuali, 
che 
comprano 
grandi 
lotti 
per 
scommettere 
su 
un 
loro 
aumento 
di 
valore 
nel 
prossimo 
futuro. 
The 
Metaverse 
Group, 
nell’ultimo 
periodo, 
ha 
riscattato 
500 
metri 
quadrati 
digitali 
sulla 
piattaforma 
virtuale 
Decentraland: 
la 
transazione 
ha 
mosso 
2,43 
milioni 
di 
dollari. 
è 
il 
fenomeno 
dei 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


golazione 
delle 
piattaforme 
digitali, la 
Commissione 
europea 
sta 
cercando di 
affermare 
uno 
Standard 
europeo 
regolatorio 
per 
la 
definizione 
del 
nuovo 
capitalismo 
digitale, 
che 
si 
basi 
su 
un 
concetto 
di 
“sicurezza 
funzionale”, 
security 
by 
design. 
La 
Commissione 
europea 
sollecita 
gli 
Stati 
membri 
non 
con 
regole, 
ma 
con obiettivi, per far diventare 
l’europa 
un Hub 
di 
regole 
digitali, il 
protagonista 
della 
trasformazione 
digitale 
ed 
ecologica 
entro 
il 
2030. 
In 
un’epoca 
caratterizzata 
da 
un 
eccesso 
di 
informazioni, 
la 
c.d. 
infodemia, 
è 
necessaria 
anche 
un’igiene 
informativa: 
secondo 
Vittorio 
Loreto, 
fisico 
della 
materia 
presso l’università 
La 
Sapienza 
di 
Roma, che 
collabora 
ad un progetto di 
ricerca 
definito “Cartesio, ergo news”, se 
il 
dubbio è 
l’inizio della 
conoscenza, 
occorrono 
sistemi 
per 
valutare 
l’affidabilità 
di 
una 
notizia. 
Viviamo 
attualmente 
in delle 
“bolle 
informative”, con i 
c.d. “sistemi 
di 
raccomandazione” 
che non consentono di esplorare “l’adiacente possibile”. 

Ma 
come 
controllare 
la 
qualità 
dell’informazione? 
Sono 
sufficienti 
gli 
appositi 
software 
per 
controllare 
la 
tracciabilità 
della 
notizia? 
Possiamo 
parlare 
di 
graduazione 
delle 
falsità 
informative? 
Il 
fisico Pauli, fondatore 
della 
meccanica 
quantistica, 
parlava 
di 
“nothing 
in 
wrong”; 
noi 
possiamo 
parlare 
di 
“nothing 
in fake”? 


ognuno di 
noi 
è 
alle 
prese 
con cookies 
di 
funzionalità, cookies 
analitici 
e 
cookies 
di 
profilazione 
di 
terze 
parti. Per prestare 
il 
proprio consenso, siamo 
costretti 
a 
consultare 
la 
Cookie 
policy, 
con 
la 
automatica 
conseguenza 
che, 
chiudendo 
il 
banner 
o 
accedendo 
a 
qualunque 
elemento 
del 
sito, 
acconsentiamo 
automaticamente all’uso dei 
cookies. 

La 
credibilità, 
la 
decentralizzazione 
e 
l’intermediazione 
sono 
presenti 
nei 


c.d. 
“filter 
bubbles”, 
“gabbie 
virtuali”, 
in 
cui 
gli 
algoritmi 
rinchiudono 
gli 
utenti, 
raccogliendo 
dati 
e 
preferenze 
sulla 
base 
di 
precedenti 
click, 
cronologia 
delle 
ricerche 
e 
localizzazioni 
(14). La 
dottrina 
parla 
di 
disordini 
dell’inforlatifondisti 
4.0, 
letteralmente 
in 
espansione; 
v. 
https://www.lindipendente.online/2021/12/04/24-milioni-
per-500mq-di-cyber-spazio-il-metaverso-e-la-corsa-alloro-digitale/. 
Interessante 
anche 
il 
tema 
dell’acquisto 
del 
mattone 
virtuale, 
v. 
A. 
GReCo, 
“il 
metaverso 
come 
il 
Monopoli: 
scatta 
la 
corsa 
al 
mattone 
virtuale”, 
su 
repubblica.it; 
il 
fenomeno 
si 
sta 
sviluppando 
negli 
ultimi 
5 
mesi 
con 
Metaverso, 
gli 
acquisti 
immobiliari 
con 
le 
criptovalute 
stanno 
diventando 
virtuali, 
v. 
https://www.repubblica.it/cronaca/
2021/12/06/news/il_metaverso_come_il_monopoli_scatta_la_corsa_al_mattone_virtuale329215917/. 


(14) Come 
è 
noto, le 
app 
installate 
sui 
nostri 
smartphone 
“ci 
spiano” 
e 
vivono di 
dati 
sempre 
più 
numerosi 
sulle 
nostre 
abitudini, sui 
luoghi 
che 
frequentiamo; 
tuttavia, non tutti 
sanno che 
i 
dati 
raccolti 
sulla 
posizione 
non sono solo quelli 
che 
si 
ricavano dal 
GPS. una 
definizione 
che 
non tutti 
conoscono 
è 
quella 
di 
“location 
tracking”, 
dietro 
cui 
si 
cela 
una 
articolata 
serie 
di 
dati, 
tra 
cui 
rientrano 
la 
posizione 
(coordinate, indirizzo IP, posizione 
del 
Wi-Fi), la 
pressione 
barometrica, i 
dati 
del 
giroscopio e 
dell’accelerometro. 
Questi 
ultimi 
due 
strumenti 
permettono di 
tracciare 
il 
profilo di 
utilizzo del 
telefono, fungendo 
da 
“backdoor” 
per 
la 
privacy, 
soprattutto 
su 
sistemi 
ioS. 
L’accelerometro, 
infatti, 
è 
molto 
sofisticato e 
arriva 
a 
captare 
le 
vibrazioni 
del 
luogo frequentato, i 
nostri 
stessi 
passi, la 
nostra 
voce, i 
rumori 
e 
le 
voci 
nel 
luogo in cui 
ci 
troviamo. Ciò avviene 
anche 
senza 
il 
nostro esplicito consenso e 
non 
solo 
sul 
telefonino 
(si 
pensi 
agli 
smartwatch, 
ai 
braccialetti 
e 
ai 
trackers 
da 
polso, 
che 
usano 
gli 
sportivi). 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


mazione, 
di 
varie 
categorie 
di 
disturbi 
dell’informazione, 
distinguendo 
tra 
“disinformazione”, 
“misinformazione” e “malainformazione”. 

Le 
stesse 
piattaforme 
digitali 
si 
stanno attrezzando per arginare 
tale 
fenomeno: 
ad esempio, Facebook utilizza 
i 
c.d. “educational 
pop-ups”, pop ups 
informativi 
con etichettature 
specifiche 
sulle 
notizie 
e 
con rimozione 
automatica 
dei 
contenuti 
falsi; 
twitter distingue 
tra 
notizie 
misleading, disputed and 
unverified, 
con 
sistemi 
c.d. 
di 
Strike 
System, 
nel 
senso 
che, 
dopo 
alcuni 
richiami, 
vi è il blocco dell’account. 


Ma 
quali 
rimedi 
possono/devono 
essere 
rimessi 
allo 
Stato 
e 
ad 
organismi 
sovranazionali, e 
quali 
alle 
stesse 
piattaforme? 
La 
comunicazione 
sui 
social 
network, 
infatti, 
è 
caratterizzata 
da 
pervasività 
ed 
invasività, 
dalla 
illimitatezza 
spazio/temporale, 
dalla 
disintermediazione 
e 
dalla 
semplificazione 
del 
messaggio. 


In Francia 
è 
stata 
approvata 
nel 
2018 la 
legge 
n. 1202, contro la 
manipolazione 
dell’informazione; 
in Germania 
è 
stata 
approvata 
il 
30 giugno 2017 la 
legge 
sull’hate 
speech, prevedendo fattispecie 
criminose 
sulle 
figure 
già 
previste 
dal 
codice 
penale 
tedesco, 
con 
un 
sistema 
di 
“notice 
and 
take 
down”, 
ossia 
di 
reclamo 
da 
rivolgere 
alla 
stessa 
piattaforma, 
prima 
di 
un 
vero 
e 
proprio 
ricorso all’autorità 
giurisdizionale. In Italia, vi 
è 
stata 
la 
presentazione 
del 
disegno 
di 
legge 
Gambaro nel 
2017, e 
di 
recente 
un nuovo DDL 
approvato alla 
Camera 
e 
attualmente 
in discussione 
al 
Senato con la 
istituzione 
di 
una 
commissione 
parlamentare 
di 
inchiesta 
sulla 
diffusione 
massiva 
di 
informazioni 
false. Presso l’AgCom 
è 
stato istituito un tavolo tecnico sulle 
piattaforme 
digitali 
e 
il 
pluralismo informativo, mentre 
al 
livello europeo è 
stato approvato, 
il 26 settembre 2018, il 
Code of Practice on Disinformation. 


Ma 
occorre 
chiedersi 
se 
vi 
sia 
la 
necessità 
di 
valutare 
la 
privacy 
policy 
in 
un sistema 
di 
merger 
control, attraverso un’azione 
di 
collaborazione 
e 
di 
coordinamento 
tra 
le 
varie 
Autorità 
regolatorie, 
e 
se 
sia 
necessario 
affiancare 
agli 
strumenti 
di 
enforcement 
una 
regolazione 
ex 
ante 
con sistemi 
di 
pre-emptive 
remedy, ossia rimedi preventivi e proattivi. 


Soprattutto 
chiarire 
che 
tipo 
di 
regolazione 
introdurre: 
funzionale 
o 
strutturale? 
omogenea o differenziata a seconda dei settori? 


occorre 
un 
coordinamento 
a 
livello 
di 
regolamentazione 
euro-unitaria 
tra 
Digital 
Services 
act, 
Digital 
Governace 
act 
e 
Digital 
Markets 
act; 
sono 
questi 
i tre elementi nel nuovo pilastro digitale europeo. 


A 
volte 
è 
lo stesso sistema 
di 
un’app 
ad essere 
progettato per raccogliere 
dati 
da 
molti 
sensori, spesso 
necessari 
per 
far 
sì 
che 
il 
sistema 
stesso 
funzioni. 
Il 
problema 
è 
che 
le 
app 
possono 
arrivare 
a 
rintracciare 
quello 
che 
facciamo 
con 
il 
nostro 
telefono, 
su 
quali 
siti 
navighiamo, 
come 
ci 
muoviamo 
sul 
touchscreen, 
quanto 
tempo 
passiamo 
su 
una 
pagina 
internet, 
ecc. 
I 
produttori 
dei 
sistemi 
operativi 
come 
apple 
ed 
android, 
prima 
di 
concedere 
le 
autorizzazioni 
alle 
app, 
dovrebbero 
potenziare 
il 
controllo 
sulla 
privacy, 
evitando il 
raggiro di 
blocchi 
espliciti. Si 
veda 
l’articolo di 
n. RuGGIeRo, “Quanto (e 
come) ci 
spia lo 
smartphone? Tutte le trappole che ignoriamo”, su agendadigitale.eu. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Sempre 
più 
il 
processo 
di 
“monetizzazione 
dei 
dati”, 
nella 
data 
driven 
economy, pone 
una 
stretta 
relazione 
tra 
“informazione 
e 
concorrenza”, inducendoci 
a 
chiederci 
se 
le 
regole 
preposte 
alla 
tutela 
della 
concorrenza 
siano 
ancora 
adatte 
o 
vadano 
integrate 
per 
i 
mercati 
digitali. 
Il 
primo 
problema 
è 
l’individuazione 
della 
nozione 
di 
“quote 
di 
mercato”, 
“indici 
di 
concentrazione”, 
di 
“mercato 
rilevante” 
per 
i 
mercati 
digitali, 
che 
sono 
“mercati 
con 
strutture 
multiversanti”, 
le 
c.d. 
piattaforme 
di 
attenzione 
(“attention 
platforms”), 
con effetti 
di 
rete 
diretti 
e 
indiretti, switching benefits 
e 
costs, economie 
di scala e di scopo e con assenza di prezzo. 

I dati 
personali 
sono utilizzati 
come 
“controprestazioni” 
per un servizio 
gratuito. 
Il 
potere 
di 
mercato 
risiede 
non 
nel 
possesso 
dei 
dati, 
ma 
nel 
c.d. 
“data 
mining”, 
ossia 
nella 
capacità 
di 
estrarre 
valore 
dai 
dati, 
(teSt 
SSnDQ: 
“small, but significant non-transitory decrease in quality”). 


La 
tutela 
della 
privacy e 
la 
trasparenza 
sono «fattori 
qualitativi 
del 
confronto 
concorrenziale», l’utente 
è 
concepito non solo come 
consumatore, ma 
anche 
come 
produttore 
di 
dati. Partendo da 
r. Posner 
e 
G. Weyl 
(15), i 
dati 
personali 
non 
sono 
solo 
risorse, 
ma 
beni 
giuridici 
attinenti 
alla 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona. nelle 
controversie 
che 
hanno visto coinvolti 
Facebook 
e 
l’AgCom, è 
venuta 
spesso in rilievo la 
violazione 
degli 
artt. 20, 21, 
22, 24 e 
25 del 
D.lgs. n. 206/2005, ossia 
la 
sanzione 
per pratiche 
commerciali 
ingannevoli 
e 
pratiche 
commerciali 
aggressive, con abuso di 
posizione 
dominante 
di 
sfruttamento e 
privacy 
policy 
in violazione 
dell’art. 6 GDPR. nelle 
sentenze 
del 
tar 
Lazio 
nn. 
260 
e 
261 
del 
10 
gennaio 
2020, 
si 
è 
fatto 
per 
la 
prima 
volta 
riferimento 
al 
“fenomeno 
della 
patrimonializzazione 
del 
dato 
personale” 
e, più recentemente, il 
Consiglio di 
Stato, sez. VI, con le 
sentenze 
nn. 
2630 e 
2631 del 
29 marzo 2021, ha 
posto l’esigenza 
di 
garantire 
una 
“tutela 
multivello”, un sistema 
di 
tutela 
integrato che 
coinvolga 
in un unicum 
la 
privacy 
con il profilo consumeristico del fruitore del servizio digitale. 


Ma 
vediamo 
come 
il 
Digital 
Services 
act 
ha 
definito, 
da 
un 
punto 
di 
vista 


(15) V. l’opera 
di 
R.A. PoSneR, 
“The 
right 
of 
Privacy”, 12 Georgia Law review 
393, 1977. La 
patria 
della 
privacy 
viene 
indicata 
negli 
uSA. 
“The 
concept 
of 
privacy 
is 
elusive 
and 
ill 
defined” 
scriveva 
Richard Posner nel 
suo saggio del 
1977. Sul 
finire 
dell’800, soprattutto a 
partire 
dalla 
città 
di 
Boston, 
si 
delinea 
“the 
right 
to be 
let 
alone”, lo “jus 
solitudinis”, da 
parte 
di 
S.D. WARRen 
e 
L.D. BRAnDeIS, 
“The 
right 
to 
privacy”, 
Harvard 
Law 
review, 
1890; 
nell’ambito 
della 
law 
of 
torts, 
si 
veda 
anche 
l’opera 
di 
t.M. CooLey, “a 
Treatise 
on the 
Law of 
Torts 
or 
the 
Wrongs 
Which arise 
independent 
of 
Contract”, 
Chicago, 
1888. 
Riguardo 
al 
“the 
right 
to 
be 
forgotten” 
il 
caso 
noto 
è 
quello 
Melvin 
contro 
reid, 
definito 
nel 
1931, originato dall’utilizzo di 
dati 
personali 
all’interno di 
una 
pellicola 
cinematografica. La 
Corte 
d’Appello 
della 
California 
si 
era 
occupata 
delle 
doglianze 
formulate 
da 
un’ex 
prostituta, 
accusata 
di 
omicidio e 
poi 
assolta. La 
signora 
aveva 
cercato di 
“lasciarsi 
alle 
spalle” 
il 
caso di 
cronaca 
che 
l’aveva 
vista 
coinvolta, un tentativo (in parte 
riuscito) di 
rifarsi 
una 
vita 
“normale”. tuttavia, il 
film 
“The 
red 
Kimono” 
rivelava 
la 
storia 
della 
prostituta, andando a 
ripercorrere 
i 
gravi 
fatti 
di 
cui 
la 
signora 
era 
stata 
accusata. La 
Corte 
accolse 
le 
richieste 
dell’istante, affermando che 
«a qualsiasi 
persona condannata 
ma 
poi 
assolta 
va 
riconosciuto 
il 
diritto 
alla 
felicità, 
che 
include 
il 
diritto 
di 
difendersi 
da 
attacchi 
inutili 
alla propria sfera personale, alla condizione sociale e alla reputazione». 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


giuridico, i 
social 
network 
e 
come 
ha 
predisposto il 
sistema 
di 
tutela 
per fare 
poi 
un 
confronto 
con 
il 
Digital 
Markets 
act, 
basato 
sui 
principi 
di 
equità 
e 
contendibilità, 
considerata 
la 
stretta 
connessione 
tra 
tutela 
della 
privacy 
e 
tutela 
della concorrenza. 


nel 
primo Considerando del 
Regolamento del 
parlamento europeo e 
del 
Consiglio relativo a 
un mercato unico dei 
servizi 
digitali 
(legge 
sui 
servizi 
digitali) 
e 
che 
modifica 
la 
direttiva 
2000/31/Ce, 
si 
legge 
testualmente, 
con 
un’esplicita dichiarazione di intenti, che: 


Considerando (1) «i servizi 
della società dell’informazione 
e 
in particolare 
i 
servizi 
intermediari 
sono diventati, una componente 
significativa del-
l’economia dell’Unione 
e 
della vita quotidiana dei 
suoi 
cittadini. a 
vent’anni 
dell’adozione 
del 
quadro 
giuridico 
esistente 
applicabile 
a 
tali 
servizi 
stabilito 
nella direttiva 2000/31/Ce 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, modelli 
aziendali 
e 
servizi 
nuovi 
e 
innovativi, 
quali 
i 
social 
network 
e 
i 
mercati 
online, 
hanno 
consentito 
agli 
utenti 
commerciali 
e 
ai 
consumatori 
di 
accedere 
alle 
informazioni, 
diffonderle 
ed 
effettuare 
transazioni 
in 
modi 
nuovi. 
attualmente 
la maggior 
parte 
dei 
cittadini 
dell’Unione 
utilizza tali 
servizi 
su base 
giornaliera. 
La 
trasformazione 
digitale 
e 
il 
maggior 
utilizzo 
di 
tali 
servizi 
hanno 
tuttavia 
anche 
dato origine 
a nuovi 
rischi 
e 
sfide 
sia per 
i 
singoli 
utenti 
sia per 
la società nel suo insieme». 


Considerando (2) «Gli 
Stati 
membri 
stanno sempre 
più introducendo, o 
stanno valutando di 
introdurre, legislazioni 
nazionali 
sulle 
materie 
disciplinate 
dal 
presente 
regolamento, 
imponendo 
in 
particolare 
obblighi 
di 
diligenza 
per 
i 
prestatori 
di 
servizi 
intermediari. Tenendo conto del 
carattere 
intrinsecamente 
transfrontaliero 
di 
internet, 
generalmente 
utilizzato 
per 
prestare 
i 
suddetti 
servizi, tali 
legislazioni 
nazionali 
divergenti 
incidono negativamente 
sul 
mercato 
interno, 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
26 
del 
Trattato, 
comporta 
uno 
spazio 
senza frontiere 
interne, nel 
quale 
è 
assicurata la libera circolazione 
di 
merci 
e 
di 
servizi 
e 
la 
libertà 
di 
stabilimento. 
Le 
condizioni 
per 
le 
prestazioni 
dei 
servizi 
intermediari 
in tutto il 
mercato interno dovrebbero essere 
armonizzate 
in 
modo 
da 
offrire 
alle 
imprese 
accesso 
ai 
nuovi 
mercati 
e 
opportunità 
di 
sfruttare 
i 
vantaggi 
del 
mercato 
interno, 
consentendo 
nel 
contempo 
ai 
consumatori 
e agli altri destinatari dei servizi di disporre di una scelta più ampia». 


Se 
in questi 
due 
primi 
considerando vengono prese 
in considerazione 
le 
ragioni 
del 
mercato, 
nel 
terzo 
Considerando 
viene 
in 
rilievo 
il 
profilo 
della 
“responsabilità”: 


Considerando 
(3) 
«Un 
comportamento 
responsabile 
e 
diligente 
da 
parte 
dei 
prestatori 
di 
servizi 
intermediari 
è 
essenziale 
per 
un 
ambiente 
online 
sicuro, 
prevedibile 
e 
affidabile 
e 
per 
consentire 
ai 
cittadini 
dell’Unione 
e 
ad 
altre 
persone 
di 
esercitare 
i 
loro 
diritti 
fondamentali 
garantiti 
dalla 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea, 
in 
particolare 
la 
libertà 
di 
espressione 
e 
di 
informazione, 
la 
libertà 
di 
impresa 
e 
il 
diritto 
alla 
non 
discriminazione». 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Da 
qui 
l’enunciazione 
della 
necessità 
di 
una 
regolamentazione 
euro-unitaria 
enunciata 
nel 
Considerando 
(4): 
«È, 
pertanto, 
opportuno 
stabilire 
una 
serie 
mirata 
di 
norme 
obbligatorie 
uniformi, 
efficaci 
e 
proporzionate 
a 
livello 
dell’Unione, al 
fine 
di 
tutelare 
e 
migliorare 
il 
funzionamento del 
mercato interno. 
il 
presente 
regolamento 
stabilisce 
le 
condizioni 
per 
lo 
sviluppo 
e 
l’espansione 
di 
servizi 
digitali 
innovativi 
nel 
mercato 
interno. 
il 
ravvicinamento 
delle 
misure 
nazionali 
di 
regolamentazione 
a 
livello 
dell’Unione 
in 
materia 
di 
obblighi 
per 
i 
prestatori 
di 
servizi 
intermediari 
è 
necessario 
per 
evitare 
la frammentazione 
del 
mercato interno, porvi 
fine 
e 
garantir 
e 
la certezza del 
diritto, così 
da ridurre 
l’incertezza per 
gli 
sviluppatori 
e 
promuovere 
l’interoperabilità. 
il 
ricorso a prescrizioni 
tecnologicamente 
neutre 
dovrebbe 
stimolare 
l’innovazione anziché ostacolarla». 

La 
necessità 
di 
una 
regolamentazione 
eurounitaria 
viene 
collegata 
al 
concetto 
di 
neutralità 
della 
tecnologia, laddove 
i 
servizi 
di 
intermediazione 
vengono 
distinti 
in 
servizi 
di 
“mere 
conduit”, 
ossia 
di 
semplice 
trasporto, 
“caching”, 
memorizzazione 
temporanea 
e 
di 
“hosting”, 
consistente 
nel 
memorizzare 
informazioni 
fornite 
da 
un destinatario del 
servizio su richiesta 
di 
quest’ultimo. 
Sono 
le 
definizioni 
dell’attività 
poste 
in 
essere 
dalle 
piattaforme 
digitali, definite 
giuridicamente 
per la 
prima 
volta 
nell’art. 2 del 
Digital 
Services 
act, assieme 
alla 
nozione 
di 
“contenuto illegale”, rispettivamente 
nella 
lettera h) e g). 


La 
lettera 
h) dell’art. 2 recita 
espressamente: 
«“piattaforma on line” 
(è) 
un prestatore 
di 
servizi 
di 
hosting che, su richiesta di 
un destinatario del 
servizio, 
memorizza e 
diffonde 
al 
pubblico informazioni, tranne 
qualora tale 
attività 
sia una funzione 
minore 
e 
puramente 
accessoria di 
un altro servizio, e, 
per 
ragioni 
oggettive 
e 
tecniche, non possa essere 
utilizzata senza tale 
altro 
servizio e 
a condizione 
che 
l’integrazione 
di 
tale 
funzione 
nell’altro servizio 
non sia un mezzo per eludere l’applicabilità del presente regolamento». 


La 
lettera 
g) definisce 
“contenuto illegale”«qualsiasi 
informazione 
che, 
di 
per 
sé 
o in relazione 
ad un’attività, tra cui 
la vendita di 
prodotti 
o la prestazione 
di 
servizi, non è 
conforme 
alle 
disposizioni 
normative 
dell’Unione 
o 
di 
uno 
Stato 
membro, 
indipendentemente 
dalla 
natura 
o 
dall’oggetto 
specifico 
di tali disposizioni». 


Se 
il 
criterio ispiratore 
del 
Digital 
Services 
act 
è 
la 
responsabilizzazione 
delle 
piattaforme 
digitali, è 
pur vero che 
resta 
in piedi 
la 
clausola 
del 
buon samaritano 
nell’art. 7, rubricato “assenza di 
obblighi 
generali 
di 
sorveglianza o 
di 
accertamento attivo”, in cui 
si 
prevede 
che 
«ai 
prestatori 
di 
servizi 
intermediari 
non è 
imposto alcun obbligo generale 
di 
sorveglianza sulle 
informazioni 
che 
tali 
prestatori 
trasmettono, 
né 
di 
accertare 
attivamente 
fatti 
o 
circostanze 
che 
indichino 
la 
presenza 
di 
attività 
illegali». 
Vi 
è, 
però, 
l’obbligo 
di 
attivarsi 
nel 
rimuovere 
i 
contenuti 
illegali 
o 
disabilitare 
l’accesso 
non 
appena 
si 
venga 
a 
conoscenza 
di 
attività 
o contenuti 
illegali 
o si 
diviene 
consapevoli 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


di 
fatti 
o 
circostanze 
illecite, 
lasciando 
impregiudicata, 
secondo 
gli 
ordinamenti 
giuridici 
degli 
Stati 
membri, 
che 
un 
organo 
giurisdizionale 
o 
un’autorità 
amministrativa 
esiga 
al 
prestatore 
di 
lavoro 
di 
impedire 
o 
porre 
fine 
ad 
una 
violazione. Viene 
mantenuto un sistema 
di 
“notifica ed azione” 
con l’introduzione, 
però, di 
un sistema 
di 
valutazione 
del 
rischio (artt. 26 e 
27), che 
costituisce 
un sistema 
preventivo e 
non repressivo della 
tutela, con un’evoluzione 
qualitativa 
dall’“enforcement” 
al 
“pre-emptive 
remedy”, ossia 
al 
rimedio preventivo 
e 
proattivo, incentrato sul 
“concetto di 
rischio di 
sistema”. L’art. 26, 
infatti, prevede 
che 
almeno una 
volta 
all’anno «le 
piattaforme 
on line 
di 
dimensioni 
molto 
grandi 
individuano, 
analizzano 
e 
valutano 
eventuali 
rischi 
sistemici 
significativi 
derivanti 
dal 
funzionamento 
e 
dall’uso 
dei 
loro 
servizi 
nell’Unione. 
La 
valutazione 
del 
rischio 
deve 
essere 
specifica 
per 
i 
loro 
servizi 
e comprendere i seguenti rischi sistemici: 


a) 
La diffusione di contenuti illegali tramite i loro servizi; 
b) 
eventuali 
effetti 
negativi 
per 
l’esercizio dei 
diritti 
fondamentali 
al 
rispetto 
della vita privata e 
familiare 
e 
alla libertà di 
espressione 
e 
di 
informazione, 
del 
diritto 
alla 
non 
discriminazione 
e 
dei 
diritti 
del 
minore, 
sanciti 
rispettivamente dagli articoli 7, 11, 21 e 24 della Carta; 
c) 
La 
manipolazione 
intenzionale 
del 
servizio, 
anche 
mediante 
un 
uso 
non 
autentico 
o 
uno 
sfruttamento 
automatizzato 
del 
servizio, 
con 
ripercussioni 
negative, effettive 
o prevedibili, sulla tutela della salute 
pubblica, dei 
minori, 
del 
dibattito 
civico, 
o 
con 
effetti 
reali 
o 
prevedibili 
sui 
processi 
elettorali 
e 
sulla sicurezza pubblica». 
Alla 
valutazione 
di 
analisi 
del 
“rischio di 
sistema” 
segue 
la 
fase 
attiva 
di 
“attenuazione 
dei 
rischi”, prevista 
dall’art. 27: 
«Le 
piattaforme 
online 
di 
dimensioni 
molto grandi 
adottano misure 
di 
attenuazione 
ragionevoli, proporzionate 
ed efficaci, adattate 
ai 
rischi 
sistemici 
specifici 
…Tali 
misure 
possono 
comprendere, ove opportuno: 


a) 
L’adeguamento dei 
sistemi 
di 
moderazione 
dei 
contenuti 
o di 
raccomandazione, 
dei 
loro processi 
decisionali, delle 
caratteristiche 
o del 
funzionamento 
dei loro servizi, o delle loro condizioni generali; 
b) 
Misure 
mirate 
volte 
a limitare 
la visualizzazione 
della pubblicità associata 
al servizio da esse prestato; 
c) 
il 
rafforzamento 
dei 
processi 
interni 
o 
della 
vigilanza 
sulle 
loro 
attività, 
in particolare per quanto riguarda il rilevamento dei rischi sistemici; 
d) 
L’avvio o l’adeguamento della cooperazione 
con i 
segnalatori 
attendibili 
(figura qualificata introdotta nell’art. 19 del 
Digital Services 
act); 
e) 
L’avvio o l’adeguamento della cooperazione 
con altre 
piattaforme 
on 
line 
attraverso i 
codici 
di 
condotta e 
i 
protocolli 
di 
crisi 
(previsti 
dagli 
artt. 35 
e 37 del 
Digital Services 
act)». 
un aspetto di 
grande 
rilievo è 
da 
rinvenirsi 
nell’obbligo di 
disclosure 
e 
di 
trasparenza, 
che 
viene 
introdotto 
come 
finalità 
principale 
dell’attività 
svolta 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


dalla 
nuova 
figura 
dei 
“responsabili 
della 
Conformità” 
(art. 
32), 
figura 
chiave 
che 
assicura, assieme 
al 
“coordinatore 
dei 
servizi 
digitali”, la 
conformità 
del-
l’attività 
delle 
piattaforme 
alle 
norme 
contenute 
nel 
Digital 
Services 
act. 
Viene 
definito e 
mitigato l’automatismo informativo dei 
c.d. “sistemi 
di 
raccomandazione”, 
ossia 
di 
quei 
sistemi 
che 
forniscono informazioni 
tramite 
le 
profilazioni, 
impedendo 
di 
ricevere 
notizie 
legate 
al 
c.d. 
“adiacente 
possibile”. 
L’art. 
29 “Sistemi di raccomandazione” del 
Digital Services 
act 
prevede che: 


«1. Le 
piattaforme 
on line 
di 
dimensioni 
molto grandi 
che 
si 
avvalgono 
di 
sistemi 
di 
raccomandazione 
specificano nelle 
loro condizioni 
generali, in 
modo 
chiaro, 
accessibile 
e 
facilmente 
comprensibile, 
i 
principali 
parametri 
utilizzati 
nei 
loro 
sistemi 
di 
raccomandazione, 
nonché 
qualunque 
opzione 
che 
possano 
avere 
messo 
a 
disposizione 
dei 
destinatari 
del 
servizio 
per 
consentire 
loro di 
modificare 
o influenzare 
tali 
parametri 
principali, compresa almeno 
un’opzione 
non 
basata 
sulla 
profilazione, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
4, 
punto 
4) 
del 
regolamento (Ue) 2016/679. 
2. 
Qualora 
siano 
disponibili 
più 
opzioni 
a 
norma 
del 
paragrafo 
1, 
le 
piattaforme 
online 
di 
dimensioni 
molto 
grandi 
mettono 
a 
disposizione 
una 
funzionalità 
facilmente 
accessibile 
sulla 
loro 
interfaccia 
online 
che 
consenta 
ai 
destinatari 
del 
servizio 
di 
selezionare 
e 
modificare 
in 
qualsiasi 
momento 
l’opzione 
da essi 
preferita per 
ciascuno dei 
sistemi 
di 
raccomandazione 
che 
determina 
l’ordine relativo delle informazioni loro presentate». 
tale 
previsione 
cerca 
di 
garantire 
al 
singolo un’autonomia 
operativa, valutativa 
e 
decisionale 
nel 
suo 
rapporto 
con 
la 
piattaforma, 
superando 
quella 
asimmetria 
di 
posizioni 
che 
lo 
vede 
attualmente 
ingabbiato 
in 
automatismi 
informativi, 
collegati alla sua inconsapevole profilazione. 


naturalmente, le 
previsioni 
sopra 
descritte 
dovranno seguire 
il 
loro iter 
legislativo prima 
di 
costituire 
un rilevante 
elemento di 
riferimento normativo 
che 
valga 
a 
costituire 
un 
preciso 
centro 
autonomo 
di 
imputazione 
della 
responsabilità. 


Per ora, occorre 
puntualizzare 
i 
principi 
elaborati 
soprattutto dalla 
giurisprudenza 
per poter definire i principi guida della materia in esame. 

2. algoritmo e diritto amministrativo. 
tra 
le 
varie 
giurisdizioni, 
quella 
amministrativa 
è 
stata 
la 
più 
incisiva 
nell’affermazione 
di 
una 
visione 
antropocentrica 
dell’utilizzo degli 
algoritmi, 
attraverso 
il 
criterio 
dello 
human 
in 
the 
loop, 
ossia 
attraverso 
la 
configurazione 
di 
un 
centro 
di 
imputabilità 
della 
responsabilità 
in 
capo 
esclusivamente 
al-
l’agente umano. 


Il 
riferimento principale 
è 
l’art. 22 del 
GDPR, rubricato “Processo decisionale 
automatizzato 
relativo 
alle 
persone 
fisiche, 
compresa 
la 
profilazione”, 
articolo che 
afferma 
il 
c.d. “principio di 
non esclusività”. tale 
articolo recita 
espressamente: 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


«1. 
L’interessato 
ha 
il 
diritto 
di 
non 
essere 
sottoposto 
a 
una 
decisione 
basata 
unicamente 
sul 
trattamento 
automatizzato, 
compresa 
la 
profilazione, 
che 
produca effetti 
giuridici 
che 
lo riguardano o che 
incida in modo analogo significativamente 
sulla sua persona. 
2. il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui la decisione: 
a) 
sia 
necessaria 
per 
la 
conclusione 
o 
l’esecuzione 
di 
un 
contratto 
tra 
l’interessato e un titolare del trattamento; 
b) sia autorizzata dal 
diritto dell’Unione 
o dello Stato membro cui 
è 
soggetto 
il 
titolare 
del 
trattamento che 
precisa altresì 
misure 
adeguate 
a tutela 
dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell’interessato; 
c) si basi sul consenso esplicito dell’interessato». 
tale 
principio “di 
non esclusività” 
è, oggi, secondo parte 
della 
dottrina 
(16), un principio “debole” 
che, a 
fronte 
di 
tecniche 
algoritmiche 
sempre 
più 
invasive, pervasive 
ed incisive 
sui 
diritti 
fondamentali, necessita 
di 
essere 
integrato 
dal 
principio 
di 
comprensibilità 
e 
di 
motivabilità 
(c.d. 
“right 
to 
explainability”). 
tale 
principio 
si 
traduce, 
sul 
piano 
operativo, 
nel 
principio 
di 
trasparenza, nel 
diritto di 
accesso al 
codice 
sorgente: 
se 
le 
decisioni 
interferiscono 
con 
i 
diritti 
fondamentali, 
si 
radica 
un 
obbligo 
stringente 
di 
motivazione, 
sottoposto 
a 
controllo 
giurisdizionale, 
nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
legalità, 
proporzionalità 
e 
ragionevolezza. è 
bene 
precisare 
che 
tali 
principi 
si 
applicano 
sia 
alle 
decisioni 
private, laddove 
vengano in rilievo asimmetrie 
legate 
ai 
c.d. 
poteri 
privati 
(si 
pensi 
alla 
posizione 
dei 
lavoratori 
nei 
confronti 
del 
datore 
di 
lavoro 
o 
al 
delicato 
settore 
anti-trust), 
sia 
alle 
decisioni 
pubbliche, 
laddove 
gli 
artt. 41 e 
47 della 
Carta 
dei 
diritti 
Fondamentali 
dell’unione 
europea 
sanciscono 
il 
diritto ad una 
buona 
Amministrazione, con obbligo di 
dare 
adeguata 
motivazione 
ai 
provvedimenti 
e 
l’art. 97 della 
Costituzione 
sancisce 
il 
principio 
del 
buon andamento dell’attività 
amministrativa, ispirata 
a 
criteri 
di 
efficienza, 
efficacia ed economicità. 

è, però, bene 
precisare 
che 
l’algoritmo deve 
essere 
creato in modo da 
rispettare 
i 
diritti 
fondamentali 
dell’uomo: 
il 
modello degli 
oversight 
Board e 
dei 
comitati 
etici, incentrato sul 
controllo ex 
post, non ha 
funzionato. Il 
principio 
della 
configurazione 
predefinita 
degli 
standard di 
sicurezza, sin dal 
momento 
della 
progettazione 
del 
sistema, c.d. privacy 
by 
design and default, che 
è 
posto alla 
base 
del 
principio di 
accountability, deve 
evolvere 
in design by 
education, che 
veda 
i 
suoi 
strumenti 
nella 
co-regolazione 
(e 
non nella 
self-regulation), 
nella 
paideia, 
ossia 
nella 
formazione 
digitale 
integrata, 
consapevole, 
continua 
dei 
cittadini 
e 
nella 
collaborazione 
fra 
le 
varie 
Autorità 
regolatorie, 
per promuovere una tutela proattiva e preventiva della tutela dei dati. 


Il 
Consiglio 
di 
Stato 
è 
la 
giurisdizione 
che 
ha 
affrontato 
in 
maniera 
più 


(16) 
A. 
SIMonCInI, 
“L’algoritmo 
incostituzionale: 
intelligenza 
artificiale 
e 
il 
futuro 
delle 
libertà”, 
2019. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


approfondita 
il 
cambiamento 
dell’Amministrazione 
4.0, 
giungendo 
ad 
analizzare 
la 
c.d. 
tecnificazione 
dei 
principi 
amministrativi: 
se, 
infatti, 
il 
xx 
secolo 
ha 
visto 
il 
passaggio 
dall’amministrazione 
tradizionale, 
caratterizzata 
dall’utilizzo 
della 
carta 
e 
macchina 
da 
scrivere, 
a 
un’amministrazione 
2.0, 
che 
fa 
uso 
di 
computer 
e 
stampanti, 
per 
poi 
giungere, 
all’inizio 
del 
xxI 
secolo, 
nell’era 
dell’amministrazione 
digitale 
3.0, 
nella 
quale 
il 
soggetto 
pubblico 
fa 
ampio 
ricorso 
alla 
comunicazione 
via 
internet, 
il 
nuovo 
processo 
al 
quale 
si 
comincia 
ad 
assistere 
è 
quello 
di 
un’attività 
amministrativa 
che, 
sempre 
più 
frequentemente, 
ricorre 
a 
forme 
di 
automazione 
della 
decisione 
amministrativa. 
Si 
pensi 
al 
procedimento 
per 
la 
formazione 
delle 
liste 
dei 
professori 
universitari 
che 
possono 
far 
parte 
delle 
commissioni 
per 
l’ASn 
(Abilitazione 
scientifica 
nazionale) 
(17). 
tale 
ipotesi 
è 
un 
esempio 
di 
«automazione 
del 
provvedimento» 
per 
la 
dichiarazione 
di 
“sorteggiabilità” 
di 
quanti 
aspirino 
a 
divenire 
commissari, 
nel 
procedimento 
di 
attribuzione 
dell’abilitazione 
scientifica 
per 
rivestire 
il 
ruolo 
di 
professore 
universitario. 
Molti 
regolamenti 
comunali 
ricorrono 
a 
un 
algoritmo 
al 
fine 
di 
determinare 
l’ammontare 
della 
sanzione 
paesaggistica, 
ai 
sensi 
dell’art. 
167, 
comma 
5, 
del 
D.lgs. 
42 
del 
2004. 
Assai 
frequenti 
sono 
anche 
i 
provvedimenti 
di 
esclusione 
dalle 
procedure 
concorsuali, 
la 
cui 
domanda 
di 
partecipazione 
avviene 
attraverso 
una 
piattaforma 
informatica, 
materia 
che 
ha 
conosciuto 
un 
ricco 
contenzioso 
amministrativo 
maturato 
in 
tutte 
quelli 
ipotesi 
in 
cui 
viene 
disposta 
l’esclusione 
dalla 
procedura 
per 
problemi 
legati 
al 
cattivo 
funzionamento 
del 
sistema 
informatici. 
In 
altri 
casi 
ancora, 
le 
amministrazioni 
hanno 
fatto 
ricorso 
a 
sistemi 
informatici 
per 
i 
provvedimenti 
di 
assegnazione 
delle 
farmacie 
(18). 
Più 
di 
recente, 
il 
ricorso 
all’algoritmo 
si 
è 
avuto 
nella 
vicenda 
nota 
come 
la 
riforma 
della 
“buona 
scuola”. 
Con 
la 
legge 
n. 
107 
del 
2015, 
il 
Miur 
aveva 
avviato 
un 
Piano 
straordinario 
di 
assunzioni 
a 
tempo 
indeterminato 
e 
di 
mobilità 
su 
scala 
nazionale, 
riguardante 
la 
scuola 
primaria 
e 
secondaria, 
nell’ambito 
di 
un 
progetto 
complessivo 
di 
riforma 
della 
scuola. 
Le 
assunzioni 
erano 
avvenute 
anche 
attraverso 
un 
piano 
di 
trasferimenti 
interprovinciali 
del 
personale 
docente 
(c.d. 
mobilità 
della 
“buona 
scuola”), 
la 
cui 
gestione 
è 
stata 
attuata 
attraverso 
il 
ricorso 
a 
un 
codice 
sorgente, 
elaborato 
da 
una 
società 
privata, 
la 
hPe 
Services 
S.r.l., 
su 
incarico 
del 
Miur, 
al 
fine 
di 
consentire 
all’amministrazione 
di 
svolgere 
più 
agevolmente 
la 
complessa 
procedura 
di 
mobilità 
dei 
docenti. 
In 
questa 
vicenda, 
l’algoritmo 
aveva 
sostituito 
il 
procedimento 
amministrativo, 
nel 
senso 
che, 
l’individuazione 
della 
sede 
spettante 
al 
singolo 
docente 
nell’ambito 
della 
mobilità 
è 
avvenuta 
attraverso 
l’im


(17) 
M. 
D’AnGeLoSAnte, 
“La 
consistenza 
del 
modello 
dell’amministrazione 
invisibile 
nell’età 
della tecnificazione 
della formazione 
delle 
decisioni 
alla responsabilità per 
le 
decisioni”, in S. CIVItA-
ReSe 
MAtteuCCI 
- L. toRChIA 
(a cura di), “La tecnificazione”, pag. 165. 
(18) Vedi 
Sent. tar Lazio, Roma, sez. III, 3 luglio 2018, n. 7368; 
Sent. CdS, sez. VI, 7 novembre 
2017, n. 5136, Sent. tar trentino-Alto Adige, sez. I, 15 aprile 2015, n. 149. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


plementazione 
del 
predetto 
algoritmo, 
per 
mezzo 
del 
codice 
sorgente, 
elaborato 
dalla 
società 
hPe 
Service 
S.r.l. 
La 
vicenda 
è 
divenuta 
nota, 
anche 
perché 
dal-
l’applicazione 
di 
tale 
algoritmo 
è 
scaturito 
un 
cospicuo 
contenzioso 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo, 
nonché 
davanti 
al 
giudice 
del 
lavoro. 


occorre 
incentrare 
l’analisi 
sui 
profili 
di 
ammissibilità 
di 
tali 
forme 
variabili 
di 
decisioni 
automatizzate, per ricondurre 
a 
sistema 
le 
principali 
questioni 
di 
integrazione 
dell’algoritmo con i 
principi 
del 
diritto amministrativo 
ad esso sottesi: 
in particolare, l’individuazione 
dei 
criteri 
di 
imputazione 
e 
le 
conseguenti forme di responsabilità a cui le stesse rimandano. 


è 
opinione 
diffusa, sia 
dottrina 
che 
in giurisprudenza 
(19), che 
il 
terreno 
di 
elezione 
della 
decisione 
amministrativa 
in 
forma 
automatizzata 
sarebbe 
quello 
dell’attività 
vincolata, 
mentre 
la 
stessa 
sarebbe 
preclusa 
nel 
campo 
dell’attività 
discrezionale. 
Ciò 
perché, 
l’attività 
vincolata 
di 
un’amministrazione 
implica 
la 
nota 
sequenza 
norma-fatto-effetto, 
tale 
per 
cui 
l’individuazione 
univoca 
ed 
incontrovertibile 
dei 
presupposti 
fissati 
dalla 
legge 
rende 
certa 
la 
conseguente 
decisione 
amministrativa 
(20). Per tale 
ragione, è 
possibile 
per l’attività 
vincolata 
affidare 
a 
un software 
la 
costruzione 
dei 
passaggi 
necessari: 
si 
realizza 
così 
l’immissione 
di 
una 
serie 
di 
input, 
vale 
a 
dire 
di 
presupposti 
predeterminati 
dalla 
legge, cui 
segue 
lo svolgimento «di 
una serie 
finita 
di 
passi 
elementari», cioè 
la 
verifica 
della 
sussistenza 
di 
quei 
presupposti 
nel 
caso di 
specie, per giungere 
alla 
«soluzione 
del 
problema», che 
coincide 
con la 
decisione 
finale, o output 
(21). Al 
contrario, una 
simile 
operazione 
non 
potrebbe 
trovare 
applicazione 
nell’ambito dell’attività 
discrezionale 
che, invece, 
implica 
la 
sequenza 
norma-potere-effetto 
e 
che 
presuppone 
un apprezzamento 
e 
una 
valutazione 
comparativa 
di 
più interessi 
pubblici 
e 
privati, il 
cui svolgimento non può in alcun modo essere affidato alla macchina. 

In realtà, la 
questione 
non è 
così 
semplice, non solo perché 
la 
distinzione 
sopra 
esposta 
tra 
attività 
vincolata 
e 
attività 
discrezionale 
non 
è 
unanimemente 
condivisa 
(22), ma 
soprattutto perché, anche 
a 
volere 
ammettere 
che 
l’attività 


(19) Cass. Civ., sez. I, 28 dicembre 
2000, n. 16204, secondo cui 
«sono atti 
amministrativi 
informatici 
in senso stretto quegli 
atti 
provenienti 
dalla p.a., direttamente 
ed automaticamente 
elaborati 
dal 
sistema 
informatico, 
in 
quanto 
non 
richiedono 
valutazioni 
discrezionali 
e 
motivazioni 
correlate 
alla 
particolarità del 
caso concreto»; 
M. D’AnGeLoSAnte, op. cit., p. 164; 
P. otRAnto, “Decisione 
amministrativa 
e 
digitalizzazione 
della p.a.”, in federalismi.it; 
F. PAtRonI 
GRIFFI, “La decisione 
robotica e 
il 
giudice amministrativo”, in giustizia-amministrativa.it. 
(20) 
Su 
tali 
questioni, 
qui 
semplicemente 
evocate, 
si 
veda 
e. 
CAPACCIoLI, 
“Manuale 
di 
diritto 
amministrativo”, 
Padova, 1983, p. 267; 
A. PRoto 
PISAnI, “appunti 
sulla c.d. tutela costitutiva e 
sulle 
tecniche 
di 
produzione 
degli 
effetti 
sostanziali”, in riv. dir. proc., 1991, pp. 62 ss.; 
più in generale, n. IRtI, 
“norme 
e 
fatti. Saggi 
di 
teoria generale 
del 
diritto”, Milano 1984, pp. 51 ss.; 
rimane 
centrale, in tema 
di 
efficacia 
giuridica, A. FALZeA, “Teoria dell’efficacia giuridica”, oggiin “ricerche 
di 
teoria generale 
del 
diritto e 
di 
dogmatica giuridica”, vol. I, Milano, 1999, pp. 45 ss.; 
in giurisprudenza 
si 
veda 
Cass., 
Sez. un., 4 maggio 2004, n. 8430. 
(21) 
P. 
FeRRAGInA 
-F. 
LuCCIo, 
“il 
pensiero 
computazionale. 
Dagli 
algoritmi 
al 
coding”, 
Bologna, 
2017. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


vincolata 
si 
presti 
maggiormente 
all’automazione 
della 
decisione, è 
pur vero 
che 
in taluni 
casi 
anche 
siffatta 
attività 
implica 
un processo di 
valutazione, o 
quantomeno 
di 
interpretazione, 
rispetto 
al 
presupposto 
che 
giustifica 
l’adozione 
dell’atto. Circostanza 
questa, che 
rimanda 
all’altra 
questione 
rilevante, 
ossia 
l’imputazione 
dell’atto 
automatizzato 
e 
la 
relativa 
responsabilità. 
Se, 
infatti, 
il 
ricorso alla 
procedura 
automatizzata 
da 
una 
macchina 
risponde 
a 
logiche 
di 
efficienza 
ed 
efficacia 
dell’azione 
amministrativa, 
sulla 
base 
del 
presupposto 
che, 
laddove 
l’attività 
tradizionalmente 
svolta 
dal 
funzionario 
venga 
affidata 
a 
una 
macchina, si 
riducono i 
tempi 
di 
realizzazione 
e 
si 
ottengono 
soluzioni 
certe 
ed esatte, ciò nonostante, a 
parte 
le 
frequenti 
ipotesi 
di 
fallibilità 
del 
software 
(vedi 
i 
casi 
frequenti 
di 
malware), l’automazione 
del-
l’attività 
amministrativa 
non 
può 
mai 
comportare 
la 
totale 
sostituzione 
del-
l’essere 
umano 
nelle 
scelte 
amministrative, 
e 
la 
stessa 
attività 
deve 
essere 
imputata 
all’amministrazione 
nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
responsabilità. 
Il 
problema 
centrale 
è 
il 
carattere 
non neutrale 
dell’algoritmo e 
la 
sua 
scarsa 
trasparenza. 
Questa 
considerazione 
emerge 
in tutta 
la 
sua 
criticità 
nel 
caso della 
“buona scuola” che mi accingo a descrivere. 


una 
prima 
sentenza 
(23) aveva 
avuto ad oggetto il 
diritto di 
accesso all’algoritmo. 
L’istanza 
di 
accesso 
era 
stata 
formulata 
da 
un’organizzazione 
sindacale 
ed 
era 
giustificata 
dalla 
necessità 
di 
garantire 
l’eventuale 
diritto 
di 
difesa 
degli 
iscritti 
alla 
stessa 
organizzazione, nell’eventualità 
di 
un’impugnazione 
del 
provvedimento 
di 
assegnazione 
della 
sede 
di 
docenza. 
Il 
Miur 
aveva 
esibito 
il 
documento descrittivo dell’algoritmo che 
gestiva 
il 
software, negando, invece, 
l’accesso 
al 
codice 
sorgente, 
in 
quanto 
riteneva 
che 
lo 
stesso 
dovesse 
essere 
protetto dai 
principi 
in materia 
di 
proprietà 
intellettuale. Il 
tar ha, invece, 
consentito l’accesso, perché 
il 
software 
è 
il 
provvedimento amministrativo: 
nella 
ricostruzione 
fatta 
dai 
giudici 
si 
sostiene 
che 
«l’algoritmo è 
diretta 
espressione 
dell’attività svolta dalla pubblica amministrazione 
che 
è 
indubbiamente 
attività di 
pubblico interesse, in quanto relativo all’organizzazione 
del 
servizio di 
pubblica istruzione. Tale 
algoritmo è 
entrato nella procedura 
di mobilità quale elemento decisivo». 

Pur 
non 
condividendo 
del 
tutto 
la 
suddivisione 
sopra 
menzionata, 
secondo 
cui 
l’automazione 
della 
decisione 
amministrativa 
può 
essere 
ammessa 
nell’attività 
vincolata, ma 
non in caso di 
attività 
discrezionale, il 
tar afferma 
che 
nel 
caso 
di 
specie 
si 
è, 
comunque, 
in 
presenza 
di 
attività 
vincolata, 
particolarmente 
complessa 
in considerazione 
degli 
innumerevoli 
elementi 
che 
devono essere 
valutati: 
ciò 
non 
comporta 
un 
apprezzamento 
discrezionale, 
trattandosi 
di 
elementi 
di 
tipo oggettivo e 
di 
immediato riscontro, che 
l’Amministrazione 
ha 
il 


(22) F. SAIttA, “Le 
patologie 
dell’atto amministrativo elettronico e 
il 
sindacato del 
giudice 
amministrativo”, 
in riv.dir.amm.elettronico, disponibile 
on line, 2003, 10. 
(23) tar Lazio, sez. III bis, 14 febbraio 2017, n. 3769. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


dovere 
di 
acquisire 
al 
procedimento 
e 
di 
interrelazionare 
correttamente 
tra 
loro, 
ai 
fini 
dell’adozione 
dell’atto 
finale. 
Dunque, 
nel 
caso 
considerato, 
il 
software 
«assume 
una rilevanza centrale 
nel 
procedimento amministrativo». tenuto 
conto 
che 
il 
software 
ha 
natura 
informatica, 
che 
la 
sua 
elaborazione 
è 
imputabile 
ad una 
società 
esterna 
e 
non all’amministrazione 
e 
che 
la 
sua 
funzione 
è 
di 
ausilio e 
di 
supporto rispetto all’attività 
dell’amministrazione 
e 
del 
funzionario, 
il 
tar 
conclude 
nel 
senso 
che 
«è 
con 
il 
software 
che 
si 
concretizza 
la volontà finale 
dell’amministrazione 
procedente» e«che 
l’amministrazione 
costituisce, modifica o estingue 
le 
situazioni 
giuridiche 
individuali». Per tale 
ragione, il 
tar, con l’ordinanza 
soprarichiamata, ha 
ordinato la 
esibizione 
del 
software, annullando il diniego di accesso opposto dall’amministrazione. 


Diversa 
è, invece, l’impostazione 
seguita 
dal 
tar in una 
diversa 
sentenza 
(24), sempre relativa alla vicenda della “buona scuola”, ma riguardante l’impugnazione 
della 
graduatoria 
di 
mobilità, nella 
quale 
i 
ricorrenti 
contestavano 
il 
trasferimento in province 
più lontane 
da 
quella 
della 
propria 
residenza 
o da 
quella 
indicata 
come 
scelta 
prioritaria, sottolineando, soprattutto, il 
fatto che 
nelle 
predette 
province 
fossero presenti 
posti 
disponibili. In tal 
caso, i 
privati 
lamentavano 
prevalentemente 
l’assenza 
di 
ogni 
attività 
amministrativa, 
essendo 
stata 
integralmente 
affidata 
la 
decisione 
sulla 
mobilità 
alla 
procedura 
informatica. A 
differenza 
di 
quanto sostenuto nella 
precedente 
pronuncia, in 
tale 
caso il 
tar ha 
stigmatizzato l’assenza 
«di 
una vera e 
propria attività amministrativa, 
essendosi 
demandato 
a 
un 
impersonale 
algoritmo 
lo 
svolgimento 
dell’intera procedura di 
assegnazione 
dei 
docenti 
alle 
sedi 
disponibili», con 
evidente 
pregiudizio dei 
principi 
di 
trasparenza, di 
partecipazione 
e 
di 
imparzialità 
dell’amministrazione. 
In 
tale 
vicenda 
il 
giudice 
amministrativo 
afferma 
che 
la 
procedura 
così 
automatizzata 
non può mai 
sostituire 
«l’attività cognitiva, 
acquisitiva e 
di 
giudizio che 
solo un’istruttoria affidata a un funzionario 
persona 
fisica 
è 
in 
grado 
di 
svolgere», 
anche 
e 
soprattutto 
al 
fine 
di 
assicurare 
«l’osservanza 
degli 
istituti 
di 
partecipazione, 
di 
interlocuzione 
procedimentale 
e 
di 
acquisizione 
degli 
apporti 
collaborativi 
del 
privato e 
degli 
interessi 
coinvolti 
nel 
procedimento». 
Anche 
volendo 
ammettere 
che 
la 
procedura 
informatica 
possa 
dare 
un 
esito 
corretto 
e 
indiscutibile, 
rimane 
il 
fatto 
che 
una 
decisione 
del 
tutto 
automatizzata 
è 
priva 
di 
motivazione, 
con 
grave 
pregiudizio 
per le 
aspettative 
di 
tutela 
dei 
privati, particolarmente 
delicate 
e 
rilevanti, dal 
momento 
che 
nella 
vicenda 
considerata 
la 
decisione 
amministrativa 
ha 
un 
impatto 
rilevante 
sulla 
vita 
lavorativa 
dei 
docenti, incidendo inevitabilmente 
sui 
diritti costituzionalmente garantiti. 


Le 
due 
sentenze 
sopraesaminate 
presentano 
una 
contraddizione 
intrinseca. 
nel 
primo 
caso, 
per 
l’esigenza 
comprensibile 
e 
condivisibile 
di 
consentire 
l’accesso 
al 
codice 
sorgente, 
al 
fine 
di 
assicurare 
la 
garanzia 
del 
diritto 
di 
difesa 


(24) tar Lazio, Roma, sez. III bis, 11 luglio 2018, n. 9230. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


dei 
ricorrenti, 
il 
tar 
si 
spinge 
ad 
affermare 
che 
“l’algoritmo 
è 
il 
provvedimento 
amministrativo” 
e, 
dunque, 
deve 
essere 
esibito. 
nel 
secondo 
caso, 
al 
contrario, 
pur 
se 
la 
finalità 
rimane 
quella 
di 
garantire 
le 
aspettative 
di 
tutela 
dei 
ricorrenti, 
il 
tar esclude 
che 
l’algoritmo possa 
sostituire 
integralmente 
il 
procedimento 
e 
il 
provvedimento 
amministrativo, 
nonostante 
si 
tratti 
di 
una 
vicenda 
analoga 
a 
quella 
precedentemente 
esaminata 
e 
si 
possa 
affermare 
che 
si 
tratti 
di 
attività 
vincolata, 
nella 
quale 
è 
assente 
(o 
quasi 
del 
tutto 
assente) 
ogni 
apprezzamento 
discrezionale 
e, 
dunque, 
una 
valutazione 
comparativa 
di 
interessi. 
Alla 
luce 
dei 
principi 
di 
partecipazione 
e 
di 
istruttoria 
procedimentale 
a 
cui 
l’Amministrazione 
è 
tenuta 
a 
conformarsi, unitamente 
all’obbligo di 
motivazione 
che 
in 
caso 
di 
decisione 
automatizzata 
rimarrebbe 
inosservato, 
occorre 
ritenere 
necessaria 
la 
riconducibilità 
di 
ogni 
decisione 
amministrativa 
a 
un 
organo, 
che 
ne 
è 
responsabile, escludendo forme 
di 
tale 
automatizzazione 
della 
decisione. 

L’algoritmo deve, dunque, considerarsi 
il 
presupposto su cui 
la 
decisione 
si 
fonda, secondo il 
modello, già 
noto, dell’apprezzamento tecnico come 
presupposto 
del 
provvedimento 
amministrativo. 
Così 
posta 
la 
questione, 
viene 
in 
rilievo 
il 
rapporto 
assai 
discusso 
tra 
tecnica 
ed 
amministrazione, 
che 
a 
sua 
volta 
trova 
soluzione 
nella 
nozione 
di 
discrezionalità 
tecnica 
(25). Secondo la 
più tradizionale 
elaborazione, a 
differenza 
della 
discrezionalità 
pura, che 
implica 
la 
ponderazione 
tra 
i 
diversi 
interessi 
coinvolti 
dalla 
decisione 
amministrativa 
(c.d. 
ermessen), 
la 
discrezionalità 
tecnica 
non 
necessariamente 
comporta 
una 
ponderazione 
comparativa 
degli 
interessi, bensì 
tra 
fatti 
da 
accertare 
alla stregua di canoni scientifici, tecnici, letterari, artistici, ecc. 

Il 
potere 
di 
scelta 
in ordine 
allo strumento più idoneo ad assicurare 
la 
migliore 
cura 
dell’interesse 
pubblico 
è 
un 
potere 
successivo, 
che 
consegue 
all’esito 
del 
giudizio tecnico, laddove 
questo abbia 
un esito incerto che 
apre 
a 
più soluzioni. 


In ogni 
caso, la 
valutazione 
tecnica 
e 
l’accertamento tecnico (a 
seconda 
del 
livello di 
esattezza 
della 
scienza 
preso a 
modello di 
riferimento) operano 
come 
presupposto della 
decisione 
amministrativa 
(26). ed è 
proprio questa 
la 
chiave 
di 
lettura 
che, sia 
pure 
implicitamente, rileva 
dal 
confronto tra 
le 
due 
sentenze. 

Come 
evidenziato 
dagli 
stessi 
giudici, 
l’automatizzazione 
della 
procedura 
si 
traduce 
in un supporto di 
tipo tecnico a 
un’attività 
che 
altrimenti 
dovrebbe 
essere 
svolta 
dal 
funzionario e, in tal 
modo, è 
possibile 
conseguire 
in tempi 
più ragionevoli 
la 
decisione 
finale. Ma 
questa 
attività 
non può integralmente 


(25) Sull’autonomia 
concettuale 
della 
tecnica 
rispetto all’esercizio del 
potere 
discrezionale 
vedi 
M.S. GIAnnInI, “il 
potere 
discrezionale 
della pubblica amministrazione. Concetto e 
problemi”, Milano, 
1939; 
V. BACheLet, “L’attività tecnica della pubblica amministrazione”, 1967; 
F. LeDDA, “Potere, tecnica 
e sindacato giudiziario”, in “Studi in memoria di V. Bachelet”, Milano, 1987, p. 247. 
(26) Si 
veda 
F. VoLPe, “Discrezionalità tecnica e 
presupposti 
dell’atto amministrativo”, in Dir. 
amm., 2008, 791. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


sostituire 
la 
decisione 
finale, 
perché 
ne 
sarebbero 
pregiudicati 
i 
principi 
di 
imparzialità, 
di buon andamento e di trasparenza dell’azione amministrativa. 

Prescindendo dalla 
distinzione 
tra 
attività 
vincolata 
ed attività 
discrezionale, 
la 
soluzione 
più condivisibile 
è 
quella 
di 
considerare 
la 
procedura 
automatizzata 
alla 
stregua 
di 
un 
accertamento 
tecnico, 
che 
presuppone, 
comunque, 
l’adozione di un provvedimento finale che ne faccia proprio l’esito. 

Riprendendo le 
osservazioni 
svolte 
dal 
giudice 
amministrativo, le 
procedure 
informatiche 
sono 
predisposte 
«in 
funzione 
servente» 
e 
ad 
esse 
va 
affidato 
un «ruolo strumentale 
e 
meramente 
ausiliario in seno al 
procedimento amministrativo 
e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo». 

tale 
ricostruzione 
è 
confermata 
dal 
Supremo Consesso Amministrativo 
che, 
con 
la 
sentenza 
dell’8 
aprile 
2019, 
n. 
2270, 
in 
una 
vicenda 
relativa 
al-
l’impugnazione 
della 
proposta 
di 
assunzione 
conseguente 
al 
piano 
straordinario 
di 
mobilità 
dei 
docenti, 
ha 
prospettato 
una 
soluzione 
per 
certi 
versi 
intermedia rispetto alle pronunce dei giudici di prime cure. 

Per 
un 
verso, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ammette 
che 
in 
alcuni 
casi 
come 
quello 
relativo 
alla 
“buona 
scuola”, 
il 
ricorso 
a 
una 
procedura 
automatizzata 
deve 
ritenersi 
legittimo, 
anzi 
utile 
e 
vantaggioso, 
poiché 
in 
presenza 
di 
procedure 
seriali 


o 
standardizzate, 
consente 
di 
addivenire 
a 
una 
decisione 
in 
tempi 
più 
celeri, 
a 
garanzia 
dell’interesse 
pubblico 
e 
dei 
principi 
di 
efficienza 
e 
di 
buon 
andamento. 
D’altra 
parte, prosegue: 
«l’utilizzo di 
procedure 
robotizzate 
non può essere 
motivo di 
elusione 
dei 
principi 
che 
conformano il 
nostro ordinamento e 
che 
regolano lo svolgersi 
dell’attività amministrativa». Ciò significa 
che, se 
è 
vero che 
«l’algoritmo, ossia il 
software 
deve 
essere 
considerato a tutti 
gli 
effetti 
come 
un atto amministrativo informatico» che 
si 
fonda 
su una 
«regola 
tecnica», va, altresì, considerato che 
l’atto così 
generato, e 
la 
regola 
tecnica 
che 
esso 
incorpora, 
devono 
essere 
soggetti 
ai 
principi 
fondamentali 
dell’azione 
amministrativa, tra 
cui 
la 
trasparenza 
e 
la 
conoscibilità, nonché 
il 
pieno sindacato 
del 
giudice 
amministrativo, 
il 
quale 
deve 
poter 
valutare 
«la 
correttezza 
del 
processo 
informatico 
in 
tutte 
le 
sue 
componenti: 
dalla 
sua 
costruzione, 
all’inserimento 
dei dati, alla loro validità, alla loro gestione». 

Il 
punto è 
che 
può accadere 
che 
l’algoritmo, inteso come 
regola 
tecnica, 
assuma 
un ruolo che 
si 
spinga 
al 
di 
là 
del 
mero presupposto su cui 
si 
fonda 
la 
decisione, potendo giungere 
a 
costituire 
un sistema 
di 
formazione 
della 
stessa 
volontà procedimentale. 

Il 
tema 
evoca 
il 
rapporto tra 
tecnica 
e 
amministrazione 
e 
la 
soluzione 
potrebbe 
essere 
quella 
che 
individua 
nel 
sapere 
tecnico e 
scientifico, e 
dunque 
nell’algoritmo, il presupposto della decisione amministrativa. 

Per 
altro 
verso, 
il 
quid 
novi 
dell’algoritmo 
consiste 
nella 
possibilità 
che 
esso, 
in 
quanto 
strumento 
di 
formazione 
della 
volontà 
dell’amministrazione, 
possa 
sostituirsi 
alla 
decisione 
finale. 
Pertanto, 
sulla 
scorta 
delle 
argomentazioni 
condotte 
dal 
giudice 
amministrativo, 
come 
pure 
dalle 
indicazioni 
contenute 
nel 
Regola



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


mento 
ue 
2016/679, 
appare 
utile 
provare 
a 
cogliere 
“nella 
sequenza 
di 
passaggi 
elementari” 
che 
caratterizzano 
un 
algoritmo 
e 
che, 
dunque, 
costituiscono 
l’essenza 
della 
decisione 
automatizzata, 
i 
principi 
fondamentali 
dell’ordinamento 
che 
assicurano 
il 
corretto 
dispiegarsi 
del 
procedimento 
amministrativo. 


occorre, dunque, enucleare 
un complesso di 
regole 
e 
principi 
che 
definiscano 
“un 
giusto 
processo 
tecnologico”, 
c.d. 
Digital 
o 
Technological 
Due 
Process, 
secondo un’espressione 
che 
riassume 
l’esigenza 
che 
gli 
algoritmi 
che 
ci 
governano riflettano i 
valori 
fondanti 
e 
condivisi 
della 
nostra 
società 
e 
siano 
soggetti al controllo democratico (27). 


occorre 
considerare 
anche 
il 
rapporto 
tra 
algoritmi 
e 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
alla 
luce 
degli 
artt. 
13 
e 
14 
del 
GDPR, 
secondo 
cui 
l’interessato 
deve 
essere 
informato 
dell’eventuale 
esecuzione 
di 
un 
processo 
decisionale 
automatizzato 
e 
dell’art. 
22 
(c.d. 
principio 
di 
non 
esclusività), 
che 
esclude 
la 
possibilità 
che 
la 
decisione 
sia 
basata 
unicamente 
sul 
trattamento 
automatizzato 
(28). 


Il 
Sistema 
di 
tutela 
deve, 
dunque, 
incentrarsi 
sul 
principio 
di 
trasparenza, 
condizione 
necessaria 
per 
la 
comprensione 
dei 
meccanismi 
di 
funzionamento 
dei 
processi 
decisionali 
compiuti 
dalle 
macchine. 
La 
trasparenza, 
in 
tal 
caso, 
è 
intesa 
quale 
sinonimo 
di 
conoscenza 
del 
percorso 
seguito 
per 
giungere 
alla 
decisione 
automatizzata. 
ed 
è 
in 
un’ottica 
di 
trasparenza 
che, 
da 
più 
parti, 
si 
sollecita 
l’intervento 
di 
“algoritmisti”, 
una 
sorta 
di 
consulente 
tecnico 
d’ufficio 
con 
competenze 
informatiche 
che 
svolga 
il 
ruolo 
di 
controllore 
delle 
società 
dell’algoritmo, 
con 
il 
compito 
di 
attestare 
la 
correttezza 
di 
un 
certo 
algoritmo 
(29). 


Il 
tema 
centrale 
nella 
decisione 
automatizzata 
diviene, così, quello della 
sua 
“spiegabilità”(explanability), 
attraverso 
l’individuazione 
di 
strumenti 
che 
consentano di 
interpretarne 
il 
codice 
sorgente 
per ricostruire 
i 
passaggi 
logici 
che 
lo compongono e 
stabilire, per questa 
via, i 
passaggi 
e 
le 
procedure 
che 
hanno 
determinano 
i 
risultati. 
Sotto 
tale 
profilo, 
la 
spiegabilità 
della 
procedura 
automatizzata, la 
cui 
necessità 
è 
stata 
sottolineata 
dal 
Consiglio di 
Stato nella 
sentenza 
sopra 
richiamata, 
non 
si 
allontana 
molto 
dalla 
necessaria 
motivazione 
del 
provvedimento: 
l’amministrazione 
che 
assume 
una 
decisione 
attraverso il 


(27) A. MoRettI, “algoritmi 
e 
diritti 
fondamentali 
della persona. il 
contributo del 
regolamento 
Ue 
2016/679”, 
in 
“Diritto 
dell’informazione 
e 
dell’informatica”, 
2018, 
799; 
D. 
keAtS 
CItRon, 
“Technological 
Due 
Process”, 85, Wash. un.L.Rev.1249; 
D. keAtS 
CItRon 
& 
F. PASQuALe, “The 
Scored 
Society: 
Due 
Process 
for 
automated 
Predictions”, 
89 
WASh.L.ReV. 
1 
(2014); 
k. 
CRAWFoRD 
& 
J. 
SChuLtZ, “Big Data and Due 
Process: toward a framework 
to redress 
Predictive 
Privacy 
Harms”, 55 
B.C.L. ReV.93 (2014). 
(28) Su questa 
falsariga 
si 
vedano, ad esempio, ePRS 
/european Parliamentary Research Service 
-Panel 
for 
the 
future 
of 
Science 
and Technology 
(StoA), “a 
governance 
framework 
for 
algorithmic 
accountability 
and 
transparency”, 
March 
2019; 
high-Level 
expert 
Group 
on 
Artificial 
Intelligence, 
“ethics 
guidelines 
for 
trustworthy 
ai”, April 
2019; 
in tal 
senso, M. ZALnIeRIute, L. Bennett 
MoSeS, 
G. WILLIAMS, “The 
rule 
of 
law and automation of 
Government 
Decision-Making”, in “The 
modern law 
review”, 2019, 425. 
(29) V. MAyeR 
-SChoeneRGeR, k. CukIeR, “Big Data. Una rivoluzione 
che 
trasformerà il 
nostro 
modo di vivere”, Garzanti, Milano, 2016. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


ricorso a 
un algoritmo deve 
essere 
in grado di 
spiegare 
l’iter logico-giuridico 
che conduce alla decisione finale. 

trasparenza 
e 
conoscenza, o spiegabilità, della 
procedura 
automatizzata 
assicurano, 
a 
loro 
volta, 
un’adeguata 
partecipazione 
del 
privato 
alla 
procedura 
algoritmica. In qualunque 
passaggio della 
procedura, deve 
sempre 
essere 
assicurata 
al 
privato la 
facoltà 
di 
intervenire 
nel 
procedimento, di 
interloquire 
con il 
responsabile, di 
presentare 
memorie 
e 
documenti 
per orientare 
la 
decisione 
che 
lo riguarda, ma 
soprattutto per anticipare 
in sede 
procedimentale 
le 
proprie 
aspettative 
di 
tutela. 
ed 
è 
proprio 
questo 
il 
vulnus 
della 
decisione 
sulla 
mobilità 
dei 
docenti 
che, nella 
ricostruzione 
del 
tAR, ha 
comportato l’illegittimità 
della decisione medesima affidata per intero ad un algoritmo. 


L’esigenza 
è 
quella 
di 
evitare 
che 
l’automatizzazione 
della 
procedura 
possa 
generare 
un processo di 
spersonalizzazione 
della 
decisione, con un duplice 
effetto distorsivo: 
per un verso, perché 
impedisce 
la 
virtuosa 
partecipazione 
del 
privato al 
procedimento, in quanto manca 
un interlocutore 
al 
quale 
il 
privato possa 
rivolgersi; 
per altro verso, perché 
rischia 
di 
generare 
una 
polverizzazione 
della 
responsabilità 
conseguente 
alla 
decisione 
assunta 
(30). è, 
dunque, nel 
processo di 
procedimentalizzazione 
dell’attività 
algoritmica 
che 
si declina la tutela per il privato. 


Se 
l’algoritmo 
si 
proietta 
nella 
decisione 
finale, 
sino 
a 
sostituirla 
del 
tutto, 
ancor di 
più i 
profili 
di 
interesse 
si 
concentrano sulle 
prospettive 
di 
tutela 
e 
le 
garanzie 
dei 
privati 
dinanzi 
a 
una 
decisione 
pubblica 
assunta 
attraverso procedure 
automatizzate. In tal 
caso, oltre 
ai 
menzionati 
principi 
di 
trasparenza 
e 
partecipazione, a 
venire 
in rilievo è 
soprattutto il 
principio di 
responsabilità 
declinato in una 
duplice 
direzione: 
se, infatti, esso impone 
di 
ritenere 
sempre 
responsabile 
il 
funzionario 
che 
abbia 
agito 
“in 
violazione 
dei 
diritti” 
(31), 
sotto 
altro profilo, la 
decisione 
automatizzata 
implica 
la 
necessità 
di 
una 
responsabilità 
già 
nella 
“costruzione” 
e 
nell’“educazione” 
dell’algoritmo. Il 
modo in 
cui 
l’amministrazione 
decide 
di 
selezionare 
e 
scegliere 
i 
dati 
su cui 
dovrà 
essere 
costruito l’algoritmo, ne condiziona fatalmente il risultato. 

è 
in questa 
fase, ad esempio, che 
si 
è 
parlato di 
“non discriminazione 
algoritmica” 
(32), nel 
senso che 
i 
dati 
su cui 
si 
sviluppa 
l’algoritmo devono es


(30) Sul 
tema, si 
rinvia 
alle 
suggestive 
riflessioni 
di 
e. PICoZZA, “Problems 
about 
enforcement”, 
in e. PICoZZA, “neurolaw. an introduction”, ed. Springer, 2016, pp. 79 ss. 
(31) Sul 
principio di 
responsabilità 
dell’amministrazione, v. A. PoLICe, “il 
principio di 
responsabilità”, 
in 
M. 
RennA, 
F. 
SAIttA, 
(a 
cura 
di) 
“Studi 
sui 
principii 
del 
diritto 
amministrativo”, 
Milano, 
2012, 
195 ss.; 
sull’art. 28 Cost., v. ex 
multis, M. CLARICh, “La responsabilità della pubblica amministrazione 
nel diritto italiano”, in 
riv. Trim. Dir. Pubbl., 1989, 1085. 
(32) A. SIMonCInI, “L’algoritmo incostituzionale, intelligenza artificiale, il 
futuro delle 
libertà”, 
cit., che 
riporta 
il 
caso della 
c.d. “decisione 
Compas”, rispetto alla 
quale, da 
uno studio condotto su un 
campione 
di 
10.000 
imputati, 
nella 
predizione 
della 
recidiva 
l’algoritmo 
sovrastimava 
sistematicamente 
il 
rischio di 
recidiva 
per gli 
imputati 
neri 
ed altrettanto sistematicamente 
sottostimava 
il 
rischio per i 
bianchi. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


sere 
selezionati 
in modo da 
evitare 
ogni 
effetto discriminatorio all’esito della 
decisione 
algoritmica. 
Se, 
allora, 
l’automatizzazione 
di 
una 
decisione 
pubblica 
consente 
la 
formazione 
della 
volontà 
dell’amministrazione, 
il 
processo 
che 
ne 
sta 
alla 
base, dall’inserimento degli 
input 
alla 
gestione 
dell’output, deve 
conformarsi 
ai 
principi 
generali 
che 
governano l’agire 
amministrativo; 
deve 
cioè, 
essere 
chiaro, 
conoscibile 
e 
partecipato 
per 
rispondere 
adeguatamente 
alle 
esigenze 
di 
tutela 
dei 
destinatari 
della 
decisione 
automatizzata. Il 
rischio, infatti, 
risiede 
nella 
circostanza 
che 
l’assunzione 
sempre 
più frequente 
e 
nei 
settori 
più variegati 
di 
decisioni 
automatizzate, che 
dovrebbero proiettare 
l’amministrazione 
verso forme 
di 
azioni 
innovative, tecnologicamente 
avanzate, assicurando 
l’efficienza, la 
correttezza 
e 
la 
oggettiva 
imparzialità 
della 
decisione, 
possa 
generare 
un arretramento sotto il 
profilo delle 
garanzie 
procedimentali 
del 
cittadino, 
dalla 
partecipazione 
in 
senso 
tecnico, 
attraverso 
la 
presentazione 
di 
memorie 
e 
documenti, alla 
possibilità 
di 
una 
concreta 
interlocuzione 
con il 
responsabile del procedimento. 

Per questo, si 
fa 
sempre 
più stringente 
la 
necessità 
di 
ancorare 
il 
procedimento 
di 
formazione 
della 
decisione 
automatizzata 
ai 
principi 
generali 
che 
conformano l’agire 
amministrativo, ivi 
inclusa 
le 
condizioni 
per l’esercizio di 
un sindacato giudiziario e 
delle 
relative 
conseguenze, anche 
in termini 
di 
responsabilità 
dell’amministrazione 
e 
dei 
suoi 
agenti 
(33). Al 
di 
là 
dell’inquadramento 
teorico 
della 
responsabilità 
dell’amministrazione 
in 
generale, 
è 
comunque 
evidente 
che 
se 
la 
decisione 
automatizzata 
è 
espressione 
di 
un potere, 
rispetto 
al 
cui 
esercizio 
l’algoritmo 
costituisce 
un 
presupposto 
ovvero 
coincide 
con il 
provvedimento, sovrapponendosi 
ad esso, quella 
appena 
considerata 
rappresenterebbe 
un’ipotesi 
di 
responsabilità 
per 
illegittimo 
esercizio 
del potere, la cui azione trova oggi fondamento nell’art. 30 c.p.a. 

Dopo 
la 
sentenza 
n. 
500 
del 
1999 
sulla 
risarcibilità 
dell’interesse 
legittimo 
e 
dopo l’entrata 
in vigore 
del 
codice 
del 
processo amministrativo nel 
2010, la 
previsione 
di 
una 
specifica 
azione 
di 
condanna 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo, 
soggetta 
a 
un 
termine 
di 
decadenza, 
consente 
di 
ipotizzare 
un 
superamento 
del 
paradigma 
di 
responsabilità 
extracontrattuale, 
lasciando 
invero 
irrisolte non poche questioni, tra cui quella della giurisdizione (34). 


(33) Il 
tema 
della 
responsabilità 
dell’amministrazione 
è 
estremamente 
complesso e 
variegato e 
racchiude 
una 
pluralità 
di 
questioni 
che 
difficilmente 
possono 
trovare 
composizione: 
per 
un’idea 
del 
contesto 
al 
quale 
ci 
si 
riferisce, 
v. 
A. 
CASSAteLLA, 
“La 
responsabilità 
funzionale 
nell’amministrare. 
Termini 
e questioni”, in Dir. amm., 2018, 677. 
(34) 
e. 
FoLLIeRI, 
“La 
tipologia 
delle 
azioni 
proponibili”, 
in 
F.G. 
SCoCA 
(a 
cura 
di), 
“Giustizia 
amministrativa”, 
torino, 
2017, 
pp. 
190 
ss.; 
V. 
CeRuLLI 
IReLLI, 
“Giurisdizione 
amministrativa 
e 
pluralità 
delle 
azioni 
(dalla 
Costituzione 
al 
Codice 
del 
processo 
amministartivo)”, 
in 
Dir. 
Proc. 
amm., 
2012, 
436. 
In termini 
assai 
generali 
e 
senza 
alcuna 
pretesa 
di 
esaustività, una 
ricca 
costruzione 
storica 
del 
dibattito 
sopra 
richiamato si 
trova 
in F.G. SCoCA, “L’interesse 
legittimo. Storia e 
teoria”, torino, 2017; 
nonché, 
per una 
diversa 
ricostruzione 
della 
natura 
dell’interesse 
legittimo, G. GReCo, “Dal 
dilemma diritto soggettivo-
interesse 
legittimo, 
alla 
differenziazione 
interesse 
strumentale-interesse 
finale”, 
in 
Dir. 
amm., 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Questa 
è, 
dunque, 
la 
linea 
interpretativa 
che 
ha 
tracciato 
il 
Consiglio 
di 
Stato: 
superando 
ogni 
possibile 
limite 
al 
sindacato 
giudiziario 
sulla 
discrezionalità 
amministrativa 
e 
tecnica, 
rivendica 
la 
necessità 
di 
esercitare 
il 
proprio 
sindacato 
sull’algoritmo 
che 
costituisce 
l’essenza 
della 
decisione 
finale 
e 
sulla 
correttezza 
di 
tutti 
i 
passaggi 
della 
procedura 
informatica, 
ivi 
inclusa 
la 
costruzione 
dell’algoritmo, 
l’inserimento 
dei 
dati 
e 
la 
loro 
gestione. 
La 
questione, 
così 
impostata, 
rimanda 
al 
problema 
della 
fallibilità 
del 
software, 
al 
quale 
ci 
si 
affida 
sul 
presupposto 
che 
esso 
sia 
in 
grado 
di 
offrire 
una 
soluzione 
efficiente, 
perché 
adottata 
in 
tempi 
ridotti 
e 
non 
soggetta 
ad 
errore, 
ma 
che 
nei 
fatti 
può 
dar 
luogo 
a 
risultati 
non 
corretti, 
come 
mostra 
bene 
il 
caso 
delle 
assegnazioni 
dei 
docenti 
nella 
procedura 
di 
mobilità 
avviata 
con 
la 
riforma 
della 
“buona 
scuola”. 
è 
evidente 
che 
tali 
assegnazioni 
erano 
avvenute 
in 
modo 
non 
coerente 
alla 
scelta 
prioritaria 
formulata 
dagli 
interessati, 
con 
la 
conseguenza 
che 
alcuni 
docenti 
erano 
stati 
destinati 
in 
sedi 
più 
distanti 
da 
quella 
indicata 
o 
da 
quella 
di 
residenza 
e 
pur 
essendo 
disponibili 
svariati 
posti 
presso 
le 
sedi 
di 
elezione. 
A 
fronte 
del 
margine 
di 
errore 
del 
software, 
si 
fa 
sempre 
più 
sentita 
la 
necessità 
di 
assicurare 
la 
trasparenza, 
la 
conoscibilità 
e 
la 
partecipazione 
del 
privato 
al 
procedimento 
di 
formazione 
di 
ogni 
decisione 
pubblica, 
sia 
nell’ipotesi 
in 
cui 
l’algoritmo 
funga 
da 
presupposto 
per 
una 
decisione 
successiva, 
sia 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
suo 
prodotto 
coincida 
con 
la 
stessa 
decisione. 
Fermo 
restando 
che, 
per 
il 
principio 
di 
responsabilità, 
l’amministrazione, e 
non un software, deve 
rispondere 
dei 
danni 
prodotti. 
In 
altri 
termini, 
applicato 
al 
processo 
di 
automazione 
della 
decisione 
pubblica, 
il 
principio 
di 
responsabilità 
si 
traduce, 
in 
un 
primo 
tempo, 
nell’esigenza 
di 
limitare 
il 
ruolo 
della 
tecnica 
in 
generale, 
e 
dell’algoritmo 
in 
particolare, 
a 
strumento 
servente 
dell’amministrazione, 
mantenendo 
così 
in 
capo 
all’agente 
la 
competenza 
e 
la 
responsabilità 
che 
deriva 
dall’assunzione 
della 
decisione 
(35). 


2014, 
479; 
C. 
CAStRonoVo, 
“La 
«civilizzazione» 
della 
pubblica 
amministrazione”, 
in 
europa 
e 
dir. 
priv., 2013, 637. Più in generale, sulla 
responsabilità 
civile, sul 
cui 
paradigma 
si 
è 
ricostruita 
la 
nozione 
di 
responsabilità 
dell’amministrazione 
per lesione 
dell’interesse 
legittimo, da 
ultimo nella 
trattatistica 
si 
vedano, tra 
gli 
altri, C. CAStRonoVo, “responsabilità civile”, Milano, 2018; 
G. ALPA, “La responsabilità 
civile. 
Principi”, 
Milano, 
2018; 
P. 
tRIMARChI, 
“La 
responsabilità 
civile: 
atti 
illeciti, 
rischio, 
danno, 
responsabilità civile”; 
A. DI 
MAJo, “Profili 
della responsabilità civile”, torino, 2010; 
P.G. MonAteRI, 
“La responsabilità civile”, torino, 2006. 


(35) 
Qui, 
al 
di 
là 
del 
modello 
di 
responsabilità 
accolto, 
e 
del 
conseguente 
regime 
giuridico, 
la 
questione 
centrale 
riguarda 
il 
profilo dell’imputazione 
della 
responsabilità 
in capo all’amministrazione, 
su 
cui 
la 
giurisprudenza 
pare 
avere 
assunto 
un 
orientamento 
che 
oscilla 
tra 
la 
sussistenza 
della 
c.d. 
colpa 
d’apparato e 
la 
ricerca 
di 
un errore 
scusabile; 
CdS, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4189, secondo cui 
«l’imputazione 
alla p.a. di 
una responsabilità extracontrattuale 
non può avvenire 
sulla base 
del 
mero dato 
obiettivo dell’illegittimità dell’azione 
amministrativa, ma il 
giudice 
deve 
svolgere 
una più penetrante 
indagine, non limitata al 
solo accertamento dell’illegittimità del 
provvedimento in relazione 
alla normativa 
ad esso applicabile, bensì 
estesa anche 
alla valutazione 
della colpa, non del 
funzionario agente 
e 
da riferire 
ai 
parametri 
della negligenza o imperizia, ma dell’amministrazione 
intesa come 
apparato, 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


In modo complementare, il 
medesimo principio potrebbe 
condurre 
a 
stabilire, 
ad 
esempio, 
obblighi 
di 
tipo 
fiduciario 
a 
carico 
di 
chi 
raccoglie, 
analizza 
e 
utilizza 
informazioni 
nei 
confronti 
sia 
dei 
diretti 
interessati 
che 
della 
collettività 
in generale (36). 


Ancora, 
sempre 
in 
attuazione 
del 
principio 
di 
responsabilità, 
potrebbe 
essere 
auspicabile 
adottare 
specifiche 
prescrizioni 
tecniche 
per la 
progettazione 
di 
algoritmi 
“equi”, 
disegnati, 
cioè 
in 
modo 
da 
rispettare 
i 
valori 
fondanti 
della 
nostra società (37). 


Dinanzi 
alla 
continua 
evoluzione 
della 
scienza 
e 
alla 
velocità 
delle 
trasformazioni 
tecnologiche, un atteggiamento di 
resistenza 
rispetto all’impiego 
di 
algoritmi 
nella 
formazione 
della 
volontà 
procedimentale 
risulta 
ingiustificato, 
oltre 
che 
di 
difficile 
attuazione, 
dato 
che 
il 
ricorso 
a 
software 
che 
possano 
supportare 
l’azione 
amministrativa 
è 
destinato a 
essere 
sempre 
più frequente 
e gli ambiti applicativi delle decisioni automatizzate aumentano di continuo. 

Di 
recente, il 
Professore 
Giorgio Parisi, vincitore 
del 
premio nobel 
per 
la 
fisica 
2021, ci 
ha 
illustrato le 
dinamiche 
dei 
sistemi 
complessi 
su scala 
atomica 
e 
planetaria, 
dimostrandoci 
che 
la 
massa 
è 
un 
fenomeno 
dinamico. 
Anche 
il 
mondo degli 
algoritmi 
presenta 
una 
complessità 
che 
il 
giurista 
deve 
cercare 
di 
regolare 
per metterla 
al 
servizio dell’interesse 
dell’uomo. è 
relativamente 
recente 
la 
notizia 
che 
in Sardegna 
è 
stata 
avviata 
una 
sperimentazione, che 
riguarda 
ancora 
pochi 
comuni, per il 
monitoraggio del 
territorio attraverso satelliti 
radar che, tra 
i 
diversi 
obiettivi, si 
propone 
anche 
quello di 
individuare 
manufatti ed edifici abusivi. 

In particolare, la 
neMea Sistemi 
-che 
dal 
2015 è 
socia 
del 
distretto aerospaziale 
della 
Sardegna 
-intende 
calcolare 
«un algoritmo che 
consentirà di 
misurare 
se 
i 
fabbricati 
si 
innalzano oppure 
no, offrendo alla pubblica ammi


che 
sarà 
configurabile 
nel 
caso 
in 
cui 
l’adozione 
e 
l’esecuzione 
dell’atto 
illegittimo 
e 
lesivo 
dell’interesse 
del 
danneggiato siano avvenute 
in violazione 
delle 
regole 
di 
imparzialità, di 
correttezza e 
di 
buona amministrazione 
alle 
quali 
l’esercizio della funzione 
amministrativa deve 
ispirarsi»; 
nonché 
CdS, sez. V, 
18 gennaio 2016, n. 148, che 
afferma 
che 
«ai 
fini 
della configurabilità della responsabilità della Pubblica 
amministrazione 
devono ricorrere 
i 
presupposti 
del 
comportamento colposo, del 
danno ingiusto 
e 
del 
nesso di 
conseguenzialità tra i 
fatti; pertanto, l’imputazione 
della colpa alla Pubblica amministrazione 
non 
può 
avvenire, 
sulla 
base 
del 
mero 
dato 
obiettivo 
dell’illegittimità 
dell’atto 
amministrativo 
e, comunque, essa va negata in particolare 
quando l’indagine 
conduca al 
riconoscimento dell’errore 
scusabile 
per 
la 
sussistenza 
di 
contrasti 
giudiziari, 
per 
l’incertezza 
del 
quadro 
normativo 
di 
riferimento 


o per la complessità della situazione di fatto». 
(36) 
J.M. 
BALkIn, 
“information 
fiduciaries 
and 
the 
first 
amendament”, 
49 
u.C 
Davis 
L.ReV.1183 (2015); 
per una 
recente 
ricognizione 
del 
tema 
degli 
obblighi 
fiduciari 
in prospettiva 
comparatistica, 
si 
rinvia 
a 
e.J. 
CRIDDLe, 
P.B. 
MILLeR 
& 
R.h. 
SItkoFF 
“oxford 
Handbook 
of 
fiduciary 
Law”, 
oxford, 2018. 
(37) S. BARoCAS, “accountable 
algorithms”, 165 u.PA.L.ReV. 633 (2017). Con ciò sfruttando il 
codice 
sorgente 
e 
l’architettura 
della 
rete 
come 
strumenti 
per governare 
la 
sfera 
digitale 
(il 
riferimento 
è 
a 
L. LeSSIG, “Code.Version 2.0”, new 
york, 2006). Rimane 
ovviamente 
la 
difficoltà 
di 
definire 
tali 
valori 
e 
principi 
e 
di 
tradurli 
in comandi 
eseguibili 
dalle 
macchine. Vedi 
J. kRoLL, “accountable 
algorithms”, 
165 univ.Penn.L.Rev. 2017. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


nistrazione 
uno strumento formidabile 
per 
individuare 
abusi 
e 
interventi 
sui 
fabbricati» (38). 

La 
questione 
è 
molto 
complessa, 
se 
si 
considera 
il 
noto 
orientamento 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
sulla 
possibilità 
di 
valutare 
le 
aerofotogrammetrie 
quali 
prove 
dell’avvenuto abuso (39). negare 
l’utilità 
degli 
algoritmi 
nell’attività 
amministrativa 
potrebbe 
rappresentare 
una 
forma 
di 
neoluddismo, 
la 
“c.d. paura del 
nuovo imponderabile”, non auspicabile 
in un’era 
postmoderna. 
L’utilizzo 
dell’intelligenza 
algoritmica 
implica, 
però, 
che 
l’esercizio 
del 
potere 
pubblico debba 
essere 
chiamato a 
rispondere 
degli 
eventuali 
pregiudizi 
arrecati, 
laddove 
incide 
in 
misura 
apprezzabile 
sulla 
libertà 
dei 
singoli. 
L’obiettivo è 
allora 
quello di 
definire 
un sistema 
adeguato di 
accountability 
per 
le 
decisioni 
assunte 
in 
modo 
automatizzato, 
senza 
dover 
rinunciare 
ai 
vantaggi 
innegabili 
scaturenti 
dall’innovazione 
digitale. 
occorre 
delineare 
una 
nozione 
di 
“algoritmo dominabile”, che 
consenta 
di 
costruire 
la 
logica 
della 
decisione. 


Qualche 
Autore 
(40) 
sottolinea 
la 
distinzione 
tra 
due 
tipi 
di 
algoritmo: 
l’algoritmo 
definito 
tradizionale 
e 
quello 
che 
si 
inserisce 
in 
un 
contesto 
di 
intelligenza 
artificiale. 
tale 
impostazione 
duale 
è 
di 
fondamentale 
importanza, 
perché 
in 
base 
ad 
essa 
si 
delineano 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
completamente 
differenti, 
rischi 
differenti 
e, 
quindi, 
esigenze 
di 
tutela 
del 
tutto 
differenti. 


“L’algoritmo 
tradizionale 
è 
uno 
strumento 
a 
cui 
si 
ricorre 
spesso 
nell’ambito 
dell’attività 
normativa 
o 
amministrativa. 
in 
questa 
prospettiva, 
l’algoritmo 
diventa 
una 
rappresentazione 
della 
norma 
e 
della 
sua 
interpretazione 
applicativa; 
si 
traduce 
in 
un 
vero 
e 
proprio 
metodo 
matematico 
per 
applicare 
la 
legge. 


La 
legge, 
quindi, 
in 
questo 
caso, 
precede 
l’algoritmo 
che 
diventa 
solo 
un 
mezzo 
per 
applicare 
più 
celermente 
le 
scelte 
normative. 
Talvolta 
si 
tratta 
di 
algoritmi 
semplici, 
quasi 
coincidenti 
con 
formule 
matematiche 
più 
o 
meno 
complesse: 
si 
pensi, 
in 
via 
esemplificativa, 
ai 
criteri 
di 
individuazione 
delle 
offerte 
economicamente 
più 
vantaggiose 
o 
agli 
algoritmi 
utilizzati 
dal 
Ministero 
del-
l’istruzione 
per 
l’assunzione 
e 
l’assegnazione 
delle 
sedi 
ai 
docenti 
delle 
scuole 
che 
sono 
stati 
oggetto 
di 
recente 
di 
un’interessante 
vicenda 
giudiziaria 
oltre 
che 
di 
grande 
attenzione 
mediatica. 
in 
casi 
come 
questi, 
l’analisi 
dell’algoritmo 
consente 
di 
ricostruire 
la 
logica 
della 
decisione. 
L’algoritmo 
è 
“dominabile”. 


Certo, 
talvolta 
la 
sua 
complessità 
rende 
più 
difficile 
l’analisi 
e 
più 
facile 
l’errore, 
ma 
si 
tratta 
pur 
sempre 
di 
fallacia 
dell’uomo, 
di 
scelte 
sbagliate 
del


(38) G. SIAS, “La nuova Sardegna”, 2 febbraio 2018. 
(39) Vedi 
da 
ultimo, Cons. Stato, sez. VI, sentenza 
n. 2363 del 
10 aprile 
2019, con la 
quale 
è 
stata 
riformata 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
concernente 
la 
sospensione 
dei 
lavori 
di 
montaggio 
di 
una 
veranda, 
il 
diniego di 
condono e 
l’ordine 
di 
demolizione, per l’impossibilità 
di 
stabilire 
con esattezza 
la 
data 
di 
ultimazione del manufatto di cui si contestava la regolarità. 
(40) M. CoRRADIno, “intelligenza artificiale 
e 
pubblica amministrazione: sfide 
concrete 
e 
prospettive 
future”, pubblicato il 10 settembre 2021 sul sito 
www.giustizia-amministrativa.it. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


l’uomo 
in 
cui 
il 
vizio 
non 
è 
ontologicamente 
differente 
da 
quelli 
tradizionalmente 
incasellati 
nella 
tradizionale 
triade 
oggi 
scolpita 
dalla 
legge 
sul 
procedimento 
amministrativo: 
incompetenza, 
violazione 
di 
legge 
ed 
eccesso 
di 
potere. 


accanto 
all’algoritmo 
“tradizionale” 
che 
presuppone 
la 
partecipazione 
intellettiva 
umana, 
vi 
è, 
però, 
l’algoritmo 
basato 
sull’intelligenza 
artificiale 
che 
perde 
il 
carattere 
della 
“dominabilità”. 
in 
questi 
casi, 
agli 
algoritmi 
-o, 
meglio, 
all’intelligenza 
artificiale 
-viene 
richiesto 
qualcosa 
in 
più 
e 
cioè 
assumere 
decisioni 
al 
posto 
dell’uomo. 
L’intelligenza 
artificiale 
si 
sostituisce 
all’uomo 
nella 
scelta 
dell’atto 
da 
compiere, 
secondo 
un 
processo 
di 
analisi, 
acquisizione 
di 
dati 
e 
scelte 
autonome 
a 
cui 
la 
volontà 
umana 
risulta 
estranea” 
(41). 


In realtà, la 
volontà 
umana 
è 
ancora 
presente 
ed immanente 
nella 
fase 
di 
“creazione 
dell’algoritmo”, 
con 
l’immissione 
dei 
dati 
che 
devono 
essere 
il 
più 
possibile 
neutrali 
e 
nella 
fase 
della 
c.d. «educazione 
dell’algoritmo», poiché 
l’intelligenza 
artificiale 
può evolvere 
in intelligenza 
“spontaneus”, evolversi 
autonomamente 
dagli 
input 
dati 
dall’uomo. ecco che, allora, può venire 
a 
delinearsi 
la 
c.d. opacità 
dell’algoritmo e 
la 
decisione 
algoritmica 
perde 
la 
sua 
decifrabilità e la sua intelligibilità. 


Al 
termine 
del 
percorso 
di 
valutazione, 
rielaborazione 
e 
creazione 
di 
nuove 
e 
autonome 
determinazioni, essa 
è 
sempre 
più difficilmente 
ricostruibile, 
perché 
è 
il 
risultato 
di 
una 
combinazione 
di 
valutazioni 
e 
decisioni 
“esterna”, “estranea” 
al 
sistema 
intellettivo umano. Il 
percorso non è 
per sintassi, 
ma 
per 
“inferenza”. 
La 
logica 
del 
“what 
if”, 
tipica 
del 
nostro 
sistema 
normativo, 
la 
logica 
del 
“norma-fatto/potere-effetto” 
che 
è 
tipica 
del 
nostro 
sistema 
giuridico, viene 
sostituita 
in questo quadro da 
una 
sovrapposizione 
di 
inferenze, che 
è 
elaborata 
e 
poi 
espressa 
in un altro linguaggio: 
il 
linguaggio 
della 
macchina, 
che 
è 
strutturalmente 
differente 
da 
quello 
umano. 
tutto 
ciò 
incide 
sulla 
capacità 
decisionale 
dell’uomo 
e 
sulle 
sue 
libere 
scelte? 
Incide 
sull’efficacia delle leggi e sul potere regolatorio di uno Stato? 


L’autore 
prima 
citato 
giustamente 
osserva 
(42): 
«Quanti 
di 
noi 
stamattina 
hanno deciso di 
non prendere 
una strada soltanto, perché 
Google 
maps 
ha ritenuto 
che 
fosse 
più 
trafficata 
del 
solito 
inducendo, 
così, 
la 
maggior 
parte 
della popolazione 
a percorrerne 
un’altra? e 
la capacità di 
dettare 
e 
fare 
applicare 
regole 
è 
tanto 
più 
efficace 
quanto 
essa 
si 
salda 
con 
le 
tecniche 
di 
“nudging”, 
la 
spinta 
gentile 
che 
orienta 
determinati 
comportamenti 
senza 
prevedere 
obblighi 
o minacciare 
sanzioni. ancora più rilevante 
il 
tema delle 
blockchain, una tecnologia che 
consente 
di 
dare 
certezza assoluta alle 
transazioni 
avvenute 
tra soggetti 
appartenenti 
ad un determinato network 
e 
che 
è 


(41) Vedi 
M. CoRRADIno, “intelligenza artificiale 
e 
pubblica amministrazione: sfide 
concrete 
e 
prospettive future”, cit., pp. 1 e 2. 
(42) M. CoRRADIno, “intelligenza artificiale 
e 
pubblica amministrazione: sfide 
concrete 
e 
prospettive 
future”, cit., pp. 3 e 4. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


stata oggetto di 
grande 
attenzione 
mediatica, in quanto struttura sulla quale 
viaggiano, 
tra 
l’altro, 
gli 
scambi 
di 
bitcoin. 
in 
essa 
la 
funzione 
di 
certificazione 
e 
di 
creazione 
di 
fiducia -che 
è 
tipica dello Stato -è 
esercitata in forma decentrata 
da 
tutti 
i 
soggetti 
che 
partecipano 
alla 
comunità 
di 
riferimento. 
in 
questo caso, le 
caratteristiche 
della tecnologia informatica -un registro condiviso 
e 
impossibile 
da 
modificare 
che 
registra 
in 
modo 
sequenziale 
qualunque 
tipo 
di 
transazione 
in 
modo 
che 
tutti 
i 
membri 
della 
comunità 
ne 
siano 
al 
tempo stesso fruitori 
e 
guardiani 
-permette 
di 
rinunciare 
ad un’autorità pubblica 
centralizzata 
di 
controllo. 
La 
diffusione 
del 
modello 
nel 
settore 
finanziario 
e 
più 
in 
generale 
in 
quello 
di 
scambio 
di 
asset 
sia 
tangibile 
che 
intangibili 
dovrebbe 
far 
riflettere 
sulla capacità della tecnologia di 
cambiare 
il mondo giuridico nel quale siamo fin qui vissuti. 


il 
disimpegno dello Stato nella formazione 
della norma, o quanto meno 
dei 
comportamenti, 
è 
vissuto 
più 
serenamente 
nel 
diritto 
civile 
che 
storicamente 
ha già vissuto senza traumi 
la liberazione 
dello Stato nell’affermarsi 
della lex mercatoria. 


ne 
è 
una 
testimonianza 
la 
scarna 
regolamentazione 
legislativa 
degli 
smarts 
contracts 
che 
viaggiano proprio sulle 
strutture 
della blockchain contenute 
nella 
legge 
22 
febbraio 
2019 
n.12. 
Tale 
fonte 
normativa, 
dopo 
aver 
dettato 
la nozione 
ed averli 
assimilati 
ai 
contratti 
a forma scritta, non sente 
la 
necessità 
di 
individuare 
dettagliatamente 
la 
disciplina 
e 
ne 
rimette 
la 
struttura, 
regolamentazioni 
e 
contenuti 
all’autonomia delle 
parti. il 
problema si 
caratterizza 
in modo diverso, però, nel 
diritto amministrativo che 
è 
regolazione 
e 
controllo del 
potere 
pubblico e 
in cui 
il 
tema dell’autonomia dell’intelligenza 
artificiale 
nell’assunzione 
delle 
decisioni 
si 
salda con quelli 
della sovranità, 
della divisione 
dei 
poteri, del 
collegamento necessario tra la decisione 
della 
pubblica amministrazione 
e 
la volontà popolare. in una parola con la democrazia
». 


tale 
Autore 
pone 
in luce 
la 
maggiore 
complessità 
dell’utilizzo dell’algoritmo 
nell’attività 
amministrativa 
rispetto all’attività 
contrattualistica 
tra 
privati, 
venendo in rilievo l’esercizio del potere pubblico. 


Vi 
sono state 
sentenze, come 
quella 
del 
tAR Lazio, sez. III, n. 4409 del 
15 aprile 
2021, in cui 
viene 
espressa 
la 
preoccupazione 
in merito alla 
«abdicazione 
da 
parte 
del 
responsabile 
del 
procedimento 
del 
suo 
ruolo 
di 
timoniere 
ed anche 
di 
correttore». Ma 
maggiore 
apertura 
si 
riscontra 
nell’orientamento 
del 
Consiglio di 
Stato (43), che 
testualmente 
ha 
affermato: 
«non vi 
sono ragioni 
di 
principio, ovvero concrete, per 
limitare 
l’utilizzo all’attività amministrativa 
vincolata 
piuttosto 
che 
discrezionale, 
entrambe 
espressione 
di 
attività 
autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse». 

Il 
problema 
reale 
è 
quello relativo alla 
perimetrazione 
dei 
limiti 
posti 
a 


(43) Vedi CdS, sez. VI, sentenza n. 881 del 4 febbraio 2020. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


garanzia 
dei 
diritti 
fondamentali. 
tali 
limiti 
sono 
essenzialmente 
quelli 
che 
rinveniamo 
nel 
Regolamento 
in 
materia 
di 
Privacy 
(Regolamento 
ue 
n. 
2016/679 del 
27 aprile 
2016, attuato dal 
D.lgs. 2018 n. 101) (44) e 
che 
troviamo 
confermati 
nella 
Proposta 
di 
Regolamento 
del 
parlamento 
europea 
e 
del 
Consiglio del 
21 aprile 
2021, che 
stabilisce 
regole 
armonizzate 
sull’intelligenza 
artificiale 
e 
modifica 
alcuni 
atti 
legislativi 
dell’unione. Sono i 
limiti 
della 
“conoscibilità”, 
della 
“non 
esclusività” 
e 
“della 
non 
discriminazione”. 
tali 
principi 
delineano un’adeguata 
tutela 
in caso di 
algoritmo definito tradizionale, 
ma 
siamo 
sicuri 
che 
tali 
principi 
possano 
assicurare 
un’adeguata 
tutela 
anche nel campo dell’intelligenza artificiale? 


Il 
principio 
della 
conoscibilità 
si 
inserisce 
all’interno 
della 
trasparenza 
amministrativa: 
la 
conoscenza 
dell’algoritmo è 
lo strumento base 
per la 
conoscenza 
dell’iter 
decisionale 
che 
ne 
consente 
la 
valutazione 
sotto il 
profilo 
giuridico. 
emblematico 
il 
“Caso 
Loomis” 
deciso 
dalla 
Supreme 
Court 
of 
Winsconsin 
(45), in cui 
una 
pena 
molto grave 
venne 
comminata 
da 
una 
corte 
statunitense 
sulla 
base 
di 
una 
valutazione 
di 
pericolosità 
formulata 
dall’intelligenza 
artificiale. La 
Corte 
rifiutò alla 
difesa 
il 
diritto di 
conoscere 
i 
criteri 
che 
orientarono il 
giudizio di 
pericolosità, perché 
nel 
bilanciamento 
tra 
gli 
interessi 
in gioco e 
tenuto conto della 
possibilità 
di 
giustificare 
la 
pena 
sulla 
base 
di 
altri 
fattori, le 
esigenze 
di 
tutela 
del 
segreto industriale 
vennero 
ritenute prevalenti su quelle di trasparenza e di conoscibilità dell’algoritmo. 

La 
conoscenza 
dei 
criteri 
dell’algoritmo si 
traduce 
nella 
conoscenza 
del 
percorso logico-motivazionale 
del 
provvedimento: 
la 
black 
box, però, nucleo 
decisionale 
dell’intelligenza 
artificiale, risultato di 
sintesi 
della 
capacità 
della 


(44) Si 
tenga 
presente 
che 
la 
Corte 
costituzionale 
con la 
sentenza 
n. 260 del 
2021 ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’articolo 18, comma 
5, del 
decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, 
sancendo 
l’illegittimità 
della 
norma 
che 
prevedeva 
l’interruzione 
ex 
lege 
del 
termine 
di 
prescrizione, 
relativamente 
ai 
procedimenti 
sanzionatori 
che, 
alla 
data 
di 
applicazione 
del 
regolamento 
n. 
679/2016/ue, 
siano 
stati 
avviati, 
ma 
non 
ancora 
definiti 
con 
l’adozione 
dell’ordinanza-ingiunzione. 
Secondo 
la 
Corte, 
è 
evidente 
che 
«l’interruzione 
automatica 
del 
termine 
di 
prescrizione 
quinquennale, 
che 
già di 
per 
sé 
rende 
eccessivamente 
squilibrato il 
rapporto fra privato e 
pubblica amministrazione, 
si 
traduca 
in 
una 
intollerabile 
compressione 
delle 
ragioni 
di 
tutela 
del 
privato». 
Si 
violerebbero 
i 
principi 
di 
proporzionalità 
e 
ragionevolezza, 
infatti 
«l’amministrazione 
può 
attivarsi 
per 
la 
riscossione 
delle 
somme 
dovute 
in 
base 
all’ordinanza-ingiunzione 
prodottasi 
ope 
legis, 
oppure, 
nell’ipotesi 
in 
cui 
il 
privato 
presenti 
nuove 
memorie 
difensive 
ai 
sensi 
dell’art. 
18, 
comma 
4, 
del 
d.lgs. 
n. 
101 
del 
2018, 
può 
emettere 
l’ordinanza-ingiunzione, 
anche 
oltre 
un 
quinquennio 
dall’unico 
atto 
che 
è 
stato 
notificato 
all’interessato: 
grazie 
all’interruzione, si 
sommano infatti 
altri 
cinque 
anni 
al 
tempo già trascorso dalla notifica della 
contestazione 
alla data di 
entrata in vigore 
del 
d.lgs. n. 101 del 
2018. Per 
converso, il 
privato, dopo 
aver 
rispettato il 
termine 
di 
trenta giorni 
per 
opporsi 
alla contestazione 
della sanzione 
amministrativa, 
può doversi 
difendere, sempre 
entro trenta giorni 
dalla notifica della cartella o dalla notifica dell’ordinanza-
ingiunzione, a distanza di 
oltre 
cinque 
anni 
dalla notifica dell’atto con il 
quale 
gli 
era stata contestata 
la 
violazione. 
nessun’altra 
comunicazione, 
infatti, 
è 
tenuta 
ad 
effettuare 
l’amministrazione 
medio 
tempore, neppure 
con riferimento alle 
facoltà concesse 
ai 
privati 
dai 
primi 
commi 
dell’art. 18 e 
alle 
conseguenze derivanti a carico di coloro che non si avvalgano di tali facoltà». 
(45) State of Wisconsin v. eric L.Loomis, Case no. 2015AP157-CR, 5 April-13 July 2016. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


macchina 
di 
autoevoluzione 
cognitiva, 
autoapprendimento 
e 
di 
affinamento 
di 
criteri 
di 
conoscenza 
e 
scelta 
per la 
realizzazione 
più efficiente 
dell’obiettivo, 
è non conoscibile, indecifrabile per natura. 


Rendere 
conoscibile 
quello che 
la 
Suprema 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
definito 
lo 
“schema 
esecutivo” 
dell’algoritmo 
non 
necessariamente 
svela 
o 
non 
necessariamente 
consente 
di 
svelare 
la 
correttezza 
della 
decisione. 
oppure, 
un’altra 
possibilità 
che 
si 
potrebbe 
verificare 
è 
che 
la 
correttezza 
della 
decisione 
potrebbe 
essere 
conoscibile 
solo da 
soggetti 
che 
presentino una 
particolare 
qualificazione 
professionale 
e 
tecnica, una 
platea 
ristretta 
di 
pochi 
eletti, 
con 
la 
conseguenza, 
come 
sottolineato 
da 
autorevole 
dottrina, 
di 
creare 
una 
generazione 
di 
tecnocrati 
che 
governano 
il 
mondo. 
ed 
è 
proprio 
per 
questo 
che, in un’ottica 
di 
acquisizione 
di 
competenze 
trasversali, in molte 
facoltà 
di 
giurisprudenza, 
soprattutto 
del 
nord 
europa, 
tra 
le 
materie 
giuridiche 
viene 
inserito anche 
il 
“coding”, passaggio più qualificato della 
mera 
“alfabetizzazione” 
materiale. 


La 
giurisprudenza 
amministrativa 
insiste 
molto, 
però, 
anche 
sul 
principio 
di 
non 
esclusività 
fissato 
dall’art. 
22 
del 
citato 
Regolamento 
sulla 
privacy 
e 
sul 
necessario 
intervento 
correttivo 
dello 
Human 
in 
the 
loop, 
così 
come 
previsto 
nella 
Risoluzione 
del 
parlamento 
europeo, 
A9-0002/2021 
del 
20 
gennaio 
2021 
sull’intelligenza 
artificiale. 
occorre, 
però, 
considerare 
che 
non 
tutte 
le 
decisioni 
pubbliche 
fondate 
sull’intelligenza 
artificiale 
sono 
comprimibili 
in 
un’alternativa 
on/off. 
Spesso 
le 
decisioni 
sono 
multifattoriali, 
complesse, 
possono 
portare 
ad 
un’alternativa 
di 
risultati 
diversi 
la 
cui 
individuazione 
dipende 
dall’elaborazione 
dei 
dati, 
dalla 
loro 
valutazione, 
dall’applicazione 
dei 
principi 
di 
proporzionalità 
e 
di 
precauzione 
soprattutto 
dal 
c.d. 
“ermessen”, 
dal 
c.d. 
bilanciamento 
degli 
interessi 
basato 
su 
valori 
costituzionali. 
Logica 
umana 
e 
logica 
della 
macchina 
possono 
convivere 
nel 
medesimo 
procedimento 
senza 
che 
la 
prima 
sia 
in 
grado 
di 
sostituirsi 
alla 
seconda 
e 
spesso 
nemmeno 
di 
comprenderla. 


Ciò potrebbe 
presentare 
dei 
problemi 
di 
discriminazione 
tra 
soggetti 
che 
aspirano 
al 
medesimo 
bene 
nelle 
ipotesi 
di 
provvedimento 
amministrativo 
plurimo, 
con 
effetti 
scindibili 
di 
natura 
discrezionale 
o 
tecnico-discrezionale; 
una 
graduatoria, ad esempio, in cui 
il 
giudice 
annulli 
la 
determinazione 
con riferimento 
alla 
posizione 
del 
solo ricorrente. In tal 
caso, i 
destinatari 
del 
provvedimento 
si 
vedranno 
giudicati 
con 
criteri 
differenti: 
la 
logica 
dell’uomo-giudice 
per 
il 
caso 
portato 
alla 
sua 
attenzione 
e 
la 
logica 
della 
macchina 
per 
tutti 
gli 
altri. 
La 
non 
esclusività 
non 
può 
dirsi 
criterio 
sufficiente 
oggi 
per assicurare 
una 
tutela 
piena 
ed effettiva. Va 
certamente 
integrato con 
il 
principio di 
non discriminazione. “Garbage 
in, garbage 
out”: 
è 
importante 
verificare 
la 
correttezza 
dei 
dati 
inseriti 
e 
la 
corretta 
utilizzazione 
delle 
leggi 
statistiche. 
Ce 
lo 
ha 
ricordato 
con 
molta 
umiltà 
il 
Professore 
Giorgio 
Parisi 
parlando dell’algoritmo Chain Montecarlo 
durante 
la 
pandemia 
da 
Covid-19. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Il 
caso Compass 
è 
rimasto un precedente 
importante 
nel 
ricordarci 
tale 
principio: 
una 
non 
corretta 
immissione 
di 
dati 
statistici 
relativi 
alla 
pericolosità 
correlata 
all’origine 
etnica 
delle 
persone, 
nel 
caso 
de 
quo 
afro-americane, 
aveva 
indotto la 
macchina 
ad allargare 
oltremodo i 
confini 
della 
recidiva, pur 
in assenza delle necessarie condizioni. 


La 
“legge 
di 
Moore”, 
secondo 
la 
quale 
i 
microchip 
raddoppieranno 
la 
loro 
potenza 
e 
la 
loro velocità 
esponenziale 
induce 
il 
giurista 
a 
non assumere 
un 
atteggiamento di 
rifiuto, dando origine 
al 
c.d. neoluddismo, ma 
a 
tracciare 
dei 
criteri 
di 
regolazione 
che 
tengano 
in 
debito 
conto 
la 
complessità 
dei 
c.d. 
“agenti intelligenti”. 


A 
tal 
proposito, 
giova 
ricordare 
che 
il 
tribunale 
di 
Milano, 
con 
la 
sentenza 


n. 843 del 
13 marzo 2021, al 
fine 
di 
interpretare 
un bando di 
gara, ha 
messo 
in 
evidenza 
la 
necessità 
di 
non 
confondere 
«la 
nozione 
di 
“algoritmo” 
con 
quella 
di 
“intelligenza 
artificiale”, 
riconducibile, 
invece, 
allo 
studio 
di 
“agenti 
intelligenti”, vale 
a dire 
allo studio di 
sistemi 
che 
percepiscono ciò che 
li 
circonda 
e 
intraprendono 
azioni 
che 
massimizzano 
la 
probabilità 
di 
ottenere 
con 
successo gli obiettivi prefissati». 
Anche 
volendo negare 
l’intelligenza 
artificiale, quest’ultima 
avrà 
un’efficacia 
pervasiva ed invasiva di cui non si potrà fare a meno. 

Pensiamo ai 
prezzi 
di 
riferimento dell’AnAC, che 
hanno un ruolo centrale 
nella 
regolamentazione 
economica 
degli 
appalti 
e 
che 
sono 
sostanzialmente 
basati 
su formule 
algoritmiche 
che 
tengono conto di 
fattori 
diversi 
per 
individuare 
il 
prezzo 
medio 
effettivo 
“depurandolo” 
da 
fattori 
straordinari 
che 
influenzano localmente 
la 
formazione 
dei 
prezzi 
che 
concorrono alla 
definizione 
del campione. 

Molto importante 
è 
la 
recente 
sentenza 
del 
Consiglio di 
Stato del 
25 novembre 
2021, 
n. 
7891, 
in 
cui, 
in 
tema 
di 
intelligenza 
artificiale 
e 
algoritmo 
nell’appalto di 
forniture 
di 
un dispositivo medico con elevato grado di 
autonomazione, 
la 
terza 
Sezione 
ha 
chiarito che 
«la nozione 
comune 
e 
generale 
di 
algoritmo riporti 
alla mente 
“semplicemente 
una sequenza finita di 
istruzioni, 
ben definite 
e 
non ambigue, così 
da poter 
essere 
eseguite 
meccanicamente 
e 
tali 
da 
produrre 
un 
determinato 
risultato” 
(questa 
la 
definizione 
fornita in prime 
cure). nondimeno si 
osserva che 
la nozione, quando è 
applicata 
a sistemi 
tecnologici, è 
ineludibilmente 
collegata al 
concetto di 
automazione 
ossia 
a 
sistemi 
di 
azione 
e 
controllo 
idonei 
a 
ridurre 
l’intervento 
umano. 
il 
grado e 
la frequenza dell’intervento umano dipendono dalla complessità e 
dall’accuratezza 
dell’algoritmo 
che 
la 
macchina 
è 
chiamata 
a 
processare. 
Cosa 
diversa 
è 
l’intelligenza 
artificiale. 
in 
questo 
caso 
l’algoritmo 
contempla 
meccanismi 
di 
machine 
learning e 
crea un sistema che 
non si 
limita solo ad 
applicare 
le 
regole 
software 
e 
i 
parametri 
preimpostati 
(come 
fa invece 
l’algoritmo 
“tradizionale”) 
ma, 
al 
contrario, 
elabora 
costantemente 
nuovi 
criteri 
di 
inferenza tra dati 
e 
assume 
decisioni 
efficienti 
sulla base 
di 
tali 
elabora



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


zioni, secondo un processo di 
apprendimento automatico. nel 
caso di 
specie, 
per 
ottenere 
la fornitura di 
un dispositivo con elevato grado di 
automazione 
non occorreva che 
l’amministrazione 
facesse 
espresso riferimento a elementi 
di 
intelligenza artificiale, essendo del 
tutto sufficiente 
-come 
ha fatto -anche 
in considerazione 
della peculiarità del 
prodotto (pacemaker 
dotati, per 
definizione, 
di 
una funzione 
continuativa di 
“sensing” 
del 
ritmo cardiaco e 
di 
regolazione 
dello 
stesso) 
il 
riferimento 
allo 
specifico 
concetto 
di 
algoritmo, 
ossia 
ad istruzioni 
capaci 
di 
fornire 
un efficiente 
grado di 
automazione, ulteriore 
rispetto a quello di 
base, sia nell’area della prevenzione 
che 
del 
trattamento 
delle 
tachiaritmie 
atriali. i pacemakers 
moderni 
e 
di 
alta fascia sono infatti 
dotati 
di 
un numero sempre 
maggiore 
di 
parametri 
programmabili 
e 
di 
algoritmi 
specifici 
progettati 
per 
ottimizzare 
la 
terapia 
di 
stimolazione 
in 
rapporto 
alle 
caratteristiche 
specifiche 
del 
paziente. 
L’amministrazione 
ha 
espresso 
preferenza 
per 
la 
presenza 
congiunta 
di 
algoritmi 
di 
prevenzione 
e 
trattamento 
delle “tachiaritmie atriali”» (46). 


Con tale 
sentenza 
il 
Consiglio di 
Stato è 
giunto ad una 
distinzione 
netta 
tra 
il 
concetto di 
algoritmo e 
quello di 
intelligenza 
artificiale, proprio perché 
nel pratico c’è una confusione tra sistemi automatici e sistemi artificiali. 

tale 
differenza 
è 
posta 
in evidenza 
sia 
a 
livello nazionale 
che 
europeo. 
La 
stessa 
Commissione 
europea, nella 
proposta 
di 
regolamentazione 
dell’IA 
del 
21 
aprile 
2021, 
ha 
statuito 
che 
«la 
nozione 
di 
sistema 
di 
ia 
dovrebbe 
essere 
chiaramente 
definita per 
garantire 
la certezza del 
diritto, fornendo nel 
contempo 
la 
flessibilità 
necessaria 
per 
accogliere 
i 
futuri 
sviluppi 
tecnologici. 
La 
definizione 
dovrebbe 
essere 
basata sulle 
caratteristiche 
funzionali 
chiave 
del 
software, in particolare 
la capacità, per 
un dato insieme 
di 
obiettivi 
definiti 
dall’uomo, di 
generare 
output 
quali 
contenuti, previsioni, raccomandazioni 
o 
decisioni 
che 
influenzano l’ambiente 
con cui 
il 
sistema interagisce, sia in una 
dimensione 
fisica che 
digitale. i sistemi 
di 
intelligenza artificiale 
possono essere 
progettati 
per 
funzionare 
con diversi 
livelli 
di 
autonomia ed essere 
utilizzati 
in 
modo 
autonomo 
o 
come 
componente 
di 
un 
prodotto, 
indipendentemente 
dal 
fatto che 
il 
sistema sia fisicamente 
integrato nel 
prodotto (incorporato) o 
serva la funzionalità del 
prodotto senza esservi 
integrato (non incorporato)». 


non 
a 
caso, 
l’art. 
3 
della 
proposta 
dà 
una 
definizione 
di 
sistema 
“IA”: 
«un 
software 
sviluppato 
con 
una 
o 
più 
delle 
tecniche 
e 
degli 
approcci 
elencati 
nell’allegato 
i, 
che 
può, 
per 
una 
determinata 
serie 
di 
obiettivi 
definiti 
dal-
l’uomo, generare 
output 
quali 
contenuti, previsioni, raccomandazioni 
o decisioni 
che 
influenzano 
gli 
ambienti 
con 
cui 
interagiscono», 
e 
l’allegato 
I 
richiamato 
comprende 
sia 
il 
machine 
learning 
(compreso 
l’apprendimento 
su


(46) Si 
veda 
M. IASeLLI, “Consiglio di 
Stato: quando si 
può parlare 
di 
intelligenza artificiale? 
Palazzo Spada affronta una delicata questione 
tecnica sulla nozione 
di 
algoritmo, che 
assume 
notevole 
importanza anche per le necessarie conseguenze di carattere giuridico”, su altalex.it. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


pervisionato, 
non 
supervisionato 
e 
profondo 
come 
il 
deep 
learning), 
sia 
gli 
approcci 
basati 
sulla 
logica 
e 
sulla 
conoscenza 
(rappresentazione 
della 
conoscenza, 
programmazione 
logica 
induttiva, 
basi 
di 
conoscenza, 
motori 
deduttivi 
e 
inferenziali, 
ragionamento 
simbolico 
e 
sistemi 
esperti 
nonché 
persino 
approcci 
statistici, stima bayesiana, metodi di ricerca e ottimizzazione). 


Rientra 
nella 
definizione 
della 
Commissione 
sia 
l’IA 
“forte”, 
volta 
a 
creare 
computer in grado di 
comprendere 
e 
possedere 
stati 
cognitivi, sia 
l’IA 
“debole”, 
finalizzata 
a 
realizzare 
sistemi 
informatici 
in 
grado 
di 
porre 
in 
essere 
prestazioni 
normalmente 
attribuite 
all’intelligenza 
umana. Dunque, il 
Consiglio 
di 
Stato pone 
l’attenzione 
sulla 
differenza 
tra 
sistemi 
automatici 
e 
attività 
intelligenti, che 
si 
basano su un impiego attivo, non rigidamente 
predeterminato, 
della 
conoscenza. 
nei 
sistemi 
informatici 
tradizionali, 
«la 
conoscenza 
non è 
mai 
rappresentata esplicitamente 
e 
non è 
mai 
separata dalle 
procedure 
che 
la usano e 
che 
ne 
disciplinano l’elaborazione; la conoscenza è 
applicata 
in modo rigidamente 
predeterminato; non è 
possibile 
aggiungere 
nuova conoscenza 
senza modificare 
le 
procedure; il 
sistema non è 
in grado di 
esporre 
la 
conoscenza 
sulla 
quale 
si 
basa 
né 
di 
spiegare 
perché, 
sulla 
base 
della 
stessa, 
sia giunto a determinati 
risultati». Al 
contrario, nei 
sistemi 
basati 
sulla 
conoscenza, 
«la conoscenza è 
contenuta in una determinata base, dove 
è 
rappresentata 
in 
un 
linguaggio 
ad 
alto 
livello, 
cioè 
in 
una 
forma 
relativamente 
vicina 
al 
linguaggio 
usato 
nella 
comunicazione 
umana; 
è 
possibile 
adottare 
una 
rappresentazione 
dichiarativa 
del 
compito 
affidato 
al 
sistema 
informatico, 
lasciando 
al 
sistema l’individuazione 
della procedura da seguire 
per 
svolgere 
quel 
compito; 
la 
conoscenza 
è 
usata 
da 
un 
motore 
inferenziale, 
ovvero 
un 
meccanismo 
in grado di 
interpretare 
il 
contenuto della base 
di 
conoscenza ed effettuare 
deduzioni 
logiche 
in modo da risolvere 
il 
problema posto al 
sistema; 
la base 
di 
conoscenza può essere 
arricchita di 
nuove 
informazioni 
senza intervenire 
sul 
motore 
inferenziale; 
il 
sistema 
è 
in 
grado 
di 
esporre 
in 
forma 
comprensibile 
le 
premesse 
e 
le 
inferenze 
che 
hanno condotto ad un determinato 
risultato, cioè di giustificare le conclusioni cui giunge» (47). 


negare 
l’intelligenza 
artificiale 
significa 
negare 
l’incalzare 
dell’innovazione 
tecnologica: il giurista deve allora tracciare delle linee direttrici. 


La 
prima 
è 
intervenire 
sui 
dati, 
sull’input, 
il 
primo 
momento 
su 
cui 
si 
basa 
l’elaborazione 
dell’intelligenza 
artificiale. 
La 
nozione 
di 
“interoperabilità” 
dei 
dati, 
con 
le 
c.d. 
porte 
di 
dominio, 
potrà 
realizzarsi 
solo 
se 
i 
dati 
sono 
esatti 
con 
razionali 
metodi 
di 
acquisizione. 
Si 
pensi, 
volendo 
richiamare 
ancora 
una 
volta 
la 
materia 
degli 
appalti, 
alla 
grande 
banca 
dati 
dell’AnAC 
che 
è 
immensa, 
ma 
non 
è 
autoalimentata. 
Le 
amministrazioni 
non 
mandano 
i 
dati 
all’AnAC, 
ma 
a 
degli 
osservatori 
regionali 
che 
li 
rielaborano, 
inoltrandolo 
poi 
all’AnAC 
stessa. 
Molto 
spesso 
i 
dati 
si 
presentano 
obsoleti 
o 
ridondanti, 


(47) V.M. IASeLLI, “Consiglio di Stato: quando si può parlare di intelligenza artificiale?”, cit. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


carenti 
di 
informazioni 
che 
potrebbero 
essere 
fondamentali 
nell’analisi 
dei 
mercati. 


Il 
primo livello di 
controllo consiste 
nell’attività 
di 
selezione 
dei 
dati: 
inserire 
nella 
macchina 
dati 
necessari 
e 
corretti, di 
cui 
si 
abbia 
la 
governabilità, 
trustwhorthy, 
ossia 
meritevole 
di 
“fiducia”; 
è 
il 
primo 
livello 
di 
tutela 
per 
prevenire 
soluzioni viziate 
ab origine. 


La 
seconda 
linea 
direttrice 
è 
modulare 
e 
declinare 
le 
tradizionali 
categorie 
giuridiche 
in modo che 
possano adeguarsi 
agli 
schemi 
operativi 
dell’intelligenza 
artificiale. 


Pensiamo 
all’accertamento 
del 
nesso 
di 
causalità: 
la 
Risoluzione 
del 
Parlamento 
europeo 
del 
25 
marzo 
2021 
(sull’attuazione 
della 
direttiva 
2009/81/Ce, 
relativa 
agli 
appalti 
nei 
settori 
della 
difesa 
e 
della 
sicurezza, 
e 
della 
direttiva 
2009/43/Ce, 
relativa 
ai 
trasferimenti 
di 
prodotti 
per 
la 
difesa 
2019/2204 (InI)) si 
preoccupa 
di 
ricordare 
che 
occorre 
ribadire 
la 
responsabilità 
dello 
Stato 
per 
i 
danni 
creati 
dai 
droni 
militari 
alle 
popolazioni 
civili, 
perché 
il 
dato soggettivo relativo all’attribuzione 
della 
colpa, non appare 
più 
certo, 
atteso 
che 
le 
scelte 
dalle 
quali 
i 
danni 
possono 
derivare, 
i 
luoghi 
da 
bombardare 
ad 
esempio, 
non 
sono 
attribuibili 
all’uomo. 
Allo 
stesso 
modo 
altri 
concetti 
fondamentali 
come 
l’imputabilità, la 
responsabilità, la 
discrezionalità, il 
sindacato giurisdizionale, il 
sillogismo giuridico sono da 
rimodulare 
sul 
funzionamento 
dei c.d. agenti intelligenti. 


Sotto tale 
profilo, il 
Consiglio di 
Stato coglie 
la 
novità 
dell’intelligenza 
artificiale, 
statuendo 
nella 
nota 
sentenza 
n. 
881/2020 
che 
«non 
può, 
quindi, 
ritenersi 
applicabile 
in modo indiscriminato …all’attività amministrativa algoritmica, 
tutta 
la 
legge 
sul 
procedimento 
amministrativo, 
concepita 
in 
un’epoca 
nella 
quale 
l’amministrazione 
non 
era 
investita 
dalla 
rivoluzione 
tecnologica. ..il 
tema dei 
pericoli 
connessi 
allo strumento non è 
ovviato dalla 
rigida 
e 
meccanica 
applicazione 
di 
tutte 
le 
minute 
regole 
procedimentali 
della 


L. 241/1990 (quali 
ad esempio la comunicazione 
di 
avvio del 
procedimento 
sulla quale 
si 
appunta buona parte 
dell’atto di 
appello o il 
responsabile 
del 
procedimento 
che, 
con 
tutta 
evidenza, 
non 
può 
essere 
una 
macchina 
in 
assenza 
di 
disposizioni 
espresse), dovendosi, invece, ritenere 
che 
la fondamentale 
esigenza 
di 
tutela posta dall’utilizzazione 
dello strumento informatico c.d. algoritmico 
sia 
la 
trasparenza 
nei 
termini 
prima 
evidenziati 
riconducibili 
al 
principio di motivazione e/o giustificazione della decisione». 
La 
terza 
direttrice 
è 
il 
permanente 
controllo 
dell’uomo 
e 
la 
sua 
possibilità 
di 
intervento volto a 
far prevalere 
sempre 
un criterio di 
equità 
e 
di 
giustizia 
sostanziale 
nei 
processi 
di 
decision 
making, 
in 
cui 
grande 
rilevanza 
deve 
mantenere 
la 
componente 
intuitiva 
ed emozionale, non solo la 
fredda 
sequenza 
algoritmica. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


3. algoritmo e diritto penale. 
L’analisi 
del 
rapporto tra 
algoritmo e 
diritto penale 
(48) deve 
essere 
necessariamente 
condotta 
sotto 
un 
triplice 
profilo: 
quello 
del 
rapporto 
con 
il 
profilo 
della 
privacy 
nell’ambito 
del 
circuito 
investigativo, 
quello 
relativo 
al 
profilo 
dell’imputabilità 
e 
quello 
relativo 
alla 
configurazione 
di 
nuovi 
reati 
con 
l’utilizzo 
delle 
nuove 
tecnologie. 
In 
questo 
capitolo 
cercheremo 
di 
affrontare 
i 
profili 
problematici 
legati 
alle 
intercettazioni 
e 
tabulati 
in relazione 
alla 
tutela 
della 
privacy, per poi 
affrontare 
il 
tema 
della 
eventuale 
riformulazione 
dell’imputabilità 
tramite 
algoritmi 
e 
la 
configurazione 
dei 
nuovi 
reati 
tramite 
chat o altri mezzi informatici nei capitoli successivi. 


Il 
tema 
del 
rapporto 
tra 
algoritmi 
basati 
sulla 
raccolta 
dei 
dati 
e 
tutela 
della 
privacy è 
venuto alla 
ribalta 
in seguito ad una 
nota 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
europea 
dello scorso marzo 2021, in merito al 
rapporto 
tra 
data 
retention 
e 
serious 
crimes: 
il 
principio 
emerso 
è 
che 
per 
i 
tabulati 
con 
i 
numeri 
di 
telefono 
serve 
l’autorizzazione 
di 
un’autorità 
terza 
che 
non 
sia 
il 
Pubblico 
Ministero. 
La 
data 
retention, 
quindi, 
è 
ammissibile 
solo 
per 
serious 
crimes, in Italia quelli previsti dall’art. 266 c.p.p. 


Ma 
analizziamo 
il 
testo 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
europea, Grande 
sezione, sentenza 
2 marzo 2021, Causa 
C-746/18 nelle 
sue 
conclusioni: 


“1) 
L’articolo 
15, 
paragrafo 
1, 
della 
direttiva 
2002/58/Ce 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio 
del 
12 
luglio 
2002, 
relativa 
al 
trattamento 
dei 
dati 
personali 
e 
alla tutela della vita privata nel 
settore 
delle 
comunicazioni 
elettroniche 
(direttiva 
relativa 
alla 
vita 
privata 
e 
alle 
comunicazioni 
elettroniche), 
come 
modificata 
dalla 
direttiva 
2009/136/Ce 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
consiglio, del 
25 novembre 
2009, letto alla luce 
degli 
art. 7, 8 e 
11, nonché 
dell’articolo 
52, 
paragrafo 
1, 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea, 
deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
esso 
osta 
a 
una 
normativa 
nazionale, 
la 
quale 
consenta 
l’accesso 
di 
autorità 
pubbliche 
a 
un 
insieme 
di 
dati 
relativi 
al 
traffico 
o 
di 
dati 
relativi 
all’ubicazione, 
idonei 
a 
fornire 
informazioni 


(48) Sul 
tema 
v. C. BuRChARD, “L’intelligenza artificiale 
come 
fine 
del 
diritto penale? Sulla trasformazione 
algoritmica della società”, in rivista italiana di 
diritto e 
procedura penale, 2019, Vol. 62; 
C. CAth, S. WAChteR, B. MItteLStADt, M. tADDeo, L. FLoRIDI, “artificial 
intelligence 
and the 
“Good 
Society”: 
the 
US, 
eU, 
and 
UK 
approach”, 
in 
Science 
and 
eng. 
ethics, 
2018; 
L. 
Bennet 
MoSeS, 
J. 
ChAn, 
“algorithmic 
Prediction 
in 
Policing: 
assumptions, 
evaluation, 
and 
accountability”, 
in 
Policing 
and 
Society, 
2016; 
G. MAStRoBuonI, “Crime 
is 
Terribly 
revealing: information Technology 
and Police 
Productivity”, 
2017; 
L. 
PASCuLLI, 
“Genetics, 
robotics 
and 
Crime 
Prevention” 
e 
R. 
PeLLICCIA, 
“Polizia 
predittiva”, Human rights 
Data analysis 
Group 
(hrdag), https://hrdag.org/usa/; 
A.R. LoDDeR, J. Ze-
LeZnIkoW, 
“artificial 
intelligence 
and 
online 
Dispute 
resolution”, 
in 
A.R. 
LoDDeR, 
J. 
ZeLeZnIkoW, 
“enhaced 
Dispute 
resolution 
through 
the 
Use 
of 
information 
Technology”, 
Cambridge 
university 
Press, 
2010; 
e. 
LAtIFAh, 
A.h. 
BAJRektAReVIC, 
M.n. 
IMAnuLLAh, 
“Digital 
Justice 
in 
online 
Dispute 
resolution: 
The 
Shifting from 
Traditional 
to the 
new Generation of 
Dispute 
resolution”, in Brawijaya Law Journal 
- Journal of Legal Studies, vol. 6, aprile 2019. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


sulle 
comunicazioni 
effettuate 
da 
un 
utente 
di 
un 
mezzo 
di 
comunicazione 
elettronica 
o sull’ubicazione 
delle 
apparecchiature 
terminali 
da costui 
utilizzate 
e 
a permettere 
di 
trarre 
precise 
conclusioni 
sulla sua vita privata, per 
finalità 
di 
prevenzione, 
ricerca, 
accertamento 
e 
perseguimento 
di 
reati, 
senza 
che 
tale 
accesso sia circoscritto a procedure 
aventi 
per 
scopo la lotta contro le 
forme 
gravi 
di 
criminalità 
o 
la 
prevenzione 
di 
gravi 
minacce 
alla 
sicurezza 
pubblica, 
e 
ciò 
indipendentemente 
dalla 
durata 
del 
periodo 
per 
il 
quale 
l’accesso 
ai 
dati 
suddetti 
viene 
richiesto, nonché 
dalla quantità o dalla natura dei 
dati 
disponibili 
per tale periodo. 


2) L’art. 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, come 
modificata dalla 
direttiva 2009/136, letto alla luce 
degli 
articoli 
7, 8 e 
11, nonché 
dell’articolo 
52, paragrafo 1, della Carta dei 
diritti 
fondamentali, deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
esso 
osta 
ad 
una 
normativa 
nazionale, 
la 
quale 
renda 
il 
pubblico 
ministero, il 
cui 
compito è 
di 
dirigere 
il 
procedimento istruttorio penale 
e 
di 
esercitare, 
eventualmente, 
l’azione 
penale 
in 
un 
successivo 
procedimento, 
competente 
ad 
autorizzare 
l’accesso 
di 
un’autorità 
pubblica 
ai 
dati 
relativi 
al 
traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale”. 
Si 
è 
affermato che 
la 
sentenza 
CGue 
del 
2 marzo 2021 apre 
scenari 
imprevedibili 
nell’assetto costituzionale e processuale del pubblico ministero. 


La 
prospettiva 
della 
CGue 
è 
affatto diversa 
da 
quella 
nazionale, poiché 
non assegna 
alcun rilievo alla 
collocazione 
ordinamentale 
del 
pubblico ministero 
e 
volge 
lo sguardo, in modo esclusivo, al 
procedimento penale 
e 
alle 
sue 
regole. 
una 
traiettoria 
che 
assume, 
anche, 
una 
valenza 
attuale 
alla 
luce 
del 
progetto di 
riforma 
del 
processo penale 
e 
al 
dibattito sulla 
cosiddetta 
“separazione 
delle carriere”. 

La 
mistica 
del 
pubblico 
ministero 
racchiuso 
nell’ossimoro 
della 
“parte 
imparziale”, si trova pragmaticamente a essere messa in discussione. 

La 
Corte 
di 
Giustizia 
si 
era 
già 
espressa, 
nel 
2014, 
con 
la 
sentenza 
Digital 
rigths 
ireland 
e 
nel 
2016 con la 
sentenza 
Tele 
2 Sverige 
e 
la 
Corte 
di 
Cassazione, 
investita 
della 
questione 
dell’applicazione 
di 
questa 
giurisprudenza 
eurounitaria 
in 
modo 
diretto, 
aveva 
da 
ultimo 
convalidato 
tale 
impostazione, 
sostenendo che 
certamente 
si 
doveva 
rientrare 
nel 
novero dei 
serious 
crimes: 
«nel 
caso in esame, essendosi 
proceduto per 
associazione 
a delinquere 
finalizzata 
alla consumazione 
di 
reati 
contro il 
patrimonio, nonché 
per 
molteplici 
episodi 
di 
furti 
aggravati 
ed 
anche 
rapina, 
deve 
ritenersi 
che 
l’accesso 
ai 
dati 
di 
traffico sia avvenuto in un contesto di 
indagini 
di 
criminalità organizzata 
a 
seguito 
di 
provvedimento 
di 
un’autorità 
giurisdizionale 
e 
con 
l’acquisizione 
effettuata entro il biennio che costituisce un periodo di tempo limitato» (49). 


non 
si 
può 
omettere 
di 
considerare 
che 
la 
giurisprudenza 
nazionale 
aveva, 


(49) Così, in motivazione, Cassazione, sez. II, n. 5741 del 13 febbraio 2020, m.278568. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


comunque, 
dichiarato 
di 
porsi 
sulla 
scia 
delle 
precedenti 
pronunce 
della 
Corte 
di 
Lussemburgo, quanto meno ai 
fini 
della 
delimitazione 
dei 
casi 
e 
dei 
tempi 
per l’acquisizione 
dei 
dati 
di 
traffico (50). Quel 
che 
era 
inatteso -e 
che 
è 
destinato 
a 
sollevare 
innumerevoli 
controversie 
-è 
che 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
negasse 
al 
pubblico 
ministero 
la 
potestà 
di 
poter 
operare 
direttamente 
tali 
acquisizioni 
senza 
il 
tramite 
di 
un 
provvedimento 
adottato 
da 
un 
giudice 
terzo 
e imparziale. 

Autorevole 
dottrina 
ha 
sostenuto 
che 
“imparzialità 
e 
terzietà 
sono 
concetti 
in 
rapporto 
di 
specialità; 
il 
più 
generale 
è 
quello 
della 
imparzialità, 
il 
più 
specifico 
quello 
della 
terzietà, 
cosicché 
mentre 
si 
possono 
avere 
casi 
di 
imparzialità 
senza 
terzietà, 
non 
è 
pensabile 
una 
terzietà 
senza 
imparzialità. 
Usando 
i 
diagrammi 
di 
Venn, 
l’imparzialità 
è 
un 
cerchio 
più 
ampio 
al 
cui 
interno 
sta 
interamente 
un 
cerchio 
più 
piccolo 
che 
rappresenta 
la 
terzietà” 
(51); 
in 
altre 
parole, 
a 
prescindere 
da 
precari 
equilibrismi 
verbali, 
può 
anche 
convenirsi 
che 
il 
pubblico 
ministero, 
quale 
organo 
pubblico, 
agisca 
con 
imparzialità 
e 
che 
gli 
possa 
competere 
la 
qualifica 
di 
“parte 
imparziale”, 
ma 
quel 
che 
deve 
escludersi 
radicalmente 
è 
che 
il 
munus 
sia 
connotato 
dal 
requisito 
della 
terzietà, 
fondamento 
costitutivo 
della 
giurisdizione. 
ed 
è 
proprio 
nel 
solco 
di 
questa 
riflessione 
che 
si 
colloca 
la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
del 
2 
marzo 
2021, 
la 
quale 
esclude 
che 
il 
pubblico 
ministero 
possa 
assolvere 
alla 
funzione 
di 
equilibrato, 
giusto 
e 
terzo 
titolare 
del 
potere 
di 
acquisizione 
dei 
dati 
di 
traffico 
presso 
i 
gestori. 


Sul 
punto, la 
pronuncia 
esprime 
valutazioni 
irretrattabili 
e 
definitive 
che, 
per 
la 
prima 
volta, 
revocano 
in 
dubbio 
anche 
la 
tesi 
di 
una 
protezione 
della 
privacy a 
“sfere 
concentriche” 
(secondo l’approccio della 
dottrina 
costituzionale 
tedesca), per cui 
si 
dovrebbe 
assicurare 
il 
massimo di 
tutela 
in presenza 
di 
captazioni 
e 
intercettazioni, laddove 
per i 
c.d. “dati 
esteriori 
di 
traffico” 
si 
potrebbe 
assicurare 
una 
protezione 
affievolita 
sia 
in 
ordine 
ai 
presupposti, 
che 
all’autorità procedente. 


La 
densità 
assiologica 
del 
diritto 
coinvolto 
è 
tale, 
infatti, 
da 
non 
consentire 
graduazioni 
di 
tal 
fatta 
e 
di 
decentrare, quindi, l’individuazione 
dell’autorità 
che 
deve 
disporre 
l’acquisizione 
nel 
perimetro 
giurisdizionale 
(giudice) 
o 
fuori 
di 
esso (pubblico ministero), in funzione 
della 
sola 
entità 
della 
lesione 
che 
va 
a realizzare. 


(50) 
Si 
veda 
anche 
Cassazione, 
sez. 
III, 
n. 
48737 
del 
25 
settembre 
2019, 
m.277353; 
sez. 
V, 
n. 
33851 del 
24 aprile 
2018, m.273892. Sul 
tema 
si 
vedano anche 
n. ReZenDe, “Dati 
esterni 
alle 
comunicazioni 
e 
processo penale: questioni 
ancora aperte 
in tema di 
data retention”, nota 
a 
Cass., sez. III, 19 
aprile 
2019 (dep. 23 agosto 2019), n. 36380, in www.sistemapenale.it; 
L. LuPARIA, “Data retention e 
processo penale. Un’occasione 
mancata per 
prendere 
i 
diritti 
davvero sul 
serio”, in Diritto di 
internet, 
2019, 4, p. 762. 
(51) G.u. ReSCIGno, “L’esercizio dell’azione 
pubblica ed il 
pubblico ministero”, relazione 
dell’8 
novembre 
2004 
al 
Convegno 
dell’Associazione 
Italiana 
dei 
Costituzionalisti 
su 
“Separazione 
dei 
poteri 
e funzione giurisdizionale”. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Lo snodo argomentativo è 
chiaro e 
conduce 
a 
conclusioni 
che 
sono inevitabili: 
il 
pubblico ministero, per quanto possa 
agire 
imparzialmente, è, comunque, 
sprovvisto di 
terzietà 
rispetto al 
privato cittadino (sia 
esso indagato 


o no) e 
l’indipendenza 
che 
la 
Grundnorm 
comunitaria 
esige 
per l’autorità 
che 
dispone 
l’ingerenza 
nella 
vita 
privata 
«impone 
che 
tale 
autorità abbia la qualità 
di 
terzo 
rispetto 
a 
quella 
che 
chiede 
l’accesso 
ai 
dati, 
di 
modo 
che 
la 
prima 
sia in grado di 
esercitare 
tale 
controllo in modo obiettivo e 
imparziale 
al 
riparo 
da qualsiasi 
influenza esterna. in particolare, in ambito penale, il 
requisito 
di 
indipendenza 
implica, 
come 
in 
sostanza 
rilevato 
dall’avvocato 
generale 
al 
paragrafo 126 delle 
sue 
conclusioni, che 
l’autorità incaricata di 
tale 
controllo 
preventivo, 
da 
un 
lato, 
non 
sia 
coinvolta 
nella 
conduzione 
dell’indagine 
penale 
di 
cui 
trattasi 
e, dall’altro, abbia una posizione 
di 
neutralità nei 
confronti 
delle 
parti 
del 
procedimento penale. Ciò non si 
verifica nel 
caso di 
un 
pubblico ministero che 
dirige 
il 
procedimento di 
indagine 
ed esercita, se 
del 
caso, l’azione 
penale. infatti, il 
pubblico ministero non ha il 
compito di 
dirimere 
in piena indipendenza una controversia, bensì 
quello di 
sottoporla, se 
del 
caso, 
al 
giudice 
competente, 
in 
quanto 
parte 
del 
processo 
che 
esercita 
l’azione penale» (§ 54-55). 
tale 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
supera, altresì, la 
posizione 
della 
Corte 
di 
Cassazione, che 
aveva 
fatto riferimento alla 
categoria 
dell’inutilizzabilità 
in relazione 
ai 
dati 
acquisiti 
dal 
pubblico ministero, oltre 
i 
limiti 
temporali 
previsti 
dall’art. 
132 
Codice 
Privacy, 
fondandola 
sulla 
violazione 
di 
un 
divieto probatorio posto a 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona, quali 
il 
diritto alla inviolabilità del domicilio o della corrispondenza (52). 


Sarà 
tutto da 
esplorare 
il 
tema 
delle 
ricadute 
che 
questa 
sentenza 
può essere 
destinata 
a 
svolgere 
in 
Italia 
nei 
settori 
contigui 
delle 
intercettazioni 
e 
delle 
acquisizioni 
di 
dati 
di 
traffico per finalità 
preventive 
(art. 226 delle 
disposizioni 
di 
attuazione 
del 
c.p.p.), 
per 
il 
controllo 
delle 
misure 
di 
prevenzione 
(art. 78 del 
Codice 
Antimafia) e 
per le 
necessità 
dei 
Servizi 
di 
informazione 
per 
la 
sicurezza 
nazionale 
(art. 
4 
del 
decreto-legge 
27 
luglio 
2005, 
n. 
144). 
tutte 
attività 
rimesse 
all’attività 
di 
un organo della 
pubblica 
accusa 
(nei 
primi 
casi 
le 
procure 
ordinarie 
e 
distrettuali, a 
seconda 
della 
competenza, e 
nell’ultimo 
la 
Procura 
generale 
presso la 
Corte 
di 
appello di 
Roma) e 
certamente 
ingerenti 
nella privacy dei singoli. 

Sono 
attività 
intrusive 
consentite, 
ma 
che, 
secondo 
la 
direttiva 
2002/758/Ce, devono essere 
declinate 
in modo appropriato e 
proporzionato 
allo scopo perseguito attraverso la 
previsione 
di 
garanzie 
che 
salvaguardino i 
principi 
stabiliti 
nella 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’unione 
europea, in 
particolare 
agli 
art. 7 (ogni 
persona 
ha 
diritto al 
rispetto della 
propria 
vita 
pri


(52) 
Cassazione, 
sez. 
V, 
n. 
7265 
del 
25 
gennaio 
2016, 
m.267144-01; 
in 
motivazione 
Sezioni 
unite, 
n. 155 del 2012 e Sezioni unite n. 52117 del 2014; sez. V, n. 15613 del 5 dicembre 2014, m.263805. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


vata 
e 
familiare, del 
proprio domicilio e 
delle 
proprie 
comunicazioni), art. 8 
(ogni 
persona 
ha 
diritto alla 
protezione 
dei 
dati 
di 
carattere 
personale 
che 
la 
riguardano), art. 11 (ogni 
persona 
ha 
diritto alla 
libertà 
di 
espressione; 
tale 
diritto 
include 
la 
libertà 
di 
opinione 
e 
la 
libertà 
di 
ricevere 
o di 
comunicare 
informazioni 
o idee 
senza 
che 
vi 
possa 
essere 
ingerenza 
da 
parte 
delle 
autorità 
pubbliche 
e 
senza 
limiti 
di 
frontiera) 
e 
art. 
52 
(laddove 
è 
stabilito 
che 
eventuali 
limitazioni 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
riconosciuti 
dalla 
Carta 
devono 
essere 
previste 
dalla 
legge 
e 
rispettare 
il 
contenuto 
essenziale 
di 
detti 
diritti 
e 
libertà, 
con la 
conseguenza 
che 
possono essere 
apportate 
limitazioni, nel 
rispetto del 
principio 
di 
proporzionalità, 
solo 
laddove 
siano 
necessarie 
e 
rispondano 
effettivamente 
a 
finalità 
di 
interesse 
generale 
riconosciute 
dall’unione 
o 
all’esigenza 
di 
proteggere 
i 
diritti 
e 
le 
libertà 
altrui). Il 
principio del 
“fair 
balance 
test”, “principle 
of 
lawfulness” 
investe 
la 
c.d. “struttura trifasica progressiva 
della 
proporzionalità”, 
laddove 
si 
è 
posta 
come 
evidente 
il 
problema 
della 
compatibilità 
euro-unitaria 
della 
disciplina 
italiana 
acquisitiva 
dei 
tabulati 
telefonici 
: 
art. 
226 
delle 
disposizioni 
di 
attuazione 
del 
c.p.p 
e 
art. 
132 
del 
D.lgs. 
30 giugno 2003, n. 196. 

In 
realtà, 
la 
sentenza 
sembrerebbe 
porre 
anche 
un 
problema 
di 
competenza 
a 
disporre 
l’acquisizione 
dei 
tabulati, 
laddove 
esclude 
che 
tale 
soggetto 
possa 
essere 
il 
pubblico 
ministero. 
Ma 
soprattutto 
da 
noi 
la 
decisione 
pone 
qualche 
dubbio 
su 
alcune 
interpretazioni 
e 
sulle 
conseguenti 
prassi 
applicative 
in 
tema 
di 
intercettazioni 
(con 
riguardo 
soprattutto 
all’utilizzo 
in 
sede 
diversa 
da 
quella 
ove 
l’intercettazione 
è 
stata 
disposta) 
e 
in 
tema 
di 
utilizzo 
in 
sede 
extrapenale 
di 
“conversazioni” 
il 
cui 
contenuto 
è 
stato 
acquisito 
in 
sede 
penale 
(53). 


Per quanto riguarda 
le 
intercettazioni, la 
sentenza 
impone 
un notevole 
rigore 
ermeneutico. 

Affinché, 
attraverso 
una 
non 
consentita 
ampia 
lettura 
dell’art. 
270 
del 
c.p.p., si 
possa 
finire 
con il 
legittimare 
le 
intercettazioni 
“a 
strascico”, con il 
rischio di 
utilizzazioni 
per una 
platea 
di 
reati 
diversi 
(e 
meno gravi) di 
quelli 
per 
cui 
è 
stata 
disposta 
l’attività 
intercettativa. 
Il 
rigore 
applicativo 
si 
pone 
come necessario dopo tale sentenza della Corte di Giustizia. 

Così, 
per 
quanto 
riguarda 
le 
intercettazioni 
“ordinarie”, 
provvede 
il 
di


(53) Sul 
tema: 
C. PARoDI, “Tabulati 
telefonici 
e 
contrasti 
interpretativi: come 
sopravvivere 
in 
attesa 
di 
una nuova legge”, su ilpenalista.it, 3 maggio 2021; 
C. PARoDI, “Tabulati 
telefonici: la Suprema 
Corte 
si 
esprime 
dopo le 
indicazioni 
della CGUe”, su ilpenalista.it, 5 agosto 2021; 
G. SPAnGheR, “i tabulati: 
un difficile 
equilibrio tra esigenze 
di 
accertamento e 
tutela di 
diritti 
fondamentali”, in Giustizia 
insieme, 3 maggio 2021; 
J. DeLLA 
toRRe, “L’acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici 
nel 
processo penale 
dopo la sentenza della Grande 
Camera della Corte 
di 
Giustizia Ue: la svolta garantista in un primo 
provvedimento 
del 
Gip 
di 
roma”, 
su 
sistemapenale.it; 
L. 
CuSAno, 
“Tabulati 
telefonici: 
ulteriori 
ricadute 
della sentenza della CGUe 
del 
2 marzo 2021 sul 
piano della utilizzabilità degli 
esiti 
di 
prova”, nota 
a 
trib. Bari, sez. GIP, 1° 
maggio 2021, su ilpenalista.it, 25 maggio 2021; 
F. ReStA, “Conservazione 
dei 
dati 
e 
diritto alla riservatezza. La Corte 
di 
giustizia interviene 
sulla data retention. i riflessi 
sulla disciplina 
interna”, su Giustizia insieme. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


sposto 
dell’art. 
270, 
comma 
1, 
del 
c.p.p., 
laddove 
si 
stabilisce 
la 
regola 
secondo 
cui 
i 
risultati 
delle 
intercettazioni 
non possono essere 
utilizzati 
in procedimenti 
diversi 
da 
quelli 
nei 
quali 
sono 
stati 
disposti, 
salvo 
che 
risultino 
“rilevanti” 
e 
indispensabili 
per l’accertamento di 
delitti 
per i 
quali 
è 
obbligatorio 
l’arresto in flagranza 
e 
«dei 
reati 
di 
cui 
all’art. 266, comma 
1 del 
c.p.p.». 


Deve, dunque, trattarsi 
di 
intercettazioni 
contenenti 
elementi 
rilevanti 
e 
spendibili 
per la 
prova 
di 
reati 
per i 
quali 
lo strumento delle 
intercettazioni 
sarebbe 
stato 
ordinariamente 
consentito. 
Rileva, 
in 
tal 
senso, 
la 
puntualizzazione 
della 
sentenza 
28 
novembre 
2019, 
Cavallo 
e 
altro, 
nella 
quale 
le 
Sezioni 
unite 
hanno affermato che, al 
di 
là 
di 
ogni 
considerazione 
formale 
circa 
l’iscrizione 
(all’interno del 
medesimo fascicolo o in via 
autonoma), si 
è, comunque, al 
di 
fuori 
del 
divieto di 
utilizzazione 
stabilito dall’art. 270 c.p.p. rispetto ai 
reati 
che 
risultino connessi 
ex 
art. 12 del 
c.p.p., a 
quelli 
in relazione 
ai 
quali 
l’autorizzazione 
era 
stata 
ab origine 
disposta, sempreché 
rientrino nei 
limiti 
di 
ammissibilità 
previsti dall’art. 266 del c.p.p. 


Quanto 
alle 
intercettazioni 
tramite 
captatore, 
il 
comma 
1-bis 
dell’art. 
270 
del 
c.p.p. 
prevede 
che, 
fermo 
restando 
quanto 
previsto 
dal 
comma 
1, 
i 
risultati 
delle 
intercettazioni 
tra 
presenti 
operate 
con captatore 
informatico su dispositivo 
elettronico portatile 
possono essere 
utilizzati 
anche 
per la 
prova 
di 
reati 
diversi 
da 
quelli 
per 
i 
quali 
è 
stato 
emesso 
il 
decreto 
di 
autorizzazione, 
«qualora 
risultino 
indispensabili 
per 
l’accertamento 
dei 
delitti 
indicati 
dall’articolo 
266, 
comma 2-bis, del c.p.p.». 

Per l’effetto, i 
risultati 
delle 
intercettazioni 
tramite 
trojan 
possono essere 
utilizzati 
anche 
per 
la 
prova 
di 
“reati 
diversi” 
da 
quelli 
per 
i 
quali 
è 
stato 
emesso il 
decreto di 
autorizzazione, «qualora 
risultino indispensabili 
per l’accertamento 
dei 
delitti 
indicati 
dall’art. 266, comma 
2-bis, del 
c.p.p.» (ossia, i 
delitti 
di 
cui 
all’articolo 51, commi 
3-bis 
e 
3-quater, del 
c.p.p., ovvero i 
delitti 
dei 
pubblici 
ufficiali 
e 
degli 
incaricati 
di 
un pubblico servizio contro la 
pubblica 
amministrazione). 


Il 
rigore 
notevole 
che 
accompagna 
l’utilizzabilità 
delle 
intercettazioni 
in 
“altri” 
e 
“diversi” 
procedimenti 
penali, 
alla 
luce 
degli 
argomenti 
sviluppati 
nella 
sentenza 
della 
Corte 
europea 
a 
garanzia 
e 
presidio 
della 
riservatezza, 
quando 
non 
ricorrono 
le 
esigenze 
di 
contrasto 
di 
gravi 
reati, 
sembrerebbero 
imporre 
una 
rilettura 
della 
giurisprudenza 
delle 
sezioni 
unite 
che, 
in 
modo 
ormai 
ripetitivo e 
riproduttivo di 
principi 
consolidati, ammette 
l’utilizzabilità 
delle intercettazioni anche in sede disciplinare a carico di magistrati (54). 


La 
decisione 
della 
Corte 
europea 
dovrebbe 
indurre 
a 
una 
più meditata 
riflessione 
sull’esportabilità 
automatica 
di 
registrazioni 
in 
contesti 
e 
per 
finalità 
diverse 
dal 
contrasto dei 
“gravi 
reati” 
che, nella 
lettura 
dei 
giudici 
europei, è 
l’unica 
ragione 
legittimante 
l’invasione 
della 
sfera 
privata 
altrui. 
Conclusione, 


(54) Vedi, ad esempio, Cass., Sezioni unite n. 741 del 2020. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


questa, 
maggiormente 
valida 
ove 
si 
discuta 
di 
utilizzabilità 
delle 
intercettazioni 
a 
mezzo captatore 
informatico: 
proprio l’invasività 
del 
captatore 
ha 
già 
imposto 
una 
disciplina 
di 
maggior rigore 
rispetto a 
quelle 
delle 
ordinarie 
intercettazioni 
(art. 
270, 
comma 
1, 
c.p.p.) 
e 
ciò, 
proprio 
alla 
luce 
delle 
indicazioni 
della 
Corte 
europea, 
dovrebbe 
far 
riflettere 
sull’automatica 
esportabilità 
delle 
intercettazioni 
tramite 
trojan 
(magari 
riguardanti 
anche 
soggetti 
diversi 
da 
quelli 
oggetto di 
controllo giudiziario in sede 
disciplinare 
o paradisciplinare). 

tale 
esportabilità 
si 
porrebbe 
in contrasto con gli 
artt. 7 e 
8 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
unione 
europea: 
trattasi 
di 
conversazioni 
private 
non 
correlate 
con 
l’addebito 
penale 
e, 
quindi, 
prive 
di 
alcun 
collegamento 
con 
la 
finalità 
di 
repressione 
di 
gravi 
reati, in termini 
tali 
da 
non ravvisarsi 
una 
ragione 
giustificativa 
a 
supporto della 
legittima 
limitazione 
del 
diritto alla 
segretezza 
delle comunicazioni. 


Alla 
luce 
della 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
del 
2 marzo 2021, si 
poneva 
come 
necessaria 
una 
revisione 
dell’art. 132 del 
Codice 
della 
privacy, la 
cui 
disciplina 
si 
poneva 
come 
derogatoria 
a 
quella 
prevista 
dalla 
direttiva 
2002/58/Ce 
sulla 
acquisizione 
e 
conservazione 
dei 
dati 
ed in particolare 
l’art. 
132, terzo comma, che 
consente 
la 
richiesta 
al 
pubblico ministero, e 
comma 
quarto 
(ter, 
quater, 
quinquies) 
che 
lo 
consente 
anche 
via 
decreto 
del 
Ministero 
dell’Interno. tale 
modifica 
è 
intervenuta 
con il 
decreto legge 
del 
30 settembre 
2021 n. 132, convertito nella 
legge 
23 novembre 
2021 n. 178 che 
ha 
recepito 
la 
necessità 
di 
introdurre 
in tale 
delicata 
materia 
il 
filtro del 
controllo del 
giudice 
terzo. 


è 
noto come 
la 
direttiva 
2002/58/Ce 
non si 
applica 
alle 
attività 
che 
esulano 
dal 
campo di 
applicazione 
del 
trattato sul 
Funzionamento dell’unione 
europea 
né, 
comunque, 
alle 
attività 
riguardanti 
la 
sicurezza 
pubblica, 
la 
difesa, 
la 
sicurezza 
dello Stato o alle 
attività 
dello Stato in settori 
che 
rientrano nel 
diritto penale. 


L’art. 
15, 
paragrafo 
1, 
della 
direttiva 
soprarichiamata 
attribuisce 
agli 
Stati 
membri 
la 
possibilità 
di 
adottare 
disposizioni 
legislative 
volte 
a 
limitare 
taluni 
diritti 
da 
essa 
conferiti, 
qualora 
tale 
restrizione 
sia 
necessaria, 
opportuna 
e 
proporzionata 
per la 
salvaguardia 
della 
sicurezza 
nazionale, della 
difesa, della 
sicurezza 
pubblica; 
e 
la 
prevenzione, 
ricerca, 
accertamento 
e 
perseguimento 
dei 
reati, 
ovvero 
dell’uso 
non 
autorizzato 
del 
sistema 
di 
comunicazione 
elettronica. 
A 
tal 
fine, gli 
Stati 
membri 
possono, tra 
l’altro, adottare 
misure 
legislative, le 
quali prevedano che i dati siano conservati per un periodo di tempo limitato. 


A fronte di tale disciplina, la Corte estone ha posto due quesiti. 

In primo luogo, la 
questione 
se 
la 
durata 
del 
periodo cui 
si 
riferiscono i 
dati 
ai 
quali 
i 
servizi 
inquirenti 
hanno 
avuto 
accesso 
costituisca 
un 
criterio 
che 
permette 
di 
valutare 
la 
gravità 
dell’ingerenza 
rappresentata 
da 
tale 
accesso 
nei 
diritti 
fondamentali 
delle 
persone 
interessate. Il 
giudice 
supremo estone 
si 
è 
chiesto, in particolare, per il 
caso in cui 
questo periodo sia 
molto breve 
o la 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


quantità 
di 
dati 
raccolti 
sia 
assai 
limitata, 
se 
l’obiettivo 
della 
lotta 
contro 
la 
criminalità 
in 
generale, 
e 
non 
soltanto 
contro 
le 
forme 
più 
gravi 
di 
criminalità, 
sia idoneo a giustificare una siffatta ingerenza. 

In 
secondo 
luogo, 
se 
il 
pubblico 
ministero 
estone, 
tenuto 
conto 
delle 
varie 
funzioni 
affidategli 
dalla 
normativa 
nazionale, costituisca 
un’autorità 
amministrativa 
«indipendente». 


I quesiti 
si 
inseriscono in un contesto interpretativo già 
segnato con importanti 
decisioni 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
che, a 
partire 
dal 
2014, ha 
chiarito 
gradualmente i vari profili del tema in esame. 


tra 
queste 
precedenti 
sentenze, 
occorre 
ricordare 
quella 
relativa 
ai 
Digital 
rights 
dell’8 aprile 
2014, con la 
quale 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
dichiarato l’illegittimità 
della 
direttiva 
“Frattini” 
(2006/24/Ce), 
per 
violazione 
del 
principio 
di 
proporzionalità 
nel 
bilanciamento tra 
diritto alla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
ed esigenze di pubblica sicurezza. 

All’attenzione 
della 
Corte 
erano 
state 
portate 
le 
disposizioni 
della 
direttiva 
volte 
a 
garantire 
la 
conservazione 
dei 
dati 
di 
traffico telefonico e 
telematico, 
i 
dati 
relativi 
all’ubicazione 
e 
quelli 
necessari 
all’identificazione 
dell’abbonato, 
per 
fini 
di 
accertamento 
e 
repressione 
dei 
reati. 
Se, 
in 
linea 
generale, 
l’accesso 
a 
tali 
dati 
può 
giustificarsi 
in 
ragione 
di 
un 
obiettivo 
di 
interesse 
generale, 
quale, appunto, il 
contrasto a 
gravi 
forme 
di 
criminalità 
e, in definitiva, le 
esigenze 
di 
pubblica 
sicurezza, la 
direttiva 
avrebbe, secondo la 
Corte, ecceduto 
i limiti imposti dal principio di proporzionalità. 

tale 
violazione 
si 
sarebbe 
sostanziata, secondo la 
Corte, nell’avere 
la 
direttiva: 


1) previsto le 
misure 
di 
conservazione 
dei 
dati 
come 
applicabili 
in via 
indifferenziata 
e 
generalizzata 
«all’insieme 
degli 
individui, dei 
mezzi 
di 
comunicazione 
elettronica e 
dei 
dati 
relativi 
al 
traffico, senza che 
venga operata 
alcuna 
differenziazione, 
limitazione 
o 
eccezione 
in 
ragione 
dell’obiettivo 
della 
lotta contro i reati gravi»; 
2) omesso di 
prevedere 
alcun criterio oggettivo che 
limiti 
l’accesso a 
tali 
dati 
per sole 
esigenze 
di 
accertamento di 
reati 
«sufficientemente 
gravi 
da giustificare 
una simile ingerenza»; 
3) omesso di 
sancire 
i 
presupposti 
sostanziali 
e 
procedurali 
ai 
quali 
subordinare 
l’accesso, 
da 
parte 
delle 
competenti 
autorità 
nazionali, 
ai 
dati 
in 
esame, in particolare 
non richiedendo in ogni 
caso il 
previo controllo dell’autorità 
giudiziaria o di un’autorità amministrativa indipendente; 
4) 
omesso 
di 
prevedere 
criteri 
necessari 
a 
differenziare 
la 
durata 
della 
conservazione 
dei 
dati, limitandosi 
a 
stabilire 
i 
soli 
termini 
minimi 
(6 mesi) e 
massimi (24 mesi); 
5) 
omesso 
di 
imporre 
che 
i 
dati 
così 
acquisiti 
siano 
conservati 
nel 
solo 
territorio ue. 
Sulla 
stessa 
scia 
si 
pone 
la 
sentenza 
resa 
nel 
caso Tele2 Sverige 
del 
21 di



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


cembre 
2016, con la 
quale 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
dichiarato incompatibile 
con la 
direttiva 
2002/58/Ce 
la 
disciplina 
interna 
che, per fini 
di 
contrasto dei 
reati: 
a) imponga 
la 
generale 
e 
indiscriminata 
conservazione 
di 
tutti 
i 
dati 
di 
traffico e 
relativi 
all’ubicazione 
degli 
utenti 
dei 
mezzi; 
b) legittimi 
l’accesso 
delle 
autorità 
nazionali 
competenti 
ai 
dati 
conservati 
per finalità 
ulteriori 
rispetto 
a 
quelle 
di 
contrasto dei 
crimini 
gravi, in assenza 
di 
un previo vaglio 
giurisdizionale 
o 
comunque 
di 
un’autorità 
amministrativa 
indipendente 
e 
di 
garanzie relative alla conservazione dei dati nella ue. 

In tale 
sentenza 
la 
Corte 
ha, tuttavia, anche 
chiarito che 
la 
direttiva 
non 
osta 
ad una 
normativa 
nazionale 
che 
imponga 
una 
conservazione 
mirata 
dei 
dati 
per finalità 
di 
lotta 
contro gravi 
fenomeni 
di 
criminalità, a 
condizione 
che 
tale 
conservazione 
dei 
dati 
sia, 
per 
quanto 
riguarda 
le 
categorie 
di 
dati 
da 
conservare, 
i 
mezzi 
di 
comunicazione 
interessati, le 
persone 
implicate, nonché 
la 
durata di conservazione prevista, limitata allo stretto necessario. 

Qualsiasi 
normativa 
nazionale 
che 
vada 
in tal 
senso deve 
essere 
chiara 
e 
precisa 
“accessible” 
e 
prevedere 
garanzie 
sufficienti 
al 
fine 
di 
proteggere 
i 
dati 
contro i 
rischi 
di 
abuso. Le 
discipline 
interne 
sulla 
conservazione 
dei 
dati 
devono, 
pertanto, 
prevedere 
l’accessibilità 
dei 
dati 
conservati 
solo 
da 
parte 
dell’autorità 
giudiziaria 
o di 
un’autorità 
amministrativa 
indipendente, in base 
a 
circostanze 
e 
procedure 
disciplinate 
dalla 
legge 
per 
esigenze 
di 
accertamento 
di 
gravi 
reati, notificando la 
misura 
all’interessato, non appena 
le 
esigenze 
investigative 
lo 
consentano. 
Infine, 
tenuto 
conto 
della 
quantità 
di 
dati 
conservati, 
del 
carattere 
sensibile 
di 
tali 
dati, 
nonché 
del 
rischio 
di 
accesso 
illecito 
a 
questi 
ultimi, la 
normativa 
nazionale 
deve 
prevedere 
che 
i 
dati 
siano conservati 
nel 
territorio dell’unione 
e 
che 
essi 
vengano irreversibilmente 
distrutti 
al 
termine 
della durata della loro conservazione. 

nella 
sentenza 
Ministerio 
fiscal 
del 
2 
ottobre 
2018, 
la 
Corte 
si 
è 
occupata 
dell’accesso ai 
dati 
che 
mirano all’identificazione 
dei 
titolari 
di 
carte 
Sim 
attivate 
con 
un 
telefono 
cellulare 
rubato, 
come 
il 
cognome, 
il 
nome 
e, 
se 
del 
caso, l’indirizzo di 
tali 
soggetti. Sebbene 
tale 
accesso determini 
un’ingerenza 
nei 
diritti 
fondamentali 
degli 
interessati 
sanciti 
nella 
Carta 
dei 
Diritti 
Fondamentali 
dell’unione 
europea, esso non presenta 
una 
gravità 
tale 
da 
dover limitare 
il 
suddetto accesso, in materia 
di 
prevenzione, ricerca, accertamento e 
perseguimento dei reati, alla lotta contro la criminalità grave. 


è 
da 
ricordare 
ancora 
la 
sentenza 
Privacy 
international 
del 
6 
ottobre 
2020, con la 
quale 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
sancito la 
contrarietà 
alla 
direttiva 
2002/58/Ce 
di 
una 
disciplina 
che 
imponga 
ai 
fornitori 
di 
servizi 
di 
comunicazione 
elettronica, al 
fine 
di 
salvaguardare 
la 
sicurezza 
nazionale, di 
effettuare 
la 
conservazione 
generale 
e 
indiscriminata 
dei 
dati 
sul 
traffico e 
dei 
dati 
sull’ubicazione 
come 
misura 
preventiva. In altri 
termini, si 
è 
escluso che 
l’esimente 
della 
funzionalità 
del 
trattamento ai 
fini 
di 
sicurezza 
nazionale 
possa 
“coprire” anche la indiscriminata conservazione dei dati ad esso finalizzata. 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Fondamentale 
è 
la 
conclusione 
che 
un 
organo 
giurisdizionale, 
il 
quale 
consideri 
che 
una 
parte 
non 
è 
in 
grado 
di 
svolgere 
efficacemente 
le 
proprie 
osservazioni 
in merito a 
un mezzo di 
prova 
rientrante 
in una 
materia 
estranea 
alla 
conoscenza 
dei 
giudici 
(in quanto decisa 
da 
un pubblico ministero) e 
idoneo 
a 
influire 
in modo preponderante 
sulla 
valutazione 
dei 
fatti, deve 
constatare 
una 
violazione 
del 
diritto a 
un processo equo ed escludere 
tale 
mezzo di 
prova, 
al 
fine 
di 
evitare 
una 
violazione 
siffatta. 
Ciò 
dovrebbe 
indurre, 
secondo 
la 
Corte 
di 
giustizia, il 
giudice 
penale 
nazionale 
ad escludere 
informazioni 
ed 
elementi 
di 
prova 
che 
siano stati 
ottenuti 
mediante 
una 
conservazione 
generalizzata 
e 
indifferenziata 
dei 
dati 
relativi 
al 
traffico e 
dei 
dati 
relativi 
all’ubicazione, 
incompatibile 
con il 
diritto dell’unione, o anche 
mediante 
un accesso 
dell’autorità competente a tali dati in violazione del diritto dell’unione. 

Circa 
la 
competenza 
ad autorizzare 
l’accesso di 
un’autorità 
pubblica 
ai 
dati 
relativi 
al 
traffico 
e 
ai 
dati 
relativi 
all’ubicazione, 
al 
fine 
di 
dirigere 
un’istruttoria 
penale, la 
Corte 
osserva 
che 
è 
essenziale 
che 
l’accesso delle 
autorità 
nazionali 
competenti 
ai 
dati 
conservati 
sia 
subordinato 
a 
un 
controllo 
preventivo effettuato o da 
un giudice 
o da 
un’entità 
amministrativa 
indipendente. 
Da 
ciò consegue 
che 
il 
requisito dell’indipendenza 
che 
l’autorità 
incaricata 
di 
esercitare 
il 
controllo 
preventivo 
deve 
soddisfare 
impone 
che 
tale 
autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, 
di 
modo 
che 
la 
prima 
sia 
in 
grado 
di 
esercitare 
tale 
controllo 
in 
modo 
obiettivo 
e imparziale, al riparo da qualsiasi influenza esterna. 

In ambito penale, il 
requisito di 
indipendenza 
implica 
che 
l’autorità 
incaricata 
di 
tale 
controllo preventivo, da 
un lato, non sia 
coinvolta 
nella 
conduzione 
dell’indagine 
penale 
di 
cui 
trattasi, 
dall’altro, 
abbia 
una 
posizione 
di 
neutralità 
nei 
confronti 
delle 
parti 
del 
procedimento penale. Il 
pubblico ministero 
non garantisce la sua terzietà. 


In realtà, prima 
di 
tali 
pronunce 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
europea, 
il 
Garante 
della 
privacy aveva 
invitato, senza 
successo, il 
legislatore 
a 
riformare 
la 
disciplina 
interna 
sulla 
conservazione 
dei 
tabulati 
che 
non limita 
l’acquisizione 
ai 
soli 
reati 
gravi 
né 
subordina 
tale 
acquisizione 
al 
vaglio del 
giudice (55). 


Similmente, 
anche 
la 
Corte 
di 
Cassazione, 
con 
sentenza 
13 
febbraio 
2020, 


n. 
5741, 
aveva 
“salvato” 
la 
“data 
retention” 
italiana, 
ritenendo 
che 
le 
sentenze 
Digital 
rights 
e 
Tele2 
Sverige 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
non 
intaccassero 
la 
compatibilità 
delle previsioni dell’art. 132 con il diritto dell’ue. 
A 
prescindere 
dalle 
perplessità 
che 
le 
affermazioni 
della 
Cassazione 
hanno suscitato sulla 
corretta 
lettura 
delle 
pronunce 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
era ormai inevitabile una revisione dell’art. 132 del Codice della Privacy. 

(55) Si 
vedano le 
osservazioni 
di 
M. MASSIMI, art. 132, in R. SCIAuDone 
(a 
cura 
di) “il 
Codice 
della Privacy”, Pacini, ospedaletto, 2019, pag. 668. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Di 
recente, la 
Cassazione 
Penale 
(56) si 
è 
pronunciata 
sugli 
effetti 
della 
sentenza 
del 
2 marzo 2021 della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
europea 
nella 
causa C-746/18. 


L’impostazione 
della 
CGue 
-si 
legge 
nella 
decisione 
-«deve 
essere 
confrontata 
con 
l’assetto 
normativo 
attualmente 
delineatosi 
nel 
nostro 
ordinamento 
e, 
in 
particolare, 
con 
il 
consolidato 
orientamento 
della 
Suprema 
Corte, 
secondo cui, in tema di 
acquisizione 
dei 
dati 
contenuti 
nei 
cd. tabulati 
telefonici, 
la disciplina italiana di 
conservazione 
dei 
dati 
di 
cui 
all’art. 132 dlgs. 
196/2003 deve 
ritenersi 
compatibile 
con le 
direttive 
in tema di 
privacy, e 
ciò 
poiché 
la deroga stabilita dalla norma alla riservatezza delle 
comunicazioni 
è 
prevista 
dall’art. 
132 
cit. 
per 
un 
periodo 
di 
tempo 
limitato, 
ha 
come 
esclusivo 
obiettivo l’accertamento e 
la repressione 
dei 
reati 
ed è 
subordinata alla emissione 
di 
un 
provvedimento 
di 
una 
autorità 
giurisdizionale 
indipendente 
com’è 
appunto il pubblico ministero». 


Invero, 
se 
da 
un 
lato, 
«è 
indubitabile 
che 
debba 
attribuirsi 
ai 
principi 
espressi 
nelle 
sentenze 
CGUe 
il 
valore 
fondante 
del 
diritto comunitario con 
efficacia 
erga 
omnes 
nell’ambito 
della 
Comunità», 
dall’altro, 
«l’attività 
interpretativa 
del 
significato 
e 
dei 
imiti 
di 
applicazione 
delle 
norme 
comunitarie, 
operata 
nelle 
sentenze 
CGUe, 
può 
avere 
efficacia 
immediata 
e 
diretta 
nel 
nostro 
ordinamento limitatamente 
alle 
ipotesi 
in cui 
non residuino, negli 
istituti 
giuridici 
regolati, 
concreti 
problemi 
applicativi 
e 
correlati 
profili 
di 
discrezionalità 
che 
richiedano l’intervento del 
legislatore 
nazionale, tanto più laddove 
si tratti di interpretazioni di norme contenute nelle direttive». 


Allo 
stato, 
quindi, 
«non 
può 
che 
ritenersi 
come 
l’interpretazione 
proposta 
dalla 
CGUe 
sia 
del 
tutto 
generica 
nell’individuazione 
dei 
casi 
nei 
quali 
i 
dati 
di 
traffico 
telematico 
e 
telefonico 
possono 
essere 
acquisiti 
(“lotta 
contro 
le 
forme 
gravi 
di 
criminalità” 
o 
“prevenzione 
di 
gravi 
minacce 
alla 
sicurezza 
pubblica”), essendo evidente 
che 
tali 
aspetti 
non possono essere 
disciplinati 
da 
singole 
(e 
potenzialmente 
contrastanti) 
decisioni 
giurisprudenziali, 
dovendosi 
demandare 
al 
legislatore 
nazionale 
il 
compito di 
trasfondere 
i 
principi 
interpretativi delineati dalla Corte in una legge dello Stato». 


ne 
deriva 
-conclude 
la 
Cassazione 
-«l’impossibilità di 
ritenere 
che 
la 
sentenza 
della 
CGUe 
possa 
trovare 
diretta 
applicazione 
in 
italia 
fino 
a 
quando 
non 
interverrà 
il 
legislatore 
italiano 
ed 
anche 
europeo, 
in 
quanto 
allo 
stato può e deve ritenersi applicabile l’art. 132 dlgs 196/2003» (57). 


(56) 
Cass. 
Pen., 
sez. 
II, 
7 
settembre 
2021, 
n. 
33116 
e 
Cass. 
Pen., 
sez. 
II, 
3 
settembre 
2021, 
n. 
33118, disponibile 
su dejure.it; 
commentata 
da 
G. LuIGI, “La Corte 
di 
cassazione 
ritorna sull’acquisizione 
dei tabulati telefonici dopo le indicazioni della CGUe”, su ilpenalista.it, 5 ottobre 2021. 
(57) 
Sul 
tema, 
si 
veda 
l’articolo 
di 
e. 
RInALDInI, 
“Data 
retention 
e 
procedimento 
penale. 
Gli 
effetti 
della sentenza della Corte 
di 
Giustizia nel 
caso H.K. sul 
regime 
dell’acquisizione 
dei 
tabulati 
telefonici 
e 
telematici: urge 
l’intervento del 
legislatore”, in Giurisprudenza Penale 
Web, 2021, 5, l’ordinanza 
con 
cui 
il 
tribunale 
di 
Rieti 
ha 
proposto 
questione 
pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
europea, 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Si 
ricorda, comunque, che 
la 
Cassazione, con sentenza 
del 
1° 
settembre 
2021, 
ha 
escluso 
l’applicabilità 
del 
principio 
di 
diritto 
enucleato 
nella 
sentenza 
“Cavallo” 
in materia 
di 
intercettazioni 
quando, dopo l’attività 
di 
captazione, 
l’imputazione 
venga 
riqualificata 
in 
altra 
non 
annoverata 
nello 
speciale 
elenco 
di 
cui 
all’art. 
266 
c.p.p. 
(si 
pensi 
al 
concetto 
di 
“inutilizzabilità 
derivata”: 
l’ordinanza 
del 
GuP 
del 
tribunale 
di 
Perugia 
del 
20 
giugno 
2021 
nel 
procedimento 
c.d. “Palamara bis”). 

L’auspicato 
intervento 
normativo 
si 
è 
concretizzato 
nell’art. 
1 
del 
decreto-
legge 
30 settembre 
2021, n. 132, con il 
quale 
il 
legislatore 
è 
intervenuto in via 
d’urgenza 
a 
ridisciplinare 
la 
materia 
dell’acquisizione 
dei 
dati 
di 
traffico telefonico 
e 
telematico per fini 
di 
indagini 
penale 
(c.d. tabulati). L’adeguamento 
del 
nostro sistema 
ai 
principi 
comunitari 
non poteva 
che 
richiedere 
un intervento 
del 
legislatore, non essendosi 
in presenza 
di 
una 
decisione 
immediatamente 
e 
automaticamente 
autoapplicativa, 
quanto 
meno 
con 
riguardo 
alla 
“selezione” 
dei 
reati 
“gravi”, 
tali 
da 
legittimare 
l’acquisizione 
dei 
tabulati 
(58). 

Con l’art. 1 del 
decreto-legge 
soprarichiamato si 
interviene 
ad introdurre 
le 
modifiche 
necessarie 
all’art. 
132 
del 
decreto 
legislativo 
n. 
196/2003. 
Le 
modifiche 
sono volte 
a 
perimetrare 
la 
competenza 
ad acquisire 
i 
tabulati 
attribuita 
al 
giudice, che 
deve 
provvedere 
con decreto motivato sulla 
rilevanza 
di 
tale 
acquisizione 
«ai 
fini 
della 
prosecuzione 
delle 
indagini», e 
non più al 
pubblico 
ministero. Peraltro, la 
sollecitazione 
al 
giudice 
è 
attribuita, nell’ambito 
delle 
investigazioni 
difensive, anche 
al 
difensore 
dell’imputato, della 
persona 
offesa 
e 
delle 
altre 
parti 
private. Si 
profila, però, un problema 
interpretativo 
nel 
testo del 
decreto-legge, laddove 
si 
attribuisce 
la 
competenza 
al 
“giudice” 
correlandosi 
la 
ragione 
della 
richiesta 
alla 
rilevanza 
«ai 
fini 
della 
prosecuzione 
delle 
indagini». 
In 
realtà, 
il 
tema 
dell’acquisizione 
dei 
tabulati 
si 
può 
porre 
anche 
dopo 
l’esercizio 
dell’azione 
penale, 
davanti 
al 
giudice 
del 
dibattimento, 
ma 
anche 
davanti 
a 
quello 
dell’udienza 
preliminare 
chiamato 
a 
definire 
il 
processo 
in 
sede 
di 
rito 
abbreviato 
condizionato 
dal 
pubblico 
ministero 
o 
dalla 
persona 
offesa/parte 
civile; 
vuoi 
per 
smentirla, 
in 
caso 
di 
richiesta 
proveniente 
dalla difesa dell’imputato. 

Il 
nuovo 
comma 
3-bis 
dell’art. 
132 
disciplina 
le 
situazioni 
urgenti, 
rispetto 


nonché 
le 
ordinanze 
con cui 
il 
tribunale 
di 
tivoli 
e 
la 
Corte 
di 
Assise 
di 
napoli 
hanno escluso un’applicazione 
diretta della CGue. 


(58) Per un primo commento alla 
nuova 
disciplina, si 
vedano M. BoRGoBeLLo, “acquisizione 
di 
tabulati 
telefonici: 
che 
cambia 
col 
nuovo 
decreto-legge”, 
su 
agendadigitale.ue, 
4 
ottobre 
2021; 
L. 
FILIPPI, 
“La nuova disciplina dei 
tabulati: il 
commento “a caldo” 
del 
Prof. filippi”, su penaledp.it, 1° 
ottobre 
2021; 
C. PARoDI, “Sottratto al 
P.M. il 
potere 
di 
richiedere 
autonomamente 
i 
tabulati”, su ilpenalista.it, 
1° 
ottobre 
2021; 
G. 
PeSteLLI, 
“D.L. 
132/2021: 
un 
discutibile 
e 
inutile 
aggravio 
di 
procedura 
per 
tabulati 
telefonici 
e 
telematici”, su quotidianogiuridico.it, 4 ottobre 
2021; 
F. ReStA, “La nuova disciplina del-
l’acquisizione 
dei 
tabulati”, 
su 
Giustizia 
insieme, 
2 
ottobre 
2021; 
A. 
MALACARne, 
“La 
decretazione 
d’urgenza del 
Governo in materia di 
tabulati 
telefonici: breve 
commento a prima lettura del 
d.l. 30 settembre 
2021, n. 132”, su Sistema Penale, 8 ottobre 2021. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


alle 
quali 
è 
conservato un potere 
di 
intervento diretto del 
pubblico ministero, 
sottoposto 
poi 
alla 
convalida 
del 
giudice. 
Infatti, 
allorquando 
ricorrono 
ragioni 
di 
urgenza 
e 
vi 
è 
fondato 
motivo 
di 
ritenere 
che 
dal 
ritardo 
possa 
derivare 
grave 
pregiudizio alle 
indagini, il 
pubblico ministero ha 
la 
facoltà 
di 
disporre 
direttamente 
l’acquisizione 
dei 
dati 
con 
decreto 
motivato, 
non 
solo 
sulle 
ragioni 
investigative 
giustificanti 
l’acquisizione, ma 
anche 
sulle 
ragioni 
di 
urgenza 
e 
sul pregiudizio che deriverebbe dal ritardo nell’acquisizione. 

In base 
alle 
indicazioni 
della 
Corte 
europea, si 
limita 
l’acquisibilità 
dei 
tabulati 
a 
specifiche 
ipotesi 
incriminatrici 
“gravi”: 
deve 
trattarsi 
di 
reati 
per 
quali 
la 
legge 
stabilisce 
la 
pena 
dell’ergastolo o della 
reclusione 
non inferiore 
nel 
massimo 
a 
3 
anni. 
Si 
escludono 
così 
dal 
catalogo 
dei 
reati 
alcune 
fattispecie 
a forte allarme sociale punite con una pena inferiore. 

tra 
i 
presupposti 
per acquisire 
i 
tabulati, il 
modificato comma 
3 dell’art. 
132 prevede, però, anche 
la 
“sussistenza 
di 
sufficienti 
indizi 
di 
reato”. Da 
tale 
espressione 
si 
evince 
chiaramente 
che 
“gli 
indizi 
di 
reato” 
richiesti 
per poter 
acquisire 
i 
tabulati 
afferiscono alla 
sussistenza 
di 
un reato e 
non alla 
colpevolezza 
di 
un determinato soggetto, sicché 
per procedere 
legittimamente 
ad acquisire 
i 
tabulati 
non è 
necessario che 
tali 
indizi 
siano a 
carico di 
un soggetto 
individuato o di 
colui 
le 
cui 
conversazioni 
debbano essere 
controllate 
al 
fine 
dell’indagine. 

La 
motivazione 
del 
decreto (del 
giudice 
o del 
pubblico ministero quando 
opera 
d’urgenza, salvo convalida 
del 
giudice 
entro le 
48 ore 
successive) deve, 
quindi, esprimere 
solo una 
valutazione 
sull’esistenza 
di 
un fatto storico integrante 
una 
determinata 
ipotesi 
di 
reato, 
il 
cui 
accertamento 
impone 
l’adozione 
dello 
strumento 
acquisitivo. 
Sarà, 
quindi, 
sufficiente 
che 
tale 
valutazione 
trovi 
fondamento 
in 
un 
“livello 
minimo 
di 
indizi 
giudiziari” 
e 
non 
saranno 
richiesti, 
invece, 
i 
gravi 
indizi 
ordinariamente 
previsti 
per 
le 
intercettazioni 
all’art. 
267, 
comma 
3, c.p.p., che 
evocano la 
necessità 
di 
un giudizio altamente 
probabilistico 
della sussistenza di un reato. 

è 
stato giustamente 
osservato che 
la 
soluzione 
del 
legislatore 
è 
stata, in 
primis, quella 
di 
agganciare 
il 
giudizio di 
“gravità” 
alla 
pena 
edittale, ma 
la 
soluzione 
mostra 
i 
suoi 
limiti, in quanto non tutti 
i 
reati 
rientranti 
nel 
range 
della 
norma 
rientrano nel 
novero delle 
fattispecie 
incriminatrici 
dirette 
a 
contrastare 
«le 
forme 
gravi 
di 
criminalità» o a 
prevenire 
«gravi 
minacce 
alla 
sicurezza 
pubblica», come preteso dalla Corte di Giustizia. 

Volendo 
definire 
in 
via 
interpretativa 
il 
regime 
transitorio 
non 
disciplinato 
dal 
decreto-legge 
30 
settembre 
2021, 
n. 
132 
soprarichiamato, 
è 
da 
ritenere 
corretto 
che 
i 
tabulati 
acquisiti 
prima 
del 
novum 
normativo non siano affetti 
dal 
vizio dell’inutilizzabilità 
ex 
art. 190 c.p.p., perché 
non sono stati 
illegittimamente 
acquisiti. Al 
contrario, sono stati 
acquisiti 
nel 
rispetto delle 
indicazioni 
normative 
all’epoca 
vigenti. 
Infatti, 
essendo 
la 
successione 
delle 
leggi 
processuali 
governata 
dal 
principio tempus 
regit 
actum, ciò dovrebbe 
comportare 
la 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


persistente 
validità 
ed efficacia 
degli 
atti 
compiuti 
nell’osservanza 
delle 
leggi 
all’epoca vigenti (59). 

In 
questa 
ottica, 
neppure 
dovrebbe 
porsi 
un 
problema 
generalizzato 
di 
acquisizione 
al 
processo dei 
tabulati 
ritualmente 
acquisiti 
nel 
rispetto della 
normativa 
all’epoca 
vigente. 
Sembrerebbe 
allora 
superfluo, 
rispetto 
ai 
tabulati 
acquisiti 
ante 
decreto n. 132, un’attività 
generalizzata 
di 
richiesta 
al 
giudice 
per un’acquisizione 
“ora 
per allora”. tale 
autorizzazione 
si 
profilerebbe 
necessaria 
ove, 
però, 
sorgessero 
contestazioni: 
in 
tal 
caso 
sarebbe 
opportuno 
chiedere 
al 
giudice 
la 
formale 
acquisizione 
dei 
tabulati, quanto meno ex 
art. 
507 c.p.p., e 
lo stesso potrebbe 
farsi 
in appello, in sede 
di 
rinnovazione 
del-
l’istruttoria dibattimentale 
ex 
art. 603 c.p.p. 

occorre, 
però, 
distinguere 
i 
concetti 
di 
acquisibilità 
dei 
tabulati 
dalla 
loro 
utilizzabilità 
in 
concreto. 
Il 
tema 
dell’acquisizione 
soggiace 
alle 
regole 
all’epoca 
vigenti, 
mentre 
quello 
della 
valutazione 
non 
può 
che 
essere 
regolata 
dalla 
nuova 
normativa. 
In 
altri 
termini, 
nulla 
quaestio 
per 
l’acquisizione 
dei 
tabulati, 
ma 
questi 
potranno 
essere 
valorizzati 
sul 
piano 
probatorio 
solo 
nel 
rispetto 
delle 
condizioni 
di 
legittimità 
da 
oggi 
previste 
nel 
nuovo 
comma 
3 
dell’articolo 
132 
(catalogo 
dei 
reati, 
sufficienza 
degli 
indizi, 
rilevanza 
investigativa 
o 
probatoria). 


è 
interessante 
anche 
il 
tema 
dell’introduzione 
di 
un apposito provvedimento 
di 
«deindicizzazione», a 
tutela 
del 
diritto all’oblio degli 
indagati 
o imputati 
la 
cui 
posizione 
sia 
stata 
definita 
da 
un 
decreto 
di 
archiviazione, 
sentenza 
di non luogo a procedere o di assoluzione. 

L’art. 1, comma 
25 della 
legge 
n. 134 del 
2021 delega 
il 
Governo a 
modificare 
le 
norme 
di 
attuazione, 
di 
coordinamento 
e 
transitorie 
al 
codice 
di 
procedura 
penale 
in 
materia 
di 
comunicazione 
della 
sentenza, 
stabilendo 
la 
necessità 
di 
prevedere 
che 
il 
decreto 
di 
archiviazione, 
la 
sentenza 
di 
non 
luogo 
a 
procedere 
e 
di 
assoluzione 
costituiscano 
titolo 
per 
ottenere 
un 
provvedimento 
di 
deindicizzazione. Si 
vuole, infatti, rendere 
effettivo il 
diritto all’oblio degli 
indagati 
o 
imputati, 
nel 
rispetto 
della 
normativa 
europea 
in 
tema 
di 
protezione 
dei dati personali. 


Il 
diritto all’oblio (60), chiamato anche 
diritto alla 
cancellazione, è 
disciplinato 
dall’art. 17 del 
GDPR, il 
quale 
elenca 
i 
casi 
in cui 
l’interessato ha 
il 
diritto 
di 
ottenere 
dal 
titolare 
del 
trattamento 
(il 
motore 
di 
ricerca 
o 
service 
provider) la 
cancellazione 
dei 
dati 
personali 
che 
lo riguardano, a 
tutela 
della 


(59) Cass., Sezioni unite, 26 novembre 2003, n. 919. 
(60) «…La vera damnatio, per 
le 
persone, è 
ormai 
rappresentata dalla conservazione, non dalla 
distruzione 
della memoria. Che 
cosa diventa la persona quando viene 
consegnata alle 
banche 
dati 
e 
alle 
loro interconnessioni, ai 
motori 
di 
ricerca che 
rendono immediato l’accesso a qualsiasi 
informazione, 
quando 
le 
viene 
negato 
il 
diritto 
di 
sottrarsi 
allo 
sguardo 
indesiderato, 
di 
ritirarsi 
dietro 
le 
quinte, 
in una zona d’ombra?... Che 
cosa diviene 
la vita nel 
tempo in cui 
“Google 
ricorda sempre”?», così 
si 
pronuncia 
S. RoDotà 
nel 
suo breve 
trattato “il 
mondo nella rete. Quali 
diritti, quali 
vincoli”, editori 
Laterza e la Repubblica, Roma-Bari, 2014, pp. 41-42, da “il diritto di avere diritti”. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


propria 
riservatezza 
e 
della 
propria 
identità 
personale, ove 
essi 
non siano più 
necessari «rispetto alle finalità per i quali sono stati raccolti» (61). 


La 
norma 
è 
il 
frutto di 
un percorso giurisprudenziale 
iniziato con la 
celebre 
sentenza 
13 
maggio 
2014, 
C-113/12 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
c.d. 
Sentenza 
“Google 
Spain”, in cui 
la 
Corte 
ha 
delineato il 
rapporto tra 
libertà 
di 
espressione 
e 
diritti 
della 
personalità 
sul 
web, manifestando un’attitudine 
garantista 
nei 
confronti 
della 
privacy 
nell’ambito 
digitale, 
introducendo 
il 
“diritto 
all’oblio 
in internet” 
e 
riconoscendo, dunque, il 
diritto di 
ciascuno di 
“controllare” 
i 
risultati 
che 
appaiono sul 
web a 
seguito della 
digitazione 
del 
proprio 
nome. In tal 
modo, ciascuno può richiedere 
al 
gestore 
di 
un motore 
di 
ricerca 
la 
rimozione 
di 
tutti 
i 
link che 
portano a 
contenuti, seppur legittimi 
e 
veritieri, 
ritenuti 
non più pertinenti 
con la 
propria 
immagine 
“sociale”, non più attuali, 
essendo trascorso un determinato lasso di tempo. 


Il 
diritto all’oblio è 
un tema 
molto interessante 
ed esprime 
il 
più ampio 
diritto 
del 
singolo 
alla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
che 
lo 
riguardano; 
tuttavia, 
non si 
configura 
come 
diritto assoluto, essendo necessario un bilanciamento 
con l’interesse 
economico del 
gestore 
del 
motore 
di 
ricerca 
e 
con l’interesse 
pubblico ad accedere alle informazioni contenute anche 
online. 


eppure, la 
riforma, che 
si 
incentra 
sulle 
informazioni 
di 
carattere 
giudiziario, 
sembrerebbe 
fornire 
una 
tutela 
non suscettibile 
di 
bilanciamento con 
gli 
interessi 
contrapposti: 
qualora, 
infatti, 
un 
procedimento 
penale 
si 
concluda 
in senso favorevole 
all’indagato/imputato, si 
pone 
come 
preminente 
il 
diritto 
dell’interessato alla deindicizzazione dei dati e delle notizie ad esso relative. 


In 
tutti 
gli 
altri 
casi, 
invece, 
si 
ricorrerà 
ai 
presupposti, 
positivi 
e 
negativi, 
individuati 
dall’art. 
17 
GDPR 
e 
precisati 
dalla 
giurisprudenza 
(si 
pensi, 
ad 
esempio, all’insussistenza 
di 
un interesse 
pubblico specifico e 
attuale 
alla 
diffusione 
della notizia). 

Come 
è 
stato 
osservato 
dalla 
dottrina, 
il 
riferimento 
alla 
«deindicizzazione
» 
sembrerebbe 
«limitare 
la 
portata 
di 
questo 
“speciale” 
diritto 
all’oblio 
al 
solo contesto dei 
motori 
di 
ricerca e 
affini, lasciando impregiudicata la facoltà 
di 
editori 
e 
responsabili 
di 
testate 
giornalistiche 
o telematiche 
di 
pubblicare, 
conservare 
su archivi 
telematici 
e 
rendere 
accessibili 
sul 
proprio sito 
web notizie 
relative 
a procedimenti 
penali 
(passati), pur 
se 
definiti 
con archiviazione, 
non luogo a procedere o assoluzione» (62). 

In 
questo 
caso 
si 
applicherà 
la 
disciplina 
generale, 
come 
interpretata 
dalle 
Sezioni 
unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
nella 
sentenza 
n. 1981 del 
2019, che 
ha 
ribadito 
la 
necessità 
di 
bilanciare 
la 
libertà 
delle 
scelte 
editoriali 
con 
la 
sus


(61) P. CARettI 
e 
A. CARDone, “Diritto dell’informazione 
e 
della comunicazione 
nell’era della 
convergenza”, Bologna, Mulino, 2019, p. 253. 
(62) 
F. 
MARenGhI, 
“riforma 
giustizia 
penale: 
il 
provvedimento 
di 
«deindicizzazione»”, 
su 
altalex.com. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


sistenza 
di 
un attuale 
interesse 
della 
collettività 
alla 
notizia 
e 
con l’impiego di 
modalità espressive non eccedenti lo scopo informativo. 


Comunque, 
la 
legge 
delega 
non 
specifica 
la 
forma 
o 
la 
procedura 
del 
«provvedimento 
di 
deindicizzazione»; 
inoltre, 
bisognerà 
definire 
la 
portata 
territoriale 
dei 
provvedimenti 
di 
deindicizzazione, 
data 
la 
necessità 
di 
garantire 
una 
tutela 
effettiva 
nello 
spazio 
a-territoriale 
e 
globale 
della 
rete. 
Su 
questo 
aspetto 
si 
è 
recentemente 
pronunciata 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
(nella 
causa 
C507/
17, 
Google/CniL), 
la 
quale 
ha 
specificato 
che 
i 
gestori 
dei 
motori 
di 
ricerca 
sono 
tenuti 
a 
operare 
la 
deindicizzazione 
dei 
contenuti 
indicati 
dall’interessato 
nel 
solo 
ambito 
territoriale 
di 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
dell’unione. 


In conclusione, il 
diritto alla 
deindicizzazione 
rappresenta 
il 
crocevia 
tra 
la 
disciplina 
della 
tutela 
dei 
dati 
personali 
e 
il 
diritto 
processuale 
penale 
ed 
esprime 
la 
necessità 
più 
ampia 
di 
adattare 
la 
disciplina 
del 
processo 
penale 
alle 
nuove 
esigenze 
della 
società 
digitale, collegandosi 
con il 
recente 
decreto 
legislativo 
di 
attuazione 
della 
direttiva 
ue 
2016/343 
in 
materia 
di 
presunzione 
di innocenza approvato l’8 novembre 2021 (63). 

(63) Il 
D.lgs. 8 novembre 
2021, n. 188, in vigore 
dal 
14 dicembre 
2021, rende 
conforme 
la 
normativa 
italiana 
alle 
indicazioni 
euro-unitarie 
in tema 
di 
presunzione 
di 
innocenza. Sul 
tema, v. F. MA-
RenGhI, 
“Diritto 
alla 
presunzione 
di 
innocenza 
e 
nuovi 
strumenti 
di 
tutela”, 
su 
altalex.com, 
febbraio 
2022. L’art. 2 del 
nuovo decreto ha 
introdotto un divieto espresso per le 
pubbliche 
autorità 
di 
indicare 
pubblicamente 
come 
colpevole 
la 
persona 
indagata 
o imputata, fino al 
momento in cui 
la 
colpevolezza 
non 
sia 
accertata 
con 
sentenza 
o 
decreto 
penale 
di 
condanna 
irrevocabili. 
Se 
tale 
disposizione 
viene 
violata, 
oltre 
alle 
conseguenze 
penali, 
disciplinari 
e 
risarcitorie 
già 
previste 
dall’ordinamento, 
è 
ora 
possibile 
per 
l’interessato 
richiedere 
alla 
stessa 
autorità 
dichiarante 
la 
rettifica 
della 
dichiarazione 
lesiva 
del 
diritto 
alla 
presunzione 
di 
innocenza. 
Se 
l’autorità 
ritiene 
fondata 
la 
richiesta, 
si 
può 
procedere 
immediatamente 
(o 
comunque 
non 
oltre 
48 
ore) 
alla 
rettifica, 
altrimenti 
l’autorità 
può 
non 
accogliere 
la 
richiesta, 
ove 
questa 
risulti 
infondata. In questo ultimo caso, e 
nel 
caso in cui 
la 
rettifica 
non rispetti 
le 
modalità 
di 
pubblicazione 
previste, l’interessato può ricorrere 
al 
tribunale 
ex 
art. 700 c.p.c., al 
fine 
di 
ottenere 
l’ordine 
diretto all’autorità 
di 
pubblicazione 
della 
rettifica. L’art. 3 della 
novella 
legislativa 
modifica 
la 
disciplina 
dei 
rapporti 
tra 
Pubblico 
Ministero 
e 
gli 
organi 
di 
informazione, 
introducendo 
le 
seguenti 
previsioni: 
«il 
procuratore 
della repubblica (o il 
magistrato dell’ufficio appositamente 
delegato) mantengono 
i 
rapporti 
con gli 
organi 
di 
informazione 
esclusivamente 
tramite 
comunicati 
ufficiali, oppure 
nei 
casi 
di 
particolare 
rilevanza pubblica dei 
fatti, e 
sulla base 
di 
determinazione 
assunta con atto motivato 
che 
dia conto delle 
specifiche 
ragioni 
di 
interesse 
pubblico -tramite 
conferenze 
stampa; la diffusione 
di 
informazioni 
sui 
procedimenti 
penali 
è 
d’ora innanzi 
consentita soltanto quando strettamente 
necessaria per 
la prosecuzione 
delle 
indagini 
o in presenza di 
altre 
specifiche 
ragioni 
di 
interesse 
pubblico; 
nei 
casi 
in cui 
la diffusione 
di 
informazioni 
sui 
procedimenti 
penali 
è 
consentita, il 
procuratore 
della 
repubblica 
può 
autorizzare 
(con 
atto 
motivato) 
gli 
ufficiali 
di 
polizia 
giudiziaria 
a 
fornire, 
tramite 
comunicati 
ufficiali 
o conferenze 
stampa, informazioni 
sugli 
atti 
di 
indagine 
compiuti; nei 
comunicati 
e 
nelle 
conferenze 
stampa è 
vietato assegnare 
ai 
procedimenti 
pendenti 
denominazioni 
lesive 
della presunzione 
di 
innocenza. La vigilanza sul 
rispetto di 
tali 
modalità e 
divieti 
è 
affidata al 
Procuratore 
Generale 
presso la Corte 
di 
appello». Anche 
l’art. 329 c.p.p., in tema 
di 
segreto sugli 
atti 
di 
indagine, è 
stato 
modificato, 
con 
la 
previsione 
che 
il 
Pubblico 
Ministero 
possa 
autorizzare 
la 
pubblicazione 
di 
singoli 
atti 
o parti 
di 
essi 
soltanto qualora 
ciò sia 
«strettamente» necessario per la 
prosecuzione 
delle 
indagini. 
un’altra 
novità 
importante 
è 
rappresentata 
dal 
nuovo art. 115-bis 
c.p.p. sulla 
garanzia 
della 
presunzione 
di 
innocenza: 
«nei 
provvedimenti 
diversi 
da 
quelli 
che 
decidono 
della 
responsabilità 
penale 
dell’imputato 
(e 
con esclusione 
degli 
atti 
del 
pubblico ministero volti 
a dimostrare 
la colpevolezza della persona interessata), 
la persona indagata o imputata non può essere 
indicata come 
colpevole, fino a quando la 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Si 
tratta 
di 
una 
misura 
che 
rientra 
tra 
quelle 
previste 
dal 
PnRR in ambito 
penale 
per limitare 
la 
diffusione 
delle 
notizie 
sui 
procedimenti 
penali, avendo 
riguardo 
delle 
dichiarazioni 
delle 
autorità 
pubbliche 
e 
dei 
rapporti 
con 
la 
stampa (64). 


4. algoritmo e contratto. 
L’algoritmo ha 
determinato oggi 
un “mutamento genetico” 
del 
contratto, 
destinato 
ad 
evolversi 
da 
strumento 
di 
“concretizzazione” 
dell’autonomia 
privata 
ex 
art. 
1322 
c.c. 
a 
strumento 
totalmente 
“eterodeterminato”. 
La 
tecnologia 
si 
inserisce 
nelle 
dinamiche 
contrattuali 
e 
decide 
in 
luogo 
delle 
parti, 
superando 
le 
impostazioni 
concettuali 
sia 
del 
giusrealismo 
che 
del 
giusformalismo, 
volti 
a 
definire 
il 
concetto della 
giustizia 
contrattuale 
come 
principio di 
equilibrio. 
La 
nozione 
funzionale 
della 
“causa”, intesa 
come 
“causa 
in concreto”, 
funzione 
economico-individuale, 
si 
evolve, 
così, 
sempre 
più 
in 
“considera


colpevolezza non è 
stata accertata con sentenza o decreto penale 
di 
condanna irrevocabili; in caso di 
violazione, la persona interessata può, nei 
dieci 
giorni 
successivi, richiedere 
la correzione 
del 
provvedimento, 
quando 
è 
necessario 
per 
salvaguardare 
la 
presunzione 
di 
innocenza 
nel 
processo. 
Sull’istanza 
di 
correzione 
il 
giudice 
provvede, 
con 
decreto 
motivato, 
entro 
quarantotto 
ore 
dal 
suo 
deposito. 
il 
decreto 
è 
notificato all’interessato e 
alle 
altre 
parti 
e 
comunicato al 
pubblico ministero, i 
quali 
nei 
dieci 
giorni 
successivi 
possono 
proporre 
opposizione 
al 
presidente 
del 
tribunale 
o 
della 
corte; 
nei 
provvedimenti 
diversi 
da quelli 
che 
decidono della responsabilità penale 
dell’imputato e 
che 
tuttavia presuppongono 
la valutazione 
di 
prove, elementi 
di 
prova o indizi 
di 
colpevolezza, l’autorità giudiziaria deve 
limitare 
i 
riferimenti 
alla colpevolezza della persona indagata o imputata a quanto necessario (presupposti, requisiti 
e condizioni) per l’adozione del provvedimento». 


(64) 
In 
conclusione, 
si 
può 
accennare 
alla 
problematica 
relativa 
all’acquisibilità 
delle 
testimonianze 
degli 
assistenti 
vocali 
nel 
processo penale. Sappiamo che 
è 
dal 
2015 che 
negli 
Stati 
uniti 
alexa 
assume 
le 
vesti 
di 
vero e 
proprio testimone 
nel 
processo: 
il 
caso più recente 
si 
è 
verificato nel 
luglio del 
2019, in Florida, quando un uomo è 
stato accusato di 
aver ucciso la 
fidanzata 
nella 
loro abitazione. Gli 
inquirenti, tramite 
mandato di 
perquisizione, hanno analizzato le 
registrazioni 
del 
dispositivo di 
assistenza 
vocale 
presente 
in casa, per ottenere 
indizi 
o prove 
sull’accaduto. Sul 
tema, vedi 
F. ZAMBonIn, 
“alexa 
testimone 
in 
un 
caso 
di 
omicidio”, 
su 
il 
tuo 
legale, 
2019 
e 
A. 
BenVeGnù, 
“alexa, 
unica 
testimone 
di 
un omicidio. e 
(legittime) domande 
sulla nostra privacy”, su nera-Mente, 2020. Per quanto riguarda 
la 
normativa 
italiana, in astratto, le 
registrazioni 
degli 
smart 
assistant 
e 
le 
trascrizioni 
possono essere 
utilizzate 
nel 
processo nel 
rispetto della 
disciplina 
penalistica 
e 
civilistica. Il 
problema 
che 
si 
pone 
è 
che 
la 
registrazione 
sonora 
di 
una 
conversazione 
da 
parte 
di 
un 
soggetto 
che 
ne 
sia 
parte 
presuppone, 
di 
norma, 
il 
consenso 
anche 
degli 
altri 
interlocutori, 
tranne 
però 
il 
caso 
in 
cui 
la 
raccolta 
dei 
dati 
intervenga 
per 
far 
valere 
o 
difendere 
un 
diritto 
in 
sede 
giudiziaria 
o 
stragiudiziale 
(Cass. 
Civ., 
sent. 
n. 
11322/2018). 
Inoltre, se 
l’interlocutore 
registra 
la 
conversazione 
all’insaputa 
dell’altro, non si 
configura 
la 
fattispecie 
dell’intercettazione, bensì 
una 
mera 
modalità 
di 
documentazione 
dei 
contenuti 
già 
nella 
disponibilità 
di 
chi 
effettua 
la 
registrazione, con la 
possibilità 
di 
trasporre 
il 
contenuto nel 
processo attraverso la 
testimonianza 
(Cass. Pen. Sez. II, sent. n. 19158/2015). Comunque, in Italia 
non c’è 
ancora 
una 
normativa 
specifica 
che 
si 
occupi 
dell’acquisizione 
della 
testimonianza 
dei 
dispositivi 
di 
assistenza 
vocale: 
in dottrina 
si 
sta 
facendo 
riferimento 
ad 
un 
possibile 
futuro 
ingresso 
nel 
procedimento 
penale 
delle 
registrazioni 
tramite 
smart 
speaker 
come 
prova 
atipica 
(ex 
art. 
189 
c.p.p. 
-che 
così 
dispone: 
«Quando 
è 
richiesta 
una prova non disciplinata dalla legge, il 
giudice 
può assumerla se 
essa risulta idonea ad assicurare 
l'accertamento dei 
fatti 
e 
non pregiudica la libertà morale 
della persona. il 
giudice 
provvede 
all'ammissione, 
sentite 
le 
parti 
sulle 
modalità di 
assunzione 
della prova» -articolo concepito come 
“valvola 
di sicurezza” per convogliare il progresso scientifico all’interno del processo penale). 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


tion”, 
in 
valore 
e 
certezza 
delle 
prestazioni. 
Questo 
fenomeno 
evolutivo 
si 
coglie 
nella 
figura 
degli 
smart-contract: 
pur non essendo dei 
contratti 
in senso 
giuridico possono integrare 
atti 
della 
vicenda 
contrattuale, laddove 
gli 
algoritmi 
che 
li 
costituiscono siano programmati 
per il 
compimento di 
atti 
che 
costituiscono 
fasi 
(o 
esauriscono) 
la 
conclusione 
o 
esecuzione 
del 
contratto. 
uno 
smart-contract 
o più smart-contract 
possono essere 
programmati 
in maniera 
tale 
da 
individuare 
quando 
coincidono 
le 
richieste 
di 
due 
o 
più 
parti 
ai 
fini 
della 
conclusione 
di 
un 
contratto 
ovvero 
per 
trasferire 
un 
determinato 
bene 
digitale 
al 
verificarsi 
di 
una 
certa 
condizione, avendo intercettato un algoritmo 
che 
è 
programmato 
per 
il 
pagamento 
al 
verificarsi 
della 
medesima 
condizione. 
Ad esempio, un protocollo può essere 
istruito al 
fine 
di 
vendere/acquistare 
un 
certo 
tipo 
di 
bene 
(ad 
esempio, 
partecipazioni 
azionarie) 
una 
volta 
che 
il 
prezzo 
raggiunge 
una 
certa 
soglia 
o 
ulteriori 
condizioni 
vengano 
soddisfatte 
(secondo 
la 
sequenza 
informativa 
dell’if-then). è, altresì, possibile 
che 
uno smart-contract 
svolga 
un ruolo nella 
sola 
fase 
di 
esecuzione 
del 
contratto, prevedendo 
il 
pagamento online 
una 
volta 
che 
il 
bene 
sia 
consegnato al 
compratore. una 
delle 
manifestazioni 
più diffuse 
di 
smart-contract 
è 
quella 
dove 
gli 
stessi 
applicano 
un 
registro 
decentralizzato 
ai 
rapporti 
di 
scambio 
costituita 
dalla 
blockchain 
che 
è 
la 
tecnologia 
alla 
base 
del 
software 
protocollo 
bitcoin 
per 
il 
trasferimento moneta/valore digitale. 


La 
blockchain 
è 
una 
piattaforma 
senza 
intermediari 
-e 
perciò, decentralizzata, 
priva 
di 
sorveglianza 
o 
intervento 
di 
terzi 
sulle 
operazioni 
-per 
la 
conclusione, 
formalizzazione 
e 
gestione 
di 
rapporti 
di 
scambio digitali 
(ambiente 
informatico 
dematerializzato) 
di 
beni 
immateriali/dematerializzati. 
Il 
controllo 
è 
decentralizzato 
grazie 
ad 
un 
data 
base 
pubblico 
e 
condiviso 
da 
tutti 
i 
c.d. 
miner 
del 
network, rappresentati 
da 
tutti 
gli 
utenti 
del 
Bitcoin. Il 
sistema 
dei 
registri 
decentralizzati 
opera 
come 
un 
sistema 
di 
contabilità 
e 
i 
blocchi 
di 
operazioni 
vengono man mano validati 
ed eseguiti 
con una 
tempistica 
serrata 
di 
dieci 
minuti, in maniera 
tale 
da 
non poter essere 
modificati 
dopo questo intervallo. 
oltre 
alla 
pseudonimia 
degli 
utenti, l’utilità 
di 
questo registro decentralizzato 
sta 
nel 
fatto 
che, 
tramite 
la 
piattaforma, 
qualsiasi 
bene 
virtuale 
o 
tangibile, 
ma 
rappresentato 
digitalmente, 
può 
essere 
trasferito 
mediante 
la 
stessa 
ed è 
registrato in maniera 
indelebile. Questa 
tecnologia 
veloce 
riduce 
i 
rischi 
di 
errori 
dell’intermediario 
e, 
se 
si 
guarda 
al 
funzionamento 
della 
blockchain 
dalla 
prospettiva 
delle 
vicende 
giuridiche 
della 
fase 
esecutiva, appare 
evidente 
che 
l’automazione 
delle 
operazioni 
riduce 
il 
rischio 
di 
inadempimento 
contrattuale 
implicito 
nella 
conclusione 
del 
contratto. 
Si 
determina, 
così, 
la 
“certezza 
assoluta 
dell’adempimento contrattuale” 
con un automatismo certificato. 
L’esecuzione 
viene 
affidata 
ad 
una 
rete 
e 
non 
può 
essere 
influenzata 
una 
volta 
lanciato 
lo 
smart-contract 
nella 
blockchain. 
L’automazione 
può 
inerire 
esclusivamente 
la 
formazione 
di 
un contratto: 
ciò si 
realizza 
qualora 
un 
algoritmo sia 
impiegato nella 
definizione 
del 
contenuto contrattuale, deline



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


ando le 
obbligazioni 
delle 
parti 
prima 
o dopo la 
conclusione 
del 
contratto c.d. 
gap filler 
and loss 
distribution. Si 
parla, a 
tal 
proposito, di 
self-driving contracts, 
qualora 
le 
parti 
individuino 
un 
obiettivo 
comune, 
lasciando 
all’algoritmo, 
che 
in questo caso è 
una 
forma 
di 
intelligenza 
artificiale 
(analytics), il 
compito di 
definire 
il 
contenuto del 
contratto. un esempio del 
genere 
è 
chiaro 
in quelle 
assicurazioni 
in cui 
il 
premio varia 
a 
seconda 
dello stile 
di 
guida 
per 
come 
monitorato 
dall’applicazione 
app 
per 
smartphone 
che 
permette 
di 
conoscere 
l’esatta 
posizione 
del 
veicolo, la 
sua 
velocità 
e 
la 
quantità 
di 
chilometri 
percorsi. occorre, però, chiedersi: 
l’algoritmo può sostituire 
totalmente 
l’autonomia 
privata 
insita 
nella 
definizione 
giuridica 
del 
contratto 
ex 
art. 
1321 
c.c.? 
Allo stato attuale, la 
valutazione 
tramite 
analitycs 
non modifica 
automaticamente 
il 
contenuto/oggetto 
del 
contratto. 
un 
punteggio 
elevato 
corrisponde 
ad una 
certificazione 
di 
basso profilo di 
rischio e 
se 
l’assicurazione 
decide 
di 
inserire 
la 
valutazione 
nel 
calcolo 
delle 
tariffe, 
il 
cliente 
usufruisce 
di 
uno 
sconto 
al 
momento 
del 
rinnovo 
della 
polizza. 
Abbiamo 
poi 
i 
contratti 
c.d. 
High 
frequency 
Trading 
o dynamic 
pricing, o contratti 
ioT, come 
il 
servizio amazon’s 
Dash 
replenishment: 
quest’ultimo 
consente 
a 
dispositivi 
tra 
loro 
connessi 
tramite 
sensori 
di 
ordinare 
beni 
su 
Amazon, 
quando 
lo 
stesso 
si 
sta 
esaurendo presso l’utente del servizio. 

Fino 
a 
che 
punto, 
però, 
l’intelligenza 
artificiale 
può 
riprodurre 
il 
processo 
decisorio 
dell’uomo? 
La 
dottrina 
più 
autorevole 
è 
nel 
senso 
di 
ritenere 
che 
l’operare 
dell’algoritmo 
possa 
costituire 
dichiarazione, 
anche 
tacita, 
ovvero 
costituire 
inizio 
di 
esecuzione 
valevole 
alla 
conclusione 
del 
contratto 
o 
al 
compimento 
di 
altro 
atto 
esecutivo. 
Più 
critico 
appare 
affrontare 
il 
problema 
del 
malfunzionamento 
del 
programma 
o 
del 
governo 
della 
responsabilità. 
Il 
malfunzionamento 
dell’algoritmo 
va 
valutato 
nell’ambito 
della 
distribuzione 
del 
rischio 
contrattuale 
in 
un’accezione 
ampia, 
che 
non 
si 
riduce 
alla 
gestione 
delle 
sopravvenienze 
(thèorie 
dell’imprevisiòn 
o 
doctrine 
of 
frustation), 
ma 
al 
rischio 
di 
inadempimento 
che 
comporti 
la 
mancata 
soddisfazione 
economica 
dell’affare. 
Il 
malfunzionamento 
dell’algoritmo 
rientrerebbe 
nel 
caso 
fortuito 
o 
nel 
generale 
concetto 
di 
rischio 
nell’attività 
di 
impresa 
i 
cui 
costi 
devono 
essere 
allocati 
nella 
c.d. 
curva 
dell’indifferenza, 
volendo 
aderire 
alla 
teoria 
di 
analisi 
economica 
del 
diritto 
di 
Shavell. 
Ma 
se 
optiamo 
per 
una 
definizione 
di 
responsabilità 
basata 
sulla 
colpa, 
allora 
occorre 
considerare 
il 
grado 
di 
autonomia 
decisionale 
dell’algoritmo, 
ossia 
se 
è 
“mere 
tool”, 
o 
dotato 
di 
“ability 
to 
learn 
and 
decide”. 
Quest’ultima 
prospettiva 
è 
stata 
fatta 
propria 
dalla 
recente 
Risoluzione 
del 
Parlamento 
europeo 
del 
16 
febbraio 
2017 
recante 
Raccomandazione 
della 
Commissione 
concernente 
norme 
di 
diritto 
civile 
sulla 
robotica, 
che 
non 
solo 
pone 
un 
problema 
di 
riconoscimento 
della 
personalità 
elettronica 
per 
i 
robot 
autonomi 
e 
decisionali, 
ma 
anche 
di 
responsabilità 
contrattuale 
delle 
macchine. 
Di 
recente, 
la 
giurisprudenza 
ha 
evidenziato 
che 
gli 
algoritmi 
possono 
essere 
utilizzati 
nei 
contratti 
se 
le 
parti 
hanno 
contezza 
dei 
c.d. 
“schemi 
esecutivi”. 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


La 
Suprema 
Corte 
di 
Cassazione, sez. I civile, con ordinanza 
25 maggio 
2021, n. 14381, ha 
stabilito che 
«il 
consenso al 
trattamento di 
dati 
finalizzato 
all’elaborazione 
di 
profili 
reputazionali 
di 
singole 
persone 
fisiche 
e 
all’attribuzione 
di 
punteggi 
di 
affidabilità attraverso un algoritmo può dirsi 
“informato”, 
“specifico” 
e 
“consapevole” 
solo 
se 
il 
titolare 
rende 
conoscibile 
in 
modo trasparente 
agli 
interessati 
lo schema esecutivo dell’algoritmo e 
i 
parametri 
su cui si basa la valutazione dallo stesso svolta». 


Ma cosa significa conoscere lo schema esecutivo di un algoritmo? 


In via 
preliminare, occorre 
precisare 
che 
la 
decisione 
della 
Cassazione 
si 
pone 
in linea 
con quanto previsto dalle 
Guidelines 
on the 
protection of 
individuals 
with regard to the 
processing of 
personal 
data in a world of 
Big Data 
del 
gennaio 
2017, 
dalla 
Convention 
108 
e 
dalle 
Linee 
Guida 
del 
WP29 
relative 
alla 
trasparenza 
di 
aprile 
2018 e 
ai 
processi 
decisionali 
automatizzati 
relativi 
alle 
persone 
fisiche 
e 
alla 
profilazione 
di 
febbraio 
2018, 
ove 
viene 
sottolineata 
l’importanza 
che 
gli 
interessati 
siano adeguatamente 
informati 
sulle 
modalità 
di 
impiego dei 
propri 
dati 
personali 
nell’ambito dei 
processi 
elaborativi 
legati 
all’utilizzo dei 
Big Data. 


Le 
Guidelines, 
in 
particolare, 
prevedono 
che 
all’interessato 
siano 
illustrati 
i 
rischi 
legati 
all’utilizzo dei 
propri 
dati 
mediante 
tecnologie 
Big Data, così 
da 
evitare 
che 
vengano 
sottoposti 
a 
un 
trattamento 
che 
risulti 
in 
qualche 
modo 
non prevedibile 
o inappropriato. Ciò, anche, mediante 
la 
condivisione 
con gli 
interessati 
degli 
aspetti 
più 
rilevanti 
delle 
valutazioni 
di 
impatto 
dei 
trattamenti 
sottesi 
nei 
termini 
di 
cui 
all’art. 
35 
del 
GDPR 
che 
possono 
meglio 
chiarire 
modalità e termini dei trattamenti. 


Sulla 
base 
di 
tale 
previsione, 
secondo 
una 
certa 
impostazione 
dottrinaria, 
non 
esisterebbe 
solo 
il 
diritto 
di 
non 
esclusività 
di 
cui 
all’art. 
22 
del 
GDPR, 
ma 
un 
vero 
e 
proprio 
right 
to 
explanation, 
ossia 
uno 
specifico 
diritto 
degli 
interessati 
di 
conoscibilità 
delle 
modalità 
di 
funzionamento 
dell’algoritmo. 
tale 
diritto 
sarebbe 
enucleabile 
in 
via 
interpretativa 
dall’art. 
15 
del 
GDPR 
che 
statuisce 
il 
diritto 
di 
accesso 
degli 
interessati: 
muovendo 
da 
tale 
ricostruzione, 
i 
fautori 
di 
questa 
tesi 
giungono 
a 
definire 
un 
nuovo 
concetto 
di 
trasparenza 
in 
termini 
di 
legibility, 
da 
intendersi 
quale 
capacità 
degli 
interessati 
di 
capire 
autonomamente 
i 
dati 
e 
i 
parametri 
presi 
in 
considerazione 
dal 
titolare 
nelle 
sue 
elaborazioni. 


occorre, però, a 
questo punto chiedersi 
quale 
sia 
il 
livello di 
trasparenza 
da 
attuare 
e 
in 
che 
cosa 
concretamente 
dovrà 
tradursi 
l’esplicitazione 
dello 
“schema esecutivo” dell’algoritmo utilizzato per il trattamento dei dati. 

tale 
schema 
esecutivo potrà 
presentare 
una 
notevole 
complessità 
tecnica 
che 
il 
cittadino comune 
potrebbe 
anche 
non cogliere 
perfettamente. un articolato 
contenuto tecnico potrebbe, infatti, risultare 
eccessivo e 
non far realmente 
comprendere 
la 
logica 
algoritmica 
utilizzata, 
ma, 
anzi, 
scoraggiare 
il 
destinatario “medio” 
di 
servizi, anche 
molto complessi, da 
una 
reale 
ed effettiva 
comprensione 
del 
funzionamento 
degli 
stessi. 
L’eccessiva 
scrupolosità 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


tecnica 
nella 
descrizione 
delle 
logiche 
algoritmiche 
potrebbe 
non 
colmare 
quel 
deficit 
formativo 
dell’interessato, 
specie 
tenuto 
conto 
dell’efficacia 
media 
delle 
informative 
attualmente 
già 
distribuite, 
e 
indurre 
lo 
stesso 
a 
fornire 
comunque 
un consenso altrettanto non informato. 


Alla 
luce 
di 
quanto sopra 
osservato, rispetto agli 
elementi 
di 
cui 
si 
compone 
un 
algoritmo, 
infatti, 
deve 
ritenersi 
che 
la 
verifica 
possa 
essere 
svolta 
esclusivamente 
sui 
dati 
oggetto 
di 
trattamento 
e 
le 
relative 
finalità. 
ecco 
perché 
la 
lettera 
f) dell’articolo 13 del 
GDPR fa 
riferimento, quando declina 
l’onere 
informativo, alla “logica utilizzata” nel processo decisionale. 


La 
puntuale 
descrizione 
dei 
passaggi 
computazionali 
effettuati 
da 
un algoritmo 
e 
delle 
variabili 
prese 
in 
esame 
potrebbero 
non 
presentare 
quel 
livello 
di 
trasparenza 
che 
la 
Cassazione 
ha 
individuato come 
presupposto per la 
informata, 
valida 
e 
consapevole 
prestazione 
del 
consenso. 
Ciò, 
in 
quanto 
la 
consapevolezza 
del 
trattamento 
cui 
saranno 
sottoposti 
i 
dati 
si 
ritiene 
presupponga 
il 
possesso di 
molteplici 
conoscenze 
e 
“competenze 
trasversali” 
che 
consentono 
di comprendere quanto rappresentato dal titolare in sede informativa. 

In 
ambito 
farmaceutico, 
ad 
esempio, 
tale 
valutazione 
viene 
rimessa 
ad 
un 
soggetto 
terzo, 
come 
l’Aifa, 
in 
ambito 
nazionale 
e 
l’ema, 
in 
ambito 
europeo, 
che 
certifica, 
e 
quindi 
autorizza 
(anche 
con 
CMA, 
ossia 
conditional 
market 
authorisation), 
la 
commercializzazione 
di 
farmaci 
dei 
quali 
il 
cittadino 
comune 
non 
è 
in 
grado 
di 
valutare 
l’efficacia 
e 
la 
sicurezza 
per 
la 
propria 
salute, 
residuando 
in 
capo 
al 
paziente 
il 
solo 
diritto 
a 
conoscere 
la 
mera 
elencazione 
statistica 
delle 
possibili 
controindicazioni 
che 
potrebbero 
derivare 
dall’assunzione 
del 
farmaco. 


Inoltre, 
si 
osserva 
che 
il 
paragrafo 
6, 
dell’articolo 
5, 
del 
Regolamento 
2019/1150, 
cosiddetto 
Platform 
to 
Business, 
espressamente 
esclude 
che 
le 
piattaforme 
e 
i 
motori 
di 
ricerca 
abbiano l’obbligo di 
«rivelare 
algoritmi 
o informazioni
». 


Viene 
allora 
da 
chiedersi 
come 
bilanciare 
l’obbligo di 
trasparenza 
con le 
necessarie 
tutele 
degli 
investimenti 
realizzati 
dai 
privati 
e 
con il 
principio di 
accountability 
che governa il GDPR. 

nel 
settore 
farmaceutico, 
si 
osserva 
come 
la 
trasparenza 
della 
formula 
chimica, 
non 
algoritmica, 
sia 
subordinata 
al 
riconoscimento 
di 
un 
diritto 
di 
privativa 
rappresentato dal 
brevetto che 
consente 
al 
privato di 
non veder pregiudicati 
gli investimenti di sviluppo sostenuti. 


nel 
settore 
limitrofo 
dell’alimentazione, 
la 
trasparenza 
della 
formula 
è 
sostituita 
dalla 
elencazione 
degli 
ingredienti, 
cosicché 
vengono 
comunemente 
commercializzate 
bibite 
gassate 
di 
cui 
si 
conoscono gli 
ingredienti, ma 
non la 
esatta 
composizione 
e 
il 
cui 
oggetto costituisce, dopo decine 
di 
anni, il 
vantaggio 
commerciale su cui è stato costruito un impero economico. 

In questo senso, deve 
dedursi 
che 
il 
diritto di 
accesso di 
cui 
all’art. 15 del 
GDPR 
trovi 
un 
limite 
nei 
diritti 
del 
titolare 
di 
non 
svelare 
tutti 
i 
passaggi 
computazionali 
dell’algoritmo impiegato per l’elaborazione 
effettuata, in quanto 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


“segreto industriale”, atteso che 
il 
“segreto” 
costituisce 
la 
miglior protezione 
possibile, 
anche 
rispetto 
alle 
forme 
di 
privative 
tradizionali 
del 
diritto 
di 
autore 
e 
del 
brevetto, sia 
rispetto agli 
algoritmi 
che 
con riferimento ai 
loro prodotti. 
L’art. 
121-ter 
del 
D.lgs. 
30/2005, 
ove 
è 
stata 
recepita 
la 
direttiva 
943/2016, 
legittima 
la 
conoscibilità 
dei 
segreti 
industriali 
da 
parte 
di 
terzi 
esclusivamente 
nei 
procedimenti 
giurisdizionali, 
non 
anche 
nel 
corso 
di 
istruttorie 
amministrative 
come 
quella 
svolta 
dal 
Garante, sebbene 
la 
direttiva 
europea 
genericamente 
parlasse 
di 
conoscibilità 
dei 
segreti 
da 
parte 
delle 
autorità 
pubbliche. 
Peraltro, 
l’indicazione 
risulta 
confermata 
dall’art. 
5 
del 
Regolamento 
P2B, 
che 
circoscrive 
il 
potere 
di 
analisi 
e 
verifica 
delle 
autorità 
statali 
alla 
disamina 
dei 
“criteri 
generali” 
usati 
ai 
fini 
del 
posizionamento. Anche 
in tale 
caso, comunque, 
è 
l’Agcom 
ad essere 
competente 
ad effettuare 
le 
relative 
verifiche, senza 
pregiudizio della segretezza degli algoritmi sviluppati. 


In 
che 
termini, 
allora, 
deve 
svolgersi 
la 
c.d. 
valutazione 
di 
impatto 
“Dpia” 
sul 
trattamento dei 
dati? 
La 
valutazione 
eseguita 
dal 
titolare 
può dirsi 
sufficiente 
a 
garantire 
l’interessato, se 
ancora 
oggi 
non esistono modalità 
di 
misurazione 
dei 
rischi 
certe 
ed 
univoche 
(programma 
del 
Cnil, 
tool 
di 
enisa, 
ecc.)? 


Viene, 
in 
altri 
termini, 
da 
chiedersi 
se 
non 
possa 
prevedersi 
la 
facoltà, 
per 
i 
titolari 
del 
trattamento che 
vogliono effettuare 
nuove 
forme 
di 
trattamento 
incentrate 
sulla 
intelligenza 
artificiale 
e 
su 
elaborazioni 
algoritmiche, 
di 
rivolgersi, 
in ottica 
di 
preventiva validazione, all’autorità 
di 
controllo con meccanismi 
celeri 
di 
valutazione, 
compatibili 
con 
i 
tempi 
di 
sviluppo 
dell’attività 
imprenditoriale, 
anche 
prevedendo 
dei 
contributi 
finanziari 
volti 
a 
coprire 
i 
relativi costi amministrativi. 

è, 
d’altronde, 
riconosciuta 
e 
condivisa 
la 
circostanza 
per 
cui 
i 
trattamenti 
dei 
dati 
legati 
alle 
nuove 
tecnologie 
presentino 
delle 
specificità 
che 
richiedono 
un nuovo approccio dinamico basato su una 
due 
diligence 
in ragione 
dell’impossibilità 
di 
definire 
ex 
ante 
tutte 
le 
finalità 
del 
trattamento, anche 
in ragione 
della 
impossibilità 
di 
predeterminare 
tutti 
gli 
output 
informativi 
e 
i 
relativi 
utilizzi 
da 
parte 
del 
titolare. Ciò, soprattutto, nelle 
ipotesi, come 
quella 
su cui 
si 
è 
pronunciata 
la 
Cassazione, 
ove 
il 
trattamento 
viene 
a 
coincidere 
esattamente 
con il servizio prestato dal titolare. 


L’art. 
32 
del 
GDPR 
sancisce 
il 
principio 
dell’accountability: 
tale 
principio 
comporta 
che 
sia 
il 
titolare 
del 
trattamento 
a 
determinare 
le 
misure 
di 
sicurezza 
designate 
al 
trattamento dei 
dati 
personali, che 
effettua 
“tenendo conto dello 
stato dell’arte 
e 
dei 
costi 
di 
attuazione, nonché 
della natura, dell’oggetto, del 
contesto e 
della finalità del 
trattamento, come 
anche 
del 
rischio di 
varia probabilità 
e 
gravità 
per 
i 
diritti 
e 
le 
libertà 
delle 
persone 
fisiche”. 
In 
questo 
caso, 
come 
in 
altri, 
il 
legislatore 
affida 
al 
titolare 
l’onere 
di 
individuare 
in 
che 
modo 
adempiere 
alle 
prescrizioni 
dettate 
dalla 
norma, 
calandola 
nella 
fattispecie 
concreta, 
assumendosi 
la 
responsabilità 
non 
solo 
della 
implementazione, 
ma 
anche 
della valutazione. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Con 
riguardo 
alle 
applicazioni 
di 
intelligenza 
artificiale, 
un 
tentativo 
di 
formulare 
un 
modello 
di 
responsabilità 
non 
può 
prescindere 
da 
una 
combinazione, 
da 
un 
lato, 
dell’accountability 
del 
titolare 
del 
trattamento, 
dall’altro, 
da 
una 
formulazione 
che 
prescinde 
dagli 
elementi 
soggettivi, 
nonché 
dalla 
individuazione 
dell’errore, 
“issue 
of 
liability”, 
“issue 
of 
permittance”, 
“responsability 
gap”. 


Se 
è 
vero 
che 
il 
modello 
di 
protezione 
dei 
dati 
deve 
essere 
dinamico 
e 
non 
statico, 
il 
principio 
dell’accountability 
basato 
sull’autodeterminazione 
non può essere 
idoneo a 
regolare 
l’intelligenza 
artificiale 
e 
i 
Big data, per i 
quali 
la 
determinabilità 
a priori 
dei 
processi 
di 
elaborazione 
non è 
scontata 
e 
nelle quali la finalità del trattamento non potrebbe essere chiara. 

Questo perché 
l’algoritmo AI 
self 
learning, nato buono, può travalicare 
in 
“malware”(malicious 
software) 
a 
causa 
del 
suo 
addestramento. 
Quindi, 
anche 
il 
consenso 
inequivoco, 
specifico, 
consapevole 
non 
può 
costituire 
l’unico strumento di 
tutela 
in una 
dimensione 
globale 
del 
trattamento dei 
dati. 

“Methaphorically, 
it 
is 
a 
law 
of 
the 
sea 
were 
based 
on 
the 
principle 
of 
controlling 
every 
drop 
of 
water 
in 
the 
oceans 
according 
to 
its 
origin” 
(Sembra 
quasi 
che 
si 
tenti 
di 
governare 
le 
onde 
del 
mare 
goccia a goccia, individualmente 
considerando la goccia): così Bergè Grumbach (65). 


L’ideatore 
dell’algoritmo dovrebbe 
essere 
ritenuto responsabile 
non solo 
verso il 
committente, ma 
anche 
verso i 
terzi 
lesi 
dall’entità 
intelligente, configurando 
un risarcimento del 
danno da 
IA 
in base 
al 
criterio di 
“provenienza 
prossima”. 


Si 
entra 
così 
nella 
sfera 
del 
“tecnodiritto”: 
responsabilità 
della 
machine 
learning, 
deep 
learning, 
responsabilità 
del 
produttore, 
dell’ideatore 
dell’algoritmo, 
dell’addestratore 
self 
learning, 
al 
di 
là 
del 
pensiero 
computazionale, 
responsabilità 
da 
prodotto 
product 
liability 
(labile 
confine 
tra 
“prodotto” 
e 
“servizio” 
nel 
settore 
dell’IA) 
ed 
anche 
responsabilità 
ex 
art. 
2051 
c.c. 
da 
cose 
in custodia 
e 
responsabilità 
per attività 
pericolosa 
ex 
art. 2050 c.c., anche 
in 
relazione all’elevata incidenza del “rischio da sviluppo”. 


Ma 
se 
l’intelligenza 
artificiale 
è 
autoevolutiva, 
allora 
si 
potrebbe 
attribuire 
a 
tale 
entità 
la 
c.d. 
personalità 
giuridica 
elettronica: 
Teubner 
per 
primo 
ha 
parlato 
di “soggetti giuridici digitali”. 


Allora, ecco che 
si 
compie 
il 
salto quantico: 
il 
passaggio dal 
“bene” 
ad 
“essere”, “machine 
sapiens”o “machine 
senties” 
con autocoscienza, da 
“antropomorfizzazione” 
al concetto di “entità dotata da autonomia”. 

Da 
qui, il 
concetto di 
responsabilità 
da 
atto lecito, Gefahrdungshaftung 
invocata 
per i 
soggetti 
giuridici 
digitali. L’IA 
si 
nutre 
di 
Big Data: 
la 
sua 
capacità 
di 
crescita 
è 
inversamente 
proporzionale 
al 
tasso 
di 
tutela 
della 
privacy, 
maggiore è l’accesso ai dati, maggiore è la sua capacità di crescita. 


(65) Z. ZenCoVICh, “The 
Datasphere, Data flows 
beyond control 
and the 
challenges 
for 
law and 
governance”, in european Journal of Comparative Law and Governance, V, 2019/162. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


La 
qualità 
dei 
dati 
diventa, 
come 
sopra 
già 
esposto, 
essenziale: 
da 
dati 
qualitativamente 
non 
corretti, 
non 
possono 
che 
scaturire 
elaborazioni 
non 
corrette, 
secondo 
il 
noto 
principio 
“garbage 
in, 
garbage 
out”, 
sulla 
base 
dello 
“Human in command”. 


è 
evidente 
il 
contrasto che 
emerge, da 
un lato, tra 
l’esigenza 
di 
disporre 
di 
un’ingente 
mole 
di 
dati 
ai 
fini 
dello sviluppo di 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale, 
e, dall’altro, la 
necessità 
di 
conservare 
il 
principio di 
proporzionalità 
e 
di 
minimizzazione 
dettato dal 
Regolamento 679/2016, secondo cui 
il 
trattamento 
dovrebbe 
avere 
ad oggetto soltanto i 
dati 
strettamente 
necessari 
e 
pertinenti 
rispetto alle finalità perseguite. 

tale 
tensione 
impone 
necessariamente 
un 
bilanciamento 
di 
interessi, 
che 
vede 
contrapposti 
il 
diritto 
alla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
e 
l’esigenza 
di 
disporre 
dei 
dati 
personali 
per 
sviluppare 
le 
applicazioni 
di 
intelligenza 
artificiale. 


Ci 
si 
è 
chiesti 
(66) 
se 
il 
titolare 
del 
trattamento 
(c.d. 
“controller”) 
possa 
essere 
la 
stessa 
applicazione 
di 
intelligenza 
artificiale, 
o 
se 
si 
preferisce, 
il 
robot. 


La 
definizione 
di 
titolare 
del 
trattamento 
contenuta 
nel 
Regolamento 
(art. 
4, 
n. 
7) 
indica 
che 
il 
titolare 
debba 
essere 
una 
persona 
giuridica 
o 
fisica 
o, 
comunque, 
soggetto 
giuridico 
(“il 
titolare 
del 
trattamento 
è 
la 
persona 
fisica 
o 
giuridica, 
l’autorità 
pubblica, 
il 
servizio 
o 
altro 
organismo 
che, 
singolarmente 
o 
insieme 
ad 
altri, 
determini 
la 
finalità 
e 
i 
mezzi 
di 
trattamento 
dei 
dati 
personali”). 


Se 
l’applicazione 
non ha 
soggettività 
giuridica, evidentemente 
non può 
essere 
titolare. Ma 
l’attribuzione 
di 
soggettività 
giuridica 
deve 
corrispondere 
ad 
una 
precisa 
e 
consapevole 
scelta 
metodologica 
e 
fondare 
un 
nuovo 
approccio 
al tema della responsabilità. 

Ai 
sensi 
dell’art. 
4, 
n. 
8 
del 
GDPR, 
il 
responsabile 
del 
trattamento 
(c.d. 
“processor”) 
è 
“la 
persona 
fisica 
o 
giuridica, 
o 
l’autorità 
pubblica, 
il 
servizio 
o 
altro 
organismo 
che 
tratta 
dati 
personali 
per 
conto 
del 
titolare 
del 
trattamento”. 


Se 
all’applicazione 
non viene 
attribuita 
una 
disponibilità 
economica 
e 
se 
non viene 
ridisegnato un regime 
di 
responsabilità 
che 
prescinda 
da 
elementi 
soggettivi, 
evidentemente 
non 
riferibili 
all’applicazione, 
l’attribuzione 
di 
soggettività 
giuridica 
alle 
applicazioni 
di 
intelligenza 
artificiale 
e 
ai 
robot 
diviene 
un atto non qualificabile 
giuridicamente. Lo stesso argomento si 
può svolgere 
per 
la 
designazione 
dei 
robot 
quale 
responsabile 
del 
trattamento. 
Anche 
in 
questo 
caso la 
designazione 
del 
robot 
quale 
responsabile 
richiede 
la 
soggettività 
giuridica 
del 
medesimo, 
soggettività 
che 
non 
può 
essere, 
tuttavia, 
fine 
a 
sé 
stessa, ma che si deve inserire in un nuovo modello di responsabilità. 


Chi 
è 
il 
soggetto responsabile 
nel 
caso di 
danni 
cagionati 
da 
un’applica


(66) 
F. 
PIZZettI, 
“intelligenza 
artificiale, 
protezione 
dei 
dati 
personali 
e 
regolazione”, 
torino, 
2018. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


zione 
di 
intelligenza 
artificiale? 
(67). In particolare, l’attenzione 
si 
focalizza 
sui 
casi 
in cui 
l’esito dell’elaborazione 
effettuata 
dalla 
applicazione 
di 
intelligenza 
artificiale 
non sia 
del 
tutto controllabile 
a 
priori 
e 
sia 
caratterizzato da 
un certo grado di 
imprevedibilità: 
non sia, cioè, un processo deterministico, 
ma sia caratterizzato da una certa autonomia elaborativa. 

Si 
discute 
se 
sia 
l’autore 
del 
programma, 
il 
produttore, 
il 
venditore 
o 
l’utilizzatore 
che 
ne 
trae 
vantaggio. 
nella 
consapevolezza 
che 
ogni 
fenomeno 
nuovo richiede 
nuove 
norme, il 
tema 
della 
responsabilità 
nelle 
applicazioni 
di 
intelligenza 
artificiale 
richiede 
un 
approccio 
nuovo 
e 
basato 
su 
un 
modello 
concettuale differente, per rubare un termine alla tecnologia, “disruptive”. 


occorre 
superare 
il 
paradigma 
basato sull’errore 
e 
sulla 
colpa 
e, invece, 
affrontare il tema sotto il profilo dell’“allocazione del rischio”. 


occorre 
prevedere 
meccanismi 
di 
allocazione 
del 
costo del 
danno cagionato 
su 
quei 
soggetti 
che 
astrattamente 
potrebbero 
essere 
responsabili, 
ad 
esempio, 
mediante 
la 
costituzione 
di 
un 
fondo 
al 
quale 
attingere, 
prescindendo 
dall’individuazione delle modalità dell’incidente o dell’errore. 


Analogo meccanismo è 
stato previsto nel 
circuito delle 
carte 
di 
credito, 
per il caso di danneggiamento o furto. 

uno degli 
obiettivi 
perseguiti 
con questo tipo di 
sistema 
di 
allocazione 
del 
rischio è 
immediatamente 
evidente 
ed è 
quello di 
rassicurare 
i 
potenziali 
utilizzatori 
sul 
fatto che, a 
prescindere 
dagli 
esiti 
di 
una 
costosa 
ricerca 
del-
l’errore, otterranno un risarcimento. 

A 
tal 
proposito, 
è 
stata 
significativa 
la 
Risoluzione 
del 
Parlamento 
europeo 
del 
16 
febbraio 
2017 
-recante 
raccomandazioni 
alla 
Commissione 
concernenti 
norme 
di 
diritto 
civile 
sulla 
robotica 
(2015/2103 
InL) 
-ove 
la 
Commissione 
europea 
è 
invitata 
a 
valutare 
talune 
soluzioni 
giuridiche 
possibili 
in 
relazione 
al 
regime 
di 
responsabilità 
dei 
robot, 
tra 
cui 
«l’istituzione 
di 
uno 
status 
giuridico 
specifico 
per 
i 
robot 
nel 
lungo 
termine 
(...), 
nonché 
eventualmente 
il 
riconoscimento 
della 
personalità 
elettronica 
dei 
“robot” 
(par. 
59, 
lett. 
f)». 


Come 
si 
concilia, però, il 
concetto di 
decisione 
robotizzata 
o automatizzata 
con il principio di 
accountability? 


Il 
termine 
accountability 
può essere 
tradotto in responsabilità 
e, insieme, 


(67) 
Il 
tema 
è 
molto 
ampio. 
In 
ambito 
penale 
si 
vedano 
i 
contributi 
di 
G. 
hALLeVy, 
“The 
Criminal 
Liability 
of 
artificial 
intelligence 
entities 
-from 
Science 
fiction to Legal 
Social 
Control”, in akron intellectual 
Property 
Journal, 
2010; 
“i, 
robot 
-i, 
Criminal 
-When 
Science 
fiction 
Becomes 
reality: 
Legal 
Liability 
of 
ai robots 
committing Criminal 
offences”, in 
Syracuse 
Science 
& 
Technology 
Law 
reporter, 2010; 
“Virtual 
Criminal 
responsibility”, in original 
Law review, 2010; 
“Dangerous 
robots 
-artificial 
intelligence 
vs. Human intelligence”; 
“Unmanned Vehicles: Subordination to Criminal 
Law 
under 
the 
Modern Concept 
of 
Criminal 
Liability”, in Journal 
of 
Law, 
information and Science, 2012; 
“When 
robots 
Kill. 
artificial 
intelligence 
under 
Criminal 
Law”, 
Boston, 
2013; 
“Liability 
for 
Crimes 
involving 
artificial 
intelligence 
Systems”, 
Springer 
(Dordrecht), 
2015; 
S. 
RIonDAto, 
“robotica 
e 
diritto 
penale 
(robot, 
ibridi, 
chimere, 
“animali 
tecnologici”)”, 
in 
D. 
PRoVoLo, 
S. 
RIonDAto, 
F. 
yenISey 
(a 
cura 
di), “Genetics, robotics, Law, Punishment”. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


prova 
della 
responsabilità. Il 
titolare 
del 
trattamento deve 
essere 
in grado di 
dimostrare 
che 
ha 
adottato un processo complessivo di 
misure 
giuridiche, organizzative, 
tecniche 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
anche 
attraverso 
l’adozione 
di 
specifici 
modelli 
organizzativi 
che 
si 
possono pensare 
analoghi 
a quelli utilizzati in Italia nell’applicazione del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. 

Le 
norme 
del 
regolamento sull’accountability 
hanno, dunque, lo scopo 
di 
promuovere 
l’adozione 
di 
misure 
concrete 
e 
pratiche, trasformando i 
principi 
generali 
della 
protezione 
dei 
dati 
in politiche 
e 
procedure 
organizzative 
concrete, nel 
rispetto delle 
leggi 
e 
dei 
regolamenti 
applicabili. Il 
titolare 
del 
trattamento 
deve 
anche 
garantire 
l’efficacia 
delle 
misure 
adottate 
e 
dimostrare, 
su richiesta, di aver intrapreso tali azioni. 

In 
altre 
parole, 
l’accountability 
è 
un 
meccanismo 
a 
due 
livelli: 
da 
un 
lato, 
l’attuazione 
di 
misure 
e 
procedure, 
e 
dall’altro, 
la 
conservazione 
delle 
relative 
prove. 


Come 
può operare 
questo sistema 
a 
due 
livelli 
con un’entità 
intelligente? 


Si 
potrebbe 
ipotizzare 
un 
doppio 
livello 
di 
operatività 
anche 
della 
responsabilità: 
un regime 
di 
responsabilità 
oggettiva 
per i 
sistemi 
ad alto rischio sintetizzato 
nei 
termini 
liability, 
transparency 
e 
security; 
e 
responsabilità 
aggravata, per colpa 
presunta, secondo il 
modello attuale 
del 
GDPR, che 
prescinde 
dalla 
soggettività 
giuridica. 
Come 
potrebbero 
applicarsi 
tali 
principi 
alle 
tecnologie 
basate 
sui 
“registri 
distribuiti”? 
Per poter regolare 
tali 
meccanismi, 
il 
giurista 
deve 
prima 
comprenderli 
nella 
loro 
intrinseca 
essenza 
ed 
operatività. 


Al 
c.d. Decreto Semplificazioni 
2019 (d.l. 135/2018) è 
stato aggiunto, in 
sede 
di 
conversione 
in legge, l’art. 8-ter, il 
quale 
ha 
introdotto, nel 
nostro ordinamento, 
la 
definizione 
di 
“tecnologie 
basate 
su 
registri 
distribuiti” 
e 
di 
“smart contract”. 


Ai 
sensi 
del 
primo 
comma 
dell’art. 
8-ter,«si 
definiscono 
“tecnologie 
basate 
su registri 
distribuiti” 
le 
tecnologie 
e 
i 
protocolli 
informatici 
che 
usano 
un 
registro 
condiviso, 
distribuito, 
replicabile, 
accessibile 
simultaneamente, 
architetturalmente 
decentralizzato 
su 
basi 
crittografiche, 
tali 
da 
consentire 
la 
registrazione, la convalida, l’aggiornamento e 
l’archiviazione 
di 
dati 
sia in 
chiaro che 
ulteriormente 
protetti 
da crittografia verificabili 
da ciascun partecipante, 
non alterabili e non modificabili». 


Le 
tecnologie 
basate 
su 
registri 
distribuiti 
sembrerebbero 
richiamare 
le 


c.d. distributed ledger 
technologies 
(o DLt), ossia 
le 
reti 
digitali 
decentralizzate 
ispirate alla Bitcoin, ormai famosa in tutto il mondo. 
Bitcoin 
fu creata 
nel 
2008 da 
alcuni 
hacker 
anonimi 
che 
volevano creare 
una 
forma 
digitale 
di 
denaro (c.d. criptovaluta), senza 
che 
essa 
avesse 
corso 
legale nello Stato né alcun sottostante materiale in controvalore. 


La 
moneta 
virtuale 
chiamata 
Bitcoin 
è 
diventata, ormai, molto sostenuta 
tra 
il 
pubblico mondiale: 
il 
suo successo è 
dovuto ad alcuni 
ideali 
monetari 
di 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


stampo democratico e 
internazionalista, a 
motivi 
speculativi 
(68) o di 
agevolazione 
delle 
transazioni 
legate 
ad 
attività 
illecite 
e, 
soprattutto, 
al 
superamento 
di 
due 
cruciali 
problemi 
che 
scoraggiavano 
l’adozione 
di 
forme 
integralmente 
digitali di denaro. 

Da 
un lato, era 
temuto il 
rischio della 
doppia 
spesa 
della 
stessa 
unità 
monetaria 
e, 
dall’altro, 
si 
paventava 
la 
necessità 
di 
essere 
assistiti 
da 
intermediari 
di fiducia per ogni transazione. 


Bitcoin 
ha 
offerto 
proprio 
una 
soluzione 
tecnologica 
a 
tali 
criticità, 
tramite 
la 
creazione 
di 
un 
registro 
delle 
transazioni 
decentralizzato, 
distribuito 
fra 
tutti 
gli 
utenti 
della 
rete, che 
possono accedere 
a 
ogni 
sua 
parte 
e 
verificarne 
autonomamente 
la 
regolarità. 
L’organizzazione 
del 
registro 
è 
su 
base 
crittografica, 
in modo tale 
da 
risultare, di 
norma, immutabile 
e 
insuscettibile 
di 
manomissioni 
fraudolente. 


è 
necessaria 
la 
firma 
digitale 
per riservare 
al 
titolare 
effettivo la 
disponibilità 
esclusiva di ogni unità di criptovaluta. 


La 
rete 
DLt 
sinonimo per antonomasia 
è 
la 
c.d. blockchain 
(“catena 
di 
blocchi”), inaugurata 
da 
Bitcoin; 
vi 
rientrano anche 
i 
c.d. ledger 
(“libro mastro”) 
tradizionale 
e 
il 
tangle 
(“intreccio”). Questi 
ultimi 
operano in base 
a 
diversi 
sistemi 
di 
raggruppamento 
delle 
transazioni 
da 
validare 
prima 
per 
essere 
iscritte permanentemente nel registro condiviso. 


ogni 
rete 
può usare 
diversi 
sistemi 
di 
controllo decentralizzato della 
regolarità 
delle 
transazioni, basati 
sempre 
su tecniche 
di 
crittografia, in particolare: 


(i) il voto a maggioranza; 
(ii) la 
proof of work 
(“prova di lavoro”); 
(iii) la 
proof of stake 
(“prova della posta in gioco”); 
(iv) la 
proof of authority 
(“prova di autorevolezza”). 
Le 
reti 
DLt, oltre 
a 
rappresentare 
il 
valore 
monetario, possono, se 
progettate 
in 
tal 
senso, 
ospitare 
anche 
altre 
forme 
di 
“elementi” 
digitali, 
i 
c.d. 
token 
(“gettoni”), fungibili 
o meno, stringhe 
di 
codice 
irripetibili 
rappresentative 
di 
diritti 
o beni 
materiali 
effettivamente 
esistenti 
nel 
mondo “analogico”, 
oppure 
utilizzati 
per riservare 
l’accesso esclusivo a 
servizi 
digitali 
telematici. 


(68) Mentre 
si 
scrivono le 
presenti 
pagine, è 
scoppiata 
con toni 
drammatici 
una 
rivolta 
in kazakistan 
per il 
caro bollette, dipesa 
dai 
proprio dai 
Bitcoin, che 
ormai 
sembrano essere 
diventati 
uno strumento 
di 
alterazione 
degli 
equilibri 
internazionali. 
I 
c.d. 
“Miners”, 
ossia 
coloro 
che 
gestiscono 
le 
criptovalute, sono “scappati” 
dalla 
Cina, che 
ha 
proibito qualsiasi 
attività 
legata 
alle 
criptovalute, e 
si 
sono spostati 
in kazakistan per ottenere 
maggiore 
guadagno, utilizzando l’energia 
dei 
carboni 
fossili. 
Ciò ha 
fatto salire 
le 
bollette 
e 
il 
costo dei 
carburanti 
nel 
paese, per cui 
è 
nata 
una 
rivolta 
che 
si 
sta 
evolvendo 
in una 
guerra 
civile, tanto che 
è 
stato necessario l’intervento della 
Russia 
per ristabilire 
l’ordine. 
I Miners 
con ogni 
probabilità 
si 
sposteranno negli 
Stati 
uniti, dove 
si 
stanno concentrando sull’energia 
rinnovabile. Questa 
vicenda 
ci 
fa 
comprendere 
che 
non si 
tratta 
più di 
alterazione 
della 
borsa, ma 
collegandosi 
con 
la 
produzione 
dell’energia 
di 
uno 
Stato, 
le 
piattaforme 
sono 
diventate 
veri 
e 
propri 
soggetti 
di diritto internazionale, che alterano gli equilibri internazionali. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Per 
quanto 
concerne, 
invece, 
la 
nozione 
di 
“smart 
contract” 
(“contratto 
intelligente”), 
si 
tratta 
di 
«un 
programma 
per 
elaboratore 
che 
opera 
su 
tecnologie 
basate 
su 
registri 
distribuiti 
e 
la 
cui 
esecuzione 
vincola 
automaticamente 
due 
o 
più 
parti 
sulla 
base 
di 
effetti 
predefiniti 
dalle 
stesse. 
Gli 
smart 
contract 
soddisfano 
il 
requisito 
della 
forma 
scritta 
previa 
identificazione 
informatica 
delle 
parti 
interessate, 
attraverso 
un 
processo 
avente 
i 
requisiti 
fissati 
dal-
l’agenzia 
per 
l’italia 
digitale 
con 
linee 
guida 
da 
adottare 
entro 
novanta 
giorni 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
della 
legge 
di 
conversione 
del 
presente 
decreto». 


Si 
tratta 
di 
una 
forma 
di 
software 
applicativo capace 
di 
realizzare, su una 
rete 
DLt, 
transazioni 
articolate 
e 
condizionali. 
Il 
suo 
utilizzo 
può 
essere 
anche 
quello 
di 
portare 
a 
esecuzione 
figure 
negoziali 
tradizionali 
(es. 
contratti 
o 
promesse 
al pubblico). 


Gli 
smart 
contract 
acquistano 
tutte 
le 
caratteristiche 
tecniche 
tipiche 
delle 
reti 
DLt 
su 
cui 
operano, 
come 
la 
pubblicità, 
la 
trasparenza, 
l’immutabilità, 
l’irrevocabilità e la permanenza. 

L’autore 
di 
un “contratto intelligente” 
può anche 
escludere 
queste 
ultime 
tre 
qualità, ma 
lo deve 
fare 
in modo preventivo, in sede 
di 
programmazione, 
al 
fine 
di 
predisporre 
apposite 
funzioni 
che 
ne 
sospendano 
l’operatività, 
ne 
modifichino il 
contenuto o lo rimuovano definitivamente 
dalla 
rete 
(es. la 
c.d. 
funzione 
self-destruct, “auto-distruzione”, o il 
c.d. 
kill 
switch, “tasto di 
spegnimento 
immediato”). 
Sono 
funzioni 
attivabili 
ad 
opera 
di 
uno 
o 
più 
soggetti 
predeterminati, disgiuntamente o congiuntamente secondo le circostanze. 


Le 
transazioni 
possono 
avere 
ad 
oggetto 
tanto 
unità 
criptovalutarie, 
quanto 
token, 
fungibili 
o 
infungibili, 
presenti 
sulla 
relativa 
rete 
DLt, 
ma 
anche 
qualsiasi 
istruzione 
informatica 
diretta, 
come 
output, 
a 
computer 
o 
altri 
dispositivi 
digitali telematicamente connessi. 

Anche 
gli 
input 
recepiti 
dallo smart 
contract 
possono provenire 
da 
soggetti 
predeterminati, come 
le 
parti 
della 
transazione 
in questione 
oppure 
i 
c.d. 
oracoli, ossia terzi attori estranei interpellati dal contratto stesso. 


tali 
oracoli 
possono 
essere 
umani, 
computer 
o 
altri 
dispositivi 
(anche 
provenienti 
dalla c.d. internet of Things, “Iot”) telematicamente connessi. 

essi 
possono essere 
in grado, secondo i 
casi, di 
fornire 
informazioni 
su 
un determinato stato della 
realtà 
esterna 
alla 
rete 
DLt 
o di 
risolvere 
di 
controversie 
tra le parti (come un “arbitro” o “arbitratore”). 


Ma quali sono i vantaggi principali del c.d. Smart Contract? (69). 

Anzitutto, 
la 
garanzia 
di 
una 
esecuzione 
automatica 
ed 
esatta 
del 
programma 
contrattuale, 
sia 
in 
ipotesi 
fisiologiche 
(c.d. 
self-execution, 
“esecuzione 
automatica”), 
sia 
nei 
casi 
in 
cui 
lo 
smart 
contract 
spiegherà 
la 
propria 
capacità 


(69) 
Sul 
tema, 
vedi 
V. 
BeLLoMIA, 
“il 
contratto 
intelligente: 
questioni 
di 
diritto 
civile”, 
su 
judicium.it, 10 dicembre 
2020; 
F. FeRRonettI, “Blockchain e 
smart 
contract, servono regole 
chiare: lo 
scenario”, su agendadigitale.eu, 14 ottobre 2021. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


di 
c.d. 
self-enforcement, 
“tutela 
coercitiva 
automatica”, 
come 
una 
vera 
e 
propria 
autotutela 
privata 
(consentita 
o 
meno 
dall’ordinamento 
giuridico). 


tuttavia, se 
è 
vero che 
non ci 
sono incertezze 
interpretative 
o eccezioni, 
è 
anche 
vero 
che 
non 
vi 
è 
alcun 
riguardo 
a 
norme 
imperative 
che 
tutelano 
contraenti 
definiti deboli o interessi superiori (70). 

tra 
l’altro, in mancanza 
di 
una 
apposita 
funzione 
predisposta 
dalle 
parti 
nello smart 
contract 
e 
senza 
il 
consenso dell’obbligato, l’autorità 
giudiziaria 
non potrebbe 
portare 
a 
esecuzione 
forzata 
una 
sentenza 
di 
condanna 
contraria 
al contratto intelligente. 


Per 
l’interprete 
è 
difficile 
capire 
se 
adottare 
una 
interpretazione 
teleologica 
della 
disposizione 
normativa 
in 
senso 
permissivo 
o 
in 
senso 
restrittivo. 


nell’attuale 
panorama 
nazionale 
ed 
europeo, 
il 
fine 
della 
norma 
dovrebbe 
essere 
l’estensione 
dell’efficacia 
giuridica 
dei 
preesistenti 
smart 
contract, intesi 
in 
senso 
informatico, 
o 
quantomeno 
nella 
conferma 
di 
tale 
capacità 
di 
produrre 
diritti e doveri. 


Il 
termine 
«esecuzione» di 
cui 
al 
primo periodo del 
paragrafo esaminato 
è 
inteso comunemente 
come 
“avvio del 
software 
applicativo sulla rete 
DLT”, 
e 
il 
«requisito della forma scritta», per il 
principio di 
conservazione 
degli 
atti 
giuridici, porta 
a 
ritenere 
che 
lo scopo della 
disposizione 
normativa 
sia 
non 
tanto 
quello 
di 
definizione 
di 
un 
fenomeno 
tecnologico 
preesistente, 
né 
quello 
di 
riaffermare, 
in 
modo 
ripetitivo, 
l’equiparazione 
del 
file 
digitale 
al 
documento 
scritto e 
sottoscritto, già 
prevista 
dal 
Codice 
dell’Amministrazione 
Digitale 
(“CAD”, 
D.lgs. 
82/2005) 
e 
dal 
Regolamento 
n. 
910/2014 
(Regolamento 
eIDAS), 
quanto 
piuttosto 
probabilmente 
quello 
di 
attribuire 
efficacia 
giuridica 
allo smart 
contract 
in quanto tale, anche 
se 
esso è 
scritto in un linguaggio diverso, 
cioè informatico compilato. 

Lo smart 
contract 
passerebbe 
dalla 
condizione 
di 
mero strumento di 
esecuzione 
di 
un negozio giuridico a 
quella 
di 
fonte 
diretta 
e 
autosufficiente 
di 
costituzione e disciplina. 


Sorgono problemi nel rapporto con gli artt. 1321 ss. c.c. 

Anzitutto, 
ci 
si 
può 
chiedere 
se 
l’art. 
8-ter 
voglia 
escludere 
ogni 
rilevanza 
tanto 
ad 
eventuali 
bug 
(“errori 
di 
programmazione”) 
dello 
smart 
contract, 
quanto 
a 
possibili 
fraintendimenti 
del 
suo 
funzionamento 
da 
parte 
di 
una 
parte 
contraente all’atto dell’avvio dello stesso. 


Inoltre, 
si 
potrebbe 
parlare 
di 
asimmetria 
tra 
le 
competenze 
informatiche 
delle 
parti, 
soprattutto 
perché 
il 
codice 
compilato 
di 
uno 
smart 
contract 
può 
essere 
anche 
molto 
più 
difficile 
a 
leggersi, 
rispetto 
al 
corrispondente 
codice 
sorgente. 


(70) 
Si 
pensi 
alla 
vendita 
con 
patto 
di 
riservato 
dominio 
di 
un 
veicolo, 
in 
cui 
il 
venditore 
potrebbe 
programmare 
il 
relativo smart 
contract 
per bloccare 
ogni 
accesso all’automobile 
qualora 
l’acquirente 
manchi 
di 
pagare 
anche 
solo una 
rata 
del 
prezzo, inferiore 
all’ottava 
parte 
del 
prezzo, contrariamente 
al 
disposto di cui all’art. 1525 c.c. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Poi 
potrebbe 
configurarsi 
il 
caso 
di 
contraenti 
che 
affidino 
a 
terzi 
soggetti 
esperti la scrittura del proprio smart contract. 


Sono 
possibili 
diverse 
interpretazioni, 
da 
quelle 
che 
attribuiscono 
la 
massima 
portata 
innovativa 
all’art. 8-ter, con conseguente 
irrilevanza 
di 
ogni 
errore 
commesso 
dai 
contraenti 
(bug 
inclusi), 
a 
quelle 
che 
affermano 
un’incidenza 
minima 
della 
disposizione 
in commento sull’assetto normativo 
previgente 
(essa 
si 
limiterebbe 
a 
chiarire 
la 
possibilità 
di 
creare 
un rapporto 
giuridico negoziale con la semplice esecuzione di uno smart contract). 

C’è 
anche 
una 
possibilità 
intermedia, 
per 
molti 
preferibile: 
l’istituto 
dello 
smart 
contract 
sarebbe 
una 
nuova 
possibilità 
espressiva 
di 
volontà 
negoziale, 
alternativa 
alla 
comunicazione 
verbale 
e 
ai 
facta concludentia, con la 
conseguente 
applicazione 
in generale 
delle 
norme 
di 
cui 
agli 
artt. 1321 ss. c.c., inclusa 
la disciplina dell’errore-vizio e dell’errore ostativo. 


Le 
tecnologie 
basate 
su 
registro 
distribuito 
e 
gli 
smart 
contract 
assumeranno, 
molto 
probabilmente, 
una 
grande 
rilevanza 
economico-sociale 
in 
futuro. 


Sarà 
necessario, 
dunque, 
un 
intervento 
del 
legislatore 
per 
risolvere 
la 
menzionata 
impossibilità 
di 
assoggettare 
a 
esecuzione 
forzata 
alcun 
ordine 
della 
pubblica 
autorità 
riguardante 
le 
reti 
telematiche, 
per 
trovare 
una 
soluzione 
per 
quanto 
riguarda 
i 
negozi 
illeciti 
o 
contrari 
a 
norme 
imperative, 
e 
per 
rimuovere 
eventuali 
contenuti 
digitali 
illeciti 
permanentemente 
registrati 
su 
reti 
DLt. 


Il 
punto di 
svolta, comunque, potrebbe 
arrivare 
in futuro con l’adozione 
di 
una 
criptovaluta 
della 
Banca 
Centrale 
europea 
avente 
corso legale, che 
è 
già stata studiata per anni dalla BCe (71). 


5. il governo della tecnica e il controllo umano delle sue applicazioni. 
Il 
tema 
della 
“gestione 
del 
rischio” 
pone 
la 
delicata 
questione 
del 
governo 
della 
tecnica 
e 
della 
necessità 
di 
un 
approccio 
antropocentrico 
e 
antropogenico 
dell’intelligenza 
artificiale 
(72): 
il 
Libro 
Bianco 
sull’intelligenza 
artificiale 
prevede 
che, entro il 
2030, 20 miliardi 
di 
euro saranno investiti 
in intelligenza 
artificiale 
ed è 
necessario che 
i 
giuristi 
pongano delle 
regole 
per modulare 
il 
rapporto uomo-macchina 
tenendo ben presente 
la 
forza 
pervasiva, performativa 
che la tecnologia può avere sull’io, sulla stessa essenza dell’uomo (73). 

(71) 
Il 
10 
dicembre 
2021, 
Fabio 
Panetta, 
membro 
del 
Comitato 
esecutivo 
della 
BCe, 
ha 
annunciato 
l’euro digitale, che 
entro 5 anni 
affiancherà 
l’euro tradizionale. tale 
valuta 
digitale 
sarà 
diversa 
dalle 
criptovalute 
e 
dai 
Bitcoin, perché 
sarà 
assicurata 
dalla 
Banca 
Centrale 
europea 
ed assicurerà 
la 
Privacy 
e la certezza delle transazioni, per ridurre il potere delle grandi piattaforme digitali. 
(72) “Libro Bianco sull’intelligenza artificiale 
-Un approccio europeo all’eccellenza e 
alla fiducia”, 
Commissione europea, Bruxelles, 19.2.2020 CoM (2020) 65 final. 
(73) 
L’esperto 
di 
social 
media 
intelligence 
F. 
BeRGeR, 
“intelligenza 
artificiale, 
rileggere 
la 
storia 
per 
evitare 
un nuovo inverno”, su formiche.net, esprime 
la 
necessità 
di 
analizzare 
la 
storia 
dell’I.A. per 
evitare 
“delusioni” 
o un nuovo letargo della 
ricerca. Infatti, l’autore 
fa 
partire 
l’analisi 
dagli 
anni 
Cinquanta 
fino 
ad 
arrivare 
a 
metà 
degli 
anni 
Settanta, 
dove 
il 
settore 
dell’IA 
conobbe 
un 
vero 
e 
proprio 
boom 
grazie 
a 
programmi 
di 
ricerca 
dedicati, portati 
avanti 
soprattutto dagli 
americani 
nel 
campo della 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


einstein affermava: 
«un giorno le 
macchine 
riusciranno a risolvere 
tutti 
i 
problemi, ma mai 
nessuna di 
esse 
potrà porne 
uno», volendo mettere 
in rilievo 
la 
ragion critica 
che 
è 
propria 
dell’uomo e 
non della 
macchina. eppure, 
oggi 
questa 
ragion critica 
può essere 
incisa 
e 
manipolata 
dalla 
stessa 
intelligenza 
artificiale. 

Di 
recente, elon Musk durante 
un’intervista 
ha 
parlato di 
“transumanesimo”, 
dichiarando 
lo 
scorso 
5 
ottobre 
2021, 
in 
una 
trasmissione 
televisiva, 
che: 
«Per 
unirsi 
in modo davvero simbiotico all’intelligenza artificiale 
serve 
un’interfaccia 
con 
il 
cervello, 
un 
collegamento 
diretto 
tra 
cervello 
e 
computer. 
io penso che 
la soluzione 
migliore 
sia avere 
all’interno del 
cervello un livello 
di 
intelligenza artificiale 
che 
operi 
simbioticamente 
con te, proprio come 
fa il 
tuo cervello biologico». 

Ma 
è 
qualcosa 
che 
richiede 
un 
intervento 
chirurgico? 
-gli 
ha 
domandato 
l’intervistatore 
-«assolutamente 
no 
-ha 
risposto 
Musk 
-puoi 
iniettarlo 
nel 
sangue 
o 
direttamente 
nella 
giugulare: 
da 
li 
arriva 
velocemente 
ai 
neuroni. 
Si 
introducono 
con 
delle 
tecniche 
genetiche 
dei 
piccoli 
interruttori 
di 
proteine 
che 
si 
possono 
attivare: 
accendono 
o 
spengono 
il 
neurone 
mandando 
piccoli 
fasci 
di 
luce 
per 
indurre 
il 
neurone 
stesso 
a 
dire 
quello 
che 
noi 
vogliamo 
fargli 
dire». 


tale 
dichiarazione 
suscita 
un’inquietudine 
di 
fondo, poiché 
il 
c.d. transumanesimo, 
che 
sembrava 
un’idea 
futuristica, 
appare 
un’idea 
molto 
vicina 
alla 
sua 
concreta 
realizzazione. 
Gran 
parte 
dei 
seguaci 
del 
transumanesimo 
vive 
nella 
Silicon 
Valley 
e 
molti 
di 
loro 
hanno 
ruoli 
ai 
vertici 
di 
quelle 
aziende 
che stanno investendo su tecnologia web e genetica. 


emblematiche 
sono 
state 
le 
parole 
pronunciate 
da 
Klaus 
Schwab, 
direttore 
del 
World economic 
forum 
e 
promotore 
del 
Grande 
Reset: 
«La differenza di 
questa 
quarta 
rivoluzione 
industriale 
è 
che 
non 
cambia 
ciò 
che 
fai, 
ma 
cambia 
te stesso, cambia ciò che intendiamo come umano». 


difesa 
e 
della 
sicurezza. negli 
anni 
della 
legge 
di 
Moore 
(1965), infatti, il 
positivismo nei 
confronti 
del-
l’Intelligenza 
Artificiale 
era 
talmente 
diffuso 
che 
quasi 
tutta 
la 
comunità 
scientifica 
era 
arrivata 
a 
credere 
che 
le 
macchine 
avrebbero presto superato gli 
esseri 
umani 
(c.d. IA 
“forte”o “generale”). Il 
primo “inverno 
dell’IA”, però, era 
alle 
porte: 
tra 
la 
fine 
degli 
anni 
Settanta 
e 
i 
primi 
anni 
ottanta 
prese 
piede 
il 
pessimismo 
scientifico 
nei 
confronti 
di 
questi 
sistemi, 
con 
conseguente 
riduzione 
dei 
fondi 
destinati 
alla 
ricerca. Gli 
scienziati 
si 
erano scontrati 
con i 
limiti 
delle 
macchine. Poi, a 
partire 
dagli 
anni 
ottanta, la 
popolarizzazione 
delle 
tecniche 
di 
machine 
learning 
e 
deep learning 
e 
i 
c.d. expert 
system 
fecero risvegliare 
il 
settore, 
“scongelando 
l’inverno 
dell’intelligenza 
artificiale”. 
Questa 
c.d. 
seconda 
ondata 
dell’IA 
ha 
creato i 
presupposti 
per la 
nuova 
generazione 
di 
ricercatori 
che 
si 
sono mossi 
tra 
la 
fine 
del 
secolo 
scorso 
e 
il 
primo 
decennio 
del 
nuovo 
millennio, 
eppure, 
nonostante 
gran 
parte 
della 
comunità 
scientifica 
sia 
convinta 
che 
l’IA 
“forte” 
o 
“generale” 
arriverà 
a 
breve, 
l’obiettivo 
oggi 
è 
diventato 
l’I.A. 
c.d. 
“debole” 


o “narrow”, che 
punta 
a 
sistemi 
in grado di 
gestire 
un singolo o un numero limitato di 
compiti, con un 
approccio 
più 
bilanciato 
e 
realistico, 
anche 
se 
c’è 
ancora 
un 
enorme 
potenziale 
inesplorato. 
edward 
Grefenstette, 
ricercatore 
del 
gruppo 
Meta, 
ha 
dichiarato 
che 
«una 
delle 
più 
grandi 
sfide 
è 
quella 
di 
sviluppare 
metodi 
che 
siano 
estremamente 
efficienti 
in 
termini 
di 
quantità 
di 
dati 
e 
potenza 
computazionale 
richiesta 
per 
risolvere 
correttamente 
un problema», piuttosto che 
concentrarsi 
su sistemi 
in grado di 
dare 
una 
soluzione 
a tutti i problemi. Si rischia altrimenti di «cadere in un nuovo inverno». 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Siamo 
ben 
oltre 
l’esaltazione 
della 
tecnologia 
che 
fu 
il 
pensiero 
dominante 
del 
futurismo 
all’inizio 
del 
ventesimo 
secolo: 
si 
ricorderà 
come 
ungaretti 
esaltasse 
la 
macchina 
come 
strumento di 
progresso. La 
stessa 
parola 
cibernetica 
deriva 
dal 
greco “kybernetike 
teckhne” 
che 
significa 
“arte 
del 
pilota o del 
timoniere”. 
L’etimologia 
della 
parola 
ci 
suscita 
l’idea 
di 
una 
guida 
nel 
progresso 
della tecnica che deve rinvenirsi nella coscienza umana. 

Sappiamo che 
la 
cibernetica 
è 
quel 
ramo della 
scienza 
pura 
e 
applicata, 
che 
si 
prefigge 
lo studio e 
la 
realizzazione 
di 
dispositivi 
e 
macchine 
capaci 
di 
simulare 
le 
funzioni 
del 
cervello 
umano, 
autoregolandosi 
per 
mezzo 
di 
segnali 
di 
comando e 
di 
controllo in circuiti 
elettrici 
ed elettronici 
o in sistemi 
meccanici 
(74). 

Ma 
oggi 
siamo in presenza 
di 
algoritmi 
che 
incidono sul 
processo decisionale 
dell’uomo, mettendo in discussione 
gli 
stessi 
principi 
di 
libertà 
e 
democrazia 
di 
un 
paese. 
La 
parola 
algoritmo 
deriva 
dal 
nome 
del 
matematico 
arabo al-Khuwarizmi, importante matematico arabo del nono secolo. 


al-Khwarizmi 
è 
famoso per averci 
insegnato i 
c.d. numeri 
arabi: 
la 
sua 
opera 
“Libro di 
al-Khwarizmi 
sui 
numeri 
indiani” 
fu tradotta 
in latino come 
“algoritmi 
de 
numero 
indorum”. 
Fu 
su 
questo 
libro 
che 
l’europa 
intera 
imparò 
ad usare il sistema di notazione decimale posizionale. 

Le 
procedure 
che 
permettevano 
di 
effettuare 
calcoli 
in 
notazioni 
decimale 
divennero così 
note 
come 
“Algorismi” 
o “Algoritmi” 
e 
più tardi 
lo stesso termine 
fu 
applicato 
in 
generale 
alle 
procedure 
di 
calcolo 
necessarie 
per 
ottenere 
un determinato risultato. oggi 
l’algoritmo è 
entrato nella 
dimensione 
digitale 
assumendo una 
forza 
intrusiva 
e 
pervasiva 
nella 
vita 
degli 
uomini 
che 
certamente 
il matematico arabo al-khwarizmi 
non poteva immaginare. 

tale 
forza 
pervasiva 
pone 
la 
necessità 
di 
un dialogo tra 
la 
matematica 
e 
la 
regola 
giuridica, 
affinché 
si 
colgano 
le 
necessarie 
interrelazioni 
tra 
la 
scienza 
applicata e il diritto. 

Si 
ricorderà 
la 
nota 
frase 
di 
Calamandrei: 
“Cosa 
sono 
le 
leggi 
se 
non 
esse 
stesse, 
correnti 
di 
pensiero? 
Le 
leggi 
sono 
vive 
poiché 
dietro 
le 
proposte 
formule 


(74) 
ormai 
non 
si 
simula 
più 
solo 
il 
cervello 
umano, 
ma 
si 
è 
arrivati 
anche 
a 
robot 
in 
grado 
di 
replicare 
espressioni 
facciali 
umane: 
si 
pensi 
ai 
robot 
ameca 
e 
Mesmer, 
capaci 
di 
esprimere 
stupore, 
felicità, 
cordialità, 
fare 
l’occhiolino, 
v. 
https://www.macitynet.it/i-robot-ameca-e-mesmer-hannoespressioni-
facciali-umane/. 
Si 
è 
arrivati 
addirittura 
a 
concepire 
un 
algoritmo 
che 
può 
sostituire 
il 
Pubblico 
Ministero: 
in 
Cina 
è 
stato 
sperimentato 
un 
magistrato-software 
in 
grado 
di 
incriminare 
i 
cittadini. 
è 
chiaro, 
però, 
che 
affidare 
la 
pubblica 
accusa 
all’intelligenza 
artificiale, 
in 
grado 
di 
individuare 
fino 
a 
otto 
diversi 
reati, 
è 
particolarmente 
pericoloso 
e 
rischia 
di 
risultare 
un’operazione 
inaffidabile, 
dato 
anche 
il 
clima 
sociale 
in 
continuo 
mutamento. 
Anche 
alcune 
Procure 
in 
Germania 
utilizzano 
l’I.A. 
per 
analizzare 
le 
immagini, 
tuttavia 
quest’ultima 
ha 
un 
ruolo 
molto 
limitato, 
perché 
non 
partecipa 
al 
processo 
decisionale 
relativo 
alle 
accuse 
e 
alle 
sentenze. 
L’amministrazione 
statunitense 
di 
Joe 
Biden 
ritiene 
che 
sia 
necessaria 
una 
“carta 
dei 
diritti” 
per 
regolamentare 
l’intelligenza 
artificiale, 
al 
fine 
di 
difendere 
noi 
stessi 
“dalle 
potenti 
tecnologie 
che 
abbiamo 
creato”, 
hanno 
scritto 
eric 
Lander 
e 
Alondra 
nelson, 
direttore 
e 
vicedirettore 
dell’office 
of 
science 
and 
technology 
policy 
della 
Casa 
Bianca; 
v. 
https://formiche.net/2021/12/intelligenza-artificiale-cina/. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


bisogna 
far 
circolare 
il 
pensiero 
del 
nostro 
tempo, 
lasciarvi 
entrare 
l’aria 
che 
respiriamo… 
Le 
norme 
sono 
figli, 
mandati 
per 
il 
mondo 
in 
cerca 
di 
fortuna”. 


Le 
leggi 
che 
devono governare 
i 
processi 
algoritmici 
devono poggiare 
su 
principi 
solidaristici 
e 
personalistici: 
sotto una 
prospettiva 
antropocentrica 
le 
norme 
devono contenere 
il 
principio di 
trasparenza, di 
non esclusività, di 
sindacabilità, 
di 
digital 
due 
process, di 
correttezza 
procedurale 
del 
trattamento 
dei dati nel rispetto della c.d. libertà di coscienza dell’uomo (75). 

(75) Anche 
la 
presenza 
femminile 
nel 
settore 
dell’IA 
può contribuire 
a 
realizzare 
una 
tecnologia 
più 
antropocentrica 
e 
scevra 
da 
pregiudizi. 
Si 
riporta 
l’intervista 
pubblicata 
su 
https://www.italian.tech/2021/12/27/news/il_futuro_visto_da_annalisa_barla_la_prof_che_insegna_machine_
learning-331506239/ 
fatta alla Professoressa 
Annalisa Barla, docente di 
machine learning. 
«facevo machine 
learning prima che 
fare 
machine 
learning fosse 
cool» ha 
affermato la 
Professoressa 
associata 
di 
Informatica 
del 
Dibris 
e 
affiliata 
al 
Machine 
Learning Genoa Center 
dell’università 
di 
Genova, 
che 
da 
12 anni 
insegna 
i 
segreti 
dell’IA 
mettendoli 
in pratica. Secondo Barla, gli 
strumenti 
di 
IA 
«sono strumenti 
di 
cui 
in futuro non potremo fare 
a meno», perché 
«viviamo in un mondo complesso e 
che 
sta diventando sempre 
più complesso, anche 
a causa nostra, e 
le 
ia 
sono e 
saranno fondamentali 
per 
capirlo. Per 
capire 
come 
sta cambiando, dove 
sta andando, per 
comprendere 
meglio la scienza, la 
ricerca, la medicina». Le 
macchine 
possono aiutare 
chi 
governa 
«a prendere 
decisioni 
migliori 
e 
più 
efficaci 
su una grande 
varietà di 
aspetti, cosa che 
ormai 
non si 
può più fare 
senza basarsi 
sui 
dati. e 
con i 
dati 
le 
ia 
sono bravissime: possono leggerli, immagazzinarli, elaborarli, fare 
previsioni 
e 
stime», 
ha 
affermato 
Barla, 
tuttavia 
«è 
fondamentale, 
e 
lo 
sarà 
sempre 
di 
più 
nei 
prossimi 
anni, 
un 
miglioramento 


o una ridefinizione 
delle 
competenze 
dei 
lavoratori. Le 
persone 
dovranno imparare 
a usare 
questi 
strumenti, 
a fare 
altro e 
reinventarsi, e 
scuole 
e 
università dovranno puntare 
molto di 
più sull’alfabetizzazione 
digitale 
e 
sulla 
creazione 
di 
competenze 
che 
prima 
non 
c’erano». 
Infatti, 
forse 
i 
robot 
non 
arriveranno 
a 
rubarci 
il 
lavoro, 
ma 
sicuramente 
ci 
porteranno 
a 
cambiarlo. 
«non 
si 
può 
più 
pensare, 
come 
facevano 
i 
nostri 
genitori, 
di 
fare 
la 
stessa 
cosa 
per 
20-30 
anni. 
e 
chi 
non 
si 
evolverà 
sarà 
travolto, 
come 
Blockbuster 
è 
stata 
travolta 
dall’arrivo 
di 
netflix, 
come 
le 
librerie 
tradizionali 
si 
sono 
dovute 
adeguare 
all’esistenza 
di 
amazon» 
ha 
sostenuto 
la 
Professoressa 
di 
IA, 
che 
si 
sofferma 
sull’importanza 
della 
IA 
per ridurre 
il 
gap 
generazionale: 
con le 
macchine 
che 
leggono i 
dati 
«anche 
un medico giovane 
e 
con poca esperienza saprà prendere 
decisioni 
buone, sfruttando sistemi 
intelligenti 
costruiti 
con le 
competenze 
dei 
colleghi 
più 
esperti». 
Secondo 
Barla, 
«grazie 
alla 
loro 
capacità 
di 
fare 
previsioni, 
stime 
e 
calcoli, le 
ia 
potranno dare 
ai 
ricercatori 
un’idea di 
come 
un test 
potrebbe 
concludersi 
senza bisogno 
di 
effettuarlo, magari 
facendo scartare 
una strada che 
non porterebbe 
da nessuna parte», tuttavia 
la 
Professoressa 
non sa 
fare 
previsioni 
su quando verrà 
sviluppata 
la 
cosiddetta 
IA 
forte 
(Strong ai). Sele 
macchine 
«riusciranno a capire 
ironia e 
sarcasmo, pregiudizio e 
razzismo, potranno gestire 
da sole 
la 
moderazione 
dei 
commenti 
e 
dei 
post 
sui 
social 
network», andando oltre 
il 
ruolo di 
assistenti 
che 
hanno 
ora, ha 
affermato Barla. «Se 
ci 
sarà un’altra pandemia, la affronteremo meglio, saremo più preparati». 
Anche 
per quanto riguarda 
il 
tema 
del 
climate 
change, secondo Barla 
ci 
sono ancora 
grandi 
passi 
avanti 
che 
le 
IA 
possono 
fare 
per 
aiutarci 
a 
risolvere 
il 
problema, 
ma 
ci 
vuole 
tempo… 
Qualcosa 
di 
oscuro 
però è 
nascosto anche 
da 
strumenti 
intelligenti 
e 
utili 
come 
le 
IA: 
«il 
rischio più grande 
-secondo Barla 
-è 
di 
avere 
ia 
che 
siano condizionate, di 
parte, consapevolmente 
o inconsapevolmente 
schierate, algoritmi 
che 
non riflettano la pluralità del 
mondo e 
delle 
comunità su cui 
poi 
verranno applicati, nel 
senso 
che 
a oggi 
la maggior 
parte 
delle 
persone 
che 
programmano queste 
macchine 
sono maschi, bianchi, 
etero e 
questo porta a squilibri 
anche 
gravi 
nelle 
capacità delle 
ia 
di 
capire 
il 
mondo che 
le 
circonda. 
rischiando 
di 
renderle 
inutili, 
se 
non 
addirittura 
pericolose». 
Soprattutto 
per 
quanto 
riguarda 
il 
linguaggio, 
«il 
problema è 
che 
stiamo allenando le 
ia 
con quello che 
trovano in rete, solo che 
quello che 
trovano 
in 
rete 
è 
quello 
che 
abbiamo 
messo 
noi 
umani». 
e 
così 
potremmo 
ritrovaci 
IA 
razziste, 
misogine, 
maschiliste, violente. non solo, ci 
sono i 
«software 
di 
image 
recognition che 
identificano come 
sposi 
le 
coppie 
uomo-donna 
con 
abito 
scuro 
e 
vestito 
bianco 
e 
però 
non 
sanno 
come 
catalogare 
una 
coppia 
africana 
vestita con abiti 
tradizionali 
per 
il 
loro matrimonio -sostiene 
Barla 
-c’è 
il 
dispenser 
automatico 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


I principi 
di 
accountability 
e 
di 
right 
to explanation contenuti 
nel 
GDPR 
possono certamente 
costituire 
il 
primo livello regolatore 
dell’intelligenza 
artificiale, 
ma 
le 
numerose 
applicazioni 
di 
quest’ultima 
nella 
vita 
quotidiana 
pongono il 
problema 
di 
un’evoluzione 
qualitativa 
della 
normativa 
volta 
ad un 
rafforzamento della tutela della propria identità. 

Si 
pensi 
al 
sistema 
c.d. 
ACR 
“automatic 
Content 
recognition”: 
applicato 
al 
televisore, fornisce 
a 
ogni 
parte 
del 
contenuto una 
sorta 
di 
“impronta 
digitale”, 
andando 
ad 
incrociare 
basi 
di 
dati 
generando 
altri 
dati 
e 
informazioni 
che iniziano a circolare indipendentemente dalla nostra volontà. 

Si 
pensi 
ancora 
al 
Generative 
adversarial 
network, 
access, 
ai 
aaS 
Human Centric 
ai, intelligenza artificiale che crea volti umani. 

Si 
pensi 
ancora 
alla 
nota 
questione 
dei 
microfoni 
degli 
smartphone, sempre 
accesi 
a 
carpire 
informazioni 
rivendute 
poi 
a 
società 
per 
fare 
proposte 
commerciali. 
un 
fenomeno 
sempre 
più 
diffuso, 
che 
sembrerebbe 
causato 
anche 
dalle app che scarichiamo sui nostri cellulari. 

Molte 
app, infatti, tra 
le 
autorizzazioni 
di 
accesso che 
richiedono al 
momento 
del 
download, 
inseriscono 
anche 
l’utilizzazione 
del 
microfono. 
una 
volta 
che 
si 
accetta, 
senza 
pensarci 
troppo 
e 
senza 
informarsi 
sull’uso 
che 
verrà 
fatto dei propri dati, il gioco è fatto. 

Su questo illecito uso di 
dati 
il 
garante 
per la 
Privacy ha 
avviato un’indagine, 
dopo 
che 
un 
servizio 
televisivo 
e 
diversi 
utenti 
hanno 
segnalato 
come 
basterebbe 
pronunciare 
alcune 
parole 
sui 
loro 
gusti, 
progetti, 
viaggi 
o 
semplici 
desideri 
per 
vedersi 
arrivare 
sul 
cellulare 
la 
pubblicità 
di 
un’auto, 
di 
un’agenzia 
turistica, 
di 
un 
prodotto 
cosmetico. 
L’Autorità 
ha 
avviato 
un’istruttoria, 
in 
collaborazione 
con il 
nucleo speciale 
privacy e 
frodi 
tecnologiche 
della 
Guardia 
di 
Finanza, che 
prevede 
l’esame 
di 
una 
serie 
di 
app tra 
le 
più scaricate 
e 
la 
verifica 
che 
l’informativa 
resa 
agli 
utenti 
sia 
chiara 
e 
trasparente 
e 
che 
sia 
stato 
correttamente acquisito il loro consenso. 

La 
nuova 
attività 
del 
Garante 
si 
affianca 
a 
quella 
già 
avviata 
sulla 
semplificazione 
delle 
informative, 
attraverso 
simboli 
ed 
immagini, 
affinché 
gli 


di 
sapone 
che 
non 
riconosce 
la 
pelle 
degli 
afroamericani, 
c’è 
facebook 
che 
nell’Year 
in 
review 
del 
2014 
ricordò 
a 
una 
persona 
che 
il 
suo 
post 
di 
maggior 
successo 
era 
stato 
quello 
relativo 
alla 
morte 
della figlia, causandogli 
ulteriore 
dolore». Si 
tratta 
di 
macchine 
pensate 
e 
progettate 
male, senza 
tenere 
conto delle 
diversità 
di 
cultura, di 
pelle, di 
sentimenti. Secondo Barla, un altro rischio è 
quello legato 
alla 
IA 
“forte”: 
«Dobbiamo capire 
perché 
vogliamo svilupparla, qual 
è 
lo scopo, a che 
cosa ci 
serve 
e 
come 
ci 
può aiutare 
(che 
è 
una cosa che 
ci 
aveva detto pure 
Giorgio Metta, attuale 
direttore 
scientifico 
dell’iit), 
e 
non 
perseguirla 
solo 
per 
scopi 
economici, 
che 
potrebbero 
ritorcersi 
contro 
di 
noi», 
altrimenti 
il 
rischio è 
quello di 
«rendere 
parte 
degli 
umani 
irrilevanti 
e 
inutili, di 
ampliare 
ancora la forbice 
fra 
chi 
serve 
e 
chi 
non serve 
nel 
mondo del 
lavoro». e 
se 
un giorno i 
robot 
dovessero superare 
gli 
umani? 
Secondo Barla 
sarà 
necessario puntare 
su «sistemi 
ibridi, in cui 
il 
supporto delle 
intelligenze 
artificiali 
ai 
processi 
umani 
si 
fondi 
sull’incremento e 
il 
completamento delle 
capacità del 
lavoratore, gli 
garantisca 
controllo sul 
processo e 
sull’esito finale 
e 
anche 
gli 
fornisca un chiaro quadro dei 
vantaggi 
ottenuti
». 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


utenti 
e 
i 
consumatori 
siano messi 
in grado in maniera 
sintetica 
ed efficace 
di 
fare scelte libere e consapevoli. 

Si 
pensi 
ancora 
all’oBA, 
on 
line 
behavioral 
advertising, 
la 
profilazione 
per 
azioni 
pubblicitarie 
mirate 
ed 
efficaci. 
La 
valutazione 
dell’impatto 
del 
trattamento 
sui 
diritti 
e 
sulle 
libertà 
fondamentali 
degli 
interessati 
è 
di 
cruciale 
importanza 
nel 
balancing 
test. 
Gli 
effetti 
negativi 
non 
sono 
rappresentati 
solo 
dai 
classici 
danni 
morali 
e 
materiali 
(harm 
and 
damage), 
ma 
possono 
essere 
rappresentati 
anche 
dalle 
minacce 
alla 
reputazione, 
al 
potere 
negoziale 
e 
all’autonomia 
degli 
interessati, 
o 
più 
genericamente 
in 
quegli 
impatti 
emotivi, 
come 
paura, 
irritazione, 
nonché 
il 
“chilling 
effect”, 
derivante 
dalla 
consapevolezza 
di 
essere 
sottoposti 
ad 
un 
monitoraggio 
costante 
e 
continuo, 
il 
c.d. 
pedinamento 
digitale 
o 
al 
punteggio 
sociale 
(c.d. 
scoring, 
secondo 
il 
modello 
social 
credit 
cinese), 
basato 
su 
“bolle 
profilative” 
e 
“inferred 
data”, 
o 
il 
c.d. 
“enrichment”, 
creazione 
di 
profili 
sempre 
più 
specifici 
e 
dettagliati 
“finger 
printing”. 


è 
significativo ricordare, al 
riguardo, che 
le 
nuove 
Linee 
Guida 
del 
garante 
sui 
Cookies, 
distinguendo 
tra 
cookies 
tecnici 
e 
cookies 
di 
profilazione 
analytics 
(per i 
quali 
occorre 
il 
consenso informato, ai 
sensi 
dell’art. 122 del 
GDPR), 
ha 
vietato 
il 
c.d. 
scrolling 
e 
il 
c.d. 
Cookie 
wall, 
ossia 
il 
sistema 
basato 
sul 
c.d. “take 
it 
or 
leave 
it”: 
l’utente 
è 
obbligato a 
fornire 
il 
proprio consenso, 
pena l’impossibilità di accedere al sito. 

Se 
quelli 
appena 
descritti 
sono 
alcuni 
dei 
provvedimenti 
limitativi 
dell’applicazione 
della 
tecnologia 
in 
violazioni 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
fondamentali 
dell’uomo, 
occorre 
considerare 
che 
l’intelligenza 
artificiale 
può 
andare 
ben 
oltre, 
in 
quanto, 
come 
ha 
osservato 
Rita 
Cucchiara, 
una 
delle 
massime 
scienziate 
di 
IA, 
tale 
tipo 
di 
tecnologia 
è 
di 
tipo 
“generativo”, 
creando 
un’integrazione 
tra 
mondo 
reale 
e 
mondo 
digitale 
di 
cui 
è 
difficile 
individuare 
il 
limite. 


Si 
è 
coniato 
così 
il 
termine 
di 
“giurimetria”, 
strumentalità 
della 
tecnologia 
basata 
sul 
principio di 
precauzione 
e 
proporzionalità: 
libertà 
non solo di 
manifestare 
il 
pensiero, ma 
di 
formare 
autonomamente 
il 
nostro pensiero, nuova 
sfida 
della 
sovranità 
degli 
Stati 
da 
parte 
dei 
giganti 
del 
web, il 
passaggio dal 
territorio al 
cloud, dalla 
legge 
ai 
protocolli 
informatici, la 
dimensione 
onlife 
di Floridi che investe l’umanità in tutte le sue manifestazioni. 

occorre 
considerare 
la 
relazione 
tra 
IA 
e 
tutela 
della 
dignità 
della 
persona 
umana. 

L’IA 
potrebbe 
essere 
utilizzata 
per il 
c.d. enhancement 
umano, che, utilissimo 
nel 
campo 
medico 
per 
prevenire 
malattie 
neurodegenerative, 
potrebbe, 
al 
di 
fuori 
di 
tali 
applicazioni 
terapeutiche, 
mettere 
in 
crisi 
il 
principio 
di 
uguaglianza 
sostanziale. Verrebbe 
ad affermarsi 
il 
diritto o la 
ricerca 
della 
happiness, 
prevista 
dalla 
Dichiarazione 
di 
Indipendenza 
americana 
e 
nell’ambito 
dell’accertamento della 
responsabilità 
non vi 
sarebbe 
più scansione 
tra 
disposizione 
della norma, accertamento e irrogazione della sanzione. 


LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


tutto allora 
dipende 
dall’individuazione 
della 
responsabilità 
che 
può discendere 
dalla 
macchina, 
rectius 
dall’applicazione 
dell’algoritmo: 
occorre 
perimetrare 
il centro di imputazione della responsabilità umana (76). 


In tale 
ottica, autorevoli 
Autori 
(77) pongono la 
necessità 
di 
una 
visione 
antropocentrica 
che 
non 
sia 
riduttivamente 
antropomorfa. 
Come 
governare 
l’IA 
significa 
delineare 
il 
sistema 
di 
difesa 
dei 
diritti 
(78). A 
tal 
proposito, occorre 
precisare 
che 
l’IA 
ragiona 
per inferenza 
e 
non per causalità, ha 
capacità 
sintattica, ma non semantica. 


Sulla 
base 
di 
tale 
considerazione, 
autorevoli 
civilistici 
hanno 
giustamente 
osservato 
che 
la 
nuova 
proposta 
di 
regolamento 
sull’intelligenza 
artificiale 
contiene 
più disposizioni 
amministrative 
che 
norme 
di 
diritto civile: 
contrariamente 
alla 
Risoluzione 
del 
Parlamento 
europeo 
del 
2017, 
non 
spinge 
per 
inserire 
norme 
sui 
contratti 
e 
sulla 
responsabilità, introduce 
principi 
generali, 
general 
clauses, model 
rules, lasciando molto spazio più all’evoluzione 
interpretativa 
che all’integrazione normativa. 

Questo perché 
l’evoluzione 
tecnologica 
è 
talmente 
veloce, che 
una 
normativa 
ad alto contenuto precettivo può costituire 
un elemento inadeguato ad 
un’effettiva 
regolazione. Qualche 
autorevole 
civilista 
ha 
osservato che 
alcune 
norme 
del 
nostro codice 
civile 
possono essere 
ancora 
utili 
per regolare 
alcuni 
profili 
applicativi 
dell’IA. 
Si 
pensi 
ai 
diritti 
della 
persona 
in 
relazione 
allo 


(76) u. RuFFoLo, A. AMIDeI, “intelligenza artificiale 
e 
diritti 
della persona: le 
frontiere 
del 
transumanesimo”; 
u. RuFFoLo, e. AL 
MuReDen, “autonomous 
vehicles 
e 
responsabilità nel 
nostro sistema 
ed in quello statunitense”, in Giurisprudenza italiana, 2019, pp. 1657 e ss. 
(77) u. RuFFoLo, “intelligenza artificiale, machine 
learning e 
responsabilità da algoritmo”, in 
Giurisprudenza italiana 
n. 7/2019, utet Giuridica, torino. 
(78) 
Importante 
è 
anche 
la 
posizione 
del 
Vaticano 
sull’IA, 
espressa 
di 
recente 
dal 
Monsignor 
John 
D. 
Putzer, 
incaricato 
presso 
la 
Missione 
di 
osservatore 
permanente 
della 
Santa 
Sede 
all’onu 
di 
Ginevra 
e 
capo delegazione 
alla 
sesta 
Conferenza 
di 
revisione 
della 
“Convenzione 
sulla proibizione 
o la limitazione 
dell’uso di 
alcune 
armi 
convenzionali 
che 
possono essere 
considerate 
dannose 
o aventi 
effetti 
indiscriminati”. 
L’intervento 
della 
Santa 
Sede 
ha 
preso 
le 
mosse 
da 
una 
nuova 
tecnologia 
che 
sta 
prendendo 
piede: 
Robot-soldato 
addestrati 
a 
individuare 
bersagli 
da 
abbattere 
senza 
la 
gestione 
dell’uomo, 
ben 
oltre 
i 
droni 
a 
guida 
umana. Questi 
LaWS 
(Lethal 
autonomous 
Weapon Systems) pongono una 
serie 
di 
problemi 
etici 
e 
legali 
e 
hanno 
perciò 
portato 
il 
Vaticano 
a 
soffermarsi 
sulla 
necessità 
di 
lanciare 
un 
messaggio 
importante 
«verso il 
disarmo generale 
e 
completo sotto un rigoroso ed efficace 
controllo internazionale
», con la 
necessità 
di 
«continuare 
la codificazione 
e 
lo sviluppo progressivo delle 
regole 
del 
diritto internazionale 
applicabili 
nei 
conflitti 
armati». Gli 
esseri 
umani 
devono supervisionare 
le 
macchine 
perché 
solo loro possono effettivamente 
prevedere 
i 
risultati 
delle 
loro azioni. è 
necessario introdurre 
condizioni 
per garantire 
il 
rispetto del 
diritto internazionale 
umanitario, per cui 
dovrebbe 
essere 
sempre 
l’uomo a 
«guidare 
la ricerca, lo sviluppo e 
l’uso dei 
sistemi 
d’arma, anche 
in assenza di 
norme 
giuridiche 
specifiche, 
come 
implica 
la 
“clausola 
Martens”» 
(si 
tratta 
della 
norma 
secondo 
cui 
le 
persone 
civili 
e 
i 
combattenti 
in un conflitto sono protetti 
dai 
diritti 
in uso al 
momento e 
nel 
luogo in questione 
e 
dai 
principi 
umanitari 
dettati 
dalla 
coscienza 
pubblica). 
Secondo 
il 
Vaticano, 
bisognerebbe 
creare 
un’organizzazione 
internazionale 
per 
l’IA 
affinché 
tutti 
gli 
Stati 
partecipino 
allo 
scambio 
di 
informazioni 
scientifiche 
e 
tecnologiche 
«per 
usi 
pacifici 
e 
per 
il 
bene 
comune 
di 
tutta 
la 
famiglia 
umana». 
V. 
https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2021-12/santa-sede-onu-ginevra-putzer-ente-usointelligenza-
artificiale.html. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


human enhancement 
e 
ai 
c.d. neurodiritti, ossia 
alla 
possibilità 
di 
inserire 
nel 
cervello dei microchips che potenziano le nostre capacità cerebrali. 

In questo caso, potrebbe 
venire 
in nostro aiuto l’art. 5 c.c. rubricato “atti 
di 
disposizioni 
del 
proprio corpo” 
secondo il 
quale: 
«Gli 
atti 
di 
disposizione 
del 
proprio 
corpo 
sono 
vietati 
quando 
cagionino 
una 
diminuzione 
permanente 
dell’integrità fisica o quando siano altrimenti 
contrari 
alla legge, all’ordine 
pubblico o al buon costume». 

occorre 
valutare 
se 
il 
brain 
enhancement 
possa 
costituire 
una 
modifica 
permanente 
della 
propria 
integrità 
fisica 
e 
valutare 
la 
liceità 
del 
suo 
scopo, 
certamente 
ammissibile 
in 
campo 
medico 
per 
la 
cura 
di 
malattie 
neurodegenerative. 


L’habeas corpus 
diviene allora 
habeas mentem. 

Se 
spostiamo 
l’analisi 
sul 
diritto 
dei 
contratti, 
non 
si 
può 
non 
rilevare 
che 
oggi 
le 
macchine 
contrattano tra 
loro, sono nuncius 
e 
rappresentanti, ma 
delineare 
una 
soggettività 
giuridica 
della 
macchina, come 
ha 
fatto la 
Risoluzione 
del 
parlamento 
europeo 
del 
2017, 
e 
una 
sua 
conseguente 
responsabilità 
civile, 
significa 
deresponsabilizzare 
gli 
utilizzatori, 
visto 
che 
l’input 
resta 
pur 
sempre 
umano. 

La 
macchina 
potrebbe 
essere 
soggetto 
di 
tutela, 
non 
mera 
res, 
quasi 
come 
l’animale 
che 
è 
essere 
senziente 
secondo 
la 
coscienza 
sociale: 
di 
qui 
il 
passaggio 
alla 
responsabilizzazione 
potrebbe 
avvenire 
secondo 
lo 
schema 
della 
responsabilità 
vicaria, 
o 
la 
responsabilità 
da 
prodotto 
oppure, 
per 
le 
forme 
di 
intelligenza 
artificiale 
ad 
alto 
rischio, 
lo 
schema 
della 
responsabilità 
per 
attività 
pericolose 
ex 
art. 
2050 
c.c., 
che 
potrebbe 
integrare 
la 
responsabilità 
da 
prodotto. 


Si 
pensi 
alla 
dibattuta 
questione 
della 
responsabilità 
dell’autore 
dell’algoritmo 
con 
capacità 
di 
apprendimento 
autoevolutivo: 
se 
sono 
autore 
di 
un 
componente 
del 
software, ne 
risponderò come 
produttore 
di 
un componente. 
Ma 
se 
il 
software 
uscito dalla 
catena 
di 
produzione, viene 
educato male, vengono 
in 
rilievo 
l’art. 
2043 
c.c. 
e 
l’art. 
2051 
c.c. 
da 
cosa 
inanimata, 
viene 
meno 
la 
responsabilità 
del 
produttore 
e 
si 
delinea 
la 
responsabilità 
dell’utilizzatore 
ed educatore dell’algoritmo, perché “l’utilizzatore lo ha educato male”. 

occorre 
considerare 
un’altra 
evenienza: 
se 
il 
produttore 
non ha 
inserito 
nel 
processo di 
produzione 
dell’algoritmo un “codice 
sorgente” 
che 
può bloccare 
una 
cattiva 
educazione 
dell’algoritmo, 
la 
sua 
responsabilità 
non 
viene 
meno, 
ma 
si 
associa 
a 
quella 
dell’educatore 
stesso, 
volendo 
seguire 
le 
note 
leggi di 
Asimov. 

Il 
codice 
civile 
ha 
governato l’intelligenza 
umana, può governare 
l’intelligenza 
artificiale? 
Il 
problema 
appare 
molto complesso, se 
solo si 
pensa 
che 
in molte 
società 
quotate 
l’algoritmo sta 
entrando nel 
consiglio di 
amministrazione: 
se 
vi 
è 
un componente 
robotizzato come 
dovrebbe 
funzionare 
tale 
organo 
deliberativo? 


Se 
addirittura 
l’algoritmo 
sostituisse 
l’amministratore 
unico, 
verrebbe 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


meno la 
pluripersonalità: 
il 
tema 
della 
personalità 
sarebbe 
impostato in maniera 
diversa 
e 
sarebbe 
da 
configurare 
in via 
esclusiva 
all’inventore 
dell’algoritmo 
in 
caso 
di 
self-driving 
society. 
In 
altri 
termini, 
chi 
controlla 
l’algoritmo 
controlla la società. 

La 
distinzione 
del 
CDA 
in esecutivo e 
non esecutivo (monitor 
board), richiederebbe 
una 
nuova 
concezione 
dell’organo 
di 
amministrazione, 
attraverso 
la 
previsione 
dell’alghoritmus 
officer 
e 
alghoritmus 
compliance, 
un 
robot 
board, 
un 
CDa 
automatizzato 
che 
metterebbe 
in 
discussione 
il 
rapporto 
tra 
controllante 
e 
controllato, ben oltre 
il 
concetto di 
controllo societario ex 
art. 
2359 c.c. 

L’algoritmo 
diventa 
manager 
con 
soft 
skills 
e 
capacità 
di 
problem 
solving 
basata anche sull’intuizione e non solo sulla razionalità. 


ecco che 
allora 
il 
discorso sulla 
tecnica 
è 
un discorso sul 
potere, sulla 
libertà 
e, quindi, sulla 
democrazia. “agire 
e 
non subire 
la tecnologia” 
(espressione 
utilizzata 
dal 
Garante 
per 
la 
Privacy, 
il 
Professore 
P. 
Stanzione) 
significa 
intendere 
lo studio dell’IA 
sia 
come 
“oggetto di 
produzione” 
sia 
come 
“strumento 
di regolazione”. 

ogni 
ora, su Facebook, si 
registrano 400 milioni 
di 
twitter, 24 milioni 
di 
miliardi 
di 
dati 
vengono processati 
ogni 
giorno, determinando un flusso di 
informazioni 
non governabili. 

Si 
pensi 
al 
noto 
caso 
Gamestop, 
che 
ha 
posto 
il 
delicato 
tema 
dell’IA 
nella 
vigilanza 
dei 
mercati, hitech 
e 
finanza 
e 
la 
necessaria 
azione 
degli 
organi 
di 
controllo. 

Come 
è 
noto, 
Gamestop 
gestisce 
negozi 
di 
videogiochi 
americani 
che, 
durante 
il 
periodo 
del 
lockdown, 
è 
entrato 
in 
una 
profonda 
crisi. 
Pertanto, 
aveva 
lanciato 
nell’ambito 
Sec 
borsa 
americana 
una 
nuova 
campagna 
di 
acquisti 
su 
ecommerce: 
con 
app 
gratuite 
(apparentemente 
gratuite, 
«se 
è 
gratis 
il 
prezzo 
sei 
tu») 
molti 
esponenti 
della 
zgeneration 
e 
Millenium 
hanno 
acquistato 
in 
maniera 
massiva 
titoli 
che 
sono 
passati 
dal 
valore 
di 
0 
a 
350 
dollari 
(millenium 
retails) 
dando 
origine 
al 
c.d. 
“trading 
no 
fee”, 
“trading 
gamification”, 
che 
ha 
rappresentato 
anche 
la 
reazione 
della 
zgeneration 
millenium 
vs 
“establishment”. 


Ma 
il 
vero vincitore 
di 
tale 
wolf-herding effect 
è 
stata, in realtà, la 
piattaforma 
di 
negoziazione 
che 
ha 
guadagnato 
tantissimo, 
eludendo 
i 
controlli 
delle 
autorità 
di 
vigilanza. tale 
episodio ha 
messo in luce 
la 
carenza 
di 
un “deep learnig 
financial 
data 
science” 
in 
grado 
di 
bloccare 
simili 
fenomeni 
manipolativi 
e speculativi. 

Si 
profilano, dunque, ipotesi 
di 
overconfidence 
in relazione 
ai 
dati 
strutturali 
quantitativi 
e 
qualitativi, che 
impongono un dovere 
di 
“inspection and 
detection”, 
(ossia 
l’individuazione 
e 
il 
blocco 
dell’iniziatore 
di 
un’attività 
speculativa 
che 
utilizzi 
i 
social 
media 
per controllare 
il 
mercato), adottando una 
strategia con approccio modulare ed incrementale. 


Viene 
in 
rilievo 
la 
necessità 
della 
definizione 
di 
standard 
minimi 
di 
qualità 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


e 
sicurezza 
dei 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale, volto a 
creare 
un vero e 
proprio 
“ecosistema” 
di 
fiducia 
che 
copra 
l’intero 
processo 
di 
produzione 
e 
di 
evoluzione dell’algoritmo. 

Il 
Centro 
di 
Intelligenza 
artificiale 
della 
Stanford 
university 
ha 
redatto 
un report 
in base 
al 
quale 
risulta 
che 
nel 
2020 sono stati 
investiti 
68 miliardi 
di dollari, investimenti aumentati del 40% rispetto al 2019. 

nel 
contesto globale, è 
evidente 
che 
la 
Cina 
voglia 
diventare 
una 
superpotenza 
dell’IA (79) e che tenda verso player 
resistenti e competitivi. 

Se 
spostiamo l’analisi 
sui 
modelli 
di 
governance 
attualmente 
esistenti 
in 
materia 
di 
IA, osserviamo che 
negli 
uSA 
non vi 
è 
una 
legge 
federale 
sulla 
IA 
e 
trattamento dei 
dati 
(vi 
sono atti 
normativi 
in alcuni 
Stati 
come 
California 
Consumer 
act 
che si ispira alla normativa europea). 

In Cina 
vi 
è 
un forte 
controllo statale 
con sorveglianza 
digitale, c.d. “social 
scoring” 
(punteggio sociale), anche 
se 
si 
comincia 
a 
parlare 
di 
necessità 
e proporzionalità. 


In europa, abbiamo il 
Regolamento per la 
protezione 
dei 
dati 
personali, 
le 
varie 
proposte 
di 
regolamento Digital 
Services 
act, Data Governance 
act, 
Digital 
Markets 
act, la 
proposta 
di 
regolamento sulla 
intelligenza 
artificiale, 
basata 
sull’idea 
di 
una 
IA 
rappresentativa 
dell’umanità, 
idea 
di 
Human 
Centre 
che 
non 
ostacoli 
lo 
sviluppo 
tecnologico, 
ma 
che 
lo 
orienti 
in 
termini 
di 
un 
suo 
utilizzo 
etico 
al 
servizio 
dell’uomo, 
sostenibilità, 
di 
interoperabilità 
dei 
dati, 
di 
prevenzione 
dei 
monopoli, 
favorendo 
senz’altro 
le 
start-up 
che 
saranno, 
secondo le più attuali previsioni, circa 250 entro il 2030. 

L’utilizzo 
sempre 
più 
massiccio 
dell’intelligenza 
artificiale 
sta 
sviluppando 
studi 
approfonditi 
anche 
sul 
piano 
assicurativo, 
per 
individuare 
nella 
distribuzione 
dei 
rischi 
la 
c.d. 
liability 
gap. 
Si 
è 
osservato 
che 
il 
cervello 
umano 


(79) Da 
un recente 
report 
del 
CnR (Consiglio nazionale 
delle 
ricerche) sulla 
IA 
(«L’intelligenza 
artificiale 
per 
lo sviluppo sostenibile») è 
emersa 
la 
volontà 
della 
Cina 
di 
attuare 
una 
strategia 
volta 
ad 
aumentare 
la 
sua 
potenza 
tramite 
il 
settore 
delle 
tecnologie 
IA. «Le 
nazioni 
più avanzate 
nel 
campo del-
l’i.a.» -si 
legge 
nel 
dossier 
-«si 
trovano in europa occidentale 
e 
nel 
nord america; gli 
Stati 
Uniti 
la 
fanno da padrone 
in virtù soprattutto della Silicon Valley». nell’europa 
occidentale, dove 
non c’è 
«ancora 
alcun hub tecnologico alla pari 
con gli 
Usa», vi 
è 
«un’alta concentrazione 
di 
strategie 
nazionali 
di 
i.a. 
supportate 
dalla 
strategia 
dell’Unione 
europea». 
D’altronde, 
il 
24 
novembre 
2021 
l’Italia 
ha 
adottato il 
«Programma strategico per 
l’i.a. 2021-2024». nel 
report 
si 
legge 
anche 
che 
«la Cina sta 
avanzando velocemente 
grazie 
a forti 
investimenti, supporto statale 
e 
spregiudicatezza di 
fondo». Ad 
esempio, i 
c.d. unicorni 
(start-up 
con almeno un miliardo di 
dollari 
o di 
euro di 
capitalizzazione) tecnologici 
negli 
uSA 
sono 198, e 
in Cina 
arrivano a 
103. La 
Cina, nel 
luglio 2017, ha 
lanciato il 
suo «“next 
Generation 
artificial 
intelligence 
Development 
Plan”, 
sfruttando 
al 
massimo 
le 
sue 
capacità 
attraverso 
dei 
piani 
concreti 
e 
rapidi, avvantaggiati 
dall’enorme 
quantità di 
dati 
a disposizione». tuttavia, le 
acquisizioni 
cinesi 
di 
aziende 
europee 
hanno provocato non poca 
preoccupazione: 
la 
nazione 
è 
decisa 
a 
diventare 
un «leader 
mondiale 
nella definizione 
di 
norme 
etiche 
e 
standard per 
l’i.a.», ma 
il 
problema 
è 
che 
in 
Cina 
non 
ci 
sono 
precisi 
regolamenti 
per 
tutelare 
i 
dati 
personali, 
e 
c’è 
il 
serio 
pericolo 
di 
mettere 
a 
rischio la 
privacy di 
tantissimi 
utenti, dal 
momento che 
il 
governo di 
Pechino «ha a disposizione 
un 
quantitativo di dati spropositato», come si legge sul 
report. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


appartiene 
alla 
categoria 
del 
calcolatore, vi 
è 
una 
responsabilità 
di 
una 
entità 
pensante, pensiero autonomo e personalità elettronica. 

L’IVASS 
non ha 
preteso, fino ad ora, di 
andare 
ad individuare 
una 
disciplina 
specifica 
che 
si 
traduca 
in maggiori 
oneri: 
devono essere 
gli 
stessi 
operatori 
che 
devono impegnarsi 
con il 
controllo interno, corporate 
governance 
al rispetto dei principi etici dell’IA. 

Si 
pensi 
anche 
al 
Codice 
di 
autodisciplina 
della 
Consob. Il 
mercato assicurativo 
utilizza 
l’IA 
per la 
personalizzazione 
dei 
contratti 
assicurativi 
e 
del 
premio giusto adeguato al 
livello di 
rischio, senza 
far venir meno il 
carattere 
di 
mutualità 
rispetto alla 
granularità 
del 
dato. ecco che 
allora 
nell’ambito assicurativo 
si 
distinguono 
tre 
soggetti 
con 
un’apposita 
configurazione: 
1) 
il 
soggetto 
produttore 
della 
parte 
meccanica; 
2) 
il 
codificatore 
del 
software; 
3) 
l’ideatore dell’algoritmo. 

Sulla 
base 
di 
tale 
tripartizione, si 
analizza 
il 
problema 
dell’imputabilità 
giuridica, secondo l’analisi economica del diritto. 

Per l’utente 
si 
fa 
riferimento all’art. 2051 c.c., responsabilità 
per le 
cose 
in custodia, mentre 
si 
richiama 
l’art. 2050 c.c., responsabilità 
per attività 
pericolose, 
per l’operatore 
economico che 
sostituisce 
l’uomo con IA, ma 
in tal 
caso il 
soggetto danneggiato si 
trova 
in una 
posizione 
di 
maggior svantaggio, 
perché l’operatore può provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare 
il danno. 

Calzante 
è 
il 
riferimento 
anche 
all’art. 
2049 
c.c., 
responsabilità 
indiretta 
che 
non 
ammette 
prova 
contraria 
e 
che 
si 
basa 
sul 
nesso 
di 
“occasionalità 
necessaria”. 


Si 
è 
discusso 
se, 
per 
l’ideatore 
dell’algoritmo, 
possa 
farsi 
riferimento 
alla 
responsabilità 
del 
produttore: 
il 
limite 
di 
applicabilità 
è 
dato, 
come 
sopra 
già, 
esposto 
dalla 
capacità 
autoevolutiva 
dell’algoritmo 
nei 
sistemi 
di 
deep 
learning, 
autoevoluzione 
che 
può 
prescindere 
totalmente 
dalla 
volontà 
dell’ideatore. 


nell’ambito del 
diritto uniforme 
è 
stata 
lungimirante 
la 
Risoluzione 
del 
parlamento europeo dell’ottobre 
2020, che 
invitava 
la 
Commissione 
ad adottare 
un regolamento che 
uniformi 
la 
disciplina 
dell’onere 
della 
prova 
a 
carico 
del 
produttore 
di 
un 
software 
stand/alone 
o 
anche 
come 
componente 
di 
un’entità 
materiale ed immateriale. 

Si 
è 
giunti 
così 
ad 
un 
doppio 
binario: 
a) 
responsabilità 
oggettiva 
per 
attività 
ad 
alto 
rischio 
salvo 
prova 
contraria: 
b) 
responsabilità 
aggravata 
per 
colpa 
presunta 
con 
prova 
contraria 
dell’operatore 
(ad 
esempio, 
se 
il 
sistema 
è 
stato 
utilizzato 
a 
sua 
insaputa). 
Appare 
ovvio, 
in 
tale 
contesto, 
che 
l’operatore 
back-end 
o 
front-end 
richieda 
una 
copertura 
assicurativa 
obbligatoria. 
In 
un 
sistema 
tecnologico 
in 
continua 
evoluzione, 
le 
tecniche 
di 
assicurazione 
richiedono 
a 
loro 
volta 
un 
continuo 
adattamento 
con 
un 
abbassamento 
dei 
costi 
di 
accesso, 
con 
un 
cloud 
che 
abbia 
un 
elevato 
potere 
di 
calcolo 
computazionale, 
open 
source. 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


Se 
quella 
appena 
descritta 
è 
la 
situazione 
attuale 
nel 
campo assicurativo, 
maggiore 
complessità 
applicativa 
presenta 
il 
campo medico, la 
c.d. Med tech 
ia 
(80). 

Si 
è 
calcolato che 
l’applicazione 
dell’IA 
nel 
campo terapeutico potrebbe 
salvare 
circa 
400.000 vite 
all’anno, con un risparmio di 
200 miliardi 
di 
euro 
ed ulteriore 
risparmio di 
2000 ore 
lavorative 
in ambito sanitario. occorre 
precisare 
che 
i 
software 
utilizzati 
nel 
campo medico sono dei 
veri 
e 
propri 
dispositivi 
medici, 
tutte 
le 
app 
sono 
dispositivi 
medici 
con 
classificazione 
di 
rischio 
(classe 
1 
e 
classe 
2) 
sottoposte 
alla 
specifica 
disciplina 
eurounitaria 
dei 
dispositivi 
medici del 2021 (81). 

(80) 
V.A. 
CReA, 
“L’intelligenza 
artificiale 
sta 
rivelando 
una 
biologia 
sconosciuta”, 
su 
https://www.tomshw.it/scienze/lintelligenza-artificiale-sta-rivelando-una-biologia-sconosciuta/. 
Come 
riportato nell’articolo, in un campo estraneo al 
diritto, è 
stato constatato che 
«la maggior 
parte 
delle 
malattie 
umane 
può essere 
ricondotta a parti 
malfunzionanti 
di 
una cellula, un tumore 
è 
in grado di 
crescere 
perché 
un gene 
non è 
stato accuratamente 
tradotto in una particolare 
proteina, o una malattia 
metabolica 
sorge 
perché 
i 
mitocondri 
non 
si 
attivano 
correttamente, 
per 
esempio». 
unendo 
insieme 
microscopia, 
tecniche 
di 
biochimica 
e 
IA, alcuni 
ricercatori 
e 
collaboratori 
della 
University 
of 
California 
San 
Diego 
School 
of 
Medicine 
hanno 
fatto 
un 
grande 
passo 
avanti 
nella 
comprensione 
delle 
cellule 
umane. 
La 
tecnica, 
chiamata 
Multi-Scale 
integrated 
Cell 
(MuSIC), 
è 
stata 
descritta 
il 
24 
novembre 
2021 
su nature, e 
nell’articolo sopra 
citato si 
legge 
che 
«“Se 
immagini 
una cellula, probabilmente 
immagini 
il 
diagramma colorato nel 
tuo libro di 
testo di 
biologia cellulare, con mitocondri, reticolo endoplasmatico 
e 
nucleo. Ma è 
tutta qui? Sicuramente 
no”, sono state 
le 
parole 
di 
Trey 
ideker, PhD, professore 
alla 
UC 
San 
Diego 
School 
of 
Medicine 
e 
al 
Moores 
Cancer 
Center. 
“Gli 
scienziati 
si 
sono 
resi 
conto 
da 
tempo che 
c’è 
di 
più che 
non sappiamo di 
quanto sappiamo, ma ora abbiamo finalmente 
un modo per 
guardare 
più in profondità”. nello studio pilota, MuSiC ha rivelato circa 70 componenti 
contenuti 
all’interno 
di 
una linea cellulare 
renale 
umana, metà dei 
quali 
non era mai 
stata vista prima. in un esempio, 
i 
ricercatori 
hanno 
individuato 
un 
gruppo 
di 
proteine 
che 
formano 
una 
struttura 
sconosciuta. 
Lavorando con il 
collega della UC San Diego Gene 
Yeo, PhD, alla fine 
hanno determinato che 
la struttura 
è 
un nuovo complesso di 
proteine 
che 
lega l’rna. il 
complesso è 
probabilmente 
coinvolto nello 
splicing, un importante 
evento cellulare 
che 
consente 
la traduzione 
dei 
geni 
in proteine 
e 
aiuta a determinare 
quali 
geni 
vengono attivati 
in quali 
momenti. L’interno delle 
cellule 
e 
le 
molte 
proteine 
che 
si 
trovano lì, sono tipicamente 
studiate 
utilizzando una delle 
due 
tecniche: imaging al 
microscopio o associazione 
biofisica. 
Con 
l’imaging, 
i 
ricercatori 
aggiungono 
tag 
fluorescenti 
di 
vari 
colori 
alle 
proteine 
di 
interesse 
e 
tracciano i 
loro movimenti 
e 
associazioni 
attraverso il 
campo visivo del 
microscopio. Per 
esaminare 
le 
associazioni 
biofisiche, i 
ricercatori 
potrebbero utilizzare 
un anticorpo, specifico per 
una 
proteina, per 
estrarlo dalla cellula e 
vedere 
cos’altro è 
collegato ad esso. i microscopi 
consentono agli 
scienziati 
di 
vedere 
fino al 
livello di 
un singolo micron, circa le 
dimensioni 
di 
alcuni 
organelli, come 
i 
mitocondri. 
Gli 
elementi 
più 
piccoli, 
come 
le 
singole 
proteine 
e 
i 
complessi 
proteici, 
non 
possono 
essere 
visti 
attraverso un microscopio. Le 
tecniche 
di 
biochimica, che 
iniziano con una singola proteina, consentono 
agli 
scienziati 
di 
scendere 
alla scala nanometrica. (Un nanometro è 
un miliardesimo di 
metro, 
o 1.000 micron). “Ma come 
si 
fa a colmare 
questo divario dalla scala nanometrica a quella micrometrica? 
Questo 
è 
stato 
a 
lungo 
un 
grande 
ostacolo 
nelle 
scienze 
biologiche”, 
ha 
detto 
ideker, 
che 
è 
anche 
fondatore 
della UC Cancer 
Cell 
Map initiative 
e 
dell’UC San Diego Center 
for 
Computational 
Biology 
and 
Bioinformatics. 
“Si 
scopre 
che 
puoi 
farlo 
con 
l’intelligenza 
artificiale, 
guardando 
i 
dati 
da 
più 
fonti 
e 
chiedendo al 
sistema di 
assemblarlo in un modello di 
una cella”. ideker 
ha sottolineato che 
questo 
era uno studio pilota per 
testare 
MuSiC. Hanno esaminato solo 661 proteine 
e 
un tipo di 
cellula. “il 
chiaro passo successivo è 
quello di 
indagare 
attraverso l’intera cellula umana”, ha detto ideker, “e 
poi 
passare 
a diversi 
tipi 
di 
cellule, persone 
e 
specie. alla fine, potremmo essere 
in grado di 
comprendere 
meglio le 
basi 
molecolari 
di 
molte 
malattie 
confrontando ciò che 
è 
diverso tra cellule 
sane 
e 
malate”». 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Il 
Libro 
bianco 
sull’intelligenza 
artificiale 
fa 
espressamente 
riferimento 
al 
campo 
medico, 
basti 
pensare 
che 
tutta 
l’industria 
Med 
tech 
rappresenta 
un 
giro 
di 
affari 
di 
120 
miliardi 
di 
euro. 
Vi 
sono 
smartphone 
capaci 
di 
calcolare 
il 
battito 
cardiaco, 
segnalare 
l’aritmia 
al 
medico 
curante, 
attivare 
gli 
allert 
per 
la 
fibrillazione 
atriale, 
essendo 
un 
valido 
aiuto 
anche 
per 
la 
diagnosi 
precoce 
(82). 


Ma 
cosa 
succede 
se 
le 
funzionalità 
del 
software 
cambiano con machine 
learning, assumendo delle 
caratteristiche 
diverse 
da 
quelle 
per le 
quali 
ha 
ricevuto 
il marchio Ce? In questo caso è in gioco la stessa salute del paziente. 


La 
food 
and 
Drug 
administration 
si 
sta 
concentrando 
non 
solo 
sul 
rischio, 
ma 
anche 
su un protocollo di 
modifica 
dell’algoritmo “effort 
change”, 
che 
non blocchi 
l’evoluzione 
dell’algoritmo e 
l’innovazione 
tecnologica, ma 
che 
salvaguardi 
la 
salute 
del 
paziente. Dal 
26 maggio 2021 è 
entrato in vigore 
il 
nuovo 
regolamento 
sui 
dispositivi 
medici 
(83), 
con 
analisi 
rischio/beneficio 
in ambito sanitario. A 
tal 
riguardo, occorre 
precisare 
che 
la 
tutela 
della 
salute 
in senso ampio deve 
intendersi 
anche 
come 
protezione: 
negli 
ultimi 
anni, in 
tutto il 
mondo, medici 
e 
ricercatori 
hanno delle 
reti 
neuronali 
utilizzate 
dagli 
algoritmi 
per modellizzare 
il 
comportamento umano attraverso dati 
strutturati 
e processati per il c.d. customer journey. 


In una 
serie 
di 
articoli 
dell’economist, che 
provano a 
immaginare 
come 
sarà 
il 
futuro, intitolata 
“What 
if”, l’immaginaria 
vincitrice 
del 
premio nobel 
per la 
medicina 
del 
2036 è 
Yulya, un’intelligenza 
artificiale 
che 
ha 
salvato 4 
milioni 
di 
vite 
grazie 
al 
superamento 
del 
problema 
dell’antibiotico-resistenza, 
il 
fenomeno per cui 
molti 
batteri 
resistono all’attività 
degli 
antibiotici 
rendendoli 
inefficaci. 
nello 
scenario 
immaginato 
dall’economist, 
nel 
2034 
per 
errore 
viene 
consentito a 
Yulya -progettata 
per sviluppare 
nuove 
cure 
contri 
i 
tumori 
-di 
accedere 
a 
un 
enorme 
database 
di 
studi 
sui 
farmaci. 
In 
questo 
modo, 
riesce 
a 
migliorare 
le 
proprie 
conoscenze 
sull’antibiotico-resistenza, 
trovando 
nuove 


(81) Regolamento 2017/745 relativo ai 
dispositivi 
medici 
(Medical 
Devices 
regulation, MDr), 
ufficialmente entrato in vigore il 26 maggio 2021. 
(82) 
Il 
rapporto 
tra 
Intelligenza 
Artificiale 
e 
medicina 
è 
veramente 
prezioso: 
oggi 
l’I.A. 
fornisce 
grandi 
armi 
in 
più 
alla 
medicina, 
e 
ce 
lo 
ricorda 
anche 
il 
fisico 
A. 
VeSPIGAnI, 
docente 
della 
northeastern 
University, 
che 
di 
recente 
ha 
fatto 
un 
appello 
affinché 
le 
istituzioni 
sfruttino 
l’I.A. 
nel 
modo 
migliore 
possibile. 
Bisogna 
ripensare 
alla 
salute 
pubblica 
in 
scala 
globale, 
sfruttando 
anche 
l’insegnamento 
della 
Pandemia 
da 
Covid-19: 
«le 
piattaforme 
sviluppate 
per 
affrontare 
il 
coronavirus 
saranno 
il 
motore 
per 
un 
futuro 
diverso 
in 
termini 
di 
ricerca 
anche 
contro 
altre 
malattie. 
L’altro 
grande 
avanzamento 
è 
la 
presa 
di 
coscienza 
dell’immenso 
valore 
dei 
dati: 
non 
tanto 
come 
fotografia 
statica, 
ma 
in 
quanto 
materia 
dinamica 
che 
ci 
serve 
per 
avere 
delle 
letture 
sulla 
gestione 
delle 
crisi 
sanitarie. 
Quindi 
in 
combinazione 
con 
intelligenza 
artificiale, 
statistica, 
apprendimento 
automatico. 
Queste 
nuove 
analisi 
dati 
rappresentano 
anche 
un 
ritorno 
alla 
visione 
collettiva 
della 
salute 
di 
una 
popolazione, 
nella 
direzione 
di 
un 
nuovo 
approccio 
alla 
sanità 
pubblica» 
ha 
detto 
il 
famoso 
fisico; 
v. 
l’intervista 
su 
https://www.ilfoglio.
it/scienza/2021/09/18/video/-la-pandemia-ci-deve-far-ripensare-la-sanita-pubblica-parla-ilfisico-
alessandro-vespignani-2951628/. 
(83) Regolamento 2017/745 cit. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


combinazioni 
di 
farmaci 
e 
risolvendo 
così 
un 
problema 
considerato 
attualmente 
dalle 
autorità 
sanitarie 
una 
grave 
minaccia. è 
una 
storia 
inventata 
ovviamente 
che, 
però, 
prova 
a 
ipotizzare 
cosa 
succederà 
in 
futuro 
sulla 
base 
delle 
evidenze scientifiche al momento disponibili. 

non è 
una 
suggestione 
insensata 
pensare 
che 
in futuro l’intelligenza 
artificiale 
possa 
curare 
le 
persone 
o aiutare 
a 
prevedere 
le 
malattie: 
negli 
ultimi 
anni, in tutto il 
mondo, medici 
e 
ricercatori 
hanno collaborato e 
discusso su 
come sfruttare una risorsa tecnologica così potente (84). 

ne 
hanno anche 
valutato i 
limiti, i 
possibili 
effetti 
distorsivi 
e 
gli 
errori, 
che 
anche 
in ambito sanitario dipendono da 
come 
viene 
strutturata 
questa 
tecnologia 
e di quanti e quali dati si serve. 


“L’intelligenza 
artificiale 
può 
migliorare 
l’assistenza 
sanitaria 
e 
la 
medicina 
in 
tutto 
il 
mondo, 
ma 
solo 
se 
l’etica 
e 
i 
diritti 
umani 
vengono 
messi 
al 
centro 
della 
sua 
progettazione, 
implementazione 
ed 
utilizzo”, 
si 
legge 
nel 
report 
“etica 
e 
governance 
dell’intelligenza 
artificiale 
per 
la 
salute”, 
pubblicato 
a 
fine 
giugno 
dall’organizzazione 
mondiale 
della 
Sanità 
(oMS) 
e 
risultato 
di 
una 
consultazione 
tra 
esperti 
durata 
due 
anni. 
nonostante 
sia 
spesso 
percepita 
con 
un’accezione 
fantascientifica 
o 
distopica, 
l’intelligenza 
artificiale 
viene 
già 
utilizzata 
in 
molte 
discipline 
della 
medicina 
come 
strumento 
di 
supporto 
per 
migliorare 
il 
giudizio 
e 
in 
generale 
il 
lavoro 
dei 
medici. 
I 
principali 
settori 
di 
applicazione 
sono 
la 
diagnostica, 
lo 
sviluppo 
di 
nuovi 
farmaci 
e 
vaccini, 
la 
riabilitazione 
e 
la 
telemedicina 
(85). 
è 
utile 
nell’analizzare 
le 
immagini 
per 
dia


(84) Con l’Intelligenza 
Artificiale 
siamo arrivati 
a 
tecnologie 
in grado di 
crescere 
un feto, grazie 
all’esperimento cinese 
degli 
scienziati 
dell’Istituto di 
ingegneria 
e 
tecnologia 
biomedica 
di 
Suzhou. Si 
stima 
addirittura 
che 
la 
gestazione 
artificiale 
sarà 
più efficiente 
e 
sana 
di 
quella 
umana. L’esperimento 
ha 
riguardato un vero e 
proprio grembo artificiale 
capace 
di 
far crescere 
un feto in sicurezza, sotto la 
gestione 
di 
un’intelligenza 
artificiale 
che 
monitora 
e 
accudisce 
il 
nascituro con un altissimo livello di 
efficienza. La 
c.d. “mamma ia”, che 
ora 
sta 
gestendo grandi 
quantità 
di 
embrioni 
animali, potrebbe, in 
futuro, addirittura 
eliminare 
la 
necessità 
per una 
donna 
di 
crescere 
in grembo il 
proprio bambino, permettendo 
un’evoluzione 
del 
feto più sicura 
ed efficiente 
fuori 
dal 
suo corpo. Insomma, un incubatore 
2.0 
che 
simula 
il 
grembo 
materno, 
con 
effetti 
positivi 
sui 
nati 
prematuri 
che 
spesso, 
anche 
nei 
paesi 
dotati 
di 
buoni 
ospedali, 
hanno 
pochissime 
possibilità 
di 
sopravvivere. 
V. 
https://formiche.net/2022/02/ia-gestazione-artificiale-cina/. 


(85) Come 
è 
stato riportato su ansa.it, “Science, ia 
che 
predice 
la forma delle 
proteine 
è 
stata la 
scoperta del 
2021”, secondo la 
rivista 
Science 
l’IA 
che 
predice 
la 
struttura 
3D 
delle 
proteine 
è 
stata 
la 
scoperta 
dell’anno e 
ha 
scalato tutte 
le 
classifiche 
battendo le 
pillole 
anti-Covid e 
i 
terremoti 
su Marte. 
Grazie 
agli 
sviluppi 
dell’ultimo periodo, il 
direttore 
di 
Science, 
Holden Thorp, ha 
dichiarato che 
questa 
scoperta 
«innanzitutto risolve 
un problema scientifico che 
resisteva da 50 anni. Poi 
è 
una tecnica rivoluzionaria 
che, 
come 
la 
Crispr 
o 
la 
microscopia 
crioelettronica, 
imprimerà 
una 
forte 
accelerazione 
alle 
scoperte 
scientifiche». 
Prima 
dell’avvento 
dell’IA, 
determinare 
la 
struttura 
di 
una 
proteina 
era 
un 
compito 
complesso. Comunque, la 
svolta 
decisiva 
è 
arrivata 
l’estate 
scorsa 
da 
parte 
di 
due 
gruppi 
di 
ricerca 
che 
hanno condiviso i 
propri 
risultati 
con la 
comunità 
scientifica. è 
stato prima 
il 
turno di 
uno studio pubblicato 
su nature 
e 
guidato da 
David Baker 
dell’università 
di 
Washington: 
roseTTafold 
ha 
risolto la 
struttura 
di 
centinaia 
di 
proteine 
note 
per 
essere 
bersagli 
di 
farmaci 
di 
uso 
comune. 
Poi 
è 
arrivata 
la 
pubblicazione 
su Science 
dello studio condotto dall’azienda 
britannica 
DeepMind di 
Google: 
l’azienda 
ha 
risolto la struttura di 350.000 proteine umane. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


gnosi 
radiologiche 
in 
oncologia, 
soprattutto 
per 
radiografie 
toraciche, 
colonscopie, 
mammografie, 
tAC 
cerebrali; 
viene 
usata 
anche 
per 
esami 
non 
radiologici, 
in 
dermatologia, 
e 
in 
oculistica, 
e 
aiuta 
ad 
accorciare 
i 
tempi 
di 
analisi 
(sequenziamento) 
dell’RnA 
e 
del 
DnA. 
I 
possibili 
sviluppi 
sono 
tantissimi: 
potrebbe 
consentire 
ai 
medici 
di 
individuare 
precocemente 
eventi 
di 
una 
certa 
gravità 
come 
l’ictus, 
il 
tumore 
al 
seno, 
le 
malattie 
coronariche, 
le 
polmoniti 
e 
il 
diabete. 
Anche 
in 
caso 
di 
malattia 
conclamata, 
l’intelligenza 
artificiale 
potrebbe 
essere 
utilizzata 
per 
integrare 
le 
cartelle 
cliniche 
dei 
pazienti 
durante 
lo 
studio 
di 
una 
cura 
o 
avere 
informazioni 
più 
dettagliate 
prima 
di 
prendere 
decisioni 
terapeutiche 
delicate 
come 
un 
ricovero 
o 
un’operazione 
chirurgica. 


La 
tecnologia 
può 
anche 
migliorare 
la 
comunicazione 
tra 
le 
strutture 
sanitarie, 
i 
medici 
di 
famiglia 
e 
i 
pazienti 
e 
attraverso 
controlli 
costanti 
aiutare 
le 
persone 
malate 
ad 
avere 
più 
consapevolezza 
e 
controllo 
delle 
proprie 
condizioni 
di 
salute, 
di 
come 
e 
quando 
assumere 
farmaci, 
di 
quanto 
sia 
importante 
avere 
un’alimentazione 
sana 
e 
fare 
regolare 
attività 
fisica. 
Lo 
sviluppo 
dell’intelligenza 
artificiale 
in 
medicina 
è 
legato 
all’aumento 
significativo 
dei 
dati: 
in 
ogni 
momento 
della 
giornata 
tutte 
le 
persone 
ne 
producono 
una 
notevole 
quantità, 
e 
sempre 
più 
dettagliati. 
un 
esempio 
banale 
e 
immediato 
è 
l’app 
Salute 
presente 
su 
Ios, 
il 
sistema 
operativo 
degli 
iPhone, 
che 
conta 
i 
passi 
fatti 
in 
un 
giorno 
e 
osserva 
il 
battito 
del 
cuore, 
se 
collegata 
a 
un 
dispositivo 
come 
uno 
smartwatch. 
Anche 
quando 
ci 
si 
sottopone 
a 
un 
esame 
in 
ospedale 
vengono 
raccolti 
dati 
in 
diverse 
forme: 
possono 
essere 
semplici, 
come 
la 
rilevazione 
della 
pressione 
arteriosa, 
o 
complessi 
come 
una 
tAC 
di 
ultima 
generazione, 
tecnica 
di 
indagine 
approfondita 
che 
consente 
di 
ricostruire 
un’immagine 
tridimensionale 
degli 
organi. 
I 
dati 
alimentano 
diversi 
sistemi 
di 
analisi 
che 
si 
basano 
su 
algoritmi 
e 
sono 
essenziali 
per 
far 
sì 
che 
l’intelligenza 
artificiale 
sia 
davvero 
intelligente. 
uno 
dei 
sistemi 
di 
analisi 
più 
utilizzati 
è 
il 
machine 
learning 
che 
consiste 
nello 
studio 
e 
nella 
costruzione 
di 
algoritmi 
che 
permettano 
ai 
computer 
di 
imparare 
a 
eseguire 
un 
compito 
preciso 
come 
riconoscere 
un’immagine 
o 
fare 
previsioni 
attendibili, 
a 
partire 
da 
un 
insieme 
di 
dati 
forniti 
dagli 
sviluppatori. 
L’algoritmo 
non 
impara 
cosa 
è 
un 
cane 
sulla 
base 
delle 
sue 
caratteristiche 
-ha 
quattro 
zampe, 
due 
occhi, 
può 
avere 
orecchie 
di 
una 
certa 
grandezza 
e 
il 
naso 
di 
una 
certa 
forma 
-ma 
riesce 
a 
identificarlo 
dopo 
aver 
imparato 
come 
è 
fatto 
osservando 
migliaia 
di 
foto 
che 
gli 
sviluppatori 
hanno 
categorizzato 
come 
immagini 
di 
cani. 
Capire 
come 
funziona 
il 
machine 
learning 
è 
importante 
per 
comprendere 
le 
potenzialità 
dell’intelligenza 
artificiale 
in 
medicina, 
anche 
se 
fino 
a 
pochi 
anni 
fa 
erano 
una 
risorsa 
poco 
o 
mal 
utilizzata. 


Giuseppe 
Sollazzo 
è 
l’“Head 
of 
artificial 
intelligence 
Skunkworks 
and 
deployment” 
del 
Servizio 
sanitario 
inglese. 
Significa 
che 
è 
a 
capo 
di 
una 
squadra 
di 
analisti 
dei 
dati 
che 
ha 
il 
compito 
di 
capire 
come 
usare 
l’intelligenza 
artificiale 
nel 
sistema 
sanitario 
e 
negli 
ospedali. 
L’ambito 
più 
promet



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


tente 
riguarda 
l’analisi 
delle 
immagini. 
L’intelligenza 
artificiale 
può 
osservare 
la 
tAC, 
un’immagine 
tridimensionale, 
per 
capire 
come 
una 
malattia 
evolve 
nel 
tempo 
e, 
quindi, 
se 
le 
condizioni 
di 
una 
persona 
migliorano 
o 
peggiorano. 
un 
medico 
riesce 
a 
capirlo 
guardando 
la 
tAC 
grazie 
agli 
studi 
e 
all’esperienza: 
attraverso 
il 
machine 
learning, 
un’intelligenza 
artificiale 
può 
analizzare 
le 
stesse 
immagini 
più 
rapidamente, 
con 
una 
maggiore 
possibilità 
di 
individuare 
lesioni 
minuscole. 
e 
aiutare 
il 
medico 
a 
prendere 
decisioni. 
C’è 
un 
modo 
per 
prevedere 
come 
si 
evolvono 
malattie 
come 
il 
glaucoma 
(una 
malattia 
cronica 
e 
progressiva 
che 
colpisce 
il 
nervo 
ottico) 
prima 
che 
le 
condizioni 
diventino 
più 
gravi? 
è 
una 
delle 
domande 
a 
cui 
l’intelligenza 
artificiale 
può 
dare 
una 
risposta 
attraverso 
l’analisi 
di 
milioni 
di 
immagini. 


uno dei 
problemi 
più rilevanti 
è 
la 
mancanza 
di 
dati 
dettagliati 
per studiare 
modelli 
che 
siano validi 
per tutte 
le 
persone. Rimediare 
alla 
scarsità 
di 
dati 
è 
complesso, 
anche 
perché 
i 
dati 
sanitari 
sono 
dati 
sensibili 
e 
non 
possono 
essere 
raccolti 
e 
gestiti 
con 
leggerezza. 
Servono 
accortezze 
e 
tutele 
per 
evitare 
abusi come l’uso improprio da parte delle aziende (86). 


(86) Art. 110 GDPR (Ricerca 
medica, biomedica 
ed epidemiologica): 
“1. il 
consenso dell'interessato 
per 
il 
trattamento dei 
dati 
relativi 
alla salute, a fini 
di 
ricerca scientifica in campo medico, biomedico 
o 
epidemiologico, 
non 
è 
necessario 
quando 
la 
ricerca 
è 
effettuata 
in 
base 
a 
disposizioni 
di 
legge 
o di 
regolamento o al 
diritto dell'Unione 
europea in conformità all'articolo 9, paragrafo 2, lettera j), 
del 
regolamento, ivi 
incluso il 
caso in cui 
la ricerca rientra in un programma di 
ricerca biomedica o 
sanitaria 
previsto 
ai 
sensi 
dell'articolo 
12-bis 
del 
decreto 
legislativo 
30 
dicembre 
1992, 
n. 
502, 
ed 
è 
condotta e 
resa pubblica una valutazione 
d'impatto ai 
sensi 
degli 
articoli 
35 e 
36 del 
regolamento. il 
consenso 
non 
è 
inoltre 
necessario 
quando, 
a 
causa 
di 
particolari 
ragioni, 
informare 
gli 
interessati 
risulta 
impossibile 
o 
implica 
uno 
sforzo 
sproporzionato, 
oppure 
rischia 
di 
rendere 
impossibile 
o 
di 
pregiudicare 
gravemente 
il 
conseguimento delle 
finalità della ricerca. in tali 
casi, il 
titolare 
del 
trattamento adotta 
misure 
appropriate 
per 
tutelare 
i 
diritti, le 
libertà e 
i 
legittimi 
interessi 
dell'interessato, il 
programma 
di 
ricerca è 
oggetto di 
motivato parere 
favorevole 
del 
competente 
comitato etico a livello territoriale 
e 
deve 
essere 
sottoposto 
a 
preventiva 
consultazione 
del 
Garante 
ai 
sensi 
dell'articolo 
36 
del 
regolamento. 
2. in caso di 
esercizio dei 
diritti 
dell'interessato ai 
sensi 
dell'articolo 16 del 
regolamento nei 
riguardi 
dei 
trattamenti 
di 
cui 
al 
comma 1, la rettificazione 
e 
l'integrazione 
dei 
dati 
sono annotati 
senza modificare 
questi 
ultimi, 
quando 
il 
risultato 
di 
tali 
operazioni 
non 
produce 
effetti 
significativi 
sul 
risultato 
della ricerca”. 
Art. 
110-bis 
GDPR 
(trattamento 
ulteriore 
da 
parte 
di 
terzi 
dei 
dati 
personali 
a 
fini 
di 
ricerca 
scientifica 
o 
a 
fini 
statistici): 
“1. 
il 
Garante 
può 
autorizzare 
il 
trattamento 
ulteriore 
di 
dati 
personali, 
compresi 
quelli 
dei 
trattamenti 
speciali 
di 
cui 
all'articolo 
9 
del 
regolamento, 
a 
fini 
di 
ricerca 
scientifica 
o 
a 
fini 
statistici 
da 
parte 
di 
soggetti 
terzi 
che 
svolgano 
principalmente 
tali 
attività 
quando, 
a 
causa 
di 
particolari 
ragioni, 
informare 
gli 
interessati 
risulta 
impossibile 
o 
implica 
uno 
sforzo 
sproporzionato, 
oppure 
rischia 
di 
rendere 
impossibile 
o 
di 
pregiudicare 
gravemente 
il 
conseguimento 
delle 
finalità 
della 
ricerca, 
a 
condizione 
che 
siano 
adottate 
misure 
appropriate 
per 
tutelare 
i 
diritti, 
le 
libertà 
e 
i 
legittimi 
interessi 
dell'interessato, 
in 
conformità 
all'articolo 
89 
del 
regolamento, 
comprese 
forme 
preventive 
di 
minimizzazione 
e 
di 
anonimizzazione 
dei 
dati. 
2. 
il 
Garante 
comunica 
la 
decisione 
adottata 
sulla 
richiesta 
di 
autorizzazione 
entro 
quarantacinque 
giorni, decorsi 
i 
quali 
la mancata pronuncia equivale 
a rigetto. Con il 
provvedimento di 
autorizzazione 
o 
anche 
successivamente, 
sulla 
base 
di 
eventuali 
verifiche, 
il 
Garante 
stabilisce 
le 
condizioni 
e 
le 
misure 
necessarie 
ad 
assicurare 
adeguate 
garanzie 
a 
tutela 
degli 
interessati 
nell'ambito 
del 
trattamento 
ulteriore 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


Da 
qualche 
anno, anche 
in Italia, esperti 
di 
sanità 
e 
di 
intelligenza 
artificiale 
si confrontano e studiano possibili applicazioni in sanità. 


uno 
degli 
esempi 
più 
rilevanti 
è 
la 
“cartella 
clinica 
del 
cittadino”, 
attivata 
nel 
2012 dalla 
provincia 
autonoma 
di 
trento. è 
un fascicolo sanitario elettronico 
che 
non 
archivia 
e 
analizza 
solo 
i 
dati 
raccolti 
in 
ospedale, 
come 
i 
risultati 
degli 
esami, ma 
anche 
quelli 
prodotti 
ogni 
giorno dal 
paziente. una 
persona 
diabetica, per esempio, inserisce 
ogni 
giorno i 
valori 
della 
glicemia, il 
tipo di 
pasto consumato e a che ora ha mangiato. 


“L’intelligenza 
artificiale 
non 
sostituisce 
il 
medico: 
il 
medico 
usa 
l’intelligenza 
artificiale 
per 
controllare 
le 
condizioni 
di 
salute 
del 
paziente 
in 
modo 
più 
approfondito 
e 
prescrivere 
cure 
personalizzate”, 
spiega 
Paolo 
traverso, 
direttore 
del 
Dipartimento 
Strategia 
e 
Sviluppo 
della 
Fondazione 
Bruno 
kessler 
di 
trento, 
che 
ha 
collaborato 
allo 
sviluppo 
della 
cartella 
clinica 
del 
cittadino 
e 
tra 
i 
più 
qualificati 
esperti 
italiani 
di 
intelligenza 
artificiale. 
L’app 
della 
cartella 
clinica 
del 
cittadino 
interagisce 
con 
le 
persone 
e 
i 
medici, 
e 
aiuta 
a 
comprendere 
meglio 
come 
sta 
un 
paziente 
e 
come 
si 
evolvono 
le 
sue 
condizioni 
nel 
tempo. 


I medici 
portano la 
conoscenza, l’app consente 
di 
osservare 
meglio la 
realtà: 
così si affinano i modelli di cura. 

Al 
momento, la 
piattaforma 
è 
utilizzata 
da 
oltre 
140 mila 
persone 
nella 
provincia 
autonoma 
di 
trento 
e 
la 
fondazione 
Bruno 
Kessler 
ha 
stretto 
accordi 
anche 
con 
emilia-Romagna, 
umbria, 
Friuli-Venezia 
Giulia 
e 
in 
ospedali 
come 
il 
fatebenefratelli 
per cui 
è 
stata 
messa 
a 
punto Mumapp, un’app per seguire 
le 
fasi 
dello 
sviluppo 
dei 
neonati 
nei 
primi 
mille 
giorni 
di 
vita. 
A 
tutti 
i 
progetti 
lavorano esperti 
di 
intelligenza 
artificiale 
e 
giuristi, perché 
il 
tema 
della 
protezione 
dei 
dati 
e 
del 
consenso informato è 
essenziale, utilizzando il 
metodo 
“privacy 
by 
design”, 
un 
approccio 
che 
considera 
la 
privacy 
come 
centrale 
nello 
sviluppo. 


nel 
report 
“etica e 
governance 
dell’intelligenza artificiale 
per 
la salute” 
(87), 
gli 
esperti 
dell’oMS 
hanno 
individuato 
sei 
principi 
per 
garantire 
che 
l’in


dei dati personali da parte di terzi, anche sotto il profilo della loro sicurezza. 


3. il 
trattamento ulteriore 
di 
dati 
personali 
da parte 
di 
terzi 
per 
le 
finalità di 
cui 
al 
presente 
articolo 
può essere 
autorizzato dal 
Garante 
anche 
mediante 
provvedimenti 
generali, adottati 
d'ufficio e 
anche 
in relazione 
a determinate 
categorie 
di 
titolari 
e 
di 
trattamenti, con i 
quali 
sono stabilite 
le 
condizioni 
dell'ulteriore 
trattamento 
e 
prescritte 
le 
misure 
necessarie 
per 
assicurare 
adeguate 
garanzie 
a 
tutela 
degli 
interessati. i provvedimenti 
adottati 
a norma del 
presente 
comma sono pubblicati 
nella Gazzetta 
Ufficiale della repubblica italiana. 
4. non costituisce 
trattamento ulteriore 
da parte 
di 
terzi 
il 
trattamento dei 
dati 
personali 
raccolti 
per 
l'attività 
clinica, 
a 
fini 
di 
ricerca, 
da 
parte 
degli 
istituti 
di 
ricovero 
e 
cura 
a 
carattere 
scientifico, 
pubblici 
e 
privati, 
in 
ragione 
del 
carattere 
strumentale 
dell'attività 
di 
assistenza 
sanitaria 
svolta 
dai 
predetti 
istituti 
rispetto alla ricerca, nell'osservanza di quanto previsto dall'articolo 89 del regolamento”. 
(87) 
Consultabile 
su 
https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Docs/oMS-ethics-ad-Governanceof-
artificial-intelligence-for-Health-WHo-Guidance. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


telligenza 
artificiale 
per la 
cura 
della 
persona 
funzioni 
nell’interesse 
pubblico 
e nel rispetto della privacy. 

Il 
primo è 
la 
protezione 
dell’autonomia 
umana: 
i 
medici 
devono mantenere 
il 
controllo dei 
sistemi 
sanitari 
e 
delle 
decisioni 
mediche. un altro principio 
rilevante 
è 
la 
necessità 
di 
garantire 
trasparenza 
attraverso 
la 
pubblicazione 
di 
tutte 
le 
informazioni 
sulla 
progettazione 
di 
un sistema 
di 
intelligenza 
artificiale. Le 
informazioni 
devono essere 
facilmente 
accessibili 
e 
stimolare 
un 
dibattito 
sull’uso 
corretto 
della 
tecnologia. 
Inoltre, 
devono 
essere 
garantite 
inclusività 
ed equità. L’oMS 
spiega 
che 
l’intelligenza 
artificiale 
per 
la 
salute 
deve 
essere 
«progettata per 
incoraggiare 
l’uso e 
l’accesso più equo 
possibile, 
indipendentemente 
da 
età, 
sesso, 
genere, 
reddito, 
razza, 
etnia, 
orientamento 
sessuale, abilità o altre 
caratteristiche 
protette 
dai 
codici 
dei 
diritti 
umani». 


In 
tale 
visione, 
si 
sta 
sviluppando 
la 
c.d. 
Webscience, 
una 
nuova 
materia 
accademica 
multidisciplinare, 
che 
studia 
la 
tecnologia 
alla 
base 
del 
web, 
ma 
anche 
le 
relazioni 
tra 
uomo 
e 
web, 
delineando 
gli 
ecosistemi 
digitali 
di 
internet 
sulla 
base 
dello 
Human 
centre,a 
complex 
pattern 
of 
relationships, 
involgendo 
materie 
come 
psicologia 
e 
sociologia, 
robotica 
ed 
economia. 
Meredith 
Broussard, 
professoressa 
di 
Journalism 
presso 
la 
new 
york 
university, 
autrice 
del 
libro 
“artificial 
Unintelligence”, 
ha 
di 
recente 
coniato 
il 
termine 
“Technoschauvinism”, 
ossia 
il 
concetto 
che 
ciò 
che 
è 
svolto 
dalla 
tecnologia 
rappresenti 
“il 
meglio 
possibile”. 
occorre, 
però, 
chiarire 
cosa 
si 
intenda 
per 
“meglio”. 


Abbiamo 
visto 
come 
l’algoritmo 
può 
diventare 
giudice, 
può 
diventare 
manager, 
può 
diventare 
assicuratore, 
può 
diventare 
operatore 
di 
borsa, 
può 
diventare 
medico. 
occorre 
allora 
chiedersi 
se 
l’algoritmo 
sia 
un 
semioforo, 
ossia 
l’oggetto visibile 
di 
un mondo invisibile 
che 
assume 
rilievo in relazione 
alla 
sua 
“funzione 
di 
apprendimento 
continuo”. 
Ma 
se 
ragioniamo 
sulla 
derivazione 
etimologica 
di 
robot, 
dalla 
lingua 
ceca 
“lavoro 
forzato”, 
allora 
viene 
in 
rilievo 
la dinamica servo-padrone della “fenomenologia dello spirito” di hegel. 

L’algoritmo è 
divenuto il 
nuovo padrone 
dell’uomo: 
si 
pensi 
al 
caso dei 
lavoratori della 
Delivery food 
(88). 


(88) Interessante 
il 
recente 
caso in cui 
è 
intervenuta 
la 
Procura 
di 
Milano, che 
ha 
ordinato a 
Deliveroo 
l’assunzione 
regolare 
dei 
riders. Il 
tema 
è 
molto dibattuto, ed è 
stata 
da 
poco presentata 
dalla 
Commissione 
la 
proposta 
di 
direttiva 
europea 
che 
disciplina 
il 
lavoro 
dei 
riders 
come 
lavoro 
dipendente. 
Ciò pone 
fine 
al 
contrasto giurisprudenziale 
italiano in cui 
si 
è 
dibattuto se 
applicare 
o no il 
Jobs 
act 
a 
questi 
lavoratori, che 
secondo il 
tribunale 
di 
Milano (sentenza 
10 settembre 
2018, n. 1853), andavano 
considerati 
collaboratori, mentre 
secondo la 
tesi 
del 
tribunale 
di 
Palermo (sentenza 
24 novembre 
2020, 
n. 
3570), 
andrebbero 
inquadrati 
nel 
rapporto 
di 
lavoro 
dipendente. 
Per 
una 
accurata 
sintesi 
del 
contrasto 
giurisprudenziale 
si 
veda 
F. 
tARSItAno, 
“il 
diritto 
del 
lavoro 
alla 
prova 
degli 
algoritmi: 
la 
“tappa” 
della 
Procura 
di 
Milano 
nella 
corsa 
alla 
tutela 
dei 
riders”, 
su 
quotidianogiuridico.it, 
marzo 
2021. 
Dall’analisi 
dei 
dati 
è 
emerso 
che 
circa 
28 
milioni 
di 
persone 
in 
europa 
lavorano 
per 
le 
piattaforme 
digitali, 
da 
quelle 
del 
food delivery 
a 
uber. Se 
è 
vero che 
il 
90% è 
inquadrato come 
autonomo, è 
anche 
vero che 
almeno 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


I“riders” 
sono 
schiavi 
di 
un 
algoritmo 
che 
non 
rispetta 
il 
diritto 
alla 
disconnessione 
e 
alla 
non 
sorveglianza 
continua 
della 
prestazione 
lavorativa 
(89). 


Viene 
in mente 
il 
libro del 
Professore 
Marco Revelli 
“Umano, inumano 
e 
postumano” 
(2020). 
Ma 
cosa 
è 
l’humanitas? 
L’humanitas 
è 
la 
capacità 
di 
vedere 
nell’altro 
tracce 
di 
se 
stesso. 
tale 
termine 
risale 
a 
Cicerone, 
per 
il 
quale 
humanus 
è 
l’uomo politicus 
che 
ha 
dignità: 
recte 
loqui, honeste 
vivere. terenzio 
diceva 
homo sum 
e nulla di ciò che è umano mi è estraneo. 

Humanitas 
è 
comunanza 
consapevole 
sviluppatasi 
poi 
nel 
cristianesimo, 
la 
paideia 
è 
applicazione 
dell’humanitas. oggi 
si 
parla 
di 
paideia digitale 
ed 
appare attualissimo l’invito di Rousseau: “Uomini, siate umani”. 

Si 
può parlare 
oggi 
di 
Digital 
Humanist? 
La 
Professoressa 
Velardi, do


5,5 milioni 
avrebbero le 
caratteristiche 
per essere 
considerati 
dipendenti 
a 
tutti 
gli 
effetti. ecco che 
l’8 
dicembre 
2021 l’esecutivo dell’unione 
europea 
ha 
approvato un pacchetto di 
misure, in cui 
vi 
è 
la 
proposta 
di 
una 
direttiva, volta 
ad aumentare 
le 
tutele, secondo cui 
può essere 
riconosciuto un rapporto di 
subordinazione 
qualora 
siano rispettati 
almeno due 
criteri 
su cinque. Dovrà 
essere 
verificato se 
vi 
è 
la 
determinazione 
o meno del 
salario o di 
un tetto allo stipendio; 
se 
vi 
è 
vigilanza 
sul 
lavoro attraverso 
strumenti 
elettronici; 
se 
vi 
sono restrizioni 
all’orario di 
lavoro o al 
periodo di 
vacanza 
e 
al 
trasferimento 
a 
terzi 
dell’impegno preso; 
se 
vi 
sono regole 
vincolanti 
sul 
lavoro da 
garantire; 
o restrizioni 
alla 
possibilità 
di 
allargare 
la 
propria 
clientela. Se 
almeno due 
di 
queste 
cinque 
condizioni 
sono rispettate, i 
collaboratori 
avranno diritto a 
salario minimo, ferie, malattia, congedi 
parentali 
e 
ogni 
altra 
tutela 
garantita 
ai 
dipendenti. 
Le 
piattaforme 
si 
possono 
opporre 
a 
questo 
accertamento 
imposto 
dalle 
autorità 
nazionali, 
ma 
su di 
loro grava 
l’onere 
di 
provare 
che 
il 
lavoratore 
è 
autonomo. Il 
secondo pilastro della 
proposta 
riguarda 
la 
trasparenza 
nell’uso degli 
algoritmi: 
i 
“gig worker”, come 
i 
sindacati 
e 
le 
autorità, avranno 
il 
diritto di 
essere 
informati 
sul 
funzionamento del 
sistema 
che 
assegna 
i 
compiti, i 
compensi 
e 
i 
bonus. 
La 
riforma 
potrà 
portare, secondo le 
stime 
degli 
esperti, ad una 
“riqualificazione” 
come 
dipendenti 
di 
4,1 milioni 
di 
lavoratori. La 
proposta 
deve 
ancora 
essere 
approvata 
dal 
Parlamento e 
dal 
Consiglio ue 
e 
poi 
i 
singoli 
Stati 
dovranno 
recepire 
la 
direttiva 
nella 
legislazione 
nazionale. 
Per 
ora, 
solamente 
la 
Spagna 
ha 
adottato 
una 
legge 
secondo 
cui 
i 
riders 
sono 
lavoratori 
dipendenti 
e 
così 
Deliveroo 
ha 
lasciato 
il 
Paese. 
tuttavia, 
se 
l’azione 
dei 
Paesi 
europei 
sarà 
congiunta, 
è 
certo 
che 
aggirare 
l’imposizione 
di 
maggiori tutele sarà molto difficile. 


(89) La 
gig-economy 
è 
gestita 
da 
piattaforme 
che 
non riconoscono i 
diritti 
fondamentali 
ai 
lavoratori 
e 
celano 
una 
quantità 
enorme 
di 
contributi 
previdenziali 
non 
pagati. 
La 
Cassazione, 
con 
la 
sentenza 
n. 1663 del 
2020, riconosce 
all’art. 2, comma 
1, del 
D.lgs 
n. 81/2015 un intento protettivo, rimediale, 
antielusivo. David Card 
ha 
ricevuto quest’anno il 
premio nobel 
per l’economia 
proprio per i 
suoi 
studi 
sul 
salario minimo, mettendo in evidenza 
che 
esso incide 
non tanto sull’occupazione, ma 
sulla 
stessa 
produttività 
di 
un 
sistema 
economico. 
In 
tal 
senso, 
la 
flexsecurity 
può 
rappresentare 
un 
rimedio 
alla 
frammentarietà 
dell’occupazione, poiché 
qui 
le 
web corporation 
hanno “poco lavoro regolamentato”, 
ma 
molta 
tecnologia. è 
il 
fenomeno della 
liberalizzazione 
del 
firing 
e 
del 
“working poor”, ossia 
il 
fenomeno 
di 
coloro che 
non hanno diritti 
e 
che 
guadagnano meno del 
60 per cento del 
reddito mediano. I livelli 
occupazionali 
sono spesso messi 
in pericolo anche 
da 
operazioni 
economiche 
che 
vedono società 
estere 
determinate 
ad 
acquisire 
quote 
di 
partecipazione 
in 
imprese 
strategiche 
nazionali. 
Si 
pensi 
al 
caso 
di 
Kkr, società 
americana 
che 
di 
recente 
sta 
cercando di 
acquisire 
quote 
societarie 
di 
tim 
accanto alle 
quote 
di 
Cassa 
Depositi 
e 
Prestiti 
e 
la 
società 
francese 
Vivendi. tim 
ha 
un ruolo strategico nella 
realizzazione 
di 
una 
rete 
unica 
digitale 
con 
l’infrastruttura 
della 
banda 
ultra 
larga 
determinante 
per 
il 
processo 
di 
digitalizzazione 
del 
paese. Proprio per tale 
motivo, e 
per garantire 
i 
livelli 
occupazionali, il 
Governo 
sta 
valutando la 
possibilità 
di 
attivare 
lo strumento del 
golden power, ossia 
la 
possibilità 
di 
opporre 
un 
veto a 
tale 
genere 
di 
operazioni 
per tutelare 
l’interesse 
nazionale. L’opera 
di 
digitalizzazione 
ha 
l’insito 
pericolo 
di 
renderci 
totalmente 
dipendenti 
da 
società 
estere 
come 
intel, 
più 
“robuste” 
sul 
piano 
delle 
competenze tecnologiche. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


cente 
di 
informatica 
presso 
l’università 
La 
Sapienza, 
ritiene 
che 
una 
giusta 
applicazione 
del 
concetto di 
humanitas 
all’utilizzo degli 
algoritmi 
sia 
rinvenibile 
nell’ambito 
della 
gerotecnologia, 
la 
c.d. 
tecnologia 
buona 
applicata 
nella 
medicina: 
sensori 
ambientali 
e 
sensori 
indossabili 
(wearable) per monitorare 
lo 
stato 
di 
salute 
di 
persone 
anziane 
e 
disabili. 
è 
un 
esempio 
della 
applicazione 
della 
tecnologia 
ispirata 
ai 
principi 
di 
humanitas 
e 
di 
solidarietà 
sociale, uso 
“valoriale” 
dell’algoritmo, 
su 
paradigmi 
epistemologici 
nuovi, 
sulla 
base 
della 
dicotomia kantiana “sein e sollen”, essere e dover essere. 

Popper 
nella 
sua 
teoria 
dei 
tre 
mondi 
parlava 
del 
mondo 
1, 
ossia 
del 
mondo reale, del 
mondo 2, ossia 
del 
mondo psicologico, interiore; 
il 
diritto è 
il mondo 3, filosofia, morale, in cui rileva lo spirito oggettivo hegeliano. 

oggi 
nel 
mondo 3 il 
giurista 
deve 
confrontarsi 
con l’intelligenza 
artificiale, 
andando 
ben 
oltre 
le 
leggi 
di 
Asimov 
(90). 
Il 
campo 
di 
applicazione 
elettivo 
dell’IA 
in 
termini 
di 
“utilità 
umana” 
è 
senz’altro 
nel 
rapporto 
medico-paziente. 


Il 
rapporto tra 
algoritmo e 
medicina 
vede 
oggi 
applicazioni 
sempre 
più 
variegate. 
ne 
è 
un 
esempio 
la 
c.d. 
diagnostica 
vocale. 
Vocalis 
Health 
è, 
ad 
esempio, 
una 
startup 
israelo-statunitense, 
che 
sviluppa 
sistemi 
di 
riconoscimento 
vocale 
e 
che 
si 
è 
posta 
un obiettivo piuttosto ambizioso: 
riconoscere 
le 
persone 
malate 
di 
Covid-19 dal 
modo in cui 
parlano. Il 
sistema 
potrebbe 
semplificare 
la 
diagnosi 
della 
malattia 
(che 
nelle 
sue 
fasi 
iniziali 
ha 
sintomi 
che 
possono essere 
confusi 
con l’influenza 
o altri 
problemi 
respiratori) ed è 
solo 
uno 
degli 
sviluppi 
più 
recenti 
delle 
soluzioni 
per 
riconoscere 
automaticamente 
problemi di salute tramite il tono della voce. 

Il 
settore 
è 
in piena 
espansione 
e 
potrebbe 
portare 
un giorno ad avere 
assistenti 
vocali, 
come 
Siri 
o 
alexa, 
in 
grado 
di 
rilevare 
la 
presenza 
di 
particolari 
malattie nei loro interlocutori. 

Come 
racconta 
nature 
in 
un 
lungo 
articolo 
dedicato 
al 
tema, 
qualche 
tempo 
fa 
gli 
sviluppatori 
di 
Vocalis 
avevano 
realizzato 
un’applicazione 
per 
smartphone 
in grado di 
rilevare 
affezioni 
croniche 
polmonari 
-come 
le 
ostruzioni 
bronchiali 
-attraverso 
l’analisi 
della 
voce 
degli 
utenti. 
Partendo 
da 
quell’esperienza, 
hanno 
realizzato 
un’app 
sperimentale, 
chiedendo 
a 
individui 
risultati 
positivi 
al 
coronavirus 
di 
partecipare, 
registrando 
la 
loro 
voce 
una 


(90) I. ASIMoV, “Circolo vizioso”, 1942. Le 
tre 
leggi 
implementate 
dall’autore 
nei 
suoi 
robot 
dovevano 
rispettare 
la 
necessità 
di 
sicurezza 
(Prima 
legge), di 
servizio 
(Seconda 
legge) e 
di 
autoconservazione 
(terza legge) di questi oggetti sofisticati: 
“1. Un robot 
non può recar 
danno a un essere 
umano né 
può permettere 
che, a causa del 
suo mancato 
intervento, un essere umano riceva danno. 
2. 
Un 
robot 
deve 
obbedire 
agli 
ordini 
impartiti 
dagli 
esseri 
umani, 
purché 
tali 
ordini 
non 
vadano 
in 
contrasto alla Prima Legge. 
3. Un robot 
deve 
proteggere 
la propria esistenza, purché 
la salvaguardia di 
essa non contrasti 
con la 
Prima o con la Seconda Legge”. 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


volta 
al 
giorno seguendo le 
indicazioni 
indicate 
su uno schermo (descrivere 
una fotografia, oppure contare da 50 a 70). 

Vocalis 
ha 
poi 
utilizzato i 
propri 
sistemi 
di 
intelligenza 
artificiale, mettendo 
a 
confronto le 
registrazioni 
con quelle 
di 
chi 
era 
invece, risultato negativo 
al 
test 
per 
il 
coronavirus. 
Attraverso 
processi 
di 
apprendimento 
automatico 
(“machine 
learning”), 
il 
sistema 
ha 
provato 
a 
identificare 
una 
sorta 
di 
impronta 
vocale 
della 
malattia 
da 
Covid-19. 
Grazie 
a 
circa 
1500 
campioni 
sonori 
raccolti 
dai 
volontari, è 
stato poi 
possibile 
sviluppare 
uno strumento ora 
sperimentato 
in diversi 
ospedali 
in giro per il 
mondo in parallelo con i 
tradizionali 
sistemi 
per le diagnosi. 


Secondo i 
promotori 
dell’iniziativa, lo strumento potrebbe 
rivelarsi 
utile 
per 
rilevare 
i 
casi 
più 
probabilmente 
positivi 
tra 
gli 
individui 
che 
mostrano 
sintomi, anche 
lievi, al 
punto da 
non rendersi 
conto di 
essere 
malati. Ciò consentirebbe 
di 
concentrare 
le 
attività 
di 
test 
sui 
probabili 
infetti 
indicati 
dall’applicazione, 
riducendo tempi e costi per le analisi di laboratorio. 

Alcuni 
centri 
di 
ricerca 
hanno sviluppato app per provare 
a 
riconoscere 
l’infezione 
da 
Covid-19 dal 
modo in cui 
si 
tossisce, con risultati 
preliminari 
valutati con interesse dalla comunità scientifica. 


Ancor 
prima 
dell’inizio 
della 
pandemia, 
i 
sistemi 
di 
diagnostica 
vocale 
avevano 
iniziato 
a 
raccogliere 
importanti 
investimenti, 
complice 
il 
miglioramento 
delle 
intelligenze 
artificiali 
e 
la 
possibilità 
di 
sperimentare 
su 
un 
grande 
numero 
di 
dispositivi, 
dagli 
smartphone 
agli 
assistenti 
per 
la 
casa. 
Le 
soluzioni 
proposte 
non 
riguardano 
solamente 
malattie 
respiratorie, 
ma 
anche 
autismo, 
problemi 
cardiovascolari, 
demenza 
e 
depressione. 
Alcune 
sono 
ai 
primi 
stadi, 
altre 
hanno 
raggiunto 
forme 
più 
avanzate 
e 
iniziano 
ad 
essere 
commercializzate, 
seppure 
nell’ambito 
di 
programmi 
sperimentali 
con 
pochi 
pazienti. 


Il 
nostro 
modo 
di 
respirare 
e 
di 
parlare 
coinvolge 
numerose 
strutture 
anatomiche, 
dai 
polmoni 
al 
setto 
nasale, 
passando 
per 
la 
trachea, 
e 
le 
minime 
variazioni 
nel 
funzionamento 
di 
alcune 
di 
queste 
parti 
possono 
essere 
identificate 
da 
sistemi 
di 
analisi 
piuttosto 
raffinati, 
come 
quelli 
resi 
possibili 
dal 
machine 
learning. 


La 
grande 
disponibilità 
di 
dati 
e 
registrazioni 
audio 
di 
voci 
umane, 
in 
qualsiasi 
contesto 
e 
la 
potenza 
raggiunta 
dai 
computer 
rendono 
possibile 
l’analisi 
di 
quantità 
gigantesche 
di 
dati 
dai 
quali 
si 
possono trarre 
specifiche 
informazioni 
tramite gli algoritmi. 


Alcune 
malattie 
modificano 
sensibilmente 
il 
nostro 
modo 
di 
parlare, 
e 
per 
questo 
le 
prime 
ricerche 
avviate 
anni 
fa 
si 
erano 
orientate 
verso 
il 
loro 
studio 
e 
la 
loro 
analisi 
al 
computer. 
La 
malattia 
di 
Parkinson 
è 
una 
di 
queste: 
comporta 
problemi 
motori 
e 
spasmi 
muscolari 
che 
si 
riflettono 
anche 
nella 
respirazione 
e 
nel 
modo di 
articolare 
le 
parole. Gli 
individui 
malati 
di 
Parkinson 
tendono ad avere 
una 
voce 
più debole 
e 
a 
volte 
tremante, facilmente 
distinguibile 
a 
orecchio. 
Ma 
un 
algoritmo 
che 
attraverso 
10 
mila 
campioni 
di 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


voci 
si 
è 
allenato 
a 
riconoscere 
queste 
caratteristiche 
riesce 
ad 
essere 
molto 
più preciso, e 
potrebbe 
rivelarsi 
utile 
per aiutare 
nella 
diagnosi 
della 
malattia 
in una 
sua 
fase 
precoce, quando è 
ancora 
molto difficile 
da 
identificare. La 
rivista 
nature 
fa 
l’esempio di 
una 
ricerca 
pubblicata 
nel 
2012 e 
condotta 
presso 
l’università 
di 
Birmingham 
nel 
Regno 
unito. 
I 
suoi 
autori 
si 
chiesero 
se 
fosse 
possibile 
aiutare 
i 
medici 
a 
compiere 
diagnosi 
attraverso l’analisi 
della 
voce 
dei 
loro pazienti. utilizzarono le 
registrazioni 
di 
43 pazienti, 33 dei 
quali 
soffrivano 
di 
Parkinson, ai 
quali 
era 
stato richiesto di 
pronunciare 
a 
lungo la 
vocale 
“A”. 
utilizzarono 
poi 
algoritmi 
di 
analisi 
del 
parlato, 
identificando 
10 
indicatori 
tipicamente 
ricorrenti 
nelle 
voci 
dei 
pazienti. 
utilizzandoli, 
il 
sistema 
fu in grado di 
distinguere 
la 
voce 
di 
un individuo sano da 
uno malato 
con una 
precisazione 
del 
99 per cento. I ricercatori, in seguito, hanno rilevato 
alcune 
caratteristiche 
della 
voce 
che 
aiutano 
a 
comprendere 
il 
livello 
di 
gravità 
dei 
sintomi 
del 
Parkinson. Il 
loro sistema 
è 
ancora 
sperimentale, ma 
potrebbe 
essere 
impiegato 
in 
numerosi 
ambiti, 
per 
esempio 
per 
monitorare 
più 
facilmente 
gli 
individui 
a 
rischio 
di 
sviluppare 
la 
malattia, 
oppure 
per 
offrire 
servizi 
di 
diagnosi 
preliminare, in attesa 
di 
avviare 
un percorso tradizionale 
di 
visita 
da un neurologo. 


Le 
malattie 
neurodegenerative 
sono 
un 
campo 
dove 
le 
tecnologie 
di 
analisi 
vocale 
potrebbero 
offrire 
importanti 
opportunità. 
In 
Canada, 
per 
esempio, 
un 
gruppo 
di 
ricercatori 
ha 
utilizzato 
i 
campioni 
di 
voce 
di 
250 
individui 
per 
identificare 
tratti 
tipici 
nel 
modo 
di 
parlare 
di 
chi 
potrebbe 
avere 
l’Alzheimer. 
La 
ricerca 
ha 
rilevato 
come 
le 
persone 
che 
hanno 
poi 
ricevuto 
una 
diagnosi 
della 
malattia 
tendessero 
a 
utilizzare 
parole 
più 
corte, 
un 
maggior 
numero 
di 
pronomi 
rispetto 
ai 
sostantivi 
e 
ripetizioni 
nelle 
stesse 
frasi. 
Isolati 
35 
marcatori 
vocali, 
il 
sistema 
è 
stato 
in 
grado 
di 
riconoscere 
individui 
con 
l’Alzheimer 
con 
una 
precisione 
dell’82 
per 
cento. 
In 
successive 
analisi, 
il 
sistema 
è 
stato 
poi 
perfezionato, 
raggiungendo 
un’accuratezza 
del 
92 
per 
cento. 
Anche 
in 
questo 
caso, 
una 
soluzione 
di 
questo 
tipo 
potrebbe 
essere 
impiegata 
per 
compiere 
diagnosi 
precoci 
per 
una 
malattia 
difficile 
da 
identificare 
nei 
suoi 
primi 
stadi. 


Altri 
sistemi 
sono 
stati 
sperimentati 
in 
individui 
più 
giovani, 
con 
problemi 
di 
sviluppo neurologico. una 
ricerca 
svolta 
tre 
anni 
fa 
in Germania, su un numero 
ristretto di 
neonati, ha 
portato allo sviluppo di 
un algoritmo per predire 
casi 
di 
autismo. 
nella 
fase 
sperimentale, 
il 
sistema 
classificò 
correttamente 
l’80 per cento dei 
casi 
di 
bambini 
con autismo. Con una 
soluzione 
analoga, è 
stata 
sviluppata 
una 
soluzione 
di 
analisi 
per rilevare 
il 
disturbo da 
deficit 
di 
attenzione/iperattività (ADhD). 


un’altra 
ricerca 
negli 
Stati 
uniti 
si 
è, 
invece, 
dedicata 
all’analisi 
della 
voce 
degli 
individui 
che 
soffrono 
di 
disturbo 
da 
stress 
post-traumatico, 
una 
condizione 
psicologica 
che 
si 
sviluppa 
a 
causa 
di 
un evento traumatico o violento 
di 
grande 
rilevanza 
per il 
soggetto (riguarda 
ad esempio, molti 
soldati 
al 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


loro 
ritorno 
dal 
fronte). 
Dall’analisi 
delle 
registrazioni 
di 
129 
reduci 
di 
guerra, 
sono stati 
estratti 
18 indicatori, quasi 
tutti 
legati 
a 
un modo di 
parlare 
lento e 
monotono, 
che 
hanno 
poi 
permesso 
di 
identificare 
quali 
ex 
soldati 
avessero 
problemi psicologici con una precisione del 90 per cento. 


Gli 
studi 
condotti 
finora 
hanno 
riguardato 
un 
numero 
ristretto 
di 
individui, 
e 
per questo molti 
osservatori 
sono scettici 
sull’efficacia 
dei 
sistemi, considerato 
che 
gli 
esiti 
degli 
esperimenti 
sono 
difficili 
da 
riprodurre. 
Per 
superare 
queste 
limitazioni, alcune 
aziende 
hanno avviato programmi 
per raccogliere 
grandi 
quantità 
di registrazioni, o per facilitare 
la 
loro raccolta 
attraverso iniziative 
online. 


La 
società 
statunitense 
Sonde 
Health, per esempio, gestisce 
SurveyLex, 
una 
piattaforma 
online, che 
permette 
ai 
ricercatori 
di 
creare 
facilmente 
campagne 
per la 
raccolta 
di 
registrazioni 
vocali 
da 
parte 
di 
volontari. L’idea 
è 
di 
poter catalogare 
decine 
di 
migliaia 
di 
voci, in modo da 
affinare 
gli 
algoritmi 
e le capacità di riconoscimento. 


La 
stessa 
azienda 
ha 
collaborato 
lo 
scorso 
anno 
ad 
una 
ricerca 
per 
valutare 
quanto influisca 
la 
qualità 
delle 
registrazioni 
sulla 
capacità 
dei 
sistemi 
di 
rilevare 
automaticamente 
le 
malattie. Con tracce 
vocali 
registrate 
tramite 
microfoni 
ad 
alta 
fedeltà 
in 
laboratorio, 
i 
sistemi 
hanno 
riconosciuto 
i 
volontari 
affetti 
da 
depressione 
con una 
precisazione 
del 
94 per cento, mentre 
il 
livello 
di 
accuratezza 
è 
sceso al 
75 per cento in un esperimento condotto utilizzando 
registrazioni 
effettuate 
con gli 
smartphone, in ambienti 
diversi 
dai 
laboratori 
e, quindi, con maggiore 
rumore 
di 
fondo. L’impiego di 
una 
maggiore 
quantità 
di 
campioni 
per 
istruire 
le 
intelligenze 
artificiali 
dovrebbe 
contribuire 
a 
rendere 
meno 
rilevante 
il 
problema, 
ma 
pone, 
comunque, 
ulteriori 
domande 
sull’utilità 
di queste soluzioni. 


escluse 
alcune 
startup 
più 
agguerrite 
di 
altre 
nel 
modo 
in 
cui 
comunicano 
i 
loro risultati, per ora 
nessuno sviluppatore 
o ricercatore 
serio propone 
di 
sostituire 
le 
conoscenze 
e 
le 
capacità 
diagnostiche 
di 
un medico con un sistema 
per l’analisi 
della 
propria 
voce. L’idea 
è 
di 
utilizzare 
questi 
sistemi 
come 
una 
risorsa 
aggiuntiva 
per fare 
le 
diagnosi, inserendoli, quindi, tra 
gli 
strumenti 
di 
cui dispongono i medici per svolgere la propria professione. 

Seppure 
non 
sia 
ancora 
molto 
evoluta, 
questa 
tecnologia 
pone, 
comunque, 
non 
pochi 
problemi 
etici 
e 
legati 
alla 
tutela 
della 
privacy, 
soprattutto 
in 
un 
settore 
delicato come 
quello della 
salute. nulla 
impedirebbe, un domani, di 
utilizzare 
un sistema 
di 
diagnostica 
vocale 
per scoprire 
dalla 
registrazione 
della 
voce 
di 
qualcuno se 
sia 
malato o meno. Informazioni 
di 
questo tipo, raccolte 
senza 
esplicito consenso, potrebbero essere 
utilizzate 
da 
un’azienda 
per decidere 
se 
assumere 
qualcuno, 
oppure 
da 
una 
compagnia 
di 
assicurazione 
per 
concedere o meno una polizza sulla vita. 


una 
tecnologia 
non è 
di 
per sé 
cattiva: 
dipende 
dall’uso che 
se 
ne 
fa 
e 
da 
come 
si 
decide 
di 
normarne 
gli 
impieghi. nel 
caso della 
diagnostica 
vocale, 



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


c’è 
ancora 
tempo 
prima 
di 
avere 
soluzioni 
pratiche 
affidabili 
a 
sufficienza, 
ma 
secondo gli 
esperti 
questo non dovrebbe 
distogliere 
dalla 
necessità 
di 
iniziare 
a 
parlarne, 
e 
soprattutto 
di 
valutare 
come 
metterla 
in 
pratica 
per 
trarne 
benefici, 
riducendo al minimo i rischi. 


L’utilizzo dell’intelligenza 
artificiale 
non si 
limita 
al 
campo della 
medicina, 
ma 
può generare, in tutti 
i 
campi, ipotesi 
a 
cui 
gli 
umani 
non avevano 
mai pensato (91). 


Facciamo qualche esempio recente. 

Stiamo 
vedendo 
una 
diffusione 
rapida 
dei 
veicoli 
elettrici 
(92), 
ma 
c’è 
tuttavia 
un problema 
anche 
nella 
transizione 
ecologica: 
le 
case 
automobilistiche 
stanno 
esaurendo 
i 
materiali 
per 
fabbricare 
le 
batterie. 
Il 
nichel, 
infatti, 
potrebbe 
causare 
carenze 
di 
approvvigionamento già 
alla 
fine 
di 
quest’anno. 
Così 
per le 
terre 
rare, il 
litio, il 
coltan, i 
semiconduttori. Cosa 
fare? 
L’intelligenza 
artificiale può dare una risposta (93). 


Affidandosi 
all’IA, gli 
scienziati 
dell’università 
di 
Liverpool 
in Inghilterra 
hanno fatto esaminare 
300 sostanze 
chimiche 
a 
un algoritmo; 
quest’ultimo 
è 
riuscito 
a 
trovare 
quattro 
nuovi 
materiali 
che 
potrebbero 
aiutare 
gli 


(91) 
Si 
pensi 
che, 
di 
recente, 
all’I.A. 
è 
stato 
attribuito 
addirittura 
un 
brevetto. 
Si 
tratta 
di 
un 
“semplice” 
contenitore 
di 
bevande, 
ma 
quel 
che 
rileva 
è 
che 
è 
la 
prima 
volta 
che 
si 
riconosce 
un’invenzione 
ad 
una 
macchina 
e 
che 
ad 
essa 
vengono 
riconosciuti 
diritti 
legali. 
Vedi 
e. 
BuCCI, 
“anche 
all’intelligenza 
artificiale 
può 
essere 
attribuito 
un 
brevetto”, 
2021, 
su 
https://www.ilfoglio.it/scienza/2021/08/05/news/ancheall-
intelligenza-artificiale-puo-essere-attribuito-un-brevetto-2752258/. 
Si 
pensi, 
ancora, 
al 
nuovo 
rapporto 
tra 
intelligenza 
artificiale 
e 
arte: 
la 
national 
Gallery 
ha 
recentemente 
comunicato 
che 
un 
sistema 
di 
I.A., 
paragonando 
i 
dettagli 
di 
centoquarantotto 
quadri 
sicuramente 
attribuibili 
al 
rubens 
e 
confrontandoli 
con 
il 
dipinto 
“Sansone 
e 
Dalila” 
attribuito 
al 
pittore, 
è 
riuscito 
a 
stabilire 
che, 
addirittura 
al 
91%, 
il 
quadro 
non 
è 
autentico. 
(92) L’I.A. è 
arrivata 
nei 
semafori 
di 
Roma 
ed è 
iniziato l’iter 
che 
permetterà 
a 
Google 
di 
iniziare 
la 
sperimentazione 
sulle 
strade 
della 
Capitale, per abbattere 
i 
tempi 
di 
attesa 
nel 
traffico (circa 
254 ore 
annue) e 
ridurre 
i 
consumi 
di 
benzina 
e 
le 
emissioni 
ambientali 
degli 
automobilisti. Vedi 
l’articolo su 
https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/12/09/roma-lintelligenza-artificiale-per-i-semaforisperimentazione-
del-comune-con-google-per-ridurre-emissioni-e-tempi-dattesa-neltraffico/
6420072/. 


(93) un bell’esempio di 
applicazione 
dell’I.A. è 
quello che 
proviene 
dalla 
recente 
invenzione 
dei 
c.d. 
Xenobot, 
creati 
da 
una 
rana 
e 
da 
un’intelligenza 
artificiale, 
capaci 
di 
muoversi 
nello 
spazio 
e 
persino 
di 
riprodursi. 
Sono, 
infatti, 
dei 
robot 
viventi, 
organismi 
multicellulari 
artificiali 
e 
programmati 
per 
svolgere 
funzioni 
diverse 
da 
quelle 
naturali: 
il 
loro studio è 
stato condotto dalla 
Harvard University, l’università 
del 
Vermond 
e 
la 
Tuft 
University, ed è 
pubblicato sulla 
rivista 
dell’Accademia 
Americana 
delle 
Scienze. 
è 
un 
bellissimo 
esempio 
di 
congiunzione 
tra 
biologia 
e 
I.A. 
che 
potrebbe 
avere 
un’applicazione 
pratica 
come 
pulire 
gli 
oceani. un altro esempio di 
applicazione 
pratica 
ed utile 
della 
robotica 
è 
quello 
che 
ci 
viene 
dai 
robot 
umanoidi 
ideati 
da 
Daniele 
Pucci, Direttore 
del 
Laboratorio d’Intelligenza 
Artificiale 
e 
Meccanica 
dell’Istituto Italiano di tecnologia 
di 
Genova, che 
ha 
introdotto un jetpack 
sul 
retro 
di 
un robot 
noto come 
ironCub, pensato appositamente 
per il 
volo, in grado di 
intervenire 
in disastri 
ambientali 
e 
superare 
gli 
ostacoli 
che 
inevitabilmente 
si 
pongono 
agli 
umani 
nelle 
operazioni 
di 
soccorso 
estreme. 
Pucci 
ha 
dichiarato: 
«i 
robot 
Umanoidi 
aerei 
uniscono 
capacità 
come 
la 
manipolazione 
aerea 
e 
la robotica umanoide. in questo modo, essi 
risolvono i 
problemi 
di 
locomozione 
terrestre 
dei 
robot 
aerei 
e, al 
contempo, estendono le 
capacità di 
locomozione 
dei 
robot 
umanoidi 
anche 
al 
movimento in 
aria. i robot 
aerei 
Umanoidi 
possono camminare, volare, trasportare 
oggetti 
e 
manipolarli, offrendo 
soluzioni energeticamente efficienti al trasporto di oggetti e alla loro manipolazione». 

LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


esperti 
nella 
creazione 
di 
nuove 
batterie 
per 
i 
veicoli 
elettrici 
in 
futuro 
(proprio 
per 
questo 
motivo, 
secondo 
un 
ex 
dirigente 
Google, 
si 
sta 
creando 
Dio, 
espressione 
forte ed inquietante) (94). 

renato 
renner, 
fisico 
dell’Istituto 
di 
fisica 
teorica 
di 
Zurigo, 
ha 
dichiarato 
che 
spera, un giorno, di 
utilizzare 
l’apprendimento automatico per sviluppare 
una teoria unificata del funzionamento dell’universo. 

una 
domanda 
allora 
sorge 
spontanea: 
l’IA, 
in 
futuro, 
potrebbe 
hackerare 
il nostro cervello? 


Il 
professore 
israeliano Yuval 
noah Harari 
è 
autore 
di 
alcuni 
grandi 
bestsellers 
come 
“Sapiens”, “Homo Deus”o “21 lezioni 
per 
il 
XXi”. I suoi 
libri 
hanno 
venduto 
35 
milioni 
di 
copie 
in 
65 
lingue, 
consacrando 
harari 
nel 
novero 
dei 
divulgatori 
scientifici 
di 
fama 
mondiale. L’autore, in passato, ha 
espresso 
molta 
preoccupazione 
per 
l’intelligenza 
artificiale 
e 
la 
bioingegneria, 
sostenendo 
la 
necessità 
di 
una 
previdente 
e 
sensata 
regolamentazione. 
Secondo 
ha-
rari, 
senza 
la 
fissazione 
di 
precisi 
limiti 
normativi, 
i 
cervelli 
umani 
potrebbero 
essere violati dalla IA da loro stessi creati. 


“Quello che 
abbiamo visto finora sono società e 
governi 
che 
raccolgono 
dati 
su dove 
andiamo, chi 
incontriamo e 
quali 
film 
guardiamo. La fase 
successiva 
è la sorveglianza che ci va sotto la pelle” afferma harari. 


“nella guerra fredda c’era la cortina di 
ferro, ora abbiamo la cortina di 
silicio. il 
mondo è 
sempre 
più diviso tra Stati 
Uniti 
e 
Cina, i 
tuoi 
dati 
vanno 
in California o vanno a Shenzhen?”. 


Secondo tale 
scrittore, oggi 
grandi 
compagnie 
come 
netflix e 
Amazon ci 
dicono cosa 
guardare 
e 
cosa 
comprare, mentre 
tra 
10, 20 o 30 anni 
“tali 
algoritmi 
potrebbero anche 
dirti 
cosa studiare 
all’università, dove 
lavorare, chi 
sposare 
e 
anche 
per 
chi 
votare”. Cosa 
fare 
per mitigare 
tale 
rischio? 
Si 
deve 
iniziare 
a 
regolamentare 
l’IA 
a 
livello 
globale 
(a 
livello 
nazionale, 
secondo 
harari, non sarebbe sufficiente). 


ovviamente 
harari 
sostiene 
anche 
che, 
nelle 
mani 
giuste, 
l’IA 
potrebbe 
essere 
molto 
utile: 
secondo 
l’esperto, 
infatti, 
i 
nostri 
dati 
potrebbero 
essere 
utilizzati 
per 
sanare 
le 
crepe 
nei 
nostri 
sistemi 
sanitari, 
infrastrutturali 
e 
di 
governo. 


“Una regola chiave 
è 
che 
se 
ottieni 
i 
miei 
dati, questi 
dovrebbero essere 


(94) è 
interessante 
l’articolo di 
M. ADInoLFI, “L’intelligenza artificiale 
che 
Platone 
non si 
aspettava. 
Vinceranno gli 
algoritmi?”, 2021, dove 
l’autore, richiamando un’immagine 
del 
filosofo Platone 
che 
«rischia 
di 
finire 
in 
soffitta», 
“lamenta” 
la 
perdita 
di 
centralità 
dell’uomo, 
che 
con 
l’avvento 
dell’I.A., 
«non 
è 
più 
l’unico 
e 
il 
solo 
essere 
a 
detenere 
la 
conoscenza, 
e 
a 
farla 
funzionare». 
In 
passato, 
era 
l’uomo 
a 
detenere 
«la chiave 
dei 
significati, è 
l’uomo che 
possiede 
la mente 
(o addirittura un’anima), è 
solo 
l’uomo che 
ha intelligenza di 
ciò che 
è 
scritto». Invece 
ora 
ci 
sono le 
macchine, che 
«forniscono prestazioni 
superiori 
all’uomo in una quantità di 
situazioni 
in cui 
noi 
metteremmo il 
pensiero, mentre 
loro 
si 
limitano (si 
fa per 
dire) a macinare 
dati. Miliardi 
di 
dati» e 
le 
cui 
capacità 
di 
calcolo «superano di 
gran lunga qualunque 
capacità di 
controllo da parte 
del 
“padre”, cioè 
dell’uomo». V. 
https://www.ilfoglio.
it/tecnologia/2021/11/13/news/l-intelligenza-artificiale-che-platone-non-si-aspettavavinceranno-
gli-algoritmi--3356675/. 

RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


usati per aiutarmi e non per manipolarmi. Un’altra regola chiave è che ogni 
volta che 
aumenti 
la sorveglianza degli 
individui, dovresti 
simultaneamente 
aumentare 
la 
sorveglianza 
della 
società 
e 
dei 
governi 
e 
le 
persone 
al 
vertice”. 


Insomma, secondo harari, l’IA 
deve 
avere 
al 
suo interno dei 
pesi 
e 
contrappesi 
che 
le 
consentano di 
evolvere 
lungo le 
coordinate 
del 
rispetto della 
dignità 
della 
persona 
umana 
e 
del 
diritto 
all’autodeterminazione. 
Il 
controllore 
deve essere a sua volta controllato (95). 


Se 
l’intrattenimento basato sulla 
fantascienza 
ci 
ha 
insegnato qualcosa, è 
che 
se 
si 
sviluppasse 
un’intelligenza 
artificiale 
troppo avanzata 
non saremmo 
più in grado di 
controllarla. ebbene, una 
recente 
ricerca 
accredita 
questo distopico 
scenario (96). 


Il 
problema 
risiederebbe 
nella 
comprensione, da 
parte 
dell’uomo, della 
super-intelligenza 
artificiale, la 
quale 
risulterebbe 
essere 
imprevedibile 
per la 
stessa 
natura 
dei 
suoi 
schemi 
di 
ragionamento. 
Regole 
di 
programmazione 
come 
“non 
danneggiare 
gli 
esseri 
umani”, 
non 
potrebbero 
essere 
applicate, 
dato che 
il 
sistema 
funzionerebbe 
ad un livello superiore 
rispetto a 
quello codificabile 
dai programmatori umani. 


A 
tal 
proposito, 
l’I.A. 
super 
intelligente, 
in 
grado 
di 
imparare 
nuove 
strategie 
autonomamente, 
potrebbe 
aggirare 
i 
vari 
algoritmi 
di 
contenimento 
concepiti 
allo 
scopo 
di 
arrestare 
il 
sistema, 
attraverso 
la 
potenziale 
assimilazione 
di 
tutti 
i 
programmi 
per 
computer 
direttamente 
nella 
sua 
memoria. 
In 
questo 
senso, 
Lyad 
rahwan, 
Direttore 
del 
Center 
for 
Humans 
and 
Ma


(95) Harari 
non è 
l’unico ad essere 
scettico nei 
confronti 
dell’I.A.; 
anche 
Stephen Hawking 
ha 
criticato 
l’Intelligenza 
Artificiale, 
ritenendola 
il 
male 
assoluto. 
C’è 
anche 
chi, 
come 
Mo 
Gadwat, 
ci 
mette 
in guardia dal voler “creare Dio” attraverso sistemi di I.A. 
(96) non siamo ancora 
arrivati 
a 
ciò, eppure 
non sono pochi 
i 
casi 
in cui 
l’I.A. è 
andata 
troppo 
oltre… Per esempio, è 
stata 
utilizzata 
per prevedere 
e 
prevenire 
la 
criminalità 
dal 
viso delle 
persone: 
dall’università 
di 
Harrisburg 
è 
arrivata 
la 
notizia 
di 
un 
software 
che 
predice 
se 
qualcuno 
è 
un 
criminale, 
scovando i 
reati 
con un tasso di 
precisione 
di 
oltre 
l’80%, configurando un possibile 
ausilio per le 
forze 
dell’ordine. La 
reazione 
tra 
gli 
esperti 
non è 
stata 
(per fortuna) positiva 
e 
l’università, preso atto della 
situazione, ha 
fatto un passo indietro. oppure 
si 
ricorderà 
di 
quella 
volta 
in cui, nel 
2016, Microsoft 
ha 
rilasciato la 
chatbot 
“Tay”, progettata 
per imparare 
dall’interazione 
con le 
persone 
sul 
social 
network 
Twitter. 
L’esito non è 
stato positivo e 
a 
causa 
dei 
messaggi 
provocatori 
e 
razzisti 
degli 
utenti 
che 
sono 
entrati 
in contatto con la 
chatbot, l’I.A. è 
arrivata 
a 
mettere 
in discussione 
pubblicamente 
l’esistenza 
dell’olocausto…fortunatamente 
Microsoft 
ha 
sospeso l’account 
poche 
ore 
dopo la 
sua 
presentazione. 
Per 
non 
parlare 
dell’utilizzo 
diffuso 
della 
tecnologia 
Deepfake 
nella 
vita 
quotidiana 
da 
parte 
di 
quei 
soggetti 
che, grazie 
all’app Deepnude, ottenevano l’immagine 
di 
nudo finto di 
una 
donna… l’app in questione 
è 
stata 
fortunatamente 
rimossa, anche 
se 
ne 
sono nate 
altre 
al 
suo posto, che 
attualmente 
girano 
sul 
canale 
Telegram, 
poco 
controllato 
dalle 
autorità. 
L’assenza 
di 
protezioni 
legali 
per 
le 
persone 
vittime 
di 
contenuti 
deepfake 
non è 
una 
novità... Si 
ricorderà 
anche 
quel 
video virale 
che 
ha 
visto protagonisti 
gli 
assistenti 
intelligenti 
di 
Google 
nest, 
che 
se 
da 
un 
lato 
possono 
darci 
un 
aiuto 
nella 
vita 
di 
tutti 
i 
giorni, dall’altro rischiano di 
andare 
troppo oltre, quando vengono utilizzati 
in maniera 
scorretta: 
nel 
caso 
che 
ha 
fatto 
scalpore 
i 
dispositivi 
Vladimir 
ed 
estragon, 
mentre 
venivano 
ripresi 
dall’account 
Twitch 
seebotschat, hanno cominciato ad insultarsi, il 
che 
non è 
molto rassicurante, se 
consideriamo che 
le 
tecnologie 
I.A. 
dovrebbero 
servire 
per 
migliorare 
il 
mondo, 
non 
farlo 
rimanere 
com’è 
o 
peggiorarlo. 
V. 
https://www.futuroprossimo.it/2021/12/quando-ai-va-oltre/. 



LeGISLAZIone 
eD 
AttuALItà 


chines, 
ha 
dichiarato: 
“Sulla 
base 
dei 
nostri 
calcoli 
il 
problema 
del 
contenimento 
è 
incomputabile, 
ovvero 
nessun 
algoritmo 
può 
trovare 
una 
soluzione 
per 
determinare 
se 
un’ia 
potrebbe 
produrre 
danni 
al 
mondo. 
Potremmo 
anche 
non 
accorgerci 
del 
momento 
in 
cui 
le 
macchine 
super 
intelligenti 
emergeranno, 
perché 
stabilire 
il 
grado 
di 
intelligenza 
dei 
sistemi 
rientrerebbe 
nello 
stesso 
ambito”. 


Altresì, 
una 
possibile 
soluzione 
per 
salvaguardare 
il 
genere 
umano 
consisterebbe 
nel 
limitare 
le 
capacità 
della 
super-intelligenza 
informatica, 
ad 
esempio, 
escludendola 
da 
parti 
della 
rete 
internet. 
tuttavia, 
una 
ricerca 
pubblicata 
sul 
Journal 
of 
artificial 
intelligence 
research, 
rifiuta 
tale 
proposta, 
sostenendo 
che 
tale 
metodo 
limiterebbe 
la 
portata 
dell’intelligenza 
artificiale: 
“Se 
non 
la 
useremo 
per 
risolvere 
problemi 
oltre 
la 
portata 
degli 
umani, 
perché 
crearla?”. 


Di 
recente, vi 
è 
stata 
una 
convergenza 
di 
intenti 
globali 
con l’approvazione 
della 
Raccomandazione 
uneSCo 
del 
25 
novembre 
2021. 
Si 
tratta 
di 
un testo storico in cui 
vengono tracciate 
le 
coordinate 
mondiali 
sull’etica 
del-
l’Intelligenza 
Artificiale. 

nel 
preambolo 
alla 
“raccomandazione” 
di 
28 
pagine 
ratificata 
dai 
193 
Stati 
Membri 
dell’unesco 
(tra 
cui 
anche 
la 
Cina) 
si 
legge 
questa 
dichiarazione 
del 
Direttore 
Generale, audrey 
azoulay:«Le 
tecnologie 
dell’ia 
possono rendere 
grandi 
servizi 
all’umanità e 
tutti 
i 
paesi 
possono beneficiarne, ma sollevano 
anche preoccupazioni etiche di fondo». 


Il 
testo della 
raccomandazione 
definisce 
i 
valori 
e 
i 
principi 
comuni 
che 
concorreranno 
alla 
costruzione 
dell’infrastruttura 
necessaria 
per 
garantire 
il 
sano sviluppo dell’IA. 


Se 
è 
vero, 
infatti, 
che 
«l’intelligenza 
artificiale 
è 
pervasiva 
e 
consente 
molte 
delle 
nostre 
routine 
quotidiane: 
prenotazione 
di 
voli, 
guida 
di 
auto 
senza 
conducente 
e 
personalizzazione 
dei 
nostri 
feed di 
notizie 
mattutine…supportando 
anche 
il 
processo 
decisionale 
dei 
governi 
e 
del 
settore 
privato», 
è 
anche 
vero 
che 
in 
questa 
tecnologia 
sempre 
più 
spesso 
«vediamo 
un 
aumento 
dei 
pregiudizi 
di 
genere 
ed etnici, minacce 
significative 
alla privacy, alla dignità 
e 
all’agenzia, pericoli 
della sorveglianza di 
massa e 
un maggiore 
uso di 
tecnologie 
di 
intelligenza artificiale 
inaffidabili 
nelle 
forze 
dell’ordine, solo per 
citarne alcuni». 


Dunque, poiché 
i 
sistemi 
di 
IA 
e 
gli 
algoritmi 
possono incidere 
anche 
negativamente 
sui 
«diritti 
dell’uomo 
e 
le 
libertà 
fondamentali, 
l’eguaglianza 
dei 
generi, 
la 
democrazia», 
il 
testo 
è 
essenziale 
per 
la 
protezione 
dei 
dati, 
per 
vietare 
il 
punteggio sociale 
e 
la 
sorveglianza 
di 
massa, per aiutare 
a 
monitorare 
la 
protezione 
dell’ambiente. 
La 
“raccomandazione” 
è 
il 
frutto 
di 
un 
lavoro 
iniziato 
nel 
2018 
e 
fondato 
sui 
seguenti 
valori: 
«rispetto, 
protezione 
e 
promozione 
dei 
diritti 
dell’Uomo, diversità ed inclusione, promozione 
delle 
società pacifiche 
e dell’ambiente». 


Si 
deve 
tenere 
presente, 
inoltre, 
che 
l’Italia 
ha 
adottato, 
con 
l’approva



RASSeGnA 
AVVoCAtuRA 
DeLLo 
StAto -n. 3/2021 


zione 
in 
Consiglio 
dei 
ministri, 
il 
Programma 
Strategico 
per 
l’Intelligenza 
Artificiale 
(IA) 2022-2024, frutto del 
lavoro congiunto del 
Ministero dell’università 
e 
della 
Ricerca, 
del 
Ministero 
dello 
Sviluppo 
economico 
e 
del 
Ministro 
per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale (97). 

(97) 
Questo 
il 
comunicato 
stampa 
del 
24 
novembre 
2021: 
https://assets.innovazione.gov.it/1637779156-csprogrammastrategico-ia.pdf. 
Il 
documento evidenzia 
i 
ritardi 
dell’Italia 
per 
quanto 
concerne 
l’Intelligenza 
Artificiale. 
Il 
Piano 
strategico 
appena 
adottato 
è 
fondamentale 
perché 
servirà 
per utilizzare 
i 
fondi 
del 
Pnrr per la 
digitalizzazione. I dati 
del 
Politecnico di 
Milano 
ci 
dicono 
che: 
“il 
53% 
delle 
imprese 
medio-grandi 
italiane 
dichiaravano 
di 
aver 
avviato 
almeno 
un progetto di 
ai. i settori 
che 
mostrano la maggiore 
diffusione 
di 
progetti 
pienamente 
operativi 
sono 
il 
manifatturiero 
(22% 
del 
totale 
dei 
progetti 
iniziati), 
bancario-finanziario 
(16%) 
e 
le 
assicurazioni 
(10%)”. Purtroppo, l’Italia 
attualmente 
si 
posiziona 
al 
di 
sotto della 
media 
europea 
in tema 
di 
I.A. e 
digitalizzazione. 
I dati 
sulla 
spesa 
in materia 
sono scoraggianti: 
si 
spende 
in ricerca 
l’1,45% del 
pil. I ricercatori 
sull’I.A. (739) sono meno di 
un terzo di 
quelli 
di 
Germania 
(2.660), Francia 
(2.755) e 
Regno 
unito (2.974), anche 
se 
la 
situazione 
migliora 
nella 
produzione 
scientifica. A 
livello di 
domande 
brevettuali, 
l’Italia 
è 
molto indietro con 32.001 domande 
rispetto alle 
178.184 tedesche, 67.294 francesi 
e 
le 
54.762 inglesi. nel 
privato, gli 
investimenti 
aziendali 
in I.A. ammontano allo 0,84% del 
pil 
del 
2018. 
Con i 
fondi 
del 
Pnrr, l’Italia 
potrebbe 
rimettersi 
al 
passo e 
sfruttare 
al 
meglio il 
suo potenziale, (ri)chiamando 
i 
talenti 
dall’estero e 
coltivandone 
di 
nuovi. Per facilitare 
le 
sperimentazioni, è 
prevista 
la 
possibilità 
di 
usare 
due 
elementi, che 
sono i 
c.d. sandbox 
(letteralmente 
“recinti 
di 
sabbia”), spazi 
in cui 
sperimentare 
l’IA 
e 
la 
formazione, con la 
creazione 
di 
un ecosistema 
robusto tra 
università, centri 
di 
ricerca, 
impresa 
con partenariato pubblico-privato. Con una 
adozione 
più diffusa 
di 
sistemi 
di 
I.A., i 
dati 
del 
World economic 
forum 
parlano di 
97 milioni 
di 
posti 
di 
lavoro creati 
a 
fronte 
di 
85 milioni 
persi, e 
non 
tutti 
quelli 
persi 
saranno 
riconvertiti 
nei 
nuovi. 
V. 
https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-
strategia-italia/. 

ContRibutididottRina
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. 
Caratteri, procedimento e natura giuridica 


Michele Gerardo* 


SommARIo: 1. I ricorsi 
amministrativi 
- 2. I ricorsi 
amministrativi 
ordinari - 3. Ricorso 
straordinario 
al 
Presidente 
della 
Repubblica 
-4. 
Attivazione 
del 
ricorso 
straordinario 
ed 
istruttoria -5. Parere 
sul 
ricorso straordinario -6. Decisione 
del 
ricorso straordinario -7. 
Impugnazione 
della 
decisione 
del 
ricorso 
straordinario 
-8. 
Natura 
giuridica 
del 
ricorso 
straordinario 
-9. 
(segue) 
Natura 
giuridica 
del 
ricorso 
straordinario. 
Il 
ricorso 
straordinario 
come una forma di arbitrato avente ad oggetto interessi legittimi. 


1. I ricorsi amministrativi. 
i ricorsi 
amministrativi 
hanno una 
storia 
antica: 
previsti 
dall’art. 3 l. 20 
marzo 1865, n. 2248, All. E 
(1), sono attualmente 
disciplinati 
dal 
d.P.r. 24 
novembre 1971, n. 1199 (2). 

Essi 
consentono al 
soggetto che 
si 
reputi 
leso da 
un atto amministrativo 
di 
proporre 
una 
impugnativa 
ad una 
pubblica 
autorità 
non giurisdizionale 
al 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) “Gli 
affari 
non compresi 
nell'articolo precedente 
saranno attribuiti 
alle 
autorità amministrative, 
le 
quali, ammesse 
le 
deduzioni 
e 
le 
osservazioni 
in iscritto delle 
parti 
interessate, provvederanno 
con 
decreti 
motivati, 
previo 
parere 
dei 
consigli 
amministrativi 
che 
pei 
diversi 
casi 
siano 
dalla 
legge 
stabiliti. 
Contro tali 
decreti, che 
saranno scritti 
in calce 
del 
parere 
egualmente 
motivato, è 
ammesso il 
ricorso 
in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative”. 
(2) 
Per 
una 
esposizione 
generale: 
A.M. 
SAndulli, 
voce 
Ricorso 
amministrativo, 
in 
Noviss. 
Digesto, 
vol. 
XV, 
uTET, 
1968, 
pp. 
975-987; 
V. 
CAiAniEllo, 
voce 
Ricorsi 
amministrativi, 
in 
Noviss. 
Digesto. 
Appendice, 
vol. 
Vi, 
uTET, 
1986, 
pp. 
748-762; 
l. 
Migliorini, 
voce 
Ricorsi 
amministrativi, 
in 
Enc. 
Dir., 
Xl, 
giuffré, 
1989, 
pp. 
684-704; 
A. 
CAlEgAri, 
voce 
Ricorsi 
amministrativi 
(Dir. 
Amm.), 
in 
Il 
diritto. 
Enciclopedia 
giuridica 
del 
Sole 
24 
ore, 
vol. 
Xiii, 
Corriere 
della 
sera 
Il 
Sole 
24 
ore, 
2007, 
pp. 
493-505; 
F.g. 
SCoCA 
(a 
cura 
di), 
Giustizia 
amministrativa, 
Viii 
edizione, 
giappichelli, 
2020, 
pp. 
661-704. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


fine 
di 
conseguire 
giustizia 
e 
quindi 
la 
caducazione 
dell’atto 
censurato. 
i 
ricorsi 
possono essere distinti secondo quattro criteri: 


-ordinari 
e 
straordinari 
a 
seconda 
che 
abbiano ad oggetto un atto amministrativo 
non definitivo (3) oppure un atto amministrativo definitivo (4). 


ricorsi 
ordinari 
sono il 
ricorso gerarchico, il 
ricorso in opposizione 
e 
il 
ricorso gerarchico improprio. unica 
tipologia 
di 
ricorso straordinario è 
il 
ricorso 
straordinario al Presidente della repubblica. 


il 
distinguo tra 
le 
due 
tipologie 
di 
ricorso è, quindi, la 
definitività 
o meno 
dell’atto. Atto definitivo è 
quello che 
esprime 
la 
volontà 
ultima 
dell’Amm.ne. 
la 
detta 
volontà 
sussiste 
allorché 
la 
legge 
qualifica 
espressamente 
come 
definitivo 
l’atto (definitività 
esplicita) oppure 
allorché 
l’atto non è 
utilmente 
contestabile 
dinanzi 
al 
superiore 
gerarchico (definitività 
implicita: 
perché 
non si 
può proporre 
il 
ricorso oppure 
perché 
si 
poteva 
proporre 
il 
ricorso, ma 
è 
decorso 
il termine decadenziale per impugnare). 


la 
regola 
è 
che 
laddove 
vi 
sia 
un 
rapporto 
gerarchico 
tra 
organi 
l’atto 
dell’organo 
inferiore 
è 
di 
regola 
impugnabile 
all’organo 
superiore. 
nelle 
Amm.ni 
statali, anche 
ad ordinamento autonomo, gli 
atti 
e 
provvedimenti 
dei 
dirigenti 
di 
uffici 
dirigenziali 
non 
generali 
non 
qualificati 
definitivi 
dalla 
legge 
sono 
impugnabili 
con 
ricorso 
gerarchico 
dinanzi 
al 
dirigente 
del 
pertinente 
ufficio 
dirigenziale 
generale 
(art. 16, comma 
1, lett. i, d.l.vo 30 marzo 2001, n. 
165). 
nella 
evenienza 
che 
la 
filiera 
gerarchica 
abbia 
più 
di 
due 
organi 
il 
ricorso 
è 
ammesso 
in 
unica 
istanza 
all’organo 
immediatamente 
sovraordinato 
(così 
art. 
1, 
comma 
1, 
d.P.r. 
n. 
1199/1971), 
non 
essendo 
ammesso 
un 
ulteriore 
grado 
di 
impugnativa. 
Attesa 
la 
distinzione 
tra 
organi 
politici 
ed 
organi 
gestori, 
non vi 
è 
un rapporto di 
gerarchia 
tra 
Ministro e 
dirigenti 
statali, sicché 
“Gli 
atti 
e 
i 
provvedimenti 
adottati 
dai 
dirigenti 
preposti 
al 
vertice 
dell'amministrazione 
e 
dai 
dirigenti 
di 
uffici 
dirigenziali 
generali 
di 
cui 
al 
presente 
articolo 
non sono suscettibili 
di 
ricorso gerarchico” 
(art. 16, comma 
4, d.l.vo n. 
165/2001). un rapporto di 
gerarchia, di 
norma, non è 
configurabile 
tra 
gli 
organi 
di una regione o un ente locale (Comune e Provincia). 


Corollario 
di 
tale 
regola 
è 
che 
fuori 
dal 
rapporto 
gerarchico 
tra 
organi 
non 
vi 
è 
lo 
strumento 
in 
esame. 
Sicché 
sono 
definitivi 
(in 
via 
implicita): 
gli 
atti 
adottati 
dai 
dirigenti 
apicali; 
gli 
atti 
adottati 
da 
organi 
collegiali 
(la 
gerarchia 
sussiste 
tra 
organi 
individuali); 
gli 
atti 
adottati 
dagli 
organi 
politici; 
gli 
atti 
adottati 
da 
enti. 


la 
legge, in determinati 
casi, ammette 
la 
possibilità 
di 
proporre 
ricorsi 
determinando 
i 
casi, i 
limiti 
e 
le 
modalità 
-anche 
al 
di 
fuori 
del 
rapporto gerarchico 
come 
innanzi 
delineato: 
questo 
è 
il 
c.d. 
ricorso 
gerarchico 
improprio. 


(3) 
Art. 
1, 
comma 
1, 
d.P.r. 
n. 
1199/1971 
per 
il 
ricorso 
gerarchico; 
art. 
1, 
comma 
2, 
d.P.r. 
n. 
1199/1971 per il 
ricorso gerarchico improprio; 
art. 7, comma 
2, d.P.r. n. 1199/1971 per il 
ricorso in 
opposizione. 
(4) Art. 8, comma 
1, d.P.r. n. 1199/1971 per il 
ricorso straordinario al 
Presidente 
della 
repubblica. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


oppure 
consente 
di 
proporre 
ricorso allo stesso organo che 
ha 
adottato l’atto: 
questo è il ricorso in opposizione; 


-generali 
ed 
eccezionali 
a 
seconda 
che 
possono essere 
sempre 
proposti 
oppure possono essere proposti solo quando una norma speciale lo consenta. 
ricorsi 
generali 
sono 
il 
ricorso 
gerarchico 
e 
il 
ricorso 
al 
Capo 
dello 
stato, 
ricorsi 
eccezionali 
sono il 
ricorso in opposizione 
e 
il 
ricorso gerarchico improprio; 


-impugnatori 
e 
non 
impugnatori 
a 
seconda 
che 
l’oggetto del 
ricorso 
sia l’atto oppure il rapporto inter partes. 
i ricorsi 
gerarchici 
e 
quelli 
in opposizione 
sono impugnatori. i ricorsi 
al 
Presidente 
della 
repubblica 
ed i 
ricorsi 
gerarchici 
impropri 
possono essere 
nei 
casi 
previsti 
dalla 
legge 
-anche 
non 
impugnatori 
(ad 
esempio 
ove 
vengano 
in rilievo diritti soggettivi); 


-di 
legittimità e 
anche 
di 
merito (detti 
anche: eliminatori 
e 
rinnovatori) 
a 
seconda 
che 
si 
possa 
censurare 
la 
sola 
illegittimità 
(nullità 
o annullabilità) 
oppure anche il merito delle scelte amministrative. 
il 
ricorso 
gerarchico 
(5) 
e 
il 
ricorso 
in 
opposizione 
(6) 
consentono 
di 
censurare 
sia 
i 
vizi 
di 
legittimità 
che 
quelli 
di 
merito. 
il 
ricorso 
al 
Presidente 
della 
repubblica 
consente 
di 
censurare 
solo i 
vizi 
di 
legittimità 
(7). Per il 
ricorso 
gerarchico 
improprio 
il 
tipo 
di 
censura 
dipende 
dalla 
previsione 
legislativa 
regolativa 
dello stesso; 
ove 
nulla 
sia 
previsto la 
regola 
è 
che 
si 
può censurare 
tutto, venendo in rilievo un rimedio nell’ambito dell’esercizio della 
funzione 
amministrativa. 


2. I ricorsi amministrativi ordinari. 
i ricorsi 
amministrativi 
ordinari 
illo tempore 
costituivano condizioni 
di 
procedibilità 
della 
domanda 
al 
giudice 
amministrativo, 
e 
quindi 
strumenti 
preventivi 
necessari. 


ora, 
con 
la 
riforma 
del 
1971, 
sono 
strumenti 
preventivi 
facoltativi 
previsti 
in funzione 
della 
possibile 
definizione 
della 
lite 
nella 
sede 
amministrativa 
di 
una 
vertenza 
coinvolgente 
un atto amministrativo, e 
quindi, interessi 
legittimi 
degli 
amministrati. Attesa 
la 
evidenziata 
facoltatività, l’atto censurabile 
con il 
ricorso amministrativo è 
direttamente 
impugnabile 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo. 
A 
fronte 
dell’atto amministrativo, quindi, l’interessato può -a 
sua 
scelta 
-proporre 
sia 
il 
ricorso 
amministrativo 
che 
quello 
giurisdizionale. 
opera 
sempre 
il 
principio 
dispositivo: 
la 
legittimazione 
ad 
agire 
non 
spetta 
a 
quisque 
de populo, ma a chi faccia valere una situazione soggettiva. 


(5) Previsione espressa dell’art. 1, comma 1, d.P.r. n.1199/1971 per il ricorso gerarchico. 
(6) l’art. 7, comma 
2, d.P.r. n. 1199/1971, con riguardo al 
ricorso in opposizione 
richiama 
le 
disposizioni 
contenute nel capo i, ossia gli artt.1-6. 
(7) Previsione espressa dell’art. 8, comma 1, d.P.r. n. 1199/1971. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


l’interessato ove proponga 


-solo 
il 
ricorso 
amministrativo, 
l’atto 
amministrativo 
impugnato 
-non 
impugnato 
nei 
termini 
decadenziali 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo 
-può 
essere 
ancora 
impugnato dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo allorché 
maturi 
il 
silenzio-rigetto ex 
art. 6 d.P.r. n. 1199/1971. 


-solo 
il 
ricorso 
giurisdizionale, 
l’atto 
amministrativo 
impugnato 
-non 
impugnato nei 
termini 
decadenziali 
dinanzi 
all’autorità 
amministrativa 
-non 
può essere 
impugnato dinanzi 
all’autorità 
amministrativa. un’eventuale 
impugnativa 
sarebbe 
inammissibile 
per 
tardività, 
oltre 
che 
per 
la 
regola 
della 
prevalenza 
del ricorso giurisdizionale; 


-sia 
il 
ricorso amministrativo che 
quello giurisdizionale 
-nei 
rispettivi 
termini 
decadenziali 
-il 
primo diviene 
improcedibile 
o inammissibile 
(a 
seconda 
che 
sia 
proposto prima 
o dopo quello giurisdizionale) per la 
prevalenza 
del 
ricorso 
giurisdizionale, 
non 
essendo 
ammissibili 
due 
rimedi 
giustiziali 
avverso 
lo stesso atto. 
Punti 
di 
forza 
dei 
ricorsi 
amministrativi 
ordinari 
sono: 
l’assenza 
di 
spese 
legali, non essendo previsto il 
pagamento del 
contributo unificato delle 
spese 
di 
lite; 
la 
possibilità 
di 
azione 
diretta 
da 
parte 
dell’interessato, 
non 
essendo 
obbligatorio il 
patrocinio legale; 
la 
celerità 
del 
procedimento; 
la 
possibilità 
almeno 
di 
norma 
-di 
sindacare 
anche 
il 
merito del 
provvedimento; 
la 
fidelizzazione 
degli 
amministrati 
alla 
P.A. 
Punti 
di 
debolezza 
sono: 
l’assenza 
di 
“vera” 
terzietà, ma 
soprattutto l’assenza 
di 
specifica 
professionalità 
del 
decidente; 
l’atteggiamento di 
chiusura 
dell’Amm.ne, in certe 
Amm.ni 
rasentante 
l’ottusità 
nel 
difendere, 
a 
prescindere, 
il 
proprio 
operato. 
Questi 
ricorsi 
amministrativi 
sono poco utilizzati 
nella 
pratica, sintomo che 
gli 
aspetti 
negativi 
prevalgono su quelli positivi. 


Con il 
ricorso ordinario si 
attua 
una 
sorta 
di 
giustizia 
nell’Amm.ne. il 
ricorso 
apre 
un 
procedimento 
che 
è 
amministrativo 
-e 
non 
giurisdizionale 
-con 
il 
quale 
l’interessato 
sottopone 
all’Amm.ne, 
di 
norma 
la 
stessa 
che 
ha 
adottato 
l’atto 
oppure 
il 
superiore 
gerarchico, 
l’esame 
di 
specifiche 
critiche 
all’atto 
amministrativo. 
la 
disciplina, come 
detto, è 
contenuta 
nel 
d.P.r. n. 1199/1971. 
Venendo 
in 
rilievo 
un 
procedimento 
amministrativo, 
ancorché 
in 
funzione 
giustiziale, 
in caso di 
lacune 
si 
applica 
la 
disciplina 
generale 
del 
procedimento 
contenuta 
nella 
l. 7 agosto 1990, n. 241 in quanto compatibile 
con il 
d.P.r. 


n. 1199/1971. Sicché 
si 
applica 
la 
disciplina 
generale 
relativa 
al 
responsabile 
del 
procedimento, 
alla 
comunicazione 
dell’avvio 
del 
procedimento, 
all’accesso 
ai 
documenti; 
non anche 
quella 
relativa 
al 
preavviso di 
rigetto, incompatibile 
con i tempi procedimentali fissati nel d.P.r. 
l’Amm.ne 
-nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
legalità 
ex 
art. 
97, 
comma 
2, 
Cost. -è 
tenuta 
ad esaminare 
le 
doglianze 
e, ove 
queste 
risultassero fondate, 
è tenuta ad annullare l’atto impugnato. 


Viene 
in 
rilievo 
un 
annullamento 
c.d. 
giustiziale, 
che 
è 
(rectius: 
dovrebbe 



ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


essere) 
un 
atto 
dovuto. 
l’Amm.ne 
non 
può 
prendere 
in 
considerazione 
ulteriori 
interessi 
pubblici 
che 
militerebbero 
per 
la 
conservazione 
dell’atto 
nonostante 
l’accertamento 
del 
vizio. 
Questo 
annullamento 
è, 
quindi, 
diverso 
dall’annullamento 
in 
autotutela 
ex 
art. 
21 
novies 
l. 
n. 
241/1990 
e 
potrebbe 
anche 
-sussistendo 
ragioni 
di 
pubblico 
interesse 
-non 
sfociare 
nell’annullamento, 
nonostante 
il 
vizio. 


E 
l’annullamento giustiziale 
e 
l’annullamento in autotutela 
costituiscono 
provvedimenti 
amministrativi 
adottati 
all’esito di 
un procedimento amministrativo. 
diversa 
tuttavia 
è 
la 
funzione: 
definire 
una 
controversia 
nell’ambito 
dell’amministrazione 
il 
primo, curare 
sempre 
lo specifico interesse 
pubblico 
in attribuzione il secondo. 


la 
funzione 
giustiziale 
del 
conseguente 
provvedimento 
decisorio 
comporta 
che 
con 
la 
decisione 
l’Amm.ne 
esaurisce 
il 
proprio 
potere, 
con 
inammissibilità 
di successiva revoca o annullamento. 


la 
natura 
provvedimentale 
della 
decisione 
implica 
che, nel 
caso di 
accoglimento 
del 
ricorso 
ed 
annullamento 
dell’atto 
impugnato, 
l’Amm.ne 
deve 
adottare 
gli 
atti 
conseguenziali. 
l’eventuale 
inadempimento, 
rectius: 
condotta 
non coerente 
con la 
decisione, non può essere 
censurato con il 
giudizio di 
ottemperanza, 
atteso che 
la 
decisione 
del 
ricorso amministrativo non è 
un provvedimento 
giurisdizionale. 
la 
condotta 
conseguenziale 
della 
P.A. 
non 
coerente 
con la 
decisione 
può essere 
impugnata 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo per 
eccesso di potere. 


3. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. 
il ricorso al Presidente della repubblica (8) è un ricorso 

-straordinario, generale 
e 
di 
legittimità, come 
risulta 
dall’art. 8, comma 
1, d.P.r. n. 1199/1971 secondo cui: 
“Contro gli 
atti 
amministrativi 
definitivi 
è 
ammesso ricorso straordinario al 
Presidente 
della Repubblica per 
motivi 
di 
legittimità da parte di chi vi abbia interesse”; 
-impugnatorio o non impugnatorio, a 
seconda 
che 
l’oggetto del 
ricorso 
sia 
l’atto oppure 
il 
rapporto. la 
non impugnatorietà 
del 
ricorso -formalmente 
non 
contemplata 
nella 
disposizione 
appena 
citata 
-si 
desume 
dalla 
circostanza 
che 
lo stesso, essendo attivabile 
per tutti 
gli 
ambiti 
della 
giurisdizione 
amministrativa 
ordinaria 
(plesso T.A.r. -Consiglio di 
Stato) e 
quindi 
anche 
quella 
esclusiva, può coinvolgere 
anche 
diritti 
soggettivi 
nell’ambito di 
un rapporto. 
A 
tale 
ricorso corrisponde, nella 
regione 
Sicilia, nei 
confronti 
degli 
atti 
regionali, il 
ricorso straordinario al 
Presidente 
della 
regione, ai 
sensi 
dell’art. 
23, comma 
4, dello Statuto della 
regione 
Siciliana 
secondo cui 
“I ricorsi 
amministrativi, 
avanzati 
in linea straordinaria contro atti 
amministrativi 
regio


(8) Sul 
quale, ex 
plurimis: 
g. ChEVAllArd, voce 
Ricorso straordinario al 
Capo dello Stato, in 
Noviss. 
Digesto, 
vol. 
XV, 
uTET, 
1968, 
pp. 
1040-1050; 
F.g. 
SCoCA 
(a 
cura 
di), 
Giustizia 
amministrativa, 
cit., pp. 683-704. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


nali, saranno decisi 
dal 
Presidente 
della Regione, sentite 
le 
Sezioni 
regionali 
del Consiglio di Stato”. 


il 
procedimento è 
delineato nel 
Capo iii (artt. 8-15) d.P.r. n. 1199/1971. 
nel 
2009-2010 
l’iter 
ha 
avuto 
incisive 
modifiche 
legislative 
che, 
anche 
alla 
luce 
dell’interpretazione 
giurisprudenziale, 
ne 
hanno 
modificato 
la 
natura 
giuridica 
(9). 


É 
un rimedio non solo facoltativo ma 
anche 
alternativo a 
quello giurisdizionale. 


A 
fronte 
dell’atto amministrativo, quindi, l’interessato può -a 
sua 
scelta 


-proporre 
sia 
il 
ricorso amministrativo che 
quello giurisdizionale 
dinanzi 
al 
giudice amministrativo ordinario. 
Ma 
electa una via non datur 
recursus 
ad alteram. Tanto è 
enunciato nel-
l’art. 8, comma 
2, d.P.r. n. 1199/1971: 
“Quando l'atto sia stato impugnato 
con ricorso giurisdizionale, non è 
ammesso il 
ricorso straordinario da parte 
dello stesso interessato”. 


ove 
l’interessato 
proponga, 
dopo 
la 
proposizione 
del 
ricorso 
giurisdizionale, 
ricorso 
al 
Capo 
dello 
Stato 
avente 
lo 
stesso 
oggetto 
di 
quello 
giurisdizionale, 
il 
ricorso 
al 
Capo 
dello 
Stato 
è 
inammissibile. 
Analogamente, 
ove 
l’interessato 
proponga 
prima 
ricorso 
al 
Capo 
dello 
Stato 
e 
dopo 
quello 
giurisdizionale 
-nei 
rispettivi 
termini 
decadenziali 
-il 
secondo 
è 
inammissibile 
(10). 


All’evidenza 
è 
importante 
delineare 
con esattezza 
il 
momento della 
proposizione 
del 
ricorso, al 
fine 
della 
prevenzione. la 
priorità 
tra 
ricorso giurisdizionale 
e 
ricorso al 
Capo dello Stato è 
determinata 
dal 
deposito, sicché 
il 
ricorso straordinario è 
proponibile 
dallo stesso soggetto che 
ha 
già 
proposto 
ricorso in sede 
giurisdizionale 
se, pur avendo notificato l’atto, non proceda 
al 
suo deposito (11); 
tanto in ossequio alla 
regola 
generale 
degli 
effetti 
processuali 
della 
domanda 
ancorati 
al 
deposito 
del 
ricorso 
ex 
art. 
39, 
comma 
3, 
c.p.c. 

la 
regola 
non opera 
nell’ipotesi 
in cui 
uno stesso atto venga 
contestual


(9) Art. 69, l. 18 giugno 2009, n. 69 novellante, gli 
artt. 13-14 d.P.r. n. 1199/1971 con riguardo 
al 
ruolo del 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato (previsione 
della 
possibilità 
-da 
parte 
dell’organo consultivo 
-di 
sollevare 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
e 
natura 
vincolante 
del 
parere); 
art. 7, comma 
8, 
c.p.a. sull’ambito del 
ricorso straordinario. Con decisione 
della 
Corte 
di 
giustizia 
dell'unione 
europea 
del 
16 ottobre 
1997 nelle 
cause 
riunite 
da 
C-69/96 a 
C-79/96, si 
è 
riconosciuta 
la 
facoltà 
di 
rimessione 
di questione pregiudiziale alla stessa Corte in sede di ricorso straordinario. 
(10) invero non vi 
è, all’attualità, una 
disposizione 
espressa 
sul 
punto (una 
disposizione 
espressa 
era 
contenuta 
nell’art. 34, comma 
2, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 -poi 
abrogato dal 
d.l.vo 2 luglio 
2010, 
n. 
104 
-secondo 
cui 
il 
ricorso 
giurisdizionale 
“non 
è 
più 
ammesso, 
quando 
contro 
il 
provvedimento 
definitivo, siasi 
presentato ricorso al 
Re 
in sede 
amministrativa, secondo la legge 
vigente”). Tuttavia, 
l’alternatività 
è 
sempre 
stata 
un carattere 
tipico dell’istituto e 
la 
prevalenza 
del 
ricorso giurisdizionale 
sul 
ricorso al 
Capo dello Stato è 
prevista 
solo nella 
disciplina 
della 
trasposizione 
del 
ricorso ancorata 
a 
determinati requisiti. 
(11) in tal 
senso anche 
C.E. gAllo, manuale 
di 
giustizia amministrativa, iX 
edizione, giappichelli, 
2018, 
pp. 
183-184 
e 
l. 
MAzzArolli, 
g. 
PEriCu, 
A. 
roMAno, 
F.A. 
roVErSi 
MonACo, 
F.g. 
SCoCA 
(a cura di), Diritto amministrativo, ii vol., iV edizione, Monduzzi, 2005, pp. 436-437. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


mente 
impugnato 
in 
sedi 
diverse 
da 
due 
cointeressati. 
il 
coordinamento 
in 
questo 
caso 
è 
garantito 
dal 
fatto 
che 
il 
rigetto 
del 
ricorso 
straordinario 
non 
vincola 
la 
decisione 
del 
giudice 
amministrativo, 
mentre 
l’annullamento 
in 
accoglimento 
di 
uno dei 
due 
ricorsi 
determina 
la 
cessazione 
della 
materia 
del 
contendere 
nel ricorso proposto nell’altra sede (12). 


il 
ricorso al 
Capo dello Stato, come 
l’arbitrato, comporta 
la 
rinuncia 
alla 
giurisdizione 
amministrativa 
ordinaria. Sicché 
in ordine 
alla 
rimessione 
della 
lite 
al 
Capo 
dello 
Stato 
tutte 
le 
parti 
coinvolte 
nel 
procedimento 
devono 
essere 
d’accordo, 
in 
via 
espressa 
o 
in 
via 
tacita. 
nel 
caso 
di 
mancato 
accordo 
prevale 
la 
via 
giurisdizionale. Tanto è 
confermato dallo strumento della 
opposizione 
che 
le 
parti 
diverse 
dal 
ricorrente 
-ossia 
il 
controinteressato e 
l’Amm.ne, diversa 
da 
quella 
statale, autrice 
dell’atto -possono proporre 
alla 
prosecuzione 
del 
ricorso 
al 
Capo 
dello 
Stato; 
in 
tale 
evenienza 
è 
onere 
del 
ricorrente 
attivarsi 
per 
proseguire 
nella 
sede 
giurisdizionale. 
la 
disciplina 
dell’opposizione 
è 
contenuta 
nell’art. 10, all’esito della 
pronuncia 
di 
incostituzionalità 
con sentenza 
29 luglio 1982, n. 148 della Corte costituzionale ed è così riassumibile: 


-i 
controinteressati 
e 
l'ente 
pubblico, 
diverso 
dallo 
Stato 
(13), 
che 
ha 
emanato 
l'atto 
impugnato, 
entro 
il 
termine 
di 
sessanta 
giorni 
dalla 
notificazione 
del 
ricorso, 
possono 
richiedere, 
con 
atto 
notificato 
al 
ricorrente 
e 
all'organo 
che 
ha 
emanato l'atto impugnato, che 
il 
ricorso sia 
deciso in sede 
giurisdizionale. 
in tal 
caso, il 
ricorrente, qualora 
intenda 
insistere 
nel 
ricorso, deve 
depositare 
nella 
segreteria 
del 
giudice 
amministrativo competente, nel 
termine 
di 
sessanta 
giorni 
dal 
ricevimento dell'atto di 
opposizione, l'atto di 
costituzione 
in 
giudizio, 
dandone 
avviso 
mediante 
notificazione 
all'organo 
che 
ha 
emanato 
l'atto impugnato ed ai 
controinteressati 
e 
il 
giudizio segue 
in sede 
giurisdizionale 
(14). il 
collegio giudicante, qualora 
riconosca 
che 
il 
ricorso è 
inammissibile 
in 
sede 
giurisdizionale, 
ma 
può 
essere 
deciso 
in 
sede 
straordinaria 
dispone 
la 
rimessione 
degli 
atti 
al 
Ministero 
competente 
per 
l'istruzione 
dell'affare 
(15); 


(12) Così F.g. SCoCA 
(a cura di), Giustizia amministrativa, cit., p. 693. 
(13) l’opposizione 
non è 
proponibile 
dalle 
Amm.ni 
statali 
le 
quali 
sono già 
sufficientemente 
garantite 
dal 
fatto che 
la 
decisione 
del 
ricorso straordinario è 
comunque 
affidata 
agli 
organi 
di 
vertice 
del-
l’apparato statale. 
(14) diversamente, ove 
-nonostante 
l’opposizione 
-il 
ricorrente 
prosegua 
nel 
ricorso straordinario, 
questo deve essere dichiarato improcedibile. 
(15) Questo impianto viene 
confermato dall’art. 48 c.p.a., rubricato “Giudizio conseguente 
alla 
trasposizione 
del 
ricorso straordinario” 
a 
termini 
del 
quale: 
“1. Qualora la parte 
nei 
cui 
confronti 
sia 
stato proposto ricorso straordinario ai 
sensi 
degli 
articoli 
8 e 
seguenti 
del 
decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 24 novembre 
1971, n. 1199, proponga opposizione, il 
giudizio segue 
dinanzi 
al 
tribunale 
amministrativo regionale 
se 
il 
ricorrente, entro il 
termine 
perentorio di 
sessanta giorni 
dal 
ricevimento 
dell'atto di 
opposizione, deposita nella relativa segreteria l'atto di 
costituzione 
in giudizio, dandone 
avviso 
mediante 
notificazione 
alle 
altre 
parti. 2. Le 
pronunce 
sull'istanza cautelare 
rese 
in sede 
straordinaria 
perdono 
efficacia 
alla 
scadenza 
del 
sessantesimo 
giorno 
successivo 
alla 
data 
di 
deposito 
dell'atto 
di 
costituzione 
in giudizio previsto dal 
comma 1. Il 
ricorrente 
può comunque 
riproporre 
l'istanza cautelare 
al 
tribunale 
amministrativo 
regionale. 
3. 
Qualora 
l'opposizione 
sia 
inammissibile, 
il 
tribunale 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


-la 
mancata 
opposizione 
preclude 
ai 
controinteressati 
e 
all'ente 
pubblico, 
diverso dallo Stato, che 
ha 
emanato l'atto impugnato, ai 
quali 
sia 
stato notificato 
il 
ricorso 
straordinario, 
l'impugnazione 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo 
ordinario 
competente 
della 
decisione 
di 
accoglimento 
del 
Presidente 
della 
repubblica, 
salvo che 
per vizi 
di 
forma 
o di 
procedimento propri 
del 
medesimo. 


A 
differenza 
dei 
ricorsi 
amministrativi 
ordinari, il 
ricorso al 
Capo dello 
Stato 
riscuote 
un 
discreto 
successo 
nella 
pratica, 
per 
molteplici 
ragioni: 
accentuata 
terzietà 
del 
decidente; 
moderato carico di 
spese 
(è 
dovuto solo il 
pagamento 
del 
contributo unificato delle 
spese 
di 
lite, ma 
vi 
è 
la 
possibilità 
di 
azione 
diretta 
da 
parte 
dell’interessato, non essendo obbligatorio il 
patrocinio 
legale 
e 
nel 
caso di 
rigetto non vi 
è 
condanna 
alle 
spese); 
celerità 
del 
procedimento; 
termine 
di 
proposizione 
doppio rispetto al 
ricorso giurisdizionale, sicché 
decorso quest’ultimo termine, l’interessato ha 
un’àncora 
di 
salvezza 
nel 
ricorso de quo. 


l’ambito del 
ricorso al 
Capo dello Stato è, salve 
specifiche 
eccezioni, lo 
stesso della 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo ordinario, come 
confermato 
dall’art. 7, comma 
8, c.p.a.: 
“Il 
ricorso straordinario è 
ammesso unicamente 
per 
le 
controversie 
devolute 
alla 
giurisdizione 
amministrativa”. 
Ciò 
per 
tutti 
gli 
ambiti 
della 
giurisdizione, 
anche 
esclusiva. 
Sicché, 
alla 
cognizione 
del 
Capo dello Stato si 
possono sottoporre 
“le 
controversie, nelle 
quali 
si 
faccia 
questione 
di 
interessi 
legittimi 
e, 
nelle 
particolari 
materie 
indicate 
dalla 
legge, 
di 
diritti 
soggettivi, concernenti 
l'esercizio o il 
mancato esercizio del 
potere 
amministrativo, riguardanti 
provvedimenti, atti, accordi 
o comportamenti 
riconducibili 
anche 
mediatamente 
all'esercizio di 
tale 
potere, posti 
in essere 
da 
pubbliche 
amministrazioni” 
(art. 
7, 
comma 
1, 
c.p.a.). 
Tutte 
le 
PP.AA. 
-statali, 
regionali, 
enti 
locali, 
amministrazioni 
indipendenti 
-sono 
evocabili 
dinanzi 
al 
Capo dello Stato, finanche 
i 
“soggetti 
ad esse 
equiparati 
o comunque 
tenuti 
al 
rispetto 
dei 
principi 
del 
procedimento 
amministrativo” 
(art. 
7, 
comma 
2, 
c.p.a.), ossia 
i 
soggetti 
privati 
preposti 
all'esercizio di 
attività 
amministrative 
(art. 
1, 
comma 
1 
ter, 
l. 
n. 
241/1990), 
espressione 
quest’ultima 
che 
può 
riferirsi 
tanto a funzioni pubbliche in senso stretto, quanto ai servizi pubblici (16). 


in 
via 
di 
eccezione 
non 
è 
proponibile 
il 
ricorso 
straordinario 
al 
Capo 
dello 
Stato per il 
rito speciale 
relativo alle 
procedure 
di 
affidamento di 
pubblici 
lavori, 
servizi 
e 
forniture 
ex 
art. 119, comma 
1, lett. a, c.p.a. (art. 120, comma 
1, c.p.a.), per il 
contenzioso sulle 
operazioni 
elettorali 
(art. 128 c.p.a.), per le 
controversie 
originate 
dalla 
gestione 
delle 
crisi 
degli 
enti 
creditizi 
(art. 
95, 
comma 
1, d.l.vo 16 novembre 
2015, n. 180). Ciò per la 
necessità 
della 
definizione 
dei procedimenti in esame con assoluta celerità. 


amministrativo regionale 
dispone 
la restituzione 
del 
fascicolo per 
la prosecuzione 
del 
giudizio in sede 
straordinaria”. 
All’evidenza, opera l’istituto della 
traslatio iudicii. 


(16) 
Conf. 
M. 
d’AlbErTi, 
Lezioni 
di 
diritto 
amministrativo, 
iV 
edizione, 
giappichelli, 
2019, 
p. 
81. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


la 
statuizione 
secondo cui 
il 
ricorso al 
capo dello Stato “è 
ammesso unicamente 
per 
le 
controversie 
devolute 
alla 
giurisdizione 
amministrativa” 
comporta 
che 
ove 
la 
tutela 
giurisdizionale 
sia 
devoluta 
ad 
un 
giudice 
di 
altro 
plesso 
giurisdizionale 
(A.g.o., Corte 
dei 
Conti 
ed altri 
giudici 
speciali) non è 
consentito 
il ricorso straordinario. 


Se 
il 
ricorso è 
ammesso “unicamente” 
per le 
controversie 
devolute 
alla 
giurisdizione 
amministrativa, la 
regola 
dell’alternatività 
comporta 
che 
è 
ammesso 
per 
tutte 
le 
controversie 
devolute 
alla 
giurisdizione 
amministrativa 
e 
quindi, come 
innanzi 
evidenziato, anche 
per quelle 
rimesse 
alla 
giurisdizione 
esclusiva 
del 
giudice 
amministrativo. nel 
d.P.r. n. 1199/1971 il 
ricorso è 
costruito 
in termini 
impugnatori 
(l’oggetto del 
ricorso è 
un atto amministrativo; 
l’impugnazione 
va 
proposta 
entro un termine 
decadenziale). Tuttavia 
la 
completa 
potenzialità 
della 
regola 
dell’alternatività 
e 
del 
principio della 
pienezza 
ed 
effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
implica 
che 
tutte 
le 
azioni 
proponibili 
e 
tutte 
le 
pronunce 
adottabili 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo, anche 
in sede 
di 
giurisdizione 
esclusiva, sono proponibili 
e 
adottabili 
in sede 
di 
ricorso al 
Capo dello Stato (17). 


4. Attivazione del ricorso straordinario ed istruttoria. 
il 
procedimento inizia 
con la 
notificazione 
di 
un ricorso, ossia 
di 
un atto 
che 
contiene 
solo 
la 
editio 
actionis 
(individuazione 
di 
personae, 
petitum 
e 
causa petendi) e non anche la 
vocatio in ius. 


la 
forma-contenuto del 
ricorso è 
quella 
indicata 
nell’art. 125 c.p.c., lex 
generalis 
in materia, e 
quindi 
lo stesso deve 
indicare: 
l’autorità 
adita 
(Capo 
dello 
Stato), 
le 
parti, 
l'oggetto, 
le 
ragioni 
della 
domanda 
e 
le 
conclusioni 
o 
l'istanza. il 
ricorso deve 
essere 
sottoscritto dalla 
parte, se 
essa 
sta 
in giudizio 
personalmente, 
oppure 
-se 
nominato, 
attesa 
la 
facoltatività 
-dal 
difensore 
che 
indica 
il 
proprio codice 
fiscale. Va 
pagato il 
contributo unificato delle 
spese 
di 
lite 
ammontante 
ad 
euro 
650 
(art. 
13, 
comma 
6 
bis, 
lett. 
e, 
d.P.r. 
30 
maggio 
2002, n. 115) (18). 


il 
ricorso deve 
essere 
proposto nel 
termine 
di 
centoventi 
giorni 
dalla 
data 
della 
notificazione 
o 
della 
comunicazione 
dell'atto 
impugnato 
o 
da 
quando 
l'interessato 
ne 
abbia 
avuto 
piena 
conoscenza. 
non 
opera 
la 
sospensione 
feriale 


(17) il 
prevalente 
orientamento giurisprudenziale 
(riportato in C.E. gAllo, manuale 
di 
giustizia 
amministrativa, 
iX 
edizione, 
giappichelli, 
2018, 
p.12) 
è 
contrario. 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
sede 
consultiva 
-parere 
11 giugno 2018, n. 1517 -ha 
sostenuto che 
in base 
al 
principio dell’effettività 
della 
tutela, nel 
ricorso straordinario al 
Capo dello Stato sono ammesse 
azioni 
diverse 
da 
quelle 
di 
annullamento, come 
le 
azioni 
di 
adempimento ex 
art. 34 comma 
1 lett. c, c.p.a., aventi 
ad oggetto la 
condanna 
della 
pubblica 
amministrazione 
all’emanazione 
di 
un provvedimento; 
non è 
possibile, invece 
-sempre 
a 
giudizio del 
parere - una richiesta risarcitoria. 
(18) gli 
importi 
-giusta 
il 
comma 
6 bis 
-1. -sono aumentati 
della 
metà 
qualora 
la 
parte 
ometta 
di 
indicare il codice fiscale nel ricorso. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


dei 
termini, non venendo in rilievo un ricorso giurisdizionale 
al 
giudice 
amministrativo 
al 
quale 
si 
applica 
la 
previsione 
di 
cui 
all’art. 54, comma 
2, c.p.a. 
(19). 
nel 
detto 
termine, 
il 
ricorso 
deve 
essere 
notificato 
nei 
modi 
e 
con 
le 
forme 
prescritti 
per 
i 
ricorsi 
giurisdizionali 
ad 
uno 
almeno 
dei 
controinteressati 
e 
presentato 
con 
la 
prova 
dell'eseguita 
notificazione 
all'organo 
che 
ha 
emanato 
l'atto o al 
Ministero competente 
(20), direttamente 
o mediante 
notificazione 
o 
mediante 
lettera 
raccomandata 
con 
avviso 
di 
ricevimento. 
nel 
primo 
caso 
l'ufficio 
ne 
rilascia 
ricevuta. Quando il 
ricorso è 
inviato a 
mezzo posta, la 
data 
di 
spedizione vale quale data di presentazione. 

il 
ricorso deve 
essere 
notificato, in origine 
o in seguito su impulso del-
l’istruttore, 
a 
tutti 
i 
controinteressati 
ed 
altresì 
anche 
all’ente 
pubblico, 
diverso 
dallo Stato, che 
ha 
emanato l’atto impugnato, il 
quale 
ha 
la 
stessa 
posizione 
procedimentale del controinteressato. 


Se 
il 
ricorso 
è 
a 
tutela 
di 
diritti 
soggettivi 
il 
termine 
entro 
il 
quale 
proporlo 
non è quello di decadenza, ma quello di prescrizione. 


in assenza 
di 
disposizioni 
di 
legge: 
a) si 
riconosce 
al 
ricorrente 
il 
potere 
di 
proporre 
motivi 
aggiunti 
al 
ricorso straordinario, quando sia 
venuto a 
conoscenza 
di 
ulteriori 
profili 
di 
illegittimità 
dell’atto impugnato (21); 
b) si 
ammette 
la possibilità dell’intervento ad adiuvandum 
o ad opponendum 
(22). 


l'organo, che ha ricevuto il ricorso, lo trasmette immediatamente al Ministero 
competente, al quale riferisce. 


Ai 
controinteressati 
è 
assegnato un termine 
di 
sessanta 
giorni 
dalla 
notificazione 
del 
ricorso 
per 
presentare 
al 
Ministero 
che 
istruisce 
l'affare 
deduzioni 
e documenti ed eventualmente per proporre ricorso incidentale. 


Quando il 
ricorso sia 
stato notificato ad alcuni 
soltanto dei 
controinteressati, 
il 
Ministero ordina 
l'integrazione 
del 
procedimento, determinando i 
soggetti 
cui 
il 
ricorso stesso deve 
essere 
notificato e 
le 
modalità 
e 
i 
termini 
entro 
i quali il ricorrente deve provvedere all'integrazione. 


Entro centoventi 
giorni 
dalla 
scadenza 
del 
termine 
assegnato ai 
controinteressati 
per presentare 
deduzioni 
e 
documenti 
ed eventualmente 
per proporre 
ricorso incidentale, il 
ricorso, istruito dal 
Ministero competente, è 
trasmesso, 
insieme 
con gli 
atti 
e 
i 
documenti 
che 
vi 
si 
riferiscono, al 
Consiglio di 
Stato 
per il parere. 


(19) “I termini processuali sono sospesi dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno”. 
(20) i ricorsi 
con i 
quali 
si 
impugnano atti 
di 
enti 
pubblici 
in materie 
per le 
quali 
manchi 
uno specifico 
collegamento con le 
competenze 
di 
un determinato Ministero devono essere 
presentati 
alla 
Presidenza 
del Consiglio dei Ministri che ne cura la relativa istruttoria. 
(21) A. roMAno 
(a 
cura 
di), Commentario breve 
alle 
leggi 
sulla giustizia amministrativa, ii edizione, 
CEdAM, 2001, p. 218, ove 
si 
evidenzia 
che 
ciò è 
ammesso dalla 
dottrina 
ed altresì 
-fin dagli 
anni ‘70 del secolo trascorso - dalla giurisprudenza amministrativa. 
(22) 
A. 
roMAno 
(a 
cura 
di), 
Commentario 
breve 
alle 
leggi 
sulla 
giustizia 
amministrativa, 
cit., 
ove si evidenzia che ciò è ammesso dalla dottrina. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Trascorso 
il 
detto 
termine, 
il 
ricorrente 
può 
richiedere, 
con 
atto 
notificato 
al 
Ministero 
competente, 
se 
il 
ricorso 
sia 
stato 
trasmesso 
al 
Consiglio 
di 
Stato. 
in 
caso 
di 
risposta 
negativa 
o 
di 
mancata 
risposta 
entro 
trenta 
giorni, 
lo 
stesso 
ricorrente 
può 
depositare 
direttamente 
copia 
del 
ricorso 
presso 
il 
Consiglio 
di 
Stato. 


5. Parere sul ricorso straordinario. 
il 
parere 
viene 
reso 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
sede 
consultiva 
ed 
è 
espresso 
dalla sezione o dalla commissione speciale, alla quale il ricorso è assegnato. 


Trattasi di parere 
sui generis: 


- è un parere obbligatorio e vincolante; 
-la 
funzione 
è 
consultiva, ma 
la 
struttura 
giurisdizionale 
dell’organo che 
rende 
il 
parere 
comporta, come 
per la 
Corte 
dei 
conti 
in sede 
di 
controllo nel 
giudizio di 
parificazione 
sui 
consuntivi 
dello Stato e 
delle 
regioni, il 
potere 
di 
sollevare 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
(per previsione 
espressa 
di 
cui 
al 
comma 
1 dell’art. 13 d.P.r. n. 1199/1971) e 
-analogicamente 
-il 
potere 
di 
rimettere 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
dell’u.E. una 
questione 
pregiudiziale 
relativa all’interpretazione del 
T.F.u.E. 
Questo 
il 
contenuto 
dell’art. 
13: 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
se 
riconosce 
che 
l'istruttoria 
è 
incompleta 
o 
che 
i 
fatti 
affermati 
nell'atto 
impugnato 
sono 
in 
contraddizione 
con 
i 
documenti, 
può 
richiedere 
al 
Ministero 
competente 
nuovi 
chiarimenti 
o documenti 
ovvero ordinare 
al 
Ministero medesimo di 
disporre 
nuove 
verificazioni, 
autorizzando 
le 
parti 
ad 
assistervi 
ed 
a 
produrre 
nuovi 
documenti; 
se 
il 
ricorso sia 
stato notificato ad alcuni 
soltanto dei 
controinteressati, 
manda 
allo stesso Ministero di 
ordinare 
l'integrazione 
del 
contraddittorio 
nei 
confronti 
degli 
altri; 
se 
ritiene 
che 
il 
ricorso non possa 
essere 
deciso indipendentemente 
dalla 
risoluzione 
di 
una 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
che 
non risulti 
manifestamente 
infondata, sospende 
l'espressione 
del 
parere 
e, 
riferendo 
i 
termini 
e 
i 
motivi 
della 
questione, 
ordina 
alla 
segreteria 
l'immediata 
trasmissione 
degli 
atti 
alla 
Corte 
costituzionale, ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
di 
cui 
agli 
articoli 
23 e 
ss. l. 11 marzo 1953, n. 87, nonché 
la 
notifica 
del 
provvedimento 
ai 
soggetti 
ivi 
indicati; 
se 
l'istruttoria 
è 
completa 
e 
il 
contraddittorio è 
regolare, esprime parere: 


a) per la 
dichiarazione 
di 
inammissibilità, se 
riconosce 
che 
il 
ricorso non 
poteva 
essere 
proposto, salva 
la 
facoltà 
dell'assegnazione 
di 
un breve 
termine 
per 
presentare 
all'organo 
competente 
il 
ricorso 
proposto, 
per 
errore 
ritenuto 
scusabile, contro atti non definitivi; 
b) per l'assegnazione 
al 
ricorrente 
di 
un termine 
per la 
regolarizzazione, 
se 
ravvisa 
una 
irregolarità 
sanabile, 
e, 
se 
questi 
non 
vi 
provvede, 
per 
la 
dichiarazione 
di improcedibilità del ricorso; 
c) per la reiezione, se riconosce infondato il ricorso; 
d) per accoglimento e 
la 
rimessione 
degli 
atti 
all'organo competente, se 
riconosce fondato il ricorso per il motivo di incompetenza; 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


e) per l'accoglimento, salvo gli 
ulteriori 
provvedimenti 
dell'amministrazione, 
se riconosce fondato il ricorso per altri motivi di legittimità. 
All’evidenza 
il 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
è, 
in 
realtà, 
l’atto 
con 
il 
quale 
si decide in concreto il ricorso straordinario. 
una 
volta 
emesso il 
parere, il 
Consiglio di 
Stato consuma 
il 
suo potere. 
Sicché 
non 
è 
consentito, 
al 
Ministro 
competente, 
chiederne 
il 
riesame 
o 
la 
modifica 
(23). in casi 
eccezionali 
-da 
una 
giurisprudenza 
degli 
anni 
’50/’70 del 
secolo 
trascorso, 
confermata 
nell’anno 
2000 
-si 
è 
ammesso, 
ragionevolmente, 
il 
riesame 
del 
parere 
emesso (in presenza 
di 
presupposti 
che 
legittimerebbero 
un ricorso per revocazione o in caso di 
ius superveniens) (24). 


6. Decisione del ricorso straordinario. 
“La decisione 
del 
ricorso straordinario è 
adottata con decreto del 
Presidente 
della 
Repubblica 
su 
proposta 
del 
ministero 
competente, 
conforme 
al 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato”. Questo il 
testo dell’art. 14, comma 
1, d.P.r. n. 
1199/1971. 


Si 
ritiene 
che 
il 
decreto presidenziale 
si 
configuri 
come 
un atto che 
si 
limita 
ad esternare 
la 
decisione 
assunta 
dal 
Consiglio di 
Stato (25). Tale 
è 
peraltro 
la 
prassi 
diuturna, 
nella 
quale 
il 
decreto 
presidenziale 
si 
limita 
a 
rinviare 
al 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato (“Il 
tal 
ricorso è 
deciso nei 
termini 
di 
cui 
all’allegato 
parere del Consiglio di Stato”). 


Tenuto 
conto 
dei 
caratteri 
della 
decisione 
in 
esame 
non 
è 
pienamente 
condivisibile 
la 
descritta 
opinione. nel 
caso di 
specie 
viene 
in rilievo un atto formalmente 
presidenziale 
e 
sostanzialmente 
governativo 
(il 
cui 
contenuto 
è 
cioè 
predisposto e 
voluto dai 
membri 
del 
governo) (26). il 
presidente, in linea 
tendenziale, 
prende 
atto di 
quanto proposto dal 
governo tramite 
il 
Ministro com


(23) Conf. P. VirgA, La tutela giurisdizionale 
nei 
confronti 
della pubblica amministrazione, iii 
edizione, giuffré, 1982, p. 94. 
(24) Per queste 
ipotesi: 
A.M. SAndulli, manuale 
di 
diritto amministrativo, ii vol., XV 
edizione, 
Jovene, 1989, p. 1274; 
F.g. SCoCA 
(a 
cura 
di), Giustizia amministrativa, cit., p. 696 riporta 
-quali 
altri 
casi 
di 
richiesta 
di 
riesame 
enucleati 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa, 
in 
continuità 
con 
i 
citati 
orientamenti 
degli 
anni 
’50/’70 -il 
caso di 
contrasto con indirizzi 
giurisprudenziali 
consolidati; 
questo caso 
non 
deve 
considerarsi 
ragionevole, 
atteso 
che 
si 
va 
a 
reinvestire 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
giudizio 
di 
puro diritto in assenza di sopravvenienze. 
(25) 
E. 
CASETTA, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
XVi 
edizione, 
giuffré, 
2014, 
p. 
1009; 
P. 
VirgA, La tutela giurisdizionale 
nei 
confronti 
della pubblica amministrazione, cit., p. 95, per il 
quale 
il 
Capo dello Stato non può discostarsi dal parere, neanche con congrua motivazione. 
(26) 
Ex 
plurimis: 
T. 
MArTinES, 
Diritto 
costituzionale, 
iii 
edizione, 
giuffré, 
1984, 
p. 
530 
e 
pp. 
536-539; 
r. bin, g. PiTruzzEllA, Diritto costituzionale, Viii edizione, giappichelli, 2007, p. 245. g. 
ChEVAllArd, voce 
Ricorso straordinario al 
Capo dello Stato, cit., p. 1046. rispetto alla 
categoria 
del-
l’atto 
formalmente 
presidenziale 
e 
sostanzialmente 
governativo 
si 
evidenzia 
in 
dottrina 
che 
“il 
Presidente 
della repubblica può esercitare 
solo un controllo di 
legittimità (o, anche 
se 
limitatamente, di 
merito) 
senza poter 
incidere 
sulla determinazione 
di 
volontà del 
Governo o del 
ministro competente. Per 
cui 
se 
l’organo che 
li 
ha emessi 
insiste 
nel 
volere 
il 
provvedimento, il 
Presidente 
non può ulteriormente 
rifiutarsi 
di sottoscriverli”: così 
T. MArTinES, Diritto costituzionale, cit., p. 537. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


petente; 
tuttavia 
ove 
venga 
in 
rilievo 
un 
atto 
palesemente 
in 
contrasto 
con 
l’ordinamento 
giuridico (un’ipotesi 
quasi 
di 
scuola) il 
presidente 
dovrebbe 
rifiutarsi 
di 
adottare 
il 
decreto; 
si 
evidenzia 
che 
-dal 
punto 
di 
vista 
delle 
disposizioni 
rilevanti 
-ciò che 
deve 
essere 
conforme 
al 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato è 
la 
proposta 
del 
Ministero competente 
e 
non certo la 
decisione 
del 
ricorso straordinario da parte del Presidente della repubblica. 


la 
decisione 
può essere 
in rito (dichiarazione 
di 
inammissibilità 
o di 
improcedibilità) 
oppure 
sul 
merito (rigetto o accoglimento del 
ricorso). ove 
accolto 
il 
ricorso 
la 
decisione 
dispone 
l’annullamento 
dell’atto 
impugnato, 
nell’ipotesi 
in 
cui 
sia 
proposta 
un’azione 
di 
annullamento, 
oppure 
accerta 
o 
condanna 
nell’ipotesi 
in 
cui 
sia 
proposta 
la 
corrisponde 
azione 
nell’ambito 
della tutela dei diritti. 


Qualora 
il 
decreto 
di 
decisione 
del 
ricorso 
straordinario 
pronunci 
l'annullamento 
di 
atti 
amministrativi 
generali 
a 
contenuto 
normativo, 
del 
decreto 
stesso deve 
essere 
data, a 
cura 
dell'Amministrazione 
interessata, nel 
termine 
di 
trenta 
giorni 
dalla 
emanazione, pubblicità 
nelle 
medesime 
forme 
di 
pubblicazione 
degli atti annullati. 


in 
conseguenza 
della 
novella 
del 
2009 
che 
ha 
eliminato 
la 
possibilità 
per 
il 
governo 
di 
andare 
di 
diverso 
avviso 
rispetto 
al 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
-mediante 
delibera 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
sottoposta 
a 
controllo 
preventivo 
di 
legittimità 
ex 
art. 
3, 
comma 
1, 
lett. 
a, 
l. 
14 
gennaio 
1994, 
n. 
20 
-il 
decreto 
che 
decide 
il 
ricorso 
straordinario 
non 
è 
più 
sottoposto 
al 
visto 
e 
alla 
registrazione 
della 
Corte 
dei 
conti 
ex 
art. 
17, 
comma 
1, 
r.d. 
12 
luglio 
1934, 
n. 
1214 
(27). 


7. Impugnazione della decisione del ricorso straordinario. 
il 
decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
che 
decide 
il 
ricorso straordinario 
può essere 
impugnato con rimedi 
ordinari 
(preclusivi 
della 
formazione 
della definitività) o straordinari (proponibili a prescindere dalla definitività). 


Avendo 
portata 
sostitutiva 
alla 
tutela 
giurisdizionale 
ordinaria 
il 
decreto 
è 
impugnabile, 
in 
via 
ordinaria, 
solo 
dinanzi 
al 
T.A.r. 
(28) 
ed 
unicamente 
per 
vizi 
di 
forma 
o 
di 
procedimento 
propri 
del 
medesimo 
(arg. 
ex 
art. 
10, 


(27) 
“I 
decreti 
reali, 
qualunque 
sia 
il 
ministero 
da 
cui 
emanano 
e 
qualunque 
ne 
sia 
l'oggetto, 
sono presentati 
alla Corte 
perché, esercitato il 
controllo di 
legittimità, vi 
si 
apponga il 
visto e 
ne 
sia 
fatta registrazione”. 
(28) Conf. Cons. Stato, 19 marzo 2014, n. 1346: 
“Quanto alla individuazione 
del 
giudice 
amministrativo 
competente 
a 
giudicare 
su 
tale 
impugnazione, 
si 
osserva 
che 
l'art. 
10, 
terzo 
comma, 
del 
D.P.R. 
n. 1199 del 
1971 contiene 
un riferimento esplicito al 
Consiglio di 
Stato. Tuttavia è 
opinione 
corrente 
che 
in quel 
contesto il 
Consiglio di 
Stato sia menzionato in quanto al 
momento della emanazione 
del 
D.Lgs. (24 novembre 
1971) non era ancora promulgata la legge 
istitutiva dei 
Tribunali 
amministrativi 
regionali 
(6 dicembre 
1971). Di 
fatto, la prassi 
giurisprudenziale 
consolidata è 
nel 
senso che 
l'impugnazione 
si 
propone 
davanti 
al 
Tribunale 
amministrativo regionale”. in senso analogo in dottrina 
già 
P. 
VirgA, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, cit., p. 97. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


comma 
3), 
ossia 
successivi 
all’espressione 
del 
parere 
da 
parte 
del 
Consiglio 
di 
Stato. 
l’impugnazione 
al 
T.A.r. 
è 
altresì 
possibile, 
senza 
limiti 
e 
quindi 
anche 
per 
vizi 
di 
legittimità, 
da 
parte 
dei 
soggetti 
che 
siano 
stati 
pretermessi 
nel 
procedimento 
del 
ricorso 
straordinario, 
perché 
ad 
essi 
il 
ricorso 
non 
è 
stato 
notificato 
(29). 


il 
decreto del 
Capo dello Stato è 
altresì 
impugnabile, in via 
straordinaria 
con ricorso per revocazione, nei 
casi 
previsti 
dall'art. 395 c.p.c. (art. 15), da 
proporre nelle stesse forme del primo ricorso. 


8. Natura giuridica del ricorso straordinario. 
il 
ricorso 
straordinario, 
illo 
tempore, 
aveva 
la 
natura 
giuridica 
di 
normale 
ricorso 
amministrativo 
(30). 
Modificato 
il 
ruolo 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
nel 
procedimento 
all’esito 
di 
una 
novella 
del 
2009 
(parere 
vincolante 
e 
potestà 
di 
sollevare 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale), 
tenuto 
conto 
delle 
innovazioni 
conseguenti 
alla 
adozione 
nel 
2010 
del 
codice 
del 
processo 
amministrativo 
ed 
attesi 
gli 
orientamenti 
della 
Corte 
di 
giustizia 
sulla 
sollevabilità 
della 
questione 
pregiudiziale 
comunitaria, 
si 
è 
posto 
il 
problema 
della 
attualità 
della 
qualificazione. 


la 
tesi 
più 
diffusa 
ed 
ormai 
consolidata 
è 
nel 
senso 
che 
il 
ricorso 
in 
esame 


-pur avendo forma 
amministrativa 
-ha 
una 
sostanza 
giurisdizionale 
(31). da 
ciò i corollari: 
-che 
il 
ricorso introduttivo della 
lite 
deve 
essere 
notificato presso l’Avvocatura 
dello Stato ex 
art. 11 r.d. 30 ottobre 1933, n.1611 (32); 
-che 
l’inosservanza 
del 
decreto di 
decisione 
del 
ricorso straordinario faculta 
la proposizione dell’azione di ottemperanza (33); 
(29) 
Conf. 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
27 
giugno 
2006, 
n. 
9; 
Cons. 
Stato 
n. 
1346/2014 
cit. 
secondo 
cui 
il 
controinteressato 
non 
ritualmente 
evocato 
può 
impugnare 
la 
decisione 
senza 
quelle 
limitazioni 
e 
preclusioni 
che 
sono 
opponibili 
al 
controinteressato 
evocato, 
e, 
in 
genere, 
a 
tutte 
le 
parti 
che 
abbiano 
accettato 
la 
procedura 
in 
sede 
straordinaria 
e 
può 
dunque 
impugnare 
il 
decreto 
decisorio 
davanti 
al 
giudice 
Amministrativo 
anche 
per 
vizi 
inerenti 
al 
parere 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
(e 
alle 
fasi 
procedurali 
anteriori). 
(30) l. Migliorini, voce 
Ricorsi 
amministrativi, cit., p. 700: 
“il 
ricorso straordinario è 
sempre 
stato 
concepito 
come 
un 
rimedio 
amministrativo 
avverso 
provvedimenti 
amministrativi”. 
Analogamente 
g. ChEVAllArd, voce 
Ricorso straordinario al Capo dello Stato, cit., p. 1049. 
(31) Così 
Cass. S.u., 6 settembre 
2013, n. 20569 e 
Cons. Stato, Ad. Plen., 6 maggio 2013, n. 9. 
Corte 
cost., 2 aprile 
2014, n. 73 reputa 
che 
il 
ricorso straordinario è 
un rimedio giustiziale 
che 
ha 
caratteristiche 
strutturali 
e 
funzionali 
“in 
parte” 
assimilabili 
a 
quelle 
tipiche 
del 
processo 
amministrativo. 
Analoga 
la 
prevalente 
dottrina: 
ex 
plurimis, 
M. 
ClAriCh, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
iii 
edizione, 
il Mulino, 2017, p. 498: “assimilabile sostanzialmente a un ricorso giurisdizionale”. 
(32) Così Cons. Stato, 24 febbraio 2014, n. 859. 
(33) 
la 
sostanza 
giurisdizionale 
consente 
di 
ricondurli 
nell'ambito 
dei 
provvedimenti 
esecutivi 
del 
giudice 
amministrativo 
di 
cui 
al 
comma 
2, 
lett. 
b) 
dell'art. 
112 
c.p.a. 
Conf. 
ex 
plurimis 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
6 
maggio 
2013, 
n. 
9; 
Cons. 
Stato, 
29 
maggio 
2015, 
n. 
2690; 
Cass. 
S.u., 
28 
gennaio 
2011, 
n. 
2065. 
il 
ricorso 
per 
l'ottemperanza 
deve 
essere 
proposto 
sempre 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
ai 
sensi 
dell'art. 
113, 
comma 
primo, 
c.p.a., 
secondo 
cui 
nell'ipotesi 
di 
cui 
alla 
lett. 
b), 
comma 
secondo, 
dell'art. 
112 
c.p.a. 
(sentenze 
esecutive 
e 
di 
altri 
provvedimenti 
esecutivi 
del 
giudice 
amministrativo), 
il 
ricorso 
si 
presenta 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


-dell'idoneità 
del 
decreto emesso dal 
Presidente 
della 
repubblica 
a 
seguito 
di 
ricorso straordinario a 
essere 
impugnabile 
con ricorso per cassazione 
per motivi 
di 
giurisdizione 
ex 
art. 111, ultimo comma, Cost. (34) ed a 
formare 
"giudicato" (35). 
la 
qualificazione 
di 
forma 
amministrativa 
e 
sostanza 
giurisdizionale 
è 
una 
etichetta 
ambigua. il 
ricorso al 
capo dello Stato non sarebbe 
né 
un procedimento 
amministrativo, 
né 
un 
procedimento 
giurisdizionale, 
ma 
una 
via 
di 
mezzo 
tra 
i 
due 
procedimenti 
nel 
quale 
l’applicabilità 
delle 
norme 
di 
un 
ambito 
(amministrativo o giurisprudenziale) dipende 
dagli 
orientamenti 
degli 
interpreti, 
soprattutto -intuitivamente 
-giurisprudenziali. Ciò non deve 
ritenersi 
ammesso, atteso che 
l’ordinamento non consente 
siffatti 
istituti 
misti 
ed ambigui, 
i 
quali 
danno luogo ad arbitri 
ed aporie. Per evidenziare 
solo un’aporia: 
ci 
sarebbe 
molto 
da 
discutere 
sulla 
circostanza 
che 
il 
ricorso 
introduttivo 
della 
lite 
deve 
essere 
notificato presso l’Avvocatura 
dello Stato ex 
art. 11 r.d. n. 
1611/1933. 


nella 
realtà, 
l’etichetta 
di 
forma 
amministrativa 
e 
sostanza 
giurisdizionale 
attribuita 
al 
ricorso al 
Capo dello Stato conduce 
inevitabilmente 
a 
qualificare 
come 
giudice 
speciale 
il 
Capo dello Stato in questa 
funzione. Così 
ricostruito, 
all’esito del 
mutamento di 
natura 
operato nel 
2009-2010, l’istituto del 
ricorso 
straordinario al 
presidente 
della 
repubblica 
è 
incostituzionale, in quanto violativo 
dell’art. 
102, 
comma 
2, 
Cost. 
secondo 
cui: 
“Non 
possono 
essere 
istituiti 
[…] 
giudici 
speciali” 
(36), 
ossia 
giudici 
con 
competenze 
ritagliate 
in 
base 
agli 
interessi 
o 
alle 
materie 
in 
questione. 
All’evidenza 
-tenendo 
conto 
dei 
corollari 
della 
sopraindicata 
tesi 
-nel 
caso 
di 
specie, 
le 
innovazioni 
del 
2009-2010 
(successive 
alla 
Costituzione) 
avrebbero 
condotto 
alla 
istituzione 
di 
un 
giudice 
speciale, quale è il Capo dello Stato allorché decide il ricorso straordinario. 


9. (segue) 
Natura giuridica del 
ricorso straordinario. Il 
ricorso straordinario 
come una forma di arbitrato avente ad oggetto interessi legittimi. 
deve 
ritenersi 
che 
il 
procedimento 
attivato 
con 
il 
ricorso 
straordinario, 


al 
"giudice 
che 
ha 
emesso 
il 
provvedimento 
della 
cui 
ottemperanza 
si 
tratta", 
che 
in 
questo 
caso 
non 
può 
che 
essere 
identificato 
nel 
Consiglio 
di 
Stato 
che 
emette 
il 
parere 
obbligatorio 
e 
vincolante 
in 
base 
al 
quale 
è 
reso 
il 
decreto 
decisorio 
finale 
(Conf. 
ex 
plurimis 
Cons. 
Stato, 
25 
giugno 
2013, 
n. 
3440). 


(34) 
Così 
Cass. 
S.u., 
6 
novembre 
2017, 
n. 
26258 
evidenziante 
che 
la 
decisione 
presidenziale 
conforme 
al 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato ripete 
dal 
parere 
stesso la 
natura 
di 
atto giurisdizionale 
in senso 
sostanziale, come 
tale 
impugnabile 
in cassazione 
per motivi 
di 
giurisdizione, atteso che 
la 
legge 
n. 69 
del 
2009, art. 69 -che 
rende 
vincolante 
il 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato e 
legittima 
l'organo consultivo a 
sollevare 
questione 
incidentale 
di 
legittimità 
costituzionale 
-e 
il 
d.lgs. n. 104 del 
2010, art. 7 -il 
quale 
ammette 
il 
ricorso straordinario per le 
sole 
controversie 
sulle 
quali 
vi 
è 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
-evidenziano 
l'avvenuta 
“giurisdizionalizzazione” 
dell'istituto. 
Così 
già 
Cass. 
S.u., 
19 
dicembre 
2012, n. 23464. 
(35) Così, ancora Cass. S.u., n. 20569/2013 cit.; Cons. Stato, Ad. Plen., n. 9/2013. 
(36) Salve 
le 
eccezioni 
costituzionali 
(art. 103 Cost.) ed i 
giudici 
speciali 
preesistenti 
alla 
Costituzione. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


attesi 
i 
dati 
in gioco, non va 
qualificato come 
un giudizio speciale. lo stesso 
è 
da 
ricondurre 
all’arbitrato rituale 
secondo diritto avente 
ad oggetto interessi 
legittimi. 

Circa 
i 
rapporti 
tra 
arbitrato 
e 
giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo 
vi 
è 
la 
regola 
dell’art. 12 c.p.a. per la 
quale 
“Le 
controversie 
concernenti 
diritti 
soggettivi 
devolute 
alla giurisdizione 
del 
giudice 
amministrativo possono essere 
risolte 
mediante 
arbitrato rituale 
di 
diritto ai 
sensi 
degli 
articoli 
806 e 
seguenti 
del 
codice 
di 
procedura civile” 
(37). nulla 
è 
previsto nella 
detta 
disposizione 
circa 
l’arbitrato in una 
lite 
coinvolgente 
gli 
interessi 
legittimi. Si 
ritiene 
che 
tale 
mancata 
previsione, in uno alla 
previsione 
di 
cui 
all’art. 806 


c.p.c. (38) inibisca 
la 
possibilità 
di 
un giudizio arbitrale 
su interessi 
legittimi. 
Sul 
punto è 
necessaria 
una 
puntualizzazione 
essenziale 
sui 
caratteri 
del-
l’arbitrato. l’arbitrato -previsto nel 
processo civile 
-è 
un giudizio privato attivabile 
quando 
le 
parti 
sono 
d’accordo 
e 
la 
lite 
verte 
su 
diritti 
disponibili. 
due 
sono, quindi, i 
requisiti 
per l’ammissibilità 
dell’arbitrato, l’accordo delle 
parti 
ed i diritti disponibili: 


a) 
accordo 
delle 
parti. 
Con 
la 
previsione 
costituzionale 
secondo 
cui 
“Tutti 
possono agire 
in giudizio per 
la tutela dei 
propri 
diritti 
e 
interessi 
legittimi”, 
vi 
è 
la 
libertà 
di 
tutti 
di 
accedere 
agli 
organi 
giurisdizionali. Sicché 
l’arbitrato 
non 
può 
essere 
previsto 
-da 
una 
fonte 
unilaterale 
-come 
obbligatorio. 
E 
difatti 
le 
previsioni 
della 
legislazione 
del 
passato 
che 
prevedevano 
ipotesi 
di 
arbitrato 
obbligatorio sono state 
eliminate: 
o per dichiarazione 
di 
incostituzionalità 
o 
per 
abrogazione 
legislativa. 
l’accordo 
delle 
parti 
deve 
rivestire 
la 
forma 
scritta 
sotto pena 
di 
nullità, giusta 
previsione 
dell’art. 807 c.p.c. (39) e 
comunque 
con 
riguardo alla P.A. - per le regole generali in materia; 
b) diritti 
disponibili. oggetto del 
giudizio arbitrale 
possono essere 
solo 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
nella 
titolarità 
delle 
parti, 
secondo 
il 
principio 
generale 
della 
disponibilità 
delle 
proprie 
-solo 
delle 
proprie, 
come 
evidenziato 
nell’art. 24 Cost. - situazioni giuridiche soggettive. 
Con l’arbitrato si 
dà 
vita 
-consensualmente 
-ad una 
giustizia 
privata 
alternativa 
a quella istituzionale. 


l’arbitrato 
può 
essere 
rituale 
oppure 
irrituale. 
l’arbitrato 
è 
rituale 
quando 
la 
definizione 
avviene 
all’esito 
di 
un 
procedimento 
paragiurisdizionale 
con 
una 
decisione 
(lodo) 
che 
ha 
l’efficacia 
di 
sentenza 
del 
giudice 
competente. 


(37) 
Sulla 
problematica 
A. 
SAndulli, 
L'arbitrato 
nel 
codice 
del 
processo 
amministrativo, 
in 
Giornale 
Dir. Amm., 2013, 2, pp. 205 e ss. 
(38) 
“Le 
parti 
possono 
far 
decidere 
da 
arbitri 
le 
controversie 
tra 
di 
loro 
insorte 
che 
non 
abbiano 
per 
oggetto 
diritti 
indisponibili, 
salvo 
espresso 
divieto 
di 
legge. 
Le 
controversie 
di 
cui 
all'articolo 
409 
possono 
essere 
decise 
da 
arbitri 
solo 
se 
previsto 
dalla 
legge 
o 
nei 
contratti 
o 
accordi 
collettivi 
di 
lavoro”. 
(39) 
“Il 
compromesso 
deve, 
a 
pena 
di 
nullità, 
essere 
fatto 
per 
iscritto 
e 
determinare 
l'oggetto 
della 
controversia. La forma scritta s'intende 
rispettata anche 
quando la volontà delle 
parti 
è 
espressa per 
telegrafo o telescrivente 
telefacsimile 
o messaggio telematico nel 
rispetto della normativa, anche 
regolamentare, 
concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Tanto è 
enunciato dall’art. 824 bis 
c.p.c. statuente 
che 
“Salvo quanto disposto 
dall'articolo 
825, 
il 
lodo 
ha 
dalla 
data 
della 
sua 
ultima 
sottoscrizione 
gli 
effetti 
della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria”. Alla 
luce 
del 
richiamo 
dell’art. 825 c.p.c. ove 
si 
voglia 
mettere 
in esecuzione 
il 
lodo l’efficacia 
della 
sentenza 
si 
consegue 
non 
al 
momento 
dell’ultima 
sottoscrizione, 
ma 
al 
momento 
dell’exequatur 
-ossia 
della 
delibazione, del 
controllo della 
mera 
regolarità 
formale 
-da 
parte 
dell’A.g.o. 
(40). 
diversamente 
è 
irrituale 
e 
vale 
quale 
definizione 
negoziale 
di 
una 
lite 
inter 
partes 
con valore, a 
seconda 
del 
contenuto 
della 
definizione, 
di 
transazione 
e/o 
riconoscimento 
del 
debito 
e/o 
rinunce. 
Sul punto vi è la disciplina dell’art. 808 ter 
c.p.c. 

l’arbitrato, 
sia 
rituale 
che 
irrituale, 
può 
essere, 
poi, 
secondo 
diritto 
o 
secondo 
equità. 
giusta 
l’art. 
822 
c.p.c. 
“Gli 
arbitri 
decidono 
secondo 
le 
norme 
di 
diritto 
[arbitrato 
di 
diritto], 
salvo 
che 
le 
parti 
li 
abbiano 
autorizzati 
con 
qualsiasi 
espressione 
a 
pronunciare 
secondo 
equità 
[arbitrato 
secondo 
equità]”. 


il 
procedimento 
arbitrale 
rituale 
si 
deve 
svolgere 
nel 
rispetto 
del 
principio 
del 
contraddittorio, con la 
concessione 
alle 
parti 
di 
ragionevoli 
ed equivalenti 
possibilità 
di 
difesa. Va 
definito nel 
termine 
fissato dalle 
parti, diversamente 
vale il termine legale di duecentoquaranta giorni. 


il 
lodo, 
avendo 
portata 
sostitutiva 
della 
decisione 
del 
giudice 
che 
sarebbe 
competente 
in via 
ordinaria, è 
impugnabile, tendenzialmente, dinanzi 
al 
giudice 
che 
sarebbe 
competente 
per 
l’appello 
ove 
la 
decisione 
fosse 
stata 
adottata 
dal 
giudice 
ordinariamente 
competente. Per scelta 
legislativa 
l’impugnazione 
è 
a 
critica 
vincolata. il 
lodo può essere 
censurato poi 
con i 
mezzi 
straordinari 
di 
impugnazione. Tanto è 
enunciato nell’art. 827 c.p.c. secondo cui 
“Il 
lodo è 
soggetto soltanto all'impugnazione 
per 
nullità, per 
revocazione 
o per 
opposizione 
di 
terzo. I mezzi 
di 
impugnazione 
possono essere 
proposti 
indipendentemente 
dal 
deposito 
del 
lodo”. 
l'impugnazione 
per 
nullità 
è 
ammessa 
per 
vizi 
di 
forma 
o di 
procedura; 
è 
ammessa 
per violazione 
delle 
regole 
di 
diritto relative 
al 
merito della 
controversia 
se 
espressamente 
disposta 
dalle 
parti 
o dalla 
legge e per contrarietà all'ordine pubblico (art. 829 c.p.c.). 


Fatta 
questa 
puntualizzazione 
sui 
caratteri 
dell’arbitrato, il 
ricorso straordinario 
al 
Capo dello Stato può essere 
qualificato come 
un arbitrato rituale 
secondo 
diritto 
avente 
ad 
oggetto 
interessi 
legittimi. 
Vuol 
dirsi 
che 
alla 
stregua 
dell’ordinamento 
giuridico 
nel 
suo 
complesso 
è 
ammesso 
-con 
forme 
speciali 


-il 
giudizio arbitrale 
su interessi 
legittimi. ossia: 
la 
disciplina 
contenuta 
negli 
(40) “La parte 
che 
intende 
far 
eseguire 
il 
lodo nel 
territorio della Repubblica ne 
propone 
istanza 
depositando il 
lodo in originale 
o in copia conforme, insieme 
con l'atto contenente 
la convenzione 
d'arbitrato, 
in originale 
o in copia conforme, nella cancelleria del 
tribunale 
nel 
cui 
circondario è 
la sede 
dell'arbitrato. Il 
tribunale, accertata la regolarità formale 
del 
lodo, lo dichiara esecutivo con decreto. 
Il 
lodo reso esecutivo è 
soggetto a trascrizione 
o annotazione, in tutti 
i 
casi 
nei 
quali 
sarebbe 
soggetta 
a 
trascrizione 
la 
sentenza 
avente 
il 
medesimo 
contenuto. 
Del 
deposito 
e 
del 
provvedimento 
del 
tribunale 
è data notizia dalla cancelleria alle parti nei modi stabiliti nell'articolo 133, secondo comma”. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


artt. 8-15 d.P.r. n. 1199/1971 costituisce 
una 
ipotesi 
di 
previsione 
legale 
di 
giudizio 
arbitrale 
su 
interessi 
legittimi, 
accanto 
alla 
previsione 
dell’art. 
12 


c.p.a. Tanto alla 
luce 
degli 
elementi 
qualificanti 
del 
ricorso in esame, riconducibili 
all’archetipo dell’arbitrato. in sintesi tali elementi sono: 
- facoltatività del rimedio; 
-alternatività 
e 
sostitutività 
ad un giudizio dinanzi 
ad una 
autorità 
giurisdizionale; 
-accordo 
delle 
parti 
(risultante, 
in 
via 
implicita, 
dalla 
mancata 
opposizione 
ex 
art. 10); 


-limiti 
alla 
impugnazione 
giurisdizionale 
(critica 
vincolata; 
tendenzialmente 
errores in procedendo). 


All’evidenza, questi sono gli elementi qualificanti dell’arbitrato. 


Circa 
il 
requisito 
della 
disponibilità 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 


deve 
rilevarsi 
che 
il 
pubblico potere 
è 
negoziabile 
dalla 
P.A. (arg. ex 
art. 11 l. 


n. 241/1990), ovviamente 
sempre 
in funzione 
della 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici; 
egualmente 
negoziabile, disponibile 
è 
l’interesse 
legittimo da 
parte 
del 
titolare. in disparte 
alla 
negoziabilità 
o meno delle 
situazioni 
soggettive 
è 
comunque 
l’ordinamento giuridico a 
consentire 
l’utilizzo di 
un istituto qualificabile, 
per induzione 
dagli 
elementi 
rilevanti, come 
arbitrato in controversia 
su interessi legittimi. 
Conclusivamente, il 
ricorso straordinario al 
Capo dello Stato è 
-nel 
suo 
nucleo qualificante - un giudizio arbitrale, con forme e regole speciali. 



ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


La 
risoluzione 
delle 
controversie 
sulla 
proprietà 
delle 
cose 
sequestrate 
in 
sede 
penale, 
ed 
in 
particolare 
dei 
beni 
archeologici. 
Gli 
strumenti 
processuali 
a 
disposizione 
dello 
Stato 
italiano, 
a 
tutela 
del 
patrimonio 
culturale 
nazionale 
e 
straniero 


Guido Di Biase* 


SommARIo: 1. La presunzione 
di 
appartenenza dei 
beni 
archeologici 
al 
patrimonio indisponibile 
dello Stato e 
la sua rilevanza nel 
processo penale 
-2. Iniziative 
processuali 
a disposizione 
del 
ministero per 
i 
beni 
e 
le 
attività culturali: intervento, impugnazione, incidente 
di 
esecuzione 
-3. La rimessione 
della controversia al 
giudice 
civile 
ex 
art. 263, comma 3, 
c.p.p.: forme 
della translatio iudicii 
e 
rapporti 
con la rivendicazione 
ex 
art. 948 c.c. -4. Le 
iniziative 
esperibili 
di 
fronte 
al 
sequestro di 
beni 
archeologici 
provenienti 
da Paesi 
stranieri. 


1. La presunzione 
di 
appartenenza dei 
beni 
archeologici 
al 
patrimonio indisponibile 
dello Stato e la sua rilevanza nel processo penale. 
Per 
regola 
generale, 
nell’ordinamento 
italiano 
i 
beni 
archeologici 
(1) 
sono 
ipso 
jure 
ricompresi 
nel 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato, 
come 
si 
evince 
dal 
combinato 
disposto 
degli 
artt. 
826 
c.c. 
(2) 
e 
91, 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, 
n. 
42 
(3). 


A 
discapito 
del 
loro 
rilievo 
eminentemente 
civilistico, 
le 
due 
disposizioni 


(4) si 
trovano ad essere 
applicate 
con particolare 
frequenza 
dalla 
magistratura 
(*) Procuratore dello Stato. 


il 
presente 
scritto 
è 
edito 
nel 
volume 
a 
cura 
di 
b. 
CorTESE, 
“Il 
diritto 
dei 
beni 
culturali. 
Atti 
del 
convegno 
oGiPaC in memoria di 
Paolo Giorgio Ferri. Roma, 27 maggio 2021”, roma 
Tre-Press, 2021, pp. 7194. 


le 
opinioni 
espresse 
nel 
presente 
scritto rappresentano il 
pensiero dell’Autore 
e 
non necessariamente 
quello della istituzione presso la quale presta servizio. 


(1) 
intesi 
come 
“tutti 
i 
vestigi, 
beni 
ed 
altre 
tracce 
dell'esistenza 
dell'umanità 
nel 
passato”, 
secondo 
la 
definizione 
dettata 
dall’art. 1 della 
Convenzione 
europea 
per la 
protezione 
del 
patrimonio archeologico, 
siglata a la 
Valletta il 16 gennaio 1992, e ratificata con l. 29 aprile 2015, n. 57. 
(2) 
A 
mente 
del 
quale 
“Fanno 
parte 
del 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato 
[...] 
le 
cose 
d'interesse 
storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e 
artistico, da chiunque 
e 
in qualunque 
modo ritrovate 
nel sottosuolo”. 
(3) Secondo il 
quale 
“Le 
cose 
indicate 
nell'articolo 10 
[i.e. 
i 
beni 
culturali, ndr] da chiunque 
e 
in 
qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato [...]”). 
(4) le 
quali 
si 
riferiscono precipuamente 
ai 
beni 
archeologici 
mobili, mentre 
gli 
immobili 
sono 
attribuiti 
al 
demanio dagli 
artt. 822 c.c. e 
53 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. la 
principale 
differenza 
di 
regime 
giuridico 
tra 
le 
due 
categorie 
si 
evince 
dall’art. 
54 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, 
n. 
42, 
che 
-per 
quanto 
più interessa 
in questa 
sede 
-annovera 
tra 
i 
beni 
“inalienabili” 
soltanto “i 
beni 
del 
demanio culturale 
di 
seguito indicati: a) gli 
immobili 
e 
le 
aree 
di 
interesse 
archeologico; 
[…] c) le 
raccolte 
di 
musei, pinacoteche, 
gallerie 
e 
biblioteche”. 
Se 
ne 
desume 
l’ascrivibilità 
dei 
beni 
mobili 
di 
valenza 
archeologica 
alla 
categoria 
“dei 
beni 
culturali 
appartenenti 
allo 
Stato, 
alle 
regioni 
e 
agli 
altri 
enti 
pubblici 
territoriali, 
e 
diversi 
da quelli 
indicati 
negli 
articoli 
54, commi 
1 e 
2, e 
55, comma 1”, la 
cui 
alienazione 
è 
ammissibile, 
ancorché 
“soggetta 
ad 
autorizzazione 
da 
parte 
del 
ministero” 
ai 
sensi 
dell’art. 
55 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, n. 42, da 
leggere 
in combinato disposto con l’art. 828, comma 
2, c.c. (a 
mente 
del 
quale 
“I beni 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


penale, allorquando si 
tratti 
di 
individuare 
l’avente 
diritto alla 
restituzione 
dei 
beni sequestrati. 


in effetti, ogniqualvolta 
penda 
un procedimento penale 
volto alla 
repressione 
di 
condotte 
illecite 
insistenti 
su 
reperti 
archeologici 
(5), 
i 
medesimi 
vengono 
pressoché 
immancabilmente 
sottoposti 
a 
vincolo 
reale: 
si 
tratti 
di 
sequestro preventivo finalizzato alla 
confisca 
ex 
art. 321, comma 
2, c.p.p. (6) 
ovvero 
di 
sequestro 
probatorio 
volto 
all’apprensione 
del 
corpo 
del 
reato 
ex 
art. 
253 c.p.p. (7). 

che 
fanno parte 
del 
patrimonio indisponibile 
non possono essere 
sottratti 
alla loro destinazione, se 
non 
nei 
modi 
stabiliti 
dalle 
leggi 
che 
li 
riguardano”). Cfr. sul 
punto M. Fiorilli, S. gATTi, Beni 
culturali. 
Fiscalità, mecenatismo, circolazione, Editoriale Scientifica, napoli, 2019, pp. 208 ss. 

(5) il 
riferimento è 
innanzitutto alle 
fattispecie 
incriminatrici 
delineate 
dagli 
artt. 174 ss. d.lgs. 22 
gennaio 2004, n. 42, ma 
anche 
ad ulteriori 
ipotesi 
di 
reato, contemplate 
dal 
codice 
penale 
(in primis 
ricettazione, 
riciclaggio e 
danneggiamento ex 
art. 733 c.p.) e 
da 
altre 
leggi 
speciali, come 
ad esempio il 
codice 
della 
navigazione 
approvato con r.d. 30 marzo 1942, n. 327 (cfr. in particolare 
l’art. 1146). un 
quadro 
delle 
forme 
di 
criminalità 
avverso 
il 
patrimonio 
archeologico 
e 
degli 
strumenti 
normativi 
per 
farvi 
fronte 
è 
stato esaustivamente 
delineato dal 
compianto P.g. FErri, Brevi 
osservazioni 
sulla tutela 
penale 
dei 
reperti 
archeologici, 
in 
AES 
-Arts+Economics, 
n. 
7, 
gennaio 
2020, 
pp. 
85 
ss., 
al 
quale 
“preme 
[…] sottolineare 
come 
nell’attuale 
quadro normativo la tutela più efficace 
sia paradossalmente 
quella 
che 
può 
essere 
realizzata 
attraverso 
il 
codice 
penale, 
il 
quale, 
ovviamente, 
non 
distingue 
-se 
non 
in 
rari 
casi 
-tra bene 
comune 
e 
bene 
a valenza culturale, assoggettando quest’ultimo alla stessa tutela di 
altri 
beni, 
considerati 
soprattutto 
in 
relazione 
al 
valore 
economico. 
Vengono, 
quindi, 
trascurati 
gli 
aspetti 
intangibili 
ed immateriali 
propri 
di 
ogni 
bene 
culturale” 
(così 
a 
p. 87, nt. 5). Sulla 
“immanenza 
dell’immateriale 
giuridico sulla cosa”, costituente 
il 
proprium 
che 
contraddistingue 
i 
beni 
culturali 
da 
ogni 
altra 
categoria 
di 
beni, cfr. per tutti 
g. SEVErini, L'immateriale 
economico nei 
beni 
culturali, in 
Aedon -Rivista di 
arti 
e 
diritto on line, n. 3/2015, sulla 
scia 
di 
M.S. giAnnini, I beni 
culturali, in Riv. 
trim. 
dir. 
pubbl., 
1976, 
i, 
pp. 
24 
ss. 
in 
generale, 
sui 
profili 
sostanziali 
della 
normativa 
penalistica 
a 
tutela 
dei 
beni 
culturali, cfr. ex 
plurimis 
P. CArPEnTiEri, La tutela penale 
dei 
beni 
culturali 
in Italia e 
le 
prospettive 
di 
riforma: i 
profili 
sostanziali, in S. MAnACordA, A. ViSConTi 
(a 
cura 
di), Beni 
culturali 
e 
sistema 
penale, 
Vita 
e 
pensiero, 
Milano, 
2013, 
pp. 
31 
ss.; 
g.P. 
dEMuro, 
Beni 
culturali 
e 
tecniche 
di 
tutela 
penale, giuffrè, Milano, 2002; 
d. di 
ViCo, Sul 
possesso ingiustificato dei 
beni 
culturali, in Cass. pen., 
2001, 
p. 
1591; 
V. 
MAnES, 
La 
tutela 
penale, 
in 
C. 
bArbATi, 
M. 
CAMMElli, 
g. 
SCiullo 
(a 
cura 
di), 
Diritto 
e 
gestione 
dei 
beni 
culturali, il 
Mulino, bologna, 2011, pp. 308 ss.; 
A. MAnnA, Introduzione 
al 
settore 
penalistico del 
codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio, in A. MAnnA 
(a 
cura 
di), 
Il 
Codice 
dei 
beni 
culturali 
e 
del 
paesaggio, giuffrè, Milano, 2005, p. 19; 
F. MAnToVAni, Lineamenti 
di 
tutela penale 
del 
patrimonio artistico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, pp. 73 ss.; 
A. MASSAro, Diritto penale 
e 
beni 
culturali: 
aporie 
e 
prospettive, 
in 
E. 
bATTElli, 
b. 
CorTESE, 
A. 
gEMMA, 
A. 
MASSAro, 
(a 
cura 
di) 
Patrimonio 
culturale. 
Profili 
giuridici 
e 
tecniche 
di 
tutela, 
romaTre-press, 
2017, 
pp. 
179 
ss.; 
S. 
MoCCiA, 
Riflessioni 
sulla 
tutela 
penale 
dei 
beni 
culturali, 
in 
Riv. 
it. 
dir. 
proc. 
pen., 
1993, 
pp. 
1297 
ss.; 
g. 
PiolETTi, 
voce 
Beni 
culturali 
-Diritto penale, in Enc. giur. Treccani, V, roma, 2005, pp. 16 ss.; 
M. SAVino, La circolazione 
illecita, 
in 
l. 
CASini 
(a 
cura 
di), 
La 
globalizzazione 
dei 
beni 
culturali, 
il 
Mulino, 
bologna, 
2010, 
pp. 
141 
ss.; 
C. 
SoTiS, 
La 
tutela 
penale 
dei 
beni 
culturali 
mobili. 
osservazioni 
in 
prospettiva 
de 
iure 
condendo 
in 
AAVV, 
Circolazione 
dei 
beni 
culturali 
mobili 
e 
tutela 
penale: 
un’analisi 
di 
diritto 
interno, 
comparato ed internazionale, in 
Collana dei 
Convegni 
di 
studio “Enrico de 
Nicola”. Problemi 
attuali 
di 
diritto e 
procedura penale, n. 27, Milano, 2015 pp. 111 ss. Sulla 
riforma 
penale 
attualmente 
in discussione 
in Parlamento cfr. P.g. FErri, La riforma del 
sistema di 
protezione 
penale 
dei 
beni 
culturali: 
luci ed ombre, in Eunomika, 6 marzo 2020. 
(6) il 
riferimento è 
in primo luogo alla 
confisca 
obbligatoria 
contemplata 
dall’art. 174, comma 
3, 
d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, accessoria 
al 
delitto di 
“uscita 
o esportazione 
illecite” 
delineato dal 
primo 
comma 
della 
medesima 
disposizione. laddove 
il 
procedimento penale 
abbia 
ad oggetto una 
fattispecie 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


nell’uno e 
nell’altro caso, la 
definizione 
della 
sorte 
del 
bene 
presuppone 
l’individuazione 
del 
suo titolare, che 
ricorrano o meno (8) i 
presupposti 
della 
confisca. 


Effettivamente, 
la 
stessa 
adozione 
di 
un 
siffatto 
provvedimento 
ablatorio 
dev’essere 
anticipata 
dall’identificazione 
del 
dominus, 
sol 
che 
si 
consideri 
che 
per 
regola 
generale 
la 
confisca 
“non 
si 
applica 
se 
la 
cosa 
appartiene 
a 
persona 
estranea 
al 
reato” 
(9), 
né 
se 
la 
cosa 
è 
già 
ricompresa 
nel 
patrimonio 
statale 
(10). 


Tale 
notazione, seppur condivisa 
in giurisprudenza 
sul 
piano delle 
enunciazioni 
di principio, è sovente disattesa nella pratica. 


È 
infatti 
tutt’altro che 
inusuale 
imbattersi 
in statuizioni 
giurisprudenziali 
volte 
ad 
ordinare 
la 
confisca 
di 
beni 
archeologici 
facendo 
espresso 
riferimento 
all’esigenza 
di 
“ripristinare 
materialmente 
la 
situazione 
di 
dominio 
che, 
ex 
lege, lo Stato vanta sui 
beni 
in questione” 
(11), i.e. 
di 
consentire 
la 
materiale 


incriminatrice 
eterogenea 
non 
considerata 
da 
un’ipotesi 
speciale 
di 
confisca 
(come 
ad 
esempio 
avviene 
per il 
riciclaggio ex 
art. 648-quater 
c.p.) troverà 
applicazione 
la 
disposizione 
generale 
dell’art. 240 c.p., 
alternativamente 
nella 
forma 
facoltativa 
tratteggiata 
dal 
primo 
comma 
o 
in 
quella 
obbligatoria 
delineata 
dal 
capoverso 
(il 
cui 
n. 
2 
impone 
la 
confisca 
“delle 
cose, 
[...] 
l'uso, 
il 
porto, 
la 
detenzione 
e 
l'alienazione 
delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna”). 

(7) Cfr. sul 
punto l. luPAriA, Tutela dei 
beni 
culturali 
e 
processo penale, in E. bATTElli, b. Cor-
TESE, A. gEMMA, A. MASSAro, 
(a 
cura 
di) Patrimonio culturale. Profili 
giuridici 
e 
tecniche 
di 
tutela, 
cit., pp. 196 s. 
(8) la 
necessità 
di 
individuare 
l’avente 
diritto alla 
restituzione 
in assenza 
dei 
presupposti 
per la 
confisca 
emerge 
univocamente 
dall’art. 262, comma 
4, c.p.p., secondo il 
quale 
“dopo la sentenza non 
più soggetta a impugnazione 
le 
cose 
sequestrate 
sono restituite 
a chi 
ne 
abbia diritto, salvo che 
sia disposta 
la confisca”. 
(9) Così 
dispone 
l’art. 240 c.p., ai 
commi 
3 e 
4. nello stesso senso cfr. l’art. 174, comma 
3, d.lgs. 
22 gennaio 2004, n. 42, come 
anche 
l’art. 648-quater 
c.p. e 
la 
generalità 
delle 
disposizioni 
in materia 
di 
confisca, 
tenendo 
conto 
della 
giurisprudenza 
consolidata 
della 
Corte 
costituzionale, 
laddove 
ha 
enunciato 
“in via generale 
che, se 
possono esservi 
cose 
il 
cui 
possesso può configurare 
un'illiceità obbiettiva in 
senso assoluto, la quale 
prescinde 
dal 
rapporto col 
soggetto che 
ne 
dispone 
e 
legittimamente 
debbono 
essere 
confiscate 
presso 
chiunque 
le 
detenga 
(art. 
240 
cod. 
pen.), 
in 
ogni 
altro 
caso 
l'art. 
27, 
primo 
comma, Cost. non può consentire 
che 
si 
proceda a confisca di 
cose 
pertinenti 
a reato, ove 
chi 
ne 
sia 
proprietario al 
momento in cui 
la confisca debba essere 
disposta non sia l'autore 
del 
reato o non ne 
abbia tratto in alcun modo profitto. Pertanto, facendo applicazione 
di 
tale 
principio, va dichiarata l'illegittimità 
costituzionale 
-in riferimento all'art. 27, primo comma, Cost. -dell'art. 66 della l. 1° 
giugno 
1939, 
n. 
1089 
e 
dell'articolo 
116, 
primo 
comma, 
della 
l. 
25 
settembre 
1940, 
n. 
1424 
(ora 
art. 
301, 
primo 
comma, d.P.R. n. 43 del 
1973), nella parte 
in cui 
prevedono la confisca di 
opere 
tutelate 
ai 
sensi 
della 
stessa l. n. 1089 del 
1939 oggetto di 
esportazione 
abusiva, anche 
quando esse 
risultino, di 
proprietà di 
chi 
non sia autore 
del 
reato e 
non ne 
abbia tratto in alcun modo profitto” 
(così 
Corte 
Cost., 19 gennaio 
1987, n. 2, specificando i 
principi 
già 
enunciati 
da 
Corte 
Cost., 17 luglio 1974, n. 229 e 
29 dicembre 
1976, n. 256, successivamente ribaditi 
ex plurimis 
da Corte Cost., 10 gennaio 1997, n. 1). 
(10) Per dirla 
con P.g. FErri, Brevi 
osservazioni 
sulla tutela penale 
dei 
reperti 
archeologici, cit., 
p. 95, nt. 20, “dei 
reperti 
archeologici 
non deve 
essere 
disposta la confisca -procedimento ablativo che 
in pochissimi 
casi 
ha ragione 
di 
essere 
-in quanto la cosa appartiene 
ab origine 
allo Stato. Eccezionalmente, 
quando il 
reperto sia stato acquisito prima del 
1909 ovvero si 
trovi 
all’estero, sarà possibile 
la 
confisca”. 
(11) in tal 
senso Cass. pen., Sez. iii, 30 novembre 
2018 (dep. 2 gennaio 2019), n. 22, la 
quale 
appare 
emblematica 
della 
contraddizione 
indicata 
nel 
testo. infatti, pur attestando che 
“l'esistenza di 
un titolo 
proprietario, 
astrattamente 
legittimo, 
è 
il 
presupposto 
logico 
della 
confisca, 
in 
quanto 
diversamente, 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


restituzione 
dei 
reperti 
all’ente 
pubblico che 
per legge 
ne 
è 
già 
proprietario, 
ed in quanto tale 
titolare 
di 
un diritto dominicale 
che 
rende 
quantomeno superflua 
(se 
non anche 
giuridicamente 
inconfigurabile) l’adozione 
di 
un provvedimento 
come 
la 
confisca, i 
cui 
effetti 
si 
esaurirebbero nel 
perfezionare 
un 
ulteriore 
acquisto a titolo originario (12) in capo al medesimo soggetto. 


Sta 
di 
fatto che 
la 
valutazione 
relativa 
alla 
titolarità 
pubblica 
del 
bene 
è 
sovente 
sovrapposta 
al 
vaglio 
delle 
condizioni 
per 
disporre 
la 
confisca, 
finendo 
spesse volte per essere assorbita da quest’ultima (13). 


non 
essendo 
mai 
il 
bene 
uscito 
dalla 
sfera 
di 
titolarità 
dello 
Stato, 
non 
avrebbe 
senso 
riferirsi 
all'istituto 
della confisca, non potendo essere 
oggetto di 
confisca qualche 
cosa che 
è 
già dello Stato”, la 
pronuncia 
rileva 
la 
preordinazione 
“della confisca stabilita dal 
D.Lgs. n. 42 del 
2004, art. 174, comma 3 
[…] a ripristinare 
materialmente 
la situazione 
di 
dominio che, ex 
lege, lo Stato vanta sui 
beni 
in questione, situazione 
di 
dominio evidentemente 
violata attraverso la illecita esportazione 
del 
bene 
in discorso al 
di 
fuori 
dei 
confini 
dello Stato e, pertanto, al 
di 
fuori 
dei 
margini 
di 
esercitabilità materiale 
del 
dominio 
de quo loquitur”. 
la 
sentenza 
in 
commento 
si 
segnala 
all’attenzione 
per 
aver 
posto 
fine 
alla 
complessa 
vicenda 
giudiziaria 
del 
c.d. “atleta 
vittorioso”, attribuito allo scultore 
greco lisippo di 
Sicione 
e 
ritrovato accidentalmente 
al 
largo 
della 
costa 
marchigiana 
negli 
anni 
Sessanta, 
per 
essere 
poi 
-a 
seguito 
di 
una 
serie 
di 
trasferimenti 
intermedi 
-acquistato 
dal 
getty 
museum 
di 
Malibu, 
dove 
è 
tuttora 
esposto. 
Sulla 
vicenda 
cfr. 
P. 
CiPollA, 
Sulla obbligatorietà della confisca di 
beni 
culturali 
appartenenti 
allo stato illecitamente 
esportati, in 
Giur. merito, 9/2011; 
A. gAiTo 
-M. AnTinuCCi, Prescrizione, terzo estraneo e 
confisca in executivis 
di 
beni 
archeologici 
(a 
margine 
della 
vicenda 
dell’atleta 
vittorioso 
di 
Lisippo), 
in 
La 
giustizia 
patrimoniale 
penale, a 
cura 
di 
A. bArgi, Vol. ii, utet, Torino, 2011, pp. 1188 ss.; 
A. lAnCioTTi, Patrimonio culturale 
sommerso: tutela dei 
beni 
archeologici 
e 
limiti 
alla cooperazione 
internazionale, in Arch. pen., 2011, 


p. 209; l. luPAriA, Tutela dei beni culturali e processo penale, cit., pp. 199 ss. 
(12) Che 
la 
confisca 
comporti 
un acquisto a 
titolo originario in favore 
dello Stato è 
riconosciuto 
da 
giurisprudenza 
pressoché 
unanime: 
cfr. ex 
plurimis 
Cass. civ., Sez. trib., 15 gennaio 2020, n. 554; 
Cass. civ., Sez. ii, 19 agosto 2019, n. 21445; 
Cass. pen., Sez. un., 19 dicembre 
2006 (dep. 8 gennaio 
2007), n. 57; 
Cass. pen., Sez. i, 31 gennaio 2018, (dep. 17 maggio 2018), n. 21975, secondo la 
quale 
“A 
ben vedere, lì 
dove 
sul 
bene 
oggetto di 
confisca insista un preesistente 
diritto reale 
di 
godimento la attribuzione 
del 
bene 
allo Stato a titolo originario ne 
provoca l'estinzione 
(arg. D.Lgs. n. 159 del 
2011, 
ex 
art. 45) e 
l'unico tema di 
discussione 
risulta essere 
l'esistenza o meno di 
un diritto dell'usufruttuario 
ad ottenere 
un indennizzo, in applicazione 
analogica di 
quanto previsto dall'art. 1020 c.c.”. del 
resto, 
tale 
conclusione 
trova 
un’esplicita 
conferma 
nell’art. 45, comma 
1, d.lgs. 6 settembre 
2011, n. 159, il 
quale 
-in armonia 
con quanto disposto per il 
provvedimento di 
espropriazione 
dall’art. 25, d.P.r. 8 giugno 
2001, n. 327 -dispone 
che 
“A 
seguito della confisca definitiva di 
prevenzione 
i 
beni 
sono acquisiti 
al 
patrimonio dello Stato liberi 
da oneri 
e 
pesi. La tutela dei 
diritti 
dei 
terzi 
è 
garantita entro i 
limiti 
e 
nelle 
forme 
di 
cui 
al 
titolo IV”: 
ciò secondo una 
disposizione 
espressamente 
dettata 
per la 
confisca 
di 
prevenzione, la 
cui 
analitica 
disciplina 
è 
considerata 
dalla 
giurisprudenza 
maggioritaria 
come 
punto di 
riferimento per la totalità delle confische, regolate da una normativa ben più laconica. 
(13) l’affermazione 
si 
attaglia 
in modo particolare 
alla 
confisca 
prevista 
dall’art. 174, comma 
3, 
d.lgs. 22 gennaio 2004, definita 
dalla 
giurisprudenza 
maggioritaria 
come 
“misura recuperatoria di 
carattere 
amministrativo”, adottabile 
anche 
in caso di 
proscioglimento per prescrizione, “anche 
se 
il 
giudizio 
penale 
fosse 
stato introdotto al 
solo scopo di 
poter 
disporre, attraverso gli 
accertamenti 
connessi 
allo svolgimento degli 
atti 
di 
fronte 
alla Autorità giudiziaria 
[...] la confisca” 
(così 
Cass. pen., Sez. iii, 
30 novembre 
2018, dep. 2 gennaio 2019, n. 22, cit.) ovvero contestualmente 
ad un provvedimento di 
archiviazione: 
cfr. in tal 
senso Cass. pen., Sez. iii, 10 giugno 2015, n. 42458, in Dir. Pen. Cont., 23 novembre 
2015, con nota 
di 
r. MuzziCA, Confisca dei 
beni 
culturali 
e 
prescrizione: contro o oltre 
Varvara?, 
il 
quale 
critica 
l’inquadramento 
giurisprudenziale 
dell’istituto, 
qualificando 
la 
misura 
come 
“sanzione civilistica” (cfr. in particolare pp. 13 ss.). 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


in 
ogni 
caso, 
l’individuazione 
dell’avente 
diritto 
alla 
restituzione 
dei 
beni 
archeologici 
sequestrati 
è 
affidata 
alla 
tralatizia 
affermazione 
giurisprudenziale 
per cui 
“secondo la costante 
interpretazione 
offerta dal 
giudice 
di 
legittimità 
alla 
disposizione 
prevista 
dal 
D.Lgs. 
n. 
42 
del 
2004, 
art. 
91, 
il 
possesso 
di 
beni 
di 
interesse 
archeologico 
-appartenenti 
come 
tali 
al 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato 
-si 
presume 
illegittimo, 
a 
meno 
che 
il 
detentore 
non 
dimostri 
di 
averli 
legittimamente 
acquistati 
in epoca antecedente 
all'entrata in vigore 
della L. 20 giugno 1909, n. 364” 
(14), ovvero non dimostri 
la 
ricorrenza 
degli 
eccezionali 
casi 
“di 
proprietà privata di 
beni 
archeologici 
ritrovati 
o scoperti 
dopo il 
1909, quando i 
beni 
stessi 
siano stati 
ceduti 
dallo Stato come 
indennizzo 
(art. 43), premio (artt. 44, 46, 47 e 
49) o ad altro titolo (L. n. 1089 del 
1939, artt. 24 e 25)” (15). 

in 
altri 
termini, 
al 
di 
fuori 
di 
alcune 
marginali 
evenienze, 
la 
giurisprudenza 
ritiene 
operante 
una 
vera 
e 
propria 
presunzione 
di 
appartenenza 
dei 
beni 
archeologici 
al 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
Stato 
(16), 
desunta 
dal 
combinato 
disposto dei 
citati 
artt. 826 c.c. e 
91, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (17) e 
riassumibile 
nell’espressione “in dubio pro aerario”. 


(14) Così Cass. pen., Sez. iV, 22 marzo 2016 (dep. 11 aprile 2016), n. 14792. 
(15) 
Così 
Cass. 
pen., 
Sez. 
iii, 
26 
aprile 
2018 
(dep. 
29 
maggio 
2018), 
n. 
24065. 
nello 
stesso 
senso, 
cfr. 
Cass. 
pen., 
Sez. 
iii, 
11 
marzo 
2021 
(dep. 
30 
aprile 
2021), 
n. 
16513. 
È 
bene 
sottolineare 
che 
nel 
citare 
le 
ipotesi 
in cui 
“i 
beni 
stessi 
siano stati 
ceduti 
dallo Stato come 
indennizzo (art. 43), premio (artt. 44, 
46, 47 e 
49) o ad altro titolo (L. n. 1089 del 
1939, artt. 24 e 
25)”, la 
Suprema 
Corte 
fa 
riferimento a 
disposizioni 
contemplate 
dalla 
non più vigente 
l. 1 giugno 1939, n. 1089, abrogata 
dall'art. 166, d.lgs. 29 
ottobre 
1999, n. 490. Per le 
ipotesi 
di 
dominio privato su beni 
archeologici 
contemplate 
dalla 
normativa 
vigente cfr. supra, nt. 4. 
(16) È 
bene 
sottolineare 
che 
per la 
giurisprudenza 
tale 
“presunzione 
di 
proprietà statale 
[…] non 
crea un'ingiustificata posizione 
di 
privilegio probatorio perché 
siffatta presunzione 
si 
fonda, oltre 
che 
sull'id 
quod 
plerumque 
accidit, 
anche 
su 
una 
"normalità 
normativa" 
sicché, 
opponendosi 
una 
circostanza 
eccezionale, idonea a vincere 
la presunzione, deve 
darsene 
la prova da chi 
vi 
abbia interesse”: 
così 
Cass. pen., Sez. iii, 30 novembre 
2018, dep. 2 gennaio 2019, n. 22, cit. (confermata 
ex 
plurimis 
da 
Cass. 
pen., 
Sez. 
iii, 
11 
marzo 
2021, 
dep. 
30 
aprile 
2021, 
n. 
16513), 
il 
cui 
argomentare 
trova 
rispondenza 
anche 
nella 
giurisprudenza 
civile. Cfr. Cass. civ., Sez. i, 10 febbraio 2006, n. 2995, in Giust. civ., 2007, 
pp. 
2231 
ss. 
con 
nota 
di 
P. 
CiPollA, 
Discordanze 
tra 
cassazione 
civile 
e 
penale 
in 
tema 
di 
beni 
culturali. 
(17) in apertura 
del 
presente 
scritto si 
è 
visto come 
le 
due 
disposizioni 
si 
riferiscano ai 
reperti 
archeologici 
e 
ad altre 
categorie 
di 
beni 
culturali 
tassativamente 
individuate. ne 
discende 
che 
per i 
beni 
culturali 
non annoverati 
in tale 
elencazione 
si 
applicherà 
un diverso regime 
(tratteggiato dal 
d.lgs. 22 
gennaio 2004, n. 42), ed ogniqualvolta 
si 
tratti 
di 
un bene 
mobile 
di 
proprietà 
privata 
(con conseguente 
inapplicabilità 
dell’art. 
1145 
c.c.) 
si 
presta 
ad 
essere 
invocata 
la 
regola 
“possesso 
vale 
titolo” 
ex 
art. 
1153 c.c. nondimeno, onde 
evitare 
di 
legittimare 
l’acquisto di 
beni 
culturali 
sottratti 
illecitamente, la 
giurisprudenza 
sottopone 
ad un vaglio particolarmente 
attento la 
verifica 
del 
presupposto della 
buona 
fede 
soggettiva. È 
al 
riguardo emblematica 
la 
sentenza 
Cass. civ., Sez. ii, 14 settembre 
1999, n. 9782, 
che 
ha 
negato l’applicabilità 
della 
regola 
“possesso vale 
titolo” 
in un caso di 
acquisto all’asta 
di 
un dipinto 
di 
giorgio de 
Chirico ("natura 
morta 
con pesci") precedentemente 
oggetto di 
furto in abitazione, 
anche 
considerando che 
l’acquirente 
era 
“nelle 
condizioni, quale 
esperto conoscitore 
delle 
opere 
di 
De 
Chirico, di 
accertare 
se 
il 
quadro in questione 
rientrasse 
tra quelli 
oggetto di 
indagini 
da parte 
degli 
organi 
di 
polizia o dei 
carabinieri 
ad esse 
preposti, tal 
che 
era fondato ritenere 
che 
il 
predetto avesse 
omesso di 
usare 
anche 
quel 
minimo di 
diligenza proprio delle 
persone 
non competenti 
in tale 
settore”. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


nonostante 
la 
probatio diabolica 
posta 
a 
carico dei 
privati 
dalla 
costante 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
possa 
apparire 
prima facie 
in grado di 
prevenire 
in 
radice 
ogni 
controversia 
sulla 
titolarità 
dei 
diritti 
dominicali 
sui 
beni 
archeologici 
sequestrati, va 
segnalato che 
a 
volte 
può risultare 
dubbia 
la 
ricorrenza 
dei presupposti di una siffatta presunzione. 


Segnatamente, possono talvolta 
non risultare 
pacifici: 
lo stesso carattere 
archeologico 
dei 
beni 
(il 
quale 
presuppone 
una 
valutazione 
tecnica 
intrinsecamente 
opinabile) 
(18); 
il 
reperimento 
dei 
beni 
medesimi 
“nel 
sottosuolo” 
(secondo 
quanto 
prescritto 
dai 
citati 
artt. 
826 
c.c. 
e 
91, 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, 


n. 
42); 
la 
provenienza 
dei 
beni 
suddetti 
dal 
territorio 
italiano 
(tenuto 
conto 
che 
secondo 
l’unanime 
-condivisibile 
-orientamento 
giurisprudenziale 
in 
materia 
“gli 
art. 826 e 
828 c.c. [...] nel 
definire 
il 
patrimonio indisponibile 
dello Stato 
[...] si riferiscono esclusivamente al patrimonio artistico nazionale” 
(19). 
in particolare, la 
Suprema 
Corte 
ha 
statuito che 
“La buona fede 
rilevante, ai 
sensi 
dell'art. 1153 c.c., 
per 
l'acquisto a non domino della proprietà di 
beni 
mobili, deve 
ricorrere 
in capo all'acquirente 
al 
momento 
dell'acquisto (mala fides 
superveniens 
non nocet) e 
la relativa presunzione 
di 
sussistenza, può 
essere 
vinta in concreto anche 
tramite 
presunzioni 
semplici, le 
quali 
siano gravi, precise 
e 
concordanti 
e 
forniscano, in via indiretta (com'è 
normale, trattandosi 
di 
accertare 
l'esistenza o meno di 
uno stato 
psicologico), il 
convincimento della esistenza in capo all'acquirente 
del 
ragionevole 
sospetto di 
una situazione 
di 
illegittima provenienza del 
bene. Gli 
elementi 
sui 
quali 
si 
possono fondare 
dette 
presunzioni 
possono essere 
costituiti 
(oltre 
che 
da circostanze 
coeve) anche 
da circostanze 
estrinseche 
precedenti 
all'acquisto”. il 
tema 
è 
approfondito da 
g. MAgri, Beni 
culturali 
e 
acquisto a non domino, in Riv. Dir. 
Civ., 2013, pp. 10741 ss., il 
quale 
auspica 
l’esclusione 
de 
jure 
condendo 
dei 
beni 
culturali 
dal 
campo di 
applicazione 
del 
citato art. 1153, in quanto allo stato “un bene 
culturale 
rubato in uno Stato estero, rivenduto 
in Italia (dove 
il 
giudice 
applica il 
1153) e 
quindi 
nuovamente 
trasferito nello Stato d'origine, 
non potrà più essere 
rivendicato dal 
vecchio proprietario neppure 
invocando direttiva o convenzioni, 
le 
quali 
hanno 
efficacia 
ed 
impongono 
obblighi 
restitutori 
solo 
e 
fintanto 
che 
i 
beni 
si 
trovano 
all'estero. 
È 
abbastanza evidente 
come 
questo escamotage 
rischi 
di 
rendere 
l'Italia un mercato particolarmente 
appetibile 
per 
i 
beni 
culturali 
rubati. Le 
prove 
non mancano, basti 
pensare 
al 
celebre 
caso degli 
arazzi 
del 
Palazzo di 
Giustizia di 
Riom, i 
quali, rubati 
in Francia e 
rivenduti 
in Italia, non furono restituiti 
allo Stato francese, che 
li 
rivendicava, proprio in virtù della lex 
loci 
e 
dell'applicabilità del 
1153 c.c. 
Ancora più emblematico il 
caso Winkworth vs. Christie, riguardante 
alcuni 
pezzi 
di 
antiquariato giapponese, 
rubati 
in Inghilterra, quindi 
trasferiti 
in Italia, dove 
furono acquistati 
in buona fede 
da un privato, 
il 
quale 
li 
affidò alla nota casa d'aste 
Christie's, affinché 
li 
rivendesse 
in Inghilterra. Il 
vecchio e 
derubato proprietario, accortosi 
della vendita, agì 
in giudizio sia nei 
confronti 
dell'acquirente 
italiano, 
sia della casa d'aste, chiedendo la restituzione 
dei 
beni. Nella sua sentenza Justice 
Slade 
respinse 
la 
domanda 
osservando 
che 
"under 
Italian 
law 
a 
purchaser 
of 
movables 
acquires 
a 
good 
title 
notwithstanding 
any 
defect 
in the 
seller's 
title 
or 
in that 
of 
prior 
transferors 
provided that 
the 
purchaser 
is 
in good 
faith at 
the 
time 
of 
delivery, the 
transaction is 
carried out 
in a manner 
which is 
appropriate, as 
regards 
the 
documentation effecting or 
evidencing the 
sale, to a transaction of 
the 
type 
in question rather 
than 
in some 
manner 
which is 
irregular 
as 
regards 
documentation and the 
purchaser 
is 
not 
aware 
of 
any 
unlawful 
origin of the goods at the time when he acquires them" 
”. Cfr. anche 
infra, nt. 19. 


(18) nello stesso senso cfr. 
M. Fiorilli 
-S. gATTi, Beni 
culturali. Fiscalità, mecenatismo, circolazione, 
cit., p. 19. 
(19) 
Così 
Cass. 
civ., 
Sez. 
i, 
24 
novembre 
1995, 
n. 
12166, 
che 
ha 
respinto 
il 
ricorso 
promosso 
nel-
l’interesse 
dello 
Stato 
francese 
per 
ottenere 
la 
restituzione 
di 
due 
arazzi 
del 
1760 
(trafugati 
dal 
Palazzo 
di 
giustizia 
di 
riom 
e 
successivamente 
venduti 
in 
italia), 
rilevando 
che 
“invero, 
il 
carattere 
di 
indisponibilità 
del 
bene 
mobile 
in 
oggetto, 
non 
deriva 
sic 
et 
simpliciter 
dalla 
disciplina 
degli 
artt. 
826 
e 
828 
c.c. 
Infatti 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


il 
metro di 
giudizio adottato in giurisprudenza 
per risolvere 
i 
casi 
dubbi 
è tutt’altro che univoco. 


A 
fronte 
di 
un 
orientamento 
volto 
ad 
affermare 
che 
i 
beni 
“devono 
essere 
restituiti 
allo 
Stato 
non 
soltanto 
in 
caso 
di 
positiva 
verifica 
del 
loro 
‘interesse 
culturale’, 
ma 
anche 
nel 
caso 
in 
cui, 
risoltasi 
negativamente 
detta 
verifica, 
il 
detentore 
non 
fornisca 
prova 
della 
legittimità 
della 
detenzione” 


(20) 
(così 
rafforzando 
ulteriormente 
la 
presunzione 
anzidetta), 
si 
ravvisano 
nella 
giurisprudenza 
di 
merito 
pronunce 
restie 
ad 
ordinare 
la 
restituzione 
allo 
Stato 
dei 
beni 
non 
pacificamente 
connotati 
dai 
presupposti 
per 
l’applicazione 
degli 
artt. 
826 
c.c. 
e 
91, 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, 
n. 
42, 
ed 
inclini 
a 
disporne 
la 
restituzione 
agli 
individui 
destinatari 
del 
provvedimento 
cautelare 
(21), 
ovvero 
-più 
cautamente 
-a 
rimettere 
la 
questione 
al 
giudice 
civile 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
263, 
comma 
3 
e 
324, 
comma 
8, 
c.p.p. 
(22), 
mantenendo 
nel 
frattempo 
il 
sequestro. 
2. 
Iniziative 
processuali 
a 
disposizione 
del 
ministero 
per 
i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali: intervento, impugnazione, incidente di esecuzione. 
il 
più 
delle 
volte, 
la 
decisione 
sulla 
restituzione 
sarà 
adottata 
senza 
previo 
contraddittorio con lo Stato (ed in particolare 
con il 
Ministero per i 
beni 
e 
le 
attività culturali)(23), che non riveste la qualità di parte necessaria. 

le 
disposizioni 
qualificative 
e 
precettive 
di 
una 
norma 
interna 
ineriscono 
essenzialmente 
a 
categorie 
giuridiche 
riconosciute 
come 
proprie 
da 
quello 
stesso 
ordinamento, 
non 
necessariamente 
a 
quelle 
tipiche 
di 
un 
ordinamento 
straniero. 
Così, 
quando 
gli 
articoli 
citati 
del 
codice 
civile 
fanno 
riferimento 
al 
patrimonio 
indisponibile 
dello 
"Stato, 
delle 
province 
e 
dei 
comuni", 
adottano 
qualificazioni 
di 
enti 
pubblici 
territoriali 
dell'ordinamento 
italiano 
[…] 
Né 
con 
riferimento 
alle 
cose 
di 
interesse 
artistico 
e 
storico, 
l'inalienabilità 
prevista 
dall'art. 
23 
della 
L. 
1 
giugno 
1939 
n. 
1039, 
qualora 
le 
cose 
appartengano 
allo 
"Stato 
o 
ad 
altro 
ente 
o 
istituto 
pubblico", 
può 
avere 
riferimento 
a 
qualsiasi 
Stato 
o 
ente 
pubblico 
straniero, 
essendo 
tutto 
il 
sistema 
della 
legge 
volto 
alla 
tutela 
dei 
beni 
di 
interesse 
storico 
ed 
artistico 
secondo 
l'ordinamento 
interno, 
tanto 
che 
il 
divieto 
di 
esportazione 
(art. 
35) 
viene 
rapportato 
al 
"danno 
per 
il 
patrimonio 
storico 
e 
culturale 
nazionale", 
con 
un 
riferimento 
evidente 
all'ordinamento 
italiano. 
[…] 
solo 
dimostrando 
l'acquisto 
di 
mala 
fede, 
o 
in 
situazione 
di 
colpa 
grave 
[…] 
lo 
Stato 
ricorrente 
potrebbe 
superare 
la 
presunzione 
di 
buona 
fede 
dell'art. 
1147 
comma 
3 
c.c. 
nonché 
il 
titolo 
di 
proprietà, 
costituito 
dal 
possesso 
di 
buona 
fede 
ai 
sensi 
dell'art. 
1153 
c.c.”. 
Cfr. 
supra, 
nt. 
17, 
nonché 
g. 
MAgri, 
Beni 
culturali 
e 
acquisto 
a 
non 
domino, 
cit., 
spec. 
nt. 
63, 
ove 
si 
legge 
che 
“la 
sentenza, 
alla 
luce 
del 
diritto 
attualmente 
vigente, 
non 
sarebbe 
più 
condivisibile; 
contrasterebbero, 
con 
il 
principio 
in 
essa 
enunciato, 
oltre 
che 
la 
direttiva 
93/7/CEE 
più 
volte 
citata 
ed 
attuata 
in 
Italia 
soltanto 
nel 
1998 
(legge 
30 
marzo 
1998, 
n. 
88), 
anche 
la 
convenzione 
Unidroit 
(ratificata 
dall'Italia 
con 
legge 
7 
giugno 
1999, 
n. 
213) 
che 
impegna 
gli 
Stati 
aderenti 
a 
vigilare 
e 
reprimere 
l'esportazione-importazione 
di 
beni 
culturali 
rubati 
o 
illecitamente 
sottratti 
prevedendo 
l'obbligo 
di 
restituzione 
dei 
beni 
culturali 
che 
siano 
stati 
rubati, 
illecitamente 
esportati, 
o 
ricavati 
da 
scavi 
illeciti”. 
Che 
l’art. 
826 
c.c. 
“non 
si 
applica 
a 
beni 
appartenenti 
a 
Stato 
estero” 
è 
stato 
confermato 
anche 
da 
T.A.r. 
lazio, 
sez. 
ii, 
20 
aprile 
2007, 
n. 
3518, 
considerata 
infra, 
nt. 
54. 


(20) Così Cass. pen., Sez. iV, 22 marzo 2016 (dep. 11 aprile 2016), n. 14792, cit. 
(21) Cfr. Trib. bolzano, 10 ottobre 2018, inedita. 
(22) Cfr. Trib. Verona, 6 luglio 2020, inedita. 
(23) il 
quale 
è 
titolare 
del 
compito di 
assicurare 
la 
“tutela, gestione 
e 
valorizzazione 
dei 
beni 
culturali”, 
ai 
sensi 
dell’art. 1, d.lgs. 20 ottobre 
1998, n. 368. Tale 
disposizione 
induce 
ad attribuire 
la 
legit

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


nondimeno, 
la 
possibilità 
che 
i 
beni 
sequestrati 
vengano 
restituiti 
all’imputato 
(o ad altro soggetto privato) alimenta 
l’interesse 
statale 
a 
partecipare 
ai 
relativi 
procedimenti, 
al 
fine 
di 
dimostrare 
la 
sussistenza 
dei 
presupposti 
dettati dall’art. 826 c.c. 


Fino a 
quando non sia 
stato individuato il 
titolare 
del 
diritto alla 
restituzione 
dei 
beni 
sequestrati, è 
pressoché 
indiscusso che 
il 
Ministero (al 
pari 
di 
qualsivoglia 
altro soggetto che 
si 
ritenga 
proprietario) abbia 
facoltà 
di 
intervenire 
nel procedimento, a sostegno delle proprie ragioni. 


depongono in tal 
senso in primo luogo i 
capoversi 
degli 
artt. 263 e 
355 
c.p.p., che 
nella 
fase 
delle 
indagini 
preliminari 
impongono il 
coinvolgimento 
dei 
soggetti 
diversi 
dall’imputato 
che 
appaiano 
titolari 
dei 
beni 
sottoposti 
a 
vincolo reale. 


Al 
contempo, 
militano 
nella 
stessa 
direzione 
i 
poteri 
di 
impugnazione 
espressamente 
accordati 
dalla 
legge 
alla 
persona 
“che 
avrebbe 
diritto alla restituzione” 
dei 
beni 
sequestrati. 
il 
riferimento 
è 
agli 
artt. 
257, 
322 
e 
355, 
comma 
3 c.p.p., che 
nel 
delineare 
una 
siffatta 
facoltà 
di 
proporre 
gravame 
avverso 
determinati 
provvedimenti, sembrano sottintendere 
una 
facoltà 
di 
partecipazione 
ai 
relativi 
procedimenti: 
come 
esplicitamente 
statuito 
dalle 
Sezioni 
unite 
in 
relazione 
al 
procedimento 
di 
riesame, 
“l'intervento 
spontaneo 
nel 
giudizio 
[...] della persona offesa che 
abbia diritto alle 
restituzioni 
[...] rappresenta 
la 
manifestazione 
"minore" 
di 
una 
più 
ampia 
facoltà 
espressamente 
ammessa dalla legge 
(art. 322 c.p.p.). Corollario di 
tale 
principio è 
l'attribuzione 
all'interveniente 
qualificato delle 
stesse 
prerogative 
riconosciute 
al 
richiedente” 
(24). 


laddove 
la 
notizia 
del 
sequestro 
di 
beni 
archeologici 
giunga 
a 
conoscenza 
del 
Ministero 
soltanto 
successivamente 
alla 
definizione 
del 
giudizio 
e 
all’adozione 
di 
un provvedimento di 
restituzione 
nei 
confronti 
di 
soggetti 
privati, lo 
strumento processuale esperibile sarà l’incidente di esecuzione. 


Tale 
conclusione 
si 
fonda 
sul 
combinato disposto degli 
artt. 263, comma 
6 
e 
676 
c.p.p. 
(il 
quale 
prevede 
tra 
l’altro 
che 
“il 
giudice 
dell’esecuzione 
è 
competente 
a 
decidere 
in 
ordine 
[...] 
alla 
restituzione 
delle 
cose 
sequestrate”), 
ed è 
imposta 
dall’esigenza 
di 
offrire 
al 
legittimo titolare 
la 
possibilità 
di 
determinare 
la 
caducazione 
di 
un provvedimento giudiziale 
volto a 
disporre 
la 
restituzione 
del 
bene 
ad individui 
privi 
di 
titolo, senza 
essere 
costretto ad instaurare 
un 
giudizio 
petitorio 
in 
sede 
civile, 
suscettibile 
di 
dar 
luogo 
ad 
un 
contrasto tra giudicati. 

timazione 
a 
partecipare 
ai 
procedimenti 
sulla 
proprietà 
di 
beni 
archeologici 
al 
dicastero preposto alla 
cura 
e 
alla 
promozione 
della 
Cultura, 
piuttosto 
che 
al 
Ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze, 
chiamato 
a gestire il patrimonio statale 
ex 
art. 23 d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300. 


(24) Così 
Cass. pen., Sez. un., 29 maggio 2008 (dep. 26 giugno 2008), n. 25932, in Cass. pen., 
2009, pp. 1110 ss. con nota 
di 
A. ViolA, Sull'estensione 
del 
diritto di 
partecipazione 
all'udienza di 
riesame 
ex art. 324 c.p.p. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


le 
considerazioni 
appena 
esposte 
hanno trovato conferma 
in sede 
giurisprudenziale, 
laddove 
è 
stato affermato che 
“la scelta del 
legislatore 
di 
non 
assicurare 
la partecipazione 
dei 
controinteressati 
al 
procedimento [...] non è 
suscettibile 
di 
recare 
pregiudizio irreparabile 
alle 
ragioni 
dell'avente 
diritto 
alla 
restituzione 
delle 
cose 
sequestrate. 
Infatti, 
‘il 
terzo 
rimasto 
estraneo 
al 
procedimento di 
restituzione 
delle 
cose 
sottoposte 
a sequestro preventivo può 
proporre 
esclusivamente 
incidente 
di 
esecuzione 
avverso 
la 
decisione 
conclusiva 
dello stesso, per 
far 
valere, in ogni 
tempo, il 
proprio diritto alla restituzione’ 
” (25). 


la 
medesima 
soluzione 
si 
impone 
a 
fortiori 
nei 
casi 
in 
cui 
l’interessato, 
oltre 
a 
non 
aver 
partecipato 
al 
procedimento, 
sia 
sprovvisto 
del 
potere 
di 
proporre 
gravame 
avverso 
la 
decisione 
adottata: 
il 
che 
ad 
esempio 
avviene 
laddove 
la 
restituzione 
in 
favore 
di 
un 
soggetto 
privo 
di 
titolo 
sia 
stata 
disposta 
a 
seguito 
di 
incidente 
di 
esecuzione 
(26), 
posto 
che 
l’art. 
667, 
comma 
4, 
c.p.p. 
(27) 
(richiamato 
dall’art. 
676, 
comma 
1, 
ultimo 
periodo) 
sembra 
riservare 
la 
facoltà 
di 
impugnazione 
a 
chi 
abbia 
ricevuto 
apposita 
comunicazione 
dalla 
cancelleria. 


Ad ogni 
modo, come 
anticipato, nel 
prendere 
atto che 
in virtù di 
una 
preclusione 
siffatta 
“i 
terzi 
interessati 
[...] non potendo impugnare 
la sentenza in 
tal 
caso 
rimarrebbero 
sforniti 
di 
tutela”, 
la 
giurisprudenza 
ammette 
che 
“il 
terzo, 
che 
non 
è 
parte 
del 
giudizio, 
è 
legittimato 
a 
promuovere 
incidente 
di 
esecuzione 
per 
far 
valere 
le 
proprie 
ragioni, in linea con il 
disposto di 
cui 
all'art. 
263 c.p.p., comma 6” (28). 


in 
definitiva, 
i 
(non 
numerosi) 
precedenti 
di 
legittimità 
editi 
sulla 
questione 
depongono nel 
senso di 
abilitare 
l’avente 
diritto che 
non abbia 
partecipato 
al 
processo 
a 
proporre 
in 
ogni 
tempo 
incidente 
di 
esecuzione 
per 
ottenere 
la 
restituzione 
dei 
beni 
attribuiti 
ad altri 
soggetti 
dal 
giudice 
penale, dato che 
altrimenti 
opinando l’interessato sarebbe 
gravato dell’onere 
di 
proporre 
una 
complessa 
azione 
di 
rivendicazione 
innanzi 
al 
giudice 
civile, con il 
connesso 
rischio di dar luogo ad un conflitto tra provvedimenti giurisdizionali. 


(25) Così Cass. pen., Sez. ii, 13 ottobre 2011 (dep. 28 ottobre 2011), n. 39210. 
(26) 
Cfr. 
la 
citata 
Cass. 
pen., 
Sez. 
iii, 
30 
novembre 
2018 
(dep. 
2 
gennaio 
2019), 
n. 
22, 
laddove 
ha 
ribadito 
“quanto 
già 
rilevato 
da 
questa 
Corte 
con 
la 
ordinanza 
n. 
24356 
del 
2014. 
Invero, 
in 
tale 
caso, 
la 
Corte 
di 
cassazione 
(richiamato 
un 
ulteriore 
precedente 
giurisprudenziale 
costituito 
dalla 
sentenza 
Corte 
di 
cassazione, 
Sezione 
1 
penale, 
21 
gennaio 
2009, 
n. 
2453) 
[…] 
ha 
rilevato 
che 
la 
procedura 
di 
esecuzione 
costituisce 
la 
sede 
ove 
può 
essere 
operato 
ogni 
accertamento 
che 
si 
sia 
reso 
necessario 
per 
valutare 
la 
domanda 
introdotta 
con 
l'incidente 
di 
esecuzione, 
tenuto 
conto 
dei 
principi 
in 
tema 
di 
ampiezza 
dell'accertamento 
che 
il 
giudice 
può 
compiere 
in 
occasione 
della 
valutabilità 
della 
richiesta 
di 
confisca 
anche 
in 
presenza 
di 
una 
sentenza 
di 
proscioglimento 
ovvero 
di 
un 
provvedimento 
di 
archiviazione”. 
(27) in base 
al 
quale 
“Il 
giudice 
dell'esecuzione 
provvede 
in ogni 
caso senza formalità con ordinanza 
comunicata 
al 
pubblico 
ministero 
e 
notificata 
all'interessato. 
Contro 
l'ordinanza 
possono 
proporre 
opposizione 
davanti 
allo stesso giudice 
il 
pubblico ministero, l'interessato e 
il 
difensore; in tal 
caso si 
procede 
a 
norma 
dell'articolo 
666. 
L'opposizione 
è 
proposta, 
a 
pena 
di 
decadenza, 
entro 
quindici 
giorni 
dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza”. 
(28) Così Cass. pen., Sez. V, 9 febbraio 2015 (dep. 22 luglio 2015), n. 32262. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


3. 
La 
rimessione 
della 
controversia 
al 
giudice 
civile 
ex 
art. 
263, 
comma 
3, 
c.p.p.: forme 
della translatio iudicii 
e 
rapporti 
con la rivendicazione 
ex 
art. 
948 c.c. 
Tanto 
in 
sede 
di 
incidente 
di 
esecuzione, 
quanto 
nel 
corso 
del 
procedimento, 
il 
giudice 
penale 
è 
dotato di 
un ambito di 
cognizione 
piuttosto ristretto 
in punto di 
accertamento della 
proprietà 
di 
beni 
sequestrati, come 
risulta 
univocamente 
dal codice di rito. 


Come 
anticipato, 
l’art. 
263, 
comma 
3 
c.p.p. 
(richiamato 
dall’art. 
676 
c.p.p. 
e 
pressoché 
testualmente 
riprodotto 
dall’art. 
324, 
comma 
8, 
c.p.p.) 
sancisce 
che 
“In caso di 
controversia sulla proprietà delle 
cose 
sequestrate, il 
giudice 
ne 
rimette 
la 
risoluzione 
al 
giudice 
civile 
del 
luogo 
competente 
in 
primo 
grado, 
mantenendo nel frattempo il sequestro”. 


nel 
disporre 
in tal 
senso, le 
previsioni 
appena 
citate 
svelano come, laddove 
sorga 
una 
“controversia sulla proprietà” 
(indiziata 
dall’esigenza 
di 
procedere 
ad accertamenti 
dotati 
di 
un qualche 
grado di 
complessità, ad esempio 
in quanto si 
riveli 
opportuno integrare 
il 
contraddittorio nei 
confronti 
di 
soggetti 
terzi 
ovvero 
disporre 
una 
perizia), 
al 
giudice 
penale 
sia 
precluso 
procedere 
oltre, essendo egli 
vincolato a 
rimettere 
la 
questione 
al 
suo giudice 
naturale, 


i.e. 
al giudice civile. 
Al 
contempo, 
secondo 
la 
Corte 
di 
legittimità, 
affinché 
l’accertamento 
della 
proprietà 
di 
beni 
sequestrati 
sia 
demandato 
al 
giudice 
civile, 
è 
imprescindibile 
che 
“il 
giudice 
penale 
dia adeguato apprezzamento in motivazione 
della 
serietà 
della 
potenziale 
controversia” 
(29): 
può 
dirsi 
infatti 
“consolidata 
la giurisprudenza secondo la quale 
in tema di 
riesame, il 
principio di 
cui 
all'art. 
324 c.p.p., comma 8, secondo cui, nel 
caso di 
contestazione 
della proprietà, 
il 
giudice 
penale 
rinvia 
la 
decisione 
della 
controversia 
al 
giudice 
civile, 
mantenendo 
nel 
frattempo 
il 
sequestro, 
presuppone 
che 
il 
giudice 
adempia 
al-
l'onere 
di 
accertare 
la reale 
esistenza di 
una controversia, che 
deve 
essere 
effettiva 
e, quindi, già instaurata oppure instauranda” (30). 


Ad 
ogni 
modo, 
nonostante 
la 
legge 
imponga 
al 
giudice 
un 
vaglio 
siffatto, 
la 
decisione 
ex 
art. 263, comma 
3, c.p.p. che 
sia 
stata 
adottata 
in assenza 
di 
esso 
non 
appare 
in 
concreto 
censurabile, 
tenendo 
conto 
che 
per 
giurisprudenza 
costante 
“è 
inoppugnabile 
il 
provvedimento con cui 
il 
giudice 
[...] rimette 
le 
parti 
dinanzi 
al 
giudice 
civile 
per 
la 
risoluzione 
della 
questione 
sulla 
proprietà, 
in quanto esso non ha contenuto decisorio, né 
formale, né 
sostanziale, 
ma ha natura interlocutoria e 
non pregiudica i 
diritti 
delle 
parti 
che 
possono 
essere fatti valere nel giudizio civile” (31). 


in definitiva, in concreto il 
giudice 
penale 
ha 
il 
potere 
insindacabile 
di 
ri


(29) Così Cass. pen., Sez. ii, 24 ottobre 2019 (dep. 5 dicembre 2019), n. 49531. 
(30) Così Cass. pen., Sez. ii, 12 novembre 2013 (dep. 24 febbraio 2014), n. 8827. 
(31) Così Cass. pen., Sez. i, 25 giugno 2018 (dep. 9 luglio 2018), n. 31088. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


mettere 
al 
giudice 
civile 
la 
controversia 
sulla 
proprietà 
dei 
beni 
sequestrati, 
mantenendo il vincolo ablativo fino alla definizione del contenzioso civile. 


restano da 
individuare 
tempi 
e 
forme 
della 
translatio iudicii 
(32), posto 
che il citato art. 263 nulla dispone in proposito. 


nel 
silenzio 
della 
legge, 
la 
scelta 
dell’atto 
difensivo 
da 
predisporre 
oscilla 
tra 
una 
comparsa 
in riassunzione 
ex 
art. 125 disp. att. c.p.c. (33) ed un’ordinaria 
citazione 
in rivendicazione 
ex 
artt. 163 c.p.c. e 
948 c.c., da 
proporsi 
su 
impulso della 
parte 
più diligente 
(34). Al 
contempo, la 
mancata 
previsione 
di 
un termine 
perentorio sembra 
indiziare 
la 
proponibilità 
dell’azione 
sine 
die, a 
fronte 
del 
principio generale 
di 
tassatività 
dei 
termini 
decadenziali, scolpito 
negli artt. 152, comma 2, c.p.c. e 173, comma 1, c.p.p. (35). 


Tra 
gli 
aspetti 
più problematici 
vi 
è 
la 
definizione 
del 
grado di 
assimilabilità 
del 
procedimento 
“riassunto” 
ex 
art. 
263, 
comma 
3, 
c.p.p. 
ad 
un’ordinaria 
rei 
vindicatio 
ex 
art. 948 c.c., specie 
per quanto riguarda 
la 
ripartizione 
del-
l’onere probatorio. 


(32) È 
peraltro dubbio se 
l’art. 263, comma 
3 c.p.p. dia 
luogo ad una 
translatio 
in senso tecnico, 
intesa 
come 
“translatio iudicii 
con conservazione 
degli 
effetti 
della domanda”, secondo la 
terminologia 
utilizzata 
nell’importante 
sentenza 
C. Cost., 12 marzo 2007, n. 77, in federalismi.it 
con nota 
di 
M.A. 
SAndulli, I recenti 
interventi 
della Corte 
Costituzionale 
e 
della Corte 
di 
Cassazione 
sulla traslatio iudicii. 
in senso contrario alla 
configurabilità 
di 
una 
translatio 
in senso tecnico sembra 
deporre 
la 
circostanza 
per 
cui 
“La 
giurisprudenza 
civile, 
infatti, 
in 
più 
di 
un'occasione 
ha 
stabilito 
che 
il 
problema 
della 
ripartizione 
della potestas 
iudicandi, nel 
plesso giurisdizionale 
ordinario, tra il 
giudice 
civile 
ed il 
giudice 
penale 
non pone 
una questione 
di 
competenza, secondo la nozione 
desumibile 
dal 
codice 
di 
procedura 
civile, 
configurabile 
esclusivamente 
in 
riferimento 
a 
contestazioni 
riguardanti 
l'individuazione 
del 
giudice 
al 
quale, tra i 
vari 
organi 
di 
giurisdizione 
in materia civile, è 
devoluta la cognizione 
di 
una determinata 
controversia 
[e] non pone 
neppure 
una questione 
di 
ripartizione 
della potestas 
iudicandi 
tra 
organi 
cui 
è 
demandato 
l'apprezzamento 
del 
medesimo 
profilo, 
potendo 
determinare 
esclusivamente 
un'interferenza tra giudizi, che 
si 
traduce 
in un limite 
che 
attiene 
alla proponibilità della domanda”: 
così 
Cass. 
civ., 
Sez. 
Vi, 
24 
maggio 
2021, 
n. 
14174, 
che 
ha 
sollecitato 
un 
revirement 
rispetto 
a 
tali 
principi 
di 
diritto, rimettendo “gli 
atti 
al 
Primo Presidente, affinché 
valuti 
l'opportunità di 
affidare 
la decisione 
del 
presente 
regolamento 
di 
competenza 
all'esame 
delle 
Sezioni 
Unite, 
per 
risolvere 
la 
stasi 
processuale 
che 
si 
è 
venuta 
a 
creare 
in 
ragione 
del 
conflitto 
di 
competenza 
tra 
giudice 
penale 
e 
giudice 
civile”. 
Sembra 
deporre 
in senso contrario ad una 
translatio 
in senso stretto anche 
Cass. pen., Sez. un., 28 gennaio 
2021 (dep. 4 giugno 2021), n. 22065, nei passaggi argomentativi citati 
infra, nt. 40. 
(33) 
Ai 
sensi 
del 
quale, 
per 
quanto 
più 
interessa 
in 
questa 
sede, 
“Salvo 
che 
dalla 
legge 
sia 
disposto 
altrimenti, la riassunzione della causa è fatta con comparsa, che deve contenere: (omissis)”. 
(34) Altra 
questione 
concerne 
l’individuazione 
del 
giudice 
civile 
competente. Se 
in generale 
gli 
artt. 25 c.p.c. e 
6 r.d. 30 ottobre 
1933, n. 1611 radicano la 
competenza 
delle 
controversie 
civili 
che 
coinvolgano 
un’Amministrazione 
statale 
presso il 
“giudice 
del 
luogo dove 
ha sede 
l'ufficio dell'Avvocatura 
dello 
Stato, 
nel 
cui 
distretto 
si 
trova 
il 
giudice 
che 
sarebbe 
competente 
secondo 
le 
norme 
ordinarie” 
(c.d. 
Foro 
erariale), 
il 
riferimento 
dell’art. 
263, 
comma 
3, 
c.p.p. 
al 
“giudice 
civile 
del 
luogo” 
sembrerebbe 
attribuire 
alla 
disposizione 
carattere 
speciale 
(sulla 
falsariga 
degli 
artt. 413 c.p.c. o 6, comma 
2, d.lgs. 1 
settembre 
2011, n. 150), con conseguente 
ascrizione 
della 
controversia 
alla 
cognizione 
del 
medesimo 
Tribunale competente in sede penale. 
(35) 
in 
particolare, 
il 
capoverso 
della 
disposizione 
processualcivilistica 
prevede 
che 
“I 
termini 
stabiliti 
dalla 
legge 
sono 
ordinatori, 
tranne 
che 
la 
legge 
stessa 
li 
dichiari 
espressamente 
perentori”, 
mentre 
in base 
alla 
previsione 
processualpenalistica 
“I termini 
si 
considerano stabiliti 
a pena di 
decadenza 
soltanto nei casi previsti dalla legge”. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


Come 
è 
noto, per giurisprudenza 
costante 
l’accoglimento della 
domanda 
di 
rivendicazione 
è 
subordinato 
all’assolvimento 
della 
“probatio 
diabolica 
della 
titolarità 
del 
proprio 
diritto” 
(36), 
posto 
che 
in 
caso 
contrario 
l’art. 
2697 


c.c. 
impone 
la 
reiezione 
della 
domanda 
a 
vantaggio 
del 
convenuto, 
che 
ben 
può limitarsi 
a 
stare 
in giudizio avvalendosi 
della 
difesa 
“possideo quia possideo” 
(37) 
e 
risultare 
vittorioso 
in 
ragione 
del 
mero 
stato 
di 
possessore, 
quand’anche sprovvisto di un titolo di proprietà. 
del 
resto, la 
Suprema 
Corte 
ha 
più volte 
affermato che 
tale 
riparto del-
l’onere 
probatorio resta 
fermo anche 
laddove 
il 
convenuto in rivendicazione 
formuli 
una 
domanda 
riconvenzionale 
volta 
all’accertamento del 
proprio diritto 
dominicale 
(38), secondo un principio che 
si 
presta 
ad essere 
applicato 
anche 
laddove 
la 
res 
contesa 
sia 
sottoposta 
a 
sequestro giudiziario ex 
art. 670 
c.p.c. (39). 


(36) Così 
ex 
plurimis 
Cass. civ., Sez. ii, 29 ottobre 
2019, n. 27700. Cfr. anche 
Cass. civ., Sez. Vi, 
10 settembre 
2018, n. 21940, secondo la 
quale 
“In tema di 
azione 
di 
rivendicazione, ai 
fini 
della "probatio 
diabolica" 
gravante 
sull'attore, tenuto a provare 
la proprietà risalendo, anche 
attraverso i 
propri 
danti 
causa, fino all'acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il 
compimento dell'usucapione, 
non è 
sufficiente 
produrre 
l'atto di 
accettazione 
ereditaria, che 
non prova il 
possesso del 
dante 
causa, 
né 
il 
contratto di 
acquisto del 
bene, che 
non prova l'immissione 
in possesso dell'acquirente”. Tale 
consolidato 
orientamento dottrinale 
e 
giurisprudenziale 
è 
sottoposto a 
critica 
da 
A. nATuCCi, L'onere 
della 
prova nell'azione 
di 
rivendica, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, pp. 531 ss. in particolare, l’Autore 
rileva 
come 
nel 
diritto romano “L'usucapione 
non sembra dunque 
che 
fosse 
essenziale 
nel 
processo di 
rivendica, 
ma soltanto eventuale, essendo richiesta solo se 
il 
titolo derivativo vantato dall'attore 
fosse 
stato contestato”, ravvisando il 
fondamento dell’orientamento consolidato “nel 
fraintendimento del 
carattere 
di 
assolutezza del 
diritto di 
proprietà e 
nell'asserita necessità conseguente 
che 
venga provato 
un titolo valevole 
in assoluto, erga omnes 
[...] ogni 
diritto, infatti, relativo o assoluto che 
sia, viene 
accertato 
giudizialmente, e 
«fa stato a ogni 
effetto tra le 
parti, i 
loro eredi 
o aventi 
causa», come 
dispone 
l'art. 2909 cod. civ. sulla cosa giudicata. E 
a questa regola non fa certamente 
eccezione 
la proprietà 
che, sebbene 
sia un diritto assoluto, viene 
accertato con efficacia di 
giudicato verso le 
parti, i 
loro successori 
universali 
(gli 
eredi) e 
nei 
confronti 
di 
particolari 
terzi, gli 
aventi 
causa (a titolo particolare), 
legati 
alle 
parti 
da un nesso di 
dipendenza; non certo, però, nei 
confronti 
di 
tutti 
coloro (i 
ceteri 
omnes) 
che 
sono estranei 
al 
diritto di 
proprietà. 
[…] A 
colui 
che 
esercita l'azione 
di 
rivendica s'impone 
l'onere 
di 
provare 
un valido fatto acquisitivo della proprietà, senza distinguere, come 
non distingue 
la legge 
(art. 
922 
cod. 
civ.), 
se 
sia 
a 
titolo 
derivativo 
o 
a 
titolo 
originario. 
Sarà 
poi 
compito 
e 
onere 
del 
convenuto 
proporre 
eccezioni 
idonee 
a togliere 
fondamento all'affermazione 
e 
alle 
prove 
dell'attore 
[…] E 
solo in 
base alla contestazione del convenuto sarà necessaria la prova di un acquisto a titolo originario”. 
(37) 
Sull’origine 
storica 
del 
c.d. 
commodum 
possessionis 
cfr. 
A. 
nATuCCi, 
L'onere 
della 
prova 
nell'azione di rivendica, cit., pp. 531 ss. 
(38) 
Cfr. 
Cass. 
civ., 
Sez. 
ii, 
19 
agosto 
2019, 
n. 
21457, 
secondo 
cui 
“Il 
rigore 
della 
regola 
secondo 
cui 
chi 
agisce 
in rivendicazione 
deve 
provare 
la sussistenza del 
proprio diritto di 
proprietà o di 
altro 
diritto reale 
sul 
bene 
anche 
attraverso i 
propri 
danti 
causa, fino a risalire 
a un acquisto a titolo originario 
o dimostrando il 
compimento dell'usucapione, non riceve 
attenuazione 
per 
il 
fatto che 
la controparte 
proponga domanda riconvenzionale 
ovvero eccezione 
di 
usucapione, in quanto chi 
è 
convenuto 
nel 
giudizio di 
rivendicazione 
non ha l'onere 
di 
fornire 
alcuna prova, potendo avvalersi 
del 
principio 
possideo quia possideo, anche 
nel 
caso in cui 
opponga un proprio diritto di 
dominio sulla cosa rivendicata, 
dal 
momento che 
tale 
difesa non implica alcuna rinuncia alla più vantaggiosa posizione 
di 
possessore”. 
nello stesso senso cfr. ex plurimis 
Cass. civ., Sez. iii, 7 giugno 2018, n. 14734. 
(39) in base 
a 
tale 
disposizione, il 
giudice 
può autorizzare 
un siffatto sequestro di 
beni 
mobili 
o 
immobili, “quando ne 
è 
controversa la proprietà o il 
possesso, ed è 
opportuno provvedere 
alla loro cu

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


orbene, se 
la 
natura 
sostanzialmente 
petitoria 
della 
controversia 
rimessa 
al 
giudice 
civile 
con ordinanza 
ex 
art. 263, comma 
3, c.p.p. può apparire 
tale 
da 
comportare 
l’integrale 
applicazione 
delle 
regole 
che 
governano la 
rei 
vindicatio 
(40) (con conseguente 
collocazione 
della 
parte 
convenuta 
in una 
posizione 
più agevole 
di 
quella 
che 
abbia 
introdotto il 
giudizio, gravata 
del 
c.d. 
“rischio 
della 
mancata 
prova” 
ex 
art. 
2697 
c.c.) 
(41), 
potrebbe 
anche 
sostenersi 
che 
la 
preesistenza 
di 
un sequestro penale 
sia 
in grado di 
giustificare 
una 
conclusione 
differente, secondo la 
quale 
il 
mancato assolvimento dell’onere 
probatorio 
da 
parte 
di 
chi 
abbia 
instaurato 
il 
giudizio 
non 
comporterebbe 
senz’altro un esito favorevole alla parte convenuta. 


Secondo 
tale 
prospettazione, 
in 
particolare, 
laddove 
neanche 
la 
parte 
chiamata in giudizio 
dimostri 
di 
essere 
proprietaria, il 
giudice 
civile 
non sarebbe 
legittimato a 
disporre 
la 
restituzione 
del 
bene 
in favore 
di 
uno dei 
contendenti, 
dovendo lasciar permanere 
il 
sequestro sine 
die, ferma 
restando la 
possibilità 
che 
soggetti 
terzi 
propongano 
un 
nuovo 
incidente 
di 
esecuzione 
teso all’apprensione dei beni sottoposti a vincolo cautelare. 


Ad ogni 
modo, a 
fronte 
dell’opacità 
del 
dato normativo (e 
della 
plausibilità 
della 
tesi 
che 
ascrive 
integralmente 
il 
processo “riassunto” 
alle 
regole 
civilistiche), 
va 
da 
sé 
che 
la 
parte 
che 
si 
ritenga 
priva 
di 
consistenti 
chances 
di 
vittoria 
eviterà 
di 
introdurre 
il 
giudizio, 
attendendo 
che 
vi 
provveda 
l’altro 
contendente, 
secondo 
una 
strategia 
processuale 
in 
grado 
di 
permettergli 
di 
beneficiare 
del più favorevole trattamento riservato alla parte convenuta. 


Va 
a 
questo 
punto 
rilevato 
come, 
nella 
valutazione 
relativa 
all’opportunità 
di 
introdurre 
il 
giudizio, 
rispetto 
ai 
soggetti 
privati 
lo 
Stato 
sia 
in 
una 
posizione 
di favore. 


in 
effetti, 
quest’ultimo 
appare 
nella 
condizione 
di 
acquisire 
la 
titolarità 
dei 
cespiti 
anche 
laddove 
nessuna 
delle 
parti 
proceda 
ad 
instaurare 
il 
giudizio 
civile, 
ovvero 
laddove 
il 
medesimo 
non 
si 
concluda 
a 
vantaggio 
di 
alcuna 
delle 
parti. 


stodia o alla loro gestione 
temporanea”. la 
natura 
cautelare 
di 
tale 
misura 
ne 
comporta 
l’ininfluenza 
rispetto alla 
definizione 
della 
causa 
di 
merito, che 
resta 
soggetta 
alle 
regole 
sue 
proprie. Cfr. ex 
plurimis 


C. FErri, voce 
Sequestro, in Dig. Disc. Priv., Cedam, Padova, 1998. 
(40) 
Sembra 
deporre 
in 
tal 
senso 
la 
decisione 
Cass. 
pen., 
Sez. 
un., 
28 
gennaio 
2021 
(dep. 
4 
giugno 
2021), n. 22065, che 
nell’enunciare 
il 
principio di 
diritto per cui 
“In caso di 
annullamento ai 
soli 
effetti 
civili, da parte 
della Corte 
di 
cassazione, per 
la mancata rinnovazione 
in appello di 
prova dichiarativa 
ritenuta decisiva, della sentenza che 
in accoglimento dell'appello della parte 
civile 
avverso la sentenza 
di 
assoluzione 
di 
primo grado, abbia condannato l'imputato al 
risarcimento del 
danno, il 
rinvio per 
il 
nuovo 
giudizio 
va 
disposto 
dinanzi 
al 
giudice 
civile 
competente 
per 
valore 
in 
grado 
di 
appello”, 
ha 
condiviso 
la 
“tesi 
della fase 
autonoma del 
giudizio civile 
di 
‘rinvio’”, con la 
conseguenza 
“ragionevole 
che 
all’illecito 
civile 
tornino 
ad 
applicarsi 
le 
regole 
sue 
proprie 
[…] 
La 
configurazione 
del 
giudizio 
conseguente 
all’annullamento in sede 
penale 
ai 
soli 
effetti 
civili 
(art. 622) come 
giudizio autonomo rispetto 
a quello svoltosi 
in sede 
penale 
consente 
alle 
parti 
di 
introdurlo nelle 
forme 
civilistiche 
[…] La 
natura 
autonoma 
del 
giudizio 
civile 
comporta 
conseguenze 
anche 
con 
riferimento 
all’individuazione 
delle regole processuali applicabili”. 
(41) Cfr. per tutti F.P. luiSo, 
Diritto processuale civile, i, X Ed., giuffré, Milano, 2019, p. 262. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


detta 
conclusione 
poggia 
sugli 
artt. 151, comma 
1, e 
152, comma 
2, del 


d.P.r. 
30 
maggio 
2002, 
n. 
115 
(c.d. 
testo 
unico 
in 
materia 
di 
spese 
di 
giustizia), 
volti 
a 
disciplinare 
in via 
residuale 
“la restituzione 
e 
la vendita di 
beni 
sottoposti 
a 
sequestro 
penale” 
che 
non 
riceva 
specifica 
regolamentazione 
in 
disposizioni 
speciali (42). 
in particolare, in base 
alla 
prima 
disposizione 
“se 
l'avente 
diritto alla restituzione 
delle 
cose 
affidate 
in 
custodia 
a 
terzi, 
ovvero 
alla 
cancelleria, 
è 
ignoto o irreperibile, il 
cancelliere 
presenta gli 
atti 
al 
magistrato, il 
quale 
ordina 
la vendita delle 
cose 
sequestrate 
da eseguirsi 
non oltre 
sessanta giorni 
dalla data del 
provvedimento”, mentre 
per il 
capoverso del 
citato art. 152 “se 
i 
beni 
hanno interesse 
scientifico o pregio di 
antichità o di 
arte, prima della 
vendita, è 
avvisato il 
ministero della giustizia per 
l'eventuale 
destinazione 
di 
questi beni al museo criminale presso il ministero o altri istituti”. 


in altri 
termini, laddove 
resti 
ignoto l’avente 
diritto alla 
consegna 
di 
beni 
sequestrati 
dotati 
di 
“pregio di 
antichità”, i 
medesimi 
potranno essere 
definitivamente 
acquisiti 
al 
patrimonio statale, ancorché 
per il 
tramite 
di 
una 
articolazione 
(il 
Ministero 
della 
giustizia) 
distinta 
da 
quella 
abilitata 
ad 
agire 
in 
sede 
giudiziale, da individuare nel Ministero per i beni e le attività culturali (43). 


Peraltro, la 
normativa 
appena 
esaminata 
fa 
sì 
che 
lo Stato possa 
vedersi 
attribuiti 
anche 
i 
beni 
di 
non agevole 
sussunzione 
nel 
paradigma 
tratteggiato 
dagli 
artt. 826 c.c. e 
91, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, 
i.e. 
i 
cespiti 
dei 
quali 
risulti 
dubbio il 
valore 
archeologico, come 
anche 
il 
reperimento nel 
sottosuolo 


o la provenienza da territorio estero (44). 
(42) Cfr. in particolare 
l’art. 149 d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, ove 
prevede 
che 
“La restituzione 
e 
la vendita di 
beni 
sottoposti 
a sequestro penale 
è 
regolata dalle 
norme 
del 
presente 
capo, se 
non diversamente 
previsto da norme 
speciali”. il 
caso in cui 
l’avente 
diritto alla 
restituzione 
resti 
ignoto per 
mancata 
introduzione 
del 
giudizio 
civile 
non 
sembra 
oggetto 
di 
alcuna 
regolamentazione 
speciale, 
a 
differenza 
di 
quanto avviene 
per la 
“vendita 
o distruzione 
delle 
cose 
deperibili”, alla 
luce 
del 
combinato 
disposto degli artt. 260, comma 3, c.p.p. e 83 ss. disp. att. c.p.p. 
(43) Cfr. supra, nt. 23. 
(44) Va 
ad ogni 
modo dato conto di 
orientamenti 
giurisprudenziali 
inclini 
ad interpretare 
con una 
certa 
larghezza 
il 
requisito della 
provenienza 
dal 
territorio nazionale: 
cfr. la 
più volte 
citata 
Cass. pen., 
Sez. iii, 30 novembre 
2018 (dep. 2 gennaio 2019), n. 22, ove 
statuisce 
che 
“diversamente 
da quanto ritenuto 
da parte 
della ricorrente 
difesa, non vi 
è 
dubbio che 
la statua dell'"atleta vittorioso", in quanto 
espressione 
artistica il 
cui 
rinvenimento la ha condotta ad essere 
portata all'interno del 
territorio nazionale, 
sia oggetto che 
costituisce 
parte 
del 
patrimonio artistico dello Stato. Tale 
rilievo si 
fonda non 
solo 
sulla 
indubbia 
circostanza 
che 
l'opera 
è 
stata 
rinvenuta 
da 
un 
peschereccio 
italiano 
ed 
issata 
a 
bordo di 
esso, già in tal 
modo entrando all'interno del 
territorio nazionale, ma essa è 
giustificata dalla 
appartenenza di 
essa a quella continuità culturale 
che 
ha, fin dai 
primordi 
del 
suo sviluppo, legato la 
civiltà 
dapprima 
italica 
e 
poi 
romana 
alla 
esperienza 
culturale 
greca, 
di 
cui 
quella 
romana 
ben 
può 
dirsi 
la continuatrice. 
[…] non può che 
dedursi 
la esistenza di 
un continuum 
fra la civiltà greca, importata 
in territorio italico, e 
la successiva esperienza culturale 
romana; continuum 
del 
quale 
costituisce 
una conferma proprio la presenza al 
largo di 
(omISSIS), in quelle 
che 
ora sono le 
marche, della statua 
dell'"atleta vittorioso". Invero in relazione 
ad essa può ragionevolmente 
dedursi 
che, sia che 
fosse 
trasportata 
da una nave 
salpata a sua volta dal 
territorio italico -è, infatti, come 
detto documentata la 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


Si 
è 
evidentemente 
di 
fronte 
ad una 
conclusione 
ampiamente 
divergente 
dai 
principi 
generali, 
ma 
che 
può 
trovare 
giustificazione 
nel 
regime 
derogatorio 
che 
caratterizza 
i 
beni 
culturali 
in 
genere 
(45), 
volto 
ad 
assicurarne 
l’adibizione 
alla fruizione collettiva. 


in 
definitiva, 
le 
innanzi 
citate 
disposizioni 
in 
materia 
di 
spese 
di 
giustizia, 
dettate 
al 
precipuo scopo di 
razionalizzare 
la 
gestione 
delle 
cose 
sequestrate 
in 
genere 
(46), 
nel 
caso 
dei 
beni 
archeologici 
finiscono 
per 
irrobustire 
la 
regola 
di 
giudizio “in dubio pro aerario” 
che 
si 
è 
vista 
discendere 
dal 
quadro normativo 
e 
giurisprudenziale 
vigente: 
anche 
laddove 
il 
giudice 
penale 
chiamato ad 
individuare 
il 
titolare 
delle 
cose 
sequestrate 
rimetta 
le 
parti 
innanzi 
al 
giudice 
civile 
ex 
art. 263, comma 
3, c.p.p. (così 
discostandosi 
dall’orientamento che 
designa 
lo Stato “non soltanto in caso di 
positiva verifica del 
loro ‘interesse 
culturale’, ma anche 
nel 
caso in cui, risoltasi 
negativamente 
detta verifica, il 
detentore 
non fornisca prova della legittimità della detenzione”) 
(47), i 
beni 
andranno 
devoluti 
all’Erario 
non 
solo 
quando 
la 
loro 
appartenenza 
al 
patrimonio 
indisponibile 
sia 
dimostrata 
nel 
giudizio civile, ma 
anche 
laddove 
il 
medesimo 
non sia 
affatto introdotto, ovvero si 
sia 
concluso senza 
individuare 
il 
legittimo proprietario, lasciando permanere il sequestro. 


ovviamente, anche 
successivamente 
all’attribuzione 
dei 
beni 
allo Stato 
resta 
salva 
la 
possibilità 
che 
un 
“terzo 
rimasto 
estraneo 
al 
procedimento 
di 
restituzione 
delle 
cose 
sottoposte 
a 
sequestro 
[proponga] 
incidente 
di 
esecuzione 
[…] per far valere, in ogni tempo, il proprio diritto alla restituzione” (48). 

presenza di 
Lisippo sicionio in quella che 
era Taranto -sia che 
fosse 
stata trasportata da una nave 
partita 
dalle 
coste 
ioniche 
della penisola greca, il 
luogo di 
destinazione 
fosse 
uno dei 
porti 
adriatici 
della 
penisola 
italiana, 
ad 
ulteriore 
testimonianza 
della 
appartenenza, 
ab 
illo 
tempore, 
del 
manufatto 
all'orbita 
culturale 
del 
nostro Paese. Ciò, in ragione 
del 
rilevante 
legame 
culturale 
fra la statua e 
l'ambiente 
nazionale 
(del 
quale, 
come 
detto, 
essa 
costituisce 
una 
testimonianza 
del 
risalente 
processo 
di 
formazione), 
rende 
evidentemente 
giustificata 
la 
esigenza 
della 
speciale 
protezione 
che 
deve 
essere 
accordata 
al 
bene 
in questione, anche 
attraverso la sua necessaria materiale 
riacquisizione 
al 
patrimonio artistico nazionale, 
violato a causa della sua illegittima esportazione all'estero”. 


(45) 
il 
punto 
è 
ben 
illustrato 
da 
g. 
SEVErini, 
L'immateriale 
economico 
nei 
beni 
culturali, 
cit., 
laddove 
afferma 
che 
“Lo stesso sostantivo "bene", in "beni 
culturali", sembra implicare 
una differenziazione, 
quella da "beni 
economici": quasi 
un ossimoro rispetto all'accezione 
usuale 
di 
bene, che 
intende 
piuttosto una cosa utile 
soprattutto economicamente. Il 
binomio bene 
culturale 
va a negare 
che 
la giuridicità 
si 
esaurisca nel 
riflesso di 
un'utilità economica e 
vi 
sovrappone 
un'altra, diversa utilità e 
meritevolezza 
di 
protezione, quella culturale: di 
suo metaindividuale, di 
imputazione 
generale 
e 
di 
finalità 
metaeconomica; dunque 
di 
eccezione 
a quell'altra e 
alle 
istanze 
individualizzanti 
e 
riduttive 
al 
mercato 
(la base 
dell'eccezione 
del 
patrimonio culturale). Non c'è 
corrispondenza univoca tra i 
due 
valori, ma 
reciproca autonomia e possibile divergenza”. 
(46) 
oltre 
che 
di 
evitare 
che 
i 
beni 
più 
rilevanti 
dal 
punto 
di 
vista 
economico 
diventino 
res 
nullius, 
sulla 
falsariga 
dell’art. 827 c.c. (secondo il 
quale 
“I beni 
immobili 
che 
non sono in proprietà di 
alcuno 
spettano al 
patrimonio dello Stato”) e 
586 c.c. (a 
mente 
del 
quale 
“In mancanza di 
altri 
successibili, 
l'eredità è 
devoluta allo Stato (omissis)”. Sul 
rapporto tra 
le 
due 
disposizioni 
cfr. F. d’AVino, La successione 
dello Stato, in Rass. Avv. Stato, 2020, pp. 279 ss. 
(47) Così Cass. pen., Sez. iV, 22 marzo 2016 (dep. 11 aprile 2016), n. 14792, cit. 
(48) Così Cass. pen., Sez. ii, 13 ottobre 2011 (dep. 28 ottobre 2011), n. 39210, cit. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


infatti, non è 
possibile 
escludere 
a priori 
che 
un terzo rimasto estraneo al 
giudizio agisca 
per vedersi 
riconoscere 
un diritto dominicale 
che 
trovi 
fonte 
in una 
delle 
eccezionali 
fattispecie 
che 
legittimano il 
dominio privato su beni 
archeologici (49). 

nondimeno, 
è 
piuttosto 
improbabile 
che 
ricorra 
in 
concreto 
un 
siffatto 
epilogo 
processuale, 
il 
quale 
peraltro 
è 
astrattamente 
configurabile 
in 
relazione 
ad ogni 
contenzioso che 
verta 
sulla 
titolarità 
di 
beni 
determinati, tanto in sede 
penale 
quanto in sede 
civile: 
d’altra 
parte, l’art. 2909 c.c. esclude 
che 
il 
giudicato 
faccia 
stato 
nei 
confronti 
di 
soggetti 
diversi 
dalle 
parti 
e 
dai 
relativi 
eredi o aventi causa (50). 

l’astratta 
possibilità 
che 
il 
dominio 
sul 
bene 
venga 
rivendicato 
da 
soggetti 
terzi 
a 
seguito 
della 
definizione 
del 
procedimento 
sdrammatizza 
la 
mancata 
previsione 
di 
un termine 
decadenziale 
per “riassumere” 
il 
giudizio innanzi 
al 
giudice 
civile 
a 
seguito di 
ordinanza 
ex 
art. 263, comma 
3, c.p.p., come 
anche 
di 
un termine 
decorso il 
quale 
il 
cancelliere 
sia 
tenuto a 
demandare 
al 
giudice 
le determinazioni 
ex 
art. 151 d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115. 


Volendo 
porre 
un 
argine 
temporale 
alla 
definizione 
della 
“controversia 
sulla 
proprietà” 
rimessa 
dal 
giudice 
penale 
al 
proprio 
omologo 
civile, 
potrebbe 
forse 
proporsi 
un 
parallelismo 
con 
quanto 
disposto 
dall’art. 
262 
comma 
3-bis, 


c.p.p. (51) laddove 
prevede 
che 
“Trascorsi 
cinque 
anni 
dalla data della sentenza 
non più soggetta ad impugnazione, le 
somme 
di 
denaro sequestrate, se 
non ne 
è 
stata disposta la confisca e 
nessuno ne 
ha chiesto la restituzione, reclamando 
di averne diritto, sono devolute allo Stato”. 
Tuttavia, se 
tale 
disposizione 
si 
presta 
ad essere 
posta 
a 
base 
di 
un’interpretazione 
analogica 
volta 
ad individuare 
il 
termine 
che 
abiliti 
il 
cancelliere 
a 
provvedere 
ai 
sensi 
dell’art. 151 d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, non sembra 
che 
la 
medesima 
possa 
essere 
valorizzata 
per precludere 
la 
“riassunzione” 
del 
giudizio petitorio innanzi 
al 
giudice 
civile 
una 
volta 
che 
sia 
decorso un quinquennio 
dall’ordinanza 
emanata 
ex 
art. 
263, 
comma 
3 
c.p.p., 
considerando 
che 
i 
citati 
artt. 
152 
c.p.c. 
e 
173 
c.p.p. 
escludono 
in 
radice 
l’imposizione 
di 
termini 
decadenziali in via analogica (52). 


(49) Cfr. supra, nt. 15. 
(50) Cfr. supra, nt. 36. il 
punto è 
ben chiarito anche 
da 
F.P. luiSo, Diritto processuale 
civile, ii, 
X 
Ed., giuffré, Milano, 2019, p. 522, ove, in relazione 
al 
rimedio ex 
art. 404 c.p.c. si 
illustra 
che 
“l’opposizione 
di 
terzo è 
comunemente 
ritenuta un rimedio facoltativo 
[...] nel 
senso 
[...] pregnante, per 
cui 
il 
terzo può raggiungere 
lo stesso risultato anche 
con altri 
mezzi, in particolare 
con un’autonoma domanda 
in via ordinaria. 
[…] ma il 
punto non è 
evidentemente 
questo: 
[…] l’opposizione 
è 
l’unico strumento 
idoneo ad impedire 
l’attuazione 
inter 
partes 
della situazione 
che 
fa capo alle 
parti 
originarie, e 
che è accertata nella sentenza opposta; ed è in questo senso che è necessaria”. 
(51) Comma inserito dalla l. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008). 
(52) Cfr. supra, nt. 35. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


4. 
Le 
iniziative 
esperibili 
di 
fronte 
al 
sequestro 
di 
beni 
archeologici 
provenienti 
da Paesi stranieri. 
un’ulteriore 
questione 
controversa 
concerne 
la 
possibilità 
che 
il 
Ministero 
per 
i 
beni 
e 
le 
attività 
culturali, 
a 
fronte 
del 
sequestro 
di 
beni 
archeologici 
esteri 
(eventualmente 
disposto congiuntamente 
al 
sequestro di 
beni 
italiani), possa 
attivarsi 
giudizialmente 
per impedire 
che 
i 
medesimi 
vengano restituiti 
a 
soggetti 
privi 
di 
titolo, onde 
vederseli 
attribuire 
in custodia, per poi 
consegnarli 
allo Stato di provenienza. 


in assenza 
di 
una 
previsione 
espressamente 
rivolta 
in tal 
senso, sembra 
potersi avanzare una risposta positiva, sulla base della normativa vigente. 


Viene 
in rilievo in primo luogo il 
combinato disposto degli 
artt. 82 e 
83 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, 
n. 
42, 
laddove 
la 
prima 
disposizione 
prevede 
che 
“l'azione 
di 
restituzione 
dei 
beni 
culturali 
usciti 
illecitamente 
dal 
territorio 
italiano è 
esercitata dal 
ministero, d'intesa con il 
mistero degli 
affari 
esteri, 
davanti 
al 
giudice 
dello Stato membro dell'Unione 
europea in cui 
si 
trova il 
bene 
culturale”, mentre 
la 
successiva 
dispone 
che 
“1. Qualora il 
bene 
culturale 
restituito non appartenga allo Stato, il 
ministero provvede 
alla sua custodia 
fino 
alla 
consegna 
all'avente 
diritto. 
[...] 
4. 
Qualora 
l'avente 
diritto 
non 
ne 
richieda la consegna entro cinque 
anni 
dalla data di 
pubblicazione 
nella 
Gazzetta Ufficiale 
dell'avviso previsto dal 
comma 3, il 
bene 
è 
acquisito al 
demanio 
dello 
Stato. 
Il 
ministero, 
sentiti 
il 
competente 
organo 
consultivo 
e 
le 
regioni 
interessate, dispone 
che 
il 
bene 
sia assegnato ad un museo, biblioteca 


o archivio dello Stato, di 
una regione 
o di 
altro ente 
pubblico territoriale, al 
fine 
di 
assicurarne 
la migliore 
tutela e 
la pubblica fruizione 
nel 
contesto culturale 
più opportuno”. 
in altri 
termini, il 
codice 
dei 
beni 
culturali 
attribuisce 
espressamente 
allo 
Stato 
italiano 
la 
legittimazione 
ad 
agire 
per 
ottenere 
la 
restituzione 
di 
ogni 
bene 
culturale 
uscito 
dal 
proprio 
territorio, 
anche 
laddove 
il 
medesimo 
non 
afferisca 
al 
patrimonio 
indisponibile 
ex 
artt. 
826 
c.c. 
e 
91, 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, 
n. 
42 
(53). 
in 
tal 
caso, 
in 
particolare, 
lo 
Stato 
italiano 
viene 
investito 
della 
qualità 
di 
custode, tenuto ad instaurare 
un procedimento amministrativo 
volto 
all’individuazione 
del 
legittimo 
titolare, 
e 
suscettibile 
di 
concludersi 
con 
l’acquisizione 
dei 
beni 
da 
parte 
dello Stato medesimo, in assenza 
di 
richieste 
in tal senso. 


un quadro normativo siffatto suggerisce 
l’adozione 
di 
una 
lettura 
volta 
a 
scongiurare 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
l’azione 
volta 
alla 
restituzione 
dei 
beni 


(53) A 
discapito della 
collocazione 
sistematica 
degli 
articoli 
82 e 
83 nella 
Parte 
ii, Titolo i, Capo 
V, 
Sezione 
iii 
del 
c.d. 
codice 
urbani 
(denominata 
“Disciplina 
in 
materia 
di 
restituzione, 
nell'ambito 
dell'Unione 
europea, di 
beni 
culturali 
illecitamente 
usciti 
dal 
territorio di 
uno Stato membro”), il 
loro 
ampio 
tenore 
letterale 
si 
presta 
ad 
essere 
riferito 
non 
solo 
ai 
beni 
appartenenti 
a 
Stati 
membri 
dell’unione 
Europea, ma ai beni culturali in genere, chiunque ne sia il proprietario. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


“usciti 
illecitamente 
dal 
territorio italiano” 
e 
quella 
dei 
beni 
detenuti 
illegalmente 
sul 
territorio italiano, mediante 
un’interpretazione 
che 
abiliti 
lo Stato 
italiano ad agire 
per ottenere 
la 
consegna 
di 
beni 
esteri 
che 
siano stati 
abusivamente 
importati sul suolo nazionale. 


Seguendo tale 
prospettazione, ad esempio, una 
volta 
che 
il 
Ministero dei 
beni 
e 
delle 
attività 
culturali 
intraprenda 
un’azione 
giudiziaria 
volta 
al 
recupero 
dei 
beni 
rientranti 
nel 
proprio 
patrimonio 
indisponibile, 
non 
vi 
sarebbe 
ragione 
di 
escludere 
la 
sua 
legittimazione 
a 
recuperare 
anche 
i 
beni 
appartenenti 
a 
Paesi 
stranieri 
che 
siano detenuti 
congiuntamente 
ai 
primi, per poi 
curarne 
la 
consegna agli aventi diritto. 


una 
diversa 
interpretazione 
comporterebbe 
il 
rischio di 
consentire 
a 
chi 
abbia 
illegalmente 
importato beni 
archeologici 
stranieri 
in territorio italiano 
di 
cristallizzare 
il 
proprio dominio sui 
medesimi, a 
meno che 
lo Stato estero 
interessato si 
attivi 
in prima 
persona: 
evenienza 
non sempre 
agevolmente 
realizzabile 
nella 
pratica, oltre 
che 
evidentemente 
antieconomica 
nei 
-non infrequenti 
-casi 
in cui 
i 
beni 
esteri 
siano abusivamente 
detenuti 
congiuntamente 
a 
beni 
italiani, oggetto di 
iniziative 
processuali 
esperite 
dal 
Ministero competente. 


in particolare, laddove 
si 
escludesse 
la 
legittimazione 
in parola, la 
consolidazione 
della 
proprietà 
privata 
su 
beni 
pubblici 
abusivamente 
importati 
dall’estero 
potrebbe 
essere 
scongiurata 
soltanto 
mediante 
un’iniziativa 
officiosa 
del 
giudice 
penale, volta 
a 
respingere 
la 
domanda 
di 
restituzione 
formulata 
dall’interessato, 
disponendo 
la 
consegna 
dei 
cespiti 
allo 
Stato 
di 
provenienza 
o 
la 
rimessione 
della 
questione 
al 
giudice 
civile: 
il 
che 
in 
entrambi 
i 
casi 
presuppone 
lo svolgimento di 
accertamenti 
piuttosto complessi 
(specie 
ove 
il 
sequestro abbia 
ad oggetto una 
pluralità 
di 
beni 
provenienti 
da 
diversi 
Paesi), i 
quali 
potrebbero più agilmente 
essere 
svolti 
in sede 
amministrativa, 
nel corso del procedimento tratteggiato dal citato art. 83. 


del 
resto, non ammettere 
la 
legittimazione 
statale 
ad agire 
per eliminare 
gli 
abusi 
perpetrati 
su 
beni 
culturali 
stranieri 
rischia 
di 
tradursi 
nella 
violazione 
di obblighi internazionali gravanti sullo Stato italiano (54). 


(54) 
il 
riferimento 
è 
ad 
obblighi 
non 
soltanto 
pattizi, 
ma 
anche 
consuetudinari. 
Cfr. 
sul 
punto 
l’ampia 
e 
istruttiva 
disamina 
di 
T. 
SCoVAzzi, 
La 
dimensione 
internazionale 
della 
tutela. 
Principi 
etici 
e 
norme 
giuridiche 
in materia di 
restituzione 
dei 
beni 
culturali, in S. MAnACordA, A. ViSConTi 
(a 
cura 
di), Beni 
culturali 
e 
sistema penale, cit., che 
a 
p. 126 trae 
le 
proprie 
conclusioni 
evidenziando che 
“Un nucleo di 
principi 
può 
essere 
desunto 
dalle 
tendenze 
evolutive 
della 
pratica 
internazionale 
contemporanea 
nel 
campo 
del 
patrimonio 
culturale 
[…] 
il 
principio 
di 
non 
sfruttamento 
della 
debolezza 
di 
un 
altro 
soggetto 
per 
ottenere 
un guadagno culturale, che 
si 
applica a situazioni 
di 
guerra, dominio coloniale, occupazione 
straniera o coinvolgenti 
popoli 
indigeni, e 
il 
principio della cooperazione 
contro i 
trasferimenti 
illeciti 
di 
beni 
culturali, che 
ha una portata di 
applicazione 
generale. Essi 
sono collegati 
al 
principio 
di 
preservazione 
dell’integrità dei 
contesti 
culturali, che 
è 
profondamente 
radicato nella natura del 
patrimonio 
culturale. Un quarto principio, di 
carattere 
procedurale, è 
il 
principio di 
cooperazione 
nella 
soluzione 
di 
controversie 
sul 
rientro di 
beni 
culturali, tenendo conto di 
tutte 
le 
circostanze 
pertinenti”. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


il 
riferimento è 
in primo luogo alla 
c.d. Convenzione 
di 
Parigi 
“concernente 
le 
misure 
da adottare 
per 
interdire 
e 
impedire 
la illecita importazione, 
esportazione 
e 
trasferimento di 
proprietà dei 
beni 
culturali” 
e 
ratificata 
dal-
l’italia 
con l. 30 ottobre 
1975, n. 873, volta 
a 
disporre 
-tra 
l’altro -che 
“Gli 
Stati 
parti 
della presente 
Convenzione 
s'impegnano: (a) ad adottare 
tutte 
le 
misure 
necessarie, in conformità con la legislazione 
nazionale, per 
impedire 
l'acquisizione, da parte 
di 
musei 
e 
altre 
istituzioni 
similari 
dislocate 
sul 
proprio 
territorio, 
di 
beni 
culturali 
provenienti 
da 
un 
altro 
Stato 
parte 
della 
Convenzione, 
[...]; (ii) ad adottare 
misure 
appropriate 
per 
recuperare 
e 
restituire 
su richiesta dello Stato d'origine 
parte 
della Convenzione 
qualsiasi 
bene 
culturale 
rubato e 
importato in tal 
modo dopo l'entrata in vigore 
della presente 
Convenzione” 
(così 
l’art. 7, da 
leggere 
in combinato disposto con gli 
artt. 9 e 
13)(55). 


inoltre, 
l’illustrata 
interpretazione 
degli 
artt. 
82 
e 
83 
d.lgs. 
22 
gennaio 
2004, n. 42 risulterebbe 
funzionale 
ad onorare 
l’impegno assunto dallo Stato 
italiano 
a 
“contribuire 
con 
efficacia 
alla 
lotta 
contro 
il 
traffico 
illecito 
dei 
beni 
culturali” 
e 
ad “agevolare 
la restituzione 
ed il 
ritorno dei 
beni 
culturali”, secondo 
quanto 
si 
legge 
nel 
preambolo 
della 
Convenzione 
unidroit 
sui 
beni 
culturali 
rubati 
o 
illecitamente 
esportati, 
siglata 
a 
roma 
il 
24 
giugno 
1995 
e 
ratificata 
con l. 7 giugno 1999, n. 213, alla 
quale 
è 
stata 
riconosciuta 
valenza 
complementare 
alla 
suddetta 
convenzione 
di 
Parigi 
(56), in sede 
della 
conferenza 
unESCo del 24 giugno 2005. 


d’altra 
parte, la 
ratifica 
delle 
due 
convenzioni 
menzionate 
è 
stata 
raccomandata 
agli 
Stati 
membri 
dell’unione 
Europea, 
come 
si 
legge 
nel 
preambolo 


(57) della 
direttiva 
2014/60/uE 
del 
15 maggio 2014 (58), finalizzata 
a 
“con-
in giurisprudenza, cfr. Cons. St., Sez. Vi, 23 giugno 2008, n. 3154, che 
ha 
riconosciuto “la vigenza di 
una norma consuetudinaria comportante 
l’obbligo di 
restituzione 
[…] di 
cose 
di 
interesse 
culturale”, 
nel 
confermare 
la 
pronuncia 
T.A.r. lazio, Sez. ii, 20 aprile 
2007, n. 3518, la 
quale 
aveva 
respinto il 
ricorso 
proposto da 
italia 
nostra 
o.n.l.u.s. avverso il 
decreto ministeriale 
volto a 
disporre 
il 
“passaggio 
della 
‘statua 
marmorea 
acefala 
di 
Afrodite, 
c.d. 
Venere 
di 
Cirene 
dal 
demanio 
al 
patrimonio 
dello 
Stato’ 
[…] 
al 
fine 
di 
procedere 
al 
trasferimento della statua presso gli 
istituti 
museali 
della Repubblica della 
Libia”. Come 
si 
legge 
nella 
sentenza 
da 
ultimo citata, la 
statua 
era 
stata 
“rinvenuta dalle 
truppe 
italiane 
in 
data 
28 
dicembre 
1913 
in 
occasione 
dell'occupazione 
militare 
della 
Cirenaica 
e 
successivamente 
tradotta 
in Patria nel 1915 al fine di preservarla dal rischio di distruzione nel periodo bellico”. 


(55) il 
citato art. 13 appare 
particolarmente 
significativo laddove 
prescrive 
che 
“Gli 
Stati 
parti 
della presente 
Convenzione 
s'impegnano inoltre, nel 
quadro della legislazione 
di 
ciascuno Stato: (a) a 
impedire 
con tutti 
i 
mezzi 
adeguati, i 
trasferimenti 
di 
proprietà di 
beni 
culturali 
diretti 
a favorire 
l'importazione 
o 
l'esportazione 
illecite 
di 
tali 
beni; 
[…] 
(c) 
a 
consentire 
un'azione 
di 
rivendicazione 
dei 
beni 
culturali 
perduti 
o 
rubati 
esercitata 
dal 
proprietario 
legittimo 
o 
in 
suo 
nome; 
(d) 
a 
riconoscere 
inoltre, il 
diritto imprescindibile 
di 
ciascuno Stato parte 
della presente 
Convenzione, di 
classificare 
e 
dichiarare 
inalienabili 
alcuni 
beni 
culturali 
che 
per 
questo motivo non devono essere 
esportati, e 
a facilitare 
il 
recupero di 
tali 
beni 
da parte 
dello Stato interessato nel 
caso in cui 
essi 
siano stati 
esportati”. 
(56) Sul 
rapporto tra 
le 
due 
convenzioni 
cfr. per tutti 
T. SCoVAzzi, La dimensione 
internazionale 
della tutela. Principi 
etici 
e 
norme 
giuridiche 
in materia di 
restituzione 
dei 
beni 
culturali, cit., p. 102 
ss. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


sentire 
la 
restituzione 
dei 
beni 
culturali 
classificati 
o 
definiti 
come 
patrimonio 
nazionale 
usciti 
illecitamente 
dal 
territorio 
degli 
Stati 
membri” 
(59) 
ed 
attuata 
con il 
d.lgs. 7 gennaio 2016, n. 2, volto a 
modificare 
gli 
artt. 73 ss. d.lgs. 22 
gennaio 2004, n. 42 (60). 


Se 
è 
vero che 
le 
citate 
disposizioni 
del 
codice 
dei 
beni 
culturali 
impongono 
al 
Ministero soltanto oneri 
di 
collaborazione, assistenza, conservazione 


(61) e 
“notifica agli 
Stati 
membri 
interessati 
il 
ritrovamento nel 
territorio nazionale 
di 
un 
bene 
la 
cui 
illecita 
uscita 
da 
uno 
Stato 
membro 
possa 
presumersi 
per 
indizi 
precisi 
e 
concordanti” 
(62) rimettendo l’esercizio dell’azione 
di 
restituzione 
agli 
Stati 
interessati 
(63), è 
altrettanto vero che 
previsioni 
siffatte 
non escludono la 
legittimazione 
statale 
ad esperire 
in proprio un’azione 
“recuperatoria” 
strumentale 
alla 
riconsegna 
dei 
beni 
agli 
Stati 
di 
provenienza 
(64), 
almeno 
ogniqualvolta 
risulti 
difficoltoso 
o 
antieconomico 
interpellare 
previamente questi ultimi. 
in 
definitiva, 
pur 
nella 
consapevolezza 
che 
in 
linea 
di 
principio 
si 
impone 
una 
lettura 
rigorosa 
delle 
ipotesi 
di 
legittimazione 
straordinaria 
ex 
art. 
81 
c.p.c. 
(65), pare 
che 
la 
“eccezione 
dei 
beni 
culturali” 
(66) giustifichi 
la 
supra 
prospettata 
interpretazione dei citati artt. 82 e 83. 


Così 
come 
l’ordinamento 
contempla 
una 
presunzione 
di 
dominio 
pubblico 
che 
diverge 
dai 
principi 
regolatori 
desumibili 
dal 
terzo libro del 
codice 
civile, 


(57) 
Cfr. 
in 
particolare 
il 
sedicesimo 
considerando, 
ove 
si 
legge 
che 
“il 
Consiglio 
ha 
raccomandato 
agli 
Stati 
membri 
di 
prendere 
in considerazione 
la ratifica della convenzione 
dell'Unesco concernente 
le 
misure 
da adottare 
per 
interdire 
e 
impedire 
l'illecita importazione, esportazione 
e 
trasferimento di 
proprietà dei 
beni 
culturali, firmata a Parigi 
il 
17 novembre 
1970, e 
della convenzione 
dell'UNIDRoIT 
sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, firmata a Roma il 24 giugno 1995”. 
(58) 
Cfr. 
buonoMo, 
La 
restituzione 
dei 
beni 
culturali 
usciti 
illecitamente 
dal 
territorio 
di 
uno 
Stato membro alla luce della direttiva 2014/60/UE, in Aedon, n. 3/2014. 
(59) Così il ventesimo considerando. 
(60) 
Cfr. 
M. 
Fiorilli 
-S. 
gATTi, 
Beni 
culturali. 
Fiscalità, 
mecenatismo, 
circolazione, 
cit., 
pp. 
359 
ss. 
(61) Cfr. l’art. 76, comma 
2, laddove 
prevede 
che 
“Per 
il 
ritrovamento e 
la restituzione 
dei 
beni 
culturali 
appartenenti 
al 
patrimonio di 
altro Stato membro dell'Unione 
europea, il 
ministero: 
[...] 
e) dispone, 
ove 
necessario, 
la 
rimozione 
del 
bene 
e 
la 
sua 
temporanea 
custodia 
presso 
istituti 
pubblici 
nonché 
ogni 
altra misura necessaria per 
assicurarne 
la conservazione 
ed impedirne 
la sottrazione 
alla procedura 
di restituzione”. 
(62) Così l’art. 76, comma 2, lettera c). 
(63) Cfr. in particolare 
l’art. 77: 
“Per 
i 
beni 
culturali 
usciti 
illecitamente 
dal 
loro territorio, gli 
Stati 
membri 
dell'unione 
europea possono esercitare 
l'azione 
di 
restituzione 
davanti 
all'autorità giudiziaria 
ordinaria, secondo quanto previsto dall'articolo 75. 2. L'azione 
è 
proposta davanti 
al 
tribunale 
del luogo in cui il bene si trova. (omissis)”. 
(64) del 
resto, lo stesso art. 16 della 
direttiva 
prevede 
che 
“La presente 
direttiva lascia impregiudicate 
le 
azioni 
civili 
o 
penali 
spettanti, 
in 
base 
al 
diritto 
nazionale 
degli 
Stati 
membri, 
allo 
Stato 
membro 
richiedente e/o al proprietario cui è stato sottratto il bene”. 
(65) Secondo il 
quale 
“Fuori 
dei 
casi 
espressamente 
previsti 
dalla legge, nessuno può far 
valere 
nel processo in nome proprio un diritto altrui”. 
(66) Così g. SEVErini, L'immateriale economico nei beni culturali, cit., p. 2. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


allo stesso modo va 
riconosciuta 
in capo all’apparato statale 
una 
particolarmente 
ampia 
legittimazione 
ad agire 
per recuperare 
i 
beni 
archeologici 
abusivamente 
detenuti 
da 
soggetti 
privati, 
affinché 
(se 
non 
in 
italia, 
nei 
Paesi 
di 
provenienza)(67) siano adibiti 
alla 
fruizione 
collettiva, in modo da 
offrire 
ristoro 
ad un “danno 
[che] non va calcolato con riferimento esclusivo alla nazione 
che 
subisce 
l’emorragia dei 
propri 
beni, bensì 
con riguardo all’intera 
umanità che perde pagine e pagine della propria storia” (68). 


(67) Che 
la 
collocazione 
“naturale” 
dei 
beni 
culturali 
vada 
ravvisata 
nei 
Paesi 
di 
provenienza 
è 
ben sottolineato da 
T. SCoVAzzi, La dimensione 
internazionale 
della tutela. Principi 
etici 
e 
norme 
giuridiche 
in materia di 
restituzione 
dei 
beni 
culturali, cit., p. 121, laddove 
discorre 
del 
“principio di 
preservazione 
dell’integrità 
dei 
contesti 
culturali, 
che 
è 
profondamente 
radicato 
nella 
natura 
dei 
beni 
culturali 
e 
non è 
necessariamente 
connesso all’illegalità di 
un determinato trasferimento di 
beni 
culturali. 
Il 
concetto di 
integrità di 
un contesto può riferirsi 
sia a un singolo monumento che 
a un sito culturale 
in 
cui 
sono 
collocati 
numerosi 
monumenti 
e 
manufatti. 
Gli 
oggetti 
rimossi 
dal 
loro 
contesto 
per 
essere 
venduti 
a fine 
di 
guadagno commerciale 
possono fornire 
ben poche 
informazioni 
in merito alla 
storia e 
alla cultura degli 
spesso sconosciuti 
siti 
da cui 
sono stati 
presi 
e 
delle 
civiltà a cui 
appartenevano. 
Dato che 
arte 
e 
storia sono sempre 
associate 
a un contesto geografico, le 
testimonianze 
culturali 
dovrebbero essere 
conservate 
in situ”. l’Autore 
rinviene 
la 
matrice 
di 
tale 
principio nel 
pensiero di 
Antoine-
Chrysostome 
Quatremère 
de 
Quincy, che 
in un proprio scritto del 
1796 (Lettres 
sur 
le 
préjudice 
qu’occasionneroient 
aux 
Arts 
et 
à la Science, le 
déplacement 
des 
monumens 
de 
l’art 
de 
l’Italie, le 
démembrement 
de 
ses 
Ecoles, et 
la spoliation de 
ses 
Collections, Galeries, musées, etc., s.n., roma 
1815) 
aveva 
sostenuto tra 
l’altro che 
“dividere 
i 
beni 
culturali, rimuovendoli 
dal 
luogo dove 
sono stati 
creati, 
equivale 
a 
distruggerli 
(“diviser 
c’est 
détruire’’). 
La 
rimozione 
di 
tali 
beni 
dà 
un 
colpo 
mortale 
alla 
cultura dei 
Paesi 
d’origine, senza portare 
vantaggio al 
Paese 
che 
se 
ne 
appropria”. Così 
T. SCoVAzzi, 
op. cit., p. 79, laddove 
il 
testo di 
Quatremère 
viene 
presentato come 
un “grande 
alleato” 
dello scultore 
Antonio Canova 
nella 
propria 
missione 
diplomatica 
effettuata 
nel 
1815 a 
Parigi 
per conto dello Stato 
pontificio, conclusasi 
con la 
restituzione 
di 
settantasette 
opere 
d’arte, tra 
cui 
il 
laocoonte, l’Apollo del 
belvedere, la 
Trasfigurazione di raffaello, la deposizione di Caravaggio. 
(68) Così 
P.g. FErri, Brevi 
osservazioni 
sulla tutela penale 
dei 
reperti 
archeologici, cit., p. 86, il 
quale 
nella 
successiva 
p. 88, nt. 6, prosegue 
affermando che 
“lo strumento penale, per 
quanto estremo, 
risulta invero tra i 
più efficaci 
ed idonei 
a fronteggiare 
in maniera risolutiva il 
fenomeno dei 
traffici 
illeciti 
di 
beni 
culturali, 
la 
cui 
gravità 
è 
riassunta 
dall’espressione 
(che 
ne 
rende 
il 
vero 
significato) 
“stealing 
history”, da usare come vero e proprio marchio”. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


La costituzione di parte civile nel procedimento 
ex d.lgs. 231/2001: origine ed evoluzione 
di un dibattito incompiuto 


Luca Di Pede* 

SommARIo: 1. Premessa. Danno derivante 
da reato e 
possibilità di 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
“processo 
231” 
-2. 
Due 
differenti 
ricostruzioni 
a 
confronto 
-3. 
La 
soluzione 
fornita 
dalla giurisprudenza di 
legittimità -3.1 La riemersione 
della tesi 
affermativa nelle 
pronunce 
della giurisprudenza di merito - 4. Considerazioni conclusive. 

1. Premessa. Danno derivante 
da reato e 
possibilità di 
costituzione 
di 
parte 
civile nel “processo 231”. 
il 
tema 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
ha 
assunto 
un 
crescente 
rilievo 
nel 
dibattito 
dottrinale 
e 
giurisprudenziale 
relativo 
al 
procedimento 
ex 
d.lgs. 
8 
giugno 
2001 
n. 
231 
contenente 
la 
disciplina 
sulla 
responsabilità 
amministrativa 
delle 
società 
e 
degli 
enti: 
ciò 
in 
quanto, 
in 
assenza 
di 
qualsiasi 
riferimento 
esplicito 
a 
questo 
istituto 
nel 
“microcosmo 
normativo 
de 
societate”, 
è 
controversa 
la 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
procedimento 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
collettivo. 
Più 
precisamente, 
si 
tratta 
di 
verificare 
se 
possa 
sussistere 
in 
capo 
all’ente 
una 
responsabilità 
civile 
diretta 
per 
i 
danni 
cagionati 
dall’illecito, 
postulato 
che 
lo 
stesso 
potrebbe 
esser 
chiamato 
a 
rispondere 
indirettamente 
nel 
procedimento 
nei 
confronti 
dell’imputato 
-intraneus 
autore 
del 
reato 
presupposto 
attraverso 
l’istituto 
del 
responsabile 
civile 
ex 
art. 
83 
c.p.p. 


dalla 
risposta, 
affermativa 
o 
negativa, 
a 
questo 
quesito 
discendono 
rilevanti 
conseguenze, 
sia 
dal 
punto 
di 
vista 
del 
diritto 
sostanziale 
sia 
dal 
punto 
di 
vista 
processuale: 
dal 
momento 
in 
cui 
il 
decreto 
legislativo 
231/2001 
prevede 
anche 
delle 
ipotesi 
di 
responsabilità 
autonoma 
dell’ente 
“quando 
l’autore 
del 
reato 
non 
è 
stato 
identificato 
o 
non 
è 
imputabile”o“il 
reato 
si 
estingue 
per 
causa 
diversa 
dall’amnistia” 
(1), 
non 
essendo 
in 
questi 
casi 
possibile 
agire 
nei 
confronti 
dell’individuo, 
ci 
si 
è 
chiesto 
se 
sia 
possibile 
una 
costituzione 
di 
parte 
civile 
da 
parte 
della 
persona 
offesa 
dall’illecito 
direttamente 
nel 
procedimento 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
collettivo. 
Ed 
ancora, 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
procedimento 
nei 
confronti 
dell’imputato 
autore 
del 
reato 
presupposto 
si 
sia 
concluso 
con 
una 
assoluzione, 
se 
la 
pretesa 
risarcitoria 
del 
danneggiato 
sopravviva 
nei 
confronti 
dell’ente 
(2). 
le 
ipotesi 
di 
un 
differente 


(*) dottore 
in giurisprudenza, ammesso alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
generale 
dello Stato 
(avv. Stato Carlo Maria Pisana). 

(1) Così statuisce l’art. 8 del d.lgs. 231/2001. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


“decorso” 
del 
procedimento a 
carico dell’individuo rispetto a 
quello a 
carico 
dell’ente 
non 
sono 
marginali. 
Potrebbe 
avvenire, 
ad 
esempio, 
che 
vi 
sia 
la 
maturazione 
dei 
termini 
prescrizionali 
del 
reato 
commesso 
dal 
soggetto 
intraneus 
con l’azione 
penale 
nei 
confronti 
del 
soggetto collettivo che 
prosegue 
autonomamente 
in un diverso procedimento (3): 
in questi 
casi 
la 
maturazione 
dei 
termini 
prescrizionali 
gioverà 
solo 
alla 
persona 
fisica, 
con 
il 
procedimento 
contra societate 
che continuerà nel suo corso. 

2. Due differenti ricostruzioni a confronto. 
nel 
cercare 
di 
risolvere 
questo 
nodo 
interpretativo, 
è 
opportuno 
segnalare 
che 
sin dalle 
origini 
di 
questo dibattito nella 
giurisprudenza 
di 
merito (e 
nella 
dottrina) si sono contese il terreno due teorie: 


1-una 
tesi 
negativa, la 
quale 
per l’appunto non ammette 
la 
possibilità 
di 
una 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
procedimento riguardante 
il 
soggetto collettivo; 


2 -una 
tesi 
affermativa, secondo la 
quale 
vi 
è, pur in assenza 
di 
un esplicito 
richiamo 
nel 
decreto 
231/2001, 
la 
possibilità 
di 
costituzione 
di 
parte 
civile 
direttamente nei confronti dell’ente. 

la 
prima 
tesi 
(4) nega 
l’ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
in 
base a plurime argomentazioni. 

in 
primo 
luogo, 
la 
natura 
giuridica 
della 
responsabilità 
prevista 
dal 
decreto 
in esame 
sarebbe 
amministrativa: 
ciò non permetterebbe 
una 
estensione 
analogica 
degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. nel procedimento ex 
d.lgs. 231/2001. 

(2) 
Ciò 
in 
quanto 
“la 
condanna 
al 
risarcimento 
in 
sede 
penale 
presuppone 
la 
responsabilità 
penale 
e 
la condanna dell’imputato”, cosi 
d. biAnChi: 
“Ancora sulla problematica (in)ammissibilità della costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo penale 
de 
societate. Inquietudini 
costituzionali 
ed alternative 
ermeneutiche”, 
in Diritto Penale 
Contemporaneo, 2013, p. 3. Pertanto, nel 
momento in cui 
questa 
venga 
meno, 
la 
pretesa 
risarcitoria 
indiretta 
azionata 
nei 
confronti 
dell’ente 
quale 
responsabile 
civile 
sarà 
tamquam 
non esset. 
(3) Si 
rammenti 
che 
l’art. 22 del 
d.lgs. 231/2001 prevede 
che 
le 
sanzioni 
amministrative 
previste 
nel 
decreto 
stesso 
si 
prescrivono 
nel 
termine 
di 
cinque 
anni 
dalla 
data 
di 
consumazione 
del 
reato; 
il 
comma 
2 
prosegue 
prevedendo 
l’interruzione 
della 
prescrizione 
con 
la 
richiesta 
di 
applicazione 
di 
misure 
cautelari 
interdittive 
e 
con la 
contestazione 
dell’illecito amministrativo a 
norma 
dell’art. 59; 
infine, il 
quarto comma 
prevede 
che 
“se 
l’interruzione 
è 
avvenuta mediante 
la contestazione 
dell’illecito amministrativo 
dipendente 
da reato, la prescrizione 
non corre 
fino al 
momento in cui 
passa in giudicato la 
sentenza 
che 
definisce 
il 
giudizio”. 
Pertanto, 
la 
contestazione 
dell’illecito 
attraverso 
uno 
degli 
atti 
indicati 
dall’art. 405 c.p.p. rende 
il 
fatto ascrivibile 
all’ente 
sostanzialmente 
imprescrittibile. Ciò comporta 
che, 
nei 
casi 
in cui 
si 
proceda 
separatamente 
nei 
confronti 
dell’ente, il 
procedimento nei 
confronti 
di 
quest’ultimo 
proseguirebbe 
da 
solo il 
cammino processuale, “anche 
a notevole 
distanza dalla commissione 
del 
reato e 
nonostante 
l’intervenuta prescrizione 
di 
quest’ultimo a seguito di 
contestazione”. Sul 
punto, 
diffusamente, 
u. 
dinACCi: 
“La 
prescrizione 
dell’illecito 
dell’ente: 
alla 
ricerca 
di 
una 
lettura 
ragionevole 
tra inquadramenti sistematici, dato positivo e limiti costituzionali”, in Archivio penale, n. 2, 2020. 
(4) Sostenuta 
in varie 
pronunce 
di 
merito: 
Trib. Milano 9 marzo 2004; 
Trib. Torino 27 novembre 
2004; 
Trib. Milano 25 gennaio 2005. Pronunce 
richiamate 
da 
E. CECCArElli: 
“La costituzione 
di 
parte 
civile 
nei 
processi 
di 
accertamento 
della 
responsabilità 
dell’ente”, 
in 
Archivio 
nuova 
procedura 
penale, 
2009, p. 95. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


in secondo, la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
sarebbe 
possibile 
solo qualora 
ricorrano i 
requisiti 
tassativamente 
previsti 
dagli 
articoli 
ora 
citati: 
in particolare, 
secondo una 
interpretazione 
letterale 
dell’art. 74 c.p.p. dovrebbe 
esservi 
un 
reato, 
affinché 
vi 
possa 
esser 
costituzione 
di 
parte 
civile. 
l’ente 
invece 
non 
sarebbe 
autore 
di 
un 
reato 
bensì 
di 
un 
qualcosa 
di 
differente, 
ossia 
dell’illecito 
corporativo: 
vi 
sarebbe 
“mancanza 
di 
un 
rapporto 
giuridicamente 
rilevante 
tra tale 
illecito e 
i 
danni 
da reato” 
(5). in altri 
termini, il 
reato della 
persona 
fisica 
non esaurirebbe 
l’illecito della 
persona 
giuridica, ma 
costituirebbe 
solo 
“una parte 
del 
tutto”, una 
parte 
di 
quegli 
elementi 
che, in ossequio a 
quanto 
previsto dagli 
artt. 5 e 
6 del 
decreto legislativo 231/2001, fanno sorgere 
la 
responsabilità 
dell’ente. 

infine, l’inammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
troverebbe 
alimento 
nella 
interpretazione 
letterale 
del 
decreto 
231 
e 
in 
quella 
sistematica 
con 
riferimento 
ad 
alcune 
disposizioni 
del 
codice 
di 
rito, 
in 
particolare 
si 
è 
osservato 
che: 


-il 
capo iii dedicato ai 
“soggetti, giurisdizione 
e 
competenza”, non contiene 
alcuna menzione alla parte civile; 
-l’art. 
27, 
rubricato 
“responsabilità 
patrimoniale 
dell’ente”, 
non 
contiene 
alcuna menzione al risarcimento del danno sofferto dalla persona offesa; 
-l’art. 
54, 
dedicato 
al 
sequestro 
conservativo, 
prevede 
che 
tale 
misura 
cautelare 
possa 
esser 
richiesta 
da 
parte 
del 
Pubblico 
ministero 
con 
esplicito 
richiamo alle 
disposizioni 
degli 
artt. 316, comma 
4, 317, 318, 319, 320 c.p.p. 
Ad 
avviso 
della 
giurisprudenza 
in 
parola 
il 
legislatore, 
richiamando 
nel 
decreto 
legislativo 231 il 
solo comma 
4 dell’art. 316, avrebbe 
escluso una 
estensione 
analogica 
del 
comma 
2 
dell’art. 
316 
(che 
consente 
la 
richiesta 
anche 
dalla 
parte 
civile) e 
del 
comma 
3 (che 
stabilisce 
che 
il 
sequestro richiesto dal 
P.M. giova 
anche alla parte civile); 


-infine, 
l’art. 
69 
d.lgs. 
231/2001 
dedicato 
alle 
conseguenze 
derivanti 
dalla 
sentenza 
di 
condanna 
afferma 
che: 
“se 
l’ente 
risulta 
responsabile 
dell’illecito 
amministrativo 
contestato, 
il 
giudice 
applica 
la 
sanzione 
prevista 
dalla 
legge 
e 
lo 
condanna 
al 
pagamento 
delle 
spese 
processuali”, 
senza 
fare 
alcun 
riferimento 
al 
risarcimento 
del 
danno, 
differentemente 
dal 
codice 
di 
procedura 
penale, 
che 
agli 
artt. 
548 
ss. 
dedica 
una 
specifica 
e 
dettagliata 
disciplina 
a 
riguardo. 


la 
tesi 
affermativa 
(6), partendo dall’antitetico presupposto, secondo cui 
la 
responsabilità 
delineata 
dal 
decreto 231/2001 sarebbe 
di 
natura 
penale 
(o 


(5) 
d. 
biAnChi, 
“Ancora 
sulla 
problematica 
(in)ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo 
penale 
de 
societate, 
inquietudini 
costituzionali 
ed 
alternative 
ermeneutiche”, 
in 
Diritto 
Penale 
Contemporaneo, 2013, p. 7 
(6) Sostenuta 
da 
Trib. Torino 12 gennaio 2006; 
Trib. roma 
21 aprile 
2005 fra 
le 
altre, sempre 
richiamate 
da 
E. CECCArElli, “La costituzione 
di 
parte 
civile 
nei 
processi 
di 
accertamento della responsabilità 
dell’ente”, in Archivio nuova procedura penale, 1-2009, p. 95. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


quantomeno un “tertium 
genus” 
non riconducibile 
né 
all’ambito strettamente 
penale 
né 
all’ambito 
amministrativo), 
sostiene 
che 
il 
mancato 
richiamo 
all’istituto 
della 
parte 
civile 
nell’impianto in esame 
sarebbe 
stato determinato 
dalla 
volontà 
del 
legislatore 
di 
non appesantire 
eccessivamente 
il 
sistema 
con 
richiami 
ad ogni 
singolo istituto contenuto nel 
codice 
di 
procedura 
penale 
(7). 
l’applicazione 
della 
disciplina 
del 
codice 
di 
rito si 
renderebbe 
possibile 
sulla 
base 
del 
combinato disposto ex 
artt. 34 e 
35 d.lgs. 231/2001 i 
quali 
estendono 
al 
procedimento de 
societate 
le 
disposizioni 
e 
le 
garanzie 
previste 
dal 
codice 
di 
procedura 
penale, 
salvo 
compatibilità. 
rispetto 
alla 
costituzione 
di 
parte 
civile, 
la 
incompatibilità 
non vi 
sarebbe 
in quanto si 
tratta 
di 
un illecito produttivo 
di 
un danno derivante 
“dal 
medesimo fatto qualificato sia come 
reato per 
la 
persona 
fisica 
che 
come 
illecito 
amministrativo 
per 
l’ente, 
pertanto 
il 
danno 
risulterà 
sempre 
e 
comunque 
legato 
eziologicamente 
al 
reato” 
(8). 
delle 
omissioni 
contenute 
nel 
decreto legislativo 231/2001 l’orientamento in parola 
propone 
una 
differente 
chiave 
di 
lettura: 
ad esempio, il 
mancato richiamo nella 
disciplina 
dedicata 
al 
sequestro 
conservativo 
dei 
commi 
2 
e 
3 
dell’art. 
316 


c.p.p. 
sarebbe 
rivelatore 
della 
volontà 
di 
introdurre 
una 
specifica 
deroga 
a 
quanto previsto dal 
codice 
di 
rito solo per quanto previsto rispetto alla 
attività 
del 
P.M., mentre 
la 
disciplina 
residuale 
sarebbe 
applicabile 
integralmente. Altresì, 
a 
favore 
della 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
i 
sostenitori 
della 
tesi 
estensiva 
hanno 
sottolineato 
la 
posizione 
di 
fondamentale 
importanza 
che 
nell’intero 
impianto 
231 
ha 
il 
danneggiato: 
il 
d.lgs. 
231/2001 
prevede 
una 
riduzione 
della 
sanzione 
pecuniaria 
se 
il 
danno patrimoniale 
è 
di 
particolare 
tenuità 
ovvero se 
l’ente 
ha 
risarcito integralmente 
il 
danno (art. 12); 
l’esclusione 
delle 
sanzioni 
interdittive 
quando 
l’ente 
ha 
risarcito 
integralmente 
il 
danno (art. 17); 
l’esclusione 
della 
confisca 
per la 
parte 
di 
prezzo o profitto del 
reato 
che 
può 
essere 
restituita 
al 
danneggiato 
(art. 
19); 
l’esperibilità 
delle 
condotte 
riparatorie 
di 
cui 
all’art. 17 sia 
nel 
procedimento cautelare 
per l’applicazione 
delle 
sanzioni 
interdittive, 
sia 
successivamente 
al 
passaggio 
in 
giudicato 
della 
sentenza 
di 
condanna 
pronunciata 
a 
carico 
dell’ente. 
orbene, 
per 
i 
fautori 
di 
questa 
tesi 
sarebbe 
in un certo qual 
modo un controsenso attribuire 
tale 
rilevanza 
alla 
figura 
del 
danneggiato 
ma 
poi 
contestualmente 
escluderne 
la 
presenza 
nel giudizio a carico della società. 
il 
contrasto testé 
riportato è 
rimasto limato, almeno fino alla 
seconda 
de


(7) 
d. 
biAnChi, 
“Ancora 
sulla 
problematica 
(in)ammissibilità...”, 
cit., 
p. 
7: 
“d’altronde, 
il 
decreto 
legislativo 231, nella sezione 
dedicata ai 
“soggetti”, non prevede 
esplicitamente 
nemmeno il 
pubblico 
ministero e 
la polizia giudiziaria, ma nessuno si 
è 
mai 
sognato di 
dire 
che 
tali 
soggetti 
sono estranei 
al 
procedimento a carico della societas; discorso analogo per 
il 
giudizio immediato e 
il 
giudizio direttissimo 
che, secondo un’opinione 
pressoché 
pacifica, sono ritenuti 
esperibili 
a prescindere 
dal 
fatto che 
non siano richiamati da alcuna norma del d.lgs. 231”. 
(8) E. CECCArElli, “La costituzione di parte civile...”, cit., p. 95. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


cade 
degli 
anni 
2000, 
all’ambito 
dottrinale 
e 
alle 
pronunce 
della 
giurisprudenza 
di 
merito, con conseguenti 
ricadute 
in punto di 
certezza 
del 
diritto e 
sull’esercizio 
del 
diritto di 
difesa 
della 
persona 
danneggiata 
dall’illecito: 
ad avviso di 
alcuni 
autori 
(9), limitare 
la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
escludendola 
dal 
procedimento 
nei 
confronti 
della 
persona 
giuridica 
costituirebbe 
una 
limitazione 
del 
diritto di 
difesa 
della 
persona 
offesa; 
per altri, ammettere 
la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
diretta 
nei 
confronti 
della 
corporation 
porterebbe 
al 
pericolo di 
una 
duplicazione 
della 
pretesa 
risarcitoria 
derivante 
dal 
medesimo illecito nei 
confronti 
di 
due 
soggetti 
distinti, 
ovverosia 
intraneus 
da 
un 
lato 
e 
soggetto 
collettivo dall’altro. 

3. La soluzione fornita da parte della giurisprudenza di legittimità. 
il 
tema 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo 
231 
è 
stato 
affrontato 
per 
la 
prima 
volta 
dalla 
Corte 
di 
legittimità 
con 
la 
sentenza 
della 
Sesta 
Sezione 
penale 
n. 
2251 
del 
2011 
(10). 
nell’udienza 
preliminare 
dinanzi 
al 
Tribunale 
di 
Milano 
(nell’ambito 
di 
un 
procedimento 
in 
cui 
risultavano 
imputate 
numerose 
persone 
e 
società 
in 
ordine 
a 
reati 
di 
associazione 
per 
delinquere, 
corruzione, 
appropriazione 
indebita, 
oltre 
che 
per 
illeciti 
amministrativi 
ex 
d.lgs. 
231/2001) 
vi 
erano 
state 
delle 
costituzioni 
di 
parte 
civile 
direttamente 
nei 
confronti 
delle 
persone 
giuridiche 
sostenute 
da 
una 
lettura 
estensiva 
delle 
previsioni 
contenute 
all’interno 
degli 
artt. 
74 
c.p.p. 
e 
185, 
comma 
2, 
c.p. 
il 
giudice 
aveva 
ammesso 
la 
costituzione 
di 
parte 
civile, 
pronunciando 
nei 
confronti 
delle 
società 
una 
sentenza 
di 
“patteggiamento”, 
con 
cui 
le 
condannava 
anche 
al 
pagamento 
delle 
spese 
a 
favore 
delle 
costituite 
parti 
civili. 
Proprio 
questa 
statuizione 
è 
poi 
stata 
investita 
da 
uno 
dei 
motivi 
di 
ricorso 
sottoposti 
al 
giudice 
di 
legittimità. 


Preliminarmente, la 
Corte 
ha 
affermato che 
l’ammissibilità 
o meno della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
procedimento a 
carico dell’ente 
non ha 
alcuna 
correlazione 
con 
l’identificazione 
della 
natura 
giuridica 
della 
responsabilità 
prevista 
dal 
decreto 231: 
“la risposta ai 
quesiti 
posti 
dal 
d.lg. n. 231 del 
2001, 
quale 
quello di 
cui 
si 
discute 
può esser 
svincolata dal 
tema relativo alla definizione 
della tipologia della responsabilità da reato, che 
rischia di 
diventare 
una 
questione 
meramente 
nominalistica, 
per 
esser 
affrontata 
attraverso 
l’esame 
positivo dei 
contenuti 
della speciale 
normativa che 
disciplina il 
processo 
nei 
confronti 
degli 
enti” 
(11). in altri 
termini, la 
risposta 
ad avviso della 
Suprema 
Corte 
va 
cercata 
nel 
dettato normativo, attraverso una 
ricostruzione 


(9) d. biAnChi, “Ancora sulla problematica (in)ammissibilità...”, cit., p. 8. 
(10) Commento da 
parte 
di 
P. bAlduCCi, “La Corte 
di 
Cassazione 
prende 
posizione 
sulla costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo a carico dell’ente”, in Rivista trimestrale 
diritto penale 
dell’economia, 
2011, 
pp. 
275 
ss.; 
g. 
VArrASo, 
“L’ostinato 
silenzio 
del 
d.lg. 
231 
del 
2001 
sulla 
costituzione 
di 
parte civile nei confronti dell’ente ha un suo ‘perché”, in Cassazione penale, 2011, pp. 2546 e ss. 
(11) Cosi 
Cass. 2251/2010, richiamata 
da 
g. VArrASo, “L’ostinato silenzio del 
d.lgs 
231 ...”, cit., 
p. 2548. 

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


sistematica 
dell’istituto civilistico ospite 
del 
procedimento penale, anche 
alla 
luce delle disposizioni del codice di rito che lo riguardano. 


Ciò premesso, il 
Collegio di 
legittimità 
ha 
affermato che 
la 
mancanza 
di 
qualsiasi 
riferimento 
all’istituto 
di 
parte 
civile 
nel 
decreto 
legislativo 
231/2001 
non sarebbe 
frutto di 
una 
lacuna 
normativa, bensì 
la 
risultante 
“di 
una scelta 
consapevole 
[del 
legislatore], escludendo la funzione 
di 
garantire 
le 
obbligazioni 
civili, funzione 
che, nella struttura della norma codicistica, presuppone 
la richiesta della parte 
civile” 
(12). Questo renderebbe 
di 
per sé 
non percorribile 
la 
strada 
della 
estensione 
analogica 
dell’istituto della 
parte 
civile 
attraverso 
la 
disposizione 
“a carattere 
generale” 
dell’art. 34 d.lgs. 231/2001: 
ubi 
lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. 

inoltre, 
due 
ulteriori 
argomenti 
a 
sostegno 
della 
affermata 
inammissibilità 
di 
costituzione 
di 
parte 
civile: 
a) gli 
articoli 
185 c.p. e 
74 c.p.p. operano un riferimento 
al 
reato 
in 
senso 
tecnico, 
ed 
ai 
danni 
da 
quest’ultimo 
cagionati, 
mentre 
“il 
reato 
che 
viene 
realizzato 
dai 
vertici 
dell’ente, 
ovvero 
dai 
suoi 
dipendenti, 
è 
solo 
uno 
degli 
elementi 
da 
cui 
deriva 
la 
responsabilità 
dell’ente, 
che 
costituisce 
una 
fattispecie 
complessa, 
in 
cui 
il 
reato 
rappresenta 
il 
presupposto 
fondamentale, 
accanto 
alla 
qualifica 
soggettiva 
della 
persona 
fisica 
e 
alla sussistenza dell’interesse 
o del 
vantaggio che 
l’ente 
deve 
aver 
conseguito 
dalla condotta delittuosa” 
(13); 
b) non potrebbe 
esser accolta 
neanche 
l’osservazione 
fornita 
dal 
ricorrente 
nel 
caso concreto, secondo cui 
la 
volontà 
del 
legislatore 
di 
dar rilievo al 
danno prodotto dal 
reato si 
ricaverebbe 
dalla 
importanza 
che 
lo 
stesso 
ha 
dato 
nel 
decreto 
alle 
condotte 
riparatorie, 
in 
quanto 
“le 
disposizioni 
menzionate 
[la 
Corte 
si 
riferisce 
agli 
artt. 12 e 
17 d.lgs. 231 
richiamati 
dal 
ricorrente] si 
riferiscono al 
danno derivante 
dal 
reato e 
non a 
quello determinato dall’illecito amministrativo commesso dall’ente, sicché 
le 
argomentazioni 
possono 
esser 
rovesciate 
e 
sostenere 
che 
il 
legislatore, 
ancora 
una 
volta, 
ha 
escluso 
la 
configurabilità 
di 
conseguenze 
dannose 
derivanti 
dall’illecito amministrativo, limitandosi 
a prevedere 
‘sconti’ 
di 
sanzione 
collegati 
esclusivamente 
a forme 
di 
reintegrazione 
dei 
danni 
da reato” 
(14). in 
definitiva, accogliendo il 
motivo di 
ricorso, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
escluso 
la 
possibilità 
di 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
procedimento 
de 
societate: 
non 
vi 
è, ad avviso del 
giudice 
di 
legittimità, un danno risarcibile 
immediato e 
diretto 
derivante dalla condotta delittuosa del soggetto collettivo. 


Successivamente, nel 
giro di 
pochi 
mesi 
si 
sono pronunciate, seppur “incidentalmente”, 
sul tema due autorevoli corti. 


(12) 
Cosi 
Cass. 
2251/2010, 
consultabile 
in 
Rivista 
trimestrale 
diritto 
penale 
dell’economia, 
2011, 
p. 281. 
(13) Ibidem, p. 282. 
(14) Ibidem, p. 288. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


la 
Corte 
di 
giustizia 
dell’unione 
Europea 
(sentenza 
23 
luglio 
2012, 
Giovanardi, 
C-79/11), 
ha 
dichiarato 
la 
conformità 
della 
normativa 
nazionale 
al 
diritto comunitario laddove 
non prevede 
che, nell’ambito della 
responsabilità 
ex 
crimine 
del 
soggetto 
collettivo, 
la 
vittima 
possa 
chiedere 
il 
risarcimento 
dei 
danni all’ente autore dell’illecito (15). 


la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
dichiarato 
inammissibile 
la 
questione 
posta 
sulla 
legittimità 
dell’art. 83 del 
codice 
di 
procedura 
penale 
e 
del 
decreto legislativo 
n. 231/2001 sollevata 
dal 
guP 
del 
Tribunale 
di 
Firenze 
in riferimento 
all’art. 3 della 
Costituzione 
“nella parte 
in cui 
non prevedono espressamente 
e 
non 
permettono 
che 
la 
persona 
offesa 
e 
vittima 
del 
reato 
non 
possa 
chiedere 
direttamente 
alle 
persone 
giuridiche 
e 
agli 
enti 
il 
risarcimento in via civile 
e 
nel 
processo 
penale 
nei 
loro 
confronti 
dei 
danni 
subiti 
e 
di 
cui 
le 
stesse 
persone 
giuridiche 
siano 
stati 
chiamati 
a 
rispondere 
per 
il 
comportamento 
dei 
loro 
dipendenti” 
(16). 


(15) 
in 
questo 
caso 
il 
giudice 
comunitario 
non 
si 
apprestava 
a 
verificare 
direttamente 
la 
possibilità 
di 
costituzione 
di 
parte 
civile 
secondo quanto disposto dal 
decreto 231, bensì 
la 
conformità 
della 
disciplina 
ivi 
dettata 
e 
la 
interpretazione 
che 
ne 
dà 
il 
giudice 
italiano con l’ordinamento comunitario, in particolare 
con la 
decisione 
quadro 2001/220/gAi. l’art. 9 di 
questa 
fonte 
comunitaria 
richiede 
agli 
Stati 
membri 
di 
garantire 
alla 
vittima 
del 
reato la 
possibilità 
di 
ottenere 
una 
pronuncia 
sul 
risarcimento del 
danno 
da 
parte 
dell’autore 
del 
reato. 
Ad 
avviso 
del 
giudice 
rimettente 
questa 
norma 
sarebbe 
stata 
violata 
dal 
diritto interno in quanto la 
persona 
offesa 
dal 
reato commesso dal 
soggetto collettivo non avrebbe 
potuto né 
costituirsi 
parte 
civile 
-secondo i 
principi 
espressi 
dal 
giudice 
di 
legittimità 
con la 
sentenza 
2251/2010 appena 
esaminata 
-né 
il 
soggetto collettivo esser citato quale 
responsabile 
civile 
nel 
procedimento 
a 
carico del 
soggetto persona 
fisica 
in quanto questo sarebbe 
precluso dall’art. 83, comma 
1, 
c.p.p. (fatto che 
porterà 
anche 
il 
medesimo giudice 
a 
sollevare 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale, 
che 
esamineremo nella 
prossima 
nota). la 
Corte 
di 
lussemburgo, non condividendo quelle 
che 
erano 
state 
le 
argomentazioni 
del 
giudice 
rimettente 
e 
dell’avvocato generale, conclude 
confermando quelli 
che 
erano stati 
gli 
approdi 
della 
Suprema 
Corte, affermando che 
la 
decisione 
quadro 2001/220/gAi richiede 
che 
venga 
assicurata 
al 
danneggiato la 
possibilità 
di 
ottenere 
un risarcimento, e 
tale 
possibilità 
non sarebbe 
menomata 
nel 
diritto italiano in quanto la 
persona 
offesa 
potrà 
esercitare 
la 
azione 
civile 
nel 
processo 
penale 
contro 
la 
persona 
fisica 
autore 
del 
reato. 
Sul 
punto 
g. 
buonAMiCi, 
“La 
Corte 
di 
Giustizia UE 
esclude 
la costituzione 
di 
parte 
civile 
nei 
confronti 
dell’ente 
imputato”, in Archivio nuova 
procedura penale, 2012, pp. 477 ss. 
(16) Sentenza 
C. Cost. n. 218/2014 pubblicata 
in g.u. 23 luglio 2014 n. 231. l’eccezione 
di 
costituzionalità 
è 
stata 
sollevata 
dal 
medesimo Tribunale 
che 
aveva 
sollevato violazione 
della 
normativa 
comunitaria 
esaminata 
nella 
nota 
precedente. 
il 
guP 
ritenne 
non 
conforme 
a 
costituzione 
l’art. 
83 
c.p.p. 
e 
le 
disposizioni 
del 
decreto legislativo 231/2001 in quanto, ad avviso dello stesso, si 
avrebbe 
una 
ingiusta 
disparità 
di 
trattamento e 
quindi 
violazione 
del 
principio di 
uguaglianza 
ex 
art. 3 Cost. per la 
persona 
offesa, 
non 
potendo 
questa 
costituirsi 
nei 
confronti 
della 
società, 
e 
non 
potendo 
ottenere 
un 
risarcimento 
indiretto 
attraverso 
l’istituto 
del 
responsabile 
civile 
per 
il 
fatto 
del 
coimputato 
persona 
fisica, 
ostando 
a 
ciò 
il 
disposto 
dell’art. 
83 
c.p.p. 
il 
quale 
stabilirebbe 
che 
l’imputato 
non 
può 
esser 
chiamato 
a 
rispondere 
in 
via 
civile 
nel 
processo 
penale 
per 
il 
fatto 
dei 
coimputati, 
qualora 
prima 
non 
sia 
stato prosciolto o non sia 
stata 
pronunziata 
nei 
suoi 
confronti 
una 
sentenza 
di 
non luogo a 
procedere. 
Poiché 
nel 
processo de 
societate 
l’ente 
sarebbe 
imputato/coimputato assieme 
agli 
imputati 
propri 
dipendenti, 
non sarebbe 
consentita 
una 
sua 
citazione 
anche 
come 
responsabile 
civile. la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
dichiarato 
l’inammissibilità 
della 
questione 
sotto 
un 
duplice 
profilo. 
In 
primis, 
è 
stata 
denunciata 
la 
assoluta 
genericità 
del 
rinvio, in quanto è 
stata 
lamentata 
dal 
giudice 
a quo 
la 
incostituzionalità 
delle 
disposizioni 
integrali 
del 
d.lgs. 231/2001, mentre 
quest’ultimo sarebbe 
tenuto ad indivi

ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


3.1. 
La 
riemersione 
della 
tesi 
affermativa 
nelle 
pronunce 
della 
giurisprudenza 
di merito. 
la 
vexata quaestio 
sembrava 
definitivamente 
risolta 
nel 
senso di 
negare 
tale 
possibilità 
per 
il 
soggetto 
danneggiato 
(17). 
Tuttavia, 
due 
recenti 
pronunce 
della 
giurisprudenza 
di 
merito hanno nuovamente 
posto la 
questione: 
si 
tratta 
dell’ordinanza 
n. 689 del 
7 maggio 2019 del 
Tribunale 
di 
Trani 
(18) e 
della 
ordinanza 29 gennaio 2021 del 
Tribunale di lecce (19). 

il 
Tribunale 
tranese 
ha 
ammesso 
la 
possibilità 
per 
il 
danneggiato 
di 
avanzare 
la 
propria 
pretesa 
risarcitoria 
direttamente 
nei 
confronti 
dell’ente, 
per 
una 
serie 
di 
ragioni. in primo luogo, il 
Collegio ha 
accolto la 
ricostruzione 
fornita 
dalle 
S.u. sentenza 
38343/2014 (cd. sentenza 
Thyssenkrupp) secondo cui 
“il 
sistema 
normativo 
introdotto 
dal 
d.lgs. 
n. 
231 
del 
2001, 
coniugando 
i 
tratti 
dell’ordinamento 
penale 
e 
di 
quello 
amministrativo, 
configura 
un 
‘tertium 
genus’ 
di 
responsabilità compatibile 
con i 
principi 
costituzionali 
di 
responsabilità 
per 
fatto 
proprio 
e 
di 
colpevolezza”. 
Partendo 
da 
tali 
considerazioni 
preliminari, 
posto 
che 
l’art. 
8 
d.lgs. 
231/2001 
prevede 
la 
responsabilità 
autonoma 
dell’ente 
nel 
caso in cui 
l’autore 
del 
reato presupposto non sia 
individuato o 
il 
reato sia 
estinto per causa 
diversa 
dall’amnistia, ne 
deriverebbe 
ad avviso 
del 
collegio 
tranese 
che 
la 
responsabilità 
dell’ente 
ha 
natura 
autonoma 
rispetto 
a 
quella 
della 
persona 
fisica 
autrice 
del 
reato presupposto: 
la 
commissione 
di 
un reato da 
parte 
della 
persona 
fisica 
investe 
solo una 
porzione 
della 
responsabilità 
ex 
crimine 
della 
società, 
non 
la 
sua 
intera 
concretizzazione. 
il 
giudice 
di 
primo grado afferma: 
“il 
reato commesso dal 
soggetto inserito nella compagine 
dell’ente, in vista del 
perseguimento dell’interesse 
o del 
vantaggio di 
questo, 
è 
qualificabile 
come 
proprio 
anche 
della 
persona 
giuridica 
e 
ciò 
in 


duare 
la 
norma, o la 
parte 
di 
essa, che 
determina 
la 
violazione 
dei 
parametri 
costituzionali 
individuati. 
in secondo luogo, la 
Corte 
ha 
affermato la 
erronea 
interpretazione 
che 
il 
giudice 
del 
rinvio avrebbe 
dato 
dell’art. 
83 
c.p.p.: 
secondo 
la 
Consulta 
l’illecito 
ascrivibile 
all’ente 
costituisce 
una 
fattispecie 
complessa 
che 
non si 
identifica 
con il 
reato commesso dalla 
persona 
fisica, il 
quale 
è 
solo uno degli 
elementi 
che 
formano l’illecito da 
cui 
deriva 
la 
responsabilità 
amministrativa; 
se 
l’illecito de 
societate 
non coincide 
con 
il 
reato, 
l’ente 
e 
l’autore 
materiale 
del 
reato 
presupposto 
non 
possono 
qualificarsi 
coimputati, 
essendo 
ad essi 
ascritti 
due 
illeciti 
strutturalmente 
diversi. Quindi, nessun impedimento alla 
citazione 
dell’ente 
come 
responsabile 
civile 
nel 
procedimento a 
carico dell’intraneus. Sul 
punto A. ViglionE, “L’inammissibilità 
della costituzione 
di 
parte 
civile 
nei 
processi 
a carico dell’ente”, in Le 
Società, 
2015, n. 6, p. 
746. 


(17) 
la 
maggioranza 
delle 
pronunce 
posteriori 
la 
decisione 
della 
Suprema 
Corte 
n. 
2251/2011 
hanno escluso la 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo a 
carico dell’ente. Fra 
le 
altre 
Tribunale 
Milano, Sez. iV, sentenza 
4 febbraio 2013; 
Tribunale 
di 
Torino, ordinanza 
22 novembre 
2013; 
Cass. Pen., 27 gennaio 2015, n. 3786; 
Corte 
d’Appello di 
Firenze, Sez. iii penale, n. 5957/2019. 
(18) 
Consultabile 
in 
dirittopenalecontemporaneo.it 
con 
commento 
di 
g. 
Angiolini, 
“Costituzione 
di 
parte 
civile 
nei 
confronti 
dell’ente 
incolpato dell’illecito da reato: ammissibile 
secondo il 
Tribunale 
di Trani nel processo penale relativo al disastro ferroviario sulla linea Andria 
-Corato”, 2019. 
(19) 
Con 
commento 
di 
E. 
bErgonzi, 
“La 
secessione 
pugliese. 
Commento 
all’ordinanza 
del 
Tribunale 
di 
Lecce 
emessa 
in 
data 
29 
gennaio 
2021 
(processo 
Tap)”, 
in 
Giurisprudenza 
Penale 
web, 
2021, 
2. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


forza 
del 
rapporto 
di 
immedesimazione 
organica 
che 
lega 
il 
primo 
alla 
seconda”. 
da 
ciò si 
fa 
derivare 
che 
dal 
fatto dell’ente, ossia 
da 
quella 
colpa 
di 
organizzazione 
la 
quale 
ha 
permesso la 
commissione 
dell’illecito, possa 
derivare 
un 
danno 
risarcibile 
per 
fatto 
proprio 
dell’ente, 
obbligandolo 
a 
norma 
dell’art. 185 c.p. e 74 c.p.p. 


il 
diritto 
delle 
persone 
offese 
ad 
esercitare 
l’azione 
risarcitoria 
direttamente 
nei 
confronti 
dell’ente 
non 
sarebbe 
smentito 
dalle 
pronunce 
della 
Corte 
di 
giustizia 
e 
della 
Corte 
Costituzionale: 
la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 


n. 79 del 
2011 non sarebbe 
dirimente 
in quanto si 
era 
limitata 
a 
definire 
“improprio” 
il 
richiamo all’art. 9 della 
decisione 
quadro n. 2001/220/gAi, che 
si 
riferisce 
alle 
vittime 
di 
un 
reato, 
mentre 
per 
il 
diritto 
interno 
l’ente 
non 
è 
autore 
del 
reato. 
Parimenti, 
la 
pronuncia 
della 
Consulta 
non 
sarebbe 
entrata 
nel 
merito 
della 
questione, limitandosi 
ad affermare 
la 
incertezza 
del 
petitum 
sollevato 
dal 
giudice 
a quo 
e 
che 
l’illecito cui 
è 
chiamato a 
rispondere 
la 
società 
non 
coincide 
con il 
reato ascritto alla 
persona 
fisica 
e 
quindi 
quest’ultima 
e 
l’ente 
non sono da considerarsi coimputati nel medesimo reato. 
l’ordinanza 
del 
Tribunale 
di 
lecce 
del 
gennaio del 
2021 ha 
ritenuto che 
dal 
fatto 
illecito 
ascrivibile 
all’ente 
possa 
derivare 
un 
danno 
risarcibile 
per 
fatto proprio. i giudici 
hanno richiamato il 
rinvio operato dagli 
artt. 34 e 
35 
del 
d.lgs., facendo proprie 
quelle 
argomentazioni 
letterali, storico-interpretative, 
sistematiche 
sostenute 
dalla 
dottrina 
e 
dalla 
giurisprudenza 
(si 
ribadisce, 
esclusivamente 
di 
merito) che 
nel 
corso degli 
anni 
ha 
sostenuto la 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo 231. Per cui, ha 
concluso il 
Tribunale: 
“non può escludersi 
che 
dal 
fatto dell’ente 
(cd. colpa di 
organizzazione; 
deficit 
di 
organizzazione 
e 
di 
controllo rispetto ad un modello di 
diligenza 
esigibile, 
ex 
artt. 
6 
e 
7 
D.L.vo 
231/2001) 
possa 
derivare 
un 
danno 
risarcibile 
per 
fatto proprio dell’ente, che 
lo obbliga, a norma dell’art. 185 
c.p., come richiamato dall’art. 74 c.p.p.”. 


4. Considerazioni conclusive. 
riguardo 
la 
tematica 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo 
ex 
d.lgs. 
231/2001, 
sembra 
assumere 
rilevanza 
la 
norma 
cardine 
dell’art. 
8 
del 
decreto 
legislativo, 
la 
quale 
al 
primo 
comma 
prevede 
che: 
“la 
responsabilità 
dell’ente 
sussiste 
anche 
quando: 
a) 
l’autore 
del 
reato 
non 
è 
stato 
identificato 
o 
non 
è 
imputabile; 
b) 
il 
reato 
si 
estingue 
per 
una 
causa 
diversa 
dall’amnistia”. 


Tale 
disposizione 
pone 
infatti 
il 
principio della 
“colpevolezza d’organizzazione”, 
punto di 
arrivo di 
una 
lunga 
evoluzione. gli 
ordinamenti 
anglosassoni 
(la 
sentenza 
new 
York 
Central 
& 
hudson 
river 
r.r. 
v. 
united 
States 
risale 
al 
1909, circa 
un secolo prima 
dell’entrata 
in vigore 
del 
decreto 231), 
muovendo 
da 
un 
concetto 
originario 
di 
responsabilità 
dell’ente 
“par 
ricochet”, 
si 
sono poi 
allontanati 
da 
questo modello, elaborando il 
principio della 
“corporate 
liability”, 
secondo 
il 
quale 
il 
soggetto 
meta-individuale 
risponde 
se



ConTribuTi 
di 
doTTrinA 


condo gli 
ordinari 
canoni 
della 
colpevolezza 
(sotto la 
veste 
della 
cd. colpevolezza 
di 
organizzazione) del 
reato commesso dal 
soggetto intraneus 
quale 
autonomo 
centro 
d’imputazione 
rispetto 
all’autore 
del 
reato 
presupposto. 
in 
altri 
termini, il 
fatto del 
soggetto collettivo è 
fatto suo proprio, nonostante 
questo 
discenda 
dall’illecito 
commesso 
dall’apicale/subordinato. 
non 
si 
tratta 
quindi 
di 
responsabilità 
“oggettiva”, 
bensì 
di 
una 
responsabilità 
per 
fatto 
proprio, 
senza 
alcuna 
violazione 
del 
principio costituzionale 
del 
divieto di 
responsabilità 
per fatto altrui. 

in definitiva, non potrà 
dirsi 
raggiunto l’obiettivo della 
piena, autonoma 
colpevolezza 
dell’ente 
fino 
al 
momento 
in 
cui 
quest’ultimo, 
pur 
essendo 
chiamato 
a 
rispondere 
dell’illecito quale 
autonomo centro d’imputazione, non risponda 
però 
dei 
danni 
che 
derivano 
dall’illecito 
stesso 
in 
capo 
alla 
persona 
offesa. non si 
discute 
che 
il 
concetto di 
reato sia 
differente 
da 
quello di 
danno 
derivante 
da 
reato. 
Ciò 
nonostante, 
la 
configurabilità 
di 
una 
costituzione 
di 
parte 
civile 
diretta 
nei 
confronti 
dell’ente 
sembra 
la 
naturale 
conseguenza 
della 
consacrazione dell’autonomia della responsabilità del soggetto collettivo. 


A 
fortiori, 
il 
quesito 
in 
ordine 
alla 
ammissibilità 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
sembra 
porsi 
nell’ipotesi 
in cui 
l’autore 
del 
reato presupposto non sia 
individuabile. Vige 
nel 
nostro ordinamento il 
principio del 
favor 
separationis 
rispetto all’azione 
per il 
risarcimento del 
danno (esercitabile 
in sede 
civile) e 
il 
processo penale. Ma 
l’evidente 
ratio 
della 
figura 
processuale 
della 
parte 
civile 
in sede 
penale 
è 
quella 
di 
evitare 
(quando possibile) che 
un soggetto, già 
danneggiato da 
un fatto illecito altrui, debba 
anche 
esser sottoposto alle 
lungaggini 
di 
un estenuante 
procedimento civile, potendo anche 
(in sede 
penale) 
beneficiare della attività istruttoria compiuta dal Pubblico Ministero. 

invero, 
le 
ipotesi 
in 
cui 
l’autore 
del 
reato 
presupposto 
non 
sia 
individuabile 
sono 
tutt’altro 
che 
infrequenti, 
in 
quanto 
nella 
odierna 
realtà 
economica 
sovente 
le 
organizzazioni 
aziendali 
sono 
talmente 
articolate 
da 
rendere 
ardua 
l’individuazione 
della 
specifica 
persona 
fisica 
a 
cui 
ascrivere 
la 
commissione 
del 
reato 
presupposto 
(20). 
in 
tali 
ipotesi, 
un’interpretazione 
del 
decreto 
che 
renda 
ammissibile 
una 
costituzione 
di 
parte 
civile 
diretta 
nei 
confronti 
dell’ente 
non 
sembra 
né 
irragionevole, 
né 
contraria 
ai 
principi 
costituzionali 
(in 
particolare, 
viene 
invocata 
la 
violazione 
del 
principio 
di 
legalità). 
Assumono 
infatti 
rilievo 
due 
ulteriori 
principi 
fondamentali, 
anch’essi 
sanciti 
direttamente 
dall’art. 
24 
della 
Costituzione: 
il 
diritto 
di 
agire 
in 
giudizio 
per 
la 
tutela 
dei 
propri 
diritti 
e 
interessi 
legittimi; 
quello 
di 
difesa 
ex 
secondo 
comma 
dello 
stesso, 
il 
quale 
subirebbe 
una 
inevitabile 
compressione, 
se 
fosse 
preclusa 
la 
possibilità 
al 
soggetto 
offeso 
di 
ottenere 
in 
sede 
penale 
un 
ristoro 
del 
danno 
da 
quest’ultimo 
patito. 


(20) un esempio pratico di 
una 
ipotesi 
di 
questo tipo è 
stato brillantemente 
fornito da 
C. SAnToriEllo, 
“Ammessa la costituzione 
di 
parte 
civile 
dell’ente 
per 
i 
reati 
fiscali 
commessi 
dal 
suo amministratore”, 
in 
Fisco, 2020, 9, 868. 

rASSEgnA 
AVVoCATurA 
dEllo 
STATo -n. 3/2021 


la 
problematica 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
nel 
processo 
de 
societate 
permane 
quindi 
attuale. 
in 
attesa 
di 
ulteriori 
arresti 
della 
giurisprudenza 
di 
merito 
e 
di 
legittimità, 
sarebbe 
auspicabile 
un 
intervento 
risolutore 
del 
legislatore. 
Ciò potrebbe 
avvenire, ad esempio, attraverso una 
rimodulazione 
adeguatrice 
ad hoc 
dell’istituto dedicato alla 
figura 
processuale 
del 
responsabile 
civile 
ex 
art. 
83 
c.p.p. 
proprio 
per 
le 
ipotesi 
in 
cui 
non 
sia 
individuabile 
l’autore 
del 
reato 
presupposto: 
prevedere 
l’azione 
diretta 
del 
danneggiato 
nei 
confronti 
del 
soggetto 
collettivo 
nei 
casi 
in 
cui 
l’intraneus 
autore 
del 
reato 
presupposto 
non 
sia 
individuato 
o 
non 
sia 
individuabile. 
una 
disposizione 
di 
questo 
tipo 
avrebbe 
il 
pregio di 
evitare 
il 
rischio, paventato da 
parte 
della 
dottrina, che 
la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
contro l’ente 
produca 
una 
duplicazione 
del 
risarcimento 
quando 
i 
danni 
derivanti 
dal 
reato 
della 
persona 
fisica 
e 
dall’illecito 
dovessero 
coincidere. 


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